Settantasette [1]

Movimento politico, sociale, culturale, esistenziale del 1977 in Italia

271 38 1MB

Italian Pages 250 Year 2004

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Settantasette [1]

Citation preview

a cura di

Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti SETTANTASETTE La rivoluzione che viene PRIMO VOLUME DeriveApprodi, Roma, settembre 2004



Prima edizione: maggio 1997 Castelvecchi Editoria & Comunicazione s.r.l. Seconda edizione: settembre 2004 DeriveApprodi s.r.l. Piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma tel. 06-85358977 fax 06-8554602 e-mail: [email protected] www.deriveapprodi.org

*

" Non riusciamo a capire se abbiamo vinto, se abbiamo perso, ma nessuno si sente né vinto né vincitore: sappiamo che non è finita così". Nel nostro paese il movimento dell'anno 1977 è stato artefice non di una rivolta effimera ed estremista ma di una rivoluzione che ha annunciato la fine del Novecento e, insieme, il presente che stiamo vivendo. Quel movimento, infatti, in un brevissimo arco di tempo ha consumato definitivamente tutto il repertorio dell'immaginario storico della sinistra a fronte di una trasformazione epocale, produttiva e politica, delle società occidentali. Di quel movimento, prima represso nel sangue e nel carcere, poi imploso nella droga, è rimasta nella memoria collettiva una flebile eco nella truce ruvidità della lotta armata. Rimozioni, omissioni e falsificazioni lo hanno perseguitato per trent'anni negandogli l'intelligente lungimiranza che aveva invece saputo esprimere. Questo libro, accostando documentazione d'epoca a interpretazioni attuali da parte di alcuni suoi protagonisti, vuole contribuire a ristabilire la verità.

Sergio Bianchi ha curato i saggi: "La sinistra populista" (Castelvecchi) e "L'orda d'oro. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale" (Feltrinelli). Lanfranco Caminiti nel 1977 era in piazza. Scrive articoli che vengono pubblicati a stampa o su internet e sono raccolti sul suo sito [www.lanfranco.org]. Al momento dirige la rivista mensile «accattonecronache romane».

INDICE DEL PRIMO VOLUME SETTANTASETTE Prime scene di un film da fare. INTRODUZIONE Sergio Bianchi: Introduzione alla seconda edizione .- Note all'Introduzione di S. Bianchi. Lanfranco Caminiti: Settantasette. Marino Sinibaldi: Tutto in una notte. Primo Moroni: Un'altra via per le Indie. Intorno alle pratiche e alle culture del '77. LA «PIAZZA STATUTO» DELL'OPERAIO SOCIALE Enzo Modugno: Un postfordismo sovrastrutturale. Toni Negri: Quell'intelligente moltitudine. Franco Piperno: La parabola del '77: dal «lavoro astratto» al «general intellect». Note sulla tecnica. - Note al testo di F. Piperno. Romano Alquati: Università, formazione della forza-lavoro intellettuale, terziarizzazione. Luigi Manconi e Marino Sinibaldi: Uno strano movimento di strani studenti. - Note al testo di L. Manconi e M. Sinibaldi. Alberto Asor Rosa: Le due società. Rossana Rossanda: Idee e non idee del '77. Mario Tronti: Movimento e Stato. DESIDERANTI E CREATIVI Franco Berardi (Bifo): Pour en finir avec le jugement de dieu. «A/traverso». Félix Guattari: Milioni e milioni di Alice in potenza.

Carlo Infante: L'ultima avanguardia. Dalla creatività molecolare e disgregata alla mutazione post-umanista. Mauro Trotta: Andrea Pazienza o le straordinarie avventure del desiderio. - Note al testo di M. Trotta. Sbancor: Vent'anni dopo. INDICE DEL SECONDO VOLUME MOVIMENTO FEMMINISTA E CRISI DELLE IDENTITA' Marina Campanale, Geraldina Colotti, Elettra Deiana, Manuela Fraire, Paola Masi, Marina Pivetta: Dissonanze. Commissione femminista «Donne e politica» dell'Università di Roma: «Donne e politica» nell'occupazione dell'Università di Roma. Lea Melandri: Una barbarie intelligente. Emilio Costantino: Agli ex «militanti di professione». LAMPI DI PROVINCIA Claudio D'Aguanno: Quattrocentocolpi a Cassino. Maurizio Lazzarato: La generazione del '77 nel Veneto orientale. - Note al testo di Maurizio Lazzarato. Sergio Bianchi: Figli di nessuno. - Note al testo di S. Bianchi. Lanfranco Caminiti: L'invenzione del Sud. GLI INTELLETTUALI Nanni Balestrini: «Cattivi maestri». Il dibattito degli intellettuali su movimento, Stato, dissenso e repressione. L'AUTONOMIA OPERAIA ORGANIZZATA Lucio Castellano: Virtù e limiti di un progetto politico. Daniele Pifano (intervista): L'Autonomia operaia romana. Danilo Del Bello (Arsenale Sherwood - Padova): Autonomia - organizzazione: «constitutio libertatis».

LA LOTTA ARMATA Sergio Segio: Gli armati. Prima linea: L'antagonismo totale tra il sistema dei bisogni... Azione rivoluzionaria. - Note al testo "Azione rivoluzionaria". Mario Moretti (intervista): «Con quel movimento abbiamo interagito pochissimo». Ultime scene da un film da fare.

*** SETTANTASETTE. La rivoluzione che viene a Lucio Castellano

* PRIME SCENE DI UN FILM DA FARE "Dopo i titoli di testa. Su fondo nero". Il giorno di solito comincia sporco come l'inchiostro del nostro giornale scritto sui bianchi muri delle prigioni della repubblica federale che giorno per giorno avanzando tranquille son quasi davanti alla tua finestra con un corteo di stelle e scintille, i tamburini, la banda, l'orchestra. «Spegnete la luce» pensava Ulrike, «che la foresta più nera è vicina», ma oggi la luna ha una faccia da strega e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina: «spegnete la luce» pensava Ulrike, «che la foresta più nera è vicina» ma un jumbo jet scrive «viva il lavoro!» col sangue nel cielo di questa mattina. Con un megafono su un autobus rosso un Cristo uscito dal circo Togni comincia un comizio con queste parole: «Disoccupate le strade dai sogni, disoccupate le strade dai sogni, sono ingombranti, inutili, vivi, i topi e i rifiuti siano tratti in arresto, decentreremo il formaggio e gli archivi, disoccupate le strade dai sogni, per contenerli in un modo migliore possiamo fornirvi fotocopie d'assegni un portamonete, un falso diploma, una ventiquattrore,

disoccupate le strade dai sogni ed arruolatevi nella polizia, ci sarà bisogno di partecipare (ed è questo il modo) al nostro progetto di democrazia, disoccupate le strade dai sogni e continuate a pagare l'affitto, ed ogni carogna che abbia altri bisogni dalla mia immensa bontà sia trafitto, da oggi è vietata la masturbazione, lambro e lambrusco, vestiti di nero, apriranno le liste di disoccupazione chiudendo quelle del cimitero, poi costruiremo dei grandi ospedali, i carabinieri saranno più buoni, l'assistenza forzata e gratuita per tutta la vita e vitto migliore nelle prigioni, disoccupate le strade dai sogni e regalateci le vostre parole che non vi si trovi nascosti a fare l'amore, i criminali siano illuminati dal sole...» A questo punto arriva un trombone, cammina col culo però sembra alto, intona commosso una strana canzone, Cristo la canta e mi è addosso in un salto: «Disoccupate le strade dai sogni non ci sarà posto per la fantasia nel paradiso pulito, operoso della nostra nuova socialdemocrazia...» A questo punto mi butto dal cielo mi butto dal letto do un bacio in bocca a un orribile orco, e lecco l'inchiostro, lecco l'inchiostro del nostro giornale. E' vero che il giorno sapeva di sporco. SCENA 5.

Non cercate un filo logico nel mio intervento: non voglio essere razionalizzato, ma vissuto per quello che esprimo. Voglio parlare del comunismo, dell'utopia e della filosofia della vita. Chi siamo noi? Noi siamo l'appendice della macchina di produzione capitalistica. Di mattina ci alziamo, che palle, vorremmo stare a letto a oziare. L'ozio è una bella cosa: è il piacere del riposo, e poi è il padre dei conclamati vizi. Chissà poi perché li chiamiamo vizi: penso piaccia a tutti avere tempo libero per pensare a se stessi e agli altri; e per mangiare bene, viaggiare, fare meglio l'amore, bere del buon vino, avere molte relazioni umane, pescare, pitturare e altri vizi simili. Sono sicuro che gli artisti singoli non esistono: tutti gli uomini sono artisti perché hanno tutti una parte da recitare in questa vita. E' che non hanno il tempo e il privilegio per poterlo essere. Vorrei stare a letto a pensare queste cose ma ho appena finito la malattia di ieri. Mi metto molto in malattia perché lavorare stanca. E poi, essere sfruttati da quel pirla di padrone che ho io! Non parlo dei mezzi di trasporto per andare a lavorare, sennò mi angoscio subito. Ah, l'ideologia del lavoro, te ne accorgi subito quando timbri il cartellino: «Sempre in ritardo tu!». Dopo un po' ti stanchi di raccontare balle per il ritardo. Chissà cosa gliene frega agli altri operai del lavoro. Finché è il padrone o il caporeparto che deve fare carriera è comprensibile, poveretto, ma gli altri? Uno dice: «Se vai a lavorare per necessità, perché devi mangiare, pagare l'affitto, i figli, lucegas-telefono e magari qualche lusso va bene, ma non facciamone una morale». La morale del lavoro: sembra di essere in Russia. Di questi tempi poi, lavorare è sempre più difficile: ti aumentano i ritmi e le mansioni; sono anni che lavoro sempre lì e vorrei cambiare per non morire troppo, ma c'è disoccupazione e non trovi posti di lavoro migliori; poi i padroni sono sempre più attaccati alla produzione: produrre, produrre, produrre. Non assumono più personale e non sostituiscono chi va via; sono sempre alle calcagna: «Cosa stai facendo? Hai fatto questo? Puoi stare un'ora in più?». Che palle! Non è che rifiuto il lavoro in sé, anche se meno si lavora meglio è. Oltre che per i soldi, per questo immondo regno della necessità, lavoro per cercare delle soddisfazioni umane con gli altri lavoratori. I rapporti con loro potrebbero essere bellissimi, perché ognuno è un personaggio diverso, con la

sua storia e le sue caratteristiche, drammi, contraddizioni. Peccato che vince sempre la paura e i miti borghesi. C'è molta solidarietà quando si lotta, si sciopera, si parla, si agisce contro il padrone. Certo che se l'autonomia degli operai non si sviluppa e se i sindacati continuano così non ci sarà più nemmeno questo. Sarà tutto solo una lotta individuale, e vincerà il padrone. Oltre alla lotta è difficile costruire dei rapporti più profondi con gli altri lavoratori. E sì che lo vogliono tutti, è un bisogno di tutti. Anche per questo si ubriacano spesso e male alla sera. C'è un muro di paura, paura di sé verso gli altri, paura di se stessi, paura anche del padrone. Se non ci fosse il padrone si risolverebbero tutti i problemi. E' una scala nevrotica: il padrone per interesse opprime te, tu devi opprimere qualcun altro altrimenti rovesci la tua violenza su te stesso. E la sera c'è la moglie o i figli su cui scaricarti, o c'è il sonnifero della televisione, della partita, del fotoromanzo. O il sonnifero vero e proprio. Chi ha ancora un po' di fede prega Dio. Oppure ti curi dei tuoi hobby, coltivi l'alienazione o anneghi in un bicchierone di alcolico. In genere la moglie è la droga che funziona meglio di tutto, e la violenza del rapporto sessuale ne è l'espressione più evidente. O come si guarda le riviste pornografiche. Certo che ora le donne si ribellano, cosa si farà? E' un casino. Una valvola di sfogo che si chiude. O lotti o rischi di esplodere. Anche per questo aumentano le malattie in questo periodo, e la gente è sempre più aggressiva e tesa. La condizione ideale, tra l'altro, per creare capri espiatori. Ma la cosa peggiore non è la negazione di questa valvola di sfogo, ma la negazione nel lavoro. Figurarsi adesso che ci chiedono sacrifici. Esplode tutto! C'è della gente che fa gli straordinari e non si mette in malattia perché altrimenti non saprebbe cosa fare, si troverebbe di colpo sperduta nel vuoto. Che anestetico che è il lavoro! Come la morfina. E' una droga pesante, è la droga che provoca più vittime: incidenti sul lavoro, malattie, nevrosi, crisi familiari eccetera. Poi vai in pensione e ti viene la trombosi perché il corpo si era abituato a un certo ritmo di sfruttamento. Per fortuna che la classe operaia italiana è abbastanza vaccinata: i giornali borghesi nel '69 chiamavano questo vaccino «disaffezione dal lavoro». E' pericoloso esserne affezionati. E gli scioperi di quel tempo li chiamavano «a gatto selvaggio», perché quando uno non aveva voglia di lavorare trovava sempre qualcun altro della stessa idea e facevano sciopero in gruppo, per

qualsiasi motivo. Spesso non lo diceva neanche che faceva sciopero: tornava a casa e basta. Mi sono sempre stati simpatici i gatti, più sono felini, cioè selvaggi, più sono simpatici. Perché sono autonomi, Il gatto è furbo perché usa l'uomo e non si fa usare: ha l'autonomia individuale e contemporaneamente se vuole si fa mantenere per garantirsi il diritto all'ozio. Chissà se un giorno piglieranno anche il potere. Sarà così anche coi padroni: quando piglieremo il potere e li divoreremo (politicamente) qualcuno dirà che dopo tutto il padrone alle cose che faceva ci credeva veramente, che era costretto a fare i suoi interessi altrimenti il profitto, altrimenti... se tu avessi una fabbrica non faresti così eccetera. Il fatto è che anche noi vogliamo fare i nostri interessi, però siamo gli unici a cui la storia, e altro, legittimano l'egoismo. Più un operaio è egoista verso il padrone più è altruista verso gli altri operai e verso il genere umano. Ribellarsi è giusto. Insomma, mi sono reso conto che la nevrosi tra i lavoratori è l'insieme dei bisogni radicali non soddisfatti e negati o deviati su valvole di sfogo, droghe pesanti. E poi c'è sempre più il regno della necessità che incombe: le bollette da pagare, i conti che non tornano, la casa che non trovi. Per questo, lavorare e vivere è sempre più pesante. Quando inizio a lavorare cerco di svegliarmi due ore dopo: se dormo sento meno il lavoro, ma un giorno o l'altro ci lascio la mano nel pressa-cartoni. Se non dormo studio il modo per infastidire il padrone; gliene devo fare almeno una al giorno, e fargli fare buon viso a cattiva sorte. Se invece ti fa la menata fai l'indiano, o se hai voglia litiga e fai casino. Lavorando ti rendi conto che hai davanti a te un'odiosa macchina così fredda. Fa tutto da sola, però deve esserci lì qualcuno a mettere continuamente le virgole altrimenti non va avanti. I lavori che ci toccano di più sono così alienanti che ti distruggono fisicamente e soprattutto mentalmente. Ti succhiano il cervello, e così per non morire d'inedia mentale devi creare, fantasticare, giocare. Allora giochi con la macchina, la prendi in giro, la fermi, la disegni. E quando aumentano i ritmi, la saboti, la rallenti. Hai anche la scusa che a salario di merda fai lavoro di merda. Il gioco preferito sul lavoro in una cartotecnica era quello di gettare oggetti nei nastri per bloccare la produzione. Ma in ogni posto di lavoro se ne inventa uno: è una questione di sopravvivenza. Giochi con la macchina, giochi con gli altri lavoratori. Sono simpaticissimi gli operai adulti quando giocano a farsi i dispetti, a nascondersi tra le macchine, o intralciano il lavoro a chi si impegna troppo.

Diventano di colpo bambini. E, vedendoli felici, mi convinco sempre di più che i soggetti più rivoluzionari sono i bambini, meglio le bambine, perché padroneggiano le dimensioni del gioco e della fantasia. In una piccola azienda, la cosa che più ti chiedono gli operai quando sanno che sei di Lotta continua o un freak è se gli fai conoscere qualche ragazzina, e c'è anche chi ti chiede scherzosamente serio se gli dai la marijuana. Bisognerebbe riflettere su questo. Ti dicono anche che bisogna fare la rivoluzione, e che ci vuole il mitra, ma questo lo dicono sempre. E prima o poi... Quando arriva il 27 hai già finito i soldi da dieci giorni: sei costretto a inventare anche per sopravvivere fuori dal lavoro. Forse anche per questo Napoli sta diventando il maggior centro culturale d'Italia. E poi, questa società dei consumi. Rifiutiamo di lavorare di più per avere l'auto nuova o la moto più grossa, ma oggi anche se lavori di più non puoi accedere a questi lussi. Che poi, perché i proletari non hanno diritto al lusso e i padroni sì? Rubare un chilo di carne in un supermercato è giusto quanto rubare una bottiglia di whisky. O no? O il whisky è un privilegio concesso solo ai padroni? E per tornare alle cosiddette valvole di sfogo: ti ci costringono proprio i padroni. Così hanno piegato anche i nostri genitori. Rendono indecenti i trasporti pubblici così devi comprare la macchina; non ti garantiscono alcun servizio sociale decente e così devi fare famiglia, perché tornare a casa dopo otto ore di lavoro non te la senti ogni giorno di farti da mangiare, la biancheria, la pulizia in casa; e poi essere sempre solo in casa perché non hai tempo di farti amicizie. Il tempo libero magari ce l'hai, alla fine della giornata lavorativa, perché quando sei giovane cerchi sempre di superare la fatica fisica per uscire la sera, fare qualcosa d'altro: speri sempre in qualcosa di meglio. Ma che cazzo esci a fare la sera quando sei inchiodato e recintato nell'hinterland milanese, col freddo, la nebbia, due chilometri per l'unico bar aperto della zona, dove se ci arrivi ti guardano male perché hai i capelli lunghi o perché non compri la busta di eroina. C'è una canzone che invita tutta la gente a uscire dalle case e passare tutto il tempo nelle strade a cantare, ballare, conoscersi, fare festa e penso che se abolissero la televisione e il lavoro per un anno si riuscirebbero a fare moltissime cose.

Ma ci sono le droghe di Stato, necessarie per farti vivere a Milano. Provate a immaginare la vita in città per un solo mese senza caffè, tabacco, sonniferi e stimolanti, televisione, automobile, alcol, eroina. Scoppierebbe, perché non riusciresti più a sopportare lo sfruttamento salariato. Che cosa infernale sono le città, ti distruggono lentamente anche il rapporto con la natura, non ti accorgi nemmeno che è cambiata la stagione, che ci sono le rondini, che la terra ha un odore suo, diverso da quello del cemento umido di benzina. Un giovane che finisce di lavorare vorrebbe fare qualche cosa di bello, di più utile: discutere, conoscere, fare, magari studiare anche, imparare a conoscere il proprio corpo, la propria mente, pitturare, ballare, fare musica, teatro, artigianato, divertirsi. Ma figurarsi se è possibile fare tutto questo a Quarto Oggiaro, per esempio. Durante il tempo libero ti accorgi che sei solo libero di non contare nulla. Niente. E poi non sei libero di cambiare il mondo. Qui non abbiamo né futuro né presente. E dopotutto la vita è più di tutti nostra, perché dobbiamo viverla ancora tutta intera, non abbiamo ancora perso! Quando uno è giovane, avendo tutta la vita davanti, pensa più spesso come vuole investirla, e questa è l'unica differenza reale tra giovani e adulti. Si pensa alla propria vita perché pensiamo ci appartenga; è il desiderio di partecipare come soggetti alla costruzione di una storia collettiva con la tua gente, il tuo popolo, la tua classe. Le radici dell'uomo stanno nella sua storia, ed è inutile fuggire in India, anche se è vero che la nostra storia vogliamo sia ed è internazionalista. Ma la cosa più assurda è che ti trovi a pensare a queste cose sulle panchine della stazione di Limbiate, o sulle panchine di Cinisello, che sono state tolte perché ci andavano a sedersi i giovani della zona sbattuti fuori dai bar perché freakettoni e presumibilmente drogati. Non che ci dispiaccia tanto, perché al bar si muore di noia, per questo si era scesi nella piazza, nei giardini. E' un periodo che i pochi giardini di Milano brulicano di giovani. Peccato che tanti di questi finiscano in galera per furti o scippi per procurarsi eroina o soldi, perché le condizioni di lavoro offerte dai padroni sono inesistenti o troppo pesanti. Certo che contro l'eroina bisognerebbe fare subito qualcosa di più: qui stanno cercando di fregare i giovani migliori, i più ribelli. Se sei operaio è l'unica cosa che ti fa star bene per qualche ora nella merda più totale di una

giornata lavorativa e di un quartiere dormitorio. Se sei senza lavoro l'eroina ti dà un ruolo, quello di tossicomane. Se hai vissuto internamente la crisi dei valori borghesi, l'eroina ti rappresenta l'autodistruzione, il suicidio collettivo, l'esaltazione non dell'individualità ma dell'individualismo. L'eroina è la droga perfetta della società borghese. Ti dà tutto non dandoti niente, anzi, dandoti spesso la morte; è la realizzazione individualistica opposta alla realizzazione collettiva, è il comunismo in polvere, è quindi la negazione del comunismo, che invece è una strada di diecimila anni luce. Se non riuscissero a convincere tanti giovani di essere inutili; se cioè cominciassimo noi a essere protagonisti, soggetti e non oggetti, l'eroina non avrebbe più spazio. C'è la solitudine che ci frega molto, ma se riusciremo a fare della solitudine e dell'autonomia individuale un valore di vita dell'uomo, tanto quanto il bisogno e il piacere della socialità e della solidarietà, cominceremo a inceppare il meccanismo ideologico di conservazione della borghesia e la scala nevrotica si rovescerebbe e si trasformerebbe in una scala di piacere e di umanità. Bisogna imparare a stare bene da soli per stare bene con gli altri, tra il proletariato. Certo che per fare tutto questo ci vuole una vasta rivoluzione culturale, nel movimento, nei partiti più utilizzabili, in noi stessi, insieme alle donne. Ci sarà bisogno di un esercito di utopisti, abituati a vivere col terremoto, con le contraddizioni permanenti; bisognerebbe formare un esercito di soldati del «regno della libertà e delle rose» disposti a lottare per generazioni, centinaia di anni, senza illusioni di ore x per cui negarsi, e disposti a scavare, come Yu Kung, con serenità, lungimiranza e decisione, le montagne della paura e del capitalismo che schiacciano l'umanità e ne impediscono la liberazione individuale e collettiva. C'è un libro della Heller e le opere filosofiche giovanili di Marx (è proprio vero che da giovani si rende di più) che ci possono dare gli strumenti per capire, da un punto di vista razionale e scientifico, cos'è questo regno della libertà contrapposto al regno della necessità, cos'è la preistoria e la storia dell'uomo, qual è il pane e quali sono le rose del comunismo, cosa sono i bisogni radicali, cos'è la società dell'uomo opposta alla società del profitto. Ma penso che tutto ciò non sia necessario definirlo sui libri perché è dentro di noi, ed è nella vita quotidiana di tutti i proletari. Ed è l'impegno a vivere il

presente con tutte le contraddizioni della realtà, superandole, affrontandone delle nuove come «il fiume che scorre», misurandosi quotidianamente con la miseria del lavoro salariato, con l'impegno militante a trasformarla fin nelle piccole cose. Naturalmente è un processo che dura secoli e nessuno di noi vuole vendere felicità a basso prezzo o negarsi in ideali futuribili, ma è un processo inevitabile, fatto di tentativi, di sconfitte, di nuovi tentativi. Chi si ferma viene travolto. Ci stiamo senz'altro avvicinando a un periodo di eventi storici straordinari: ognuno di noi deve solo decidere se farsi travolgere dalla storia e fuggire invano come topi da una nave che affonda o costruire invece, e vivere nella realtà, una storia collettiva fatta di tanti piccoli e ignoti protagonisti, fatta di necessità e di libertà, di durezza e di dolcezza, di realismo e di poesia. Questo è l'unico ruolo possibile. Essere utopisti è un obbligo, altrimenti che ci stiamo a fare in questo mondo? SCENA 7 "La voce degli estromessi". Alice guarda, gioca, salta, perde tempo tra i fogli illuminati dal sole, poi corre via, si situa altrove. Eppure tutto funziona nell'ordine del discorso. Il discorso cuce, spiega, ripete, non ammette interruzioni, organizza, partecipa, rimprovera... "Come un invito a pranzo per parlarti di lavoro e non farti mangiare". Silenzio. Il soggetto è cambiato. Sbuffa, fischia, non ti dà ragione. Grida viva il Cagliari perché la Juve per lui significa Rivalta e otto ore di sofferenza. Il silenzio, l'estraneità, il «non detto», il «da dirsi» fanno paura.

Nei programmi tante rubriche fitte fitte come in un giornale: «Nell'ottica in cui si evidenzia... Mezz'ora con il vostro Carlo... A tu per tu con il folk... Tutto jazz... Bollettino delle 13, delle 14, delle 15... "Alice fischia urla sparla interrompe spara". E' tornata gente sui palchi dell'Odéon, che gira nel teatro parigino con dei microfoni e delle carte di credito in mano; chiede la nostra voce per i loro discorsi: i nostri bisogni sono tornati a essere rappresentati dai «portavoce» delegati in cambio della promessa a parlarne domani. "Vagli a spiegare che è primavera". Riceviamo una telefonata dall'Istituto tecnico: «Abbiamo occupato la presidenza e vi parliamo con il telefono del preside, sentite come urla... Voleva impedirci lo scrutinio aperto e incularci nel quadrimestre». "Così va meglio". Desiderio di potenza del discorso d'ordine o potenza del desiderio contro l'ordine del discorso? Radio per la partecipazione o radio dell'estraneità? Nel primo caso il linguaggio è uno: quello dell'annunciatore, dell'annunciante che l'evento è avvenuto. Si parla di una cosa che significa un'altra cosa, e che comunque non si può mai prendere perché è passata. "Uno specchio". In questo senso i tentativi di imitazione sono pateticamente ridicoli: i dialetti e le inflessioni non sono tollerati. Nel secondo caso qualcosa al linguaggio continua a sfuggire. Si manifesta con la risata, la sospensione, la parola che non si trova e si rifiuta di farsi sostituire, il balbettìo, il silenzio. "Bene, «parliamo dell'estraneità»". Non si può passare da un discorso all'altro (dalla Rai a fuori la Rai). Il soggetto cambia. Il nuovo soggetto è collettivo e non parla. O parla quando pare a lui. Il silenzio: un buco. Lasciamo che i buchi diventino più grossi, non impauriamoci degli orifizi, cadiamo dentro e passiamo dall'altra parte: "il paese delle meraviglie".

Altra telefonata in diretta: «Siamo operaie in sciopero di due ore, vogliamo che ci trasmettiate della musica e vogliamo parlarvi delle 35 ore, che è ora che se ne parli nei contratti». Altra telefonata in diretta: «Sporchi comunisti ve la faremo pagare cara questa radio, sappiamo chi siete». Altra diretta: «Siamo del Comitato antifascista dell'ospedale Rizzoli, non preoccupatevi e chiamateci se succede qualcosa, siamo qui giorno e notte». Rompere il ciclo di valorizzazione del capitale nel processo di circolazione del segno-valore (non più appropriazione della mercé per interrompere il ciclo D-M-D', ma sciopero selvaggio nella circolazione del solo segno-valore D-D'. Interrompere il linguaggio, quello delle macchine, quello dell'etica del lavoro, quello della produttività. «Un invito a non alzarvi stamattina, a stare a letto con qualcuno, a fabbricarvi degli strumenti musicali e delle macchine da guerra». "Radio Alice è O(out)/scena". Certo, fuori dalla scena. Ma cosa non è osceno della nostra vita, dei nostri bisogni, per i poliziotti e i pennivendoli? I nostri bisogni, la sessualità, il corpo, la voglia di dormire il mattino... il desiderio. Tutto questo è stato nei secoli nascosto, sommerso, negato, non detto. Il ricatto della miseria, la disciplina del lavoro, l'ordine gerarchico, il sacrificio, gli interessi generali, tutto questo ha fatto tacere la voce del corpo. Tutto il nostro tempo da sempre e per sempre votato al lavoro. Oltre la miseria, contro il lavoro parla il corpo, il desiderio, l'appropriazione del tempo lavoro. Radio Alice si installa in questo spazio e per questo è oscena. Un'altra telefonata in diretta: la più bella ricevuta: non parla nessuno, suona solo un sax per un paio di minuti. "Siamo sicuri fosse Majakovskij". SCENA 9

Partivano dai quartieri più lontani dal centro, il sabato mattina, le ronde contro il lavoro nero. I più mattinieri erano quelli del Comitato San Siro e i ragazzi di Baggio. In zona via Novara cominciavano a dare i volantini davanti alla fabbrichette e nei sottoscala della case popolari. «Basta farsi sfruttare così senza il libretto, senza la malattia pagata, senza ferie» urlava al megafono Matteo che si tirava come al solito tutti dietro. Poi mettevano lo striscione fuori dalla fabbrichetta più grande della zona e continuavano per un paio d'ore a speakerare e a dare volantini. «Al sabato non si lavora» c'era scritto nei volantini. «Basta con la disoccupazione giovanile», questo lo slogan usato più spesso. Dentro le fabbrichette serpeggiava un po' di nervosismo e spesso i padroncini si mettevano a dar fastidio a qualche ragazza che distribuiva i volantini. Dalle finestre si poteva vedere bene quello che facevano dentro quei buchi i ragazzi che lavoravano: chi attaccava targhette, chi fabbricava tappi per bibite, chi rifiniva parti meccaniche di più complicati meccanismi che poi sarebbero stati assemblati altrove. In alcuni piccoli laboratori erano evidenti le condizioni di pericolosità in cui si lavorava. Dopo il volantinaggio i ragazzi in gruppo e con lo striscione si spostavano in piazza Selinunte dove c'erano le case occupate. In una di queste c'era un grande stanzone a piano terra che serviva come centro di ritrovo. Era la sede del Comitato di lotta di San Siro nato qualche anno prima su una grande esperienza di occupazione di case che serviva da punto di incontro per tutti gli altri Collettivi di quartiere della zona Ovest fino al Comitato di lotta del Gallaratese. Il capo indiscusso di tutta la zona era Matteo, quello che stava nell'ultima casa di Baggio prima del cartello con scritto Milano. Matteo parlava sempre alle assemblee con quel suo linguaggio da studente di Istituto tecnico, con poche citazioni di marxismo ma molto buon senso. In quei discorsi senza fine faceva sempre il riassunto di quello che aveva letto in settimana. Ogni volta che i suoi amici lo vedevano con un libro potevano stare tranquilli che alla prossima riunione nel suo discorso ne avrebbe sicuramente fatto un ampio riassunto.

Matteo andava a periodi nei suoi riferimenti culturali: nel '76 ubriacò tutti con il discorso dell'operaio sociale; poi nel '77 era passato alla fabbrica diffusa e non si era più sbloccato da lì. E aveva ragione perché era proprio della fabbrica diffusa che si trattava quando si andava a fare le ronde contro il lavoro nero e lo straordinario al sabato. Quelli di San Siro avevano fatto un'inchiesta meticolosa dove risultava che tutte le fabbrichette non facevano che pezzi per altre fabbriche più grandi, tanto che alla fine si poteva documentare un ciclo di lavorazioni diffuso nelle case al posto delle fabbriche. Negli sproloqui complessivi di Matteo venivano fuori alcune espressioni che poi diventarono leggendarie in tutta Milano. Una della più belle, un paragone che faceva sempre, era quello di Baggio come Hong Kong. E lì si scatenava. Allora il suo quartiere diventava un città popolosa con case di legno e vicoli sporchi e pieni d'acqua. I ragazzi che lavoravano nella fabbrichette dei ragazzi gialli che guadagnavano un pugno di riso. E le radioline made in Hong Kong diventavano made in Baggio. Alla fine c'era anche lo sbocco catartico. Qui Matteo raggiungeva punti di inaudita grandezza quando paragonava Baggio al Delta del Mekong e alle zone liberate del Vietnam. Aveva una traduzione tutta sua del famoso slogan di Mao sulle campagne che circondavano la città. La campagna era il suo quartiere che scendeva a Milano al sabato pomeriggio a praticare l'autoriduzione. In quei suoi ciclopici discorsi faceva anche degli errori d'italiano altrettanto famosi. Uno dei più celebri avvenne in un'assemblea cittadina contro la repressione dove Matteo attaccò un intervento lunghissimo e dove ripeteva in continuazione la parola confine al posto di confino. Mi ricordo le ghignate che ci facemmo io e Puccio presenti alla riunione quando ci rendemmo conto che Matteo ripeteva la parola confine al posto di confino convinto che la o fosse un errore di stampa dei giornali che aveva letto quel giorno, giornali dove si parlava della decisione del tribunale di Roma di mandare al confino alcuni esponenti dell'Autonomia romana. Alla fine, sbellicandoci dalle risate, lo avvicinammo per sincerarci se la nostra interpretazione era esatta e lui ce la confermò seraficamente dicendoci con disprezzo: «Queste sono cose da gente del liceo classico». Eh sì, perché Matteo ce l'aveva a morte con quelli del liceo classico dai tempi del coordinamento degli studenti medi di tutte le scuole di Milano. Quando c'erano da fare le lotte inesorabilmente quelli dei licei parlavano dei contenuti dell'insegnamento e

quelli degli Istituti tecnici, con Matteo in testa, chiedevano salario agli studenti e la riduzione dell'orario scolastico. Celebre era un altro discorso di Matteo quando per esemplificare questa eterna spaccatura tra licei e Istituti tecnici raccontava come era fatta la sua scuola. «Nei primi due anni ti fanno mettere un grembiule nero e ti fanno limare, fino a che non diventi scemo, un pezzetto di ferro; poi gli ultimi tre anni impari a costruire un telefono e una centralina telefonica che così al mondo non c'è più se non nel Ruanda Rundi». E anche in questo caso storpiava le parole. Matteo era famoso anche per essere quel che si diceva allora un «destro» maledetto. Aveva la fissazione del lavoro di massa, porta a porta, nel quartiere, fuori dai cancelli delle fabbriche, nelle scuole. Per lui la rivoluzione era una cosa che avveniva dopo che tutti si erano messi d'accordo e per questo suo modo di fare politica era il bersaglio di tutti i cosiddetti militaristi, quelli che privilegiavano le azioni violente d'avanguardia. Non che Matteo fosse contro la violenza, anzi. Ma doveva sempre essere di massa, almeno di un consistente gruppo, soprattutto durante le manifestazioni e nel corso di grandi lotte. Era contrario a usare armi da fuoco se non in particolari occasioni, come nel caso si dovesse difendere un corteo o delle case occupate. Insomma, quando la discussione si animava la prima cosa che gli dicevano tutti era: «Ma tu che cosa ci fai con l'Autonomia? Perché non vai con Lotta continua?». E allora lui si incazzava e rispondeva che dall'Autonomia dovevano andare via loro, quelli del collettivo Romana-Vittoria, che lui l'Autonomia l'aveva fondata quando loro erano ancora in Lotta continua. Proprio nei primi mesi del '77 Matteo fu al centro di uno scazzo storico sul problema delle ronde contro il lavoro nero con quelli del Collettivo RomanaVittoria. Quelli di Romana facevano delle ronde contro il lavoro nero che erano delle autentiche irruzioni a mano armata. Poco o niente lavoro di massa in zona e al sabato mattina, a piccoli gruppi, giù negli scantinati della zona a far alzare le mani in alto alla gente, far uscire tutti e poi molotov a volontà e anche pistolettate a lasciare i colpi sui muri. Così, ogni sabato, mentre quelli di Raggio, di Lambrate, di Garibaldi, di San Siro facevano volantinaggio e speakeraggio contro il lavoro nero, quelli di Romana ci andavano sempre più duri. Avevano cominciato un sabato

mattina a buttare molotov contro la ditta Rosy, un'agenzia pubblicitaria di detersivi, e nel giro di un mese erano arrivati a irruzioni in piena regola alla Elecrovaren, Alco, Splendor. Arrivavano alla guida di macchine rubate, piombavano dentro armati fino ai denti e poi prima di andarsene scrivevano qualche slogan sul muro della ditta con lo spray. E chi s'era visto s'era visto. Quel modo di fare a Matteo, come a tanti altri, non andava giù. E lui non glielo mandava a dire. Non come tutti gli altri che allora si attenevano alla regola di non parlare mai della violenza. In febbraio, tirandosi dietro Baggio, Lambrate, San Siro e altri, ingaggiò un zuffa politica furibonda nel coordinamento di tutti i Comitati di quartiere. Nel suo epico discorso ripercorse tutto il repertorio da Baggio-Hong Kong all'odio contro gli studenti del liceo classico che, guarda caso, erano in tanti dentro il collettivo Romana-Vittoria. Riuscì a spuntarla tanto da costringere quelli di RomanaVittoria ai margini del coordinamento. Non la spuntò del tutto per via che, quando sembrava avesse stravinto, gli incidenti del marzo '77 a Bologna e la morte dello studente di Lotta continua Lorusso ricrearono spazio per quelli che come diceva lui: «Se non hanno la pistola tra le gambe si sentono male». Alla fine di queste epiche riunioni Matteo cercava qualcuno che lo accompagnasse a casa, in quel posto dove Milano finiva. Allora in auto Matteo dava sfogo a tutta la sua rabbia contro chi non voleva far politica. Si calmava solo quando l'auto imboccava l'inizio della lunghissima via Forze Armate al termine della quale, proprio l'ultima, era la sua casa. Chi lo accompagnava cominciava allora a scherzare con lui su alcuni episodi che lo vedevano come protagonista. Come quella volta che in dicembre aveva rischiato di morire quasi assiderato perché intercettato da un'auto della polizia mentre stava andando a fare un botto contro un covo del lavoro nero. Aveva abbandonato la 500 in una viuzza di un paesetto tra i campi e si era buttato con la cannuccia in bocca dentro una roggia, lui e il suo inseparabile amico Pierre. Erano stati in quel modo un paio d'ore, con la macchina della polizia che non se ne andava perché gli agenti non si capacitavano di aver visto volatilizzare gli occupanti della 500. O come quell'altra volta, quando portato a malavoglia a far parte di un gruppetto che doveva bruciare un deposito di una fabbrichetta era sparito

all'ultimo momento. Lui doveva portare le taniche di benzina. Gli altri due erano entrati per primi e avevano messo da parte la gente senza neppure torcergli un capello. Matteo prima aveva cercato di tutto per fare l'azione di notte, ma poi non l'aveva spuntata perché c'era un metronotte che faceva la guardia in una fabbrica vicina e ciò complicava di molto le cose. Andò a finire che ancora la raccontano. I primi due entrarono dentro con le pistole e con ogni gentilezza portarono in un locale adiacente tutti i presenti. Poi si misero ad aspettare Matteo che doveva arrivare con le taniche per dare fuoco a tutto. Sono là che lo aspettano ancora. SCENA 12 Roma, 17 febbraio 1977 Alle 8 del mattino, sotto un cielo plumbeo e le prime gocce di pioggia, gli schieramenti nell'Università erano già formati, anche se la tensione era ancora minima. Nel piazzale della Minerva il servizio d'ordine del sindacato e del P.C.I. con i cartellini rossi appuntati sul bavero della giacca, qualche giovane della F.G.C.I., molte persone un po' attempate, due o tre tute blu, presidiavano la piazza del comizio. Armati di pennelli e vernici sindacalisti e comunisti cancellavano le scritte degli «indiani metropolitani», (l'ala «creativa» del movimento, composta essenzialmente da militanti dei Circoli del proletariato giovanile). Prima fra tutte una a caratteri cubitali accanto ai cancelli principali dell'Ateneo: «I Lama stanno nel Tibet». Gli «indiani» dal canto loro non restavano a guardare. Su una scala di quelle da biblioteca (con le ruote e un palchetto con ringhiere) avevano piazzato un fantoccio a grandezza naturale in polistirolo che doveva rappresentare il leader dei sindacati. Circondato da palloncini portava appesi tanti grandi cuori. C'era scritto: «Lama o non Lama», «Non Lama nessuno» e altri giochi di parole del genere. I sindacalisti e i servizi d'ordine del P.C.I. erano perplessi, qualcuno sorrideva bonariamente: «Sono goliardi, non bisogna farci caso». Qualcun altro invece già alla vista del fantoccio si era innervosito: «E' una provocazione inammissibile, Lama è un leader dei lavoratori».

Assiepati intorno alla Facoltà di Lettere gli indiani ballavano, cantavano, scandivano slogan polemici. Ritmavano ossessivamente: «Sa-cri-fi-ci-sa-crifi-ci». Ce l'avevano con il governo Andreotti ma soprattutto con i partiti dell'astensione. Alle 8.30, davanti alla Facoltà di Lettere c'è stato uno degli episodi chiave, rimasto ignorato però dalla gran parte della gente. Quattro persone, infreddolite, preoccupate, una delegazione dell'Intercollettivo universitario aspettavano Aurelio Misiti, segretario romano della C.G.I.L.-scuola. «Avevamo un appuntamento», hanno detto ore dopo ai giornalisti, «per concludere un accordo già preso ufficiosamente la sera prima: al comizio dovevano esserci anche i nostri interventi. La posizione del movimento era quella dello scontro politico, della critica aperta, ma in termini pacifici, e questa linea era legata, indissolubilmente, alla nostra partecipazione al comizio». Aurelio Misiti, invece, secondo quello che hanno raccontato i rappresentanti dell'Intercollettivo, all'appuntamento non è venuto. L'attesa si è prolungata per una mezz'ora, poi i quattro dell'Intercollettivo, delusi, si sono mescolati alla folla. Il clima intanto si andava surriscaldando. Intorno al 'carroccio' degli indiani (ma c'erano dietro anche tutti gli altri Collettivi, i militanti dei gruppi e un paio di rappresentanti del Fuori), il servizio d'ordine del P.C.I. aveva steso un cordone sanitario che ritagliava una larga fetta della piazza. La gente cominciava ad affluire, erano circa le 9 del mattino, e gli indiani già pigiavano sul pedale dell'ironia e del sarcasmo, anche pesante. «Più lavoro, meno salario», «Andreotti è rosso, Fanfani lo sarà», «Lama è mio e lo gestisco io», «Il capitalismo non ha nazione, l'internazionalismo è la produzione», «Più baracche, meno case», «E' ora, è ora, miseria a chi lavora», «Potere padronale», «Ti prego Lama non andare via, vogliamo ancora tanta polizia», erano gli slogan più scanditi, parafrasi delle parole d'ordine delle manifestazioni e cortei della sinistra. Un gruppo cantava sull'aria di "Guantanamera": «Fatte 'na pera, Luciano fatte 'na pera». Una pera, nel gergo freak è una endovena di eroina. I militanti del P.C.I. erano a questo punto non più perplessi, ma dichiaratamente ostili. Rispondevano con altri slogan: «Via, via, la nuova borghesia», «Pariolini, pariolini». Dall'altra parte, settori del movimento rimbalzavano slogan non più ironici ma di aperta contrapposizione politica: «Provocatori sono P.C.I. e sindacato che pieni di paura invocano lo Stato», «Via, via, la nuova polizia».

E' stato un crescendo polemico, di violenta contrapposizione, ma una contrapposizione fino a quel momento solo verbale. A ranghi serrati il servizio d'ordine sindacale e del P.C.I. stringeva dappresso «indiani», Collettivi e autonomi. La gente assisteva perplessa, qualcuno già spaventato. Il punto di attrito più caldo era intorno al 'carroccio' degli indiani: lì davanti era schierato il servizio d'ordine della federazione romana del P.C.I. e i giovani della F.G.C.I.. I sindacalisti e i Consigli di fabbrica occupavano prevalentemente le 'retrovie' e stavano sui bordi della grande fontana di piazza della Minerva. Luciano Lama è entrato nell'Università con una grande puntualità. Circondato da una decina di tute blu, che lo rendevano quasi invisibile, è passato rapido tra la folla nel viale che porta a piazza della Minerva, ha attraversato la piazza nel varco lasciato libero dai servizi d'ordine ed è arrivato sul palco, un camion parcheggiato diagonalmente nello spiazzo fra le aiuole della Facoltà di Legge e il rettorato. Dagli altoparlanti le note delle solite 'marce' da comizio non riuscivano a soffocare gli slogan ironici degli «indiani». Il clima a quel momento era arrivato quasi al punto di rottura. Le contraddizioni fra due mondi completamente diversi ed estranei, quello dei sindacati e dell'ortodossia comunista e quello della «creatività obbligatoria», non avevano trovato neanche un modo di evitare insulti reciproci. Erano ormai due blocchi contrapposti e nemici; la pentola in ebollizione da un paio d'ore era ormai sul punto di scoppiare. Il primo piccolo incidente è avvenuto ai bordi della fontana. Due Consigli di fabbrica vicini ad Autonomia operaia si sono fatti largo per aprire i loro striscioni; rintuzzati dal servizio d'ordine dei sindacati stavano per venire alle mani. C'è stato un intervento di alcuni ragazzi del P.D.U.P. e la calma è tornata per poco. Alle 10 del mattino Lama ha iniziato il suo comizio mentre crescevano le proteste; gli slogan si facevano più violenti. «Il Corriere della Sera» ha scritto «che saremmo venuti qui con i carri armati, si è sbagliato, noi siamo qui...». Dal 'carroccio' degli indiani a questo punto sono partiti dei palloncini: pieni di acqua colorata o vernice. Nel servizio d'ordine del P.C.I. c'è stato un

attimo di sbandamento. Qualcuno deve aver pensato che si trattasse di qualcosa di pericoloso, molti si sono infuriati quando la vernice è piovuta sulla testa della gente. E' partita allora una carica per espugnare il 'carroccio' degli indiani. Travolta l'ala «creativa» del movimento, il servizio d'ordine del P.C.I., che ormai aveva raggiunto il fantoccio di Lama, è entrato in contatto con l'ala «militante». Sono volati pugni, schiaffi, calci, poi il 'carroccio' è tornato in mano agli occupanti dell'Università che lo hanno usato come un ariete per controcaricare. A questo punto uno dei capi del servizio d'ordine della federazione romana del P.C.I. ha usato un estintore contro i militanti dei Collettivi. La nuvola bianca di schiuma è stata il segnale di partenza della rissa più selvaggia. Mentre Luciano Lama continuava il suo discorso al centro della piazza, fra i due schieramenti ormai era un continuo avanzare e arretrare a pugni e botte. Poi dal fondo, verso la Facoltà di Lettere, contro il servizio d'ordine del P.C.I., sono volate patate, pezzi di legno e qualche pezzo d'asfalto. Lama ha concluso il suo discorso alle 10.30, mentre nella piazza in tumulto molti fuggivano, molti, soprattutto sindacalisti, restavano a guardare attoniti, alcuni cercavano disperati di dividere i contendenti, qualcuno già piangeva urlando: «Basta, basta, non ci si picchia fra compagni». Dopo Lama saliva sul palco Vettraino, della Camera del lavoro di Roma. «Compagni», ha tuonato, «la manifestazione è sciolta. Non accettiamo provocazioni». L'ultima parola è stata quasi un segnale. Un'ultima carica violentissima ha spazzato via il servizio d'ordine del P.C.I. e dei sindacati che ha protetto il deflusso dei suoi militanti. Il camion è stato capovolto, distrutto, poi si sono scatenate le risse. A gruppi di due o tre, di dieci quindici persone, nei viali alle spalle del rettorato studenti e militanti del P.C.I. e dei sindacati si sono affrontati, a bastonate, a colpi di spranga, di chiave inglese e sassate. Una rissa tragica, violentissima. Con gente che piangeva, che imprecava, feriti portati via a braccia (molti militanti dei Collettivi non sono andati all'ospedale perché temevano denunce). La Facoltà di Lettere era trasformata in una infermeria, i militanti del P.C.I. venivano portati di corsa al Policlinico. La calma dentro l'Ateneo è tornata solo quando i comunisti, usciti dall'Università, si sono schierati fuori dai cancelli. Dentro, una parte degli occupanti scandiva slogan contrapposti a quelli dei comunisti, un altro

gruppo si riuniva in assemblea a Geologia a stilava una mozione: «La responsabilità degli scontri ricade sull'iniziativa provocatoria ed esterna al movimento presa dal P.C.I. sotto una copertura sindacale unitaria...». In sostanza tutto l'Intercollettivo si è assunto la responsabilità di quello che era accaduto, anche se fino a poche ore prima c'era stata violenta polemica fra l'ala di Autonomia e il resto del movimento. Alle 12.30 circa il rettore Ruberti è uscito dall'Università da un cancello secondario. Aveva già chiesto l'intervento della polizia. Per qualche ora c'è stata una pausa, come se i contendenti dovessero tirare il fiato per riprendersi dalle emozioni, dal trauma di quello scontro violento fra bandiere rosse. Poi, mentre cominciava l'assemblea dei Collettivi, alle 16.30, fuori dall'Ateneo sono cominciati ad affluire i reparti della polizia e dei carabinieri. Qualcuno ha improvvisato barricate con tavoli, travi, automobili rovesciate, distrutte, demolite pezzo per pezzo. Colonne di jeep, camion, 'pantere', pullman di carabinieri hanno riempito rapidamente i viali intorno all'Università. Una sola strada è rimasta libera, quella dell'uscita di via de' Lollis, unica via di scampo per gli 'assediati'. Alle 17.40, dopo un timido tentativo di resistenza degli occupanti che avevano incendiato le auto della barricata, la polizia ha marciato verso i cancelli. In testa un'autoblindo, dietro file di uomini con giubbotti antiproiettile e maschere, sotto un fuoco di copertura di centinaia di gas lacrimogeni che in breve hanno avvolto tutta la zona in una nuvola di fumo acre. La barricata è stata demolita da un bulldozer, poi, sempre sparando candelotti, gli agenti sono entrati. La gran massa degli occupanti era già fuggita, gli ultimi hanno imboccato il cancello di via de' Lollis verso le 18.15. Padroni del campo, sotto la luce delle fotoelettriche, poliziotti e carabinieri hanno rastrellato gli edifici. Fuori, per le strade di San Lorenzo, si è acceso qualche focolaio di guerriglia. Forse sono stati sparati colpi di pistola (ma è una notizia ancora non confermata), secondo gli aderenti ai Collettivi due giovani militanti di Lotta continua sono stati picchiati dal servizio d'ordine della F.G.C.I. e del P.C.I. fermo in via dei Frentani a presidiare le sue sedi. Alle 20 tremila studenti erano riuniti ad Architettura. Scadenze per i prossimi giorni: una manifestazione cittadina sabato, una manifestazione nazionale in settimana, assemblee nelle scuole. Gli interventi, brevi,

incalzanti, disegnavano la nuova strategia del movimento. Al primo posto la necessità di darsi una forma di organizzazione «perché la sovranità dell'assemblea e delle sue decisioni venga rispettata». Ha parlato anche un giovane della F.G.S.I. che ha espresso solidarietà ai Collettivi e ai Comitati di lotta contro la riforma Malfatti. Da ieri mattina tutto il dibattito, le discussioni, le riunioni si sono spostate. Ad Economia e Commercio e Architettura, le due Facoltà fuori dalla cinta dell'Ateneo, le assemblee sono andate avanti fino a sera. E' stata votata una mozione: dopo aver ribadito che il movimento «è stato fatto bersaglio di un'offensiva dell'apparato dello Stato e del gruppo dirigente del P.C.I.» si afferma che «è in corso da parte della borghesia italiana guidata dal governo Andreotti un aperto tentativo di criminalizzare la lotta dei giovani». Gli obiettivi del movimento sono: «Ritiro del progetto Malfatti; sciopero generale nazionale contro il governo». «Il movimento», è scritto nel documento, «sa che questi obiettivi significano il rifiuto della politica dei sacrifici». Si conclude indicendo una manifestazione per oggi pomeriggio alle 17, «pacifica e di massa». SCENA 22 Ora so che era la notte tra il 10 e l'11 marzo. Al mattino ci si doveva vedere, come al solito, in piazza Verdi, verso le dieci. Noi non saremmo andati ma è anche difficile spiegare il perché. Eravamo stanchi, forse avevamo solo voglia di stare insieme. Certamente non sentivamo sensi di colpa e non eravamo più «indispensabili», cioè quasi inutili. Quando ci si ritiene indispensabili, in politica, specialmente quando è vero che lo si è, vuol dire che si lavora al posto di troppi altri che a loro volta non sono affatto indispensabili. Ma ci eravamo ritrovati in quattro o cinque, passando di casa in casa, non certo per dirci queste cose. E non ricordo neppure quello che ci siamo detti. Ci siamo tirati degli optalidon sulla testa, abbiamo fumato, io ho rinunciato a pisciare in camera di Pino perché pensavo fosse un cesso occupato, Paolo e Ivo giocavano ai pesi e alla bilancia, G. B. sbirciava un libro. Così fino a

giorno, con le mascelle indolenzite e con un gran sonno. Due scompaiono in qualche camera, dove Paola e chissà chi altro dormivano già dalla sera, G. B. crolla completamente vestito, io metto i calzini fuori dalla finestra e mi butto su un lettino in cucina. Abbiamo dormito poco. La voce spaventata di Paola sembra a tutti un sogno: fuori piove. - Francesco chi? Lorusso? - Gli hanno sparato alla schiena, non parlava più, gli usciva il sangue dalla bocca. Sono stati i carabinieri. - Quei bastardi... - Hanno detto di chiamarvi. State attenti, qui fuori c'è una 127 piena. - Usciamo un po' alla volta in fretta. Datemi dei calzini, i miei sono tutti bagnati. Mentre si va all'Università penso alla discussione avuta con Francesco sul servizio d'ordine, che non era mai stato un problema sapere chi aveva ragione. Ogni tanto lo vedo su una carrozzella e allora scuoto la testa e dico che sono scemo. Me lo ricordo sudato, con la camicia e lo spolverino aperto, che si scappava via insieme. In via Zamboni ci sono barricate che si susseguono una all'altra, tutte lucide di pioggia; riconosco i tavoli della mensa, le panche di Lettere, i vasi di fiori di piazza Scaravilli. Piazza Verdi è un'istantanea terribile che mi spaventa e nello stesso momento mi inghiotte, e non penso più, vado avanti sbattendo ogni tanto contro qualcuno, senza salutare nessuno, senza che nessuno mi fermi. Ci sono centinaia di compagni, di studenti, tutti muti, con i capelli bagnati. Qualcuno allinea, facendole tintinnare, decine di bottiglie vuote di diverse dimensioni che vengono riempite di benzina travasata da un enorme contenitore della mensa. Ogni tanto ci si lamenta che il nastro sta per finire, che bisogna andare a prendere altri antivento.

Francesco è morto, e dalle facce si capisce che tutti lo sanno. Si vedono occhi arrossati ovunque, uno piange da solo davanti a un muro, alcuni vanno avanti e indietro per la piazza, come se cercassero di parlare, ma non ce n'è bisogno. Tutti pensano la stessa cosa. Nel C.P.S. ci sono compagni buttati sulle sedie, che piangono e si guardano in faccia. Dopo un po' entra Matteo, quasi sorretto da Paola e da Fernanda che, staccatasi un attimo, mi abbraccia piangendo e mi fa delle domande che non capisco. Matteo non sembra neanche vivo, è pallido, ha la bocca socchiusa. Muove solo gli occhi che in un attimo mi chiedono un sacco di cose. Arrivano altri compagni e, non so come, si inizia a parlare, in fretta, con una durezza che non so descrivere. Ogni tanto si sente qualcuno che singhiozza. Nessuno fa grandi discorsi, gli obiettivi sono chiari, un compagno inizia a strappare una bandiera per ricavarne dei fazzoletti. In piazza incontro G. B. che si aggira con un sorriso nervoso in faccia e mi dice che non riesce a fare altro. Vicino a Lettere un compagno mi ricorda senza cattiveria che avevo quasi litigato con Francesco, un altro mi dice che è stato attaccato un commissariato lì vicino. Nell'aula bianca ci sono altri che discutono nervosamente. E' chiaro che vogliamo andare in centro, che vogliamo passare per la Democrazia cristiana, ma penso che la gente che si sta ammucchiando per via Zamboni non ha bisogno di un tracciato da seguire. Il corteo si forma poco dopo e si iniziano a sentire i primi slogan: in testa gridano; «Guai guai guai a chi ci tocca». Io sto in coda con un centinaio di compagni dei vari servizi d'ordine dell'Università. Ma in mezzo non c'è un corteo da difendere. Passano migliaia di compagni con le tasche piene di sampietrini, tra le file girano sacchetti di bottiglie. E' un corteo diverso da quelli fatti solo pochi giorni prima, anche se le facce sono le stesse; il mucchio mobile, festante, che invade i marciapiedi tra le borse della spesa, che invita a parlare con l'ironia e crea un rapporto con tutti. Non è il serpentone che partiva a mezzanotte per tirare giù dal letto quelli che erano abituati ai riti ordinati delle manifestazioni. Sembrava che nessuno volesse tornare a casa neanche per un attimo. I compagni sfilano

nei cordoni, senza cantare, con una disciplina non guidata. Ma il salto, la differenziazione, non è avvenuto di lato alla voglia di essere soggetti non astratti delle proprie lotte, dei propri movimenti. Ora i sassi, le bottiglie, le barricate, sono di tutti, non c'è niente di nascosto. La retorica commemorativa non percorre neppure per un attimo i gruppi delle Facoltà, delle scuole. L'attacco è contro tutti. Ucciso un compagno, non hanno militarizzato piccoli gruppi, ma hanno dato a tutti la possibilità di difendersi e di capire. L'attacco che si prepara è passato attraverso un dibattito politico ancora vacillante, una ricerca promossa dalle case dei compagni, dalle esperienze collettive che avevano condotto capillarmente al posto giusto le parole e la critica. La critica è viva e manifesta; la ricomposizione si manifesta cristallina nell'agitazione delle piazze e delle strade, e la violenza ci cresce dentro in un'opposizione radicale simultaneamente pedagogica e non separata. Questa sensazione l'avevo già avuta ai cortei del Collettivo Jacquerie, nel mio cordone di amici, compagni presenti ora allo stesso modo. La vendetta non può più essere fatta di epicità isolata, ma di assimilazione e di coscienza, di amore e di ricerca di amore. Mi viene da pensare ai funzionari di partito, ai giocolieri prezzolati delle parole, ai cadaveri ammuffiti degli insegnanti democratici. La linea di demarcazione è diventata un fossato: tra il cinismo della cultura ufficiale, che è l'arroganza del potere, e la forza della vita e delle contraddizioni reali che si agitano e si compongono su mille fronti. Nessuna strada contiene interamente il corteo: quasi per guardarci meglio giriamo per Piazza Maggiore che non basta a farci vedere tutte le facce nascoste dai fazzoletti e dai passamontagna. A fianco delle lapidi una cinquantina di militanti del P.C.I. che sembrano quasi veri. Ogni loro provocazione è inutile: non esistono nemmeno. Non piove più. Alla gente che forse spaventata, intontita, se ne sta ammucchiata sui marciapiedi si grida insieme: «Gente gente gente non state lì a guardare, abbiamo un compagno da vendicare». Quando la coda sta per entrare in via Ugo Bassi, da via Marconi si sentono le prime detonazioni, e in pochi secondi la strada si riempie di rumori, di richiami e il fumo si spande per centinaia di metri. I frammenti del corteo

diventano macchie nere che si spostano evitando i candelotti che girano sull'asfalto e i fuochi delle bottiglie lanciate. Ci gridano che la polizia si sta spostando dalla Questura, temiamo di essere imbottigliati. A dividerci c'è subito uno sbarramento di fiamme, ma non si può più stare lì, c'è tanto di quel fumo che non ci riconosciamo tra di noi. Io e Gigi che siamo restati indietro crediamo di non farcela a raggiungere gli altri che scappano verso via Indipendenza. Non vediamo assolutamente nulla, ci viene da vomitare, seguiamo la voce di Andrea che grida di aver trovato aria fresca. Lungo via Indipendenza ci ritroviamo in un centinaio con le idee poco chiare su dove andare. Il piccolo gruppo si stira come un elastico in una direzione o in un'altra. Ma tutti abbiamo la sensazione che in tutta la città, in tutto il centro, molti gruppi si muovono come il nostro. Non riusciamo a capire se abbiamo vinto, se abbiamo perso, ma nessuno si sente né vinto né vincitore: sappiamo che non è finita così. All'Università incrociamo un piccolo spezzone di corteo e aspettiamo insieme notizie dai compagni che girano in bicicletta. Molte notizie arrivano confuse, qualcuno si è provato a seguire le tracce degli scontri, una scia di vetri rotti, frammenti di bottiglie, alettoni di candelotti lacrimogeni. Alla stazione ci sono degli scontri, molti compagni sono chiusi dentro. Si riparte subito, quasi di corsa. Alla stazione ci sono molti autobus messi di traverso, un sacco di fumo, non si sa da che parte andare. Gruppi di carabinieri e poliziotti si spostano velocemente sotto i portici, verso le due uscite. Ma i colpi che subito si sentono non sono dei candelotti. Ci sparano addosso con i moschetti, in tutta la piazza esplodono numerose bottiglie, si libera un'uscita. Io e altri due o tre ci mettiamo a gridare di buttarsi per terra, di strisciare verso le colonne. Uno studente fuggito dalla stazione ha una crisi isterica: piange, tossisce, racconta che gli hanno sparato addosso con un mitra. Dal fumo, reso più spesso dai fari della stazione, si vede uscire piegato sulla bicicletta Maurizio che agitando un braccio grida a chissà chi di non sparare. Un altro compagno in bicicletta si butta per terra sotto le schegge di muro sollevate da un colpo di moschetto.

Torniamo all'Università solo quando siamo certi che tutti sono usciti dalla stazione. Si dice che qualcuno è stato arrestato. In piazza Verdi affluiscono folti gruppi di compagni: siamo tutti stremati, assenti, scossi. Molti girano per la piazza chiedendo di questo e di quello, io chiedo di Sara, di Gigi, di altri amici e solo quando li vedo riesco a sentirmi addosso la stanchezza, la fame, la sete. Tutti i bar sono chiusi, non c'è neanche una fontanella per l'acqua. Molti entrano al Cantunzein e dopo un po' girano pezzi di carne, frutta, bottiglie di vino. Penso che non è né giusto né sbagliato. Nessuno si diverte del saccheggio, si mangia e si beve per tenersi su. Non riesco a parlare con nessuno, non mi va di raccontare e di sentire racconti. Riprendo a pensare a Francesco, alla morte, all'assenza, a me. La notte mi ha riportato la paura, gli scricchiolii delle porte. Ogni sigaretta sa di lacrimogeno. SCENA 27 Trascinato sulla strada fra due barricate si trova stupito a suonare note più calde, più dolci. Il mogano lucido circondato dal fumo sporco dei lacrimogeni. E uno strano pianista deposti i sampietrini suona imprevedibile la sua serenata. Sul suo capo sassi e cose passano.

