Sei lezioni sulla città 9788858830130

Guido Martinotti è stato il più grande studioso italiano di sociologia urbana. Sei lezioni sulla città raccoglie i risul

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Sei lezioni sulla città
 9788858830130

Table of contents :
PREFAZIONE di Serena Vicari Haddock
SEI LEZIONI SULLA CITTÀ
Introduzione
Prima lezione Cos’è la città?
Seconda lezione Le origini della città
Terza lezione Dalla metropoli alla meta-città
Quarta lezione Le disavventure del bardo urbano
Quinta lezione Città e violenza
Sesta lezione Una città per tutti?
BIBLIOGRAFIA

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Guido Martinotti Sei lezioni sulla città A cura di Serena Vicari Haddock

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2017 da prima edizione in “Campi del sapere” ottobre 2017 Ebook ISBN: 9788858830130 In copertina: © Mathisworks/Getty images.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Prefazione di Serena Vicari Haddock

Questo libro ha atteso molto tempo prima di essere pubblicato. Alla morte di Guido Martinotti, improvvisa e prematura, nessuno tra i più stretti collaboratori e colleghi era nello stato d’animo di prendere in mano quello che appariva come un manoscritto quasi pronto per la stampa, un’operazione che sembrava molto coinvolgente e quindi, al tempo stesso, troppo dolorosa. La “voce” del libro era tuttavia forte e insistente. Chiunque lo prendesse in mano e lo leggesse vi trovava la voce di Guido, immediatamente riconoscibile, che chiedeva attenzione. Sarebbe sbagliato, a mio parere, parlare di una sorta di testamento spirituale, che non era nelle sue corde e che il suo autoironico distacco di studioso non avrebbe potuto suggerire: si tratta piuttosto di un insieme di riflessioni, anche di carattere epistemologico, che riguardano da un lato il patrimonio di conoscenze delle scienze sociali e in particolare della sociologia sul tema della città e, dall’altro, la critica ad alcune posizioni molto diffuse nel lavoro intellettuale che a suo parere alimentano le debolezze di cui queste discipline soffrono. La “voce” parlava in sostanza di quanto Martinotti, sulla base di un’esperienza di ricerca che lo aveva impegnato intensamente per tutta la sua vita, riteneva importante trasmettere come risultato dello studio della città, sia come conoscenze acquisite che come metodo di analisi, e al tempo stesso metteva in guardia, a volte con un accento polemico molto robusto, dalla tentazione di una certa approssimazione e di fuga in generalizzazioni prive di solide basi empiriche. Questa voce, sostenuta dalla volontà di Eva Cantarella e dall’entusiasmo della casa editrice Feltrinelli, ha vinto la mia iniziale resistenza; la condivisione della passione per l’oggetto di ricerca, la rilevanza delle riflessioni per la comunità scientifica e il debito di riconoscenza nei confronti del maestro hanno poi contribuito a puntellare l’impegno assunto, in particolare quando si sono resi necessari compiti e scelte editoriali più difficili e onerosi. In questo compito mi sono attenuta in primis al rispetto del testo originale. Può sembrare banale ma in questo caso, in cui non si disponeva dei file originali, la nuova digitalizzazione ha richiesto una lettura comparativa molto attenta e scrupolosa. Il rispetto va in questo caso ben oltre: che cosa significa infatti “rispettare il testo” quando questo non c’è? In parecchi punti si trovavano tre asterischi che rimandavano a un’elaborazione del tema ancora mancante. Nei casi in cui le linee di argomentazione mi risultavano chiare ho completato il punto sulla base della mia lunga esperienza di collaborazione e di insegnamento. Mi sono avvalsa della comunanza di basi bibliografiche e della

condivisione di programmi. Un esempio fortuito è costituito dalle nostre “lezioni americane” all’Università della California; nonostante le ripetute migrazioni transoceaniche ho salvato gli appunti manoscritti e fotocopiati del corso che Martinotti tenne nel 1987 dal titolo Comparative Analysis and Social Development Change: mai avrei pensato che mi sarebbero stati utili per un’operazione del genere! In altri casi – devo dire, un numero molto ridotto – il rimando è stato eliminato e il testo ha subìto, purtroppo, un’inevitabile semplificazione. Rispettare il testo ha voluto dire anche preservarne la vis polemica, persino quando, in un volume che appare postumo, la correttezza di questa operazione può essere discutibile. La polemica, a volte il sarcasmo ma sempre con grande spirito e ironia, si intrecciano con la costruzione della critica in modi che non permettono di scindere l’una dall’altra. Da studioso insoddisfatto e almeno in parte deluso dalla sociologia in quanto disciplina capace sia di accumulare un patrimonio di conoscenze scientifiche rigorose, sia di incidere sul dibattito pubblico sulla città contemporanea, Martinotti rimane però ottimista e non rinuncia a indicare esempi e strategie che possano ridurre le debolezze e rilanciarne il ruolo. E, nel fare ciò, si serve anche della polemica, pur di rendere chiara il proprio pensiero. La scelta editoriale di mantenere il registro originale si basa sulla convinzione che l’impianto complessivo di costruzione della critica, l’applicazione rigorosa di questo metodo e la messa in luce di tutti i passaggi Martinotti offra un’altra importante lezione. Il testo fa il punto su alcuni dei temi di ricerca che hanno impegnato Martinotti nel corso della sua lunga esperienza di studioso della città e comprende tre fuochi attorno ai quali ruotano le sei lezioni. Innanzitutto, non sorprenderà il ritorno ai due problemi fondamentali della sociologia urbana: la definizione di città e la sua genesi come forma di organizzazione sociale, a cui il testo offre soluzioni particolari e per certi versi originali. La trattazione di queste due questioni di fondo per la sociologia urbana è occasione per mettere in rilievo il ruolo dell’indagine storica e per affrontare idee e generalizzazioni sullo sviluppo umano che sono diventate più complicate rispetto alla tradizionale visione lineare del progresso e alle sequenze causa-effetto che la caratterizzano. Per esempio, Martinotti anticipa ciò che oggi vediamo confermato da molti storici, e cioè che la Rivoluzione agricola, la sedentarizzazione e la conseguente formazione di stati e città sono fenomeni che non si sviluppano in modo sequenziale e con benefici generalizzati e che i legami causali sono molto più complessi di quelli ipotizzati – tanto che Jared Diamond chiama la rivoluzione neolitica “il peggiore errore nella storia del genere umano” e James C. Scott può dare un’idea precisa di quanto la vita dei primi agricoltori fosse peggiore di quella dei predecessori dediti alla caccia e alla raccolta. La grande città contemporanea è, com’è ovvio, al centro dell’attenzione e costituisce un secondo fuoco di analisi. Qui si trattano le grandi trasformazioni

del nuovo ciclo di urbanizzazione e si discute di come si possano analizzare i legami tra forma fisica e struttura sociale in questa fase ancora in tumultuoso sviluppo. Le riflessioni di Martinotti sono tese a individuare le principali dinamiche in atto e, per dare conto delle varie generazioni di metropoli, si concentrano su due variabili cruciali: la mobilità e la tecnologia. Infine Martinotti si occupa di quei “numerosi e ingombranti strati di fuorvianti incrostazioni pseudoletterarie” che generano confusione e ostacolano la comprensione dei fenomeni in corso. Non si limita alla denuncia ma si dedica all’analisi puntuale e meticolosa di diversi testi per dimostrare l’improprietà o la vaghezza dei concetti e la debolezza delle generalizzazioni. La tensione verso un maggiore rigore è palpabile in queste pagine, e a volte comporta gli accenti polemici di cui si è detto. Le analisi di Guido Martinotti sono precise e argomentate. Spetta al lettore valutarne la validità e l’utilità. Per quanto mi riguarda sono grata di avere avuto l’opportunità di dargli voce, voce le cui eventuali stonature, disfonie e afonie sono di mia sola responsabilità.

Sei lezioni sulla città

Introduzione

“Una città per tutti”: cosa significa? Tre cose. Innanzitutto che, nel corso del XXI secolo della nostra era, le città sono destinate a ospitare, se non proprio tutti, sicuramente la maggior parte degli abitanti del pianeta: la maggioranza all’inizio, e forse tre quarti e più già alla metà di questo secolo. In secondo luogo, che le città sono diventate, quasi dovunque, luoghi aperti a tutti, anche se questa generale propensione trova ostacoli e limitazioni, perché essere “tutti in città” non significa affatto esservi in modo eguale per tutti. Infine, vuol anche dire che questo libro sulla città è stato scritto per tutti: prevalentemente per le persone nate e cresciute in quella che è stata definita come “la condizione urbana”, ma anche per quanti sono cresciuti in un’epoca in cui i cittadini erano minoranza. Ma soprattutto perché, se riuscirò nel mio intento, questo libro dovrebbe risultare comprensibile a tutti e non solo agli specialisti. Non voglio dire che mancheranno questioni difficili da spiegare e da comprendere, la città è un oggetto molto complesso e per capirlo bene le analisi superficiali non servono e cercherò di evitarle: chi avrà la pazienza di leggere le pagine che seguono, troverà anche osservazioni talvolta sorprendenti, non sempre in linea con il sapere convenzionale sulla città. Ma, del resto, un libro che ripetesse ciò che tutti sanno sarebbe del tutto inutile. Le città sono un prodotto della specie umana: in un tempo lontano, ma non lontanissimo, non esistevano e hanno fatto la loro comparsa solo a partire da un’epoca che possiamo datare, sia pure con grandissima approssimazione, attorno ai centoventi secoli prima di quella corrente. Da allora le città si sono moltiplicate, crescendo in numero e dimensioni, ma anche cambiando via via forma, nei secoli e nei millenni. Come in molti altri prodotti della specie umana, anche nelle città possiamo rilevare una progressiva evoluzione, benché questo termine si riferisca, come vedremo meglio, a un processo molto diverso da quello dell’evoluzione biologica. Infatti, l’evoluzione biologica si basa sulla selezione e non viene influenzata dall’apprendimento individuale (almeno fino a quando – e solo se – non si consolideranno ipotesi contrarie, attualmente in discussione). L’evoluzione delle città consiste invece essenzialmente in un meccanismo abbastanza comune nelle attività della nostra specie: chi viene dopo, impara da chi è venuto prima e, in più, aggiunge spesso qualcosa di suo, forse non sempre migliorando il prodotto, ma comunque sempre cambiandolo in un perenne aggiustamento. Dedicherò la Prima lezione all’esplorazione della natura del fenomeno urbano e la Seconda alle sue origini e alla trasformazione storica delle città fino ai giorni nostri: i due temi, natura ed evoluzione della

città, sono strettamente interconnessi, assai più degli altri argomenti del libro, che pure formano un tutto unitario. Sebbene le origini della città si perdano nel tempo – e le possiamo conoscere solo con grande approssimazione – e sebbene le prime città di cento o centoventi secoli fa fossero molto diverse da quelle in cui viviamo oggi, per capire bene il fenomeno urbano dobbiamo anche cercare di capire come fossero le città primitive. Come fa notare Mario Liverani, profondo conoscitore delle antiche città mesopotamiche, le forme primitive di un artefatto ne contengono i tratti essenziali in modo più evidente. Uno dei tratti caratteristici dell’evoluzione delle città è la ciclicità, cioè, come dice pure il linguaggio comune, la nascita, la crescita e anche, a volte, la morte di questa o quella città o gruppo di città. Al di là delle molte leggende che aleggiano attorno a questi eventi, possiamo partire da semplici constatazioni osservando città dalla lunga storia. Roma, per esempio, nei poco meno di tre millenni della sua vita, partendo da un piccolo insediamento, fondato secondo la leggenda (che alcuni archeologi considerano più veritiera di quel che normalmente non si creda) nel 753° anno prima dell’era corrente, ha raggiunto una popolazione (non del tutto comprovata) di un milione e più in epoca augustea, è scesa a poche migliaia di abitanti in pieno Medioevo, è stata messa a sacco molte volte, ma in modo devastante nel 1527 dai lanzichenecchi, e poi, pur essendo sede del Regno della Chiesa, circostanza che le ha permesso diversi momenti di splendore, è rimasta più o meno in quiescenza per secoli. Ha ricominciato a crescere dopo l’Unità d’Italia, superando Napoli, che a sua volta, dopo essere stata per molti secoli tra le quattro maggiori metropoli d’Europa, inizia in quell’anno a declinare come popolazione comunale, pur rimanendo la seconda area metropolitana del paese dopo quella di Milano. Infine, a partire dal censimento del 1921 a oggi, è non solo il comune territorialmente più grande del paese (1285,31 km2 anche dopo la costituzione in comune autonomo di Fiumicino) ma anche il più popoloso, benché sia solo la terza area metropolitana d’Italia. Molte altre città hanno conosciuto andamenti di questo tipo, anche se, in tempi vicini a noi, nonostante guerre, distruzioni, disastri naturali, è raro il caso di città scomparse: anche centri quasi totalmente distrutti durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, come Dresda, Amburgo, Coventry (da cui viene il termine “coventrizzare” per descrivere questo tipo di distruzioni), e sopra ogni altro Hiroshima e Nagasaki, sono stati ricostruiti. Le famose dead cities o ghost towns americane erano in genere piccoli insediamenti minerari che nel tempo si esaurivano, oppure erano collegate ad attività economiche effimere che cambiavano in seguito localizzazione. In Italia ci sono alcuni casi noti come Galeria o Civita di Bagnoregio, la “città morente”, e vari altri borghi, città piccole o medie, ove il declino e lo spopolamento progressivo sembrano preludere alla morte, ma dove sono a volte in atto processi di riuso dell’abitato.

Dai tempi più antichi, abbiamo invece notizie, o importanti tracce, di città “morte”, scomparse nella giungla, nelle acque o nelle sabbie del deserto, oppure interamente distrutte e mai più ricostruite, come quelle che costituiscono oggi importanti mete per milioni di visitatori, che da tutto il mondo arrivano per camminare tra le rovine in un atto che assomiglia più a un pellegrinaggio che a una gita: Pompei, Ercolano, Chichén Itzá, Angkor, Cuzco, Palmira, tra le più famose. Di altre città, come Limi o Luni, distrutta nell’860 d.C., pare per errore, da una spedizione di vichinghi convinti di stare mettendo al sacco Roma, sono rimaste poche tracce, se non nella toponomastica: pochi sanno che Lunigiana prende il nome da quella sfortunata città alla foce del Magra. L’elenco potrebbe essere molto lungo, e ci torneremo: qui ci interessa soprattutto sottolineare che l’andamento ciclico è inerente alla vita delle città e che la sua ragione è a sua volta strettamente dipendente dalla natura del fenomeno urbano. Se la città è un prodotto, occorre non solo che un “produttore” sia presente nel momento della nascita, ma che continui a sostenere il suo prodotto nel tempo: se viene meno questa capacità di sostegno l’artefatto non si regge e prima o poi “muore”. Ma la ciclicità ci dice anche una seconda cosa importante, la città non è un prodotto meccanico che serve a fare una cosa sola, è un sistema vivente estremamente plastico e adattabile: il che significa che, come la sua economia, la composizione sociale della città è in continuo cambiamento, e anche in questo senso la città è di tutti o almeno dei molti che vi si succedono nel tempo. Come dice con grande eleganza Anthony Giddens, la città è uno di quei fenomeni sociali “that have a specious continuity with the past”, la cui apparente continuità, in altre parole, cela avvicendamenti anche radicali. Riprendiamo l’esempio di Roma: alle origini la sua popolazione era latina, poi sono arrivati gli etruschi, poi popolazioni diverse si sono mescolate, secondo la leggenda provenendo fin dal Medio Oriente, mantenendo però anche istituzioni proprie e separate, tanto che si sospetta che la plebe fosse in origine un’etnia diversa; poi nel corso della storia, come in moltissime altre città italiane e di tutto il mondo, si sono succedute popolazioni diverse, che tuttavia si sono mescolate con quelle originarie scambiandosi reciprocamente innumerevoli tratti somatici, culturali, istituzionali ed economici. L’evoluzione sociale di ogni città è soprattutto una storia di sovrapposizioni continue di popolazioni diverse. Come avviene con l’aspetto fisico della città che oggi è il prodotto di successive stratificazioni, alcune evidenti e in superficie, altre sepolte dagli strati successivi, così accade con la città umana o per meglio dire con la società urbana, quasi sempre formata da vari strati che si amalgamano in modo più o meno appariscente. È evidente, ma lo ripetiamo, che la comprensione della natura del fenomeno urbano e quella della sua evoluzione sono strettamente collegate e ci aiutano a interpretare l’urbanizzazione contemporanea, attività intellettuale che richiede in ogni caso particolare attenzione e cautela sia perché l’interpretazione della

contemporaneità va sempre fatta con molta attenzione per evitare le distorsioni di retorica e ideologie sia, infine, perché la velocità delle dinamiche urbane ha assunto oggi ritmi inusitati. Non vi è dubbio che gli anni in cui viviamo siano marcati da mutamenti profondi e che, tra i tanti che vengono scelti per dare un’impronta alla nostra epoca, il massiccio spostamento di popolazione verso le aree urbane e, più in generale, l’insediamento della specie umana sul pianeta, rappresenti un fenomeno di straordinaria entità tanto da costituire, com’è stato detto, “a special moment in history”. La Terza lezione sarà dunque dedicata a capire, tra i molti modelli sinora proposti, quali siano i più adatti a spiegare questi cambiamenti, nonché a descrivere e interpretare le dinamiche che investono le città in tutto il pianeta. Se il trasferimento di milioni di individui dalle periferie ai centri urbani del pianeta può essere raffigurato come un travaso fisico da un recipiente all’altro, la realtà è molto diversa. In un sistema fisico, se si versa l’acqua da una bottiglia a un bicchiere, l’operazione fa solo cambiare la quantità di liquido da un recipiente all’altro, un contenitore si riempie e l’altro si svuota della quantità corrispondente. Le cose non stanno affatto così nel mondo sociale in genere e nell’urbanizzazione in particolare: qui, mentre si verifica un trasferimento di popolazione, tutti gli elementi coinvolti nell’operazione subiscono delle modifiche: cambia la natura del contenitore che cede popolazione, non meno di quello che la riceve. Campagna e città cambiano contemporaneamente, ma cambiano anche per questo medesimo processo le caratteristiche di chi si muove; nel momento stesso in cui si trasferisce dalla campagna alla città, un contadino cessa di essere tale. Soprattutto non esiste la mano – o il meccanismo – che versa: il fenomeno non è il prodotto di un’unica volontà, né di un unico flusso, al contrario è il risultato di un complesso insieme di dinamiche interrelate, ma indipendenti, messe in moto da un numero molto grande di attori individuali e collettivi, ciascuno dei quali persegue propri fini cercando di adattare i suoi intenti a quelli di tutti gli altri, in un complicato sistema di interrelazioni reciproche, il cui prodotto, il più delle volte, sfugge anche alle intenzioni e al controllo degli attori più potenti. La città è un prodotto, ma non è affatto detto che chi la produce sia cosciente di quello che fa, e neppure che si riconosca nel risultato. Cercheremo quindi di individuare le principali di queste dinamiche, di descriverne le caratteristiche, di cogliere in che modo esse interagiscano, tenendo sempre presente, in queste analisi, l’aspetto spaziale dei fenomeni. In ultima istanza, infatti, lo spazio fisico della superficie del pianeta è anche un grande campo d’azione su cui la “muffa” umana si estende senza soste, ricoprendo e anche corrodendo i contenitori offerti dalla natura, non meno di quelli costruiti dalla specie stessa, e riproponendo perennemente, in termini via via diversi da un’epoca all’altra, la

basilare questione del rapporto tra insediamento della specie, disponibilità delle risorse e la capacità di incidere su questa disponibilità con quell’eminente prodotto dell’intelligenza umana che chiamiamo tecnologia, e che dà anche alla nostra specie gli strumenti occorrenti per quella incessante riconfigurazione degli spazi fisici che è appunto la città. Oggi le città sono per tutti. Se si prende la famosa linea 7 della subway (la “metropolitana”) di New York, che va da Times Square, nel centro di Manhattan, al Queens (un altro, come Manhattan, dei cinque boroughs o circoscrizioni della città) si attraversano gli insediamenti di più di cento etnie diverse, ciascuna delle quali con propri colori, odori, sapori, lingue, dialetti e stili di vita, a comporre quello che un grandissimo studioso della città, Robert Ezra Park, fondatore della Scuola di Chicago, chiamò il “mosaico delle città americane”. A New York si parlano ancora trentasei lingue estinte nei paesi di origine la cui sopravvivenza è curata anche da un apposito istituto universitario. Ma non occorre andare tanto lontano: qualsiasi asilo o scuola elementare di Milano è frequentato da bambine e bambini che parlano molte lingue diverse. Contrariamente a quanto è avvenuto, anche in epoche non lontane, oggi non ci sono mura attorno alle città, chiunque può entrarvi e insediarsi, oppure venirci per lavorare, vendere, comperare, fare affari, visitare o semplicemente bighellonare: flâner, si dice con un termine francese, molto usato nella letteratura sulla città. Se ci sono limiti a questa libertà si tratta in genere di limiti imposti dallo stato-nazione in cui è situata quella data città (piuttosto che dalle singole città), come nel caso delle leggi anti-immigrazione. Talvolta questi limiti o confini statuali passano all’interno della città, come nel caso di Gorizia (o Nova Gorica per gli sloveni) dopo la Seconda guerra mondiale, trovatasi a cavallo del confine tra Italia e Iugoslavia, o del Muro di Berlino tra la Repubblica federale tedesca, Brd, Bundesrepublik Deutschland, e la Repubblica democratica tedesca, Ddr, Deutsche Demokratische Republik, che in realtà era solo la porzione berlinese del confine minato che separava i due Stati. Oppure ancora confini come la “Green Line” che ha separato per lungo tempo la Cipro turca da quella greca dividendo Nicosia in due, oppure, infine, il terribile muro che separa i palestinesi dagli israeliani. Ma, in generale, oggi le città sono aperte, e quindi la Sesta lezione sarà dedicata a capire i significati, le conseguenze e i limiti di questa caratteristica. Limiti che riguardano soprattutto le condizioni in cui diversi gruppi sociali vivono l’esistenza urbana: le città sono per tutti, ma non lo sono in modo eguale per tutti. Nel Medioevo europeo, un altro periodo storico durante il quale le città si formarono e fiorirono dopo una lunga fase di pressoché totale scomparsa, in questa parte del mondo, del fenomeno urbano si diceva che “l’aria di città rende liberi” (Stadtluft macht frei). La frase, oggi citata in lungo e in largo, ma non sempre a proposito, aveva un significato tecnico che vedremo, ma più in generale indicava una

caratteristica della vita urbana che ha un valore quasi universale; tuttavia dovremo ragionare sul significato, le conseguenze e i limiti di questa libertà. Infine, nella Quarta lezione, dobbiamo tornare a chiederci se sia davvero possibile adottare un linguaggio semplice e comprensibile per parlare di un oggetto così evidentemente complesso e multiforme. Non si rischia di semplificare eccessivamente e di banalizzare il discorso? Il rischio c’è, ma è molto inferiore a quello, assai più frequente, della retorica corrente di coloro che io chiamo i “bardi urbani”. La città è una realtà così possente e variegata che la tentazione di cantarla o decantarla, più che descriverla e spiegarla, è molto forte; affidate un qualsiasi tema urbano a un intellettuale o letterato e il più delle volte questi si impadronirà della lira come il bardo di Asterix e si metterà a declamare inarrestabilmente. In particolare sul tema se la città sia buona o cattiva, bella o brutta, sicura o insicura, felice o infelice. Tutti temi legittimi, beninteso, ma che dovrebbero venire solo dopo un’accurata descrizione e spiegazione dei fatti e non sostituirla. “Few men think, but all will have opinions”, pochi pensano, ma tutti hanno opinioni, diceva il filosofo Berkeley. Qui si cercherà di stare dalla parte di quelli che pensano e che, in genere, pensano anche, come suggeriva Einstein, che persino le teorie più astruse possano essere spiegate a chiunque. Naturalmente gli esperimenti di fisica che servono a costruire una teoria complessa sono accessibili solo agli specialisti, ma il senso centrale di una teoria può essere comunicato con parole piane. Per provare la famosa legge di Archimede, secondo la quale un corpo galleggia se pesa meno della massa d’acqua che sposta, ci vuole la matematica, ma il concetto, una volta genialmente formulato, è intuitivo. Per spiegare a fondo come strade, linee elettriche e grattacieli debbano essere costruiti e anche come funziona il consiglio comunale, oppure come si devono organizzare le scuole, gli ospedali o gli stadi e i musei di una grande città, occorrono conoscenze e linguaggi tecnici, e solo le culture politiche dei più stupidi populismi pensano che non sia così, tanto da arrivare a paragonare la città a un condominio, ma i problemi fondamentali di tutti questi, e dei mille altri aspetti della complessa realtà urbana, possono essere affrontati in modo comprensibile a tutti. Ci sforzeremo dunque di parlare della città in modo critico e non retorico, cioè badando soprattutto ai fatti consolidati e usando concetti il più possibile chiari e definiti, che ci aiutino a mettere ordine nella immensa mole di dati che riguardano la città, evitando il linguaggio evocativo e immaginifico oggi di moda, che, invece di chiarire, confonde. Ma resta ancora una domanda: che bisogno c’è di un libro sulle città? In fondo, noi umani viviamo sempre più numerosi nei centri urbani, compresi tutti coloro che leggeranno queste pagine, e sappiamo benissimo come muoverci dentro la città e, per alcuni di noi, anche in città molto lontane da quelle in cui abitiamo stabilmente, ma che ci sembrano oggi sempre più simili le une alle

altre. Non c’è bisogno, pensiamo, che qualcuno racconti la realtà che ci circonda e che conosciamo quindi benissimo. Forse, ma forse no. La città, come tutta la società del resto, è una realtà al tempo stesso intima e arcana: non è detto che, essendo immersi nel mare, riusciamo a vedere molto lontano. Chiunque si sia trovato a nuotare in un mare anche solo moderatamente increspato sa benissimo che l’essere immersi non aiuta molto a vedere le cose, neppure una piccola imbarcazione a poche decine di metri. Comunque mi riservo di rispondere meglio a questa domanda nelle conclusioni, che qui non anticipo, anche se le risposte verranno, in realtà, formulate via via in tutto il testo.

Prima lezione Cos’è la città?

Come definire la città A questo punto, in qualsiasi trattato che si rispetti, si dovrebbe procedere a una definizione della città: l’oggetto di questo lavoro. Non solo non lo farò, ma se non temessi di apparire protervo suggerirei anche a chi legge di dimenticare nel modo più radicale tutto ciò che avesse letto o sentito dire in proposito; non per capriccio, ma per una serie di buone ragioni, che ora mi sforzerò di spiegare nel modo più convincente possibile e innanzitutto perché il più delle volte si tratta di definizioni che confondono invece di illuminare. Del resto le ragioni che esporrò, via via, costituiscono il tema centrale del libro: di un lavoro, cioè, che si confronta con un oggetto non solo grande e complesso, ma oggi anche in rapida trasformazione, forzando chi lo studia a concentrarsi, più di quanto avvenga di norma, sugli strumenti di osservazione. Un po’ come avviene quando si vuole fotografare un soggetto in rapido movimento: se le lenti non sono perfettamente a fuoco, l’apertura dell’obiettivo e la velocità dell’esposizione non sono tutte regolate con cura, al momento dello scatto l’immagine risulterà sfuocata al punto da essere poco leggibile e dall’indurre a credere, per esempio, che una pernice appena levatasi in volo sia un Ufo. Dissento, quindi, dalla posizione rigorista, che ogni tanto riaffiora tra i più ingenui metodologi, di chi insiste sulla obbligatorietà di una definizione a ogni costo; nelle scienze sociali non è un punto di vista molto funzionale e, applicato rigidamente, rischierebbe di congelare quasi del tutto il discorso, mentre una definizione messa lì più per rendere omaggio a una supposta regola che per reale utilità pratica, soddisfa solo i ritualisti. È proprio la definizione di “sociologia” a fornire un esempio chiarificatore di questa affermazione: lo studente al quale il manuale elementare spiega che “la sociologia è la scienza della società” si sentirà appagato, senza rendersi conto che in effetti gli si è semplicemente detta la stessa cosa con altre parole, senza farlo avanzare di un millimetro sulla strada della comprensione di cosa sia una “scienza della società”. Occorre, in queste discipline, accettare che si possa parlare di oggetti che sono per loro natura complessi, sfumati e sfuggenti, oltre che altamente dinamici, come un bolo di mercurio su un foglio di carta, e risolvere il problema ineliminabile di ragionare puntando al massimo grado di rigore, senza però irrigidire eccessivamente il discorso, e senza peraltro cadere nella rêverie coltivata da molti autori. Su questo punto ho trovato utile l’agile saggetto dello storico John Lukacs1 che suggerisce di adottare il metodo che seguirò qui, che

non è quello di proporre una definizione sintetica, ma di costruire un quadro di riferimento, discutendo via via alcune caratteristiche salienti dell’oggetto di studio. Del resto, per trarre conforto dalla parola di un genio, che quanto a rigore non era secondo a nessuno, possiamo ricordare cosa scriveva Charles Darwin proprio a proposito della materia centrale della sua opera, la definizione di “specie”. “Nor shall I here discuss the various definitions which have been given of the term species. No one definition has yet satisfied all naturalists; yet every naturalist knows vaguely what he means when he speaks of a species.”2 Prevenendo chi intendesse accusarmi di sciatteria programmata, preciso che non intendo assolutamente dire che le definizioni non siano mai utili, sarebbe una colossale sciocchezza: in molti campi del sapere le definizioni sono assolutamente necessarie, perché servono a impostare un linguaggio assiomatico o formalizzato che regge la restante parte del discorso, quindi è cruciale che tutti coloro che parlano di quell’argomento concordino sul significato esatto del termine. Se dico che la retta è la linea più breve che unisce due punti (nel quadro di una geometria euclidea) poi tutti coloro che operano, intellettualmente o praticamente, in quel campo sanno esattamente che cosa significhi “una retta”, per esempio nella frase “si tracci una retta da A a B”. Ma nelle scienze sociali non si può (per fortuna) raggiungere lo stesso grado di precisione, e quando si tenta di farlo, forzando una definizione su qualche oggetto complesso (lo stato, la famiglia, il mercato, la città, la nazione e via dicendo) nelle prime pagine di un trattato, è facile poi accorgersi che nelle rimanenti parti di quello stesso testo raramente quel termine verrà usato in modo univoco. Alessandro Pizzorno riferisce di come David Easton, in The Political System, avesse notato che un autore nel 1931 era riuscito a catalogare 145 significati diversi del termine “Stato”, traendone la conseguenza dell’inutilità scientifica di questo concetto e suggerendo di sostituirlo con quello di “sistema politico”. Pizzorno fa giustamente notare “che non è invece difficile capire il senso che ha avuto, per una fase del pensiero politico, assumere questo termine [lo Stato] come oggetto definitorio dell’indagine”.3 Ciascuno può divertirsi a contare quanti significati vengano attribuiti al termine “democrazia” nel dibattito politico corrente, ma non ci si illuda che esista un livello specialistico in cui sono presenti gradi di consenso significativamente più ampi. Anzi gli specialisti tendono a essere molto più puntuali nelle definizioni di un oggetto e delle sue componenti e quindi a dibattere a lungo sul significato dei termini usati:4 tutti sappiamo bene cosa sia una seggiola, ma se mettete quattro o cinque bravi designer attorno all’oggetto, vedrete quanto complicate e multiformi possono essere le seggiole. Quindi nelle scienze sociali non è utile imporre una definizione che subirà inevitabilmente tante eccezioni quante ne sono possibili e ancora forse qualcuna di più, anche se non dobbiamo rifiutare meccanicamente le definizioni in ogni caso. Di solito però è invece non solo utile, ma necessario, stabilire criteri

rigorosi per circoscrivere l’oggetto con misure semplici e chiare, intendendosi con questo termine sia quelle metriche (vulgo ‘‘quantitative”) che quelle nonmetriche (vulgo “qualitative”). Fissare criteri condivisibili È sui criteri che dobbiamo concentrare la nostra attenzione, come possiamo dedurre da un episodio che ha a che vedere con la cartografia, materia strettamente apparentata con la rappresentazione dei fenomeni urbani. Verso la fine del XVIII secolo, Don Tomás López, cartografo di corte del re di Spagna, venne chiamato dalla Sua Cattolicissima Maestà che gli ordinò di preparare una carta ufficiale del regno. Il povero Don Tomás precipitò nello sconforto più totale. Si trattava di un’impresa gigantesca, e non ci vuol molto per immaginare che la carica di cartografo non fosse poi così importante nella settecentesca corte di Spagna da assicurare le risorse necessarie per realizzarla. Cosicché lo sfortunato funzionario si preoccupò grandemente per il proprio posto e forse anche per la propria vita, finché gli venne un’idea assolutamente brillante. Qual era l’organizzazione diffusa in modo capillare in tutto il regno di Spagna? La Chiesa cattolica, senza dubbio. Ogni città, paese e sperduto villaggio aveva una chiesa, con il suo curato, el cura; ogni chiesa, ragionava Don Tomás, aveva un campanile dal quale si poteva vedere una buona porzione del territorio circostante. In pratica da ogni campanile se ne vedeva almeno un altro e pertanto, continuava il ragionamento del Señor López, se ogni parroco fosse salito sul campanile e gli avesse inviato una relazione su quel che di lì si poteva vedere, accostando tutti questi punti di vista come in un grande mosaico si sarebbe ricavata la carta dell’intero regno. In preda all’entusiasmo, l’astuto cartografo scrisse a tutti i curati del regno chiedendo a ciascuno di loro di salire sul campanile della propria chiesa e di descrivere quello che vedevano da quell’osservatorio. I parroci aderirono con entusiasmo all’iniziativa, salirono sul campanile della loro chiesa e mandarono diligentemente i loro rapporti a corte. Ben presto l’ufficio del cartografo venne inondato da migliaia di plichi sigillati, e Don Tomás sprizzava di gioia perché l’operazione sembrava aver avuto un successo superiore alle previsioni. Senonché, quando si cominciarono ad aprire i plichi e a esaminare i rapporti, si scoprì che, in mancanza di criteri generali – che il cartografo, preso dalla fretta, aveva trascurato di elaborare e trasmettere, ammesso anche che fosse stato in grado di farlo –, ogni parroco aveva fatto con grande zelo di testa sua. Alcuni avevano inviato dei quadretti, illustrando, spesso con grande maestria, quello che appariva ai loro occhi: riproducendo a colori il paesaggio, con le case, le strade, i fiumi, le terre coltivate, i boschi e persino i singoli alberi, le persone e gli animali nei campi. Altri invece avevano mandato relazioni scritte decantando con roboante retorica le bellezze del proprio villaggio o paese, altri ancora avevano consegnato voluminosi testi scritti, in cui non solo raccontavano quello che avevano visto dal campanile, ma

descrivevano la regione e le sue caratteristiche, spesso con l’aiuto di ingegnose tavole numeriche. Altri ancora avevano effettivamente inviato delle mappe più o meno accurate, ma ognuno le aveva fatte a suo modo: alcune piccole e schematiche, altre grandi e piene di particolari, ma senza un comune orientamento cosicché non si poteva capire se la vista era da nord o da sud, se quel dato corso d’acqua fosse largo pochi metri o mezzo chilometro, se quella montagna fosse una collinetta o un picco altissimo oppure ancora se quella certa croce su un edificio significasse chiesa, cimitero o convento e via dicendo. La storia si conclude tristemente: l’infelice Don Tomás López morì dopo anni di inutile lavoro senza essere riuscito a dare composizione razionale all’inestricabile guazzabuglio. Ma c’è anche un fine lieto: i rapporti dei parroci spagnoli sono stati raccolti ed esposti nel 1980 al Centre Pompidou di Parigi e poi pubblicati in un volume dal titolo Cartes et Figures de la Terre. Questo splendido libro rappresenta la più straordinaria ed eccezionale testimonianza del modo con cui, duecento anni orsono, si guardava al paesaggio, ma ha poco a che fare con la cartografia, scienza curiosamente criticata dai geografi più progressisti, proprio in un momento in cui con la Gis, Geographic Information Science, e i software cartografici come Google Earth, la raffigurazione della superficie terrestre conosce una diffusione esplosiva di massa, unitamente a tutte le numerose applicazioni pratiche che si possono collegare alla geocodificazione. La seconda ragione per cui non è utile partire da una definizione rigida di città è che, in tutto il mondo, il mutamento della forma urbana negli ultimi cinquant’anni è stato così profondo e, se vogliamo usare questo termine, violento, da invalidare ogni definizione di qualche decennio fa. Ma su questo specifico punto torneremo. Per ora ribadiamo che conviene procedere esaminando la città da diversi punti di vista che ci permettano di circoscrivere via via l’oggetto che stiamo trattando, invece di definirlo formalmente. Vediamo come si possa riuscire a fare un discorso rigoroso sulla città senza prima fissare una definizione formale, rigida e poco utile, ma arrivando a comporre una sua immagine sistematica, anziché proporla meccanicamente. Ci proveremo stabilendo, passo dopo passo, dei principi o punti di vista che ci sembrano condivisibili e costruendo in tal modo, mattone dopo mattone, per così dire, un contorno ideale dell’idea di città all’inizio del XXI secolo. La città è un artefatto Sotto molti punti di vista, la città è un fenomeno intrigante: è là, esplicita e spudorata, tanto che ogni essere umano la riconosce d’acchito; fiumi d’inchiostro sono stati tuttavia usati nella ricerca di una definizione generalmente condivisibile.5 La città è indubbiamente il prodotto e la sede delle espressioni più avanzate della civilizzazione umana, ma allo stesso tempo viene

temuta e odiata come ambiente artificiale e corruttore dell’umanità. È il manufatto protettivo più importante contro le avversità della natura, per gli esseri umani che la abitano, ma viene anche descritta come l’ambiente più malsano in cui vivere: “la malaria urbana”.6 Queste antinomie sono antiche quanto la città stessa e non sono facilmente risolvibili, poiché esprimono la nostra perenne contraddizione di fronte alla società in cui viviamo. Come la società umana in generale, di cui è oggi la più grande parte, per tutti coloro che vi sono incastonati, la città è allo stesso tempo intima e arcana e non si svela spontaneamente: in ogni era, i molteplici strati della sua complessa realtà rimangono in gran parte nascosti alla più parte dei soggetti che la abitano o la studiano. Ma queste opposte visioni della città sono valutative e prima facie non dovrebbero incidere sul fatto che la città è là, si vede, è fatta di edifici, strade, monumenti, persone e veicoli che si muovono. Tuttavia l’immagine banale e largamente diffusa della città turrita di grattacieli e formicolante di mobilità del XX e XXI secolo è ingannevole, colpisce i nostri occhi e la nostra fantasia; ma senza uno sforzo aggiuntivo di carattere intellettuale, condotto con molta attenzione, la bella città di pietra davanti a noi rischia di trasformarsi in un miraggio che imprigiona l’analisi dentro le maglie dei luoghi comuni che irretiscono lo studioso disattento, facile preda del “demone dell’analogia”.7 E per questo dobbiamo percorrere con la cautela del montanaro lo stretto sentiero dell’analisi urbana. L’ambivalenza urbana La città è senza dubbio un oggetto inerentemente ambivalente e persino ambiguo, e perciò ingannevole per chi pretende analisi troppo spicce, ma questa sua ambivalenza non è un fatto metafisico perché ha radici piuttosto concrete, che possono essere esplorate analiticamente. Innanzitutto lo è perché è un oggetto grande e complesso, e dunque le sue diverse componenti sono difficili da sintetizzare, ma, e soprattutto, perché di fatto in ogni città e nell’idea generale di città, esistono due piani interrelati strettamente interconnessi. Uno è quello della “città visibile” – meglio ancora “osservabile” – familiare a ogni abitante in ogni epoca (“eist enpolin”, “Là è la città”, come secondo la leggenda diceva il villico ellespontino al viandante, indicando Bisanzio e usando l’espressione da cui sarebbe nato poi il nome della città di Istanbul). Se mostriamo a non importa chi l’immagine di una città qualsiasi, essa verrà immediatamente riconosciuta in quanto tale, nonostante le forme e le tipologie urbane siano numerosissime. Esiste però un’altra città che non può essere osservata, almeno non per mezzo di una qualsivoglia lunghezza d’onda fisica, ed è la società urbana, e cioè la città oggetto dell’indagine sociologica, che non solo è reale quanto quella visibile, ma è al tempo stesso artefice e artefatto di quella visibile, con la quale dunque costituisce un insieme inestricabile, talché le componenti materiali e immateriali del fenomeno urbano diventano tutte

ugualmente importanti. Non tutte le società producono città, quindi si pone il problema di capire, nei limiti del possibile, a quali condizioni una società umana produca città. Si è anche sostenuto, per esempio da parte di Ed Soja,8 che la città sia il prodotto, per così dire inevitabile o quanto meno necessitato, della società umana, risultato di un fattore profondo che sarebbe la spinta degli umani ad abitare assieme, cioè il “sinecismo”, da συνοικεῖν. Ma non vi è evidenza storica che sostenga questa affermazione: il “sinecismo”, che è senza dubbio un aspetto della caratteristica propensione alla socialità della specie umana (per esempio, a differenza di molte specie feline), non si traduce necessariamente in forma urbana. Lo possiamo constatare nei numerosi casi in cui grandi civiltà urbane declinano o scompaiono (pensiamo al caso ben documentato della civiltà micenea) e i centri principali sono sostituiti dai villaggi (damai) che spesso sono anche gli stessi che preesistevano allo sviluppo della città palaziale: il sinecismo non viene meno, ma si manifesta in forme diverse ed è appunto l’individuazione dei fattori che determinano l’una o l’altra delle diverse forme insediative che ci aiuta a capire quali siano le componenti specifiche dello stare assieme in città, falsificando l’ipotesi meccanica di un generico e generalizzato synoikein come elemento costitutivo della città. È vero che la specie umana è una specie sociale, zoón politikón, anzi, come dice Walter G. Runciman,9 un animale molto sociale, polipolitikón. Una specie composta di individui con un grande cervello10 che sono portati a interagire intensamente con altri individui con un grande cervello, dando luogo a una ricca produzione simbolica.11 Ma questa spinta strutturale verso la socialità, questa caratteristica innata, non si traduce meccanicamente in forma urbana, né lungo la storia della specie, né oggigiorno, in un “mondo di città”, in cui tuttavia ancora una larga parte della specie umana vive allo stato nomadico, o tribale, o in piccoli insediamenti abitati da contadini, quando non in abitazioni sparse di independent farmers familiari, se non in altre forme di economia pre o protoneolitica di raccolta, caccia, pesca o rudimentale orticultura. Poiché la civiltà urbana è oggi dominante, si è persino persa la cognizione di come apparisse e come potesse funzionare una grande società nomadica come quella dei tartari o mongoli, ma se leggiamo l’affascinante Itinerarium, o Viaggio in Mongolia, del francescano fiammingo Guglielmo di Rubruck, 1252-1255,12 veniamo subito colpiti da alcune particolarità. Intanto il viaggio di un monaco che pacificamente si muove nel cuore di quello che allora era considerato il popolo più feroce della terra, senza testimonianza di episodi di cannibalismo o delle altre efferatezze che si attribuivano allora ai nomadi mongoli. Probabilmente anche a causa dell’estraneità linguistica; in Europa e anche nel mondo mediorientale, nonostante la molteplicità delle parlate, ci si poteva comprendere con il latino (o il greco), ma i mongoli sono all’esterno di questa koinè linguistica. La cosa che più colpisce, tuttavia, è la vastità del territorio che

in parte è letteralmente disabitato (non deserto), per ragioni naturali (ci sono città insediate in luoghi anche più aspri del centro Asia) ma soprattutto perché l’economia nomadica fa sì che dopo il passaggio dell’orda nomade non rimangano tracce stabili (built up areas). Frate Guglielmo ha osservato abitazioni (yurte, di legno e feltri colorati, dove ancor oggi vive la metà della pur urbanizzata Mongolia) della dimensione di parecchi metri di diametro che si muovevano trasportate su un carro. E le abitazioni più ricche erano corredate da armadi fissati su alti carri in modo da non essere bagnati durante i guadi: Guglielmo vide yurte attorniate da centinaia di questi carri. Ma per chi, come gli occidentali, è convinto che la politicità (o la socialità) sia necessariamente dipendente dalla propinquità, l’aspetto più interessante del racconto è che, per partecipare alle assemblee importanti, i capi tribù periferici abbandonano con tutta la propria orda13 anche vasti e lontanissimi territori conquistati in passato; per esempio, Batu Khan, per partecipare al Kuriltai (assemblea dei capi) susseguente alla morte di Ogudai, nel 1241, abbandonò l’Albania e ripercorse a ritroso tutta la Bulgaria; naturalmente mettendo a ferro e fuoco tutte le città incontrate sulla via, non diversamente, peraltro, da come usava fare qualsiasi esercito europeo di quelle ere. A sud di Port Sudan si stende un’ampia regione semidesertica centrata sull’antica città di Suakin, per molto tempo una città morta dopo essere stata per lunghi secoli uno snodo importante delle carovane dirette alla Mecca e a Medina. Se la percorrete in auto sembra spopolata, ma se vi fermate e salite sul tetto dell’auto o su una qualsiasi piccola elevazione vi rendete subito conto che vi trovate in mezzo a una vasta ramificazione di sentieri percorsi da figure colorate, soprattutto, ma non solo, donne con i loro figli e carichi vari. Fanno parte delle tribù Beja, nomadi allevatori di cammelli, parzialmente sedentarizzati in villaggi che si vedono qui e là. Il supposto deserto si rivela un’area brulicante di persone che viaggiano incessantemente da una parte all’altra. Non è ovviamente la metropoli di Simmel né la “fourmillante cité” di Baudelaire, ma è un’area popolata e popolosa. Quindi, sia nel lungo passato che nel vasto presente, il sinecismo urbano è solo una delle varie forme insediative possibili, il che pone inevitabilmente il problema di stabilire quale forma di società, tra le molte possibili e storicamente esistite, abbia le caratteristiche e le capacità per costruire delle città. Fatticcio e faticio: oggetti ed emozioni del feitiço urbano14 Possiamo far rientrare le spiegazioni della specificità urbana nella più ampia famiglia delle spiegazioni delle caratteristiche sociali in base al contesto geografico e quindi parte dell’antico dilemma di “nature or nurture”. La costruzione delle città apparve subito come un prodotto mirabile e gli abitanti delle città fin dalle più lontane origini si ritennero, con buone ragioni, superiori alle popolazioni che li circondavano. Mario Liverani ci riferisce delle Sapienze di Shuruppat del II-III periodo protodinastico (grossomodo collocabile, sempre

secondo Liverani, attorno alla metà del III millennio a.C.: “Nomadi e montanari / Che non mangiano grano come gli uomini / Che non costruiscono case come gli uomini, / che non costruiscono / città come gli uomini…”.15 Si noti il riferimento al grano, che conferma quanto sia antica la coscienza dell’associazione tra agricoltura cerealicola, prodotto del Neolitico, e il sostentamento delle città. È interessante notare, di passata, che questa associazione rimane ben ferma anche nella cultura greca, di molto posteriore. Quando Ulisse scappa da Polifemo lo dileggia gridandogli “voi non conoscete l’agorá, voi non mangiate il pane”. Ma anche in Platone troviamo l’idea che la collocazione geografica di una città ne influenza i costumi: Platone pensava che le città di mare fossero corrotte e quelle di montagna no: come previsione sui rapporti tra Filippo e Alessandro e il mondo delle poleis, non è da poco. Ma, com’è noto, è solo con l’ampliamento dei mercati mondiali e con i primi rendiconti sistematici di altre culture che si aggiungevano ai rendiconti mitologici come quelli dei poemi omerici, oppure alle memorie e osservazioni di occasionali viaggiatori come Marco Polo, che a partire dal Padre Lafitau nasce l’interesse nel trovare delle spiegazioni contestuali (con speciale riguardo al clima) alle diverse culture che si venivano via via conoscendo e sottomettendo da parte dei colonizzatori europei. Gli studiosi della Encyclopédie raccolsero aneddoticamente, mescolando miti, rapporti di viaggio e immaginari più vari, una grande quantità di materiale, ma occorre arrivare a Friedrich Ratzel e alla sua Antropogeografia per avere una prima presentazione sistematica di quello che sarà chiamato poi “environmental determinism”, che è parte del pensiero positivista e per il marxismo è stato sviluppato da Georgij Plechanov.16 Molti dei topoi che ancora dominano il campo su “clima e società” sono da far risalire a questi autori, ma più ancora a un’idea meccanica di rapporto tra contesto e società, di cui il contesto urbano è un’importante sottospecie. Ovviamente, lo spazio urbano, essendo costruito (fatto, prodotto, feitiço), è diverso da quello naturale, anzi può in un certo senso essere concepito come una vera e propria “anti-natura”. Così è stato per millenni e continua a esserlo anche oggi. Lo spazio urbano è anti-natura innanzitutto nel senso che serve a difenderci (anche se non in tutti i casi) da quella che la limpidezza del linguaggio comune chiama “la forza degli elementi”, facendo sì che possiamo avere “un tetto sulla testa”. Ma è anche anti-natura nel senso che fornisce un ambiente “intenzionato”, cioè costruito al fine di influenzare determinati comportamenti: templi, luoghi sacri, piazze, mura, abitazioni, vie hanno funzioni diverse e vengono progettati e realizzati a questi fini. Ma questi fini si ottengono anche mediante adattamenti comportamentali e normativi: abitudini, riti, sacralità, pratiche e tabù, emozioni. La Zweckrationalität (razionalità rispetto allo scopo) del costruttore di città non è mai slegata dalla

Wertrationalität (razionalità rispetto ai valori, a cominciare da quelli estetici). E dall’insieme di queste pratiche e simbolismi nasce l’idea di una cultura e anche di una personalità specifica plasmate dall’ambiente urbano. Ma c’è anche una lettura implicita, spesso nascosta dal ragionamento più evidente e “popolare” del rapporto tra città e società, che si può cogliere solo facendo riferimento alla circolarità (structuration) dell’interazione sociale con l’ambiente costruito. Possiamo illustrare al meglio questo concetto facendo riferimento alla universalmente nota opera di Georg Simmel sulla psicologia, o più in generale, sulla vita dello spirito dell’abitante della città (Die Großstädte und das Geistesleben). Lo scopo principale dell’analisi di Simmel è la descrizione delle caratteristiche della psicologia del cittadino, sia per quanto riguarda la psicologia individuale, che egli definisce sinteticamente con il termine, poi divenuto famoso, di atteggiamento “blasé” (Blaisertheit, blasé attitude),17 sia per quanto riguarda la manifestazione sociale di questo tratto psicologico che secondo Simmel si traduce in un atteggiamento di riservatezza (Reserviertheit). Le cause di questi atteggiamenti risiedono in due ordini di fattori – l’uno, diciamo così, di tipo fisico, connesso cioè alle caratteristiche ambientali di dimensione, densità ed eterogeneità dell’insediamento urbano, e l’altro, di tipo culturale, derivante dall’economia monetaria su cui si fonda la città. Nella vulgata su Simmel il percorso di natura deterministica ha prevalso in modo quasi esclusivo, mettendo in ombra l’altro tipo di spiegazione. Senza entrare nell’analisi delle opere di Simmel, che do per ampiamente note, mi limito a rammentare che la prima interpretazione ricollega la densità (carattere spaziale fisico) con la frequenza e la brevità delle interazioni sociali (carattere temporale formale) e da questa particolarità fa derivare l’atteggiamento blasé (carattere mentale). Questa lettura offre una spiegazione di natura psicofisiologica, che fa risalire gli atteggiamenti o le caratteristiche mentali a condizioni materiali di contesto, spiegazione che, da un lato, si ricollega alle tradizioni dell’Antropogeografia,18 e dall’altro è stata variamente ripresa in seguito, in alcune teorie ecologiche quali gli studi di Edward Hall, inventore della “prossemica” sul rapporto tra densità e aggressività e i lavori di divulgazione scientifica di Robert Ardrey sull’“imperativo territoriale”.19 A questo percorso è però possibile contrapporre un diverso circuito esplicativo che ricollega la densità e gli aspetti formali dell’interazione alla divisione sociale del lavoro (una caratteristica sociologica), che è al tempo stesso causa e prodotto della densità di popolazione. Nel senso che precondizione della concentrazione di popolazione è lo sviluppo di formazioni sociali basate su un tipo di divisione del lavoro che permetta a una parte della popolazione di essere liberata da compiti strettamente produttivi nei settori primari. Ma al tempo stesso un ulteriore affinamento della divisione del lavoro (e anche una sua esasperazione: il quatorzième citato da Simmel) è a sua volta il prodotto di un contesto a elevata densità ed eterogeneità sociale. Questo secondo percorso sottolinea gli aspetti

culturali, più che quelli psicofisici, della Geistesleben metropolitana e riprende il modello interattivo tipico della concezione giddensiana di strutturazione, che a sua volta può essere ricondotto all’idea durkheimiana di fatto sociale e al concetto di morfologia sociale. Si tratta dunque di un modello esplicativo più genuinamente sociologico in cui le dinamiche psicofisiche giocano come variabile interveniente. Causalità e progetto Se accettiamo questa ampia premessa, che mi pare obbligata fino a quando non mi venga presentata una solida argomentazione contraria, la prossima domanda riguarda la natura specifica di questo prodotto, rispetto ad altri grandi ingombri dinamici della superficie terrestre. La città, abbiamo detto, è indubitabilmente un artefatto, un prodotto: il più grande prodotto della specie umana, ma quale tipo di prodotto è, e con quali categorie possiamo distinguerla da altri sistemi complessi e studiarne il funzionamento? In un breve saggio sulla produzione di organismi mutanti, il biologo Glauco Tocchini Valentini fornisce un’interessante spiegazione che chiarisce la differenza tra “un sistema vivente complesso”, sia esso un batterio o un umano, e altri sistemi complessi che esistono in natura. “Soltanto gli organismi viventi hanno la caratteristica essenziale di possedere una descrizione o un progetto interno. Questa è la differenza tra organismi e ambiente. Per esempio, il tempo atmosferico è un sistema complesso che può essere descritto dalle leggi della fisica, e queste leggi ci permettono di fare previsioni sull’evoluzione del sistema. Ma in nessun luogo, all’interno del sistema meteorologico, come per esempio in un uragano, si riuscirà a trovare il suo ‘progetto’.”20 Un uragano si forma in presenza di certe condizioni atmosferiche di temperatura e umidità dell’aria, temperatura e salinità dell’acqua, venti e correnti connesse ai movimenti di Coriolis, si sviluppa in conseguenza del mutarsi combinato di queste condizioni e si sposta lungo certe direttrici aumentando o diminuendo di intensità al variare dei numerosi fattori implicati. La sua formazione, il suo sviluppo e il suo percorso possono essere modellizzati in base alle conoscenze sempre più precise fornite dalla fisica, dalla chimica, dalla dinamica dei fluidi con l’aiuto di modelli matematici sempre più sofisticati e di strumenti di calcolo sempre più potenti. Unitamente all’archiviazione di tutti i dati relativi alle precedenti previsioni, possiamo seguire l’evoluzione di un uragano e fornire alle popolazioni minacciate indicazioni sempre più affidabili: ma chi si ponesse lo scopo di cercare, sulle onde del Mar dei Sargassi o nelle correnti delle Isole di Capo Verde dove si è levata la prima brezza che poi devasterà New Orleans con il nome di Katrina, un qualche manoscritto, o un chip, oppure un grappolo di molecole contenente la futura storia di Katrina, o di altri similmente devastanti eventi, perderebbe invano il suo tempo.

