La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro

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La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro

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i Robinson / Letture

Di Gino Roncaglia nelle nostre edizioni:

(con F. Ciotti) Il mondo digitale. Introduzione ai nuovi media (con M. Calvo, F. Ciotti, M.A. Zela) Internet 2004. Manuale per l’uso della rete

Gino Roncaglia

La quarta rivoluzione Sei lezioni sul futuro del libro

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9299-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice

Introduzione I.

VII

Il libro e il cucchiaio

3

1. Straniero, fermati e leggi: l’importanza del supporto, p. 3 - 2. Interfacce: la dolce voluttà, p. 5 - 3. Interfacce fisiche, interfacce logiche, p. 9 - 4. Le situazioni di fruizione del testo: «lean forward», «lean back», fruizione secondaria, mobilità, p. 14 - 5. Cos’è un libro?, p. 18

II.

Il libro magico del cancelliere Tusmann

25

1. Un sogno o un incubo per il bibliofilo?, p. 25 - 2. Cos’è un libro elettronico?, p. 31 - 3. Alcuni requisiti e un tentativo di definizione, p. 38

III.

Dalla carta allo schermo (e ritorno?)

52

1. Alla ricerca dell’e-book perfetto, p. 52 - 2. Le origini, p. 58 - 3. Gli anni ’80 e ’90, p. 68 - 4. A cavallo del nuovo millennio: la prima generazione di dispositivi di lettura dedicati, p. 75 - 5. Protagonisti nascosti: il ruolo dei computer palmari, p. 81 - 6. Interludio: la lezione di un fallimento, p. 87 - 7. L’e-paper al potere: la seconda generazione di dispositivi dedicati, p. 96 - 8. Dall’iPhone all’iPad, passando per Android: verso la terza generazione?, p. 111

IV.

Problemi di forma

123

1. La rappresentazione del testo, p. 123 - 2. Se il testo è nudo..., p. 131 - 3. PDF: quando la pagina è tutto, p. 138 - 4. Ci prova anche la Microsoft (o forse no...), p. 143 - 5. I fran-

V

cesi e gli Yankee: da Mobipocket al Kindle, passando per Amazon, p. 147 - 6. Formati aperti e mobili Ikea: da OEB a ePub, p. 154

V.

Da Kant a Google: gestione dei diritti e dei contenuti digitali

164

1. Quali diritti e quali interessi tutelare?, p. 164 - 2. Professioni a rischio?, p. 168 - 3. Proteggere a tutti i costi? DRM, pirateria e i rischi della balcanizzazione, p. 175 - 4. Google Books: le ragioni di un progetto, p. 183 - 5. Entrano in scena gli avvocati, p. 186 - 6. Quale ruolo per l’Europa e l’Italia?, p. 193 - 7. Google e la concorrenza, p. 197 - 8. La questione dei formati e della qualità, p. 199 - 9. Uno sguardo al futuro (e al problema della conservazione), p. 203

VI.

Quali libri ci aspettano?

207

1. Volta la pagina, e premi ‘play’, p. 207 - 2. Un libro per Platone?, p. 210 - 3. Ipertesti, p. 213 - 4. Il mondo è diventato un posto migliore?, p. 226 - 5. Libri che si aggiornano da soli, p. 229 - 6. L’e-book a scuola, p. 233

Conclusioni: falsi pretendenti e legittimi eredi

238

Note

247

Bibliografia e risorse di rete

269

1. Bibliografie generali e risorse di riferimento in rete, p. 269 - 2. Alcuni testi di riferimento, p. 271 - 3. Opere e lavori citati o utilizzati, p. 272

Fonti delle illustrazioni

287

Introduzione

Nel 1951 Isaac Asimov – forse il più noto scrittore di fantascienza del secolo scorso – pubblicava su una rivista per ragazzi, «The Boys and Girls Page», un breve racconto che sarebbe diventato un piccolo classico del genere: Chissà come si divertivano! Nel racconto, ambientato nel 2157, due bambini trovano un vecchio libro su carta che parla della scuola, e riflettono con una certa nostalgia sulle differenze fra la didattica di un tempo, quando studenti e insegnanti si ritrovavano insieme nelle aule scolastiche, e quella – completamente individuale e computerizzata – che l’autore immagina alla base dell’educazione nel XXII secolo. Il racconto si apre con una descrizione stupita del libro a stampa, residuo di un’epoca ormai superata e quasi dimenticata: Margie lo scrisse perfino nel suo diario, quella sera. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157, scrisse: “Oggi Tommy ha trovato un vero libro!” Era un libro antichissimo. Il nonno di Margie aveva detto una volta che, quand’era bambino lui, suo nonno gli aveva detto che c’era stata un’epoca in cui tutte le storie e i racconti erano stampati su carta. Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com’era previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c’erano le stesse parole che loro avevano già letto la prima volta. – Mamma mia, che spreco – disse Tommy. – Quando uno è arriVII

vato in fondo al libro, che cosa fa? Lo butta via, immagino. Il nostro schermo televisivo deve avere avuto un milione di libri, sopra, ed è ancora buono per chissà quanti altri. Chi si sognerebbe di buttarlo via? – Lo stesso vale per il mio – disse Margie. Aveva undici anni, lei, e non aveva visto tanti telelibri quanti ne aveva visti Tommy1.

Nel 1951 il nuovo medium per eccellenza era la televisione, e i ‘telelibri’ immaginati da Asimov sostituivano lo schermo televisivo alla carta. Poco più di un decennio dopo venne effettivamente fatto un tentativo di questo tipo: il VERAC 903, un prototipo sviluppato dalla AVCO Corporation nel 1964, una curiosa ‘macchina per la lettura’, di cui parleremo brevemente in seguito, che la scomodità e la scarsa resa visiva non permisero di commercializzare. In un certo senso, il ‘teletext’, e la sua incarnazione italiana, rappresentata dal televideo, si sono mossi nella stessa direzione; ma oggi, a sessant’anni di distanza dal racconto di Asimov, possiamo ragionevolmente ipotizzare che a sostituire la carta come supporto per la lettura non sarà – fortunatamente – lo schermo della televisione, nel frattempo assai cambiato ma oggi come allora scomodo, ingombrante e difficile da trasportare. Tuttavia, se nel brano di Asimov cancelliamo la parola ‘televisivo’ e sostituiamo ‘libri elettronici’ a ‘telelibri’, ci troviamo improvvisamente davanti a una situazione assai simile a quella promessa dallo sviluppo degli e-book. Una situazione in cui, proprio come immaginava Asimov, il testo si separa dal tradizionale supporto cartaceo e viene letto sullo schermo di dispositivi capaci di visualizzare senza problemi milioni di libri diversi. È questo il futuro che ci aspetta? E che conseguenze può avere uno sviluppo di questo tipo sul libro come oggetto culturale, strumento per eccellenza di conservazione e trasmissione del sapere? Il mondo in cui viviamo è, per molti versi, un prodotto della cultura del libro. Il nostro vivere sociale è basato non solo sulla scrittura, ma sulla scrittura organizzata in libri. I libri sono onnipresenti, come oggetti (non solo nel campo dell’editoria tradizionale) e come metafore. Per fare solo qualche esempio, la nostra educazione scolastica è ancora largamente basata sui libri di testo. Galileo considera la natura come un libro scritto in linguaggio matematico, e il bel libro di Hans Blumenberg sulla leggibilità del mondo2 mostra in quanti modi e in quante forme l’idea del monVIII

do come libro e del libro come rappresentazione del mondo abbia attraversato la nostra cultura. Il Dio delle grandi religioni monoteiste parla attraverso un libro, e non a caso il Corano chiama “Ahl al-Kitab”, “genti del libro”, i seguaci non solo delle tre ‘religioni del libro’, che condividono la fede nell’origine divina di almeno parte dell’Antico Testamento, ma anche induisti e zoroastriani, le cui religioni sono comunque guidate da testi ritenuti di origine divina. La rivoluzione gutenberghiana e la diffusione della stampa sono fra i fattori alla base della diffusione della Riforma protestante, che propone l’idea ‘scandalosa’ della lettura individuale della Bibbia. La nostra legislazione prevede fra i primi obblighi di una società per azioni la tenuta dei libri sociali (libro dei soci, libri delle adunanze, libri degli strumenti finanziari...). I libri contabili sono alla base dell’evoluzione del nostro sistema economico, a partire almeno dalle scritture contabili dei mercanti medievali e dall’introduzione della partita doppia nella seconda metà del XV secolo. E si potrebbe continuare a lungo. Se i libri, nella nostra storia e nel nostro panorama sociale e culturale, compaiono ovunque, capire cosa si intenda esattamente con il termine ‘libro’ è, come vedremo, assai più complesso. Il libro per eccellenza, la Bibbia, è nato quando supporti per la scrittura erano ancora le tavolette di argilla e i rotoli, ed ha assunto la forma di ‘codex’, di libro rilegato, solo molti secoli dopo. Ma oggi, qualunque accezione si dia al termine, nel pensare al libro non possiamo fare a meno di richiamare – come fa Asimov nell’apertura del suo racconto – non solo una forma testuale ma anche e forse soprattutto una forma fisica. Un insieme di fogli (le pagine) scritti e rilegati, a comporre un oggetto dalle caratteristiche e dalle dimensioni certo variabili, ma di norma abbastanza facilmente riconoscibile. Molti di noi potrebbero aver problemi nel riconoscere che un certo insetto è un carabide, o che una certa nuvola è un cumulonembo, ma ci aspettiamo tutti di saper riconoscere che un certo oggetto è un libro, quando ne vediamo uno. Il libro è dunque un oggetto familiare, di cui conosciamo storia, scopi, natura. Un oggetto che sappiamo come selezionare e produrre (ci pensano gli editori con l’aiuto delle tipografie), che sappiamo come promuovere (pubblicità, recensioni, premi letterari...), che sappiamo dove acquistare (librerie, edicole), che – se è in una lingua che conosciamo – sappiamo come leggere (non soIX

lo perché sappiamo decodificare il testo scritto, ma anche perché sappiamo usare una matita per sottolinearlo o un segnalibro per ritrovare la pagina alla quale ci eravamo fermati), che sappiamo come conservare e rendere accessibile anche a chi non può o non desidera acquistarlo, o quando il libro non è più in commercio (è compito delle biblioteche). Ma negli ultimi anni la situazione sembra essere improvvisamente e radicalmente cambiata. L’introduzione e la diffusione del personal computer prima e delle reti poi offrono ai testi supporti diversi da quelli tradizionali, diversi in primo luogo dalla carta stampata e dai libri. La pagina è sostituita dallo schermo, i caratteri stampati si trasformano in bit. E il libro – o almeno, il libro al quale siamo abituati – sembra minacciato su più fronti. Nuove forme di testualità (siti web, ipertesti...) si propongono come alternative alla struttura fondamentalmente lineare che di norma lo caratterizza. Nuovi meccanismi di selezione e produzione mettono in crisi procedure e consuetudini radicate del mercato editoriale. Nuovi canali di distribuzione via rete saltano completamente i punti-vendita fisici e dunque le librerie tradizionali. La facilità di duplicazione e diffusione – anche pirata – dei testi elettronici sembra rappresentare un pericolo mortale per le forme tradizionali di gestione dei diritti e dei ricavi economici. Nuovi supporti e strumenti di lettura richiedono competenze nuove sia agli editori, sia ai lettori, sia alle biblioteche e ai bibliotecari. Stiamo insomma vivendo una vera e propria rivoluzione, che molti ritengono, per ampiezza e importanza, paragonabile a quella gutenberghiana, e che alcuni – ad esempio Roger Chartier – considerano addirittura più radicale: La rivoluzione che viviamo ai giorni nostri è, con ogni evidenza, più radicale di quella di Gutenberg, in quanto non modifica solo la tecnica di riproduzione del testo, ma anche le strutture e le forme stesse del supporto che lo comunica ai lettori3.

Se consideriamo il passaggio da oralità a scrittura come la prima, fondamentale rivoluzione nella storia dei supporti e delle forme di trasmissione della conoscenza, il passaggio dal volumen al codex, dalla forma-rotolo alla forma-libro, come una seconda tappa essenziale di questo cammino, e la rivoluzione gutenberghiana X

come suo terzo momento, si tratta della quarta rivoluzione che interessa il mondo della testualità4. Una rivoluzione al cui interno non è però affatto facile orientarsi. Dove sta andando il libro? È veramente minacciato? Le nuove tecnologie rappresentano per la cultura del libro un pericolo o un’opportunità (o entrambe le cose)? Di quali competenze abbiamo o avremo bisogno, per poter continuare a scrivere, a pubblicare e soprattutto a leggere? È a questi interrogativi – e a questa esigenza di orientamento – che il testo che avete in mano vorrebbe cercare di dare qualche risposta. Nel farlo, mi farò guidare da una tesi che credo debba essere assunta come punto di partenza per ogni riflessione sul futuro del libro: il supporto del testo, quella che chiameremo ‘interfaccia di lettura’, ha un ruolo centrale nell’evoluzione dei modi e delle forme della lettura. Si tratta di una tesi non certo originale – ne troviamo ad esempio traccia nelle riflessioni di Harold Innis sulle differenze fra media orientati alla permanenza nel tempo, come la pietra, e media orientati al movimento nello spazio, come la carta5 – ed espressa con grande chiarezza da Guglielmo Cavallo e Roger Chartier nell’introduzione alla loro Storia della lettura: Contro la rappresentazione, elaborata dalla letteratura stessa e ripresa dalla più quantitativa delle storie del libro, secondo la quale il testo esiste di per sé, svincolato da ogni materialità, bisogna ricordare che non vi è testo senza il supporto che lo offre alla lettura (o all’ascolto), senza la circostanza in cui esso viene letto (o ascoltato). Gli autori non scrivono libri: essi scrivono testi che diventano oggetti scritti – manoscritti, incisi, stampati, e, oggi, informatizzati – maneggiati in maniere diverse da lettori in carne ed ossa le cui modalità di lettura variano secondo i tempi, i luoghi, i contesti6.