E una voce allarmata oltre la barricata più in là cento metri «un pianoforte, attenti può essere nocivo». Sorridono i compagni e la tensione cala l'aria si fa più dolce sul legno lucente si ammucchiano i pavé. Il pianoforte borghese accompagna gli scontri e si sorprende più giovane in mezzo alla strada guidato da un pianista senza il frac. Sabato. E' già buio. Piazza Verdi e via Zamboni sono coperte da macerie, dai bossoli bruciati dei lacrimogeni, dai cubetti di porfido. La polizia è andata via. Stanchezza. Rabbia. Gioia. Profumo di ribellione dopo anni di sottomissione. I volti dei compagni sorridono; hanno tutti gli occhi rossi per i lacrimogeni. Girano le bottiglie di buon vino tirate fuori dai bar. Champagne. Spinelli. Molotov... Un pianoforte suona Chopin. E' nel mezzo della strada, portato fuori da un bar. Subito a ridosso di una barricata. Ubriachi. Oggi nessuno comanda. Domani? Domani arriveranno con i carri armati. Ci schiacceranno di nuovo. Ma oggi, per qualche ora, questa terra è libera. Chopin. Vino. Rabbia e Gioia. SCENA 30

Roma, 12 marzo 1977 Un corteo grande, imponente, di più di cinquantamila giovani è stato distrutto, snaturato, distorto dai suoi obiettivi reali da gruppi di provocatori che hanno provocato incidenti a catena (il primo a piazza del Gesù ha rischiato di far sì che questo imponente corteo venisse travolto dalle cariche della polizia). Ma i fatti più gravi di questo sabato nero per Roma e per il movimento degli studenti sono avvenuti dalle 19.30 in poi. La città che aveva visto sfilare il corteo pacificamente, anche dopo gli incidenti di piazza del Gesù, è diventata una polveriera. Incidenti, scontri, sparatorie, assalti a commissariati, tentativi di assalto al giornale della D.C. «il Popolo», in un succedersi incalzante di fughe, assalti, contrassalti fra gruppi di manifestanti e la polizia. Il «salto qualitativo» è avvenuto a piazza del Popolo dove un gruppetto di autonomi ha dato alle fiamme i tavoli del bar Rosati. Il corteo ancora non era entrato tutto nella piazza, e la gran parte dei dimostranti è fuggita, verso Prati e verso il Flaminio, al grido di «via, via, la falsa autonomia», indirizzato contro i protagonisti degli episodi di violenza. E' stato a piazza del Popolo che sono partiti i colpi di pistola sistematici fra autonomi e polizia, è stato da questo episodio in poi che gli agenti hanno ricevuto l'ordine di sparare dalla sala operativa della Questura. La trappola in cui è stato condotto il corteo è montata a poco a poco, dopo gli incidenti di piazza del Gesù. Quando il grosso dei manifestanti è riuscito a ricomporsi sul lungotevere e marciare verso piazza del Popolo, gruppetti di autonomi hanno cominciato a mandare in pezzi cristalli delle auto parcheggiate, ogni cristallo che cadeva si riaccendeva la polemica: il grosso dei manifestanti gridava «scemi, scemi», o «via, via, la falsa autonomia». All'armeria che è in via Giulia all'altezza di ponte Sisto un gruppo di manifestanti è riuscito a entrare nel negozio forzando le saracinesche. I saccheggiatori sono usciti con canne da pesca, racchette, ma anche fucili da caccia. E' stato il resto del corteo che ha imposto a chi aveva preso i fucili di gettarli nel fiume. Alcuni, incalzati dal grido di «scemi, scemi», hanno distrutto le carabine spaccandole sul selciato. Poi l'arrivo in piazza del Popolo. In testa un gruppetto di Autonomia che, dopo l'ingresso di un paio di migliaia di dimostranti (altrettanti aspettavano l'arrivo del corteo), ha appiccato il fuoco ai tavolini del bar. La fiamme alte, il fumo denso, hanno spaventato la gente, chi era già nella

piazza è uscito in direzione di via Flaminia al grido «via, via, la falsa autonomia», poi le cariche della polizia. Erano passate da poco le 19.30 quando un gruppetto di un paio di centinaia di persone si è attestato sulle rampe di accesso a piazza del Popolo sparando, prima contro la caserma dei carabinieri che è nella piazza, poi contro la polizia. Gli agenti hanno risposto al fuoco. Da questo momento in poi gli agenti hanno ricevuto l'ordine di sparare. Il resto del corteo che non era riuscito a entrare in piazza del Popolo ha guadagnato il ponte Regina Margherita, verso via Cola di Rienzo, incalzato dalla polizia. Sul ponte è stata allestita una barricata con automobili che sono state incendiate, tra queste l'auto del G.R. 1 da cui erano stati fatti scendere i giornalisti. Sul ponte Regina Margherita si è sparato di nuovo. Un agente è rimasto ferito. Il corteo si è diviso in due tronconi. In via Maria Luisa di Savoia una volante della polizia è stata colpita da diversi proiettili di arma da fuoco. Anche gli agenti hanno risposto al fuoco. Il troncone di corteo ormai ridotto di moltissimo, che si dirigeva verso piazza Cavour ha assaltato il commissariato Borgo. Si è sparato contro il commissariato, gli agenti hanno risposto al fuoco. L'altro gruppo che aveva abbandonato il corteo per dirigersi verso il centro è arrivato a piazza delle Cinque Lune dove c'è la sede del quotidiano democristiano «il Popolo». Anche qui un assalto. Lanci di lacrimogeni, di bottiglie incendiarie. Il clima è diventato in breve assolutamente indescrivibile: in diversi punti della città si accendevano e si spegnevano gli scontri, mentre gruppi numerosissimi di giovani venuti da fuori Roma e di studenti romani giravano in preda al panico per la città, senza sapere dove andare, senza sapere che direzione prendere per sottrarsi alla morsa di fuoco e sparatorie che circondava ormai tutto il centro. In piazza Venezia, verso le 9 di sera, mentre ancora si succedevano gli scontri, un gruppo di quattrocento-cinquecento persone è sfilato con le mani in alto o congiunte sopra la testa 'arrendendosi' alla polizia, la paura delle sparatorie era ormai all'apice.

Contemporaneamente di nuovo in largo Argentina si accendevano altri scontri. Molotov, lacrimogeni, avevano ormai da ore lasciato il passo alle armi da fuoco. Di nuovo, come sabato scorso, l'armeria Conciani, in largo Cairoli, è stata assaltata e saccheggiata. Poco prima, in largo Argentina, un ragazzo, un dimostrante, era stato centrato al petto da un colpo di arma da fuoco, sparato, pare, dalla polizia. E', insieme a un agente in prognosi riservata per una pallottola che lo ha centrato alla scapola, il ferito più grave. Un gruppo ha di nuovo raggiunto il Ministero di Grazia e Giustizia, il lancio di bottiglie incendiarie ha centrato l'ingresso, le fiamme si sono sviluppate anche all'interno degli uffici. Mentre nelle strade cominciavano le retate, nel clima rovente di questa giornata si è inserito un altro episodio significativo: un gruppo di agenti nell'ingresso della Questura ha stretto da presso il capo dell'ufficio stampa, Giorgio Simi, minacciandolo e prendendolo a spintoni. «Siamo stanchi di questa vita», gridavano. Poco dopo il questore Migliorini ha dato ordine che i fermati non venissero più portati a San Vitale. «Qui li fanno secchi», avrebbe detto riferendosi allo stato d'animo dei poliziotti. I fermati sono stati così portati in altri commissariati. Mentre in questura si accendevano le discussioni, di nuovo una sparatoria, nei pressi di via dei Giubbonari. La violenza andava ormai scemando, i gruppetti che attaccavano battaglia erano sempre di meno. Del grande corteo del pomeriggio erano rimaste solo le poche centinaia di persone che non erano riuscite a scappare (moltissimi quelli venuti da fuori), continuavano a vagare sbandate, la gran parte di loro ha concluso la serata in Questura, incappando nelle retate. Alla stazione, quelli che erano riusciti ad arrivare, sono stati perquisiti dagli agenti. A notte la città era un campo di battaglia deserto, danni ingenti, macchine incendiate, bossoli di mitra, di pistola, lacrimogeni, qualche bottiglia inesplosa. I feriti molti di più di quelli ufficiali. A un primo bilancio c'è un giovane ferito al petto, poi l'agente colpito su ponte Margherita, poi tre agenti feriti davanti al Ministero di Grazia e Giustizia (colpiti di striscio, due, centrato da un sanpietrino un altro). I fermati per ora non sono noti: in Questura ne è arrivato uno soltanto. E' sfuggito per miracolo al linciaggio. ----------------------------

Dopo i titoli di testa. Su fondo nero: Claudio Lolli, "Incubo numero zero", da "Disoccupate le strade dai sogni", 1977. Scena 5: Anonimo, da "Sarà un risotto che vi seppellirà. Materiali di lotta dei Circoli proletari giovanili di Milano", Squilibri, Milano, 1977. Scena 7: Collettivo A/traverso, da "Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij: testi per una pratica di comunicazione sovversiva", a cura di Luciano Capelli e Stefano Saviotti, L'Erba voglio, Milano, 1976. Scena 9: Paolo Pozzi, "Insurrezione", 1985, inedito. Scena 12: Carlo Rivolta, "La cacciata di Lama dall'Università", «la Repubblica», Roma, 12 febbraio 1977. Scena 22: Autori molti compagni, da "Bologna marzo 1977... fatti nostri...", Bertani, Verona, 1977. Scena 27: Autori molti compagni, "Bologna marzo 1977... fatti nostri...", cit. Scena 30: Carlo Rivolta, "Battaglia a Roma", «la Repubblica», Roma, 13-14 marzo 1977.

*** INTRODUZIONE

* INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE Sergio Bianchi Questo libro fu pubblicato la prima volta in occasione del ventennale del movimento del '77. Il sottotitolo apparve ai più eccessivamente ottimista. Comprensibile, dato che era alquanto difficile immaginare quel che solo due anni dopo sarebbe esploso a Seattle. Eppure, per tutto il decennio Novanta si potevano registrare, sia a livello locale che internazionale, piccoli e grandi segnali della gestazione di quel movimento globale ora esplicitamente dispiegato. Non si vuole con ciò sostenere la tesi di un rapporto diretto tra il movimento del '77 e il movimento globale. Piuttosto che nelle pieghe del primo si celavano alcuni elementi "anticipatori" e "fondanti" del secondo. Ma è bene, prima di approfondire la questione, sottolineare le differenze. Il movimento del '77 visse la brevità e l'intensità di una meteora, e come tale illuminò per alcuni attimi il cupo cielo della teoria e della politica del «sistema dei partiti» italiano e della sua propaggine extraparlamentare. Poi, in contemporanea, esplose nell'impatto con la repressione statuale e implose nell'incapacità di darsi sbocchi di mediazione e di rappresentanza. Infatti, una parte cospicua e ricca del suo tessuto militante imboccò, più o meno consapevolmente, i tragici e suicidi destini della droga e delle armi. Inoltre, il '77 fu un movimento, nei suoi lineamenti politici, peculiarmente italiano e rappresentò la fase terminale del lungo e ininterrotto ciclo di lotte operaie, studentesche e sociali, iniziate nel nostro paese nei primi anni Sessanta. Repentinamente e definitivamente consumò il repertorio delle «grandi narrazioni», dell'immaginario storico della sinistra in tutte le sue varianti ideologiche, sia riformiste che rivoluzionarie. A fronte, l'attuale movimento globale appare quanto di più distante da tutto ciò. Intanto è, appunto, movimento dispiegato sul piano internazionale e

quindi con più legittima parentela con il movimento del '68 piuttosto che con quello del '77. Secondariamente non si nutre, nelle sue teorie e pratiche di massa, di alcuna reminiscenza ideologica novecentesca. Ma del '77 l'attuale movimento è debitore per una straordinaria manifestazione anticipatoria di quel soggetto sociale materialisticamente prodotto dalla trasformazione epocale del lavoro. E', questa, un'ottima ragione per i militanti (o attivisti che dir si voglia) del movimento globale di analizzare a fondo le vicende del '77 italiano, soprattutto le espressioni della sua componente teorica più rilevante di derivazione «operaista». Per tentare di comprendere "senso e dignità rivoluzionari" di quel movimento è indispensabile inquadrarne le movenze all'interno di due grandi scenari storicamente contingenti: quello dello scontro tra le classi e ciò che ne derivava in termini di rappresentanza politica istituzionale. Cioè, sui piani della sua nemicità immediata: strategia del capitale e strategia dello Stato incarnato nel «sistema dei partiti». Il primo piano si concretizzava nella risposta a un ciclo di lotte operaie "capitalisticamente incompatibili", perché incentrate sui principi del "rifiuto del lavoro" e del "salario come variabile indipendente dallo sviluppo capitalistico", lotte iniziate agli albori degli anni Sessanta e culminate nel biennio '68-69. Una risposta che si tradusse in una apertura della "crisi economica", cioè in un attacco frontale a quella composizione di classe operaia resa forte dalla sua concentrazione in grandi poli produttivi. Nella pratica: messa in opera di una ristrutturazione basata sulla scomposizione e il decentramento dell'organizzazione della produzione; compromissione politica con le istituzioni sindacali storiche con finalità di isolamento e successiva liquidazione delle avanguardie operaie insubordinate. Il secondo piano si concretizzava nell'ipotesi di dare una soluzione al problematico blocco della rappresentanza elettorale tra la componente conservatrice rappresentata dal partito della Democrazia cristiana e quella riformista rappresentata dal Partito comunista. Già dalla fine del 1973 la direzione del Partito comunista aveva avanzato a riguardo una proposta di «compromesso storico», ovvero un accordo tra le due principali rappresentanze elettorali per il governo del paese. Per il raggiungimento di tale obiettivo il Partito comunista si dichiarò disponibile, in cambio

dell'applicazione di una serie di «riforme strutturali», a dare prova di «responsabilità» rispetto alla principale problematica del paese costituita dalla crisi economica. Le elezioni amministrative del '75 e quelle politiche del '76 sancirono un'avanzata elettorale del Partito comunista che rendeva non rinviabile il problema della sua partecipazione al governo. Ma proprio in contemporanea vi fu l'insorgenza del movimento le cui lotte non dimostravano alcuna disponibilità alle «compatibilità» contenute nel progetto del compromesso storico. Il Partito comunista bloccato 'in mezzo al guado' per dare prova di affidabilità democratica decise così di contribuire alla liquidazione del movimento che occupava lo spazio politico alla sua sinistra (1). Nell'anno 1977 l'accumulo di un insieme di pratiche di lotte inedite, nelle fabbriche, nelle scuole, nei servizi, iniziate negli anni precedenti, esplose con manifestazioni di piazza caratterizzate dall'uso di massa della violenza a scopo sia difensivo che offensivo. Ancora oggi è questa la principale connotazione data dai pochi studiosi e storici di quel movimento che non di rado lo hanno definito come «anticamera del terrorismo di sinistra». E' un giudizio sbrigativo e di comodo. Se non altro perché la violenza dominava nei conflitti sociali di quel periodo e aveva avuto inizio ben prima, il 12 dicembre 1969 con la strage alla Banca dell'Agricoltura a Milano, che inaugurò la cosiddetta «strategia della tensione» messa in opera dai servizi deviati dello Stato in combutta con esponenti e gruppi neofascisti. Fino al 1975 la violenza nei conflitti politici ebbe connotazioni prioritariamente di destra, anche se piccoli aggregazioni di sinistra già dal 1970 cominciarono a teorizzare la necessità della lotta armata. «Negli anni dal 1969 al 1975 si verificano 4384 attentati e atti di violenza, l'83% dei quali di impronta neofascista: I morti nel corso di scontri in gran parte frutto della violenza nera furono 113 (ben 50 le vittime delle stragi neofasciste e 351 i feriti» (2). Dal 1976 il segno si rovesciò e da quell'anno al 1979 «gli attentati rivendicati dai gruppi terroristici di sinistra furono 1648; nello stesso periodo, solo a opera delle Brigate rosse e di Prima linea ci furono 119 agguati con 45 morti e 74 feriti. Altri 26 morti e 46 feriti furono opera di altri gruppi terroristici di sinistra» (3). E' in questo contesto che si situano le vicende del movimento del '77 che non potevano che esserne pesantemente condizionate. Come dire che in quel periodo nei conflitti politici "la violenza c'era" e non se ne poteva prescindere.

La critica del movimento alle organizzazioni della lotta armata fu esplicita ma variegata perché variegate erano le sue componenti. I settori dell'Autonomia operaia organizzata, divenuti egemoni nel movimento all'inizio del '77, contemplavano nelle loro teorizzazioni la necessità della lotta armata, anche se con forme, modalità e tempistiche differenziate da settore a settore e comunque in forte polemica con le progettualità avanzate dalle organizzazioni armate allora formalizzate. A movimento represso, sconfitto e disperso parti considerevoli dei loro militanti finirono con l'aderire alle organizzazioni preesistenti o col promuoverne altre. Dal «dopo Moro» (marzo-maggio 1978) decine e decine di sigle rivendicarono migliaia di azioni armate configurando un panorama di guerriglia diffusa, poi anch'essa definitivamente sconfitta. Ma un'altra ragione che smentisce una lettura di quel movimento come unicamente propenso a pratiche politiche incentrate sull'uso della violenza consiste nella considerazione del volume della sua produzione culturale e creativa. Case editrici e discografiche, centinaia di giornali autoprodotti e il fiorire di decine di radio libere anticiparono i tratti dell'odierna società incentrata sulla comunicazione. Oltre ai settori dell'Autonomia operaia organizzata il movimento contava la partecipazione attiva di un'ampia area di militanza di Lotta continua, una militanza allo sbando dopo che la sua dirigenza aveva deciso lo scioglimento dell'organizzazione alla metà del '76. Tale scelta fu motivata e gestita sulla base di un insanabile scontro interno all'organizzazione dovuto all'insorgenza della componente femminista e alla riflessione sul deludente esito elettorale del «cartello» di Democrazia proletaria al quale Lotta continua aveva aderito. Ma la crisi dell'organizzazione era anche dovuta ad altre contraddizioni che già da tempo erano emerse nel dibattito sull'«uso della forza». Alcuni importanti spezzoni di servizio d'ordine e di realtà di fabbrica, soprattutto milanesi, erano fuoriusciti dall'organizzazione contribuendo alla costruzione di una rete militante che in parte formalizzò, alla fine del '76, l'organizzazione armata Prima linea. Nonostante questo scenario Lotta continua conservava una notevole forza e autorevolezza, alimentata anche dalla pubblicazione del suo quotidiano che si accostava a quello del gruppo di Avanguardia operaia e a «il manifesto».

Ma la «crisi della militanza» riguardava anche tutti gli altri gruppi e partitini extraparlamentari sorti dopo il '68-69. «Questa critica radicale ai 'gruppi' (già avviata dal movimento femminista) metteva al centro della polemica le tematiche del 'personale politico', i rapporti tra i sessi, le formalizzazioni gerarchiche, il volontarismo alienante eccetera. Tali tematiche successivamente riprese dal 'movimento del proletariato giovanile', daranno il definitivo colpo di grazia alle già moribonde organizzazioni extraparlamentari» (4). In sostanza, negli anni immediatamente precedenti al '77 la soggettività militante attraversò un complesso e contraddittorio travaglio esistenziale oltre che politico. «...I tratti del "militante medio" che questa fase della lotta politica forma e costruisce [sono quelli] di un militante di partito con grandi doti esecutive, con un attivismo e una presenza a tutti i livelli richiesti, che cresce sì dentro la propria situazione di lotta ma che riceve gli schemi politici, per inquadrarla, dalle scuole di partito e dai miti della propria organizzazione. Dire che qui si è formato il militante alienato, espropriato della propria soggettività, è ingiusto. Le caratteristiche positive del periodo, il ritmo martellante della mobilitazione, l'attivismo a volte cieco ma alla lunga efficace, la pratica nuova e calcolata della piazza, la risposta puntuale alle provocazioni, finiscono per imporre e sedimentare un terreno di pratica politica che diventa struttura sociale, composizione di classe, anche se i segni della fragilità diverranno evidenti [in seguito]» (5). Il portato dell'intelligenza critica del femminismo più intransigente, la nuova, giovanissima leva militante proveniente dagli hinterland (studenti, precari, disoccupati, operai e impiegati delle piccole fabbriche) che costituirà l'esperienza dei «circoli del proletariato giovanile» fecero irruzione sulla scena «sparando sul quartiere generale» e imponendo così nel movimento una radicale innovazione culturale, politica, ma soprattutto esistenziale. I più lesti a comprendere questa repentina mutazione di scenario furono i teorici dell'Autonomia, tutti provenienti dalla feconda stagione teorica dell'«operaismo». La sua mai dismessa metodologia di analisi delle trasformazioni dei processi produttivi, e quindi delle trasformazioni delle soggettività del lavoro sfruttato, fondata sullo strumentario tecnico dell'«inchiesta operaia» e della «conricerca» permisero l'immediata

focalizzazione della composizione di classe materialisticamente determinata in quella specifica contingenza storica. Ovvero il passaggio della centralità politica, nello scontro tra le classi, dalla figura dell'«operaio massa» a quello dell'«operaio sociale». E questo per effetto della risposta capitalistica al ciclo di lotte operaie precedenti incentrata sulla strategia della scomposizione e ricomposizione produttiva dal modello della grande fabbrica a quello della fabbrica «diffusa» e «difforme». Fu per queste ragioni che le tematiche dell'Autonomia ebbero il sopravvento nel movimento, e non per una allora reiterata accusa, da parte dei ceti dirigenti degli agonizzanti gruppi extraparlamentari, di «prevaricazione violenta». A riguardo la prima di due testimonianze «d'epoca»: «Le frazioni dell'autonomia organizzata non avevano gestito a caso la prima fase delle lotte. La storia delle prevaricazioni nelle prime assemblee non ha senso politico. Se dovessimo fare un elenco di quante assemblee di fabbrica il sindacato ha convocato in questi anni egemonizzando il microfono dall'inizio alla fine, evitando di arrivare a una votazione, puntando sulla stanchezza eccetera, vedremmo che allo stesso tipo di risultati si è arrivati anche senza la chiave inglese in tasca. Nessuno si è sognato di dire che tali assemblee non erano valide; il problema quindi è di contenuti. L'iniziale egemonia delle forze dell'autonomia organizzata sul movimento derivava dall'aver compreso e anticipato comportamenti propri della nuova composizione di classe, di aver saputo "leggere nelle masse stesse parti del programma", di presentarsi cioè come espressione 'sociale' e non 'privata', tendenza di un movimento nascente e non scelta tutta interna alla logica autoriproduttiva del gruppo. La critica alle forme tradizionali della politica, alla 'forma partito' in particolare, ha sviluppato la sensibilità di compagne e compagni su questi aspetti, una prontezza quasi nevrotica di intuire quando le scelte e le azioni funzionano 'per tutti' e quando sono solo di tipo privatistico» (6). La seconda, più esplicita testimonianza: «E' per questo che gli autonomi vincono: non perché hanno la P.38 ma perché sono più intelligenti e colti, più storicamente radicati, nuovi veri di tutto il marciume socialdemocratico; non perché sono degli emarginati, gli autonomi vincono, ma perché sono la punta emergente della nuova composizione di classe operaia e proletaria, i rappresentanti - in prima persona - di tutto il lavoro sociale sfruttato, non, come il P.C.I., rappresentanti di aristocrazie operaie, di corporazioni impiegatizie, di mafie bottegaie. Gli autonomi sono la rappresentazione del comunismo del proletariato multinazionale. Per questo sono arroganti e violenti: perché rappresentano, sono, interpretano la verità della lotta di classe nel nostro secolo. Per questo possono

permettersi di lottare con asprezza crescente: perché sono invincibili, come sempre lo è la rappresentazione di una nuova base produttiva» (7). In sintesi: gli autonomi sono arroganti e violenti perché sono più intelligenti e colti. Un concetto autolegittimante divenuto per molti militanti convinzione le cui conseguenze pratiche la storia si è occupata di suggellare. E a proposito di inoppugnabile esito storico un autore di questo libro così sintetizza: «Forse non siamo buoni politici, infatti siamo stati sconfitti; ma siamo buoni scienziati: non è poco» (8). E ancora: «.. .avevamo torto a pensare che la maturazione politica del nuovo soggetto potesse darsi subito, e comunque con una potenza tale da contrastare, resistere e superare il contrattacco repressivo che le forze capitalistiche e i traditori del movimento operaio ufficiale avevano scatenato. Per dirla come si diceva allora: 'abbiamo sopravvalutato le nostre forze'. [...] Spesso abbiamo accentuato questo errore, facendoci più estremisti quanto più diventava sorda e decisa l'azione del potere contro di noi. Da un tal crescendo non poteva che risultare esaltata la violenza dello Stato. E così avvenne. Siamo stati sconfitti» (9). Al di là della sostanza e della forma di questa autocritica, che rischia di apparire come un «quante ne abbiamo prese... ma quante gliene abbiamo dette», è un dato di fatto che l'attuale situazione sociale globale e il movimento che le si contrappone conflittualmente hanno inverato praticamente molte di quelle analisi allora straordinariamente elaborate con grande intuito anticipatore.

* NOTE ALL'INTRODUZIONE DI S. BIANCHI 1. Per un approfondimento di queste problematiche rinvio al mio saggio "Il movimento del '77", in Nanni Balestrini, Primo Moroni, (a cura di Sergio Bianchi ), "L'Orda d'oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale", Feltrinelli, Milano 1997. 2. Mauro Galleni (a cura di), "Rapporto sul terrorismo", Rizzoli, Milano 1981. 3. Ibidem. 4. Nanni Balestrini, Primo Moroni, "L'Orda d'oro", cit. 5. Sergio Bologna, in Collettivo di 'Primo Maggio', "La tribù delle talpe", Feltrinelli, Milano 1978. 6. Ibidem. 7. Anonimo, "Autonomia operaia è il comunismo del proletariato multinazionale", in «Rosso», n. 17-18,1977, Milano. 8. Toni Negri, "Quell'intelligente moltitudine", in questo volume. 9. Ibidem.

* SETTANTASETTE Introduzione alla prima edizione (Primavera 1997) Lanfranco Caminiti - "Questo lavoro e il suo metodo". Venti anni sono generalmente reputati un periodo di tempo sufficiente per considerare gli avvenimenti con ragionevole distacco e - si presume - con maggiore acutezza di quella dettata dalla convulsione del momento. E - non è difficile sostenerlo ancora adesso - di convulsioni il movimento del Settantasette ne provocò parecchie, oltre che ne visse esso stesso. Ma, nonostante una disposizione alla 'serenità di giudizio', ci siamo resi conto - nel collazionare i materiali d'un tempo, nel sollecitare gli interventi d'adesso, nell'affrontare discussioni con gli interlocutori più diversi - di quali spinosità argomentative, di quali riserve, di quali rimozioni, di quali durezze sia ancora in grado di suscitare l'evocazione di quell'"annus terribilis". Credo che questo dato vada affrontato per quello che è: un'inquietudine della rielaborazione - come l'avvisare un dolore d'artrosi a memoria proprio in quell'arto che è stato amputato; un indice della "molteplicità" del movimento del Settantasette e - il che è la stessa cosa - una pluralità di punti di vista, anche opposti, nel merito. A testimoniare una difficoltà a dare una lettura univoca di quegli accadimenti. In un certo senso questa molteplicità e questa difficoltà sono diventate la nostra gabbia di interpretazione: si è scelto, cioè, di "mostrare", di

accostare, di far rivedere, di rievocare, di riascoltare le immagini, le parole, i documenti, i suoni, le carte, le canzoni, gli slogan, i fogli, le cronache, i moniti, le minacce, le analisi, i gesti, i comportamenti di amici, nemici e dei soliti curiosi, per come essi si producevano, l'un dopo l'altro, l'uno sull'altro, l'un contro l'altro, in anticipo, in tempo reale, in irrimediabile ritardo. E' quindi un'antologia, una "documentazione" il segno prevalente di questo nostro lavoro e, come tutte le antologie, anche questa sconta delle insufficienze: la difficoltà della selezione dei materiali e l'impossibilità a tenere dentro quanto più si vorrebbe. Ma il nostro lavoro non ha alcuna intenzione esaustiva, anzi tutt'al contrario spera d'essere solo un punto di partenza - non un metodo per gli altri - perché si approfondiscano e si moltiplichino, per luoghi e per temi, la storiografia e la valutazione politica di quegli anni. Per come ne siamo stati capaci abbiamo cercato di ricostruire il movimento del Settantasette come un "ambiente di soggetti", con le loro passioni, le loro profezie, le loro emozioni, le loro disperazioni, le loro interpretazioni, le loro suggestioni, le loro verità. Questo, nella convinzione che la curiosità politica o intellettuale d'un ventenne d'oggi rispetto quegli anni possa trarre maggiore alimento e comprensione dal rilievo dello "spirito del tempo" che, benché irripetibile, ha indiscutibilmente dello straordinario. Nello stesso tempo questo nostro "pregiudizio" di straordinarietà ha dovuto misurarsi con il rigore che qualsiasi lavoro simile richiede, anzitutto nel prendere le distanze dalle proprie emozioni. Non s'è trattato cioè di superare la propria "parzialità", anzi di approfondirla, di specificarla, di circoscriverla, di verificarla. Nella lettura di sé che il movimento dava, delle sue ragioni e delle sue irragionevolezze, nelle valutazioni di quanto stava accadendo - dentro la ristrutturazione del sistema produttivo e del sistema della politica - abbiamo ritrovato questo rigore. Anzi, siamo convinti che per molti versi le intuizioni teoriche che il movimento puntualizzava fossero "esuberanti" rispetto i suoi gesti, le sue esemplificazioni. Si vedrà - in particolare nella documentazione di interventi del tempo - come semmai ci sia stato squilibrio dal lato dell'"eccesso teorico" nell'anticipazione, nella previsione, nel presagio, con un dispiegamento di attrezzatura comportamentale che rispetto a questa capacità mostra fatica nello starle dietro. Sembra necessario sottolineare questo per due motivi: il primo, una sorta di cattiva fama immeritata che il movimento si porta dietro, fatta di fraintendimenti e di spicce icone che non rendono giustizia delle questioni e

delle complessità; il secondo, perché se discussione e riflessione ha da essere, che almeno accada attorno le tematiche reali che vivevano nel movimento. Attorno il nocciolo duro di convincimento dell'esuberanza teorica s'è snodata l'intenzione del lavoro. Si fosse limitato a un'esigenza, rievocativa data dall'occasione del ventennale ci saremmo potuti accontentare di mettere assieme degli "amarcord", magari di segno diverso per vivacizzare la cosa. Giocare cioè sul versante emotivo della memoria, una sorta di chiamata a condividere una perduta gioventù, una "lost generation", cui molto della sua scapestrataggine si può perdonare e condiscendere adesso. Adesso che tutto è così "lontano". Ma l'insopprimibile sensazione di "attualità dei suoi materiali" ci ha invece convinto a insistere in un atteggiamento scomodo e nient'affatto reticente. Forse quel movimento impressionò per l'arroganza e la supponenza dei suoi gesti, ma è certo che può ancora impressionare per la puntualità della sua intelligenza collettiva. Questo lavoro vuole esserne una verifica, e sta qui la sua presunta validità: la documentazione dell'"utensileria teorica" che il movimento utilizzò in quegli anni mostra - a nostro avviso - come fosse questa il vero "gesto imperdonabile". Non si troverà così nessun compiacimento alla questione della "violenza" e delle "armi" e nessuna dabbenaggine dietrologica. Senza ipocrisie, si può constatare con semplicità come l'uso delle armi e della violenza fosse "domestico" presso il movimento e nello stesso tempo come non ne fosse il carattere "preminente", anzi provocasse continue prevaricazioni, continue accuse, continue riunificazioni. E' certo un dato enorme, ma è enorme proprio per come sembrasse normale. E' enorme per la sua "eccezionale normalità". L'uso delle armi fu un carattere distintivo del movimento ma non la sua discriminante. Di certo, non è l'unica cosa che può distinguere il Settantasette nella storia delle rivolte, delle ribellioni, delle insurrezioni, delle rivoluzioni, delle opposizioni. A discuterne adesso a noi sembra la cosa "meno" interessante. Il movimento giocò spesso la forza come modo per portare a casa una conquista. Non "la" conquista strategica, ma quella specifica, per quello specifico problema, che so, liberare un quartiere dalle scorribande fasciste o far respirare una fabbrica dove qualche capetto faceva troppo lo stronzo o riprendersi la piazza negata o rallentare e sabotare i ritmi della produzione. Sul tempo ravvicinato la forza vinceva, ma la violenza del movimento non era un dato strategico. Non aveva scelto un istinto barbaro e cieco, ma esprimeva nel periodo breve, nell'immediato una tecnica concreta. Va invece ancora rilevato come esistesse, proprio

sull'uso delle armi, una differenza profonda con le organizzazioni armate clandestine che di questo ne avevano fatto la "loro" discriminante, e che agiscono lungo tutto il Settantasette. Ma, per una volta, abbiamo scelto di guardare le cose dal loro punto di vista, collazionando nel libro alcuni interventi. Dribblare il lato appiccicoso dell'affezione ha significato districarci contemporaneamente dal lato deformante della dichiarazione postuma. Quell'effetto un po' volgare e buffo per cui ai funerali, dopo l'orazione incensante, comincia fra gli amici astanti un fitto cicaleccio in cui si può dir male - amichevolmente, s'intende - del defunto, ma giusto come sfondo discorsivo per poter invece parlare tanto del sé di adesso. Nei "commentari", nelle interviste, nei brevi saggi che introducono o affiancano i documenti di quegli anni, s'è provato a evitare ogni indulgenza alla speculazione, la lagna verbosa che ci spiega cosa si sarebbe dovuto fare e non s'è fatto, cosa si sarebbe potuto dire e non s'è detto. Che "qualcosa sia andato storto", lo sappiamo un po' tutti. Ma prima di imbandire una discussione sul come sarebbero dovute andare le cose, bisogna rifocalizzare l'occhio sul come andarono effettivamente. In questo senso gioca a favore la "cesura" forte che seguì il movimento, quella sorta di offuscamento, annebbiamento, calunniamento collettivi. Quella cesura e quella censura possono aiutarci adesso a rimettere le cose al loro posto. Come sempre, quando le cose girano troppo vorticosamente, basta stare fermi per ritrovarsi in movimento. Gli affanni esplicativi finiscono con il non stringere nulla. Prima di tutto vediamo di capire di cosa stiamo parlando. Questo nostro lavoro è "il cosa". Ma, sia chiaro, nessuna tentazione ripropositiva: noi per primi ci siamo trovati piuttosto in una "condizione di straniamento", quella curiosa sensazione che ti prende nel guardare una fotografia ingiallita e nel non riconoscerti più, pur sentendo che quei tratti ti sono così familiari. Un disonesto intento di riproposizione, come contornare di un'aura magica quel "cosa", finirebbe con il contraddire - operando da imbalsamatore - la presunzione di validità di questo lavoro: la vivacità, l'attualità delle invenzioni e delle sperimentazioni del movimento del Settantasette non stanno nella loro possibile applicazione astratta fuori dal tempo. Ma nell'uso fertile, dinamico, conficcato nel "qui e ora" di quei punti di vista e di quelle scelte di campo. La loro contemporaneità sta nel "reinventarli", nel compiere - se ci si passa l'espressione - "un passo indietro per farne due avanti".

- "Perché, rivoluzione del Settantasette?" Il movimento del Settantasette non fu un'insorgenza improvvisa. Le sue radici affondano nella nascita delle prime Assemblee autonome di grandi fabbriche a Marghera, alla Pirelli, all'Alfa Romeo tra il '73 e il '74, spesso in distanza critica dai gruppi della sinistra rivoluzionaria; nel contemporaneo costituirsi indipendente di Comitati politici all'interno di strutture dei servizi pubblici dei telefoni, dell'elettricità, della sanità; nel diffondersi tra il '74 e il '76 di Circoli giovanili - con una composizione sociale in prevalente provenienza dalle piccole fabbriche e dal lavoro nero diffuso - che si attestano nei quartieri popolari su tutto il territorio nazionale riconquistando e riutilizzando spazi autogestiti per la musica, per la lotta alla diffusione della droga, che allora cominciò a circolare in maniera massiccia e 'cattiva'; nell'autorganizzazione di movimenti di disoccupati contro la gestione del mercato del lavoro e degli uffici di collocamento; nelle occupazioni di case e, più in generale, in una pratica di autoriduzione di bollette di 'prima necessità' per servizi, quali la luce, il telefono, l'acqua, il gas, e di 'spese voluttuarie', quali i concerti, il cinema e il vagabondare per treni, autostrade. Il movimento del Settantasette non ha quindi proprio nulla di strano: esso viene da un lungo percorso di soggettività "operaia" a petto della ristrutturazione dei processi di produzione iniziata attorno la crisi petrolifera del '73, e da un suo tentativo di rovesciare il segno della crisi a proprio uso. Il movimento del Settantasette arriva cioè da un momento ancora "alto" delle lotte operaie, fatto di una coscienza acuta che la ristrutturazione era una lotta "politica" ingaggiata dal capitale contro l'autonomia di classe, di una visibilità dello scontro in fabbrica e sul territorio, e di una diffusività di comportamenti conflittuali minuti, quotidiani. La sanzione della sconfitta di classe arriverà dopo, nel '79, nell'80, davanti ai cancelli della Fiat, ma quando i giochi sono ormai bell'e fatti. Per tutta la parabola crescente del movimento ci sarà piuttosto un controcanto tra movimenti sociali e classe, spesso un intreccio, talvolta una vera e propria "tattica di partito". Non è riscontrabile alcun episodio, neanche uno piccolo piccolo, in cui si verifichi una qualche forma di contrapposizione "diretta" tra classe operaia e movimento. Ci fu diffidenza, indifferenza, ma è anche possibile sottolineare l'evidenza opposta, un uso reciproco della capacità di interdizione e opposizione al capitale e allo

Stato, delle momentanee paralisi di iniziativa, del panico reattivo, della mancanza di lucidità, della paura. Forse è ingeneroso, ma non c'è nulla di male a ricordare la "grande paura" che attraversò la borghesia capitalistica italiana in quell'arco di tempo che va dal '73 al '77, di fronte a un comportamento operaio che era divenuto ingovernabile al profitto e alla disciplina di fabbrica, di fronte alle Università che si erano trasformate in luoghi di contestazione permanente, di fronte alle piazze, ai quartieri, alle strade, alle vetrine spesso in balìa delle decisioni di una qualche assemblea. Qualsiasi fosse il "principio d'autorità" esso era irrimediabilmente scosso e irriso. Il movimento del Settantasette viene dunque da un lungo percorso di soggettività operaia alta e da una disseminazione territoriale in cui il malessere sociale - vero o presunto - si trasformava in conflitto, surrogato da una capillare struttura organizzata di Circoli, Centri, Comitati. Volerlo continuare a leggere come un momento di "rivolta giovanile" - cioè generazionale - è perlomeno estroso e riduttivo, così come definirlo "studentesco". Non surrogò mai la presenza operaia, né si pensò come suo soggetto sostituto, per la semplice ragione che gli operai stavano lì, in piedi, in quel momento e facevano ballare le fabbriche. Non si trattava di evocarlo l'odio di classe, di presagirlo, o di farne metafora, come altre volte era accaduto, come altre volte è accaduto. Era presente, ben palpabile e schiumante. In quel Settantasette precipitarono dunque un soggetto operaio in lotta e l'onda lunga di movimenti sociali, quello delle piccole fabbriche, quello dei disoccupati, quello dei quartieri, quello dei giovani, quello delle Università, quello del lavoro precario, quello degli studenti medi. Quello delle battaglie per i diritti civili. Quello soprattutto delle donne. Ciascuno in una difesa precipua della propria diversità, in una lettura delle cose che vedeva se stesso come condensato delle contraddizioni, tra frizioni e lacerazioni anche durissime. Perché stupirsene, non è forse proprio questo un segno forte della maturità dei movimenti sociali - e anche, spesso, del loro smarrimento - di questo scorcio di secolo, in cui si scrollano di dosso le "opzioni ideologiche"? Più che come un "pacchetto di mischia" l'insorgere dei conflitti si manifestava come un continuo "passaggio di testimone", in una staffetta veloce nei cambi.

Intreccio di soggettività sociali con radici ben piantate negli anni precedenti il Settantasette è comunque un evento distinguibile, effettivamente un'"insorgenza". Dall'inizio dell'anno gli eventi avranno un ritmo sempre più incalzante, le controffensive padronali saranno più serrate, il movimento vivrà momenti difficili di separazione interna ed esaltanti di straordinaria mobilitazione, l'ironia e la durezza dovranno fare i conti con i candelotti, le autoblindo, i colpi di carabina, un accerchiamento e un dispiegamento di forza infernali. Ma da gennaio a dicembre il movimento ancora si tiene, gestisce una sua politica, invade le piazze. E cioè rintracciabile una "cronologia politica" che non sia solo un elenco di date. Con la fine dell'anno le componenti interne del movimento, le sue soggettività molteplici, perdono la capacità di considerarsi come un insieme: continueranno i loro percorsi o si frantumeranno. Di certo, la "complessità" del movimento perde la sua invenzione continua d'unità. Dopo, sono sicuramente rintracciabili - ed è senza dubbio interessante storicamente - i cammini diversi dei differenti segmenti, ma ciò semplicemente non fa più parte di questo lavoro. Dopo il convegno di Bologna a settembre, e infine palesemente nel dicembre del Settantasette, il movimento perde la sua forza d'espansione e di mobilitazione. Continuerà a esistere, soprattutto nelle sue parti organizzate, e si troverà ad affrontare, con grande affanno, il sequestro Moro prima e gli arresti del 7 aprile '79 dopo. Anche nei comportamenti spontanei è possibile rintracciare il senso del Settantasette ancora dentro le lotte dei giovani apprendisti alla Fiat nel '79 o nelle lotte dopo il terremoto dell'80 a Napoli, attorno le questioni del nucleare o le installazioni dei missili Nato. Ma, pur conservandone elementi di eredità, è già un'altra cosa, e rinvia ad altre considerazioni. Circoscrivere con un atto di forza il periodo di osservazione, ci permette alcune considerazioni importanti dal punto di vista delle categorie. Con "movimento del Settantasette" si intendono effettivamente due cose: l'esposizione di un insieme di soggetti sociali che nella dinamica del conflitto trovano un'"idea pubblica" che li rappresenta unitariamente, e l'individuazione di un periodo storico preciso in cui questo movimento riesce ad agire come soggetto politico. Benché le due cose si sovrappongano credo sia giusto insistere piuttosto per la distinzione: la rappresentazione del movimento del Settantasette riconduce spesso a unità semplice quanto invece era dinamica complessa di diversi soggetti con diverse identità. Questo sia detto non per spirito classificatorio, ma perché è proprio una

delle "chiavi interpretative" più importanti. L'attenzione alla composizione sociale del territorio, la rilevazione dei meccanismi produttivi, la costruzione dal basso di un'autonomia sociale che seguisse passo passo e ribaltasse le forme specifiche di comando capitalista, tutto questo configura "precipuità locali" del movimento. A Bologna come a Roma a Milano come a Napoli in Calabria come a Padova, ma soprattutto nelle miriadi di situazioni provinciali, il movimento seguiva condizioni particolari e si dava identità particolari. Lo "spazio pubblico" in cui confluiscono i soggetti in conflitto costituisce una cornice elastica e dura nello stesso tempo; "dura" nel delineare una demarcazione netta tra un qui e un là, tra un noi e un loro, tra movimento e Stato; "elastica" rispetto la frastagliata articolazione di posizioni dentro il movimento, in un continuo intrecciarsi e districarsi. Controprova semplice ne è la possibilità vera di seguire la formazione, la crescita, l'alternanza fra dissoluzione e ricomposizione di una qualsiasi fetta del movimento - gli indiani metropolitani, i situazionisti, le femministe, l'Autonomia operaia, i Circoli, i creativi, i sudisti, quant'altro - proprio come entità distinta. Con i suoi fogli, le sue idee, i suoi incontri, le sue letture, il suo linguaggio, le sue "armi". Spesso in polemica con i fogli, gli incontri, le letture, i linguaggi, le armi dei propri compagni di strada. Ecco, questo è un dato: il movimento del Settantasette è costituito fondamentalmente da soggetti sociali che si vivono l'un l'altro come "compagni di strada". Se un'intelligenza di ricomposizione va esercitata, essa deve muoversi non dal lato della rappresentazione, dell'immagine, del gesto, ma da quello dei fenomeni strutturali della "produzione" e della "politica". E' quello che proveremo a fare. Nello stesso tempo separare concettualmente, almeno per un momento, movimento (come complessità di soggetti) e Settantasette (come unitarietà di dinamiche ed eventi conflittuali) ci restituisce quell'anno per quello che effettivamente fu: una "rivoluzione". Come altrimenti definireste voi quel culmine d'un conflitto, quelle immagini d'uno scontro terribile? E quelle, che non sono registrate in nessuna cassetta, dei reparti di fabbrica spazzati dai cortei che portavano dentro ed eleggevano come loro delegati - nel mentre dileggiavano i bonzi sindacali - operai che erano stati trovati ad esercitarsi con le armi e licenziati attraverso una sentenza di Tribunale? Come definireste altrimenti la fuga indecorosa - a colmare le loro assenze professionali - di centinaia di professori universitari la cui unica autorità si esercitava ormai attraverso le autoblindo accanto la cattedra? E i quartieri con gli spacciatori spazzati via

dalle ronde giovanili, mentre facevano una puntatina tra un sottoscala e un capannone dove si faceva lavoro nero e sottopagato? E quelle piazze invase da centinaia di migliaia di persone, in un alternarsi continuo di rabbia, dolore, gioia, una "forza dei sentimenti" che non è forse mai una condizione della vittoria operaia ma è certamente una ragione della rivolta? Trovo che sia giusto rendere l'onore a quel movimento quanto meno nel nominarlo per quello che effettivamente rappresentò: una rivoluzione. Il resto è davvero un dettaglio. Non un movimento dunque, ma "movimenti"; non un movimento, ancora, ma una "rivoluzione". Ma se ci rendiamo conto di avere fatto un'affermazione forte e discutibile sul piano concettuale, è proprio nella rottura dei paradigmi concettuali della rivoluzione che il Settantasette fu rivoluzionario. Fu cioè "rivoluzionario riguardo alla rivoluzione". Sostanzialmente lo fu riguardo all'idea di "tempo" e a quella frattura del tempo che è considerata la rivoluzione. La "strategia del tempo" che i movimenti del Settantasette applicarono si fondò sostanzialmente su una capacità di sottrazione, di esclusione, di estinzione, di reinvenzione degli orologi che scandiscono la "modernità": il lavoro e lo Stato. Qualcosa dunque che stava fra i colpi di fucile della Comune di Parigi contro i campanili e gli orologi molli di Dalì. Qualcosa che stava oltre il socialismo. Sottrarre il tempo al lavoro di merda e allo Stato del cazzo era un po' come rubare il fuoco alla rivoluzione. Almeno alle rivoluzioni del Novecento, quelle del "nostro" tempo. Capricciosamente ambiziosi (perché, è vero, tutti i movimenti sono sempre bambini), smodatamente saggi (perché eravamo cresciuti vecchi tra gli orrori dei socialismi) bisognava impedire che la rivoluzione cominciasse a scandire il suo tempo. Il suo tempo doveva essere "ora", il suo tempo doveva essere "sempre", il suo tempo doveva essere "dopo", il suo tempo doveva essere "mai". L'irruzione del tempo sottratto al lavoro e allo Stato nella vita di ognuno e nella vita collettiva avrebbe scardinato le dimensioni temporali della rivoluzione. Della rivoluzione politica e della rivoluzione economica. Volevamo infinitamente di più, a partire da infinitamente di meno, la "vita quotidiana". La strategia del tempo dei movimenti si basò su una totale assenza dell'idea di tempo. Non bastava mai il tempo per fare tutto quello che andava fatto, si perdeva un'enormità di tempo per dire tutto quello che andava detto. O al contrario. E c'era chi il tempo lo voleva tutto adesso e chi pensava fosse giusto distillarlo; ma gli uni e gli altri non riuscivano a mettersi d'accordo

sugli "appuntamenti comuni", ora che il tempo del movimento si scandiva da sé. Per questo, è possibile ascoltare il ricordo di chi mantiene l'impressione di un tempo che bruciava velocemente e di chi si sentiva come sospinto dagli eventi, spesso in un'invenzione continua di scadenze che erano come attimi perpetuamente identici-a-sé. C'era sempre pochissimo tempo e c'era sempre bisogno di prendere tempo. L'idea di rivoluzione che i movimenti praticarono fu dunque quella di "accrescere il tempo", non più, spezzarlo, romperlo ma "produrne dell'altro, libero". L'individuazione del tempo del Settantasette è la questione che mette in crisi le categorie temporali di insurrezione e rivolta. Ed è la questione che rende entrambe vere le affermazioni di chi - pensando a quell'anno - considera che "mancò il tempo" o di chi pensa che "ce ne fu troppo". Inventare il tempo, rivoluzionare la rivoluzione, significava prendere le distanze dall'ombra lunga della rivoluzione, il riformismo. Svuotare del tempo la rivoluzione era svuotare di senso contemporaneamente il riformismo, le due concezioni del tempo della sinistra. Nonostante siano stati branditi - all'interno dei movimenti del Settantasette - come anatemi pieni di significato, i "rivoluzionari fuori tempo" e i "riformisti fuori luogo" erano entrambi concetti insignificanti rispetto l'incredibile trasformazione del tempo che il movimento praticava. Il movimento del Settantasette si trovò a essere "oltre la sinistra", oltre la rivoluzione e il riformismo, per via della trasformazione del tempo, ovvero dell'"idea di lavoro" e dell'"idea di potere". Uso operaio della crisi in termini di salario e di potere a petto d'una ristrutturazione profonda dei processi di produzione, agita per ricostruire profitto e soprattutto comando capitalisti; conformarsi tendenziale del lavoro intellettuale come carattere determinante della produzione -via l'introduzione di un'automazione fortemente flessibile verso il gesto operaio e un'incorporazione di quantità di scienza autoritariamente governate; esposizione del carattere "ideologico" della produzione, con costituzione di modelli, stili di vita, tipologie umane, definizione dei rapporti sociali e familiari a rappresentare - soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione - il vero patto sociale, la vera costituzione politica; attestarsi dei movimenti sociali non solo sul terreno della difesa d'un livello materiale di vita ma su quello della ricerca di "forme alternative di vita"; messa in mora del sistema dei partiti e della separatezza tra rappresentazione politica e conflitti sociali, con l'invenzione di uno "spazio pubblico della crisi", dove i criteri di sovranità, rappresentanza, delega, democrazia, maggioranza e minoranza

venivano sottoposti a tensione; critica serrata e oltrepassamento della "conservazione" della rivoluzione in un frullatore di tradizione, eresia e futuribilità. Mi pare ce ne sia abbastanza per considerare il Settantasette un "crinale" temporale significativo, un "laboratorio politico" in cui si mescolarono spinte e controspinte, tendenze e controtendenze su uno stretto filo di rasoio dove non soltanto si affrontarono operai e capitale, destra e sinistra, ma si fecero i conti all'interno stesso della sinistra, segnando irreversibilmente gli anni che seguirono. Dopo il Settantasette non solo "niente" è stato più come prima, ma "nessuno che abbia avuto un briciolo di buon senso è stato più come prima". - "Il Settantasette di fronte all'idea di lavoro". C'è un punto cruciale nell'antagonismo dei movimenti della seconda metà degli anni Settanta che dirime la tradizione della sinistra, ed è la "critica politica del lavoro". Dentro di essa si condensa la concezione che l'economia non è area neutrale di individui e delle loro dinamiche di riproduzione, ma campo di lotte tra soggettività antagoniste, classe e capitale. Dentro di essa precipita il rifiuto d'essere forza-lavoro a partire dalla coscienza della propria forza autonoma. Dentro di essa si misura la distanza dalla tradizione lavorista - identità di soggetto politico e classe attraverso il lavoro come orgoglio - e il rovesciamento del ricatto, tutto ideologico, dell'assenza di lavoro, del non-lavoro da segno di penuria, di rarità, di scarsezza, di emarginazione in una richiesta forte di "piena cittadinanza", anzi in un'opzione generale sulla ricchezza. Dentro di essa c'è l'idea del non morire di fabbrica; del sottrarsi al lavoro come destino e condanna; dei lavori utili; del rovesciamento della mortificazione della produzione in espansione potente; dell'insofferenza al capitale ormai solo costo eccessivo; del tempo di vita sottratto all'alienazione del lavoro salariato e delle relazioni sociali a esso sottoposte, per un tempo di lotte, un tempo liberato come forza produttiva. La critica politica del lavoro sciabola dunque la teoria della crisi capitalista, girandone il suo senso catastrofista - ideologia dei processi tecnici di ristrutturazione - condensandosi in un "rifiuto alla collaborazione politica". Contemporaneamente è coscienza di un'eccedenza di tempo, di risorse, di forza creativa ormai direttamente socializzate e non più soltanto concentrate nella fabbrica: il lavoro scientifico, il lavoro

intellettuale, il lavoro non-operaio socializzavano una conoscenza enorme, un fare cooperativo esuberante "quella" produzione. Il Settantasette riflette quindi dal punto di vista del lavoro un'"indipendenza di giudizio" e una "nuova composizione di classe" in cui processi produttivi e processi cognitivi si intersecano. Di fronte a questo la predica lavorista dell'austerità e dei sacrifici, per quanto nobile potesse pensarsi, era palesemente uno "scarto di linguaggio", un'incomprensione della realtà dei meccanismi della crisi, una sottostima della forza e della maturità operaie e dei nuovi soggetti sociali, un errore politico gravissimo persino nel determinare un livello di resistenza. Intanto, nel considerare la crisi come transeunte e non piuttosto il modello di riaccumulazione del capitale e di subordinazione della società. La pervicacia con cui si perseguì, nel sindacato e nel Partito comunista, quell'idea di lavoro non fu, purtroppo, insignificante rispetto alla rigidità di strategia frontale che impose allo scontro e alla sconfitta operaia che ne conseguì (e si trascinò visibile fino al referendum sulla scala mobile). La fluidità dei processi si incanalava progressivamente nella rigidità della gestione capitalista della crisi, di fronte alla quale il movimento delle lotte mette in campo invece un'operazione di "sganciamento" (che va dalla durezza contro i compromessi sindacali fino all'esodo silenzioso, alla migrazione dalle fabbriche) e un'ipotesi di prospettiva, di rilancio (che va dalla resistenza ai carichi di lavoro, ai decentramenti, fino al moltiplicarsi di iniziative economiche in proprio). La teoria dei bisogni - che non fu un'idea pezzente, almeno nella sua accezione antinaturalistica, ancorché discutibile - si contrapponeva all'austerità e alla crisi in un'aura di "promozione collettiva". Fino a che il movimento tiene, esso supporta le forme diverse che assume (e per la conformazione produttiva dei territori e per la consistenza della soggettività antagonista) la critica del lavoro: non è assolutamente singolare che un gruppo di operai investano le loro liquidazioni in un punto d'incontro che diventa una sede di movimento da dove partono i cortei dell'indomani. L'onda delle lotte, la "forza" della politica supplisce la prima "povertà" dell'alternativa, e la vivifica ancora come possibilità, potenzialità. Dopo, si verificherà una divaricazione crescente tra progetti e potenza sociale, in una deriva di miserabilità economiche e percorsi individuali. Nel Settantasette la critica politica del lavoro viene agita dai differenti movimenti a partire dall'uso operaio che ne era stato fatto nella grande fabbrica. Così, di fronte allo smisurato allargamento dell'area del lavoro

decentrato, che improvvisamente convogliava verso il centro della produzione quanto fino a quel momento era rimasto ai margini, oscuro, nero; di fronte all'introduzione massiccia di forza produttiva come scienza incorporata rilevabile nell'aumento della forza-lavoro non-operaia, che trasformava il lavoratore da erogatore di fatica in sorvegliante e regolatore tecnico; di fronte all'incremento di finalizzazione alla produzione di plusvalore dei processi di riproduzione sociale e al disboscamento delle garanzie 'improduttive' che le lotte operaie avevano sedimentato nello Stato sociale, il crinale dell'iniziativa si presentò sempre tra un uso possibile in termini di crescita dell'autonomia oppure in un restringimento secco delle conquiste e in una ripresa dell'iniziativa capitalistica. Il movimento del valore d'uso, che si intendeva come complesso di relazioni produttive e umane possibili, si contrapponeva al valore di scambio come cardine della società. Il Settantasette è l'"agire concreto della critica del lavoro", movimento in cui lavoro operaio e lavoro non-operaio, lavoro e non-lavoro si ritrovano "insieme", raccordo vivo fra salario e potere, figure produttive e forza di liberazione. L'autonomia possibile si incardinava sulla critica del lavoro come chiave di una nuova idea di produzione e distribuzione della ricchezza, quindi come articolo primo di una nuova costituzione sociale. - "Il Settantasette di fronte all'idea di potere". La gestione capitalista della crisi, l'attacco al cuore della soggettività operaia e la tendenza a marginalizzare la classe, imputava la politica dello Stato. I processi della socializzazione della produzione -decentramento e dislocazione, incorporazione di lavoro intellettuale, valorizzazione dello scambio politico nella società - non avrebbero retto sulle fragili spalle del libero mercato. Lo Stato doveva rendere sempre più visibile il suo ruolo e salvare, con la sua politica, il capitale e se stesso. Il capitale chiedeva l'intervento massiccio dello Stato a proteggere la sua riproduzione e ad abbandonare il sociale. La politica dello Stato perdeva i suoi connotati di mediazione dei conflitti, degli interessi, attestandosi direttamente dal lato dei profitti. Da un lato quindi le forze di classe che tentano di imporsi come soggetto di socializzazione, intrecciando il proprio conflitto di fabbrica con quello di altri strati, di altri soggetti, soggetti di non-lavoro, soggetti di nuove forme produttive e di relazione; dall'altro il fallimento d'ogni governo

razionale dello sviluppo di fronte alla crescita selvaggia del conflitto. La società si presenta scomposta, frastagliata, luogo di esplosione delle contraddizioni, dove ogni criterio di autorità è in forte dissoluzione. La politica dello Stato, per surrogare la gestione della crisi del capitale, deve anzitutto bloccare i processi di autonomizzazione del sociale, deve subordinare a sé la società, deve ricondurre a sé la dislocazione dei poteri che si sono diffusi attraverso le lotte del ciclo precedente. Ampia dislocazione dei poteri, in un processo di diffusione, che configuri uno spazio pubblico basato sull'"autogestione", da una parte; semplificazione della società, non nel senso di una riduzione della complessità, bensì della riconduzione al valore d'ogni suo comparto e del progressivo svuotamento di "forza" d'ogni potere locale, dall'altra. E' certamente qualcosa di più di quello che venne definito «processo di germanizzazione» o paventato come grande pericolo di repressione, eppure l'un concetto e l'altro almeno allusero, come seppero, quello che stava effettivamente accadendo. E quello che stava effettivamente accadendo era la riconquista degli spazi di potere di veto, di potere di resistenza - quando non di una vera e propria produzione di potere alternativo - che l'onda lunga delle lotte del biennio '68-69 e degli anni Settanta aveva sedimentato, dai Consigli di fabbrica ai Comitati di quartiere, dai Collettivi universitari alle Assemblee di zona, ai movimenti in piazza. La semplificazione della politica che lo Stato mette in opera passa attraverso la "sospensione della politica". Come altro potrebbe definirsi quel curioso apparato concettuale e quel temibile strumento del potere che fu il compromesso storico, se non come una sospensione del tempo della politica, dove la dialettica dei poteri, la rappresentazione dei conflitti perdono la possibilità di configurarsi in concretezze normative, in rimescolamenti istituzionali, in "visibilità"? Grande operazione di clandestinizzazione del potere, di sottrazione della politica allo sguardo pubblico, il compromesso storico fu una risposta di semplificazione e di sospensione di fronte alla complessità politica dei movimenti del Settantasette. Non è che non ci provò, è che la procrastinò. E la politica dello Stato si srotolò in tutta la sua automatica macchineria: blindati e nugoli di carabinieri. E se la politica non governa la macchina, se si sospende, il suo comportamento minuto ripete i gesti automatici. In tutti i posti di lavoro, seppur minoritari, i capetti sindacali di sinistra si distinsero nell'azione di pompieraggio, di divisione quando non proprio di delazione.

Il Settantasette è dunque un'"opzione di potere", anzi di poteri. In questo si differenzia profondamente dal Sessantotto che, invece, aveva sviluppato la sua critica antiautoritaria come illusione del non-potere, dell'estinzione dei poteri. No, il Settantasette è conscio della necessità di "costruire dei poteri forti"; ciascun movimento - spesso anche l'un verso l'altro - si inchioda sul bisogno di potere, a cominciare da quello che, più di tutti, affianca questa progressione con una incessante e inquietissima rivisitazione interna, il movimento femminista. Ma non è un segno della perdita dell'innocenza, quella che si cita a sproposito delle bombe fasciste, delle porcherie di Stato e dei singulti golpisti. E' la dimensione soda, non ideologica, tutta politica che i movimenti hanno sperimentato della qualità del conflitto. La politica del movimento fu "eccentrica": nel senso che di fronte alla semplificazione centrale dello scontro essa provò a moltiplicarsi, a sfuggire, almeno finché ne fu capace; e nel senso che fu felicemente in grado per tutto il periodo di crescita di non accettare le forme dello scontro ma di determinare essa modi e livelli. Nei manuali delle forme dell'insorgenza sociale cominciarono a scriversi nuovi metodi, basati sull'inventiva, sull'ironia, sull'immaginazione. Certo, quando occorse tirare giù il passamontagna non si tirò indietro. Costruzione dei poteri "di fatto" e critica della politica, anzi: costruzione dei poteri di fatto "attraverso" la critica della politica. Innanzi tutto di quell'astrazione di eguaglianza tra gli uomini basata sullo scambio di stesse ore di lavoro. Il "principio di differenza" che il movimento delle donne e i movimenti di rivendicazione sessuale difendevano, applicavano, insistevano, era la scoperta di un orizzonte dove la moltiplicazione delle identità, individuali, di gruppo, di genere, era da augurarsi come percorso ricco e pratica di comunismo. Segmenti consistenti, ma soprattutto un molecolare scollamento di individui, dei movimenti di quegli anni provenivano dalle fila dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Nella loro impazienza c'era un elemento fragile, di smarrimento personale di fronte alle leggi obbligate della "lunga lena" dei processi di opposizione, ma anche una critica lungimirante del burocratismo politico, degli infernali meccanismi della militanza. Silenziosamente o grafomaniacalmente, con disperazione o con cinismo, nel suo piccolo - per quel peso che avevano i gruppi - questo commiato dai gruppi fu un "bombardamento sul quartier generale".