Diverso è il caso di organismi vegetali o animali, poco importa: ciascuno di questi organismi individuali, semplici come un’ameba o complessi come un essere umano, possiede un documento originario in cui sono descritti in modo estremamente particolareggiato il processo di costruzione dell’organismo individuale e il prodotto finale, al punto da stabilire se l’organismo avrà o meno tutte le caratteristiche necessarie per farlo funzionare, oppure se nel procedimento della sua produzione si sono verificati errori più o meno grandi (mutazioni) nel complesso sistema di geni e cromosomi che compongono il genoma umano, da indurre diversità più o meno consistenti. Il dettaglio è puntuale fino alla minuzia e comprende il colore della pelle, dei capelli, degli occhi, giù giù fino alla più microscopica verruca sul mento o altrove, ma il prodotto non è mai una replica esatta o meccanica del modello contenuto nel Dna originario: il nuovo organismo individuale, cioè, non è una formella prodotta da uno stampo, un “clone” come si dice alquanto imprecisamente, ma il prodotto di un processo di replica che suscita la meraviglia per la sua precisione, ma che ciononostante contiene delle imprecisioni imprevedibili che non troviamo, per esempio, nell’attività di un robot, cioè uno strumento meccanico, che produce gli chassis sulla linea di montaggio di un’industria automobilistica. E questa variabilità può condurre alle mostruosità “inspiegabili” di tremende malattie come la distrofia di Duchenne, originata da una minuscola imprecisione nel Dna, con effetti intollerabilmente crudeli su uno ogni 3500 bambini di sesso maschile,21 ma è anche fonte della diversità biologica che permette la sostenibilità della specie, e anche dell’intera biosfera. Le città sono entità complesse che concorrono con gli altri macro-oggetti a ingombrare la superficie del pianeta (e oltre) e possono essere classificate al tempo stesso come sistemi (non però organismi) viventi e grandi sistemi fisici, ma meglio ancora come una terza forma che compartecipa, benché non in modo meccanico, dell’uno e dell’altro tipo di sistema complesso esistente in natura. Nessuna città ha al suo interno un Dna che descriva in modo riflessivo – cioè con un controllo continuo con il progetto – il suo futuro sviluppo, sebbene alcune città, al tempo della loro fondazione, siano state progettate e alcune (poche) si sviluppino secondo un “piano”. Né l’evoluzione di alcuna città può essere descritta da leggi strettamente fisiche, sebbene esistano limitazioni strutturali che anche gli insediamenti più spontanei sono costretti ad accettare: nel senso banale che ci vuole un tetto per ripararsi dalla pioggia e che il tetto deve poggiare su qualche cosa. Tuttavia, come abbiamo visto, la città è meglio rappresentabile come un feticcio, un feitiço, come spiega molto bene Bruno Latour,22 un oggetto fatto da un soggetto umano con una buona parte di intenzionalità, ma anche con una buona dose di spontaneità e casualità e, soprattutto, un oggetto che a sua volta produce effetti. Un altro punto fermo sul quale possiamo basarci per costruire una

comprensione del fenomeno urbano è che la città è fatta di due insiemi di fenomeni: se vogliamo usare un termine assai di moda, due “strati” o “layers” strettamente interconnessi in modo rizomatico (imbricated); quindi per comprendere, prevedere, e in certa misura influenzare i cambiamenti che interessano le città, dobbiamo usare due tipi di “lenti”. La prima lente è nei nostri stessi occhi, fa riferimento al nostro sistema percettivo fisico-mentale ed è quindi rivolta a un’entità “osservabile”, ma anche misurabile in vario modo: per esempio da un “drone”, cioè una macchina che sorvola una città e prende decisioni comportamentali (fotografare, lanciare un razzo, seguire un oggetto) in conseguenza delle “osservazioni” o misure fisiche rilevate. La seconda “lente” sta nella nostra mente e può essere usata solo con l’aiuto di parole che esprimono dei concetti: l’entità che viene rappresentata non può essere “vista” o “osservata” da alcun drone, anche se quest’ultimo può osservarne le tracce, con non infrequenti errori catastrofici, che sono una prova drammatica delle difficoltà che si incontrano a passare dall’uno all’altro strato (layer). La retorica e il demone dell’analogia È forse per questa difficoltà, unitamente all’innegabile fascinazione che le dimensioni dell’oggetto e della sua estensione planetaria provocano in ciascuno di noi, che gli intellettuali paiono subire una particolare sovrastimolazione quando si mettono a parlare della città: le parole sembrano non bastare mai, le metafore e gli aggettivi zampillano e fluiscono irrefrenabili, soprattutto in quelli che io chiamo “bardi urbani”; mi ricordano infatti Assurancetourix, il bardo dell’immaginario villaggio gallico in Armorica inventato da René Goscinny e Albert Uderzo, che, quando cominciava a cantare, non poteva più essere zittito. In realtà, per capire la città come fenomeno sociale non abbiamo per nulla bisogno di cantori, anche se ce ne sono alcuni, pochissimi, come Paul Virilio, che strappano l’applauso anche ai critici, ma unicamente perché hanno idee e non solo opinioni o parole, e comunque perché il virtuoso tocca sempre l’animo, come quando suona una intera danza tzigana su una sola corda di violino. Invece il simil-Virilio (e purtroppo sono la stragrande maggioranza) assomiglia solo a quegli zigani virtuosi che si vedono in qualche splendido film che di colpo si mettono a suonare il Concerto per violino e orchestra in Re maggiore, Op. 61 di Beethoven, con l’orchestra della Scala. Intendiamoci bene: cantori, romanzieri e narratori, fotografi, pittori, cineasti e poeti sono benvenuti, perché la città è un oggetto potente e prepotente, e non c’è fine alle bellissime cose che se ne possono dire, cantare o rappresentare – anche se sulle immagini (fotografie urbane, video, film, quadretti di pittori da strada, graffiti, e così via) e sulla loro ripetitiva capacità di suggestione perversa ci sarebbe molto da dire23 – ma, appunto, si lasci questa narrazione ai veri poeti. Lo ripeto, ad abundantiam, perché non vorrei essere frainteso: gli autentici cantori della città – che ci hanno dato la Parigi amena di René Clair, la New York tenebrosa di

Mike Hammer, la Los Angeles folle e feroce di Ellroy o la Berlino angosciosa di Fritz Lang e le cupe città mitteleuropee dell’espressionismo, la snervante Burma coloniale di Orwell, l’inquietante metropoli egiziana di Durrell, oppure la grande Babylon del clandestino di Manu Chao e la vibrante Milano del futurismo e dell’iconografia filmica su questa città (senza tralasciare l’inevitabile Calvino) e via dicendo, per citare solo alcuni di un lunghissimo elenco – non solo sono da ammirare, ma per lo scienziato sociale e il pubblico in generale sono amici benevolenti che con le loro intuizioni hanno enormemente arricchito le esperienze intellettuali ed emotive di generazioni. Il compito dello studioso è però un altro: non quello di evocare, ma di descrivere e spiegare; non quello di confondere e stupire (to awe), ma di chiarire; il lettore non va ipnotizzato, ma reso partecipe di un comune processo di comprensione, con parole e concetti chiari e argomentati, accessibili ai più, e praticabili da chiunque accetti queste regole. Certo, la tentazione è forte, perché di fronte a un oggetto così potente e complesso, tutti sentiamo il bisogno di allentare le briglie o di trovare il modo di catturare con una sola parola magica le tracce di “qualche disturbata divinità”, ma è una tentazione cui occorre resistere e, nei limiti in cui si deve comunque sacrificare alla comunicazione, le briglie vanno tenute ben strette e la confusione va eliminata e criticata, come si fa in qualsiasi disciplina. Il meteorologo fa il suo mestiere e non cerca di riscrivere, male, Cime tempestose quando parla degli uragani: a ciascuno, verrebbe fatto di dire, il suo mestiere. Io cerco di fare il mio sforzandomi di capire the reasons why,24 e di liberarmi degli idola fori particolarmente numerosi in questo campo. “Vaste programme” mi ha canzonato, per questo, il geografo Franco Farinelli, che notoriamente conosce molto bene la materia, ma io non pretendo certo di “nous délivrer des cons”, che sarebbe oltretutto atteggiamento inutilmente borioso, ma solo di contrastare alcuni dei topoi più diffusi e nocivi, per dimostrare la loro inutilità (e anche dannosità) ai fini della migliore comprensione del fenomeno urbano. Con ciò penso di fare né più né meno di quel che tocca a ogni studioso, cioè di mettere in luce le ambiguità del reale e le aporie di chi si avventura su questo terreno armato soltanto delle idee acquisite o della voglia di far colpo sul pubblico. Torneremo più avanti su questo compito mai finito perché la realtà sociale è per sua natura complessa e ambigua e non può essere ridotta a semplicità e chiarezza una volta per tutte; la città partecipa massicciamente di questa più generale ambiguità, o ambivalenza che dir si voglia e, più in generale, concordo di tutto cuore con chi ritiene che oggi nel nostro paese la riconquista faticosa di un minimo di proprietà del linguaggio, in tutti i campi, sia una preoccupazione primaria di cultura civica. Due diverse lenti di osservazione Per questo dobbiamo essere molto cauti nel maneggiare concetti e parole per

descrivere o spiegare la città mettendo in relazione ciò che vediamo con ciò che immaginiamo o pensiamo. Tutto questo risulta ancora più vero per quanto riguarda la città sociale, oggetto dell’indagine sociologica, che si trova “dietro” (sopra, sotto, avanti nel tempo, within, entro) quella fisica, ma è con questa strettamente intrecciata (imbricated). Per osservare correttamente la società urbana, come la società in generale, l’obiettivo, o lente, intellettuale cui dobbiamo fare ricorso deve essere capace di rilevare e interpretare correttamente (Verstehende) simboli, norme e comportamenti simbolici o espressivi.25 In più, nell’analisi urbana, tutti questi segni, o indicatori che dir si voglia, vanno riportati correttamente sul piano della morfologia fisica. Il problema principale di questo tipo di operazione sta nella circostanza che non tutte le componenti della società hanno un diretto ed eguale riflesso spaziale; se facciamo riferimento ai tre canoni fondamentali dell’osservazione degli umani (Chi sei? Cosa fai? Cosa pensi?) il secondo, cioè il comportamento, ha un rapporto molto stretto con lo spazio, i problemi relativi stanno tutti nelle procedure osservative, soprattutto oggi che gli individui hanno acquisito in media una forte mobilità, ma questa rimane l’area con meno problemi teorici, dal punto di vista della rappresentazione spaziale dei fatti sociali. All’opposto, il terzo, che riguarda valori e atteggiamenti, non ha in sé alcuna rilevanza spaziale: per rapportare questi aspetti simbolici allo spazio occorre costruire schemi teorico-pratici di traduzione alquanto sofisticati. Infine il primo, che riguarda le caratteristiche sociologiche (sesso, età, status, e via dicendo) ha normalmente delle “proiezioni spaziali” osservabili, ma non in modo così diretto, come pretende, sin dagli inizi, l’ecologia umana, che si dedica espressamente alla ‘‘colorazione” sociologica degli spazi urbani, operazione oggi resa ancor più complicata dalla sovrapposizione di popolazioni mobili con quelle stabilmente insediate. Queste poche osservazioni per segnalare in sintesi i diversi problemi che nascono dal dover lavorare contemporaneamente con lo strato sociale e con quello fisico. Le scienze sociali urbane contribuiscono alla comprensione dei fenomeni non direttamente osservabili e permettono quindi di portare alla luce le caratteristiche della società urbana, che sono nascoste (o non immediatamente visibili, o latenti, che dir si voglia).26 Tuttavia, negli ultimi trent’anni, i cambiamenti avvenuti hanno coinvolto (e sconvolto) l’essenza profonda delle relazioni tra fenomeni sociali e fisici, introducendo innovazioni radicali nelle interazioni spazio-temporali fra esseri umani, e fra umani e macchine. Il confine tra l’evocativo e il descrittivo è sottile, ed essendo la città un artefatto, cioè un feitiço (un prodotto, i traduttori di Latour scrivono fatticcio), come avverte Bruno Latour, dobbiamo accettare il fatto che il feticcio urbano, il “prodotto città” sia sovraccarico di significati, che si riflettono sulla nostra percezione, consapevolmente o meno. Possiamo paragonare fin che vogliamo i grattacieli di Wall Street alle fessure del Grand Canyon, ma le due realtà, per quanto

egualmente imponenti e mozzafiato, non sono la stessa cosa e non provocano le medesime emozioni, non fosse altro che per un fatto banale: da un anfratto buio di Wall Street ti può balzare addosso un grassatore, e non il puma o il grizzly che potrebbe assaltarti nella notte sulle sponde del fiume Colorado.27 Diversamente dalle bellezze della natura, però, le bellezze della città, pur giocando in egual modo (almeno in parte) sulle sensibilità percettive legate ai frattali, sono opera di qualcuno, contengono codici e messaggi che ci sono in larga parte familiari, ma la cui interpretazione, come quella della decodificazione di ogni azione umana individuale o collettiva, comporta innumerevoli rischi di fraintendimento. Il rischio di confondere il fait-tish, il prodotto fattuale, con il fée-tish, l’aspetto fatato e magico e in ogni caso soggettivo, del suo significato culturale, è molto rilevante e, in più di un senso, connaturato nelle analisi urbane.28 Protocolli di traduzione nei due sensi Possiamo risalire da una data forma urbana a una data società? Con i limiti delle cautele richiamate e delle immanenti possibilità di errore, si può rispondere di sì con sufficiente sicurezza. Abbiamo una lunga esperienza in proposito: archeologi come Mario Liverani (Uruk la prima città), classicisti come Mogens Herman Hansen (Polis: An Introduction to the Ancient Greek City State, ma soprattutto il monumentale A Comparative Study of Thirty CityState Cultures. An Investigation Conducted by the CPC), architetti e storici dell’arte come Arnold Hauser (Storia sociale dell’arte) o Ernst Gombrich (The Story of Art, 1950 e successive) e molti altri competenti specialisti sanno operare questa traduzione con una perizia accumulata in anni di critica sociale dell’architettura. La decodificazione del fait-tish è oggetto di molte discipline, a cominciare appunto dall’archeologia, che ci ha dato in questo campo risultati entusiasmanti per la comprensione del fenomeno urbano in un tempo lontano: l’importanza dell’archeologia e di altre discipline che studiano le tracce materiali degli insediamenti umani, dalle pietre alle sementi e alle ossa, conferma la straordinaria resistenza di queste tracce e anche l’immensa perizia di chi da questi segni duraturi deve ricostruire i profili dell’effimero culturale, e ribadisce ai nostri occhi il peso determinante della materialità che sostiene la città.29 Certo, si tratta spesso di ricostruzioni controverse, che lasciano ampi tratti di mistero e sono diverse per ogni città, dovendo per ogni città ripercorrere il difficile cammino della traduzione dalle forme ai fatti storici, usando metodi di approssimazione come lo shotgun method proposto da Hansen.30 Così Andrea Carandini dallo studio annoso delle rovine romane trae un’interessante ipotesi (peraltro non condivisa da tutti gli storici romani) sulla successione tra le dinastie etniche e quelle propriamente romane.31 Le controversie in questo campo, come in altri del resto, sono normali e

salutari perché servono a correggere il tiro di ipotesi troppo fantasiose, inevitabili in protocolli di scambio così complessi. Infatti, e non ci si stancherà mai di ripeterlo, il confine tra i due livelli, quello immateriale del soggetto che produce e quello fisico dell’oggetto prodotto, non è neppur lontanamente nitido e netto, anche alla scala sovramolecolare, come quello che passa in una lamella bimetallica tra i due componenti, ma è piuttosto simile a quello che troviamo tra le radici e la terra in cui sono penetrate. È per questo che, pur rimanendo incontestabile il buon livello di conoscenze accumulate dai saperi che si occupano di dedurre i fatti storici dalle forme osservabili ora, il quadro è ben lontano dall’essere completato in modo esaustivo. Per questo penso sia più appropriato parlare a proposito della città osservabile, di prodotto, o artefatto, o feticcio (feitiço), tutti termini che implicano un certo livello di imprecisione e di pluralità, piuttosto che di “opera d’arte” come fa Marco Romano, uno studioso che ha dedicato gran parte della sua produzione recente a indagare i rapporti tra società e architettura, in particolare traducendo in linguaggio architettonico le teorie sulla città occidentale di Max Weber; anche inavvertitamente, il termine “opera d’arte” implica un’intenzionalità del soggetto e una coerenza tra intenzionalità e prodotto o artefatto che non è propria della città.32 Tra le opere di Michelangelo e il suo autore intercorre una coerenza degli intenti e dei mezzi impiegati per raggiungere l’effetto voluto che non è ritrovabile nella New York di Richard Moses, per citare uno dei più potenti demiurghi costruttori di città dei nostri tempi. Forse solo le città ideali del Rinascimento esprimono una coerenza quasi perfetta tra l’ideatore e il suo prodotto: ma si tratta appunto di città ideali e di opere d’arte, non di città costruite. Henri Lefebvre introduce in proposito una interessante distinzione che mi sembra giusto citare, anche se non la condivido interamente, tra opere e prodotti: “Les créations urbaines les plus éminentes, les œuvres les plus belles de la vie urbaine (‘belles’, comme on dit parce qu’œuvres plutôt que produits) datent des époques antérieures à l’industrialisation”.33 In ogni caso le città sono sempre prodotti imperfetti, feitiços appunto, opere di molti artefici piuttosto che di artisti in senso stretto e più in generale della “muffa” umana che dilaga sulle pietre senza troppo rispetto per il creatore originario. Si dice che fin dai primissimi momenti, a fianco alle torri di Oscar Niemeyer e alle strade di Lúcio Costa, a Brasilia sia sorta una città di slum,34 così come molti borghi che oggi hanno anche identità e nobiltà architettonica erano in origine miserabili accampamenti aggrappati alle mura dei potenti castelli.35 La città, qualunque città, è il risultato imperfetto di azioni che si intersecano a diverso livello di consequenzialità e di coscienza rispetto al risultato. Questo rende ovviamente molto complesso il lavoro del traduttore dalle forme attuali alle azioni di ieri o dell’altro ieri o d’antan. Gli effetti del contesto urbano

Per completare il discorso sull’ambiguità, che, per sua natura, non può essere ridotto ad affermazioni troppo semplificate, dobbiamo parlare anche della seconda relazione fra i due livelli, o strati, e cioè non solo del rapporto tra il costruttore e il costruito, ma anche di quello tra il costruito e chi usa il costruito (o, se vogliamo, il futuro costruttore). Infatti la città non è solo il prodotto di una data società, ma è anche l’ambiente (il contesto, la culla) in cui si svolgono le attività dei membri della società che vive in città, cioè quella che per brevità abbiamo chiamato la società urbana. Esattamente come ci eravamo posti il problema di sapere se e come dalla città costruita in generale (e di ciascuna città in particolare) sia possibile risalire alle caratteristiche del soggetto che l’ha costruita, risalendo dall’artefatto all’artefice, per così dire, dall’oggetto all’attore, dobbiamo chiederci se, e in quali modi, quel particolare ambiente o contesto abbia effetto sulla società che vi è insediata e sui singoli membri individuali e collettivi di quella società. È chiaro che non si tratta di una ennesima versione del vieto dilemma uovo-gallina, ma di un caso ben chiaro di quel processo che Anthony Giddens ha definito come “structuration” che esemplifica molto bene uno dei principali teoremi della scienza sociale.36 Per chi nasce a Parigi, Milano, Benevento o Mistretta, la città è un dato di fatto, un complesso ambiente da cui riceverà, per il tramite degli agenti di socializzazione, una grande quantità di stimoli che forniranno l’imprint tipico di quella città, a cominciare dai modi di parlare e di vestirsi, che caratterizzano in modo visibile gli abitanti delle diverse città, anche in un’epoca di grande standardizzazione come la nostra. Il nuovo nato (e il nuovo arrivato in generale, ma questo è un discorso più complesso che per il momento accantoniamo) deve adattarsi alla città che trova. Ma contemporaneamente lui e tutti i nuovi arrivati cominceranno ben presto ad agire e a partecipare a quel processo di produzione della città e dello spazio che continua ricorsivamente senza sosta, secondo le dinamiche della strutturazione, in ultima analisi producendo, per vie intricate, la nuova città, che ogni generazione (semplifico) sovrappone alla vecchia, ricordando la già citata frase di Giddens per cui la città è uno di quei fenomeni sociali “that have a specious continuity with the past”. Mentre sull’operazione di interpretazione di cui abbiamo parlato sopra, dalla città osservabile alla società produttrice, sono disponibili molte e solide conoscenze, dobbiamo riconoscere che altrettanto non si può dire del percorso inverso, sul quale esiste una mole considerevole di produzione letteraria, ma un’altrettanto considerevole mole di assunti non giustificati o sostenuti da evidenze, nonché di luoghi comuni, miti, e semplificazioni eccessive. In effetti è proprio su questo passaggio che si è venuta accumulando la cattiva letteratura, anche sociologica, sulla vita urbana, e ne raccoglieremo molte evidenze. È ovvio, anche se quest’ovvietà non è da molti percepita, che la comprensione della città passa da un equilibrio difficile tra le sue due componenti,

l’organizzazione materiale fait-tish e il significato simbolico fée-tish. Meno ovvie sono le correnti intellettuali che, spesso inavvertitamente, spingono nell’una o nell’altra direzione, introducendo elementi discorsivi nell’analisi. Dopo un lungo periodo di prevalenza dell’analisi economica, spesso di derivazione marxista, oggi assistiamo a una forte ripresa di studi che mettono l’accento sugli aspetti simbolici della città, che produce una qualche dissonanza con la coeva e quasi ossessiva attenzione prestata dalla cultura politica al city marketing e al concetto, a mio avviso altamente fuorviante, di “città come impresa” o addirittura azienda37 e alla mercatizzazione della politica. Questa tendenza è dovuta al notevole influsso di letterati e umanisti in genere negli studi urbani, via la diffusione dei cultural studies, ma anche all’indebolimento del sistema di welfare, tradizionale ancoraggio degli studi sociologici interessati alle diseguaglianze, nonché al prepotente ingresso sul mercato politico ed economico degli attori legati al variegato mondo digitale e alla cosiddetta “economia della conoscenza”: mondo in cui l’immagine e la parola (starei per dire il verbo, ma forse verbosità sarebbe più adatto) in tutte le sue forme hanno acquisito un ruolo fortemente dominante a partire dalle seducenti raffigurazioni urbane alla Blade Runner, per giungere alla forza evocativa delle costruzioni del mondo delle “archistar” proiettate verso la rappresentazione scenografica della città. Quasi paradigmatica la parabola di uno studioso importante come il sociologo francese Christian Topalov, già notissimo per i suoi studi sulla rendita urbana e sulla speculazione immobiliare38 da una prospettiva marcatamente marxista, oggi autore di un monumentale lavoro su L’aventure des mots de la ville à travers les temps, les langues, les sociétés.39 Viene ripreso il classico del 1994 di Louis-Jean Calvet40 sulle voci nella città e si moltiplicano gli studi e gli interventi concreti sulla diffusione delle immagini in ambiente urbano (al di là e al di sopra dei milioni di schermi sfarfallanti che fanno da sfondo agli interni violetti intravisti percorrendo le strade di qualsiasi città) su cui sta lavorando Francesco Casetti all’Università di Yale.41 Pur ribadendo la inestricabilità dei due fatticci rimango orientato a pensare che le pietre siano dure e durevoli e le voci e le immagini potenti ma effimere e non rinuncio facilmente a una prospettiva tendenzialmente strutturalista, mentre resto ancora abbastanza convinto dalle critiche mosse da Manuel Castells42 all’uso smodato di cultura urbana come concetto portmanteau, buono per tutte le occasioni. Ma avremo modo di ritornare su questi temi dopo avere acquisito qualche altro elemento di giudizio. La città è un fatto eminentemente sociale Concludendo, provvisoriamente. La città è un fenomeno ambiguo e ambivalente perché è composta di due entità (una osservabile con lunghezze d’onda fisiche e l’altra no) strettamente interrelate e fortemente reciprocanti

(feedback) in un processo diacronico o evolutivo che richiama molto da vicino il processo di “strutturazione” definito da Anthony Giddens. Tra i vari piani non intercorrono però proiezioni meccaniche, perché il processo stesso di traduzione è interattivo con il resto. Questo è un concetto che va ribadito con un esempio concreto, che possiamo illustrare partendo dal progetto esecutivo di una costruzione (il blueprint) predisposto da uno studio di architettura o di ingegneria; rispetto all’edificio costruito la proiezione è realistica, con le opportune moltiplicazioni di scala. Dal documento in due dimensioni, seguendo gli appositi protocolli di traduzione, si può risalire (è il caso di dirlo) o comunque pervenire all’edificio costruito. La traduzione sarà fedele, anche se raramente perfetta, come sanno benissimo architetti, ingegneri, geometri, capomastri e semplici muratori – per non parlare dei futuri abitanti, che si troveranno spesso qualche gradino in più o in meno del previsto. Ci sono sempre delle imperfezioni, come del resto nella traduzione dal Dna del genoma all’organismo, ma senza dubbio con molta più frequenza e variabilità. È proprio questo elemento di imprecisione che va tenuto presente per capire a fondo le ragioni per le quali, da un lato, è difficile utilizzare per il fenomeno urbano delle categorie eccessivamente rigorose (vedi per esempio, per il passato, le estenuanti discussioni sulla definizione di città e sulle classificazioni delle unità urbane, che oggi appaiono irrimediabilmente fatue, anche nel rigore formale di alcune di esse),43 ma, dall’altro è assolutamente necessario, a mio avviso, evitare l’uso di categorie evocative, che in ultima analisi non sono altro che processi di mercificazione (commodification) delle parole, al servizio del mercato mediatico o della giustificazione dei potenti che decidono sulla città e che hanno bisogno di rivestire le loro decisioni di parole incisive. E mentre la ricerca scientifica ha accumulato una mole di tutto rispetto di conoscenze sui protocolli di decodificazione delle caratteristiche (latenti) delle forme sociali che in passato hanno dato vita alla città visibile – come abbiamo già accennato e vedremo meglio in seguito – è proprio dal punto di vista della interpretazione degli effetti del contesto urbano sulla società attuale e futura che si verificano le peggiori forme di letterarizzazione retorica e di falsificazione mercificante delle parole. La cosa non sorprende perché ai signori dell’immagine e del mattone il passato interessa solo se può essere utilizzato ideologicamente nella manipolazione del futuro. E un esempio quasi perfetto a questo proposito (ma per nulla unico nel genere, anzi) lo troviamo in un articolo uscito di recente sul quotidiano “la Repubblica” in cui, partendo dai lustres éclatants della perenne città modello del futuro (sempre le solite New York e Los Angeles, ma questa volta chissà perché anche Minneapolis) si passa subito al più rassicurante “ritorno della polis” del titolo,44 frase ormai di prammatica per qualsiasi umanista che si metta a parlare della città, e che in me provoca sempre la curiosità di sapere dove, ma soprattutto da dove e da che epoca stia prendendo corpo questo éternel retour, e se per caso non implichi anche il ritorno della

schiavitù, che della polis era componente essenziale – idea che non è purtroppo così peregrina come si può pensare. Anche se si tratta di concetti noti e ormai entrati nel novero dei classici, non sarà forse inopportuno perciò ribadire che la città è un fenomeno eminentemente (e, aggiungerei, irrimediabilmente) sociale: possiamo riguardarla da numerosi punti di vista, fisici e materiali, ingegneristici, biologici e ambientali, ma chi osserva non può limitarsi a quelli, pena la perdita di una parte essenziale della catena di causalità. Anni fa, discutendo in un’importante fondazione lombarda un progetto per la creazione di un archivio dei documenti del movimento ambientalista,45 un giovane e valente docente di ingegneria dell’Università di Pavia, pur lodando il progetto, esprimeva il suo scetticismo sostenendo che, se si fosse verificata una perdita di petrolio nell’ambiente, lui avrebbe saputo come misurare il flusso della perdita e fare tutte le stime occorrenti, ma non avrebbe saputo come trattare le manifestazioni contro la raffineria. Non è stato possibile convincere in alcun modo l’onestamente ingenuo docente, che in una catena causale più allargata, come tutte quelle che riguardano i problemi ambientali, forse la perdita di petrolio avrebbe anche potuto essere evitata da una sufficiente pressione politica, di cui le manifestazioni sono una componente importante, in questo settore forse più che in altri. In un ambiente artificiale, nel senso letterale di “artefatto”, prodotto, feitiço, ricordiamo ancora una volta, l’oggetto con le sue dinamiche non è comprensibile senza riferimento al soggetto che lo produce. La città e l’ambiente antropizzato in generale sono incomprensibili senza l’anthropos, la società umana che li produce. La città è un fenomeno sociale. Senza voler tediare il lettore non specialista, non possiamo però, a conclusione di questo primo giro di orizzonte, e proprio in relazione a quest’ultima affermazione, fare a meno di menzionare la disciplina accademica che si occupa esattamente di questa intersezione intellettuale, cioè la sociologia urbana, la disciplina che pratico quasi ininterrottamente da poco più di cinquant’anni. Il lettore si aspetterebbe che, dopo tutto quello che abbiamo detto, ne tragga la conclusione che la sociologia urbana è in piena fioritura e al centro dell’organizzazione accademica: “Hic Rhodus hic salta”. Purtroppo non posso invece far altro che ammettere che così non è: la sociologia urbana vive un curioso paradosso perché, mentre i problemi sociali della città diventano ogni giorno più pressanti e pregnanti, questa materia è diventata progressivamente marginale nel mondo accademico e non solo italiano. Di recente, Sharon Zukin, una delle maggiori esponenti internazionali di questa disciplina, ha ripreso una riflessione su questo tema,46 rieditando criticamente un testo di Manuel Castells del 1968, in cui questo autore, oggi tra i più noti sociologi del mondo, si poneva la domanda se una sociologia urbana esistesse veramente.47 La domanda sembrerebbe oziosa ed eccessivamente retorica da parte di chi stava per diventare uno dei massimi esponenti della disciplina. In realtà Castells

lamentava la mancanza di uno statuto teorico soddisfacente (le discipline accademiche non sono entità assolute: esistono nella misura in cui qualcuno le pratica e riesce a produrre scritti significativi). La sociologia urbana ha una lunga tradizione che antedata la definizione stessa della materia, ma non ha mai trovato uno statuto teorico, comparabile, per fare qualche esempio, a temi come la stratificazione sociale, l’organizzazione o il sistema politico. Forse una delle ragioni è che, a differenza di tutti gli altri oggetti di analisi della sociologia che rappresentano tagli funzionali, la sociologia urbana si occupa di un oggetto olistico e che quindi, proprio in base alle ragioni per le quali Giddens sostiene che la sociologia urbana costituisce il nucleo centrale della sociologia, ne condivide anche tutte le difficoltà teoriche.48 Il tentativo della Scuola di Chicago degli anni tra le due guerre e più in generale della ecologia umana (o ecologia sociale) di elaborare uno schema esplicativo delle dinamiche urbane sulla base di poche variabili spaziali semplificate (competizione, successione, segregazione, aree naturali) si è rivelato esile sul piano teorico quando si è visto che molte di queste supposte “leggi” erano in realtà il risultato di processi determinati culturalmente e storicamente. La scuola ecologica non è riuscita a reagire con una migliore elaborazione teorica, ma si è per così dire rattrappita nella riproposizione meccanica di formule vuote; il che è tanto più deprecabile in quanto l’ecologia aveva intuito un nesso fondamentale per la vita urbana contemporanea, quello tra società umana e ambiente, aprendo la strada a un filone di ricerche e di elaborazione politica che oggi ha acquistato un’importanza enorme. I cultori di questa materia non sono però stati in grado di presidiare il campo, per così dire, anzi al contrario hanno contribuito a una generale scarsa reputazione accademica degli studi sociologici sulla città, perdendo una storica battaglia con i funzionalisti dei grandi centri accademici della East Coast. Tanto da lasciare spazio a battute del genere di quella riportata da Edward Shils, in cui l’ecologia umana consisteva “in spending 300.000 dollars to find the location of a brothel”. Non è sorprendente che molti cultori di questa materia, soprattutto se giovani ed entusiasti, abbiano sentito il bisogno di cimentarsi con lo studio della città. Sembrerebbe che questo tema sia quasi un’esercitazione di scuola per gli studiosi di questa materia e mi devo mettere nell’elenco: in uno dei miei primi scritti discettavo appunto della crisi della sociologia urbana,49 ma anche il mio coetaneo Antonio Tosi,50 più o meno nello stesso periodo, si esercitava sul tema. Rimane pur sempre la sorpresa e il rovello per uno iato tra i problemi e la limitata capacità degli esperti di spiegarli. Ma non è qui l’occasione propizia per approfondire questa materia accademica, anche se un cenno andava fatto per onestà intellettuale nei confronti del lettore non specialista: ora però ci fermiamo per non cadere in riflessioni solipsistiche che contribuiscono forse anche a sminuire la materia o in ogni caso rischiano di risultare noiosi pezzi di

archeologia accademica, fastidiosi per i commentatori che con bella baldanza riscoprono la morte o la dissoluzione della città ogni due o tre anni, per nulla scoraggiati dal vivere in mezzo a quello che è il ciclo di urbanizzazione più intenso della storia dell’umanità. Occorrerebbe ricordare a questi araldi della morte urbana e “platitude peddlers” vari le sagge parole del poeta: “Non c’è fretta, la fine del mondo è solo la fine del mondo che conoscete”.51 Forse va comunque fatto notare che alcuni dei maggiori sociologi contemporanei – e tra loro soprattutto quelli che più hanno fatto comprendere il mondo in cui viviamo – sono partiti da una conoscenza approfondita del mondo urbano contemporaneo: segnatamente tra questi Manuel Castells e Saskia Sassen, ma anche studiosi di scienze sociali come David Harvey e Deyan Sudjic che hanno dato contributi fondamentali. D’altro canto se, nonostante questa presenza della città, la sociologia urbana non ha più trovato uno statuto teorico convincente, dopo i tentativi di successo limitato nel tempo della scuola ecologica di Chicago (che peraltro, va ribadito, ha indicato una strada oggi percorsa da molti, anche non sociologi) forse lo si deve alla natura dell’oggetto e al modo con il quale viene affrontato dai sociologi che praticano la disciplina. Ma l’eventuale insipienza degli adepti non cancella un dato incontrovertibile: in quanto prodotto umano o feitiço la città non può essere compresa, da qualsiasi punto di vista la si guardi, se non si introduce la componente sociologica. Un oggetto creato non potrà mai essere compreso senza tenere conto del suo creatore: è probabilmente solo a partire da questa premessa che si può cercare di ricostruire un profilo comprensivo e comprensibile del fenomeno urbano. Note 1 John Lukacs, A Student’s Guide to the Study of History, ISI Books, Wilmington 2000. 2 Charles Darwin, On the Origins of Species, John Murray, London 1859, (corsivo mio). 3 Charles H. Titus, A Nomenclature in Political Science, in “American Political Science Review”, XXV, 1931, p. 45; citato in David Easton, The Political System. An Inquiry into the State of Political Science, Alfred A. Knopf, New York 1960, p. 107, citato in Alessandro Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993, p. 97 (in origine cfr. anche Id., Introduzione allo studio della partecipazione politica, in “Quaderni di sociologia”, XV, n.s., 1966, pp. 235-287). 4 Vedi, tra i molti, Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, il Mulino, Bologna 1969. 5 Della poca utilità delle definizioni abbiamo parlato poco sopra, ma per non deludere il lettore interessato comunque al dibattito che si è svolto su questo punto in passato, almeno in ambito sociologico, rinvio alla mia antologia Città e analisi sociologica, Marsilio, Padova 1967. 6 Giovanni Berlinguer, Malaria urbana. Patologia delle metropoli, Feltrinelli, Milano 1976; Zygmunt Bauman, Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano 2005, introduzione di Mauro Magatti (Bauman e il destino delle città globali), pp. XI-XV. Prevedibilmente dall’introduzione non si capisce molto quali saranno questi destini, ma si leggono frasi illuminanti del tipo “Le città hanno un destino: almeno fino a quando non si fermano a pensare a se stesse e al loro futuro” (sic, p. XIV). 7 Vedi lo splendido testo di Mario Praz, Il demone dell’analogia. Memorie e divagazioni narrative, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, e, per ciò che ci riguarda, la mia recensione flash su Pensieri infedeli del 2011.

8 Vedi Edward William Soja, Putting Cities First, ripubblicato in Postmetropolis, John Wiley & Sons, Oxford 2000, citato in Davide Diamantini e Guido Martinotti (eds.), Urban Civilization from Yesterday to The Next Day, Scriptaweb, Napoli 2009, pp. 93-105. 9 Walter G. Runciman, The Social Animal, HarperCollins, London 1998. Da non confondere con il recente volume di David Brooks dal medesimo titolo, The Social Animal: The Hidden Sources of Love, Character, and Achievement, Random House, New York 2011, una versione pop della scienza sociale che ha avuto un grande successo, fortunatamente non presso gli studiosi. Vedi la recensione di H. Allen Orr, Fooled by Science, in “The New York Review of Books”, 18 agosto 2011, pp. 8-12, che non è particolarmente tenera, a dire il meno. Orr non lo ricorda, ma con questa recensione classifica senza appello Brooks nella categoria particolarmente invisa a Runciman, gli “Attitude-Merchants” (e, anche se in minor misura, i “Platitude-Merchants”). 10 Vedi Edoardo Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima, Mondadori, Milano 2004, e successive opere sul medesimo tema. 11 Gerald Edelman, premio Nobel per la medicina (1972), ci dà una misura di questa grandezza: “Se considerassimo il numero di possibili circuiti neuronali, avremmo a che fare con cifre iper-astronomiche: un dieci seguito da almeno un milione di zeri. Nell’universo conosciuto esiste un numero di particelle pari a 10 seguito da una coda di 72 zeri”. Citato in Andrea Moro, Che cos’è il linguaggio?, Luca Sossella Editore, Bologna 2010, p. 13. 12 Guglielmo di Rubruck, Viaggio in Mongolia (Itinerarium), Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Milano 2011. 13 Con buona pace di Spencer e di molti altri evoluzionisti più o meno da caffè (o da tè, in quel caso) l’orda non è una forma primitiva di non-socialità, che darà luogo a forme sempre più grandi ed evolute con aggregazioni sempre più grandi, stimolate dalla guerra. L’orda tartara o mongola era grandissima: decine e centinaia di migliaia di individui, ma non era affatto un aggregato senza organizzazione sociale. Certamente la perizia militare giocava un ruolo importante, ma questo accadeva in molte società antiche in cui guerra e rapina, con metodi meno sofisticati degli attuali, erano componenti importanti del procacciamento di risorse. Vedi Herbert Spencer, Introduzione alla scienza sociale, Fratelli Bocca, Milano 1946. 14 Bruno Latour, Sur le culte moderne des dieux faitiches, La Découverte, Paris 2009. 15 Mario Liverani, L’origine delle città. Le prime comunità urbane del Vicino Oriente, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 40. 16 Per Ratzel e altri classici, vedi Città e analisi sociologica, cit., nota 5. 17 Non so se ci sia un collegamento diretto, ma blasé coincide in modo letterale con il termine di “cauteriata” usato dai penitenzieri cattolici per definire una coscienza talmente esposta al male da non essere più in grado di distinguerlo dal bene. Prendiamo dal capitolo “Della coscienza morale” dell’abate Antonio Rosmini Serbati (traggo dal volume disponibile nella Columbia College nella City of New York Library, Special Fund 1894 Given Anonimously, I95R173 J14, Opere Edite e Inedite dell’Abate Antonio Rosmini Serbati, Prete Roveretano, Tipografia e Libreria Boniardi-Pogliani, Milano 1839, vol. XIV). Alle pp. 223 e sgg. l’abate ci ricorda che ci sono molti tipi di coscienza lassa o dormigliosa, o stupida, o cauteriata, o farisaica. La più insidiosa sembra essere la coscienza “cauteriata” (in francese si direbbe appunto blasée) cioè “quella che non solo giudica in pratica, esser bene il male; ma riduce questo suo errore in massima, e ne fa una dottrina, che insegna anche agli altri uomini”. 18 Riprese in molte occasioni, ma, a suo tempo, sostenute da un testo che ebbe molto successo, Alexander Mitscherlich, Il feticcio urbano. La città inabitabile, istigatrice di discordia, Einaudi, Torino 1968 (Die Umvirtlichkeit unserer Städte, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1965). Il termine “feticcio” non è impiegato qui nel senso tecnico in cui usiamo la parola in questo scritto, ed è, in tutta evidenza, una libertà del traduttore. 19 Robert Ardrey, The Territorial Imperative: A Personal Inquiry into the Animal Origins of Property and Nations, Atheneum, New York 1966. Le popolarizzazioni a partire dalle ipotesi di Edward Twitchell Hall (The Hidden Dimension, Doubleday, Garden City-New York 1966), sulla crescente aggressività in funzione della densità non hanno trovato conferma in ricerche più approfondite. Vedi Mark L. Knapp,

Judith A. Hall, Terrence G. Horgan, Nonverbal Communication in Human Interaction, Cengage Learning, Boston 2009. 20 Glauco Tocchini Valentini, Collezioni mutanti di topi, in Consiglio nazionale delle ricerche, Animali e piante transgeniche: implicazioni bioetiche, Roma 2001, pp. 50-52. Tocchini Valentini ha ripreso questa metafora dalle lezioni del suo maestro Sydney Brenner. 21 Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 171. 22 Bruno Latour, Sur le culte moderne des dieux faitiches, cit. 23 Vedi Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2004. 24 Anche nel senso ermeneutico suggerito, per esempio, da Charles Tilly, Why?, Princeton University Press, Princeton 2006. 25 Verstehende o “sociologia comprendente”: il termine, com’è noto, è stato coniato da Max Weber che lo applica al tipo di sociologia da lui proposto per uscire dalla rigidità della Methodensireit ottocentesca sulla definizione di sociologia. Vedi Max Weber, Economia e Società, Edizioni di Comunità, Torino 1961, e Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, nonché i numerosi lavori di Pietro Rossi. 26 Preferisco usare il termine alquanto incespicante di “non-osservabili” invece del più corrente “invisibili” perché questo termine è stato usato in molti modi metaforici, per esempio per indicare le popolazioni marginali a partire dal classico Our invisible poor, il titolo della famosa recensione di Dwight Macdonald del libro di Mike Harrington (The Other America: Poverty in the United States, Macmillan, New York 1962) sul “New Yorker” del 19 gennaio 1963 (http://www.newyorker.com/magazine/1963/01/19/our-invisible-poor#ixzz1SN125qul) che rilanciò il problema della povertà nella Affluent Society americana, nonché molti altri modi di usare questo termine, che esemplifica molto bene i problemi connessi con la percezione e la rappresentazione sistematica e rigorosa di caratteristiche sociologiche in ambiente urbano. Per non parlare del povero Italo Calvino, il cui straordinario romanzo Le città invisibili (Einaudi, Torino 1972), oltre ad avere giustamente stimolato l’immaginazione di milioni di lettori, ha sfortunatamente sbrigliato anche quella di organizzatori di convegni ed eventi, citatori e commentatori casuali che, in tutta evidenza, come avviene spesso per questo genere di midcult, del libro hanno letto solo il titolo. 27 Anche se la differenza tra i due contesti non è sempre percepita correttamente, Margaret Smith riferisce di un suo colloquio con il direttore del Parco del Grand Canyon che racconta di molti incidenti anche mortali causati dalla circostanza che i visitatori del Grand Canyon non si rendono conto di essere in un ambiente naturale. Vedi in Michael Sorkin (ed.), Variations on a Theme Park: The New American City and the End of Public Space, The Noonday Press, New York 1992, pp. 3-30. 28 Solo per memoria: esiste un’ampia letteratura sugli aspetti tenebrosi della città, da Sue a Doyle, Poe, Ellroy e via elencando, che offre un corpus molto attraente di rappresentazioni immaginifiche. Personalmente alle terribilità dichiarate preferisco le sottili tensioni che venano il realismo di autori come Gadda, Simenon o Rohmer, ma faccio questo riferimento volante giusto per ribadire che esiste un campo di indagine della realtà urbana con gli strumenti propri della poetica e per la medesima ragione mi fermo qui perché questo non è il mio terreno. 29 Un accenno soltanto alla egualmente importante ricostruzione degli insediamenti in aree rurali, una branca poco conosciuta dell’archeologia, l’archeologia dei campi, chorai, di cui è eminente specialista Joseph C. Carter, Centennial Professor of Classical Archaeology; Director, Institute of Classical Archaeology, University of Texas, Austin, che da anni scava nel Metaponto e nel Chersoneso, ora in Ucraina, colonie rurali dei greci e dei più antichi micenei, di estremo interesse: per gli studiosi, ma non per la provinciale cultura italiana che dello scavo metapontino non ha il minimo sentore, e rischia di non averlo mai più se prevarranno le mire speculative e lottizzatrici dei politici locali. Vedi Towards a Comparative Study of Chorai West and East Matepontion and Chersonesos, http://www.pontos.dk/publications/books/bbs4-files/BSS4_10_Carter.pdf. 30 Hansen utilizza questa metafora da armaiolo suggerendo che la ricerca storica antica richiede approssimazioni assimilabili a una “rosa di pallini da caccia” (shotgun) piuttosto che alla pallottola di un fucile (rifle). Vedi per esempio Mogens Herman Hansen, Polis: An Introduction to the Ancient Greek City-

State, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 74, 84, 107 (edizione italiana a cura di Università Bocconi Editrice, 2012). 31 Andrea Carandini, Re Tarquinio e il divino bastardo, Rizzoli, Milano 2010. 32 Marco Romano, La città come opera d’arte, Einaudi, Torino 2008. 33 Non sono sicuro che questa distinzione regga, ma lascio a chi ne ha l’interesse gli eventuali approfondimenti. Henri Lefebvre, Le droit à là ville, Economica-Anthropos, Paris 2009, pp. 1-2. 34 Tra i tanti, vedi il classico David G. Epstein, Brasilia, Plan and reality: A Study of Planned and Spontaneous Urban Development, University of California Press, Berkeley 1973. 35 James Burnham, The Managerial Revolution: What is Happening in the World, John Day Company, New York 1941; trad. it.: La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano 1946. 36 Anthony Giddens, The Constitution of Society: Outline of the Theory of Structuration, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1984. 37 Per arrivare al notevole successo dell’idea bizzarra di Milano, Gabriele Albertini, sindaco di Milano per due mandati, dal 1997 al 2006, a capo di una coalizione di centrodestra, della città come “condominio”, con la totale scomparsa anche dal linguaggio ufficiale del termine “cittadino”. 38 Christian Topalov, Les Promoteurs immobiliers. Contribution à l’analyse de la production capitaliste du logement en France, Mouton, Paris-La Haye 1974. 39 Christian Topalov , Laurent Coudroy de Lille, Jean-Charles Depaule, Brigitte Marin (eds.), L’aventure des mots de la ville à travers le temps, les langues, les sociétés, Robert Laffont, Paris 2010, pp. 1493. 40 Louis-Jean Calvet, Les voix de la ville. Introduction à la sociolinguistique urbaine, Payot et Rivages, Paris 1994. 41 Francesco Casetti è professore presso la Yale University, nel Film Program e nello Humanities Program. 42 Manuel Castells, La question urbaine, François Maspero, Paris 1972. 43 Vedi nota 5. 44 Roberto Esposito, Il ritorno della polis, in “la Repubblica”, 6 gennaio 2012, p. 39: in realtà non un contributo originale, ma una rapida sinossi di una serie di testi recenti sulla città. 45 Progetto basato su un’idea di Giorgio Nebbia, lodevolmente ripresa, ma con scarso successo, da Achille Cutrera. 46 Sharon Zukin, Is There An Urban Sociology? Questions on a Field and a Vision, in “Sociologica”, 3, 2011, pp. 1-18. 47 Manuel Castells, Y a-t-il une sociologie urbaine?, in “Sociologie du travail”, 1/1968, pp. 72-90, citato in Urban Sociology: Critical Essays, ed. by C.G. Pickvance, Routledge, London-New York 1976, pp. 3359. 48 L’importante tradizione di studi di comunità che costituisce uno dei principali campi di specializzazione della sociologia urbana si propone esattamente questo: sulla base di un assunto semplificatorio (errato, ma in un certo senso utile per lo sviluppo di strumenti analitici per la ricerca) di studiare una ‘‘società in piccolo” concentrandosi su una piccola o media città che sembra essere alla portata del ricercatore. In realtà al ricercatore di comunità il più delle volte sfuggono proprio quelle relazioni con l’esterno che falsificano l’assunto e distorcono il campo sperimentale. Il passaggio si coglie benissimo leggendo di seguito i due classici studi della città di Muncie in Indiana condotti da Robert Staughton Lynd e Helen Merrell Lynd e pubblicati in Middletown: A Study in Modern American Culture, nel 1929, e Middletown in Transition: A Study in Cultural Conflicts (Harcourt Brace and Company, New York), nel 1937. Come i Lynd scrissero nel primo libro: “The city will be called Middletown. A community as small as thirty-odd thousand […] [in which] the field staff was enabled to concentrate on cultural change […] the interplay of a relatively constant […] American stock and its changing environment” (p. 8). Ma qualche anno dopo, nel pieno della Depressione, Muncie era cambiata e aveva perso il carattere di relativamente stabile “American stock”.

49 Guido Martinotti e Laura Balbo (a cura di), Metropoli e sottocomunità, Marsilio, Padova 1966, pp. 185-212. 50 Antonio Tosi intitolava un paragrafo di un capitolo sulla Scuola di Chicago contenuto nei suoi Saggi critici sulla sociologia urbana (Memo Editore, Milano 1967) “Il significato del dibattito [sulla human ecology]: il concetto di città e la crisi della sociologia urbana” e anni dopo, nel suo contributo a Modelli di città (a cura di Pietro Rossi), Einaudi, Torino 1987, Verso un’analisi comparativa delle città, un paragrafo su “La dissoluzione del concetto di città”. 51 Mark Strand, Il grande poeta ritorna, tratto dalla raccolta L’inizio di una sedia, Donzelli, Roma 1999.

Seconda lezione Le origini della città

Introduzione La città è un prodotto della specie umana: certamente fra tutti l’artefatto più complesso e quello con il maggiore impatto, sia sulle relazioni tra la specie umana e l’ambiente – inclusi i rapporti con altre specie viventi – sia, conseguentemente, sul futuro della specie stessa. La città è quindi un’invenzione le cui origini sono molto antiche e si perdono, come si usa dire, nella notte dei tempi, cosicché le dispute su questi eventi così lontani sono antiche quanto le città più antiche che, infatti, avevano spesso dato vita a miti sull’origine divina della loro fondazione. Sarebbe ingenuo pretendere anche solo di elencare tutte le ipotesi avanzate nel corso di una lunga storia di ricerche, controversie e racconti fantasiosi, ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare a porci delle domande e a dare delle risposte, per provvisorie e approssimative che siano. Anzi lo studio di questo straordinario soggetto è un’esplorazione emozionante che ci porta a ragionare sulla storia dell’umanità da molti punti di vista complementari e, come vedremo, anche se non abbiamo una sola generale certezza, possiamo costruire un’immagine convincente partendo dalle molte certezze parziali che gli scienziati hanno raggiunto a seguito di lunghe e accurate ricerche. Il primo punto, ovvio, ma che va ribadito perché costituisce un punto d’appoggio fondamentale per tutti i ragionamenti successivi, è che, se la città è un prodotto della specie umana, se ne deduce che a un certo momento della storia della specie la città fa la sua comparsa, mentre prima di questa invenzione o produzione non esisteva. Possiamo quindi chiederci innanzitutto dove e quando gli umani abbiano cominciato a costruire città, ma forse, prima ancora, dobbiamo rispondere anche a una domanda preliminare. Serve dedicare tanto impegno allo studio di qualcosa che forse con la città contemporanea ha poco o nulla in comune? È una domanda che si sono sentiti rivolgere molte volte questi come altri studiosi. La risposta che do ai miei studenti è che nel mondo della ricerca l’idea di utilità non è il criterio centrale, lo studioso si impegna nella ricerca per motivazioni diverse dall’utilità. È una risposta incompleta e forse fuorviante, perché lo scienziato e lo studioso non sono mossi, è vero, da una prospettiva di utilità immediata delle loro ricerche (e poi utilità per chi?). Il ricercatore è guidato dal desiderio di dare risposta a un problema, di colmare una lacuna, di risolvere una contraddizione inspiegabile con le conoscenze esistenti. E questo lo si può fare solo se si è convinti che l’importanza della

risposta sia evidente e significativa. Nel nostro caso la domanda sulle origini della città fa parte di una domanda più ampia che sta alla base di una disciplina che chiamiamo sociologia: come si formano le unità collettive? Chiedersi come si siano formate le città all’origine è quindi certamente una domanda rilevante, anche se forse la risposta non ha un’utilità pratica immediata. Sicuramente le prime forme di organizzazione urbana erano molto diverse da quelle attuali, ma possiamo ascoltare il suggerimento di Mario Liverani, uno dei maggiori studiosi della città antica, quando scrive che lo studio delle forme più antiche della città è utile perché serve a identificare i caratteri propri della città nelle sue forme più semplici isolandole dalla complessità delle forme più mature.1 Questa posizione è suggestiva ma ci forza ad accettare l’idea che la città abbia caratteri distintivi e in un certo senso universali e costanti nel tempo. Accettiamo il suggerimento, ma per il momento non approfondiamo i corollari. Dove e quando? La risposta a questa domanda è abbastanza semplice, anche se forse non del tutto soddisfacente, perché forme di organizzazione sociale e fisica che possiamo riconoscere come città si sono mostrate nella storia in momenti diversi e in luoghi diversi. Allo stato attuale delle nostre conoscenze il fenomeno città si è verificato dunque più volte. Sottolineo l’inciso perché la ricerca archeologica, e in generale paleografica, continua, e nuove scoperte tendono a spostare all’indietro gli inizi e ad aggiungere nuovi luoghi. Comunque, per quanto se ne sappia, finora le tracce delle più antiche forme urbane sono state rinvenute nel Medio Oriente: la città di Çatal Hüyük in Turchia si sviluppa dal 6800-6300 a.C., Gerico in Palestina prima del 7000 a.C., Mehrgarh nel Nord dell’India attorno al 7000 a.C., Sesklo in Tessaglia dal 4800-4400 a.C., nonché infine le città di Eridu, Ur e Uruk in Mesopotamia, quest’ultima per lungo tempo considerata la prima città in assoluto e, nel 3200 a.C., il centro maggiore della regione. La polispermia della città I fatti che abbiamo descritto più sopra, e che possiamo considerare un secondo tassello sufficientemente solido, pongono un ulteriore cruciale interrogativo: la comparsa del fenomeno urbano in luoghi diversi rappresenta scoperte indipendenti (innovazioni simili in risposta a condizioni simili) o imitazioni di un modello originario (teorie diffusionistiche)? Va subito detto che le due teorie non sono omogenee dal punto di vista metodologico, anche se possono condividere parte dei fatti. Le teorie dell’innovazione indipendente richiedono molti dati di natura diversa che, data la lontananza nel tempo, sono difficili da ottenere, ma hanno il vantaggio di stimolare esperimenti mentali o ragionamenti sistemici, cui è possibile trovare riscontri, negativi o positivi, via via che le ricerche nei più diversi campi aggiungono dati, non importa quanto frammentari. Il diffusionismo, al contrario, evoca connessioni spesso misteriose e per lo più basate sull’analogia e su associazioni che non hanno (e difficilmente

potranno avere) riscontri empirici. Il diffusionismo ha un grande fascino proprio perché contiene un elemento di mistero. Un caso paradigmatico e assai noto riguarda le piramidi: costruzioni piramidali di grande consistenza (non parliamo quindi di piccole costruzioni piramidali che fanno parte della tipologia costruttiva comune) le troviamo almeno in tre civilizzazioni, una delle quali lontana dalle altre nel tempo e nello spazio: le ziggurat della cultura mesopotamica, le grandi piramidi dell’Egitto e le piramidi delle culture centroamericane precolombiane, a loro volta prodotto di civiltà diverse. Tralasciamo l’argomento stilistico o architettonico, che non ci compete, delle evidenti diversità costruttive tra queste piramidi, perché il diffusionista argomenterebbe che le imitazioni non sono mai copie identiche, ma se possiamo plausibilmente ipotizzare trasmissioni culturali tra la Mesopotamia e l’Egitto, come trovare un filo di evidenza di contatti tra egiziani e popoli del continente americano che non siano le mitiche narrazioni dei Mormoni? Come forse qualcuno ricorderà, il biologo, archeologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl era convinto che le imbarcazioni di papiro degli egiziani potessero affrontare e vincere l’Atlantico. Ma, contrariamente alla sua straordinaria avventura del Kon-Tiki con una zattera di balsa,2 l’imbarcazione di papiro RA si rivelò inadatta a sostenere una prolungata navigazione marina, il papiro si impregnava d’acqua e l’imbarcazione affondò, mentre una seconda imbarcazione RA II, con migliori cordami, effettuò il viaggio con successo. Thor Heyerdahl era un convinto piramidologo e aveva identificato a Samoa grandi costruzioni piramidali che egli attribuì al trasferimento di moduli dai popoli samerindi, così come aveva individuato nelle Azzorre una piramide scavata nella roccia con i corretti parametri di orientamento astronomico. Purtroppo le successive ricerche con evidenze genetiche, linguistiche e storiche non hanno apportato nessun convincente sostegno alle ipotesi di Heyerdahl. La colonizzazione della Polinesia è avvenuta quasi certamente da parte di popolazioni del Sudest asiatico molto prima che nelle Americhe si costruissero piramidi. E quindi è assai probabile che il misterioso popolo dell’Isola di Pasqua venisse dalle isole polinesiane, in cui esisteva una tecnologia marinara estremamente evoluta, piuttosto che, viceversa, su zattere di balsa ingovernabili. Ma il caso Kon-Tiki è un esempio, tra i più nobili va detto, dell’effetto che può avere una personalità intelligente e affascinante come quella del biologo norvegese, che tra l’altro collegava la sua attività a posizioni politiche radicali che trovavano un ampio consenso, in sinergia con i media e con l’effetto propaganda ottenuto dal provare di persona (come “testimonial”) alcuni pezzi strategici del ragionamento. In realtà il diffusionismo culturale, di cui quello collegato alle città è una parte, fa a sua volta parte di un più generale settore di studi che riguarda i viaggi e le scoperte nell’antichità: un classico di questa famiglia va sotto il nome comune

di “scoperta dell’America” e come tutti sanno consiste nel trovare antecedenti al viaggio di Cristóbal Colón dal Portogallo ai Caraibi, ricerca che vede in testa ai probabili competitori il vichingo Erik il Rosso. Nel quadro di una legittima reazione al quasi insopportabile etnocentrismo europeo della “scoperta colombiana” (noi eravamo già qui e tutto sommato non volevamo affatto essere scoperti, ragionano coloro che un po’ audacemente si fanno interpreti delle povere popolazioni amerindie vittime della “scoperta”) l’invalidazione del primato di Cristoforo Colombo assume il ruolo di scardinamento del pilastro principale di questa mitologia e, in occasione delle celebrazioni colombiane nel cinquecentenario (1992), vi fu un vero proliferare di teorie alternative. Eviatar Zerubavel riassunse molto competentemente questo mood e i suoi argomenti in Terra Cognita. Tuttavia, queste critiche in un certo senso provano troppo e assumono un punto di vista atomistico e da record dei guinness che è sbagliato. Al di là dell’effetto mediatico, sapere che prima di Colombo arrivarono probabilmente molti altri non fa i conti col fatto che questi altri non ebbero impatto alcuno. Anche senza troppe prove possiamo essere convinti che in un mondo di esploratori e avventurieri per mare come fu quello antico, certamente vi fu qualche temerario esploratore che attraversò l’oceano: da est a ovest o da ovest a est (meno probabile). Tuttavia, in antichità le navi erano come piccoli stati, e i loro comandanti erano gelosissimi delle mappe più o meno precise che tracciavano nelle loro esplorazioni, anzi si è persino detto che Colombo si fosse servito proprio di una di queste mappe, che lo ingannò minimizzando la distanza tra un meridiano e l’altro, misurata su un numero sbagliato di gradi N. Ma l’approccio di Zerubavel e di altri, se cede al fascino mediatico del primato, non aiuta molto a capire i fenomeni dello sviluppo sociale e della comunicazione culturale. Molto più interessanti da questo punto di vista, se guardiamo all’esplorazione colombiana, sono il lavoro di Tzvetan Todorov, che indaga sulla natura dell’atteggiamento dell’esploratore nei confronti della diversa umanità incontrata, per non parlare del classico di Bartolomé de Las Casas, che dovrebbe essere lettura obbligata nelle scuole di tutto il mondo, cui aggiungerei anche Colombo, la splendida saga a fumetti di Altan. La conclusione di questo lungo ma necessario detour è che, mentre non si possono escludere trasmissioni di immagini e racconti, anche se improbabili, oppure l’esistenza di moduli architettonici che troviamo ripetuti come le costruzioni piramidali, la città è un oggetto complesso che non si può esportare come un baco da seta o l’albero del pane. Anche supponendo per ipotesi assurda che qualche entità si sia spostata da Ninive a Chichén Itzá, che cosa avrebbe potuto dire? Amici maya, guardate, voi siete dispersi nei campi: se fate così e cosà otterrete una città. Ma chi raccoglierà questo messaggio? Chi sarà in grado di realizzare queste rivelazioni? È chiaro che il diffusionismo è debole se riportato su tempi e distanze incompatibili con una qualsiasi ragionevole orma

di trasmissione culturale, ma affascina perché è misterioso, come l’identità di Shakespeare, e ci sono molte persone attratte dal mistero e dall’analogia piuttosto che dalla fredda spiegazione. Un caso assai interessante dal punto di vista del diffusionismo spinto è un libro amatoriale che ha avuto un certo successo anche tra persone colte (non certo tra gli esperti della materia), Omero nel Baltico di Felice Vinci,3 che però – al di là dell’improbabilità che una continuità come quella egea e mediorientale testimoniata da migliaia di documenti convergenti possa trovare un’origine al seguito di un pugno di migranti dal Nord che portano la memoria di una leggenda, anche nei minimi dettagli, ma non le proprie divinità o la lingua e la scrittura – trasporta a quasi tremila anni addietro la tecnologia marina dei vichinghi senza alcuna prova che vi fossero imbarcazioni simili tanto lontano nel tempo, mentre la più antica imbarcazione recuperata nel Mar Baltico è del IV secolo a.C. Lo stesso autore, però, non si perita di fare confronti particolareggiati tra le navi micenee della guerra di Troia che si riferiscono a un periodo antecedente di qualcosa come quattro (se datiamo le opere omeriche all’VIII secolo) o addirittura otto e più secoli, se le datiamo all’epoca raccontata (XIII secolo circa). Il libro stabilisce una serie impressionante (per la lunghezza) di riscontri geografici e toponomastici per dimostrare che le descrizioni contenute nell’Odissea e nell’Iliade non trovano corrispondenza nell’Egeo, ma la trovano assai più precisa se assumiamo che il viaggio sia avvenuto nel Baltico. È noto che le opere omeriche non sono una guida turistica, ma uno dei tanti nostoi o racconti del viaggio di Ulisse, ovviamente mitici e approssimativi, giunto fino a noi. Pensare di utilizzare queste opere per riscontri reali è un po’ come le gite manzoniane che venivano inflitte a noi poveri studenti delle medie milanesi trasportati a Lecco e introdotti al bivio dei Bravi o all’albero di castagne di Lucia e via dicendo. Con conseguenze assai umoristiche come la lapide che si poteva leggere (non so se è rimasta) nel municipio di Gorgonzola in cui ci si vantava che “Renzo Tramaglino riposò qui [corsivo mio] prima di attraversare l’Adda fuggendo da Milano”. Ma, volendo prima o poi prendere nota di uno dei pochi riferimenti astronomici esatti dell’Odissea (Omero doveva essere veramente cieco o comunque non molto esperto di cose marinare, data la sorprendente esiguità di riferimenti astronomici di rotta in un testo che narra vent’anni di peripezie per mare), troviamo la prova evidente che il racconto omerico si adatta alla latitudine egea ma sarebbe assurdo a quella baltica. A proposito dell’Ursa Major, carro maggiore che notoriamente è alle nostre latitudini boreali una costellazione circumpolare – cioè che non tramonta mai – Omero dice “sola non ha parte ai lavacri d’oceano” (Od., V, 275). A parte che non è solo l’Orsa Maggiore a non tramontare mai al Polo Nord, e anche a una latitudine più settentrionale la frase non avrebbe senso perché molte altre costellazioni sarebbero sempre sopra l’orizzonte. Vinci cerca prima di falsare i fatti