E il supporto non è neutrale, non si limita a veicolare indifferentemente qualunque contenuto e qualunque forma di organizzazione testuale. Al contrario, le caratteristiche del supporto, e più in generale gli strumenti e il contesto materiale della lettura, costituiscono l’orizzonte al cui interno certe forme di testualità e certe tipologie di lettura risultano possibili e più o meno facili. Discutere delle caratteristiche e dell’evoluzione delle interfacce di lettura vuol dire discutere anche di quali tipologie di testi leggeremo in futuro, e di come li leggeremo. XI

Proprio per questi motivi, dedicherò attenzione anche ad aspetti che potrebbero sembrare strettamente tecnologici, come l’evoluzione dei dispositivi di lettura e dei loro schermi. Nel farlo, però, cercherò di evitare per quanto possibile tecnicismi, e di spiegare in maniera accessibile i concetti e gli strumenti di cui si parla. In generale, il mio obiettivo è di rendere questo libro il più possibile semplice e comprensibile. Non vorrei infatti rivolgermi solo agli ‘addetti ai lavori’ e agli esperti di nuovi media: credo che il tema dell’evoluzione del libro e dei dispositivi di lettura possa e debba interessare un pubblico assai più ampio, quello dei lettori, di chi ama i libri e considera la lettura come, insieme, un piacere e una necessità. Anche per questo, ho cercato di limitare per quanto possibile l’apparato ‘accademico’ del testo. Senza farlo scomparire, perché fornire rimandi, citazioni, indicazioni per approfondimenti è parte del compito non solo di un testo strettamente di ricerca, ma anche di un buon lavoro di divulgazione (il confine fra queste due tipologie è del resto spesso esile: il tentativo di sistematizzare e fornire uno sguardo coerente e d’insieme obbliga spesso a un lavoro di ricerca e interpretazione più impegnativo di quello richiesto da un’indagine settoriale e specifica). Ho tuttavia cercato di tener presente che una quantità eccessiva di note e rimandi può appesantire non poco la lettura, e soprattutto che in molti casi proprio gli strumenti di ricerca e documentazione via rete possono efficacemente aiutare nel recuperare informazioni di corredo. Così, ad esempio, ho evitato di indicare in nota che il passo in cui Galileo paragona la natura a un libro scritto in lingua matematica si trova nel sesto capitolo del Saggiatore (basta una ricerca su Google per trovare non solo questa informazione ma l’intero passaggio, collocato nel suo contesto), o quali siano i principali fra i molti passi del Corano in cui si parla delle “genti del libro” (anche qui, la rete ci aiuta immediatamente, e già la voce “People of the Book” su Wikipedia fornisce al riguardo un buon punto di partenza). Certo, utilizzare Internet per recuperare queste informazioni può porre problemi di formulazione della ricerca e di selezione fra fonti più o meno affidabili, e d’altro canto non è affatto vero che in rete si trovi qualunque informazione, o che le fonti informative reperibili in rete siano automaticamente le più complete e le più utili. È anche per questa ragione, come vedremo nella quinta lezione, che la digitalizzazione libraria è un settore così rilevante XII

per i motori di ricerca. La stessa Wikipedia, soprattutto nelle versioni diverse da quella in inglese (che può contare su un numero assai maggiore di collaboratori e revisori), è ben lontana dall’essere quello strumento universale e totalmente affidabile che molti studenti pensano di avere a disposizione. Proprio per questi motivi, farò ricorso comunque a note e rimandi sia per tutte le citazioni letterali, sia in tutti i casi (e non saranno pochi) in cui mi sembrerà opportuno indicare al lettore strumenti e approfondimenti specifici, soprattutto nei passaggi più rilevanti per la mia argomentazione, e in quelli relativi a temi più specialistici. Ma senza pretendere di fornire un quadro completo ed esaustivo di un dibattito critico che è spesso estremamente complesso e articolato. Questa avvertenza riguarda in modo particolare la prima lezione, in cui mi occupo del libro come interfaccia di lettura e in cui convergono considerazioni legate da un lato alla storia del libro e della lettura, dall’altro al campo dei media studies, e da un altro versante ancora alle discussioni sul concetto di interfaccia e usabilità. Fornire rimandi puntuali e riferimenti bibliografici completi o anche solo orientativi sull’insieme di questi settori avrebbe trasformato il capitolo in una trattatazione probabilmente più rigorosa ma certo assai più lunga, faticosa e dispersiva, con il possibile risultato di far perdere di vista quelli che sono a mio avviso i punti chiave del problema (e dell’argomentazione). Ho preferito evitarlo, anche a rischio di una certa naïveté espositiva. Lo stesso obiettivo di massima accessibilità mi ha spinto a usare traduzioni italiane per tutte le citazioni. È bene spiegare brevemente anche la decisione di organizzare questo libro in ‘lezioni’, che cercano di conservare – per quanto possibile – la forma di una esposizione didattica, più che quella di un tradizionale lavoro di ricerca. Una decisione legata in primo luogo al contesto in cui sono nati molti dei materiali che ho utilizzato in questa sede: i corsi di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze che tengo presso l’Università della Tuscia, ma anche il master in e-learning e – soprattutto – il corso di perfezionamento sul futuro del libro, e-book ed editoria digitale (http://www.ebooklearn.com) organizzati presso la stessa Università. Parte di questo libro è nata dunque in forma di lezioni, e XIII

ho cercato di far riferimento a questo modello anche nella stesura delle parti completamente nuove e nel rielaborare i materiali derivati invece da articoli e lavori di ricerca7. In secondo luogo, sono convinto che una buona comprensione delle tematiche che intendo trattare richieda un lavoro di costruzione progressiva di competenze, anche in settori non necessariamente familiari per chi si interessa di libri e di editoria tradizionale, e possa dunque guadagnare da un’organizzazione dei materiali funzionale a tracciare un vero e proprio percorso formativo: più un manuale che un saggio, dunque, anche se vi sosterrò tesi non necessariamente condivise da tutti gli autori che si sono occupati o si occupano di questi temi (e anzi talvolta assai lontane dalla vulgata esistente in materia). La scansione in lezioni almeno in parte indipendenti, ciascuna con il suo fuoco e il suo taglio specifico, vorrebbe inoltre costituire un suggerimento per quanto riguarda la modalità di lettura di questo libro: il mio consiglio è quello di affrontarlo una lezione alla volta, e – una volta letta una lezione, e prima di passare a quella successiva – di lasciarsi un minimo di tempo non solo per ‘digerire’ gli argomenti trattati, ma anche per approfondirli un po’ attraverso alcuni dei materiali integrativi forniti. Ho infatti scelto di affiancare al libro alcuni materiali in rete pensati anch’essi in forma didattica. In particolare, a ogni capitolo corrisponde in rete (a disposizione dei lettori all’indirizzo http://www.ebooklearn.com/libro) una lezione in audio e video di 30-40 minuti, accompagnata da una serie di slide. Inoltre ho usato spesso, accanto a riferimenti a libri ed articoli, anche riferimenti a filmati disponibili in rete, ai quali vi suggerirei di dare un’occhiata, lezione per lezione. Nelle intenzioni, il libro che avete in mano e questi materiali dovrebbero integrarsi, favorendo la progressiva costruzione di un quadro d’insieme il più possibile chiaro e completo. Per quanto riguarda l’organizzazione e la successione degli argomenti, partirò dal tema che, come si è accennato, costituisce a mio avviso la base di tutta la trattazione: il concetto di interfaccia di lettura, accompagnato dall’esame del rapporto fra interfacce di lettura e situazioni di fruizione del testo. Il passo successivo sarà costituito dalla discussione di cosa siano i libri elettronici, seguita da un esame della loro storia e dalla considerazione sia del loro aspetXIV

to fisico (i dispositivi di lettura esistenti e quelli che possiamo aspettarci nel prossimo futuro) sia delle loro caratteristiche software (formati e modalità di rappresentazione del testo). Dedicherò quindi un’attenzione specifica alla delicata tematica della gestione dei diritti, soffermandomi sia sul fenomeno della pirateria, sia sui progetti di digitalizzazione libraria, e in particolare sul principale e più discusso di tali progetti, quello avviato da Google. Infine, parlerò del futuro della forma libro (libri interattivi, integrazione fra scrittura e contenuti multimediali) e degli strumenti di promozione e supporto alla lettura – in particolare attraverso la cosiddetta ‘lettura sociale’ (social reading) – disponibili in rete. Questo lavoro si è sviluppato in tempi piuttosto lunghi, a partire dalle prime sperimentazioni con i libri elettronici avviate alla fine degli anni ’90 nell’ambito del seminario di teoria e pratica della scrittura elettronica e ipertestuale collegato al mio corso all’Università della Tuscia, e a partire dai due convegni che proprio al tema dei libri elettronici avevamo dedicato nel 2001 e nel 2003. Ha dunque moltissimi debiti, e una lista completa delle persone a cui devo indicazioni, consigli, critiche, idee sarebbe lunghissima e – per i limiti della mia memoria – inevitabilmente lacunosa. Ovviamente, la responsabilità delle tesi espresse in questo libro è soltanto mia, ma non posso non ricordare almeno alcuni nomi fra quelli con i quali la discussione è stata più assidua e costante nel tempo, o ai quali devo indicazioni particolarmente significative, tralasciandone sicuramente e colpevolmente molti altri: Marco Calvo, Fabio Ciotti, Cesare Cozzo, Antonella De Robbio, Grazia Farina, Michael Hart, Francesco Leonetti, Federico Meschini, Fabrizio Piergentili, Riccardo Ridi, Alessandro Roncaglia, Virginio Sala, Matteo Sanfilippo, Giovanni Solimine, Luisa Valente, Andrea Zorzi, e tutti i partecipanti allo ‘storico’ seminario HTTP, nell’auletta Project del blocco ‘C’. Per lunga tradizione familiare, mia madre è sempre stata la prima, attentissima lettrice di tutti i parti editoriali di figli e nipoti, segnalando con eguale e penetrante intelligenza sviste e problemi in testi di economia e di storia della logica, di biologia e di fisica, di informatica e di filosofia. Questo libro non l’ha potuto vedere, e non ho alcun dubbio sul fatto che, nascosti fra le pagine, si celino errori che la sua lettura avrebbe evitato. Ma il debito che il mio lavoro ha verso di lei non è per questo minore. XV

La quarta rivoluzione Sei lezioni sul futuro del libro

I

Il libro e il cucchiaio

1. Straniero, fermati e leggi: l’importanza del supporto Una delle più famose (e delle più belle) epigrafi funebri romane, risalente al II secolo a.C., recita così: Straniero, ciò che ho da dirti è poco: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l’altro l’ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, vai pure1.

Il testo si rivolge direttamente al passante e lo invita alla lettura, promettendogli che sarà breve. Per leggere l’epigrafe, incisa su pietra, il passante deve fermarsi. A lettura finita, può riprendere il cammino. Formule di questo tipo sono abbastanza diffuse nell’epigrafia antica. “Salve, passanti. Io riposo morto qui sotto. Tu che ti avvicini, leggi chi è l’uomo qui sepolto. Uno straniero di Egina, di nome Mnesiteo”2. Anche qui, l’epigrafe – in questo caso greca – chiede al passante di avvicinarsi e leggere. Perché? La risposta è ovvia: la lapide sulla quale è inciso il testo non può spostarsi. Il testo inciso su pietra è di norma legato al luogo in cui la pietra viene collocata. La lettura richiede un avvicinamento fisico del lettore al supporto del testo, e non 3

del supporto del testo al lettore, come avviene invece nel caso del libro. Ancora oggi scriviamo su pietra, e i testi incisi su pietra sono legati al luogo in cui la pietra viene collocata: lapidi, monumenti, targhe con il nome della strada o con il numero civico di un portone. Nonostante la nascita e la diffusione di altri supporti e di altre tecnologie per la scrittura, la pietra continua dunque ad essere usata, in determinate occasioni e per determinati contenuti. Nessuno inciderebbe su pietra un romanzo, o le notizie di un giornale, ma d’altro canto nessuno utilizzerebbe la carta per una targa stradale o per un monumento. Il supporto usato per la scrittura (e la lettura) risulta dunque funzionale rispetto a certi tipi di testo e di situazioni, e non rispetto ad altri: non è neutrale, ma anzi contribuisce a determinare uno spazio di possibilità, sia per quanto riguarda la tipologia del testo sia per quanto riguarda i modi della sua fruizione (il passante deve fermarsi, non può leggere la lapide se continua a camminare). Non si tratta, si badi, di una lettura deterministica del rapporto fra supporto e testo, o, se volessimo spingerci verso un vocabolario dalle connotazioni comunque in parte diverse, fra medium e messaggio. Il supporto non determina il testo, il medium non determina il messaggio. A essere determinato – o meglio, ad essere aperto – è uno spazio di possibilità, che può essere riempito in modi e forme diverse ma che ha una sua specificità, un po’ come una funzione matematica che ammette certi valori ma non altri. Certo, il rapporto fra le caratteristiche specifiche dei diversi supporti del testo (e in generale dell’informazione) e le diverse tipologie di testi o di informazioni non è sempre così evidente o così stretto. In linea generale, i libri d’arte sono di grandi dimensioni, perché le tavole e le illustrazioni che vi compaiono garantiscono una migliore resa grafica se stampate più grandi, ma esistono anche libri d’arte in edizione tascabile (li riconosciamo però immediatamente come meno funzionali rispetto al loro contenuto, e giustifichiamo la scelta rispetto ad altri fattori: il prezzo più basso, o la maggiore facilità di trasporto e di consultazione). I testi di riferimento – ad esempio vocabolari, dizionari, enciclopedie – sono spesso voluminosi e scritti in caratteri piccoli, perché sono li4

bri da consultazione e ‘da scrivania’ (di norma non li leggiamo in poltrona, o al bagno, o in viaggio), ed è comodo averli sul tavolo o nello scaffale dietro la scrivania, senza doverli spostare troppo spesso. D’altro canto, dimensioni e peso eccessivi sono scomodi per un romanzo (ma alcuni romanzi sono comunque assai voluminosi, e si stampano in unico volume per risparmiare e per i vantaggi rappresentati dall’avere tutto il testo su un unico supporto). La carta patinata è più adatta a testi accompagnati da molte immagini, quella opaca è più adatta a testi senza immagini (ma anche in questo caso possono esserci eccezioni). Le pagine di un quotidiano, che dispone le notizie per rilevanza e tematicamente e non presuppone una lettura strettamente lineare, sono più grandi di quelle di un libro, e questo permette anche di semplificare la procedura di stampa e di fascicolazione, che – non richiedendo una rilegatura – è assai più adatta a una produzione e distribuzione quotidiana realizzata in tempi veloci. Quel che questi esempi ci mostrano è l’importanza del supporto in una sua funzione specifica: quella di interfaccia fra noi e il testo. Prima di vedere insieme in che modo queste considerazioni si applichino da un lato al libro, dall’altro ai diversi supporti dell’informazione in formato digitale, può essere allora opportuno dire qualcosa di più proprio sul concetto di interfaccia. 2. Interfacce: la dolce voluttà Nel senso più generale del termine, qualunque strumento che ci aiuti a interagire col mondo intorno a noi in modi il più possibile ‘adatti’ alla nostra conformazione fisica e sensoriale, alle nostre abitudini di comportamento, alle nostre convenzioni culturali e sociali – svolgendo dunque una funzione di mediazione fra noi e il mondo – può essere considerato una interfaccia3. Potremmo quindi dire, ad esempio, che la forchetta e il coltello – che ci aiutano a ‘interagire’ col cibo – sono anch’essi delle interfacce. Come ogni interfaccia, hanno il loro luogo specifico nell’elusivo ‘spazio di contatto’ fra i nostri sensi e una realtà che si presenta come esterna e almeno in parte indipendente da noi. Inoltre – come accade per la grande maggioranza delle interfacce – hanno, accanto alla dimensione funzionale che in questo caso è certo preponderante, anche una dimensione culturale e sociale: così coltello e for5

chetta possono essere sostituiti almeno in alcuni casi da interfacce diverse, come le bacchette utilizzate da molti popoli orientali. Se pensiamo poi alla particolare conformazione, ad esempio, del coltello da pesce o di quello da formaggio, o della forchettina da torta, il nostro esempio può anche suggerirci l’importante concetto di specializzazione delle interfacce: interfacce generiche adatte a una pluralità di situazioni possono essere affiancate, e in certi casi sostituite, da interfacce specifiche che offrano una maggiore efficienza, ma in un numero minore di casi. Prendiamo ora per un istante in esame – è un discorso sul quale torneremo più volte – le caratteristiche del libro, considerato come interfaccia fra noi e il testo. Le sue dimensioni devono permettere di usarlo, trasportarlo, voltare facilmente le pagine usando le mani. Il contrasto fra pagina bianca e inchiostro nero aiuta la lettura. Le dimensioni del carattere devono essere adatte alla distanza fra il libro e gli occhi (di norma fra i 20 e i 50 centimetri; una distanza che varia anche in funzione del fatto di leggere tenendo il libro in mano o appoggiato su un tavolo). La rilegatura non deve essere troppo pesante ma deve essere resistente (i fogli non si devono staccare) e deve permettere di sfogliare il libro senza difficoltà. I bibliofili – ma anche semplicemente i lettori abituali – sanno quanto questi fattori possano essere importanti. La «Bibliothèque de la Pléiade», edita dalla Gallimard, è una collana esteticamente ricercatissima, che pubblica libri ed edizioni di grande pregio, ma le pagine sono molto sottili, decisamente scomode da sfogliare. E lo stesso vale per la sua versione italiana, edita da Einaudi, o per i Meridiani Mondadori, che si rifanno allo stesso modello (c’è un elemento culturale, in queste scelte che trasformano il lettore in una sorta di attento sacerdote del libro ‘di pregio’, che deve essere di necessità manipolato e sfogliato con la massima cura e attenzione?). La rilegatura delle prime collane tascabili, a cominciare dalla gloriosa BUR e proseguendo con gli Oscar Mondadori, gli Universali Laterza o le Garzantine, usava inizialmente solo la colla e non la cucitura a filo, e col passare del tempo (e la perdita di adesività da parte della colla) le pagine finivano per staccarsi. E gli esempi potrebbero continuare. La ricerca di un’interfaccia di lettura bella ed usabile, che passa attraverso un’attenta considerazione delle caratteristiche mate6

riali del libro, è da sempre uno dei compiti dell’editoria e della tipografia di qualità. Giulio Einaudi scriveva: “All’inizio il mio interesse per il libro più che dalla lettura era determinato dal piacere del contatto fisico. Da ciò forse è derivata la cura eccezionale che ho sempre dedicato, nel mio lavoro, alla scelta dei caratteri e della carta, alla stampa, alla legatura, all’impaginazione, alla grafica”4. E osservazioni simili sull’importanza delle caratteristiche materiali del libro a stampa si ritrovano con grande frequenza nelle pagine non solo dei bibliofili ma anche di autori, editori, lettori che parlano (e scrivono) del loro rapporto con i libri in termini quasi erotici: Benedetto Croce ricorda la “dolce voluttà”5 dell’odore della carta stampata, e proprio a proposito dei libri Einaudi il grande critico Gianfranco Contini osserva: “qualche volta mi sorprendo ad annusare e cercare di percepire un sapore della carta”6. Un altro critico letterario, Salvatore Nigro, che è anche direttore editoriale per la casa editrice Sellerio, parla del suo rapporto con i libri in termini ancora più espliciti: Con il libro ho un rapporto erotico. Indugio nei preliminari. Lo scarto. Strappo il cellofan. Accarezzo la copertina, e sento un languido formicolio nella mano. Mi eccito terribilmente, se il libro è intonso. Taglio le pagine, lentamente. È come se sfogliassi una rosa. Mi piacciono le barbe dei libri. Ne raccolgo i pilucchi. Li annuso. L’odore della carta è afrodisiaco. Non meno dell’odore dell’inchiostro. Ogni libro ha un suo aroma. Un suo particolare richiamo7.