Ma, anche qui, occorre ricordare alcune cose. Si è sempre citata la crisi dei gruppi nelle spiegazioni del Settantasette, come se esistesse un rapporto diretto e univoco. La crisi dei gruppi avrebbe cioè fornito il materiale umano, il «quadro militante» del movimento, con le sue tecniche di propaganda, il suo bagaglio e strumentario marxista appreso nelle interminabili riunioni, i suoi schemi di organizzazione e le sue capacità militari acquisite nei servizi d'ordine e nella difesa antifascista. In realtà, non solo a ridosso ma per tutto il Settantasette i gruppi sono ancora ben presenti, e si stampano e si diffondono i loro quotidiani. Ancora a Bologna, nel settembre, il Movimento lavoratori per il socialismo tenta una sortita considerevole. Il Manifesto, poi, è inossidabile. L'area di Lotta continua è ancora fortissima dopo il convegno di Rimini del '76, e il giornale è, lungo l'arco dell'anno, un volano straordinario di iniziative, riflettendone contraddizioni, impasse, fratture, tendenze. Per tutto il Settantasette (o almeno per una sua considerevole parte) i gruppi continuarono ad agire dentro il movimento, dentro le assemblee, dentro i cortei. La realtà quindi è diversa. La progressione del movimento si sviluppa contro «la logica dei gruppi», tende a rimescolare, a riattraversare quelle esperienze soprattutto in maniera molecolare, a partire dal singolo individuo, dal singolo militante, dalla singola esperienza. I militanti che precipitano uno a uno dentro il movimento lo faranno a partire dal proprio vissuto, in una sorta di ritorno alle radici, di voglia di incontaminazione, contro i processi di secolarizzazione che avevano sclerotizzato i gruppi. Questo "ultimatismo" avrà una carica terribile, intriso com'è di emotività. Ma trova nel movimento, nel suo giorno per giorno, uno spazio di rinnovamento e di appagamento. Il quadro dirigente dei gruppi si tirerà progressivamente fuori dagli impicci e, a memoria, non si riscontra nell'elenco dei dispersi nessuno che ne facesse parte. Centinaia, migliaia forse, furono invece i giovani militanti provenienti dai gruppi che seguirono tutta la parabola del movimento e precipitarono nei suoi esiti. Se non si tiene conto di questa rottura tra militanti 'qualunque' e vertici dei gruppi - anche senza volerla caricare di alcun significato - si perde di vista un dato importante. I gruppi entrano definitivamente in crisi proprio nel Settantasette, anzi "per" il Settantasette. La critica della politica - il rifiuto della delega - che il movimento praticò ossessivamente non riuscì a produrre una forma, un metodo, una tecnica e un criterio differenti, almeno compiutamente. Nello stesso tempo esso azzardò - nel pieno dei furori della rivolta - un approccio al quesito dell'organizzazione di classe, delle strutture dei conflitti e dei poteri che fosse "adeguata" alla nuova

composizione sociale, alla configurazione della modernità, tra dislocamento e decentralizzazione. Questo approccio al problema del rapporto tra "spontaneità" dei movimenti e loro "strutturazione" - qualcosa che andava oltre la tradizione comunista e nello stesso tempo ne rivisitava le sperimentazioni - ruotava attorno due idee cardinali: la prima, la necessità di mantenere distinti e reciprocamente attivi, in fertile attrito i piani del pubblico e del privato, del militante e del cittadino, dell'operaio e del combattente, del personale e del politico; finché questa tecnica di raccordo delle funzioni e dei ruoli poté esercitarsi dentro le lotte essa si applicò in rodaggio, e solo dopo, quando l'affrontamento si semplificò, l'eccesso di tecnicismo prese il sopravvento in una separazione e indifferenza dei ruoli - il combattente, l'operaio, il creativo, l'imprenditore - e delle condizioni - il personale e il politico. La seconda, il convincimento che l'esercizio della democrazia, la capacità di "decisione" è una cosa "semplice". Esercizio semplice di una democrazia complessa. La critica della politica era critica della democrazia formale. Si voleva un'altra democrazia, una democrazia della società, una democrazia delle classi. Di fronte alle immagini retoriche che il sindacalismo e la sinistra riformista fornivano di compartecipazione, di cogestione, "si sapeva" che occorreva invece sganciare la democrazia dal capitalismo, la democrazia dallo Stato. Si sapeva che erano necessari dei contropoteri e, almeno, una rete di contropoteri che si costituissero come potere alternativo. Potere sulla produzione anzitutto, potere di fabbrica, potere operaio. Una democrazia quindi come stato d'eccezione, come emergenza. Allo Stato, al sistema dei partiti che costruiva continuamente emergenza e crisi per restringere seccamente la democrazia, si poteva rispondere mutando il "segno" dell'emergenza, trasformandola in una produzione di democrazia. La definizione e la conquista dello "spazio pubblico" diventa così determinante per la localizzazione dei poteri. Non si insisterà mai abbastanza nel sottolineare come la presenza di piazza, l'occupazione di Università, di case, di quartieri, delle strade, le barricate, le incursioni, le cariche fossero non il segno d'un costringimento, l'imbuto dello scontro, ma il carattere precipuo del "territorio metropolitano" come luogo proprio della produzione e della politica. Non è solo un «riprendiamoci la città», quell'importante bisogno di libertà di movimento dentro un territorio che diventava estraneo e ostile. Il Settantasette intuisce la metropoli come rete di produzione, come dislocazione della fabbrica, come grande circolazione e scambio tra moneta e libertà politica, luogo di omologazione dei

comportamenti e di riproduzione rapida dei conflitti, della disgregazione sociale, dell'alienazione, dell'impazzimento ma anche della solidarietà, dell'antagonismo. Luogo proprio della cooperazione sociale eccedente, quella che si era diffusa dalla fabbrica, per via della crescita della società, per via dell'industrializzazione, pervia dell'innalzamento dei consumi, e soprattutto per via delle forme particolari che lo scontro di classe aveva avuto in Italia. La piazza è il "genius loci" del movimento, non certo perché gli mancassero radici di fabbrica o perché fosse il raduno dei lazzaroni, ma perché è lì che andava reso visibile quanto stava diventando sottaciuto, nascosto, marginale, oscuro cioè la produzione di plusvalore, lo sfruttamento, il profitto e la miracolosa resistenza di classe, il tentativo di dislocare la propria soggettività. Chi vide la piazza solo come luogo dei perdigiorno e degli studenti in rivolta e rimproverò al movimento che fosse la fabbrica lo spazio vero del conflitto, parlava ormai di una "fabbrica virtuale" che, in realtà, tra cassintegrazioni, licenziamenti, prepensionamenti, esodi, migrazioni, andava restringendosi vieppiù, parlava di paleontologia industriale. Il Settantasette è il "primo movimento metropolitano" nella storia di questo Paese, una rottura secca, una novità persino riguardo le lotte di appena un decennio prima, quelle del biennio '68-69 che avevano nella fabbrica il punto dove tendevano a condensarsi tutte le tensioni. Intuisce la metropoli come territorio del lavoro e della politica, luogo della cooperazione sociale diffusa, ricomposizione delle frazioni di società, e rovescia "questa" metropoli contro lo Stato. Qualsiasi Collettivo, Comitato, Circolo, nelle grandi città come in provincia (e il libro affronta con diverse analisi questo aspetto, dal Sud al Nord-Est, dai territori di vecchia industrializzazione a quelli di nuova ristrutturazione) viveva il territorio come proprio spazio pubblico, come "casa sua". Se nel '68 si erano tirate le uova alla Scala come protesta, denuncia, reazione di coscienza, dieci anni dopo dalla periferia arrivano verso il centro i giovani dei Circoli assolutamente disposti a una "prova di forza" - che non gli passi proprio per la testa a quelli lì di sentirsi padroni della città. Sbalordisce - a pensarci adesso - e lo si può tranquillamente considerare un atto inconsulto, ma quando i colpi del fucile Winchester dal centro di un piccolo corteo si abbatterono sulle vetrate antiproiettile dell'Assolombarda, nel cuore di Milano, presumo che lasciarono sibili di incertezza in quelle sale ritenute al sicuro. E le autoriduzioni di bollette, dietro cui stava un lavoro capillare per esempio nei quartieri occupati, con il controllo delle centraline, le sentinelle contro i tagli, la mobilitazione immediata contro gli sfratti, tutto questo non era un "autogoverno" del

territorio? E le zone di Napoli dove si gestivano le liste di collocamento, si stilavano gli elenchi, pubblicamente e in assemblea, si impediva l'accesso ai poliziotti, tutto questo non erano "nuove istituzioni"? E i servizi della sanità pubblica dove nascevano comitati misti tra lavoratori e malati che assediavano l'indifferenza soprattutto, la routinaria prepotenza dei baroni, in un clima euforico e caotico, tra padelle e flebo, ma dove la mobilitazione era la strada per l'assistenza, cos'era questo se non padronanza del territorio? Un'idea di "nuova cittadinanza", che ruota attorno alla critica del lavoro e alla critica della politica, un movimento come costituzione di società differentemente che attorno il lavoro, faceva lievitare quest'uso dello spazio pubblico, questa configurazione semplice della "democrazia metropolitana". - "A mo' di conclusione". E' forse opportuno avvertire il lettore di armarsi di stupore critico nel valutare la raccolta dei documenti del libro, soprattutto se gli venisse voglia di approfondire - altrove e altrimenti (c'è una ricchissima bibliografia, ad esempio, con segnalati i luoghi di reperimento possibile) - la ricerca, la curiosità. Le cose, soprattutto dal punto di vista delle categorie analitiche, "non filano del tutto lisce". "Il movimento si sporcava tranquillamente le idee". Proprio nell'intenzione di avventurarsi in nuovi territori di conoscenza, di scrollarsi di dosso tradizionalismi vieti, di riattraversare con freschezza le eredità della lotta, si accostavano Laing e Cooper con Engels, i filosofi francesi con le vecchie categorie tedesche, il pensiero della «Krisis» con le ipotesi keynesiane, Sorel con Gramsci, l'insurrezione con le case-matte, i pre-marxismi alla Fourier con la Luxemburg, Weber con Foucault, Panzieri con Jung, il pensiero femminista con... "Una stagione felice", in cui andavano a braccetto litigando fitto fitto Lenin e Dada, dove tutto era solo sfiorato, dilettantescamente sfiorato e utilizzato per lottare. Fa sorridere - e nello stesso tempo addolora per il segno di incomprensione - chi bacchettava il movimento dalla cattedra d'uno strumentario analitico. Perché quel

movimento era "secchione", le lotte fra le diverse anime, frazioni, strutture si combattevano soprattutto a colpi di citazioni dai "Grundrisse". E i "Grundrisse", spesso solo delle fotocopie, stavano negli zainetti e nelle borse di tolfa, tra un volantino da distribuire, il giornale del gruppo, fresco di stampa, e la bottiglia molotov. Una rivoluzione non è mai estremista; accusarla di estremismo è un atto contro natura. Una rivoluzione si fa con i materiali che si trovano in quel frangente. Quella fu una rivoluzione, benché "senza esiti", come buona parte delle rivoluzioni di questo secolo, dall'Ungheria del '19 a quella del '56, dalla Berlino del '20 alla Danzica del '56, dalla Torino del '20 alla Praga del '68, e in questo ciclo, in questa guerra tra operai e capitale si inscrive. Fu anche, coscientemente, una rivoluzione "senza fini": di certo, lontana anni luce dall'idea di prendere il potere, lo Stato. Semmai, aveva voglia di liberarsene. Ecco, a partire da qui, dai materiali, dal "cosa", è poi possibile discutere sugli errori di percorso, sulle forme, sulle analisi, sulle tattiche, sulle alleanze, sui comportamenti, sulle valutazioni, sulle lotte intestine, sulle occasioni perdute dalle sinistre. E' possibile provare a capire perché le intuizioni che il movimento ebbe delle trasformazioni che stavano accadendo, e del crinale sul quale stavano accadendo, assunsero quel segno odioso dei vent'anni che seguirono: per cui il postindustrialismo è diventato intensificazione dello sfruttamento, la comunicazione diffusa è il gran canale dell'alienazione, la politica sconta una separatezza forte e un tecnicismo tutti lontani dalle domande sociali, i territori produttivi sono attraversati dal secessionismo economico. In questo ventennio s'è perduta alla politica almeno una generazione, s'è perduta ai conflitti, alla democrazia. A quella nuova, a quella che cominciava a sgambettare nel Settantasette, è dedicato questo libro. Il cui "exergo", che invece poniamo qui, è la frase che un anonimo scrisse sui muri del cimitero di Napoli, in affettuosa comunicazione ai colà residenti, l'anno dello scudetto di Maradona, mentre impazzavano i festeggiamenti: «Guagliò, che vi siete perduto!».

* TUTTO IN UNA NOTTE Marino Sinibaldi La cosa più straordinaria dei movimenti collettivi è il modo in cui trasformano le persone: rapido, radicale, profondo come poche altre esperienze umane. La parte di generazione che vent'anni fa entrò nel movimento del '77 uscì incredibilmente cambiata nei suoi connotati. In pochi mesi, forse appena qualche settimana, mutò attese e idee sul mondo, valori politici ed esistenziali; e continuò a farlo per anni, dopo la fine di quell'esperienza ma sull'onda di quel movimento. Del resto non cambiavano solo le persone, ma lo scenario insieme a loro. All'inizio sembrava una tipica, un po' rituale mobilitazione politica: contro i fascisti a Roma, la burocrazia comunista a Bologna, le repressioni poliziesche, le sentenze giudiziarie, la solidarietà nazionale tra P.C.I. e D.C. un po' ovunque. Solo più violenta e disperata, come mobilitazione: molti di quei giovani provenivano dalla sconfitta dei gruppi extraparlamentari della sinistra rivoluzionaria. Avevano perso le elezioni, nelle scuole e nelle fabbriche le vecchie parole d'ordine avevano sempre meno presa, Lotta continua si era persino sciolta, dichiarando chiusa la sua esperienza. Ciascuno si sentiva più solo, dopo gli anni intensi della militanza e della mobilitazione permanente. Ma in quella diffusa solitudine ognuno sembrava cercare la sua strada, e tentava ancora di condividere scelte, valori, soluzioni. L'inverno prima del '77 fu una stagione straordinaria, di solitudini dolorose e feconde. Ci si scambiava pochissime parole, si disertavano i vecchi luoghi di aggregazione, si cominciava a misurare il distacco dalla politica ma non si voleva rinunciare a una qualche dimensione collettiva. E si tentavano forme nuove: in alcune città si diffuse l'effimera esperienza delle autoriduzioni nei cinema: sembrava la replica, un po' più disimpegnata, di antiche pratiche di massa come l'autoriduzione delle bollette e degli affitti. In realtà era il primo segno dell'abbandono degli antichi territori delle lotte economiche e rivendicative, della sfiducia nel linguaggio e le forme della politica. Le sue ragioni apparivano consumate. Si trattava dunque di andare oltre, a partire da sé e

dai propri bisogni. Quell'inverno assunse la forma di una grande, silenziosa migrazione mentale: si cambiavano letture, abitudini, amicizie. Perciò quando il '77 arrivò, ci trovò pronti al più strano e indecifrabile dei movimenti collettivi che la storia d'Italia abbia conosciuto. Un movimento ambiguo e stratificato: in superficie si agitavano ancora i tratti di una 'normale' esplosione politica di studenti, giovani disoccupati, precari del lavoro nero. Mancavano del tutto gli operai, ma sembrava il prezzo da pagare alla svolta sindacale, alle politiche dei sacrifici e dell'austerità. I primi tentativi di autoanalisi usavano ancora le antiche categorie dei conflitti economici e politici. Ma quasi tutti avvertivamo che sotto, dietro, al di là della superficie stava accadendo qualcosa di molto più radicale. Ci mancavano le parole per dirlo ma in un arco di tempo breve (anzi fulmineo, a considerare il periodo più intenso ed esplosivo delle occupazioni, le manifestazioni e gli scontri) un'intera generazione consumò il suo esodo dalla politica. Si potrebbe definire un caso esemplare di eterogenesi dei fini: iniziammo il '77 convinti di fare una cosa - un movimento politico che rifondasse le idee e le organizzazioni rivoluzionarie e combattesse la degenerazione della sinistra ufficiale - ma finimmo in tutt'altra direzione, totalmente al di fuori di quella traiettoria. Dentro quel movimento, infatti, le parole e le formule antiche si usuravano giorno dopo giorno. Chi si sforzava di tenerle insieme, finì nel più tragico e assurdo dei vicoli ciechi, bruciò se stesso e le proprie idee nel falò della lotta armata. Altri, per aggirare quella difficoltà e questo baratro, inventavano parole e forme nuove - o che apparivano tali - una dopo l'altra. In una specie di onnivora rivendicazione di tutti i movimenti e di tutte le pulsioni antagoniste e alternative, in poche settimane migliaia di giovani recuperavano la cultura beat e quella dada, il situazionismo e l'anarchismo, la psichedelia e le spiritualità non occidentali, il vegetarianesimo e l'arte di strada, la non violenza e il terrorismo nichilista. Tutto insieme, tutto - a rivederlo da oggi - in una notte. (E una notte era davvero, perché lo sfondo di quella frenetica reinvenzione collettiva era un Paese cupo e ostile). Ne derivò il più grande casino politico-culturale cui si sia mai assistito. Come in una specie di allegra e devastante Torre di Babele, nelle Facoltà occupate si cominciavano a urlare centinaia di lingue diverse. A tenerle insieme restava solo la repressione e l'ottusità delle istituzioni, la rete dei divieti e delle persecuzioni. Tutto il resto era già consumato e ce ne

accorgemmo quando quella tensione cominciò a declinare: ci guardammo negli occhi e vi leggemmo i frammenti di una comunità ormai esplosa. Fu faticoso scoprirsi diversi da come ci credevamo e ci autorappresentavamo. E quella scoperta determinò lo shock finale e definitivo del '77. Ne derivò la stagione della violenza e del riflusso. Semplicemente c'era chi non si rassegnava al dissolvimento della vecchia immagine e chi troppo facilmente se ne liberava. Ma questa è storia di dopo, è già anni Ottanta. Ossia l'epoca che la fine del '77 impercettibilmente anticipò. E non è solo un'annotazione cronologica: nel suo isolamento e separazione da tutto il resto del mondo, quel movimento elaborò un percorso che poi - deviato, deformato, rovesciato - sarà di un'intera società. L'esodo dalla politica, la frantumazione della soggettività, la riscoperta del sé e della sua centralità, la fine delle solidarietà estese e astratte e la reinvenzione di forme più ridotte e concrete, il narcisismo e l'edonismo: le cose belle e brutte del decennio o quindicennio successivo al '77 stavano già tutte nelle parole e nei pensieri di quel movimento. La coppia creatività/violenza, che in tutte le varianti, gli intrecci e i conflitti possibili dominò la dinamica interiore del '77, generò i valori contraddittori e decisivi dell'Italia degli anni Ottanta. Eravamo un'avanguardia, ma non trascinavamo con noi il passato che credevamo di reinventare, bensì un futuro che forse non avremmo mai voluto. Questo paradossale e incredibile destino - un piccolo movimento emarginato e perseguitato che anticipa valori che un'intera società farà propri - non è nuovo nella storia: è il percorso di molti piccoli gruppi che, per capirci, possiamo definire ereticali. E tantomeno è sorprendente che questa appropriazione avvenga falsificando e rovesciando il senso di quei valori. Piuttosto è singolare che manchi qualunque riconoscimento e pubblica riflessione. Salvo pochi tentativi mediatici di celebrazione e neutralizzazione pateticamente spettacolare, quel movimento e quell'anno rimangono una sorta di buco nero dentro cui nessuno ha voglia di guardare (noi compresi: perché fu un tempo vitale ma anche tragico, di morti pubbliche e individuali, clamorose e silenziose). Ma solo qui alla fine si può intravedere la verità del '77. Nel chiuso dei nostri piccoli gruppi o nelle piazze dove agitavamo linguaggi e idee che non aveva senso tenere in vita, eravamo al centro di una grande corrente internazionale. La stessa che negli stessi mesi e anni generava il punk e la new-wave artistico-esistenziali, consumava le ultime rivoluzioni dell'epoca

della politica (il Portogallo, il Vietnam, l'estrema Africa anticoloniale), compiva quel passaggio epocale cui è stato dato il nome convenzionale e insufficiente di postmoderno. Era la trasformazione materiale e mentale da cui nasceva la società postindustriale e muovevano i primi passi dell'artificializzazione dell'esistente. Forse c'era bisogno che qualcuno compisse quell'enorme lavoro di smobilitazione e smaterializzazione. Isolati e perseguitati, i giovani del '77 si assunsero quel compito epocale. Ragioni e idee di quel processo ci erano del tutto oscure. Ma proprio per una sorta di felice inconsapevolezza compimmo invece nel '77, per l'ultima volta collettivamente, la trasformazione decisiva della nostra generazione.

* UN'ALTRA VIA PER LE INDIE. INTORNO ALLE PRATICHE E ALLE CULTURE DEL 77 Primo Moroni "La vicenda di chi cerca un'altra via per le Indie e proprio per questo scopre nuovi continenti, è molto vicina al nostro modo attuale di procedere". E' una delle tante scritte creative di cui erano costellati i fogli del movimento '77. In questa e in altre espressioni metaforiche appare evidente la sollecitazione a immaginare e il desiderio di rompere con il linguaggio ripetitivo e stanco della politica. Eppure molti di coloro che, almeno nella fase iniziale, diedero vita a quella sterminata produzione quotidiana di fogli e giornali, proprio dalla politica venivano e in questa avevano investito energie e intelligenza soggettiva e collettiva. Ancora oggi è piuttosto difficile tracciare una genesi sensata e comprensibile dello straordinario rovesciamento della produzione di senso che si sviluppò nel breve periodo che va dall'inverno '75 alla fine del '77. E' difficile comprendere che molti di coloro che diedero vita comunicativa a quella stagione di rivolta, avessero trovato dentro se stessi sia la cronologia della propria vicenda personale e militante, sia le ragioni della distruzione e del superamento della stessa per rinascere dentro nuovi universi vitali così accidentati e radicali da sfiorare il crinale sottile che separa la razionalità concreta dalla follia desiderante. "E a chi ci chiede dove intendiamo andare rispondiamo che le soluzioni sappiamo trovarle solo quando la situazione ha maturato la loro possibilità".

A distanza di così tanto tempo verrebbe la tentazione di riferirsi a una specie di illuminazione come a volte avviene per certi scienziati che dopo aver studiato molto tempo un problema, seguendo un protocollo scientifico conosciuto e da tutti praticato, improvvisamente e 'casualmente', uscendo dai canoni della pur colta consuetudine, trovano il grimaldello che scardina l'oscurità del dilemma che era apparso fino a quel momento irrisolvibile. In realtà tutti coloro che si occupano di epistemologia sanno che invece quella 'casualità' era incisa nell'accumulazione cangiante di tutti i saperi precedenti e che solo l'ortodossia burocratica aveva impedito fino a quel momento il suo affermarsi come senso comune. Così, le intuizioni comunicative del '77 avrebbero potuto essere e rimanere un'esperienza di laboratorio culturale se non si fossero invece immediatamente rivelate una formidabile interpretazione sovversiva dei movimenti reali che si formavano all'interno dei processi materiali in rapida trasformazione. E questa sinergia tra crisi delle politiche precedenti, ricerca di nuovi strumenti di analisi/intervento e soggettività diffuse, finì con il produrre un'ondata rivoluzionaria pressoché inedita e sconosciuta, nella sua sintesi compiuta, ai movimenti precedenti. Un muoversi «policarpico» scriverà Enrico Palandri nel suo romanzo "Boccalone", uno dei pochi testi di letteratura espressi dal movimento '77 pubblicato dalle edizioni Erba Voglio di Elvio Fachinelli. Il fatto che le stesse edizioni avessero stampato anche "Alice è il diavolo" e "Alice disambientata", relativi all'esperienza di Radio Alice di Bologna, è abbastanza indicativo delle affinità esistenti tra le 'culture' dell'omonima rivista di Elvio (Laing, Cooper, le controculture underground, le pratiche antiautoritarie, il Marx giovane dei "Manoscritti", le «dialettiche della liberazione» eccetera) e alcune delle componenti esistenziali e culturali degli universi vitali frastagliati del movimento '77. Questi universi ponevano con forza non solo un modo totalmente diverso di concepire il rapporto vitapolitica, ma anche una serie di contenuti e valori che non erano mai stati messi all'ordine del giorno - dal '68 alla prima metà degli anni Settanta - dalla progettazione politica sia istituzionale che extraparlamentare.

L'altra iniziativa editoriale strettamente intrecciata con quella breve e innovativa stagione di rivolta è stata Squi/libri, che pubblicherà estratti dalla rivista «A/traverso» ("Finalmente il cielo è caduto sulla terra"), i materiali (importantissimi) dei Circoli del proletariato giovanile milanesi ("Sarà un risotto che vi seppellirà"), testi letterali e autobiografie di movimento. Squi/libri pubblicherà anche " L'ideologia francese", una dura polemica contro i «noveaux philosophes» (Clavel, Glucksmann, BernardHenri Lévy eccetera.). Un libro che smascherava un pensiero che pur esplicandosi sul terreno del movimento (la critica dello stalinismo) finiva per essere l'occultamento di una necessità tutta capitalistica ed «eurocomunista» (nella dizione '77 «neurocomunista») di ristrutturazione, a «livello europeo dello Stato, che partiva dall'esigenza di disciplinare rigidamente un mercato del lavoro che l'ondata di lotte degli anni '68-73 aveva reso ingovernabile». Nelle teorie dei «nouveaux philosophes» (ma anche di uno 'storico' come Furet, che sarebbe poi diventato uno dei più importanti esponenti del «revisionismo storiografico») risultava evidente il ruolo degli intellettuali a copertura della nuova progettualità capitalistica. Un ruolo che finiva per accomunare i francesi all'appello rivolto da Berlinguer ai colleghi italiani nel famoso convegno al teatro Eliseo, cioè la richiesta di «ridurre la cultura a organizzazione a più voci del consenso». In questa direzione c'era piena affinità tra il piano Barre in Francia contro chi rifiutava un impiego proposto dagli Uffici del lavoro, il «preavviamento» in Italia e il "Berufsverbot" in Germania. Il problema che le élite capitalistiche avevano in comune consisteva nel fatto che «era divenuto insufficiente un controllo del mercato del lavoro attraverso le stratificazioni salariali e le divisioni razziali, etniche, sessuali, culturali, in quanto queste differenze avevano finito per rovesciarsi in fattori di insubordinazione e di organizzazione autonoma». Dentro questo schema appariva evidente la funzione del lavoro intellettuale tecnico-scientifico. Il suo sviluppo era stato accelerato dalla stessa insubordinazione operaia e dalla necessità di ricondurre la forza-lavoro al controllo. Il ruolo di questi lavoratori aveva finito per subire una proletarizzazione che, tendenzialmente, li trasformava in un possibile settore trainante della ricomposizione di classe. E se già nei movimenti del '68 era stato sottolineato il ruolo del tecnico (qualsiasi tecnico, piccolo o grande) e dello scienziato come forza ostile alla classe, nel nuovo contesto il

lavoratore intellettuale (sia che si trovasse a operare nell'Università o nel campo dell'industria culturale e del consenso, sia che operasse nel settore dei servizi fino alla sua tendenziale militarizzazione nel ciclo del nucleare) diventava di fatto uno dei soggetti di classe più importanti per la strategia capitalistica. "Sottrarre il sapere come lavoro vivo dell'intelligenza, come forzacreatività, al dominio del sapere sociale accumulato come capitale. Rompere questo dominio significa anche acquisire la coscienza che il sapere non può più essere (non deve essere) una polizza di assicurazione per garantirsi il lavoro salariato, ma lo stesso terreno, la stessa determinazione delle possibilità della soppressione del lavoro salariato". Queste riflessioni, liberamente estrapolate dal testo delle edizioni Squi/libri, forniscono nella loro sinteticità una notevole filigrana del quadro di analisi in cui si trovano a operare le nuove intellighenzie del frammentato e proteiforme movimento '77. E non è meno importante che queste analisi siano contenute in un testo teorico che partendo da una polemica politico-filosofica estende il suo campo di azione alle basi materiali, culturali e teoriche che il movimento stesso deve darsi per avere vita e progetto. In questi testi si ritrovano i riferimenti ai soggetti reali che compongono la galassia movimentista: le donne e l'emergere a livello di massa del movimento femminista; il proletariato giovanile di fronte al progetto di nuovo disciplinamento senza diritti (lavoro nero, ciclo del sommerso eccetera), un processo che non solo annulla la grande fabbrica come «luogo dell'espressione» ma che difficilmente ne troverà altri nel circuito produttivo disgregato e diffuso; il nuovo ruolo degli studenti (a Bologna saranno i cosiddetti «fuori sede» l'ala trainante della rivolta) e il loro interrogarsi sulle funzioni del lavoro intellettuale fino a riscoprire la memoria sopita dell'opera di Hans Jürgen Krahl ("Costituzione e lotta di classe" e le "Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria"); il ciclo di lotte del terziario che avrà, per questo settore della forza-lavoro, lo stesso significato che aveva avuto il '68-69 per l'operaio metalmeccanico;

l'esaurirsi della centralità della fabbrica come luogo esclusivo del conflitto che assicura spazi di libertà a tutti gli altri movimenti sociali collettivi. "Agli operai come al solito diciamo poche parole, così ci intendiamo: non mettetevi in salvo e insorgete subito". La generazione del '77 assume spontaneamente e radicalizza la tematica del rifiuto del lavoro, cioè nega che il lavoro industriale della grande fabbrica possa rappresentare un fondamento costitutivo della sua identità. Ma, nello stesso tempo, ipotizza che il lavoro intellettuale sussunto al processo produttivo (da qui importanti riferimenti ai lavori di Alfred SohnRhetel e di Paul Mattick) possa essere «liberato» per far diventare «la scienza, la cultura, l'arte, la stessa creatività, il terreno su cui fondare i nuovi conflitti e le nuove identità sociali». Che questo terreno contenga in sé tutte le potenzialità per diventare il «laboratorio scientifico della sovversione» verso la distruzione della «prestazione» e contemporaneamente quello della scienza della trasformazione. "Cioè, non possiamo pensare che se occupiamo una zona per tre giorni, mentre mille compagni difendono le barricate con gli ultimi ritrovati della scienza della distruzione, altri cento stanno dentro ad applicare gli ultimi ritrovati della scienza della trasformazione? Che quando ce ne andiamo e togliamo le barricate, nel luogo che abbiamo occupato i macchinari funzionino in altro modo e siano disposti in altra maniera?" L'emergere dei grandi sistemi tecnologici e informatici è intuito come settore di intervento strategico. L'intelligenza tecnico-scientifica, applicata e destinata al controllo dell'erogazione del lavoro vivo, può cambiare di segno indirizzandosi alla produzione di una soggettività alternativa, quella dei «sistemisti competenti» capaci di "creare le condizione per un uso liberante dell'informatica", capaci di piegarla a un diverso uso sociale verso la soppressione del lavoro (e sta in questo la radice del cyberpunk).

Sullo sfondo di queste azioni-riflessioni la forza devastante della ristrutturazione industriale e del decentramento produttivo che centrifuga i soggetti sociali nei territori metropolitani e nei grandi hinterland. Una ristrutturazione segnata dall'intreccio tra grande, media, piccola fabbrica, terziario e lavoro nero che, a differenza di quanto sosteneva il P.C.I., non portava a un «restringimento della base produttiva» (per alludere a una riduzione quantitativa e qualitativa di classe) ma, al contrario, a un suo allargamento decentrato e selvaggio. Ed è proprio questo il territorio (metropolitano e sociale) dal quale partire, e nel quale operare, con un nuovo movimento di classe che «non deve prendere il potere» ("ancora una volta contrapporre al fascino del potere la simpatia della liberazione") ma trasformare continuamente se stesso e il mondo. D'altronde, lo stesso movimento della F.L.M. (Federazione lavoratori metalmeccanici) e dei Consigli di fabbrica, che pure nel '74 aveva prodotto la più avanzata piattaforma contrattuale mai conquistata da un organismo operaio dell'Europa occidentale, era entrato in crisi come forma di potere della forza-lavoro. Stretto nella morsa delle segreterie delle Confederazioni sindacali, che volevano riportare al «centro la contrattazione», finiva con il perdere le proprie funzioni insieme al declino del modello produttivo di cui era espressione speculare. Si direbbe oggi: come espressione matura e irriducibile dello storico «compromesso socialdemocratico fordista», ma di questo, inesorabilmente, esito e negazione. Non si può affermare che ci fosse allora la piena coscienza di una svolta così epocale, ma indubbiamente la devastante trasformazione produttiva determinò l'entrata in crisi delle forme di rappresentanza extraparlamentari che furono il sensore di una più vasta crisi che avrebbe poi investito tutte le altre forme di rappresentanza del sistema dei partiti.

Così, se i raffinati analisti della nuove riviste («Quaderni del Territorio», «Primo Maggio», «Rosso», «Controinformazione») già parlavano di fase post-taylorista e di fabbrica diffusa (oggi si direbbe: esternalizzazione, contoterzismo, postfordismo), il movimento '77, con il suo emergere fragoroso e inaspettato, pone la metropoli e la molteplicità dei soggetti prodotti dall'offensiva capitalistica (la «scomposizione di classe» come terreno "iniziale" del nuovo agire rivoluzionario) al centro della propria azione di rivolta. E pone questi problemi con una forza di analisi per molti versi anticipatrice in rapporto ai pur agguerriti laboratori dell'operaismo e della stessa Autonomia operaia organizzata o diffusa la quale tenterà invano (producendo non pochi danni e confusione) di prendere la direzione del nuovo movimento. E se è vero che grande è stata l'importanza delle culture e delle controculture nel delineare l'azione del movimento '77 (si pensi al lungo confronto con Foucault, ma anche con l'opera di Sartre sul ruolo dell'intellettuale: «engagement» e «intellettuale specifico»), la sua caratteristica peculiare, in rapporto ad altri fenomeni europei, è stata che questo nuovo proletariato metropolitano si era immediatamente rivelato come forza produttiva difficilmente disciplinabile, proprio perché i suoi universi vitali di riferimento non erano riducibili alle categorie del politico, della piattaforma rivendicativa o della rappresentanza. Ma proprio per questo non erano nemmeno riducibili alla sfera delle controculture (come sarebbe poi stato il punk). La scomposizione sociale messa in atto dal comando capitalistico diviene terreno fertile («policarpico», appunto) del nuovo agire rivoluzionario. Si produce un 'trip' collettivo che finisce per liberare corpi, soggetti, creatività, culture e riferimenti assai eccentrici in rapporto alle esperienze di sovversione precedenti. In un breve spazio di tempo (uno, due anni) si verifica un'autentica esplosione di teorie, riflessioni, testi di riferimento che non avevano mai avuto centralità prima di allora. Ciò consente invece ai nuovi soggetti una confidenza e una pratica che finisce per rovesciare il rapporto teoria/prassi o struttura/sovrastruttura.

"Il movimento dei non garantiti ha prodotto un'enorme testa, una mole di proposta teorica e strategica che ha pochi confronti nella storia secolare del movimento comunista, ma ora c'è un corpo gigantesco che può e deve muoversi. Ma occorre togliere al movimento il carattere di movimento degli studenti, e definirne, anche nel territorio, il carattere proletario dando corpo in modo irreversibile alla creazione di zone liberate non solo nell'Università ma nei quartieri operai, costruendo un cordone sanitario che tolga consenso a ogni risposta dello Stato". Su questo terreno i «policarpici» si imbatteranno anche in Agnes Heller e nella sua rilettura dei bisogni in Marx. Saranno però capaci di evidenziare i limiti della sua analisi che voleva la classe operaia come soggetto portatore dei bisogni più radicali. Sul piano teorico preferirono la ricerca di Deleuze e Guattari ("L'anti-Edipo") che vedeva il soggetto desiderante «sottrarsi» al dominio delle forze materiali e ai limiti dell'«appartenenza di classe» per a/traversare tutte le possibili figure sociali in separ/azione (i giovani operai, i disoccupati, i lavoratori marginali, gli intellettuali proletarizzati, i microcomportamenti, i gay, le donne, l'assenteismo, il sabotaggio eccetera) e per determinare una diversa ricomposizione in «divenire», una determinazione a sottrarsi alla prestazione lavorativa comandata e a un mutare in continuazione che necessita di linguaggi totalmente nuovi e sottratti alla sfera del politico (ed è questo «il cielo che finalmente è caduto sulla terra»). Da qui l'attenzione quasi spasmodica verso la costruzione di forme espressive molteplici e de/liranti. Le uniche nei fatti capaci di dare senso alla liberazione e al desiderio sottratti al dominio del politico e della produzione. Majakovskij, quindi, e il suo rifiuto della scissione fra movimento e partito, fra forma quotidiana dell'esistenza e politica, fra trasformazione della vita e cambiamento del mondo. "Ma questa volta Majakovskij non si ucciderà: la sua piccola browning ha altro da fare".

Ponendosi così contro tutto «l'idealismo che, dopo Marx, ha invaso il terreno della teoria e il socialismo che, dopo Lenin, scinde il movimento di liberazione dalla lotta contro il modo capitalistico di produzione». L'attenzione alle forme espressive e alla creatività delirante fanno del movimento '77 una specie di torrente tumultuoso in cui convergono memorie e culture di interi settori delle avanguardie artistiche e delle pratiche rivoluzionarie eretiche dei "cultural-workers" di mezzo secolo di storia europea. Azioni di strada, "happening", "performance" mediati e reinventati dalle esperienze dada, surrealiste, futuriste, hippie, provos, underground, situazioniste eccetera. Una pratica della festa urbana, collettiva, sovversiva e ironica resa più consistente da una raffinata e spontanea riproposizione metabolizzata degli universi situazionisti, evitandone i limiti di piccolo gruppo separato e in permanente diaspora. E qui la «pratica delle situazioni» diventa invenzione quotidiana strettamente intrecciata con i processi reali della scomposizione di classe, ben oltre le aspettative quasi mai realizzate dalle piccole straordinarie aggregazioni operanti intorno alla disciolta Internazionale situazionista, dalla cui esperienza, saperi e autori (soprattutto Debord e Vaneigem), verrà però continuamente tratto un nutrimento operativo formidabile verso un «vivere senza tempo morto» e un «agire come se non dovesse mai esserci futuro». "Nessun problema vale per me quello che pone a ogni istante della giornata la difficoltà di creare una passione, di compiere un desiderio, di costruire un sogno come se ne costruiscono nel mio spirito, la notte" (Claudia Salaris, "Il movimento del '77, AAA Edizioni, 1997). Piazza Maggiore a Bologna, Campo de' Fiori a Roma, piazza Mercanti a Milano sono di fatto delle «zone temporaneamente autonome». E' il linguaggio fulmineo e creativo che si fa sintesi e progetto di azione/comprensione immediata che riporta il tutto dalla sfera esteticosovversiva ai processi reali: «Dal Lirico all'Epico (evitando il tragico)»

scriveranno su un volantino dell'aprile '77. Se «epica» è la dimensione di massa desiderata, il «tragico» può essere rappresentato «dall'ipotesi che punta a una radicalizzazione armata dello scontro con lo Stato». "La ricomposizione non è un imperativo morale, un dogma politico; è un desiderio del movimento; occorre trovare una macchina-comportamento che interpreti questo desiderio. Proviamo sul terreno della scrittura (trasformazione del quotidiano, studio collettivo, autocoscienza, violenza, scrittura). Non una sintesi esterna, ma una disponibilità a sopportare la curva del processo, facendosi soggetto pratico della tendenza, sul piano di una teoria/scrittura, di una scrittura/pratica trasversale che in sé dia corpo alla tendenza". Eppure, nella produzione creativa del movimento, che nella scrittura individua un terreno fondamentale di ricostruzione della sovversione rivoluzionaria, non si coglie una reale «dissociazione» dalla lotta armata che caratterizzerà molti dei gruppi dirigenti della sinistra extraparlamentare, e che sarà all'origine dello stesso scioglimento «dall'alto» di Lotta continua. C'è piuttosto la consapevolezza che una scelta di questo genere era «conficcata geneticamente» nelle memorie possibili del movimento e che il nuovo quadro politico non poteva che favorirne l'emergere e il consolidarsi ben oltre le aspettative delle minuscole minoranze dei quadri armati clandestini o in via di clandestinizzazione. Le soggettività politiche del ' 77 non potevano che favorirne l'emergere e il consolidarsi ben oltre le aspettative delle minuscole minoranze di altre soggettività già strutturate dentro apparati armati clandestini o in via di clandestinizzazione. "Vi sono diverse ipotesi nel quadro sociale che possiamo, nella sua accezione più ampia, definire movimento. Ma sono comunque iscritte nella forma stessa della pratica sociale e culturale di questi strati".

"Mentre nella battaglia di artiglieria ci logoriamo e perdiamo uomini, forze e soprattutto intelligenza e vita, sul terreno dell'organizzazione tecnicoinformativa è possibile vincere sottraendola alle sue funzioni di controllo dell'intelligenza accumulata". E se l'ipotesi che puntava a una radicalizzazione armata dello scontro con lo Stato, attraverso la formazione di un quadro militare radicato nei settori proletari metropolitani, considerava ovviamente prioritario il problema del radicamento della forza combattente rispetto alla dimensione di massa del movimento ("e qui si trattava di un 'ipotesi di sudamericanizzazione oggettiva"); l'altra ipotesi, che riconosceva nella diffusa e profonda trasformazione dei comportamenti di vasti settori, soprattutto giovanili, un terreno capace di resistere e di consolidarsi al di fuori dei tempi tattici del confronto con lo Stato, considerava a sua volta secondaria la tenuta di massa del movimento, sottovalutando il nesso fra rapporti di forza generali e margini di tenuta dello stesso processo di trasformazione del quotidiano. In questo senso il dilemma appariva sui fogli del movimento '77 come un processo reale, come una condizione materiale e drammatica delle scelte e dell'agire quotidiano dei soggetti sociali della galassia movimentista. Ma io credo che ci fosse anche una più complessa consapevolezza che era lentamente maturata a partire dal '75 (data di uscita del primo numero di «A/traverso», ma anche inizio della nuova serie della rivista «Rosso» legata alla nascente area dell'Autonomia operaia organizzata) dopo la lunga riflessione sulle lotte operaie del '73. Per alcuni quel ciclo di lotte poteva significare l'inizio di una nuova e fulgida fase di scontro operaio, per altri invece era in tutta evidenza la chiusura di un lungo ciclo di scontro che aveva avuto nell'«autunno caldo» la stagione realizzata della pratica della conflittualità permanente, della tendenziale estensione dell'egemonia dell'operaio-massa sia sulla società civile che dentro le istituzioni. "Basti pensare che nel '69 il sindacato era diventato formalmente gestore del massimo ente previdenziale italiano, l'Inps, la cui funzione di regolatore del mercato del lavoro verrà scoperta molto più tardi" (Sergio Bologna, "Crisi delle politiche e politiche della crisi", cit. nella bibliografia).

Per altri, quelle lotte erano, al contrario, la tendenziale conclusione di un ciclo iniziato molti anni prima. Un ciclo che aveva sottratto i movimenti della classe al governo del P.C.I., che aveva costituito l'autonomia del sindacato, che aveva segnato l'egemonia dell'ideologia rivoluzionaria sul mondo giovanile attraverso il formarsi di un area politica extraparlamentare, che aveva prodotto una grande trasformazione/innovazione nella cultura e nei comportamenti dell'intera società civile. E dentro questo processo la violenza politica aveva finito per assumere un ruolo determinante. "Certo, qualunque analisi storica di quegli anni non può non tenere conto del fatto che la forma violenza è stata determinata, costretta, si potrebbe dire, da una provocazione di Stato, o comunque, anche lasciando da parte il trauma di piazza Fontana, è stata la reazione a un irrigidimento del sistema politico, a una sua reazione di immobilismo e di difesa di vecchi schemi da parte del sistema dei partiti e della D.C., o di una parte della D.C. in particolare". Sergio Bologna, "Crisi delle politiche e politiche della crisi", cit.). Ma è nella fase successiva al '73 che questo quadro tende a cambiare inesorabilmente. E cambia insieme all'inizio dei processi di ristrutturazione che tolgono incisività al potere operaio in fabbrica (si pensi all'uso politico padronale della Cassa integrazione, ai contraccolpi dell'inflazione, alla sempre più frequente chiusura di aziende eccetera). Cambia insieme al mutare del quadro politico e delle sempre più frequenti battaglie per i diritti civili, mentre il P.C.I. tende a rinnovare i suo statuti materiali attraverso la strategia del compromesso storico che contiene strutturalmente la necessità di allearsi con gli avversari di sempre. In questo stesso periodo inizia la crisi delle formazioni extraparlamentari che vengono ricanalizzate in nuovi percorsi di rappresentanza politica istituzionale o finiscono per sciogliersi. Il potere operaio è costretto ad arroccarsi dentro la fabbrica perdendo poco a poco quell'egemonia sulla società che aveva conquistato nella fase precedente. La pratica della violenza appare a molti (avanguardie operaie

comprese) come uno dei pochi strumenti ancora praticabili per reggere i nuovi livelli di scontro. La nascente, e in rapida diffusione, area dell'Autonomia operaia tenterà di governare nel sociale questi processi per evitare che si avviino verso la creazione di una specifica forma-violenza organizzata in partito. In parallelo, il nascente movimento '77, dimostrando consapevolezza della fase critica attraversata dagli universi movimentisti, tenta di spostare l'asse del conflitto altrove: sul terreno della rivolta creativa desiderante, individuando nella nuova intellettualità proletarizzata e di massa in formazione l'ambito all'interno del quale ricondurre una nuova stagione di rivolta che contenesse sia la memoria complessiva dei precedenti cicli di lotta che il superamento definitivo di gran parte dei loro fondamenti teorici e ideologici. "L'autonomia possibile non può dispiegarsi senza una critica e un superamento dell'autonomia esistente". E' quindi difficile separare del tutto il muoversi dell'Autonomia operaia diffusa o organizzata (ma soprattutto di quella diffusa) dalle vicende più strettamente intrecciate con gli universi vitali politici e culturali del movimento '77. Ma, d'altronde, se è vero che questi due percorsi si sono spesso mischiati, determinando di volta in volta cortei giganteschi che potevano essere indifferentemente creativi o violenti (la teoria dei «violenti infiltrati» è quantomeno riduttiva e mistificante), è anche vero che essi erano profondamente diversi, sia per quanto concerne l'impianto teorico che le modalità pratiche di intervento sociale e politico. Queste differenze sfoceranno periodicamente in polemiche aperte non certamente relative all'uso della violenza, ma piuttosto connesse alla sua forma organizzata e progettata. "L'atteggiamento di settori dell'Autonomia operaia organizzata (quella con la A maiuscola), comportamento di parata militare, violenza e aggressività verso i compagni, è il segno di una incomprensione profonda del nuovo che

questo movimento esprime. L'imposizione di una logica minoritaria e organizzativistica, sia di stampo militarista sia di stampo operaista, rischia di costringere su posizioni centriste settori del movimento che centristi non lo sono di certo". Il '77, come forma generale di protesta metropolitana strettamente intrecciata con la nascente nuova composizione politica di classe, non riuscì a trovare una forma di organizzazione politica adeguata alla ricchezza dei problemi che portava dentro di sé. Le problematiche poste in essere da quella breve stagione di ribellione creativa anticipavano largamente la percezione della modifica profonda che stava avvenendo (che sarebbe avvenuta) nel complesso dei rapporti di forza del quadro politico italiano. Sia a partire dalla crisi definitiva della forma-partito e del sistema della rappresentanza; sia per ciò che concerne l'irreversibile processo di desalarizzazione e la conseguente perdita di gran parte della sfera dei diritti acquisiti; sia per l'importanza che avrebbe nel tempo assunto l'area del lavoro intellettuale tecnico scientifico (oggi si direbbe di coloro che «lavorano comunicando») come forma intermedia di comando sul resto della società. Da queste macerie, che finirono per travolgere tutto il resto della società civile e del tessuto connettivo della società italiana, non potevano che emergere gli oscuri anni Ottanta con la loro definitiva corruzione dell'intero ceto politico che aveva dominato dal dopoguerra in avanti, e con l'affermarsi dispiegato dell'«autonomia del politico». Nella fase finale degli anni Settanta i settantasettini non meno che gli autonomi si disperdevano nei labirinti metropolitani dominati dall'eroina, o venivano soggettivamente 'destrutturati' nelle carceri. "Quando la controrivoluzione sconfigge il movimento reale di liberazione il primo atto di restaurazione è la restaurazione della norma. La violenza viene allora amministrata dai giudici".

Il «grande vuoto» politico ed esistenziale lasciato dalla sconfitta dell'ultima e più moderna ondata rivoluzionaria del dopoguerra veniva, ovviamente, riempito dalla forma violenza organizzata in partito armato clandestino. Tutto ciò era ed è assolutamente logico e comprensibile dal punto di vista del movimento e dei suoi pochi alleati. Nei confronti dei gruppi extraparlamentari residuali il giudizio era a dir poco sprezzante. "Chiarissimo che il Partito di unità proletaria e Avanguardia operaia sono repellenti pidocchi incerti - ma neanche tanto - se succhiare il dorso della balena socialdemocratica o della balena in movimento. Chiarissimo che schiacciare i pidocchi è un elementare operazione di pulizia". Con il P.C.I. di Berlinguer il confronto era stato assai aspro, complesso e non privo di quella dignità teorica che si assegna ai grandi avversari. Colpisce oggi l'ansia revisionista di un politico come Violante quando, criticando le scelte di «unità nazionale» e di «solidarietà nazionale» operate allora dal P.C.I. - scelte che avrebbero prodotto un vero e proprio crac della democrazia - afferma che si trattò, purtroppo, di un «errore necessario» determinato dalla «situazione data» e dalle «condizioni oggettive». In realtà quelle scelte erano un esito esclusivo dell'impianto politico e teorico del P.C.I. berlingueriano. Non un prodotto inevitabile della storia reale, ma un automatismo insormontabile della forma-partito ereditata e rivitalizzata da Berlinguer. Questo «errore» era stato colto in tutta la sua drammatica valenza dalle intelligenze del movimento '77 riportandone le origini e i contenuti proprio alla trontiana «autonomia del politico» e all'odiato idealismo hegeliano da cui proveniva [Nota: Fa bene a ricordarlo Miriam Mafai su «la Repubblica», "L'alibi di Hegel e gli errori del P.C.I.", ma, a meno che non abbia letto con grande ritardo la raccolta di «A/traverso» (forse lo ha fatto anche Violante?), il minimo che si può dire è che al tempo scelse un dignitoso silenzio..

"«Libertà è essere consapevoli della necessità» (Hegel). Questa frase, fondamento della concezione idealistica della storia, è l'assunto principale della teoria berlinguerista del processo storico. Occultando il carattere storico delle leggi economiche, il berlinguerismo ne ipostatizza il funzionamento e riduce il campo d'azione dell'iniziativa operaia alla mera gestione formale dell'esistente. Il rapporto di prestazione della vita è visto come insuperabile; ecco allora che lo hegelismo berlinguerista conclude: l'unica libertà possibile è un'accettazione consapevole della necessità naturale" («La rivoluzione», febbraio 1977). Alla luce di queste riflessioni si può dire che fin da allora vennero poste, dal sistema dei partiti italiano, le condizioni per quella vittoria del capitalismo, dei capitalisti e del liberismo come forma esclusiva del politico, che avrebbero occupato tutto lo spazio della politica istituzionale verso la fine degli anni Ottanta. Uno spazio istituzionale che tende a separare in modo apparentemente irreversibile il sociale dal politico ribadendo l'assunto hegeliano che vuole il sociale stesso non in grado di autocostituirsi. Che tutto ciò sia avvenuto con la collaborazione suicida (Bifo aveva ben detto che con quelle scelte il P.C.I. si era suicidato) del berlinguerismo è solo apparentemente un paradosso che è caso mai utile a spiegare la pervicace azione repressiva condotta a fianco del ceto politico più corrotto d'Europa e del padronato più assistito del mondo. Una scelta che finì per avere sulla società italiana lo stesso effetto moltiplicatore della violenza che avevano avuto la lunga sequela di stragi seguite a quella originaria di piazza Fontana a Milano. ---------------------------------- Citazioni e riferimenti liberalmente tratti da: F. Berardi (Bifo), P. Rival, A. Guillerme, "L'ideologia francese", Squi/Libri; F. Berardi (Bifo), "Finalmente il cielo è caduto sulla terra", Squi/ Libri; A.A. V.V., "Crisi delle politiche e politiche nella crisi", Libreria l'Ateneo; F. Fiore, "Scrittura del '77". Tesi di laurea inedita, Dams; «A/traverso», "Primavera '77", Stampa Alternativa; «Il Nuovo Canzoniere Italiano», n. 4-5, "La Soggettività Antagonista",

Edizioni Bella Ciao; «A/traverso» n 1 ; «Zut-A/traverso»; «Proposta per l'assemblea di movimento al Teatro Lirico di Milano del 30 aprile-1° maggio 1977»; Claudia Salaris, "Il movimento del '77. Linguaggi e scritture dell'ala creativa", AAA Edizioni.

*** LA «PIAZZA STATUTO» DELL'OPERAIO SOCIALE

* UN POSTFORDISMO SOVRASTRUTTURALE Enzo Modugno "Nous massacrerons les révoltes logiques" Rimbaud Il '77 è prima di tutto una «révolte logique», un episodio del conflitto sociale legato alla trasformazione del modo di produrre che ha richiesto la produzione di nuovi mezzi di lavoro e di nuovi lavoratori. Chi vede solo le cose prodotte non si accorge che i lavoratori sono un prodotto essenziale del processo di valorizzazione del capitale. Bisogna indagare questa speciale produzione se si vuol capire non solo ciò che il '77 ha creduto di essere ma ciò che è stato in realtà. Naturalmente produrre una nuova classe significa prima di tutto distruggere quella vecchia, divenuta obsoleta e capitalisticamente parassitaria. Lavoro non facile, ancora in corso, che di solito è affidato ai meccanismi del mercato del lavoro, ma che da noi, con una borghesia in ritardo sul postfordismo, presentava difficoltà particolari, insormontabili con la sola forza dell'economia. "Deboli le strutture, si ricorre alle sovrastrutture". In Italia era già successo. Agnelli non ce la fa, agli inizi del secolo, a introdurre il fordismo, a produrre l'operaio-massa e a distruggere il vecchio operaio di mestiere e le sue organizzazioni? Ecco il fascismo, che può essere considerato in questo senso come una sorta di "fordismo sovrastrutturale".

Questa volta col postfordismo stesso problema, bisognava distruggere l'operaio-massa, le sue organizzazioni, le sue garanzie e in aggiunta distruggere anche l'autonomia e le garanzie di impiegati, ragionieri, geometri, ingegneri, professori eccetera, per arrivare a una nuova figura intermedia, istruita più dell'operaio ma meno del vecchio laureato, un lavoratore flessibile capace di servire una «struttura non vivente» che manipola rappresentazioni simboliche, una macchina informatica. La formazione e il disciplinamento di questo nuovo lavoratore «mentale» sono la vera questione, il presupposto del postfordismo, perché le nuove macchine informatiche possono intervenire solo se è presente in massa questa nuova forza-lavoro. E se il capitale non ce la fa con la "coercizione economica", con la concorrenza reciproca tra i lavoratori sul mercato del lavoro non ancora avviato, allora deve intervenire la "coercizione politica". Affidata questa volta, dopo molte tentazioni autoritarie, a un accordo con P.C.I. e sindacati. Il '77 dunque si scontrava con una sorta di "postfordismo sovrastrutturale", che certo non fu mai paragonato al fascismo; ma il '77 sentiva sulla propria pelle che sotto sotto il compromesso storico stava facendo lo stesso sporco lavoro, stava pian piano distruggendo la classe operaia per produrne un'altra da consegnare, opportunamente disciplinata, al più sofisticato sistema di sfruttamento. E l'episodio di Lama all'Università di Roma ne è la messa in scena, la rappresentazione visiva. Il segretario della C.G.I.L. tornava dall'Eliseo dove aveva appena attaccato le garanzie dell'operaio-massa con la politica dei sacrifici. Veniva ora all'Università ad attaccare l'autonomia del lavoro intellettuale, a disciplinarlo. Effettivamente far capire all'operaio-massa che con il fordismo finiva anche il suo valore d'uso - e quindi il suo valore di scambio - e agli studenti che non c'era più bisogno di loro come classe dirigente, era un compito arduo. Anche qui però bisogna distinguere tra ciò che credevano - o facevano credere - di essere e ciò che erano in realtà. Forse alcuni di loro credevano di essere ciò che Gramsci aveva indicato a proposito del fordismo, la realizzazione cioè, con un sistema di vita nostro, di quel modo più avanzato di produrre, ma volgendo in libertà ciò che altrove era necessità.

Ciò che realmente erano fu invece smascherato dall'episodio di Lama. Rifiutarono un dialogo paritario, tentarono la persuasione autoritaria con altoparlanti da stadio, persero la pazienza con gli indiani metropolitani e risposero all'ironia con le mazze dei sindacalisti. Furono cacciati ma nel pomeriggio Cossiga continuò la politica con altri mezzi, blindati. Questo era nella realtà il compromesso storico. Produrre e disciplinare questa nuova classe di lavoratori si rivelava dunque una questione sempre più complessa. Il capitale ha sempre usato la macchina consapevolmente come una potenza ostile all'operaio, come l'arma per stroncare le rivendicazioni eccetera: ma questa volta la macchina informatica e il nuovo lavoratore che le corrisponde sono tutta un'altra cosa. Tanto per cominciare, mentre la prima segatrice meccanica «soccombette agli eccessi della plebaglia», la macchina informatica è stata attaccata addirittura dai filosofi: «Nella misura in cui l'uomo si comprende ancora come libero essere storico, egli potrà riuscire a non consegnare la determinazione di sé al modo di pensare cibernetico». Heidegger nel 1965. Subito dopo una plebaglia di liberi esseri storici attacca questo modo di pensare nelle Università e nelle scuole, scopre che è il capitale «quella potenza che attraversa e domina ogni produzione tecnica», capisce che non diventerà mai più classe dirigente, diventa perciò capace di movimenti autonomi, stabilisce alleanze con gli operai-massa in dissoluzione, progetta con loro mondi nuovi - come sarebbe stato un mondo mao-dadaista? - perché è capace di produrre una ricchezza nuova, diventa una classe. E' un inizio, debutta così, tra il '68 e il '77, il nuovo lavoratore mentale. Ma costringere questo soggetto a imboccare la stretta via che porta al mercato del lavoro è un'altra faccenda. Che diventa però una questione di vita o di morte per il capitale postfordista che impegna in questa operazione tutte le sue risorse. Una svolta epocale perché è necessario che cambino non solo le condizioni sociali ma anche le abitudini individuali, non solo la fabbrica ma tutta la società. E' necessario cioè avviare un processo storico - un presupposto, non un risultato del capitale postfordista - che separi l'operaio massa dalle sue

conquiste sociali e i diplomati e i laureati dalla loro autonomia; perché tutti perdano ogni oggettività, cioè perdano quel sistema di garanzie che erano percepite come una vera "proprietà collettiva", unica difesa contro le vicissitudini dell'economia di mercato. Tutti devono essere ridotti a trovare l'unica fonte di guadagno nella vendita "precaria e non garantita" della propria forza-lavoro. Devono cioè essere costretti a lavorare alle nuove condizioni poste dal capitale postfordista. Enrico Ottavo usò la frusta e la forca per portare al mercato del lavoro i riluttanti che preferivano il vagabondaggio. Democrazia cristiana e Partito comunista invece - ma lo si ricorderà altrettanto a lungo - hanno usato, a seconda delle competenze, l'una le armi in piazza, le bombe, i servizi, la banda armata; entrambi le mazze dei sindacalisti, la delazione, la persecuzione politica, l'esilio, la magistratura, secoli di galera, processi esemplari. Ultimo quello di Adriano Sofri, dopo venticinque anni, anche se è cambiato, meglio se innocente, per far intendere a tutti quale deve essere il giusto modo di comportarsi. Ma, appunto, il '68-77 è un inizio. Il "postfordismo sovrastrutturale" vent'anni dopo macina ancora le ultime vecchie garanzie. Quando arriva all'istruzione, ancora una volta si tratta di far fuori il vecchio operaio e il vecchio intellettuale, per produrre in massa il «piccolo scienziato», come graziosamente la letteratura manageriale ha chiamato il lavoratore della «Qualità totale». La riforma della scuola di Berlinguer fa una cosa e l'altra - anche se è arrivata "post festum" -riducendo tutta l'istruzione a un'enorme scuola di avviamento al lavoro che, se non consente più a nessuno di fermarsi alla terza media, in realtà liquida per sempre la formazione intellettuale come diritto di tutti. Robert Owen avrebbe detto: a partire dall'introduzione generale delle macchine informatiche gli uomini, salvo poche eccezioni, sono trattati come macchine secondarie e subordinate, e si è dedicata più attenzione al perfezionamento della materia prima fatta di silicio che a quella fatta di corpo e di spirito. Si dedica dunque più attenzione al «capitale fisso». Quindi non si possono prendere per buone, come alcuni fanno, le dichiarazioni dei ministri quando parlano dell'importanza del «capitale umano» come se col postfordismo i mezzi di produzione fossero diventati i nostri cervelli. Che invece ormai sono

venduti al mercato, subordinati alle macchine e se va bene diventano tutt'al più «capitale variabile». A questo punto un'altra "révolte" sarebbe logicissima.