sostenendo – in modo erroneo – che questo avviene in certi periodi dell’anno, ma inganna ulteriormente il lettore perché (e questa è una tecnica tipica dei dilettanti, non solo loro ovviamente) non restituisce l’intera citazione che continua: “quella infatti gli aveva ordinato Calipso, la dea luminosa, / di tener a sinistra nel traversare il mare” (Od., V, 276-277). Ora, a una latitudine più settentrionale, Arturo non tramonterebbe mai e non si capisce che senso avrebbe questa frase, che già va stagionizzata nel Mediterraneo. Ma l’autore, preso dall’ebbrezza di queste intuizioni, si allarga fino a sostenere, passando per i Dogon della Nigeria (sic) che lo Zodiaco è stato probabilmente inventato dai popoli settentrionali, non solo, ma addirittura artici: con il che, anche ammettendo la sua ipotesi di una trasmigrazione di proto-vichinghi in era micenea, si metterebbero in cantina anche i poveri astronomi babilonesi che pensarono lo Zodiaco qualche centinaia d’anni prima. Ma nel mondo dell’analogia qualche secolo in più o in meno che importa? Naturalmente, per i molti visionari di questo tipo, il dettaglio anomalo, invece di incitare all’approfondimento e all’eventuale scoperta di nuove evidenze o ipotesi, disturba e viene o minimizzato o distorto. In conclusione, possiamo dire che il fenomeno urbano si ripresentò più volte nella storia della specie umana, in momenti diversi e in luoghi lontani tra di loro, che quasi certamente non ebbero significativi contatti reciproci, dando vita a forme che avevano la loro specificità pur mantenendo qualche elemento comune, ascrivibile a meccanismi di risposta analoga a condizioni comparabili piuttosto che a imitazione o clonazione. Al fondo, pur nella infinita varietà delle forme, tutte le abitazioni del mondo hanno in comune alcuni elementi, un tetto, delle pareti, dei pertugi per entrare e uscire e per aerare, senza che dobbiamo assumere che vi sia stata una forma originaria da cui tutte discendono. È utile inquadrare la comparsa delle città non solo nella storia dell’urbanizzazione, ma più in generale nello sviluppo della specie umana. Secondo il consenso prevalente, la storia della specie umana Homo sapiens sapiens inizia circa tre milioni di anni fa. La forma completa della specie dal punto di vista fisiologico è stata raggiunta molto dopo, quando è stata acquisita dapprima la possibilità di modulare la voce come premessa per il passaggio dal “comportamento comunicativo” – quello che usiamo nei nostri rapporti con gli animali domestici o con persone con le quali non condividiamo la lingua (“Io Tarzan, tu Jane”) – al linguaggio vero e proprio in seguito. Si pensa che il linguaggio sia comparso in forma completa almeno 60.000 anni prima del presente, perché in questo periodo si è realizzata la colonizzazione delle isole pacifiche a partire dalla costa del Sudest asiatico, migrazione che implica una capacità di linguaggio perché, mentre le migrazioni terrestri possono avvenire anche senza comunicazioni sofisticate, l’andar per mare richiede una comunicazione tramite una lingua evoluta. Attorno a quel periodo si nota anche

dai reperti una sorta di esplosione culturale che confermerebbe la disponibilità per la specie umana di una comunicazione sofisticata. Venendo verso la nostra era, il passaggio cruciale sembra essere la migrazione del Cro-Magnon, la specie umana odierna, nei territori precedentemente occupati da una specie più antica, quella dei Neanderthal, probabilmente meno capace di una comunicazione sofisticata e che è poi scomparsa. Sin dalla scoperta del primo fossile di Neanderthal nel 1856, gli scienziati si sono interrogati sul posto che questi umani del passato occupavano nell’albero genealogico della specie e nel loro destino. Per decenni due teorie contrapposte hanno dominato il discorso scientifico; una sostiene che i Neanderthal siano una variante arcaica della nostra specie, cioè dell’Homo sapiens, variante che si è evoluta o che è stata assimilata dalla popolazione europea anatomicamente moderna. L’altra ipotizza invece che i Neanderthal siano una specie separata e distinta, Homo neanderthalensis, che gli umani moderni hanno velocemente eliminato quando sono entrati nel territorio arcaico degli ominidi. Negli ultimi decenni, due risultati chiave hanno però spostato il centro del dibattito lontano dalla domanda se i Neanderthal e i moderni abbiano fatto l’amore o la guerra. Il primo risultato è relativo all’analisi del Dna e dimostra che non ci sono quei segni di ibridazione con gli umani moderni che molti ricercatori si aspettavano di trovare. Il secondo risultato deriva dai grandi miglioramenti dei metodi di datazione, i quali sono in grado di dirci che, con l’invasione dell’Europa da parte degli umani moderni – che inizia un po’ prima di 40.000 anni fa –, invece di scomparire i Neanderthal sopravvissero per quasi 15.000 anni. Non proprio la rapida eliminazione che gli aderenti alla teoria della guerra lampo avevano ipotizzato. Comunque, attorno a 28.000 anni prima del presente, l’invasione dell’uomo moderno in Europa fu completata. Gli ultimi gruppi di neandertaliani rilevati vivono ai margini del continente, per esempio vicino a Gibilterra. Vi sono molte leggende che identificano i neandertaliani con gli orchi della tradizione medievale nordica. Forse il più bel racconto di fantasia in questo senso è Eaters of the Dead di Michael Crichton che immagina il viaggio verso nord di un funzionario bizantino, il quale nelle terre artiche incontra una strana popolazione semiumana, identificata come un residuo di neandertaliani in ritirata. Nonostante la competenza scientifica di questo grande scrittore di science fiction, si tratta di un’invenzione implausibile perché le recenti ricerche attribuiscono la scomparsa dell’Homo neanderthalensis proprio alla sua incapacità di adattarsi all’epoca glaciale, visto che la sua costituzione fisica richiedeva – così alcuni studiosi hanno valutato – un dispendio energetico superiore del 35% a quello dell’uomo moderno. In effetti, l’unica traccia sinora trovata di un nucleo di Homo neanderthalensis è stata reperita nell’estrema parte meridionale del continente europeo. In ogni caso, la vicenda della

sostituzione dei neandertaliani con le popolazioni dell’uomo moderno – che può essere considerata l’ultima, in ordine di tempo, fase evolutiva che interessa la specie umana – ci insegna a non dimenticare il lento ritmo (rispetto alle generazioni umane) dei grandi mutamenti storici: la convivenza, cooperativa oltreché competitiva, ma apparentemente senza matrimoni misti, tra uomo moderno e Neanderthal è durata 15.000 anni, cioè un periodo più lungo o almeno analogo a quello dello sviluppo delle società umane dal Neolitico a oggi. Prima di affrontare l’ultimo tratto di questo percorso, quello che riguarda lo sviluppo della città dalle origini a oggi, dobbiamo forse rispondere a una domanda che sorge spontanea. Come si misurano i tempi in epoche così lontane? Che validità hanno le date di cui si parla, inevitabilmente, con una certa disinvoltura? La cultura contemporanea è abituata a una datazione dei fatti minuta e persino ossessiva: i nostri strumenti di misurazione del tempo sono assai precisi e la nostra epoca ha numerosissimi apparati di registrazione dei fatti, da quelli governativi e amministrativi in genere a quelli a fini militari, a quelli delle imprese o delle istituzioni scientifiche e, da ultimo, alle registrazioni del vasto mondo dei mezzi di comunicazione di massa. La rete, con le sue ultime applicazioni dei vari network sociali, è uno specchio di questo vasto mondo informativo. Ma via via che ci allontaniamo dal presente verso il passato dobbiamo abbandonare questa pretesa di esattezza o quanto meno di precisione: Ernst H. Gombrich, in Breve storia del mondo (un libro fittiziamente presentato come libro per bambini), ci offre una bellissima immagine scrivendo che lo studio del passato è come affacciarsi su un pozzo buio di cui non vediamo la fine, dare fuoco a un foglio di giornale e lanciarlo verso il fondo; la fiamma scende svolazzando e illumina tratti di parete qui e là a sprazzi, poi diventa sempre più fioca e lontana, e noi dobbiamo cercare di ricostruire il pozzo sulla base di queste poche illuminazioni. Oggi, forse più che nel momento in cui scriveva Gombrich, esistono però molti strumenti che ci aiutano a illuminare le pareti del pozzo con diverse forme di luce. La prima forma riguarda la datazione dei reperti materiali, artefatti, resti umani, animali o vegetali, che gli studiosi rinvengono via via. Il metodo principale universalmente adottato è quello della misurazione al carbonio-14. Com’è noto, il carbonio-14 è un isotopo radioattivo, cioè un elemento simile al carbonio, materiale quasi onnipresente nel mondo vivente, ma dotato di radioattività e quindi della proprietà del decadimento; questo decadimento può essere misurato con relativa precisione. Ovviamente dobbiamo abbandonare l’impazienza quantitativa4 tipica della nostra epoca e imparare ad accettare un certo grado di approssimazione. Nel caso del carbonio-14, scrive Mario Liverani: “Una datazione ‘4000 B.P. +/- 100’ significa cha la data ‘vera’ ha il 68% di probabilità di trovarsi nel periodo 4100-3900 e il 95% di trovarsi nel

periodo 4200-3800 (un sigma e due sigma attorno alla media di una gaussiana)”.5 Oltre che fissare la nostra attenzione sul reperto, possiamo utilizzare il contesto in cui è stato trovato (nella sabbia, nella lava, sul fondo di un lago o di un corso d’acqua, nelle rocce e via dicendo). In questo caso le datazioni sono basate sulle conoscenze geologiche che permettono di ricostruire le caratteristiche dei sedimenti in cui un certo oggetto si trova. Questo tipo di datazione è particolarmente efficiente nei contesti in cui vi è stata una successiva sedimentazione. Poiché i geologi sanno con buona certezza i tempi con i quali si forma un certo strato di materiale, in funzione del tipo di materiale è possibile ricostruire l’epoca in cui un certo oggetto (ceramica, artefatto, ossa ecc.) è collocato. Questa tecnica si chiama “stratigrafia” e, anche se ha il difetto di non permettere sempre una datazione assoluta certa, è comunque utilissima per stabilire la datazione relativa di oggetti diversi che si collocano in strati diversi sovrapposti. Come vedremo, la stratigrafia ci dice poi cose molto importanti sulla natura del fenomeno urbano. Una tecnica in pieno sviluppo è quella che viene definita “dendrocronologia”, cioè la cronologia basata sulle piante e, in particolare, sullo studio dei tronchi. Com’è noto, le piante crescono per accrezione annuale e se si seziona un tronco si possono contare gli anni di vita della pianta contando il numero di anelli. Non solo: dallo spessore degli anelli è possibile risalire anche alle condizioni climatiche di quell’anno. Se partiamo dalla sequenza di una pianta vivente, possiamo risalire alla sequenza di epoche antiche, utilizzando tronchi anche carbonizzati usati nelle costruzioni. È possibile quindi ricostruire delle sequenze esatte per certi periodi, mentre ci sono buchi per altri. La dendrocronologia può essere utilizzata per calibrare il carbonio-14. Tutti questi metodi si combinano poi con metodi ricavati dai documenti antichi, quando con le registrazioni degli scribi si cominciano ad avere anche calendari di eventi. L’insieme di tutte queste tecniche permette agli studiosi una ricostruzione con approssimazioni successivamente più precise e complementari, come in una costruzione antica in cui diverse parti dell’edificio si sostengono a vicenda in modo efficace anche se a volte apparentemente disordinato. Con la definitiva scomparsa dell’Homo neanderthalensis, i successivi eventi cruciali, che vengono tradizionalmente chiamati “rivoluzioni” – anche se forse il termine è fuorviante perché suona come un cambiamento puntuale e improvviso – non riguardano più le caratteristiche genotipiche della specie umana, ma la sua organizzazione sociale in relazione al modo di produzione. La prima rivoluzione è quella nota come “Rivoluzione agricola”, e coincide con il periodo neolitico, diciamo tra centocinquanta e cento secoli orsono. In questa era, la specie umana si sedentarizza in alcune zone del pianeta e la tecnologia agricola permette di

accumulare prodotti per un consumo differito nel tempo. Tuttavia, ciò implica un’organizzazione sociale nuova in grado di governare la produzione stanziale, diversa dalla caccia, dalla pesca e dalla raccolta dei frutti della terra. Si passa per una fase ortofrutticola in cui le coltivazioni spontanee vengono in parte sistematizzate. Sono stato molto sorpreso nel 2007 quando, visitando le Isole Vanuatu (ex Nuove Ebridi), in diversi villaggi che si trovano ancora oggi in uno stadio economico molto simile al Neolitico, mi è stato detto che gli abitanti la mattina si recano nel “garden”, un pezzo della rigogliosa foresta di palme che viene coltivato facendo nascere le palme in modo più o meno ordinato e crescendo qualche altro frutto e ortaggio. Il termine (in inglese perché, oltre al nativo bislami, i locali parlano inglese e francese) è proprio quello corretto, usato anche dagli antropologi che lo hanno probabilmente introdotto, ma corrisponde con certezza a un concetto locale. La fase ortofrutticola non implica un cambiamento molto profondo dell’organizzazione del villaggio rispetto alle fasi precedenti descritte da Marshall Sahlins e altri antropologi. La specializzazione nel lavoro è bassa, tutti fanno un po’ di tutto, l’allevamento degli animali, maiali e pennuti in particolare, avviene in forma domestica (con conseguenze tipiche per l’igiene e la salute dei bambini, la scabbia è imperante, non diversamente da quanto avveniva nelle classi delle scuole elementari che ho avuto la ventura di frequentare durante la Seconda guerra mondiale, ma con la differenza non piccola che allora anche in ambienti poveri i rimedi, come i lavacri di zolfo, erano disponibili, mentre alle Vanuatu sono disperatamente assenti). La vera Rivoluzione agricola avviene con il passaggio a forme di coltivazione che richiedono aratura e irrigazione e ibridazione sistematica come le colture cerealicole, nonché la disponibilità di trazione animale e un maggiore livello di divisione del lavoro, specializzazione e disciplina. Le condizioni per la nascita e lo sviluppo della città Come mai l’urbanizzazione non è avvenuta in tutto il mondo? Evidentemente la nascita delle città non è un fenomeno che può essere spiegato come un processo meccanico e lineare, un’esigenza o una tendenza universale. Ci sono state molte teorie che hanno cercato di individuare dei meccanismi automatici, dinamiche o strutture latenti che spiegano il procedere necessitato verso la città. Sulle condizioni per lo sviluppo della città si sono contrapposte teorie evolutive e teorie della discontinuità: come dice McCormick Adams, in modo molto elegante, l’urbanizzazione è stata vista come un “processo” piuttosto che un “evento”. Queste contrapposizioni hanno a che vedere con modelli di linearità o non linearità della storia. Nella ricerca delle origini si è spesso tentati di attribuire a un solo decisivo fattore la nascita o lo sviluppo di una società. È difficile pensare che modelli monofattoriali, per quanto possano essere

affascinanti, risolveranno mai il problema. Lo sviluppo dei fenomeni sociali è qualcosa che assomiglia più a un processo di produzione, in cui le componenti devono essere assommate in una certa maniera e secondo una certa tempistica, piuttosto che a un modello meccanico o funzionale in cui un fattore ne implica un altro. Possiamo chiamare questi modelli come modelli che seguono una logica di valore aggiunto, cioè modelli in cui un certo stato di cose crea opzioni e vincoli per lo stato successivo, inclusi, nel caso delle società umane, le opzioni e i vincoli derivanti dai modelli istituzionali e culturali e dai loro effetti sulla personalità. La logica del valore aggiunto offre ricostruzioni più plausibili dei processi di mutamento che si accompagnano alla nascita e allo sviluppo delle città. Vista a posteriori, la storia può essere raccontata come una catena logica di eventi, ma ciò deriva probabilmente non da “leggi”, come sostengono le filosofie storicistiche o teleologiche, bensì dalla circostanza che a ogni successivo momento sono state scelte (o si sono imposte) vie che hanno scartato corsi di azione alternativi. E la prova è che nessuna teoria storicistica, per quanto convincente nella spiegazione del passato, è mai riuscita a prevedere il futuro, cioè uno stato verificabile solo dopo che le opzioni del presente sono state esercitate. Appare evidente, dallo studio delle tracce archeologiche e storiografiche, che a un certo punto dell’evoluzione della specie umana sono comparse formazioni sociali caratterizzate da insediamenti stabili, in un primo tempo piccoli e poco densi, collegati alla coltivazione della terra; in un secondo tempo insediamenti di maggiori dimensioni la cui esistenza richiedeva necessariamente gradi elevati di divisione del lavoro e sistemi complessi di regolazione sociale e politica. Non abbiamo nessuna teoria che possa spiegare in modo incontrovertibile perché a un certo punto si siano verificate rotture successive di equilibrio tra popolazioni umane e territorio le quali hanno portato alla società urbanizzata. Ma soprattutto nessuna teoria, che non sia stata efficacemente confutata, ci dice che questo sviluppo sia stato inevitabile. Se osserviamo popolazioni che hanno mantenuto questi equilibri molto più a lungo delle società indoeuropee, asiatiche o americane che hanno dato vita alle grandi civiltà urbane nell’antichità, possiamo concludere che è perfettamente possibile immaginare un corso alternativo. Per esempio gli aborigeni australiani hanno una cultura molto ricca che si è mantenuta in equilibrio per millenni ai livelli più bassi della tecnologia: il libro di Bruce Chatwin sulle Songlines contiene racconti “geografici” su queste popolazioni straordinariamente avvincenti. L’aspetto più importante della preistoria riguarda il rapporto tra la specie umana e l’ambiente naturale. Quando cominciarono a lasciare i segni che tradizionalmente costituiscono il linguaggio della “storia”, i nostri antenati erano già in grado di esercitare un certo controllo sulla natura: avevano

addomesticato animali e piante, costruivano strumenti, abitazioni e le prime città. Ma nei millenni precedenti la specie umana, per sopravvivere, era dipesa in modo assai più stretto dall’ambiente. Era soggetta alle variazioni del clima, alla disponibilità di cibo animale e vegetale e doveva competere con le altre specie animali vivendo a stretto contatto con esse. In un certo senso la “storia della preistoria” è anche quella del sempre maggiore controllo che la specie umana è stata in grado di esercitare sull’ambiente. Oggi sappiamo che, con l’aumento della popolazione umana e il consumo di risorse ed energia che ne deriva, il controllo può trasformarsi in distruzione. Lo studio della preistoria e degli adattamenti intelligenti che la specie umana era costretta a escogitare in quelle epoche lontane per sopravvivere ci aiuta a capire che il rapporto con l’ambiente è condizione essenziale per la sopravvivenza stessa del nostro pianeta e, con esso, della nostra specie. Conoscere la preistoria, dunque, non è solo una premessa indispensabile per comprendere la storia più antica. È anche un insegnamento di fondamentale importanza per il nostro futuro. Il rapporto tra popolazione e territorio Il rapporto fra territorio, risorse e popolazioni e alcune caratteristiche variazioni di questo rapporto nel corso dell’evoluzione della razza umana nelle diverse ere preistoriche rappresentano un indicatore chiave per capire le condizioni dello sviluppo. La Rivoluzione agricola nell’era neolitica, con la comparsa dei primi insediamenti umani nel Vicino e Medio Oriente, venne definita “Rivoluzione urbana” dall’archeologo australiano Vere Gordon Childe.6 Nella tradizione contemporanea, città e campagna sono viste come due entità distinte e contrapposte, come due mondi diversi e inconciliabili, due modi di organizzazione sociale. Si tratta di un’immagine estremamente fuorviante perché agricoltura ed economia di città sono in effetti strettamente collegate sin dalle più lontane origini del fenomeno urbano. Come fa osservare Paul Bairoch: la città emerge non soltanto parallelamente ai progressi agricoli, ma come loro diretta conseguenza. Dove manca l’agricoltura troviamo solo sottili concentrazioni di popolazione, mentre senza elevate concentrazioni di popolazione non può esserci urbanizzazione. In precedenza, nell’epoca delle società di cacciatori e raccoglitori, troviamo formazioni sociali semplici e di piccole dimensioni, che occupano temporaneamente un certo territorio per abbandonarlo nel momento in cui vi si esauriscono le risorse. La dipendenza dai prodotti della natura, siano questi animali o vegetali, rende queste bande di cacciatori e raccoglitori necessariamente nomadi e gruppi nomadi non creano insediamenti permanenti, tanto meno città. Questo lungo periodo preurbano si chiude con la Rivoluzione neolitica o agricola; la pietra che ora l’uomo è in grado di lavorare, la “pietra nuova” dunque, permette a sua volta la lavorazione della terra e determina la formazione di villaggi in cui gruppi diventati sedentari si dedicano

all’agricoltura. Diverse ragioni spiegano perché le popolazioni del Neolitico siano passate all’agricoltura, sebbene il passaggio per queste popolazioni comporti un maggiore impegno e fatica nel procurarsi di che vivere. Gli storici propendono per la tesi secondo la quale fu una scelta forzata, determinata dalla pressione demografica su risorse alimentari che si erano fatte scarse. In questa sede, però, non siamo tanto interessati al passaggio dalle società di cacciatori e raccoglitori alle società basate sull’agricoltura, quanto al passaggio da insediamenti rurali permanenti alla costituzione di città. In effetti, è proprio in epoca neolitica che sorgono le prime città, come abbiamo già detto. Vediamo di capire perché sono nate le città e come mai si sono sviluppate in quelle aree geografiche. La teoria del surplus agricolo offre una risposta a entrambe le domande. Secondo questa teoria la formazione di una città dipende dalla precedente disponibilità di eccedenze alimentari che non sono consumate dai produttori, cioè dai contadini. Nei villaggi neolitici, caratterizzati da un basso livello tecnologico, tutti gli abitanti sono impegnati nella coltivazione della terra per assicurarsi raccolti sufficienti alla sopravvivenza. In questa fase non si producono eccedenze e tutto il raccolto viene consumato. Nel momento in cui la tecnologia disponibile progredisce, per esempio con l’addomesticamento degli animali e la costruzione di strumenti agricoli più efficaci, come l’aratro in ferro, la produzione aumenta e si crea una certa eccedenza, cioè prodotti, come i cereali, che non sono consumati per la sopravvivenza. Questa eccedenza può essere utilizzata per nutrire una popolazione impegnata in attività diverse da quelle agricole, sia la produzione di manufatti, frutto dell’attività di fabbri, falegnami, vasai, sia i servizi di difesa, per esempio, guardiani e soldati, o ancora per servizi religiosi. Alla crescita della produttività in agricoltura corrisponde un aumento di persone non direttamente impegnate in essa e occupate in un ampio ventaglio di professioni diverse. Le città sorgono e si sviluppano come luoghi di residenza e di lavoro di coloro che non sono impegnati in agricoltura, e questo avviene laddove più alta è la produttività agricola: più questa è elevata, maggiore sarà la probabilità che si formino città e che queste siano di dimensioni e complessità significative. La produttività agricola aumenta grazie al progresso tecnologico: l’aratro trainato da buoi, la capacità di lavorare i metalli, le tecniche di irrigazione e di navigazione, l’addomesticamento di animali e piante, le diverse forme di scrittura. Nella Mesopotamia tutte queste tecnologie sono presenti e i conseguenti aumenti di produttività agricola consentono lo sviluppo di una vita urbana complessa e sofisticata; ma la città non è stata un’“invenzione” della civiltà sumera che si sarebbe poi diffusa in altre regioni. La presenza di città neolitiche in parti del mondo molto distanti tra loro dimostra che processi di formazione di città si mettono in moto ovunque viene raggiunta questa soglia di efficienza tecnologica in agricoltura. In questo senso possiamo affermare che la

Rivoluzione agricola del 7000 a.C. e le innovazioni tecnologiche del Neolitico rappresentano i prerequisiti necessari per la Rivoluzione urbana del 4000 a.C. Finora abbiamo trattato la relazione tra produttività agricola e urbanizzazione, ma rimane ancora oscuro il meccanismo attraverso il quale il surplus prodotto da ogni famiglia o villaggio viene raccolto e ridistribuito ai lavoratori non agricoli che vivono in città. In effetti, il surplus prodotto avrebbe potuto essere conservato dai contadini, oppure i contadini avrebbero potuto lavorare di meno e produrre solo lo stretto necessario per la loro sopravvivenza. Secondo Vere Gordon Childe, in Egitto, nel periodo dei primi faraoni, una singola famiglia di contadini era in grado di estrarre dal fertile suolo della pianura del Nilo tre volte il cibo necessario per il proprio sostentamento: perché avrebbero dovuto lavorare così tanto? La risposta è perché vi erano costretti: i contadini producevano eccedenze alimentari per pagare le tasse ai faraoni. L’esistenza stessa di eccedenze e il loro ammontare dipendono dalla coercizione esercitata da forme di potere centrale in grado di assoggettare territori agricoli più o meno vasti. Ecco allora che la teoria del surplus risulta insufficiente a spiegare la nascita delle città. Potenzialmente eccedenze alimentari potevano essere ottenute quasi ovunque, ma le città non nascono dappertutto. Esse nascono dove si forma un’organizzazione statuale in grado di esercitare tale potere coercitivo e ottenere le eccedenze agricole dalla popolazione rurale; quanto più lo Stato è forte, tanto più sarà in grado di comprimere il livello di vita dei contadini e raccogliere tasse elevate e tanto più cresceranno il numero e la dimensione delle città. Il surplus non esiste senza uno Stato che lo raccoglie e lo ridistribuisce in modo più o meno diseguale. La teoria del surplus deve quindi essere integrata con una spiegazione sulle origini dello Stato. Su questo problema si confrontano sostanzialmente due famiglie di teorie. Da un lato troviamo le teorie che spiegano le origini dello Stato a partire dalla necessità di gruppi privilegiati di controllare e reprimere altri gruppi al fine di mantenere la propria posizione di privilegio. All’interno di queste teorie non c’è accordo sul fatto che forme di disuguaglianza debbano precedere la formazione dello Stato o se sia la presa del potere da parte di alcuni a strutturare in seguito società stratificate e nettamente divise tra governanti e governati. C’è invece accordo nel sostenere che la formazione dello Stato preceda la formazione delle città; in effetti troviamo antiche civiltà senza città e altre che hanno una forma di governo molto prima di costruire città, ma le città non sono mai esistite prima dell’agricoltura o del potere politico. Altre teorie spiegano la formazione dello Stato sulla base dei vantaggi che l’organizzazione politica offre alla popolazione. La protezione militare è l’esempio più ovvio, in epoche in cui i confini delle società agricole erano costantemente minacciati dai barbari delle montagne o dalle tribù predatrici del

deserto. Parimenti, la costruzione e manutenzione di opere per assicurare l’irrigazione ai campi necessita di un’organizzazione che detiene il potere e le conoscenze necessarie per esercitare tali funzioni.7 Più in generale, queste teorie enfatizzano lo scambio, con beneficio reciproco delle parti, tra contadini bisognosi di difesa e di amministrazione ed élite politiche, militari e religiose che assolvono funzioni necessarie per la vita e la riproduzione della società nel suo complesso. L’opinione prevalente tra gli studiosi è, tuttavia, che le relazioni tra la città, sede di queste élite, e la campagna, luogo della produzione, siano state piuttosto di oppressione e sfruttamento; quale che fosse la ragione iniziale per la formazione di strutture di potere, il suo consolidarsi, e quindi il formarsi di città sede di tale potere, avviene attraverso la concentrazione all’interno di un gruppo molto ristretto che esercita un potere dispotico e assoluto sui suoi sudditi. È questo un portato della strutturazione delle relazioni sociali, politiche ed economiche che contraddistinguono la città preindustriale. Vediamo perché. Abbiamo visto che la città preindustriale vive della ricchezza prodotta nelle campagne. Perché questo avvenga è necessario che un gruppo di potere si costituisca e che questo gruppo di potere sia in grado di ottenere dai contadini delle risorse in cambio di determinati servizi. Il faraone o il re era a capo di un esercito che provvedeva alla difesa, faceva costruire grandi opere di irrigazione, mentre i suoi sacerdoti pregavano gli dèi perché assicurassero un raccolto abbondante. Le élite dell’antichità consolidavano il proprio potere mediante guerre non solo difensive, ma soprattutto aggressive: così infatti guadagnavano il controllo su più estesi territori e catturavano schiavi da impiegare in agricoltura; con il lavoro degli schiavi si rendevano quindi disponibili maggiori risorse, che a loro volta consentivano il sostentamento di sempre più numerosi eserciti. Da qui il carattere endemico della guerra in tutta l’epoca preindustriale: lo schiavo ha vita breve e a lui non è in genere consentito di riprodursi, perciò la guerra, in quanto mezzo per accaparrarsi schiavi, diventa necessaria. Lo sviluppo della città dipende dalla forza di queste élite e dell’organizzazione politico-amministrativa che a queste faceva capo. Il controllo del territorio assicurato dal potere politico rendeva inoltre possibili i commerci, i quali, a loro volta, alimentavano le manifatture cittadine. Lo studioso arabo Ibn Khaldun, che può a ragione essere considerato il primo sociologo urbano, già nel XIV secolo scriveva della propensione delle città a crescere quando lo Stato era solido e a declinare quando il suo potere veniva indebolito. In effetti, ogniqualvolta ampi territori sono stati sottomessi a un potere centrale, si sono create le condizioni politiche per il formarsi sia di un aggregato urbano particolarmente significativo e sede di quel potere centrale, sia di una rete di città che amministravano quei territori e ne ricevevano tasse: Roma, Baghdad e Pechino sono diventate le più grandi città del mondo quando il loro impero era all’apogeo, e, nello stesso tempo, vi è stata una fioritura di città nelle varie regioni dell’impero. Per converso, il declino del potere centrale riduce la quantità di ricchezza che

raggiunge le città e, di conseguenza, porta a una loro riduzione, di numero e di dimensioni. Anno

Popolazione Eventi storici ROMA

100

650.000

Città più grande del mondo

410

Sacco di Roma da parte di Alarico, re dei Visigoti

455

Conquista e saccheggio di Roma da parte dei Vandali

600800

50.000

900

40.000

1000

35.000

1377

17.000

1400

33.000

1500

35.000

1600

109.000

Il papa Gregorio XI ritorna dall’esilio di Avignone

BAGHDAD 765

480.000

Capitale del Califfato degli Abbasidi (750-1258)

932

1.100.000

Città più grande del mondo Dal 940 il Califfato degli Abbasidi perde ogni importanza politica

1000

125.000

1258

Conquista della città da parte dei Mongoli A seguito dei ripetuti attacchi di Tamerlano (Secondo Impero mongolo), la città è saccheggiata nel 1401

1400

90.000

1638

30.000

1200

150.000

Nel 1264 diventa la capitale del regno della dinastia mongola Yuan

1270

401.000

Nel 1368 la capitale diventa Nanchino

PECHINO

1368

Cade la dinastia Yuan e Nanchino diventa la capitale della dinastia Ming

1400

320.000

Nel 1409 la città ridiventa capitale

1492

669.000

Città più grande del mondo

Capitali in epoca preindustriale (da Serena Vicari Haddock, La città contemporanea, il Mulino, Bologna 2004).

La mediazione culturale: l’intervento della tecnica Tra natura e società la variabile interveniente è la tecnica. Uno dei luoghi comuni più triti e fuorvianti è che il mondo antico non abbia conosciuto sviluppo tecnologico. È un abbaglio, una falsificazione dovuta alla scarsa conoscenza della storia della tecnica da parte di umanisti che di solito trattano questo argomento. Il mondo antico, anche quello più lontano nel tempo, ha conosciuto importanti sviluppi tecnologici, certo non nel settore elettronico o in quello metallurgico, perché in questi campi lo sviluppo delle conoscenze è lento. Ma ha conosciuto sviluppi tecnologici spettacolari nel campo delle costruzioni e delle tecniche agricole, in campi cioè in cui il costo zero o quasi della forza lavoro faceva aggio su altri tipi di tecnologie. Forse nessuno più dello storico della scienza Joseph Needham (Scienza e civiltà in Cina), che

dedicò la vita allo studio delle scoperte scientifiche e delle conseguenti applicazioni tecnologiche della Cina antica, è riuscito a dimostrare come il mondo antico presenti enormi progressi tecnologici che possiamo rintracciare solo se pensiamo “out of the box” e apriamo gli occhi per vederli. Ovviamente diversa è la questione del dinamismo della contemporaneità e degli effetti della diffusione tecnologica e della sinergia tra diverse tecnologie. Il dinamismo tecnologico della contemporaneità è un effetto derivato delle sinergie tecnologiche: la matematica fornisce gli strumenti per lo sviluppo dell’informatica; la fisica, i modelli per il controllo dei flussi di elettroni; la metallurgia e la chimica, i supporti materiali, e così via. Spesso ci si è chiesti come mai non si sia sviluppato il capitalismo nelle società antiche e si è detto che fattori istituzionali come, per esempio, la compresenza di forza lavoro schiava e forza lavoro libera che riduceva la produttività siano responsabili di questo mancato sviluppo (Perry Anderson, Passages from Antiquity to Feudalism). Le risposte istituzionali sono interessanti, ma trascurano alcuni particolari della storia della tecnologia che sono almeno altrettanto rilevanti. È difficile pensare a una forma di capitalismo evoluto senza strumenti di contabilità basati su aritmetiche che i romani non possedevano. È vero che si può sempre dire che il bisogno aguzza l’ingegno e che prima o poi l’avrebbero messo a punto. Ma questo è un ragionamento molto superficiale che si scontra con numerosi dati della storia della tecnica e, in ogni caso, i romani questo sistema non lo avevano. Così come senza il macchinismo industriale anche il più esteso sistema di schiavitù incontra limiti ben precisi alla produttività necessaria per dar vita a un sistema capitalistico basato sulla produzione e lo scambio delle merci. La metallurgia necessaria per costruire macchine capaci di confinare le fonti di energia in dimensioni ridotte al punto da permettere un efficiente trasporto della fonte di energia stessa si è sviluppata lungo l’arco di millenni. Senza questo tipo di macchine è molto difficile pensare a una qualsivoglia forma di produzione capitalistica. E la metallurgia ha un ritmo di sviluppo difficilmente comprimibile: ancora nel secolo scorso, quando già il sistema produttivo era fortemente basato sul macchinismo, il primo vero calcolatore moderno, l’analytical engine di Charles Babbage, pur essendo stato minutamente disegnato (tanto che gli scienziati del Science Museum di Londra l’hanno oggi ricostruito), non poté essere assemblato perché mancavano le leghe necessarie. Per contro, è stato argomentato che anche con una tecnologia sviluppata come quella cinese – scarsa tuttavia in metallurgia – non si sia verificata alcuna Grande Trasformazione, di cui parla magistralmente Karl Polanyi per le società europee (The Great Transformation), perché le caratteristiche istituzionali della società cinese lo impedivano. Qui abbiamo una spiegazione simmetricamente inversa. Così, mentre talvolta questi esercizi intellettuali sono interessanti,

spesso conducono, sia pure sotto elaborati apparati concettuali, a interrogativi ingenui, già posti e risolti in passato, anche se in forme leggermente diverse, oppure a spiegazioni poco plausibili o tautologiche. Lo sviluppo è sempre una combinazione di fattori, un processo simile a quello della creazione del valore aggiunto, come vedremo. I fattori della rivoluzione urbana Ai due processi interrelati che sottostanno alla rivoluzione urbana – l’evoluzione della divisione del lavoro e la concentrazione della popolazione in determinati luoghi – va aggiunto l’elemento chiave della civiltà urbana che è la sua capacità organizzativa, in particolare la capacità di organizzare e trasmettere conoscenze e informazioni. In questo contesto la variabile chiave è l’invenzione della scrittura, non solo analitica, ma anche iconica, comunque sempre intesa come capacità di trasmettere. L’origine della scrittura va ricollegata alle esigenze di accumulo, custodia e trasferimento di beni in società la cui amministrazione ha assunto grandi dimensioni e carattere impersonale; in queste società non è più sufficiente la fiducia personale, è necessario che i beni siano custoditi e garantiti in maniera obiettiva e controllabile. Il sigillo, un grumo di argilla su cui si imprime un segno caratteristico di riconoscimento della persona che è garante e responsabile del contenuto, viene messo sulla chiusura di un vaso, dell’anfora o della corda che chiude un magazzino. Sigilli esistono già in epoca preurbana, ma è solo con il costituirsi delle amministrazioni cittadine che si diffondono in risposta a esigenze di controllo e di garanzia. Sono state ritrovate grandi quantità di questi grumi di argilla sigillati, che gli archeologi chiamano cretule o bulle, perché una volta rotti dal funzionario responsabile venivano gettati in scarichi presso i locali dell’amministrazione; il loro studio offre molte informazioni sulle diverse strutture amministrative che sono però ancora prive di scrittura e quindi non in grado di trasmettere ulteriore conoscenza oltre i dati forniti dai sigilli. Sempre esigenze di carattere amministrativo spingono per un superamento del sigillo: con l’uso di contrassegni (in inglese, tokens) che simboleggiano i diversi beni o registrano le quantità con i primi segni numerici. Così si rendono possibili operazioni più complesse, ma ancora non è una vera scrittura. Il passo ulteriore e decisivo è il passaggio dalla forma oggettuale – il contrassegno solido che simboleggia l’olio, per esempio – alla forma grafica, il segno grafico che rappresenta l’olio. In questo modo si conosce il contenuto dell’involucro senza rompere il sigillo per vedere i tokens che contiene. Ben presto perciò diventa superflua l’inclusione dei contrassegni, e il sigillo si trasforma in una tavoletta in cui l’argilla è ormai diventata supporto per la scrittura. Col tempo le tavolette perdono la loro forma tondeggiante, adatta a contenere i contrassegni, per diventare piatte e più grandi; oltre ai segni numerici e alla raffigurazione

semplificata degli oggetti cominciano poi a comparire concetti astratti o verbi. Con questo passaggio abbiamo anche la dimostrazione che i testi dell’epoca di Uruk erano scritti in sumerico, ma com’è avvenuto? Si è cominciato a usare la raffigurazione di un oggetto per indicare anche un’altra parola che avesse lo stesso suono (omofono) o un suono molto simile. Liverani stesso fa l’esempio della freccia, che si dice TI in sumerico, la cui rappresentazione indica anche la “vita”, che si dice nello stesso modo. Ovviamente questo gioco di sostituzioni vale solo per la lingua in cui quelle coppie di parole hanno lo stesso suono. Con il passaggio da un valore figurativo (ideografico, cioè scrittura di concetti) a un valore logografico (cioè scrittura di parole) si possono comporre testi sempre più complessi e articolati. I segni poi perdono a poco a poco il ricordo dell’immagine rappresentata e diventano dei simboli del tutto convenzionali, cioè una vera e propria scrittura astratta. Dal punto di vista sociale, man mano che si compie quest’ultimo ulteriore passaggio e via via che aumenta il numero dei segni che fanno parte del repertorio abituale, la scrittura diventa una tecnica difficile da padroneggiare e la cui acquisizione richiede un lungo periodo formativo; essa è quindi appannaggio di un nuovo ristretto gruppo sociale, quello degli scribi, che detiene nella struttura sociale urbana una posizione di prestigio e di potere. Inoltre la scrittura rivoluziona i rapporti tra le persone in quanto “segna il passaggio da una comunità di fatto, tenuta insieme da tradizioni e legami familiari, a una comunità strutturata, tenuta insieme da norme e da un preciso computo delle prestazioni di ciascuno e dei suoi conseguenti diritti ad attingere alle ricchezze comuni”.8 Conclusioni Sull’urbanizzazione antica nel suo complesso, grazie agli studi scientifici di diverse discipline, siamo in grado ora di trarre le seguenti conclusioni. Innanzitutto la sua caratteristica evolutiva, dimostrata, oltre che dai progressi della tecnologia, dalla nascita e dallo sviluppo del diritto; non mostrano invece caratteristiche evolutive, ma piuttosto cicliche, le istituzioni politiche. L’urbanizzazione antica ci parla poi dell’evoluzione della specie umana come un processo non lineare. È più plausibile descrivere questo processo attraverso l’immagine di un “albero kierkegaardiano”, in cui a ogni fase si presentano diverse alternative e fra queste ne viene poi seguita inevitabilmente una sola. Ripercorrendo all’indietro e, per così dire, dalle foglie al tronco, la successione degli eventi, si può talvolta ricostruire la logica di una sequenza di scelte successive. Ma non quella di alternative che, essendosi perse nel tempo, sfidano la ricostruzione razionale al pari dell’indagine sul futuro. In un certo senso ciò che è reale è razionale, ma solo nel senso in cui, come dice Weber, “la storia è un dado truccato” e quindi la necessarietà degli eventi successivi è dipendente

solo dalla restrizione delle alternative data dagli eventi precedenti. Non dunque da un “grande disegno”, immanente o rivelato che sia. Il dibattito sullo sviluppo demografico offre un interessante esempio di un’evoluzione non lineare. Fino a pochi anni orsono si sarebbe dato per scontato che lo sviluppo demografico fosse inarrestabile ed esplosivo. La logistica malthusiana (curva a “S”, Drosophila melanogaster) sembrava insufficiente a spiegare la crescita esplosiva. Oggi però le osservazioni dicono che si è verificato un calo dei tassi di crescita ovunque nel mondo. Naturalmente il livello assoluto della popolazione mondiale, così come il suo tasso di crescita, continuano a rimanere elevati e problematici. Il calo tuttavia è da ascriversi alle relazioni complesse che intercorrono tra risorse, popolazione, politiche di sviluppo e urbanesimo. Un corollario della visione evoluzionistica della storia umana è il dibattito su “innovazione” o “diffusionismo” a proposito della nascita e dello sviluppo delle città. Il fenomeno urbano nell’antichità si è sviluppato in alcuni luoghi ben definiti in tempi diversi, come abbiamo visto. Abbiamo visto due ipotesi contrapposte: da un lato che l’idea di città sia stata “esportata” o si sia “diffusa” a partire dall’originario focolaio mediorientale, dall’altro che la città sia stata “reinventata” di volta in volta in epoche successive e luoghi diversi. Per sostenere le tesi diffusioniste non è sufficiente trovare forme architettoniche simili in civilizzazioni diverse: per esempio le piramidi nell’antico Egitto e nelle civiltà precolombiane. La piramide, infatti, è un modulo costruttivo ovvio se si vuole innalzare un edificio di grandi dimensioni, e infatti le ritroviamo anche nelle ziggurat mesopotamiche. Oltre alla somiglianza delle forme occorre stabilire la plausibilità della trasmissione culturale, e cioè una sufficiente propinquità nel tempo e nello spazio, nonché l’identificazione dei possibili agenti di trasmissione. Anche da questo punto di vista, tuttavia, occorre essere estremamente cauti. Infatti, i tentativi di stabilire legami di diffusione non sembrano trovare validazioni nelle teorie contemporanee. Emerge invece dalle ricerche contemporanee un forte elemento di ciclicità che suggerisce di studiare i vari momenti del processo di urbanizzazione come fasi, non necessariamente collegate in sequenza, di modi diversi di regolare i rapporti tra società, risorse e territorio. La ciclicità è resa evidente nell’indagine stratigrafica, ma è posta sotto l’occhio di tutti anche dalle comuni conoscenze storiche, la scomparsa di grandi civiltà urbane come quelle mesopotamiche, egiziane o egee o la rinascita urbana dal Medioevo rurale di un’Europa interamente ricoperta di foreste dopo la dissoluzione del mondo dell’antichità classica. D’altro canto, i momenti cosiddetti “di progresso” non coincidono

necessariamente con una generalizzazione del benessere, anche se corrispondono a un aumento della capacità di accumulazione. Questo può sembrare un paradosso, ma rappresenta invece, dal punto di vista sociologico, un aspetto importante dei mutamenti sociali. Alessandro Pizzorno ci spiega che è compito della sociologia comprendere: a) come le unità collettive si costituiscano; b) come esse conformino a sé gli individui (come esse trasformino in sociali gli individui biologici o come essi trasformino in propri membri gli ex appartenenti ad altre unità collettive); c) come, in tali unità collettive, i compiti sociali vengano divisi e assegnati ai diversi individui, così che ne risultano differenti e stratificati diritti e doveri e si generano competizioni e conflitti. Per esempio, tutte le nostre conoscenze confermano che il Neolitico e la diffusione delle tecniche agricole portarono a un aumento della capacità di produzione alimentare che rappresenta una premessa necessaria, anche se non sufficiente, per lo sviluppo delle città. Tuttavia l’introduzione dell’agricoltura non ha significato un miglioramento delle condizioni di vita per tutti. Anzi è molto probabile che l’introduzione della produzione agricola abbia significato innanzitutto una diversa divisione del lavoro e quindi un aumento del prodotto sociale aggregato, ma una concentrazione dei vantaggi e quindi una diminuzione delle condizioni di vita medie. Lo studio di reperti anatomici umani e in particolare della cosiddetta auxologia (auxein = crescere) permette di stimare la statura, che è un buon indicatore di benessere, come provano i dati contemporanei che registrano un aumento generale della statura con l’aumento del reddito. I dati sulla statura indicano che in corrispondenza dell’insediamento neolitico vi sono stati sensibili abbassamenti della statura, per non parlare della diffusione di altre patologie legate all’inasprimento delle condizioni di lavoro. Analoghe considerazioni valgono per il successivo grande mutamento storico in occasione della Rivoluzione industriale. Note 1 Mario Liverani, Uruk la prima città, Laterza, Roma-Bari 2006. 2 Thor Heyerdahl, Kon-Tiki ekspedisjonen, Gyldendal Norsk Forlag, Oslo 1948 (trad. it.: Kon-Tiki. 4000 miglia su una zattera attraverso il Pacifico, Aldo Martello Editore, Milano 1952). 3 Felice Vinci, Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’Odissea e dell’Iliade, Palombi, Roma 2008. Ho fatto molta fatica nel leggere questo testo perché l’apparato professionale, per esempio un accurato indice dei luoghi e dei versi citati, essenziale in questo tipo di ricerche, manca. 4 Se prendete un metro da sarta, strumento familiare ma assai grossolano e prendete più volte, diciamo dieci, la misura più precisa possibile in millimetri e un decimale di un foglio di giornale, vi accorgerete subito che difficilmente le dieci misure coincideranno ma si distribuiranno attorno a una misura che si ripeterà più volte (la moda), che coincide con la media. Le altre misure si distribuiranno un po’ sopra e un po’ sotto questa misura e se si ripete quest’operazione un numero molto elevato di volte la frequenza di ciascuna misura osservata (il numero di volte in cui appare) tenderà a fare una campana detta curva di Gauss o gaussiana, con importanti proprietà matematiche che permettono moltissimi impieghi pratici nelle operazioni statistiche (controlli a campione o sondaggi di opinione).

5 Mario Liverani, Antico Oriente. Storia, società, economia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 21. 6 Su questo punto vedere i capitoli 3, 4 e 5 alle pp. 25-64 di Liverani, ibid. 7 La necessità di complesse infrastrutture per l’irrigazione ha portato il filosofo Wittfogel a ipotizzare che questa fosse la ragione alla base dell’esistenza di un potere dispotico in Cina, il solo in grado di costruire e mantenere opere di irrigazione imponenti e complesse per assicurare il controllo delle inondazioni. Ma, come molte teorie che assumono un solo fattore causale alla base delle loro spiegazioni, anche la teoria del dispotismo orientale di Wittfogel non è suffragata da sufficienti evidenze empiriche comparative che consentano di affermare che la formazione degli stati antichi sia collegata principalmente a questa funzione. 8 Mario Liverani, L’origine della città. Le prime comunità urbane del Vicino Oriente, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 138.

Terza lezione Dalla metropoli alla meta-città

Premessa Perché è essenziale occuparsi delle trasformazioni urbane in questo particolare momento storico e in un paese come l’Italia, già intensamente urbanizzato? Il mutamento urbano dell’ultimo mezzo secolo è stato così rapido e profondo che le categorie tradizionali di analisi del fenomeno urbano sono state intaccate alla radice. La confusione che ne è derivata, grazie anche al contributo non sempre disinteressato di chi a vario titolo opera sulla città, ha contribuito non poco a far sì che queste trasformazioni, soprattutto, ma non solo, nel nostro paese siano avvenute al di fuori di ogni visione strategica pensosa dell’interesse comune. Il risultato è una situazione caratterizzata da gravi sprechi e costi economici e sociali non meno che fisici e ambientali, che gravano sulla collettività in modo sempre meno sostenibile. È pertanto necessario rimuovere gli ostacoli alla comprensione dei fenomeni in corso ricostruendo un quadro chiaro e libero dai numerosi e ingombranti strati di fuorvianti incrostazioni pseudoletterarie, con cui il fenomeno urbano viene sovente descritto. A tal fine cercheremo di individuare le principali dinamiche in atto e il loro reciproco intrecciarsi, mettendo soprattutto in luce le relazioni tra il discorso sulla città, che compete agli studiosi, e le possibilità di intervenire nel modo più efficace, che compete alle istituzioni, avendo però ben chiaro che i due livelli non sono nettamente separati, ma si influenzano a vicenda. I. L’urbanizzazione contemporanea Il grande cambiamento Nel 1938, Louis Wirth scrisse un famoso saggio1 definendo in modo molto elegante le caratteristiche del fenomeno urbano con tre semplici variabili: size, density, heterogeneity. Da allora, nonostante numerosi tentativi, nessuno è riuscito a trovare una definizione migliore, tanto che questa concettualizzazione ha avuto un peso molto rilevante nelle discipline che si occupano della città, ma, soprattutto, nelle discipline applicative come l’architettura e l’urbanistica. Oggi, a cinquant’anni di distanza, dobbiamo constatare che nessuno dei tre parametri serve più a definire l’urbano. La dimensione (size) vale ovviamente ancora (le grandi città sono sempre più grandi), ma l’oggetto su cui misurarla non ha più confini precisi; di conseguenza la densità (density) diventa di difficile computo ma, in ogni caso, la densità metropolitana americana è più bassa della densità totale italiana. Rimane l’eterogeneità (heterogeneity), certo, ma che tipo di

eterogeneità e a che scala? Il sobborgo periurbano, più che al mosaico finemente composto e celebrato da Robert Ezra Park per descrivere la città americana, assomiglia a un patchwork di tante zone segregate rigidamente definite e talvolta anche difese. Quando un collaudato strumento di osservazione – che tale è uno schema teorico di questo genere – si rivela non più capace di descrivere i fenomeni che dovrebbe misurare, si deve concludere che vi sono stati profondi mutamenti nell’oggetto, e dobbiamo chiederci quali siano questi cambiamenti e quali ne siano le cause. L’urbanizzazione della società Le stime sull’andamento demografico a cavallo dei secoli XX e XXI indicano che proprio in questo periodo si sta verificando un fenomeno di portata planetaria: per la prima volta da quando la città ha fatto la sua comparsa, come prodotto fisico dell’organizzazione umana, da cinquanta a centoventi secoli orsono, la popolazione urbana del pianeta è diventata maggioranza sulla terra. E, salvo imprevisti eventi di gigantesche dimensioni, guerre, epidemie, catastrofi naturali, sempre possibili anche se non molto probabili o prevedibili, questa proporzione è destinata a crescere, e a crescere soprattutto nelle regioni meno sviluppate del mondo. All’inizio del Novecento la popolazione del pianeta era stimabile in circa 1,6 miliardi di persone – il doppio di centocinquanta anni prima. Dopo settant’anni circa la popolazione era nuovamente raddoppiata a 3 miliardi e nei trent’anni seguenti è raddoppiata una volta ancora: queste due serie collegate (popolazione e anni), una che raddoppia in periodi successivi, la seconda serie, di durata via via dimezzata, configurano la crescita esponenziale della popolazione, già prevista da Thomas Robert Malthus (1766-1834) il quale, collegandola con l’assunto che le risorse crescono linearmente (di recente corretto in peggio dalle teorie dei “limiti allo sviluppo”, che richiamano l’attenzione piuttosto sulla finitezza delle risorse), formulò l’idea di un’esplosione demografica con conseguenze catastrofiche.2 Com’è noto, per universale buona sorte, i dati reali della crescita demografica dicono che il raddoppio successivo (da 6 a 12 miliardi) che doveva realizzarsi nel 2015 (la metà del precedente periodo tra il 1970 e il 2000) non si è verificato. Per contro il dato reale è molto vicino a quello stimato dalla modellistica e dalle previsioni di un’altra famiglia di teorici della popolazione che si è concentrata non solo sulla crescita, ma anche sui fattori che la ostacolano. La metamorfosi dell’oggetto e la confusione del soggetto Le fasi finali di questa trasformazione demografica hanno profondamente caratterizzato il XX secolo, durante il quale la popolazione mondiale, come abbiamo visto, si è quadruplicata. La velocità e l’estensione planetaria del cambiamento hanno avuto effetti che non è eccessivo chiamare sconvolgenti, nel senso letterale del termine, anche delle categorie con cui esaminiamo il

fenomeno. Nessuna retorica potrebbe rendere veramente appieno il senso di questa trasformazione che non è percepibile su scala quotidiana: per la grande maggioranza degli abitanti del pianeta le dinamiche in corso provocano, al più, brevi spostamenti impercettibili che ritornano su se stessi come le molecole d’acqua in un’onda oceanica. Ma per le molecole che stanno sul frangente lo sconvolgimento è devastante, l’acqua si frantuma in spruzzi e spuma e viene portata via dal vento. Per dare solo qualche riferimento delle dimensioni di questa dinamica basta dire che, negli anni ottanta, la Cina urbana è cresciuta di una quantità di individui uguale a quella dell’urbanizzazione dell’intera Europa (Russia inclusa) in tutto il XIX secolo; nel 1910 Londra si era ingrandita di sette volte rispetto al 1800, ma Dacca, Kinshasa e Lagos sono cresciute di quaranta volte dal 1950. La popolazione urbana mondiale di 3,2 miliardi è pari all’intera popolazione mondiale ai tempi di Kennedy.3 La percezione comune di questo processo è quella di due vasi comunicanti, uno che si svuota e l’altro che si riempie. Ma si tratta di un modello ingenuamente meccanico e fuorviante: come avviene in tutti i sistemi viventi, questa trasformazione è un fenomeno interattivo; crescendo, la città si trasforma e, svuotandosi, la “campagna” cambia profondamente natura. Anche la qualità del flusso muta: il contadino che si inurba, nel momento stesso in cui arriva in città non fa più il contadino. C’è chi ha affermato che “le popolazioni che abitano nelle città dell’Europa odierna desidererebbero conservare la campagna così come la popolazione rurale l’ha lasciata. Mentre alcuni studiosi richiamano l’attenzione sulla necessità di conservare un numero di contadini sufficiente per mantenere la natura e gli spazi aperti così come sono, altri, al contrario, accusano il mestiere di agricoltore di essere uno dei principali responsabili della scomparsa del paesaggio, dell’inquinamento delle falde acquifere, della distruzione degli argini, della proliferazione di costruzioni nella campagna e così via […]. Quando rivolgono agli agricoltori queste accuse, i cittadini dimenticano però che questi fatti sono il risultato della propria crescita numerica e della crescente domanda di cibo a basso costo! […] I cittadini vorrebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro. In questo contesto rimane poco spazio per un paesaggio agrario moderno prodotto dalle pratiche agricole industrializzate contemporanee”.4 L’aspetto più rilevante della realtà urbana contemporanea riguarda i cambiamenti nella morfologia fisica e sociale delle città intervenuti nel corso del XX secolo. Risulta ormai evidente che, in ogni parte del mondo, la città tradizionale e la “metropoli di prima generazione”,5 che hanno caratterizzato la vita urbana nella porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto diverso di morfologia urbana, che sta producendo una serie di quelle che i rapporti ufficiali delle Nazioni Unite chiamano Grandi Regioni