Una delle critiche più frequenti mosse alla lettura in ambiente elettronico – sulla quale torneremo diffusamente in seguito – è legata proprio alla perdita di questi aspetti di immediato apprezzamento sensoriale del libro considerato nei suoi aspetti materiali: odore della carta, dell’inchiostro e della colla, rapporto tattile con la pagina, scelte di legatura e copertina. Vale a poco ricordare che nel corso del tempo le tecnologie di produzione della carta, degli inchiostri, delle colle sono cambiate così radicalmente (in passato fra gli ingredienti utilizzati sia per la produzione di alcune carte sia per quella di alcuni inchiostri aveva un ruolo di un qualche rilievo anche l’urina), e che oggi la varietà di carte, inchiostri e colle è così ampia, da far sì che non esista un ‘odore di libro’, ma ne esistano migliaia, diversissimi fra lo7

ro e non necessariamente piacevoli. Qualunque bibliofilo risponderebbe immediatamente che questa varietà fa parte del fascino del libro. E reagirebbe indignato alla notizia della soluzione – indubbiamente perversa – trovata dall’azienda statunitense SmellofBooks (http://smellofbooks.com/) per gli utenti di libri elettronici orfani degli odori del libro su carta: una linea di cinque diversi profumi spray, capaci – si assicura – di trasferire ai dispositivi digitali utilizzati per la lettura l’odore, a scelta, di libro nuovo o di libro antico. A dispetto di tutto ciò, non vi è dubbio che, nell’insieme di fattori che ha assicurato il successo del libro come interfaccia di lettura, a partire dalla sua diffusione nei primi secoli dell’era cristiana con il passaggio dal volumen (il rotolo) al codex (il libro paginato e rilegato), fino all’invenzione della stampa e poi alla nascita e all’evoluzione dell’editoria industriale e del mercato editoriale di massa, l’odore della carta o della colla abbiano un ruolo tutto sommato assai secondario. Quel che conta davvero sono altri fattori: come nota efficacemente Chartier proprio a proposito del passaggio da volumen a codex, appoggiato su un tavolo o su un leggio, il libro a fascicoli non richiede più una complessa mobilitazione del corpo. Il lettore può prendere le sue distanze, leggere e scrivere contemporaneamente, passare a piacimento da una pagina all’altra, da un libro all’altro. È con il codex, inoltre, che si inventa la tipologia formale in cui si associano formati e generi, tipi di libri e categorie di discorso, e che quindi viene fondato il sistema di identificazione e individuazione dei testi che, ereditato dalla stampa, è ancora il nostro8.

La facilità di lettura (anche in poltrona, rilassati all’indietro: un aspetto sul quale torneremo fra breve) e di trasporto, l’economicità, la resistenza all’uso, la comodità della forma per l’immagazzinamento negli scaffali, la funzionalità dell’impaginazione numerata nel consentire la costruzione di indici: sono questi alcuni fra i vantaggi principali del libro, e sono questi, in primo luogo, i fattori che spingono Umberto Eco a sostenere con decisione che il libro appartiene a quella generazione di strumenti che, una volta inventati, non possono più essere migliorati. Appartengono a questi 8

strumenti la forbice, il martello, il coltello, il cucchiaio e la bicicletta: nessuna barba di designer danese, per tanto che cerchi di migliorare la forma di un cucchiaio, riuscirà a farla diversa da com’era duemila anni fa. [...] Il libro è ancora la forma più maneggevole, più comoda per trasportare l’informazione. Si può leggere a letto, si può leggere in bagno, anche in un bagno di schiuma9.

3. Interfacce fisiche, interfacce logiche Questa considerazione ci riporta al concetto di interfaccia. Proprio come nel caso delle posate, anche nel caso del libro possiamo parlare di specializzazione delle interfacce, pensando ad esempio alla differenza fra tascabili (il termine stesso rimanda a una specifica situazione d’uso, il libro portato in tasca e dunque facile da trasportare e leggere in qualunque situazione) e libri ‘da scrivania’. Se poi dal campo specifico del libro ci spostiamo a quello più vasto dei testi a stampa, la differenza in formati, tipo di carta, organizzazione tipografica dei contenuti fra libri, riviste e giornali rappresenta anch’essa un esempio di specializzazione delle interfacce. Certo, il senso del termine ‘interfaccia’ che abbiamo fin qui delineato è assai largo: ha il pregio (e il difetto) di vedere interfacce ovunque, dalla forma di una sedia al taglio di un vestito, dalle scelte architettoniche nella costruzione di un edificio alla segnaletica stradale; potremmo dire che, in quest’ottica, anche il linguaggio rappresenta in fondo una forma di interfaccia. In maniera non troppo dissimile, del resto, da quanto accade nel caso della definizione di medium proposta da Marshall McLuhan, che ha molti punti di contatto (ma anche importanti differenze) con quella qui suggerita per il termine ‘interfaccia’. Per McLuhan, infatti, un medium è “ogni estensione di noi stessi”10, qualsiasi tecnologia che crei estensioni del corpo e dei sensi, dall’abbigliamento al calcolatore. In questo modo [McLuhan] fu portato a riunire in una sola categoria fenomeni che ricadono nella sfera dei codici, come il linguaggio verbale e la scrittura, tecnologie che faremmo rientrare tra i canali della comunicazione, come la stampa, l’elettricità ed il telefono, o altri che diremmo piuttosto messaggi, come gli abiti, o i quadri. E non solo: per McLuhan anche il treno, le autostrade, l’automazione nelle fabbriche erano dei media11. 9

Non stupisce, dunque, che – come accade per la discussione sui media – si parli spesso di interfacce con riferimento a un ambito più ristretto. Nel nostro caso, facendo riferimento all’insieme di dispositivi, hardware e software, che ci permettono di interagire con una macchina o con un programma in maniera il più possibile semplice e intuitiva. Va notato che anche in questo senso più specifico il concetto di interfaccia non è legato necessariamente all’informatica. La plancia di una automobile, con tutta la sua strumentazione, rappresenta ad esempio l’interfaccia fra il guidatore e la macchina: il volante permette di girare il veicolo attraverso uno strumento ‘tarato’ sulle dimensioni e sulla forza delle nostre braccia e delle nostre mani, il tachimetro ci informa in maniera semplice e intuitiva sulla velocità. Un tachimetro digitale lo farà in forma diversa da un tachimetro analogico, e la scelta fra le due diverse interfacce dipenderà da un insieme di fattori a loro volta strettamente interrelati: i nostri scopi, le nostre preferenze personali, la cultura all’interno della quale ci troviamo, e così via. Ritroviamo così, anche attraverso quest’esempio, l’importanza della componente culturale e sociale delle interfacce: certo, la funzionalità di una interfaccia dipende in parte dai ‘dati’ costituiti dalla nostra conformazione fisica e sensoriale, dalla tipologia della macchina con la quale vogliamo interagire, dagli scopi di tale interazione; ma anche le convenzioni, le priorità, le abitudini proprie della cultura della quale facciamo parte hanno un loro ruolo tutt’altro che trascurabile. Da questo punto di vista, sia detto per inciso, l’eccessiva standardizzazione e uniformità delle interfacce – che può essere desiderabile per ragioni di razionalità produttiva – può trasformarsi, almeno in parte, in un veicolo di appiattimento culturale. D’altro canto, contro questo appiattimento opera un altro importante aspetto della costruzione delle interfacce: la ricerca, accanto al valore funzionale, di un valore estetico. Dovendo scegliere, preferiremmo probabilmente un’interfaccia brutta ma funzionale a una esteticamente piacevole ma di uso difficile o poco efficace. Tuttavia, come in qualunque altra attività di costruzione umana, anche i progettisti di interfacce cercano di raggiungere un risultato soddisfacente dal punto di vista funzionale attraverso soluzioni che siano anche esteticamente gradevoli e – se possibile – originali. 10

Va detto subito che questa presentazione tende forse a semplificare, dato che valore estetico e valore funzionale sono per molti versi strettamente interdipendenti; quel che ci interessa sottolineare, comunque, è un dato che da quanto si è detto finora dovrebbe risultare abbastanza chiaro: la progettazione di interfacce è un’attività che richiede competenze complesse e articolate. Competenze tecniche, ma anche capacità di analisi psicologica, studio dell’ergonomia, capacità artistiche e una percezione complessa della realtà culturale e sociale in cui si opera. E in effetti le connotazioni attribuite di solito al termine design coprono proprio questo largo spettro di competenze: non a caso, l’attività di progettazione delle interfacce – informatiche e non – è in genere una attività di équipe, alla quale collaborano numerose professionalità diverse. Ma – prima di tornare a parlare di libri – spostiamoci per un momento all’ambito più propriamente informatico, per incontrare un’altra distinzione di grande rilievo: quella fra le interfacce hardware (ad esempio la tastiera o lo schermo di un computer, un mouse, un joystick), che rappresentano per così dire la ‘superficie fisica di contatto’ fra i nostri sensi e la macchina, e le cosiddette interfacce software: il modo in cui un programma ci si presenta e ci permette di utilizzare le sue funzionalità, ad esempio attraverso una determinata suddivisione dello schermo e attraverso l’uso di finestre, pulsanti, menu, icone. In tutti e due i casi, l’interfaccia ha la già ricordata funzione di mediazione fra noi e la macchina; ma se nel caso delle interfacce hardware la mediazione è prevalentemente fisica, ed è dunque più strettamente dipendente dalla nostra conformazione fisica e sensoriale (si pensi ad esempio alla forma del mouse, o alle dimensioni e alla distanza dei tasti sulla tastiera), nel caso delle interfacce software si tratta di una mediazione ad altissimo contenuto simbolico. Anche per questo motivo, è soprattutto alle interfacce software che si pensa quando si parla dell’impatto culturale delle interfacce informatiche. Nel suo libro Interface culture, Steven Johnson sceglie addirittura di definire il termine ‘interfaccia’ in maniera tale da farlo corrispondere alle sole interfacce software, anche se la funzione di mediazione affidata all’interfaccia è in tutto analoga a quella di cui si è parlato poc’anzi: “nel suo senso più semplice”, scrive così Johnson, “il termine si riferisce ai program11

mi che danno una forma all’interazione fra l’utente e il computer. L’interfaccia funziona come una sorta di traduttore, capace di mediare fra le due parti, e di farle comunicare”12. Una differenza, quella fra interfacce hardware e interfacce software, che sembra riferita specificamente al settore dei nuovi media, ma che a ben vedere è ancora una volta collegata a una distinzione più generale. La differenza fra interfaccia fisica, supporto fisico dell’informazione, e interfaccia logica, modo e forma di organizzazione dell’informazione sul suo supporto, è infatti chiaramente presente anche nel caso del libro, e in generale della scrittura. Certo, il libro a stampa unisce in modo indissolubile testo e supporto (la fotocopia permette infatti di riprodurre un testo su un diverso supporto, ma il testo viene meramente duplicato, e non effettivamente trasferito dal supporto originario). E il testo stesso – composto di particelle di inchiostro applicate sul supporto cartaceo attraverso il processo di stampa – ha una sua innegabile fisicità. Ma la scelta di organizzare la scrittura (e la lettura) da sinistra a destra o da destra a sinistra (o dall’alto in basso, o dal basso in alto) non è, ad esempio, strettamente legata al supporto usato, né alla nostra conformazione sensoriale, ma a fattori storici e culturali. Nelle Storie, Erodoto esplora addirittura l’altro verso di questa relazione, attribuendo le differenze di comportamento fra greci ed egiziani proprio alla differenza nella direzione della scrittura13! E proprio come considerazioni estetiche avevano un grande rilievo nella cura con la quale gli antichi egizi scrivevano i loro geroglifici (che peraltro potevano essere scritti da sinistra a destra o da destra a sinistra – nel leggerli, la direzione del becco degli uccelli costituisce un indizio del verso della scrittura – e dall’alto in basso o dal basso in alto), l’arte tipografica si manifesta anche nel modo di presentare e organizzare il testo all’interno della pagina, nella scelta dei caratteri e dei formati. Vedremo nella terza lezione, parlando delle caratteristiche dei programmi di visualizzazione e delle modalità di organizzazione del testo sullo schermo, come considerazioni legate all’impaginazione abbiano un ruolo di estremo rilievo anche nel caso della testualità elettronica. È bene però anticipare subito una distinzione importante, che riguarda proprio l’organizzazione del testo ma ha immediate conseguenze anche sull’interfaccia fisica utilizzata: la differenza fra testo paginato, organizzato cioè in pagine separate, 12

com’è quello dei normali libri a stampa, e testo continuo o a scorrimento. Una differenza che troviamo già nel mondo dei rotoli: i rotoli greci erano scritti per lo più in maniera continua (come accade oggi nel caso delle schermate del computer, che vengono fatte scorrere in verticale), ed erano quindi letti srotolandoli in verticale, reggendoli con una mano in alto e una mano in basso. I rotoli romani (ma anche, ad esempio, i famosi rotoli del Mar Morto) erano invece per lo più scritti suddividendoli in ‘pagine’ orizzontali organizzate in colonne, un po’ come i fotogrammi di una pellicola, ed erano dunque srotolati in orizzontale, aiutandosi con una mano a sinistra e una a destra14. Riassumendo possiamo dunque distinguere, in forma generale nel caso dell’informazione e più in particolare per quanto riguarda i testi, una duplice dimensione dell’interfaccia: interfaccia fisica, e organizzazione logica dell’informazione sull’interfaccia. Tali dimensioni sono peraltro in stretto rapporto e si influenzano reciprocamente: così, le caratteristiche fisiche del supporto suggeriscono o al contrario escludono determinate modalità di organizzazione dei contenuti, e viceversa la scelta di organizzare i contenuti in un certo modo suggerisce o esclude l’impiego di determinati supporti, e dunque di determinate interfacce fisiche. Tutte e due queste dimensioni, poi, sono in stretto rapporto con il contenuto informativo veicolato: anche in questo caso, certe tipologie di contenuti suggeriscono (o impongono, o al contrario escludono) certe forme di organizzazione del testo, e magari anche l’uso di certi supporti. E viceversa. E anche in questo caso il rapporto è così stretto da rendere spesso assai difficile distinguere il ‘peso relativo’ delle varie dimensioni e l’esistenza di specifici rapporti causali. Così, ad esempio, la forma epistolare prevede in genere testi abbastanza brevi, quindi suggerisce l’uso di fogli sciolti (più comodi anche da spedire), ma nel caso delle cartoline è lo spazio limitato disponibile sul supporto che sembra imporre la brevità. D’altro canto, scegliamo di inviare una cartolina quando il nostro obiettivo è più quello di un contatto rapido e d’occasione che quello di una trasmissione di contenuti informativi complessi e articolati. Abbiamo inserito nella cartolina poche informazioni perché avevamo poco spazio a disposizione, o abbiamo inviato una cartolina (anziché una lettera) perché avevamo poche cose da dire? La seconda ipotesi è oggi forse più probabi13