* QUELL'INTELLIGENTE MOLTITUDINE Toni Negri Dopo vent'anni non è facile parlare del '77. Leggo nei giornali di questi giorni (febbraio '97) delle rievocazioni comiche quando non siano oltraggiose. Per quanto mi riguarda, questi vent'anni son stati lunghi: due o tre di latitanza prima di essere arrestato, poi quattr'anni di galera, sei mesi a fare il deputato, poi tre o quattr'anni di nuovo in fuga, poi la ricostruzione di una vita in esilio... mentre continuavano i processi, gli odii, ancor oggi non placati. Son stati vent'anni eccezionali, anche se si passa dalla considerazione singolare a quella collettiva: attorno e dopo il '77, infatti, si assiste alla radicale trasformazione del soggetto della lotta di classe, e quindi alla fine della storia del «socialismo virtuale»; nell'89 finisce anche il «socialismo reale». In questa prospettiva "il '77è una formidabile anticipazione del '89", e noi ci siamo tanto divertiti allora quanto siamo stati poi felici di veder terminare la barbarie stalinista, un decennio più tardi. Bisognava che questi orrendi feticci fossero distrutti, l'illusione del «socialismo virtuale» come il tradimento del «socialismo reale», perché la lotta contro l'altra e fondamentale barbarie, quella del capitale, potesse riprendere. Con il '77 il soggetto della lotta di classe si modifica. L'operaio sociale, l'intellettualità di massa, gli operatori dei servizi e della riproduzione fanno un'elegante entrata in scena: e chi li leverà più di lì? Oggi questo nuovo soggetto ha ricominciato nella sua feroce decostruzione di un comando barocco: dalle rivolte di Los Angeles a quelle del Chiapas alla Comune francese dell'inverno '95, egli mostra che "il comunismo è ancor solo giovinetto". IERI.

1977, quale triste situazione politica in Italia. Il P.C.I., in quanto rappresentante del «socialismo reale», faceva le sue prove per entrare nella gestione di un processo capitalistico di produzione che stava modificandosi. Cavalcando la tigre degli anni Sessanta-Settanta, del '68 rampante (in Italia lungo un decennio, più che in qualsiasi altro Paese europeo), il lugubre Berlinguer e il pacioso Lama (una sorta di prematuro Eltsin...) vogliono domarla e consegnarla, sfinita e drogata, a una borghesia che... comunque la teme. Non è possibile immaginare una borghesia più ignorante, stupida e vigliacca di quella italica: il suo cinismo non rappresenta una Ragion di Stato qualsiasi ma è solo espressione della sua opaca inintelligenza del quotidiano. Vi ricordate la borghesia italiana del '77? I Montanelli e i Bocca, gli Scalfari e i Biagi, la stampa di partito e le televisioni di regime? Ricordate la paradossale pigra teologia politica di Moro e la feroce teurgia istituzionale di Andreotti... Non ce n'era uno che stonasse. Per sentire una voce diversa avremmo dovuto attendere il grido di un uomo rinnovato dallo scontro con il reale, Moro dal carcere... Di contro, nuovi soggetti insubordinati si presentavano sulle piazze, ma - ciò che più importa - anche e soprattutto sulla scena della lotta di classe, nelle fabbriche come sui nuovi territori produttivi. Nuovi bisogni, dicevano i filosofi - il materialista traduce, un nuovo altissimo prezzo della forza-lavoro. Nuovi desideri, dicevano i poeti - il materialista traduce, una implacabile presenza di comunismo. 1983. CARNEVALE. Se ti fosse capitato di passare da Milano nel luglio del 1976, ti sarebbe stato difficile evitare parco Lambro. Anzi, ne sono certo, saresti precipitato. Un gigantesco festival della gioventù, organizzato da gruppi alternativi un po' frivoli, ma reinventato dal movimento. La gente era tanta, a mucchi come covoni, un tempo, prima della mietitrebbia, sui campi assolati - e mano a mano che le giornate giravano, i gruppi si spostavano. Anche nel corso del giorno lo facevano, per cercare ombra e fresco. Un miope che, come me, avesse preso qual punto di osservazione l'alto del valloncello interno al parco, poteva immaginare di esser finito in un technicolor di generali e battaglie campali nei secoli dello Stato assoluto: un continuo movimento di masse - e ciascun gruppo si portava dietro carriaggi e tende, strumenti musicali e rudimentali arnesi. La sporcizia era quella che raccontano i cronisti di Wallenstein - non di più, malgrado le favole che corsero e il fatto

che il Comune avesse premurosamente tagliato le condutture dell'acqua. E gli spostamenti delle bande erano accompagnati da un alone di polvere - sicché potevi pensare si trattasse di reggimenti, fino a quando non ti arrivava il profumo orientale di quel fumo, a fiotti, fin sulla cima del valloncello. Se scendevi dalla cima ti immergevi in una specie di matassa colorata, avvolgente, tanto densa di desideri quanto scevra di tabù. La gente fumava, faceva all'amore, ascoltava musica, trascorreva dolcemente il tempo nel ritrovarsi, nel sentirsi unita. Ombre leggere alla ricerca di un tempo e di un corpo collettivi. Lo stupore era la prima reazione che provavi - era dunque vero che in quegli anni la resistenza e il rifiuto avevano creato questo potenziale di liberazione! L'emozione si confermava non appena coglievi la predominante condizione proletaria come stile vincente. Un sacco di fenomeni cosiddetti sociologici erano lì, in bella vista, e non avevano più nulla di quelle un po' infami, un po' eccentriche caratteristiche mercantili nelle quali le descrizioni scientifiche (si fa per dire) li traducono. Qui non v'era nulla di eccessivo - nulla che non potesse essere riportato all'umano. Era in realtà un carnevale di poveri - a differenza del carnevale non riusciva tuttavia a risolversi nella ritualità, a esaltare e ad annullare i comportamenti nell'eccezione - era un carnevale che consapevolmente si voleva liberazione. Forse, allora, più simile ai misterici riti ellenici che al carnevale cristiano. Di fatto, la seconda emozione che ti colpiva era di conoscenza. Un corto circuito tra miseria del nuovo proletariato e la forma altissima della sua composizione intellettuale, un gioco che compensava la miseria nella intelligente moltitudine. Ma si dava davvero specifico godimento di questa intellettualità? No. Era e rimaneva un corto circuito. La verità della liberazione non può solo riposare sul particolare. L'intensità del desiderio si tendeva. La nuda fanciulla danzante proponeva se stessa come grazia e speranza ma il desiderio non si placava nell'artificialità e nella convenzione. Droga, musica potevano essere un sovrappiù. Cominciavi a respirare irrequietezza. "Aufstand der Körper" - ricerca del corpo collettivo e insieme rivolta del corpo. Ti accorgevi, poco a poco ma con quella razionale certezza che filtra dalla massa di mille percezioni sensibili, che quanto avveniva era il disegnarsi di una tempesta in un cielo limpido - che prima senti nell'aria e nei nervi e nei muscoli il maltempo che s'addensa, poi vedi improvvise le nubi cumularsi.

Il primo giorno del parco Lambro '76 fu tranquillo, già al secondo ci fu l'esproprio proletario al camion di viveri degli organizzatori, il terzo giorno sparse squadre vennero fuori dal parco a cercare supermercati da svaligiare - colpi d'arma da fuoco risonarono, era apparsa la polizia in forze, sia pure alla lontana. (...) I giornali cittadini, ma si sa che quelli milanesi costruiscono la politica nazionale, ripetevano la minaccia: rimanete nel ghetto. Di fatto, superare quelle transenne che delimitavano il parco significava entrare in un altro mondo - ma è ben vero che in quest'imbuto si travasava quello che era già fermentato, che le coscienze s'erano trasformate e che la loro potenza già pulsava, e che dal parco ora usciva una moltitudine. "Die Jugendproteste haben den Körper neu entdeckt". Rifondazione dei corpi. Una moltitudine: gasata, forse stupefatta dall'hashish, ma nuova e selvaggia. (...) Erano mesi ormai che all'appropriazione nel supermercato seguiva quella nel negozio di lusso, che l'autoriduzione delle bollette telefoniche, dei trasporti, della luce e dei biglietti degli spettacoli si accompagnava all'occupazione di case, che le ronde di intimidazione contro i padroncini del lavoro nero costruivano cammini di ricomposizione sociale e di lotta politica del nuovo proletariato diffuso, che le piazze dei fascisti e degli spacciatori erano ripulite - e nelle scuole era ricominciata l'agitazione, le comunità di fabbrica e di quartiere si ritrovavano nei coordinamenti operai e territoriali - insomma, la trafila delle lotte non riesci più a seguirla. E questa incredibile circolazione di lotte si accompagnava a un salto nel costume associativo - nascevano nuove forme familiari e nuove figure di aggregazione sociale. Quanto il movimento femminista aveva seminato come critica e dissolvimento riappariva come coscienza e comportamento. Toccando la vita intera, il nuovo aveva uno spessore che sapeva d'antico. (...) Si entrava in un'epoca nuova dove il paradosso consisteva nel fatto che l'immediato si presentava come valore e dove il valore si presentava come collettivo, potenza, speranza. La verità era un'essenza pre-riflessiva, una libera disseminazione di vita. Dalla crisi della legge del valore, dalla caduta di ogni parametro oggettivo di valore saltava fuori una tensione progettuale, diffusamente, direttamente interpretata da soggetti collettivi. Questo passaggio aveva una risonanza centrale nella vita degli individui. Il personale è politico. Interpretazioni intimistiche e disfattiste, liriche e miserabili si susseguono. Ma tante sono, tante s'estinguono - un lampo senza tuono. Il personale è politico perché la persona e i suoi valori immediati sono trascinati in una funzione collettiva, responsabilmente collettiva, e là solamente è dato godimento - godimento collettivo del personale, non

rappresentazione, non mediazione, non istituzione bensì immediatezza collettiva. Ma in che figura, dentro quale proiezione del valore? Tutto questo lo avevamo già visto sul terreno dell'analisi e lì il costituirsi della forza produttiva sociale appariva chiaro - godimento è produrre. Ma qui il problema muta, perché se l'analisi lascia spazio all'immaginazione, la vita la costringe invece alla determinazione. Occorreva dunque individuare quel tramite produttivo che faceva delle nuove condizioni del collettivo un progetto reale. Era necessario collocarsi personalmente su quel discrimine, senza temere i venti veloci che battevano la cresta dello spartiacque. Verso cosa andava quella costituzione collettiva del soggetto? Nella sua genesi concreta avevi trovato la festa come elemento creativo - di che cosa? La creazione è prima di tutto piacere di se stessa - conclusivamente, poi, deve manifestarsi quale godimento dell'essere - ma noi al settimo giorno non eravamo certo giunti, né il riposo della conclusione ci era concesso. La superficie avrebbe dovuto scoprire il proprio formarsi come macchina desiderante, come macchina da guerra, potenza - si sarebbe detto da lì a poco. Ma era un riproporre il problema e non risolverlo, né determinare il cammino della soluzione, i primi passi da fare. Eravamo istallati in un sillogismo la cui premessa era certa - la discesa verso le conseguenze era un imbroglio logico e uno spasmo. Tutto questo era già chiaro lì, al parco Lambro, e se ne discuteva con discrezione ma con rigore. Senza soluzione. Si insisteva a dismisura sulla necessità di restaurare il personale come dimensione correttamente dislocata nel collettivo - e i vecchi compagni reduci da tutte le battaglie, forse più di altri e comunque meno ingenuamente, erano a questa costruttiva autocritica disposti. Ma nel momento stesso nel quale questa trasformazione individuale si realizzava, proprio i più vecchi e consapevoli compagni ponevano il problema dell'ulteriore progetto. Che, se non si definiva quel nostro vivere sarebbe stato solo episodio di astratta seduzione. E non potenza. E non antagonismo. La droga pesante al Lambro era proibita. Alcuni spacciatori di ero furono pestati. Ma ce n'era dappertutto e non riuscivi a frenarne il flusso. L'ero si collocava proprio sul vuoto del problema irrisolto: era insieme la più alta costruzione del desiderio e la segnalazione della negatività assoluta di ogni pretesa - quando il cammino del desiderio non fosse stato collettivo, pratico,

reale. L'ero era l'immaginazione che, nell'esigere il dovuto, negava il problema, dissolveva il collettivo. L'eroina era la nostra angoscia. Dal personale al collettivo corre - lo dicevo, lo scrivevo, lo urlavo - un unico percorso, la nostra angoscia dobbiamo trasformarla in un più alto godimento del progetto. Taci vecchio scemo, tale era la risposta - tu corri vuotamente, tu sopravanzi l'essere. C'è nella disperazione la stessa generosità che c'è nell'amore: è su questo punto che i processi si invertono - così tentavo la risposta. Taci vecchio scemo. E allora proviamoci noi - proviamo a scoprire il nesso fra disperazione e amore su quel punto ontologico che è di entrambi più potente perché entrambi li determina: là dove c'è produzione. Produzione di sé e produzione di antagonismo. Qui si affloscia il «taci scemo». Perché non provare? Non è in fondo ragionevole cercare la nostra ricostruzione proprio laddove s'è creata la nostra angoscia? Perché l'angoscia non è solo mia ma è di tutti - è dentro al lavoro e dentro al salario, è dentro la povera consuetudine della famiglia e dentro la rigida misura della giornata lavorativa. L'angoscia è di chi è sfruttato. Sfruttamento è il contrario di felicità, sfruttamento è uguale ad angoscia. Non s'intende l'angoscia senza intendere lo sfruttamento. Ma la distruzione dello sfruttamento è la liberazione del lavoro - realisticamente, in questa condizione è rifiuto del lavoro. Rifiuto del lavoro è nuova produttività. Ma dove sta, qui e non domani, qui, su questo punto, un progetto da percorrere, una speranza da vivere? Si riapre un orizzonte d'angoscia. Forse, forse... Ma è cosa diversa l'angoscia dello sfruttamento e l'angoscia dell'ignoto da scoprire? Su questa distinzione - sull'ottimismo di una ragione che può affermare la virtù e scoprire l'ignoto, si basa tutto il movimento, insieme, della sovversione e della trasformazione. "No future" è il destino - il destino che loro, i padroni, vogliono imporci - ma il destino può essere modificato dalla forza dell'intelligenza alternativa. La fondazione del nuovo soggetto rivoluzionario non è dunque genericamente togliere l'angoscia ma determinarla nella potenza di un nuovo progetto. (...) Parco Lambro si apre sul corto circuito fra miseria e moltitudine, sulla tensione al ricomporsi del personale nel collettivo - vive la sua angoscia quando la sostanza progettuale del nuovo soggetto non riesce a trovare il godimento intellettuale e produttivo che esigeva - si chiude nella determinazione consapevole di un compito.

Il «dividetevi e moltiplicatevi» di apostolica memoria si realizza il mattino in cui questi poveri tornano ai loro paesi e alla metropoli. (...) LA RINASCITA. A Milano, dunque, tutto era rinato. Su Milano si ricongiungevano gli effetti della disoccupazione tecnologica nei grandi complessi tayloristici dell'industria torinese e milanese della Ricostruzione postbellica, e il dinamismo del nuovo proletariato sociale del Nord-Est e dei distretti del Centro Italia. Così si formava una nuova cultura politica. Quale formidabile rinascita culturale fu quella che Milano e il suo hinterland vissero verso la metà degli anni Settanta! Nelle fabbriche e nei quartieri, negli uffici e nelle scuole, nel centro e in provincia e nella Padania intera, è anticipato, per l'Italia, quello che le più avanzate regioni del mondo (dalla California al Baden-Baden, dal Sud dell'Inghilterra alle Hautes-de-Seine, da Tokyo a Singapore) stavano allora sperimentando. Fu prepotente e violento, come lo sono sempre le creazioni culturali che attraversano le classi, le anime e gli spiriti animali della produzione, questo rinascimento. Di fronte c'erano i Grunf-grunf, con le spranghe, quelli del Movimento studentesco milanese, quelle canaglie staliniste. 1983. SCADENZA '77. (...) Il compromesso storico era rampante. Veniva costruendo una intelaiatura legislativa e un infeudamento degli uffici che, con efficacia adeguata, dovevano costituire lo strumento di realizzazione della dittatura dei due partiti maggiori. Una specie di "grosse Koalition" - produzione mistificata di un baricentro parlamentare per risolvere, in demagogia unanimistica, il problema della crisi costituzionale. Era il coronamento della politica, l'unica, perseguita dal P.C.I. fin dagli anni del dopoguerra. (...) Ma il riformismo non affascinava, i giochi erano fatti, sulla nuova composizione di classe la tematica dello sviluppo non mordeva, il problema del soggetto proletario è alternativa di valori e di modo di vivere. La faccia del compromesso storico risulta burocratica, grottesca, gialla al sego. Un

riformismo da sergenti. «Una risata vi seppellirà». Ma come fai a metterli in fila questi operai in scarpe da tennis, queste femministe «impunite», questa giovane forza-lavoro intellettuale che proietta la sua mobilità sull'arco dell'immaginazione? «Tremate tremate, le streghe son tornate». «Zangherì Zangherà ride tutta la città». Il quadro politico è inadatto ad assorbire il nuovo. Caute aperture non servono. La divisione è passata nel profondo e le forze centrifughe si moltiplicano. Aristotelici contro «untorelli». Leggere unitariamente il contesto sociale e normalizzarlo è impossibile. La funzione dominio-sabotaggio è la sola norma effettuale - perché il disegno di regime appare come dominio e i comportamenti proletari, nella loro immediatezza, sono sabotaggio. L'antagonismo attraversa il rapporto sociale e ogni equilibrio di partecipazione è balbettante, arduo quando non impossibile: se chiedo salario sociale saboto la ripresa dell'accumulazione, se invece riprende l'accumulazione crescono la disoccupazione e la povertà - e il valzer continua. Il conforto del sacrificio non si addiceva a questo popolo. La sua imminente reaganiana volgarità in anticipo lo offendeva. Così, provocato da quella bastarda sollecitazione, dalla dismisura dell'appello al la virtù, si scatenò nuovamente il movimento. «Lama nel Tibet». «Lama non l'ama nessuno». Scoprendo un'incredibile compattezza sociale, un'impressionante estensione e uniformità di comportamenti, tanto quanto debolezza politica e una frastagliata molteplicità di obiettivi e di richieste. Una scarica di domande si rovesciò su uno stato maggiore che tentava, e in ogni caso esigeva, la riduzione della complessità, la regolamentazione procedurale della domanda sociale. L'estremizzazione del conflitto fu nelle cose. E il "turbolent environement" metropolitano fu il suo teatro. La repressione economica fu tanto forte quanto la rivolta. Una repressione immediatamente selettiva che colpiva i nuclei portanti della resistenza e del contrattacco, cercando il loro isolamento sociale - assumendo richieste corporative e schiacciando rivendicazioni generali, introducendo una sorta di mercificazione del comando su grandi dimensioni, premio per l'obbedienza politica, pena per la disobbedienza. Il governo delle aree metropolitane si modernizza con urgenza e affanno e tenta un controllo del turbolento teatro in termini di prefigurazione coattiva del mercato del lavoro, dei suoi diversi flussi e delle diverse allocazioni. Ma tutto gli sfugge - perché questo soggetto proletario che era venuto fuori, ha da un lato dissolto la giornata lavorativa (che invece produzione e potere presuppongono data) e dall'altro ha sconvolto lo spettro merceologico, l'insieme di bisogni sul quale si commisura l'azione del capitale e di governo.

Lo Stato diviene il luogo centrale della lotta di classe. Le prassi repressive e quelle sovversive attraversano ogni confine di luogo. Deterritorializzazione. La connessione fra ordine pubblico, controllo sociale e accumulazione d'impresa viene immediatamente colta e interpretata sul fronte proletario come schema unitario e nemico - nemico perché, come dice il teorico marxista, ricalcando i testi classici della "Trilaterale" allora in gran moda, «il capitale cerca di limitare il trasferimento di prassi dello Stato liberaldemocratico alla sfera della produzione capitalistica e di favorire invece il processo inverso: il trasferimento di prassi della produzione capitalistica allo Stato liberal-democratico». E, in quanto nemica, questa connessione va rovesciata, ripercorsa e socialmente sabotata. Se tutto è diventato politico, il soggetto proletario esige di esercitare una sorta di diritto di veto sulla scena politica della metropoli. Così come la esercita il raggruppamento organizzato degli interessi corporativi? Più o meno -padroni maledetti, perché noi no? - ma senza alcuno strumento che non sia, sull'orizzonte proletario, la pura e semplice azione di massa. In breve il teatro metropolitano è una "chaotische multitudo". Il "making" della nuova composizione proletaria sconvolge ogni riferimento tradizionale, travolge ogni parametro conoscitivo. (...) I giornalisti e gli studiosi di cose sociali si buttarono su questa realtà come pirañas. (...) Propagandavano il ghetto, ossia l'alternativa, l'unica, che il potere lasciava al processo di identificazione soggettiva della nuova composizione sociale. Si mettono in moto i grandi processi di mercificazione, dell'avere contro l'essere: si afferma il mercato della droga pesante, si insinuano ovunque il veleno e l'angoscia. "Slump city". Perché l'iniziativa mercantile non dovrebbe essere coerente con la repressione statale? Anche qualche menestrello dell'alta cultura di regime ci si prova: lamenta con alti guaiti il «diciannovismo» risorgente. «Sacrifici sacrifici, più lavoro meno salario». Poveri idioti! «Sbirro maledetto te l'accendiamo noi la fiamma sul berretto». Stop. (...) Noi ora stavamo attraversando questo nuovo spaccato dell'essere che si costruiva. Che masse di uomini costruivano. Che il proletariato metropolitano, l'operaio sociale facevano. Lo iato fra produzione e storia era venuto meno. Le scorrerie metropolitane dei gruppi come le «notti dei fuochi», alla stessa stregua delle strategie dei punk e di tutte le tribù di skinhead, sono prima di tutto una riappropriazione di conoscenza di un soggetto collettivo. E il nuovo produttore aveva la dimensione stessa che la sua azione investiva: un mondo intero, di conoscenza, di passioni. Qui si

chiariva - quando appunto queste dimensioni dell'emergenza del nuovo proletariato erano date - il paradosso estremo: il fatto cioè che il massimo di antagonismo rappresentava il massimo di positività. Identità degli opposti? No - bensì, "realiter", massimo della separazione, liquidazione di ogni omologia dentro un'alternativa radicale dell'esistenza. A Bologna, Roma, Milano è una stagione di grandi cortei - ma la loro violenza non è omologa, eguale e contraria, a quella che le forze della repressione mettono in atto. E' altro. Certo, son pieni di militarismo questi cortei e truci gli slogan. Ma è un gioco tragico, una catarsi di massa. Il simbolo del potere è colto per essere esorcizzato. I passamontagna, le P38, gli "Winchesters" alzati valgono come elementi di liberazione delle coscienze. (Ma valgono anche a uccidere, si obietta. Cinicamente varrebbe rispondere con il computo dei morti di entrambe le parti. Ma non è l'identità che vale - è la differenza - ed essa, essa sola, non assolve dall'omicidio - anzi, più lo fa piangere). Nel corteo, nella lotta, il progetto è di pace, di comunità, di produzione. Una nuova generazione, con passione, si inizia al comunismo.(...) OGGI. Dopo aver riportato qualche materiale d'annata, ci sia permesso di chiederci (tutti insieme) quale sia la morale che si può tirare da questa storia. Mi sembra che se ne possano trarre sei di insegnamenti. a) Il primo insegnamento è che avevamo ragione a pensare che la composizione di classe dell'operaio massa, cioè la vecchia soggettività operaia, stava scomparendo. E soprattutto avevamo ragione nel riconoscere il nuovo che emergeva. Stavamo percorrendo gli incunaboli della storia presente - cioè, vista dal '77, della storia futura. In questo l'operaismo ci era stato estremamente utile, come strumento di conoscenza. Ancor oggi varrebbe la pena che gli studenti aperti alla lotta di classe, cioè tutti quelli che sanno che il materialismo storico è l'unica scienza della storia possibile (scienza della probabilità, della soggettività, naturalmente), riprendessero le tecniche di conoscenza dell'operaismo per andare avanti nella previsione teorica e nella costruzione di un nuovo orizzonte politico. Quali sono queste

tecniche di conoscenza? L'inchiesta operaia, l'inchiesta sulla forza-lavoro immateriale, la partecipazione alle lotte, l'agitazione e la militanza, nelle scuole e nelle fabbriche, nella società e nei "réseaux". Ora, dunque, nel '77, eravamo consapevoli di stare a metà in un cammino di crisi dell'operaio massa, della società e della forma-Stato che erano state le sue; eravamo consapevoli che l'attacco capitalistico alla vecchia struttura politica di classe sarebbe stato irresistibile - dunque, come cambiare terreno? come spiazzare l'attacco? come ricostruire, spiazzata, la forza operaia? Bisognava, così rispondevamo ai nostri problemi, recuperare la nuova figura proletaria - quei lavoratori dei servizi, della riproduzione, della scuola e del sapere in genere, che cominciavano a diventare sempre più centrali nella produzione. Riconoscere ora, che queste sono le nuove forze produttive, vent'anni dopo, è del tutto banale. Triste è ricordare quanti insulti dovemmo subire per aver allora osato introdurre nuovi referenti del discorso rivoluzionario. E chi ci insultava? Coloro che oggi son diventati, da picisti che erano... liberal, pidiessini e ogni altro scherzo della natura! b) Il secondo insegnamento è che avevamo torto a pensare che la maturazione politica del nuovo soggetto potesse darsi subito, e comunque con una potenza tale da contrastare, resistere e superare il contrattacco repressivo che le forze capitalistiche e i traditori del movimento operaio ufficiale avevano scatenato. Per dirla come si diceva allora, «abbiamo sopravvalutato le nostre forze». c) Il terzo insegnamento è che abbiamo sbagliato a sottovalutare la capacità repressiva dei nostri avversari. Spesso abbiamo accentuato quest'errore, facendoci più estremisti quanto più diventava sorda e decisa l'azione del potere contro di noi. Da un tal crescendo non poteva che risultare esaltata la violenza dello Stato. E così avvenne. Siamo stati sconfitti. Molti nostri compagni sono morti. Altri hanno passato e passano molti anni in prigione e in esilio. Altri, per sopravvivere, si sono drogati (ma che vita era...); altri si son pentiti, si son venduti, si son suicidati... Una generazione è stata fatta fuori. Siamo stati definiti una generazione maledetta. I giornalisti ci possono insultare impunemente; i libri di storia patria ci trattano come assassini; i borghesi e i pidiessini recitano giaculatorie quando sentono fare il nostro nome. Per la stragrande

maggioranza di questi maiali, il '77 gli dà il brivido che provavano i borghesi del Cinquecento, in tutt'Europa, a sentir parlare di rivolta anabattista. d) Il quarto insegnamento è che, al di là della nostra sconfitta, avevamo ragione e continuiamo ad avere ragione. Prima di tutto dal punto di vista scientifico, cioè della conoscenza della società, delle sue contraddizioni e del suo divenire. Non solo infatti, prima e attorno al '77, avevamo correttamente identificato, con le tendenze di trasformazione dell'organizzazione del lavoro, un cambiamento di natura della forzalavoro - ma questa intuizione è divenuta con gli anni la nuova «incontournable» definizione della composizione della classe produttiva. Dall'operaio massa all'operaio sociale, dall'operaio sociale all'intellettualità di massa... le cose sono andate davvero così. Forse non siamo buoni politici, infatti siamo stati sconfitti; ma siamo buoni scienziati: non è poco. E dunque, sul piano della scienza aggiungiamo un'altra piccola annotazione: questa nuova soggettività di classe (sociale o intellettuale che sia) è, dal punto di vista «scientifico», definibile come «rivoluzionaria». e) Il quinto insegnamento è che la politica, con l'apparizione dei nuovi soggetti proletari, cambia di natura essa stessa. Il soviettismo, la domanda di democrazia diretta e la riappropriazione dell'amministrazione, la presa del potere in forma di democrazia radicale sono le ultime utopie socialiste. Quando invece il soggetto proletario diviene immateriale, intellettuale, sociale e cooperativo, il comunismo non bisogna più costruirlo ma semplicemente «costituirlo», «esprimerlo». Non c'è più problema di «transizione», c'è solo potenza costituente. Voglio qui dire che, a partire dalla scienza nuova dell'intellettualità di massa, ovvero dall'operaio sociale del '77, noi apprendiamo anche un nuovo uso della forza politica. Non è qui il luogo per discutere le qualificazioni della "nuova forza" del proletariato. Diremo che assieme allo sciopero essa si esercita nell'esodo; che assieme alla riappropriazione essa si forma nell'esperienza costitutiva di tempi diversi e irrecuperabili dallo sfruttamento; che alla conquista del «salario garantito» per tutti coloro che vivono, coniuga nuovi modi di vita. Il '77 è stato, per chiunque l'abbia vissuto, un apprendistato a un nuovo esercizio della forza, anche se poi ha barcollato verso la più antica forma di violenza che è

appunto il terrorismo; ma questo è stato uno scivolone che non è né era nella natura delle cose. La politica, dopo il '77, cambia di natura - dunque. Ovvero, la rivoluzione e il comunismo divengono una maniera di vivere di massa. Non sono, la prima, un momento, un istante o un evento privilegiato; né il secondo un quaderno di utopie da sfogliare e costruire con geometrica progressione. No, rivoluzione e comunismo sono il quotidiano. Le esperienze delle avanguardie politiche ed estetiche divengono comuni. L'avanguardia diviene massa. Chi ha vissuto il '77 ha vissuto una formidabile accelerazione della coscienza comune che la trasformazione e la crisi del capitalismo dovevano, fra gli anni Ottanta e Novanta, imporre alle masse. In piccolo, così come è piccolo ogni paradigma, il '77 prefigura, nella sua materialità, l'apparizione della politica della moltitudine. La scienza si ritrasforma in politica, dopo che la politica reale (quella della repressione) aveva creduto di distruggere la scienza. f) Sesto insegnamento. E' il più importante. E' la sintesi del principio di rivoluzione e del principio di gioia. Il sesto insegnamento è che un passamontagna di gioia non si può mai smettere quando si tratta di tirare un cazzotto a uno sfruttatore di immigrati, a uno speculatore finanziario, a un corruttore di pubblici ufficiali o a un pubblico ufficiale corrotto, a un pubblicitario televisivo o a un ufficiale delle imposte, a un grande industriale o a un organizzatore di lavoro al nero, a un pentito o a un giudice che lo tiene in considerazione, a un giornalista e ai suoi padroni - che in Italia sono solo due o tre... - eccetera. Tutte queste cose, e moltissime altre, non le si deve fare mai con violenza, ma con gioia: la gioia, così si deve tirare un cazzotto... Uno due tre cazzotti, cazzottane uno per educarne cento... Il '77 è questo: la gioia della scienza, dell'avanguardia, del sapere rivoluzionario. Non c'è altra dignità che questa, al mondo. E' un grande sapere epicureo e spinoziano, quello che il ' 77 espresse. Una vera figura della moltitudine (appariva per la prima volta, ma quando appare - sempre più frequentemente - è sempre così).

* LA PARABOLA DEL 77: DAL «LAVORO ASTRATTO» AL «GENERAL INTELLECT» Franco Piperno Ciò per cui il '77 continua la presenza tra di noi, quel che lo rende degno del pubblico ricordo, insomma l'evento che nomina il '77 sbalzandolo a tutto tondo dal grigiore indistinto degli anni trascorsi senza senso, è quell'incepparsi, senza gravi danni, della razionalità economica che fin lì aveva retto i comportamenti collettivi; e il simultaneo apparire di forme nuove di vita sociale, anzi d'antiche. Una sorta di «vita nova» collettiva, solidamente ancorata alla natura animale del legame sociale, è apparsa; per poi rapidamente diffondersi fin negli interstizi più improbabili dello scambio e della comunicazione sociale, fin negli interstizi del mercato mondiale. Queste nuove forme di vita collettiva hanno più di un'analogia con le forme biologiche, in primo luogo l'autonomia, cioè la capacità di produrre desideri di natura tale che il loro appagamento sia reale, cioè sensualmente esperibile. L'autonomia è la capacità di autoregolazione, cioè l'azione collettiva che accorda l'attività dei singoli in modo tale da ottimizzare un qualche risultato; in altri termini una forma vivente ci appare autonoma quando la produzione del desiderio coincide con il processo necessario per soddisfarlo. Il '77, l'anno orribile, è l'anticipazione, secondo modi un po' selvaggi, dell'attività sociale desiderante sul tempo della fabbrica, come modo di produzione del «lavoro astratto». Centinaia di migliaia di giovani e meno giovani hanno vissuto lungo tutto quell'anno e forse più, come se già il lavoro operaio, il lavoro produttivo,

fosse stato riassorbito interamente dalla macchina automatica; come se la produzione ripetitiva in generale fosse già stata affidata al computer; come se la fatica umana, la pena della mente e del corpo necessaria per la riproduzione sociale fosse stata sollevata dalla cifra, dal numero, dalla matematica. Si è trattato di una vera e propria «innovazione sociale», nel senso che sono stati inventati collettivamente, grazie alla cooperazione in fase, nuove abitudini comuni, nuovi «valori d'uso»; e quindi anche nuovi consumi e nuove merci. L'innovazione sociale si è svolta in controtendenza rispetto all'innovazione industriale e ai consumi da questa indotti; il movimento del ' 77 costringe le imprese a una profonda riorganizzazione del rapporto di fabbrica. Così, nel '77 è accaduta la rivoluzione; e fa piacere oggi ripensarla. Una rivoluzione, cioè un rivolgimento periodico del senso comune e una trasformazione adeguata dell'agire pubblico. Questa rivoluzione ha avuto luogo, è apparsa per la prima volta in Italia; così il '77 sembra testimoniare quel curioso primato su scala europea che il nostro Paese detiene nell'innovazione sociale, nella produzione di idee sovversive per il senso comune; primato che, per questo secolo, risale, almeno, alla forma del Consiglio di fabbrica nel primo dopoguerra. Simultaneamente al manifestarsi di nuovi comportamenti collettivi si sono venute coagulando alcune parole chiave, nuovi luoghi comuni, diversi concetti relazionali che hanno, nel corso degli anni, sedimentato un senso comune della relazione uomo-natura incompatibile con quello configurato dal rapporto di fabbrica. Questo mutamento sentimentale appare all'opera prima di tutto nel giudizio sulla tecnica: la tecnica, la macchina generale, il computer non sono più avvertite come minaccia, artefatto umano contro la natura. Il nuovo senso comune avverte la natura calda, animale della tecnica: il suo continuo trasformarsi per astrazioni successive estingue la fatica dissipativa del corpo e della mente.

La tecnica non è una scelta volontaria di classi, popoli o Nazioni, essa è una capacità inconsapevole della natura umana, cioè del corpo. La tecnica è l'amore che il corpo nutre per il riposo, secondo il detto di Eraclito. La naturalità del genere umano, la natura animale del legame sociale si esprime, lungo i millenni, nell'invenzione involontaria di tecniche che sottraggono al corpo umano la responsabilità di erogare energia muscolare e psichica. Questo che è un destino antropologico è apparso nel '77 come volontà collettiva, come programma politico coscientemente perseguito, tutto questo per un attimo, quasi un baleno, come nella pittura elettrica di Pazienza. Il '77, sull'onda del '68, aveva individualizzato il rifiuto del lavoro operaio come condizione cognitiva; e questa condizione si rivelava quella che permetteva di mettere le mani su un'immensa ricchezza che era già là, da tempo, da troppo tempo, in attesa, celata. Si tratta della ricchezza sensuale delle attività collettive volte al potenziamento armonico del corpo, all'approfondimento dell'interiorità, alla crescita della coscienza individuale. Si può ben dire che con il '77 ha origine una forma di individuo sociale, cioè d'individuo consapevole del destino del genere. Così come per il movimento operaio la fonte vera della ricchezza mercantile moderna è il «lavoro astratto», per il movimento autonomo la sorgente della ricchezza vera, quella sensuale, sta nel «general intellect», nella «mente comune», cioè nel grado di cooperazione che racchiudono i comportamenti collettivi, le abitudini sociali. Da qui la spettacolare rottura con la tradizione politica della sinistra che la nascita stessa del movimento autonomo ha automaticamente provocato.

Gli autonomi, infatti, non rivendicano alcun riconoscimento dello Stato nazionale; né sollecitano interventi legislativi. Sicuri di sé, fiduciosi, vogliono fare, agire direttamente; appaiono ben decisi a difendere la loro facoltà di fare, la loro potenza. Qui di seguito vengono pubblicate delle note sul movimento del '77 interpretato alla luce della riflessione sulla tecnica. La prima parte di questo saggio, già apparsa su «Pre-print» n° 1 della rivista «Metropoli», è una descrizione qualche po' dettagliata delle nuove forme di vita sociale quale apparivano in presa diretta all'osservatore del tempo; la seconda parte è, per grandi linee, la ricostruzione della conoscenza sapienziale sulla tecnica, il punto attinto dal dibattito sulla tecnica nel pensiero critico contemporaneo. E' divertente constatare, "ex post", come si possa ben fare senza nulla comprendere o quasi; e come il non-fare si riveli, a volte, un'astuzia per meglio comprendere. - febbraio 1978. "Autonomia possibile, valore d'uso, lavoro non-operaio". Chiamiamo "autonomia" la forma politica dentro cui si esprime e cresce il movimento del lavoro non-operaio. Si intende per "lavoro non-operaio" sia il lavoro indirettamente produttivo, sia il lavoro produttivo le cui prestazioni prescindono dalla modificazione - più o meno meccanizzata - della merce. Questo segmento di forza-lavoro si caratterizza per essere la materiale articolazione dell'«intelletto generale» nel senso che solo a partire dalla sua presenza dentro il flusso produttivo allargato, il lavoro vivo assume la forma di attività generalmente e compiutamente "sociale", attività in sé conclusa, che non ha bisogno di alcun «fattore esterno» per dispiegare nella

sua interezza la potenza del lavoro come allargamento indefinito della ricchezza o, se si vuole, del processo di "riproduzione sociale". In questo senso, il lavoro non-operaio - nel suo congiungersi al lavoro operaio, continuamente innovandolo e riducendolo - dà al lavoro sociale una dimensione di attività autonoma già dentro il processo di riproduzione capitalistico. La via maestra attraverso cui questa «autonomizzazione» avviene è certamente quella che potremmo chiamare di «incorporamento» della forza produttiva-scienza dentro la forza-lavoro, fino a dar luogo a un vero processo di "sostituzione". L'aspetto più significativo, a livello di rapporti di produzione, è quello di riappropriazione da parte del lavoro vivo della «potenza» e della «socialità» con cui il capitale - in quanto soggetto di «scienza» - si presenta dentro il processo di produzione e riproduzione sociale. Infatti, quando il coordinamento e l'innovazione produttiva hanno luogo via l'impiego della razionalità scientifica; quando, per meglio dire, la stessa dinamica conflittuale con i movimenti della forza-lavoro è costretta a svolgersi sul terreno della scienza come forza produttiva; quando, di conseguenza, «l'incessante trasformazione della natura in industria» assume la forma di lavoro «non operaio», si danno le condizioni per cui gli elementi di comando sul lavoro vivo, che pure la forza produttiva-scienza incorpora, possano trapassare a elementi residuali rispetto all'unità potente «conoscenza e trasformazione» che questa stessa forza produttiva comporta. La forma di capitale allora può essere ricondotta a una dimensione di puro dominio, di arbitrio monetario estraneo alla produzione di ricchezza. In altri termini: il passaggio tendenziale, rilevabile empiricamente, al livello del processo produttivo moderno, del lavoratore come erogatore di fatica (tempo di lavoro) in «sorvegliante e regolatore» tecnico, fonda la possibilità di un'autonomizzazione del processo produttivo rispetto al processo di valorizzazione - proprio perché si dà un'unità fra lavoro e coordinamento del lavoro, materialmente realizzata dal massiccio ingresso, nella produzione sociale, del lavoro non-operaio come segmento crescente della forza-lavoro.

Come ognuno vede, la tendenza sopra delineata è operante in tutta l'area del capitalismo maturo. La specificità della situazione italiana sta invece nell'anticipo con cui il lavoro non-operaio ha imposto se stesso, come interno alla composizione di classe operaia storicamente data, prima ancora che lo sviluppo delle forze produttive dentro la sezione italiana di capitale fondasse l'oggettiva possibilità dell'internità stessa. L'intelletto generale, vivo, vuole vivere - sia pure di vita fragile e inquieta - dentro il lavoro vivo. - "La pratica del rifiuto del lavoro ricompone il «sapere sociale» frantumato". Diverse sono le ragioni che hanno provocato questo anticipo (che ha giocato e gioca come fattore 'principe' nella destrutturazione dell'assetto di capitale in Italia). Impossibile, in questa sede, elencarle tutte. Basterà ricordare il ruolo decisivo svolto dal '68 - e più specificatamente la diffusione e la continuità con cui l'esperienza del '68 è penetrata in questi dieci anni nei comparti del lavoro sociale diversi dalla fabbrica. Mette conto delineare brevemente quale conseguenza - in termini di rapporti di forza fra le classi dentro la produzione sociale - comporti questo rovesciamento anticipato per cui la delega del dominio all'intelletto generale, volta ad assicurare il carattere molecolare del processo di valorizzazione, funziona all'inverso, ricomponendo sulla base del sapere sociale accumulato tutta l'intelligenza produttiva del lavoro vivo contro le condizioni di produzione. A partire dal 70, sia pure con ritmo ineguale, pieno di pause, arretramenti e cadute improvvise (valga per tutti la paralisi del movimento nei mesi successivi alla rivoluzione dei prezzi petroliferi) gli elementi di "rigidità" introdotti dalle lotte hanno inceppato e poi scardinato il mercato del lavoro. Un rapido confronto tra il tasso di crescita dei salari, della produttività e dell'inflazione testimonia come nello scontro tra il tentativo capitalistico - organizzato su scala multinazionale, in primo luogo Usa e R.F.T. - di contenere il lavoro necessario per aumentare il pluslavoro in quanto

plusvalore, e la pratica operaia di ridurre il lavoro necessario "per" assicurarsi più tempo libero (come tempo "otium" o come tempo per un'attività appropriante altra ricchezza), ha prevalso, sul "trend" della produzione e riproduzione sociale, il comportamento di parte operaia. E' così sotto gli occhi di tutti la diminuzione drastica dell'orario di lavoro effettivo rispetto a quello ufficiale (per via di assenteismo, pause più o meno concordate, rigida attinenza alla mansione e alla collocazione anche fisica), e l'aumento vertiginoso del doppio lavoro, soprattutto come «part-time». Si badi: il fenomeno odierno non ha alcuna analogia con quello - di proporzioni raffrontabili - degli anni Cinquanta. Lì infatti il secondo lavoro si presentava come del tutto annesso alla dinamica della produzione di plusvalore (assoluto in primo luogo). Si trattava allora di prolungamento della giornata lavorativa strettamente intesa, in cui - stanti i livelli della produttività sociale dell'Italia postbellica, nonché i rapporti di forza fra le classi - il doppio lavoro era dilatazione del «tempo immediato di lavoro» - perché il rapporto di lavoro necessario-pluslavoro si desse nelle proporzioni richieste dall'accumulazione capitalistica. Insomma: il doppio lavoro veniva vissuto da parte operaia come lavoro necessario, mera occasione di sopravvivenza, costrizione imposta dal nemico sociale. Del resto, a riprova di questa considerazione, basterebbe ricordare il carattere rigido del doppio lavoro, il suo essere, cioè, tempo interamente regolato e ritmato della logica del processo di valorizzazione, impermeabile a ogni tentativo di autoregolazione o solo di fluidificazione operaia. Assai diversa è la situazione presente: qui siamo di fronte a una riproduzione «garantita» ottenuta tramite una pratica sociale di rifiuto del lavoro, che per estensione e profondità è senza precedenti nell'Occidente capitalistico. Questo è un passaggio decisivo, il cui possesso è indispensabile per la comprensione della situazione di classe in Italia. - "Nuova socialità della cooperazione lavorativa".

Quando, infatti, si insiste, nel rappresentare la congiuntura italiana, sugli elementi di rapina che la forma di produzione della «fabbrica diffusa» comporta; quando il doppio lavoro appare come mera estensione di sfruttamento, rastrellamento «sordidamente giudaico», negli interstizi della società - ecco che vengono a essere rimosse proprio le caratteristiche soggettive, di parte operaia, che storicamente hanno determinato, in qualche modo, "in avanti" le condizioni di produttività date. E questo è vero non solo per il lavoro «part-time» (che, come ognuno sa, postula un alto grado di socializzazione e automazione dei settori produttivi o dei servizi che lo richiedono); ma è vero perfino per il «lavoro a domicilio»-la vacca sacra di tutte le interpretazioni pauperistiche e regressive dell'economia italiana. Giacché, come è possibile non vedere che se elemento fondante del recente e massiccio allargamento del «part-time» del lavoro a domicilio è stata la lotta al lavoro produttivo da parte dell'operaio massa, la formazione stessa ha avuto tuttavia luogo dentro «l'incessante trasformazione della natura dell'industria» - anzi addirittura come ulteriore sollecitazione della stessa? Qui non si tratta di un regressione nella forma della cooperazione sociale, di un ritorno a forme che precedono la manifattura ("humus" desiderato del rivoluzionarismo protocomunista italiano che, giustamente, vede il proprio possibile successo affidato alla «infinita potenza» della povertà, al regresso, alla barbarie). Il lavoro a domicilio di cui si sta discutendo è sempre organizzato dalla grande impresa sulla scala della cooperazione sociale - e richiede quindi un ulteriore salto in avanti nei processi di automazione nonché nell'integrazione fabbrica-società. Il lamento sulla contrazione del «fattore di scala» che comporterebbe il passaggio dalla fabbrica, come luogo "murario" del ciclo lavorativo, allo «sminuzzamento» dello stesso ciclo nel lavoro a domicilio, non tiene conto della circostanza che questa disseminazione è solo decentralizzazione fisica - essa avviene infatti forzando il carattere organico della cooperazione lavorativa e materializzando comando e coordinamento dentro la tecnologia dell'automazione; così la divisione del lavoro procede nella sua sussunzione assolutamente classica, "progressiva", delle forze produttive e in primo luogo dei comportamenti della forza-lavoro, rovesciando le difficoltà politiche in un "allargamento assoluto del processo di

valorizzazione", e per questa via potenziando il lavoro sociale come base materiale della ricchezza. Se è vero, infatti, che nel lavoro a domicilio il calcolatore sostituisce le fragili gambe del capo reparto, e la prestazione a cottimo aggira la viscosità dell'erogazione lavorativa di fabbrica, è soprattutto vero che il lavoro a domicilio non è, esaminato nel suo «trend», "lavoro necessario"; nasce «a valle» della giornata lavorativa tradizionale, e quindi dopo che il problema della riproduzione ha ricevuto una soluzione positiva per la forza-lavoro. E d'altro canto le forme in cui il lavoro a domicilio si svolge, la stessa base tecnica della strumentazione fa sì che non si riapre l'era del lavoro parcellizzato, dell'uomo appendice della macchina: anche qui prevalenti sono gli elementi di sorveglianza sulla macchina, e quindi di autoregolazione del tempo di lavoro e di fluidificazione e intercambiabilità delle mansioni. Ancor più emblematica è la forma di lavoro «part-time». Non si tratta infatti dell'eterno «part-time» del bracciante di Cerignola chiamato a surrogare il mulo per qualche ora - laddove il suo bisogno di reddito gli fa desiderare d'essere definitivamente mulo. Se guardiamo i saggi di sviluppo dei diversi settori che utilizzano il «parttime», ci accorgiamo che il più significativo (fino al punto di essere in realtà l'unico esistente) è quello che impiega il «part-time» utilizzando l'intercambiabilità e l'autoregolazione, sulla base della relativa automazione del flusso produttivo, la qualificazione richiesta sembra presupporre, più che una formazione specialistica, il possesso di quella anonima conoscenza sommersa che assicura l'adattabilità come capacità di apprendere puro lavoro in quanto sapere sociale. Mette conto insistere ancora su alcuni tratti «operai» di queste relazioni produttive, che hanno silenziosamente mutato le condizioni dentro cui si svolgono i movimenti delle classi sociali in Italia. - "Una critica al concetto di «emarginazione»". Intanto, diciamo subito che non c'è «emarginazione», disoccupazione e repressione nel senso forte che questi termini hanno nella storia delle relazioni industriali. La raffigurazione del Paese in preda alla miseria

crescente e alla ferocia dei nuovi e vecchi governanti, anche quando appaiono sui fogli dei "radicals" nostrani, sono pure idiozie: gravi solo perché testimoniano quanto separato, ottuso, inutilmente soddisfatto di sé sia quello «spicchio» di cielo della politica che appartiene ai nostri compagni rivoluzionari di ruolo e ai loro «compagni di strada» - posseduti da «delirio repressivo». Sopravvivono perché «controreazionandosi» a vicenda la paura delle proprie paure, coltivano la «volontà d'impotenza», l'orrore per la vittoria e il successo come materialità che si impone. Non si vuole con ciò negare che esista in Italia la logica del mondo «altro dalla ricchezza»: marginalità, disoccupazione, repressione non vogliono morire, si nutrono di lavoro vivo e sopravvivono come possono. Ma tutto questo è banale - vuol dire ripetere ossessivamente una verità vuota: il carattere contraddittorio del «progresso» capitalistico, il suo continuo mortificare e distruggere la «vita possibile» dei produttori come riaffermazione delle proprie condizioni di sviluppo. Ma il punto decisivo è oltre il banale. Come dire: "oltre Seveso". Di chi è l'iniziativa che attraversa e sommuove, ormai pressoché ininterrottamente da dieci anni, tutto il tessuto produttivo? O, se si vuole: come si è andata configurando, nel rapporto fra le classi, la distribuzione della ricchezza in Italia? Quale soggetto è andato affermando il proprio diritto come «diritto nuovo» alla garanzia, all'automatismo della riproduzione senza accettare condizioni sul versante dell'interesse generale - ovvero della produttività sociale intesa come incremento del valore realizzato «pro capite»? Tutta la pubblicistica e la letteratura corrente danno una risposta inequivocabile. La vita quotidiana si incarica da parte sua di «zittire il lamento delle statistiche», facendo penetrare nella testa dei singoli questa «sicurezza bella» del diritto automatico alla vita come diritto imposto. "Per capire questo generale sommovimento non basta tenere d'occhio gli indici «classici» della scienza economica; il quadro si è fatto più complesso e ricco di variabili sconosciute". Vediamo la cosa da più vicino. Si dice: oltre due milioni di disoccupati, soprattutto giovani.

Reinnescato dal «ritardo semantico» delle parole un «pianto costernato» inonda i fogli progressisti e «rivoluzionari». A prendere sul serio i termini (che informano perché richiamano analogia) ci sarebbe da aspettarsi che due milioni di persone vivano nell'indigenza, e una percentuale così cospicua (diciamo centomila) sia prossima all'inedia. Come ognuno può vedere si tratta di una rappresentazione distorta dell'uso di vecchie parole per denotare fatti nuovi. - "Il «soggetto sfruttato» considerato dal punto di vista della sua ricchezza". L'attuale disoccupazione italiana ha luogo in condizioni affatto originali. Il livello della spesa pubblica, in specie per sanità, scuola, servizi è di tale portata da sdrammatizzare alla radice il fenomeno. E il fatto che tutto questo poggi su un apparato pubblico «improduttivo» al quale va destinata una fetta del plusvalore sociale, è fatto - dal punto di vista dell'interesse di classe -assolutamente secondario a fronte del «valore d'uso» di questi servizi e anche dell'effetto di alleggerimento che l'occupazione in essi esercita sul mercato del lavoro, concorrendo in modo non secondario a impedire il formarsi di un esercito industriale di riserva. Da questo punto di vista, si può dire che la contraddizione passa "attraverso" le spese dello Stato; e che si dà un preciso interesse operaio al mantenimento delle funzioni definibili come «improduttive». D'altro canto le occasioni - più o meno legali - di reddito che un sistema produttivo a capitalismo maturo genera di continuo, rendono la disoccupazione in certa misura, un «tempo di lavoro» autoregolato, saltuario, non irrigidito. Del resto, basta osservare che la stessa categoria anagrafica del disoccupato è, nelle statistiche, definita per negazione - in quanto condizione che difetta nella regolarità e continuità della prestazione lavorativa. Ma mentre questa condizione denotava in passato, ad esempio negli anni Cinquanta, estraneità al processo produttivo o comunque alla distribuzione del reddito, questo non è più vero, almeno nella generalità dei

casi, dentro una produzione sociale così elastica e insinuante - in cui fabbrica e società diventano sinonimi. Forse bisognerebbe cominciare a pensare alla disoccupazione non come «mancanza», come «difetto», ma come «presenza», come «pienezza». Giacché solo gli ideologi del lavoro produttivo - specie zoologica in estinzione confinata ormai in quegli spogli parchi che sono gli uffici studi del sindacato e del Partito comunista - rimuovono, mentendo per omissione, la componente di rifiuto del lavoro produttivo che v'è nel fenomeno della disoccupazione giovanile. Anche qui il comportamento soggettivo è un «indizio forte» di questa asserzione. Al di là della rilevanza statistica dei dati -che pure testimoniano un allargamento a forbice tra giovani disoccupati anagraficamente censiti e occasioni di lavoro precario, nella forma giusta, non utilizzata - assai più probante è la fuga della fabbrica, tipica di quella nuova generazione di operai che sono, a un tempo, studenti un po' balordi delle scuole di ogni ordine e grado. Qui siamo di fronte a una novità di comportamento di grande rilievo. Negli anni Sessanta la fabbrica era, in specie per la forza-lavoro giovanile, un'occasione privilegiata di reddito e, per una minoranza politicizzata numericamente significativa, anche sede, orgogliosa e decisiva, della lotta e dell'organizzazione politica di classe. Insomma «militanti e produttori» insieme si era solo nella fabbrica. Qualcosa in questo registro così lineare si è ora irrimediabilmente rotto. Il giovane operaio guarda fuori dalla fabbrica alle occasioni più fluide e meno rigide di reddito - ma guarda fuori anche con gli occhi del corteo duro che spazza il centro cittadino, con l'ansia dell'espropriatore-ladro, con la vigile attenzione del terrorista: anche qui si tratta di una minoranza, in vero numericamente ridotta, ma la sua stessa esistenza come «distribuzione normale» in ogni agglomerato operaio attesta la non interpretabilità in termini di devianza, di scarto statistico; e ciò è, di per se stesso, un salto rispetto al passato. Certo, tutto questo è anche risultato del processo inflazionistico, della progressiva importanza del «capitale produttivo di interesse», del risarcimento consumato dai circuiti monetari come risposta padronale all'egemonia dell'operaio in fabbrica. Ma appunto è la straordinaria

continuità dell'innovazione produttiva operaia che va sottolineata come chiave di comprensione del presente - rattrappimento dell'erogazione lavorativa in fabbrica, utilizzazione delle occasioni fluide di lavoro che il capitale è costretto ad approntare dentro la produzione allargata. - "L'incessante erosione del pluslavoro". A ben guardare la «porta stretta» attraverso cui passare per comprendere la situazione italiana è data dalla "«genesi» delle condizioni, dentro le relazioni produttive, che consentono l'affermarsi della rigidità operaia (vera e propria erosione progressiva di plusvalore) senza che la macchina produttiva precipiti verso la paralisi - con conseguenze che finirebbero per schiacciare lo stesso contropotere operaio". Il che equivale a interrogarsi sul «segreto» che ha permesso di incrementare il rapporto lavoro necessario/pluslavoro in una misura senza precedenti nella storia italiana e senza confronti nell'Occidente capitalistico - tenendo tuttavia il debito complessivo del Paese verso l'estero entro i 20 milioni di dollari: che vuol dire il 10% del G.N.P. annuale e appena 1/5 dell'ammontare di capitale trafugato all'estero in soli sette anni (dati del 1976). Bene: ricorrendo per brevità d'esposizione a una risposta schematica si può affermare, in primo luogo, che la lotta operaia contro il pluslavoro in fabbrica ha potuto imporsi, ben al di là dei risultati contrattuali, perché il lavoro non-operaio dentro e fuori la fabbrica ha progressivamente desistito dai suoi compiti di comando e controllo per configurarsi tendenzialmente come «coordinamento e innovazione». Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che è il comportamento molecolare di milioni di uomini, che dovrebbero «sorvegliare e punire» altri uomini, a permettere la sottrazione alla costrizione del «ritmo», il fiorire delle pause, il ridimensionamento della fatica. Il lavoro non-operaio che vede se stesso dentro la composizione di classe operaia assicura, nella quotidianità della produzione sociale, l'espandersi dell'erosione del pluslavoro. - "Tempo di lavoro/tempo di non lavoro".

D'altro canto questo comportamento soggettivo del lavoro non-operaio spinge all'automazione della produzione come tentativo di oggettivare il comando nel capitale costante; ma anche come mera condizione di sopravvivenza del ciclo produttivo. A sua volta l'allargarsi dell'automazione offre altre occasioni all'intelligenza produttiva di sfuggire al «tempo immediato di lavoro», contrae assolutamente e relativamente la presenza della forza-lavoro in generale e di quella produttiva in particolare nel processo produttivo diretto, pone le basi per una ulteriore riduzione che può assumere l'aspetto di pluslavoro o di «tempo libero» a seconda dei rapporti di forza tra le classi. Vale la pena ricordare, a proposito del tempo libero, che anche qui qualcosa è mutata; non è tempo libero dell'impiegato svizzero impaniato dalle agenzie di viaggio: tempo che «trascorre senza senso restando tuttavia soggetto ai ritmi del mondo del lavoro salariato e alla sua ideologia». Il tempo libero se è in parte tempo di lavoro (ma autoregolato) per procurarsi reddito, è anche «otium» in quanto tempo dedicato ad attività più alte; ad esempio: all'organizzazione e all'allargamento della lotta - per quanto ingenue possano essere le forme che tutto questo «mediamente» assume. D'altro canto il «tempo libero ha naturalmente trasformato colui che ne dispone in un soggetto diverso; ed è come tale che egli entra poi anche nell'immediato processo di produzione». Insomma questo «feed-back» positivo che si è istituito tra rifiuto operaio del lavoro produttivo - comportamento dentro la produzione del lavoro nonoperaio - automazione (feed-back che rende vischiosa e qualche volta arresta, stante la relativa arretratezza delle forze produttive, la connessione processo di valorizzazione-processo di produzione) trova il suo «spunto iniziale» nel comportamento del lavoro non-operaio che ormai sembra guidare tutta la dinamica. Si è già accennato alla complessità della ricostruzione storica di questo comportamento - probabilmente analogo a quello di altri Paesi a capitalismo maturo ma, certamente, specificatamente italiano per diffusione e profondità. Si è già richiamato il '68. Ma ovviamente è un riferimento che a sua volta andrebbe spiegato. Su questo discorso bisognerà tornare. Qui ci interessa evidenziare come sia insufficiente vedere nella «nuova composizione di classe» la base materiale della crisi italiana. Giacché quando si parla di modificazione nella composizione di classe si sottolinea in genere l'ingresso (o il diverso peso

relativo) di un segmento di forza-lavoro dentro il corpo complessivo di classe operaia. Muta la composizione tecnica di classe ma, in qualche modo, si tratta di un'aggiunta, o, come è uso dire, di «proletarizzazione» di altri strati sociali che nel loro ridursi a «classe operaia» si impadroniscono della memoria storica di lotte, comportamenti e istituti organizzativi precedenti. Oggi invece in Italia c'è rottura, c'è mutamento nella composizione politica di classe - il dislocarsi del lavoro operaio non significa assorbimento e mimetizzazione del primo nel secondo, non è una sorta di «reductio ad unum». - "Comando del valore d'uso sul lavoro sociale". L'ingresso soggettivo del lavoro non-operaio dentro il corpo di classe operaia pone un drammatico problema di rottura del comportamento produttivo e politico nella prassi totale del lavoro vivo; che genera - non serve nasconderlo - anche tragiche forzature, lacerazioni nonché tentativi di rigetto. Il che è del resto assai ragionevole - purché si tenga presente che i soggetti denotati con astrazioni (lavoro operaio, lavoro non-operaio) sono in realtà soggetti reali e cioè uomini che intrattenendo reciprocamente nuove relazioni mutano, sono costretti a mutare, radicalmente se stessi. E' una problematica assai vasta; e in questa sede è possibile indicare solo uno dei fili conduttori. L'idea forza con cui il lavoro non-operaio va costruendosi come soggettività è quella del comando del valore d'uso sul lavoro sociale. Malgrado che spesso questa idea-forza non sia penetrata dentro il singolo a mo' di coscienza, i movimenti produttivi e i gesti di lotta del lavoro non-operaio corrono lungo questo filo. Si pensi alle lotte sui servizi sanitari, sulla scuola, sul problema dell'energia. E tuttavia questo valore d'uso non ha un significato protosocialista, artigianale, di possesso intellettuale e controllo da parte del singolo produttore della specifica mediazione tecnica con la natura relativa a una particolare attività lavorativa. In altri termini non è una riedizione del movimento hippie, divinizzazione fantastica del singolo e disprezzo reazionario per la ricchezza. Comando del valore d'uso vuol dire

richiesta di «lavoro utile» come possibilità materiale di "usare", per i soggetti che producono, "della ricchezza sociale" - usare nel senso di godere di essa. Da questo punto di vista la divisione del lavoro, l'organizzazione scientifica della cooperazione lavorativa, la «natura come industria», in una parola la potenza del lavoro astratto, costituiscono il presupposto, il terreno stesso su cui la pratica del valore d'uso s'impianta. Si potrebbe dire che il valore d'uso pretende uno smisurato allargamento di questo stesso processo, desidera la «società umana come racket di massa della natura» - al limite spinge alla riproduzione sociale come processo garantito, meramente automatico, immediato e quieto nella sua anomia -, come l'atto naturale del respirare. Bisogna insistere: l'idea-forza del lavoro d'uso non va ricercata nei documenti che i gruppi politici preparano o nella rappresentazione individuale che il militante ha del movimento. Essa «non si fa vedere a occhio nudo e chiede quindi l'occhio della mente e la presa della teoria». E la mente può ricercarla solo nella fattualità dei processi - purché si intenda per processi la totalità della prassi umana; ma in primo luogo il movimento produttivo del lavoro vivo e i comportamenti politici di massa. - "Valore d'uso è" Valore d'uso è il disgusto del posto fisso, magari sotto casa: è l'orrore per il mestiere; è mobilità; è fuga dalla prestazione stupidamente irrigidita come resistenza attiva alla merce, a farsi merce, a essere posseduto interamente dai movimenti della merce. Valore d'uso è la complicità sociale che il lavoro non-operaio offre, lungo gli interminabili attimi della giornata lavorativa, al comportamento operaio che rifiuta la «cieca fatica» propria del lavoro di fabbrica. Valore d'uso è la volontà di sapere nel suo «attraversare calpestando», con la dolce ottusità dei giovani, il corpo della «madre scuola»; che boccheggia e ansima perché strutturalmente incapace di dare, di rispondere a un bisogno di conoscenza che non si configuri come richiesta di inserimento nei ranghi

del lavoro salariato - e se, dio non voglia, anche qualche rosa viene calpestata tanto peggio per le rose. Valore d'uso è il desiderio di apprendere con tutto il corpo questa nuova sensibilità che emerge da quel continente ricco di toni, sfumature, emozioni sensibili che è l'associazionismo giovanile nel suo rapporto particolare con la musica, il cinema, la pittura, insomma con «l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica». Valore d'uso è la ricerca caparbia di nuove relazioni tra gli uomini, di modo «trasversale di comunicare», di sperimentare, di crescere sul le proprie diversità - e insieme la capacità di non rimuovere la sofferenza, le miserie e le sconfitte di questa ricerca lasciandosi assorbire dalla vecchia norma, reinventando tartufescamente la domenica; bensì cercando ancora, procedendo «a testa alta». Valore d'uso è la «pensosa allegria» propria del furto di oggetti utili, desiderati -che è rapporto diretto con le cose, libero dalla mediazione sporca perché inutile del denaro; ma anche «nostalgia della ricchezza», del vivere gratis, di una pienezza di consumo e godimento come possibilità latente, materiale della società moderna - che forse è aspirazione al paradiso ma solo in quanto disprezzo per le difficoltà inutili perché già superabili; solo in quanto odio per un purgatorio che, nel suo trascinarsi oltre il giusto, cessa di essere preparazione, attesa per diventare privazione giustificata, sofferenza superflua. Valore d'uso è la speranza ingenua con cui nell'agricoltura, nei servizi, nei quartieri, nascono, per vivere fragilmente e poi morire, cento, mille esperienze di «controeconomia», di lavoro utile - come allusione tenera a un'altra forma di lavoro sociale, a un'altra distribuzione del tempo del lavoro in quanto costo sociale; desiderio di conoscere, bisogno di scegliere la destinazione della propria fatica; in qualche modo stima e protezione audace dell'unicità della propria vita. Valore d'uso è la disumana astrattezza dell'omicidio, dell'attentato - soluzione fantastica di un problema reale, rimpianto denso dell'interezza delle proprie possibilità, disperato tentativo di far valere, con orgoglio impaziente, la propria forza sociale; che però, nella forma cortocircuitata della violenza militare, finisce col premiare esattamente il contrario di ciò di cui parla.