Urbane (MURs, Mega Urban Regions) in cui forme diverse di insediamenti umani si mescolano inestricabilmente, fino a costruire una realtà urbana nuova, ma non ancora ben definita, di cui sono state date numerose definizioni o etichettature che non sto a riprendere per non confondere inutilmente il discorso. Per ragioni analitiche che accenno qui sotto, ho suggerito di chiamare questa nuova entità la meta-città.6 Nel triplice senso che questa entità è andata al di là (meta) – e persino ben al di là – della classica morfologia fisica della “metropoli di prima generazione” che ha dominato il XX secolo con il suo core e i suoi rings (polo centrale e fasce concentriche); al di là (meta) del controllo amministrativo tradizionale di enti locali sul territorio e al di là (meta) del tradizionale riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle “metropoli di seconda (e terza) generazione” sempre più dipendenti dalle popolazioni transeunti di cui parleremo più oltre. Questo mutamento ha dato luogo a notevoli fraintendimenti, non solo da parte della pubblicistica popolare, sempre pronta a impadronirsi anche del minimo sospetto di un’apocalisse, ma anche della letteratura scientifica che dagli anni ottanta del XX secolo in poi non ha perso occasione per decretare la fine della città.7 Le tre inquietudini capitali Inutile dire che la città è ben lontana dall’essere morta, ma sta semplicemente cambiando, com’è più volte accaduto nel corso della sua lunga storia; oggi, però, i profondi mutamenti dell’habitat umano in corso sono collegati alle inquietudini capitali della nostra epoca che, sempre più, appaiono interconnesse con la grande trasformazione urbana la quale, non dimentichiamolo, ha significato (in ogni caso, e cioè a prescindere dai modelli interpretativi adottati) lo spostamento della collocazione fisica di miliardi di individui in un tempo relativamente breve. Esito a usare il termine di sradicamento, perché mi è sempre parso che questo termine trascurasse il nuovo radicamento connesso con i fenomeni migratori, e poi perché, come ho già detto, mi sforzo di contenere al minimo l’uso di termini retorici. È comunque innegabile che la società contemporanea sia percorsa da numerose inquietudini, come forse è avvenuto in tutti i tempi, perché nessuna società umana è al riparo da tensioni culturali e sociali, ma è la natura di queste inquietudini capitali che caratterizza la nostra epoca. Usando la prospettiva di chi studia la città faccio risalire le principali di queste inquietudini a tre grandi dinamiche sociali e culturali: 1. la recessione dei confini; 2. la diffusione delle Popolazioni Non Residenti (PNR); 3. l’invasione della doppia ermeneutica. In questo lavoro non affronterò il problema teorico della natura di queste tendenze, ma mi limiterò a cercare di descrivere le dinamiche sociali che sono all’opera nella trasformazione urbana che si sta svolgendo sotto ai nostri occhi,

cercando di richiamare dalla letteratura corrente gli schemi interpretativi più utili. In primo luogo per capire quali insiemi di forze convergano per favorire la recessione dei confini delle città, in particolare i mutamenti connessi con la traiettoria tecnologica della mobilità in stretta correlazione con quelli connessi con la traiettoria tecnologica dell’informazione. In secondo luogo, per collegare le trasformazioni, per così dire, orizzontali, dei confini delle città, con quelle che potremmo chiamare “verticali”, cioè relative alla presenza nel territorio urbano di nuove popolazioni che abbiamo chiamato “non residenti”, che si sovrappongono ai tradizionali abitanti e che sono costituite, oltre che dai familiari “pendolari” presenti da circa un secolo, anche da altre popolazioni transeunti che abbiamo definito city users, con una sottospecie di metropolitan businesspersons. L’insieme di queste nuove popolazioni costituisce una parte oggi di crescente importanza quantitativa, anche in termini economici, della popolazione di ogni città, che abbiamo complessivamente chiamato PNR, Popolazioni Non Residenti.8 L’invasione della doppia ermeneutica, l’ultimo aspetto, è il più complesso da spiegare, ma è anche quello che incide maggiormente sull’insieme dei processi di governo della città. Il termine tecnico più appropriato è “doppia ermeneutica”, ma dopo averlo evocato, per ragioni di precisione, lo lasceremo cadere dal resto del discorso per evitare di complicare ulteriormente un discorso già denso di termini non familiari. Si tratta delle trasformazioni nel rapporto tra conoscenze esperte e decisioni collettive, e nella loro presunta sequenza causale o “supervenienza”,9 che viene oggi profondamente mutato dalla riflessività spinta che caratterizza la società contemporanea o tardomoderna. I sondaggi ne sono una buona prova: moderatamente precisi nel momento in cui misurano, spesso falliscono nelle previsioni perché, conosciuti i risultati, la situazione comincia subito a cambiare. I decisori politici (in senso ampio) leggono avidamente i risultati, i commentatori li elaborano, i mezzi di comunicazione diffondono questi commenti e nel giro di poche ore il sistema ha già subìto un riadattamento: “La conoscenza” dice Giddens “entra ed esce dalla realtà come una spirale, modificandola ed essendone modificata”.10 È un fenomeno nuovo nella sua generalità ed estensione e incide enormemente sul modo di governare, le città e il resto. II. La recessione dei confini Mobilità, informazione e nuova forma urbana Il geografo svedese Staffan Helmfrid nota che gli abitanti delle città desidererebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale in armonia con se stessa e con la natura, per sempre ferma a una mitica Età dell’Oro.11 E rimproverano agli agricoltori di contaminare questa natura con le loro pratiche agricole sempre più meccanizzate, dipendenti dall’impiego di

prodotti chimici e distruttive del tessuto rurale tradizionale. Ma è proprio la crescita impetuosa delle città che, in duecento anni di storia europea, con un ritmo progressivamente accelerato, ha radicalmente invertito i termini del rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana. Dalla cifra di 90% e 10%, che è più o meno il rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana durante cinquantotto dei sessanta secoli che marcano l’insediamento agricolo europeo, al suo netto rovesciamento: sul continente europeo il mondo rurale interessa il 10% o meno dell’attuale popolazione, mentre il 90% e più è popolazione urbanizzata. È stato questo capovolgimento a spingere per una sempre maggiore produttività agricola, la quale, a sua volta, porta alla devastazione e a volte alla distruzione totale dell’insediamento rurale tradizionale. Il fenomeno apparente della “fuga verso le campagne” altro non è che un aspetto della crescita metropolitana che è continuata indisturbata anche negli ultimi anni. Se si fa una semplice analisi della distribuzione dei comuni esterni ai confini delle aree metropolitane del 1991, che hanno visto crescere la propria popolazione al 2001, si vedrà che sono per la quasi totalità comuni adiacenti alle precedenti aree metropolitane, oppure comuni in aree con una specifica vocazione turistica: l’Italia metropolitana cresce e la tradizionale campagna si spopola. La traiettoria tecnologica della mobilità fisica Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale dominante nell’esperienza complessiva della specie umana, ma, mentre il movimento delle popolazioni sulla superficie del pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie, non c’è dubbio che la città, e in particolare la città contemporanea, fornisca l’ambiente fisico e culturale in cui il sistema di mobilità si è sviluppato al massimo. Quando parliamo di un “sistema di mobilità” ci riferiamo sia ai sistemi tecnologici, quali le infrastrutture a sostegno della mobilità, sia alla circostanza che tali sistemi non sono soltanto limitati all’infrastruttura fisica – l’“hardware”, per così dire – ma includono anche componenti economiche, culturali e sociali – il “software”. Questo punto è stato diffusamente sottolineato da numerosi autori, ma in modo particolarmente esemplare da Alain Gras12 con il suo concetto di “macrosystème”. Il punto centrale di Alain Gras è che non si può studiare uno sviluppo tecnologico soltanto dal punto di vista tecnico, ma occorre inserire gli aspetti tecnici in senso stretto entro un quadro che comprenda anche gli elementi economici, giuridici, politici, ma soprattutto culturali. Anche se a tale approccio potrebbe essere difficile controbattere su un piano concettuale, quest’ultimo non è largamente accolto in quello quotidiano relativo ai problemi dei sistemi di trasporto e della mobilità metropolitana, limitandone così il controllo. Gli aspetti sociali e culturali, e perfino quelli economici, sono spesso trattati come variabili residue, riunite sotto un’unica voce (vagamente definita)

di “domanda” di mobilità, dimenticando di suggerire l’aspetto complementare della mobilità, vale a dire l’accessibilità, un bisogno dominante e altamente stimato delle organizzazioni sociali contemporanee. La traiettoria tecnologica della mobilità metropolitana contemporanea ha il suo perno nella diffusione di massa dei mezzi di trasporto individuali a basso prezzo e con ampia disponibilità di carburante a costi assai contenuti, mentre il grosso degli investimenti infrastrutturali è stato assunto dalla collettività. Nello sviluppo di questa traiettoria tecnologica della mobilità fisica possiamo cogliere tre fasi. La prima fase comincia alla fine degli anni venti e termina alla fine della Seconda guerra mondiale, dando origine, soprattutto negli Stati Uniti, alla “metropoli di prima generazione”.13 I suoi principali fattori di sviluppo sono da ricercare nella formidabile combinazione di vari elementi: la grande quantità di terra libera attorno alle città, la diffusione di sistemi di trasporto personale favoriti dalle innovazioni nei sistemi di produzione e costi energetici estremamente bassi. Il suo principale impulso è il fordismo, che si rivela così pervasivo che Aldous Huxley, nel suo famoso Brave New World (1932, celebrato come “una delle più straordinarie e insidiose opere letterarie mai scritte”), descrive una società massificata, satura del dolce credo della felicità collettiva, in cui Ford era la divinità adorata sotto il segno del modello “T, di ogni colore purché nero”. Ma a questo enorme successo della mobilità individuale si è potuti arrivare anche perché vi è stato contemporaneamente un radicale mutamento culturale nei confronti della mobilità, aiutato da ben precisi movimenti artistici e filosofici. Tra questi i futuristi occupano un posto significativo, lasciando l’impronta della loro fascinazione per il dinamismo sull’immagine di Milano, la città che più di ogni altra si identifica con il futurismo e anche con il dinamismo un po’ frenetico. La maggior parte delle norme sociali, degli stili di comportamento nella guida e dei miti legati all’automobile risalgono a questo periodo: i futuristi italiani, tra le altre correnti culturali, contribuiscono alla diffusione dell’idea e del valore della mobilità della società, ma l’idea si fa strada: mìasto, ma sa, machina (città, massa, macchina) è la rappresentazione polacca14 della metropoli industriale, resa immortale dalla descrizione che Charlie Chaplin fa dell’industria fordista in Tempi moderni. La Depressione e la guerra segnano una pausa in questo sviluppo nel mondo civile, trasferendo la traiettoria tecnologica della mobilità fisica sul piano militare. La Seconda guerra mondiale è la prima guerra su vasta scala basata sulla mobilità veloce piuttosto che sullo scontro di posizione tra eserciti: blitzkrieg, carri armati, aerei, veloci operazioni di sbarco presto spazzano via la drôle de guerre o “guerra fasulla” (anche nota come Sitzkrieg o Phoney War, ma Winston Churchill la definì molto appropriatamente Twilight War) organizzata intorno alla linea Maginot, basata sull’immobilità piuttosto che sull’azione. La conseguenza di questo nuovo tipo di guerra è che molte città

europee vengono bombardate e dunque lo sviluppo della forma metropolitana subisce in Europa un ritardo che verrà recuperato in modo esplosivo solo in seguito, nel corso della seconda fase dello sviluppo della traiettoria tecnologica della mobilità che potremmo chiamare della “città dall’auto facile”15; questa fase comincia dopo la guerra, al grido di “più automobili e più case per tutti”, accompagnando la grande e lunga espansione capitalistica postbellica, sia in Occidente che nei paesi asiatici. Molte città europee avevano subìto seri danni in seguito alla guerra, e alcune erano state completamente rase al suolo, e la loro ricostruzione rende vertiginosa la crescita economica del dopoguerra. Durante la ricostruzione, tuttavia, non prevalgono tanto le valutazioni per il futuro, quanto le preoccupazioni storiche e di identità culturale che talvolta impediscono una valutazione ben calibrata delle future esigenze di mobilità. Questa è una fase importante non solo perché definisce la “penetrazione” dell’uso dell’automobile nella vita urbana contemporanea (vale anche il contrario, nel senso che l’automobile si “urbanizza”, secondo alcuni analisti, cioè si adatta alle esigenze del traffico urbano e pendolare, si affaccia il concetto di “city car”), ma anche perché connota ideologicamente la vita suburbana autonoma, che si libera dalle costrizioni e dalle preoccupazioni della vita di città, schemi di mobilità derivanti proprio dalla disordinata espansione urbana. Gli effetti di questa fase sono chiaramente visibili nello sviluppo di grandi aree metropolitane come quella di New York o Los Angeles, ed è caratterizzata dall’individualizzazione e dalla privatizzazione dei mezzi di trasporto (esemplare il caso di Los Angeles che sacrifica il suo eccellente sistema pubblico dei Blue Trains per la rete di autostrade urbane) e da un generale aumento della mobilità, sia all’interno dei sistemi urbani quotidiani sia tra di essi. L’era dell’automobile e quella dell’aeroplano si fondono sinergicamente, mentre la diffusione di modelli di vita urbana coincide con la creazione di regioni urbane integrate. Il concetto chiave è ora la “megalopoli”, non più l’area metropolitana isolata, e termini come BOWASH, la cintura urbana che va da Boston a Washington (o anche come CHIPITS – Chicago-Pittsburgh – o SANSAN – San Francisco-San Diego) trovano la loro controparte nella Blue Banana (o dorsale renana) europea. In un suo importante lavoro Robert A. Beauregard fa notare come questa nuova forma urbana non sia soltanto una questione di rilocalizzazione di aree urbane, ma causi una mutazione dell’intera società.16 Suburbia, sviluppo, energia. Da crescita redistributiva a urbanizzazione parassitaria Questo processo non è stato solo una trasformazione locale, ma, secondo Beauregard e altri autori, la suburbanizzazione non ha unicamente cambiato la forma fisica e la struttura dell’ecologia sociale della città, ha trasformato molto profondamente la struttura sociale introducendo forme diverse e nuove di segregazione sociale: se tradizionalmente nelle città erano le classi più povere a

essere segregate, nella metropoli dei suburbia americani sono le classi medie ad autosegregarsi ricercando un nuovo modello di vita largamente basato sull’abitazione postfordista.17 L’espansione urbana, è stato affermato, ha distrutto l’essenza dei centri urbani, che sono stati abbandonati dalla popolazione e dalla partecipazione civica. Questo è accaduto soprattutto nelle città nordamericane più car-dependent. Per limitarci al confronto tra il Nord America e l’Europa: in Europa i fenomeni sono avvenuti con una ventina d’anni di differenza, tenuto anche conto dei danni fisici inferti dalla Seconda guerra mondiale alle città, e il periurbano si è sviluppato per accezione, ampliando, in parte, e in parte scavalcando le tradizionali periferie per aggiunta “a cipolla” – cioè per strati successivi – dei nuovi arrivati, soprattutto gli inurbati del grande sviluppo industriale degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, e soprattutto dove vi era un forte semis urbain storico costituito dalle centinaia di comuni antichi sparsi nell’hinterland, come nel caso di Milano o Torino. Invece, in Nord America il periurbano si è sviluppato per apoikía diffusa, o migrazione all’esterno della classe media, dando luogo alla classica forma “a ciambella” (doughnut) dell’area metropolitana americana, con i poveri al centro e le popolazioni più abbienti nei sobborghi. In entrambi i casi, tuttavia, si è trattato di un processo con caratteristiche comuni dovute all’interazione tra la traiettoria tecnologica della mobilità e quella dell’informazione, con un insieme di dinamiche che il compianto William J. Mitchell chiama DDMIS: Dematerialization, Demobilization, Mass customisation, Intelligent operation, and Soft transformation.18 La cultura della mobilità è fortemente interconnessa con la diffusione delle tecnologie ICTs, Information and Communication Technologies. Contrariamente alle aspettative ampiamente annunziate, la diffusione degli strumenti d’informazione accessibili “da casa” non ha condotto le città a un playback tecnologico della rivoluzione industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di “cottages tecnologici per telelavoratori”. Le nostre case si sono, in effetti, trasformate in una piattaforma per una miriade di macchine ICTs, ma contemporaneamente, paradosso non ancora completamente spiegato, le città continuano a svilupparsi e i sistemi di trasporto sono sottoposti a pressioni inesorabili, malgrado (o piuttosto in concomitanza con) la diffusione delle reti di informazione. Qui vogliamo solo anticipare che i costi, energetici, da inquinamento, economici, ambientali e sociali di questa nuova forma urbana si sono rivelati via via sempre più insostenibili e intollerabili, tanto da aprire una nuova fase che possiamo definire della “città conservazionista”, nel senso di consapevole dei problemi ambientali. Ma per chiudere il cerchio dell’analisi dei fattori che si sono combinati per dar vita a questa dinamica dobbiamo concentrarci brevemente su un aspetto che ci permetterà di vedere più da vicino come una serie di mutamenti al livello microsociologico della vita quotidiana si

sono aggregati per dar luogo a grandi dinamiche macrosociologiche con imponenti e duraturi riflessi spaziali. La casa postfordista Abbiamo a disposizione un’assai vasta letteratura sulla trasformazione postfordista dell’economia e delle organizzazioni produttive, in particolare, ma non solo, delle industrie manifatturiere, tanto che i fattori che compongono questo processo di trasformazione sono ben compresi, ed essendo diventati di comune conoscenza ci permettono di non riprendere qui questo discorso. Vorrei però richiamare l’attenzione sulla circostanza che, sebbene le origini della trasformazione siano da ricercare in fattori economici e tecnologici interni alle organizzazioni produttive, i vari componenti di questo processo, quali la decentralizzazione, produttiva e organizzativa “just-in-time” e lo spostamento generale da produzione a economia di servizio, contribuiscono ad aumentare il bisogno di accessibilità e mobilità. Nelle grandi aree metropolitane tutto questo provoca lo sviluppo di una mobilità asistematica, spezzettata o “browniana”, specialmente nelle zone periurbane. Mentre la pendolarità tradizionale, “9-to-5”, o a orari fissi, era più prevedibile, perché collegava le abitazioni a un numero identificabile di grandi poli di attrazione o a zone di produzione approssimativamente identificabili con i maggiori centri urbani, la mobilità postfordista non è soltanto aumentata di portata, ma è anche divenuta più casuale, o stocastica. “La mobilità aumenta e si complessifica” sintetizzano Heurgon e Bally, aggiungendo che “nell’Île-de France, [cioè la regione parigina] tra il 1991 e il 1998, la mobilità individuale è aumentata da 3,48 a 3,72 spostamenti in media al giorno per persona.”19 Può sembrare un aumento insignificante ma si traduce in 37 milioni di spostamenti, ovvero in un incremento dell’11% in sette anni, mentre nello stesso periodo di tempo la durata media rimane stabile e perfino tende a diminuire, per via dell’aumento delle coorti di “déplacements”. Il risultato netto, naturalmente, è che la collettivizzazione (o ri-collettivizzazione) del trasporto diventa sempre più difficile, nonostante le tendenze verso l’adattamento a una “mass customization” e a una “intelligent operation” indicate da Mitchell nel suo Etopia.20 Le trasformazioni avvenute nell’abitare sono in parte dovute a sviluppi simili e paralleli a quelli che sono avvenuti in fabbrica, ma in parte maggiore e decisiva alla traiettoria tecnologica legata all’informazione e alle nuove tecnologie. Per capire che cosa è accaduto possiamo pensare ai dispositivi che potrebbero essere anche chiamati “macchine per la casa”. Questi dispositivi appartengono a due famiglie di apparecchiature che si sono sviluppate in momenti successivi nel tempo. La prima famiglia è composta dai dispositivi che hanno svolto una funzione di “time and labour saving”, esattamente come le macchine che si

usano in fabbrica. Sono i dispositivi tecnologici di tipo “fordista” – se vogliamo chiamarli così, anche se il termine è improprio –, progettati per sostituire il lavoro dell’essere umano, e che quindi fanno risparmiare fatica, contribuendo ad ampliare il tempo libero, in particolare delle donne. Il primo apparecchio di questo genere è piuttosto antico: la stufa in ghisa a carbone. L’introduzione di questo dispositivo nella casa del XIX secolo ha avuto effetti ampi, oggi spesso dimenticati e trascurati. Gli stili di vita moderni sono prevalentemente basati sull’energia disponibile in forma miniaturizzata nella casa,21 tanto che è difficile ricordarsi del tempo e del lavoro necessari a scaldare nel camino un calderone d’acqua e il cibo necessario a nutrire una famiglia media: dalla raccolta del legno richiesto in grandezze specifiche, non sempre propriamente asciutto, all’accensione del fuoco, alla lotta contro il fumo, al mescolare il cibo nel modo adeguato, e alla cura di un ambiente come il camino, pericoloso per piccoli umani o animali e così via. La stufa a carbone, miniaturizzando la fonte di energia e contenendo il processo stesso di creazione del calore, permise in primo luogo di ridurre notevolmente il tempo richiesto per la cottura degli alimenti. Inoltre, con il braciere interno (backburner), era possibile mantenere accesa continuamente una parte della brace e il fumo poteva essere espulso tramite una canalizzazione direttamente all’esterno, permettendo così al locale in cui si cucinava di trasformarsi in un’area funzionale della casa, relativamente pulita e sicura; così via via nelle abitazioni si sviluppò la moderna organizzazione interna della casa, con i suoi caratteristici spazi funzionali differenziati. Con l’introduzione della stufa in ghisa a carbone le donne risparmiarono una quantità enorme di lavoro, ottenendo così più tempo libero. Una lunga serie di apparecchiature di questo genere è entrata via via nelle nostre case: l’elettricità, il riscaldamento dell’acqua, i frigoriferi, l’aspirapolvere, la lavatrice, fino alla domotica dei giorni nostri. Tutti hanno annullato una quantità considerevole di lavoro, in genere femminile. Tuttavia la produzione dell’insieme di questi dispositivi trova un limite, perché il tempo che può essere risparmiato giornalmente è limitato. Così, osservando a posteriori la diffusione di questi apparecchi, non è difficile rendersi conto che vi è stata pochissima innovazione negli ultimi anni. Una piccola innovazione cosmetica, forse: alcuni apparecchi elettrici più piccoli in cucina, principalmente riposti sulle mensole, frigoriferi e forni migliori ecc. In generale si può dire che in questo campo il mercato è quasi interamente un mercato di sostituzione. Il passo seguente, naturalmente, sarebbe un’ulteriore integrazione di questi dispositivi con la microelettronica verso la cosiddetta “cyber-casa” o “casarobot”, vale a dire un’unità abitativa completamente automatizzata e connessa. Malgrado i progressi fatti sia in questo campo, sia nell’elettronica senza fili, siamo ancora lontani da una diffusione di massa di un tale prodotto. I limiti dati dai costi, dagli ostacoli all’integrazione tecnologica e dagli standard di

costruzione stabiliti suggeriscono che la casa completamente automatizzata è ancora lontana da noi. D’altra parte, i produttori di apparecchiature per la casa hanno ben presto scoperto un mercato enorme creato dal tempo risparmiato grazie alle “macchine time-saving”. Vale a dire dispositivi che ci fanno approfittare del tempo libero. Così una seconda famiglia di dispositivi che consumano tempo è entrata nelle nostre case. Ciò che usa più tempo naturalmente è il televisore, ma altri dispositivi hanno recuperato terreno. La radio, la macchina fotografica, la videocamera compatta, il mangianastri, l’impianto hi-fi, il vcr, il lettore dvd, la “Jacuzzi” e una miriade di dispositivi di idoneità della stanza da bagno. E ultimo, ma non per questo meno importante, il pc e internet. Gli effetti sugli spazi pubblici di questi sviluppi nelle abitazioni sono di grande portata. La televisione è stata presentata come una finestra aperta sul mondo, invece è risultata essere una sonda del mondo introdotta nel cuore delle nostre vite familiari da élite senza scrupoli. L’agorá è stata portata in casa e il nostro tempo libero, che prima includeva anche la nostra vita pubblica, è conseguentemente eroso da quest’occupazione che per l’abitante medio delle nazioni sviluppate dura circa tre ore al giorno (sette ore in Italia per le persone anziane). Ciò non riguarda soltanto gli amanti del divano. Il risultato, purtroppo, è un’opinione pubblica totale sempre più tematica. Oltre alle conseguenze ben note e molto discusse della diffusione dei mass media, siamo specificamente interessati agli effetti della trasformazione tecnologica domestica sulla fisicità della città contemporanea. Se la casa diventa sempre più carica di apparecchi e dispositivi diventa anche sempre più comoda. Si passa più tempo in casa. Ciò non era vero una generazione fa, almeno in Europa. Negli Stati Uniti questa tendenza che stiamo descrivendo era cominciata quasi una generazione prima. Anche in città ricche, gli spazi pubblici hanno fornito un’alternativa attraente alle case che non erano particolarmente comode e che in tanti periodi dell’anno erano troppo fredde o troppo calde. I cinema erano una buona alternativa al rimanere a casa e rappresentavano una specie di salotto aggiuntivo per la famiglia. Ciò è dimostrato dal fatto dimenticato che l’abitudine era di entrare nel cinema in qualsiasi momento durante la proiezione, indicante che vi era poca o nessuna formalità. Oggi entriamo nel corridoio di un cinema soltanto all’inizio del film, con una formalità molto più grande. Il cinema in effetti si è trasformato in uno spazio pubblico staccato dalla famiglia. E la famiglia sta trasformandosi sempre meno in una cellula comunitaria e sempre più in un’entità autonoma. I cambiamenti investono anche la forma fisica della città. Con un maggior numero di macchine, che ci permettono di risparmiare tempo e fatica, e che noi consumiamo sotto il nome di “intrattenimento”, le case diventano sempre più attraenti; trascorriamo sempre più tempo a casa, nel nostro ambiente privato.22 Le macchine, tuttavia, richiedono anche più spazio: pensiamo al numero di

prese elettriche che sono necessarie oggigiorno in una stanza. Se le case sono più confortevoli, sempre più tempo trascorso chez soi e più macchine in giro (a parità di altre condizioni, per esempio il reddito, le dimensioni della famiglia, lo stile di vita ecc.), aumenta la pressione per cercare appartamenti più grandi. Non necessariamente enormi, ma sempre più grandi. E a causa della struttura dello sfruttamento della terra e dei relativi valori, ceteris paribus, aumenta la pressione per cercare una casa che sia in periferia, cosicché il risparmio sull’immobile possa controbilanciare i costi di spostamento. Il risultato è una forte pressione verso il consumo di spazio nelle aree suburbane. Se in un grafico mettiamo a confronto la crescita della popolazione urbana con l’estensione dell’area urbanizzata il fatto controintuitivo che viene rivelato dalle curve è che la superficie urbana cresce più rapidamente della popolazione: per esempio, una città di 100.000 abitanti non ha una superficie grande il doppio rispetto a una città di 50.000 abitanti, ma una superficie due o tre volte maggiore. Ciò è dovuto alle pressioni centrifughe che contribuiscono fortemente alla creazione di una vasta area a bassa densità di popolazione, esito dello sviluppo incontrollato della città e conosciuta come area periurbana. Le auto private diventano il luogo dove trascorriamo un tempo sempre più lungo della nostra giornata. Le vogliamo confortevoli, e possibilmente connesse, ma ovviamente queste divorano sempre più energia, inquinano e distruggono l’agorá fisica. Il garage diventa una parte importante della nostra dimora, e la “cittadinanza” di insediamenti fisicamente densi dà origine a un diverso tipo di morfologia urbana con diverse regole di partecipazione. Questa fase è caratterizzata dunque da una massiccia individualizzazione e privatizzazione dei mezzi di trasporto e da un generale aumento della mobilità, sia all’interno dei Sistemi Urbani Quotidiani (SUQ, o DUS, Daily Urban Systems, in inglese) sia tra di essi. L’era dell’automobile e quella del jet si fondono sinergicamente e la diffusione di modelli di vita urbana genera la creazione di regioni urbane integrate. Tuttavia, attualmente preoccupa soprattutto il fatto che questo modello si sta estendendo a tutto il mondo, in particolare nelle Grandi Regioni Urbane. Il timore è che un effetto indiretto della diminuzione del tasso di popolazione (in sé un fattore positivo per l’ambiente) possa essere un aumento nello sviluppo incontrollato delle città. “Una eliminazione della pressione esercitata dalla crescita di popolazione nelle aree rurali potrebbe essere favorevole alla salvaguardia dell’ambiente” affermava Joel E. Cohen, il direttore del Laboratory of Populations della Columbia University e della Rockefeller University.23 In conclusione, siamo così convinti che la città in cui viviamo, la città sconfinata, a bassa densità di popolazione, che si allarga, che consuma tempo ed energia, sia l’unica possibile, che tendiamo a dimenticare la fattibilità di modelli alternativi. Dobbiamo sempre ricordare che il principale fattore che ha configurato l’attuale morfologia

urbana, cioè i costi energetici ridotti (molto ridotti), oggi è giunto alla fine di un lungo ciclo ed è molto improbabile che possa continuare a giocare lo stesso ruolo. Se paragoniamo il nuovo ambiente metropolitano alle città tradizionali come Parigi, Napoli o Tokyo troviamo che l’effetto “urbano”, riscontrabile nelle vie invase dalla folla, ha qualcosa a che fare con la mancanza di comodità o con la ristrettezza della residenza. A Tokyo il censimento misura le case in “tatami” (la stuoia di cui la superficie è 1,1 metri quadri) e pubblica le tabelle statistiche in cui la più piccola categoria di case è “Fino a cinque tatami”. Al centro di Parigi, com’è ben noto, vi sono appartamenti denominati “studios” con una superficie dai 20 metri quadri in su, ma vi è anche il formato “studette” di 12 metri quadri. Nessuna sorpresa che alla fine della giornata, quando i luoghi di lavoro si svuotano, le vie o i pub siano riempiti di folla simmelliana,24 mentre nelle aree a bassa densità della meta-città gran parte delle persone sono a casa o si stanno muovendo in automobile. Riassumendo, dall’analisi di questi numerosi processi interconnessi risulta che il doppio “spazio di flussi” generato dalle ICTs e dalla mobilità fisica, piuttosto che sostituire una città fisica con una virtuale, si è collegato nel produrre l’espansione urbana. L’anticipazione di Toffler25 che la casa si sarebbe trasformata sempre più in un cottage elettronico era corretta, ma il resto della previsione, cioè che il processo di “de-mobilizzazione” avrebbe distrutto la città, era, a quanto pare, sbagliata. La città non è affatto scomparsa, ma è oggi un oggetto molto diverso da quello che ancora persiste nel nostro immaginario collettivo: la morfologia risultante può essere ben rappresentata dalla sovrapposizione all’impianto urbano (semis urbain) antico dell’urbanizzazione contemporanea in aree di vecchia urbanizzazione come la Pianura Padana o i Paesi Bassi in cui la città europea è rinata dopo il Medioevo: si possono vedere gli antichi comuni medievali immersi nella nuova meta-città. Ma se i processi che abbiamo visto possono essere intesi come un’estensione dei limiti della città, che abbiamo definito come “recessione dei confini urbani” in orizzontale, per così dire, contemporaneamente si sono verificati dei processi di erosione della città tradizionale e di sua de-identificazione grazie alle popolazioni che si aggiungono, in modo pressoché verticale, ai tradizionali abitanti. III. La diffusione delle PNR Sviluppo metropolitano e popolazioni Molti degli strumenti intellettuali esistenti e utilizzati dalle amministrazioni e dalle più diverse discipline per descrivere il fenomeno urbano sono stati costruiti partendo da osservazioni fatte su una morfologia urbana profondamente diversa da quella attuale e quindi inappropriati per i nuovi modelli di rapporti sociali emersi nel tempo e nello spazio. L’ecologia sociale

(che rimane, ciononostante, la fonte più notevole di conoscenza sugli stanziamenti umani) è basata, in entrambe le sue versioni (classica e contemporanea), sull’analisi della concorrenza fra i diversi gruppi umani per la conquista dello spazio abitabile. Se è vero che nelle analisi ecologiche sociali molte funzioni sono ugualmente considerate, quella residenziale è di gran lunga la predominante e ne è prova lampante il fatto che la maggioranza delle statistiche sulle città è basata su modelli residenziali e su unità residenziali d’osservazione. D’altro canto, sembra invece sempre più evidente che la nuova forma di morfologia urbana sia per la maggior parte il prodotto della differenziazione progressiva di numerose popolazioni che gravitano intorno ai centri metropolitani: con la crescente mobilità della popolazione in termini di numeri, direzione, portata e frequenza, i rapporti stessi fra popolazione e territorio diventano altamente dinamici. Parallelamente, i cambiamenti generali che si registrano nella struttura dell’economia incidono profondamente su modelli prestabiliti della composizione delle diverse classi sociali, soprattutto nelle economie avanzate. Se prendiamo le teorizzazioni marxiane, non dal punto di vista della loro capacità di prevedere il futuro, che oggi è un presente molto diverso da quello preconizzato, ma dal punto di vista delle intuizioni teoriche sui rapporti tra diverse classi sociali in periodi di mutamento come quello in cui ci troviamo, possiamo vedere che, sebbene la situazione sia molto cambiata, rimangono importanti il rapporto tra condizioni materiali di produzione (la tecnologia e il suo impiego), struttura sociale e decisioni politiche. La “globalità” che caratterizza l’economia mondiale rende molti dei concetti di analisi urbana obsoleti; le città sono state sempre concepite come unità più o meno isolate: comunità urbane o metropolitane all’interno di una struttura nazionale, pezzi di società che potrebbero, per così dire, essere isolati sperimentalmente dal resto per un’analisi sociale. Anche l’analisi sociologica dei sistemi urbani si è occupata principalmente, anche se non esclusivamente, di sistemi urbani nazionali o regionali. Tale è il caso, per esempio, della legge di Zipf e di tutti gli altri studi basati su ordinamenti di rango.26 Oggi diventa sempre più difficile mantenere questa finzione analitica, specialmente in zone geopolitiche come l’Europa, in cui la crescita di istituzioni sovranazionali ha liberato le singole città da legami nazionali, sottoponendole, per così dire, a una concorrenza in crescita per le risorse globali, come testimoniato dal numero crescente di club cittadini e lobby che si sono sviluppati rapidamente negli ultimi anni, e dall’interesse per il marketing cittadino (vale a dire tecniche sviluppate per accrescere i vantaggi di posizione geografica – e più generalmente di amenità urbane – delle singole città sul piano internazionale). Quelle che sono profondamente cambiate però sono le categorie analitiche con le quali dobbiamo far fronte alle nuove relazioni tra organizzazione sociale e organizzazione dello spazio, in particolare con la

comparsa sulla scena urbana di nuove popolazioni, che qui includiamo complessivamente nel termine di PNR, Popolazioni Non Residenti, e che illustreremo meglio di seguito.27 Popolazioni e razionalità collettiva Quello che abbiamo visto fin qui è soltanto un catalogo indicativo delle molte sfaccettature dell’inadeguatezza del nostro apparato concettuale. Le strutture urbane in cui camminiamo – o viviamo – sono già profondamente diverse dalle immagini che portiamo dentro di noi; questo determina l’urgenza di concepire ex novo gli strumenti intellettuali ed empirici di cui abbiamo bisogno per lo studio dei fatti e dei processi sociali urbani. Sarebbe molto ingenuo pretendere di riuscire a stabilire una nuova teoria di sviluppo urbano e quindi non propongo di offrirne una. Ma suggerirei di fare uno sforzo riguardo all’analisi del cambiamento urbano, eludendo il vecchio percorso di analisi ecologica sociale rigida e di analisi di classe e introducendo invece il concetto molto più semplice di popolazione – vale a dire un complesso di individui definito da una o più caratteristiche comuni. Questo concetto è quindi libero da ogni presupposto circa il loro comportamento collettivo razionale, contrariamente al genere di presupposti teorici di cui abbiamo bisogno per analizzare classi, movimenti, gruppi o organizzazioni. Per fornire un esempio sia della semplicità della definizione, sia del potere empirico del concetto di popolazione, è sufficiente osservare gli attuali modelli di espansione urbana: da quelli del Terzo mondo a quelli dei paesi più sviluppati. I flussi di migrazione si compongono di individui che si muovono secondo motivazioni personali casuali. Gli effetti di queste decisioni aggregate sono di grande portata perché sono una somma allentata di diverse azioni. Guardando la frontiera messicana degli Stati Uniti, o il Mediterraneo o qualsiasi altro dei molti “cancelli del mondo” fra le regioni ricche e quelle povere, è possibile vedere le grandi popolazioni in movimento e prevederne gli effetti sulle strutture urbane di accoglienza. La pressione è inesorabile ed estremamente difficile da controllare. Le barriere fisiche, come i numerosi muri storici, eretti dai romani o dagli imperatori cinesi, dai generali francesi o tedeschi e dai burocrati sovietici, possono soltanto ritardare questi movimenti, rendendoli ancor più esplosivi quando le barriere crollano. È molto difficile far fronte ai movimenti di popolazione, molto più difficile rispetto al far fronte ai conflitti di classe che possono essere mediati dalle istituzioni e dalle organizzazioni che rappresentano gli interessi e gli obiettivi delle classi stesse. Quando emergono poi quelle dinamiche che Durkheim, parlando del movimento dal villaggio alla città, chiamava “un courant d’opinion, une poussée collective”, si può essere ragionevolmente sicuri che queste correnti riflettono o prevedono le reazioni dell’anima collettiva rispetto a una mutazione della natura profonda della struttura sociale. Nel nostro caso è utile riprendere l’analisi delle trasformazioni a partire dalla

semplice costatazione che i movimenti nella città sono osservabili come movimenti di popolazioni e non di altri gruppi. Sono molti i segnali che ci aiutano a capire che un fenomeno di questo genere sta interessando le città contemporanee come, d’altra parte, possiamo osservare l’interruzione e perfino l’inversione dei vecchi processi di urbanizzazione secolari. Vi è un interesse crescente nella vita urbana con rappresentazioni in cui le immagini seducenti di una nuova tecnologia si fondono con previsioni inquietanti o con una nuova città dell’“evo di mezzo”, alla Gotham City del supereroe Batman. Sulla base di queste sintetiche considerazioni ho proposto di rappresentare schematicamente i vari tipi di morfologie urbane, con diverse “generazioni” di morfologie urbane che si susseguono e che si differenzieranno nelle fasi successive. Lo schema è soltanto un semplice dispositivo euristico che tralascia numerosi problemi, ma spero che sia sufficientemente indicativo da evidenziare nuove problematiche nell’osservazione dello sviluppo urbano.28 La tendenza verso un urbanesimo sempre più diffuso che, come abbiamo visto, ha subìto un’accelerazione durante il XX secolo e non mostra segni di rallentamento, suggerisce che imponenti forze sono ancora al lavoro, in maniera costante, nel modellare il nostro mondo urbano, come suggerito dalla “teoria della convergenza” di Michael Cohen.29 Per questi motivi parlo delle diverse “generazioni” delle metropoli, una distinguibile dall’altra, usando semplici strumenti analitici, ma qui mi concentrerò soprattutto sulla metropoli che è definita dalla funzione di consumo e dalla popolazione corrispondente dei “cityusers” o “consumatori urbani” o metropolitani. I city users e le metropoli di seconda generazione Alcuni dei fattori che hanno contribuito allo sviluppo delle metropoli di prima generazione hanno comunque portato a una differenziazione ulteriore: la diffusione delle automobili private in particolare e, in generale, dei sistemi di trasporto veloci ha prodotto l’era jet. L’aumentata mobilità della gente, unita a un crescente reddito e a un maggiore tempo libero, ha permesso la differenziazione dagli “abitanti” e poi dai “pendolari” di una terza popolazione di utenti o consumatori della città (city users). Vale a dire, una popolazione composta di persone che si servono delle città-nucleo per usufruire di servizi pubblici e privati: dallo shopping ai cinema, ai musei, ai ristoranti. La popolazione di city users sta crescendo, ma è difficile valutare quanto. Tutto il nostro apparato conoscitivo collettivo, infatti, si occupa di una città tradizionale che sta subendo una mutazione profonda e le statistiche si basano ancora principalmente sugli abitanti, poco sui pendolari e, in sostanza, per nulla sugli utenti. Se desideriamo percepire sistematicamente queste nuove tendenze dobbiamo cercare fonti d’informazione inesplorate. L’aeroporto di Londra gestisce decine di milioni di passeggeri ogni anno e si pensa che questi continueranno ad aumentare durante i prossimi anni. Gli enormi ingorghi di

traffico nelle città centrali oggi non si presentano più nelle ore di pendolarità normali – in fasce orarie cioè prevedibili e con soluzioni di potenziamento dei sistemi di trasporto pubblico – ma piuttosto durante i periodi di saldi o in coincidenza con eventi e momenti simbolici di svago. In Italia, la spinta di gran lunga più significativa per lo sviluppo urbano negli ultimi anni del XX secolo si è avuta con i Mondiali di calcio nel 1990 ed è continuata con il Giubileo, le Olimpiadi invernali di Torino e l’Expo 2015 di Milano. E la concorrenza spietata (fino alla corruzione) per ospitare i Giochi olimpici testimonia l’aumento di importanza, ormai cruciale, attribuita dalle élite cittadine ai city users. Il Giubileo è stato occasione per un enorme rinnovamento della città di Roma, e non solo; le Olimpiadi invernali per Torino anche; sul dopo-Expo di Milano si gioca il futuro economico della città, solo per fare qualche esempio. Sociologicamente la popolazione degli utenti è difficile da definire, dati i motivi che abbiamo appena elencato: una congettura sensata è che sia verosimilmente differenziata, dai ragazzini delle periferie che vagano e girano la sera e nel fine settimana ai turisti, ai clienti di ceto medio di tutte le età, ai gruppi specializzati (come i tifosi di calcio o coloro che vanno a mostre e concerti). La gravitazione crescente degli utenti della città porta a uno sviluppo di un modello di metropoli che è proprio quello in cui stiamo vivendo oggi. È molto diverso dalla città con la quale siamo abituati a scontrarci in termini popolari e scientifici e che potremmo definire come metropoli di seconda generazione. Tuttavia, una quarta popolazione metropolitana si sta delineando. È una popolazione piccola ma molto specializzata di uomini d’affari metropolitani (metropolitan businesspersons). Persone che raggiungono le città centrali per fare commercio e/o stabilire contatti professionali: uomini d’affari e professionisti che visitano i loro clienti, consulenti e manager, responsabili di organizzazioni internazionali. Questa quarta popolazione, relativamente piccola ma crescente, è caratterizzata da una disponibilità considerevole sia di capitali privati che aziendali. Si trattengono, di norma, per alcuni giorni, ma anche per periodi più estesi, e dedicano una parte del tempo alla loro professione e la restante parte usano la città, anche se a un livello relativamente elevato. È una popolazione di cittadini esperti. Tendono a sapere cosa accade attorno a loro, sono molto selettivi in termini di shopping e di uso dei ristoranti e degli hotel, così come nell’uso delle amenità culturali superiori, quali concerti, mostre, musei, ma anche saune e palestre. Affari e turismo di alto livello convivono sempre più. Sia gli utenti della città che gli uomini d’affari metropolitani sono un prodotto dell’economia basata sul terziario: al contrario delle industrie secondarie che spostano prevalentemente le merci, i servizi richiedono principalmente lo spostamento degli individui, elemento del terziario ancora poco esplorato. Malgrado una porzione crescente di servizi possa essere fornita

telematicamente, la maggior parte di questi dipende ancora da contatti personali, anche quando non si tratta di consumatori finali, come nel caso dei servizi alle ditte. Consulenze, relazioni pubbliche, comunicazione, vendita e simili: sono tutte attività che richiedono un’interazione faccia a faccia, intensa e ripetuta. Lo sviluppo di questa quarta popolazione, gli uomini d’affari metropolitani, segnala un altro fenomeno molto importante, vale a dire l’internazionalizzazione o la globalizzazione dei centri metropolitani.30 La quarta popolazione sta sempre più costituendo quella che denominerei una “classe media sovranazionale” che vive non in una città, ma in città, o meglio fra le città, e interessa la morfologia e le funzioni di tutte le grandi agglomerazioni urbane. Questo gruppo sociale è ancora abbastanza multiforme, ma sempre più identificabile31: sono i responsabili delle multinazionali, sia private che pubbliche, quali per esempio le numerose organizzazioni internazionali – Onu, Oil, Unesco, Ocse, Fao, Wto –, nonché in numero crescente i vari organismi e agenzie di governo europei, uomini d’affari, consulenti internazionali, accademici, esecutori, sportsmen e simili. Questa popolazione richiede servizi più o meno simili ovunque: hotel, uffici e punti d’incontro, ristoranti, centri commerciali e così via. Il risultato della loro presenza è ben visibile in parecchie città del mondo. Un’ultima osservazione rilevante. Nella concorrenza fra queste popolazioni e nelle funzioni urbane legate a quest’ultime, sembra abbastanza chiaro che la componente residenziale e gli abitanti urbani tendono a trovarsi dal lato più debole. L’intera filosofia dell’ente pubblico territoriale è basata su vari gradi di auto-governo degli abitanti della città. Se è vero che questa popolazione sta diventando sempre più irrilevante dal punto di vista numerico ed economico, una conseguenza grave e ampia – che credo si scorga già dietro molte delle manifestazioni della crisi urbana – è il reale distacco (disenfranchising) dell’abitante. Gli enti pubblici territoriali sono scelti dai residenti, ma gli interessi economici della metropoli dipendono sempre più da popolazioni non politicamente responsabili della città. Il dibattito ben noto già negli anni sessanta32 sulle ricadute economiche dei servizi (spillovers) afferrava solo una delle funzioni di questo processo, mentre noi avremmo bisogno di una ricerca molto più approfondita di quella che è stata condotta finora.33 IV. La doppia ermeneutica La riflessività ossessiva della società contemporanea Come ho anticipato, non dedicherò molto tempo alla discussione di un concetto, quello della doppia ermeneutica,34 che per molti aspetti rimane astruso e terreno per l’esercizio di esperti e addetti ai lavori, ma poiché il senso di questo termine, e i meccanismi sociali cui si riferisce, sono essenziali per completare il quadro delle trasformazioni urbane che stanno generando grandi inquietudini su scala planetaria, occorrerà farne qualche cenno che limiterò allo

stretto essenziale. In sintesi si tratta di questo: secondo una ben affermata tradizione, che risale alla classica visione di Auguste Comte, il rapporto tra conoscenza, politica e società è regolato dalla sequenza Savoir, pour prévoir, pour pouvoir e che segue più o meno questi passi logici: esiste un realtà sociale (per esempio la città) che ha sue regole di funzionamento; queste regole sono conoscibili, dopo la nascita delle scienze sociali, tramite procedimenti osservativi e di concatenamento logico non molto diversi da quelli con cui si studia la natura35; (ergo) se vogliamo capire come si muove il sistema dobbiamo conoscerlo, e solo dopo possiamo intervenire. Oggi questo schema non funziona più, appunto perché si mette in moto quella che è stata chiamata “doppia ermeneutica” o, se vogliamo, un’elevata interattività tra soggetto e oggetto. Per fare un esempio concreto, quando si fa un sondaggio in periodo elettorale si prendono misure accurate dello stato dell’opinione pubblica, in base alle quali i soggetti, i politici che agiscono in quella elezione, adatteranno i loro comportamenti al fine di ottenere maggiori consensi in una certa fascia di popolazione; ma in quell’esatto momento lo stato dell’opinione cambia: l’operazione può essere ripetuta più volte interattivamente (e ossessivamente, se vogliamo) finché alla fine si vota. Talvolta con sorprese, non perché le misure dei sondaggi, a dispetto di una certa giocosa mitologia comune tra coloro che fanno finta di non sapere, non siano accurate (lo sono), ma proprio perché entra in azione la doppia ermeneutica, che fa sì che, nel momento stesso in cui anche un solo attore la conosce, la situazione sia già cambiata. Non credo che sia necessario insistere su questo meccanismo in un paese come il nostro, in cui l’ossessivo ricorso ai sondaggi è un fatto di comune esperienza e in cui è stato possibile assistere al pieno dispiegarsi di questo meccanismo con risultati clamorosi in molte occasioni. Ma è utile per il nostro discorso sulla città questo tipo di ragionamento? Non è un’inutile sofisticheria intellettualistica di cui potremmo fare a meno? Purtroppo per la semplicità del nostro discorso – che inevitabilmente ne scapita e ci obbliga ad affrontare, sia pure per sommi capi, un tema complicato – la comprensione di questi meccanismi è essenziale, sia per cogliere cosa avviene nel governo delle città, ma più in generale cosa sta avvenendo nella società urbana con la disponibilità di tecnologie che “annullano le distanze” o quasi e quindi cambiano radicalmente sia le condizioni in cui le relazioni si formano, configurano e producono effetti, sia i modelli interpretativi di queste relazioni – anche se vedremo che esistono continuità insospettate con il pensiero classico sulla città – sia infine la morfologia fisica dell’organizzazione spaziale urbana. Abbiamo già visto nei paragrafi precedenti come la forma generale, fisica e sociologica della meta-città si venga costruendo passo dopo passo e interazione incrementale dopo interazione incrementale, a partire spesso da componenti molto specifiche e microsociologiche, come l’uso delle apparecchiature

domestiche. Vale anche per l’aspetto cruciale delle Tecnologie per l’Informazione e la Comunicazione (ICTs) che hanno interazioni strategiche con gli assetti spazio-temporali. Anche l’espansione della doppia ermeneutica, cioè la parossistica interattività tra conoscenze e comportamenti, tra élite e opinione pubblica, che caratterizza la nostra epoca, non avrebbe sviluppato tutta la sua potenza, soprattutto nel campo della gestione del potere, se non avesse agito in sinergia con le altre dinamiche sopra discusse, in particolare la recessione dei confini e la perdita della riconoscibilità delle appartenenze e la privatizzazione dell’agorá, che riguardano una condizione di riflessività della “modernità radicale”, che rende altamente dinamico e reciproco il rapporto tra realtà sociale e sua rappresentazione. Per esempio nella misurazione degli orientamenti di voto oppure, per discutere di questioni più strettamente legate al nostro tema, nella diffusione di sentimenti di insicurezza e timore in relazione alle popolazioni di migranti. Questo processo diventa centrale in tutti i meccanismi di governo e governance a ogni livello, ma con un peso crescente anche nel governo locale, e agisce soprattutto nella formazione delle grandi correnti di opinione sulle quali si plasmano le politiche metropolitane. Tecnologie dell’informazione e della comunicazione e vita urbana Ampie generalizzazioni e anticipazioni non confermate hanno influenzato la discussione sulle nuove tecnologie e sul loro impatto sul sistema urbano. Molti si ricorderanno che fin dagli anni ottanta si è diffusa un’immagine molto popolare della società telematica e delle città cablate che includeva il cottage elettronico, la casa automatizzata e tutto il resto; molte speculazioni hanno proposto la visione di una nuova città lampeggiante sotto le morbide luci dei monitor dei computer, ma priva di gente e d’anima. Un risultato finale di alienazione e isolamento, troppo facilmente profetizzato, così com’era già stato per la città industriale. Tipica di questa tendenza fu la discussione sul lavoro telematico o la pendolarità di lungo raggio, in particolare nelle visioni di “cottage elettronico” di Alvin Toffler, che ha portato tanti media a immaginare un futuro di cittadini che lavorano dai loro cottage in luoghi ameni e remoti al ritmo di musica da camera. Quello che tutte queste immagini, regalate a piene mani dal marketing dell’industria elettronica, hanno in comune con le città in cui viviamo, soffocate dal trasporto privato e segmentate dai ghetti urbani e suburbani, può essere valutato mettendo a paragone le previsioni di dissolvimento della città fisica con la realtà quotidiana delle grandi città del mondo. Eppure queste tecnologie esistono e si stanno sviluppando velocemente, anche se il loro risultato probabilmente non assomiglierà molto a quello previsto dalle riviste popolari (e a volte anche scientifiche) negli ultimi anni. In quanto studiosi dobbiamo considerare questi cambiamenti senza perdere la calma nel valutare una tecnologia che da molti punti di vista ha aspetti estremamente affascinanti.

Il punto principale è che oggi le grandi città sono compresse dalla sovrapposizione di due grandi cicli tecnologici: trasporto materiale e trasmissione di informazioni. Questi due cicli vanno concettualizzati non in termini di pura sostituzione, come molte valutazioni errate hanno suggerito in passato, ma in termini di funzioni compenetrantisi. Si può affermare che, finora, il costo di ogni unità trasportata è tendenzialmente diminuito; d’ora in poi, probabilmente, questo non sarà più vero, mentre è stato determinato che il costo di tutta l’unità di informazioni trasmessa sta diminuendo velocemente. Quindi possiamo prevedere una riconversione futura di molte attività sociali ed economiche dalla mobilità fisica allo scambio di informazioni, una riconversione la cui portata non può essere sottovalutata, ma la cui qualità necessita ancora un’attenta valutazione. Tuttavia, storicamente, in molti casi di lunghe sovrapposizioni di cicli, la tecnologia in declino ha avuto un’esplosione inattesa di rendimento, mentre la nuova tecnologia, più competitiva, era già sul mercato. Motivi sociologici validi spiegano questo paradosso apparente, suggerendo che l’economia di servizi ancora richiede (e forse persino accresce) una domanda di contatti personali. Così come richiede la consegna di una grande quantità di piccoli plichi.36 Il rapporto fra trasporto e comunicazione è molto meno lineare e meccanico di quanto molti presupponevano e le città non si sono disperse nelle foreste di redwood senza lasciare un’impronta di peso crescente in consumo energetico e inquinamento: si sono diffuse, ma l’impronta è aumentata. Modernità, tempo, spazio Com’è stato verificato da numerose ricerche, non è vero che la diffusione delle telecomunicazioni elimini le comunicazioni fisiche, non da ultimo perché lo stare assieme ha funzioni sociologiche importantissime, che non hanno nulla, o solo parzialmente, a che vedere, con la trasmissione di informazioni,37 ma non vi è dubbio che nei pochi decenni, da quando la tecnologia della rete si è estesa in modo impressionante, sono emerse nuove forme di rapporti sociali che hanno profondamente innovato l’esperienza concreta e i relativi modelli interpretativi dell’interazione sociale; il dibattito sul cresciuto isolamento e sulla vera o supposta alienazione nella società telematica, anche se finora ha spesso avuto toni romanzeschi, solleva una problematica teorica seria per i sociologi. La filosofia sociale contemporanea, nell’interpretare le forme generali della società, è ancora largamente dominata da un modello molto potente ed efficacemente sintetizzato dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies, cioè l’idea38 di una trasformazione dalla comunità alla società; l’idea, insomma, che l’organizzazione sociale di una società; ma anche la sua configurazione spaziale (quella che Durkheim chiama “morfologia sociale”), si fondi su un insieme di caratteristiche che possono essere categorizzate e che sono fortemente collegate tra di loro da nessi necessitanti, nel passaggio dalle società preindustriali a

quelle industriali. Questa idea generale si è tradotta nella famosa contrapposizione tra comunità e società (Gemeinschaft e Gesellschaft secondo l’originaria e famosissima formulazione di Tönnies). Noi continuiamo a ragionare basandoci su questi due grandi modelli: la comunità come qualcosa di legato alle persone, basata sui contatti frequenti, sulla tradizione, sul diritto familiare, sullo status, sull’io, sulla religione; un modello di vita che una prolungata tradizione postromantica ripropone periodicamente alle sollecitazioni della nostalgia. D’altro lato, la società come associazione contrattuale, basata sulla fredda ragione, su contatti astratti e segmentali, sulle grandi e impersonali organizzazioni; quella, insomma, in cui noi viviamo e le cui imperfezioni vengono spesso spiegate con il confronto nostalgico con la società comunitaria, piuttosto che, per esempio, con i retaggi di modelli ancora precedenti come il patriarcalismo che ancora domina molti rapporti politici e personali, soprattutto nella società italiana in cui, oltre alla presenza costante e unica al mondo di un cesare teocratico, il sistema politico ha prodotto due autocrazie stabili nel giro di meno di un secolo. Oggi però possiamo osservare sperimentalmente, e uso queste parole non a caso, l’affermarsi di una nuova forma di società, che in passato non era possibile, e neppure immaginabile, perché prima dell’introduzione di nuove tecnologie che permettono di ridurre all’impercettibile (e quindi alla pratica sincronicità) il lasso di tempo tra la domanda e la risposta nella comunicazione asincrona indipendentemente dalla distanza fisica degli attori non era mai accaduto che persone che non si conoscevano tra di loro, senza un’identità, neppure lontanamente deducibile dalla loro collocazione spaziale, potessero entrare in contatto sincronico. Questa nuova forma di società viene chiamata vulgo “comunità virtuale”, ma questa espressione è spuria ed erronea,39 perché contiene una contaminazione: la comunità è sempre biotica, in quanto, per definizione, è qualcosa di fisico; nella comunità ci sono le persone fisiche e il contatto, nella società c’è il contratto e ci sono meno le persone, che possono diventare anonime, ma pur sempre persone. In questo nuovo modello di relazioni, invece, abbiamo una strana forma di società in cui l’elemento biotico è scomparso completamente, ma – attenzione – non è scomparso l’elemento sociale. La cosa straordinaria, nell’esperienza del cosiddetto “cyberspazio”, è proprio che anche nelle situazioni più estreme, più povere di riferimenti a una interazione “fisica”, si forma automaticamente una struttura sociale, sia pur del tutto priva di connotazioni biotiche.40 E aggiungo, sottolineando fortemente, nel bene e nel male: lo stupore e l’interesse per i nuovi fenomeni sociali non vanno confusi con il giudizio etico o anche la considerazione delle conseguenze collaterali. Ciò significa che la dicotomia classica di Tönnies, di Gemeinschaft e Gesellschaft, pur non avendo perso il suo valore euristico, non è più sufficiente

perché illustrava il mutamento in un solo segmento dell’evoluzione storica. Oggi abbiamo il privilegio unico di poter osservare un segmento temporale successivo del percorso iniziato con l’industrializzazione e l’urbanizzazione, in una sequenza che delimita una tendenza piuttosto che una dicotomia o passaggio a due stadi. Faccio un esempio, un aspetto interessantissimo dei gruppi delle famose “chat-line” o “BBB” o “social network” che dir si voglia, è la sanzione dell’intruso; ci sono degli esperimenti molto interessanti in questo senso41 e chiunque abbia provato a farlo sa che è molto difficile irrompere in un gruppo in interazione online, anche se non c’è niente che lo vieti, tutto è pubblico. Si entra in un indirizzo e si cerca di parlare con persone che già si conoscono, ma si conoscono in modo curioso, si conoscono perché sono degli attori puri, nessuno sa chi è l’altro, dov’è, cosa fa, c’è semplicemente un nome, un codice, un “avatar” come si dice; se però si tenta di irrompere in questo gruppo (oppure se un membro del gruppo sviluppa una particolare aggressività occupando uno spazio eccessivo per cercare di imporsi) in breve si viene esclusi, a meno che l’intruso non sia proprio fuori di testa, o che non sia un bambino che si diverte a dare fastidio. Non sto a dilungarmi, ma voglio sottolineare un solo punto: tradizionalmente la capacità di imporre una norma viene ricondotta alla possibilità di ricorrere in ultima analisi a comportamenti coercitivi fisici. Parsons ha assimilato il rapporto tra potere e forza a quello tra moneta e oro, cioè la forza come oro e il potere come denaro simbolo dell’oro: il potere è una rappresentazione simbolica della coercizione e le sanzioni di un gruppo non funzionano se alla fine non c’è qualcuno che esercita una coercizione sul deviante. Nel “cyber-spazio” questo non è possibile, eppure la sanzione è molto forte e può provocare conseguenze drammatiche, sempre, beninteso, una volta che l’interazione “bio-stripped” sulla rete sia riportata (tradotta? riconvertita?) nel mondo dei rapporti rivestiti di fisicità. Ecco quindi che noi oggi possiamo raffigurare anche uno sviluppo ulteriore nel passaggio da una società comunitaria a una società contrattuale, una terza fase con un altro tipo di società che non so bene come chiamare,42 ma so da cosa deriva: deriva esclusivamente da un’interazione, senza nessun altro tipo di rapporto, tra due soggetti che sono “denudati” (stripped) di ogni elemento di connotazione fisica o corporea della persona umana, ma che sono, in realtà, soggetti umani. Questa “società”, sia pure in condizioni di convivenza con altre forme, è quella che si sta sviluppando sempre di più. In questo senso, io penso che nell’affrontare il problema della privacy e del trattamento dei dati, in particolare quelli che servono per amministrare, ma anche per controllare le amministrazioni e gli amministratori, si debba tenere conto della nuova situazione, oltre che di quelle tradizionali, che hanno a che vedere con l’amministrazione e i rapporti fra cittadini. Forse le concezioni teoriche sull’organizzazione sociale sembreranno lontane dai nostri problemi di politica

urbana in senso ampio, ma non lo sono. La gestione dei dati sulla città è un problema centrale della politica locale contemporanea e la filosofia “open data” sta diventando un campo di battaglia rilevante nei rapporti fra amministrazioni e cittadini, anche se qui non ho lo spazio per fare nulla più che enunciare il problema: penso che la situazione della produzione e uso dei dati sulla vita urbana stia diventando progressivamente incontrollabile e che tutta la materia sia in rapida evoluzione, ponendoci problemi giuridici – e anche etici – del tutto nuovi.43 Per sintetizzare, possiamo dimostrare l’evoluzione da una dicotomia a una configurazione più complessa, semplicemente indicizzando in modo semplificato la quantità di relazioni biotiche, fisiche di contatto, personalizzate in ogni tipo di società. Se la comunità è caratterizzabile, poniamo, da un rapporto di 80 relazioni biotiche su 100, rimanendo le altre 20 di tipo simbolico culturale o contrattuale, la società è un tipo di associazione umana in cui il rapporto si inverte: ovviamente le proporzioni indicate sono arbitrarie e stanno a indicare molto semplicemente un’inversione nel peso reciproco di questi due tipi di interazione. Non ci sono dubbi invece sulla società per reti, perché in questo tipo di società i rapporti denudati (stripped) di ogni consistenza biotica sono la totalità e i rapporti biotici sono uguali a zero. Ovviamente, nello stesso modo in cui durante tutta l’industrializzazione il modello comunitario ha continuato a convivere con quello contrattuale, anche nella situazione attuale la società pura, la società delle reti si combina con gli altri due tipi. Come spesso avviene, tuttavia, il sistema si evolve rispondendo alle esigenze a medio periodo piuttosto che a quelle a lungo periodo, che a volte non sono neppure prevedibili. Per fare un esempio, nel pieno dell’industrializzazione ottocentesca sarebbe stato difficile prevedere che l’inquinamento da CO2 sarebbe diventato uno dei problemi sistemici cruciali del pianeta, anche se vi furono molte discussioni sui pericoli delle ferrovie. La privatizzazione dello spazio pubblico, dall’agorá al tinello Nella realtà, l’interrelazione fra il privato e il pubblico è più complessa di come appare. William Mitchell suggerisce un accattivante ragionamento.44 Un tempo, negli insediamenti tradizionali, le persone usavano recarsi al pozzo del paese per prendere l’acqua, ma ciò rappresentava anche un’importante occasione quotidiana per fare quattro chiacchiere, scambiarsi informazioni e assolvere tutta una serie di altre funzioni di scambio in pubblico. Oggigiorno l’acquedotto permette a tutti noi di aprire il rubinetto e avere l’acqua direttamente in casa, con grande risparmio in termini di tempo e di fatica, anche se a discapito del mantenimento dei contatti sociali. Mitchell sostiene che l’avere il rubinetto in casa cancella le relazioni sociali che si creavano intorno al pozzo. Ciò è solo parzialmente vero: infatti è vero che si cancellano alcune

relazioni faccia a faccia (tipiche della “comunità” o Gemeinschaft). Possiamo illustrare questo processo con un caso molto interessante: “Nel Rajastahan la costruzione di una presa d’acqua, che doveva risparmiare la fatica delle molte ragazze obbligate ad andare a prendere l’acqua da sorgenti spesso molto distanti, è stata ritardata e persino sabotata dalle presunte beneficiarie. Mentre la corvée dell’acqua permetteva loro di sfuggire allo sguardo materno e di incontrare regolarmente i loro galanti sul cammino, l’acqua corrente a domicilio finiva per rafforzare il controllo familiare”.45 Non so se lo stesso si possa dire per i poveri ragazzini che in tutto il mondo percorrono ogni giorno a piedi o con mezzi di trasporto rudimentali chilometri trasportando pesanti taniche d’acqua per i bisogni familiari, ma l’episodio è indicativo del modo con cui le innovazioni tecnologiche interagiscono con le norme e i comportamenti sociali, in modo che per valutare i possibili effetti occorre tener presenti molte possibili combinazioni. Nei fatti, però, il discorso così impostato non è completo: tra chi apre il rubinetto e le sorgenti dell’acqua si interpone un complesso sistema di relazioni sociali costituito da chi ha ideato l’acquedotto, chi l’ha progettato, ha raccolto i capitali per la sua realizzazione, ha ottenuto i permessi e qualcuno li ha rilasciati e qualcun altro l’ha costruito, lo gestisce, raccoglie i denari per l’uso, ripara, amplia e così via. In altre parole, tra il pozzo e chi apre il rubinetto si frappone una complessa struttura di divisione del lavoro che, non casualmente, costituisce la base sociologica della società moderna (Gesellschaft nel linguaggio tönnesiano) determinandone anche il sistema di diseguaglianze derivante dalla divisione del lavoro tipica di questa società. Tecnologia, organizzazione produttiva ed economica in generale, struttura amministrativa e comportamenti individuali si combinano in modo complesso e interattivo per dar vita a nuove forme di insediamento urbano che riflettono la struttura sociale: i rapporti sociali non si cancellano, ma si trasformano. Più o meno la stessa cosa è avvenuta con l’informazione. Nella città tradizionale la “Piazza” costituiva il luogo d’incontro per lo scambio di merci e informazioni. Se qualcuno proveniente dal “Palazzo” (la distinzione è di Guicciardini) voleva comunicare un messaggio, inviava “in Piazza” un araldo con il compito di diffondere la notizia. Lo stesso valeva per chiunque avesse denaro a sufficienza da assumere un araldo o, come viene definito nei quartieri poveri di Napoli, il “pazziariello”.46 Oggi, con internet, ci basta il rubinetto di qualunque dei molti “strumenti” che gestiscono le informazioni (di cui il televisore è il più importante e, spesso, il più vorace) per “ricevere il mondo in casa”. Vero, questa è l’ideologia degli operatori dei mass media, perché, per esempio, la televisione non è un occhio aperto sul mondo, come ci era stato detto, ma un occhio aperto su di noi. Un occhio molto potente, attraverso il quale la “strada entra in casa”, come Boccioni anticipava già nel 1914 con una

brillante premonizione. Sono svariate le conseguenze di questi processi. Come nel rapporto tra pozzo e rubinetto, “le macchine time consuming” sostituiscono il contatto diretto con una tecnostruttura ancora più complessa attraverso la quale l’agorá viene lentamente risucchiata all’interno della casa con conseguenti profonde trasformazioni che si ripercuotono sul processo politico, e il pubblico discorso in generale, man mano che diventa evidente che la televisione, nonostante tutte le smentite e le trasformazioni, continua a essere il veicolo principale dell’agorá contemporanea. I luoghi della modernità radicale Il nuovo mondo urbano è invaso da un mostro alieno, non il familiare BEM (Bug Eyed Monster o “mostro occhi-d’insetto” dei pulp di science fiction) ma piuttosto il WEM (West Edmonton Mall, Centro Commerciale Edmonton Ovest) che all’inizio degli anni novanta veniva descritto nel suo mostruoso gigantismo dagli studiosi attenti alle nuove forme urbane. Il WEM è soltanto una delle nuove caratteristiche urbane che approvvigionano la popolazione degli utenti della città e che stanno trasformando il paesaggio urbano. Nelle parole di Margaret Crawford, i “malls” (centri commerciali) sono il prodotto “della scienza del malling”, una nuova specialità applicata, creata dai promotori immobiliari con l’aiuto di architetti e avvocati47; oggi il WEM è già superato perché il più grande mall è stato inaugurato a Pechino. Il mall, abbreviazione di shopping mall, è una parola derivata dal gioco rinascimentale italiano del “pallamaglio”, che si svolgeva nelle vie in cui erano situati negozi e divertimenti, come per esempio il Pall Mall di Londra. Il nome rimase poi per indicare complessi integrati con negozi, ristoranti e altri servizi, quando la diffusione delle automobili spinse verso una differenziazione funzionale della città e rese l’accesso alle zone miste (per esempio, i vecchi centri urbani) sempre più difficile. Il mall è diventato una caratteristica centrale della città degli utenti. Se in passato i mall erano costruiti intorno alle città, oggi le città si sviluppano intorno ai mall. Inoltre, il mall simboleggia la nuova categoria di “non-luoghi”.48 Capiamo istintivamente cosa siano i “non-luoghi” quali le stazioni del metrò e del treno, gli aeroporti, i supermercati e i malls; ma lo capiamo così bene non perché siano dei non-luoghi, ma piuttosto perché sono proprio i luoghi della città in cui oggi viviamo. I cosiddetti “non-luoghi” sono niente di meno che i posti tipici della città dei nostri anni, sono i “nos-lieux”. Vero, a volte sono astratti, impersonali, anonimi e forse anomici, ma sono così perché desideriamo che siano così. La nostra società, e in particolare il tipo di gente che scrive e legge libri sui non-luoghi, ha investito una quantità impressionante di risorse economiche, tecnologiche e istituzionali per generare questi “luoghi non-luoghi”, dove un individuo facilmente può “dissolversi” nella folla.