le, ma un tempo aveva un ruolo anche il costo del francobollo, e la scelta di spedire una cartolina postale – riempita di testo fino all’orlo per sfruttarla al massimo – poteva rispondere anche a ragioni di economia domestica. Può sembrare che questi interrogativi – e queste distinzioni – si riferiscano a mezzi di comunicazione, come le lettere su carta, le cartoline, e chissà, magari perfino i libri su carta, ormai superati o quasi, e sostituiti dalla dimensione della comunicazione digitale via rete. Ma ci accorgeremo ben presto che – pur nel cambiamento degli strumenti e delle loro caratteristiche – molti problemi rimangono simili, pur presentandosi in forme in parte nuove. 4. Le situazioni di fruizione del testo: «lean forward», «lean back», fruizione secondaria, mobilità La situazione fin qui descritta può apparire già abbastanza complicata, ma è arrivato il momento di aggiungere alla nostra equazione – e dunque al complesso rapporto fra interfaccia fisica, contenuto informativo e modi e forme di organizzazione di tale contenuto sul supporto – un nuovo elemento di grande importanza: la situazione di fruizione del testo. Anche in questo caso, facciamo un salto di astrazione e partiamo innanzitutto dalle situazioni di fruizione dell’informazione in generale: non necessariamente scritta, ma anche sonora, visiva e multimediale. Il problema è quello di classificare in qualche modo le situazioni di fruizione dell’informazione, in base alle loro diverse caratteristiche. E, almeno a un primo livello, la distinzione più utile e immediata è quella fra situazioni di fruizione (e relative interfacce): a) lean forward, b) lean back, c) secondaria e d) in mobilità15. La fruizione lean forward è quella che si ha quando siamo ‘protesi in avanti’ verso l’informazione, come facciamo scrivendo, studiando un libro seduti alla scrivania (contemporaneamente sottolineiamo, prendiamo appunti...), o lavorando al computer. In genere è caratterizzata da un uso attivo dell’informazione: non ci limitiamo ad assorbire informazione ma la elaboriamo e modifichiamo. Ci aspettiamo dunque contenuti informativi che si prestino a un lavoro di selezione e di elaborazione attiva, in una si14

tuazione di fruizione che assorbe completamente la nostra attenzione. Una situazione di questo genere permette di lavorare bene con informazione fortemente interattiva (ad esempio ipertestuale), come facciamo quando navighiamo in rete, e non è un caso che la modalità di fruizione dei videogiochi sia anch’essa lean forward. Perfino quando usiamo, magari seduti sul divano, un videogioco collegato allo schermo del televisore, la nostra fruizione non è distesa e rilassata: a dispetto del divano, siamo protesi in avanti verso lo schermo, e pienamente attivi. È la lettura lean forward che, nel mondo dei media digitali, tende a trasformarsi in quella che Derrick De Kerckhove ha battezzato ‘screttura’, unione di lettura e scrittura16. In maniera in parte analoga, George Landow parla dei lettori degli ipertesti caratterizzandoli come wreaders, insieme scrittori e lettori del testo17. La modalità lean back è invece caratterizzata da una fruizione rilassata, ‘appoggiati all’indietro’ (ad esempio, in poltrona), di una informazione che ci assorbe ma da cui possiamo lasciarci trasportare senza la necessità di interventi attivi di elaborazione e manipolazione. È il modo in cui in genere leggiamo un romanzo, o guardiamo un film. La nostra attenzione è anche in questo caso completamente catturata da quel che vediamo o leggiamo, ma – finché essa resta viva – non ci è richiesto di agire o interagire con l’informazione stessa se non a livello mentale. È solo quando l’attenzione cala – magari perché quel che stiamo guardando non ci piace o non ci interessa – che subentra un intervento attivo per modificare il contenuto del flusso informativo (ad esempio cambiamo canale, e nel farlo spesso, significativamente, ci protendiamo in avanti). La fruizione lean back è quella tipica della televisione e del cinema, almeno quando stiamo guardando qualcosa che ci interessa e che assorbe tutta la nostra attenzione. A volte, però, informazione che sarebbe destinata a una fruizione lean back viene invece assorbita in forma di fruizione secondaria, o in background. In questo caso la nostra attenzione non è completamente assorbita dall’informazione che riceviamo, che rappresenta per noi una sorta di background informativo verso il quale ci rivolgiamo solo a tratti. Esempio tipico è quello, assai frequente, in cui la televisione o la radio sono accese in una stanza in cui si chiacchiera o si stanno facendo anche altre cose. 15

Un’informazione spesso programmaticamente ‘pensata’ in funzione di situazioni di fruizione secondaria è quella pubblicitaria, almeno quando il suo obiettivo è – più che catturare totalmente l’attenzione del fruitore – quello di far ‘passare’ un messaggio in forma quasi inconsapevole, ad esempio attraverso meccanismi di ripetizione (come accade nel caso di un jingle pubblicitario ben scelto). Anche la musica usata come sottofondo per altre attività configura una tipica situazione di fruizione secondaria. Le situazioni di fruizione secondaria sembrano moltiplicarsi anche in relazione al diffondersi di quello che potremmo chiamare ‘multitasking informativo’: lo studente ascolta una lezione conservando in un orecchio l’auricolare del lettore MP3 dal quale contemporaneamente ascolta musica; leggiamo il giornale ascoltando la radio o la televisione... In questi casi, sempre più frequenti in un mondo in cui gli strumenti di accesso e distribuzione dell’informazione si moltiplicano incessantemente, possiamo in genere distinguere un canale informativo a fruizione primaria e un canale informativo a fruizione secondaria, ma i confini fra le due tipologie sono labili, e la nostra attenzione può spostarsi con estrema facilità da una fonte informativa all’altra, nel momento in cui in qualche messaggio proveniente dal canale in fruizione secondaria supera la nostra soglia di attenzione. Infine, le situazioni di mobilità determinano una ulteriore tipologia di uso dell’informazione. Si potrebbe essere tentati di considerare la fruizione in mobilità come un caso particolare di fruizione secondaria, ma va osservato che non necessariamente l’informazione ricevuta in mobilità viene fruita in maniera secondaria: quando ascoltiamo il lettore MP3 sull’autobus o nella metropolitana, quando leggiamo un libro in treno, e spesso persino quando telefoniamo camminando o ascoltiamo l’autoradio in macchina, la nostra attenzione cosciente è impegnata solo in minima parte dalle azioni richieste dalla situazione di mobilità e può concentrarsi sul canale informativo, anche se normalmente lo fa per periodi di tempo più brevi e più frequentemente interrotti. È difficile sopravvalutare l’importanza di un’attenta considerazione delle situazioni di fruizione e del tipo di attenzione impegnata18, nel lavorare sulle interfacce ma anche sui format e sulle modalità di organizzazione e distribuzione di informazione di ogni genere, da quella ricreativa a quella giornalistica, da quella di 16

lavoro alla comunicazione interpersonale. Ad esempio, gli interrogativi legati alle reali possibilità di sviluppo del video in mobilità, nei suoi vari possibili format (dal digitale terrestre, che permette la ricezione su alcuni modelli di telefoni cellulare di canali televisivi tradizionali, alla ricezione dei video YouTube via rete, dalle videotelefonate ai videomessaggi), sono in gran parte legati proprio all’interrogativo sul tipo di attenzione che un utente in mobilità può dedicare a contenuti video, che impegnano direttamente non solo l’udito ma anche la vista. Questa fruizione è sicuramente da escludere nel caso ad esempio della guida, ma potrebbe funzionare per un viaggio in treno o in aereo, in cui il problema è spesso proprio quello di ‘ammazzare il tempo’ (non a caso gli schienali delle poltrone d’aereo hanno ormai quasi sempre un video incorporato). Ma quali format funzionano in questi casi? Probabilmente format molto più brevi e modulari, compatibili comunque con una situazione non ottimale dal punto di vista dei rumori, delle distrazioni esterne ecc. Se applichiamo queste considerazioni al caso del libro, ci accorgiamo che i casi di fruizione secondaria sono rari. Un libro tende infatti ad assorbire comunque la maggior parte della nostra attenzione: è difficile leggere e dedicare contemporaneamente attenzione a un’altra fonte informativa, anche se leggendo possiamo ascoltare in modo secondario un brano musicale. Tuttavia, la distinzione fra le tre situazioni di fruizione lean forward, lean back e in mobilità è pienamente applicabile. C’è una notevole differenza fra la lettura rilassata di un romanzo, in poltrona o magari a letto, e la lettura attiva, in genere su un tavolo o alla scrivania, di un testo di studio o di un libro che stiamo utilizzando come riferimento mentre scriviamo qualcosa. E queste due modalità di fruizione sono a loro volta diverse dalla lettura in situazioni di mobilità, ad esempio in metropolitana (la lettura in treno – con tempi più rilassati – può invece tendere ad avvicinarsi, a seconda delle situazioni e dei testi che stiamo leggendo, alla lettura lean back o lean forward). È probabile che, applicata ai libri, la distinzione fra lettura lean forward e lean back sia in qualche misura anche un prodotto storico. Rolf Engelsing ha sottolineato la differenza fra la lettura ‘intensiva’ tipica di un mondo, fra il Medioevo e la seconda metà del XVIII secolo, in cui i libri in circolazione erano relativamente po17

chi e venivano letti e riletti – spesso ad alta voce – dedicando attenzione a ogni dettaglio e interiorizzandone i contenuti, e la lettura ‘estensiva’ tipica del XIX e XX secolo, con un mercato editoriale progressivamente più sviluppato e differenziato e la conseguente maggiore disponibilità di libri, periodici, quotidiani che venivano (e vengono) spesso letti una sola volta per essere poi accantonati e non di rado dimenticati19. Si tratta di una distinzione suggestiva, che è stata largamente ripresa e discussa, evidentemente diversa da quella fra lettura lean forward e lean back: ci si può chiedere se una maggior diffusione della lettura lean back non sia in qualche misura legata proprio allo sviluppo della lettura estensiva. Ovviamente quelle che abbiamo discusso fin qui sono distinzioni basate più su polarità al cui interno si possono manifestare gradazioni diverse che su categorie totalmente chiuse e impermeabili; ma il rilievo che le diverse situazioni di fruizione del testo hanno nel determinare le forme e i modi della lettura è difficile da sottovalutare. Non a caso, la lettura in ambiente elettronico è molto più diffusa nel caso di testi che suggeriscono una fruizione lean forward – e dunque analoga a quella tipica del computer da scrivania – che nel caso di testi narrativi, per i quali risulta assai più comune la lettura lean back. E non a caso la sfida principale dei nuovi dispositivi digitali di lettura – gli e-book reader di cui ci occuperemo ampiamente nella prossima lezione – è proprio quella di garantire una buona esperienza di lettura lean back, e dunque di portare pienamente nel mondo digitale anche i testi narrativi e le loro specifiche modalità di lettura. 5. Cos’è un libro? È arrivato il momento di affrontare, almeno sommariamente, un’altra questione che si rivela centrale nel parlare di libri elettronici e di lettura in ambiente elettronico. Giacché il termine ‘libro elettronico’ suggerisce immediatamente che un e-book sia anche, e forse in primo luogo, un libro. Ma cos’è un libro? Quali caratteristiche ne definiscono meglio la natura, e possono costituire un po’ la cartina di tornasole per verificare se gli e-book siano effettivamente dei libri, e quali siano le loro peculiarità specifiche? 18

Al termine ‘libro’, come ben sappiamo, si associano diverse connotazioni. In molte lingue, la radice etimologica della parola usata per designare un libro (il greco biblion, il latino liber e i suoi derivati, l’alto tedesco bokis e i suoi derivati) è legata all’oggetto fisico utilizzato come supporto della scrittura: biblos era il nome usato per il papiro egiziano, liber designava la pellicola compresa fra la corteccia e il tronco di un albero, bokis era il nome alto tedesco del faggio20. La storia etimologica del termine rimanda dunque al libro come oggetto fisico, e a un significato la cui componente primaria è quella di supporto fisico per la scrittura. Nel corso del tempo – e in maniera più stabile dopo la rivoluzione gutenberghiana – il termine ‘libro’ si è così venuto ad associare in primo luogo a una raccolta rilegata di pagine a stampa, caratterizzata da una certa lunghezza e dall’assenza di periodicità nella pubblicazione. L’UNESCO, anche se solo a scopi statistici, ha di fatto suggerito – in maniera inevitabilmente arbitraria – di definire un libro come una pubblicazione a stampa, non periodica, di almeno 49 pagine21. Anche alla luce delle considerazioni già svolte a proposito della distinzione fra testo fluido e testo paginato, va sottolineato il ruolo implicito che in questa definizione svolge l’idea di paginazione fissa: un libro è non solo paginato, ma composto di un numero ben determinato di pagine. Il legame fra paginazione e paginazione fissa è ovvio nel libro come oggetto fisico, in cui come si è detto il testo diviene tutt’uno con il proprio supporto, ma – vedremo in seguito – non è affatto scontato nel caso dei libri elettronici, che pur essendo paginati possono essere composti di un numero di pagine variabile a seconda della formattazione di volta in volta prescelta. La variabilità di paginazione che può caratterizzare edizioni a stampa diverse di uno stesso libro viene dunque trasferita, nel caso di libri elettronici che non adottino una paginazione fissa, alle singole situazioni di lettura: l’utente può così leggere lo stesso testo su dispositivi di lettura diversi, impostare diverse dimensioni dei caratteri o della pagina, ecc., e come risultato di queste operazioni si troverà in mano libri paginati diversamente. La definizione di libro fornita dall’UNESCO è dunque legata in primo luogo al supporto fisico del testo. Ma già in questa definizione compaiono elementi esterni rispetto alla pura considerazione del supporto, come i concetti di pubblicazione e di periodicità. 19

D’altro canto, nel parlare di libri, all’attenzione verso la dimensione puramente fisica del supporto si affianca o si sostituisce in molti casi anche quella, assai diversa, verso il testo e la forma di testualità. Da questo punto di vista un libro non è in primo luogo un oggetto fisico, ma un oggetto testuale astratto, caratterizzato dall’uso di un codice linguistico, da una certa lunghezza, da una particolare organizzazione interna, da un’unità tematica o compositiva. E anche da questo punto di vista sotto il termine ‘libro’ accomuniamo cose assai diverse: un romanzo, in cui la narrazione si sviluppa in maniera lineare e che richiede una lettura estensiva e tranquilla; un’enciclopedia o un testo di riferimento, destinato alla consultazione più che alla lettura estensiva; un testo interattivo come un manuale di esercizi... Si tratta di forme testuali diversissime tra di loro, anche se prodotte sempre attraverso pagine stampate e rilegate. Nell’incontro fra editoria ed elettronica, alcune di queste forme testuali – e in particolare quelle destinate alla consultazione interattiva e alla lettura lean forward – sono approdate presto su supporti digitali, e in tale formato hanno conosciuto una evoluzione specifica (enciclopedie, dizionari, corsi di lingua su CD...); altre (in particolare i libri destinati a una lettura estensiva e lineare, prevalentemente lean back) sono rimaste prevalentemente ancorate al supporto cartaceo, che come abbiamo visto – nella situazione attuale di sviluppo delle interfacce elettroniche – risulta il più comodo per le loro abituali modalità di fruizione. Ma su tutto questo dovremo tornare; per adesso, sarà bene proseguire nella nostra rassegna – necessariamente parziale e limitata – di alcune possibili definizioni e concezioni del libro. Chi si occupa dei libri come oggetto fisico, dei libri come interfaccia, privilegia evidentemente definizioni legate alla dimensione del supporto. In un breve e curioso intervento scritto nel 1996 e intitolato The Whatness of Bookness (potremmo provare a tradurre il titolo come La cosità della libritudine, o, assai più liberamente, L’essenza dell’esser-libro), Philip Smith, noto esperto di libri antichi e legature, sostiene che più che definire cos’è un libro occorra considerare la qualità dell’esser-libro, la bookness: Nel suo significato più semplice, il termine si riferisce al confezionamento (packaging) di più supporti piani tenuti insieme in una sequenza fissa o variabile attraverso qualche meccanismo di incardina20

mento, o un sostegno, o un contenitore, associati a un contenuto visuale e verbale chiamato testo. Il termine non dovrebbe includere, in senso stretto, supporti del testo precedenti il codice, come i rotoli o le tavolette di argilla, e in effetti niente che sia contenuto su una singola superficie piana, come uno schermo televisivo, un poster o un volantino. [...] Un testo è un testo e non un libro, e potrebbe essere convogliato da qualunque altro oggetto si voglia immaginare. Un testo può essere inscritto su qualunque supporto, ma questo non lo rende un libro, né gli dà la qualità dell’esser-libro, e un rotolo conserva la sua qualità dell’esser-rotolo anche se non vi è scritto alcun testo. Un orsetto di peluche con un testo scritto sopra non è un libro! Il libro non è il testo, anche se è tradizionalmente associato con esso, e questi due elementi sono spesso confusi come se fossero la stessa cosa22.