Valore d'uso è tutto questo e insieme altre cose: difficilmente verbalizzabili ma certo osservabili dentro la nuova giornata lavorativa, dentro la vita quotidiana - purché cessi il vezzo di ascoltare con un orecchio solo: e avvertire così il rumore dei cristalli rotti ma non lo strofinio di «tutta la tavola trascinata irresistibilmente verso il futuro». - "Inadeguatezza della categoria-denaro a sintetizzare i nuovi bisogni". Forse il richiamo alla Roma del 12 marzo 1977 può rendere nella sua complessità - come ricchezza e indigenza insieme - l'immagine della pratica sociale del valore d'uso. Tutti i tratti prima delineati erano presenti - si davano simultaneamente e nello stesso luogo come in una prova generale, in una scena di massa con centomila attori. Forse bisognerebbe ripartire da lì, dalla «cattiveria sognante» di quel blackout assai meno popolato che quello di New York ma in qualche modo più gravido di conseguenze perché costruito da una «minoranza di massa», perché praticato servendosi della luce. Ripartire da lì, da quell'accaduto, da quella presenza per riannodare i fili del discorso sulla forma denaro, sulla forma stato, sulla forma pensiero, sul sindacato, sul partito e così via. Qui possiamo solo tratteggiare l'approccio che deriva, nell'affrontare alcuni di questi temi, dell'avere l'occhio al «movimento reale che trasforma». Innanzi tutto il valore di scambio o meglio il denaro come capitale. Nella pratica della nuova giornata lavorativa, in questo singolare modo di contrapporsi al movimento della categoria denaro, v'è appena la traccia della tradizione nazional-popolare della cultura cattolica che sente il denaro come colpa, come cosa immonda, come catastrofe dell'essenza umana. Lo scambio lavoro contro denaro viene vissuto come scambio di fatica contro reddito. Ma si dirà: questa è una pratica antica quanto la forza-lavoro. Si può rispondere: la novità risiede nella circostanza che comportamenti produttivi di interi segmenti di forza-lavoro (in particolare il lavoro non-operaio) tendono a imporre, nel funzionamento della

macchina economica, questo tipo di scambio. Per dir meglio: il denaro pretende il lavoro che valorizza, impone che la produzione sociale sia dominata dall'atto di scambio lavoro contro capitale: potrebbe dirsi che il motore segreto della dinamica capitalistica, di questo spirito animale mai sazio che sommuove la storia moderna, è piantato in questo atto di scambio. Di qui potrebbero derivarsi, come altrove è stato chiarito, con passaggi rigorosamente algebrici, tutti i comportamenti dei soggetti sul mercato: compresa la forza-lavoro nei suoi movimenti politici e produttivi. - "Denaro come costo sociale eccessivo". La pratica sindacale di privilegiare l'aspetto reddito sull'aspetto capitale non contraddice questo svolgersi della categoria denaro - stante la capacità del capitale di presentarsi come reddito denaro, reddito astratto che produce esso stesso bisogno astratto di ricchezza, bisogno astratto di godere più che godimento fattuale. E' questa la chiave per capire la sostanziale simpatia con cui gli operai dell'Occidente (ma forse anche quelli dei Paesi a socialismo realizzato) hanno guardato e guardano allo sviluppo capitalistico - ed è ancora questo il passaggio necessario per ricostruire la cosiddetta «degenerazione revisionista» in tutto il movimento operaio; senza ricorrere a schemi interpretativi moralistici tipo «tradimento» che per essere convincenti, dato il carattere ripetitivo e onnipresente del tradimento stesso, richiederebbero una teoria genetica sui funzionari dei partiti operai. Del resto, niente di irragionevole: l'opzione di massa a favore dello sviluppo capitalistico proviene dalla consapevolezza, anch'essa di massa, che - sia pure a prezzo dell'astrattizzazione dei bisogni, sia pur facendo emergere un'«umanità capovolta» - questo modo di produzione assicura, magari con le scorie produttive, l'appagamento di bisogni concreti, l'espansione del processo di vita, il ricambio ricco con la natura. La rottura si delinea quando, sulla base composita, universale, egualitaria, comunicabile, assicurata dal denaro in quanto misura e scopo delle cose, emergono bisogni nuovi, radicali -qualche volta nel senso che non sopportano ontologicamente rappresentazione in termini di denaro: spesso nel senso che avvertono come non più necessaria una loro traduzione in

denaro. Si porrebbe dire: "il denaro come costo sociale eccessivo nell'epoca in cui è la stessa natura a funzionare da industria". - "Bisogni radicali e desiderio di sovversione". E' qui che si evidenzia quel bisogno di non farsi merce che sta a fondamento della pratica della lotta illegale e delle sue forme violente. Bisogno che, a sua volta, è sintesi di bisogni peculiari, diversi, non commensurabili: ultimo bisogno astratto ma scagliato contro l'astrazione come regola; e, per ciò stesso, retroterra reale dell'organizzazione rivoluzionaria post-leninista. Mette conto sottolineare che quando si discorre di bisogni radicali non ci si riferisce a nascoste positive latenze della natura umana, auspicabili ma di esistenza incerta - come le risorse petrolifere non ancora scoperte. Questi bisogni radicali stanno lì 'sotto le chiappe' di tutti. Si chiamano con nomi diversi, spesso hanno odore sgradevole, comportano qualche orrenda formazione e si fanno valere con modi poco civili. Ma ci sono. Il movimento delle donne ad esempio - ripulito da quella malattia ideologica, che lo perseguita come un vizio di cuore, di proporsi come rivendicazione un po' rancorosa l'uguaglianza ossessiva con l'uomo - il movimento delle donne, si diceva, in quanto afferma la "diversità" della donna, la peculiarità dei suoi bisogni non genericamente umani, e la precisa determinazione di far posto, dentro le «relazioni industriali», a questa diversità senza che essa sia costretta a mimetizzarsi nella forma «uguale» il denaro. Non sta qui un fondamento, non elucubrativo, del «diritto ineguale» come possibilità attuale? Ancora: le pratiche lavorative, soprattutto nella riproduzione sociale, che si svolgono attorno alla "solidarietà" piuttosto che alla "concorrenza", assumono una forma «altra» del lavoro salariato: sono qualche volta lavoro socialmente utile, più spesso "attività con scopo" - in cui bisogno e lavoro coincidono. Pratiche sempre esistenti è vero, ma costrette a vivere ieri negli interstizi, negli angoli bui della produzione sociale - come parenti deformi. Oggi tendono a emergere, ad allargarsi innovandosi, a ritagliarsi propri spazi di esistenza e di legittimazione.

- "La «società sommersa»". Quando si dice che il rapporto tra un soggetto sociale costituito sul valore d'uso e la categoria di valore di scambio tende a porsi come mera occasione di reddito si vuole significare due concetti. Alla forma impresa il lavoro vivo (o meglio la parte non irrilevante di esso) chiede garanzia di vita, soluzione automatica del problema della riproduzione. L'orgoglio produttivo, l'erogazione con inventiva, se può, si applica altrove - dopo che è trascorso il tempo immediato di lavoro. Così se i torni, i forni, le caldaie, gli scambi, il sistema macchine nel suo insieme funzionasse da solo ben pochi si sentirebbero diminuiti per questo. Invece dentro la forma valore d'uso segmenti via via più larghi di lavoro vivo applicano la loro forza inventiva, la loro intelligenza produttiva - con risultati non sempre apprezzabili ma con una continuità di sperimentazione che attesta la radicalità del bisogno. Questa «società sommersa» non fonda "kibbutz", non popola riserve in cui si pratichi virtuosamente il baratto. Essa è impiantata come un tumore dentro la società del lavoro salariato - e organizza la sua metastasi, articolandosi, succhiando tutto quello che può col minimo sforzo, badando in ogni circostanza ai rapporti di forza e sottraendosi con grande intelligenza alle battaglie campali, agli scontri decisivi per evitare che l'impiego massiccio di tutti gli anticorpi di cui la società è capace, blocchi la metastasi stessa. - "Non emarginazione, ma estraneità ostile". Come ognuno può vedere siamo ben lontani dal modello esplicativo Asor Rosa - che ha avuto le sue vittime dentro il movimento. Per Asor Rosa la forma impresa è prima società ricca ed equilibrata assediata da ciompi senza mestiere, temibili solo per la loro miseria morale e materiale che è loro propria. Laddove i ricchi non sono certo coloro che vivono "dentro" e

"per" l'impresa - semmai essi hanno diritto a tutta la pietà, non scevra di preoccupazione, dei giovani. Ed è ancora alla complessità del 12 marzo del '77 che bisognerà riandare per ricostruire l'intreccio tra nuovi comportamenti del lavoro vivo (in particolare del lavoro non-operaio) e strategia sindacale. Tutto ciò che prima è stato scritto sulla "pratica del valore d'uso", ancorché incompleto, è sufficiente tuttavia a dare le dimensioni del problema. Il rapporto è di estraneità profonda e, nell'immediato, esso assume la forma di un'ostilità reciproca. La cacciata di Lama dall'Università di Roma, lungi dall'essere una bizzarria estremista, è una spia di questa situazione. Del resto non può che essere così. Il sindacato interpreta sul terreno contrattuale, come autorità salariale, i movimenti della forza-lavoro volti alla propria valorizzazione in quanto merce. Questi movimenti non sono un'invenzione del sindacato. Sono movimenti indotti dallo svolgersi della categoria denaro, ma essendo movimenti reali che trascinano milioni di uomini, hanno aspetti contraddittori. Il sindacato per sua fondazione mette in rilievo i tratti di movimento autovalorizzante di merce. Il conflitto, la lotta che esso rappresenta e conduce si svolge dentro i limiti dello scambio lavoro produttivo-capitale. Oltre questi limiti la forma stessa di sindacato non si dà. Sicché, quando in Inghilterra o in Italia i bonzi sindacali concordano sacrifici con le imprese per salvare l'economia, bisognerebbe smetterla di gridare allo scandalo. Fanno il loro mestiere; difendono insieme il loro posto di lavoro; e gli operai, che sanno apprezzare la divisione del lavoro, non menano alcuna meraviglia. Ma questo movimento autovalorizzante di merce si svolge secondo una dinamica affatto diversa da quella che presiede alla pratica del valore d'uso - nella crisi poi questa diversità tende a porsi come opposizione, come ostilità. E questa ostilità, occorre ricordarlo, non contrappone un pugno di burocrati sindacali al popolo lavoratore. Essa divide il lavoro vivo, si rappresenta come contrasto produttivo, politico, culturale tra segmenti diversi del lavoro - insomma contrappone uomini ad altri uomini sulla scala dei grandi numeri. Il comportamento dominato dal valore di scambio si oppone, è costretto a opporsi al comportamento dominato dal valore d'uso. E' una lacerazione

che attraversa il corpo del lavoro vivo, schiera moltitudini da una parte e dall'altra spesso senza continuità o confini tracciabili in base alle mansioni espletate. E tuttavia si può dire che, mediamente, quello che chiamiamo comportamento dominato dal valore d'uso si ritrova di preferenza tra i giovani che esplicano il lavoro non-operaio; e quello che chiamiamo comportamento dominato dal valore di scambio si ritrova più frequentemente nel lavoro operaio della grande fabbrica. Dunque la lacerazione esiste: e tutto fa pensare che sia destinata ad approfondirsi. Né serviranno a lenire il dolore le comuni reliquie: la notevole omogeneità di lessico e il paradossale rifarsi alle stesse icone (oh, il ritardo della «politica»!) nascondono in realtà universi inconciliabili. E d'altro canto questa lacerazione non sarà certo rimaneggiata dal probabile successo della strategia del P.C.I. mirante a porre l'ipotesi diretta del lavoro produttivo sul governo del Paese - è facile prevedere infatti che la «centralità operaia» come riferimento per la macchina statuale non può che comportare, almeno nell'immediato, l'accentuarsi della pressione volta a ricondurre a forza-lavoro produttiva il lavoro non-operaio, e in genere il lavoro produttivo. Riconduzione che, se non ha alcun respiro strategico dentro lo sviluppo capitalistico - giacché il livello delle forze produttive, la composizione di classe, l'obsolescenza della dimensione nazionale la rendono retrodatata - ha tuttavia la capacità di scompaginare il significato sovversivo dei nuovi comportamenti dentro la produzione sociale, compromettendo una ricomposizione di classe nella crisi attorno alla pratica del valore d'uso. Sembra quindi di poter concludere che la contrapposizione tra segmenti diversi del lavoro vivo è destinata, almeno in Italia, ad accentuarsi - alimentando uno scontro che, in quanto coinvolge milioni di uomini, può essere riguardato come una forma, sia pure sotterranea, di guerra civile.

* NOTE SULLA TECNICA - "Introduzione" Tutti oggi parlano della tecnica - questo concetto è uno dei più familiari. Ognuno sa cosa significa la parola tecnica, a condizione che non si interroghi sul suo significato. Ma ciò che è noto, proprio perché noto, non è generalmente compreso. Nel quadro della nostra analisi sull'intelligenza artificiale, o meglio sulla macchina generale di Turing, cercheremo di fare qualche passo dal noto verso il compreso. Qui, il nostro scopo è tentare d'apprendere ciò che avviene dentro e attraverso la tecnica, di pensare come l'esperienza della tecnica innervi determinate condotte umane. Tralasciamo quindi, nel seguito di queste note ogni considerazione di tipo etico. Nella vita quotidiana, infatti, l'esistenza della tecnica non dipende da noi; e noi non siamo liberi di disporne. Le decisioni che ci hanno condotti a vivere nell'epoca della tecnica sono state prese più di tre secoli fa. Nessuno può predire se in questa epoca, nel corso della nostra vita si prepara un'altra decisione, avversa alla precedente e capace di invertire il cosiddetto corso della storia. Ognuno può, tuttavia, cercare di comprendere l'origine della tecnica, la decisione umana che ha condotto e conduce all'epoca della tecnica. - "La tecnica come protesi". Per far questo, partiamo dalla discussione della tecnica come si è svolta nella cultura tedesca contemporanea.

Uno dei lavori tra i più significativi è quello di Arnold Gehlen: "L'anima all'epoca della tecnica" (1). Gehlen, partigiano risoluto della tecnica, pretende di mostrare che la nascita di quella non è per nulla accidentale. Alcune disposizioni antropologiche dell'agire dell'uomo lo conducono verso il dispiegamento della tecnica. Questo dispiegamento non è opera della ragione - esso risulta dalla parte corporea della natura umana, la parte vitale, propriamente animale, cioè sottratta al libero arbitrio. Da qui quell'area di necessità naturale che paradossalmente circonda lo sviluppo della tecnica. Secondo Gehlen, infatti, il fondamento della tecnica riposa sulla tendenza antropologica a scaricare altrove la fatica, sul desiderio umano di ottenere grandi risultati con minimi sforzi. Così Gehlen ricusa la critica della tecnica relativa al carattere volontario, perché, secondo lui, la tecnica è propriamente involontaria. Gli avversari della tecnica, al contrario, la descrivono come un atto di pianificazione totale al fine di rendere l'uomo despota della natura - costoro mettono in evidenza l'aspetto accidentale, volontario dello sviluppo tecnico: non si sa se esso si arresterà prima di compromettere irreversibilmente la natura umana (2). I partigiani della tecnica denunciano questa concezione della natura umana come romantica. I selvaggi che vivono allo «stato di natura» non si sentono per niente protetti dalla natura, bensì da essa ossessi e perseguitati - e inventano una tecnica, la magia, per difendersene. Infatti, sottomettere la natura attraverso la tecnica costituisce la maniera efficace di allontanare la minaccia che pesa sull'umanità. Quale posizione dobbiamo scegliere? E, soprattutto, quali sono le implicazioni della scelta? Supponiamo, per esempio, di prendere partito a favore degli avversari della tecnica. Saremmo noi disposti a rinunciare alle acquisizioni strumentali della tecnica, alla comunicazione a distanza, all'energia immediatamente disponibile, e così via? Una tale attitudine

esiste certamente nel mondo occidentale; ma essa è costretta dentro ambiti insopportabilmente ristretti, è condannata al folklore - come gli Hammish negli Stati Uniti. Noi restiamo posseduti dalla tecnica tanto se ne esaltiamo le gesta quanto se ne condanniamo i risultati. - "Tecnica, arte, scienza". Questa constatazione è il punto di partenza della riflessione di Heidegger sulla tecnica - né partigiano né avversario della tecnica finisce con l'essere l'uno e l'altro allo stesso tempo. Per lui, la tecnica è la realizzazione della metafisica occidentale. La natura della tecnica è dunque arbitraria; ma, simultaneamente, in quanto realizzazione, essa dona un'apertura sul mondo che è verità, cioè svelamento dell'Essere. La posizione di Heidegger è assai complessa; essa peraltro costituisce un punto di convergenza della discussione sulla tecnica - sicché, per il seguito, ci limiteremo alla riflessione heideggeriana. Al fine di chiarire il senso della parola «tecnica», Heidegger risale filologicamente alla «tecne» dei Greci. Nella conferenza su «La questione della tecnica» egli circoscrive così il significato della parola: "Quanto al senso della parola, dobbiamo tener conto di due punti. Prima di tutto 'tecne' designa non solamente il fare e la destrezza dell'artigiano, ma anche l'arte nel senso alto del termine e le belle arti. La 'tecne' si riferisce alla produzione, alla poiesis; essa è qualche cosa di poetico. L'altro punto da considerare a proposito della 'tecne' è ancora più importante. Fino all'epoca di Platone la parola 'tecne' è sempre associata alla parola 'episteme'. Entrambe sono nomi della conoscenza in senso lato. Esse designano il fatto di potersi ritrovare in qualche cosa, di riconoscersi attraverso qualcosa. La conoscenza dona delle aperture; in quanto tale essa è svelamento. Essa svela ciò che non si produce spontaneamente e non è ancora davanti a noi, può avere ora tale aspetto e poi tale altro, prendere questa forma o quella. Colui

che costruisce una casa o una barca, o forgia una coppa sacra, svela ciò che si può produrre secondo i quattro modi della causa" (3). Secondo Heidegger, non è come invenzione per risparmiare fatica, come lavoro trasferito alla macchina che la tecnica è produttiva, ma come svelamento di ciò che precede e rende possibile l'agire umano. «Questo svelamento associa preliminarmente la forma alla materia della barca o della casa in vista di ciò che s'intende compiere e determina, a partire da là, la maniera di realizzarla». Ciò che la tecnica produce non è valutabile in termini d'utilità, giacché questo prodotto è un compiersi, un dispiegamento della cosa nella pienezza, della sua essenza. Ora, non può compiersi che ciò che già è - la parabola della «tecne» è dunque storia dell'Essere che, attraverso il pensiero e la creazione artistica dell'uomo, esce dall'oblio, si apre e si fa verità. - "La tecnica, la matematica e la provocazione". Dobbiamo qui chiederci: questa analisi è adeguata alla tecnica moderna? Qual è la forma determinata di svelamento propria alla tecnica della nostra epoca? Secondo Heidegger, la tecnica contemporanea resta una maniera di svelare; ma si tratta ora dello svelamento della provocazione e non più della fabbricazione o della "poiesis". La tecnica contemporanea provoca la natura; e, per questa via, la costringe a produrre energia utilizzabile e accumulabile per i bisogni dell'umanità. La condizione di possibilità di questa provocazione riposa sulla scienza moderna, cioè sulla matematizzazione del sapere. La fisica moderna, infatti, non dialoga con la natura attraverso l'esperienza, come fa il sapere premoderno; al contrario, essa è una teoria particolare

della natura che permette a quest'ultima di manifestarsi, attraverso l'esperimento, come essere previsibile, dal divenire calcolabile. Gli esperimenti fisici non interrogano la natura ma solamente quella sua parte mutilata che sa rispondere agli strumenti. Così, conformemente alla provocazione, gli esperimenti svelano una natura totalmente disponibile al dominio umano. Heidegger mette in luce come, a partire già da Galileo e Cartesio, si delinei il carattere distintamente matematico del sapere moderno. "1) Il carattere matematico compreso come «mente concipere» è un progetto della cosità, della cosa che passa al di sopra la cosa stessa. Il progetto apre il gioco dentro il quale le cose, cioè i fatti, si mostrano. 2) In questo progetto è presupposto ciò che sono le cose nonché le forme del loro apprezzamento. In greco, l'apprezzamento viene indicato dal verbo «axioo». Le determinazioni presupposte dal progetto sono, dunque, degli «axiomata» (...). 3) Il progetto matematico in quanto assiomatica è un'anticipazione dell'essenza delle cose, del «corpus»; così il pensiero che pianifica può prevedere come ciascuna cosa è strutturata nonché le relazioni delle cose tra di loro. 4) Questo piano fornisce anche il criterio per la delimitazione del proprio ambito. La natura non è più ciò che determina la forma del movimento ed il luogo della cosa, come facoltà interna del corpo. La natura è ormai il dominio delle connessioni spazio-temporali (...). E' solamente perché inglobate in questo dominio che le cose possono manifestarsi come tali. 5) Il dominio della natura, determinato dal piano assiomatico, esige una via d'accesso, ai corpi e ai corpuscoli che esso ingloba, adeguata agli oggetti assiomaticamente presupposti (...). Gli oggetti naturali sono allora quelli che appaiono all'interno del gioco scelto dal progetto. Il progetto, infatti, prescrive la maniera per la quale essi possono manifestarsi; e ugualmente determina la maniera di capire e riconoscere ciò che appare, l'experiri. La scienza moderna è una scienza dell'esperimento progettato matematicamente. 6) (...) Che la matematica sia un mezzo di determinazione essenziale non è certo la ragione della forma nuova che assume la scienza moderna; al contrario, che una matematica speciale abbia potuto e doveva entrare in gioco, questo mostra che la scienza moderna è la realizzazione del progetto matematico" (4).

Qui ci siamo permessi questa lunga digressione per dare evidenza alla tesi heideggeriana che vuole l'evoluzione della tecnica fondata sul potere progettuale della matematica. La tecnica moderna non è niente altro che il progetto matematico applicato alla natura, nell'intento d'asservirla - e questo implica ridurre la natura a certe proprietà fondative della matematica. Nell'antica Grecia la tecnica si avvaleva già di cognizioni matematiche; ma esse servivano a produrre l'"analogon" del corpo naturale e del suo movimento - sicché la «tecne» mostra la natura come organismo formato da oggetti stabili e localizzati, corpo a riposo insomma. Al contrario, la tecnica moderna prescinde dalla concretezza dei fenomeni sensibili e, attraverso l'astrazione matematica, svela la natura come energia potenziale pronta all'uso. La tecnica moderna, secondo Heidegger, è violenza umana che provoca la natura per obbligarla a produrre energia manipolabile dall'uomo; e già per questo solo fatto, oscura la natura piuttosto che illuminare ciò che si cela latente nel suo seno - come la luce della bomba atomica del 6 agosto a Hiroshima. La violenza della tecnica approda così allo sterminio della vita. A vero dire, è la stessa Terra che diviene bersaglio dell'attacco dell'uomo occidentale, che, per rendere efficace la sua volontà, oggettiva incondizionatamente l'intero pianeta al criterio matematico. L'uomo occidentale è un essere insurrezionale - secondo Heidegger, sia chiaro! (5). Il sapere matematico si è oggettivato nella tecnica fino al punto da compiere quell'insurrezione dell'umanità moderna nel regno della soggettività assoluta. Affermare che Dio è morto equivale a registrare la realizzazione del dominio della tecnica sulla natura e dei linguaggi formali sulle lingue naturali - i due effetti, confondendosi, danno poi luogo al nihilismo come sentimento comune della modernità.

- "La tecnica come esercizio di violenza contro il predominante". La visione heideggeriana della tecnica, fin qui presentata, sembra aprire una scenario di pura minaccia. E tuttavia il giudizio del filosofo è più ambiguo. Già in uno scritto del 1935, Heidegger rifiuta di ridurre la tecnica moderna a distruzione. Certo, egli delinea nettamente il violento carattere che è proprio alla tecnica, ma afferma trattarsi della legittima violenza che il sapere umano esercita nel suo farsi. "Così dunque è la «tecne» che caratterizza il «deinon», il fare violenza, nei suoi tratti principali e decisivi; giacché il fare violenza è qui esercitarla contro il predominante; si tratta, attraverso questa lotta del sapere, di acquisire all'apparenza ciò che prima era nascosto" (6). Heidegger riprende, in uno studio del 1953, il tema della necessaria violenza che l'uomo deve esercitare sul mondo. All'estraneità inquietante della natura, l'uomo oppone, con la tecnica, l'efficacia della sua violenza - vi è, in certo modo, obbligato se vuole conservare il suo predominio. La verità della natura appare a coloro che la violano. La violenza della tecnica moderna, provocando la natura, permette all'uomo di conoscerla. "La tecnica moderna è un modo destinale inerente alla storia dello svelamento dell'Essere, ovvero il modo della provocazione. Anche lo svelamento della 'poiesis' è un modo destinale (...). Lo svelamento è questo destino che, ogni volta, subitamente e inspiegabilmente, si ripartisce in svelamento della 'poiesis' svelamento della provocazione; e così diviso si dona all'uomo. Nella 'poiesis' lo svelamento della provocazione ha la sua

origine: e, nello stesso tempo, per effetto del destino, la provocazione rende irriconoscibile la 'poiesis'" (7). Non è dunque l'uomo che ha scelto questa prospettiva di rendere manifesta la natura tramite la provocazione. La dimensione di apertura all'Essere che la tecnica moderna comporta non è stata, secondo Heidegger, creata dall'uomo occidentale, ma piuttosto è stata a lui affidata. Se la tecnica moderna non è un'opera volontaria dell'uomo ma il seguito dello svelarsi dell'Essere sotto forma della provocazione, cosa possiamo noi fare se non subire questo destino? E in questo caso, qual è dunque la minaccia specifica che cela la tecnica moderna? Il pericolo che corre l'uomo occidentale è che interiorizzando la disposizione provocatrice si ponga come «signore che governa la natura» e cada così vittima inconsapevole della propria cultura. Egli, allora, si pone al centro del mondo e dimentica ciò che rende possibile la sua esistenza, tutto ciò che non è e non può essere opera della presenza umana. L'uomo occidentale rischia di smarrirsi nella disposizione provocatrice, incantato dalla potenza dei suoi effetti. Egli può dimenticare, dimentica ogni altra disposizione possibile diversa dalla provocazione - fino al punto che la "poiesis", la creazione semantica, divenga una facoltà alienata. Dominato dalla furia di ridurre la natura a calcolo per prevedere il futuro, l'uomo occidentale non si avvede dell'incertezza che l'attività calcolatrice introduce «qui e ora», nel suo presente. L'uomo padroneggia la tecnica moderna a condizione di adattarvisi - e questo adattamento è foriero di mutamenti concettuali e sentimentali il cui decorso sfugge completamente all'agire tecnico. Così nessuno può anticipare gli esiti dello sviluppo e delle innovazioni tecniche; nessuno può prevedere se man mano che la natura diviene energia astratta, potenza senza luogo, la Terra non si trasformi in un mondo inospitale, incapace d'accogliere. L'incertezza, lo scenario di morte che apre la tecnica moderna non proviene, secondo Heidegger, dal cattivo uso che l'uomo occidentale fa della tecnica, bensì da una condizione destinale. -"La macchina generale di Turing, ovvero un altro modo dello svelare".

Il giudizio di Heidegger sulla tecnica moderna resta ambiguo; e ciò testimonia del paradosso proprio alla tecnica. L'oscuramento che essa introduce nel mondo è nello stesso tempo la diffusione planetaria della luce accesa dal pensiero greco: la geometria, il platonismo delle matematiche. L'oblio dell'Essere è la dimensione tragica che comporta il successo della tecnica moderna. Ma saremmo noi consapevoli di questa perdita della memoria collettiva se la tecnica moderna non avesse esercitato tutta intera la sua violenza, se non si fosse accesa la luce della bomba atomica quel 6 agosto su Hiroshima? Bisogna tuttavia osservare che l'analisi della tecnica che innerva il giudizio del filosofo tedesco soffre di un'insufficienza iniziale. Heidegger ha preso in considerazione solo due forme della tecnica, che sono poi due modi dello svelare: la produzione artistica e la trasformazione energetica. Egli, nel corso della sua riflessione, non fa alcun riferimento all'informazione e al suo statuto concettuale - altro sia rispetto all'oggetto che all'energia. La macchina generale di Turing (8) così come la sua origine - la logica matematica contemporanea - sono del tutto ignorate da Heidegger. Qui siamo in presenza di un'omissione maggiore, per la riflessione sulla tecnica moderna. La logica matematica, infatti, costituisce precisamente il punto d'approdo del pensiero matematico, là dove esso tocca i suoi limiti - e, per la prima volta, autonomamente, si pensa. La logica matematica contemporanea mostra le estreme propaggini, le frontiere ultime del progetto matematico - invalicabili proprio perché costitutive della matematica stessa. I limiti della matematica sono quelli propri a ogni linguaggio formale, quindi anche alla macchina generale di Turing; cioè a tutte le macchine - ed essi operano fin dall'origine del pensiero matematico e lo limitano dall'inizio già nella forma dell'aritmetica.

La logica matematica contemporanea, e segnatamente l'opera di Godel (9), sembra tutta svolgersi nella messa in rilievo del carattere limitato, propriamente finito del sapere matematico. Secondo Godei, infatti, un linguaggio formale non può essere nello stesso tempo coerente - libero da contraddizioni - e completo - tutto ciò che è vero può essere provato all'interno del linguaggio stesso. Ora, ciò che costituisce l'incantesimo del progetto matematico è quella sua capacità di dare certezza della verità provandola secondo regole definite, accessibili a tutti in principio. La scienza moderna, con Galileo, Cartesio, Newton, aveva matematizzato la natura perché il sapere matematico restava certo, a fronte del crollo di altre certezze secolari, come la centralità e l'immobilità della Terra. La matematica appare divinamente indifferente alle illusioni dei sensi, alle false apparenze che ingannano i corpi. La verità della matematica non ha bisogno d'essere sottoposta all'esperienza; essa è provabile al suo interno. Nella dimostrazione matematica i sensi non intervengono. La certezza nella consistenza e completezza della matematica permette alla scienza moderna di costruirsi come progetto di matematizzazione esaustiva della natura. Dopo Newton, spiegare un fenomeno equivale a trovare una formula, una rappresentazione matematica. Così ai misteri della natura subentra l'enigma della matematica. La logica matematica contemporanea si iscrive precisamente nel seguito di questo progetto: essa tenta il massimo, la matematizzazione del pensare, la costruzione della lingua universale. E, tuttavia, proprio per far ciò, è costretta a mettere in discussione i presupposti concettuali sui quali l'intera matematica riposa. Godel ha spezzato il ramo; e il verme è apparso. Noi oggi sappiamo che la certezza della matematica è senza alcun fondamento logico; e la verità, in sé completa e coerente, se esiste, non può certo essere formalmente provata. Qui, la crisi del progetto matematico emana dal suo seno; e tocca così la sorgente segreta della matematica moderna, la dottrina pitagorica del numero (10). Nella riflessione di Heidegger non v'è traccia di questa crisi, ancorché essa si svolga sotto i suoi occhi. E niente là si dice della macchina generale anche nella versione banalizzata del computer - laddove proprio il computer è la realizzazione della matematica, divenuta familiare.

La macchina generale di Turing è il compimento non solo del progetto matematico, ma anche della critica di quel progetto. Essa quindi marca piuttosto la fine che l'apertura dell'epoca della tecnica. Forse, la tecnica informatica è addirittura un altro modo di svelamento che non è disposizione artistica e nemmeno agire provocatorio.

* NOTE AL TESTO DI F. PIPERNO 1. "Die Seele im technischen Zeitalter", 1957. Gehlen orienta la sua analisi nella direzione tracciata da un altro grande partigiano della tecnica, il tedesco H. Schmidt. Nel saggio "Die Entwicklungder Technih als Phase der Wandlung des Menschen", 1954, la parabola dello sviluppo tecnico è così schizzata: «Nella prima fase, quella della leva, è il soggetto umano che deve fornire sia l'energia muscolare sia l'atto intellettivo perché l'attività lavorativa abbia luogo. Nella seconda fase, quella dei motori, l'energia muscolare è oggettivata dalla macchina. Nella terza fase, infine, quella degli automi, lo sforzo intellettivo del soggetto umano diviene superfluo perché la macchina possiede facoltà intellettive» (pag. 119). Schmidt vuol qui dimostrare che lo sviluppo della tecnica non può essere infinito; e non è opera della ragione calcolatrice ma piuttosto dell'anima sensibile, del lascito animale che caratterizza l'uomo. Egli sottolinea come l'innovazione tecnica può sorprendere senza mai essere veramente nuova, giacché essa è sempre una continuazione della tecnica antica - lo sviluppo tecnico avviene per eliminazione successiva degli sforzi dell'uomo come «animale che lavora». Pur presentando una certa plausibilità, questo schizzo lascia il lettore insoddisfatto. Schimdt occulta il fatto che lo sforzo umano in ognuna delle fasi della tecnica, non viene eliminato ma localizzato altrove. Così, l'automa va concepito e costruito, i suoi programmi devono essere redatti - e in generale più le prestazioni dell'automa sono versatili maggiore è lo sforzo intellettuale per realizzarlo. 2. "Die Technisierung der Welt", 1948, di H. J. Meyer e "Die Perfektion der Technik", 1963, di F. G. Junger sono le due opere che meglio rappresentano la ricchezza del movimento contro la tecnica in Germania. 3. Conferenza del 1933 su «La questione della tecnica», pubblicata in "Vorträge und Aufsätze", 1954, pagg. 13-44. Conf. anche "Überden Humanismus", 1949, pag. 5. 4. Lezioni universitarie tenute nell'anno accademico 1935-36 e pubblicate nel 1962 sotto il titolo "Die Frage nach dem Ding", pagg. 71-72.

5. Conf. "Holzwege", 1950, e in particolare il saggio "Nietzsches Wort «Gott ist tot»". 6. "Einführung in die Metaphysik", 1953, pag. 122. 7. Conf. "Vorträge und Aufsätze", pag. 40. 8. La teoria della «macchina generale» si costituisce attorno all'automa ideale o macchina di Turing. Si tratta di una teoria della macchina che è anche un modello del cosmo; così come la macchina di Carnot è, allo stesso tempo, una macchina termica ideale e una teoria del cosmo. 9. Il pensiero matematico scopre i suoi limiti nel 1931 con i due teoremi di Godel. Il primo afferma l'incompletezza dell'aritmetica. Il secondo mostra come la coerenza interna dell'aritmetica non può essere provata. Questi due teoremi suonano la campana a morto del progetto matematico e della sua pretesa di fondare logicamente il sapere formale. Vale la pena notare come sia proprio l'opera di Godel a permettere la costruzione della «teoria degli automi», realizzata da Turing. Il fatto che la logica matematica possa generare macchine intelligenti non è certo una novità apparsa coi computer; in qualche modo, da sempre la logica ha come destinatario ideale la macchina. Quanto poi al carattere limitativo dei teoremi di Godel, tocca di nuovo costatare come una conoscenza critica della matematica sia tecnicamente più potente del mero sapere matematico. Sulla relazione inconfessabile tra Godel e le macchine, vedi A.R. Anderson, "Minds and Machines", Princeton, 1964. 10. Il pitagorismo o platonismo matematico è una credenza, diffusa ben al di là della comunità scientifica, secondo la quale la matematica è un esempio di conoscenza certa della verità, conoscenza cioè di verità indifferenti all'esperienza dei sensi, sottratte alle ingiurie del tempo. Il platonismo matematico è, secondo Heidegger, il luogo della metafisica, cioè là dove la certezza a priori riposa. Sulle similitudini tra questa posizione di Heidegger e le opinioni che i matematici hanno della matematica, conf. P. J. Davis e R. Hersh, "The mathematical Experience", Boston, 1981, pagg. 31845.

* luglio-agosto 1976. UNIVERSITA', FORMAZIONE DELLA FORZA-LAVORO INTELLETTUALE, TERZIARIZZAZIONE Romano Alquati - "L'impresa e la forza-lavoro intellettuale". La ricerca «Censimento degli studenti» della Facoltà di Scienze politiche ha confermato che la composizione del nostro pubblico studentesco si accorda notevolmente con uno spettro della forza-lavoro intellettuale in Piemonte, in particolare per quanto concerne le imprese. (...) All'interno dell'ipotesi di lavoro di un nuovo rapporto fra Università e territorio abbiamo ritenuto che in una regione come quella piemontese, caratterizzata dalla massiccia presenza delle imprese manifatturiere del settore secondario, in corso di trasformazione anche in quanto momenti «motori» dello sviluppo nazionale e soprattutto dell'accumulazione nazionale, e quindi anche come centri determinanti del potere nel nostro Paese, fosse indispensabile approfondire l'analisi di questo nodo complesso ed enorme: per noi, due o tre volte centrale. Ci è sembrato non fosse possibile comprendere le dinamiche del territorio che coinvolgono con maggiore intensità l'Ateneo piemontese senza approfondire l'analisi del cambiamento in corso nel sistema industriale della regione. Nelle imprese "lavorano già" la grande maggioranza dei nostri studenti, e continueranno in grandissima parte a lavorare anche dopo la laurea. C'è una situazione paradossale, e quasi nessuno nel territorio considera cosa essa implichi: una Facoltà «umanistica» (come è ritenuta la nostra) ha con l'impresa un rapporto tanto stretto, mentre ad esempio il Politecnico, ritenuto quasi esclusivamente collegato in modo profondo e immediato al sistema

industriale, in realtà destina più del 60% dei suoi laureati all'insegnamento, cioè ai servizi! (...) Orbene, proprio per questo, nell'intreccio complesso fra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro complessiva, riteniamo che lo studio delle trasformazioni della forza-lavoro intellettuale nell'impresa, nella loro interazione importante con la fruizione universitaria, vada condotto come momento di una ricerca più vasta sulla formazione della forza-lavoro nel suo complesso in questo momento di rivoluzionamento e del sistema industriale e del suo rapporto con la società e col sistema politico. Questa ricerca è da promuovere battendo ritardi, diffidenze, paure, reticenze e rinunce del movimento operaio al riguardo. Tuttavia sarà compito nostro pressoché esclusivo l'approfondimento della parte relativa alle fasce più alte della forza-lavoro stratificata e gerarchizzata: la forza-lavoro «intellettuale», che appare occupata anche nell'impresa soprattutto in funzioni «terziarie» e che sembra, anche attraverso la fruizione universitaria, «muoversi» verso il cosiddetto «terziario superiore», che poi è anche il più strettamente correlato al profitto e allo sviluppo. Esiste inoltre una cerniera particolare fra forza-lavoro intellettuale e forzalavoro complessiva che qualifica ormai una grossa fetta della funzione dell'Università nel sistema attuale e di cui i docenti universitari si sono finora occupati troppo poco e per di più limitandosi solo a recriminazioni invece di valorizzare le componenti decisive di questa funzione crescente: la funzione di sede di formazione degli insegnanti, cioè la formazione dei formatori, anche se ormai questa loro funzione da un lato è strettamente precaria, dall'altro non esclusiva ma ormai diffusa fuori dall'Università. Questa funzione poi comunque non è esclusiva delle Facoltà di Lettere e Magistero, ma si realizza in tutte le Facoltà di tutta l'Università. Formazione dei formatori della forza-lavoro complessiva: è una funzione che l'Università assolve senza che noi mai ci siamo posti la questione della sua portata politica. Ciò pone appunto il problema del rapporto fra l'intellettualizzazione complessiva della forza-lavoro dentro la sua astrattizzazione (terziarizzazione in senso stretto), e formazione delle fasce più alte della forza-lavoro intellettuale, consapevoli che essa è destinata in gran parte a sua volta alla formazione: e che su questo non c'è solo da piangere. (...)

- "Ristrutturazione e domanda di forza-lavoro intellettuale". (...) La realtà che le forze soggettive del movimento operaio e in particolare quelle che vogliono aggredire il nodo della formazione anche dall'interno dell'Università si trovano di fronte, non solo davanti ma contro, è la «ristrutturazione» del sistema industriale e del suo rapporto con la società: quel rivoluzionamento, in corso dall'inizio degli anni Settanta, della struttura produttiva nel suo rapporto con le funzioni riproduttive con cui la classe capitalistica ha tentato e tenta di rispondere alla lotta degli anni Sessanta, ed espressasi per la prima volta a livelli insopportabili dal sistema nel '69. La ristrutturazione va però ulteriormente definita. Ormai da parte di molti si distingue la "riconversione" dalla "ristrutturazione"; si intende per riconversione il passaggio alla produzione di nuovi prodotti al posto di prodotti attuali, la sostituzione di settori merceologici con nuovi settori merceologici: vedremo che malgrado le aspettative di alcuni anni fa, allorché si è ricominciato a parlare di «nuovo modello di sviluppo», la riconversione non ha assolutamente avuto luogo e non ha luogo; perlomeno nel senso che appunto il movimento operaio si attendeva. La ristrutturazione invece colpisce a fondo, ed è la razionalizzazione del sistema industriale al fine di restaurare il comando e rilanciare il profitto all'interno di un quadro merceologico immutato; ma in realtà essa oggi procede nell'ulteriore restringimento e specializzazione della base produttiva; come sta avvenendo in Italia e in Piemonte. Pertanto oggi in Piemonte e in Italia non assistiamo a nessuna ulteriore diversificazione ma piuttosto al contrario: e si usa il termine diversificazione in modo mistificato per denominare meri processi di commercializzazione che avvengono dentro la vecchia struttura merceologica del sistema industriale. (...) Dunque: la ristrutturazione è un processo politico che agisce innanzitutto modificando la base strutturale dello scambio fra lavoro vivo e lavoro morto nella valorizzazione e nell'innovazione, che oggi passa necessariamente dentro la fabbrica senza per questo rinunciare a prendere dalla società borghese in crisi di crescenza, di sussunzione reale al capitale, tutto il contributo al rilancio del potere (che è il grande inghippo alla strategia

padronale) e del profitto che, malgrado la crisi del sistema politico, la società come luogo funzionale della riproduzione capitalistica può dare, grazie alla prevalente valenza capitalistica di eventuali razionalizzazioni del sistema produttivo. Il momento prevalente della ristrutturazione ci sembra possa essere ipotizzato nella «innovazione organizzativa». A essa è finalizzata anche l'innovazione del prodotto, più che il contrario: e ciò - come vedremo - implica che l'organizzazione dei rapporti «sociali» dentro l'impresa conta oggi più della meccanizzazione del lavoro, nel senso che quest'ultima è subalterna alla prima; (come diceva Marx) l'organizzazione appare ancora più che mai «la via regia» dell'innovazione tecnologica; e in modo peculiare in seguito alla cibernetizzazione e all'uso integrativo dell'elaboratore, macchina politica perché macchina immediatamente organizzativa. E (vedremo che) l'emergere al centro delle ristrutturazione di questa dimensione portante dell'organizzazione - come funzione di comando di un sistema complesso peculiare che estende la sua complessità in una nuova articolazione internazionale, mondiale -viene a spiazzare quasi interamente la vecchia struttura per Facoltà, e per di più «merceologiche», dell'Università italiana e si trova assai vicina alla radice della crisi dell'Università. La ristrutturazione si muove attraverso soprattutto l'innovazione organizzativa e cerca nella fabbrica e nella società margini nuovi di stabilizzazione del potere-profitto che molto sovente colpisce gli impiegati: dentro e fuori della fabbrica, oggi con la nuova organizzazione si aggredisce la forza-lavoro intellettuale, il ceto medio, mettendo necessariamente in crisi un vecchio, secolare, sistema di alleanze della classe capitalistica: prima al fine di resistere alla stretta operaia e poi, battuta quella, di recuperare nuovamente, eventualmente, i nuovi ceti medi, a spese degli operai sconfitti. Questo attacco alla forza-lavoro intellettuale favorisce però oggi nei ceti medi la crisi di consenso; e li induce a una domanda politica nuova che si rivolge anche nei confronti dell'Università: gli studentilavoratori domandano una formazione culturale e politica nuova che va vista come l'altra faccia di un unico processo che ha provocato anche l'obsolescenza della «professionalità» tradizionale della forza-lavoro intellettuale. D'altronde, di contro, il movimento operaio può porsi realisticamente l'obiettivo di una diversificazione e riconversione del sistema produttivo che realizzi una vera valorizzazione dell'egemonia politica della classe operaia. Ma solo se sa raccogliere questa duplice

domanda politica che viene da questa forza-lavoro in espansione: emergente non solo come nuovo alleato privilegiato, ma come componente determinante dei movimenti di lotta della classe operaia stessa. Solo mobilitando e organizzando direttamente la forza-lavoro intellettuale. Non si potrà vincere senza di loro. E la lotta implica la loro formazione; come implica oggi la funzione e l'assetto di questa importante istituzione politica che si chiama Università: nel suo ruolo di cerniera fra la fabbrica, la società e lo Stato. - "Alcuni punti particolari, in via preliminare". (...) L'automazione del lavoro diretto e la terziarizzazione del lavoro in generale (anche indiretto) sono fra gli obiettivi più ambiziosi della ristrutturazione e non un processo residuale, o una sua conseguenza secondaria. Quindi va anche sottolineata la tendenza a ridurre nel nostro Paese il peso materiale dell'operaio massa con la macchinizzazione, col decentramento, con l'espulsione nel Terzo mondo del lavoro diretto delle fasi finali dei cicli più legate allo scambio finale col mercato dei beni di consumo, soprattutto di consumo durevole; e quindi va enfatizzata la tendenza imposta ad accrescere di contro la terziarizzazione della forzalavoro anche espandendo nel nostro Paese le fasi a monte e a valle immediatamente della fabbricazione «manifatturiera» di questi beni di consumo, automatizzandole e commercializzandole. Il Piemonte non deve più essere considerato patria della produzione di massa! E' ormai acquisita la specializzazione del Piemonte nella fabbricazione e riprogettazione riadattativa dei beni strumentali da un lato, e nella loro commercializzazione dall'altro su un mercato mondiale. (...) La nuova divisione internazionale del lavoro, malgrado la forte concorrenza internazionale fra le imprese multinazionali, si viene realizzando con un ulteriore restringimento della base produttiva. E ciò sembra escludere, per ora, malgrado le intenzionalità contrarie del movimento operaio italiano, o soltanto di quello della nostra regione, una reale possibilità di convertire il sistema produttivo del nostro Paese alle «alte tecnologie»: al contrario, aumenta l'ulteriore specializzazione del sistema produttivo (e indirettamente anche di molti servizi e funzioni riproduttive della società

compresa in Piemonte) nelle produzioni di livello tecnologico «medio». Questa concentrazione, specializzazione sul livello medio, ha significato un ulteriore restringimento! Quindi ha operato perfino un'eliminazione di momenti produttivi e riproduttivi di tecnologia medio-alta anche, oltre che di alcuni dei rari picchi nostrani di «alta tecnologia», che ieri c'erano e ora non ci sono più, anche se spontaneamente se ne è formato qualche altro. (...) La flessibilizzazione della vecchia struttura organizzativa del ciclo della grande impresa, rigido e massificato, procede in parallelo con la determinazione di una nuova qualità della forza-lavoro combinata, ora in modi relativamente flessibili, al livello tecnologico «medio». L'egemonia del «vecchio» operaio-massa, che già si era collegato e saldato all'inizio degli anni Sessanta ai professionali, e che poi si è collegato spontaneamente alle avanguardie emergenti dei «terziari», alle giovani forze terziarie, già nel vecchio ciclo del la lotta questa egemonia -ripeto - non è caduta, ma ha cambiato valenza. Malgrado una riproduzione anche quantitativamente allargata degli operai professionali in senso tradizionale, trasferiti però ad altri punti del ciclo, e malgrado lo sviluppo di lavoro precario, attualmente, in questi anni Settanta, l'egemonia dell'operaio-massa si riproduce in un nuovo rapporto, ancora una volta "spontaneamente", realizzato innanzitutto con il nuovo proletariato «terziario» e «quaternario» dell'industria e dei servizi, nonché con certe avanguardie financo della pubblica amministrazione: questa nuova composizione di classe a mio avviso si realizza tendenzialmente dando luogo a una nuova fase storica che sostituisce ormai all'operaio-massa l'«operaio sociale» (come lo chiamo io), oggi embrionale. Questa potenziale, intenzionale, ricomposizione di classe ha come base oggettiva la nuova qualità della forza-lavoro astratta complessa. (...) Perché questo proletariato «terziario» che nella stratificazione sociale sta al di sopra dell'operaio-massa, tuttavia ormai è a sua volta massificato, dequalificato, concentrato, subalterno a un lavoro morto come macchinario computerizzato, con ritmi alti e lavoro svuotato e ripetitivo e parcellizzato, anche nel terziario superiore o «quaternario»... Il nuovo ceto medio proletarizzato è in realtà il nuovo proletariato. Certo allora non è più il vecchio. Queste due grandi variabili, «terziarizzazione» e «proletarizzazione», fino agli anni Sessanta in Italia potevano essere contrapposte; negli anni Settanta non più, neppure fuori del processo lavorativo; esse tendono a combinarsi; ma nel farlo si trasformano. Oggi abbiamo un proletariato al di sopra degli operai di fabbrica, mentre fino a

ieri l'avevamo solo al di sotto; è inutile stupirsene e scandalizzarsi; è un fatto, un fatto peculiare, un fatto «specifico» che ha gigantesche valenze politiche positive per la classe operaia, e che coinvolgono il ruolo dell'Università, già oggi: il suo ruolo di fatto, svolto magari malgrado il suo assetto, anzi, come contraddizione, ormai incontrollabile dai baroni, di questo assetto. (...) La ricerca tecnologica e scientifica si scorpora e si autonomizza: ma si fa all'estero. Oggi il sistema industriale del Piemonte vede un'ulteriore riduzione della ricerca tecnologica di lungo termine e l'acquisto crescente di "know-how" e licenze; mentre cresce solo la ricerca tecnologica più immediata legata all'adattamento e alla revisione delle macchine utensili e dei beni strumentali. Queste produzioni, però, a loro volta sono articolate per costellazioni di imprese che decentrano a cascata la fabbricazione alla piccola industria e al lavoro a domicilio e si limitano al montaggio finale e alla commercializzazione in un'area mondiale di macchinari e impianti la cui parte meccanica, meno tecnologicamente elevata, è fabbricata in Italia, ma quella più importante e di più elevata tecnologia (elettronica) è importata spesso già fatta dall'estero e solo montata sull'impianto. La progettazione si scorpora e si autonomizza: quella che però rimane localizzata in Piemonte a sua volta è applicata all'adattamento di "knowhow" importanti, che poi, sovente, vengono rivenduti al Terzo mondo. Nondimeno, la progettazione che rimane nella nostra regione oggi è fortemente industrializzata, meccanizzata, automatizzata, con espulsione di forza-lavoro impiegatizia trasferita altrove. Pertanto cresce da noi la commercializzazione in senso stretto di macchinari e impianti o di capacità progettativa organizzata. La vendita nei Paesi terzi in parte crescente di impianti e sistemi in gran parte «inventati» all'estero assorbe e promuove giovani operai professionali, che così si terziarizzano. Le produzioni manifatturiere tradizionali, come l'auto, l'elettrodomestico, o quelle tessili e alimentari, si meccanizzano e automatizzano ulteriormente; e soprattutto decentrano e trasferiscono fuori lavorazioni irriducibilmente ad alta intensità di lavoro che ancora strozzano la meccanizzazione del lavoro diretto e anche indiretto: fenomeni come la robotizzazione sono importanti perché eliminano lavoro semplice, eliminano la manifattura che sopravviveva nella fabbrica e ridimensionano l'operaio-massa. In realtà gli unici embrioni di diversificazione sono proprio da vedere dietro ai fantomatici progetti speciali... cioè nella produzione di macchinari per ufficio; e poi, macchinari per l'industrializzazione e operaizzazione del

lavoro impiegatizio anche e soprattutto nei servizi. Infatti andrebbero prese più sul serio dal movimento operaio le aperture, non meramente propagandistiche, delle multinazionali nella produzione di infrastrutture e soprattutto di macchinari e impianti per i servizi. A partire dalle nuove potenzialità di progettazione di ingegneria civile, a partire dalla casa e sistemi residenziali, sistemi di trasporto pubblico, sistemi sanitari eccetera le imprese italiane come la Fiat, la Montedison eccetera hanno cominciato a produrre in serie per l'Italia e soprattutto per il mercato dei Paesi che entrano nel benessere, trasferendo qui nella progettazione i profitti conseguiti con l'auto o con i medicinali. E' questo l'unico ambito che le multinazionali piemontesi e italiane possono ritagliarsi per ora fuori dallo stretto spazio lasciato dal capitale internazionale, che a sua volta però ha cominciato a muoversi in questa direzione e domani potrebbe imporre i suoi prodotti, progetti, impianti e sistemi, ai settori che producono servizi per il consumo pubblico: altro che attendere l'Ente locale! Il problema è controllare questi investimenti di industrializzazione e diversificazione riferita soprattutto ai bisogni degli utilizzatori e quelli dei lavoratori come utenti, secondo una strategia del movimento operaio; ma promuoverli. In questo spazio ristretto, che rischia di restringersi ancora per l'espulsione della ricerca e l'ulteriore specializzazione produttiva, stanno anche le potenzialità di crescita della forza-lavoro intellettuale, di terziarizzazione e quaternarizzazione della forza-lavoro complessiva in Piemonte e a questo quadro deve riferirsi oggi realisticamente il rapporto Università-territorio e in particolare Universitàimpresa. (...) Se tutto ciò è vero possiamo noi pensare che in questa dialettica costituente il terreno della lotta di classe in questi anni Settanta non giochi un ruolo importante la produzione e riproduzione della forza-lavoro stessa? Della forza-lavoro vivente e della sua capacità lavorativa come nuova base della sua capacità di lotta? Produzione e riproduzione della sua qualità e quantità? E in tutto ciò non ha avuto un ruolo, uno spazio politico, la formazione? Sul terreno di nuove unità che rovesciano la terziarizzazione e la industrializzazione di terziari in un più ampio schieramento anticapitalistico, la ristrutturazione ci appare fatta, anche molto, di formazione. (...)

Ma il problema della formazione non si può certo limitare al proposito del giusto smantellamento della rete di clientele che le scuole professionali rappresentano; come d'altra parte anche la scuola di Stato: canale di distribuzione di rendite? Certo, e da più punti di vista. Ma la formazione come momento della valorizzazione della forza-lavoro, della produzione e riproduzione della forza-lavoro, ha ben altra valenza negli interessi della classe operaia, e non si può continuare a ignorarla, sperando nei miracoli dei movimenti spontanei. (...) Certo, quel che conta è innanzitutto la lotta operaia contro la ristrutturazione e l'uso politico che se ne propone il padronato e la classe capitalistica: ma è proprio all'interno di questa lotta che la formazione conta. Non è un diversivo cercare di capire come strategicamente, tatticamente, organizzativamente da parte operaia può porsi il nodo della formazione della forza-lavoro perché essa sia valorizzazione autonoma della capacità politica di lotta della classe operaia. Ed è poi su questa base che si pone il problema della trasformazione e dell'adeguamento di istituzioni politiche come quelle formative separate ma la cui separatezza è in crisi: la scuola e l'Università; sono in crisi queste istituzioni separate e la loro funzione di riproduttrici di separatezza! (...) Nell'area metropolitana la forza-lavoro si «intellettualizza» proprio in quanto forza-lavoro sociale complessiva; autonomizzandosi, in seguito alla sua attuale lenta terziarizzazione e quaternarizzazione, da un adattamento rigido e immediato al macchinario; cui viene subordinata oggi in modo da un lato più indiretto, mediato, e dall'altro più complessivo, esteso, sociale. Anche per questo è andata crescendo negli anni presenti l'importanza politica di questa sfera separata, che tende ad assumere nei pensieri della classe capitalistica un posto privilegiato; poiché è venuto meno gran parte del controllo di essa e delle sue funzioni politiche stabilizzanti, mentre il movimento operaio non ne ha comprese le potenzialità. - "Il processo complessivo di produzione e riproduzione della forza-lavoro". (...) Un altro tema importante di ricerca ed elaborazione si apre dalla constatazione che il processo di produzione e riproduzione della forza-

lavoro non è certo riducibile al momento della formazione istituzionalizzata e legalmente riconosciuta, cioè alla scuola. La scuola rimane fondamentale per il valore d'uso e ancor di più per il valore di scambio, anche se oggi il valore d'uso «nuovo» ha con la scolarità un rapporto crescente. Epperò la produzione e la riproduzione della forza-lavoro, specie nel suo valor d'uso che sappiamo essere oggi assai sfasato con quello di scambio, avvengono anche al di fuori della scuola; ciò è sempre avvenuto nella storia, ma oggi ciò si pone in modo storicamente «nuovo». Il processo «separato» avviene innanzitutto anche in altri momenti della società: essa è definibile non a caso come luogo funzionale della riproduzione; negli anni Settanta anche nel nostro Paese la società borghese tende sempre più a essere letta come luogo della riproduzione della forza-lavoro stessa. E tuttavia la caratteristica dei Paesi di più elevata maturità, ovvero di più elevata accumulazione capitalistica (come ormai malgrado il regresso tecnologico relativo recente è anche il nostro), la separatezza storica della produzione del plusvalore dalla società borghese come sfera della riproduzione viene elidendosi talora in modo assai forte; tanto che in molti momenti, come ad esempio abbiamo già visto a proposito del processo di innovazione, si realizza una forte integrazione fra fabbrica e società; e molte funzioni riproduttive industrializzate a loro volta si fabbrichizzano e si integrano con le tradizionali attività del settore secondario. Molti sono i nodi anche istituzionali che crescono a cavallo dell'interscambio fra fabbrica e società. Ora va detto e precisato che la formazione della forza-lavoro, storicamente, da sempre, come produzione e riproduzione, come sua valorizzazione, è avvenuta anche assai all'interno del luogo stesso di lavoro: e in questi anni Settanta la fabbrica stessa può essere letta in modo ribaltato recuperandola dentro il processo di produzione della forza-lavoro; nondimeno - sembra un paradosso - il processo di riproduzione della forza-lavoro rimane un processo «separato» da quello della produzione immediata del plusvalore, anche se in modo assai relativo: e questa relatività è sempre variata storicamente. Inoltre avviene oggi anche un processo di integrazione della scuola con la fabbrica; proprio come conseguenza della crisi delle vecchie professionalità e in misura in cui la fabbrica stessa si socializza essa vede una sua integrazione con la scuola, che però è ambivalente e si potrebbe scoprire che è funzionale più nel senso dell'autonomia che in quello dello sfruttamento. (...) In termini più concreti e ravvicinati il processo di produzione e riproduzione nella sua interezza deve essere messo in rapporto, in interazione, con la

ristrutturazione del sistema industriale e del rapporto fabbrica-società in Piemonte al fine di ricollocare dentro questo rapporto dialettico anche il ruolo peculiare che vi svolge la scuola. E inoltre dovendo poi approfondire l'elaborazione e l'analisi relativa alle fasce più alte della forza-lavoro intellettuale in questo sistema che sembra intellettualizzare un poco di più l'intera forza-lavoro. E quindi ponendoci il problema della funzione dell'Università.

* aprile 1977 UNO STRANO MOVIMENTO DI STRANI STUDENTI Luigi Manconi e Marino Sinibald. - "Perché proprio nelle Università". (...) Nell'editoriale dello scorso numero di «Ombre rosse» - dopo aver svolto un'analisi sostanzialmente corretta della natura e delle caratteristiche della figura sociale studentesca - scrivevamo: "E' questa condizione materiale e il carattere diversificato e segmentato di questa insubordinazione sociale degli strati giovanili a costituire la ragione fondamentale della crisi attuale del movimento degli studenti. Un movimento come "corpus" in qualche modo omogeneo, con luoghi di aggregazione in qualche modo stabili, con un programma in qualche modo compatto non può sopravvivere alla decomposizione della sua sede fondamentale - la scuola - della sua attività prevalente e del fine a cui è indirizzata (lo studio per il posto di lavoro) e delle condizioni elementari che ne garantivano l'aggregazione (la frequenza, una certa identificazione col 'ruolo' di studente). L'attuale organizzazione della società e l'attuale forza dirompente e disgregante della crisi impediscono che si formino altri luoghi in grado di sostituire la scuola nella sua funzione di socializzazione e di associazione, e comunque non è ipotizzabile, al presente, nessun altro luogo in grado di contenere-unificare i soggetti frantumati e differenziati di quella stessa insubordinazione sociale di cui si è detto".