Nel dibattito sulla sfera pubblica delle società contemporanee, normalmente questi luoghi non-luoghi sono contrapposti ai precedenti tipi di spazio pubblico – la piazza nella tradizione europea o la Main Street in quella americana. Questo confronto tende a essere ideologico piuttosto che reale. Possiamo essere sicuri che, nella trasformazione della tarda città romana, la diffusione delle basiliche non abbia determinato simili ansie? Dov’erano finiti la fretta e il trambusto dei templi classici? Dov’erano le folle vivaci dei donatori, dei mercanti e degli ufficianti?49 Sono convinto che una buona parte delle connotazioni negative dei non-luoghi sia dovuta a una caratterizzazione errata che, come accade a tutte le generazioni, ancora non siamo arrivati a considerare come nostra. Contrariamente alla relativa e ingannevole stabilità dell’ambiente naturale da una generazione all’altra, la scena urbana è variabile, in particolare durante periodi storici come quello in cui viviamo. Piuttosto che essere trasmesso da una generazione alla seguente, l’“ambiente costruito” cambia continuamente e diventa estraneo ai suoi più vecchi abitanti. Ma, come abbiamo visto, la città contemporanea non è concepita soltanto per gli abitanti, lo è anche per le PNR, e per la condizione mobile della città. Per osservare i luoghi della modernità radicale dobbiamo osservare i contesti in cui si sviluppa la mobilità: il traffico automobilistico privato è uno di questi. Naturalmente, il traffico non è un luogo, e neppure uno spazio, ma è uno spazio di flussi, come ci insegna una ormai abusata definizione di Manuel Castells.50 In realtà, l’interrelazione fra il privato e il pubblico è più articolata di come normalmente la questione viene presentata. Lo spazio pubblico non soltanto può essere un’estensione o un complemento di quello privato, ma può anche essere il suo opposto dialettico. Il risultato finale può essere ottenuto per sottrazione quando lo spazio pubblico è considerato come residuo della sua sfera di vita individuale. “La città senza comunità civiche” rappresenta un concetto discusso vivacemente da Yanis Pyrgiotis51 specialmente per quanto riguarda la città europea del Sud, dove l’abbellimento utilizzabile soprattutto dagli estranei è considerato uno spreco di soldi, perché non vi è interesse per “l’occhio pubblico” e la sua relativa coscienza.52 La mancanza di occhio pubblico e l’esclusione generalizzata dal proprio privato sono probabilmente l’eredità di un modo antico di concepire le poleis, in cui lo spazio pubblico non esisteva, perché la città era una somma di residenze private divise dalle religioni familiari.53 Ancora oggi se si visitano città tradizionali del mondo mediterraneo non si può non rimanere colpiti dal contrasto tra la bellezza e pulizia nel privato e la sozzura del pubblico. La tradizionale separatezza tra pubblico e privato nella città occidentale (a partire dalle analisi di Weber) viene superata dall’idea che i cittadini sono proprietari e che si debbono sentire responsabili collettivamente del pubblico, perché lo Stato non può giungere fino alla soglia della loro casa. Per esempio a

Milano, ma credo in molte città, gli abitanti sono responsabili della pulizia del marciapiede antistante l’ingresso, soprattutto in caso di nevicate. Oggi si aggiunge una diversa forma di disenfranchisement dell’abitante per un processo di progressiva monetizzazione degli spazi pubblici. Queste trasformazioni sono legate a un processo di carattere più generale che potremmo chiamare di “mercificazione dei luoghi”, con la creazione di un mercato per e delle città (city marketing) rivolto alle PNR. È significativo che per illustrare il PGT, lo strumento urbanistico proposto dalla giunta Moratti e oggi contestato, l’allora assessore Masseroli avesse suggerito alla curia cittadina di vendere alcuni diritti di cubatura del Duomo di Milano per fare cassa.54 Chi ne dubitasse può solo pensare all’importanza che i cosiddetti “mega-eventi”, dai vari festival alle fiere internazionali, ai giubilei e alle Expo, hanno assunto nelle economie cittadine dall’inizio degli anni novanta, quando si cominciò a parlare di city marketing, a oggi. Ma l’economia per le PNR contribuisce ad aumentare il valore soprattutto delle localizzazioni centrali (“central locations”) e la mercificazione dei luoghi contribuisce alla spinta verso la recessione dei confini e quindi anche al consolidamento delle aree esterne delle meta-città. Si può rimediare? Sì, ma con concetti nuovi, perché il cambiamento è davvero profondo: quelli vecchi hanno offuscato il significato di trasformazioni macrostrutturali. Faccio solo un brevissimo accenno: questo giocare con le parole nel nostro paese ha avuto il semplice effetto che nel periodo di circa cinquant’anni in cui l’Italia urbana si è trasformata prima in paese metropolitano e poi in un conglomerato di meta-città, il sistema pubblico non sia riuscito a darsi neppure una parvenza, non dico di governo metropolitano, che forse oggi è anche un concetto obsoleto, ma neppure di una qualsivoglia forma di coordinamento o di governance, chiamiamola come vogliamo, mentre la cultura urbanistica si baloccava con l’idea di “ritorno alla campagna” o altro. Così l’intera iniziativa dello sviluppo periurbano è stata lasciata ai developers, particolarmente i grandi padroni dei flussi, ferrovie, autostrade, oleodotti, metanodotti, linee elettriche, network elettronici e via dicendo. Il fattore strutturale più importante che influisce sulla mobilità è collegato ai cambiamenti nella morfologia urbana che sono intervenuti nel corso del XX secolo. Risulta ormai evidente che in ogni parte del mondo la città tradizionale e la “metropoli di prima generazione”, che hanno caratterizzato la vita urbana nella porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto diverso di morfologia urbana che sta creando una serie di Grandi Regioni Urbane in cui forme differenti di insediamenti umani si mescolano inestricabilmente, fino a costituire un’entità urbana nuova ma ancora indefinita, che qui, per ragioni analitiche già dette, chiamiamo meta-città. L’aspetto più interessante, tuttavia, riguarda i consumi energetici. Fino a pochi anni dopo l’inizio del XXI secolo l’opinione quasi universale era che i consumi

energetici avrebbero trovato limiti invalicabili. Poi (sfortunatamente da questo punto di vista) è subentrata la crisi, i consumi energetici sono crollati su tutta la linea, forse (ma sottolineo forse) si aprono nuove fonti di rifornimento e quindi l’irrilevanza del costo dei trasporti privati individuali si è prolungata nel tempo, in attesa che altri limiti si attivino. È difficile oggi fare previsioni perché siamo in una fase di grande turbolenza: però è più o meno certo che i prezzi energetici, come tutti gli altri fattori inflazionali, sono attualmente come molle compresse che scatteranno non appena l’economia comincerà a richiedere più energia: la velocità di espansione della molla sarà proporzionale al tasso di crescita. Che si tratti di un tema centrale per la morfologia urbana è fuor di dubbio, e per questo la società che vive nelle terre sconfinate della nuova forma urbana è percorsa da un’inquietudine sottile e profonda che riguarda il rapporto tra le conoscenze sulla realtà sociale, le visioni della realtà e i modi di incidere sulla realtà. È troppo presto per portare un giudizio complessivo sull’esito di queste trasformazioni, ma una cosa è certa: la città non ha conosciuto una dissoluzione, come si ripete continuamente, anche con una certa piattezza, ma una “dissolvenza” da una forma nota a una che ancora non lo è del tutto, cioè a una realtà (o immagine) che lentamente sbiadisce al prendere forma di una nuova realtà. Energia, mobilità, informazione Come mi sono sforzato di dire in molte occasioni, parlando dei fenomeni urbani attuali, le conclusioni di ogni discussione sulla città contemporanea non possono che essere molto provvisorie. La fase in corso nello sviluppo urbano mondiale, dal punto di vista della mobilità e dal punto di vista della morfologia sociale complessiva, è quella di una profonda crisi urbana, dovuta non al declino o addirittura alla scomparsa della città, ma a una sua espansione esplosiva e conseguente radicale trasformazione. Le comunità negli agglomerati urbani hanno cominciato a pagare gli oneri collettivi della crescita precedente (sindrome NIMBY, Not In My BackYard, Non nel mio cortile; o, più di recente, BANANA, Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone, Non si costruisca assolutamente nulla vicino a nessuno). La crisi petrolifera e la conseguente ristrutturazione dell’industria e della produzione, coniugata alla diffusione di mezzi per la gestione dell’informazione veloce, economica e affidabile, si sono sommate alle considerazioni degli oneri e alle incertezze che generano, come abbiamo visto tre ordini di inquietudini derivanti dalla caduta di limiti precisi di definizione spaziale delle singole città – dalla sovrapposizione e confusione di diversi tipi di popolazioni e dalle profonde trasformazioni nel rapporto tra conoscenza della realtà, produzione di visioni della realtà e intervento sulla realtà urbana – che hanno inciso profondamente sull’azione di governo delle città. Lo shock e la confusione concettuale generati da queste dinamiche sociali, indipendenti ma fortemente intersecantesi e interagenti, e che

hanno prodotto eventi che si sono succeduti senza sosta uno dopo l’altro come onde anomale, sono stati profondi. Siamo entrati nell’era della rete e, da principio, una lettura errata della nuova situazione ha diffuso l’idea che l’interazione virtuale stesse sostituendo i contatti fisici così come l’ufficio avrebbe fatto a meno della carta. Nulla di tutto ciò è successo, né è probabile che accada nel prossimo futuro. Com’è ovvio, il numero di contatti online è aumentato enormemente, e così è avvenuto anche per la quantità di informazioni contenuta nelle memorie elettroniche. Ma, com’è accaduto in gran parte dei casi di innovazione tecnologica, il processo non è un gioco in cui, se l’uno vince, l’altro deve per forza perdere, ma uno scambio positivo o sinergico. È vero che una quantità sempre maggiore di informazione prodotta via ICTs (Information and Communication Technologies) non viene stampata – ci vorrebbero centinaia di milioni di fogli per stampare solo il contenuto dell’hard disk del piccolo portatile che sto usando in questo momento – ma il totale dell’informazione prodotta (elettronica e stampata) sta aumentato così in fretta che ci troviamo davanti a valori assoluti enormi, per cui anche se una proporzione crescente dell’informazione totale non viene stampata, la parte che si stampa cresce comunque vorticosamente, e gli alberi per la cellulosa continuano a essere sacrificati. Analogamente, anche se un numero elevato di contatti personali viene ormai tenuto online, il numero totale di interazioni sta crescendo con un ritmo tale che la porzione fisica, anche se proporzionalmente in calo, cresce comunque grandemente, soprattutto per le attività di loisir. Previsioni errate basate su una proiezione ingenua di questo grande cambiamento del contesto urbano hanno portato non molto tempo fa numerosi osservatori a prevedere una riduzione della crescita delle città, e perfino il declino dell’urbanizzazione; e tutto ciò proprio mentre l’espansione urbana prosegue come non mai, e le gigantesche conurbazioni delle zone a basso sviluppo continuano ad assorbire una percentuale crescente della popolazione mondiale. Ciononostante, va riconosciuto che nelle zone a maggior sviluppo, e soprattutto in Europa, dove le problematiche energetiche e ambientali sono all’ordine del giorno, l’orientamento prevalente degli esperti è quello di assegnare una crescente importanza alle istanze di qualità e di conservazione. Forse è una visione troppo ottimistica definire questa come una fase ulteriore e distinta della mobilità urbana, la fase della città conservazionista, perché lo spreco di energia, l’inquinamento e la congestione del traffico sono tuttora enormi, ma il tema della sostenibilità ambientale è stato posto all’ordine del giorno. E, com’è noto, la funzione cosiddetta di “agenda setting” è un primo passo cruciale nella soluzione dei problemi politici. È importante notare che ognuna delle fasi precedenti di sviluppo della mobilità urbana che abbiamo descritto più sopra è stata in grado di sostenere quella successiva, anche se con una quantità crescente di esternalità negative – particolarmente nel campo del consumo di energia, dell’inquinamento e della sicurezza personale nella

mobilità. Ogni fase conteneva le premesse (positive e negative) della successiva: così, l’innovazione fordista nella mobilità ha avviato l’espansione metropolitana e ha fornito la base dell’espansione postbellica. A sua volta, la ricostruzione ha innescato il boom dell’era dell’automobile, e le conurbazioni metropolitane hanno portato alle edge cities, letteralmente “città sul bordo”, ma oggi anche al di là (meta) e sempre più parte di quelle che Michele Sernini, con un termine molto efficace, ha chiamato appunto “terre sconfinate”.55 Abbiamo visto che l’espansione di queste “terre sconfinate” è stata resa possibile non solo dalla mobilità fisica, ma anche da sviluppi del tutto indipendenti, ma appunto intersecanti e interagenti con la mobilità, che hanno permesso, se così si può dire, ai cittadini periurbani di portarsi con sé un pezzo di città sottraendola alla “tirannia dello spazio”. In ogni fase, tuttavia, la mobilità è sempre stata trattata come una variabile da incrementare: tanto più, tanto meglio, i costi sarebbero stati compensati dai benefici economici. Oggi si cominciano a valutare con occhio più attento e critico i costi collettivi di questo modello e la mobilità, da sempre considerata un valore indiscusso: con il fallimento delle profezie sulla “morte delle distanze” e sulla “città virtuale”, che promettevano di eliminare gran parte della città mobile, il problema ambientale si riaffaccia prepotentemente e diventa uno dei temi centrali del governo urbano. I costi energetici della mobilità sono stati enormi, non meno di quelli sociali. Su un campione di città americane, il consumo pro capite di benzina è stato calcolato come quattro volte superiore rispetto al campione di città europee.56 Ma il vero problema è che questo modello si sta estendendo in tutto il mondo, soprattutto nelle Mega Urban Regions. Il timore è che un effetto indiretto del tasso decrescente della popolazione (in sé un fattore positivo per l’ambiente) possa favorire l’aumento dell’espansione delle “terre sconfinate”.57 Alcuni benefici dell’urbanizzazione possono essere controbilanciati dalla diminuzione del numero di persone per abitazione,58 perché questo vuol dire più abitazioni, maggiore espansione urbana e suburbana, e minore impiego efficiente delle risorse. Tuttavia, il danno ambientale prodotto da uno sviluppo urbano “car friendly” non è solo il prodotto dell’urbanizzazione nelle regioni economicamente più avanzate del mondo. Come già detto, l’urbanizzazione mondiale è in piena espansione e oggi le città coprono il 2% dell’intera superficie del pianeta. Non è questo un dato irrilevante, perché la superficie urbanizzata lascia un’impronta marcata sulla Terra. Per il cibo necessario a sfamare la popolazione urbana e per l’energia indispensabile alle sue attività, Londra richiede un’area 58 volte superiore a quella coperta dal suo territorio municipale. L’area urbana mondiale produce il 78% delle attività umane che generano carbonio, il 76% dell’uso industriale di legname e il 60% delle riserve d’acqua negli acquedotti.59 Certo, i paesi ricchi sono all’origine di gran parte dei comportamenti consumistici e del relativo inquinamento, ma le grandi città dei

paesi più poveri, che crescono a ritmi incalzanti, producono una proporzione enorme e crescente di inquinamento a livello mondiale. Nei primi mesi del 1999 è stata scoperta una nuvola di smog, grande quanto tutti gli Stati Uniti, che si estendeva per l’Oceano Indiano, dalla Thailandia alla costa africana,60 con conseguenze a livello quasi planetario. A partire da anni non lontani, particelle inquinanti di origine asiatica sono state intercettate dalle centraline di rilevamento dell’aria di Londra, particolarmente di origine urbana, anche se in parte dovute alla massificazione di pratiche rurali tradizionali. Tuttavia, in generale sono ancora le città delle regioni più sviluppate che contribuiscono maggiormente ad alterare in maniera crescente il rapporto tra la specie umana, il territorio e le risorse. Ed è fuori di dubbio che il sistema urbano europeo (EUS, European Urban System), di cui quello italiano fa parte, sia uno dei più estesi e antichi, e meriterebbe dunque un’attenzione particolare, che non possiamo qui riservare per ragioni di spazio. Attenzione però a non farsi trarre in errore dalle distorsioni statistiche: l’ambiente urbano denso non è in sé responsabile del danno ecologico: è un luogo in cui alla concentrazione di popolazione corrisponde ovviamente (e sottolineo l’avverbio) una maggior concentrazione di consumi energetici e inquinamento, ma non è il luogo in cui ogni individuo è specificamente più “costoso” dal punto di vista ambientale, ed è anche il luogo in cui il controllo dell’inquinamento può essere più efficiente. New York può sembrare sporca, e le maone di rifiuti urbani che vengono rimorchiate su e giù per la baia con un codazzo di gabbiani e sterne sono da sempre l’immagine della sporcizia urbana, ma suggerisco la seguente esperienza ambientale. Se si sale da ovest sul massiccio centrale di Creta, terra ventosa di cardi selvatici e di mulini a vento, c’è un punto in cui ci si affaccia sul vasto altipiano con lo sfondo del monte Ida, culla di Giove e della nostra civiltà. La prima impressione che prova il viaggiatore a quel punto è che l’altopiano sia innevato. Passando di lì in pieno agosto mi ci è voluto poco per scoprire con orrore che la “neve” era fatta da migliaia e migliaia di brandelli della plastica pesante che usavano (uso il passato riferito a una decina d’anni fa) a Creta per le coltivazioni orticole. Con il vento e la pioggia la plastica delle serre si lacerava, e i brandelli a migliaia venivano trasportati sull’altopiano dove finivano letteralmente impalati sui cardi, da cui neppure una società schiavista con migliaia di schiavi abituati a rompersi le mani con lo spinoso cotone potrà mai più liberarli: così ne risultava l’immagine surreale e inquietante di una neve di plastica sotto il solleone mediterraneo. Non so se oggi si sia trovato un rimedio, mi auguro di sì, ma questa e altre esperienze analoghe servono a farci capire che i luoghi “bucolici” della natura intatta vagheggiati dall’imperante e inguaribile tardo romanticismo dell’antiurbanesimo popolare, dal mare all’Everest, al deserto, ai ghiacciai, e persino nel vastissimo spazio interplanetario, sono ingombri dei rifiuti delle attività della specie umana, troppo dispersi per poter essere recuperati con costi

sopportabili, come si fa invece in città. David Owen ci spiega anche gli errori fattuali dell’ideologia antiurbana.61 Il Vermont, con la sua sopravvissuta ruralità, viene sovente contrapposto nell’immaginario collettivo alla terribile Manhattan, ma il fatto è che, in termini di costo ambientale complessivo, il Vermont è l’undicesimo stato americano, mentre New York, proprio solo grazie al peso di New York City, è lo stato meno dissipativo dei cinquanta dell’Unione (p. 14). L’abitante del Vermont consuma molta più acqua del newyorkese, consuma 542 galloni di benzina l’anno a testa (circa 2000 litri) contro 146 per i residenti di NYC e appena 90 per quelli di Manhattan, e consuma quattro volte tanto di energia elettrica lasciando sul pianeta una “carbon footprint” molto maggiore di quella dei newyorkesi. Non è difficile immaginare che seguendo premesse erronee si possano poi proporre rimedi inefficaci o non applicabili, nel migliore dei casi. Owen cita il PlaNYC proposto in occasione dell’Earth Day 2007, che tra le altre cose (pp. 15 e sgg) prometteva di piantare più di un milione di alberi (qui fanno le cose in grande, ma ovviamente è New York, non Milano); di far pagare una tassa ai veicoli che usavano le arterie più trafficate (“congestion pricing”) e di imporre una tariffa aggiuntiva sulle bollette elettriche. La tassa sulla congestione è stata cancellata in occasione dell’Earth Day dell’anno successivo e, per quanto riguarda le bollette elettriche, si è scoperto che il consumo pro capite dei newyorkesi era già di molto inferiore alla media dei residenti di altre parti del paese. Il consumo pro capite dei residenti di New York è di 4696 kwh all’anno per ogni famiglia, ma Dallas, città estesa, ne consuma 16.116, cioè quasi quattro volte tanto. E Owen commenta che cercare di imporre riduzioni a consumi già molto bassi “è come cercare di combattere l’obesità mettendo a dieta i magri”. Anche il rapporto pubblicato dal comune di New York, il quale denunciava che gli edifici contribuiscono per il 79% alla carbon footprint della città, è fuorviante, spiega Owen, perché questa percentuale eccezionalmente elevata (la media nazionale è circa il 32%) è in realtà dovuta alla bassa incidenza sul totale del gas emesso dai veicoli privati che costituisce la voce di maggior rilievo nella più parte delle altre situazioni (p. 16). E per quanto riguarda il milione di alberi non se ne è più parlato, ma Owen non se ne duole perché pensa che gli alberi nelle aree urbane vadano eventualmente apprezzati perché sono belli e aiutano a frenare la fuga degli abitanti, non per la ragione normalmente addotta, e cioè che aiutano a migliorare l’aria, affermazione che andrebbe fatta solo a valle di prove empiriche e di calcoli precisi. Nikita Chruščëv, che visitò New York nel 1960 in occasione dell’assemblea delle Nazioni Unite, trovò la mancanza di verde a New York molto deprimente, “tanto da far intristire ” (p. 11), ma Owen teme che molti discorsi “ecologisti” che tendono a far sentire in colpa i cittadini possano contribuire a spingerli verso i sobborghi, producendo un risultato antiecologico. La risposta classica, e

semplicistica, di mettere più verde nelle città costruite è sbagliata, non perché gli alberi non siano belli e gradevoli, ma perché sono ecologicamente costosi.62 Atlanta, Georgia, in Usa, è una città bellissima, immersa nel verde e sede di alcune tra le principali multinazionali del mondo: Coca-Cola, Delta Airlines, Cnn. Tra downtown e il nuovo quartiere degli alberghi, Buckhead, ci sono tre miglia, quasi cinque chilometri, più o meno la stessa distanza che a Los Angeles intercorre tra la spiaggia di Santa Monica e Beverly Hills, ma se sei in uno di questi alberghi e vuoi andare a cena fuori ovviamente ci vuole un taxi o lo shuttle di cortesia dell’albergo. È una città bellissima, perché immersa nel verde, ma il consumo energetico e l’aggiunta al gas serra sono straordinari. Infine, negli Stati Uniti e in Europa, come altrove, lo sviluppo della mobilità intrametropolitana va di pari passo con quello della mobilità extra e intermetropolitana, dando vita a una forma urbana sempre più orientata ad attrarre popolazioni di consumatori cui offrire i prodotti dell’economia dei servizi che si affiancano alle tradizionali produzioni industriali, e dando vita a quella che altrove ho chiamato “metropoli di seconda generazione”.63 Questa a sua volta è generatrice di mobilità a largo raggio, come sanno gli organizzatori delle Expo di ogni tipo (compresa l’Expo 2015 di Milano), i quali fanno i loro bilanci previsionali a suon di milioni di visitatori. Nella fase della città motorizzata, la mobilità era vista come un fine in sé, senza alcuna preoccupazione per i possibili effetti collaterali in termini di erosione del terreno, congestione, inquinamento, disagio urbano ed emarginazione: le città crescono, e altrettanto fa l’economia. Ma, in questa più recente temperie, che viene ormai definita dai geologi come Antropocene, era dell’impronta umana, si deve riproporre una domanda lasciata ancora senza risposta: “A che cosa serve l’abbondanza?”.64 Note 1 Louis Wirth, Urbanism as a Way of Life, in “The American Journal of Sociology”, vol. XLIV, n. 1, luglio 1938, pp. 1-24. 2 Idea poi ripresa più volte da diverse generazioni di malthusiani, e con grande successo popolare da Paul Ehrlich con la sua “Population Bomb”, nel 1967 (“New Scientist”, dicembre 1967) e riecheggiata da Giovanni Sartori in La Terra scoppia (Gianni Mazzoleni e Giovanni Sartori, La Terra scoppia. Sovrappopolazione e sviluppo, Rizzoli, Milano 2003). 3 Mike Davis, Planet of Slums, Verso, London-New York 2006, p. 2. Senza nulla voler togliere al noto talento narrativo di Mike Davis, va detto che si tratta di dati piuttosto noti che provengono per lo più da pubblicazioni ufficiali delle Nazioni Unite, dell’Oecd o di altre fonti pubbliche. Sorprende quindi che un quotidiano bene informato come il “Financial Times”, che questi fatti dovrebbe avere sulla punta delle dita, ne parli come di “astonishing facts” (vedi quarta di copertina del libro); sottolineo questo particolare solo per richiamare l’attenzione sulle difficoltà del discorso sul fenomeno urbano, cui accennerò oltre. 4 Staffan Helmfrid, in La dimensione metropolitana. Sviluppo e governo della nuova città, il Mulino, Bologna 1999, p. 65. 5 Per questa terminologia vedi il mio Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, il Mulino, Bologna 1993, cap. III, passim.

6 Uso il termine con un significato analitico diverso da quello che gli viene dato da François Ascher, cui devo tuttavia riconoscere una primogenitura del termine che mi era sfuggita. Ringrazio Jean-Paul Hubert del Drast per la segnalazione. Una buona approssimazione del concetto che userò qui è il termine di Zwischenstadt, la “città tra le città” (vedi Thomas Sieverts, Cities Without Cities. An Interpretation of the Zwischenstadt, Routledge, London, 2003). La Commissione europea ha ricostruito questa città tra le città calcolando le aree del pianeta che si trovano in prossimità di centri urbani. 7 Per una rassegna delle teorie della de-urbanizzazione vedi il mio già citato Metropoli, cap. II. Più di recente, il tema è stato ripreso anche da un autore solitamente bene informato ed equilibrato come Leonardo Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma-Bari 2011. 8 Vedi Giampaolo Nuvolati, Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni, il Mulino, Bologna 2006. 9 Devo usare questo termine per precisione tecnica: si dice “supervenienza” nel caso in cui: “A set of properties A supervenes upon another set B just in case no two things can differ with respect to Aproperties without also differing with respect to their B-properties”, http://plato.stanford.edu/entries/supervenience. 10 Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna 1994. 11 Vedi nota 4. 12 Alain Gras, Grandeur et dépendance: sociologie des macro-systèmes techniques, Puf, Paris 1993. 13 Vedi nota 6. 14 Lo slogan 3xM fu coniato negli anni venti del Novecento dal poeta polacco Tadeusz Peiper, fondatore della Awangarda krakowska. 15 L’originale gioco di parole “Trigger Happy”, con “Car Happy City” non è traducibile se non così. 16 “Just before the midpoint of the twentieth century, the processes of urbanization that had governed the country’s growth for almost 100 years were fundamentally altered. Whereas most cities and towns had benefited from steady increases in population and geographical expansion prior to these years, this was no longer the case by the early postwar period. Growth turned from distributive to parasitic.” Robert A. Beauregard, When America Became Suburban, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006, p. 19. 17 Ibidem. “This new type of urbanization involved a wrenching loss of residents from the industrial cities, a loss that was accompanied by a hoist of social, economic, and political ills […]. It also included a surge of population from older cities into rapidly growing bedroom suburbs and, a bit later, a parallel growth of cities in the western and southern states. Not surprisingly, one result was expansion in the size and number of metropolitan areas. These effects of the rupture in urbanization anchored numerous changes during the short American Century, and established die basis for a corresponding transformation of the country’s identity.” 18 William J. Mitchell, E-topia. Urban Life, Lim – But Not As We Know It, The Mit Press, Cambridge 1999, citato in WhitePaper on Creativity, ed. by Walter Santagata, http://www.culturenet.cz/res/data/011/001324.pdf. 19 Jean-Paul Bailly e Edith Heurgon, Nouveaux rhytmes urbains: quels transports?, Éditions de l’Aube, La Tour d’Aigues 2001, pp. 81-82. 20 William J. Mitchell, cit., v. nota 18. 21 Sigfried Giedion, Space, Tune & Architecture: The Growth of A New Tradition, Harvard University Press, Cambridge 2003 (1941). 22 Consumo di televisione in minuti nel 2008: HU 274; RO 258; PL 245; IT 244; UK 240; ES 238; DE 221; FR 217; NL 191; SE 170; Media EU 227. Fonte: IP (2009), Television-International Key Facts. È vero che l’Italia è anche uno dei paesi in cui la tv viene più vista come attività secondaria, ma rimane comunque un’enorme quantità di tempo sottratto ad attività in contatto con persone esterne alla famiglia. Dati ripresi da Marco Gui, Uno sguardo d’insieme sui consumi e le pratiche culturali in Italia e in Europa, dossier preparatorio per i lavori del convegno Idee Italiane (Milano, 15-16 ottobre 2010), Fondazione SUM, Milano 2010. 23 Joel E. Cohen citato in Andrew C. Revkin, Tapering of Population Could Aid Environment, in “The

New York Times”, 30 agosto 2004. 24 Georg Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben, Peternann, Dresden 1903 (trad. it.: La metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma 1998). 25 Vedi nota 27. 26 Ciò che viene chiamata legge di Zipf o “distribuzione della posizione di rango (rank) per grandezza” afferma che in un sistema urbano [nazionale] vi è una relazione tra la grandezza del centro di una città e la sua posizione nell’ordine di rango della grandezza che segue la formula: Pr=P1/r. Dove la popolazione della città r corrisponde alla popolazione della città più grande (P1) divisa per la posizione di rango della data città (Pr) all’interno di un insieme. Questo significa che la popolazione di Milano deve essere circa la metà di quella di Roma, un terzo rispetto a quella di Napoli e così via. George Kingsley Zipf, Human Behavior and the Principle of Least Effort, Addison-Wesley, Cambridge 1941, 1949. http://en.wikipedia.Org/wiki/Zipfs_law#cite_note-0. 27 Riprendo le grandi linee del discorso che segue dal mio Metropoli e da altri testi miei e di altri che hanno rielaborato uno schema che in base alle combinazioni di tre variabili dicotomiche (abitare, lavorare, consumare) individuava quattro popolazioni (abitanti, pendolari, city-users e metropolitan businesspersons) e i tipi di sviluppo urbano definiti dalla predominanza dell’una o dell’altra popolazione. Vedi anche Giampaolo Nuvolati, Lo sguardo vagabondo, cit., e Mobilità quotidiana e complessità urbana, Firenze University Press, Firenze 2007. 28 Vedi nota 33. 29 Michael A. Cohen, The Hypothesis of Urban Convergence: Are Cities in the North and South Becoming More Alike in an Age of Globalization?, in Preparing for the Urban Future: Global Pressures and Local Forces, ed. by Michael A. Cohen, Blair A. Ruble, Joseph F. Tulchin, Allison M. Garland, Woodrow Wilson Center Press, Washington D.C. 1996, pp. 25-38. 30 Saskia Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton University Press, Princeton 1991 (trad. it.: Città globali. New York, Londra, Tokyo, Utet, Torino 1997); Cities in a World Economy, Pine Forge Press, Thousand Oaks 1994 (trad. it.: Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna 1996); Losing Control? Sovereignity in an Age of Globalisation, Columbia University Press, New York 1996 (trad. it.: Fuori controllo. Mercati finanziari contro stati neutrali. Come cambia la geografia del potere, il Saggiatore, Milano 1998). 31 Denis Duclos, Une nouvelle classe s’empare des leviers du pouvoir mondial. Naissance de l’hyperbourgeoisie, in “Le Monde Diplomatique”, n. 533, agosto 1998, pp. 16-17; Jane Marceau, A Family Business? The Making of an International Business Elite, Cambridge University Press, Cambridge 1989; Leslie Sklair, The Transnational Capitalist Class, Wiley-Blackwell, Oxford 2001. 32 Vedi sulle discussioni di quel periodo il mio The Illusive Autonomy. Central Control and Decentralization in the Italian System of Local Government, in Laurence James Sharpe (ed.), The Local Fiscal Crisis in Western Europe. Myths and Realities, Sage, London 1981, pp. 63-124. 33 Per fare una classificazione completa possiamo denominare la nuova metropoli, che sta ancora emergendo sotto l’effetto degli uomini d’affari metropolitani, la metropoli di terza generazione. Ma non desidero spingere la discussione tassonomica troppo lontano. Mi basta affermare che la metropoli emergente è per lo meno di costituzione diversa rispetto a quella dei pendolari, così come quest’ultima era diversa dalla città industriale tradizionale. 34 Il termine di doppia ermeneutica è stato ripreso da Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, cit., pp. 27 e sgg. 35 Sul tema esiste una letteratura immensa che sarebbe del tutto fuor di luogo trattare qui, in un passaggio che vuole solo dare la sinopsi di un ragionamento. Mi limito alla efficace sintesi di Hans Kelsen: “Società e natura se concepiti come due modi diversi di sistemare gli elementi, sono il risultato di due diversi metodi di pensiero; e solo in quanto tali costituiscono due oggetti diversi. Gli stessi elementi, se sono legati l’uno all’altro secondo il principio di causalità, costituiscono la natura; se invece sono legati secondo un altro principio, cioè quello normativo, costituiscono la società”, in Società e natura, Einaudi, Torino 1953, p. 13. 36 Vedi Patrick S. McCarthy e Richard Tay, Pricing and Congestion: Recent Evidence from Singapore,

in “Policy Studies Journal”, vol. XXI, n. 2, giugno 1993, pp. 296-308. 37 Per una summa molto interessante di questi problemi vedi Sherry Turkle, Alone Together. Why We Expect More from Technology and Less from Each Other, Basic Books, New York 2011, che completa la trilogia iniziata con The Other Self e Life On the Screen. 38 Che in realtà, come sottolinea Pitirim Sorokin nella prefazione all’edizione americana del famoso testo, era largamente presente nel pensiero teutonico, con molti antecedenti che Sorokin fa risalire a Confucio e a Platone. Che la dicotomia tönnesiana fosse non proprio un luogo comune, ma un’idea che non apparve subito come molto originale, spiegherebbe lo scarso successo di pubblico che incontrò al suo primo apparire un’opera che in seguito avrebbe portato a una diffusione esplosiva quello che forse è il topos più adesivo della filosofia sociale contemporanea. Ferdinand Tönnies, Community and Society, Harper & Row, New York 1963 (ed. or. Geimeinschaft und Gesellschaft, Fues Verlag, Leipzig 1887). La prima edizione della traduzione del classico testo di Tönnies fu pubblicata nel 1957 a East Lansing per la Michigan State University Press, tradotta e curata da Charles P. Loomis, con una prefazione (Foreword, pp. VII-IX) di Pitirim Sorokin e una seconda (Preface, IX-X) di Rudolf Heberle. Vale la pena di menzionare che nell’edizione londinese del 1955 per Routledge & Kegan Paul, il titolo era forse più correttamente Community and Association, ma non ebbe alcun successo. 39 Questo continuo usare il termine di “comunità” per fenomeni che sono nuovi e diversi conferma la forma mentis che in questo lavoro (e in altri) ho ripetutamente criticato e che rappresenta una sorta di “éternel retour” a una forma decisamente tardoromantica, che impedisce di avere un occhio lucido sulle forme della tarda modernità. 40 Potremmo dire “fisiche” o “corporee”, ma preferisco il termine “biotico” perché fa riferimento a una lunga e consolidata tradizione di analisi sociologica derivante dalla Scuola di Chicago che usava appunto questo termine. Peraltro si tratta di vocaboli largamente sinonimi. 41 In genere l’insieme dei comportamenti aggressivi via internet rientra nel quadro del “flaming” o, per converso, nel sistema di regole che il popolo dello schermo cerca di darsi spontaneamente per regolare la devianza online. Vedi Patricia Wallace, La psicologia di internet, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, in particolare il capitolo “Flaming e Fighting”. 42 Con l’aiuto di Renate Ramge Eco, di lingua madre tedesca, ho coniato il termine maccheronico e semigiocoso di Vernetzungschaft, in assonanza con i termini tedeschi di Tönnies. 43 Ho sviluppato questo tema, che non posso approfondire qui, in Urban Civilization from Yesterday to The Next Day, ed. by Davide Diamantini and Guido Martinotti, Scriptaweb, Napoli 2009, in particolare nel paragrafo “Now but not here”. Vedi anche Squinternet. Le nuove regole per il disordine delle reti, presentazione mia a Orsola Torrani e Sara Parise, Internet e diritto, Il Sole 24 Ore, Milano 1998, pp. IXXV. 44 William L. Mitchell, cit. 45 Jean-Marc Lévy-Leblond, Impasciences, Bayard, Paris 2000, p. 129. 46 Indimenticabile l’interpretazione di questo personaggio (Don Saverio Petrillo) fatta da Totò in Il guappo, primo episodio de L’oro di Napoli (regia di Vittorio De Sica, 1954). 47 Margaret Crawford, The World in A Shopping Mall, in Variations on a Theme Park: The New American City and The End of Public Space, ed. by Michael Sorokin, The Nooday Press, New York 1992, pp. 3-30. 48 Come accadde con gli slogan, la ripetizione ossessiva dell’idea di non-luogo, creata da Melvin Webber (1964) e diffusa da Marc Augé (1995) confonde più che chiarire. La mia critica a Augé non è soltanto di aver plagiato Webber che forse non è neppure vero, visto che Webber aveva proposto una versione molto più garbata e soft del “non-lieu” o “non-place urban realm” (vedi il mio La città nel vetro. L’immagine televisiva dei problemi urbani, con Alberto Caracciolo, Francesca Anania, Mario Maneri Elia, Rai Eri, Torino 1988). La mia critica è all’uso improprio e retorico di termini evocativi per descrivere realtà complesse che richiederebbero un maggiore sforzo analitico. Vedi Lantello danle metro. Le disavventure del bardo urbano, relazione presentata al convegno La città e l’esperienza del moderno, 16 giugno 2010, Università di Milano-Bicocca, Milano. 49 Vedi Ernst H. Gombrich, Breve storia del mondo, Salani, Milano 2006.

50 Manuel Castells, The Rise of The Network Society: The Information Age: Economy, Society and Culture, vol. I, Blackwell, Oxford 1996, p. 412. 51 Vedi Jacques Delors, Enquête d’Europe; les Carrefours de la Science et de la Culture, Éditions Apogée, Rennes 1994, p. 173. 52 Richard Sennett, The Conscience of the Eye, Alfred A. Knopf, New York 1990 (trad. it.: La coscienza dell’occhio, Feltrinelli, Milano 1992). 53 In quella che molti considerano la prima città al mondo, Çatal Hüyük in Anatolia, gli spazi pubblici erano assenti, tanto che nelle abitazioni si entrava dai tetti. 54 Questo episodio è molto significativo per me, che ho sempre usato l’impossibilità di “vendere il Duomo di Milano” come esempio della differenza tra le città europee in cui esistono terreni “sacri” e le città americane in cui in genere tutto il suolo è mercatizzabile. L’assessore Masseroli mi dà una smentita sul campo segnalandomi quanto lontano sia andato anche a Milano il processo di mercificazione dei luoghi. 55 Michele Sernini, Terre sconfinate. Città, limiti, localismo, Franco Angeli, Milano 1996. 56 Peter W.G. Newman e Jeffrey R. Kenworthy, Transport and Urban Form in Thirty-two of the World’s Principal Cities, in Proceedings of International Symposium on Transport, Communication and Urban Form, Analytical Techniques and Case Studies, Monash University, Clayton 1987. 57 Citato in Andrew C. Revkin, The World – People and Pollution; A Greener Globe. Maybe, in “The New York Times”, 29 agosto 2004. 58 “On the minus side, some benefits of urbanization could be offset by a drop in the number of people per household. That means more households, more urban and suburban sprawl and less efficient use of resources.” (Andrew C. Revkin, Tapering of Populations Could Aid Environment, in “The New York Times”, 30 agosto 2004). 59 Molly O’Meara, Urban Growth Is Harmful to Our Planet’s Health, in “International Herald Tribune”, 22 giugno 1999, p. 9. 60 William K. Stevens, Haze Over Indian Ocean Casts a Cloud on Climates, in “International Herald Tribune”, 11 giugno 1999, pp. 1-4. “The brownish haze is composed of several kinds of minute byproducts from the burning of fossil fuels for industry and transportation. The scientists say these elements, including soot and sulfur droplets, are blown out over the ocean from the Indian subcontinent, China and Southeast Asia during the winter monsoon, when prevailing winds sweep down from the Himalayas and out to sea.” 61 Ripreso dall’edizione italiana di David Owen, Green Metropolis. La città è più ecologica della campagna?, Egea, Milano 2010. I numeri di pagina si riferiscono all’edizione italiana, il brano è tratto dalla mia introduzione La vendetta del territorio e la modernità sottratta, pp. VII-XXI, passim. 62 Ibid. 63 Per i termini usati qui, vedi nota 7. 64 David Riesman (ed.), Abundance for What? And Other Essays, Doubleday, Garden City-New York 1964.

Quarta lezione Le disavventure del bardo urbano

La letterarizzazione del discorso sulla città Ci sono molti modi legittimi per affrontare il problema del rapporto tra l’entità studiata e osservata e l’osservatore, e la loro legittimità dipende in larga misura dall’intento dell’osservatore.1 Un sostegno significativo alla distinzione che ho introdotto qui tra letteratura e scienza sociale viene proprio da un letterato di valore come Mario Praz in un testo vecchiotto, ma così dimenticato che vale la pena di ricordarlo.2 “Ah, il demone dell’analogia!” lamenta Praz, che da fine letterato ci avverte dei rischi dell’impiego sconsiderato di questo potente strumento dell’intelletto. “Non sarà il solo caso in cui una virtù, trasferita in un campo non pertinente, diventa un incomodo o un vizio, ma certo quello del demone dell’analogia è un esempio estremo di codesta estrema ambivalenza”, che Praz, con straordinaria finezza, paragona ai pesci tropicali che, squisiti se pescati in mare aperto, risultano velenosi se catturati pochi metri più in là, ma all’interno della laguna corallina. Praz ci insegna che “il mondo del poeta è tutto un generarsi e decomporsi d’immagini sotto l’assillo del demone dell’analogia che crea e insieme distrugge”, ma “una fata maligna dia invece il dubbio dono dell’associazione per analogia a un uomo che non sia un poeta, e ne seguiranno i malintesi più strani per cui quel tapino si esporrà alle figure più imbarazzanti e ridicole”. Non si potrebbe dire meglio né trovare un migliore esempio dei rischi cui si espone chi non rispetta la specificità delle lingue e si picca di fare scienza mentre sta solo facendo cattiva letteratura. Certo siamo tutti a rischio, l’analogia è veramente un demone insidioso, ma la disciplina del ricercatore scientifico dovrebbe essere sufficiente a mettere in guardia contro i cedimenti in questo senso, e fa specie che sia un letterato (vero) a doverlo insegnare a chi per mestiere questo demone dovrebbe aver esorcizzato nel corso della sua preparazione. Va da sé che l’analogia è entrata di prepotenza nel linguaggio della frase incisiva, e ci sono esempi illustri che vanno dalla saggezza popolare dei proverbi di Nikita Chruščëv a Pier Luigi Bersani, che è un vero recordman dell’analogia, tanto da poterlo forse catalogare tra i poeti; ma anche tra i politici il demone dell’analogia può sferrare devastanti colpi di coda. Ne sanno qualcosa Mussolini3 con le reni della Grecia, Bossi con il Trota e Berlusconi con il bunga bunga. La risposta caldamente raccomandabile alle sottili tentazioni di questo demone mi pare una sola: usare l’analogia il meno possibile e possibilmente mai. Purtroppo, da questo punto di vista, molti dei miei colleghi sociologi,

soprattutto tra quelli che si definiscono sociologi generali (che sarà mai la sociologia generale, mi chiedo talvolta) ma che io penso siano il più delle volte solo sociologi generalisti, quando non generici, cedono all’incanto in parte per accontentare i media, in parte perché credono di fare i filosofi, ma sono solo dei letterati mancati e, sempre secondo Praz, dei tapini. Un altro modo per evitare le trappole dell’estetismo verbale spinto è quello di rifarsi spesso ai classici della materia. Oggi mi par di cogliere una diffusa tendenza a trascurare i classici come se si trattasse di robivecchi: lo trovo profondamente sbagliato. I classici stanno alla base delle conoscenze di ogni disciplina, anche di quelle con deboli statuti fondativi, come le discipline sociologiche, ma la continuità esiste, anche se non viene riconosciuta, particolarmente da chi coltiva le “arcaiche tradizioni italiote di retorica letteraria”… e di “sentenziose filosofie”… che, scrive Franco Rositi, sono basate su “un sapere che [ha] origine in qualche luogo nascosto dello spirito”, invece che nell’osservazione dei fatti reali. Va da sé, ma forse non è male ribadirlo, che occorre evitare il vizio opposto, quello di chi si limita a rimestare negli autori del passato, spesso alla ricerca di coincidenze che sono poco più che vaghe assonanze. Penso che la ricerca, come ogni altra attività in ultima analisi pedagogica, consista essenzialmente nell’imparare ad ascoltare i morti e a dialogare con i vivi. E in questo lavoro, come in altri, io mi atterrò al principio di non accantonare i classici, ma di introdurre anche idee nuove. Il bardo, urbano Affida un qualsiasi tema urbano a un intellettuale o letterato e sovente questi si impadronirà della lira come Assurancetourix, e si metterà a declamare. In particolare sul tema se la città sia buona o cattiva o bella o brutta, sicura o insicura, tutti temi legittimi, beninteso, ma che vengono (o dovrebbero venire) dopo un’accurata descrizione e spiegazione dei fatti. “Few men think, but all will have opinions” diceva il filosofo Berkeley: pochi pensano, ma tutti hanno delle opinioni. Noi vorremmo, con i nostri lettori, stare dalla parte di quanti pensano o almeno si sforzano di pensare e, in genere, pensano anche, come suggeriva Einstein, che persino le teorie più astruse possano esser spiegate a chiunque. Naturalmente, gli esperimenti di fisica che servono a costruire una teoria complessa, sono accessibili solo agli specialisti, ma il senso profondo di una teoria può essere comunicato con parole piane. Per provare la famosa legge di Archimede che dice che un corpo galleggia se pesa meno della massa d’acqua che sposta, ci vuole un bel po’ di matematica, ma il concetto, una volta genialmente formulato, è intuitivo. Nei discorsi sulla città è più difficile distinguere questi livelli, molti che ne scrivono si credono degli Einstein o, più sovente, dei Platone o dei Max Weber per investitura divina o, più semplicemente, perché hanno studiato al liceo

classico. Per di più molti intellettuali o intellò sedicenti tali ritengono che la distinzione nel loro mestiere si ottenga tramite l’uso di parole ridondanti piene di suono e vuote di senso. Quelle che Ernesto Rossi, intellettuale vero e perciò subito dimenticato in questo paese amante dei pataccari, chiamava “aria fritta”. Gli intellettuali, invero, sono innanzitutto dei lavoratori della parola: il loro mestiere è quello di mettere ordine in una serie di concetti che circolano nella cultura generale o in quella specialistica in modo più o meno confuso e asistematico e riproporli dopo aver cercato di renderli più, e non meno, chiari e comprensibili. In fondo il lavoro intellettuale non è molto diverso da quello del cuoco, o se vogliamo un confronto più nobile, del musicista,4 perché in tutti questi casi si tratta di un’attività che richiede sistematicità, ma anche la capacità di dare forma a materie complesse, spesso sdrucciolevoli, che vanno trattate, anche nelle grandi innovazioni, rispettando i canoni. Cosa che non vuol dire ripetizione meccanica del canone – chi fa così è l’erudito pedante – ma conoscenza e rispetto di ciò che è stato fatto prima, e che va conosciuto, anche e soprattutto da chi vuole cambiare; chi pensa che innovazione significhi semplicemente fare qualcosa di diverso da quel che si fa ora non è un rivoluzionario, ma un ignorante. Ci sono infatti anche i cattivi cuochi, incompetenti e pretenziosi, che (come nel famoso apologo francescano di Fra Galdino, sentito più volte alle elementari) pensano che un buon minestrone si faccia mettendo alla rinfusa gli ingredienti senza curarli, carciofi con le foglie, polli con le piume e verdura non lavata. Non è così, un buon minestrone, come una bella seggiola, o un divertente raccontino, o un efficace rapporto di ricerca, o una sonata ben eseguita, sono un prodotto artigianale: il risultato ben riuscito di una qualità che gli anglosassoni chiamano workmanship, l’artigianalità: in italiano non si può dire, ma possiamo notare la bellezza del termine che significa molto semplicemente la qualità o l’essenza del lavorare (e di chi lavora).5 Qualche strimpellatura di cetra Sentite Vincenzo Cerami, che pure è stato letterato di vaglia, ma di fronte a concetti con risvolti spaziali non può resistere. Riproponendo il vecchio topos che chi si muove piano vede più cose, ovvero “chi va piano va sano e va lontano”, in Viaggio6 scrive: “In fatto di strade il viandante ne sa più del motociclista. Il primo [cioè il viandante] ascolta i propri passi che vanno, vede ogni cosa, scruta, riflette, riprende il cammino buttando lo sguardo verso il sole per capire in quale ora del giorno si trova. Sente gli odori dell’erba selvatica, dell’asfalto, delle stalle vicine. Il secondo, assordato dal rombo del motore… ecc.”. Nego in modo deciso: anche in motocicletta si può provare il semplice piacere dell’andare. Ho il sospetto che Cerami non abbia mai posseduto una moto e non abbia quindi la più lontana idea della bellezza di andare, sfidando la gravità, in una danza geometrica di curva e controcurva, con una ragazza che sa

andare in moto e che fa con te e la macchina un blocco unico, sulle colline torinesi al tramonto. Cerami, Cerami! E Easy Rider? Come fa un letterato che la pensa come Cerami a godersi un capolavoro della cultura contemporanea come Easy Rider? Anche in motocicletta si vedono tantissime cose, ovviamente è una questione di scala: lo sguardo di chi va in moto è, come dice l’onestà del linguaggio, una veduta a volo d’uccello, anche se l’occhio non deve mai lasciare la proiezione della ruota anteriore sulla strada. Ma anche in motocicletta sei comunque immerso in un mare di sensazioni come quelle che si possono provare tornando a casa, durante un temporale, nel mare infernale di lucine rosse di un rientro domenicale, con la pioggia che ti inonda e un po’ ti acceca e ti gela, ma poi di colpo quando smette ti fa sentire un’ondata di caldo e ti puoi rilassare, ma non troppo, sul manubrio. Sono sensazioni diverse da quelle che provi camminando a piedi e puoi vedere i sassolini e le buche della strada e guardarti intorno – ma anche in questo caso senza troppo staccare l’occhio dalla punta del piede se non vuoi cadere nella buca o torcerti la caviglia su una radice traditrice. Sono cose diverse che si vedono a scala diversa: non si capisce in base a quale criterio debbano essere migliori esteticamente o eticamente quelle a scala minimalista. Dove sta scritto? La verità è che questi luoghi, luoghi fisici e luoghi del discorso, sono inventati o sognati nelle rêveries, che, come spiega molto bene Benedetto Croce, sono cosa diversa dal “pensare”, e sono il prodotto del sentimentalismo e del manierismo letterario della cultura liceale mal digerita, che in Italia è sostanzialmente basata su un’applicazione meccanica del romanticismo tönnesiano, che funziona più o meno così: ai vecchi tempi c’era la “Comunità” (Gemeinschaft, buona) poi è venuta la “Società” (Gesellschaft, cattiva). Il “Futuro” è sempre nerissimo. Soprattutto se poi entrano in campo l’odiata “Macchina” e la città corruttrice. “O Paris, que tu sais ravir et décevoir les âmes! Chez toi les filets des vices, le pièges des maux, les flèches de Venfer, perdent le cœurs innocents…” tuona il cistercense Pierre de Celle nel XII secolo, pronunciando una condanna che aveva risuonato e risuonerà più e più volte nel corso della storia delle città di tutto il mondo. Ma non vogliamo perderci troppo in quel terreno grigio in cui nella cultura italiana si discute del progresso, che continua a essere dominato da zoccoli (senza calli geloni e gozzi), dalla scomparsa virtuale delle lucciole e dalle serate del sabato nel villaggio nei Rio Bo sopravvissuti nelle fantasie di qualche letterato e nell’immaginario delle seratine di Berlusconi e Apicella. Voglio solo rilevare come non sia affatto casuale, ma invece segno inquietante di rifiuto aprioristico della modernità e sia pure anche dei suoi discontents, che in Italia questi luoghi comuni paleocomunitari rispuntino da molte parti, dal pasolinismo in tutte le sue forme all’Amaro del veterinario e al Mulino Bianco. Vediamo piuttosto, senza commento, qualche altro esempio di bardo errante

per le città dell’intellettualità italiana. È dunque uno convertito a strutturalismo, magari più di “eretici” che non di ortodossi, questo viaggiatore che spiega il rapporto indissolubile tra due città con la stessa immagine della doppia facciata di un foglio usato da Saussure per indicare quello tra significato e significante; o che vede […] muoversi secondo la logica dei movimenti dei pezzi su una scacchiera; o che parla di immagine speculare o di scambi e sostituzioni e spostamenti e funzioni come un lacaniniano convinto di inseguire, nella catena di mutamenti che formano l’esistenza e la storia, un desiderio (che è anche memoria) inappagabile. Anche Marco Polo, che ne ha viste di ogni genere, nonché per l’imperatore che da neofita costringe il discorso del veneziano in norme rigide, presto smentite dall’interlocutore, esiste una sola città, che però è irraggiungibile. Walter Pedullà, Marco Polo strutturalista “eretico” per descrivere le “città invisibili”7 Egli può comporre soltanto qualcosa che contamini il racconto e il poema in prosa, l’allegoria metafisica e la parabola morale, il gioco fumistico e la miniatura, e inseguire verità dalle mille facce, attorno alle quali getta non un corpo, ma una veste vaga e allusiva. Appena leggiamo una di queste prose, crediamo di aver sotto gli occhi una “forma chiusa”, dal contorno netto, dalla linea precisa, dallo stile che tenta di imitare lo splendore della gemma e dell’onice. Ma è sol un inganno – uno dei molti di questo libro. Subito dopo, ci accorgiamo come Calvino detesti sempre più l’ostinata caparbia della linea retta. Egli preferisce ad ogni cosa l’intreccio delle linee, che congiungono tra loro i punti più lontani del mondo – un vecchio imperatore che sfoglia le inutili mappe del suo atlante, una giovane ostessa che solleva un piatto di ragù sotto una pergola, un cavaliere felice di aver saltato l’ultima siepe, il riflesso delle perle in fondo al mare di Malabar, un francolino che fugge felice dalla gabbia negli spazi del cielo. Pietro Citati, “Le città invisibili” di Italo Calvino8