Nel commentare questo intervento, Edward Hutchins, anch’egli rilegatore e ‘artista del libro’, osserva che discutere di cosa sia un libro in termini di qualità (anziché attraverso una definizione tradizionale) ci dovrebbe portare a individuare un insieme di caratteristiche dell’esser-libro, il cui possesso in misura maggiore o minore avvicini o allontani un oggetto dalla ‘libritudine’: Alcune delle caratteristiche che potrebbero costituire l’esser-libro sono le pagine, la copertina, la rilegatura, la sequenza, la narrazione, le illustrazioni, l’indice, la durabilità, la portabilità, la forma, lo scopo, il significato, l’uso, la ricezione, il numero ISBN, l’esser suscettibile di conservazione in uno scaffale, ecc. Più un libro ha queste caratteristiche, più ha ‘libritudine’23.

Ma come si vede, già in questo elenco alle caratteristiche legate al libro come oggetto fisico si affiancano quelle legate al libro come oggetto testuale, alla ‘forma-libro’: la presenza di una struttura narrativa, o di un indice, sono elementi assai diversi dalla presenza di copertina, pagine, rilegatura o forma adatta alla conservazione in uno scaffale. E compaiono caratteristiche, come il numero ISBN, che non hanno direttamente a che fare né con la forma testuale né con l’oggetto fisico ma con un elemento di riconoscimento sociale, con un’attribuzione convenzionale dello ‘status’ di libro attraverso una sorta di impositio nominis. Un elemento, questo, che sembra rispondere a quella che Maurizio Ferraris chiamerebbe la natura documentale del libro considerato come oggetto sociale24. 21

Come vedremo nella prossima lezione, quando dal libro a stampa si passa a quello elettronico la definizione tende spesso a spostarsi ulteriormente in direzione dell’oggetto testuale, mentre l’interfaccia di lettura tende a essere considerata solo come lo strumento utilizzato per leggere l’e-book, e non come una sua componente costitutiva. Ma già nel caso del libro a stampa, quanto si è detto fin qui mostra con chiarezza come fra i due estremi del libro oggetto fisico e del libro oggetto testuale si possano individuare numerosi significati intermedi, alcuni dei quali legati alle forme di riconoscimento, di circolazione o di distribuzione commerciale del testo, e dunque al libro considerato anche come oggetto sociale e come merce. Esaminiamo, per farcene un’idea, gli esempi che seguono: “Guerra e pace è un bellissimo libro.”

Libro come oggetto intellettuale, costruzione narrativa più che particolare successione di caratteri: posso affermarlo anche se ho letto il testo in traduzione e non nell’originale russo.

“Guerra e pace è il libro su cui ho imparato il russo.”

Libro come oggetto testuale, scritto in una particolare lingua.

“Aveva un libro nel cassetto, ma non si decideva a pubblicarlo.”

Libro come oggetto testuale scritto su un supporto diverso da quello abituale per il libro come oggetto fisico (fogli sciolti, o un supporto informatico), ma suscettibile di essere pubblicato.

“Per questo libro la casa editrice ha pagato un anticipo altissimo!”

Libro come oggetto commerciale ‘astratto’ (se ne può parlare prima ancora che il libro venga scritto!).

“Le clausole di distribuzione di questo libro impediscono ai librai di venderlo prima della mezzanotte del 16 luglio.”

Libro come oggetto commerciale; si può riferire a diverse edizioni o traduzioni dello stesso testo.

“Questo libro ha una bella copertina.”

Libro come edizione a stampa; si riferisce a tutti gli esemplari di una certa edizione.

“Questo libro ha la copertina macchiata.”

Libro come oggetto fisico, esemplare particolare.

“In questo scaffale entrano trenta libri.”

Libro come oggetto possibile nello spazio, completamente svincolato da un particolare contenuto testuale.

22

La polisemia del termine ‘libro’ che emerge dagli esempi sopra considerati (e altri ne potrebbero essere aggiunti) non è accidentale: è proprio a questa connotazione complessa che rimanda la nostra idea di libro come medium culturale, qualcosa che è insieme oggetto fisico, oggetto testuale e prodotto commerciale (e prodotto commerciale può essere sia l’oggetto fisico sia l’oggetto testuale). Nel suo intervento per il progetto ‘text-e’, conversazioni virtuali promosse dalla Biblioteca Pubblica di Informazione del Centre Pompidou, dall’Institut Jean Nicod (CNRS) e dall’Associazione EURO-EDU, Roberto Casati osserva a ragione che la domanda “cos’è un libro?” pone un problema ontologico, al quale si può rispondere solo considerando la natura duale del libro, e vede nel libro elettronico la possibilità di “liberare” ed esplorare pienamente questa natura duale, permettendo all’oggetto fisico e a quello immateriale di trovare ciascuno un proprio spazio parzialmente autonomo25: una prospettiva sulla quale dovremo tornare. La costruzione di un modello teorico che abbracci in maniera organica l’insieme di questi significati è stata tentata dalla Federazione internazionale delle associazioni bibliotecarie (IFLA) all’interno di una relazione dal titolo abbastanza tecnico: Requisiti funzionali per i record bibliografici (Functional Requirements for Bibliographic Records; un documento al quale ci si riferisce spesso attraverso l’acronimo FRBR). Il lavoro fatto in questa relazione (approvata nel 1997, ma che conserva uno status di work in progress: l’ultima versione è del febbraio 200926) consiste sostanzialmente nel tentativo di identificare in maniera chiara e insieme sufficientemente generale le entità con le quali hanno a che fare i bibliotecari: libri, dunque, ma anche opere di altro genere, autori, soggetti... Un lavoro di questo genere richiede evidentemente un processo di astrazione, che passa attraverso la costruzione di ontologie complesse ed articolate. I FRBR non parlano dunque più direttamente di ‘libri’ o ‘opere’ ma di ‘entità del gruppo 1’ (che comprendono non solo libri ma anche musiche, film, opere teatrali e così via), non parlano più di ‘autori’ ma di ‘entità del gruppo 2’ (persone, ma anche enti), e riconoscono che le entità del gruppo 2 possono essere legate alle entità del gruppo 1 da relazioni diverse (autore, ma anche ad esempio traduttore, editore, illustratore ecc.). Le entità del gruppo 3 sono poi i soggetti: può trattar23

si di concetti, di oggetti, di eventi, di luoghi, ma anche di persone o di enti (e dunque di entità del gruppo 2) e di opere di vario genere (e dunque di entità del gruppo 1). Le entità del gruppo 1 – quelle che ci interessano più direttamente – sono divise in opere (work), espressioni (expression), manifestazioni (manifestation) e item (item). Un’opera è qualunque creazione intellettuale o artistica identificabile, ed è un’entità puramente astratta. È a questo primo livello che si può ad esempio riferire il giudizio “Guerra e pace è un bellissimo libro”, supponendo che esso non sia riferito necessariamente e specificamente al solo testo originale russo o a una sua particolare traduzione. Una espressione è poi la realizzazione intellettuale e artistica di un’opera (ad esempio, il suo testo originale o una sua particolare traduzione), e viene manifestata – e siamo appunto al livello della ‘manifestazione’ – in una classe di realizzazioni fisiche, ad esempio in una particolare edizione. A sua volta, la manifestazione si concretizza in singoli esemplari o item. Come si vede, questo modello aiuta a esprimere molti dei livelli e dei possibili significati che abbiamo trovato nel termine ‘libro’, ma lo fa al prezzo – inevitabile – di un notevole lavoro di astrazione (che porta anche ad identificare attributi relativi ai diversi tipi di entità, e relazioni che le collegano). Nella prossima lezione, ci accorgeremo che la definizione di ‘libro elettronico’ pone problemi largamente analoghi. Con la complicazione, però, rappresentata dal fatto che mentre nel libro a stampa il testo e il suo supporto rappresentano dal punto di vista fisico un’unità quasi inscindibile, nel caso dell’e-book testo elettronico e dispositivo di lettura sono realtà completamente indipendenti, e possono viaggiare in maniera separata anche nella loro gestione commerciale. Ma è arrivato il momento di cominciare ad esplorare proprio il nuovo mondo dei libri elettronici e della testualità digitale: come si sta trasformando, quel libro che ancor prima della rivoluzione gutenberghiana sembrava aver raggiunto la sua forma perfetta?

II

Il libro magico del cancelliere Tusmann

1. Un sogno o un incubo per il bibliofilo? Si può parlare di libri elettronici in molti modi diversi: soffermandosi innanzitutto sulle caratteristiche tecnologiche dei dispositivi di lettura, o sulle funzionalità del software utilizzato, o ancora sulle virtù dei diversi formati di codifica del testo. Si può partire da un’analisi della situazione di mercato, illustrare le procedure da seguire per realizzare un e-book, esaminare i sistemi disponibili per acquistare e scaricare i titoli, preoccuparsi dei meccanismi usati per garantirne la protezione da copie non autorizzate. Nelle pagine che seguono, questi temi saranno tutti presi in considerazione. Sono convinto, tuttavia, che vi sia un problema preliminare dal quale la nostra trattazione deve necessariamente partire. Il problema è riassunto dalla domanda “cos’è un libro elettronico?”. Una domanda che, prima di riguardare il libro elettronico come oggetto tecnologico, si interroga sulle sue caratteristiche di oggetto culturale. L’espressione ‘libro elettronico’ sottintende che un e-book sia anche, anzi, sia in primo luogo un libro. Abbiamo visto nella prima lezione quanto possa essere complesso capire cosa sia, esattamente, un libro. Ma abbiamo anche osservato che riconoscere un libro, quando ne vediamo uno, sembra essere molto più facile. Eppure, davanti all’aspetto poco familiare di un lettore per e-book, il nostro giudizio diventa incerto. Quell’oggetto inconsueto è davvero paragonabile a un libro? La prima 25

tentazione è quella di rispondere negativamente: dove sono le pagine rilegate? Dov’è la copertina? Il tasso di ‘bookness’ di un ebook sembra a prima vista decisamente basso. C’è forse qualcosa che ci sfugge? Quali caratteristiche deve avere un e-book per far scattare il ‘riconoscimento’ e permetterci di utilizzarlo effettivamente come un libro? O forse la ricerca di caratteristiche familiari è fuorviante, e dovremo porci problemi diversi, riconoscendo nell’e-book un medium diverso e interamente nuovo? Partire da queste domande ci porta ad assumere uno specifico punto di vista, che non è quello del tecnologo o del programmatore, e non è neanche, almeno in prima istanza, quello dell’autore, dell’editore o del bibliotecario; è, piuttosto, come si è già accennato nell’introduzione, il punto di vista del lettore. Del resto ogni autore, ogni editore, ogni bibliotecario – ma anche ogni programmatore e ogni progettista di hardware che voglia occuparsi proficuamente di questo settore – deve necessariamente essere anche e in primo luogo un lettore. Perché l’idea di libro elettronico abbia un senso, infatti, è innanzitutto il lettore che deve riconoscere il libro elettronico come un libro, e che deve essere disposto ad affiancare – e in alcuni casi addirittura a sostituire – la lettura in digitale alla lettura su carta. Altrimenti, potremo avere un dispositivo nuovo e certo interessante, che ci permetterà forse di ‘leggere’ nuove forme di testualità nate specificamente per l’ambiente elettronico, ma non un libro. Ma perché mai un lettore, e soprattutto un lettore ‘forte’, abituato alla comodità, alle caratteristiche fisiche, visive, tattili, addirittura olfattive di un libro su carta, e cioè di un oggetto che appare, si è detto, ergonomicamente quasi perfetto, dovrebbe cambiare le proprie abitudini di lettura in maniera tanto radicale? Cosa può cercare (e cosa può trovare), un lettore di libri, in un libro elettronico? Giacché a guidarci è qui in primo luogo il punto di vista del lettore, e di un lettore amante dei libri, non risulterà forse del tutto peregrino cercare di rispondere a questi interrogativi partendo proprio da un libro, e dalle vicissitudini di un lettore piuttosto particolare: un personaggio letterario, nato dalla fantasia del grande scrittore tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Nel racconto La scelta della sposa (Die Brautwahl), pubblicato nel 1819, Hoffmann narra le singolari avventure dei tre pretendenti 26

alla mano di una giovane e affascinante fanciulla, Albertina Vosswinkel. Uno di loro – il primo ad esserci presentato da Hoffmann – è proprio il lettore al quale facevamo riferimento: già avanti negli anni, simpaticamente ma irrimediabilmente pedante, appassionato bibliofilo (e, ci informa Hoffmann, incubo dei bibliotecari, costretti a cercare per suo conto volumi dimenticati e introvabili), il segretario di cancelleria Tusmann corteggia Albertina seguendo alla lettera – con scarsa fortuna e con esiti spesso comici – le indicazioni fornite nel capitolo dedicato al corteggiamento e al matrimonio dalla Sapienza politica di Thomasius, un trattato di saggezza pratica e politica molto diffuso nel XVIII secolo1. Date le premesse, è chiaro che non sarà lui il pretendente prescelto: invincibile è la concorrenza di Edmondo Lehsen, giovane pittore romantico di belle speranze, il solo ad amare Albertina di autentico amore e ad esserne ricambiato. Il terzo pretendente, l’avido e ripugnante barone Beniamino, ha dalla sua potere e denaro, ai quali il padre di Albertina, pur amico di Tusmann e ammiratore dell’arte di Lehsen, non è affatto insensibile. Dopo una serie di avvenimenti che non possiamo qui seguire in dettaglio, la scelta finale fra i tre pretendenti viene affidata a un sorteggio sapientemente gestito dall’orafo Lorenzo, deus ex machina della storia, personaggio misterioso e in odore di stregoneria, protettore di Edmondo e impegnato ad assicurarne la vittoria. Il meccanismo del sorteggio è tipicamente fiabesco; ai tre pretendenti sono presentati tre scrigni chiusi: uno solo di essi conterrà il ritratto di Albertina, e chi lo sceglierà avrà la mano della ragazza. Ma i due pretendenti che sceglieranno gli scrigni ‘sbagliati’, assicura Lorenzo, vi troveranno comunque un dono che ai loro occhi avrà ancor più valore della fanciulla contesa: in tal modo, la felicità di ciascuno sarà garantita. In effetti, mentre il giovane pittore Edmondo gioisce al prevedibile ritrovamento del ritratto della sua amata, lo scrigno dorato prescelto dall’avido barone Beniamino gli regala una lima fatata capace di limare oro da una moneta senza consumarla mai. Ovviamente, la lima entusiasma il barone ben più di quanto avrebbe potuto fare la mano di Albertina: la sua soddisfazione è così garantita. Quanto al nostro segretario di cancelleria... 27

Come allibì il povero Tusmann non trovando affatto l’effige d’Albertina, bensì un libriccino rilegato in pergamena che, aperto, rivelò soltanto delle pagine bianche. V’era unito un foglietto con queste parole: Se hai battuto finora, folle, la strada storta Ecco che la fortuna or ti compensa appien; Scompare l’Ignoranza, e la dorata porta Ti spalanca Sapienza, ti dona ogni suo ben. «Giusto Iddio» balbettò il segretario di cancelleria «soltanto un libro... no, nemmeno un libro, della carta rilegata... invece del ritratto; distrutta ogni speranza!» [...] Tusmann voleva correr via, ma l’orafo gli sbarrò il passo e ammonì: «Tusmann, siete matto? Nessun tesoro può esservi più prezioso di quello da voi trovato! I versi avrebbero dovuto illuminarvi. Suvvia, fatemi il favore, mettete in tasca il libriccino». Tusmann eseguì. «Ora» continuò Leonardo «pensate un libro che vi piacerebbe trovarvi in saccoccia in questo momento». «Ahimè» disse il segretario, sconcertato, «in un impeto sacrilego e sconsiderato ho gettato nello stagno il Breve Compendio di Saggezza Politica del Thomasius!». «Guardate nella vostra tasca, tirate fuori il libro!» fece l’orafo. Tusmann obbedì ed ecco il libro era precisamente il Compendio di Thomasius. «Oh, che è mai questo?» gridò il segretario fuori di sé dallo stupore «mio Dio, il mio beniamino Thomasius è dunque salvo dalle fauci nemiche di vili ranocchi, che non ne avrebbero neppure tratto i preziosi insegnamenti!». «Zitto», lo interruppe l’orefice «rimettete il libro in tasca». E Tusmann così fece. «Pensate a un’opera rara, che abbiate magari ricercato a lungo, che non possiate trovare in una biblioteca». «O Signore», fece il segretario in tono assai mesto «avevo per l’appunto deciso di frequentare talvolta l’Opera per mio diletto, e volevo anzitutto erudirmi nella nobile arte della musica; tentai finora indarno di procurarmi un aureo libriccino che espone allegoricamente tutta l’arte del compositore e del virtuoso. Intendo dire il volume di Giovanni Beer, La guerra musicale [...]». «Guardatevi in tasca», disse l’orafo; e il segretario di cancelleria 28

gettò alte grida di giubilo aprendo il libro che ora era per appunto La guerra musicale di Beer. «Come vedete» commentò Leonardo «per mezzo del libro trovato nella cassetta avete ora a disposizione la più ricca, la più completa biblioteca che nessuno abbia mai posseduto, e inoltre ve la potete portar dietro costantemente. Poiché recando in tasca questo curioso libretto esso si converte ogni volta che lo tirate fuori nell’opera che desiderate giusto di leggere». Senza più badare ad Albertina né al consigliere Vosswinkel, Tusmann si rintanò in un canto, si gettò su una poltrona, intascò il libro, tornò ad estrarlo, e dalla gioia che gli splendeva negli occhi si capiva che quanto l’orafo gli aveva detto avveniva puntualmente2.