E' successo invece, in questi mesi, che è stata ancora la scuola - e segnatamente l'Università - a svolgere quella funzione che chiamavamo di «socializzazione e associazione». Perché né noi né le forze politiche della sinistra tradizionale e di quella rivoluzionaria siamo stati in grado di prevederlo? L'errore - che è di analisi e di ipotesi politica - è stato probabilmente quello di dare per interamente consumato il processo di "estraneizzazione" progressiva dallo studio da parte di larghe masse studentesche o, addirittura, della stragrande maggioranza di esse. Ciò ha dato luogo a contrapposizioni fuorvianti, di cui tuttora permangono tracce. E allora va affermato con decisione che l'alternativa non può essere tra un'analisi che veda prevalentemente l'atteggiamento di chi si riconosce nello studio e un'altra che veda prevalentemente l'atteggiamento di chi rifiuta lo studio. Ambedue queste interpretazioni - la prima di parte revisionista e neorevisionista, la seconda di matrice estremistica - sono incapaci di cogliere la complessità degli orientamenti reali e, ancor prima, delle condizioni reali delle masse giovanili scolarizzate; entrambe mistificano e deformano il livello di coscienza prodotto da dieci anni di lotta studentesca. E', questo, un livello estremamente alto che si fonda sulla consapevolezza della natura e delle dimensioni della crisi economica e di come si sia irrimediabilmente chiuso, in conseguenza di essa, il circuito tra formazione scolastica e sbocco professionale. Se, quindi, appare idealistica e avventurosa l'ipotesi che possa essere l'applicazione allo studio (l'incremento della qualificazione) lo strumento per forzare e riaprire quel circuito, ugualmente idealistica e ugualmente avventurosa risulta l'idea che altri canali possano surrettiziamente e artificialmente essere creati (il «preavviamento al lavoro», ad esempio): ma - ed è questo l'elemento che ci è, in passato, sfuggito - nemmeno appare credibile che quel circuito possa essere semplicemente eluso e «saltato», dal momento che questa figura sociale ha dimostrato di possedere radici profonde, sia pure ingarbugliate, nella propria condizione scolastica e nella fittissima rete di collegamenti che essa ha col destino futuro di occupato, inoccupato, sottoccupato.

Da qui, la necessità di ripercorrere interamente, nell'analisi, quel circuito perché è a ogni suo passaggio, a ogni suo nodo, a ogni sua intersecazione con la materialità della condizione studentesca e giovanile che la divaricazione tra studio e sbocco professionale, da una parte, e tra studio e bisogni di massa, dall'altra, si allarga; e perché quanti lo ripercorrono materialmente (le masse studentesche) a ogni passaggio, nodo, intersecazione, misurano la propria oppressione e la necessità-possibilità di liberarsi. "Selezione è l'emarginazione degli studenti, ma non solo, sia chiaro, l'emarginazione degli studenti-lavoratori che non possono frequentare e dei fuori-sede numerosissimi che non hanno i soldi per vivere a Roma mantenuti dalla famiglia, ma anche l'emarginazione di quelli che non ci capiscono un cazzo, che non sanno dove stanno le aule e gli Istituti, che non conoscono le facce dei baroni e dei precari, che non sanno come si entra in una biblioteca e come si chiede un libro, che non capiscono le poche lezioni che sentono (per lo più del primo anno). Dunque selezione è anche il sistema delle informazioni delle Facoltà che è intenzionalmente incasinato e tenuto clandestino. Ma è successo che proprio questi studenti emarginati e non frequentanti, poveracci, ignoranti, donne e lavoratori, questi proletari e sottoproletari dell'Università e della città, hanno con l'occupazione scoperto la loro forza, hanno rotto l'isolamento e la loro disgregazione. Fino a ora qui dentro tutto poteva passare, perfino le provocazioni di Salinari sugli appelli mensili, perfino la soppressione di fatto dei piani di studio liberalizzati, proprio perché eravamo disgregati, isolati e disorganizzati. Anzi più loro rendevano pallosa, selettiva, incomprensibile, estranea questa Facoltà, più noi ce ne allontanavamo e facevamo così il loro gioco perché lasciavamo la Facoltà in mano ai baroni, ai baronetti e ai pochi studenti frequentanti, tra cui ci sono anche i più corrotti e leccaculo (...). Perché selezione è anche far finta che si arrivi a Lettere solo dal Liceo classico, come prima del '68, terrorizzare gli studenti per scoraggiare ed emarginare quelli più deboli (cioè meno borghesi). Selezione è quella di alcuni docenti che se non sai il tedesco non ti danno la tesi, è quella dei baroni di filosofia e storia che chiedono il greco e latino eccetera".

Questo documento - datato 14 febbraio 1977 - della Commissione «Inchiesta sulla Facoltà» individua precisamente, a nostro avviso, il cuore della questione: riconosce nel rapporto con lo studente o (e si tratta della medesima cosa) nel mancato rapporto con lo studio il tratto dominante dell'attuale fisionomia studentesca. La cosa può apparire paradossale: mai come ora, infatti, lo studio, la cultura e - più in generale - la concezione del mondo dei ceti dominanti e degli istituti di mediazione degli orientamenti dei «cittadini» attraversano una crisi irreversibile; e, d'altra parte, mai come ora, la trasformazione capitalistica dello studio in valore e in merce appare in tutta la sua miseria e inutilità. Le grandi masse giovanili sembrano, di conseguenza, costrette - «strutturalmente» e «biologicamente» - a rivendicare occupazione, salario, reddito: a «saltare» di necessità tutto il terreno della loro specifica collocazione nella divisione sociale del lavoro (del non-lavoro) e nella divisione sociale della conoscenza. Non accade così. L'organizzazione dello studio, i luoghi dello studio, i contenuti dello studio appaiono ancora l'aggancio reale e materiale (forse l'unico) con una condizione sociale in qualche modo tangibile, verificabile e (forse) modificabile, la conferma della propria esistenza collettiva, la sola certezza - anche se solo in negativo - di un proprio destino sociale. Esiste, in sostanza, un profondo radicamento di questo «strano» studente nella sua reale e materiale condizione; un radicamento che è coatto e disperato ma che pare non offrire via d'uscita fuori di sé, dai nodi concreti della condizione giovanile (studentesca, lavorativa e non lavorativa), dei passaggi obbligati della rete di relazioni tra vita quotidiana, Università e lavoro (non lavoro). Esemplare è, sotto questo punto di vista, la figura del non-frequentante/occupato: in passato - dieci anni fa - massa di manovra moderata per le iniziative di rottura e divisione nei confronti dei frequentanti/attivizzati politicamente; strato «produttivo» legato strettamente alla funzione di valorizzazione che la laurea assolveva all'interno della gerarchia aziendale; settore sociale dipendente più di altri - per collocazione produttiva e per posizione sociale e culturale - dal sistema di valori dominanti e dalle sue espressioni più tradizionali (dall'ideologia della professionalità a quella dell'ordine). La crisi economica e sociale ha spappolato non tanto "questo strato" - che, al contrario, oggi rappresentava uno dei settori più rigidi della forza-lavoro occupata a media-alta qualificazione - quanto quella funzione e la sua riproducibilità nelle successive e corrispondenti fasce generazionali.

I non frequentanti, oggi, sono innanzitutto i respinti da un mercato del lavoro intasato e da un'Università impazzita che, mentre verificano l'inutilità della seconda, sbattono dolorosamente la testa nel labirinto chiuso del primo. La loro collocazione nel mercato del lavoro, ai suoi margini e nelle sue periferie, è nota (1): è stata già oggetto di molte analisi sociologiche, di uno sterminato numero di mediocri articoli di rotocalco, delle relazioni di cento Istituti di ricerca finanziati da Enti e sotto-enti. Esiste su di essa, ormai, una letteratura e un'aneddotica che si fanno ogni giorno più copiose. Ma anche questo parrebbe contribuire a legittimare una condizione di estraneità consumata e definitiva della massa degli studenti nei confronti dell'Università e dello studio. Ciò corrisponde al vero: una tale estraneità presupporrebbe, infatti, che le masse studentesche vivano in una condizione non-sociale o, meglio, che socialmente non vivano, dispersi molecolarmente in una metropoli molecolare, disaggregati - prima ancora che disgregati - e non aggregabili. E, comunque, non aggregabili nelle Università. Se, al contrario, le Università (in particolare, quelle di Roma, Napoli, Palermo) sono stati luoghi di reale aggregazione per tutto uno strato sociale che vi ha trovato l'occasione per una propria - certo parziale e non definita - ricomposizione, ciò è successo: a) perché l'insorgere della nuova insubordinazione studentesca - come la stampa borghese e quella revisionista hanno stizzosamente lamentato - ha raccolto le mille insoddisfazioni, ribellioni, rifiuti di uno strato mille volte deluso, negato oppresso. Nella rivolta universitaria si sono ricongiunti molti spezzoni di rivolta mortificata e di rabbia contenuta, da quella dei venditori a rate di enciclopedie a quella delle studentesse-baby sitter, sino a quella dei doposcuolisti, dei diciassettisti, dei supplenti; si sono ricongiunti lì, nelle assemblee all'Università, perché lì sono stati spinti dall'unica - ancorché fragile e quasi remota - «memoria storica» di cui dispongono - quella del movimento del '68; b) perché ai vasti processi di proletarizzazione già realizzati e consumati nella condizione sociale di larghe masse non corrispondono - come molti, e

fin dentro le fila del movimento, pretendono quando continuano a rivendicare una «riconversione ideale» nell'atteggiamento dei giovani verso il «lavoro fisico» - nuove opportunità di occupazione manuale "al posto" di quella intellettuale; corrisponde piuttosto la proletarizzazione (manualizzazione) dell'attività intellettuale stessa: la sua riduzione, quindi, ad attività esecutiva e meccanica. Di conseguenza, un numero sempre crescente di studenti chiede all'Università di essere esclusivamente il luogo della formazione elementare, dell'apprendistato di un'attività intellettuale del tutto priva di qualificazione, dell'addestramento di base per un'occupazione che richiede, in sostanza, solo ciò che una volta veniva definita «cultura generale». E questa altro non è se non una cultura da «L'Espresso» e Secondo canale televisivo, frutto della lettura di compendi e di manuali, scritti a loro volta sulla scorta di riassunti e di antologie: Bignami di sociologia, di psicologia e di politica messi insieme sulla scorta di una erudizione umanistico-liceale e destinati a riprodurre nozionismo umanistico-liceale, integrato frettolosamente con aggiunte di annata (ecologia e terzomondismo, psicanalisi e antropologia). Può sembrare grottesco, ma è esattamente "questa" «cultura» a essere oggi richiesta dal mercato del lavoro intellettuale: riedizione aggiornata della medesima «cultura generale» che forniva l'Università del capitalismo libero-scambista alle élite che allora la frequentavano (con la differenza, certo decisiva, che quelle élite venivano formate e addestrate a gestire potere reale). E' una «cultura» che fornisce a chi ne è in possesso possibilità di occupazione grama, precaria e spesso miseranda nelle istituzioni dell'istruzione, dell'industria culturale, dell'informazione e della comunicazione, della ricerca: è un esercito di precari, avventizi, stagionali, apprendisti, la cui qualifica sociale (se - poniamo - il mestiere è quello di correttore di bozze per una casa editrice) può oscillare tra i due termini estremi di «operatore culturale» o di «sottopagato intellettuale». Ecco, l'Università pare essere oggi il luogo di formazione di una tale «cultura» e di tali «intellettuali»; ed è l'organizzazione capitalistica del sapere e della sua trasmissione in una società di massa quale la nostra che lo richiede (non ci sono sbocchi professionali per i laureati in sociologia, ma sono necessari molti studenti, diplomati e laureati, dotati di alcuni rudimenti di «sociologia», per vendere le enciclopedie a rate, casa per casa; non ci sono sbocchi professionali per i laureati in pedagogia ma sono

necessari molti studenti, diplomati e laureati, dotati di alcuni rudimenti di «pedagogia», per fare gli animatori nelle scuole elementari). Gli iscritti alle Facoltà di Lettere, Filosofia, Magistero, Sociologia, Giurisprudenza e Scienze politiche, questo hanno come sbocco professionale; e a questo «aspirano» quanti, invece, hanno un'occupazione «non umanistica»: e sono gli studenti che fanno i fattorini, gli uscieri, gli spedizionieri, i contabili, i commessi, i facchini, gli autisti, le (o i) baby sitter, le segretarie (o i segretari). Sono queste le ragioni per cui uno strato sociale come quello universitario, disaggregato e violentemente espulso dalla sua sede naturale, ci ritorna massicciamente, senza averla mai - in realtà - abbandonata in questi anni; fisicamente, è stato infatti presente nelle immense code alle segreterie o alle lezioni di Asor Rosa e di Colletti, alle mense della Casa dello studente o agli sportelli dove si ritirano quei quattro soldi del presalario; idealmente (e mai, come in questo caso, questo termine ha voluto dire il suo esatto contrario), l'Università ha continuato a rappresentare il luogo della possibile rivolta e la sede dell'unità, della solidarietà e dell'identità comune; infine (ma prioritariamente dal punto di vista della composizione sociale) l'Università è stata pensata e vissuta come quel luogo di tirocinio dell'"attività intellettuale manualizzata" di cui si è detto: la «Camera del lavoro dei giovani». Dal punto di vista metodologico esistono molte analogie tra l'atteggiamento nei confronti dello studio degli studenti delle Facoltà umanistiche e quello degli studenti di altre Facoltà: anche ad Architettura, Ingegneria e Medicina (e a Fisica e Scienze, sia pure in forme alquanto diverse) gli studenti - collettivamente quando riescono a dar vita a strutture di organizzazione comune - o individualmente - nel corso di una lotta oscura, estenuante e frustante - aggrediscono il carico degli studi per limitarne l'ampiezza e la pesantezza, riducendone le dimensioni sulla scorta di due criteri: quello dell'essenzialità e del rifiuto delle parti alienanti e «arretrate». Anche in questo caso, si intrecciano un'esigenza di alleggerimento della fatica e la volontà di respingere i contenuti ideologici reazionari e «sorpassati», ma, insieme, consapevolezza che la collocazione futura dei laureati in Architettura, Ingegneria e Medicina non richiede il «bagaglio professionale» che prevedono i piani di studio delle rispettive Facoltà.

E non solamente perché una larga parte di questi laureati avrà - se e quando le avrà - occupazioni e sottoccupazioni che nulla hanno a che fare con la formazione universitaria ricevuta, ma anche perché quanti rimarranno in ambiti di lavoro in qualche modo coerenti con gli studi fatti dovranno assolvere mansioni e compiti del tutto diversi da quelli propri delle professioni liberali tradizionali. Anche tra le masse studentesche di queste Facoltà si costituisce una «domanda di formazione» semplificata e ugualitaria che trova la sua «funzionalità» nell'essere adeguata alla avvenuta, e sempre crescente, massificazione dei ruoli professionali e alle nuove «figure lavorative» che ne discendono. L'autoriduzione dei programmi e dello studio si carica, quindi, di questo ulteriore significato: la volontà di piegare la macchina culturale dell'Università alla formazione di quadri che, nella migliore e più riformistica delle ipotesi (2), andranno a fare i «lavoratori del territorio» piuttosto che gli ingegneri, gli architetti, gli urbanisti; o gli «operatori della salute», (gli infermieri, i lavoratori della «psicologia applicata», gli assistenti sociali), piuttosto che i medici e gli analisti (3). Al fondo di tutto questo e, in specie, al fondo di questa interpretazione e di questo «uso di massa» della cultura e della scienza, stanno a nostro avviso due elementi che meritano particolare attenzione. Innanzitutto, un bisogno reale di conoscenza. "Si apre allora il dibattito sul significato, la portata, i limiti quantitativi e qualitativi entro i quali l'Università dà ai lavoratori-studenti la possibilità di beneficiare di questa conoscenza, e se essa al di là dei miti sia un beneficio effettivo: cioè si apre il dibattito sulla risposta che l'Università può e vuole dare a questa domanda di conoscenza. Ma il numero enorme di coloro che si rivolgono in piena consapevolezza a Facoltà che non offrono sbocchi professionali ripropone tutta la forza del motivo della domanda di una conoscenza fondata scientificamente. Conoscenza di cosa? In base a indagini sommarie condotte in Facoltà umanistiche si può rispondere: in buona misura conoscenza del sistema capitalistico, delle sue leggi di movimento, della relazione tra il sistema produttivo e la società e la sfera

politica, delle prospettive che si aprono al proprio ceto (molti negano di appartenere alla classe operaia), e ai margini di libertà condizionata che riserva loro il sistema. Voglio osservare che aldilà del bisogno del «pezzo di carta» da non sottovalutare, il bisogno di conoscenza che spinge molti studenti-lavoratori diplomati a entrare negli Atenei è analogo a quello che ha spinto gli studenti in rivolta nel '68 a uscirne" (4). Questo bisogno di conoscenza è, insieme - come è stato ampiamente e ripetutamente provato - volontà di potere e di trasformazione della realtà: l'Università frustra entrambi e fornisce semplicemente quella conoscenza di cui si è detto, che rincorre malamente lo sviluppo delle forze produttive nel campo del lavoro intellettuale («la massificazione e la socializzazione dei 'consumi culturali' è socializzazione di un consumo produttivo, funzione di produzione e produttività sociale»). I bisogni reali di conoscenza rimangono, pertanto, del tutto insoddisfatti. L'Università e la scuola in generale forniscono un sapere che è interamente sussunto nel valore di scambio, nel mentre che i bisogni di conoscenza si ampliano enormemente, si moltiplicano, si arricchiscono, e nel mentre che la «cultura generale» massificata sembra essere la più «progredita» e «moderna», la più adeguata alla comprensione della realtà e alla sua trasformazione: essa è invece - o rischia di essere - nient'altro che la «forma» contemporanea assunta dall'alfabetizzazione di massa, nuove coordinate di sapere collettivo anch'esso trasmesso in maniera che può essere alienante, ripetitivo, omologante. (Ed è appunto questo il secondo elemento su cui occorre riflettere). Siamo costretti quindi a ripetere, ancora come dieci anni fa, che è solo la lotta a soddisfare, oggi, questo bisogno di conoscenza delle masse; e che se è «politicamente corretto» ribadire che non può essere l'Università a offrire occasioni e mezzi di soddisfazione di tale bisogno, è necessario interrogarsi sul perché non hanno assolto e non assolvono - nemmeno in minima parte - a tale funzione le organizzazioni della sinistra, gli organismi di massa, le strutture di movimento. Nonostante che le masse studentesche, nel momento in cui si attivizzano, pongono quella domanda di conoscenza e di sapere proprio nei luoghi e nelle strutture del movimento. E questo è puntualmente avvenuto anche in

questi mesi di lotta nell'Università, con la creazione delle Commissioni, con l'interesse verso le questioni relative all'informazione e alla comunicazione, con l'enorme dibattito sviluppatosi. A quanto finora detto va aggiunto - per intendere appieno le ragioni che hanno prodotto aggregazione di massa nell'Università - la capacità di attrazione che l'Ateneo "in quanto luogo di lotta" (e, a Roma, di lotta antifascista) ha da subito esercitato. Ma se ciò è potuto avvenire, lo si deve al fatto che - per dirla schematicamente - gli strati popolari e proletari sono, ogni giorno che passa, un po' più scolarizzati e che gli strati scolarizzati sono, ogni giorno che passa, un po' più proletarizzati e impoveriti: che, cioè, nella coscienza degli strati popolari e proletari (e nelle loro famiglie, nelle loro parentele, nelle loro amicizie) la figura dello studente, oltre a essere sempre più diffusa, è sempre più vicina e solidale. Il che è gran merito, evidentemente, della scuola di massa e della «degradazione» dell'Università. Il rapporto tra movimenti degli studenti e strati e reparti sociali e popolari, oggi - oltre ad avere ampiamente superato il livello meramente solidale e quello enfaticamente ideologico - già vive (e ancor di più può vivere) di una rete fittissima di nessi e intersecazioni. E' una rete che percorre l'intera mappa dell'insubordinazione sociale della grande città e che vede questa figura di «strano» studente prender la parola e il suo posto di lotta, quando i venditori a rate delle case editrici rivendicano un contratto sindacale o quando vengono occupati stabili vuoti, quando le donne vogliono tutto e quando i disoccupati intellettuali chiedono di essere iscritti all'ufficio di collocamento; e ancora: nella lotta del la classe operaia e di quegli «strani» operai col diploma e con la laurea e di quegli «strani» disoccupati organizzati che hanno fatto il terzo anno di Chimica o le 150 ore o le scuole professionali o quelle serali o quelle per corrispondenza o i corsi aziendali, comunali, provinciali, regionali (5). Se questa analisi è giusta, diventa anche del tutto secondaria la polemica che ha percorso in questi giorni il movimento o, meglio, le organizzazioni politiche che vi galleggiano dentro, riguardo all'«internità» o «esternità» delle piattaforme rivendicative. Tale polemica è stata ulteriormente falsata da equazioni quali quella tra «esternità» e unificazione di classe o «internità» e corporativismo. A ciò va aggiunto che, per quanto riguarda la prima equazione, l'unificazione di classe rivendicata salta interamente la specificità della condizione e della collocazione studentesca, mortifica l'autonomia del movimento negandone qualunque percorso proprio e

originale e, in sostanza, si rifà a un concetto di «egemonia della classe operaia» del tutto inadeguato e logoro (6). Nella seconda equazione, a un'interpretazione estremista quale quella citata se ne sovrappone un'altra («di destra») che ripropone lo studio - «nuovo» - ancora come «asse» di una «nuova» occupazione: il «lavoro socialmente utile» (nella sua attuale versione di «occupazione produttiva») e lo studio a esso indirizzato come alternativa al «riformismo spicciolo» delle rivendicazioni interne all'attuale organizzazione dello studio. Da qui, il sospetto nei confronti di rivendicazioni quali quelle indicate nel documento, prima citato, della Commissione «Inchiesta sulla Facoltà»: "Compito della nostra lotta è anche vagliare in questo momento la selettività e il classicismo antiproletario degli esami. Necessario è quindi porsi da subito il problema del controllo politico sugli esami da parte degli studenti. Un aspetto importante di questo discorso sono i seminari autogestiti e i controcorsi serali già presenti anche se in misura minima in alcune Facoltà, in parte a Lettere, prima dell'occupazione. E' necessario che queste iniziative riprendano anche all'interno della Facoltà occupata in quanto momenti in cui gli studenti disagiati e i lavoratori trattano contenuti propri e producono materiale proprio per l'esame battendo costi dello studio e selezione, imponendo un esame col voto 27 (minimo per il presalario garantito)". A noi sembra evidente il significato di tali rivendicazioni, la cui natura non è catalogabile secondo le tradizionali categorie di «avanzato» e «arretrato» o di «riformistico» e «rivoluzionario»; si tratta di rivendicazioni che, seppure indubbiamente definibili come «difensive», hanno (e avranno ancora per un lungo periodo) una funzione determinante per questo soggetto politico e per la sua capacità di iniziativa: rappresentano infatti la condizione materiale necessaria a salvaguardare la rigidità e la compattezza della composizione sociale del movimento di massa e - con esse - la sua stessa esistenza.

Esattamente, per i motivi prima detti: essi rendono l'organizzazione dello studio, e la capacità degli studenti di costituire nelle sue diverse articolazioni i propri centri di organizzazione e di potere, il principale elemento di aggregazione sociale e culturale, la principale fonte di unità e di uguaglianza, di solidarietà e di azione collettiva; e, d'altra parte, è quella capacità degli studenti di piegare la macchina culturale dell'Università ai propri bisogni massificati di apprendimento elementare ugualitario che consente la crescita di organizzazione e di potere. Questo è possibile evidentemente perché - come abbiamo già detto e come è nella coscienza della gran massa degli studenti - agiscono contemporaneamente i processi di obsolescenza della funzione formativa dell'Università - se mai tale funzione si è avuta - e di chiusura degli sbocchi professionali. In un tale quadro, e in presenza di tali processi, vale poco interrogarsi sul respiro strategico di piattaforme rivendicative quali quelle delle Facoltà di Lettere: si tratta di piattaforme «obbligate» che esprimono la volontà del movimento di rovesciare la gerarchia del comando sui processi di selezione e di stratificazione in quanto corrispondenti ad altrettanti processi di disaggregazione e di esclusione. Se si tiene conto di tali considerazioni, risulta evidente che non ha ragion d'essere una contrapposizione tra pratica interna e pratica esterna di movimento, che l'«internità» del movimento è la condizione irrinunciabile per la sua capacità di proiezione, allargamento e unificazione all'esterno; e che se questo è forse scontato fino a essere banale, è probabilmente meno scontato che è sempre questa «internità» a consentire che l'Università costituisca luogo di attrazione e aggregazione per la gran massa degli studenti, degli ex studenti, dei quasi studenti e per consistenti strati proletari non scolarizzati. (...)

* NOTE AL TESTO DI L. MANCONI E M. SINIBALDI 1. Meglio di chiunque altro - e con maggior chiarezza e capacità di sintesi - ne ha parlato, su «Lotta continua» di mercoledì 16 marzo, Sergio Bologna: «Cominciamo con l'includervi tutti quegli studenti che provengono dalle sezioni di classe sopra elencate e avremo già una buona quota di popolazione universitaria. Pensate soltanto al numero di lavoratori dei servizi, del terziario e degli Enti pubblici che sono iscritti al l'Università e che spesso trovano solo dentro l'Università i collegamenti adatti per discutere della loro condizione di forza-lavoro, in assenza di strutture politiche e sindacali che legittimino sia le loro rivendicazioni, sia il loro bisogno di raggiungere livelli di potere e di organizzazione attestati su quelli dell'operaio massa della grande fabbrica. Com'è loro diritto, o no? In alcune aree industriali, come Torino, lo ricordava recentemente Romano Alquati, la maggioranza dei lavoratori-studenti sono impiegati nell'industria; i quali non solo sono figli dell'operaio-massa ma con questo strato operaio sono direttamente a contatto in fabbrica, ne sono anzi il prolungamento. E poi ci sono gli studenti non lavoratori, studenti e basta. Ma non sono tanti. A Milano quanti sono gli studenti di questo tipo che lavorano a tempo parziale o con contratti a termine e che rappresentano la vera forza-lavoro di settori che vengono definiti marginali solo per errore e semmai possono essere definiti tali solo in quanto esclusi dall'area della protezione sindacale, come quello delle carovane? E' nota poi l'inchiesta fatta da alcune compagne e compagni presso l'Università di Ferrara che ha rivelato come gli studenti rappresentino la vera forza-lavoro dei settori più avanzati dell'agricoltura, in quelle aziende ad alta tecnologia, con una forza-lavoro fissa di addetti macchina specializzati e una forza-lavoro mobile, stagionale o no, costituita in maggioranza da studenti. (...) Fin qui non abbiamo parlato ancora della fabbrica disseminata, del lavoro nero, dell'economia sommersa, cioè di quell'enorme estensione su cui si esercita il comando sulla forza-lavoro; è uno spazio economico creato dal decentramento produttivo, dallo smembramento delle concentrazioni operaie; non abbiamo ancora parlato dei cosiddetti processi di terziarizzazione che hanno creato anch'essi uno spazio economico che

assorbe forza-lavoro. E in questi spazi troviamo fianco a fianco il minore, la donna, lo studente». 2. Ma una tale «riformistica» ipotesi appare, oggi, addirittura incredibile; e ne sono una conferma i disastri a cui sono andati incontro, ad esempio, i progetti di riforma sanitaria e di riforma urbanistica. 3. Scrive Romano Alquati su «aut-aut» n. 154: «(...) in realtà tutte le Facoltà contemporaneamente hanno introdotto più o meno nascostamente gli stessi insegnamenti per ruoli, che in realtà ormai indifferentemente ricevono un contributo di qualificazione e di formazione in qualsiasi Facoltà, in notevole indifferenza per le separazioni merceologiche, per prodotto e per ciclo produttivo. In realtà poi questi 'profili' sono spesso a loro volta assai forzati e immaginari, perché nella prassi lavorativa (o di azione sociale o politica) tendono a loro volta a omogeneizzarsi in un tipo di attività che è sociale e politica e che costituisce il lavoro di un numero crescente di persone. Queste attività richiedono una serie di strumenti di conoscenza che non hanno nulla a che fare con le differenze merceologiche ma si applicano poi all'interno di ogni ciclo produttivo o riproduttivo o movimento politico, "indifferentemente" dalle differenze del relativo lavoro concreto». 4. Romano Alquati, art. cit., pag. 10. 5. Romano Alquati, art. cit.: «(...) vediamo che si laureano, con una decisione autonoma alla quale poi l'impresa non riesce ad adattarsi, anche moltissimi lavoratori che sono già occupati nell'impresa stessa: e la tendenza alla scolarizzazione di già occupati ai livelli di scolarità inferiore, la corsa al diploma dei già occupati, ci dice che il fenomeno non è esaurito. Continuerà a lungo e potrà anche crescere negli anni prossimi». 6. Esemplare, da questo punto di vista, è la mozione approvata nel corso dell'assemblea nazionale del 26-27 febbraio.

* febbraio 1977 LE DUE SOCIETA' Alberto Asor Rosa Non v'è dubbio che uno degli aspetti più inquietanti dell'attuale situazione giovanile (e in particolare studentesca) sia rappresentato dalla diffusione di un anticomunismo di tipo nuovo, assai diverso da quello tradizionale, sia di destra che di sinistra. L'anticomunismo tradizionale di destra poggiava sul rifiuto pregiudiziale di una partecipazione del Partito comunista alla gestione del sistema; l'anticomunismo tradizionale di sinistra contestava, definendola riformistica e non rivoluzionaria, la linea dei vertici del partito e del sindacato e puntava "sempre", in qualunque versione si presentasse, alla rottura tra base e vertici e al recupero consistente in direzione rivoluzionaria di settori di massa degli aderenti e persino delle strutture organizzative del partito e del sindacato. Non a caso molti, o quasi tutti, i leader della contestazione studentesca del '68 uscivano dal P.C.I. e, passando dall'organizzazione dei gruppi, avevano in mente proprio un disegno del genere. Il nuovo anticomunismo si distingue da quello tradizionale di destra perché rifiuta con analoghe motivazioni sia la possibilità di governare "comunque" l'organizzazione politico-sociale sia il P.C.I. che contempla nella sua linea l'obiettivo di questa gestione; e da quello tradizionale di sinistra, perché rinuncia a considerare il P.C.I. e il sindacato come corpi scomponibili in funzione rivoluzionaria e li combatte dalla base ai vertici come espressione di una realtà sostanzialmente omogenea, a cui vanno contrapposti blocchi di "realtà sociali" di segno opposto o comunque profondamente diversificato rispetto alla realtà sociale di massa prevalentemente nel partito e nel sindacato. In questo senso diventa sempre più rara la figura del dirigente

contestatore, che proviene dall'interno del movimento operaio organizzato: i quadri del nuovo anticomunismo possono formarsi completamente al di fuori dell'organizzazione operaia tradizionale. I due mondi si sono più nettamente separati: la lotta non è più per imporre una "diversa" ipotesi politica delle "stesse" masse, ma è tra due diverse "società". Il punto politico è questo: dobbiamo chiederci che cosa abbiamo fatto per questa "seconda società", che è cresciuta accanto alla prima e magari a carico di questa, ma senza trarne rilevanti vantaggi, senza avere uno sbocco e senza un radicamento reale nella «prima società». Aggiungerei questo, come necessaria precisazione: noi abbiamo fatto la scelta, che io credo giusta, di difendere un tipo di società in trasformazione, al cui centro sta, per quando ci riguarda noi Partito, la "classe operaia organizzata". C'è il pericolo, oggi, che quanto non rientra in questo tipo di società - e vale a dire emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione - le si scarichi addosso come un turbine distruttivo. Non sembra fortuito che la parola d'ordine dominante del '68 - l'alleanza tra classe operaia e studenti - la quale, anche quando si presentava rivestita di forme rivoluzionarie, poggiava su di una ipotesi espansiva della società, sia oggi abbandonata a favore di parole d'ordine che puntano sulla saldatura tra i diversi settori dell'emarginazione e sulla trasformazione della scuola, dell'Università e degli studenti in uno di essi, particolarmente privilegiato ed esplosivo. Il complesso di questi settori "si stacca" dal resto della società e gli si contrappone. In questo senso, picchiare "operai organizzati" - cosa che in passato sarebbe apparsa inconcepibile e sacrilega ai contestatori più estremi - diventa un fatto logico, ha lo stesso significato e la stessa funzione che fischiare il segretario generale della C.G.I.L.. Una distinzione fra organizzati e organizzatori diventa sempre più difficile; gli uni egli altri, infatti, fanno parte dello stesso blocco, che fa argine di fronte alla disgregazione sociale (e i primi, da questo punto di vista, diventano persino più pericolosi dei secondi ai fini di un'azione capillare, che penetra in profondità e tende anch'essa, nel proprio ambito, a diventare di massa). La "teoria dei bisogni", che nasce da questo magma sociale, deve perciò per forza contrapporsi a ogni tentativo di ricondurre a un quadro coerente e unitario le spinte diverse e spesso drammaticamente contraddittorie, che fanno ostacolo alla soluzione dei problemi politici ed economici del Paese.

Non si tratta, infatti, in questa ottica, di creare una società nuova: si tratta di lanciare la "seconda società" all'attacco della "prima", per poterla disgregare e distruggere, perché esattamente attraverso questa disgregazione e distruzione possono essere soddisfatti i bisogni di volta in volta emergenti senza aspettare il domani. Che necessità c'è di costruire il comunismo - che oltre tutto è utopia di vecchio tipo, oppure al contrario, processo difficile, faticoso, magari plurisecolare, di cui vedranno gli effetti i figli dei figli dei nostri nipoti - quando si ha la possibilità di appropriarsi oggi, giorno per giorno, di ciò di cui si prova il bisogno? Il peggior nemico di questa prospettiva diventa dunque proprio chi non accetta questa società ma al tempo stesso pensa di poterla trasformare. A loro volta, i gruppi estremisti tradizionali, che puntano ancora sulla contrapposizione tra base e vertice, tra grandi masse e organizzazione - contrapposizione sempre più manifestamente improbabile -fanno a questi occhi la figura degli utili idioti. Bisogna riconoscere coraggiosamente che all'interno di questa «seconda società» alcune delle nostre parole d'ordine più autorevoli non mordono. L'austerità, ad esempio, ha un senso in quanto è rivolta ai settori produttivi della società - ai "lavoratori" - i quali, in quanto produttori e consumatori al tempo stesso, possono, se vogliono, calibrare un rapporto diverso tra questi due aspetti della società. Ma per questi altri settori l'austerità può rappresentare, nel migliore dei casi, la piattaforma di politica economica, sulla quale sarà possibile costruire un futuro diverso da questo presente. Ma se il presente è già rappresentato costituzionalmente da penuria, indigenza, incertezza, precarietà, la parola d'ordine dell'austerità sfuma la sua carica politica e il suo potenziale di trasformazione, a cominciare proprio da problemi come quello dell'occupazione; diventa cosa d'altri - degli occupati, degli organizzati, degli inseriti, dei consapevoli - e non è effettivamente praticabile, anzi, corre il pericolo di apparire come un rifiuto a soddisfare le esigenze, spesso assai diverse da quelle tradizionali, che vengono avanti. Ma c'è dell'altro. Qui vorrei fare riferimento all'esperienza diretta di queste ultime settimane di agitazioni nell'Università di Roma. Io credo di non andare molto lontano dal vero, osservando che lo scontro politico apertosi nel corso di tali agitazioni ha fulmineamente (cioè, da un giorno all'altro) conseguito lo spappolamento di qualsiasi diaframma istituzionale (salvo la presenza del rettore, ma più per capacità sua personale, che per il funzionamento della macchina che egli rappresenta): quasi totalmente latitante il corpo docente, evidentemente impegnato a riflettere da lontano, con distacco scientifico, sullo svolgersi degli avvenimenti; pressoché

invisibile il rapporto con quella entità metafisica, che si chiama Governo, e ben camuffata nella lontananza e inafferrabilità del suo potere la Democrazia cristiana; assenti, quando non ambigue, le altre forze politiche democratiche. Fra il sistema e le forze della contestazione studentesca non c'erano che il sindacato e il P.C.I. (ma soprattutto il P.C.I.) a rappresentare le ragioni di quella «prima società», organizzata e produttiva, la società degli operai moderni di fabbrica, di cui ho cercato di parlare: l'unica "istituzione" sopravvissuta come tale e al tempo stesso socialmente radicata, visibile e tangibile; persino, oserei dire, l'unica «forma» autorevole e attendibile, in quelle condizioni, dello Stato repubblicano. Non c'è da stupirsi se in quelle condizioni l'anticomunismo nuovo abbia trovato alimento nel nostro esserci presentati come antemurale del sistema di fronte ai tentativi di organizzazione della disgregazione sociale e studentesca, con l'inconveniente, mi pare, che contemporaneamente non abbiamo in mano quegli strumenti del potere che ci consentirebbero di sviluppare e praticare fino in fondo il nostro discorso politico. A questo punto l'analisi dovrebbe allargarsi. Nessuno che abbia un minimo di buona fede potrà negare che si sia sviluppato nelle ultime settimane un tentativo assai ampio e diversificato di mettere in difficoltà e di isolare il Partito comunista, strumentalizzando attraverso alcuni grandi organi d'informazione l'anticomunismo di queste frange della ribellione giovanile e studentesca. Io direi, però, che l'obiettivo che si profila è più ambizioso e più preoccupante. Compagni, studenti e operai, che l'altro giorno, reagendo agli attacchi portati al comizio di Lama all'Ateneo romano, gridavano agli assalitori: «Via via - la nuova borghesia!» forse si sbagliavano nello specifico, ma esprimevano sostanzialmente un'intuizione molto giusta. Fra i teorici dei bisogni della «seconda società» e certi settori del mondo politico ed economico italiano, assai variamente distribuiti nello scacchiere dei partiti, c'è oggi una convergenza (oggettiva? soggettiva?) sulla necessità di colpire "in primo luogo" la "presenza operaia organizzata" nella società, e quindi il sindacato, ma con particolarissimo riguardo il Partito comunista. E' evidente che i due disegni hanno finalità diverse, ma essi comportano egualmente la rimozione dell'ostacolo più resistente sulla strada di una profonda e gravissima destrutturazione della società, vale a dire la forza

comunista, garanzia fondamentale dell'ipotesi di trasformazione. L'alleanza fra conservazione e disgregazione sociale può apparire strana, ma non è impossibile, e in questo momento anche la Democrazia cristiana vi gioca la sua carta. Questo articolo non ha conclusioni, ma esprime delle esigenze: 1) in primo luogo, che sia chiarito in quale modo e con quale quadro strategico noi penetriamo con le nostre forze nella «seconda società», compiamo cioè il percorso inverso a quello che attualmente si viene compiendo, per andare ad affrontare ed esaurire le fonti del fenomeno; 2) in secondo luogo, che si elabori come partito una specifica teoria e pratica di movimento, partendo dal presupposto che, nelle attuali condizioni della società italiana, esistono zone dove il discorso sul ruolo e sull'uso delle istituzioni è destinato ad arrivare inevitabilmente in maniera deformata oppure immediatamente antagonista; questo significa, mi pare, non rinunciare alla "politica", bensì trovare nessi più raffinati tra i diversi momenti del potere (anche, e forse soprattutto in una prospettiva di governo), e probabilmente anche articolazioni organizzative più duttili; 3) in terzo luogo, e conseguentemente al punto precedente, che si cerchi di capire come, tenendo conto della situazione politica attuale, ci si possa sottrarre (oppure no, ma allora precisando meglio una linea di condotta) a una funzione suppletiva nei confronti delle istituzioni e dello Stato, che ci mette in prima linea di fronte alle molteplici spinte antistituzionali e antistatuali. Anche in questo caso non mi parrebbe inutile una riflessione sul ruolo strategico che ha scelto per se stessa la Democrazia cristiana. Comunque, se decidiamo di essere l'unica forza che si batte all'"interno" della società (oltre che nelle istituzioni) per tenerla in piedi e per trasformarla, non sarebbe male che gli italiani se ne rendessero conto, e questo comporta da parte nostra una riflessione e un giudizio spregiudicato sullo stato attuale del sistema politico italiano e sulla sua rispondenza alle strutture fondamentali della società. Il discorso ovviamente continua.

* marzo 1978 IDEE E NON IDEE DEL '77 Rossana Rossanda Un anno fa moriva a Bologna il compagno Francesco Lorusso. Non era il primo ragazzo ucciso durante un inseguimento di strada, una molotov tirata fuggendo, una risposta mortale da parte degli agenti. Ma per la prima volta questa uccisione non trovò accanto a sé la solidarietà del movimento operaio, che fino ad allora aveva, se non esaltato, compianto come vittime quelle cadute nel corso di questo decennio sotto i colpi della polizia. Quella sera, Bologna visse la lacerazione fra la massa studentesca che cercò gli operai e il Comune rosso, trovò un muro, e respinta, si divise, urlò contro, spaccò quel che poté. Quel che è avvenuto nei seguenti dodici mesi, lo sappiamo. Il movimento è cresciuto e ha virato, si è ridotto sotto il segno decisamente egemone di Autonomia operaia. I suoi spezzoni sono stati vari, le tecniche diverse, ma la presenza, l'ideologia, il progetto e i suoi nemici sono diventati chiari: è portatore di una guerra contro lo Stato e perché si vogliono in esso tutte le forme di aggregazione del movimento operaio, storico o no. I suoi luoghi d'elezione sono alcune Università, che considera fortilizi dove null'altro deve coagularsi e dove spazza a sprangate quel che tenta di crescervi. Non è padre del terrorismo individuale, ma gli fa da sfondo. Non è figlio dei movimenti «autonomi» fra i lavoratori, specie nei servizi; ma ne esaspera le pratiche. Chi ha salutato, nel febbraio e marzo, il ridestarsi dal lungo sonno degli studenti e sperato che trovassero forme comuni di vita e un collegamento operaio, si è sbagliato. Era tardi. Il movimento si è appiattito

sull'Autonomia operaia, o è sparito nella tenaglia tra Autonomia e silenzio o condanna della sinistra. Nessuna sua avanguardia andò come nel 1968 a bussare ai cancelli delle fabbriche; e i picchetti operai gli mossero contro. A monte, polizia e governo lo giocarono contro tutta la sinistra. Provocazioni di destra e di sinistra, morti, cecchinaggi, agenti speciali, tutto - comprese le forme che il movimento si diede - cospirò alla sua criminalizzazione. Violenza eguale Autonomia, Autonomia eguale movimento 1977, movimento 1977 eguale precariato, precariato eguale seconda società, seconda società eguale nuova borghesia. Le equazioni furono presto fatte: l'Italia si è spaccata tra marginali e non marginali, mentre il suo quadro politico si ricomponeva nell'accordo a sei. Un Paese che aveva letto se stesso in termini di «reazione» e «progresso» ha cominciato a leggersi in termini di Stato e antistato, sfascio e ordine, barbarie e razionalità. In questa mascherata ideologica sono prosperate pratiche perverse e perverse idee. La stessa violenza è diventata altro da quel che era stata. Quanto, di questo intorbidirsi della vita e della politica nel 1977 era obbligato? Quanto si poteva evitare? Credo che a queste due domande si debba rispondere tornando su quel che è stato il movimento di febbraio e marzo come fenomeno sociale e come idee. Come fenomeno sociale si è detto prima che era un movimento di studenti, poi di disoccupati o precari, poi spicciativamente di «marginali». In realtà è stato un movimento in grandissima parte di studenti o di figure sociali come lo studente precario, o sindacalmente poco assistite (gli spezzoni di «Autonomia» dei servizi). Lo studente ne resta l'immagine più vera perché da tempo è una figura sociale mozza. Per essere completa deve necessariamente passare dalla crisalide (transitorietà nella scuola) alla farfalla (ruolo socialmente privilegiato dell'intellettuale); e questo naturale processo era interrotto, prima ancora della crisi, dal ritmo divaricato fra crescita della scolarità e riduzione del suo sbocco professionale. La crisi in senso proprio, riducendo la base produttiva e quella spesa di Stato sulla quale in gran parte si riversa il licenziato dalle scuole superiori, non fa che accelerare il processo. Così l'acculturato senza futuro si lega ad altre figure sociali condannate e come queste si rivolta contro lo «Stato» e in genere contro chi ha una figura

sociale che appaia garantita. E' già avvenuto, contadini contro operai, Sud contro Nord. Con una differenza, e cioè che mentre fino al 1970 marginali erano stati in Italia solo strati storicamente in via di riduzione e quindi si poteva brutalmente abbandonarli al corso di una storia che ne avrebbe fatto giustizia, la «marginalità» di oggi è "un prodotto in crescita sia della crescita sia della crisi dello sviluppo". Ecco. Analisi assai più precise andrebbero fatte, ma questo resta il nodo principale del 1977, e sarà del futuro. C'è poco da tranquillizzarsi se per qualche mese non si vede. E' crescente e inassorbibile. Nessuna altra marginalizzazione ha avuto questa natura, e per questo né il capitale né il movimento operaio, finché resta nell'orizzonte in cui storicamente era nato, cioè nella logica di uno sviluppo industriale crescente e integratore e nello Stato keynesiano, hanno per essa soluzioni possibili. Non perché siano due le società, ma perché il blocco dei «senza mezzi di produzione» è arrivato a questa materiale diversità di condizione, l'Italia è divisa. Non avevamo mai, prima d'ora, sperimentato quel che accade quando la proprietà e l'assetto capitalistico delle forze produttive entrano in contrasto con il loro sviluppo. Eppure Marx l'aveva detto. Ma, o avevamo cessato d i credervi o presumevamo che quando fosse successo ci sarebbe stata una rivoluzione. Non producendosi rivoluzione si è prodotta disgregazione del blocco anticapitalistico e delle sue espressioni politiche. Non ha caso nel 1977 le «sinistre» sono traversate da questa spaccatura, e vi si dibattono. Quando questo avviene, e avviene solo nelle società mature (e non se ne possono liberare), come far sì che, in quanto espressione di grandi fasce giovanili lese dal capitale, queste figure sociali siano inserite nel blocco anticapitalistico anche a livello di coscienza e organizzazione? Il nodo - riflesso della diversità di collocazione materiale - è diventato quello del rapporto tra i nuovi disoccupati e il proletariato; nell'espressione «movimenti emergenti» non si è trovata una risposta, ma puro espediente verbale. Nella «teoria dei bisogni» s'è cercato un loro livellamento alla condizione proletaria, misurando la figura sociale non per quel che è nel processo capitalistico, ma per quel che soffre nelle civiltà del capitale. La sinistra classica ha preferito esorcizzare il marginale o sperare che un'impennata dell'accumulazione ne riducesse, prima o poi, le dimensioni.

In ambedue i casi si sono confuse condizione sociale reale e forme di coscienza; la ridefinizione delle «forze motrici della rivoluzione italiana», in presenza della marginalizzazione intellettuale, è rimasta in sospeso. Parte del sindacato, le leghe, hanno intuito la necessità d'un principio di ricostruzione, anche se spesso operano come se si trattasse soprattutto di recuperare al lavoro chi ne era escluso. Questo può riuscire solo in misura minima, perché il mercato del lavoro è realmente bloccato, anche se va tentato a fondo per strappare quel che è possibile e diventare una delle forme di controllo del mercato del lavoro e della ristrutturazione capitalistica. Ma i tempi del riassorbimento sono più lunghi di quelli di una riproduzione anche parziale della marginalità; si accorciano solo violando la logica del modello che la produce. Qui è il luogo di intervento e a questo fine va trovato un modo di organizzazione che faccia degli «emarginati» la leva d'un rivoluzionamento dell'assetto produttivo e del lavoro. Ogni altra strada è destinata a bloccarsi sui condizionamenti rigidi della materialità. Insomma, il marginale pone il problema della crisi di sistema, è il suo frutto. E per prima cosa va riconosciuto come tale. Non si disinnesca il principio di divisione né sperando di trasformare il marginale in produttore dentro questo assetto capitalistico, né esortandolo intanto alla democrazia. Fuori da questa verità sulla sua situazione di classe, materiale, specifica della società matura, la cultura che il marginale del '77 assume, il modo con cui si vede, le scelte politiche che fa, sono quasi naturalmente premarxiste e anarchiche, in un Paese in cui la dominante è la sinistra; fascista dove la dominante è la destra. Oggi in Italia perfino la matrice leninista di alcuni gruppi dell'Autonomia si muta nel senso più profondo in anarchismo: in primo luogo, con l'identificare il nemico non nel capitale ma nello Stato (e lo smarrimento della priorità del capitale comporta anche lo smarrimento della priorità d'un «diverso modo degli uomini di organizzare la loro esistenza», di cui l'ideologia del «non lavoro» non è che un sintomo di fuga), in secondo luogo nel concepire la lotta priva di una progettualità che non sia distruttiva e destabilizzante. Il resto può variare, ma queste due connotazioni restano proprie di tutto il movimento.

Tutto, non solo quello dominato dall'Autonomia o dai gruppi terroristici, Nap o B.R. Questi assumono tutti e due i termini del binomio e li praticano; ma l'«area» di movimento e anche una zona che è sicura di non farne parte - compreso il pur mite movimento femminista o gli intellettuali che non sparerebbero mai su nessuno, o il radicale, o i nipotini di Norberto Bobbio - fanno proprio il primo dei termini. Nell'Italia del 1977 la rottura fra «apparentemente garantiti» e «sicuramente emarginati», favorita dall'ecumenismo del compromesso storico, che anch'esso ha offuscato la contraddizione di classe reale - si è proiettata nella cultura dello «Stato» e dell'«antistato» nelle sue forme violente o garantiste, o più semplicemente frivole. Il vero pensatore del 1977, non perché lo abbiano letto tutti, ma perché sono sue le idee che passano è Michel Foucault. Alle spalle, gli sta Bakunin - nella semplificazione del cui scontro con Marx sta invece tutto quel che i nuovi filosofi, vecchi copiatori, hanno detto. Ma Foucault è più complesso di Bakunin. Nessuno come lui, fin dalla separazione fra "Les mots et les choses" ha fondato quella che in Italia si chiama l'«autonomia del politico» - bizzarro terreno unitario fra P.C.I. e antistato. Il potere è discorso, il discorso è potere. Tutta la lotta fra governati e governanti si svolge nello scontro con lo Stato; quelli che fanno il suo discorso, e sono protetti, e quelli che lo fanno contro di esso, e sono criminalizzati o sparatori. Se non la si riprende di qui, anche la violenza del 1977 non si riesce a intendere; per questo è storicamente diversa dalle violenze precedenti dello scontro di classe. Essa è assunta, infatti, non come strumento d'un progetto di ricostruzione -o d'un blocco di alleanze in lotta o di un nuovo Stato - ma come strumento di disgregazione. Michel Foucault sa che da questo cerchio infernale non si esce, la cultura italiana del movimento del 1977 lo pratica e permette che sia praticato contro di essa. L'idea di Stato e antistato sono diventate le due categorie della politica che rischiano di essere le categorie della nostra sconfitta. Sta in esse, nell'una e nell'altra, la crisi vera del marxista italiano. Non della conoscenza dei sacri testi, che è sempre stata scarsa, ma di quelle grandi classificazioni positive che avevano creato una cultura e una pratica di massa, illimpidendo, anche se in modi schematici, la fisionomia della nostra società. L'Italia s'è pensata fino al 1976 in termini fondamentalmente marxisti.

Oggi parla, quella integrata e quella non integrata, un diverso e confuso linguaggio; la regressione è sicura, visibile, grave. La crisi del marxismo è venuta, insomma, con la crisi del capitalismo e in assenza di un progetto di rivoluzionamento. Non poteva essere altrimenti. In questa crisi, il movimento del 1977 si forma, si decompone, si riforma: battono alla porta uomini disperati. I giovani non sono più una età né una condizione transitoria, ma il volto violento e senza sbocco della crisi. Finché non li assumeremo - quel che sono e le domande che ci pongono - ogni egemonia sarà preclusa e ogni avventura violenta o autoritaria resterà possibile.

* 1980 MOVIMENTO E STATO Mario Tronti (...) C'è da tornare a discutere su un concetto che alcuni nella loro vita fortunata non hanno mai incontrato, che molti danno oggi per spacciato e di cui tutti farebbero volentieri a meno. Sto parlando del concetto di «centralità operaia». Su di esso, nei dieci anni, l'attacco è stato - come si dice - concentrico. Dal '69 in poi, tutti i mali della società, e la mancata soluzione delle sue contraddizioni, e la crescita delle sue difficoltà politiche, procedono da una causa: il prevalere dell'interesse operaio, della sua forza, della sua arroganza. Qui l'ideologia dell'impresa è diventata quasi senso comune politico di massa. Carli fa da maestro in cattedra. Le idee delle classi dominanti sono ancora le idee dominanti. E tra tante rivoluzioni nel modo di pensare, c'è una sola idea-forza permanente che tiene insieme i momenti successivi di una stessa storia della coscienza borghese, una sola stella fissa nell'eterno mobile dell'orizzonte capitalistico, ed è l'odio antioperaio, la consapevolezza, questa sì razionale, che lì è il nemico del sistema. Tutta la ragione borghese, tutta la sua grande avventura moderna, è fondata su questo postulato. Il capitalismo è produttore di sempre nuovo antagonismo. Questa non è la sua debolezza. E' la sua forza. Il capitale può ripetere quello che Marx diceva di sé: la lotta è il suo elemento. Nuove contraddizioni e nuove forze antagonistiche scattano al suo interno - nel suo cuore metropolitano o alla periferia del suo meccanismo di produzione - e sembrano sempre le contraddizioni e le forze mortalmente decisive. Il pericolo direttamente operaio tende a essere emarginato. Da quando si parla di integrazione della classe operaia? Da quando forse esiste la grande fabbrica e da quando la riduzione - secondo la previsione marxiana - dell'intera produzione capitalistica a grande fabbrica si è bloccata. Da allora comincia un processo di esportazione della contraddizione. Il conflitto - o la forma politica del

conflitto - sembra uscire dalla fabbrica. Più conquista nuovi ceti e nuovi spazi nella società, più appare perdere terreno in produzione. Chiedete in giro a quelli che rivendicano oggi qualcosa per sé, impiegati ed emarginati, tecnici e disoccupati, baroni e precari, piloti e burocrati: tutti costoro che hanno imparato dagli operai che cos'è una lotta, vi diranno che gli operai non lottano più. E a qualcuno di questi - o a qualche intellettuale per loro conto - viene qualche volta l'idea di fare il soggetto rivoluzionario supplente. Qualcuno deve pur portarle queste bandiere! Qualcosa bisogna pur fare per nascondere il proprio interesse dietro un grande ideale! Giusto quello che gli operai di fabbrica non fanno più da cento anni. L'odio sociale che li circonda nasce da qui. L'ideologia borghese, e cioè in pratica l'obbligo della traduzione in parole universali di ogni fatto di parte, l'ideologia borghese ha conquistato tutti i territori della società, ha occupato tutti gli spazi della politica e riempito tutti i vuoti della coscienza. La condizione dell'operaio della grande fabbrica rimane il luogo del realismo politico. Tra queste due cose bisogna scegliere. E al tempo stesso tra queste due cose bisogna gettare un ponte. Nei termini in primo luogo di realismo e di ideologia si pone oggi il rapporto tra operai e società. Rapporto critico, di termini alternativi e complementari: tanto limpido nei fatti, quando difficile da capire. E' così, sempre, in politica, sulla base di questa società. Il rapporto di realtà "deve" essere falsificato. La verità si può dichiarare, ma solo in forma ideologica. Da Machiavelli in poi, non puoi dire ciò che è, perché non vieni creduto da nessuno. Devi dire ciò che appare, e sarai per tutti un prezioso testimone della tua epoca. Il discorso sul politico di questi anni si è annodato strettamente intorno a questa dimensione dei problemi. Le lotte operaie per prime, e per prime quelle americane, dopo la grande crisi, hanno criticato l'utopia dello sbocco politico, in presenza di una radicale trasformazione della funzione dello Stato e del terreno della politica. La logica oramai autonoma del potere e della sua gestione non consentiva più che il Palazzo d'Inverno venisse aggredito dall'esterno per la via tradizionale del capitale sociale, dalla produzione di fabbrica al governo dello Stato. Si approfondiva la distinzione tra classe operaia, forza di produzione diretta del plusvalore, e movimento operaio, livelli di organizzazione politica di tutto il fronte dei lavoratori. La distinzione si faceva di ruolo e di campo, di qualità dei fini e di natura degli strumenti. Il partito operaio si conquistava una felice libertà di movimento sul politico, mentre la classe non si chiudeva a difesa in

produzione, ma attaccava e vinceva. Qui ci voleva, e qui non c'è stato, un "Kommunismus" americano. Sputano su Lenin. Ma senza Lenin non si fanno queste cose. Chi ha sbagliato? La lotta degli operai a capire giusto e subito, o il movimento organizzato a non riuscire a essere se stesso? E' un problema complesso. Ed è una dimensione alta della pratica contemporanea quella che coinvolge il rapporto, specifico per ognuno dei due, della classe operaia e del movimento operaio con lo Stato. Mentre gli uomini di scienza chiacchierano sulla fine dei «sistemi centrati», la potenza statale, quella moderna del potere unito e concentrato, cresce e diventa sempre più, dovunque, decisiva. Si scambiano le difficoltà di governare e l'incapacità di mediare con l'impossibilità di decidere. Crisi della decisione, c'è. Ma non per le ragioni che normalmente si descrivono: il pluralismo corporativo degli interessi, il segmentarsi della società in compartimenti sovrani, la disseminazione di poteri autonomi e il crescere a necessità di saperi specialistici. Queste non sono le cause, ma le conseguenze della crisi della decisione: che ha un percorso storico, viene da lontano e, secondo me, non andrà molto lontano, perché sta già trovando piccoli rimedi e soluzioni di corto respiro. L'incepparsi, il blocco, il non funzionamento si accentra nella macchina, nell'apparato amministrativo, nel meccanismo burocratico. Anche qui bisogna stare attenti a non scambiare le difficoltà reali nell'esecuzione del comando di classe con una teoria del crollo politico. Questa - bisogna metterselo bene in testa - non è stata spezzata dalle contraddizioni capitalistiche che sono esplose al suo interno. Perché questo processo di "Zerbrechung", per usare la parola stessa di Marx, e cioè perché questa azione di rottura distruttiva venga soggettivamente impostata e portata a termine, occorre che queste contraddizioni diventino tutte politiche, tradotte nel linguaggio dello Stato, espresse in un'attività di governo. Altra volta abbiamo detto- senza essere capiti - «dall'interno e dall'alto». Qui si può aggiungere: con la forza combinata, con l'azione parallela, di classe e partito, che oggi si possono ormai anche esprimere come movimento e Stato. Ma prima di arrivare a questo ci sono alcuni ulteriori passaggi. Sulla crisi del formarsi della decisione, più avanti. Ora è necessario insistere su un punto: c'è un guasto nell'albero della trasmissione che impedisce il passaggio del comando. Certe forme del trasmettere istanze esecutive da un livello all'altro erano state approntate per altri contenuti della decisione. Questi erano tutti interni al meccanismo politico, si riferivano a soggetti politici, applicavano un ordine formalisticamente

giuridico, e in questo senso, e solo in questo senso, facevano opera di mediazione istituzionale. C'era la rappresentanza dell'interesse di una classe e l'esecuzione, sia pure ideologicamente mascherata, del dominio sull'altra. Era l'età liberale, da Locke a Hoover, da Montesquieu a Kerenskij. E' crollata, con la rivoluzione e la crisi. E da allora le forze sociali, le grandi classi, le categorie economiche, le potenze della produzione, hanno preteso di fare direttamente politica. La classe operaia che chiede il potere tutto per sé e tutto per sé lo conquista apre questo processo. L'equilibrio politico del capitalismo mondiale ne viene sconvolto. Quello che era un modello universale di Stato compare per quello che è, una forma particolare di potere. Quando per suo conto, e con le sue leggi, si bloccherà lo stesso meccanismo di riproduzione del sistema capitalistico, e si arriverà al quasicrollo, il primo scatto d'iniziativa della classe dominante andrà nel senso di «tutto il potere alle imprese». Sarà parola d'ordine di breve momento, come quella del resto di «tutto il potere ai soviet». Perché su questo si innesterà una formidabile, non prevista, del tutto sottovalutata capacità di risposta statale. Non vincerà Schumpeter ma Keynes, non Lenin ma Stalin. Si apre l'era neoclassica dell'autonomia del politico, dopo quella classica originaria hobbesiana. Tutte e due queste grandi cose, l'uscita dalla crisi capitalistica e il blocco della rivoluzione socialista, sono legate a questo ritorno, ripeto, di grande storia dello Stato. Non è un valore, è un fatto. Non un modello, non una proposta. E' un processo reale: da capire, da piegare, da utilizzare. Ma il problema resta. E si aggrava. Può un partito del movimento operaio reale mettere in atto un processo di liberazione dalla propria classe d'origine con l'obiettivo immediato di arrivare a conquistare il terreno politico? Può farlo, dico, come partito comunista? che non accetta il destino socialdemocratico di subordinazione passiva alla logica autonoma di un sistema politico dato? Capire e piegare un processo si può solo infatti standoci dentro, liberi però dai suoi meccanismi oggettivi e consapevoli teoricamente, consapevoli in modo alto, dei passaggi tattici, delle transizioni a breve. Chi non ha colto questo punto, non sa la natura della pratica. Senza sporcarsi le mani, non solo non si ripara un motore, ma non si cambia nemmeno una ruota. In politica, non si può dire: sono stato ingenuo; chi lo dice non dovrebbe più fare politica. Torneremo, in finale, su questo punto. La politica è come il diritto, di cui Marx diceva: è sempre borghese. E come c'è un diritto eguale per gli individui, così c'è una politica eguale per le classi. Politica operaia è quella parte di territorio della politica