Lascio al lettore il compito di valutare il contributo alla chiarezza di questo genere di letteratura. Va senza dire, che le rêveries urbane di Calvino sono invece dei pezzi molto belli su città immaginate da un vero poeta e ci procurano molte e straordinarie emozioni intellettuali. Purtroppo vengono prese malamente a prestito un giorno sì e uno no, il più delle volte richiamando solo il titolo del racconto, anche per sostenere discorsi analitici sulle città; discorsi che su queste ruote non possono avanzare e pertanto girano sempre intorno alla obsoleta ed elementare dicotomia Gemeinschaft-Gesellschaft. Ma la (cattiva) letterarizzazione del discorso sulla città non è appannaggio di letterati o filosofi, e viene praticata anche da scienziati sociali, che dovrebbero avere un linguaggio diverso, ma che invece, com’è facile scoprire, quando si viene a parlare della città, ricadono nella sindrome comune. La città abbandonata. Un caso interessante di ricerca senza teoria, ma con decine di spiegazioni ad hoc (ed ex post) L’importante lavoro curato per Caritas Italiana da Mauro Magatti, uno dei più

colti e noti sociologi della generazione di mezzo e preminente leader intellettuale dei sociologi cattolici (e della Cattolica), riuniti nella Società SPe (“Sociologia per la Persona”) dal titolo La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane,9 costituisce un esempio molto significativo, e a tratti con un buon livello di scholarship, di ricerca con molti dati e molte, anzi moltissime, spiegazioni ad hoc. E anche una sorta di ipotesi generale sull’urbanesimo (p. 21: Una prospettiva analitica sulla città contemporanea: mobilità, dislocazione eterotopia) che a me appare peraltro alquanto posticcia e comunque di carattere così generale, come vedremo, da fornire una tela esilissima per una ricerca sociale, oltre al fatto che non è derivata dalla sociologia, ma dall’onnipresente filosofia e in particolare dalla filosofia di Michel Foucault. Tralascio la mia critica alla sociologia generale, meglio sarebbe dire “generalista”, quando non semplicemente “generica”, la cui definizione e collocazione nel sistema universitario italiano è a mio avviso all’origine di molti dei mali che affliggono la disciplina.10 Non è qui neppure possibile fare un’approfondita recensione professionale del volume curato da Mauro Magatti,11 ma data l’eccezionalità di questo prodotto intellettuale ai fini del nostro discorso, penso sia utile soffermarsi sulle sue caratteristiche che permettono di esemplificare molto chiaramente quello che io chiamo “processo di letterarizzazione della ricerca sociale”. Partiamo dal titolo. La prima parte, La città abbandonata, è leggermente enfatica – vizio, peraltro, comune a molti lavori – ma riflette bene il pensiero di fondo e, direi quasi, l’umore sia dell’autore che del committente, come risulta anche dalla postfazione e dalla coloritura del linguaggio dell’intera opera. “Abbandonata” non solo perché alcune parti della città, i quartieri oggetto dello studio, sono “abbandonati” – non è sempre chiaro da chi e perché: in molti punti si usa l’analogia della “discarica” –, e quindi, per sineddoche, anche le città che le contengono vengono coinvolte in questo abbandono, ma perché la città contemporanea è in realtà abbandonata a se stessa, ha perso una guida (se mai l’abbia avuta è discutibile, ma per il momento non voglio approfondire) ed è appunto “abbandonata” alle vagaries del vilain universale del nostro tempo, la “tecnica”, (p. 22 e passim). Ribadisco: il titolo è appropriato, esprime efficacemente l’orientamento dell’autore che, nel quadro della grande narrazione del fenomeno urbano contemporaneo, si colloca chiaramente nella famiglia degli “apocalittici”, secondo la distinzione di Umberto Eco, aggiungendo poi che gli “integrati” in questo campo sono pochi. Il fenomeno urbano sembra solleticare negli intellettuali un’irrefrenabile propensione alla disperazione e all’uso delle forti tinte. Per l’autore “Il fenomeno urbano contemporaneo è sospeso su tre disastri” (p. 35) e per don Nozza, che rappresenta qui la Caritas, la “riflessione teologico-pastorale […] guarda alla città con lo sguardo rivolto non solo alla ‘nuova Gerusalemme’, ma anche alla

mitica Babele (Gn 11; Is 1,21-26) – città dell’idolatria, dell’ingiustizia, della divisione – e alla biblica Ninive, nuovamente colpita da alcune pestilenze: quella della violenza, della corruzione” (p. 507). C’è da dire che il pessimismo che emerge dai testi della Caritas è fortemente mitigato dall’afflato ecclesiale ed evangelico (viene citato il cardinale Carlo Maria Martini che nel discorso di Sant’Ambrogio del 1984 e nella lettera pastorale del 1991 dice “Alzati, va’ a Ninive, la grande città”, mentre il testo di Magatti non condivide questi aspetti positivi, essendo costantemente colorato al nero, in ciò favorito dall’uso ridondante di termini enfatici ed evocativi). Non altrettanto efficace, anzi chiaramente mal posto e fuorviante rispetto al testo, è il sottotitolo Dove sono e come cambiano le periferie italiane. Mal posto, intanto, perché il libro non studia “le” periferie italiane, ma, come si dice – con molta maggiore proprietà, anche se con un termine alquanto balzano importato dal francese – nel testo: alcuni “quartieri sensibili” di alcune città. Quindi, dire “dove sono le periferie italiane” costituisce una promessa che questo libro non può mantenere. Fuorviante perché si parla di periferie nel titolo e di quartieri nel testo, e questo rappresenta ben più di una di quelle licenze retoriche che sono usuali e perdonate (anche se non si dovrebbe) nella pratica editoriale, ma investe un nodo centrale del discorso che non può essere trascurato in un volume che si propone come testo scientifico. “Periferie” è un termine molto in uso, particolarmente ora che, dopo gli eventi francesi del 2005,12 si usa alquanto sciattamente come traduzione italiana del francese banlieues, ma è un termine con una connotazione sociale fortemente negativa ed è quindi un termine truccato (loaded) che andrebbe dagli studiosi usato con molta parsimonia. Basti pensare che in inglese il termine corrispondente per indicare aree di disorganizzazione sociale nella città è “inner city”. I problemi delle periferie sono, al di là dell’Atlantico, i problemi della città centrale (inner city problems) e un traduttore naïf che traducesse “problems of peripheries” risulterebbe incomprensibile. D’altro canto, “centro-periferia” è un concetto con una grande e onorata tradizione nell’analisi sociologica (e non solo), che ha avuto un momento di intensa discussione negli anni sessanta e settanta sulla scorta dei lavori di Stein Rokkan (Building States and Nations), autore malamente dimenticato dalla sociologia italiana, con l’eccezione lodevolissima di Maurizio Ferrera che nel suo bel libro The Boundaries of Welfare ci fa toccare con mano quanto la teoria rokkaniana potrebbe essere fruttuosa, proprio nell’applicazione ai fenomeni che interessano il welfare in senso ampio, come quelli di cui si sta parlando. Non è di questo parere Magatti che alle pp. 31-32 decreta “lo schema centro-periferia… un impedimento alla comprensione di quanto sta accadendo”; affermazione che suona quanto meno bizzarra da parte di chi scrive un libro sulle “periferie”. Purtroppo è un vizio, spesso determinato da pura e semplice ignoranza, che la sociologia italiana ha in molto maggior

misura che in altre scuole nazionali, quello di trascinare l’impianto teorico delle ricerche, come se la teoria fosse un optional (non parliamo poi della metodologia), il che porta alla continua riproposizione di termini, linguaggio, concetti e pratiche che con molto maggior costrutto avrebbero tratto vantaggio dal riferimento allo schema (o agli schemi) teorico appropriato ed esistente in letteratura. In questo caso la ricerca offriva un’occasione importante per affrontare una definizione operativa pensata del significato attuale, nell’analisi sociologica, di termini come quartiere, vicinato, periferia, insediamenti eccetera, una riflessione che avrebbe determinato un disegno di ricerca più pulito ed evitato alcune contorsioni che si sono poi riflesse nel titolo. Quest’occasione non è stata colta e si è partiti dalla definizione di senso comune del termine “periferia”, che poi ha influenzato la scelta dei quartieri, immagino soprattutto per una ragione validissima come potrebbe essere la presenza di un osservatorio Caritas particolarmente attivo, o altre ragioni di opportunità che sono presenti in tutte le ricerche. Non si spiegherebbe altrimenti la scelta dell’Esquilino, quartiere centrale, che è difficilmente comparabile con Ponte Lambro a Milano (quartiere quasi separato ai limiti della città), invece, che so io, del Corviale a Roma o, alternativamente, di viale Padova a Milano. Quando si fa una ricerca sociologica in campo naturale, come questa, è evidente che non si possono controllare tutti i fattori di campionamento che permetterebbero una corretta generalizzazione; ciononostante occorre contenere i fattori di variabilità, altrimenti si perde la base contestuale che serve a controllare la natura delle differenze (o delle similarità) osservate. Sono il risultato di reali differenze di comportamento e di struttura sociale e quindi ci permettono, sia pure con tutte le cautele del caso, di trarre conclusioni generali, come si intende fare alle pp. 471 e sgg., oppure sono semplicemente il risultato del diverso tipo di collocazione dell’insediamento? Per esempio: un abitante dell’Esquilino, per marginale che sia, non dirà mai “vado a Roma” come un abitante del Begato dice “vado a Genova”, e quindi difficilmente i problemi di marginalità sociale nell’un caso potrebbero essere ricondotti alla perifericità dell’insediamento. Non vi è dubbio che il volume rappresenti un contributo importante e un’opera di peso nello studio comparativo di alcune città italiane, e da questo punto di vista offre una mole consistente di documentazione e di descrizione etnografica della condizione umana di porzioni significative della popolazione urbana italiana, concorrendo quindi alla creazione di una più consapevole coscienza comune dei problemi sociali in alcune grandi entità urbane (probabilmente presenti anche in altre città non studiate dalla ricerca) e di realtà in cui si trova a operare con grande merito e dedizione un’associazione come la Caritas, che si propone di trarre vantaggio da questo lavoro per migliorare il proprio intervento. A conclusione di un’impegnativa e faticosa lettura ne ho ricavato

l’impressione di insufficienze e forse anche di un’occasione mancata, sul piano metodologico, come ho già detto, ma anche esplicativo e interpretativo. I “brutti quartieri”, i quartieri poveri o sensibili ai margini della società esistono dovunque e sono presenti nelle città di diverse epoche: denunciarne lo stato di abbandono e di degrado è dovere civile e opera meritoria anche per lo studioso. Il quale però ha anche il dovere, e verrà su questo giudicato dai pari, di offrire risposte convincenti e metodologicamente fondate sulla accurata descrizione di questi fenomeni, sui meccanismi sociali che li generano e che essi stessi generano, sulle prospettive di evoluzione e anche, visto che si tratta di ricerca applicata in un campo socialmente ed economicamente delicato, e staremmo per dire “sensibile”, come la pianificazione urbana, di offrire qualche indicazione a chi poi questa pianificazione la pratica o la subisce: urbanisti, governanti, amministratori, operatori sociali e i cittadini stessi, che, volendo cercare un riscatto, si possono rivolgere anche a chi scrive libri sulla loro condizione per avere lumi, conforto e anche qualche utile suggerimento pratico. Di tutto questo nel libro c’è poco. Il sociologo affronta una vasta gamma di temi relativi alla condizione umana nelle città, ma non offre nessuna indicazione specifica, nessun contributo ulteriormente e specificamente chiarificatore rispetto a quello che altri, e con più specifica competenza, hanno apportato alla materia. Così la sociologia si rende a poco a poco inutile affondando in un mare di belle, quanto generiche, parole e di buone pratiche, fatte per lo più da altri. Capisco però che questo volume è anche e soprattutto un rapporto di ricerca a un committente e si rivolge quindi prevalentemente a lettori non esperti e quindi adotta una certa libertà, e anche enfaticità, di linguaggio. Ma a questo punto è necessario che io giustifichi il giudizio in modo documentato. Forse la chiave di volta per comprendere l’insoddisfazione per l’impianto teorico di quest’opera la troviamo a p. 34, là dove si legge “nello studiare queste realtà ci si è sforzati di evitare di cadere in una qualche forma di determinismo sociologico” [corsivo mio]. Si vorrebbe dall’autore, che è sociologo, una più chiara definizione di cosa siano l’uno o l’altro determinismo sociologico che vengono evitati, e in cosa si distinguano dalla spiegazione e dalla interpretazione propria dei sociologi non deterministi. In mancanza (e questa discussione non c’è) la frase rimane appesa nel vuoto, una sorta di giaculatoria ideologica che fa riferimento, o meglio allusione, a qualche disputa soi-disant teorica della professione sociologica: formulazione vaga per il lettore comune, ma chiarissima per gli addetti ai lavori. Magatti appartiene a una “scuola” o coterie della sociologia italiana accademica, unica organizzata in modo ferreo (vedi www.sociologiaperlapersona.it), dal titolo vagamente ossimorico di “Sociologia per la persona” – SPe.13 Un gruppo che si propone come sostenitore dell’individualismo metodologico, una teoria sociologica di tutto rispetto, nonostante l’adesione di Margaret Thatcher, che nega l’utilità di postulare entità

superiori all’individuo, ma che di fatto è l’organizzazione dichiaratamente antimarxista dei sociologi cattolici.14 L’aspetto paradossale è che con il determinismo sociologico (marxista), o supposto tale, non scompaiono però altre forme di determinismo del tutto astratte, tanto da far scomparire dal volume quasi interamente anche la spiegazione sociologica: scompaiono cioè i soggetti con le loro intenzionalità dotate di senso e reciprocamente intrecciate, sostituite da categorie astratte che ovviamente determinano quasi inesorabilmente l’esistenza individuale. Il termine più usato è “processo”, concetto che si riferisce a qualcosa di indefinibile in cui non si riesce a cogliere l’attore sociale e il più delle volte neppure l’agency, per rifarmi a una classica contrapposizione sociologica tra “structure” e “agency” mai evocata nel testo, anche se abbondantemente praticata in favore della struttura.15 Quando compaiono, gli attori sono visti come reazioni a queste tendenze o processi del tutto desoggettivati. “In particolare si è tenuto conto delle controstrategie di riappropriazione messe in atto da parte degli attori sociali […]: tali strategie si sforzano di trovare una mediazione tra le dinamiche macrosociali e la vita concreta delle persone in carne ed ossa.” Non si capisce qui perché mai gli attori siano solo quelli delle contro-strategie, mentre le “dinamiche macrosociali” semplicemente “avvengono”, come forze della natura. E ancora “obiettivo della ricerca è stato quello di verificare se al di là delle differenze siano riscontrabili delle tendenze generali che interessano queste aree. E soprattutto se è possibile riscontrare una convergenza tra i vari ‘quartieri sensibili’ attorno a un modello comune. Tale interrogativo nasce […] anche dalla consapevolezza che le forme della vita urbana stanno cambiando in tutto il mondo [ma no!] sulla spinta delle trasformazioni strutturali in corso” (p. 34) [corsivi miei]. Ecco, qui il determinismo sociologico forse non c’è più, ma i termini mi ricordano fortemente qualcosa: siamo arrivati a una forma di marxismo estenuato in cui il mondo è dominato dalle “trasformazioni strutturali”, termine che tuttavia è messo lì sul tavolo senza riferimento a un quadro teorico, com’era nel concetto di “struttura” nella teorica marxiana. E senza la minima consapevolezza della circostanza che il piatto piange: la mancata precisazione di cosa vogliano dire tutti questi termini enfatici, come “dinamiche macrosociali”, le “tendenze generali”, “convergenze”, “trasformazioni strutturali”, “estroflessione”, “implosione” (e questi sono i termini più familiari del vasto periodare che riempie queste pagine). Ma anche senza il minimo sforzo di formulare ipotesi sul come si possa, per esempio, “verificare” se una convergenza esiste e spiegare poi le cause di tale convergenza. Possiamo cercare di ricostruire lo schema intellettuale dell’autore rivedendo i suoi riferimenti teorici che sono prevalentemente due, un saggio di Foucault e uno del filosofo francese Nancy, peraltro citato molto marginalmente,16 con

l’appoggio esterno di una conferenza di Augé e una spolveratina (e ti pareva che mancasse) di Bauman. In questi pezzi di teorie, che molto alla larga si potrebbero definire sociologiche, si postulano processi di tale generalità e genericità che risulta arduo capire come sia possibile utilizzarle per un qualsiasi riscontro osservativo, e ce ne fornisce una prova, inavvertitamente, l’autore stesso, soprattutto nell’uso che fa del testo di Foucault, su cui mi concentrerò, rinviando a un’altra sede più tecnicamente appropriata l’analisi approfondita che questo testo merita. Il lavoro evade un disegno di ricerca chiaro con ipotesi di partenza ben definite e la delineazione di metodi atti a rispondere alle domande poste: ricade quindi nella categoria delle ricerche descrittive o meglio evocative. Dice Hayek: “Without a theory the facts are silent”.17 Ma non è questo il caso de la Città abbandonata: semmai qui di teorie, o almeno di “spiegazioni pseudo-teoriche” ce ne sono persino troppe, ma sono quasi tutte a posteriori e risultano quindi posticce o del tutto fuori misura, come nel caso che ora esamineremo, di Foucault. Prendiamo dunque il principale punto di riferimento teorico che Magatti riconosce in Foucault il quale, sempre secondo l’esposizione di Magatti, “distingue tre grandi passaggi storici nell’organizzazione spaziale della vita sociale” (p. 23, passim, e nota 6). Tengo a sottolineare che qui io commento il Foucault come lo riferisce Magatti: è questo che mi interessa, non una critica al testo originale, che farò eventualmente in altra occasione. Una prima fase sarebbe caratterizzata da una netta prevalenza della “localizzazione”. “Ogni luogo, stabile e ben delimitato, è collocato entro una gerarchia spaziale, che coinvolge non solo la sfera terrestre, ma anche quella celeste” (p. 23). La seconda fase è caratterizzata dalla logica dell’“estensione”. “La terza fase introduce una diversa logica di spazializzazione che Foucault chiama della ‘dislocazione’ ” (p. 24). Il grande Arnaldo Momigliano, quando sentiva qualcuno tracciare questi vasti panorami storici, dal fondo dell’aula tuonava: “Secolo!”, volendo esprimere l’esigenza di una precisa collocazione storica di questo tipo di categorie dello spirito immateriale. Foucault (sempre nell’interpretazione magattiana) ce lo dice con larga approssimazione, parlando della fase localizzativa che secondo lui “possiamo far risalire fino agli esordi della modernità” (p. 23). Italiano incerto: normalmente si risale all’indietro, non in avanti; comunque, cercando di interpretare e in mancanza di un preciso termine a quo, siamo obbligati a risalire, propriamente, ai tempi più antichi, ab unis, fino alla modernità, cioè al XV secolo, se va bene quell’epoca per l’inizio della modernità. Ma resta oscuro il punto di partenza. Qui non si dice, ma a p. 155 viene esplicitato che il gruppo di ricerca ritiene che “le fasi qui individuate ricalcano la scansione temporale proposta da Foucault […]. Egli si riferisce infatti ad un arco temporale lunghissimo coincidente con la storia dell’umanità”. Fanno un qualche paio di milioni d’anni,18 se accettiamo le più recenti stime

dell’evoluzione dell’Homo sapiens (e delle sue ibridazioni – da e per – con altre specie “diversamente sapiens”) che, lungi dal “localizzarsi”, cominciò a sgambettare aux quatre coins du monde fuori dall’Africa. Recenti ricerche, che indubbiamente saranno poi aggiornate da più recenti ricerche ancora, ma qui per stare al livello magattiano andiamo con la vanga, dicono che, a partire dall’origine africana, la nostra specie si “diffuse”, altro che “localizzarsi”, in più grandi ondate. In realtà il nostro bipedalismo è adattissimo per una cosa soprattutto: “scappare” e comunque camminare e spostarsi. Come fa notare Telmo Pievani, sulla base delle più recenti acquisizioni, la diffusione caratterizza il rapporto della specie umana con lo spazio. È molto probabile, anzi, ed è stata in questo senso avanzata un’ipotesi dal Pääbo,19 come ci riferisce Pievani, che non si tratta solo di ondate, ma di “una continua fuoriuscita” di nostri antenati che si ibridarono bellamente, dove potettero, con altre specie di diversamente umani, compresi i Neanderthal, fino alle soglie del Neolitico.20 Più o meno sappiamo che attorno a sessanta secoli a.C. vi fu il popolamento della Polinesia, che implica l’uso di una lingua parlata, senza la quale è difficile pensare a un’emigrazione: forse è questo il punto di partenza? Tranquilli, però: basta scorrere qualche riga in giù per scoprire che la “prima fase” non è altro che il buon vecchio Medioevo, Urbild della Gemeinschaft per tutta la tradizione neoromantica. “Sono il monaco e il contadino le figure che simbolicamente incarnano meglio di altre l’insieme di significati [chiaro?] che questo tipo di organizzazione della vita sociale esprimeva” (p. 23). E qui si contraddice in modo netto la già riportata affermazione di p. 155 che evidentemente, oltre a essere scritta da una collaboratrice, è stata probabilmente stesa prima, o senza aver letto l’introduzione.21 Però ci sentiamo rasserenati perché così si rientra in una molto più familiare periodizzazione di Kulturgeschichte, che prende le mosse, come quasi sempre, dal Medioevo europeo: usando solide categorie che possiamo riconoscere a partire dalle classificazioni de La questione ebraica (Die Judenfrage) di Karl Marx del 1844, poi riprese e ampliate nel Manifesto del 1848. La descrizione sembra una riproduzione oleografica d’Épinal de Le Très Riches Heures du Duc de Berry: peccato che la filosofia politica medievale concepisse la società in modo olistico, sicuramente non limitato a questi due ceti. Infatti dove sono i nobili aristocratici che costellavano il paesaggio medievale con i loro castelli? Forse che non “incarnano” anche loro con monaci e contadini l’insieme di significati della filosofia politica medievale, che concepiva il corpo sociale con criteri organicistici? Mi sembra che quanto a componente localizzativa, nel Medioevo i castelli qualcosa da dire ce l’avessero. Qui però viene raccontata la solita vulgata “ogni luogo stabile e ben delimitato è collocato entro una gerarchia spaziale che coinvolge non solo la sfera terrestre” (p. 23). Visto che si giunge fino agli “esordi della modernità” che, fino a prova contraria, sono collocabili

attorno alla fine del XV secolo, qualcuno mi deve spiegare come possiamo far rientrare in questa idilliaca “localizzazione” le crociate (27 novembre 1095 – luglio 1270), i vichinghi (790-1066), l’esplosione urbana di cui parlano Le Goff e Pirenne a partire dall’XI secolo, la diffusione anch’essa esplosiva della costruzione di cattedrali gotiche in Francia, per non parlare dello scorrazzare di vari popoli, tra cui i magiari, per tutta l’Europa. Ma queste sono quisquilie che interessano solo gli storici: localizzazione deve essere e localizzazione sia. “La seconda fase nasce con la modernità” (p. 23). Qui, per contro, manca il termine ad quem, e sappiamo quando nasce ma non quando finisce questa fase, ma possiamo pensare che si concluda a ridosso dell’epoca attuale. La terza fase manca sia di termine a quo che di termine ad quem (Momigliano soffrirebbe molto) ma possiamo intuire che si tratti del nostro tempo, secondo l’antico vezzo delle grandi interpretazioni logaritmiche della storia, in cui le fasi più prossime sono anche le più brevi. La riprova della futilità di queste categorie appese nel cranio di alcuni intellettuali la troviamo dove le categorie foucaultiane, pensate alquanto a spanne per grandi ere storiche, vengono bellamente applicate alla spiegazione di fenomeni che si evolvono in pochi decenni. “Le fasi qui individuate ricalcano la scansione temporale [sic!] [Corsivo mio: rammento che là si trattava di millenni, o quanto meno di secoli] proposta da Foucault e richiamata nel primo capitolo, con una importante differenza: egli si riferisce infatti ad un arco temporale lunghissimo […] alcune delle caratteristiche attribuite da Foucault a questi tre passaggi – si concentrino tutte nel periodo che va dal dopoguerra italiano fino ad oggi. Si tratta di un ispessimento temporale [non vorrei esagerare con i commenti, che diamine significa ‘ispessimento temporale’?] in un certo senso impressionante” (p. 155). Impressionante davvero! Si noti la nonchalance con cui si usa l’analogia, sorprendendosi poi dei magri risultati della propria operazione intellettuale e attribuendoli a un fenomeno reale. Prima si applicano categorie astratte pensate per ere storiche, che però non è chiaro se comincino due milioni di anni fa o solamente nel Medioevo europeo, alle fasi di trasformazione decennale, come se localizzazione, estensione, e dislocazione o eterotipizzazione (termine di cui mi sfugge qui il significato, ma che piace molto a Magatti) fossero delle accertate fasi peristaltiche dell’evoluzione di ogni oggetto sociale, sia che si tratti dello sviluppo di intere civiltà, sia che si tratti della storia di alcuni quartieri, un po’ come nascita, vita e morte sono i destini di ogni organismo vivente. Ah, il demone dell’analogia! Poi ci si stupisce che il tempo “si ispessisca”. Mi domando a quale metodologia scientifica appartenga l’uso disinvolto di categorie così generiche per “spiegare” dei fenomeni precisamente definibili in un breve volger di anni e in uno spazio circoscritto. Ma l’aspetto che trovo più criticabile è comunque l’uso di categorie astratte nel senso peggiore di questo termine: processi senza tempo né soggetto come

localizzazione, estensione, dislocazione, eterotipizzazione, buoni per ogni stagione perché del tutto staccati dai problemi più specificamente sociologici di chi localizzi, estenda, dislochi e dove e per quale ragione e con quali nuove forme sociali. Che cosa ha a che fare questo determinismo metafisico con l’intento di “evitare qualsiasi forma di determinismo sociologico” (p. 34), frase in codice che sta per critica al marxismo? Se adottiamo una prospettiva “non deterministica” come quella che propone Magatti, senza peraltro spiegare bene cosa intenda, si suppone che dal “determinismo” marxiano si passi a modelli volontaristici, in cui il prodotto della società sono soggetti individuali o collettivi, non a “fasi” quasi cabalistiche che vanno bene per tutte le salse. La “riscoperta” della città “Per tutte queste ragioni la città torna oggi al centro dell’attenzione, uno snodo attraverso il quale passano le grandi trasformazioni della contemporaneità” (p. 18). C’è da chiedersi da dove torni e quando mai la città non sia stata il centro dell’attenzione, senza specificare di chi. Forse un poco più di umiltà suggerirebbe di dire “la città torna oggi a essere al centro della mia attenzione”: infatti non è mai uscita dal centro dell’attenzione di altri. Anthony Giddens in un libretto del 1981 mette al centro della sua analisi la città e dedica un significativo spazio ai rapporti tra spazio e società in tutta la sua opera; agli inizi degli anni ottanta i lavori di Hall e Hay hanno fatto il punto sui sistemi urbani europei e sulla loro trasformazione. Attorno al 1990 è uscita una serie nutrita di lavori (Sassen, Hall e Castells, Sudjic, lo stesso Giddens) attorno al tema della città e delle sue trasformazioni, nonché in particolare al fenomeno che già nel 1981 Giddens aveva identificato con i processi di “mercificazione dello spazio”. In gran parte, questi lavori rappresentavano una reazione al grande abbaglio della de-urbanizzazione (e anche alla “fine della città”) che interpretava i mutamenti spaziali e quelli tecnologici non come una profonda trasformazione della morfologia urbana, ma come la fine dell’“era urbana”, che invece stava appena cominciando. Come sapevano benissimo tutti questi autori, che erano perfettamente al corrente del quadro di crescente urbanizzazione che ogni due anni veniva stimato e aggiornato dalla Population Division delle Nazioni Unite. Alla fine degli anni novanta Castells (The Rise of the Network Society) propone la sua interpretazione della società contemporanea legando assieme in un unico schema interpretativo le trasformazioni nel campo della tecnologia informatica e quelle legate alla mobilità fisica. Se “la città torna al centro dell’attenzione” del mondo scientifico, questo è avvenuto semmai una ventina d’anni fa, non quando se ne accorge Magatti. “Ecco perché crediamo che la città debba essere considerata come la ‘nuova fabbrica’ ” (p. 18). E arieccoci con le metafore: che significa la “Nuova Fabbrica”? E finalmente un riconoscimento che farà molto piacere ai sociologi urbani, considerati da molti sociologi generalisti come tecnici di uno spazio confinato della disciplina: “la città è l’oggetto analitico

forse più utile mediante il quale leggere la trasformazione contemporanea” (p. 19). A.D. 2007: evviva! Solo che per trattare un “oggetto analitico” (quale che sia il significato di questo termine alquanto criptico) occorre avere le categorie analitiche appropriate, che derivano dalla conoscenza critica della letteratura specifica.22 L’impiego di termini propri della letteratura specialistica sulla città è sostituito dall’uso senza freni di una terminologia colorita, giustificabile forse, come abbiamo visto, perché il referente pagante è esterno, ma che non è sempre utile per chiarire i concetti, per usare un eufemismo. A p. 23 “la città collassa”; a p. 27 “diventa una specie di cascame”; a p. 23 “per esistere ha bisogno di essere pancia all’aria”; sempre a p. 23 “si deve estroflettere”, però a p. 409 troviamo una “introflessione dello spazio simbolico dell’alterità”; a p. 35 le trasformazioni “appaiono capaci di determinare conseguenze virulente sulle forme di vita urbana” e “il fenomeno urbano appare come sospeso su tre disastri”. A p. 39 alla tradizione unitaria viene inferto lo sfregio più significativo quando tra gli anni sessanta e ottanta “anche in Italia si sono diffuse pratiche urbanistiche e architettoniche mutuate da altre culture” [mi piacerebbe saperne di più]. A p. 36 troviamo “una crisi antropologica che vede sprofondare l’idea stessa di uomo” [mai di donna, naturalmente]. Qui e là “intere porzioni di territorio […] tendono a lacerarsi e a ricombinarsi, dando vita a nuove combinazioni di funzioni e popolazioni che spesso non si incontrano mai e rimangono semplicemente giustapposte” (p. 29). A p. 21: “A entrare in fibrillazione sono un po’ tutti gli elementi strutturali della vita urbana: la sua morfologia, le sue popolazioni, le sue [di chi?] relazioni”. Fibrillazioni? Che significa? Parigi ha ancora più o meno la struttura sociale della fondazione. A Milano i ricchi stanno ancora più o meno in centro come ai tempi della Marchesa Travaglia, a New York, nonostante la dinamica di questa città, la casa di Jane Jacobs è ancora lì e si può andare a bere una birra nel suo pub e nonostante le Twin Towers cadute, la crisi di Wall Street, il terremoto, gli hurricanes, la città più violenta del mondo, come tutte le altre “sospesa su tre disastri”, oplà, “nei due decenni recenti i newyorkesi hanno beneficiato della più lunga e sostenuta caduta del crimine di strada mai verificatasi in una grande città del mondo sviluppato”.23 Insomma, su questa grande liquidità e pericolosità della città contemporanea le parole tendono a scappare di mano: forse un po’ più di attenzione ai fatti e meno alle parole sarebbe consigliabile. Ma più in generale non si può non notare, data l’evidenza plateale, come il linguaggio retorico, utilizzato in tutto il volume, sostituisca il rigore analitico e renda enormemente faticosa la lettura, introducendo in continuità nuovi termini e classificazioni ad hoc, delle quali è difficile ricostruire la collocazione in un quadro teorico complessivo. Vi è un momento in cui, in questo lavoro, parlando della città un po’ a braccio,

la città cessa di essere un prodotto della società umana, ma acquista vita propria: pensa, fa, è. Entro certi limiti e con estrema moderazione questa semplificazione può essere accettabile, ma se ci si lascia prendere la mano si finisce per credere (e far credere) che la città sia un soggetto antropomorfico e si finisce per deificare, ancor più che reificare, l’oggetto di analisi, diventato una sorta di soggetto dominante. Il passaggio è scivoloso e la retorica non aiuta. Da p. 22 a p. 23 vi è un lungo elenco di atti che una città irrefrenabilmente antropomorfizzata dall’autore si vede attribuire. “La città contemporanea non riesce più – e forse non vi aspira nemmeno – a essere il luogo in cui l’esperienza comune viene filtrata e sedimentata” (p. 22). Bella frase, ma che significa? Cosa vuol dire che la città “aspira” a qualcosa? Che soggetto è questa città? Queste metafore sono particolarmente fuori luogo in un testo sociologico, cioè di una disciplina che ha al suo centro i rapporti tra attori individuali e attori collettivi e che dovrebbe trattare tutti questi termini con estrema proprietà di linguaggio, e non come il dilettante che sale su una barca a vela e dice “passatemi quella corda” non sapendo che su un’imbarcazione “l’unica corda è quella che tiene su i calzoni del cuoco”. La città sta forse qui per “società urbana”? Ma allora occorrerebbe dirlo e definirla, soprattutto da parte di un sociologo. Sta per chi comanda in città? O non piuttosto sta semplicemente per la vaga idea della città coltivata dal sociologo generalista? Non rischiamo di cadere nell’idealismo più spinto in cui la raffigurazione produce l’essenza, delle cui aporie poi ci lamentiamo? “Non ne ha più né il tempo né il modo” (p. 22: il soggetto è sempre la città). Che significa che la città non ha il tempo di “filtrare e sedimentare l’esperienza comune”, ammesso che questa frase significhi qualcosa? New York non ha forse il suo Woody Allen, Istanbul il suo Pamuk e Bologna non ha avuto forse il tempo di riflettere in molti modi su se stessa producendo la Bologna sfatta della metropoli emiliana policentrica, il suo splendido Lucarelli di Almost Blue o l’invitante Quel gran pezzo dell’Emilia di Edmondo Berselli, un letterato che non ha mai dimenticato la proprietà del linguaggio? Non dovrebbero gli studiosi, proprio per essere fedeli a se stessi e per marcare una necessaria differenza, usare termini analiticamente controllati? “Il suo ideale [sempre de “la città”] non è più quello di essere il ‘luogo del vissuto’, ma piuttosto quello di diventare ‘luogo del vivente’” (p. 22). Ora, a parte la banale considerazione che il luogo del vissuto può esserci solo se prima in qualche momento c’è stato un “luogo del vivente”, a me francamente questi sembrano giochi di parole che non aiutano molto nell’analisi sociologica, che deve identificare soggetti, intenzioni, relazioni, interazioni, attori e agencies, che qui sono totalmente scomparsi e sostituiti da un determinismo meccanico e astratto (sottolineo con forza) e dalla continua e faticosa aggettivazione in uno spolverio di aggettivi da supermarket della parola. Rifondiamo la teoria urbana?

Ma il capitolo introduttivo è ben più che un tentativo (giudichi il lettore quanto riuscito) di formulare una nuova teoria sociale della città e si presenta anche come una teoria generale della società: la città come la nuova “questione sociale”, termine ripreso, non so con quanta utilità, da una tradizione ottonovecentesca in cui è stato usato sia dal marxismo che dal cattolicesimo sociale con Leone XIII e la Rerum novarum, circostanza che non aiuta la chiarificazione concettuale. L’incipit a fiati spiegati non lascia dubbio. In un recente contributo, Marc Augé ha suggerito di analizzare le forme della vita umana e le loro trasformazioni a partire dalle mutevoli combinazioni tra stanzialità, mobilità e produzione culturale.24 Mi era sfuggita questa Lecture di Augé, ma non mi sfugge l’importanza dei problemi della mobilità, anche se non riesco a capire cosa possa essere un “pensiero della mobilità”, pur avendo dedicato molto tempo a studiare questo fenomeno con specialisti di varie discipline. Tuttavia ribadirei anche su questo punto la mia perplessità per variabili tanto generiche. Che significa “stanzialità”? È una categoria dello spirito oppure l’attributo di una certa popolazione, vegetale o animale? “Una società intessuta [sic] di mobilità non è più in senso stretto stanziale” (p. 16); se piove non è più asciutto. Neppure il sospetto, in questo autore, che studiosi dei fenomeni urbani, ma non solo, abbiano elaborato e discusso il concetto importante di mobilità, che è un termine più familiare perché fa parte di concetti accettati nella tradizione sociologica che distingue, com’è noto, tra la mobilità sociale (talvolta chiamata verticale) e la mobilità fisica (talvolta chiamata orizzontale). Ma davvero possiamo introdurre un lavoro di interpretazione sociologica ad ampio raggio con la proposizione di categorie così esili? Andranno bene per una conferenza rivolta a un pubblico colto o semicolto, ma ci vuol altro per reimpostare l’analisi delle forme insediative della vita umana e delle loro trasformazioni, che ha una solida e affermata tradizione con cui qualsiasi ricercatore scientifico dovrebbe sentire il dovere di confrontarsi. Mi sembra insomma che queste grandi generalizzazioni siano piuttosto sciatte e istintivamente me ne ritraggo, ma non prima di averne saggiato la consistenza. E se la “città abbandonata” non fosse solo quella dei “quartieri” segregati o con problemi sociali, ma invece anche l’enorme sprawl della città middle-class o “normale”? A questa domanda la ricerca di Magatti non può dare risposta perché la scelta dei quartieri impedisce una valutazione di questo genere, mancando, nell’intero disegno di ricerca, un quartiere di controllo. Intendiamoci, non si può pretendere che un ricercatore in un solo volume risolva tutti i problemi, ma quelli che lui stesso solleva, sì; ed è proprio l’autore che si pone e ci pone a un livello molto elevato di proposte e di intenzioni, non dando però le risposte specifiche e fornendo così un ottimo materiale per una discussione critica su cosa è divenuta la sociologia generale in Italia, e, nel mio caso particolare, per mettere in luce le insufficienze di quella che chiamo

letterarizzazione dello studio della città, che è l’oggetto di questa riflessione. Io non so se la sociologia generalista italiana sia davvero diventata questa attività ridondante di spiegazioni vaghe e stereotipate, di interpretazioni ad hoc e di neologismi à gogò: mi piacerebbe che si aprisse un dibattito su questo tema, non è solo Magatti che parlando della società produce questo genere di linguaggio mediatizzate. A me sembra che per “evitare di cadere in una qualche forma di determinismo sociologico” (p. 34), ma accettando invece i determinismi meccanici di una sorta di destino storico in tre fasi che vanno dall’inizio della specie ad oggi, ma che vanno bene anche per l’urbanizzazione italiana nel Dopoguerra, si finisce semplicemente per far evaporare la spiegazione sociologica, così, oltre che da tutti gli altri, gli abitanti delle aree più povere, marginali e invivibili della città, si vedono abbandonati anche dal sociologo. E parliamo allora di questa eterotopia Fin qui, come ho detto, mi sono limitato a discutere quel che Foucault dice nel volume di Magatti, o meglio quel che Magatti fa dire a Foucault. Ora però mi sembra giusto risalire alle fonti, e prendiamo allora Foucault, con il suo celebre saggetto su Utopie, Eterotopie, che tanto piace a una certa intellettualità italiana.25 In realtà si tratta di uno di quei discorsi occasionali in cui sappiamo tutti per esperienza che si va un po’ a ruota libera, il che non esclude che si possano anche dire cose intelligenti (un mio collega autorevole sosteneva che le migliori idee gli venivano durante le tediose ore di esame orale cercando di correggere le sciocchezze degli esaminandi), ma questa contingenza apre anche alla possibilità che si vengano a dire cose pensate a metà. Non ci sarebbe nulla da obiettare alle divagazioni di questo preclaro bardo, che possono o meno colpire e illuminare a seconda delle sensibilità di ciascuno secondo il buon principio estetico che “beauty lies in the eyes of the beholder”. Inoltre, non sono un esegeta di questo filosofo e non mi permetterei mai di addentrarmi in un commento a una sua opera più impegnativa. Può darsi anche che quelle che a me sembrano divagazioni siano all’occhio attento di qualche persona più esperta di me importanti esemplificazioni delle teorie foucaultiane, se qualcuno me lo segnalerà sono pronto a imparare. Allo stato di quello che posso leggere, dall’interpretazione magattiana e dalla lettura del testo originario, ancorché parziale,26 non posso che attenermi al significato letterale ed evidente dei testi, fedele alla regola scientifica della pubblicità: dopotutto habent sua sidera, oltre alle liti anche i libella, nel senso che le parole scritte o pronunciate sono aperte all’interpretazione di chiunque. “Sì, sogno una scienza – dico proprio una scienza – che abbia come oggetto questi spazi diversi, questi altri luoghi, queste contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo […] la scienza in questione dovrebbe chiamarsi, anzi si chiamerà, si chiama già eterotopologia. Ebbene di questa scienza nascente occorre dare i primissimi rudimenti.” Non voglio rubare troppo tempo al lettore per discutere di questo modo di concepire

le fondazioni di una scienza. A me pare che i prolegomena contenuti in questo scritto testimonino sì della vasta cultura e della vivace immaginazione di questo grande autore, che gli permette di raccogliere una ricca aneddotica di luoghi mirabolanti, ma anche di una sua decisa indifferenza, per non dire disprezzo, nei confronti della costruzione sistematica e logica del discorso, un tratto che porta il lettore a sperdersi (immagino, incantato, visto che si tratterebbe anche in questo caso di un altro luogo diverso dal normale discorso scientifico) tra eterotopie, u-topie e realizzazioni u-topiche, u-cronie ed etero-cronie che fanno capolino in tanto in tanto. Voglio però concentrarmi con una certa puntigliosità accademica sul finale, che immagino abbia suscitato un applauso fragoroso, e che agli esegeti del filosofo piace evidentemente tanto dal riportarlo in copertina della traduzione italiana. “La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi i sogni si inaridiscono; lo spionaggio sostituisce l’avventura e la polizia i corsari.”27 Passi per la nave come l’eterotopia per eccellenza, ci ritornerò, ma il resto della frase (a meno che non si tratti di un richiamo interno a qualche profonda elaborazione del Foucault) preso al valore facciale, come dovrebbe essere per ogni testo scientifico che si rispetti, è un assoluto nonsense – ed è quel genere di frasario che mi tiene alla larga da una certa francioseria intellettuale. Che significa civiltà senza navi? La Svizzera, la Serbia o la Mongolia interiore? In effetti la Svizzera una marina ce l’ha ed esiste anche un Diritto svizzero della Navigazione, delizia degli studenti di Giurisprudenza (ai miei tempi) perché si poteva studiare in una notte. Ma forse per civiltà si intende qualcosa di più ampio della Svizzera, anche se io mi batterei per fare entrare questo piccolo paese di democrazia, antica ed esemplare, nel novero delle civiltà, assieme ad altri piccoli paesi studiati da Stein Rokkan, ma accantoniamo l’argomento. Cosa sono qui le civiltà per Foucault? La sassanide, la romana, la mesopotamica, l’ittita? Avevano navi gli ittiti? Pare di no, visto che sono stati sconfitti dai misteriosi “popoli del mare”, ma al termine di un ciclo di vari secoli. Forse in qualche altra parte della produzione foucaultiana esiste questa definizione, ma poi resta ancora da vedere che significa “senza navi”. Proprio senza senza? Una barchetta ce l’hanno tutti, ma sarebbe una nave nel senso foucaultiano? Ogni società che abbia almeno un chilometro di affaccio al mare (e sono state combattute guerre sanguinose per ottenerlo) ha qualche nave, ma forse qui Foucault voleva semplicemente contrapporre civiltà marinare e civiltà che non lo sono, senza troppo badare ai fatti storici (sento il povero Momigliano che dalla tomba grida sempre più disperato: “Secolo!”, e aggiungerei “Coordinate!”). Intanto qui Foucault inciampa subito in Platone e manco male, un grande filosofo se lo può permettere, solo che in questo caso Platone aveva dimostrato di avere qualche ragione quando diceva che le poleis marinare erano corrotte mentre quelle montane erano solide e pure, e ci aveva azzeccato in

pieno con i macedoni. I quali, inconsapevolmente, rappresentano invece un’imbarazzante smentita alla frase di Foucault: vogliamo sostenere che Alessandro, il quale certamente non rappresentava una civiltà di navigatori, essendo andato passo dopo passo pedibus calcantibus (una decina di milioni, suppergiù, se ho calcolato bene) fino alla valle dell’Indo, rappresentava una civiltà in cui “i sogni si inaridiscono?”. “Ella…” come esclamerebbe sgomento quel personaggio di Fruttero e Lucentini. Forse un caso interessante per Foucault, ma dubito che lo conoscesse, e comunque non lo cita, sarebbe stato quello dei polinesiani, finiti sull’Isola di Pasqua che, a un certo punto, da società di capitribù dal benevolo “mana”, grazie probabilmente28 all’isolamento e alla deforestazione dovuta allo sfruttamento intensivo che sottrasse le risorse alla costruzione di canoe (navi) e interruppe il contatto con il mare, trasformò la forma polinesiana in una società di guerrieri sanguinari “tangata rima toto”, “uomini dalle mani grondanti sangue”, che usavano un’innovazione mortale, una lancia con la punta di ossidiana, mata’a. Alla fine i pochi sopravvissuti iniziarono a vivere nel terrore, si imprigionarono in buche e caverne e costruirono anche una sorta di “autolager”-fortezza in una parte dell’isola dove li trovò Jacob Roggeveen, un esploratore olandese che scoprì l’isola nel giorno di Pasqua del 1722, e che riuscì a ricostruire sommariamente la storia da una popolazione inebetita dal terrore. Qui Foucault sarebbe stato veramente felice e per fargli piacere possiamo descrivere l’Isola di Pasqua (come le navi, le isole sono delle eterotopie evidenti, ma non ditelo ai britannici di “Continent isolated!”) come una sicura eterotopia, in cui a poco a poco i sogni si inaridiscono, gli avventurosi polinesiani si trasformano nei sanguinari poliziotti tangata rima toto e possiamo stare certi che in un luogo così ristretto si saranno certamente spiati a lungo. Fuori da questo esempio estremo, che mi sono sforzato di trovare per dare una mano a Foucault, mi rimane davvero incomprensibile il passaggio da avventura a spionaggio e dai corsari alla polizia, che immagino si riferisca a qualche parte importante dell’opera di Foucault, a me ignota. La menzione di corsari e polizia richiama alla lontana il topos neoromantico su cui Kurt Weill e Bertolt Brecht ricostruiscono L’opera da tre soldi, con il malandrino eroico Mackie Messer, il poliziotto corrotto Jackie “Tiger” Brown e il capitalista organizzato (che l’avrà vinta) Jonathan Jeremiah Peachum. Ma quello è bel teatro e questa mi pare non molto bella filosofia, ma certamente miserrima scienza sociale. Quel che è sicuro è che un libro con questa copertina alla Royal Society non sarebbe stato ammesso. Navi e poeti Ma torniamo alla prima parte della frase “la nave è l’eterotopia per

eccellenza”: a uno come il sottoscritto che ha passato gran parte del suo tempo libero su natanti, una frase del genere non dice nulla. Per chi va in barca, la nave, o barca (anche la più piccola) è innanzitutto un luogo di lavoro, che non perde questa qualità neppure se si tratta di un’imbarcazione molto piccola e se ci si va per diporto, ma è soprattutto un artefatto (feitiço) che condensa su di sé il ricordo del lavoro di generazioni: ogni pezzo, anche minuto, di un’imbarcazione, per piccola e semplice che sia, è un concentrato di memoria storica dell’intelligenza e del lavoro umani. Ai poeti e ai filosofi (veri o filosofastri che siano) la barca può sembrare una “eterotopia”, forse solo perché la vedono di solito lontano sull’orizzonte o nelle belle pubblicità della Cunard Line (“Getting there is half the fun”). Ma per un navigatore che la pratica o per uno studioso della tecnica che l’analizza, la barca è un luogo sociale straordinario in cui Durkheim e Marx sono entrambi presenti, e al lavoro, appunto. È sempre, la nave, anche quando si è solo in due, una società gerarchica in cui la classe sociale è fissata dalla posizione fisica che si occupa sul natante, in relazione al compito, ed è inscritta persino sulle magliette e i berretti, ma è anche il luogo della divisione organica del lavoro sociale. È anche una eterotopia? Non so bene, anche perché in Foucault non si capisce mai bene se per eterotopia si intenda un altro luogo (pardon, un luogo “Altro”, da pronunciarsi con tono ieratico e forte enfasi della voce sulla À) in cui vanno le persone diverse (o meglio “Altre”, o “Altre da sé”, mi raccomando) cioè i navigatori di tutti i tempi, oppure uno strumento come la nave per andare in un altro luogo, o luogo “Altro”. Sicuramente però nel discorso dei filosofi e dei letterati le navi hanno sempre sollecitato la retorica e i “sogni”, e costituiscono un momento Alto del discorso (espirare e indicare ieraticamente il cielo) perché sono oggetti sempre meravigliosi che ci permettono di muoverci sulla superficie di un elemento che non è quello proprio della nostra specie. Le navi scompaiono all’orizzonte in un miracolo visivo che si ripete da millenni e l’orizzonte stesso è il luogo in cui il sole, anche lui scomparendo (o riapparendo, un crepuscolo dopo l’altro, ma quello mattinale per lo più sfugge ai letterati),29 tocca qualche profondo meccanismo archiviato da qualche parte nel nostro sistema percettivo, forse fin dai tempi del Cambriano, dando ogni volta vita “all’ora che volge al disio”. Tuttavia Orazio mette sanamente sul chi va là da questa retorica eterotopica: “Coelum non animum mutant qui trans mare currunt”. Intuisce bene Foucault: il mare è un altrove, l’orizzonte ci porta a quell’aldilà che incontriamo con le navi, e il momento in cui metti piede sul legno dal molo (e viceversa, quando lo stacchi) è sempre un momento di intensità fisica e psichica anche per il marinaio più esperto, perché, canta acutamente Paolo Conte, “ma che paura che ci fa quel mare scuro / Che si muove anche di notte / e non sta fermo mai”. La poesia ha saccheggiato questo sentimento e queste sensazioni: “Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per magia e messi su una navicella, che ad ogni soffio

di vento andasse per mare secondo il vostro e mio desiderio”. Ma, appunto, la poesia. E qui ritorno al punto centrale e iniziale del mio argomento: se un poeta, uno scrittore, o anche una qualunque persona sensibile che riflette sulle cose ci comunica con garbo e ispirazione le sue riflessioni sul mondo, non possiamo che goderne ed essergli grati, ognuno per quel che ne può trarre à son goût. Ma chi si presenta con la pretesa di fondare una scienza deve rispettare le regole del pensiero scientifico, altrimenti finisce per fare come il bravo giocatore di Mulino che pretendesse di girare la tavola del gioco e di giocare a scacchi senza rispettarne (o conoscerne) le regole. Dobbiamo davvero credere a un signore per famoso e colto che sia che ci propone di fondare una scienza così tra il lusco e il brusco, come se dicesse “metti, una sera a cena”? Non si fa fatica a prevedere la risposta. “Ma quello era un discorso figurativo! Tu povero di spirito non capisci le metafore e le analogie.” Dobbiamo davvero accettare il livello di lirismo retorico che ho illustrato in un discorso filosofico? Lo chiedo ai filosofi. In un discorso sociologico, se la sociologia non deve essere, come raccomandava sempre Treves ai suoi allievi, semplicemente una brutta copia della filosofia: no. Nelle scienze sociali vogliamo più precisione di parole e più rigore nei concetti. So bene che qualsiasi filosofo decostruttivista dirà che questa precisione e questo rigore non esistono, specie nel contesto delle scienze sociali, ma io continuo a credere invece che il compito di elaborare concetti e termini quanto più possibile chiari e analitici, piuttosto che evocativi o compositi, sia uno dei doveri centrali del lavoro intellettuale. Ma soprattutto si devono rispettare le regole della logica e del pensiero sistematico. Ma anche, se possibile, rispettare le evidenze storiche: “Secolo!”. La mercificazione delle parole In un mondo a elevata densità di informazione come quello in cui viviamo è inevitabile che anche le parole degli studiosi entrino nel mercato delle parole: i libri si devono vendere, ma prima ancora occorre che le parole si affermino in un mercato fortemente competitivo a vari livelli multimediali, altamente sinergici tra di loro. Non sono così ingenuo da non riconoscere quanto sta avvenendo, ma, come si usava dire una volta, est modus in rebus, e se la democratizzazione delle conoscenze è una cosa positiva e un valore da salvaguardare e persino da favorire, non per questo, come studiosi, dobbiamo abbandonarci all’idea che everything goes. Virilio a parte, forse il mercificatore di parole di maggior successo in questo campo è Marc Augé, che merita un’attenta disamina, a partire dal 1974, anno in cui un vero esperto di questioni urbane lanciò, in modo garbato e incidentale, l’idea di uno spazio urbano privo di luoghi significativi come prodotto dello sprawl. Un “non-place” o non-lieu (termine usato anche dagli americani) urban

realm. Ho commentato questo scritto, e lo dico per evitare le solite accuse (“ah, ma tu ce l’hai con Augé”) nel 1988,30 molto prima della pubblicazione dell’opera di Augé che, seguendo una pratica ormai ritenuta quasi normale, si guarda bene dal citare il testo di Webber, che non era un oscuro codicillo, ma un testo piuttosto noto di un autore notissimo, tanto che a riprova io me ne sono servito. Io non ce l’ho con Augé, salvo per le critiche che seguiranno, ma sono fortemente critico in generale con chi si fa bello delle penne altrui. Ed evidentemente non sono il solo a considerare questo atto un furto, perché mentre Augé non cita il Webber del 1974, Françoise Choay, la nota urbanista francese, pubblicando la traduzione del Webber a Parigi31 quando il testo di Augé era già divenuto un testo popolarmente noto, non fa menzione del lavoro di Augé, un gesto ovviamente determinato e sanzionatore. Ma questo particolare, che peraltro sarebbe errato considerare frivolo, non è il punto fondamentale della mia critica a Augé, che si basa invece proprio sul metodo e sull’approccio generale di un bardo urbano esemplare. Partiamo dal saggio sul metrò Un ethnologue dans le métro (ripreso poi in Le métro revisité). Cosa ci si aspetterebbe da un etnologo che sale sul metrò? Ovviamente, direi io, che ci aprisse un mondo intellettuale a noi ignoto, facendo emergere dalle sue osservazioni una serie di fatti che sfuggono al comune osservatore, non dotato della capacità di interpretare in profondità i segni superficiali ed evidenti dell’agire umano. Dovremmo anche chiedergli di avere qualche ipotesi? È questione assai controversa, io penso decisamente di sì, non nel senso ovviamente della formalizzazione quantitativa richiesta da riviste come l’“American Journal of Sociology”, ma nel senso più ampio di avere qualche idea su ciò che si pensa di andare a trovare. Personalmente, credo che questo sia un requisito essenziale di ogni indagine di qualsiasi disciplina, ma una volta che ho chiesto a una mia collega antropologa che ipotesi faceva prima di andare sul campo, mi ha quasi sbranato accusando i sociologi di voler falsare la realtà con degli apriori. Ora so benissimo che non tutti gli antropologi sono così, di gran lunga, ma questa posizione esiste e ha un certo seguito e considera la ricerca sociale come fidi immersion piuttosto che come esplorazione, un’attività, questa seconda, che sarebbe profondamente viziata dal disprezzo per l’“Àltro da sé” osservato. Io vengo dalla scuola degli esploratori, mi prendo tutte le responsabilità del caso, mi piacciono le ipotesi e sono abbastanza spaventato dall’idea di se pommer dans le social, per così dire, perché continuo a credere alla distinzione, mi pare proprio di Croce, tra rêverie e pensiero. Mi piace la rêverie, penso anche che possa essere considerata come una nursery del pensiero sistematico, oltre che, come dice Bachelard, un diritto in sé dell’immaginazione creativa, una sorta di riscaldamento dei muscoli in surplace, ma la ricerca scientifica o l’attività dello studioso (se si vuole, per

evitare fraintendimenti) è un’altra cosa e richiede un pensiero disciplinato e azioni rigorose e controllate che chiamiamo metodologia. Il rifiuto dei nostri luoghi e gli usi della memoria Con il termine non-lieux, troppo inflazionato perché debba essere illustrato qui, si vuol sostenere che il termine “luogo” (che stipulativamente possiamo definire come una porzione di spazio simbolicamente significativa) vale solo per i luoghi del passato, per così dire, vissuto: le piazze, i sagrati, le vie antiche, mentre gli spazi della città contemporanea sono privi di significato, sono appunto non-luoghi. Sfortunatamente il concetto è esile e fuorviante: i non-lieux sono invece proprio i “nos-lieux”, i “nostri” luoghi, talvolta brutti, ma spesso piuttosto belli e attraenti, dove noi, abitanti della tarda modernità, passiamo buona parte del nostro tempo: aeroporti, stazioni, strips commerciali, stadi, stabilimenti balneari in cui il mare è sempre più lontano perché le attività si svolgono sempre più nella spiaggia, attrezzata come fitness center o parco giochi, gli shopping malls e i supermarkets nei centri commerciali, navi-città da crociera, terreni espositivi e via dicendo. Da questo elenco si capisce subito che il significato dei luoghi è profondamente cambiato, perché gran parte delle attività in cui la collettività urbana contemporanea investe la propria immagine (e il proprio tempo), non è rivolta agli abitanti, ma a una nuova popolazione di transeunti che molti anni fa ho proposto di chiamare “city users” (and abusers, come mi ha suggerito acutamente Birgitta Nedelmann). Questo spostamento di fuoco non è irrilevante perché si colloca all’interno di una profonda trasformazione delle economie urbane di tutto il mondo, che a sua volta riceve impulso dalle dinamiche della globalità caratteristiche della società contemporanea, in particolare quelle legate ai macrosistemi sinergici della mobilità e delle ICTs. Amin e Thrift32 sottolineano come le dinamiche sociali della contemporaneità colpiscano duramente i sentimenti legati alla simbologia dei luoghi (Blows to nostalgia) tramite il denaro o commodification, la thingsification, cioè l’enfatizzazione degli aspetti materiali della città, la velocizzazione (speed-up) della vita e infine i mass media, con la loro ossessiva rappresentazione della modernità. Rinfocolare la nostalgia è un fine che attrae un ampio spettro di attività letterarie e artistiche, e può essere anche usato con effetti potenti dall’economia e dalla politica; sarebbe anche convincente se non lo trovassimo in quasi tutte le letterature del mondo, indipendentemente dall’epoca e dal luogo, tanto da suggerire che si tratti di un fatto eminentemente ideologico, un luogo molto frequentato del discorso, più che un fenomeno reale. Chiedetelo all’etnologo Dico subito che Augé è uno scrittore garbato, accattivante, amiable nel senso inglese, ed è anche, come vedremo, ben conscio dei problemi di un etnologo, ma li ha accantonati per cedere sempre più a quella che io chiamo

letterarizzazione del discorso, termine che non ha nulla di negativo in sé, ma è, ai miei occhi, pratica negativa quando il prodotto è qualcosa di mezzo tra il componimento letterario e il rapporto di ricerca. Capisco che chi ha scelto questo taglio lo fa per accattivarsi i lettori, e ci riesce, si rivolge cioè a un pubblico generale piuttosto che ai propri pari. Ma è proprio questa mescolanza, per non dire confusione, di intenti, che rende il prodotto insoddisfacente dal punto di vista della scienza sociale ma anche dal punto di vista della composizione letteraria: più simile al componimento scolastico (“dite quale è stata la vostra esperienza oggi prendendo il metrò”) che non a un vero elzeviro. La seconda osservazione la lascio all’ambito del gusto, ma della prima mi prendo piena responsabilità perché, fortunatamente, possiamo confrontare il testo di Augé con una bellissima ricerca sulla subway di New York, condotta da Harvey Molotch della NYU, senza conoscere il testo di Augé: come abbiamo già visto le comunicazioni transfrontaliere tra Francia e Usa non sono al massimo. Il saggio di Augé parte con una lunga riflessione personale, stile appunto componimento, che muove dall’associazione tra la stazione di MaubertMutualité e un soldato tedesco, e gioca sul fascino dei nomi del metrò parigino, un fascino diffuso al quale chiunque abbia frequentato il metrò non si è potuto sottrarre. Ma pur essendo d’accordo con Augé, questa prima parte rimane a livello di quello che i parigini chiamerebbero il vaguelame,33 con pregevoli perle letterarie come “car les lignes du métro, comme celles de la main, se croisent” (pp. 10-11) e qualche name dropping, Kant, André Breton, ma con moderazione. A p. 15 finalmente la prima osservazione etnologica, carina, che descrive i professionisti del metrò. Quelli, direbbe un americano, “cool” con l’aria “ne s’en faire pas”, che sanno tutto, conoscono i segni e non si scompongono. Il viaggiatore perfettamente a suo agio che George Clooney ha immortalato, in modo credo difficilmente superabile, in Up in the Air (Tra le nuvole). Ma sono osservazioni sparse, intelligenti o meno, che però continuano a lasciarti il vuoto in bocca: cosa ci fa un etnologo o un intellettuale nel metrò? Insomma, che ci dice “L’Intellò dans le métro”? Non è che Augé non si ponga il problema, ci arriva a p. 87 quasi scusandosi di non averci pensato prima e buttando lì un’osservazione dopo aver chiosato sul significato dei mendicanti. “Ainsi s’impose d’un même mouvement a l’ethnologue dans le métro (ethnologue de sa propre société, même s’il ne s’agit pour lui que d’une ethnologie d’occasion, de circonstance, histoire de passer le temps entre deux stations [corsivo mio] la nécessité d’appréhender toute individualité comme récapitulant à elle seule le tout du social (ne serait ce que parce qu’un certain nombre de signes extérieures qui ne prennent sens que dans un contexte culturel et historique précis permettent au moins d’imaginer sa situation, ses gouts, ses origines) et celle de mettre en ouvre a propos de chacune d’elles ‘le processus

illimité d’objectivation du sujet’ auquel pensait; laissant glisser son regard de la masse aveugle et quasi minérale des mendiants du couloir à la silhouette familière d’un collègue sur le quai, il peut par l’imagination et le raisonnement prendre la mesure relative de toutes les objectivités possibles” (pp. 87-88). “Il peut par l’imagination et le raisonnement prendre la mesure relative de toutes les objectivités possibles” dice Augé, ma meglio sarebbe dire “potrebbe” perché lui si guarda bene dal farlo, ammesso che si tratti effettivamente di una operazione sensata, e non uno di quei “vastes programmes” su cui celiavano il Generale e Farinelli. Insomma, rimaniamo a una “ethnologie d’occasion”, e sottolineo la nonchalance vagamente beffarda con la quale Augé presenta il suo lavoro sul campo. Da p. 64 a p. 74 l’osservatore divaga in un temino su Mauss e Lévi-Strauss (forse una lezione che si sta ripassando mentre va da casa alla Sorbonne) a proposito del concetto di “fatto sociale totale”: divagazione che lo porta a formulare la seguente domanda. “Le parisien de telle ou telle station, comment le définir, ou le trouver?” A questa domanda si può benissimo rispondere con una certa precisione, ci sono vari strumenti per farlo, dall’analisi delle caratteristiche sociali dell’area da cui dedurre, conoscendo anche il numero di possibili utenti per le varie categorie, posso mettermi all’ingresso con un questionario e distribuirlo al volo, posso distribuire un questionario nei vagoni o semplicemente sguinzagliare dei giovani volenterosi che con una semplice griglia in testa rilevano inconspicuamente le caratteristiche dei presenti, insomma posso fare molte cose che mi aiutano a rispondere alla domanda. Che potrei anche non pormi, ma una volta che me la sono posta, nel campo degli studi, non in quello dei sogni, richiederebbe risposte; non vaghi e confusi accenni. Ritorniamo sul punto principale: la rêverie avrà pure un suo spazio tra i generi letterari, ma non è scienza sociale e mi spiace per Augé, ma dubito che in etnografia si possa accettare che uno si ponga domande alle quali non ha i mezzi per rispondere. Ma se si fosse rivolto al potente ufficio studi della RATP dove lavorano studiosi di valore come Edith Heurgon, Dominique Laousse e molti altri, avrebbe trovato tutti i dati necessari alla risposta. Ma come dicono in Romagna: “È fatica!”. L’antellodanlemetrò essenzialmente divaga, garbatamente, da elzeviro domenicale letto su una comoda poltrona tra le briciole della brioche e il tintinnio dell’ultima tazza di caffè. Ma davvero abbiamo bisogno di un etnologo per tutto ciò? E, soprattutto, perché dovremmo avere bisogno di un etnologo laureato, che imita un letterato raffinato, e non ci rivolgiamo direttamente al grande scrittore, al poeta, o meglio ancora all’occhio geniale di un grande fotografo o cineasta, che so io, a Raymond Queneau o Louis Malle che di metrò se ne intendono? Dal punto di vista del contributo alla conoscenza, all’interpretazione o alla spiegazione dei fatti sociali, il tragitto di Augé da