Il libro fatato trovato nel proprio scrigno dal segretario di cancelleria Tusmann rappresenta il sogno di ogni bibliofilo. Grazie ad esso, Tusmann ha a disposizione la più ricca biblioteca del mondo, e può portarla sempre con sé. Il libro elettronico promette al proprio lettore meraviglie assai simili al vero e proprio ‘libro universale’ immaginato da Hoffmann3: come vedremo, la maggior parte dei dispositivi di lettura utilizza schede di memoria standard, simili a quelle utilizzate dalle macchine fotografiche digitali o dai telefoni cellulari di ultima generazione, che già oggi possono ospitare fino a 32 gigabyte di dati. Quanto basta per contenere il testo di oltre 65.000 libri4, senza contare che da un lato la capienza di questi supporti di memorizzazione cresce con rapidità impressionante, e dall’altro che il diffondersi di dispositivi di lettura capaci di collegamento wireless a Internet mette potenzialmente a disposizione del loro utente l’intero universo di testi elettronici disponibili attraverso la rete. Un universo non certo illimitato (al momento il nostro Tusmann vi troverebbe – fra le digitalizzazioni realizzate dal progetto Google Books, di cui parleremo più avanti – diverse opere del suo amato Christian Thomasius, ma non il Kurzer Entwurff che desiderava recuperare), ma già piuttosto ricco, e in rapidissima espansione. Eppure, la reazione più frequente di autori e lettori davanti all’idea di libro elettronico sembra essere marcatamente negativa. Il giudizio sprezzante con il quale uno scrittore del calibro di Kurt Vonnegut liquida tale idea può essere considerato da questo punto di vista come paradigmatico: 29

Quella dell’e-book è un’idea ridicola. Il libro stampato è così soddisfacente, così perfetto nel rispondere al tocco delle nostre dita. Gran parte di queste novità è totalmente inutile5.

Un giudizio perfettamente condiviso da una delle massime autorità nel campo della biblioteconomia, Michael Gorman, che ha altrettanto recisamente affermato: Credo che, in linea generale, gli e-book rappresentino un vicolo cieco. E l’idea che le edizioni digitali debbano sostituire quelle a stampa è una cretinata. Una cosa è usare una versione digitale delle pagine gialle, tutt’altra cosa è trovarsi a dover leggere Guerra e pace sullo schermo6.

Giudizi simili sono talmente numerosi da costituire senz’altro la ‘vulgata’ delle reazioni all’idea di libro elettronico da parte del pubblico dei lettori colti. Di fatto, la maggior parte degli amanti del libro su carta non vede affatto nel libro elettronico il sogno di un ‘libro universale’, il libro magico del signor Tusmann, ma l’incubo di un libro impoverito: privo della sua fisicità, della sua individualità, della sua maneggiabilità, costretto nello spazio uniforme e fastidiosamente luminoso di uno schermo. E dietro a questa paura se ne nasconde spesso un’altra, se possibile ancor maggiore: quella di un libro mutante, ibrido, nel quale il primato della parola scritta cede alle lusinghe della multimedialità, suoni e immagini affiancano il testo e lo trasformano in didascalia, l’uso estensivo della forma ipertestuale spezza e decostruisce il ritmo lineare della narrazione e del ragionamento. Quanto sono fondate queste paure? Noi lettori forti, che guardiamo al libro non solo con amore ma con un atteggiamento spesso assai simile all’adorazione religiosa (abbiamo del resto già ricordato che la nostra è una civiltà del libro, nella quale il Dio stesso si manifesta sotto forma di testo, di sacra scrittura), dobbiamo considerare il libro elettronico come un pericolo o come un’opportunità? Come una profanazione, o come uno strumento prezioso di riscatto della testualità scritta nel mondo insidioso dei nuovi media? Porre queste alternative in forma così radicale permette forse di capire come mai il dibattito attorno al libro elettronico sia stato e sia tuttora tanto acceso, ma certo non aiuta il lavoro di anali30

si. Un lavoro che richiede, piuttosto, una base di partenza più sicura, e una paziente raccolta di dati. Per rispondere a queste domande occorre dunque capire un po’ meglio cosa si intenda per libro elettronico, e la strada migliore per farlo è probabilmente quella di studiare da un lato le definizioni che sono state proposte per il termine e-book, e dall’altro la storia di questa idea. 2. Cos’è un libro elettronico? Abbiamo già visto nella prima lezione come dietro al termine ‘libro’ si nascondano molti possibili significati. Non dovrebbe stupire, dunque, che nel parlare di libro elettronico si incontrino analoghi problemi di polisemia. L’espressione ‘libro elettronico’ e i suoi equivalenti inglesi ‘electronic book’ o (più frequente a partire dalla metà degli anni ’90) ‘e-book’, possono così designare sia il dispositivo fisico utilizzato per leggere un testo elettronico (il dispositivo di lettura, o ‘reading device’), sia il testo elettronico (ricavato o meno da un libro precedentemente pubblicato a stampa), sia il ‘prodotto commerciale’ venduto o distribuito in rete e associato a una specifica licenza d’uso. In effetti, tutti i tentativi di definire cosa si intenda esattamente per ‘libro elettronico’ devono fare in qualche modo i conti con questa complessità connotativa. Un compito non facile: se c’è qualcosa su cui concorda la maggior parte degli autori che si sono occupati di e-book, è che sulla definizione di cosa sia un e-book non vi è alcun accordo: Anche se l’idea di libro elettronico non è nuova, c’è ancora molta confusione sugli e-book, anche al livello della loro definizione di base. Attualmente, non vi è nessuna definizione di e-book che sia generalmente accettata e universalmente valida, e il termine è stato usato in letteratura in maniera ambigua. [...] La relazione Promoting the Uptake of E-books in Higher and Further Education sottolinea che “nel contesto dell’editoria accademica non vi è alcuna definizione adeguata per il termine ‘e-book’, e questa è una fonte di confusione e dunque una barriera da superare”7.

L’ambiguità fondamentale – e la principale oscillazione di significato – è indubbiamente legata alla differenza fra e-book co31

me oggetto testuale ed e-book come strumento (fisico) di lettura. La definizione offerta nell’agosto 2005 dalla versione in inglese di Wikipedia la assumeva esplicitamente: Un e-book è la versione elettronica (o digitale) di un libro. Il termine è usato in maniera ambigua per riferirsi o a un’opera individuale in formato digitale, o a un dispositivo hardware utilizzato per leggere libri in formato digitale. Alcuni utenti disapprovano il secondo significato, che considerano più precisamente corrispondente all’espressione “e-book device”8.

Negli anni seguenti questa definizione è stata progressivamente modificata dagli utenti di Wikipedia, e il riferimento al dispositivo di lettura è scomparso dalla definizione del termine, per restare solo come elemento di accompagnamento. Per Wikipedia, dunque, un e-book è oggi solo il testo elettronico di un libro: Un e-book (abbreviazione per electronic book, scritto anche nelle forme eBook o ebook), ovvero un libro digitale, è un testo elettronico che costituisce l’equivalente a livello di media digitali di un libro a stampa convenzionale, talvolta protetto da un sistema di gestione di diritti. Un e-book, secondo la definizione dell’Oxford Dictionary of English, è “una versione elettronica di un libro a stampa, che può essere letto su un personal computer o su un dispositivo portatile progettato espressamente per questo scopo”. Gli e-book vengono normalmente letti su dispositive hardware dedicati, conosciuti come eReaders o e-book devices9.

Decisamente orientata verso l’oggetto digitale, ma anche – come già nel caso di Wikipedia – esplicitamente riferita al modello rappresentato dal libro su carta, è la definizione fornita dalla International Encyclopedia of Information and Library Science: nella prima edizione, ‘e-book’ è “termine usato per descrivere un testo analogo a un libro, in forma digitale e destinato ad essere visualizzato sullo schermo di un computer”10; nella seconda, un e-book è “il risultato dell’integrazione della classica struttura di un libro, o piuttosto del familiare concetto di libro, con caratteristiche che possono essere offerte all’interno di un ambiente elettronico”11. Ancora relativa all’oggetto digitale, ma senza il riferimento al modello rappresentato dal libro a stampa, è la definizione offerta 32

nel settembre 2000 dal documento A Framework for the Epublishing Ecology, redatto dall’Open eBook Forum (oggi International Digital Publishing Forum: un organismo del quale ci occuperemo in seguito). In tale documento, l’e-book è definito come un’opera letteraria in forma di oggetto digitale, consistente di uno o più identificatori univoci standard, di metadati e di un corpo monografico di contenuto, destinata ad essere pubblicata e utilizzata in forma elettronica12.

Un’altra definizione autorevole viene dal NISO (National Information Standards Organization), importante organizzazione statunitense dedicata alla creazione e allo studio di standard legati alla gestione dell’informazione. Per il NISO, un e-book è un documento digitale, sotto licenza o liberamente accessibile, costituito prevalentemente da testo ricercabile, e che può essere visto in analogia con un libro a stampa (monografia). L’uso degli e-book dipende in molti casi da lettori dedicati e/o da software specifici per la visualizzazione e la lettura13.

Più concisa – e non proprio illuminante – è la definizione fornita dall’EBX Working Group, che fino alla fusione con l’Open eBook Forum era stato un altro fra gli organismi di riferimento del settore: nel draft 0.8 delle EBX system specification un e-book è definito come “un oggetto digitale che costituisce la rappresentazione elettronica di un libro”14. Il riferimento al modello rappresentato dal libro non manca neanche nella definizione proposta da Chris Armstrong, per il quale un e-book è qualunque contenuto che sia riconoscibile come analogo a un libro (‘book-like’), indipendentemente dalla sua origine, dalle sue dimensioni, dalla sua composizione, ma escludendo le pubblicazioni periodiche, che sia reso disponibile in formato elettronico per riferimento o lettura attraverso qualunque dispositivo (portatile o da scrivania) che includa uno schermo15.

Dal canto loro Andrew Cox e Sarah Ormes, in un interessante intervento nel quale il tema è affrontato dedicando particolare 33

attenzione all’impatto sul sistema educativo e bibliotecario, parlano di libri elettronici (electronic books) a proposito di testi scaricati dalla rete e letti su un PC o su un dispositivo portatile, utilizzando un software specifico o un browser [...] o letti attraverso un dispositivo hardware dedicato (che noi chiameremo E-Book reader)16.

Il riferimento alla rete, e in particolare al web, sembra un tratto comune di molte fra le definizioni di libro elettronico date fra il 2002 e il 2007. In tale periodo, come vedremo, l’attenzione verso i dispositivi di lettura dedicati (i ‘lettori per e-book’) era assai meno viva sia rispetto al periodo a cavallo fra 1999 e 2000, prima del crollo in borsa delle aziende legate al settore dei nuovi media, sia rispetto ad oggi, dopo l’uscita del Kindle (2007) e degli altri lettori di seconda generazione. E di libri elettronici si parlava soprattutto con riferimento alle collezioni di testi elettronici realizzate da consorzi o grandi editori e consultabili a pagamento via rete. In effetti, proprio intorno al 2004-2005 molti servizi commerciali nati per iniziativa di grandi gruppi editoriali (ad esempio SpringerLink, nato dalla fusione di Springer e Kluwer), ma anche alcune biblioteche digitali nate per iniziativa di volontari, come – in Italia – il progetto Manuzio17, hanno cominciato ad utilizzare il termine e-book per riferirsi ai testi elettronici disponibili all’interno di una collezione digitale on-line. Nel caso dei principali servizi commerciali, questi testi sono accessibili attraverso una specifica interfaccia web che consente anche operazioni di ricerca e talvolta di annotazione. I progetti istituzionali di biblioteca digitale sembrano invece meno propensi ad utilizzare il termine ebook per riferirsi ai testi elettronici compresi nelle loro collezioni e accessibili via web, e preferiscono utilizzare il termine generico ‘book’ (o le sue varianti linguistiche). Sembra essere questa anche la scelta di Google Book Search, il più ambizioso progetto privato di digitalizzazione libraria, sul quale torneremo in seguito. Un altro esempio di definizione al cui interno ha un ruolo centrale il riferimento alla rete come ambiente di fruizione degli ebook è fornito dal Joint Information Systems Committee (JISC), organismo con funzioni di indirizzo strategico nel campo dell’applicazione delle nuove tecnologie all’educazione nel Regno Uni34

to. Nella già citata relazione Promoting the Uptake of E-Books in Higher and Further Education, dell’agosto 2003, viene proposta, pur con molte cautele, la definizione seguente: La definizione di lavoro utilizzata dal JISC è “una versione online di un libro a stampa, accessibile attraverso Internet”; anche se tale definizione può fornire uno strumento di lavoro adeguato per il JISC EBooks Working Group, essa è stata variamente criticata come “troppo ampia”, “troppo imprecisa” e “fuorviante nel suggerire un riferimento solo a testi completi” da alcuni degli autori di questa relazione18.

Non mancano poi in letteratura le definizioni chiaramente orientate al dispositivo di lettura: ad esempio quella proposta da Jan O. Borchers, per il quale un libro elettronico, o e-book, è un sistema portatile, costituito da hardware e software in grado di visualizzare grandi quantità di informazione testuale, e in grado di consentire all’utente di navigare all’interno di questa informazione19.