borghese che il movimento operaio riesce a conquistare con la forza del proprio esercito di classe. Ritorna a questo livello la separazione di campo e la divisione del lavoro tra libertà del partito e potenza della classe. Si dirà: è una condizione già sperimentata in Italia negli ultimi anni. Ed è vero. Il discorso che si fa qui, nella sua finta astrattezza, è pieno di cose. E' possibile solo sulla base d'una situazione concreta, mediata e rivalutata nel pensiero. Si può benissimo parlare a vuoto disegnando decine di tabelle. Si può non dire niente, o dire quello che dicono gli altri, riempiendo di note il fondo della pagina. E si può essere veramente concreti "pensando i fatti". Come i fatti, anche i pensieri, quando sono tali, hanno la testa dura. Viviamo in un'epoca in cui l'idea - una scoperta - è sempre, e comunque, un risultato infelice del cervello umano. Gli intellettuali non producono conoscenza nuova, ma relazioni tra vecchie conoscenze. Tutte queste montagne d'analisi partoriscono il topolino del già detto, del già visto. Non darsi da fare fra i fenomeni da perfetto empirista, è il massimo dei peccati. La metafisica occidentale, e anche un po' di quella orientale, è dietro l'angolo, pronta a carpire la malvagia volontà di sintesi di chi si azzarda a dire: stringiamo, compagni! che fare? Tirare la giacca alla cultura per ricordarle che c'è la politica, non è più di moda, e va bene. Sistemare tutto, e pretendere di possedere definitivamente il mondo nel pensiero, è un assurdo del nostro tempo, e d'accordo. Che non ci sono più centri di nessun tipo, né nella teoria né nella pratica e del capitalismo e del movimento operaio, e che ormai tutto gira intorno a tutto, questo va meno bene, e comunque se ne può discutere. Ma che ce ne facciamo di questi specialismi ciechi di fronte ai problemi delle nuove forze antagonistiche, di queste ricerche sorde rispetto alle lotte della vecchia classe operaia, di questa raffinata critica epistemologica che non ci dà un grammo di conoscenza sui reali rapporti di classe, di questa hölderliniana lingua degli dèi - la grande letteratura della crisi - che arriva al silenzio sul politico? Che ce ne facciamo di tutto questo se non ci serve per battere sul campo l'avversario? Questa libertà del partito dai movimenti della classe, che permette di arrivare ad aggredire il terreno politico, nella forma nostra contemporanea in cui questo si presenta, di provvisoria autonomia della manovra statale dall'interesse capitalistico, - è vero che questo processo, questa scelta, questo passaggio, come lo vogliamo chiamare, si è già verificato in uno sviluppo recente del caso italiano, ma come per caso, senza la minima coscienza e nel massimo della confusione. In queste condizioni

un'esperienza del genere non funziona. Due sono le condizioni-principe che bisogna tenere saldamente insieme perché l'operazione renda e l'iniziativa abbia un risultato di sfondamento del fronte nemico. Le condizioni sono un forte possesso teorico del breve periodo e una grande mobilità dell'organizzazione. Saper arrivare rapidamente sul posto delle contraddizioni nuove che altrettanto rapidamente in questa fase insorgono e si muovono; e saperle controllare una a una non con il cipiglio poliziesco di un apparato burocratico ma con la vigile, aperta, intelligente, disponibile capacità di chinarsi sulle forme mai date del conflitto per comprenderle e portarle. Capire certe volte è più importante che fare. E' più produttivo politicamente arrivare a conoscere una situazione data così com'è, nei suoi veri termini, che mettere in atto un intervento comunque sulla base di una linea prestabilita. Quello può aprire un campo di azione, questo può chiuderlo. Questa presunzione di conoscenza, questa sicurezza di aver capito, questa certezza di avere ragione, cioè questa falsa scienza di partito, questo feticismo della linea giusta che si appiccica alle strutture dell'organizzazione, dal militante di base al quadro intermedio al dirigente di vertice, è un danno pratico che si paga con arretramenti e sconfitte. Va rovesciato tutto nel suo contrario, nell'attiva curiosità verso le cose e gli uomini, nell'aderenza ai bisogni elementari degli uomini semplici, nel senso acuto dell'importanza del nuovo, dalla parte delle contraddizioni e delle lotte sempre, contro gli equilibri di potere dovunque. C'è una versione aggiornata della stantia frase marxiana: nulla di ciò che è umano mi è estraneo. Ed è: nessun nuovo antagonismo ci è nemico. E dunque: apertura della conoscenza e legame con il movimento. Nessun partito operaio che sta fermo a queste due regole corre il rischio di perdere il contatto con l'interesse di classe, dopo che si è liberato dai vincoli della fede nei miracoli politici della produzione. Non basta. Ci vuole un punto, un terreno, uno spazio, una forza che funzioni da centro. Ci vuole una potenza centrale. E' un punto delicato. Qui vengono al pettine alcuni nodi teorici e diventa decisivo il modo di affrontarli. Si rimette in discussione oggi l'idea stessa di «centralità», a tutti i livelli, nel lavoro scientifico come nella pratica sociale. Il carattere accentrato sarebbe ormai il segno di ogni sistema. Che il complesso delle interazioni si possa ridurre, sia pure in ultima istanza, a un solo e determinante fattore, risulta a questo punto un sogno ottocentesco. E' un'obiezione seria, che tende a colpire il concetto di centralità operaia, dopo che la sua realtà era stata già

colpita sul campo dal fuoco di recenti contraddizioni. Questa obiezione segue il cammino della più avvertita cultura teorica contemporanea che mira a portare le conseguenze della rivoluzione scientifica in generale nel campo particolare delle scienze sociali. E si ricollega a tutt'altro versante del discorso che nega la possibilità e l'opportunità di ridurre la complessità della società, di unificare il pluralismo, di fare sintesi politica dei bisogni e desideri, in una parola di governare, possedere, utilizzare, da un solo punto di vista, l'intero campo delle contraddizioni, delle richieste, delle spinte. In realtà, il concetto di centralità operaia tiene già conto di questo produttivo universo del discorso. Nella sua versione recente, è nato sulla base di due forti esclusioni, che impegnavano ambedue storia e coscienza della tradizione comunista: un'esclusione riguardava l'operaismo, cioè l'idea marxiana del rapporto sociale fondamentalmente ridotto a rapporto di produzione, l'idea quindi di un sistema, in ultima istanza, diviso in due sole classi, operai e capitalisti, con la politica come gioco d'affari della borghesia, lo Stato schiacciato a geroglifico sociale e la società semplificata ad appendice della fabbrica; l'altra esclusione riguardava il leninismo (il leninismo, non Lenin!), e cioè l'idea bolscevica del partito reparto d'avanguardia della classe, che portava dall'esterno la coscienza politica, e di qui l'idea della classe operaia come «avanguardia» delle masse popolari, che istituiva «alleanze» con gli strati poveri e sfruttati della società, facendosi carico, come ancora oggi si dice, dell'intero processo dell'emancipazione umana. Centralità operaia vuol dire invece che accanto agli operai ci sono sul terreno altre forze antagonistiche che, a pieno titolo, con pari diritto, in forme proprie e specifiche di rivendicazione e di organizzazione, lottano contro questo sistema sociale e politico: e non sono sacchi di patate dei contadini, non sono plebi oppresse e masse arretrate, non sono alleati subalterni e provvisori. Centralità operaia non vuol dire direzione degli operai su queste forze, modello, guida, avanguardia: direzione si esercita sull'avversario, sulle sue resistenze alla trasformazione, all'innovazione, al mutamento dei rapporti di forza, si esercita sui rapporti materiali del ciclo economico e del ciclo politico. Le nuove forze antagonistiche hanno diritto a dirigersi da sé e da sé a decidere il proprio "che fare". Non va portata in esse dall'esterno la coscienza operaia, quella strategica, di alternativa al sistema. Perché questa coscienza c'è spontaneamente in queste forze. Anzi, è proprio essa che le qualifica, essa che le organizza, sia pure in quelle forme non istituzionalizzate che corrispondono alla loro natura, essa che ne fa contraddizioni acute del capitalismo maturo. Questa fase capitalistica ha infatti il suo specifico storico nella produzione di contraddizioni secondarie dentro il cuore stesso

dello sviluppo. La periferia del mondo non sta più solo nelle lontane plaghe dell'Asia, dell'Africa, del Sudamerica, si è portata a ridosso delle cittadelle del capitale, le assedia da vicino, le minaccia dall'interno. La questione metropolitana, il problema politico della governabilità di una grande città, diventa il paradigma allegorico del momento mondiale odierno del capitalismo. Qui precipitano tutte le contraddizioni, in questo calderone di fusione dove le classi, i ceti, gli strati, le parti sociali si intersecano, si confrontano, si scontrano, in questa arena del potere per tutti, per le "lobbies" come per i partiti armati, in un crescendo quotidiano di guerra e nello stesso tempo in un consumo vistoso della vita. La questione giovanile prende su di sé il peso che una volta veniva caricato su spalle più solide, quelle dei lavoratori in generale, e diventa sintomo di un rifiuto collettivo di tutti i valori tradizionali di questa forma politica della società. Non ricostruisce certo intorno a sé un'identità di classe, non potrebbe farlo mai, finisce però per rappresentare quel modo alternativo di presenza civile che un tempo era incarnato nella rete delle organizzazioni operaie, e lo fa in maniera informale, con una grande carica antistituzionale, con passione e confusione insieme, lasciando dietro di sé quel segnale di fragilità e debolezza, che crea di per sé nuovi forti contrasti, fughe spesso individuali da tutte le parti, verso il privato, verso il religioso, verso dimensioni altre, magiche, poetiche, istintive, psicologiche, con due opzioni dominanti, per la musica giovane e per la violenza giovane, musica e violenza, due modi d'essere di quella che è stata detta la generazione della crisi. La questione femminile è forse il nuovo assoluto, il punto del massimo scarto dal passato, lì dove si decide la collocazione assolutamente moderna di una persona singola o di un'organizzazione collettiva, il terreno che rende possibile la sperimentazione più avanzata di una svolta storica. Qui il rovesciamento dei rapporti di forza tra le grandi classi, che è segno della nostra epoca, tocca il punto limite, raggiunge, se così si può dire, l'ultimo obiettivo, trae le conseguenze finali, e arriva a mettere in discussione e a sottoporre a critica distruttiva la forma di potere più antica, più radicata nella società e più tradizionale in politica, il potere dell'uomo sulla donna. A queste grandi questioni nuove il modello strategico della lotta operaia è organico, è implicito, è realtà interna, è natura oggettiva. Che cosa dunque il punto di vista direttamente operaio deve portare dentro queste realtà autonome, dirompenti e distruttive? Deve portare, a mio parere, quello che gli operai di fabbrica hanno imparato nei decenni della

lotta di classe e che non si acquista nel breve periodo e non si possiede spontaneamente: parlo del mondo della tattica, la capacità di battere l'avversario non solo con la forza, ma anche con l'abilità. Questa coscienza non c'è nell'area del movimento. Non c'è la politica come tecnica. Lenin diceva che gli operai, abbandonati a se stessi, avrebbero coltivato solo una coscienza tradeunionistica; sarebbe sfuggito loro l'obiettivo politico della lotta. Per il movimento oggi è l'inverso: da solo coltiva una coscienza sessantottesca, fini generali, immaginazione al potere, rifiuto e liberazione, ma sui mezzi, sugli interessi, sulle armi più efficaci da usare, o non c'è niente o è tutto sbagliato. Quante sconfitte non si sono già consumate su questa tagliola, su questa ghigliottina tra bisogni concreti e princìpi astratti, tra domande giuste e strumenti impazziti? No, il movimento non fa politica. Anche per questo non vince. Perché sul movimento fa politica l'avversario. Non abbiamo visto anche recentemente l'uso antioperaio di positive contraddizioni sociali? Ne abbiamo già parlato. Allora, su questo punto bisogna essere chiari, se possibile lucidi, se necessario settari. Sulla base della società capitalistica, un soggetto rivoluzionario si riconosce da questo, se stabilisce un rapporto positivo, di riferimento, di confronto, di accordo, di lotta comune, con la classe operaia. Fuori di questo non c'è antagonismo vero, non c'è seria contestazione, non c'è aggressione reale nei confronti del sistema di potere esistente. E c'è il contrario di tutto questo: c'è passiva subordinazione alla manovra avversaria, strumentalizzazione perversa di forze sane, uso capitalistico della contraddizione sociale. La verità è che si è come concentrata e consumata in questi ultimi anni una storia di tentativi a loro modo insurrezionali, che hanno mirato a rimettere in discussione gli equilibri fondamentali del sistema, per altre vie da quelle tradizionali, che vedevano sempre e comunque il processo partire dalla produzione diretta, dagli operai di fabbrica, dalla rivoluzione secondo "Il capitale". Dal '68 in poi, tutti questi tentativi hanno riproposto e modificato la vecchia tesi che una e una sola è la minaccia mortale che può colpire al cuore il capitalismo, ed è il blocco della produzione diretta di plusvalore, la lotta operaia in fabbrica. Hanno riproposto questa tesi, perché si è visto che il resto è sempre attacco alla periferia del sistema, anche quando mette nel mirino il vertice fisico del potere. E l'hanno modificata questa tesi, perché anche qui si è visto che la lotta di classe operaia o sta dentro quegli esperimenti nuovi o se li trova contro. Non c'è una via di mezzo. Dopo tante pratiche e teorie su questo punto, la realtà dice che l'area del movimento non ha autonomia. In una società capitalistica, autonomia è solo delle grandi classi. Lo "Spätkapitalismus" non sposta una virgola di questa proposizione. Porta semmai l'autonomia, in certi casi e per alcuni periodi, sul terreno politico. Il

sociale è sempre e comunque e dappertutto una variabile dipendente. Autonomia del sociale, dei soggetti che la esprimono, e quindi del movimento, può esistere solo in riferimento, a confronto, d'accordo e per una comune lotta con la classe operaia centrale di fabbrica. In sé, l'autonomia è ideologia. E' critica e autocritica del movimento operaio. E' crisi dei suoi livelli storici di organizzazione. Non di più. Per scattare a forza direttamente anticapitalistica deve conquistarsi una forma operaia. Senza di questa, l'autonomia è pura e semplice contraddizione sociale, destinata a servire passivamente quello dei due schieramenti di classe che fa più politica, che di più riesce a utilizzare per sé l'autonomia tardo-capitalistica del terreno politico. Qui infatti è il punto. O il movimento dei soggetti trova spontaneamente, dal suo interno, il rapporto con la forza oggettiva degli operai, oppure si chiude nell'ideologia dell'autonomia, di fatto dipendente dalla manovra avversaria. Non è possibile infatti che la coscienza operaia venga portata nell'area del movimento dall'esterno. Il partito non può assolvere a questa funzione. Non perché è questo partito, con questa tradizione, con questa organizzazione, con questa cultura politica, ma perché il partito in quanto tale non può stabilire un rapporto di conquista con l'area di movimento, non può riproporsi nei suoi confronti nei termini tradizionali di direzione e di spontaneità. Ha una funzione il partito rispetto al movimento, ma tutta indiretta, gestita in modo nuovo e giocata su un altro terreno. Solo se il partito dimostra di saper vincere sul proprio terreno, quello dell'iniziativa politica, all'interno delle istituzioni, spostando lì dentro i rapporti di forza tra le classi, solo allora può far sì che la nuova soggettività antagonistica si dia da sé, da sola, una forma di sviluppo fondata sul modello di un primato operaio. Non è un brillante paradosso, e non è una scappatoia retorica, come si dice in genere di un'idea che si ha paura di capire. E' un approdo ricco di passaggi, pieno di esperienza, e prodotto di faticoso pensiero: oggi la centralità operaia funziona solo se il partito che la riconosce sfonda nella sua battaglia sulla linea del politico. Quando il partito che si dice operaio fa il suo mestiere, e cioè conquista il potere, è allora che la classe operaia viene spontaneamente riconosciuta come il centro naturale di un fronte di soggetti. Questi hanno bisogno infatti non di un'ideologia, ma di una forza. Qual è il limite di fondo della nuova soggettività? E' la mancanza di armi offensive. Non è un caso che parti minoritarie di essa fanno poi la scelta della violenza elementare. La verità è che il movimento non ha potenza. La potenza dell'antagonismo è direttamente in mani operaie. Un soggetto sociale diventa rivoluzionario in politica quando riconosce il luogo di questa potenza. E la sua necessità per i

propri scopi. Perché - dice il capitalismo con la sua storia - senza potenza niente potere. (...)

*** DESIDERANTI E CREATIVI

* POUR EN FINIR AVEC LE JUGEMENT DE DIEU Franco Berardi (Bifo) Il destino del secolo ventesimo: questa è la posta dell'anno sette sette. Numero maledetto. Numero visionario: presagi ed esorcismi. Esaltazione bacchica e sabba malefico. Fine della promessa. Inizio della fine. Primavera e autunno. - "L'anno spartiacque". Primavera: la speranza della modernità tutta contratta, tutta condensata in quei giorni del marzo. Il teatro di piazza Verdi e delle barricate, delle assemblee di Bologna e di Roma, delle radio libere di cento città a piena voce esige che il possibile si liberi dalle catene dell'esistente, che la promessa di felicità, di libertà e di eguaglianza giunga a compimento. Le condizioni appaiono tutte riunite. La potenza dell'intelligenza non può più a lungo restare intrappolata nei confini stupidi della legge economica. Intelligenza tecnico-scientifica e immaginazione creativa, insieme, contro il dominio del capitale e la disciplina del lavoro salariato.

La furibonda ragionevolezza dello Stato del capitale e della burocrazia, di Agnelli e di Lama, reagisce alla speranza con le ragioni dell'inevitabile: l'economia, la compatibilità, il sacrificio, il consenso, il dovere. Carri armati, arresti di massa, chiusura violenta delle radio, delle case editrici, delle voci del dissenso. La luce tragica del secolo prende allora il sopravvento. Autunno: alla digrignante aggressione del compromesso storico - mostro clerico-stalino-fascista, sintesi di tutta la pornopolitica italiota - segue il riemergere del passatismo tardoleninista, che l'insurrezione ironica del febbraio-marzo aveva mandato in frantumi, dissolto. L'isterico soggettivismo della volontà riprende il sopravvento e trascina l'intero movimento nell'abisso. Disgraziato settembre. Maledetto Palazzo dello sport. Se vogliamo comprendere il senso di quell'anno dobbiamo prima di tutto allargare la prospettiva, per guardare la mappa del mondo in tutta la sua estensione. Sulle piazze italiane si grida «Lavoro zero reddito intero, tutta la produzione all'automazione». Ma negli stessi giorni, sulle rive del Tamigi i Sex Pistols dichiarano la fine del futuro. Nei garage della Silicon Valley, Steve Wozniak e Steve Jobs mettono a punto la rivoluzione vittoriosa della Apple. Nella città di Shanghai si conclude nel terrore la delirante e lucida, luminosa e oscura storia della rivoluzione culturale proletaria. A Parigi, su mandato di Giscard D'Estaing, Simon Nora e Alain Mine scrivono "L'informatisation de la société", prevedendo gli effetti sconvolgenti della telematica sull'organizzazione del sapere, della politica, dell'economia. A Mosca Yuri Andropov, direttore del K.G.B., scrive una lettera al cadavere ambulante Leonid Breznev per dirgli: segretario, o l'Unione Sovietica riuscirà, entro cinque anni, a recuperare il distacco dall'Occidente sul piano dell'informatizzazione o per noi è finita. Quando, cinque anni più tardi, salirà per pochi mesi al seggio della somma autorità del suo Paese chiamerà Gorbaciov e Yakovlev per dire loro: è finita. Questo è il '77. Quell'anno è il punto d'arrivo delle tumultuose vicende del Ventesimo secolo, secolo della rivoluzione proletaria, delle ideologie totalitarie e della

promessa democratica mai pienamente realizzata; è lo spartiacque tra società industrialista e proletaria e nuova società da inventare, a partire dalle potenzialità tecnologiche prodotte nel corso della lotta continua tra operai e capitale. Ma inventare questa nuova società non è possibile con gli strumenti della vecchia, con gli strumenti della politica, dell'organizzazione burocratica o militare, della democrazia e dell'antagonismo. Nuovi strumenti occorrevano, e non li sapemmo inventare. Forse non si poteva farlo, perché occorreva allora (e occorre ancora) un lungo processo di tipo evolutivo, una rimodellazione reciproca dell'organismo sociale e dell'ambiente tecnoproduttivo, una mutazione per gran parte inconsapevole che si sta svolgendo e si svolgerà ancora a lungo, oscuramente, dolorosamente. Il movimento del ' 77 si trova preso nella tensione tra due processi collegati ma opposti: da una parte esso si manifesta come disperata resistenza delle forme di socialità che sono emerse nell'epoca della maturità industriale; dall'altro esso si manifesta come prima consapevolezza e rappresentazione di una trasformazione in senso 'mentale' dell'attività lavorativa e del ciclo sociale complessivo. Il processo che attraversa il corpo sociale, lacerandolo prima e congelandolo poi, negli anni Ottanta, è definibile come processo di smaterializzazione. Si smaterializza il processo di produzione delle merci, nel senso che l'attività di manipolazione dei materiali viene sostituita dall'elaborazione dei programmi necessari a far compiere alle macchine la trasformazione materiale. Si smaterializza la relazione tra gli individui, grazie alla telecomunicazione che elimina la necessità di un rapporto tra i corpi nello scambio comunicativo. Si smaterializza il comando sociale, sempre più esercitabile in forma di controllo informativo, o tramite l'induzione di flussi immaginati, mitologici, psichici. Si smaterializza la partecipazione politica sempre più affidata alle strategie di consenso e alla creazione di immagine. La città, questo prodotto fondamentale della civilizzazione umana, che raggiunge il suo compimento nell'epoca borghese, facendosi crocevia dello scambio di merci e di idee tra uomini che si toccano, raggiunge il momento dell'esplosione con la superfetazione metropolitana: la metropoli è l'ipertrofia della funzione urbana che contemporaneamente produce l'impossibilità di un rapporto territorializzato tra uomo e uomo. Nella città gli uomini si incontrano per conoscersi; nella metropoli gli uomini si

incontrano senza potersi conoscere più. Nella città gli uomini si toccano eroticamente, nella metropoli il contatto è pornografico e aggressivo. La forma metropolitana determina il collasso dei modelli di comunicazione e di organizzazione politica che la città aveva prodotto. Gli individui tendono a diventare terminali di reti astratte di scambio. Il territorio post-urbano è luogo di transito, di spostamento veloce, luogo popolato da celle terminalizzate, interconnesse telematicamente. La televisione, macchina dell'omologazione, dell'atomizzazione, "telepanoptikon" rovesciato, diviene il centro del mondo in questa transizione. Il movimento del '77 si colloca proprio nel punto di formazione di questa coscienza della smaterializzazione, e di conseguenza la sua anima è lacerata e contraddittoria. Infatti in esso confluisce la storia di tutti i movimenti di lotta operaia e di controcultura giovanile dei decenni precedenti: rivendicazione antilavorista della sensualità, erotismo collettivo, sperimentazione artistica collettiva. Tutto questo si manifesta come disperato sussulto di resistenza della cultura urbana, della città, dell'interazione concreta, del contatto urbano tra corpi, scambio politico diretto, dialogo continuo. In questo senso il '77 è l'ultima rivendicazione della politica nel suo significato originario, urbano. Molto più forte fu questa rivendicazione, che la progettazione di un'utopica nuova società. Eppure, al tempo stesso, il movimento del '77 fu capace di scoprire la nuova dimensione immaginaria verso la quale si proiettava la comunicazione sociale, e fu capace di presentire la nuova dimensione postlavorista verso la quale si dirigeva la produzione sociale al tramonto dell'industrialismo classico. Il movimento del '77 percepì l'imminenza di una trasformazione profondissima dell'organizzazione sociale e della qualità dell'attività. La percepì come glaciazione imminente, come imminente sostituzione dell'umano da parte del macchinico. Questa tendenza apparve fin dall'inizio ambigua, carica di promesse liberatorie (fine del lavoro) e carica di una minaccia di glaciazione. Perciò quel movimento si manifesta duplice: come proiezione ipermodernista verso un pieno dispiegamento delle potenzialità e dei futuri possibili; e come resistenza contro l'incubo ipermoderno. I comportamenti di movimento appaiono così sospesi in un'ambiguità: l'ambiguità dello spartiacque. Il corteo che sfila nella città, il fiume di uomini e di donne che camminano nelle strade rappresenta bene una difesa della dimensione umana, della concretezza urbana. La distruzione delle automobili è un rito ecologico che

si ribella contro il modernismo ottuso e rivendica possibilità di postmodernizzazione intelligente. Ma che senso può avere il corteo in una città che non esiste più, che non si tocca più nelle strade, che telecomunica senza più interagire fisicamente? Il terrorismo si inserì su questo livello di smaterializzazione quando scelse la clandestinità e l'azione spettacolare: clandestini in una città in cui ognuno è clandestino per ciascun altro, dunque ugualmente spersonalizzati, atomizzati, privi di vita concreta; eppure capaci di agire proprio su quel circuito freddo, astratto, proprio grazie ai media. Perciò il terrorismo nasce laddove il movimento è sconfitto. Contrariamente alle falsità della stampa di regime (di destra e di sinistra) , il terrorismo non è organico al movimento, ma lo disgrega dall'interno, lo seppellisce e infine lucra sulla sua scomparsa. E il terrorismo di quegli anni fu un fenomeno contraddittorio. La coscienza dei suoi attori fu quanto di più retrogrado e oscurantista, legata a modelli teorici da paleocapitalismo e a progetti di dittatura dei settori proletari più antichi. Ma l'effetto mediatico dell'azione terroristica entrava in contatto rapidissimo con il funzionamento della società dell'informazione spettacolare. Questo parve un successo dell'azione terroristica, ma ben presto portò i clandestini a divenire puri strumenti, e poi vittime, di una macchina che essi non comprendevano. - "Maledetto settembre". Se marzo fu il dispiegamento di una prospettiva nella quale tutte le potenzialità si intravedevano, settembre fu il momento in cui quella prospettiva si richiuse. E' il mese del «convegno contro la repressione», proposto dall'appello che durante l'estate Félix Guattari aveva lanciato da Parigi. Quel convegno avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni di chi lo lanciò, un'apertura del movimento nato a Roma e a Bologna verso l'Europa delle controculture, verso il futuro da scoprire insieme. Invece finì per essere una chiusura provinciale nei settarismi dialettali della burocrazia dei vari settori dell'Autonomia organizzata, una regressione verso leninismi scaduti da decenni. In quel convegno vediamo rappresentata anche fisicamente la

divaricazione interna al movimento. Nelle piazze e nelle strade della città decine di migliaia di persone si dispongono collettivamente ad ascoltare l'epoca che sta arrivando. Nel chiuso del Palazzo dello sport seimila burocrati del risentimento si ritrovano per programmare la trasformazione del movimento autonomo in soggettività antagonista organizzata, cioè la sua distruzione. Antagonismo e organizzazione sono le due parole sbagliate che si oppongono alla possibilità di radicamento e di estensione dell'autonomia. Essere antagonisti vuol dire definirsi rispetto al nemico, dunque definirsi in forma dipendente, come sudditi, come "sub-iecti". E organizzazione vuol dire riduzione delle dinamiche sociali a un disegno soggettivo che ricalca le linee del progetto leninista. Il tardivo riemergere del leninismo, introdotto nel movimento da quella componente che si definisce Autonomia organizzata fu la forma teorica di quella sottomissione. Se io ripenso al ruolo che potemmo svolgere in quell'anno, noi che ci definivamo «corrente trasversale», e sempre rifiutammo di identificarci in forma organizzata, soprattutto di una colpa mi rimprovero: la colpa di aver subìto per malinteso spirito di unità, o forse per tribalismo omertoso, l'arrogante riemergere del leninismo, nei comportamenti e nella teoria. Quella nostra reticenza fu un errore irreparabile, perché condusse il movimento all'impasse di settembre. Si era allora allo snodo decisivo. Il bene da salvare a ogni costo era il patrimonio di sperimentazione autonoma che il movimento aveva accumulato sul piano della produzione, della comunicazione, dell'arte, delle forme di vita urbana. A giugno «A/traverso» aveva dichiarato: «La rivoluzione è finita, abbiamo vinto». E aveva lanciato la parola d'ordine di costituire CALMA (Centri di Abolizione del Lavoro Manuale) e C.D.N.A. (Centri Diffusione di Notizie Arbitrarie). A settembre questa prospettiva venne cancellata dall'imposizione di una logica antagonistica e organizzativista. La riprova si ebbe nel mese di dicembre, quando a Roma, in occasione della manifestazione nazionale dei metalmeccanici i Comitati autonomi scelsero di separarsi dalla manifestazione e di convocare una manifestazione 'di partito' che raccolse poche migliaia di persone e segnò il ritorno a una logica minoritaria e puramente reattiva. Il movimento era in via di dissoluzione. Aveva segnato lo spartiacque della modernità, ma non aveva elaborato le modalità di una transizione capace

di liberare la società postindustriale dai vincoli e dagli automatismi del capitalismo industriale. Le forze che si erano espresse nel movimento non erano più attrici del processo, ma ne divenivano testimoni e vittime. La diffusione dell'eroina, l'esplosione del terrorismo furono le manifestazioni di quella dissoluzione. E si crearono così le condizioni perché la repressione potesse fare quel che non era riuscita a fare nel '77: mettere in moto un processo di desolidarizzazione. - "Dei toreri senza toro". E per farla davvero finita con il giudizio di dio occorre chiedersi: e adesso, e domani, e poi? Il movimento del ' 77 è stato premonizione di un mondo che non si è ancora interamente dispiegato: fine della modernità, lunga transizione verso la creazione di un nuovo paradigma in via di modellazione. Ma come si districa un nuovo paradigma dall'intrico presente, che è sovrapposizione del modello capitalistico sulle potenzialità liberatorie contenute nello sviluppo dell'intelligenza tecnico-scientifica? Naturalmente la risposta travalica di gran lunga i limiti ristretti di questo scritto che deve avere il '77 come baricentro. Ma se vogliamo capire il '77 sarà bene che ci sporgiamo verso il 2017. Nessuno, sulla scenetta della politica contemporanea, sembra capace di confrontarsi con lo scenario del divenire del mondo. Il problema è che questo divenire è divenuto così vorticoso che nessuno degli schemi interpretativi di cui la politica dispone è in grado di seguirne il "tourbillon". L'ultimo grande politico, probabilmente, è stato Michail Gorbaciov, con Vaclav Havel, e il suo compito storico è stato proprio quello di dichiarare finita la politica, finita l'alternativa, finita la volontà umana. Gorbaciov è stato l'ultimo grande politico perché non ha detto che il capitalismo è la cosa più bella del mondo, ma ha semplicemente riconosciuto che di fronte alla potenza dei suoi automatismi non c'è volontà politica che tenga. E quegli automatismi in effetti lo hanno detronizzato. E Vaclav Havel, poco

dopo la fine del socialismo autoritario a Praga, ebbe il coraggio di dichiarare: «In nome della libertà politica si è scatenato nella società tutto quello che vi è di peggiore nella natura umana». Per quanto si circondino di scenografie retoriche, l'azione dei politici si esercita sull'irrilevante. Le trasformazioni enormi del nostro tempo sono indifferenti alle loro parole e alle loro azioni. L'azione politica in effetti si esercita ormai soltanto in una sfera auto-referenziale. Il toro sta da un'altra parte. Il toro è l'automatismo economico per cui se non si producono camere a gas si licenziano operai; l'automatismo per cui la riduzione del tempo di lavoro necessario si trasforma in miseria, anziché trasformarsi in liberazione di tempo; l'automatismo per cui l'enorme maggioranza dell'umanità considera indispensabile avere un'auto a testa, piuttosto che sviluppare i trasporti pubblici. Le trasformazioni reali si svolgono in una sfera che sfugge alla volontà politica: la sfera dell'infinitamente piccolo, della programmazione informatica, della mutazione biogenetica. Oppure dell'infinitamente grande, della globalizzazione ingovernabile: la sfera macroscopica della simulazione finanziaria. Perciò i politici sono come dei toreri finti, con tutte le loro "banderillas" e tutte le loro "picadillas", con tutto il pubblico che urla e li incita. Ma non c'è più nessun toro. Il toro sta nei laboratori della biotecnologia, nei garage dove si programma software, nei luoghi di produzione degli immaginari futuri, a Hollywood, al Medialab di Boston. Il problema è che la complessità del mondo ha superato di gran lunga il limite entro il quale era riducibile alla selezione ideologica, alla scelta, alla decisione. E senza decisione la politica è nulla. Senza scelta la decisione è nulla. Senza criteri di selezione non si dà scelta. Gli automatismi del capitalismo globale sono più forti di qualsiasi possibilità di alternativa, di decisione e di scelta. Cos'è che legittima il ceto politico italiano della «seconda Repubblica»? Il suo essere 'post'. Questo regime a proprio fondamento non ha altra motivazione che l'abbandono delle motivazioni. Per questo l'unico piano su cui si esercita attualmente la politica è la riforma della politica stessa: il perfezionamento di una macchina che non produce più niente.

- "Verso dove verso quando". Il movimento del '77 fu essenzialmente un processo di critica della politica esistente, per una politica della vita quotidiana. E' sul terreno della vita quotidiana, del lavoro e della comunicazione, che la lotta fra dominio e liberazione si svolge. E' sul terreno dell'infinitamente piccolo, delle micromutazioni neurofisiche, psicochimiche, informatiche e biotecnologiche che si gioca il destino dell'infinitamente grande, dell'infinitamente complesso, del globale-locale. E dove sta il luogo in cui questo processo di mutazione si organizza, si governa consapevolmente? Questo luogo non c'è: non è la politica e non sarà mai più la politica. Questo luogo si deve costruire all'interno dei processi di formazione della forza-lavoro intellettuale, all'interno dei processi di programmazione informatica, all'interno del sistema mediatico. I Centri sociali sono stati, in Italia, un'ottima occasione per creare condizioni di un mutamento consapevole in questi ambiti. Purtroppo però, per il momento, non sono riusciti a diventare nuclei di autoproduzione rivolti verso l'esterno, verso il mercato, verso l'immaginario sociale. Ma è là, nel punto in cui l'intelligenza creativa si coagula per creare collettivamente le condizioni di una mutazione consapevole, che si dovrà tornare, che si tornerà. E' là che ritroveremo, senza nostalgie, senza passatismi, l'eredità del '77, cento volte dispersa e mai dissipata. - "La lunga attraversata". I documenti che riproduciamo di seguito, pubblicati da «A/traverso» nell'autunno del 1975 e nella tarda primavera del 1977, indicano quattro punti che ci servono per chiarire la lungimiranza del movimento, le ragioni della sua sconfitta e la sua attualità.

Quando dico attualità non intendo per nulla parlare di attualità politica. Il movimento del '77 non ha alcuna attualità politica, non ha niente da dire a chi fa politica oggi, perché chi fa politica oggi, in generale, fa finta di occuparsi del futuro del mondo e si occupa invece soltanto del proprio inutile privilegio di casta, oppure della conservazione nostalgica di parole, prospettive, rituali che sono morti. Quando parlo di attualità del '77 voglio dire la capacità di premonizione antipolitica, post-politica, implicita nell'evento '77 e implicita nelle teorizzazioni che lo precedettero, accompagnarono e seguirono. Veniamo ai quattro punti. 1 ) Rifiuto del lavoro e funzione potenzialmente liberatoria delle tecnologie sono l'elemento di fondo della riflessione che prepara l'esplosione del movimento. Il '77 fu il movimento dell'irresponsabilità, è vero. Evviva. Fu il movimento dell'irresponsabilità perché non ci ritenevamo in alcun modo responsabili degli effetti catastrofici che il predominio dell'economia aveva prodotto nella vita, nell'organizzazione sociale, nella struttura della tecnologia. Non eravamo responsabili come non lo siamo oggi. Non chiedeteci di riconoscere le ragioni superiori della necessità economica. Non crediamo e non crederemo mai nelle ragioni superiori dell'economia perché non crediamo che l'economia sia la natura. Rileggendo il Marx dei "Grundrisse" allora dicemmo: le potenzialità implicite nella connessione di tecnologia e produzione portano verso la liberazione dal lavoro. Ma perché questo divenga possibile occorre liberare la potenza delle tecnologie dal dominio dell'economia capitalistica. Riduzione generale dell'orario di lavoro, redistribuzione del tempo di vita liberato dal lavoro, redistribuzione della ricchezza sociale prodotta dal lavoro passato. Questo era l'essenziale del programma sociale del movimento. Ci bombardarono con tutte le armi di cui disponevano. Ci bombardarono i ladri della Democrazia cristiana e gli stalinisti del Partito comunista. Ci bombardarono gli economisti e gli industriali, gli intellettuali che oggi leccano culi berlusconiani ma allora militavano nelle file del partito stalinista.

2) Quel movimento si inserisce nella storia di lotta proletaria contro il socialismo realizzato, di lotta dell'intelligenza contro la burocrazia e contro l'autoritarismo della sinistra, sia leninista che socialdemocratica. Carri armati a piazza Verdi. Come a Berlino '53, Budapest '56, come a Praga '68, come a Danzica '76. Carri armati ed emarginazione per tutti coloro che non accettarono di iscriversi al partito del consenso obbligatorio. Il movimento del '77 (parlo soprattutto del movimento di Bologna, ma questa era la vocazione maggioritaria del movimento in ogni altra città) fu consapevolmente rivolto contro il socialismo, contro il nazional-comunismo, che in Italia trovava la sua raffigurazione nel berlinguerismo, ma anche nelle riemergenze tardo-leniniste. Su questo terreno il movimento del '77 ottenne una sostanziale vittoria. Dopo il marzo di Bologna, il compromesso storico aveva perduto ogni maschera politica, era diventato quel che era nell'anima: una dittatura militare andreottiano-brezneviana. Il rapimento di Aldo Moro, nel '78, fu un'azione consapevolmente rivolta anche contro il movimento, per distruggerlo e per annettersene le spoglie. Contrariamente a quel che si dice di solito, quel rapimento non fu affatto un colpo mortale contro il compromesso storico, che era già finito, perché lo aveva fatto fuori il movimento di marzo. Fu, al contrario, una santificazione "post-mortem" del compromesso storico, fu la restituzione di una boccata di ossigeno al ceto politico democristiano e picista che il movimento aveva smascherato. 3) Il movimento riconobbe ben presto l'esaurimento della sfera politica. Il processo di trasformazione della vita quotidiana, il processo di trasformazione del rapporto tra tecnologia e lavoro non attraversava più (non era più attraversato da) la politica che è esercizio della volontà, arte della mediazione e del governo. Non c'è più volontà, non c'è più mediazione, non c'è più governo. Separazione delle forme di vita autonome dal dominio dell'economia. Secessione di colonie nomadi, sperimentazione di forme di produzione in cui la tecnologia e la creatività sostituissero l'economia e la disciplina ripetitiva del lavoro. Questa era la strada che il movimento aveva cominciato a inventare. Ma la coazione a ripetere si impose anche dentro il movimento; l'autonomia organizzata funzionò come elemento di riproduzione di un modello di comportamento fondato sull'opposizione, incapace cioè di essere autenticamente «autonomia».

4) Il movimento del' 77 non è soltanto quel che accadde a Bologna, a Roma e in Italia. Il movimento del '77 è anche quello che accadeva a Londra, nei medesimi giorni, negli stessi mesi. Il punk, la consapevolezza disperata del fatto che non c'era più alcuna alternativa alla dittatura congiunta della tecnologia con l'economia. Dal momento che la tecnologia (le cui potenzialità liberatorie quel movimento aveva intravisto ed esaltato) viene a essere catturata e sottomessa dall'economia, tecnica di reificazione e di sostituzione della vita col valore, l'umano appare ridotto a residuo, e progressivamente cancellato. Dal punto di vista della sua conclusione, il movimento del '77 appare essenzialmente questo: lucida comprensione dell'esaurimento della modernità, lucida comprensione del fatto che il capitalismo - sistema di distruzione dell'umano, di assorbimento e perversione dell'intelligenza e della creatività - non ha più alternative. Iniziava allora la traversata di un deserto che, al momento attuale, non è ancora finita. Iniziava la lunga marcia attraverso l'inumanità.

* 1975-1977 «A/TRAVERSO» (Quattro frammenti) °°° maggio 1975 PICCOLO GRUPPO IN MOLTIPLICAZIONE. Il soggetto di movimento sta altrove: si disloca in uno spazio oggi difficilmente definibile, impossibile da ridurre dentro le categorie muffite dell'istituzione, ma anche dell'extraparlamentarismo gradualista e perbenista. Sta altrove, sfrangiato e dissoluto. La dissolutezza è la forma innovativa dell'azione sociale. Ma come trovare unità, come mettere in moto un processo di ricomposizione, come fare politica? Perché affrettare una risposta? Probabilmente, occorre dirlo, il movimento reale è andato molto più avanti delle nostre capacità di comprenderlo. La crisi e il riformismo, in una loro alleanza che funziona da molto tempo, hanno sconfitto il quadro politico emerso dall'ondata montante del '68-69. In parte lo hanno inglobato dentro una prospettiva neoriformista, in parte lo hanno disgregato, lasciandolo dove si trova adesso, a porsi il problema dell'autoriconoscimento, della definizione di un terreno su cui muoversi. Ma il movimento è andato molto più avanti della politica; è andato molto più avanti dei vecchi problemi della lotta e dell'unità; si colloca in una dimensione che è quella dell'estraneità radicale e del rifiuto. Contro questo

Stato non mette conto lottare; è troppo misera la sfera della politica istituzionale, e anche l'azione antagonista è povera cosa, a fronte della ricchezza che il soggetto in movimento può sviluppare. La politica istituzionale rimargina le sue ferite, e (sempre spaventata dal '68, dall'emergere imprevisto dell'altro, dell'autonomia) tenta continuamente di rimuovere ciò che non si subordina. Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi e le categorie democraticopartecipative della borghesia cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile; i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabili ieri per la loro ostilità e lotta aperta, oggi per la loro estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, star dentro a qualche ordine. Perché solo nell'ordine si può costringere la gente a lavorare. Dissolutezza sfrenatezza festa. Questo il livello a cui si sta assestando il comportamento dei giovani, degli operai, degli studenti, delle donne. E se per i burocrati questa non è politica, ebbene, è la nostra politica; e magari la chiameremo in un altro modo. Appropriazione e liberazione del corpo, trasformazione collettiva dei rapporti interpersonali sono il modo in cui oggi ricostruiamo un progetto contro il lavoro di fabbrica, contro qualsiasi ordine fondato sulla prestazione e sullo sfruttamento. La pratica del piccolo gruppo è il terreno sul quale si riconosce l'autonomia, il livello di minimo al quale si è fermato il processo di disgregazione. Non serve a niente oggi progettare una terroristica e meccanica riunificazione che ponga in astratto il problema dell'unità. La pratica di piccolo gruppo non è pratica di scontro. Si pone piuttosto nel luogo dell'ignorazione, della collocazione altra, dell'estraneità. Il problema della ricomposizione è nel passaggio dall'estraneità diffusa e dissoluta alla ricostruzione di nuovi strumenti di aggregazione e di collettivizzazione del desiderio. Ma questo problema non si risolve nel luogo separato dell'organizzazione, e neppure con i discorsi astratti sull'unità: la ricomposizione si dà sul piano delle pratiche trasformative che ripercorrono trasversalmente lo spaccato della vita quotidiana.

Ci occorre una scrittura che ripercorra trasversalmente tutto lo spaccato dell'esistenza, tutte le figure in cui il soggetto-classe si specifica. Progettiamo dunque un piccolo gruppo in moltiplicazione e in ricomposizione trasversale. Costituendosi come unità desiderante un collettivo deve cominciare a saper interpretare il desiderio di ricomposizione: i flussi che percorrono la classe, che muovono il vissuto quotidiano delle masse. La ricomposizione non è un imperativo morale, un dogma politico; è un desiderio del movimento. Occorre trovare una macchina-comportamento che interpreti questo desiderio. Proviamo sul terreno della scrittura. Non una sintesi esterna, non uno specchio, ma una disponibilità a sopportare la curva del processo, facendosi soggetto pratico della tendenza. Una scrittura capace di dare in sé corpo alla tendenza, di incarnare la tendenza come desiderio, di scrivere nella vita collettiva la possibilità di liberazione. °°° ottobre 1975. NEL PROCESSO DELLA RICOMPOSIZIONE. Nella fase storica in cui viviamo, il comunismo non ha più la forma di un bisogno che chiede risposta, ma ha la forma di una liberazione delle possibilità che il sistema capitalistico contiene in sé comprimendole. La riduzione del tempo di lavoro necessario, la minoritarizzazione degli strati sociali legati al lavoro produttivo, l'enorme dispiegamento dell'intelligenza scientifica applicata alla tecnologia: questi sono i processi che rendono possibile, e al tempo stesso urgente, la liberazione della vita dal lavoro salariato. Il sistema capitalistico si rivela sempre di più come mero dominio sul lavoro, come contenimento violento dell'autonomia; contro il sistema della valorizzazione non si oppone più il bisogno, disponibile a passare per la mediazione della prestazione di tempo in cambio di salario, ma il desiderio di appropriazione del proprio corpo e del tempo, ciò che lo sviluppo

capitalistico ha reso possibile nella tendenza ma impedisce nella realtà immediata. E il permanere di sacche di arretratezza non toglie validità a questo discorso: l'estremismo del desiderio che si libera funziona come elemento di accelerazione dello sviluppo capitalistico e di omogeneizzazione materiale della società verso i livelli più alti. La forma atomizzata e isolata dell'esistenza è uno dei punti di maggiore debolezza del proletariato; la famiglia e l'abitazione privata sono i principali strumenti della costrizione al lavoro. I rapporti interpersonali e gli spazi in cui vivere in modo da rendere l'esistenza il più possibile indipendente dal ricatto del salario sono il luogo in cui, fuori da ogni logica contrattuale, si pratica l'appropriazione e l'autoriduzione. Soggetto di questa pratica è uno strato sociale che ha fatto proprio il patrimonio delle lotte degli anni Sessanta: questo strato è il proletariato giovanile, la cui caratteristica sociale di massa è la saltuarietà del rapporto di lavoro. Questa saltuarietà è dovuta sia alla paura padronale di mettere in fabbrica i giovani formatisi dopo il '68 (da qui il blocco delle assunzioni nelle grandi fabbriche) sia alla volontà giovanile e operaia di non legare tutta la propria vita al lavoro. Questo strato del lavoro precario è portatore della maturità del comunismo: rifiuto del lavoro, trasformazione del tempo di vita liberato, possibilità di riprodurre il mondo dei beni esistenti senza legare tutta la vita al lavoro. Il proletariato giovanile è infatti detentore dell'intelligenza tecnicoscientifica accumulata nella lotta di un secolo tra operai e capitale. Il capitale punta a ridurre l'intelligenza tecnico-scientifica alle sue regole, e al dominio sulla vita altrui, mentre la giovane classe operaia può liberare l'intelligenza sociale per farne strumento di liberazione dal lavoro. Questo strato è inoltre il soggetto che, nella condizione della crisi e dell'espulsione di vasti strati di forza-lavoro dalla fabbrica, porta avanti un processo di trasformazione del tempo di vita liberato, individua nella miseria del quotidiano la forma della dittatura borghese e pone il problema della felicità e della distruzione delle forme esistenti di rapporti interpersonali, per l'autonomia dell'esistenza proletaria.

L'organizzazione sociale capitalistica non riesce più a contenere le forze soggettive che si sono prodotte nel corso del suo sviluppo. Ma mentre si riducono le capacità di controllo complessivo delle istituzioni, si liberano forze sociali che si collocano in uno spazio altro da quello del lavoro e dell'istituzione, uno spazio di autonomia e di autotrasformazione. Il problema che si pone per le forze liberate in questo processo non è contrapporre un nuovo ordine complessivo, non è proporsi il governo di tutte le relazioni sociali per fermare l'inarrestabile entropia che si è scatenata nel conflitto tra tempo di vita e tempo di lavoro. Queste forze si pongono invece il problema della propria autodeterminazione di parte, e anche della sottrazione di sempre nuove forze al dominio capitalistico, e trasformano la struttura produttiva in un processo dialettico di lotta e di estraneità che, mentre garantisce alla classe operaia il potere sui propri movimenti, lascia alle forze del capitale il governo complessivo, la necessità di riorganizzare in avanti la propria macchina produttiva e sociale, nel tentativo di arginare la dissoluzione del proprio dominio col risultato invece di accelerare la liberazione di nuove forze dal dominio del lavoro. Questo processo non si svolge in modo pacifico in quanto le forze liberate non si arroccano in un ghetto di autogestione della miseria ma contrastano il tentativo di distruggere l'autonomia, rilanciano continuamente la lotta contro l'organizzazione del lavoro, si battono per trasformare la macchina produttiva da strumento di controllo e dominio in strumento di sostituzione del lavoro vivo. Il problema della violenza deve uscire dal quadro terzinternazionalista. Non si tratta di creare un'organizzazione armata capace di operare in modo specularmente opposto allo Stato, modellandosi sui suoi movimenti e coprendo la stessa estensione territoriale e sociale dello Stato, ma si tratta di dare alle forze liberate gli strumenti per difendere ed estendere gli spazi conquistati. L'armamento e la tattica non devono modellarsi sull'operatività dello Stato, con l'obiettivo di controllare l'universo dei rapporti sociali, ma sui bisogni sociali degli strati proletari in movimento. La struttura da costruire non è l'esercito regolare che si dirige contro il cuore dello Stato. Sono invece i piccoli gruppi in trasformazione a iscrivere nel proprio comportamento la distruzione delle articolazioni repressive dello Stato, per permettere al proletariato in liberazione l'autonomia dei suoi movimenti.

Il capitalismo come sistema di dominio sul lavoro è destinato a vivere ancora per un periodo storico molto lungo. Questo non vuol dire che il comunismo si sposta nel tempo, più lontano: il comunismo vive contemporaneamente, dentro e contro, come organizzazione delle forze sociali in liberazione, come forma della loro liberazione. Ma non è il comunismo a risolvere i problemi: esso pone con urgenza le domande a cui il sistema è costretto a rispondere per sopravvivere. Questo potere come autonomia di una parte, e non come governo su tutta la società, è il potere che occorre esercitare. Una coesistenza di lungo periodo non è e non sarà mai pacifica. Il capitalismo usa il terrore contro il movimento nel tentativo di ridurre l'entropia che si accelera entro il suo sistema. L'autonomia operaia e il movimento di liberazione non possono che rispondere al terrore con tutte le armi di cui dispongono, per difendere il proprio diritto all'autodeterminazione. L'attacco capitalistico contro l'attuale composizione di classe si determina attraverso la massificazione della forza-lavoro intellettuale tecnicoscientifica. L'intelligenza tecnico-scientifica si produce dentro il conflitto operai-capitale: essa riduce il lavoro necessario rendendo possibile la sostituzione di lavoro vivo con macchine, e garantendo il funzionamento produttivo delle macchine, nel momento in cui però l'informatizzazione del processo lavorativo massifica e proletarizza uno strato sociale di lavoratori intellettuali, e questi si incontrano con la forza-lavoro scolarizzata e politicizzata che si è formata nell'ultimo decennio. Si apre una nuova decisiva contraddizione. L'uso capitalistico dell'intelligenza e delle macchine fa di queste una struttura di controllo e di dominio sui movimenti operai; la soppressione formale del lavoro ha come obiettivo l'eliminazione di autonomia e la scomposizione del corpo di classe. Ma nel momento in cui il lavoro intellettuale si proletarizza, questo strato diviene portatore dei bisogni più avanzati, e diviene anche, come detentore del sapere sociale accumulato, il portatore della possibilità materiale di trasformare il meccanismo produttivo da strumento di controllo e intensificazione dello sfruttamento in strumento di liberazione dal lavoro.

«La scienza si presenta, nelle macchine come una scienza altrui, esterna all'operaio. Ma se il capitale giunge a darsi la sua figura adeguata come valore d'uso all'interno del processo di produzione solo nelle macchine, ciò non significa che questo valore d'uso, le macchine in se stesse, sia capitale, e che il loro esistere come macchine si identifichi con il loro esistere come capitale» (Karl Marx, "Grundrisse", Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. 2, pagg. 393-394). La proletarizzazione del lavoro intellettuale apre la prospettiva dell'uso operaio della tecnologia. Lo sviluppo capitalistico raggiunge il suo limite, e la contraddizione tra produzione di valore d'uso e valorizzazione si rivela in tutta la sua pienezza. Per il potere la cultura deve funzionare come mediazione tra gli interessi della società capitalistica e gli interessi dello strato intellettuale, ma deve cercare di realizzare questa funzione in modo complesso. Ma ormai la mistificazione dell'indipendenza della cultura dal processo produttivo è messa in crisi dalla stessa massificazione di questa figura sociale. Il movimento operaio ha pensato che l'aggregazione degli intellettuali avesse la forma della mediazione culturale (Gramsci), oppure la forma di un'adesione volontaristica al partito (Lenin). Queste ipotesi sono superate nel momento in cui il lavoro intellettuale entra a far parte della composizione sociale del lavoro produttivo. °°° maggio 1977. CON TUTTA LA NOSTRA DEBOLEZZA. - "Per una strategia del desiderio".

Dobbiamo riflettere su un passaggio importante, una rottura nella storia del movimento. Denunciare il terrorismo di Stato non basta, e non basta neppure comprendere la radice del terrorismo della disperazione. Occorre riflettere su una corrente che ha attraversato il movimento da lungo tempo, che già si era rivelata a Parco Lambro, e che già allora avevamo definito nazi-delirio. Non crediamo nella naturalità di una pulsione di morte: la disperazione è un fatto storicamente determinato, e la pulsione di morte è una forma di investimento paranoico dell'inconscio che il potere produce come produce le condizioni del consenso alla cadaverizzazione istituzionale. E' necessario riprendere in mano l'analisi dei processi profondi che nel testo della storia si inscrivono e si scatenano, e che sulla scena della politica vengono ridotti e depotenziati per poter essere avviati all'istituzionalizzazione. Il processo rivoluzionario è, al tempo stesso, il risultato dell'emergenza di un inconscio collettivo rimosso nello scenario politico e represso nel processo di produzione, e il momento di liberazione di flussi libidinali che costituiscono la pratica di deterritorializzazione rispetto al ruolo produttivo e la condizione della collettivizzazione. Il processo rivoluzionario è concatenazione a-significante e non organizzazione razionale di segni significativi. E' l'inconscio che parla nella lotta di classe, così come d'altra parte è la lotta di classe che parla nell'inconscio. Ecco dunque che gli agenti della repressione, rovesciato il luogo politico della rimozione, della contrattualità, debbono agire per portare il soggetto all'autodistruzione, canalizzare i flussi desideranti in flussi autodistruttivi: il terrorismo. Il testo che scrivono le masse in movimento non è, non può essere un testo decifrabile secondo il codice dell'istituito, perché è il testo di una pratica di rottura, di movimento, di dislocazione altrove. Nel processo rivoluzionario si scrive un testo di cui non sono costituite le strutture interpretative; per questo abbiamo parlato di testo de/lirante. Abbiamo riconosciuto la difficoltà di questo problema: per parlare in termini antichi il problema della strategia è la composizione dei flussi desideranti in una direzione che sia quella della liberazione. La politica è riduttiva, restaura la dittatura del Significato di fronte alla trama delirante del desiderio a-significante. Ma la

politica è anche impotente, perché deve arrendersi alla restaurazione. Lo stato di cose presente è ipostatizzato nel Significato, l'istituzione è garante della rimozione del flusso desiderante nel momento stesso in cui è garante della continuità della catena del senso. Dunque la politica non tiene in mano la possibilità della strategia, se la intendiamo come composizione dei flussi desideranti in un senso che sia quello della liberazione (vediamo che il termine senso è ambivalente: il senso è la direzione, e la direzione, il luogo verso cui il Significante si muove, è anche l'unico senso possibile). La politica non tiene in mano la strategia, può esserne un'articolazione. E questi mesi pieni di esperienze ci hanno messo di fronte il problema: chi tiene in mano questa direzione, questo (S)enso? Non aver risolto questo problema ci ha portato a un punto morto, forse a una sconfitta. Ora occorre analizzare in che modo il potere si è sostituito al movimento nel fornire un senso alla rivolta. E vediamo allora che il potere ha saputo misurarsi con la curva significante dell'emergenza del soggetto inserendo quella forma di fascinazione (capacità di aggregare e dominare i flussi di inconscio) che è costituita dal terrore. Il terrore è abolizione del soggetto di fronte alla sua potenza distruttiva, e poi abolizione del movimento di fronte alla potenza distruttiva dello Stato. Il terrore crea consenso al potere nella misura in cui mostra la sua intima (fascinosa) potenza, e nella misura in cui mostra di saper ridurre sul piano dei significanti-comportamenti anche la rivolta sul suo terreno. E dietro l'angolo di questa riduzione della rivolta sul terreno terroristico del potere (quella che un freudiano potrebbe chiamare «pulsione di morte», riducendo naturalisticamente quello che è invece un risultato storico) ci sta la grande macchina del potere stalino-fascista che dispiega la sua ferocia e la sua violenza. Il potere ha costretto, tra aprile e maggio, il soggetto di classe in ricomposizione sul terreno paranoico (eterodeterminato) del terrore, su questo terreno, poi, presenta se stesso come terrore legittimato. Ma non basta scoprire come il potere ha saputo muovere le sue figure (Cossiga, il fascino del terrore, Berlinguer, la dittatura dell'esistente eternizzato che legittima il terrore). Occorre riconoscere che questo è accaduto perché noi abbiamo permesso che il terreno dell'azione fosse

ridotto allo scontro. Non abbiamo saputo determinare il senso del processo di ricomposizione e far di questo la curva dei flussi desideranti che correvano nel corpo sociale. Nel processo rivoluzionario si liberano flussi desideranti che rappresentano l'emergenza dell'inconscio. Ma il problema che si tratta di risolvere è questo: nella rete dei flussi desideranti, quale filo riesce a funzionare come possibilità di ricomposizione, come momento di emergenza del Senso del processo? E' possibile una strategia del desiderio? Proviamo a ipotizzare che il filo di questo processo di ricomposizione sia il linguaggio. Rifiutiamo l'identificazione lacaniana del linguaggio come rimozione. Sappiamo che vi è un linguaggio della rimozione, dell'interiorizzazione della Norma e della colpevolizzazione del desiderio. Ma c'è un linguaggio che interrompe il ciclo comunicativo codificato, che libera una gestualità desiderante, che si inscrive immediatamente nel processo come gesto liberatorio. Il linguaggio simpatico che sposta le masse, che muove eroticamente. La "jouissance" che è nel linguaggio è dovuta alla sua capacità gestuale immediata di (com)mozione. Ma cosa conferisce questa capacità di (com)muovere al linguaggio? Il fatto di inserirsi nel flusso desiderante, di esserne momento di emergenza e di comunicazione. Se il linguaggio codificato è garanzia di una rimozione, riduce al silenzio l'inconscio, il linguaggio simpatico è quello che fa parlare l'inconscio. 8 febbraio 1977, a Bologna, assemblea del movimento alla Facoltà di Lettere. Nell'ordine degli interventi, nella divisione rigida e schematica tra riformisti e rivoluzionari si inserisce la messa in scena del rimosso. Un compagno mette in scena l'impiccagione, realmente avvenuta pochi giorni prima, di Giorgio Tobia, giovane proletario ricoverato in manicomio. Una ragazza grida: «Vendo portafogli»; e mette in scena la sua rabbia di disoccupata. Un altro legge un giornale surrealista che scrive cose pazzesche e poi rivela che quel giornale si chiama «l'Unità». Uno parla del fatto che da tempo cerca casa senza trovarla, poi si richiude nel suo impermeabile: «Sono mesi che cerco casa e la cosa che più mi sorprende è che in fondo non me ne importa un cazzo di trovarla». L'assemblea è rotta, è un luogo completamente trasformato. Un idiota del P.C.I. protesta che quell'assemblea è una farsa, e che tutti i comunisti escano di là insieme a lui. Esce da solo. Da quel momento, a Bologna, il movimento di primavera è cominciato. I «politici» non c'entrano più col movimento reale.

Il linguaggio si fa gesto che disloca altrove: esso allora non è più rimozione, ma, al contrario, messa in scena del corpo, del desiderio, del rimosso. Il linguaggio degli indiani metropolitani mette in scena la realtà del potere, la realtà dell'ideologia dei sacrifici, rivela il non detto del potere. LAMAOdada è Lama ridicolizzato davanti agli operai di tutt'Italia che dopo la cacciata del super-bonzo dall'Università di Roma si riconoscono nel rifiuto dell'arroganza sindacale e stalinista. Ma su questo piano, nella capacità di percorrere trasversalmente il terreno dei comportamenti in movimento seguendo il filo della messa in scena linguistica, dobbiamo saper andare più avanti, perché questo filo è, ad aprile-maggio, sfuggito dalle nostre mani. - "Lo Stato italiano è stalino-fascista". Riprendiamo in mano quel filo, cerchiamo di aver chiaro anzitutto cosa è successo, e cerchiamo poi risposte nuove a questa nuova situazione. Dopo il 12 maggio (assassinio, a Roma, di Giorgiana Masi) la paranoia si è diffusa a macchia d'olio. Non senza motivazioni: alle cariche, alla sparatoria, alla violenza di piazza delle forze armate del potere si aggiunge una repressione di intensità e insistenza senza precedenti caratterizzata da un'impressionante lucidità paranoica. Quel che il potere sta facendo è straordinariamente lucido perché mira alla costruzione fantasmatica di un universo ordinato secondo le sue regole paranoiche; e questo vuol dire riconoscere il movimento come immagine speculare dello Stato, dunque attribuirgli un'organizzazione di tipo statale, con capi, strutture militari, centralismi, ideologhi, esecutori e così via. E contemporaneamente, identificato il nemico, l'alieno, realizzare l'unanimità più assoluta dell'apparato statale. Discutere si può, c'è la democrazia, no? Ma il campo della discussione deve essere questo: come difendere lo Stato, come annientare la rivoluzione. Chi esce da questa traccia, chi mette in discussione l'unanimità dell'istituzione viene espulso, e

di conseguenza perseguitato come individuo privo della copertura istituzionale. Questa unanimità, rafforzata dal linciaggio dei dissenzienti (siano essi gli avvocati di Soccorso rosso, o i deputati radicali, o gli uomini di cultura perquisiti e criminalizzati perché sospetti di estremismo), deve essere infine chiamata col suo nome, e il suo nome è stalino-fascismo. Chiusura delle radio di movimento, arresto e incriminazione degli scrittori trasversali, criminalizzazione delle riviste dissenzienti. Ecco il progetto di Berlinguer che può cominciare a realizzarsi. Eliminare il dissenso, ridurre la cultura a organizzazione del consenso. Lo Stato italiano è uno Stato fascista. Ma l'autore principale della distruzione fascista di ogni garanzia costituzionale, di ogni dialettica, di ogni dissenso è il Partito comunista italiano e la sua ideologia fondata sull'equazione sviluppo capitalistico uguale interesse operaio, e sulla riduzione idealistica e intollerante della classe operaia all'idea di lavoro, Nazione, e alla forma astratta e naturalizzata di lavoro produttivo. L'entrata del P.C.I. nell'area governativa viene identificata come egemonia operaia. Contenuto di questa egemonia è un peggioramento feroce della vita operaia, un attacco forsennato all'autonomia dell'organizzazione operaia. Scopriamo che contenuto dell'egemonia operaia è il dominio capitalistico sulla vita operaia. Queste sono le linee di formazione dello stalino-fascismo come progetto di distruzione dell'autonomia operaia dal capitale e di eliminazione di ogni dissenso culturale rispetto alle istituzioni. In questi mesi siamo di fronte a questa offensiva statale che ovviamente punta a ridurci al silenzio, alla disperazione, all'annullamento. - "Con tutta la nostra debolezza".