Duroc a Vaneau o anche più lungo da Vincennes a Neuilly non apporta alcun contributo degno di nota. Sono pronto a farmi spiegare il contrario. Augé riprende il tema in un successivo saggio, Il metrò rivisitato,34 in cui rivisita tanto il metrò quanto se stesso cominciando dall’osservazione alquanto scontata che un parigino si lamenta degli “embarras de la capitale” (p. 7, v.i.) ma poi dorme male nel silenzio della campagna, del resto come milioni di urbaniti. Dal luglio del 1949, la prima volta che sono andato in campagna per le vacanze da Milano, non so quante centinaia di volte avrò scambiato qualche parola su questo simpatico topos con il mio occasionale vicino di scompartimento, tavolo, poltrona di sala d’aspetto e così via. “Vingt ans après [come nel classico dei tre moschettieri] ce n’est donc pas d’un retour dans le métro à proprement parler, qu’il peut s’agir ici, mais plutôt d’un arrêt, d’une pause, d’un coup de rétrospective pour essayer de faire le point, comme nous le faisons tous de temps à autre pour nous étonner en termes nécessairement trop convenus, de la vitesse à la quelle le temps a passé, pour nous interroger sur ce qui a bien pu se passer” (p. 8, v.f.). Insomma, ma guarda come passa il tempo! Qui però, nota acutamente Augé, ci sono due tracce di memorie: il libro del 1986 che è rimasto sempre eguale e il metrò, che è sempre là ma è cambiato. Credo si possa capire che dopo questo incipit così originale e appassionante, il desiderio di proseguire nella lettura subisca un calo improvviso. Ma devo segnalare un paio di resipiscenze lodevoli: a p. 29 Augé percepisce che il lettore comincia ad agitarsi e “Bando alle metafore, mi si dirà, torniamo al metrò. Eccomi, arrivo”, e a p. 48 riferisce di essersi rivolto per informazioni alla RATP, e cosa ha trovato? Una bella pubblicazione di marketing, L’Enciclopedia delle stazioni.35 Ma la chiave di volta di tutta l’opera la troviamo a p. 17, là dove, probabilmente rendendosi conto della esagerazione nella titolazione del precedente lavoro, Augé ci offre questa spiegazione: “Quando ho scritto Un etnologo nel metrò, non avevo certo l’intenzione di fare un’etnologia del métro [ci era venuto questo sospetto]. Osservavo da etnologo l’etnologo che ero, ossia l’etnologo di ritorno dall’Africa. Lo osservavo nel metrò e gli facevo delle domande. Lui rispondeva come poteva, con riferimenti e termini da etnologo”.36 Ecco abbiamo davvero una nuova scienza, dopo il dialogo intimo, ecco ora l’etnologia intima, solipsistica. Lascio al lettore la valutazione reiterando la mia usuale raccomandazione, caveat emptor, ma rammentando anche il vecchio adagio “if you pose silly questions you get silly answers”. In un più recente saggio (o meglio raccolta di articoli) dal promettente titolo Per un’antropologia della mobilità.37 Augé ingrana una marcia con un rapporto più alto e dall’etnologia passa all’antropologia. Che cosa sia un’antropologia della mobilità non è dato capire, anche se la pomposità del titolo, sempre perché

Augé è persona garbata, viene in qualche modo smussata con un gambitto finale nel titolo che avverte “ ‘pour’ une Anthropologie”. Prendiamo atto che Augé si salva in corner, ma anche così, cosa sia un’antropologia della mobilità, diversa da una sociologia, psicologia, etnologia e vivaddio poesia o letteratura della stessa, non è assolutamente evidente e non risulta dal testo, né risulta che Augé ne abbia qualche idea. Posso solo dire che, se l’antropologia della mobilità è quella che viene delineata in queste pagine, questa disciplina mi sembra messa piuttosto maluccio. Com’è noto, sulla mobilità, nell’epoca contemporanea, sono state dette tantissime cose da moltissime persone, tanto che sul tema si è creato anche una sorta di Home Depot dei luoghi comuni: che ritroviamo in buona parte nel testo di Augé, in cui non troviamo invece l’ombra di un pensiero sistematico originale. Lasciatemi documentare quello che può apparire un giudizio malevolo ed eccessivamente sommario partendo dall’incipit (pp. 7-9) in cui è facile vedere come le parole vengano usate a casaccio, per il loro suono e non per il loro significato, e in particolare dal modo in cui l’autore definisce la mobilità “surmoderna”. Augé ci spiega dottamente che “il prefisso ‘sur’, nell’aggettivo ‘surmoderno’ è da intendersi nel senso che possiede in Freud e Althusser nell’espressione ‘surdeterminazione’, il senso dell’inglese over: esso indica la sovrabbondanza di cause che complica l’analisi degli effetti” spiega Augé. Devo confessare che, nella mia profonda ignoranza della filosofia, avevo sempre pensato che “sovradeterminato” fosse un concetto matematico riferito a un sistema di equazioni in cui ci sono più equazioni che incognite, il significato è lo stesso e sono contento di avere appreso che la matematica lo ha preso da Freud. Come riferisce bene Augé, un oggetto, l’explanandum, è surdeterminato quando ci sono troppe variabili che lo spiegano, ma nel libro l’oggetto da spiegare è la mobilità, non la modernità, che appartiene invece al complesso dell’explanans. Quindi a essere surdeterminata, più variabili che incognite, è la mobilità e Augé avrebbe dovuto dire la “surmobilitè de la modernité”, non il contrario. Quisquilie, ovviamente, ma che danno il segno di un’attività intellettuale in cui basta il bel suono delle parole. Se ti fermi invece a riflettere, piuttosto che sul rumore, sul significato, finisci anche per apparire un insopportabile cassepiè. Chi voglia poi proseguire, troverà molte notazioni, spesso intelligenti, non di rado già sentite, in larga parte sull’urbanizzazione, ma quasi sempre appartenenti a nuvole metaforiche come i concetti di “mobilità dei corpi e di mobilità dello spirito” e “mobilità nello spazio e mobilità nel tempo” (pp. 89-90). Lascio al lettore l’esplorazione di questo reame intellettuale in cui, parafrasando il detto francese, l’autore potrebbe ben dire “le mot c’est moi”. La scomparsa dell’Homo faber L’aspetto che più mi colpisce, nell’etnologia di Marc Augé (e altri, Foucault compreso, per i testi che abbiamo visto qui) è constatare come, sia in metropolitana che in aereo, il dato di fatto che questi siano, anche e soprattutto,

luoghi di lavoro, non sfiora neppure la mente di questi indagatori della realtà. L’aereo, il treno, l’autobus, i bastimenti e tutti gli altri mezzi di trasporto collettivi – per l’automobile privata il discorso può essere parzialmente diverso – sono sempre luoghi che vengono usati anche da “Altri” e non solo da noi (eterotopie, direbbe Foucault? Forse), mentre a me pare che siano anche, e forse in primis, i luoghi del lavoro di chi ci lavora. Senza il lavoro degli addetti, gli aerei non potrebbero volare, i treni non potrebbero partire e così via; sembra invece che gli aspetti materiali, concreti, del sistema della mobilità siano inesistenti. Tra eterotopie e antropologia della mobilità non c’è né in Foucault né in Augé il benché minimo accenno alla mobilità delle merci (freight) ma soprattutto a quella categoria occupazionale di importanza straordinaria per la nostra società che è il camionista (teamster), che tra l’altro è portatore di notevoli tratti caratteristici nell’immaginario collettivo e in più di un’occasione è stato importante attore politico, dalla rivolta cilena anti-Allende all’organizzazione paracriminale (RICO) di Jimmy Hoffa negli Stati Uniti. Ma cosa volete che possa interessare a un antellò sofisticato il rude camionista? Feccia grossolana, non degna di riflessione. Tuttavia per un pretendente antropologo della mobilità trascurare il ruolo del camionista38 nella società contemporanea sarebbe come per uno studioso dei deserti dimenticarsi dei beduini. Il bello è che se portati in Africa o in altre società (“Àltre”, mi raccomando! Accento estatico sulla “A”), la prima cosa che, giustamente, etnologi e antropologi raccontano è il modo con il quale la cultura di ciascuna società interpreta, elabora, reinterpreta il lavoro necessario alla sussistenza. Per l’Antellodanlemetrò, invece, il lavoro scompare nelle gallerie come il Cheshire cat davanti ad Alice lasciando solo l’ammiccare da occhi felini dei feux rouges, che chissà che ci stanno a fare, lì, a fianco dei binari. Un ricercatore nella subway Per concludere vorrei passare dalla pars destruens a quella construens cercando di offrire un buon esempio di solida ricerca sociologica, opportunamente sul medesimo tema. Confrontiamo lo stile che abbiamo esemplificato, ma anche il contenuto e il risultato finale di questo saggetto garbato, ma inconcludente, di Augé,39 con un lavoro di ricerca fatto da Harvey Molotch, uno dei maggiori sociologi urbani viventi. Nel 2005, sulla scia dei timori che in tutto il mondo avevano investito i trasporti pubblici, soprattutto sotterranei, Molotch40 decide di studiare il problema della sicurezza, soprattutto del lavoro, nella metropolitana sotterranea di New York (Subway). Con una ricerca durata diciotto mesi e con sessanta interviste, Molotch attacca il problema direttamente con il personale della metropolitana costituito da cleaners, che si occupano della pulizia; train operators o conducenti, che guidano la carrozza motrice e devono stare all’erta per ogni sorta di incidenti, compresi i suicide jumpers e i passeggeri inavvertitamente spinti giù;

conductors, conduttori, che si occupano del flusso di passeggeri e degli annunci; station agents, o “impiegati della metropolitana” che stanno in biglietteria; track workers, addetti al sistema dei binari, talvolta all’opera senza sospendere il passaggio dei treni. Un mondo complesso e articolato che vive e agisce nel ventre della città, una realtà che è al tempo stesso attraente e inquietante, che dà adito a molte elucubrazioni retoriche. Forse questo mondo avrebbe attratto l’interesse di Leonardo da Vinci che, immaginando la sua città ideale da costruire vicino a Milano, la pensava come una città sull’acqua (perché detestava i milanesi che puzzavano come “li capri”), in cui le vie d’acqua sotterranee erano percorse da tutto il traffico “freight”, di fatto il sostentamento della città, su barconi spinti a remi da possenti vogatori, ed erano ricoperte da grandi strade leggermente convesse per la raccolta delle acque piovane e dedicate “allo passeggio delli gentili hommini”. Gli etnologhi gentiluomini come Augé passano sul treno filosofeggiando, ma non hanno alcun riguardo per i Morlocchi che fanno andare avanti le cose. Prego di confrontare i diciotto mesi di indagine (e le sessanta interviste condotte nei cavernosi anfratti della subway, ovviamente dopo essersi assicurati l’accettazione dei lavoratori, cosa già di per sé tutt’altro che facile) con l’impegno sul campo di Augé che riconosce il dilettantesimo allo sbaraglio delle sue osservazioni che servono solo “a far passare il tempo tra due stazioni”. Cosa voleva studiare Molotch? Lo dice chiaramente nella sintesi: “Through interviews and field observations, we examine how New York subway workers consume official workplace equipment, particularly how they informally deploy such artifacts towards individual and collective ends. We discuss the ways workers call on artifacts to manage routine concerns of work contexts – physical, vulnerabilities, bureaucratic constraints, and difficult persons amongst them. We show how sustained attention to a public infrastructure and its organizational contexts can deepen understanding of humans and machines together as a coherent practical accomplishment” [corsivo mio]. Qui abbiamo un’attività di indagine che si pone scopi precisi e ben definite domande con una metodologia di rilevazione studiata ed eseguita con rigore, non rêveries che vengono così a caso, tra una stazione e l’altra. Questioni rilevanti sul piano teorico, ma anche non oziose: il lavoro e le sue regole organizzative, soprattutto per la sicurezza, l’uso di strumenti di lavoro che Molotch vede da un angolo particolare di interesse che, tra l’altro, è di natura culturale ed etnografica, quello delle “cose” e del loro uso, e più in generale l’approccio alla tecnologia che, come indica una corretta impostazione epistemologica, purtroppo largamente ignorata, non può essere capita che in relazione con chi la usa o produce. Ricordiamo che Molotch, dopo aver contribuito grandemente alle macroteorie sulla crescita urbana con Urban Fortunes (premio Sorokin), ha virato decisamente verso l’analisi culturale con Where Stuff Comes from,

dimostrando poi con il recente Toilet: Public Restroom and the Politics of Sharing (con Laura Norén) come uno scienziato sociale di vaglia possa risalire da oggetti “menial” a problemi importanti di scienza sociale (tipicamente di socio-etnografia), quali la definizione degli spazi pubblici. A me pare che, con il lavoro sulla metropolitana di New York, Molotch riesca magistralmente a collegare “le cose” (gli strumenti di lavoro e quindi la tecnologia) con l’interesse per le pratiche sociali e il contesto in cui si sviluppano e temi di carattere più generale come le norme dell’organizzazione e le norme “locali”. E, in ultima analisi, invece delle solite geremiadi contro la tecnologia, capire come “umani e macchine possano lavorare assieme verso un risultato pratico coerente”.41 Ovviamente il convoglio della subway è a tutti gli effetti un’eterotopia, se vogliamo anche noi usare questo termine, perché, come ogni altro treno, secondo quanto spiega dottamente Foucault, è “uno straordinario insieme di relazioni […] poiché è un qualcosa dentro il quale si passa, è anche qualcosa con il quale si può passare da un punto all’altro, ed è al contempo un qualcosa che passa” (p. 11 dell’edizione Cronopio). Davvero non ci eravamo arrivati, ma ci era già arrivato invece Jannacci con i famosi versi sicuramente eterotopici: “Fermi a un passaggio a livello”.42 L’osservazione di Foucault sarà pure fondamentale per l’avanzamento della conoscenza umana, ma Molotch vuole vederci un po’ più a fondo e cerca di capire come funzioni quello straordinario mondo che è la sotterranea (ma non sempre) o “subway” di New York, o meglio la MTA,43 attaccando però il problema della sicurezza dalla prospettiva di chi ci lavora, ma anche, ed è questo un angolo assai originale che dovrebbe interessare molto i culturologi di sociologia generale, partendo dalle “cose”, o meglio dagli strumenti di lavoro per cercare di capire come i lavoratori della MTA usino alcuni dei bizzarri oggetti del loro lavoro, che hanno la caratteristica di incorporare, esattamente come avviene su una barca, diverse stratificazioni industriali confluite in quelle sferraglianti carrozze che tutto il giorno sfrecciano nel mondo, penso davvero eterotopico (ma ci serve a qualcosa il dirlo?) delle gallerie nella pancia di New York.44 Tra l’altro con il risvolto importante per l’occhio di Molotch – grande esperto di rapporti sociali con gli oggetti – che gli strumenti usati sono oggetti di proprietà pubblica, e godono quindi di uno statuto particolare: cioè non sono acquistati dai loro utilizzatori, così come i soldati non comperano i loro fucili. Gli strumenti, che sono meticolosamente illustrati con belle fotografie nell’articolo, vanno dalla rozza shoe slipper, una sorta di slitta di legno che serve per staccare i contatti ad alto voltaggio in caso di incidente, al puncher, la grossa pinza per perforare i biglietti, e alla pesante brake handle (maniglia per i freni), tutti strumenti di austera utilità e resistenza, ma anche occasionalmente usati dai lavoratori per difendersi da ubriaconi, hobos e crackpots di ogni genere che coabitano con loro nelle gallerie della subway: la sicurezza non è solo

quella dei passeggeri, ma anche quella dei lavoratori, che devono provvedervi direttamente (vedi il pezzo interessantissimo sulle tecniche di difesa sanitaria dei lavoratori contro i dejecta dei viaggiatori, saliva, sperma, escrementi, nel paragrafo Sustaining personal dignity, pp. 50 e sgg.). I matti che abitano nella pancia del metrò ci saranno sicuramente anche a Parigi, ma Augé non lo sospetta neppure, perso nelle romanticherie sui clochards (pp. 71 e sgg). Augé ci racconta un episodio come sempre garbato, ma che rimane poi appeso lì aneddoticamente, sul conducente che si sporge dal finestrino durante la fermata alle stazioni (credo che ogni viaggiatore di metrò abbia notato questo volto affacciato) e la vecchia abitudine parigina di regalargli il giornale appena letto. Bellissimo quadro: vediamo la scena in bianco e nero mentre Jean Gabin si aggiusta gli occhiali sopra la Gauloise sans filtre per dare una sbirciatina ai titoli. Molotch va un pochino più a fondo e ci spiega come quello sporgersi dal finestrino abbia una funzione particolare e sia regolato da una precisa coreografia mansionale. Il conduttore deve sporgere la testa, guardare prima a sinistra e poi a destra, seguendo un codice comportamentale imposto, per accertarsi che nessun passeggero sia a rischio lungo la fiancata del treno. Questa è una norma che i conduttori newyorkesi osservano rigidamente. Ma non è sempre così. Uno degli aspetti studiati da Molotch è proprio il grado di conflitto tra norme di comportamento regolamentari – assai rigide dato il tipo di lavoro – e le decisioni di buon senso prese dal personale. Per esempio l’accesso ai treni avviene tramite una gabbia rotante a pettini di ferro dall’aspetto vagamente terrificante, come sanno tutti i frequentatori della subway, che l’hanno denominata “garlic grinder” (“spremiaglio”) e che scatta, con una certa lentezza, a ogni pagamento. Il bigliettaio ha un bottoncino di emergenza, di bachelite o ferro come i vecchi campanelli di casa, che serve a liberare il blocco: non è permesso, ma quando nelle ore di uscita dalla scuola l’ingresso della subway si riempie di un’ondata di studenti schiamazzanti, il bigliettaio schiaccia il bottoncino e libera lo “spremiaglio” per evitare che nella ressa qualche ragazzo si faccia male. Molotch racconta anche di come si è comportato un conducente intelligente, sulla base della sua esperienza individuale: quando nel fatidico 9/11 sono crollate le Twin Towers, una grande folla si era riversata sulle banchine della fermata sottostante della subway, presto invasa dal fumo dell’incendio. “Fumo”: la regola inflessibile per il conducente di subway MTA è che se si trova del fumo in una stazione si deve assolutamente proseguire all’istante, perché fermandosi si espongono i passeggeri a un’intossicazione che può essere mortale. Il conduttore di quel giorno, senza avere alcun sentore di quel che stava succedendo (le locomotive non hanno un collegamento voce e del resto quasi nessuno ne sapeva ancora nulla) entra nella stazione invasa di fumo. Dovrebbe proseguire, ma qualcosa gli dice che la situazione è anormale: contro le regole, si ferma, apre le porte, imbarca i poveracci sfuggiti al bombardamento e riparte salvando centinaia di vite umane.

Come si può vedere da questi pochi cenni il materiale raccolto su norme e comportamenti e i risultati generali della ricerca di Molotch sono estremamente interessanti, e incoraggio lo studioso serio di questioni urbane alla lettura attenta del saggio. Qui mi limito a dire che solo con ricerche impegnate, con idee e ipotesi di partenza e con metodologie rigorose si possono studiare i complessi fenomeni della città, proprio quelli che non si vedono, in questo caso anche perché si svolgono nel ventre “urbano” e al di sotto, per così dire, della percezione del passeggero che, come fa invece Augé, si diletta con l’osservazione superficiale dei passeggeri e con le proprie rêveries personali. Il ricercatore (e sottolineo il termine) penetra nel mondo sotterraneo e vi si ferma a lungo, usa gli strumenti rigorosi e painstaking dell’osservazione partecipante e dell’intervista, scava nei fatti sociali per far emergere ciò che sta dietro alle pratiche quotidiane e ci fa conoscere molte cose che non sappiamo, mentre l’antellodanlemetrò, come Augé, può solo limitarsi a osservazioni occasionali, “d’une gare a l’autre”. Letteratura, e piuttosto modesta anche, non ricerca. Conclusioni Mi fermo qui perché il discorso sulla retorica superficiale e senza freni utilizzata dal bardo che racconta la città si allunga facilmente a dismisura e può essere condotto solo in modo puntuale e specifico, per pedante e aerobica che la critica possa poi risultare (e ne ho forniti alcuni esempi): non si combatte la superficialità con altre superficialità rimbalzate dalla bloghorrea. Occorre rintuzzare punto per punto la retorica e la confusione delle lingue – compito peraltro da sempre centrale all’attività dello studioso – e, come ho cercato di fare, dimostrare che è possibile invece parlare di questi temi, rispettando la competenza altrui e le nozioni acquisite e validate dalla tradizione degli studi specialistici; ma soprattutto con concetti che illuminano invece che stupire e confondere: va da sé che le due azioni vanno di pari passo. Mi limito a indicare, a futura memoria, per un possibile lavoro più specificamente rivolto agli specialisti di sociologia urbana, alcuni dei lemmi sui quali si è maggiormente riversata la nutella similsociologica delle telepuerilizzazioni negli ultimi anni. Tra questi sono sicuramente degni di nota: reti di ogni lunghezza e fattura diversa, il globale locale, la memoria e l’identità dei luoghi e più di recente la creatività, sempre tutto nei famosi “territories”; tutti temi malamente triturati dal pestello dei non specialisti nel mortaio del luogo comune. Spero di avere l’occasione per riparlarne, soprattutto a proposito del “territorio” in una sede che mi permetta un ulteriore approfondimento senza timore di tediare ulteriormente i non specialisti.45 È possibile parlare di una realtà dinamica e ambigua quale è il fenomeno urbano contemporaneo usando concetti rigorosi? Quando Anthony Giddens dice che “the city […] has a specious continuity with the past”, usa un termine

fortemente evocativo, ma chiaro, che sintetizza efficacemente (per chi è in grado di capirlo) i temi della memoria e dell’identità con un rimando alla structuration theory; Saskia Sassen, introducendo la nozione tecnica di “città globale”, nel 1992, un poco prima del diluvio universale sulla globalizzazione, ci ha fornito un concetto originale, incisivo, ma ben documentato da vari anni di ricerca e da una straordinaria messe di dati, aprendo un nuovo fronte di studi; Melvin Webber ha formulato nel 1974 il “non-place urban realm”, da cui è nata poi l’attenzione per lo sprawl; Harvey Molotch ha contribuito a cogliere le dinamiche dello sviluppo urbano con il concetto di “Growth machine”, nato da un’accurata ricerca in varie città e documentato con dati appropriati e Manuel Castells con l’idea della transizione da “società dei luoghi a società dei flussi”, sintetizzata da una conoscenza di prima mano la cui ampiezza non è neppure il caso di menzionare; Michele Sernini, con il concetto di “terre sconfinate”, ripreso di recente dall’endless cities46 di Ricky Burdett e Deyan Sudjic, richiama i temi rokkaniani; Bagnasco e Trigilia, da un lato, e Becattini, dall’altro, hanno introdotto il tema dei distretti, anche in questo caso sulla base di una solidissima base empirica; Nuvolati (2006) ha ripreso il tema tradizionale dei flâneurs inquadrandolo nell’analisi delle Popolazioni Non Residenti e via dicendo. Sono tutti termini che, pur non rinunciando alla sonorità necessaria per catturare l’attenzione, sono filologicamente corretti e soprattutto, da un lato, hanno dietro di sé importanti tradizioni teoriche, che offrono quelle significative continuità che sole permettono alle conoscenze scientifiche di progredire, nonostante i guasti dei dilettanti della domenica mentre, dall’altro, aprono importanti nuovi sentieri di studio che richiederanno e stimoleranno ulteriori approfondimenti. Inutile dire che il puerilismo mediatico non perdona, e ognuno di questi termini ha subìto l’attacco dei mercanti di parole e dei bardi urbani: Castells è stato caramellato nella “società liquida” di Bauman; Augé ha imburrato Webber, oltre ad averlo plagiato, con i non-lieux; Sernini ha offerto l’offa all’illogico bombastico de La città infinita (Bonomi) e via di seguito: i “distretti”, proprio nel momento in cui la teoria sociale sottoponeva questo concetto a severe critiche, sono entrati a vele spiegate nel pidgin burocratico producendo molte più aggettivazioni (distretti scolastici, turistici, culturali, persino “del piacere”, e così via) che seri criteri per definirli o giustificarne l’esistenza, al di là del suono della parola. Come gli storici non riconoscono dignità di storico a chi non abbia dato prova della sua competenza nell’analisi delle fonti, così credo che anche i sociologi abbiano il diritto di chiedere a tutti i pretendenti e aspiranti alla disciplina di non limitarsi a manipolare bene o male le idee altrui, ma di dare prova della loro competenza nella ricerca – termine da cui vanno escluse le ricerche per il cliente-burocrate condotte ed elaborate con tecniche da prodotto McDonald’s. Ecco perché la battaglia per un linguaggio

appropriato è una componente fondamentale della comprensione dei fenomeni urbani (e non solo, ça va sans dire, ma qui io mi occupo di questo tema) e si devono contenere le divagazioni del bardo urbano. Nonostante tutta la sua complessità, la società urbana è solo una componente parziale della società nel suo insieme e il suo studio, a differenza di altri tagli funzionali della società (le classi sociali, la diseguaglianza, la socializzazione e via dicendo, per un lungo elenco) richiede la considerazione di un parametro fondamentale che possiamo modestamente definire come l’intersezione tra l’organizzazione sociale e lo spazio fisico: considerazione che a sua volta richiede la comprensione e lo studio dei saperi pluridisciplinari che concorrono alla conoscenza dell’oggetto urbano. Questa definizione stipulativa non copre ovviamente tutto il campo conoscitivo relativo alla città, né, sopra ogni cosa, pretende di invadere il reame di quella che potremmo chiamare la “poetica della città”, cioè tutto il vasto insieme simbolico ed emotivo, che appartiene di buon diritto alla caratteristica di feé-tiche, di quel fantastico prodotto umano che è la città: oggi, e sempre più in futuro, habitat per la maggioranza della specie. Ma questa poetica va lasciata a veri letterati e poeti che, con le loro intuizioni e folgorazioni del linguaggio, ci forniscono genuino materiale di emozione e di fascinazione. Per contro deve essere invece strenuamente difesa dall’inquinamento delle triviali banalizzazioni di cattivi poeti e letterati o peggiori filosofi. Note 1 Non è nelle mie competenze affrontare i risvolti filosofici di un’affermazione che faccio qui a un livello di buon senso, per così dire, perfettamente conscio dei problemi epistemologici sottostanti, per i quali rimando a una buona sintesi dello stato attuale e dei percorsi recenti del dibattito in Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012. 2 Mario Praz, Il demone dell’analogia. Memorie e divagazioni narrative, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 31. 3 Tra le molte battute devastanti di Mussolini che, essendo maestro di scuola e giornalista (e i miei conterranei me lo perdonino) anche romagnolo era portato a debordare in retorica, forse una delle più tragiche, fu la risposta a Badoglio che gli faceva notare che non si poteva entrare in guerra perché non c’erano neppure le uniformi sufficienti per tutti i soldati (senza contare i famosi otto milioni di baionette per un esercito che a malapena arrivava ad avere poco più di un milione di fucili, contando pure gli schioppi sequestrati ai briganti). “La Storia non è un problema di uniformi!” E s’è visto. Paul Carell, Le volpi del deserto. 1941-1943: le armate italo-tedesche in Africa settentrionale, Bur-Rizzoli, Milano 1999, p. 181. 4 Sono d’accordo con Richard Sennett nell’attribuire grande importanza alla musica e alla cucina. Vedi L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008. 5 Per la sociologia occorre andare a rileggersi il bellissimo pezzo di Charles Wright Mills, Sociology as Workmanship, in Id., The Sociological Imagination, Oxford University Press, New York 1959. 6 Vincenzo Cerami, Viaggio, in “l’Unità”, 24 maggio 2009. 7 Walter Pedullà, Marco Polo strutturalista “eretico” per descrivere le “città invisibili”, in “L’Avanti!”, 3 dicembre 1972, p. 8. 8 Pietro Citati, “Le città invisibili” di Italo Calvino. Parabola morale e allegoria metafisica, in “Il Giorno”, 6 dicembre 1972, p. 10.

9 Mauro Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, il Mulino, Bologna 2007. 10 Basta leggere la cosiddetta “declaratoria” del settore SPS/07 Sociologia Generale, sul sito del Miur. 11 Il volume curato da Magatti, di 523 pagine, porta in allegato un cd che contiene i rapporti locali di ricerca che, lo dico subito scusandomene con gli autori e i lettori, non ho ancora avuto il tempo di leggere a fondo con la dovuta attenzione, ma che ho scorso, e a una prima lettura mi sono sembrati un materiale di grande importanza per eventuali approfondimenti. 12 Anche se le due situazioni, italiana e francese, sono molto diverse, uno sguardo comparativo, per il tramite del volume a cura di Hugues Lagrange e Marco Oberti (La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese, il Mulino, Bologna 2006) avrebbe giovato non poco a questo lavoro. 13 Provate un po’ questi “Psicologia per la società” o “Fisica per l’anima”; “Metafisica per la materia” oltre ai più familiari “ateo-devoto” e altre contaminationes caratteristiche della fantasia mediatica corrente. Vedremo più oltre con che disinvoltura Magatti si libera del divieto da lui imposto di non accettare determinismi. 14 Tra le tante bizzarrie di queste nomenclature accademico-ideologiche, vale la pena di notare come i sociologi che aderiscono a un gruppo che si dichiara esplicitamente per l’individualismo metodologico e “contro ogni determinismo” sono poi in larga parte cattolici credenti, cioè aderenti a una fede che riconosce come dogma la sacralità e l’autorità di un’organizzazione cesaropapista che ha una base temporale con una conduzione politica che è l’unico sistema politico esistente con forma dispotica e teocratica. Contro il determinismo marxista, certo. Contro altri determinismi, mah! 15 Anthony Giddens, The Constitution of Society: Outline of the Theory of Structuration, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1984. 16 Jean-Luc Nancy, La città lontana, Ombre Corte, Verona 2002. Nancy è l’unico riferimento con solidi parametri sociologici, oltre al fatto che, ai miei occhi, ha il pregio di essere tra i pochi autori europei che conosce bene e analizza con amore Los Angeles. 17 Friedrich August von Hayek, citato in John Keegan, A History of Warfare, Hutchinson, London 1993, p. 6. 18 Prendendo come termine “l’Australopithecus sediba” fanno 1977 milioni di anni, anno più anno meno. 19 Svante Pääbo, biologo svedese, è ritenuto uno dei fondatori della paleogenetica. 20 Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 26. 21 Questa è una critica puntuale, sostenuta con evidenza dai testi. Ci tengo però a dire che, tolto il posticcio del riferimento foucaultiano, i capitoli II e III, curati da Monica Martinelli, sono a mio giudizio i più solidi e informativi dell’intero volume: soprattutto il secondo, che offre una sintesi efficace di un vastissimo materiale di indagine non facile da padroneggiare. 22 Non è qui il caso di fare un’analisi professionale della bibliografia, che è pur sempre una buona radiografia dello stato di salute di un prodotto accademico. 23 Scrive nella sua recente ricerca sul tema Franklin E. Zimring, criminologo della Law School di U.C. Berkeley, in un’anticipazione pubblicata nel numero di agosto 2011 di “Scientific American” (How New York Beat Crime, pp. 74-79). 24 Marc Augé, Un mondo mobile e illeggibile, Lecture al convegno Tra i confini: città, luoghi, integrazione, Milano, Fondazione Unidea, 25 maggio 2006. 25 Si tratta in effetti di due conferenze radiofoniche – prendo queste dotte note dall’introduzione di Antonella Moscati a Michel Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio Edizioni, Napoli 2006, pp. 7-8 – tenute da Foucault a France Culture rispettivamente il 7 e il 21 dicembre 1966, nell’ambito di un programma dedicato all’utopia e alla letteratura presentato da Robert Valette. Rimando a quel testo per le altre informazioni bibliografiche. 26 Segnalo che si può anche trovare la registrazione audio della conferenza. Al di là dell’emozione che si

prova sempre per voci sgorgate dal passato, ascoltando la suadente rotondità della loquela belle culture del filosofo parigino si può benissimo capire come si possa essere irretiti dal suono prima ancora che convinti dalle argomentazioni. 27 Con i testi di Foucault è un po’ come il Corano, altro testo sacro: ci sono sempre diverse versioni che si devono rincorrere. Quella che ho riportato qui è in filigrana sulla copertina verdina di Eterotopia, Mimesis, Milano 2010. In realtà la frase completa, la prendo a p. 28 dell’edizione Cronopio, cit., e recita: “La nave è l’eterotopia per eccellenza. Le civiltà senza navi sono come bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale su cui poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio sostituisce l’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”. Non è che ci si guadagni molto in comprensione e chiarezza. La faccenda dei bambini fa riferimento a un paragrafo iniziale del medesimo saggio, ma lascio al lettore quest’ulteriore esplorazione. 28 Ne sappiamo poco, com’è noto, soprattutto grazie ai primi esploratori europei e alle memorie dei residui individui. Vedi Keegan, cit., pp. 28-29. 29 Che vedono solo quello serale (tanto che poeticamente il crepuscolo sta per tramonto) lasciando quello mattinale – e bellissimo – agli operai, ai contadini, ai marinai e pescatori e ai cacciatori. E che per lo più beatamente non sanno neppure che esista; anzi, che ne esistono tre: “civile”, “nautico” e “astronomico”, e in base ai gradi in cui si trova il sole sotto l’orizzonte, da 6 a 12 a 18. In un dizionario ho persino trovato questa definizione: “Luminosità del cielo che permane per un certo tempo dopo il tramonto del sole; periodo serale caratterizzato da tale fenomeno e, meno freq., alba”. Ma la Terra è tonda e simmetrica! 30 La città nel vetro. L’immagine televisiva dei problemi urbani, con Alberto Caracciolo, Francesca Anania, Mario Maneri Elia, Rai Eri, Torino 1988, pp. 51 e 81. 31 Melvin Webber, The Urban Place and the Non-place Urban Realm, in Explorations in Urban Structure, ed. by Melvin Webber et al., University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1964, pp. 79-153; L’urbain sans lieu ni bornes, préface et annotations de Françoise Choay, Éditions de l’Aube, La Tour d’Aigue 1996. 32 Ash Amin, Nigel Thrift, Cities: Reimagining the Urban, Polity Press, Cambridge 2002. 33 Spero si scriva così, il mio argot è a tradizione orale. 34 Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina, Milano 2009 (Le métro revisité, Seuil, Paris 2008). Segnalo quando cito dalla versione francese “v.f.”. 35 Sul tema mi permetterei di consigliare al maestro Lorànt Deutsch e Emmanuel Haymann, Métronome. L’histoire de France au rythme du métro parisien, Lafon, Neuilly-sur-Seine 2009. 36 Come sempre il corsivo è mio. Ma poi non è per nulla vero, andatevi a rivedere il testo. Magari! Se quelle osservazioni sono “etnologiche” vuol dire che siamo tutti etnologi, come avrebbe detto Monsieur Jourdain nella celebre Terza scena del Borghese gentiluomo. 37 Traduzione italiana dal francese, Pour une anthropologie de la mobilité, non c’è data di pubblicazione né editore ma la sciatteria qui è tutta dell’editore. L’autore lo aiuta senza una nota o un solo riferimento bibliografico. Sulle differenze fra antropologia ed etnologia, vedi l’introduzione del traduttore italiano Francesco Maiello, dal titolo interessante, Romanzo e antropologia teorica, pp. 7-17 dell’edizione Elèuthera, e in cui di metrò non si parla quasi. 38 Parlo del camionista, ma vale per molti altri ruoli legati al sistema della mobilità. Pensiamo, per esempio, alla centralità della figura del ferroviere che, invece, ha fortemente stimolato l’immaginazione degli scrittori e dei cineasti. 39 Ripreso poi in Il metrò rivisitato, cit. 40 Harvey Molotch, Noah McClain, Things at Work. Informal Social-Material Mechanisms for Getting the Job Done, in “Journal of Consumer Culture”, vol. VIII, n. 1, pp. 35-67, 2008; il brano sul disegno della ricerca. “Our report derives from 18 months of observations in the New York subway system and 60 interviews with subway personnel. Interviews were held with a variety of types of workers; we have indicated job duties for each of the personnel types involved in our study.” 41 L’“anti-programma” di Bruno Latour (vedi la citazione nel testo di Molotch e McClain a p. 35, concetto che Magatti avrebbe proficuamente potuto utilizzare a p. 34 se lo avesse conosciuto).

42 “Fermi a un passaggio a livello / mi hai parlato di te / in un modo che io non conoscevo / piano mi hai sfiorato una mano / sussurrando parole dimenticate. / Ma in un baleno / è schizzato via il treno / abbiam smesso di guardarci / poi mi hai chiesto se era un merci. / Torna a parlarmi di te a parlare del cuore, / delle cose dimenticate. / No: mi hai guardato ridendo / sei rimasta lì muta / muta come ti ho conosciuta.” 43 Metropolitan Transportation Authority, che ha la gestione della subway, di proprietà della città di New York, ma che non è essa stessa newyorkese. 44 Non sto a dirlo, ma è evidente che l’immaginifico sulla città ha insistito a lungo sulle vie sotterranee, dalle catacombe di Quo Vadis alle égailles di Victor Hugo, alle pellicole come The Warriors di Walter Hill (1979), per fare un elenco brevissimo di un vasto catalogo. 45 Per un piccolo amuse bouche, vedi La vendetta del territorio, introduzione all’edizione italiana di David Owen, Green Metropolis. La città è più ecologica della campagna?, Egea, Milano 2010, pp. VIIXXI (ed. or. Green Metropolis: Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys of Sustainability, Riverhead Books, New York 2009); anche in La chiacchiera sul territorio, in “Mondoperaio”, nn. 7-8, 2010, pp. 79-86. 46 Ricky Burdett, Sudjic Deyan (eds.), Living In The Endless City, Phaidon, London 2011.

Quinta lezione Città e violenza

Roma città violentata. Attenzione alle trappole ideologiche A prima vista la giornata del 15 ottobre 2011 a Roma è apparsa come un inquietante (ma non del tutto sorprendente) déjà vu: a Genova, Atene, Pittsburgh, Roma e così via. Un corteo con centinaia di migliaia di persone pacifiche offre l’occasione a un gruppo di teppisti con un vago nome, ma senza faccia, di mettere a ferro e fuoco intere porzioni della città, sotto gli occhi della polizia che finisce poi per attaccare il corteo principale. Conclusione: contusi, feriti e arrestati a centinaia. I cani da guardia dell’ordine costituito che si mettono a ululare, attaccando tutta la sinistra e facendo, con una tecnica ormai collaudata, di ogni erba un fascio. Mentre i responsabili dei partiti di sinistra vengono chiamati a rispondere dei danni e “a dissociarsi”. Intanto il riflettore dell’attenzione riesce a lasciare in ombra le magagne del governo. Missione compiuta, operazione perfetta che viene ripetuta più e più volte. La piazza viene battuta e il movimento che negli ultimi tempi tanto imbarazzo aveva creato sia alla politica che all’establishment dei partiti viene tacitato. Tutto a posto dunque? No, questa volta qualcosa è andato storto. La prima differenza è che l’opinione pubblica generale non ci sta. I soliti terzini della squadra della Real Casa sono scattati in massa a lanciare le usuali intimazioni. “Dovete dissociarvi, dire che siete contro la violenza senza se e senza ma”, e via geremiando. Già visto, già sentito, ma questa volta la gran parte dell’opinione pubblica ha risposto: “dissociarsi da chi?”. Per la prima volta è emersa in modo molto chiaro la netta distinzione tra un movimento pacifico di massa e un gruppo di teppisti mascherati. C’è stato un momento topico nella rappresentazione mediatica, quando una ragazza di un gruppo di manifestanti, chiaramente provati e sgomenti dopo i fatti, intervistati, credo da La7, si è fatta avanti con un viso sinceramente dolente, e rivolta alla telecamera ha gridato con totale esasperazione: “Mi vedete? Vedete la mia faccia? Noi abbiamo fatto decine di manifestazioni, siamo scesi in decine di piazze, tutti e sempre a faccia scoperta. Loro invece hanno la maschera, la faccia coperta, sono diversi, non siamo noi. Basta chiederci di sconfessare la violenza, l’abbiamo fatto già più volte, siamo noi le vittime”. E questa differenza è apparsa subito chiara a tutti. Meno sembra che alle forze dell’ordine, non quelle sul campo che si sono trovate anche a difendere persino i Cobas, ma ai loro strateghi. Ma soprattutto ai manifestanti: il gioco ambiguo dei “compagni che sbagliano” non funziona più tagliando un bel

po’ di unghie alle teorie della contiguità. Abbiamo visto i manifestanti fermare e consegnare i teppisti alla polizia. Ma c’è di più, i commenti dei microfoni aperti, della maggioranza silenziosa, non dei giornalisti di sinistra, hanno dimostrato una certa indulgenza persino per le violenze, come se fosse qualcosa di inevitabile, data la situazione. E del resto tutti hanno l’esperienza di sentire anche persone posate dire così, senza enfasi, “andrà a finire a monetine, o con i forconi” oppure ancora “non ci resta che andare in montagna”. Questa sensazione diffusa, che io ho sentito ripetere in conversazioni normali dal Nord al Sud della penisola, non avrà un rapporto diretto di causa ed effetto, ma è segno di un clima. Non è però originata nei centri sociali, ma da anni, sui prati di Pontida o nelle assemblee veneziane della Lega. Non nascondiamoci dietro un dito, per favore; va bene dire che non bisogna giustificare le nequizie di Tizio con quelle di Caio, ma qui stiamo parlando di eversione violenta predicata da ministri e persino dal premier, che nelle sue telefonate private, prospetta, ed evidentemente sogna nei suoi recessi cerebrali, l’assalto ai palazzi di Giustizia. Altro che quattro ragazzetti con i bastoni, qui siamo a Nanni Moretti! E l’altra diversità è che la legittimità della manifestazione era riconosciuta da molte parti. Ma questo è ciò che ha fatto inferocire la destra di regime, come sempre avviene quando a favore delle proteste si esprimono anche esponenti di spicco della borghesia, pensiamo al massacro cui furono sottoposte Camilla Cederna e la Crespi. Oggi gli oggetti del metodo Boffo sono Draghi, Passera, Guido Rossi, Montezemolo e così via. Che hanno detto di così politically uncorrect costoro? Nulla di più che un’osservazione banale come quella che i giovani che si accingevano a protestare hanno le loro buone ragioni. Apriti cielo! Nicola Porro nella trasmissione In Onda pretendeva che fossero i giovani in piazza a sconfessare Draghi. Il sospetto di un “cordobazo”, da parte degli alti responsabili delle forze dell’ordine, non può essere del tutto accantonato: la testa di chi dirige dal centro del centro le forze italiane dell’ordine e di chi ha la dirigenza politica del paese, ha dimostrato negli anni e sempre più anche di recente, un livello di cinismo spudorato senza limiti, che non può essere ritenuto al di sopra di alcun sospetto. Non si tratta di “dietrologia” (anche se l’indagine dei fini reconditi del potere non può che muoversi in una zona grigia che sta dietro il “front office” delle dichiarazioni ufficiali) ma di sensibilità a esperienze comprovate, a partire da quel che è emerso incontrovertibilmente dai processi per gli eventi del G8 a Genova, che dimostrano che in quell’occasione chi stava al governo (e ci sta ancora) e chi manovrava le forze in campo aveva tentato una svolta autoritarista per dare una lezione alla temuta piazza. Oggi però non vale la pena di spendere troppo tempo su questo aspetto, perché è emerso un interrogativo più grande sulla funzione, le capacità e le strategie della polizia, che viene posto da più

parti, persino, al di là delle dichiarazioni di maniera, da membri della maggioranza e dallo stesso ministro Maroni. Ma anche dall’interno delle forze dell’ordine in campo, che sulla piazza hanno visto cose diverse dal solito e che hanno reagito senza gli eccessi del passato. Su “Arcipelago” (e poi in un testo ampliato su “Critica Sociale”) avevo appena denunciato le carenze gravi della politica di una maggioranza eversiva, che con tante altre parti dello Stato aveva anche indebolito la polizia. Tra i rimedi possibili alla crescente violenza urbana, e citavo proprio Roma, indicavo: “In primis l’importanza della presenza della polizia, diretta però a scoraggiare i reati, non a riempire le carceri di futuri delinquenti recidivi. Sembra una banalità, ma va ribadita a fronte delle sciocchezze, come le famose ronde, che hanno inzeppato le pagine dei quotidiani lasciando a secco le pattuglie di polizia”. Mi spiace citarmi, ma i fatti mi hanno dato ragione, e oggi anche la polizia si lamenta dei tagli, ma questo sarebbe normale, se non venisse alla fine di una lunga serie di episodi di “serbatoi vuoti”. Non vorrei mettermi a dare lezioni alla polizia che sa il fatto suo, ma qualche domanda viene. Non occorre essere Zhuge Liang per capire che ci vogliono altri mezzi, che la polizia ha, come lei fa correttamente notare. Alessandro Plateroti, vicedirettore del “Sole 24 Ore”, ha sottolineato che le manifestazioni a New York sono state molto meno violente. Io penso che lì la polizia, che non è certo dolce, posso assicurare, è molto più preparata a gestire questi problemi. Oltre al mazzuolo la polizia ha informatori, infiltrati, intercettazioni eccetera, qui come a New York. Possibile che non riescano a isolare e rendere innocui (da prima!) gruppi che per il solo fatto di essere organizzati sono vulnerabili. Sempre Plateroti ha fatto vedere le istruzioni per la manifestazione sul sito dei Black Block. La polizia non li aveva visti? Mah! Non è facile dare un’interpretazione salda di quanto avvenuto né una ricetta convincente. Voglio solo invitare a non impigrirsi nella ripetizione dei topoi ormai quasi cinquantennali che ci ammanniscono i vari Ostellino, Battista, Porro eccetera e a fare uno sforzo per capire che oltre a elementi costanti, che sono stati ben codificati dagli studiosi che per molti anni hanno analizzato i movimenti politici, le naïvetés dello spontaneismo, i rischi delle deviazioni e infiltrazioni violente e via dicendo, gli eventi in corso offrono elementi di assoluta novità che vanno osservati con attenzione. Ma grande attenzione deve essere dedicata alle risposte del mondo politico: se la risposta sarà solo di vecchie pratiche di polizia e se i partiti progressisti si faranno intrappolare nelle vecchie logiche delle chiamate di correo, la tensione sarà destinata a salire e forse supererà i limiti del confronto civile, lasciando aperte le porte alla violenza, che questo movimento non vuole. Violenza urbana: Milano e la ricetta americana La “seconda copertina” de “L’Espresso” del 22 settembre 2011 recita: “Roma

violenta”. A sorpresa, le città europee, che la vulgata mediatica aveva sempre ritenute meno pericolose delle città americane, diventano violente al punto che il governo inglese, dopo i tumulti delle notti infuocate di Tottenham, si sottopone all’umiliazione storica di chiamare, in aiuto di Scotland Yard, il leggendario “Bill” Bratton, ora capo della polizia di Los Angeles. Anche le immagini televisive delle proteste politiche a New York, in cui vi è stato un intervento pesante della polizia, testimoniano di scontri che non assomigliano neppure lontanamente alla violenza che si è vista sugli schermi nell’estate inglese. Segno di un’inversione di tendenza, marcata dalle ripetute violenze nelle città francesi, da Strasburgo a Parigi, dalla tragica carneficina di 77 persone a Oslo e sull’isola di Utøya e dalla violenza diffusa denunciata da Gomorra. L’immagine di New York come città violenta ha una lunga storia, spesso accompagnata da una ricca rappresentazione letteraria: dal film di Elia Kazan con Marlon Brando, On the Waterfront (Fronte del porto, 1954), a quello di Martin Scorsese, Gangs of New York (2002), che racconta la più violenta delle sommosse (riots) newyorkesi, che Lincoln dovette reprimere a cannonate. Negli anni sessanta e settanta New York entra in quella che fu la peggiore crisi finanziaria delle città americane, e dopo la quasi bancarotta del 1976 si trovò a rappresentare la città simbolo della riscossa, con il sindaco Ed Koch, più attento però allo sviluppo immobiliare che ai diritti delle minoranze, ma non ostile agli immigrati. Sono gli anni in cui il disordine sociale è forte e in cui l’immagine di una giungla d’asfalto domina la scena, mentre il city marketing cerca di contrastare l’immagine della “cattiva mela” del welfare degradato, con la Apple di “I love NY”: la mela buona contro la mela cattiva. È l’era della teoria delle “broken windows”, cioè della ripulitura delle apparenze di disordine sociale e fisico nelle aree più degradate della città che diventano gli slogan di questa più generale “supply side criminology” che puntava su una politica di massicce incarcerazioni e che porta a una moltiplicazione per sette degli arresti nelle città americane. In quegli anni si mette a punto l’altra strategia comunicativa, quella della “Zero Tolerance”. Questa è l’era inizialmente dominata dalla personalità del leggendario capo della polizia William J. “Bill” Bratton, il bostoniano che venne nominato dal sindaco Rudolph Guliani 38° capo del New York Police Department (Nypd), e collaborò ad attuare le politiche che fanno riferimento alla filosofia “Tolleranza Zero”. Bratton ci aggiunge uno strumento importante, che è ancora oggi in atto, e cioè il sistema CompStat di mappatura dei reati che permetteva di rappresentare delle mappe di concentrazione degli eventi criminosi con la tecnica statistica degli “hotspots”. “Nei due decenni recenti i newyorkesi hanno beneficiato della più lunga e sostenuta caduta del crimine di strada mai verificatasi in una grande città del mondo sviluppato” scrive su “Scientific American” Franklin E. Zimring,

criminologo dell’Università della California-Berkeley (How New York Beat Crime), confutando però le interpretazioni correnti. La “Zero Tolerance” non c’entra. È vero che New York ha conosciuto una diminuzione del tasso di criminalità maggiore delle altre grandi città americane; ma gli arresti sono stati solo un settimo di quelli della media americana. Nonostante ciò la violenza è calata più del doppio ed è durata due volte più a lungo, molto dopo la fine del mandato di Giuliani. Non funziona neppure l’ipotesi che la “gentrificazione” e l’aumento dei costi nel centro di Manhattan abbiano semplicemente spostato poveri, homeless, e microcriminalità al seguito, nei boroughs (contee) periferici. Infatti la criminalità non è diminuita solo a Manhattan: l’indice composto per i sei reati più gravi (omicidio, stupro, aggressione, furto di auto con scasso e rapina) ha avuto eguale tasso di diminuzione anche negli altri boroughs. I nuovi dati su New York smentiscono poi un collegamento diretto tra violenza e altri problemi sociali (droga, prostituzione e così via). Come sintetizza Zimring: “New York ha vinto la ‘war on crime’, ma ha perso la ‘war on drugs’; la violenza è diminuita drasticamente, ma il consumo di droghe no”. Conclusioni? In primis l’importanza della presenza della polizia, diretta però a scoraggiare i reati, non a riempire le carceri di futuri delinquenti recidivi. Sembra una banalità, ma va ribadita a fronte delle sciocchezze, come le famose ronde, che hanno inzeppato le pagine dei quotidiani lasciando a secco le pattuglie di polizia. Secondo, le mappe computerizzate di un sistema informativo efficiente, capace di individuare le aree a rischio per un intervento tempestivo – marchio distintivo della politica di Bratton. Il braccio, si direbbe, e la mente. La lezione più importante che si può trarre dall’esperienza di New York è che tassi elevati di omicidi e aggressioni non sono il portato inevitabile della vita delle grandi città. Ma i sindaci non pensino di andare a nozze con i fichi secchi: a New York hanno aumentato gli effettivi della polizia con una tassa apposita, a Roma violenta un agente di polizia si lamenta: “Con due volanti al massimo possiamo controllare una zona con 200mila abitanti e 400 arresti domiciliari”. Ed è di pochi giorni dopo la notizia che i pm dell’antimafia hanno denunciato l’impossibilità di inviare le pattuglie perché il ministero aveva tagliato i fondi per la benzina. Mentre a Milano si è verificato l’inquietante caso del comandante dei carabinieri che se n’è andato sostenendo che non è vero che i dati supportino l’ipotesi che la criminalità organizzata si sta diffondendo anche in Lombardia. I dati però, in un senso o nell’altro, finiscono per vederli solo in pochi. In tempi di disordini sociali la questione delle forze dell’ordine, soprattutto per governi riformatori, diventa di primaria importanza. Anche Milano ha visto una diminuzione dei reati “da strada”, nonostante la forsennata e dissennata agitazione della paura dei cittadini da parte di chi nel contempo lavorava a pieno ritmo per distruggere tutte le capacità di reazione dello stato. Vorremmo che si

continuasse per questa strada con forze dell’ordine sempre più professionali messe in grado di colpire le cause della violenza e dell’illegalità, non le manifestazioni minori.

Sesta lezione Una città per tutti?