Immediatamente dopo aver proposto questa definizione, tuttavia, Borchers propone una classificazione dei libri elettronici in quattro generi (reference and documentation, learning, browsing, entertainment), classificazione che riguarda evidentemente la tipologia dei contenuti più che il dispositivo hardware e software utilizzato per leggerli. Le differenze fra queste definizioni – e fra le molte altre proposte – potrebbero essere oggetto di lunghe discussioni. Come abbiamo visto, in alcuni casi l’accento è posto prevalentemente sul contenuto in formato digitale20, in altri sull’unione di contenuti digitali e strumenti hardware di lettura, in altri ancora soprattutto sul dispositivo di lettura. In alcuni casi si sottolinea l’importanza di una organizzazione ‘monografica’ del testo e della presenza di metadati descrittivi, in altri il riferimento sembra essere genericamente a qualunque tipo di testualità elettronica. Talvolta l’idea di libro elettronico sembra presupporre la preventiva disponibilità del testo anche in forma cartacea21, talvolta invece l’accento è posto sull’esplorazione delle peculiari caratteristiche di multimedialità e inte35

rattività associabili alla testualità elettronica. Anche il riferimento al web come canale privilegiato di distribuzione è presente in alcune definizioni e totalmente assente in altre. In questa situazione assai confusa, un filo conduttore è rappresentato comunque dal riferimento al modello rappresentato dal libro, presente in ben 31 definizioni su 39 nel censimento condotto da Vassiliou e Rowley22. Un riferimento importante, ma che non ci aiuta troppo a chiarire la questione: a volte infatti è relativo al libro come forma di organizzazione testuale, a volte al libro a stampa come fonte del contenuto digitalizzato. Nel complesso, comunque, chi parla di e-book sembra fare spesso riferimento a un’accezione assai estesa del termine, attribuendo la qualifica di libro elettronico a qualunque testo compiuto, organico e sufficientemente lungo, eventualmente accompagnato da metadati descrittivi, disponibile in un qualsiasi formato elettronico che ne consenta – fra l’altro – la distribuzione in rete, e la lettura attraverso un qualche tipo di dispositivo hardware, dedicato o no. Il frequente riferimento al modello rappresentato dal tradizionale libro su carta – e al complesso insieme di connotazioni ad esso collegato – resta però di norma, come abbiamo visto, abbastanza generico, e sembra giustificarsi per lo più attraverso un ragionamento controfattuale, in verità non particolarmente rigoroso (e per di più normalmente implicito): considerate la sua lunghezza e le sue caratteristiche di compiutezza e organicità, se il testo in questione, anziché essere disponibile in formato elettronico, fosse stampato, sarebbe probabilmente stampato sotto forma di libro23. Molto spesso, del resto, i testi disponibili in formato ebook corrispondono a libri pubblicati anche su carta, anche se – con buona pace della già ricordata proposta di Ana Arias Terry e della definizione fornita da NetLibrary – sembra davvero difficile fornire una qualche plausibile motivazione per escludere a priori dal novero dei libri elettronici le opere disponibili unicamente in formato digitale. Così come sembra difficile giustificare l’idea che la distribuzione attraverso la rete – pur costituendo ormai la norma nel caso dei contenuti digitali – debba rappresentare una conditio sine qua non per poter parlare di libri elettronici. È importante notare come, nell’accezione sopra considerata, nessun vincolo particolare sia posto né sui dispositivi di lettura, 36

né sugli strumenti software utilizzati per accedere ai testi. Apparentemente, per molti fra gli operatori del settore, anche un documento scritto con un qualunque word processor, o una normale pagina web, potrebbero dunque essere considerati ‘libri elettronici’, purché conchiusi e sufficientemente lunghi. Michael Hart, il fondatore del progetto Gutenberg, ritiene così che sia nel caso del libro a stampa sia nel caso del libro elettronico l’elemento determinante sia il contenuto, mentre gli aspetti fisici dell’interfaccia di lettura “siano questioni meramente formali con poca o nessuna esistenza nella mente degli autori, ma piuttosto artefatti degli editori”24. E coerentemente, come si è già accennato, considera libri elettronici a pieno titolo anche i testi elettronici in formato solo testo (ne parleremo in dettaglio nella quarta lezione) che il progetto Gutenberg mette a disposizione. Al variegato ma – come si è visto – almeno per qualche aspetto convergente panorama delle definizioni di e-book fin qui discusse si contrappone una posizione minoritaria ma non per questo meno interessante: quella di chi rifiuta la stessa idea di libro elettronico, considerandola una sorta di ossimoro e difendendo la tesi secondo la quale può dirsi legittimamente ‘libro’ solo il libro a stampa, con il quale i prodotti dell’editoria elettronica sarebbero – considerate le loro peculiari caratteristiche e potenzialità – in linea di principio non confrontabili. Nel suo intervento al primo convegno dedicato agli e-book dall’Università della Tuscia, nel maggio 2001, l’editore Giuseppe Laterza aveva difeso una tesi di questo tipo, sottolineando le differenze esistenti fra ‘assemblaggio digitale’ di contenuti multimediali e realizzazione di un libro destinato alla stampa25. Strumenti utilizzati e possibilità espressive sono a suo giudizio talmente diversi nei due casi, da rendere non solo difficile ma anche sbagliato utilizzare in maniera troppo diretta il modello ‘libro’ nel mondo dei nuovi media digitali. Nel sostenere che i libri elettronici siano cosa radicalmente ‘altra’ rispetto a quelli a stampa, la preoccupazione è evidentemente anche quella di conservare all’editoria tradizionale un proprio spazio autonomo e non riducibile. Interesse dunque per le nuove realizzazioni rese possibili dall’uso degli strumenti elettronici, accompagnato però dall’invito a lasciare al libro su carta, e a chi lo pubblica, la funzione di trasmissione e mediazione culturale da essi tradizionalmente svolta: funzione certo non più esclusiva, ma 37

non per questo meno importante. A questa posizione può paradossalmente accostarsi, pur nella diversità di accenti, quella di chi sottolinea l’importanza dell’uso generalizzato delle caratteristiche specifiche dei media digitali, in primo luogo ipertestualità, interattività e multimedialità. Così, ad esempio, nel riassumere le conclusioni di un gruppo di lavoro del CNRS francese sul tema, JeanGabriel Ganascia sostiene che il termine libro elettronico è restrittivo, perché il libro rappresenta un supporto particolare per la scrittura che è emerso in uno specifico momento storico; è restrittivo parlare di libro, in una situazione in cui convergono i supporti della scrittura, del suono e dell’immagine26.

In sostanza, per i sostenitori di questa tesi l’accostamento al libro delle nuove forme di testualità digitali è improprio: in quest’ultimo caso, infatti, l’uso integrato di codici comunicativi diversi (multimedialità) e l’organizzazione ipertestuale dell’informazione danno vita a qualcosa di intrinsecamente nuovo e diverso da quello che il libro è stato e ha rappresentato nella storia della cultura. Non esistono ‘libri elettronici’: esistono libri – prodotto di uno specifico, anche se lungo e importante, contesto storico e culturale – ed esistono oggetti informativi digitali che assumono e assumeranno forme nuove, nella maggior parte dei casi irriducibili a quelle del passato. 3. Alcuni requisiti e un tentativo di definizione Se ci soffermiamo sul libro elettronico considerato come oggetto digitale, le posizioni che abbiamo fin qui discusso possono essere distribuite su una scala: a un estremo vi è l’idea che qualunque testo elettronico di una certa lunghezza possa essere definito un libro elettronico, all’altro estremo vi è l’idea che il concetto stesso di libro elettronico sia da rifiutare perché inesatto, inadeguato o fuorviante rispetto alle caratteristiche completamente o prevalentemente ‘altre’ dei nuovi media digitali. La posizione che vorrei sostenere in questa sede è in qualche misura intermedia, ed è diretta conseguenza delle considerazioni già svolte a proposito dell’importanza e del ruolo dell’interfaccia di lettura. Pur partendo dall’assunzione che parlando di libro elet38

tronico ci si debba riferire in primo luogo all’oggetto digitale e non al supporto di lettura, ritengo sia dunque essenziale considerare anche le caratteristiche del supporto di lettura al quale quell’oggetto digitale è in primo luogo destinato: solo se tale supporto cerca di avvicinarsi alle caratteristiche ergonomiche e di usabilità proprie del libro a stampa, ha senso parlare di libro elettronico e non di semplice testo elettronico di un libro. Il rifiuto delle posizioni ‘estreme’ nasce da un’assunzione di fondo: l’idea secondo cui l’insieme di pratiche, di strumenti e di modelli teorici che costituiscono l’eredità di (almeno) cinque secoli di ‘cultura del libro’ non vada né dimenticato o abbandonato, né considerato un dato non modificabile, ma possa e debba invece continuare la propria evoluzione – in forme certo in parte nuove e inattese – anche nell’era dei media digitali. Da questo punto di vista la prima posizione, che potremmo caratterizzare come tesi dell’ubiquità dell’e-book nell’ambiente elettronico, ha il difetto di dimenticare che un ‘libro’ non corrisponde solo a un particolare modello di organizzazione testuale (un testo di norma lineare, unitario, chiuso, sufficientemente lungo...), ma anche allo strumento fisico che ne consente la fruizione: un oggetto che ha determinate dimensioni, una certa forma, un certo peso, un certo numero di pagine, usa un certo tipo di carta e un certo tipo di caratteri tipografici, ha una particolare rilegatura. Come abbiamo visto nella prima lezione, il libro come oggetto fisico – o meglio, il libro come interfaccia di lettura – non è semplicemente il supporto del testo: è parte essenziale dello spazio concettuale al cui interno il testo stesso viene prodotto e fruito, ne condiziona forma e struttura. In buona parte della nostra tradizione testuale (e nella quasi totalità della nostra tradizione letteraria), il lettore implicito – il lettore ‘suggerito’ o implicato dal testo27 – ha in mano un libro, ed è attraverso la mediazione tutt’altro che irrilevante del libro come oggetto fisico che arriva al libro come oggetto testuale. Abbiamo già sottolineato che queste due accezioni del termine ‘libro’ non vanno confuse. E tuttavia quando parliamo di cultura del libro facciamo riferimento proprio allo spazio storico e teorico di interazione fra questi concetti, sì che nel senso forse più diffuso del termine un ‘libro’ è per noi l’unione di scrittura, testualità, da un lato, e supporto, interfaccia di lettura, dall’altro. 39

Si obietterà: perché questo genere di considerazioni – e in particolare le dimensioni e le caratteristiche ergonomiche dell’interfaccia fisica di lettura costituita del tradizionale libro a stampa – dovrebbero conservare un peso anche nel campo dell’editoria elettronica, per sua natura così lontano dalla fisicità della carta e dell’inchiostro? Il punto fondamentale è che, come si è visto nella prima lezione, le caratteristiche dell’interfaccia utilizzata per la lettura non sono affatto ‘neutrali’, e non mancano di influenzare né le strutture testuali, né i modi di fruizione del testo. Un libro su carta può essere letto con facilità alla scrivania, ma anche in poltrona, a letto, durante un viaggio in treno o sulla sdraio sotto l’ombrellone (ricordate la distinzione fra situazioni lean forward, lean back e in mobilità?); può essere sottolineato e annotato – nei limiti spesso tiranni dello spazio bianco disponibile a margine del testo, come ci ricorda l’esempio celebre dell’ultimo teorema di Fermat28 –; può essere conservato in uno scaffale o preso in prestito da una biblioteca; richiede specifiche procedure di stampa, immagazzinamento e distribuzione, e così via. Queste caratteristiche non sono accessorie e accidentali: al contrario, sono una componente importante – talvolta essenziale – del nostro concetto di libro. La storia della ‘cultura del libro’ è anche la storia del loro sviluppo e della loro progressiva trasformazione. L’editoria elettronica potrebbe, in apparenza, disinteressarsi di questa storia, e preoccuparsi solo delle caratteristiche intrinseche dei suoi peculiari ‘oggetti digitali’. Ma non è una scelta naturale – l’eredità di un passato così ricco e impegnativo non può essere semplicemente ignorata – e non sarebbe una scelta saggia. L’obiezione principale (per molti versi assolutamente fondata) mossa ai profeti della nuova editoria digitale dai difensori del libro a stampa è che leggere un libro su carta è “molto più comodo” che leggere sullo schermo di un computer. Questa ‘comodità’ è frutto di una lunga evoluzione, che – come ci ricorda l’osservazione di Eco già citata – ha reso il libro a stampa un oggetto ergonomicamente quasi perfetto e ha creato nell’utente abitudini e aspettative che potranno certo progressivamente cambiare, ma che non sarebbe sensato voler mutare nello spazio di pochi anni, soprattutto se il mutamento è percepito dall’utente stesso come faticoso e poco o per nulla vantaggioso. Il solo testo elettronico, dunque – anche se corrisponde al 40

contenuto testuale di un libro a stampa – non è a mio avviso di per sé un libro elettronico: perché si possa parlare di e-book occorre che possa essere fruito attraverso interfacce adeguate, che rappresentino un’evoluzione naturale di quelle alle quali ci ha abituato il libro su carta (e quindi non solo un’evoluzione tecnologica del PC da scrivania): strumenti portatili, leggeri, poco stancanti per la vista, capaci di un’alta risoluzione e di una buona resa dei colori, privi di cavi e fili elettrici, possibilmente non troppo costosi e non troppo fragili. L’esistenza di buoni (e comodi) strumenti per la lettura di testi elettronici è, da questa prospettiva, un prerequisito indispensabile non solo per la diffusione commerciale dei libri elettronici, ma per la stessa riflessione teorica sulle loro caratteristiche. La tesi dell’ubiquità dell’e-book nell’ambiente elettronico, evitando di fare assunzioni sugli strumenti di lettura o – peggio – considerando scontato che il normale computer da scrivania costituisca l’interfaccia ‘naturale’ per la lettura di libri elettronici, manca di prendere in considerazione una dimensione fondamentale del nostro concetto di libro e delle nostre pratiche di lettura. Veniamo ora alla seconda posizione, che potremmo etichettare come tesi della radicale eterogeneità di libro a stampa e media digitali. Per giustificarla, viene solitamente addotta una (e più spesso entrambe) delle due assunzioni seguenti: 1) l’idea già ricordata che le interfacce informatiche – considerate anche in questo caso a partire dal modello rappresentato dal computer da scrivania – siano inevitabilmente scomode, stancanti e comunque incapaci di raggiungere la portabilità e l’ergonomia del libro a stampa; 2) l’idea che la possibilità offerta dai media digitali di integrare contenuti multimediali e di organizzarli in maniera ipertestuale e interattiva porti inevitabilmente alla realizzazione di ‘oggetti informativi’ assai lontani dal modello chiuso, lineare e basato principalmente sulla testualità scritta proprio del libro a stampa. Si tratta di due assunzioni diverse, che è bene non confondere. La prima – come risulterà chiaro già dalle osservazioni fin qui svolte – è a mio avviso semplicemente sbagliata, ed è il risultato di un vero e proprio errore categoriale. Rileggiamo insieme il passo di Gorman che abbiamo già avuto occasione di citare, e che costituisce – mi sembra – un esempio particolarmente chiaro di questo errore. 41

L’idea che le edizioni digitali debbano sostituire quelle a stampa è una cretinata. Una cosa è usare una versione digitale delle pagine gialle, tutt’altra cosa è trovarsi a dover leggere Guerra e pace sullo schermo29.

L’argomentazione proposta da Gorman (che nel sostenere questa linea di ragionamento è peraltro in ottima, illustre e nutrita compagnia) è la seguente: la lettura sullo schermo di un computer – in particolare la lettura su schermo di un testo unitario e lineare come Guerra e pace – è scomoda, ergo la lettura in formato digitale è sempre e comunque scomoda; è dunque stupido pensare che le edizioni digitali possano sostituire quelle a stampa. Nonostante l’autorevolezza dei suoi sostenitori, si tratta però di un’argomentazione completamente fallace: mentre lo schermo del computer è una interfaccia fisica (risultato di uno specifico sviluppo tecnologico), il formato digitale è qualcosa di astratto, una modalità di codifica dell’informazione. Il ragionamento proposto da Gorman sarebbe valido solo a condizione che il legame fra codifica digitale del testo e uso dello schermo (o meglio degli schermi – indubbiamente ancora abbastanza scomodi – oggi disponibili) come interfaccia di lettura fosse un legame necessario. Ma così evidentemente non è, proprio a causa della differenza categoriale esistente fra la particolare, concreta interfaccia fisica che utilizziamo per leggere un testo elettronico e il testo elettronico stesso. Di per sé, considerato come oggetto digitale, un testo elettronico non pone, e non può porre, alcun particolare vincolo sul tipo di interfaccia di lettura che sarà utilizzata per leggerlo30. Cinquant’anni fa avremmo utilizzato delle schede perforate (e non ci sarebbe neanche passata per la mente l’idea di usarle per consultare un dizionario o le pagine gialle, anche se in linea di principio avremmo potuto farlo), trent’anni fa un monitor a fosfori verdi, quindici anni fa uno schermo a raggi catodici, oggi uno schermo a cristalli liquidi ma anche, come vedremo, carta elettronica e inchiostro elettronico, fra qualche anno uno schermo OLED (Organic Light-Emitting Diode, una tecnologia di cui parleremo in seguito), più avanti ancora chissà, magari le interfacce dirette col sistema neurale tanto care agli scrittori di fantascienza. In ogni caso non c’è alcun motivo per inferire, dalla scomodità di lettura degli schermi oggi esistenti (peraltro già assai minore di quella degli 42

schermi di dieci o vent’anni fa), che la lettura in formato digitale debba essere sempre e comunque scomoda. Ci sono anzi, come vedremo meglio in seguito, ottime ragioni per pensare il contrario. Le interfacce informatiche sono assai giovani, e l’evoluzione tecnica è in questo campo rapidissima; anche se lo sviluppo di interfacce ergonomicamente valide richiede un lavoro di studio e ricerca che va ben oltre la mera disponibilità delle necessarie risorse tecnologiche, non c’è motivo per ritenere che questo lavoro non debba portare nel medio periodo a risultati soddisfacenti. I lettori per e-book come il Kindle distribuito da Amazon o il Nook di Barnes & Noble, e i tablet come il recentissimo iPad della Apple, strumenti sui quali ci soffermeremo fra breve, offrono già un’interfaccia di lettura assai più comoda del monitor da scrivania31, e – pur trattandosi solo di strumenti di seconda e al massimo di terza generazione, per molti versi ancora poco soddisfacenti – indicano una chiara direzione di sviluppo. Non occorre una palla di vetro per prevedere che in un futuro non lontano avremo a disposizione lettori per testi elettronici ancora più comodi, portabili ed ergonomici di quelli attuali: a quel punto, la possibilità di utilizzarli per leggere e consultare intere biblioteche di testi, associata alle possibilità di ricerca e di annotazione e manipolazione del testo proprie del formato digitale, potrà costituire un vantaggio decisivo rispetto ai tradizionali libri a stampa32. La seconda delle assunzioni precedentemente ricordate è più interessante, e ha sicuramente un fondamento di verità. È difficile pensare che, avendo la possibilità di affiancare al testo e alle illustrazioni statiche dei libri tradizionali anche suoni e filmati, questa possibilità non venga usata da autori ed editori. Ciò porterà – come del resto già avviene nel caso del web e come è avvenuto in passato nel caso dell’editoria elettronica su CD-ROM e DVD – alla realizzazione di ‘oggetti informativi’ di nuovo tipo, che conserveranno alcune caratteristiche dei libri ai quali siamo abituati affiancandovi caratteristiche nuove, in parte mutuate dal mondo musicale e da quello cinematografico e televisivo. Un processo di ibridazione di questo tipo – sul quale ci soffermeremo in parte nell’ultima di queste lezioni – spaventerà o scandalizzerà alcuni e probabilmente incuriosirà altri: sicuramente richiederà diversi decenni di sviluppo perché si possano consolidare modelli, stili espressivi, abitudini di scrittura e di lettura. 43