In questi casi si risponde con la resistenza, con la capacità di non cedere, e così via. Ma in questi anni abbiamo saputo inventare nuove forme, nuovi comportamenti, stravolgere le regole della lotta. Non abbiamo messo in campo la rappresentanza politica della nostra volontà, ma abbiamo messo in scena il soggetto reale nella sua incancellabilità. E' la nostra vita che è in gioco, la nostra intelligenza e creatività. La rivoluzione è finita, abbiamo vinto. Lo dice il potere, ma lo diciamo anche noi. Il potere lo dice col ghigno assassino di Cossiga che spara nel mucchio sugli assembramenti di giovani, e col ghigno vendicativo del giudice P.C.I. che nel mucchio cerca coloro che possono essere trasformati in responsabili. Il potere ha vinto perché il territorio istituzionale è unanime, compatto. Noi lo diciamo per un'altra ragione. Il potere ha in mano completamente la politica. Gli sfugge completamente la vita. Ha in mano l'istituzione. Gli sfugge la società. L'autonomia del politico si è cosi realizzata. Ma mentre nei sogni del suo vate avrebbe dovuto essere autonomia della politica dalla lotta di classe e dominio del partito-Stato sulla dinamica sociale, ora rivela di essere, al contrario, autonomia della lotta di classe dalla politica e indipendenza della trasformazione sociale dalle istituzioni. Fino a oggi questa autonomizzazione reale ha potuto essere recuperata da una dialettica apparente dentro l'istituzione, ma oggi questa dialettica apparente è finita. Siamo qui, con tutta la nostra debolezza, ma anche con tutta l'irriducibilità della vita, della dinamica sociale delle forze in liberazione dal rapporto di prestazione salariata. Per la prima volta il potere si trova di fronte un movimento ancora capace di determinare il suo terreno e i suoi tempi, ancora capace di una dimensione di massa. Il tentativo del P.C.I. è quello di costringere il movimento ad assumere la forma della guerra civile. Gli è anche andata bene, nei mesi di aprile e maggio. Ma contemporaneamente ci sono le premesse perché il movimento ridiventi imprevedibile. Viene da Bologna l'intuizione (anche questa volta). Lunedì 16 maggio. La polizia vieta il corteo da piazza Verdi al centro, carica ogni assembramento. Migliaia di compagni in fila indiana, uno dopo l'altro. Non

è un corteo, eppure lo è. Non contrappone alla forza la forza, eppure è indistruttibile, se lo rompi in un punto subito si riforma. E' capace di mettere in piazza bisogni e desideri, di riconquistare una possibilità di collettivizzazione in una città cadaverizzata. E' un modo per riprendere il filo della gestualità che libera, un modo di ricomporre il dissenso in proposta, di trasformare la proposta in soggetto che attraversa la classe. Non si tratta di ostentare una forza che non esiste, perché la capacità di trasformazione non sta nella forza ma nella maturità storica di una società che rifiuta la prestazione lavorativa e nell'intelligenza che rende possibile questo rifiuto. Con tutta la nostra rabbia e tutta la nostra intelligenza. Ma anche con tutta la nostra debolezza e con tutta la nostra malinconia. °°° maggio 1977 CON TUTTA LA NOSTRA INTELLIGENZA. ANCORA PER UNA STRATEGIA DEL DESIDERIO. La primavera '77 è il punto di arrivo di trasformazioni dell'esistenza, di emergenze del rimosso. Abbiamo tentato di dare all'inconscio collettivo la possibilità di produrre realtà, e di dare alle nostre angosce una dimensione collettiva di superamento. Alla fine di questa primavera possiamo dirlo: abbiamo accumulato nuove angosce, siamo costretti di nuovo alla separatezza e all'isolamento. Possiamo chiedere: chi ce l'ha fatto fare di cominciare la rivoluzione? Il problema è proprio qui: quando il desiderio emerge sulla scena del movimento, se viene ridotto a mera immediatezza, se non si fa pratica strategica del desiderio, viene riconsegnato all'angoscia e al terrorismo; la dimensione strategica del desiderio è solo nella possibilità concreta della rivoluzione. E quanto a questo possiamo dirlo senza problemi: la primavera '77 in Italia, e a Bologna in particolare, è stata la prima esperienza di

emergenza pratica di massa consapevole del rimosso di tutta la storia. Nella storia della lotta di classe l'inconscio ha sempre scritto il suo testo in modo cifrato, si è sempre inscritto come un contrappunto leggibile solo in controluce. Questa primavera è stata la prima volta in cui questo testo si è scritto con i suoi caratteri, e la lotta di classe è divenuta apertamente, e consapevolmente, liberazione produttiva di inconscio, linguaggio desiderante e trasformativo. E' una chiave difficilissima, che mal sopporta di essere svilita in un facile psicoanalismo, o in una beota filosofia della felicità, perché la trama leggera del rimossosi inscrive in un tessuto che è fittissimo e compatto di determinazioni assolutamente materiali, storiche, economiche, politiche, il cui spessore di violenza e di repressione è irriducibile al linguaggio e al gesto che pure le a/traversa. Si tratta di parlare della capacità di liberazione dell'intelligenza creativa contro l'intelligenza accumulata in forma di scienza-capitale, di tecnica capitale. Roberto Vacca, uno che si occupa di teoria dei sistemi, ha detto che una società fortemente sistematizzata, informatizzata, non può essere facilmente messa in crisi dal sabotaggio. E la ragione è chiara: la struttura dei sistemi informativi è troppo ramificata e complessa per poter essere disgregata, colpendola in un punto, in quanto la stessa alta concentrazione rende impossibile al sabotatore che non sia un sistemista competente di causare danni seri. Dunque il problema è quello di diventare «sistemisti competenti»; e non solo perché occorre interrompere il funzionamento dei grandi sistemi, bensì perché è necessario cominciare a individuare due funzioni (quella attuale e quella possibile) dell'intelligenza tecnico-scientifica applicata, e particolarmente della sistemistica e dell'informatica. Scopriremmo che la funzione reale dell'intelligenza applicata dal capitale è tutta di controllo sull'erogazione di lavoro vivo. Che l'uso che il capitale fa dell'intelligenza è integralmente finalizzato alla riproduzione del dominio politico sul tempo di lavoro operaio. Ma scopriremmo probabilmente anche che le potenzialità dell'intelligenza applicata vanno nella direzione della soppressione del lavoro.

Il ruolo da sciogliere è quello del rapporto di dipendenza dell'intelligenza viva rispetto all'intelligenza accumulata in forma di capitale, e precisamente in forma di dominio del dato sul possibile. E' nella struttura logica stessa dei sistemi, oltre che (e prima che) nel loro funzionamento materiale e tecnico, che è inscritto il dominio del processo di valorizzazione sul processo lavorativo, precisamente il dominio della produzione di valore di scambio (comando sul lavoro salariato, aumento dell'estrazione di plusvalore relativo) sulla produzione di beni utili. Occorre mettercelo bene in testa: chi pratica oggi, in Italia, la lotta armata contro le strutture poliziesche e statali rischia di combattere una battaglia tanto costosa quanto arretrata. Non perché lo Stato poliziesco non sia un dato rilevante ma perché è in realtà la forma apparente, e in ultima analisi una forma capace di riprodursi all'infinito in un rapporto di produzione e di organizzazione capitalistica dell'intelligenza sociale che si garantisce proprio spostando verso i suoi apparati superficiali le tensioni sociali aggressive e/o trasformative. Si rischia di combattere una battaglia di artiglieria, per di più perdente, con un nemico che, mentre impegna l'artiglieria sul fronte esterno, sta intanto preparando un armamento tecnologicamente infinitamente più avanzato, capace non solo di sconfiggere militarmente il movimento, ma di sottomettere per un periodo storico lungo la classe del lavoro salariato. E mentre nella battaglia di artiglieria ci logoriamo e perdiamo uomini, forze e soprattutto intelligenza e vita, sul terreno dell'organizzazione tecnologico informativa è possibile vincere. E non distruggendo la struttura produttiva e tecnoscientifica che il capitale ha determinato, ma mettendo in crisi il suo uso limite, la sua ambivalenza: distruggere la funzione di controllo dell'intelligenza accumulata (controllo come memoria, sorveglianza e riproduzione dei rapporti dati, controllo come forma matura dello Stato postindustriale) liberando la sua funzione di liberazione, di creatività, di riduzione del lavoro, di uso alternativo dei circuiti informativi. Il solito Vacca annuncia che l'azione dei sabotatori è un elemento irregolare che può essere studiato e previsto proprio con procedure tipiche dell'ingegneria dei sistemi, ad esempio con la teoria dei giochi competitivi. E' chiaro che Vacca parla unicamente di un intervento in forma di sabotaggio, irregolare ma prevedibile, o comunque programmabile in termini di retroazione e autocorrezione della struttura sistemica. Ma non di

questo si tratta, per noi: si tratta di progettare la sovversione complessiva della struttura logica e tecnica dell'apparato sistemico, di rompere e «detournare» la sua funzione. E si tratta di sperimentare questa sovversione anche su piccola scala, esemplarmente, in una città, in una fabbrica, in un centro di progettazione. E' il passaggio che dobbiamo fare, è difficile ma straordinariamente ricco.

* 1977 MILIONI E MILIONI DI ALICE IN POTENZA Félix Guattari Pericolo imminente. Attenzione, la minima linea di fuga può far esplodere tutto. La pratica della felicità può diventare sovversiva quando si collettivizza. A Bologna all'inizio non si era che un centinaio di persone, poi Radio Alice ha catalizzato u n processo che ha traversato le diverse autonomie: liceali, femministe, omosessuali, lavoratori emigrati del Sud... Allora hanno cominciato a svilupparsi i movimenti di autoriduzione e di appropriazione, il rifiuto del lavoro, l'assenteismo. Tutto questo è sfociato nei moti del marzo '77. La vetrina del "new look" comunista in frantumi! Trent'anni di buona condotta e di leali servizi perduti, svalorizzati agli occhi della borghesia. Fino a quel momento si poteva credere che il P.C.I. e i sindacati fossero in grado di tener buona la gente meglio di chiunque altro. Si diceva per esempio: «In Cile i carri armati in Italia i sindacati». Ma Zangheri, il sindaco comunista di Bologna, fece appello alle forze repressive nelle forme più violente. Ha fatto entrare i carri armati nella città. Ha personalmente esortato la polizia allo scontro: «Andate, siete in guerra, questa gente deve essere eliminata, si sono esclusi da soli dalla comunità...». Nelle strade eravamo 15000. Non s'era mai visto questo a Bologna! Alice ci teneva al corrente a ogni istante di tutto quello che accadeva, per mezzo di compagni che telefonavano e ai quali si dava la diretta. Tutti i processi e gli arresti che sono seguiti sono stati motivati da questo ruolo 'militare' di Alice. Cospirare vuol dire respirare insieme, ed è di questo che siamo accusati: vogliono impedirci di respirare perché ci siamo rifiutati di respirare nei loro

luoghi di lavoro asfissianti, nei loro rapporti individuali, familiari, nelle loro case atomizzanti. C'è un attentato che io confesso di aver commesso, è l'attentato contro la separazione della vita e del desiderio, contro il sessismo nei rapporti interiindividuali, contro la riduzione della vita a una prestazione salariata. "Alice, figli di puttana. Tutti questi porci piccolo borghesi, questi drogati, questi pederasti, viziosi, barboni, che vogliono sporcare il cuore della nostra bell'Emilia. Ma non ce la faranno, perché qui, da trent'anni, tutti hanno acquisito un'alta coscienza di classe. Perfino i padroncini, qui, hanno la tessera del Partito. E i nostri giovani lavoratori non si lasceranno trascinare in queste macchinazioni diaboliche. E' il popolo stesso che rifiuterà l'avventura. E che non si accusi il P.C.I. di pratiche antidemocratiche! Dappertutto, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, abbiamo favorito la formazione di Comitati popolari, di Consigli di delegati. E sono loro che, oggi, tendono a diventare i migliori garanti dell'ordine". Dovunque i nostri bisogni debbono essere rappresentati dai porta-parole delegati in cambio della promessa di parlare domani. Mini parlamenti e Consigli di quartiere, decentramento culturale, mille luoghi delegati nei quali non cambiano i rapporti reali, che non ci danno alcun potere; i padroni mandano un sociologo, uno psicologo, un antropologo, un riformatore, e alla fine un poliziotto con il manganello. "L'errore storico. Siamo andati verso di loro con le mani tese, volevamo spiegare la linea del Partito. All'Università di Roma, Lama era venuto a portare il punto di vista dei lavoratori. Lo hanno cacciato a sassate. Questi non rispettano niente. I Lama stanno in Tibet. Credono che il Partito comunista italiano si lasci intimidire da un gruppo di agitati irresponsabili che si autodefiniscono indiani metropolitani? La nostra debolezza è di aver avuto anche troppa pazienza. La legittimità del potere di Stato, oggi, riposa su di noi. E, in ultima analisi, tocca a noi tutti apprezzare quel che è buono e quel che non è buono per le masse. Noi vi amiamo. Siamo con voi dal profondo del cuore e questo ci dà il diritto di mettervi in guardia... Tra voi

c'è il meglio e il peggio, e voi dovete fare la scelta. Pensate al fatto che c'è la crisi, pensate alle minacce fasciste. Insomma, in poche parole, pensate come pensiamo noi! Voi dite delle cose meravigliose, ma poi cadete nella confusione, nell'oscenità gratuita, non estetica. Riprendetevi, siate quel che non avete mai smesso di essere: dei gentili ragazzi inquieti". Non ci faremo più fregare da questa storia della crisi e del pericolo fascista. La crisi noi la rivendichiamo, e non faremo nulla per arrangiare le cose. Auspichiamo al contrario una sua generalizzazione e perfino una sua esportazione. Oggi l'Italia vive, in larga parte, alle spalle delle grandi potenze capitaliste, spaventate da uno sprofondamento totale di questo Paese. Siamo a una specie di autoriduzione su scala internazionale. Altri strati della popolazione, altri Paesi, prenderanno il sopravvento. E' tutto un mondo che si prepara a crollare. Noi non ci accontentiamo di mettere in discussione la forma delle relazioni tra sfruttatori e sfruttati, noi attacchiamo alla radice, la materia stessa dello sfruttamento capitalistaburocratico, cioè il lavoro salariato, la passiva accettazione di una rottura tra lavoro e desiderio, l'investimento del lavoro come droga in cui tutti i desideri aperti al mondo sono aboliti. Quanto al pericolo fascista, non sono più in Italia altro che un gruppo di "clowns". Influenzano sempre meno gente. E, per noi, il pericolo non viene essenzialmente da là, ma dal congiungimento tra apparato capitalista e di Stato e apparati burocratici del P.C.I. e dei sindacati. In tutti i modi, questa nuova alleanza repressiva, dalle ramificazioni tentacolari, si sforza di separare le lotte economiche e politiche degli operai dai mille volti dell'autonomia. Il suo obiettivo è di ottenere un inquadramento e una normalizzazione delle masse, realizzati dalle masse medesime. Il suo obiettivo è stabilire un consenso maggioritario conservatore contro le minoranze di ogni genere, anche se le minoranze messe insieme sono molto di più di tutte le possibili maggioranze. E' da questa parte che, secondo noi, può ancora sorgere la minaccia di un movimento reazionario di massa. Nessuno può chiederci, in nome di una crociata antifascista immaginaria, di allearci a quelli che oggi sono gli agenti della forma embrionale di un nuovo tipo di fascismo. A Bologna e a Roma si sono accesi i fuochi di una rivoluzione che non ha alcun rapporto con quelle che hanno sconvolto la storia fino a oggi, di una

rivoluzione che spazzerà via non solo i regimi capitalisti, ma anche i bastioni del socialismo burocratico, che si richiamino all'eurocomunismo di Mosca o di Pechino, i cui fronti imprevedibili bruceranno forse i Continenti, e si concentrano talvolta nei quartieri di una città, in una strada, una fabbrica, una scuola... I padroni, i poliziotti, i politici, i burocrati, i professori, gli psicanalisti potranno mettere insieme i loro sforzi per fermarla, canalizzarla, recuperarla, potranno sofisticare, diversificare, miniaturizzare all'infinito le sue armi, ma non riusciranno a riacciuffare l'immenso movimento di fuga e la moltitudine delle mutazioni molecolari di desiderio che esso ha già scatenato. L'ordine economico, politico e morale del secolo ventesimo si rompe da ogni parte. E oggi, quelli che hanno il potere non sanno più dove sbattere la testa. Il nemico si fa imprendibile, qualcosa ogni giorno scricchiola accanto a voi, magari si tratta di vostro figlio, di vostra moglie, forse del vostro stesso desiderio che tradisce la vostra missione di guardiano dell'ordine stabilito. La polizia ha liquidato Alice - i suoi animatori sono perseguitati, condannati, imprigionati, i suoi locali sono stati saccheggiati - ma il suo lavoro di deterritorializzazione rivoluzionario continua infaticabilmente perfino nelle fibre nervose dei suoi persecutori. Non c'è nulla di costruttivo in tutto ciò. Ma il punto di vista degli 'aliciani' su questo è il seguente: pensano che il movimento che riuscirà a distruggere la gigantesca macchina capitalistico-burocratica sarà, a maggior ragione, capace di costruire un altro mondo. La competenza collettiva in materia verrà nel corso del cammino, senza che sia necessario, attualmente, riproporre vecchi progetti di società come una minestrina riscaldata.

* L'ULTIMA AVANGUARDIA DALLA CREATIVITA' MOLECOLARE E DISGREGATA ALLA MUTAZIONE POST-UMANISTA Carlo Infante Centriamo subito il punto cardine. Tanti, troppi, vedono nel movimento del '77 un «buco nero» della storia italiana. Una stagione imbarazzante, maledettamente e facilmente liquidata nella definizione onnicomprensiva di «anni di piombo». Una fase rimossa perché fatta coincidere con la violenza del terrorismo, sia quello 'piccolo' e sbandato, spesso costretto ad atti inconsulti perché braccato e incastrato da sommarie repressioni, sia quello 'grande': grande almeno quanto la sua strategia, paranoica e ossessionata da schemi ideologici antistorici. Un piccolo e grande terrorismo che, dall'Autonomia alle Brigate rosse, ha colonizzato l'immaginario di un «uomo-massa» che ama coltivare più la paura che i desideri. Il guaio è che a non aver colto le potenzialità evolutive di quel moto di rivolta non sono solo quelli che fuori dal movimento non hanno capito e quindi demonizzato ma anche molti che 'dentro' il flusso degli eventi si sono lasciati trasportare a migliaia, orfani di certezze, di modelli ideologici, e canoni comportamentali. E anche quelli troppo snob per lasciarsi andare al flusso delle esperienze. Tutti perdendo molto (le stagioni della militanza politica hanno depauperato dell'adolescenza un'intera generazione) e acquisendo poco di quella ricchezza esperienziale che attraversava il movimento. Il guaio è che ancora oggi in molti, troppi, pensano che sia più importante l'economia che la percezione. Eppure l'andamento del mondo è talmente accelerato che solo chi è disponibile a modificare, se non a riconfigurare, i propri assetti percettivi e cognitivi, riuscirà a proiettarsi nel futuro digitale: in un corso evolutivo dettato dalle tecnologie multimediali e telematiche e

dalla capacità umana di tradurle in nuova qualità di vita. Un aspetto che molti sottovalutano, rivelando degli schemi mentali ancorati a modelli predeterminati. Eppure nella rivoluzione digitale è possibile giocare ora delle opportunità che allora si potevano solo presagire: proiettarsi in una nuova dimensione di coscienza, liberandosi dalle gabbie di linguaggio e di comportamento indotto dalla civiltà umanista. Rompere gli schemi per creare altre forme di comunicazione e di condivisione. Uscire fuori dai canoni per entrare nel ciclo di una mutazione culturale e antropologica che oggi inizia a prendere forma. Allora qualcuno trovò il modo per vivere il passaggio post-politico come sintomo di questa mutazione, affinando la propria sensibilità, le proprie percezioni alla ricerca di altre forme di esistenza. E' una questione di disponibilità, un'attitudine che in parte fu coltivata con il consumo di droghe, più o meno leggere, ma che trovò la condizione migliore nelle pratiche creative della scrittura, dell'azione teatrale e della musica. Un'apertura delle porte della percezione che liberò un'incontrollabile energia desiderante. Non si trattava di usare forme d'arte ma di amplificare i corpi e le menti in fuga dalle sovrastrutture ideologiche. - "Le derive della mutazione". Gli indiani metropolitani nacquero da quell'impulso di amplificazione del pensiero in azione. Spuntarono come un fungo, all'improvviso, in un habitat fertile, denso di un'umanità in agitazione. I primi segnali di 'indianità' arrivarono dai Circoli giovanili milanesi che annunciarono già nella fine del '76 in un manifesto: «Abbiamo dissotterrato l'ascia di guerra», rilanciando un umore che già era emerso nel casino della Festa del parco Lambro. Erano sintomi di un disordine (grande ed eccellente) che stava montando, disgregando irreversibilmente le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria che fino ad allora avevano contenuto un gigantesco (si trattava di milioni di giovani) potenziale. Lotta continua da buon gruppo «spontaneista» aveva capito per tempo, autosciogliendosi proprio sulla contraddizione più bruciante: nel

corto circuito tra il «personale e il politico». Un dato significativo che provocò certamente un forte disorientamento: aprendo le porte circolò nuova aria, ossigeno sul fuoco. Una fiammata di energia incontrollabile. Si riscopriva la soggettività negata dall'oggettività illusoria della politica. I linguaggi della militanza politica si confusero così con i comportamenti «freak» creando stranissimi cocktail antropologici. Fino a quel momento tutto scorreva in alvei predefiniti, un comunista rivoluzionario era una cosa, un fricchettone un'altra. Si confuse tutto. S'inaugurò l'era degli ibridi, si avviarono le derive della mutazione. Gli indiani metropolitani, noi: un piccolo gruppo nato all'interno della Commissione emarginati (si autodefinì in quel modo per distaccarsi polemicamente dalle altre Commissioni intestardite sui paradigmi della politica) dell'occupazione di Lettere di Roma nel febbraio '77, giocò proprio su questa confusione. Fu un'operazione che si svolse a più livelli: uno, quello determinante, consisteva nell'inventare slogan, lanciarli nelle assemblee da chi aveva la voce più grossa (Beccofino fu il nostro megafono) e scriverli con gli spray e su tazebao. Un altro era quello di compiere atti esemplari come quelli di inscenare cortei in fila indiana (ma perché si dice così?) lanciando il verso «Oask?!» (il nome della testata della nostra fanzine) associandolo a un particolare movimento delle braccia, come per nuotare. O farsi il tè (o il carcadè) nei cortei. Oppure organizzare «sabba» al Pantheon (un «rave» "ante litteram"). O tapparsi la bocca con cerotti. E non tanto per truccarsi: lo facemmo solo due volte. Il fatto straordinario era che ogni slogan, ogni atto, ogni proclama una volta lanciato veniva preso dal movimento, fatto proprio. A migliaia si truccavano e danzavano scombinati all'urlo: «Ea, ea, ea... ah!». I massmedia, giornali e t.v., non aspettavano altro. Si faceva colore e notizia. E fu anche per questo che il nostro gruppo dopo poco, nell'arco di due mesi neanche, si dissolse come gruppo attivo nel movimento: non si riconosceva nell'aggregazione di massa, amava inventare linguaggi-comportamento e cercare altri spazi per elaborare una propria poetica d'intervento. Come accadde a maggio con l'occupazione della casa in via dell'Orso 88, la «casa del desiderio», più si trovò uno spazio in cui vivere e produrre una fucina creativa che una comune fricchettona. Già in «Oask?!» ci firmavamo come «indiani metropolitani in dis/aggregazione». Rivendicavamo la nostra dimensione molecolare e psiconomade. Un po' aristocratica ma per fortuna autoironica.

- "Le parole come gesti, come virus". L'esperienza più forte del movimento del '77 fu quindi l'usare le parole come gesti, spiazzando il senso comune e non solo quello dei massmedia ma anche quello di quei tanti militanti incapaci di misurarsi con l'ironia. Il «détournement» d'impronta situazionista era infatti un modello di riferimento, avevamo letto Debord e Vanegeim, ci avevano stordito ma ci avevano segnato. Le parole-gesti erano come virus, contagianti. Nell'arco di qualche ora uno slogan lanciato in corteo o un proclama su un tazebao diventavano linguaggio collettivo, l'impronta del movimento. Ma tutto era confuso, indeterminato, e per questo destinato a dissolversi. E lo sapevamo: «... ma sì, sì, restiamo poesia, pura immaterialità». Si stava cambiando pelle: si abbandonava la scoria ideologica ma non si acquisiva un'altra identità. Si rimaneva in mezzo al guado della mutazione. Sì, la mutazione. Nella irrequietezza diffusa si percepiva il fatto di essere proiettati in una rivoluzione antropologica che solo oggi si va delineando con l'avvento del digitale: con l'emergere di nuovi processi cognitivi non lineari. Sinaptici come il nostro immaginario. Il gioco libero delle associazioni di idee, una sorta di "automatic thinking" liberava energia creativa. Potenzialità che oggi trovano una forte risoluzione nella navigazione telematica. Allora furono solo intuizioni magari influenzate dai migliori modelli possibili. Avevamo le avanguardie storiche come esempio, il Dada in primo luogo e il Futurismo. Qualche mese prima una mostra sulle «parolibere» futuriste e su Marinetti in particolare si era annidata nella mia mente come un «meme» (il principio attivo del contagio comportamentale come afferma Dawkins). In entrambi quei movimenti dell'avanguardia la parola poetica trovava quindi la soluzione d'impatto nella performatività, associata all'azione. Lo slogan, il medium più usuale della lotta politica, fu così utilizzato per la produzione di una drammaturgia paradossale, guerrigliera, intimamente teatrale. Ma non si pensi al teatro come forma estetica o come interpretazione di repertori: si pensi al rapporto corpo-parola espresso da gruppi come il Living Theatre

portatore della «prima rivoluzione sessuale» in Europa o ai blitz barbari delle performance radicali dei catalani della Fura dels Baus, grandi officianti di teatro panico. Il movimento del '77 mise in campo oltre alla conflittualità armata (di molotov, tante, le pistole invece furono sempre poche e maledette) una guerriglia urbana teatrale. Ma attenti a non interpretarla sempre come una festa felice. I girotondi delle femministe erano finiti. Quella performatività neosituazionista esprimeva altresì un'insofferenza generazionale: una domanda di nuove visioni, nuove parole, nuovi comportamenti. Una domanda che non trovava risposte. Tutto questo strideva con le sovrastrutture ideologiche della politica. Ci fu un cortocircuito. Un tilt. Negli stessi mesi a Londra prendeva corpo il movimento punk che allora era addirittura visto da alcuni come «fascista». Un'ignoranza che albergava anche in noi, spiazzati ma polemici con quegli amici che tornando da Londra ci trasmettevano l'entusiasmo di quel fenomeno nichilista. Gli inglesi erano molto meno pervasi di noi italiani di politica e ideologia, la loro cultura rock gli permise infatti una maggiore stilizzazione, riuscendo a essere più determinati nell'impatto formale e comportamentale. Ma anche noi eravamo in qualche modo punk: nichilisti come loro. Il pessimismo ci intossicava la vita. Il tormento del «no-future» fu certamente il motivo intimo di tante scelte sconsiderate durante i conflitti di piazza. «La distruzione è liberazione», recitava una scritta a Lettere. - "L'inizio della fine". «E' stato l'inizio della fine», ho sentito infatti dire a qualcuno. E a ragione. Ma la fine di che? Della politica prima di tutto. Ovvero di quel valore di aggregazione sociale e di interpretazione del mondo che, basato su princìpi ideologici, esprimeva uno stato di realtà, un modo di vita, una consapevolezza, una visione globale. Si capì di colpo che era tutto illusorio: un carosello fittizio di pensieri indotti. Per molti fu traumatico. Sembrerà "naïf" ma piansi nel ritagliare a forma di puzzle il ritratto di Lenin che campeggiava sopra il letto per farne un rompicapo da ciclostilare (sì, ciclostilato proprio su quella carta porosa dei volantini di allora) per la fanzine che realizzai con Massimo Pasquini nel marzo del 1977 da

diffondere all'interno dell'Università occupata. Era «Enig/mistica» e l'immagine di Lenin era irriconoscibile, scomposta nelle varie tessere di un puzzle siglato dallo slogan: «Sparpagliamo il centralismo!». Con un chiaro e netto esclamativo programmatico. «Enig/mistica» fu un successo editoriale (?!), era quello che ci voleva, il sottotitolo recitava: «Un foglio camomilla», sì, per tranquillizzarci un po', dopo il terribile scontro frontale con Lama e i suoi servizi d'ordine. Un'esperienza durissima. Un buco nero della sinistra. Il movimento del '77 ha segnato in questo Paese un punto di non ritorno. Una linea d'ombra, mi viene da dire, anche se l'evocazione conradiana rischia di apparire troppo facile. Ma è così proprio perché l'impronta generazionale fu nettissima. I ventenni-trentenni che vissero quei momenti di conflittualità estrema e irregolare (furono tantissimi, centinaia di migliaia) rimasero marcati dentro, molti ne uscirono incattiviti, altri talmente disillusi da mettersi a disposizione del primo committente spregiudicato (fu la fortuna del craxismo) e altri ancora orribilmente rassegnati, arresi alla quotidianità più inerte. Altri, tanti purtroppo, non ne sono usciti proprio. Qualcuno è addirittura ancora in galera, qualcuno morto di overdose, altri (maledizione!) di Aids, tanti storditi dall'eroina, scoppiati per quell'entropia che porta alla pazzia e impoveriti a tal punto da diventare un fantasma. Il fatto che la ricchezza di quella generazione si sia perduta così, fa rabbia più che tristezza. La memoria di quel movimento rimane ancora viziata dal tabù del terrorismo ma va superato, spurgato dall'immaginario nazionale. Va riconosciuto un valore: quello di aver anticipato quella mutazione postumanista che oggi è davanti gli occhi di tutti anche se a molti imbarazza. Maurizio Calvesi in "Avanguardia di massa" (Feltrinelli, 1978) riuscì a cogliere degli aspetti importanti, mettendo addirittura in relazione l'inaugurazione del Beaubourg il primo febbraio e la comparsa degli indiani metropolitani. «Ecco due avvenimenti la cui simultaneità potrebbe essere emblematica», dice. Il critico d'arte sostiene poi che ambedue, Beaubourg e indiani metropolitani, sono «aspetti complementari della massificazione della cultura». Va detto che si concede almeno il beneficio di un interrogativo. L'elemento da porre come scardinante di questa analisi (che merita comunque il massimo rispetto proprio perché è stata una delle pochissime ad analizzare il fenomeno, pubblicando anche l'immagine di «Oask?!» accanto a quelle di Duchamp) è che in quelle pratiche creative del

'77 è possibile cogliere un dato ulteriore: si trattò dell'«ultima avanguardia». Il fatto di aver creato un'opera così diffusa di interazione arte/vita portò al compimento la missione storica dell'avanguardia. E' da qui che si potrebbe partire con altre analisi legate alle sperimentazioni teatrali e multimediali che dalla fine degli anni Settanta si sono sviluppate sulla base di quelle intelligenze e sensibilità sopravvissute al riflusso. La postavanguardia teatrale promossa da Giuseppe Bartolucci fu certamente un alveo straordinario di queste energie eversive che rifondarono linguaggi scenici, avviando ad esempio una ricerca «patologico-esistenziale» che affondava a piene mani nella turbolenza schizoide dell'ala creativa del movimento. Si potrebbero fare tanti nomi ed esempi ma solo uno trovo opportuno lasciare qui alla fine di questo percorso: quello di Massimo Terracini, figlio di Umberto, con cui ho condiviso gran parte di quel percorso («Oask?!» e altre fanzine, la casa occupata dell'«Orsottantotto», tanti scontri in piazza...) e che poi seppe rilanciare la propria creatività in campo musicale e poi teatrale. Un compagno di strada che ho ritrovato poi sul campo dell'invenzione di linguaggi che ancora non siamo riusciti a tradurre in discorsi. «Dalla storia alle storie».

* ANDREA PAZIENZA O LE STRAORDINARIE AVVENTURE DEL DESIDERIO Mauro Trotta Tra il febbraio e il marzo del '77 una nuova ondata di protesta nasce nelle Università italiane e inizia a dilagare nelle piazze. Prende corpo, forma e sostanza quello che sarà ricordato come il movimento del '77. Al suo interno si intrecciano e si dipanano temi e stili di vita radicalmente innovativi e differenti da quelli tradizionalmente sviluppati dalle lotte proletarie precedenti: dalla voglia di costruire immediatamente spazi di libertà e di comunismo senza rimandare tutto a una rivoluzione futura alla crisi della militanza, dal rifiuto del lavoro all'emergere delle tematiche legate al desiderio, dai temi dell'antagonismo al nuovo impulso della questione femminista, dallo scontro con le vecchie organizzazioni del movimento operaio (P.C.I., sindacato) alla ricerca di forme nuove di democrazia diretta e non più rappresentativa. In questo stesso lasso di tempo Andrea Pazienza pubblica la sua prima storia a fumetti: "Le straordinarie avventure di Pentothal". La puntata d'esordio esce su «Alterlinus» n. 4 dell'aprile 1977. La contiguità con il movimento nascente è fortissima dal punto di vista del linguaggio usato, dell'ambientazione, dei personaggi e della storia che si racconta. Non solo, viene addirittura programmaticamente ed esplicitamente dichiarata nell'ultima tavola pubblicata in quel numero del giornalino «fratello minore» di «Linus». Come ricorda Oreste del Buono: "Dunque, avevamo deciso di pubblicare 'Le straordinarie avventure di Pentothal' su «Alter», anzi si chiamava ancora «Alterlinus», il fratello minore di «Linus», dedicato alla fantascienza, alla 'fantasy', alla fantasia in tutte le salse. Nel numero 4 di «Alter», per la precisione, ovvero nel numero

datato aprile, ma in uscita verso la fine di marzo secondo i capricci del nostro abituale calendario e, quindi, in lavorazione tra gli ultimi giorni di febbraio e i primi di marzo. Ebbene, in mezzo esplose il marzo 1977 a Bologna. Il giovane Andrea fece appena in tempo ad aggiungere un'ultima tavola. La sua crapa scapigliata, un suo occhio, un pezzo di naso, una riflessione d'artista: «Tagliato fuori... sono completamente tagliato fuori...». Una radio Alice vociferante non disperdiamoci, troviamoci tutti, la torretta di un'autoblindo puntata verso il lettore, un brandello di bandiera con Francesco è vivo e lotta insieme a noi" (1). All'interno della tavola sono così riportati i simboli, le icone dei fatti di quel marzo con al centro la figura del protagonista della storia che è poi lo stesso artista. Particolare importanza - anche e soprattutto visiva, dato che occupa più di un terzo della pagina - ha però una nota in basso in cui è scritto: "Mentre lavoravo a queste tavole nel mese di febbraio '77, ero convinto di disegnare uno sprazzo, sbagliando clamorosamente perché era invece un inizio. Ne avessi avuto il sentore, avrei aspettato e disegnato questo bel marzo. Così mi trovo di colpo a non saper più bene che fare. Ho già consegnato tutto il materiale a «Linus» venti giorni fa, ma cristo, sono cambiate tante cose nel frattempo e tante altre cambieranno sino al giorno in cui il fumetto sarà pubblicato che mi sento male e mi do del coglione per non averci pensato. Cioè disegnare fumetti non è come scrivere per un quotidiano. Se capite cosa intendo. Allora disegno questa tavola qui e provo a portarla a «Linus» in sostituzione dell'ultima pagina originale, sperando di fare in tempo. L'ultima tavola originale aveva al posto del «fine» di prassi in basso a destra un «allora è la fine», che suona decisamente male. Madonna, vi giuro, credevo fosse uno sprazzo, era invece un inizio. Evviva! Andrea Pazienza, 16 marzo '77" (2). Era un inizio, infatti. L'inizio di una nuova stagione di lotte e anche l'inizio di una storia a fumetti come non se ne erano mai viste prima. Il protagonista è lo stesso narratore, Andrea Pazienza detto Pentothal, che

rappresenta appieno la soggettività protagonista di quel movimento, ne vive la stessa vita tra Università, cortei, viaggi, sogni. E li racconta in modo nuovo, senza seguire le regole della consequenzialità, quasi fossero sprazzi, "tranches" deterritorializzate che, però, misteriosamente si ricompongono arrivando a comunicare uno spaccato reale e, soprattutto, l'atmosfera e la vita di quegli anni. E' l'autore stesso, mi sembra, a definire grazie alla metafora di un viaggio il proprio modo di raccontare. Pentothal e il suo amico e compagno di viaggio Luigi Damiani sono in un deserto, a bordo di una sorta di strano e improbabile "chopper". Fra i due si sviluppa un dialogo: «Poi non è questo divertimento guidare, dove vado vado, comunque vado. Non c'è gusto manca il suspance!». «... La suspéns!». «Ehi! mancano le curve...». «A seconda dei punti di vista, non andare dritto e ti fai tutte le curve che vuoi...». «E se sbaglio strada?». «Quale strada?». «Ma sai almeno dove siamo?». «No, è importante?». «No, ma è sempre un classico chiedere dove siamo». «Hai fame? Io sì, metti il pilota automatico e vieni dentro». «Non metto niente, tanto dove andiamo andiamo, comunque andiamo» (3). Le avventure di Pentothal sono raccontate così. Un percorso in mezzo a un deserto, uno spazio vuoto dove l'autore fa tutte le curve che vuole e, ovunque vada con i suoi personaggi, comunque va. In questo percorso il deserto si riempie di figure, di luci e di ombre, di sogni e di avvenimenti. Così il mezzo usato, il fumetto, smette di essere puro intrattenimento e diviene qualcosa di differente, una forma d'arte, narrazione, letteratura. Una letteratura di tipo particolare, però, che sembra rispondere alle caratteristiche tipiche di quella che Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno denominato «letteratura minore». Innanzi tutto questa scrittura subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione. Una letteratura minore, infatti, non è una letteratura di una lingua minore, ma quella che viene fatta da una minoranza utilizzando una lingua maggiore. Il caso tipico è quello analizzato da

Deleuze e Guattari: Kafka, ebreo cecoslovacco che scrive in tedesco. Altri esempi diventano particolarmente illuminanti, come l'uso dell'inglese da parte dei neri americani o quello del francese nei film di Jean Luc Godard, dove si assiste a procedimenti che rendono il francese una lingua minore in francese. E' dunque possibile utilizzare una lingua maggiore - anche da parte di chi non appartiene a minoranze linguistiche - in modo minore. Ma come creare un movimento di deterritorializzazione della lingua che ne faccia scaturire la possibilità di un uso minore? Due sono le strade possibili: o arricchirla artificialmente, gonfiandola a forza di esuberanza e di sovradeterminazione o renderla povera, disseccarla, facendola vibrare in intensità. La prima via è quella scelta da Joyce, ad esempio, con il suo uso dell'inglese e di tutte le lingue, la seconda è quella di Beckett. «Mentre il primo procede continuamente per esuberanza e sovradeterminazione, operando tutte le riterritorializzazioni mondiali, l'altro procede a forza di sobrietà disseccata, di povertà voluta, spingendo la deterritorializzazione sino al punto di non lasciar sussistere che l'intensità» (4). "Le straordinarie avventure di Pentothal" operano una prima deterritorializzazione a livello dello specifico fumettistico. Decontestualizzano, infatti, il fumetto dal suo ambito storicamente più proprio: non è più evasione, semplice avventura, non si rivolge ai bambini, non ha come protagonisti super eroi eccetera. Diviene anzi un modo per raccontare con un linguaggio nuovo qualcosa che sta accadendo. Il processo, poi, va ancora più a fondo. Sfruttando le caratteristiche del mezzo, Pazienza riesce a seguire entrambe le strade illustrate precedentemente. Dal punto di vista del disegno, dell'immagine, infatti, assistiamo a un'enorme arricchimento del linguaggio fumettistico. La tavola è ricchissima, esplode, addirittura. Si affastellano citazioni, da Topolino ai Freack brothers, da don Chisciotte al generale Custer. Spessissimo la stessa scansione in vignette soccombe all'esuberanza del tratto dell'autore. Il linguaggio usato, sia nelle didascalie che nei discorsi dei personaggi, è invece povero, disseccato. Quasi un gergo. Il gergo parlato da quella generazione in quel momento. Una lingua che Omar Calabrese ha definito «creola» o «pidgin». Nata all'interno di gruppi chiusi, comunità transitorie, come quelle presenti nelle Università, arricchita da termini e forme sintattiche provenienti dalle diverse parti d'Italia - le Università sono piene di «fuori sede» - questo nuovo 'volgare' risulta essere un'ibridazione lessicale che mette insieme «dei fossili linguistici provenienti dalle diverse

origini dei membri della nuova comunità, ma mantenendo il rispetto formale della lingua naturale» (5). Questo gergo, ricco di espressività, di intensità, è però povero nel vocabolario e scorretto dal punto di vista della sintassi. L'uso che ne fa Pazienza è quello tipico di tutte le letterature minori, caratterizzato dall'utilizzo intensivo dei cosiddetti «tensori» o «intensivi», quegli elementi linguistici, cioè, che esprimono le «tensioni interne di una lingua... segnando un movimento della lingua verso gli estremi, verso un al di là o un al di qua reversibili» (6). Si tratta di verbi o proposizioni che possono assumere un senso qualsiasi, verbi pronominali, congiunzioni, interiezioni, avverbi usati frequentemente e in successione. Lo stesso valore tensorio rivestono gli accenti interni alle parole o la distribuzione di consonanti e vocali in senso discordante. Tutte caratteristiche largamente presenti nel linguaggio di "Pentothal". Basti pensare a interiezioni come «porc», all'uso del verbo fare in parole come «fattanza», allo stesso utilizzo della firma che da Andrea Pazienza diventa «Andrew Patience», «Apaz», «Andrenza», «Pazzienza» o a filastrocche come «cala aprile settantotto sulla capa del poliziotto». In questo modo «il linguaggio cessa di essere rappresentativo per tendere verso i suoi limiti o i suoi estremi» (7). Questo uso intensivo della lingua è asignificante, ovvero non c'è più soggetto di enunciazione né di enunciato. Non c'è alcuna gerarchia né differenza tra sogno, realtà, viaggio. Non c'è differenza tra autore e personaggio: sono entrambi lo stesso Pazienza. C'è solo un soggetto collettivo d'enunciazione o, meglio, «"concatenamenti collettivi d'enunciazione"» (8). E' una comunità che si esprime attraverso l'opera di Andrea Pazienza, si racconta, esibisce i suoi sogni, il suo stile di vita. Questo è un altro carattere proprio della letteratura minore: al suo interno tutto assume valore collettivo, non si danno le condizioni perché l'enunciazione individuale si opponga o si separi da quella collettiva. «L'enunciato non rimanda a un soggetto d'enunciazione che ne sarebbe la causa, e neppure a un soggetto d'enunciato che ne sarebbe l'effetto» (9). La terza caratteristica di una letteratura minore è la sua valenza politica: in essa tutto è politica.

"Nelle 'grandi' letterature (...) il fatto individuale (familiare, coniugale eccetera) tende a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali, mentre il contesto sociale serve soltanto da contorno e sfondo; ne deriva che nessuno dei fatti edipici in particolare è indispensabile, o assolutamente necessario, ma tutti 'fanno blocco' in uno spazio allargato. La letteratura minore è tutta diversa: l'esiguità del suo spazio fa sì che ogni fatto individuale sia immediatamente innestato sulla politica. Il fatto individuale diviene quindi tanto più necessario, indispensabile, ingrandito al microscopio, quanto più in esso si agita una storia ben diversa" (10). Tale fatto è ancora più evidente in "Pentothal", dove la narrazione viene continuamente attraversata, bucata da fatti o immagini che richiamano immediatamente alla politica. Scontri di piazza, riunioni o semplici dialoghi a due sulla politica si intrecciano alla storia. Anche dal punto di vista visivo: si vedono autobus bruciati, bandiere rosse, slogan sui muri. Ma al di là di questo è tutto ciò che avviene che - come del resto succedeva in quegli anni - ha un'immediata valenza politica: i discorsi con la propria donna, i viaggi con gli incontri più strani, i sogni e gli incubi. Basti pensare al sogno in cui Custer viene sostituito perché non ha saputo difendere gli interessi della ferrovia o al viaggio a Napoli con i cavalieri di Federico che assaltano la città. In entrambi i casi un fatto individuale, il sogno o il viaggio, sconfina in modo fantastico - anche dal punto di vista visivo - nell'ambito politico. I tre caratteri fondamentali della letteratura minore la connotano come rivoluzionaria. La letteratura diventa affare del popolo. E al suo interno diventa possibile un'enunciazione collettiva che riesca a esprimere un'altra comunità potenziale, un'altra coscienza, un altra sensibilità (11). E', prima di tutto, nello stesso modo di comporre, di scrivere che la letteratura minore acquista il proprio carattere rivoluzionario. La letteratura maggiore si basa su di un movimento che va dal contenuto all'espressione: una volta scelto il contenuto cerca la forma d'espressione che meglio vi si adatta. Si enuncia, così, proprio quello che si concepisce. Una letteratura minore, invece, si costruisce su di un percorso diametralmente opposto. E' rivoluzionaria poiché comincia con l'enunciare e passa a concepire solo dopo. «L'espressione deve spezzare le forme, segnare le rotture e le diramazioni nuove. Una volta spezzata una forma, ricostruire il contenuto, che sarà necessariamente in rottura con l'ordine delle cose» (12).

Basta uno sguardo, anche superficiale, a "Le straordinarie avventure di Pentothal" per rendersi conto che questa è la via seguita da Pazienza. Il suo stesso modo di raccontare, spezzato, a volte addirittura confuso, spesso surreale lo conferma. E si veda, d'altra parte, la stessa impostazione del disegno, con il suo «polistilismo», come lo ha definito Renato Barilli (13), in cui convivono figure e ambienti estremamente accurati con altri volutamente stilizzati, poveri. O la costruzione della tavola ricca di interventi grafici, ma completamente in rottura con la sintassi visiva tradizionale. E, non a caso, questo metodo rivoluzionario era quello seguito anche nell'espressione politica del movimento del '77. Non si partiva dalla teoria per individuare una pratica politica, ma era dalla realtà delle lotte che, quasi giorno per giorno, nasceva la teorizzazione. Naturalmente a partire da tutto questo viene a crollare la tradizionale contrapposizione arte-vita. Vivere e scrivere, del resto, si oppongono solo all'interno della letteratura maggiore. Quando è l'espressione a trascinare il contenuto l'opposizione cade. Questo non vuol dire cadere necessariamente nella trappola di una scrittura intimista, venata di tristezza. Anzi, Pazienza è un autore che ride, le sue tavole e le sue storie di Pentothal strappano quasi sempre la risata. E non è chiuso nelle quattro pareti della sua stanza, è un nomade che attraversa giocosamente luoghi e strade, sogni e miti, tipici del movimento di quegli anni. Il suo percorso è segnato dal desiderio, che sembra agitarsi sempre dietro le quinte. In lui il disegno e la scrittura significano una cosa sola: "... non letteratura, certo, bensì un'enunciazione che faccia tutt'uno con il desiderio, al di sopra delle leggi, degli stati, dei regimi. Enunciazione sempre storica, politica e sociale. Una micro-politica, una politica del desiderio, che mette in causa tutte le istanze. Nessun autore è mai stato tanto comico e gioioso dal punto di vista del desiderio, tanto politico e sociale dal punto di vista dell'enunciato. Tutto è riso... Tutto è politico" (14). Il modo di narrare di Andrea Pazienza va avanti attraverso una serie di segmenti che, quasi sempre, non hanno una vera fine. Si passa da un segmento narrativo a un altro senza che la storia raccontata in un segmento venga ripresa logicamente dal segmento seguente. Certo, si

possono riprendere temi o situazioni, ma senza che scatti la continuità, senza che vi sia continuazione nel senso della puntata seguente di una strip classica che riprende la storia proprio là dove si era interrotta nella puntata precedente. Quello che lega i segmenti è il personaggio di Pentothal, che connette storie e sogni senza però arrivare a essere soggetto definito. Lo si riconosce principalmente in base al disegno, ma le reazioni che presenta rispetto alle situazioni in cui si trova non riescono a caratterizzarlo compiutamente come 'tipo' o 'personaggio ' in senso classico. E' realmente un concatenamento collettivo di enunciazione. E in quanto tale attraversa le terre del desiderio piuttosto che gli spazi della legge. Tutte le sue avventure, inoltre, si svolgono nel territorio del privato, del personale. Risultano laterali rispetto ai grandi temi affrontati in quegli anni: l'azione politica, la precarizzazione, la ristrutturazione del sistema eccetera. Il suo agire è molecolare. Le cose non avvengono sul palco del concerto, ma tra il pubblico. Non viene descritto il momento dell'occupazione dell'Università, ma la sera quando c'è chi dorme, chi fa ginnastica, chi chiacchiera. Si trascrivono e si smontano continuamente concatenamenti, e tutto sotto l'egida dell'immanenza, l'immanenza del desiderio. Non viene messa in scena nessuna legge trascendente. I riflettori non sono puntati sui grandi avvenimenti storici, ciò che si racconta, ciò che è importante è sempre altrove: nei discorsi tra amici, nei viaggi, nei sogni. E' solo attraverso micro-eventi, infatti, che è possibile esprimere il desiderio e i suoi casi: "Il desiderio non è mai su una scena, in cui apparirebbe ora come un partito opposto a un altro (il desiderio contro la legge), ora come presente da entrambi i lati sotto l'effetto d'una legge superiore che ne regolerebbe la distribuzione e la combinazione... In politica è la stessa cosa... l'importante non è quello che avviene in tribuna, dove si dibattono soltanto questioni di ideologia... l'importante avviene sempre altrove, nei corridoi del congresso, nei retroscena del meeting, in cui si affrontano i veri problemi immanenti di desiderio e di potere" (15). Proprio per la sua struttura segmentata, non circolare, ma anche per il suo lanciarsi sulle tracce del desiderio, il testo di Pazienza è propriamente

interminabile. Finisce solo perché l'autore lo ferma. E nell'ultima tavola, sullo sfondo di un foglio scritto a mano pieno di cancellature, si vede una figura stilizzata con un mitra in mano, il passamontagna sul volto e un occhio solo, quasi fosse un ciclope. Alle sue spalle, semicoperto, un pezzo di un cartellone di treni in partenza dove, dopo alcune località (New York, Arcangelo, Chieti Scalo), si legge: «Le straordinarie avventure di Pentot Andrea Pazie Bologna Prologo».

* NOTE AL TESTO DI M. TROTTA 1. Oreste del Buono, "Prefazione" a Andrea Pazienza, "Le straordinarie avventure di Pentothal", Milano Libri Edizioni, 1982, pag. 6. 2. Andrea Pazienza, "Le straordinarie avventure di Pentothal", cit., pag. 26. 3. Ivi, pag. 38. 4. Gilles Deleuze, Félix Guattari, "Kafka, per una letteratura minore", Feltrinelli, 1975, pag. 32. 5. Omar Calabrese, "L'eterno rinnovamento del 'volgare'", in Andrea Pazienza, catalogo della mostra, Magazzini del sale, Siena 24 marzo-5 maggio 1991, Editori del Grifo, pag. 13. 6. Gilles Deleuze, Félix Guattari, "Kafka, per una letteratura minore", cit., pag. 37. 7. Ivi, pag. 38. 8. Ivi, pag. 30. 9. Ivi, pag. 29. 10. Ivi, pag. 28. 11. Conf. ivi, pag. 29. 12. Ivi, pag. 45. 13. Renato Barilli, "I giardini incantati di Andrea Pazienza", in Andrea Pazienza, cit., pag. 9.

14. Gilles Deleuze, Félix Guattari, "Kafka, per una letteratura minore", cit., pag. 67. Naturalmente il discorso è riferito a Kafka, mi sembra, però, che possa adattarsi perfettamente anche ad Andrea Pazienza. 15. Ivi, pagg. 79-80.

* VENT'ANNI DOPO Sbancor Riguardo le vecchie foto e i giornali ingialliti. Come liberarsi del fantasma di Dumas, «vent'anni dopo»? Semplicemente con una constatazione: del Settantasette non è possibile una «ripetizione». Ciò che colpisce di più in quell'anno è il suo essere un termine. Il Settantasette, sia detto senza retorica, conclude il Novecento, nel senso che porta al limite estremo, e in ciò è coerentemente «estremista», le idee di questo secolo. Utopie collettiviste e trasgressioni libertarie, movimenti d'avanguardia artistica e critica radicale della vita quotidiana, diversità sessuale e psichedelia. Tutto ciò abbiamo vissuto e sperimentato in un esercizio, a volte crudele, di bio-grafia assolutamente rigoroso. In ciò compivamo ciò che la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento avevano lasciato in sospeso. Dal Marx dei "Grundrisse" al Nietzsche dei «Frammenti postumi», da Tristan Tzara ad Antonin Artaud a Breton a Benjamin a Majakovskij, solo per citare alcuni dei nomi che il Settantasette reiscrisse nella storia del Novecento. Giacché, bisogna ricordarlo, le avanguardie storiche avevano avuto il destino di rimanere sospese, eternamente giovani, nella fine precoce che l'Europa aveva loro decretato con la nascita dei totalitarismi, del fascismo, del nazismo, dello stalinismo. In ciò non eravamo diversi dal pensiero politico a noi contemporaneo, anch'esso afflitto dalla monomaniacale ripetizione degli anni Trenta, solo

che chi ripeteva il pensiero cattolico dei primi del Novecento, o Mussolini o Stalin o il liberismo storico, sicuramente era più in malafede: a costoro infatti, il passato serviva a conservare il presente, noi utopicamente speravamo dischiudesse un futuro. Con ciò non voglio dire che i movimenti di quegli anni fossero solo una esegesi del passato. Se pur abbiamo ecceduto in museologia politica, affermavamo anche qualcosa di nuovo. Solo che in tutta quella biblioteca, nel polveroso archivio del Novecento, l'innovazione non aveva modo di manifestarsi che nella forma della citazione. Politiche culturali ed editoriali demenziali da parte della cosiddetta intelligenza di sinistra, la stessa che oggi inquina di banalità e conformismi l'etere televisivo, costringevano alcuni di noi a veri contorsionismi teorici. Hippie travestiti da leninisti, maodadaisti, punk sovietizzanti, terzomondisti. Meglio sarebbe stato ristampare Bakunin, Camillo Berneri o Malatesta, giacché, in fondo, i movimenti degli anni Sessanta e Settanta erano certo più vicini all'anarchismo storico che non ai collettivismi totalitari dell'Est Europa. Ma anche questa non è che filologia. Il Settantasette invece rappresentò, nel panorama sociopolitico italiano degli anni Settanta, un fatto curioso. Ci fu una generazione di poeti, filosofi, artisti e qualche ingegnere che pensò di sottrarsi alla banalità della politica italiana incontrandosi per strada con i ragazzi delle borgate e i giovani operai allucinati dalle fabbriche in dissoluzione. Insieme mettemmo a punto una macchina desiderante che, avendo distillato con cura tutti i veleni ideologici del Novecento, li iniettava allegramente nelle vene dei loro produttori storici. A farne le spese fu innanzi tutto la sinistra storica, che in quanto a produzione di inquinanti ideologici non aveva certo scherzato nel corso del secolo. In ciò non dimenticammo dove stavamo vivendo. In una periferia assolata dell'impero americano, percorsa e insanguinata da bande di servizi segreti impazziti, di politici corrotti, di massonerie da operetta. Ciascuno di noi lo sapeva: «No future», per molti anni non ci sarebbe stato futuro in questo disgraziato Paese, e nulla di ciò che si poteva fare avrebbe potuto salvarlo.

Eppure, peccammo di inguaribile spirito «voltairiano», noi accusati di irrazionalismo. Non sapevamo, anche se sospettavamo, che congiure potenti e interessi inarrestabili avrebbero presto riportato il mondo sul limite della guerra e ricolonizzato ciò che i movimenti di liberazione avevano dato l'illusione di liberare. Da ragazzi avevamo visto gli elicotteri americani abbandonare Saigon, con i vecchi esponenti del regime attaccati al carrello, fino a farli cadere sulle portaerei. Avevamo visto le «menti migliori della nostra generazione» infiammare i campus delle grandi Università americane. E ovunque la stessa rivolta che si diffondeva, anche a Est della «cortina di ferro». Avevamo previsto, anche se nessuno storico ce ne darà mai atto, la fine del comunismo sovietico. Ma non avevamo previsto la vittoria del capitalismo. Anche perché ciò che conoscevamo allora era una forma assai primordiale di capitalismo che poco aveva a che vedere con l'economia globale dei nostri giorni. Anche il marxismo aveva le sue colpe: confondendo capitale e industria, incapace di articolare una teoria del denaro, contraddicendo se stesso negli arcani del valore, del lavoro produttivo e improduttivo e, soprattutto, apocalittico, prevedendo crisi finali a ogni angolo della storia. Fummo giocati dalle trasformazioni di un «economico» che non capivamo se non nelle sue forme più elementari. Sfuggimmo però alla falsità del secolo. Né apocalittici né integrati, anche se sulle due posizioni ci divertimmo a giocare. Per un attimo sembrò che, al colmo del paradosso, quest'arcana alchimia che fondeva in sé le esperienze teoriche più radicali del Novecento potesse produrre l'evento tanto atteso, che Eliogabalo potesse incontrare Spartaco, insieme dissolvendo l'Impero del Male. Finì come tutti sappiamo. Eliogabalo morì di overdose e Spartaco si arruolò nelle Brigate rosse. Ma il Settantasette era finito. Annunciò «Zut»: «La rivoluzione è finita: abbiamo vinto!». E vincemmo davvero. Perché dopo il Settantasette nulla sarà più come prima. Finalmente liberi di pensare, senza dover più citare nessuno, ci trovammo a misurarci nel mondo.

- "La fine dell'intellettuale". Non è inutile chiedersi se la fine dell'intellettuale e la nascita del lavoratore mentale sia la fine dell'intelligenza "tout court". Comunque è indubbio che proprio nel Settantasette si manifestò il paradosso della disoccupazione intellettuale di massa e della contemporanea svalutazione economica del lavoro intellettuale. Aumento della scolarità e fine dei privilegi dell'intellettuale produssero, per un breve periodo, un'inflazione culturale destinata presto a riassorbirsi in una grande ondata di imbecillità successiva. Non è improbabile che questo fosse l'unico modo per trasformare gli intellettuali in lavoratori mentali. Qualcosa di simile avvenne con i processi di inurbamento forzato nell'Europa del Cinquecento. - "La fine del proletariato". Pier Paolo Pasolini è sicuramente il più grande scrittore reazionario del Novecento italiano. Non è possibile non amarlo, così come si ama Céline o Ezra Pound. Però è con Pasolini che inizia la deriva reazionaria di gran parte della sinistra italiana. Il suo elogio dell'Italia «povera ma bella» è quasi un invito al mantenimento della povertà. Si può essere oggetto dell'attenzione dei comunisti solo se si resta esemplari di povertà, lì dove la «modernità» e il denaro corrompono l'etica del proletariato. Qualcosa del genere passò nella testa dei dirigenti del P.C.I. nel Settantasette: l'austerità. Sommessamente provammo a dire che la libertà nasce da bisogni umani ricchi, qualcuno di noi si spinse fino a sostenere il «diritto al lusso». Finì a sassate. - "La fine delle comunità: finalmente senza radici".

C'è una cultura delle radici nella sinistra italiana assai pericolosa. Servì infatti a giustificare lo straprovincialismo della cultura progressista. Il Settantasette, nella sua parte migliore, predicò e in parte praticò il nomadismo. Alcuni ci accusarono di disconoscere le nostre radici: amavamo più la West Coast che la riviera romagnola. - "Gli integralismi". Ancora nel Settantasette non erano comparsi gli integralismi religiosi. Alcuni di noi (Lotta continua) se ne innamorarono subito. Unico vero rimpianto: non essere riusciti a chiudere la partita con le grandi religioni monoteiste assetate di sangue. Esse, purtroppo, non erano ideologie del Novecento. - "Gli operai". Non ci sostennero, ma non gli si può dar colpa. Ancora nel '73, quando la Fiat fu occupata in piena autonomia da operai senza sindacato, sarebbe stato possibile saldare i due movimenti. Nel Settantasette era ormai troppo tardi. Era già iniziata la trasformazione del lavoro. Concordo con Bifo quando scrive: «Nel 1968 gli operai industriali erano in Italia dodici milioni e mezzo; nel 1993 erano circa sei milioni e mezzo. Questo dato è sufficiente a dimostrare che le lotte e i movimenti non sono stati inutili. Hanno liberato una persona su due dalla schiavitù del lavoro ripetitivo e idiota. Qualsiasi cosa avvenga dopo è meglio» (Franco Berardi, "Neuromagma", Castelvecchi, Roma, 1995). - "Il nuovo gioco".

Del nuovo gioco sociale non sono ancora state scritte le regole. Ma alcuni scenari si possono tentare sotto forma di interrogativi duali. La globalizzazione dell'economia è il ritorno puro e semplice al «mercato mondo» dei primi del secolo? - Se si risponde di sì, non resta che attendersi una grande crisi stile 1929, amplificata da tutte le equazioni esponenziali che la finanza derivata ha saputo creare. - Se invece si risponde di no, allora vale la pena di provare a capire quali società, e soprattutto quali rapporti sociali, si determineranno in un'economia globale che usa la conoscenza e l'intelligenza in luogo delle materie prime, e il «lavoro mentale» al posto delle braccia dell'operaio. Provate a immaginare un gioco di «lotta di classe» in cui da un lato il proprietario del capitale cerca di sfruttare le idee e dall'altro i produttori di idee cercano di sottrarsi alla lobotomizzazione economica. Pensate al fatto che questo gioco non ha più confini, che si gioca contemporaneamente a Bombay, Londra, Hanoi, Mosca e Seattle. Uniteci il fatto che nessuno sa più cosa sia il denaro e cosa rappresenti. Proiettatelo nelle fabbriche sudcoreane, a Singapore o nel Tagikistan. Conditelo con tutti gli integralismi, sufismi, esoterismi, "new age" e massonerie che imperversano sul pianeta. Scoprirete che i peggiori incubi del Settantasette forse non erano così distanti dal futuro, ormai prossimo.