È difficile fare un bilancio del secolo XX senza qualche misura di stupore e persino di incredulità per la vastità delle dimensioni degli eventi che lo hanno caratterizzato. Partiamo dalla sua conclusione, che coincide con i festeggiamenti per l’inizio del nuovo secolo. La sera del 31 dicembre 1999, il mondo intero è esploso in fuochi d’artificio che seguivano via via la rotazione della Terra celebrando lo scattare della fatidica mezzanotte. Il re di Tonga, l’isola più vicina alla international dateline (L’isola del giorno dopo del romanzo di Eco) entra in conflitto diplomatico con i suoi vicini per il possesso di due atolli che sembrano essere le prime parti della Terra a essere toccate dalla nuova mezzanotte. Un’agenzia di viaggio organizza aerei che si propongono di portare i loro viaggiatori, a caro prezzo, a incontrare per primi il nuovo giorno. E le folle di città e paesi di tutto il mondo si riversano nelle vie e nelle piazze in una colossale esplosione di entusiasmo collettivo, moltiplicata dalla risonanza dei mezzi di comunicazione, televisioni, radio, telefoni, internet di tutto il mondo. Tutto bene, salvo un piccolo particolare: la data era sbagliata, perché anticipava di un anno lo scadere effettivo del secolo, visto che nelle datazioni non esiste l’anno zero, ma si comincia da uno: nessun creditore di un prestito di dieci anni accetterebbe che il debitore cessasse di pagarlo alla fine del nono. Così si entra nel nuovo millennio sulle ali di una lieve bizzarria che corona un’euforia collettiva assai più inquietante: negli ultimi due decenni del Novecento l’economia finanziaria mondiale aveva conosciuto una crescita violenta che pareva illimitata, tanto da meritare il nome di New Economy. Nei primi mesi del 2000 questa crescita si rivela una gigantesca bolla speculativa che in pochissimo tempo si affloscia bruciando miliardi di euro in valori azionari. Così il nuovo secolo viene accolto sul vento, è il caso di dirlo, di una tempesta di borsa. Ma le sorprese non finiscono qui. Il mondo non si è ancora ripreso da questa prima batosta che per la prima volta nella propria storia, l’11 settembre del 2001, gli Stati Uniti d’America vengono attaccati da un pugno di uomini a mani nude, se così si può dire, che si impadroniscono di alcuni aerei di linea carichi di passeggeri e di carburante e li trasformano, con loro stessi a bordo, in devastanti bombe umane che, nel cuore di New York, centro dell’economia mondiale, trasformano le Twin Towers del World Trade Center in un cumulo di rovine fumanti e colpiscono a Washington anche il Pentagono, provocando migliaia di morti. Nel giro di pochi mesi, gli Stati Uniti e il mondo intero passano dall’ebbrezza per l’inizio di una nuova era alla cupezza plumbea di un clima di

guerra. Una guerra strana, inquietante, i cui belligeranti non hanno contorni ben definiti, in cui non è neppure molto chiaro chi siano i nemici di chi e perché, anche se le popolazioni dei paesi e soprattutto delle città più ricche del mondo sanno di poter essere oggetto di un attacco devastante in ogni momento della loro altrimenti pacifica esistenza. La paura, o quanto meno un’inquietudine generalizzata, si sostituisce alla speranza e all’ottimismo di quel capodanno fatidicamente sbagliato. È difficile pensare a un insegnamento della storia più amaro, ma più utile e sincero di quello che emerge dagli eventi attorno alla fine del secolo: i singoli eventi sono imprevedibili e il clima generale può mutare in pochissimo tempo. Inseguire il futuro con la previsione di accadimenti precisi è un’attività futile e destinata a essere continuamente frustrata, perché la fabbrica del futuro non chiude mai e la storia del domani viene costruita giorno dopo giorno. Questo insegnamento, tuttavia, non deve portare ad aver paura del futuro, né deve scoraggiare le domande su cosa ci aspetta, perché queste domande sono il segno irrinunciabile di quella curiosità intelligente che ha sempre sostenuto il progresso. Dobbiamo solo ricavarne un incitamento a essere saggi e a non cadere preda né del panico né di infatuazioni eccessive, perché, al di là dei singoli eventi, che sono e saranno sempre imprevedibili, i grandi processi sociali ed economici di fondo continuano il loro corso producendo effetti profondi. Comprendendo i meccanismi che regolano i grandi processi sociali, possiamo trarre qualche indicazione su ciò che ci può attendere dall’analisi del nostro recente passato. Ma com’è possibile individuare trasformazioni significative, che non siano influenzate da eventi storici specifici, per quanto grandi e catastrofici? Un grande processo sociale che interessa il pianeta nel suo complesso, e individualmente ciascuno dei suoi abitanti, e che possiede esattamente queste proprietà, è lo sviluppo della popolazione, oggetto di studio della demografia, forse la più affascinante tra le scienze sociali. Le tendenze della popolazione, il suo aumento o la sua diminuzione, il suo invecchiamento, sono strettamente collegati a molti altri fenomeni, e in particolar modo allo sviluppo economico di un dato territorio. I movimenti di popolazione, a loro volta, provocano conseguenze profonde sulle caratteristiche delle società interessate. La demografia è dunque una sorta di metro di misura per moltissimi altri aspetti della società: per di più la popolazione si può misurare con una certa precisione e con relativa (sottolineiamo il termine) facilità. In anni recenti disponiamo di misure abbastanza affidabili sulla popolazione e sulle sue caratteristiche per tutti i paesi del mondo. Sono dati assai importanti perché le variazioni della popolazione interessano tutti noi, che ne facciamo parte, soprattutto quando, com’è avvenuto nel XX secolo, si tratta di mutamenti mondiali che coinvolgono quantità gigantesche di individui. Nella Seconda lezione abbiamo scritto che nel

XX secolo, per la prima volta nella storia conosciuta, la popolazione umana sulla terra si è raddoppiata due volte in cent’anni: all’inizio del secolo la popolazione della terra era di 1,6 miliardi di individui ma raggiunge i 6 miliardi alla fine. Cosa succederà nei prossimi anni? Se la crescita continuasse con lo stesso ritmo, abbiamo già visto che la Terra si troverebbe a dover ospitare – e nutrire – 12 miliardi nel 2015 e 24 miliardi nel 2022, una cifra probabilmente al di sopra della cosiddetta “capacità di carico” del pianeta. Fortunatamente non sarà così: vediamo come e perché. I problemi della demografia sono al tempo stesso lineari e complessi. Salvo catastrofi, che nel caso dell’immensa popolazione mondiale dovrebbero riguardare miliardi di persone e sono letteralmente inimmaginabili, anche le maggiori guerre e devastazioni hanno sul totale della popolazione del pianeta un’incidenza ridotta. Così, conoscendo le dimensioni della popolazione in un dato momento e il suo tasso di crescita è possibile stimare con buona approssimazione le dimensioni totali di quella popolazione nei decenni a venire. Si può correggere questo percorso, almeno in parte, con le politiche demografiche (incentivi o disincentivi alla natalità, com’è avvenuto con un certo successo in Cina), ma si tratta di politiche di difficile attuazione e che comunque hanno effetti dilazionati nel tempo e non facilmente prevedibili. Possiamo pensare alla popolazione mondiale come a una di quelle immense petroliere da centinaia di migliaia di tonnellate, la cui rotta può essere cambiata, ma con manovre che richiedono molte miglia per andare a effetto. Tanto per dare un’idea, la più grande petroliera del mondo è la Jahre Viking, costruita nel 1976, ha una stazza di 564.763 tonnellate ed è lunga 1507 piedi, cioè praticamente mezzo chilometro: con un moderato passo da jogging ci si mette un quarto d’ora per andare da poppa a prua. Se una petroliera di quelle dimensioni, come la famosa Torrey Canyon,1 va fuori rotta e si dirige sugli scogli, lo veniamo a sapere con un anticipo di ore e a molti chilometri di distanza, ma da quel momento non esiste forza al mondo che possa fermare una massa di tal genere. Analogamente alcuni studiosi, chiamati “malthusiani”, dall’economista Thomas Robert Malthus, che nel 1789 con il suo Essay on the Principle of Population aveva inquadrato magistralmente il problema, sostengono che poiché la popolazione cresce in progressione geometrica (1, 2, 4 e così via, tecnicamente si dice crescita “logaritmica”), mentre le risorse crescono in progressione aritmetica (1, 2, 3, 4 e così via), prima o poi la popolazione della Terra finirà schiantata sulle rocce della mancanza di risorse. Tuttavia, benché la popolazione sia effettivamente cresciuta in modo logaritmico, raddoppiando dai tempi di Malthus più volte e, come si è visto, in periodi sempre più brevi, la previsione malthusiana dell’esaurimento delle risorse non si è mai realizzata. Come mai? La ragione è duplice. Innanzitutto nel rapporto tra risorse e

popolazione entra un terzo fattore e cioè la tecnica, vale a dire gli strumenti materiali e organizzativi che permettono di sfruttare le risorse. Finora i miglioramenti tecnici (nella coltivazione, estrazione e trasformazione delle risorse) hanno sempre controbilanciato la crescita della popolazione mondiale. L’altra ragione è la popolazione stessa: come fanno rilevare gli economisti della scuola che si oppone ai malthusiani e che si definiscono “economisti della cornucopia” (cornucopians, in inglese), una popolazione è fatta di bocche da riempire, ma anche di teste che ragionano e che inventano. La popolazione, sostengono i cornucopians, è una risorsa oltre che un costo; finora hanno avuto ragione, il che ovviamente non garantisce che abbiano ragione anche in futuro. Anzi, possiamo dire con assoluta sicurezza che questo è il dilemma centrale della nostra epoca, per la semplice ragione che dalla sua soluzione dipende la sopravvivenza dell’umanità. In essenza, tutta la grande questione ambientalista è connessa al problema generale del rapporto tra popolazione e risorse. Poiché la popolazione umana, come tutte le popolazioni viventi, consuma energia che ricava dall’alimentazione, la relazione tra popolazione ed economia, intesa come insieme delle risorse disponibili (soprattutto alimentari) e degli strumenti per utilizzarle al meglio – l’organizzazione produttiva e la tecnica –, può essere descritta con modelli matematici, tra cui la famosa curva di VerhulstVolterra che ha un andamento a S e si chiama curva “logistica” (da logaritmo). Nei paesi poveri e con scarse risorse, la popolazione umana ha elevati tassi di fertilità, ma anche di mortalità, soprattutto alla nascita o nei primi anni di vita. Molti nascono, ma molti muoiono, e il risultato è una popolazione limitata che cresce lentamente: è la situazione dei paesi con economie prevalentemente rurali di auto-sostentamento, che però, è bene non dimenticarlo, rappresentano ancora una buona parte della popolazione mondiale. Tuttavia sono sufficienti miglioramenti minimi delle condizioni economiche – cibo più abbondante e migliore, ma soprattutto migliori condizioni igieniche, acqua pulita, modica pulizia personale, modesta presenza di personale sanitario – per diminuire drasticamente la mortalità, specie quella infantile. Continuano a nascere in molti, ma un minor numero muore, e di conseguenza la popolazione aumenta, talvolta con grande rapidità: ci troviamo, per così dire, nel tratto verticale della “S”. È quella che si chiama la “prima transizione demografica”, che nel XX secolo ha investito in momenti successivi tutti i paesi del mondo, ed è causa di quel gigantesco aumento di popolazione che rappresenta il fenomeno sociale più significativo della storia umana di questo secolo: certamente quello di dimensioni maggiori, tanto che si è parlato di “esplosione demografica”, e sicuramente quello che porta con sé le conseguenze più rilevanti in un gran numero di aspetti della vita umana. La questione è ulteriormente complicata dalla circostanza che la quantità totale di una popolazione non è solo il prodotto di fattori di grande scala come il

territorio, le risorse, la tecnica, ma è soprattutto la somma di milioni (e, in effetti, oggi possiamo dire miliardi) di decisioni individuali che sono fra le più complesse e delicate dell’esperienza umana. Avere dei figli è, sì, qualcosa di naturale, perché è un’attività legata alla configurazione biologica e fisiologica della nostra specie, ma la decisione di mettere al mondo dei figli e, più in generale, l’atto della procreazione appartengono alla sfera intima della persona, e hanno molteplici e complessi legami con l’amore tra uomo e donna, i progetti e le aspirazioni della coppia, della famiglia e della comunità in senso ampio, i sentimenti, le credenze religiose e, in generale, i valori di una persona. Così la grande nave della popolazione mondiale è in realtà sospinta da miliardi di mani invisibili, ciascuna delle quali ha un effetto insignificante sulla sua rotta, che può invece essere cambiata se tutte le mani si mettono a spingere nella stessa direzione. È quello che sta avvenendo ora e che è avvenuto, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, a partire dai paesi sviluppati. In realtà sappiamo ancora poco dei meccanismi concreti che presiedono a questi cambiamenti, proprio perché le decisioni che li provocano sono innumerevoli e complesse, ma sappiamo abbastanza precisamente cosa sta accadendo, cioè che in tutto il mondo, a partire dai paesi sviluppati, negli ultimi decenni la natalità è diminuita in modo drammatico. In molti paesi, tra i più sviluppati, la natalità è scesa sotto la soglia di riproduzione della popolazione, che è di 2,1 figli per donna, il cosiddetto “tasso di fertilità di rimpiazzo”. Nascono quindi sempre meno figli: contemporaneamente le condizioni alimentari, di salute e di benessere sono aumentate in modo straordinario, si muore sempre meno, soprattutto alla nascita, ma ora a tutte le età. Le grandi cause contagiose di morte, vaiolo, lebbra, peste, ma anche malattie temibili come la malaria, la meningite, la poliomielite e le malattie cosiddette infantili, ma non per questo meno pericolose, sono state debellate dalle vaccinazioni, mentre gli antibiotici e la chirurgia sono in grado di restituire vita a fisici vicini alla morte. In conseguenza la vita si allunga sempre più, con balzi giganteschi negli ultimi anni: il risultato è che la popolazione aumenta poco, ma invecchia molto. Siamo entrati nella cosiddetta “seconda transizione demografica”, cioè nella parte alta della curva a “S”. Possiamo fare un esempio concreto con il caso italiano: alla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia, come lo era stata per circa tutto il secolo precedente, aveva un popolazione giovane e in eccesso rispetto alle risorse, con forte mortalità, soprattutto nelle popolazioni rurali, così gli italiani emigravano in gran numero in paesi più ricchi come la Svizzera, l’Inghilterra, la Germania, la Scandinavia, gli Stati Uniti, il Canada, l’America Latina e l’Australia. Dopo solo pochi decenni l’Italia, grazie al rapido aumento del benessere di cui abbiamo parlato, ma anche a uno dei migliori sistemi sanitari pubblici del mondo, è diventata una delle nazioni più longeve del pianeta, con un tasso di natalità dell’8 per mille nel 2015, molto inferiore alla sua capacità di

riproduzione e il più basso dell’Unione Europea. Pertanto, con un ritmo crescente negli ultimi anni, ha cominciato a importare forza lavoro: da paese di emigrazione è diventata paese di immigrazione. Quali siano le cause di questo cambiamento, l’abbiamo detto, non è del tutto noto, ma ne conosciamo alcune che possiamo dedurre da fatti accertati. Sappiamo che in media l’aumento della ricchezza di un paese, dopo una prima fase esplosiva, porta a una diminuzione della natalità. Questo dipende dalla circostanza che in città, dove i figli sono un costo, se ne mettono al mondo meno che nel mondo rurale, dove i figli sono anzitutto un aiuto; che le persone più istruite, soprattutto le donne, tendono a programmare la procreazione, soprattutto in relazione all’ingresso nel mercato del lavoro, e che questo atteggiamento razionale nei confronti della filiazione è stato enormemente aiutato dalla disponibilità di anticoncezionali e in generale di pratiche sociali e istituzionali favorevoli alla programmazione familiare, dai servizi sociali per la famiglia alla possibilità di praticare aborti in ambienti medicalmente protetti. Anche se l’aborto è una pratica così diffusa, indipendentemente dalla sua liceità, che non sembra avere di per sé una grande incidenza sul risultato finale di natalità, è comunque il complesso di atteggiamenti culturali e pratiche sociali, o meglio lo stile di vita, che contribuisce dovunque ad abbassare la natalità. Infatti il secondo aspetto importante della transizione demografica, come le ricerche dell’ufficio della popolazione delle Nazioni Unite dimostrano, è che l’abbassamento della natalità non si è verificato solo nei paesi ricchi, ma anche nelle cosiddette Less Developed Regions (LDR), dove nell’ultimo trentennio del XX secolo la natalità è passata mediamente da 6 a 4 figli per donna fertile, un rallentamento da considerare molto rapido, anche se sempre su livelli alti. Per di più è un fenomeno assai sorprendente perché avvenuto in paesi distanti tra loro come il Bangladesh e la Somalia, con economie, religioni, organizzazioni diversissime, e senza alcuno dei fenomeni che sappiamo incidere sulle decisioni individuali di controllo delle nascite: urbanesimo, reddito, istruzione della donna, presenza di servizi di pianificazione familiare ecc. La spiegazione che viene proposta dagli studiosi, anche se la prova è difficile da dare, è che questi cambiamenti sono effetto di fattori che operano sugli stili di vita diffusi dalla televisione e dai mezzi di comunicazione di massa. In ogni caso il mutamento è in corso, è visibile ed è significativo, e per quanto ne sappiamo non sta cambiando direzione. È dunque possibile pensare che sia veramente in corso un rallentamento della crescita della popolazione mondiale tanto che è stato suggerito che oggi, per la prima volta nella storia della specie umana, stiano nascendo individui che vedranno l’inizio della diminuzione della popolazione mondiale. Sono speculazioni che non possono avere una conferma definitiva. Tuttavia, è certo che il consenso degli studiosi si è spostato dalle previsioni catastrofiche

degli ultimi decenni del XX secolo (da 30 a 60 miliardi nel XXI secolo) alle visioni più moderate degli ultimissimi anni, che prevedono un forte rallentamento della crescita demografica mondiale e quindi alla previsione di un raddoppio della popolazione da 6 a 12 miliardi assai più ritardato nel tempo e da alcuni anche messo in forse. Attualmente le stime delle Nazioni Unite prevedono una popolazione del pianeta di 8 miliardi e un quarto nel 2030, mentre se si tenesse lo stesso ritmo di crescita dell’ultimo secolo avremmo avuto 12 miliardi nel 2015 e 24 miliardi prima del quarto del XXI secolo. La differenza di queste cifre dà una misura del cambiamento di rotta già avvenuto nella grande nave della popolazione mondiale, un cambiamento che almeno nei prossimi decenni non subirà variazioni per l’abbrivio di questo tipo di fenomeni. Ma la quantità totale della popolazione del pianeta, benché sia un dato importantissimo, è uno solo degli aspetti della questione. In realtà, i maggiori problemi che tutti i paesi del mondo si troveranno ad affrontare in misura crescente nei prossimi decenni riguardano la distribuzione della popolazione nelle diverse aree del mondo, e tra aree urbane e non, e lo squilibrio tra risorse e popolazione: la crescita demografica varia profondamente da una parte all’altra del pianeta e questi squilibri danno origine al più generale fenomeno della mobilità delle persone che si traduce nell’urbanesimo (o urbanizzazione), cioè lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città e lo spostamento (che in parte coincide con il primo) dalle aree più povere a quelle più ricche, cioè il fenomeno della migrazione. A loro volta, tali grandi processi sociali sono strettamente collegati con lo sviluppo, caratteristico della nostra epoca, di tecnologie per la comunicazione fisica cioè i trasporti, e per la trasmissione di quella entità sempre più importante per la vita di tutti che è l’informazione. La combinazione delle ICTs (Information and Communication Technologies) e dei grandi spostamenti di popolazione e di cose, si inserisce in quella che è stata chiamata economia-mondo, caratterizzata da una diffusa e crescente mobilità di persone, merci, capitali e informazioni che investe tutto il globo terrestre, da cui il termine, malauguratamente assai abusato, di globalizzazione. Urbanizzazione Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI si verifica uno degli eventi più significativi della storia recente: per la prima volta nella storia la popolazione che vive in città supera il 50% della popolazione della Terra. Si tratta di un importante punto di svolta in un percorso che è iniziato molti millenni or sono, ma che ha avuto un’accelerazione considerevole nell’ultimo secolo e in particolare nell’ultimo quarto di secolo. L’importanza di questo sviluppo è enorme perché la popolazione urbana ha caratteristiche e comportamenti molto diversi da quella rurale. La più importante diversità risiede nel rapporto con il territorio. La popolazione urbana totale passa da 751 milioni nel 1960 a 1,543

miliardi nel 1975, a 2,862 miliardi nel 2000 e si prevede toccherà i 4,981 miliardi nel 2030. Mentre la popolazione rurale nello stesso periodo passa da 1,769 nel 1960 a 2,523 nel 1975, 3,195 nel 2000 e 3,289 nel 2030. In altre parole, mentre nel periodo considerato la popolazione del mondo si triplica e oltre, passando da poco più di 2,5 miliardi a 8,270 miliardi, la popolazione urbana è destinata ad aumentare più di sei volte, 6,63 volte, mentre la popolazione rurale aumenta meno di due volte. Che significano queste cifre? La popolazione rurale, specie nei paesi in via di sviluppo, in cui rappresenta ancora gran parte del totale, vive in larga misura del proprio raccolto, o della pesca e caccia, e ciascun individuo o piccolo nucleo dipende quindi dalle risorse di un territorio molto limitato. Invece la popolazione urbana, sia nelle aree più povere che in quelle più ricche, ma soprattutto nelle seconde, ha bisogno di essere nutrita e alimentata, soprattutto di materiale la cui produzione richiede un elevato consumo energetico. Per far fronte a questi bisogni è necessario innanzitutto che l’agricoltura diventi molto più produttiva, cioè che per ogni data unità di superficie, diciamo per ogni ettaro o chilometro quadro, si producano molte più unità di alimenti (sacchi di grano o di riso, quintali di frutta o verdura, damigiane di olio o botti di vino). Questo si ottiene con un miglioramento delle sementi, una maggiore potenza dei fertilizzanti e degli antiparassitari, il crescente impiego di macchine che consumano molta energia, come del resto la produzione dei fertilizzanti o degli altri prodotti chimici necessari per l’agricoltura. Inoltre sono necessari buoni sistemi di trasporti e di servizi per la produzione agricola, la sua gestione e trasformazione fino ai mercati finali. Ma queste condizioni non esistono dovunque, anzi esistono solo in luoghi e in paesi ben precisi che pertanto acquistano un vantaggio notevole sul mercato mondiale di questi prodotti. Facciamo l’esempio del grano, un alimento prodotto quasi dovunque nel mondo e utilizzato universalmente per il pane, le paste e altri alimenti a base di farina. Le migliori condizioni per la produzione del grano le troviamo nelle grandi pianure della parte centrale degli Stati Uniti e del Canada, dove esistono proprietà agricole immense di milioni di ettari e dove la meccanizzazione può essere utilizzata al meglio. È chiaro che la prima conseguenza è diretta, la manodopera umana scompare da queste produzioni e vengono applicate tecnologie e organizzazioni che determinano un vantaggio competitivo per questi paesi. Ma la crescita urbana non avviene con lo stesso ritmo in tutte le parti del mondo. Anzi, proprio durante il XX secolo è avvenuto uno straordinario scambio di posizioni. All’inizio del secolo tra le prime dieci città del mondo fuori dall’Europa troviamo solo Tokyo (al 7° posto con 1,5 milioni di abitanti) e Philadelphia (al 10° posto con 1,4 milioni di abitanti). Ai giorni nostri (dati 2015) in questa classifica non compare più nessuna città europea: Tokyo ha

scalato la classifica raggiungendo con 35,5 milioni la prima posizione, mentre ci sono prepotenti new entry, Mumbai, Mexico City e San Paolo seguono con più di 20 milioni di abitanti ognuna, ma sono soprattutto le megalopoli asiatiche a occupare posizioni preminenti nella classifica. Nel Novecento si sono verificati due giganteschi travasi. La proporzione di umani che viveva in ambiente rurale all’inizio del XX secolo si è spostata alla sua fine in grandissima parte in aree urbane. Nei paesi maggiormente sviluppati si è trattato di un vero e proprio capovolgimento di rapporti. Da 9 a 1 tra campagna e città, a 1 a 9. Nei paesi meno sviluppati la proporzione di popolazione in ambiente rurale è ancora relativamente elevata, nell’ordine del 50% circa alla fine del secolo, ma le quantità di popolazione inurbata sono grandemente superiori. L’altro grande travaso è costituito dallo spostamento della crescita urbana e dei tassi di urbanizzazione dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo, particolarmente asiatici. La rapidità ed estensione dell’inurbamento è stata tale che si è parlato in proposito di “esodo rurale”, un processo sociale che ha colpito l’Italia del dopoguerra. Per comodità di discorso si fa coincidere l’avvio dell’esodo rurale con l’alluvione del Polesine del 12 novembre 1951. In realtà l’esodo rurale italiano non è altro che il risvolto del cosiddetto “miracolo italiano”, il grande sviluppo economico basato originariamente sull’industria del “triangolo industriale” e poi via via esteso anche all’urbanizzazione senza industrializzazione di Roma, Napoli e in minor misura delle altre grandi città. Questo ciclo di sviluppo provocò uno spostamento interno di popolazione tra i più consistenti al mondo. Al suo apice in Italia si spostò dalle periferie del sistema, dalle aree rurali, e soprattutto da quelle montane povere delle Alpi e degli Appennini, una proporzione di persone che raggiunse il 30 per mille dell’intera popolazione. Per dare un’idea, in quello stesso periodo il grosso dei paesi europei sperimentava tassi attorno al 3-4 per mille, e solo due paesi, Taiwan e Corea del Sud, toccarono punte superiori, mentre Spagna e Giappone ebbero tassi simili a quelli italiani ma molto meno elevati. Questo travaso non poteva lasciare immutate le condizioni sociali e fisiche dei punti di origine e neppure quelle dei punti di arrivo. Alla fine del secolo campagna e città sono termini quasi inutilizzabili per descrivere la situazione delle aree urbane e di quelle meno urbanizzate. Infatti la caratteristica principale delle popolazioni urbane è la loro totale dipendenza da un territorio tributario per quanto riguarda sia gli approvvigionamenti alimentari sia quelli energetici, sia in generale quelli di materie prime. Più popolosa è la città, più il territorio da cui la sua popolazione dipende è grande: si parla così di “impronta” che ogni abitante lascia sulla terra. Nelle economie di caccia e di raccolta il consumo giornaliero di energia di un individuo della specie umana era di 2500 calorie, tutte per il cibo, equivalenti al

consumo giornaliero di un delfino. Un contemporaneo usa in media 31.000 calorie, per la maggior parte estratte da combustibile fossile. Negli Stati Uniti il consumo medio è di sei volte tanto, poco meno di 200.000 calorie, l’equivalente del consumo della più grande delle balene. Dal Neolitico in poi ciascuno di noi ha una parte della Terra destinata al suo sostentamento, ma oggi oltre alla Terra ogni persona richiede un piccolo pozzo di petrolio, una piccola miniera, un pezzo di foresta, che rappresentano l’“impronta” che ognuno di noi lascia sulla Terra. Alcuni scienziati della città di Vancouver hanno cercato di calcolare quanto sia larga questa impronta. Circa 1,7 milioni di persone vivono nel milione di acri che circondano la città, ma hanno bisogno di 21,5 milioni di acri per essere mantenuti – campi di grano in Alberta, petrolio in Arabia Saudita, piantagioni di pomodoro in California, “e persone che vivono a Manhattan dipendono da risorse lontane non meno degli astronauti sulla MIR”. L’impronta varia a seconda del modo in cui decidiamo di vivere, in particolare di quanti e quali consumi ci possiamo permettere. In Cina l’impronta di ogni cinese è piccola in confronto alla nostra, ma dal 1990 al 2010 il reddito pro capite di quella nazione è passato da 316 a 4514 dollari. I cinesi macellano più maiali di qualsiasi altro paese, ma ci vogliono 4 libbre di grano per produrre una libbra di maiale e ci vuole una tonnellata d’acqua per produrre un chilo di grano. Così la campagna, che all’inizio del XX secolo circondava le città di campi coltivati e di villaggi abitati, è rimasta tale solo nell’immaginario delle canzonette e nelle pubblicità alimentari. Per produrre le bistecche e gli ortaggi che gli abitanti delle città consumano ogni giorno in grande quantità le campagne si sono profondamente trasformate e industrializzate. Ma anche le città si sono allontanate dal modello ideale rimasto nella memoria e nei cuori delle generazioni passate, di un denso abitato di quartieri caratteristici attorno alla piazza centrale su cui si affacciano il duomo o la cattedrale e il municipio. Per la parte centrale del XX secolo in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti d’America, si sono sviluppate le metropoli di prima generazione caratterizzate da un centro (o “core”) e da un ampio territorio di fasce periferiche (sobborghi o “fringes”), da cui ogni giorno entrano verso il centro i “pendolari”, una nuova specie urbana nata dalla forte scissione tra luogo di abitazione e luogo di lavoro, che a sua volta è resa possibile dall’enorme diffusione di mezzi di trasporto rapidi, ferrovie, metropolitane regionali, ma soprattutto gli autobus e le automobili private. Verso la fine del XX secolo compaiono anche nuove specie urbane, i visitatori o “city users”, da cui le città di tutto il mondo dipendono sempre più per le loro entrate: turisti, visitatori di monumenti, musei e mostre, partecipanti alle Olimpiadi e alle grandi esposizioni, pellegrini dei grandi eventi religiosi a Roma, La Mecca, Gerusalemme o Varanasi (Benares) o manifestanti politici dei movimenti antiglobalizzazione, da Seattle a Porto Alegre, a Genova e Firenze, a Mumbai. Nasce un tipo di metropoli nuovo rivolto all’attrazione di

vari tipi di ospiti con grandi investimenti per le strutture di accoglienza e per l’immagine, nel quadro di una nuova disciplina che si chiama appunto “city marketing and branding”. Contemporaneamente, le più grandi di queste nuove forme urbane si collegano tra di loro anche fisicamente, formando grandi corridoi urbanizzati come quello che collega Milano a Torino, o Piacenza a Rimini, il Nord dell’Europa a Milano, la costa orientale degli Stati Uniti, da Boston a Washington (BOWASH), la costa meridionale della Cina, l’asse Tokyo-Yokohama. Queste nuove entità urbane sono la nuova forma di insediamento urbano e non hanno ancora un nome ben preciso. Il geografo americano Jean Gottmann ha proposto il nome di megalopoli, mentre le Nazioni Unite hanno di recente adottato il termine di MURs, Mega Urban Regions, Grandi Regioni Urbane. In mezzo sono stati proposti centinaia di nomi che servono assai più a solleticare il gusto retorico dei loro autori che a proporre una tassonomia utilizzabile per un fenomeno assolutamente nuovo. È certo che in ogni caso si tratta di una nuova forma di città che va molto oltre sia della forma urbana metropolitana che dei normali confini amministrativi di una città o di un’area metropolitana, e che autorizza quindi l’appellativo di meta-città nel senso letterale del greco “meta” (al di là). Si tratta comunque di sistemi urbani fortemente basati sulla mobilità e quindi con un elevato consumo di energia e produzione di sostanze inquinanti. Immigrazione e povertà Mentre nelle sue fasi iniziali la crescita delle città era soprattutto dovuta all’inurbamento di contadini dalle aree circostanti, già a partire dalle grandi migrazioni transoceaniche dall’Europa alle Americhe del primo Novecento e con intensità crescente verso la fine del secolo, la crescita della popolazione mondiale si traduce in grandi migrazioni dalle aree povere alle aree ricche. Per capire come funziona la mobilitazione generale messa in moto dall’economiamondo possiamo pensare all’acqua in una grande tinozza a fondo piatto: se incliniamo la tinozza l’acqua si muove da una parte all’altra senza freni e tenderà a fuoriuscire e anche eventualmente a rovesciare il contenitore. Anche sul fondo di una barca di legno l’acqua si muove, ma il fondo della barca è fatto di molte costole di legno che, oltre a rendere più solido lo scafo, frenano il movimento dell’acqua trattenendola in vari scomparti. Certo, se l’acqua è molta succede come nella tinozza: la nave si rovescia, e questa è proprio la causa dell’affondamento di molte navi. Il nostro mondo assomiglia al fondo di una nave, la popolazione tenderebbe a muoversi cercando le migliori opportunità, ma è in parte trattenuta da molti scomparti che irrigidiscono il sistema: le regole dei singoli stati, i mezzi di trasporto, gli ostacoli geopolitici. E potremmo aggiungere per fortuna, perché la migrazione è in genere un’esperienza dolorosa per chi è costretto a praticarla, anche se il risultato è alla lunga sempre stato benefico per la società e fattore di progresso.

I motori dei grandi movimenti migratori sono complessi, ma possono essere ridotti a una spinta fondamentale: la ricerca di migliori prospettive future e la fuga da condizioni di vita insostenibili. Gli studiosi definiscono i primi fattori di attrazione o “pull” e i secondi fattori di espulsione o “push”. Ma nulla sintetizza più efficacemente l’insieme di questi fenomeni del titolo di un classico della filmografia italiana, Il cammino della speranza, che racconta le drammatiche vicissitudini di un gruppo di emigranti clandestini italiani attraverso le Alpi francesi, ricordandoci anche quanto in mezzo secolo siano cambiate le condizioni del nostro paese. Il cammino della speranza viene intrapreso ogni anno da milioni di persone che lo percorrono nelle condizioni più disperate, appesi con le masserizie a traballanti autocarri nel deserto, stipati in vecchie carrette del mare, con ogni tipo di imbarcazione e persino a nuoto nello Stretto di Gibilterra, oppure tra la Libia e le isole meridionali italiane, tra l’Albania e la Puglia, ma anche attraverso il Rio Grande tra Messico e Stati Uniti, verso il Giappone, l’Australia e i ricchi paesi arabi da tutte le parti dell’Asia. In tutti i punti in cui il mondo ricco e quello povero, il Nord e il Sud del mondo, come si dice convenzionalmente, si affacciano divisi da tratti di mare, fiumi, catene montane o semplici confini di reti metalliche. Quali sono i motori del “Cammino della speranza”? Essenzialmente due. Da un lato le differenze di condizioni di vita e le opportunità economiche: quando da una parte si può guadagnare in un giorno, sia pure lavorando duramente, quello che dall’altra non si riesce a mettere assieme in un anno, la spinta a muoversi diventa irresistibile. Ma vi è anche un secondo fattore estremamente importante, ed è quello demografico. Come abbiamo visto, i paesi ricchi in quasi tutto il mondo sono entrati nella fase detta “seconda transizione demografica”: la popolazione invecchia e il numero di figli scende a volte anche molto sotto la soglia di riproducibilità di 2,11 figli per donna fertile. Così la necessità di cure personali per una popolazione che invecchia in modo crescente rappresenta un mercato del lavoro estremamente favorevole per le popolazioni immigrate disponibili a fornire questi servizi, ma più in generale a far funzionare l’economia dei paesi ricchi che è ormai divenuta fortemente dipendente da manodopera straniera, soprattutto giovane. L’immagine popolare tende ad accentuare il profilo dell’immigrato come un disperato e reietto, ma non è un’immagine realistica. Intanto quasi dovunque il passaggio migratorio costa, e solo chi riesce a mettere insieme somme che non sono indifferenti per i paesi di origine se lo può permettere. Inoltre le teorie e le ricerche sulle migrazioni sono concordi nell’affermare che si muovono per prime le persone più intraprendenti, che rappresentano quindi una risorsa per la società di arrivo. Gli Stati Uniti – società quasi interamente costituita da immigrati, perché i locali, le popolazioni amerindie autoctone, rappresentano una porzione quasi insignificante del totale – sono un esempio lampante, ma

non l’unico. Australia, Nuova Zelanda, Nuova Caledonia sono addirittura nate da nuclei originari di deportati e galeotti. La stessa Europa non è altro che un’immensa spiaggia su cui si sono mescolate nei secoli le ondate delle migrazioni più varie, franchi, germani, unni, magiari, slavi, vichinghi insediati in Normandia e poi di lì risaliti in Inghilterra e discesi in Sicilia, greci, fenici, arabi, in un’incredibile sovrapposizione di tipi fisici e tradizioni culturali, politiche, economiche e religiose. Ma non sempre i costi personali attuali possono essere compensati dai futuri vantaggi collettivi. Le migrazioni sono un’esperienza costosa per chi la vive, ma la convivenza tra persone diverse per etnia, cultura, religione, stili di vita è ben lungi dall’essere un rapporto sociale semplice e pacifico. Non esiste un modello di integrazione unico, ogni esperienza storica ha trovato le sue soluzioni e ha incontrato problemi specifici. Quel che si può dire, anche guardando al futuro, è che le città sono per loro natura storica il luogo dove questo incontro si può svolgere al meglio perché le città sono sempre state luogo di mescolanza e di eterogeneità: la maggior parte delle città contemporanee è il prodotto di questi successivi arrangiamenti, da Trastevere, che era il luogo in cui si mettevano gli stranieri, ai Quartieri Spagnoli di Napoli, dove stavano acquartierati i soldati spagnoli e così via: ogni città porta i ricordi di queste diversità che hanno poi finito per diluirsi nella città esistente. Ma i meccanismi che portano a questo risultato non sono né facili né consolidati, né pacifici. Negli Stati Uniti per circa un secolo ha funzionato bene la compresenza di quartieri etnici, Little Italy, le Chinatown, i Ghetti ebraici, le Harlem, la tedesca Yorktown, in cui gli immigrati che arrivavano da paesi lontani potevano trovare un primo insediamento tra persone che parlavano la stessa lingua, mangiavano gli stessi cibi, vestivano allo stesso modo. Si pensò che partendo da questo “mosaico” di quartieri caratteristici la città potesse fungere da melting pot o crogiuolo, consentendo in un secondo momento l’integrazione. Poi ci si rese conto che per alcune popolazioni come gli americani di origine africana, che paradossalmente erano da considerare tra i primi venuti, anche se contro la propria volontà, prevalevano meccanismi discriminatori per cui la segregazione innescava un circolo vizioso di povertà, degrado, violenza e criminalità. Per rompere questo circolo vizioso si intervenne quindi con politiche attive come il “busing”, il trasporto forzoso per autobus di studenti dei quartieri più ricchi in scuole dei quartieri più poveri e viceversa. Ma questa politica creò un conflitto tale che dovette essere abbandonata. Di recente ad Amsterdam il comune cercò di evitare la formazione di concentrazioni di specifici gruppi etnici incentivando la ricollocazione di immigrati da aree dove erano in prevalenza verso tutti gli altri quartieri. Il successo di queste operazioni nel

ridurre la segregazione è stato molto modesto. Lo stesso si può dire per tutte le politiche intese a favorire il social mix, su cui si è aperto un grande dibattito. Marginale negli studi sulla segregazione risulta essere il riferimento al fenomeno del meticciato, cioè al processo di incontro e fusione di culture in relazione alle unioni tra persone appartenenti a gruppi etnici diversi; scarse sono pure le indagini sul ruolo e la posizione sociale dei meticci. Ci sono popolazioni meticce, come quelle creole o crioles, che sono diventate dominanti, altre che sono rimaste periferiche. In effetti il termine stesso oggi non ha molto senso: se dobbiamo credere alle parole degli esperti di genetica, è molto probabile che tra chi scrive e chi legge non vi siano altro che meticci in senso tecnico. Anche se pochi forse con forte componente afroasiatica, per le contingenze storiche. C’è chi ha sostenuto che il meticciato sarebbe solo un fenomeno di perdita di purezza dell’etnia bianca, ma vale anche in relazione alle altre etnie; nella popolazione afroamericana gli individui di pelle più chiara sono stati a volte discriminati perché discendenti degli schiavi privilegiati in quanto scelti per lavorare in casa e quindi in un certo senso collaboratori (in senso negativo) dei padroni. In realtà, tutte queste elucubrazioni sul meticciato non hanno alcuna base scientifica: non esistono differenze assolute, ogni società tratta questi problemi a modo suo e se è una buona società trova soluzioni ragionevoli. Altrimenti imbocca la strada della discriminazione e la storia ha finora provato che non funziona. I kanak della Nuova Caledonia sono perfettamente convinti di essere il popolo eletto, come lo erano i boeri sudafricani. Gli europei hanno imparato a spese di più guerre sanguinose che non esiste un popolo eletto: è una conquista che va tenuta in gran conto. Nel corso del XX secolo si sono chiusi due degli esperimenti più odiosi di segregazione razziale del mondo contemporaneo: la segregazione degli stati meridionali degli Usa che, non dimentichiamolo, è finita formalmente solo nel 1964 con l’approvazione del Civil Rights Act (gli ultimi linciaggi di memoria ufficiale si sono svolti in 1968, con tanto di cartoline ricordo); e l’apartheid del Sudafrica, abolito definitivamente nel 1991. Da queste esperienze possiamo ricavare un insegnamento che può essere circoscritto ad alcuni pochi fatti accertati. La società multiculturale, intesa come società in cui sono presenti popolazioni di culture diverse, è un dato di fatto, ma non dobbiamo illuderci che si tratti di uno stato pacifico della società. In futuro avremo un’espansione della mescolanza di culture diverse, ma anche, e questo è assai probabile, una crescita dei conflitti. Di contro, sappiamo che la mescolanza di culture diverse è fattore di arricchimento della società e di sviluppo economico, mentre è un’eredità storica del Novecento che tutte le esperienze segregazioniste, dalle più nefaste come il nazismo e il fascismo a quelle più recenti come l’apartheid sudafricano o il segregazionismo negli Stati Uniti, non hanno retto alla prova. Anche se il percorso si presenta accidentato, non ci sono

indicazioni basate sull’esperienza storica recente che ci si debba muovere in altra direzione che verso una crescente integrazione. Innanzitutto nel senso che la mescolanza di culture produrrà nuovi e originali modelli, com’è accaduto per l’Italia moderna, nata dalla combinazione di elementi germanici, latini, arabi – scriviamo con alfabeto latino, ma contiamo in arabo – e autoctoni (ma anche quella antica era una società multiculturale che prendeva il nome da Italos, re dell’Enotria, e comprendeva umbri, sabini, latini, osci, volsci, sanniti, illiri, veneti e iapigi) oppure per gli Stati Uniti d’America. Inoltre, nel senso di società in cui le diverse culture convivono senza rinunciare completamente alle reciproche identità, anche solo linguistiche. È il caso della più grande democrazia del mondo, l’India, o di paesi più piccoli come il Canada, la Svizzera o il Belgio e per certi aspetti anche la Spagna. La fratellanza universale non è dietro la porta, ma è ragionevole considerarla un’utopia non del tutto irrealizzabile. Alla metà del XX secolo, chi avesse affermato che democrazia e libertà erano alla portata di tutti sarebbe stato ferocemente schernito e zittito dal rumore degli stivali militari, eppure, con tutte le imperfezioni e le eccezioni gravi e da non sottovalutare, questa è proprio la situazione attuale, che rappresenta una delle più importanti eredità lasciataci dal Novecento. Energia e ambiente Le dimensioni della popolazione e la crescente trasformazione di centinaia di milioni e, in ultima analisi, di miliardi di individui da piccoli produttori di sussistenza in consumatori urbani sta cambiando profondamente il rapporto tra popolazione e ambiente. Intendiamoci, come abbiamo già visto, ogni popolazione vivente utilizza le risorse naturali, in alcuni casi in modo distruttivo. Da questo punto di vista anche la più primitiva delle tribù amazzoniche sfrutta a fondo il pezzo di foresta in cui ha insediato il proprio villaggio. La differenza con la situazione attuale è innanzitutto quantitativa. La tribù amazzonica che ha dilapidato la zona di foresta in cui si è insediata, divorando anche le larve degli insetti, a un certo punto si sposta di pochi chilometri più in là, apre un altro buco nella foresta ma intanto in poco tempo la foresta ha già riconquistato la terra abbandonata. La specie umana non è stata meno distruttiva nel passato. La Mezzaluna fertile, la grande area che fu la culla della civiltà urbana nell’area mesopotamica, subì un processo di salinizzazione che ne rese improduttive grandi estensioni per l’eccessiva irrigazione. L’irrigazione aumenta da 100 a 400 volte la produttività del suolo per la maggior parte dei raccolti, ma l’acqua lascia comunque dei sali nel terreno che, accumulandosi, lo rendono infertile. Oggi l’agricoltura usa a livello mondiale il 70% dell’acqua disponibile, ma in certi paesi fino al 95%, e si calcola che, nonostante tutte le tecnologie impiegate per ridurre i danni, ogni anno dall’1 al 2% delle terre coltivate si salinizza.

Oltre alla quantità, che come si visto è aumentata in forma geometrica, la nostra società ha aumentato anche il consumo di energia, infatti la civilizzazione in cui viviamo è, come dice Alain Gras, sociologo francese della tecnologia, una civiltà “termofossile”, nel senso che si tratta di una forma di civilizzazione interamente dipendente dall’impiego di combustibili “fossili”, termine che deriva da fossa, sepoltura, cioè combustibili derivanti dalla trasformazione di organismi avvenuta milioni di anni orsono. Il che significa, ovviamente, che a differenza del legno che può ricrescere questi combustibili non possono essere ricostituiti. Informazione La fine del XX secolo ha visto l’avvio della rivoluzione informatica, che continua oggi in modo virulento. Informazione è un termine che copre una grande quantità di significati e, come tutte le parole molto usate, tende a diventare familiare, ma poco chiara. Fortunatamente esiste una definizione tecnica della misura dell’informazione che dobbiamo a un genio del XX secolo, l’ingegnere americano Claude E. Shannon, il quale nel 1949 creò una formula matematica per misurare la probabilità che un messaggio inviato da un trasmettitore fosse interpretato correttamente da un ricevitore. Per esempio, nel caso più semplice, se si agita un cartello bianco che questo venga percepito come bianco, se si accende una luce che venga percepita come accesa, se si grida sì che si capisca che sia un sì. La formula di Shannon non risolve i problemi filosofici di cosa sia l’informazione, ma permette di misurare con grande precisione una quantità così definita, consentendo lo sviluppo di tutte le macchine che producono e trasmettono informazioni di cui oggi siamo totalmente circondati. La quantità minima di informazione, com’è noto, può essere espressa in bit, Binary Digit (una variabile che prende il valore di 0 o 1). Con una combinazione di zeri e uno si può contare (per esempio 0 = zero, 1 = uno, 10 = due, 11 = tre, 100 = quattro, 101 = cinque e così via) e fare tutte le operazioni algebriche, come ha dimostrato molto tempo fa il matematico Boole. Così, associando una serie di bits a un carattere, si possono scrivere tutte le lettere dell’alfabeto con 8 bits più qualche altro carattere speciale (virgola, punto eccetera) da 00000000 a 11111111. Questa serie, o “stringa”, di 8 zeri o uno si chiama Byte (Bynary Term) ma i francesi la chiamano più precisamente “ottetto”. Che bisogno c’è di scrivere numeri e lettere in questo modo? Se scrivessimo con carta e matita sarebbe una complicazione superflua (salvo il fatto che questi esercizi matematici che sembrano astrusi e inutili sono alla base della nostra civiltà materiale, che non si sarebbe sviluppata senza Boole, Shannon e molti altri che si sono “futilmente” rotti la testa per scoprire le proprietà degli zeri e degli uno). Ma se riusciamo a scrivere su un circuito elettrico che può chiudersi (1) e aprirsi (0) alla velocità della luce, si capisce come la tecnologia informatica (termine inventato dai francesi che sta per

information automatique) abbia utilizzato con grande successo questo modo di scrivere e far di conto. Dall’archeologia e dalla storia sappiamo che tutte le volte che si è presentata un’importante innovazione nel modo di comunicare (cioè manipolare l’informazione) si sono verificate delle grandi rivoluzioni sociali, ma anche dei profondi mutamenti culturali. È avvenuto una prima volta attorno ai sessantamila anni fa, quando la specie umana si è impadronita della capacità di usare il linguaggio, il che ha ovviamente stimolato una forte elaborazione simbolica che si è espressa nelle raffigurazioni pittoriche, nell’uso simbolico del proprio corpo con l’abbigliamento, i monili, le colorazioni. È avvenuto una seconda volta circa cinquanta secoli fa con l’invenzione della scrittura, che ha permesso lo sviluppo delle prime grandi città mesopotamiche, basate su un’organizzazione sociale complessa, resa possibile dalla scrittura. È accaduto nel 1450, quando Gutenberg inventò la stampa per caratteri mobili, cioè la possibilità di diffondere l’informazione a costi limitatissimi. E sta accadendo ora con la tecnologia elettronica dell’informazione. Paradossalmente, la materia su cui si scrive oggi con l’elettricità è la stessa con cui si scriveva con lo scalpello o con il calamaio degli scribi mesopotamici: la pietra, o meglio il silicio. Tanto che gli scienziati hanno denominato in tono scherzoso la piccola porzione di silicio su cui vengono incise le memorie elettroniche “chip”, che vuol dire scheggia ma, più tecnicamente, la piccola scheggia che gli abili artefici umani del Paleolitico facevano schizzare dalle selci per ottenerne degli strumenti appuntiti. La differenza è che con l’elettricità si può scrivere a un GHz (un miliardo di caratteri al secondo) e più, mentre con le nanotecnologie incorporate in qualsiasi chip che serve le decine di strumenti che usiamo ogni giorno – dal cellulare al televisore, al portatile – si possono “scrivere” miliardi di informazioni in un tempo infinitesimale, sulla base di quei calcoli 1/0 con le regole previste da Boole, Shannon o Wiener. Il risultato può sembrare banale, si fanno calcoli sempre più veloci, in numero sempre maggiore, su chip sempre più piccoli a costi sempre più ridotti. Secondo una famosa “legge”, cosiddetta di Moore, questi parametri raddoppiano ogni diciotto mesi. Le conseguenze di questa miniaturizzazione sono sconvolgenti: è possibile far svolgere a strumenti sempre più piccoli, sempre più potenti e sempre meno costosi un numero crescente di operazioni: contare, scrivere, inviare messaggi, creare e manipolare immagini e suoni, ordinare e confrontare tra di loro istantaneamente grandi quantità di dati, elenchi e numeri. Chiunque usi nelle sue principali funzioni un cosiddetto “telefonino”, tra rubriche, calendari, note, calcolatore, galleria di immagini, si porta in tasca l’equivalente di buona parte del lavoro svolto da una segreteria professionale, e segreteria di medie dimensioni, e ciò significa che da qualche parte nel sistema economico contabili e segretarie sono scomparse. Al loro posto sono comparsi tecnici informatici e

ingegneri, ma non è ancora chiaro se in questa trasformazione il conto vada in pari, cioè se il totale dei posti di lavoro persi nei settori obsoleti sia bilanciato da nuove mansioni; ma in ogni caso chi perde il lavoro riceve ben poco sollievo dal sapere che domani qualcun altro sarà occupato al posto suo. L’altro aspetto importante di questa innovazione tecnologica è la capacità di memoria. Tutti noi siamo ormai familiari con minuscoli strumenti trasportabili che contengono 256 kilobyte di memoria (1 kilobyte equivale a 1,024 byte) o con dischi fissi o trasportabili (iPod, cd, dvd) che contengono decine, o centinaia di megabyte o decine di gigabyte, miliardi di byte. Ma l’abitudine rischia di farci perdere il contatto con la concretezza delle cose. Sappiamo che una pagina stampata equivale da 1800 a 2000 byte e che la famosa biblioteca di Alessandria circa sette secoli fa conteneva 600.000 rotoli di papiro; secondo una stima riportata da Michael Lesk di Lucent Technologies per il Getty Information Institute,2 sulla base della divisione in capitoli dell’epica omerica, ogni papiro conteneva 25 pagine di testo per un totale, nella biblioteca, di 15 milioni di pagine, corrispondenti a 50.000 volumi di 300 pagine.3 Se raddoppiamo questa cifra in modo molto grossolano per includere il totale degli scritti conservati in altre civiltà coeve, per esempio India e Cina, possiamo stimare il totale dell’informazione scritta nel mondo antico in qualcosa tra i 60 e i 90 gigabyte, pari cioè alla capacità di un buon calcolatore per ufficio. Rapportato alla popolazione mondiale del tempo, che non superava i 250 milioni di persone, possiamo calcolare, nella stima massima, 360 byte a testa di informazione. Per una fortunata combinazione, conosciamo la stima dei volumi disponibili nelle biblioteche di tutto il mondo alla fine della Seconda guerra mondiale. James Bryant Conant, presidente della Harvard University, che aveva lavorato al Progetto Manhattan per la bomba atomica, e i suoi colleghi del Mit, preoccupati della possibilità che una guerra nucleare distruggesse tutto il sapere umano conservato nelle biblioteche, incaricarono i rispettivi bibliotecari di computare una stima quantitativa, che arrivò a un totale di 7.500 miliardi di byte o gigabyte. Nonostante la popolazione mondiale si fosse decuplicata, l’informazione totale è passata da 360 a 3000 byte a testa. Ma cinquant’anni dopo l’informazione disponibile nel mondo è aumentata in modo vertiginoso, perché a quella scritta se ne sono aggiunte molte altre in forma visiva e sonora. Una stima conservativa porta il totale a 13,5 esa​byte, cioè miliardi di gigabyte. Essendo la popolazione passata da 2,5 a 6 miliardi, oggi si può stimare che l’informazione pro capite sia di 2,25 miliardi di gigabyte. Si tratta di cifre mirabolanti. Cambia qualcosa? Ognuno è libero di giudicare, ma sembra proprio di sì. Intanto perché le macchine di queste tecnologie che si chiamano sinteticamente ICTs, Information and Communication Technologies, hanno una peculiarità: trattano non solo il lavoro intellettuale, ma direttamente il lavoro degli intellettuali, con conseguenze profonde che riguardano non solo

l’organizzazione materiale della vita, ma anche e soprattutto i contenuti simbolici. Alcuni diranno che l’aumento quantitativo dell’informazione non incide, e persino che incide negativamente sulla sua qualità, posizione sintetizzata nella frase “l’informazione non è conoscenza”. Ma questa frase dice poco o nulla se non si chiariscono meglio i termini: in realtà l’informazione (intesa correttamente come messaggio correttamente inteso) produce sempre una qualche conoscenza, altrimenti è semplicemente rumore (tecnicamente “noise”) e nel mondo contemporaneo anche la conoscenza, intesa come insieme di informazioni significativamente collegate, è aumentata in modo esponenziale. In nessun’altra civilizzazione l’organizzazione materiale delle attività quotidiane di miliardi di persone dipende tanto dalle conoscenze scientifiche e dalle loro applicazioni in prodotti di uso di massa tramite l’apparato produttivo: non vi è dubbio quindi che le conoscenze si siano ampliate nel XX secolo parallelamente all’informazione, e con analoga intensità. E non si tratta solo delle conoscenze strettamente tecniche, come una certa ideologia dei mezzi di comunicazione di massa vorrebbe far credere, ma di conoscenze in tutti i campi, compresi quelli musicali, artistici, letterari. Pensiamo, per fare un solo esempio tra i mille possibili, all’ampliamento delle conoscenze musicali che sono diventate un vero collante generazionale tra giovani dei ghetti urbani poveri e la platea mondiale (i Beatles, i Rolling Stones, Bono e gli U2, per citarne alcuni) e tra le culture musicali dei paesi di tutto il mondo, dall’Islanda all’Africa, ai Balcani, all’America Latina. L’ampliamento delle conoscenze nel XX secolo ha seguito la medesima accanita ricerca dei confini dell’esplorazione terrestre in tutte le dimensioni possibili. Si è scoperto e utilizzato l’infinitamente piccolo, l’atomo, e di lì alle componenti più minute della materia, il protone e gli elettroni che compongono l’atomo e i muoni, i quark e i fermioni che compongono il protone o nucleo dell’atomo. Si è appreso a usare l’immane energia prodotta dalla rottura dell’atomo (fissione) sia per costruire devastanti armi esplosive, sia per produrre energia elettrica. È appena il caso di ricordare che quando accendiamo la lampadina buona parte dell’energia che utilizziamo è prodotta da centrali nucleari, non nel nostro paese, che le ha considerate pericolose, ma nella vicina Francia. Possiamo volare a 11.200 km/h e possiamo lanciare meccanismi come lo Space Shuttle che raggiunge la velocità di 29.000 km/h. Ma forse l’invenzione che ha introdotto le trasformazioni più profonde è internet. Com’è noto, il concetto base di internet è bellico. Supponiamo, ragionavano i militari americani impegnati nella Guerra fredda contro l’impero sovietico, che un razzo sovietico penetri le difese americane e colpisca un centro di comunicazione telefonica: tutte le comunicazioni che vi arrivavano andranno perdute e si può cominciare a comunicare solo dopo che si siano fatte le riparazioni fisiche. Il paese sarebbe rimasto bloccato per un tempo inaccettabile per la sua sicurezza.

Per fare invece un esempio di vita quotidiana, immaginate di stare registrando una canzone tramite un microfono: se il registratore si rompe voi avete perso tutta la canzone, oppure ne rimangono solo brani inutilizzabili. Supponiamo invece di avere un sistema che prenda i suoni della vostra canzone e li impacchetti in tanti minuscoli “vagoncini”, ognuno dei quali contiene mittente e destinatario e numero del pezzo. Questi pacchettini sono indipendenti e non hanno bisogno di essere trasmessi sullo stesso canale. Uno va a Seattle via Washington e New Orleans, l’altro ci va via New York e Houston e via dicendo. Se cade una bomba o c’è un’inondazione che travolge New Orleans un certo numero di vagoncini andrà perso, ma si sa quali, per cui a Seattle il calcolatore che deve ricomporre la vostra canzone segna quali sono i vagoncini persi e chiede a Boston di rimandarglieli senza passare da New Orleans. Voi che state mandando o ricevendo il messaggio (e questo è il punto principale) non vi accorgete di nulla perché questi messaggi viaggiano a velocità straordinarie. Il miracolo è la complicata e smisurata infrastruttura fatta di strumenti (fili, ponti radio, satelliti, chip e ordinatori, schermi e via dicendo) familiarmente chiamata “ferraglia” (“hardware” in inglese) e di milioni di istruzioni o “protocolli” per farla funzionare correttamente, minuto per minuto, su scala mondiale, che si chiama appunto software, ma che i francesi chiamano ben più correttamente “logiciel”, il quale permette il funzionamento di questa immensa rete che ricopre l’intero pianeta come una coperta pulsante e che si chiama appunto La Rete (The Net). Va sottolineato che è stato possibile costruire internet solo grazie all’intervento statale, di uno Stato in quel momento particolarmente aperto alla collaborazione con gli scienziati. Senza l’intervento massiccio di uno Stato dotato di molte risorse è impossibile dar vita a queste grandi infrastrutture, come già fu con le strade romane, l’esplorazione dei mari, le vie ferrate e così via. Dobbiamo però la forma attuale dell’uso di internet, il World Wide Web o WWW, alla visione di uno scienziato come Berners-Lee, che al Cern aveva pensato al modo di mettere in contatto gli scienziati. Il risultato è quell’oggetto che oggi conosciamo e che ha cambiato la vita di tutti. La tecnologia dei trasporti e quella delle informazioni hanno creato negli anni recenti una situazione del tutto nuova che accentua i contatti, la mobilità e i confronti tra le diverse parti del mondo e, per quanto riguarda l’informazione, senza considerazioni pratiche di distanza di tempo. Si parla molto di “economiamondo” e/o “globalizzazione”, un termine purtroppo così usato e abusato che rischia di confondere le idee invece di chiarirle; inoltre, il termine suggerisce una novità, mentre anche in passato molte economie erano “mondiali”, dai romani ai cinesi o persino all’impero di Gengis Khan. In aggiunta alle riserve che occorre sempre fare quando si sente dire che un certo fatto è avvenuto anche in passato, giacché in passato è avvenuto tutto ma poi guardando bene la storia è

sempre diversa, vanno segnalati alcuni aspetti assolutamente originali che non solo fanno la differenza, ma sono poi quelli che ci interessano più da vicino, perché sono quelli più problematici. La prima differenza sta nella velocità degli scambi di informazioni e di cose. Quando il gesuita Matteo Ricci si recò in Cina su incarico del pontefice, agiva per conto di una potenza di natura “globale” come la Chiesa cattolica, ma il tempo necessario per uno scambio di missive con Roma era di oltre tre mesi. Oggi qualsiasi ascoltatore mattiniero del “Giornale Radio Rai 1” viene informato alle ore 5.30 dei valori di chiusura della Borsa di Tokyo, e poi di quella di Hong Kong, e se non ha sentito la radio può aprire internet e informarsi, come si dice, in tempo reale. Questo semplice fatto, e innumerevoli altri dello stesso genere, rende il sistema estremamente reattivo. Nel caso dei mercati azionari i prezzi tenderanno a livellarsi, e anche a creare grandi ondate speculative. Verso l’alto com’è avvenuto nel periodo delle bolla speculativa chiamata “New Economy”, e verso il basso quando vi fu il grande crollo e la crisi finanziaria. Ciò che vale per i mercati vale anche per altre informazioni non economiche, come quelle relative ai grandi fenomeni sociali o politici: pensiamo a eventi come il funerale di Lady Diana, alle finali olimpioniche, all’atterraggio del primo uomo sulla Luna. E il futuro? Il futuro si sta costruendo oggi, non tanto parlandone, anche se non si tratta di un’attività del tutto irrilevante, ma sulla base delle decisioni che in parte sono già state prese e in parte si vanno prendendo in ogni momento, mentre scriviamo e leggiamo, tanto che ci saranno note solo fra qualche tempo. Ma, come abbiamo visto, alcune grandi navi della società sono già in viaggio e possiamo anticiparne il corso. La popolazione mondiale continuerà a crescere, anche se con tutta probabilità meno di quanto non abbia fatto nel XX secolo. È persino possibile che nella seconda metà del XXI secolo la popolazione mondiale si stabilizzi, ma questo non lo possiamo dire con certezza. Attualmente le previsioni delle Nazioni Unite danno per il 2030 una popolazione di 8,270 miliardi con una crescita, dall’inizio del secolo, di 2,213 miliardi di persone. L’altra nave in cammino è quella dell’urbanizzazione: dei 2 miliardi e 213 milioni di aumento di popolazione mondiale previsto tra il 2000 e il 2030 le Nazioni Unite stimano che 2,119 milioni siano di popolazione urbana e solo 94 milioni, cioè poco più del 4%, rappresentino la crescita della popolazione rurale. La crescita urbana è quindi destinata ad aumentare, ma si attuerà in grandissima parte nelle grandi MURs, Mega Urban Regions, delle aree meno sviluppate o dei grandi paesi asiatici, India e Cina, in via di rapido sviluppo in questi anni. Non è facile prevedere le conseguenze di questa tendenza, ma sappiamo che la popolazione urbana consuma di più e lascia quindi un’“impronta” sul pianeta

molto più pesante della popolazione non urbana. È facile prevedere che vi saranno delle crisi, soprattutto in campo energetico, perché la competizione per le energie “fossili”, cioè disponibili solo in quantità finite e peraltro prossime a finire, sarà elevatissima e gravida di rischi enormi. È anche probabile che l’accresciuto contributo che una molto più grande popolazione urbana darà allo squilibrio ambientale aumenti il rischio di eventi disastrosi per tutti quegli insediamenti urbani che si trovano in condizioni precarie dal punto di vista ambientale. Il caso, prevedibilissimo e ampiamente previsto, della catastrofica inondazione di New Orleans di fine agosto del 2005 non è purtroppo destinato a restare isolato. San Francisco, Los Angeles e Tokyo, con le loro decine di milioni di abitanti, sono costruite su zone sismiche inevitabilmente destinate a produrre scosse di grandi dimensioni. Nell’area metropolitana di Napoli centinaia di migliaia di persone sono insediate sulle pendici del Monte Vesuvio che nell’anno 79 della nostra epoca si produsse in un grandioso terremoto di cui sono rimaste le tracce in Ercolano e Pompei. Le città costruite sul livello del mare sono destinate a subire inondazioni ingenti se, come pare, il livello dei mari aumenta. Tuttavia, le città rimangono ancora le aree meglio protette per la popolazione, che del resto difficilmente vi si dirigerebbe se così non fosse. I problemi più gravi si verificheranno sicuramente nelle aree rurali: è lì che gli effetti del cambiamento climatico si combineranno con lo sfruttamento sempre più intensivo delle risorse e con la crescita del degrado ambientale. Le previsioni sugli stili di vita, la qualità della vita, i comportamenti e i valori che prevarranno nel mondo nei prossimi decenni sono le più difficili da fare. E per una ragione molto semplice, che di solito sfugge a chi in queste previsioni si cimenta, che ha a che fare con quello che potremo chiamare il grande paradosso generazionale. Dai tempi dei tempi le generazioni adulte o anziane percepiscono il mutamento come una perdita di valori, un degrado della moralità, un diffondersi di facili costumi. Se ciò fosse vero, di degradazione in degradazione, l’umanità sarebbe scesa dalla civiltà all’inciviltà, il che è palesemente falso. Anche se in ogni tempo vi sono moralisti incalliti convinti che vi sia stata una età dell’oro di cui un Prometeo un giorno ci ha privato. È chiaro quindi che la lamentela degli anziani è frutto di una incomunicabilità strutturale. I giovani, è facile intuirlo, non possono avere la più pallida idea di che significhi essere vecchi, non potendone avere esperienza diretta. I vecchi, invece, l’esperienza di essere giovani l’hanno avuta, ma per lo più ne hanno persa memoria e rileggono la loro gioventù in modo distorto e ideologico, in base alle convinzioni che si sono fatti nel tempo. E anche i pochi che hanno l’onestà e le capacità intellettuali per ricordare esattamente, come sono capaci di fare alcuni poeti e artisti, sono comunque sviati dal ricordare l’essere giovani in un contesto che è sempre e comunque molto diverso dal presente. E se non riescono a rivivere il loro passato, come possono, coloro che fanno previsioni, immaginare come sarà un futuro che verrà costruito da chi oggi è in grado di costruirlo, cioè

prevalentemente i giovani che inevitabilmente al futuro si avviano con una buona dose di cecità? Di fatto, per fortuna di tutti, l’incomunicabilità del grande paradosso generazionale non è totale, com’è provato dalla storia: tra le varie generazioni passano esili fili di esperienza, grazie ai libri, alle parole, ai suoni, alle immagini e alle tracce della cultura materiale. Chi trasmette la propria esperienza ha l’ambizione e l’illusione di consegnare al destinatario un messaggio esauriente, in cui ogni virgola, ogni accento ha un significato ben preciso che non dovrebbe andare perduto. Ma il destinatario recepisce solo dei frammenti e li riutilizza come meglio gli riesce: solo con lo studium, cioè la fatica dell’imparare, che va molto al di là di quella che ci viene imposta nelle aule scolastiche, ciascuno di noi riesce a dare un senso più o meno coerente ai frammenti della propria vita, unendoli ai frammenti dell’esperienza della vita di chi ci ha preceduto, in un’opera di costruzione del futuro sul passato che non ha mai fine. Note 1 La Torrey Canyon si arenò al largo della Cornovaglia nel 1967, causando il primo rilevante disastro ambientale dovuto allo sversamento in mare di grandi quantità di petrolio e alla successiva contaminazione costiera da parte del petrolio fuoriuscito. 2 E riassunta da Philip e Phylis Morrison nella rubrica Wonders del luglio 1998, The Sum of Human Knowledge?, in “Scientific American”, luglio 1998, pp. 95, 97, da cui traiamo i clad per questa nota. 3 O di 60.000 volumi di 250 pagine, se si usa il criterio adottato dagli stessi autori per stimare l’informazione contemporanea.

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Indice

PREFAZIONE di Serena Vicari Haddock SEI LEZIONI SULLA CITTÀ Introduzione Prima lezione Cos’è la città? Seconda lezione Le origini della città Terza lezione Dalla metropoli alla meta-città Quarta lezione Le disavventure del bardo urbano Quinta lezione Città e violenza Sesta lezione Una città per tutti? BIBLIOGRAFIA