Il problema che ci interessa in questa sede è tuttavia un altro: è davvero prevedibile che queste possibilità di ‘assemblaggio multimediale’ rendano obsoleta la scrittura tradizionale, la narrazione lineare, l’eredità testuale della cultura del libro? Personalmente ne dubito: sono convinto che continueremo anche a scrivere (e a leggere) opere testuali prive di ‘orpelli’ multimediali. Materiali visivi e sonori che per determinati scopi potrebbero costituire un arricchimento, in altri casi potrebbero invece rappresentare una distrazione o – nell’indirizzare e nel fissare l’immaginazione – un elemento controproducente di rigidità. Penso insomma che la possibilità di realizzare ‘libri ibridi’ basati sull’assemblaggio di contenuti multimediali e su strutture interattive e ipertestuali offrirà un campo nuovo alla ricerca e alla sperimentazione, anche letteraria; produrrà probabilmente opere valide e – inevitabilmente – molta spazzatura, ma non ucciderà la cultura del libro: sia perché continueremo a scrivere e a leggere opere molto più tradizionali, basate unicamente o prevalentemente sulla testualità scritta, sia perché gli stessi libri ‘multimediali’ non potranno non riprendere (proprio nello svilupparli e nel modificarli) elementi e caratteristiche propri della nostra tradizione testuale. È questo, ritengo, il senso nel quale va accolta, nel campo dell’editoria elettronica, la tesi per altri versi abbastanza discutibile secondo la quale i nuovi media tendono ad affiancarsi e integrarsi ai media esistenti, più che a sostituirli33. Il problema non è quello della tecnologia utilizzata: pensiamo a quanti e quali cambiamenti ha conosciuto nel tempo la tecnologia di produzione materiale dei libri (si è già accennato al fatto che carta, colle, inchiostri, tecnologie di stampa sono oggi assai diversi da quelli utilizzati anche solo cent’anni fa), senza che questo modificasse in modo radicale il nostro concetto di ‘libro’. Il problema è quello dei codici comunicativi, delle forme della testualità, dei modi di fruizione dell’opera, delle caratteristiche ergonomiche (più che strettamente tecnologiche) dell’interfaccia di lettura. Possiamo credo già dire con sufficiente sicurezza che la rivoluzione digitale e l’emergere della multimedialità non hanno affatto determinato la morte dei media ‘monocodicali’, e in particolare di quelli basati sulla scrittura, indipendentemente dai cambiamenti tecnologici che questi ultimi possono aver conosciuto. Se è così, perché pensare che i lettori elettronici, una volta su44

perati i problemi ergonomici ai quali si accennava prima, non possano essere utilizzati anche per leggere testi più tradizionali? Quali caratteristiche peculiari e specifiche dell’editoria su carta ne impedirebbero il passaggio al mondo dei bit, una volta garantita la disponibilità di strumenti di lettura capaci di non far rimpiangere la comodità del tradizionale libro a stampa, e una volta stabilito che le potenzialità pur rivoluzionarie di tali strumenti di lettura non devono comunque necessariamente trasformare ogni libro in una sorta di film interattivo? Siamo davvero convinti che il nostro amore per i libri sia legato principalmente alle sensazioni tattili offerte dalla carta o all’odore di colla (che peraltro, come si accennava, è più volte cambiato nel corso del tempo) del libro intonso? Da questo punto di vista, la realizzazione di libri elettronici che siano davvero e in primo luogo dei libri, dipende innanzitutto da due condizioni: la vitalità della testualità scritta e prevalentemente lineare, e lo sviluppo di interfacce di lettura capaci almeno di avvicinarsi alla perfezione ergonomica del libro a stampa. La prima di queste condizioni è culturale, la seconda è insieme tecnologica e culturale (giacché la progettazione di un’interfaccia non è mai questione unicamente tecnica). Strumenti di questo genere si avvicinerebbero al libro magico del signor Tusmann abbastanza da poter essere riconosciuti come libri e da essere apprezzati anche dai bibliofili più esigenti: una prospettiva che sembra prefigurata da una osservazione dello stesso Umberto Eco: È vero che si sta persino sperimentando una specie di carta, che dovrebbe assomigliare alla carta solo che all’interno, invece di quelli che erano i fili, le filigrane dell’antica carta di stracci, ha dei transistor, così [...] potete avere un volume in forma di volume in cui inserite una microcassetta grossa come un’unghia, che contiene Guerra e Pace e improvvisamente le pagine diventano Guerra e Pace, potete annotarle, potete sottolinearle, dopo di che potete salvare tutto in cassetta, togliere e mettere Pinocchio e così via. Bene, anche se a questo arrivassimo, avremmo sempre a che fare con dei libri, così come c’è stato il passaggio dalla pergamena alla carta, e dalla carta di stracci alla carta di legno ci sarà il passaggio dalla carta di legno a questa forma di supporto ma non per questo un libro cesserà di essere un libro34. 45

Del resto già nel 1993, e proprio nel sostenere l’importanza di alcune caratteristiche fisiche del libro come interfaccia di lettura, Geoffrey Nunberg affermava Forse un giorno o l’altro il libro e il display elettronico convergeranno in un display elettronico talmente sottile e flessibile da essere del tutto indiscernibile da una pagina stampata. A quel punto potremo parlare di un vero libro elettronico – qualcosa che conservi molte delle proprietà fisiche utili di un libro tradizionale, ma che potrà anche essere cancellato, aggiornato, su cui potremo fare ricerche per termini, e così via. Ma se questa convergenza avrà luogo, sarà perché la tecnologia sarà diventata sostanzialmente invisibile. Dal punto di vista fenomenico, il libro elettronico dovrà comportarsi come un libro, indipendentemente da tutte le altre cose che potrà fare, proprio come un pianoforte elettronico deve comportarsi come un pianoforte tradizionale. E nel frattempo è probabile che il libro a stampa resterà il medium d’elezione per la lettura seria ed estensiva associata con la cultura letteraria, mentre versioni elettroniche degli stessi testi saranno sempre più spesso disponibili per altri scopi35.

C’è un punto, nella tesi di Nunberg, che va considerato con una certa attenzione: egli sostiene che un libro elettronico ottimale si avvicinerebbe così tanto alla forma propria del libro a stampa da rendere la tecnologia ‘sostanzialmente invisibile’. Questo non è esattamente vero: anche quella del libro a stampa è una tecnologia. Una tecnologia, però, così diffusa, così funzionale e così legata alla nostra tradizione culturale da essere diventata per noi quasi un dato di natura. Il punto non è allora nascondere del tutto qualunque aspetto tecnologico, ma semmai essere capaci di assorbire perfettamente – dal punto di vista dell’esperienza d’uso – la vecchia tecnologia nella nuova. Eco e Nunberg sostengono dunque una tesi assai simile: perché un libro elettronico possa essere riconosciuto come libro, deve anche essere capace di imitare, in maniera quasi mimetica, le caratteristiche di un libro a stampa. Potrà fare mille altre cose, ma deve anche rispondere a questo che potremmo chiamare requisito di mimicità. Certo, al posto della carta e dell’inchiostro ci sarà qualcos’altro, ma questo qualcos’altro dovrà risultare, agli occhi del lettore, pressoché indistinguibile, e comunque altrettanto comodo quanto la carta e l’inchiostro tradizionale. Non a caso, e con 46

poca fantasia, le tecnologie che si muovono in questa direzione sono state battezzate e-paper ed e-ink. Il requisito di mimicità impone al libro elettronico – indipendentemente dalle sue caratteristiche innovative di manipolazione dinamica dei testi, dalla sua capacità di ‘trasformarsi’ di volta in volta in testi diversi immagazzinandone nella sua memoria elettronica centinaia o migliaia, nonché dalle sue eventuali capacità ipertestuali e multimediali – di ricordarsi delle sue origini, e di pagare il dovuto omaggio alla perfezione ergonomica del suo antenato a stampa. Nell’ammettere la possibilità di libri elettronici che soddisfino il requisito di mimicità, Eco e Nunberg mostrano di non cadere nel tranello di considerare lo schermo del computer, nella sua forma attuale, come l’unica interfaccia di lettura possibile per gli ebook. E in effetti il requisito di mimicità – come vedremo, tutt’altro che facile da soddisfare – rappresenta un condizionamento importante sul lavoro di sviluppo dei dispositivi di lettura per testi elettronici. I dispositivi fin qui realizzati rispondono solo in parte a tale requisito, e questo contribuisce a spiegarne il successo commerciale solo parziale. Può essere utile, ai nostri scopi, tener presente anche una versione lievemente indebolita del requisito di mimicità, che proporrei di chiamare requisito di autosufficienza. Vediamo di capire di cosa si tratta. Davanti a un testo elettronico visualizzato attraverso un’interfaccia di lettura percepita come scomoda (ad esempio lo schermo di un computer), la reazione naturale dell’utente è quella di cercare di cambiare interfaccia di lettura. La forza di questa reazione dipende da due fattori: la lunghezza del testo, e la scomodità dell’interfaccia di lettura utilizzata inizialmente. Un esempio tipico di questo meccanismo è dato dal desiderio di stampare un documento scaricato dalla rete, quando lo percepiamo come troppo lungo per una lettura comoda su schermo. Ma lo stesso meccanismo può entrare in funzione anche in altri casi: ad esempio, la maggior parte degli utenti è soddisfatta dello schermo del computer come interfaccia di lettura per consultare la home page di un normale sito web (non sente il bisogno di stamparla per leggerla), ma potrebbe non esserlo visualizzando la stessa pagina sullo schermo assai più piccolo di un telefonino (in questo caso il desiderio non è quello di stampare la pagina, ma di visualizzarla 47

su uno schermo più grande). Possiamo dire, in termini intuitivi, che un dispositivo di lettura per libri elettronici risponde al requisito di autosufficienza se, utilizzandolo per leggere un testo piuttosto lungo (il testo di un libro), l’utente non sente il bisogno di stampare quel che sta leggendo. Alla luce di tutte le considerazioni fin qui svolte, possiamo provare ad avanzare una nostra ipotesi di definizione del libro elettronico, in parte diversa da quelle ricordate fin qui: una definizione che alla considerazione dell’e-book come oggetto digitale affianchi la dimensione pragmatica dell’interfaccia e delle modalità di lettura36. Un libro elettronico, in questa prospettiva, è un testo elettronico che: a) dal punto di vista della forma testuale si riallaccia all’eredità della cultura del libro (un testo strutturato, ragionevolmente esteso, compiuto, opportunamente codificato e di norma accompagnato da un insieme di metadati descrittivi, organizzato per una lettura almeno parzialmente lineare attraverso una interfaccia paginata), e b) dal punto di vista della fruizione può essere utilizzato attraverso dispositivi di lettura – siano essi dedicati o multifunzionali – e interfacce software capaci di permettere una lettura agevole di tali contenuti, nelle stesse situazioni di fruizione in cui potremmo leggere un libro e senza far rimpiangere il supporto cartaceo dal punto di vista dell’ergonomia e dell’usabilità. Un libro elettronico di questo tipo dovrebbe dunque consentire una lettura comoda e agevole (tanto da non far sorgere il desiderio di stampare su carta ciò che si sta leggendo) in tutte o almeno nella maggior parte delle situazioni nelle quali siamo abituati ad utilizzare i libri a stampa: in poltrona, a letto, in viaggio, ecc.; dovrebbe inoltre garantire la fruizione completa e soddisfacente di tutte le tipologie di organizzazione testuale proprie della cultura del libro. Dispositivo e programma di lettura potranno consentire anche la fruizione di oggetti informativi ipertestuali e multimediali, ma dovranno innanzitutto permettere la comoda lettura di un testo prevalentemente lineare, offrendo strumenti di annotazione rapida, sottolineatura, uso di segnalibri, ecc., possibilmente integrati dagli strumenti di ricerca e navigazione avanzata propri della testualità digitale. Partendo da questa concezione del libro elettronico, non è necessario che un e-book sia distribuito via rete, anche se certo sarà 48

così nella maggior parte dei casi. Non è necessario che sia ottenuto a partire dalla digitalizzazione di un libro già esistente a stampa, anche se potrà esserlo. Non è necessario che sia strettamente lineare (come vedremo nella sesta lezione, alcune forme di non linearità sono già presenti nella tradizione della cultura del libro), anche se spesso prevederà una ‘direzione di lettura’ ben definita. Potrà includere componenti multimediali e interattive, purché inserite all’interno della struttura propria della forma-libro. È bene sottolineare che la definizione proposta tende ad escludere dal novero dei libri elettronici i casi in cui il testo elettronico funge unicamente da ‘supporto di trasferimento’ dell’informazione: i testi elettronici destinati alla stampa su carta (come accade nel caso del print on demand, o di formati elettronici sviluppati con lo scopo specifico di ottimizzare la resa a stampa) possono certo rivoluzionare – e di fatto hanno già rivoluzionato – i meccanismi tradizionali di distribuzione dei libri, ma l’oggetto informativo utilizzato dall’utente per la lettura resta comunque un libro a stampa, non un libro elettronico. Da questo punto di vista, il print on demand trova il proprio spazio specifico in una situazione contingente e di transizione (anche se la transizione non sarà necessariamente brevissima): quella nella quale il testo elettronico rappresenta uno strumento di distribuzione dell’informazione di gran lunga più comodo ed economico rispetto al libro a stampa, ma il libro a stampa rimane lo strumento ergonomicamente più comodo per la lettura da parte dell’utente finale37. Approfondiremo in seguito alcuni di questi temi. Ma è bene, nel chiudere questa lezione, tornare per un momento alle tesi sostenute da Eco e Nunberg38. Pur essendo in larga parte condivisibili, esse possono infatti nascondere una tentazione argomentativa dalla quale credo dovremmo guardarci. Si tratta di un ragionamento che – partendo da due premesse per molti versi corrette – porta a una conclusione assai più discutibile. Le premesse sono le seguenti: 1) le interfacce di lettura per testi elettronici attualmente disponibili (in primo luogo il computer da scrivania) – pur permettendo o semplificando radicalmente operazioni complesse di analisi dei testi, permettendo la gestione di basi di dati testuali di enorme ampiezza, risultando spesso preziose per attività di consultazione e di ricerca, e rendendo possibile la realizzazione di oggetti informativi ‘nuovi’, ipertestuali e 49

multimediali – sono inadatte alla lettura ‘normale’, alla lettura di quei testi prevalentemente lineari che formano una parte essenziale della nostra tradizione culturale, in primo luogo (ma non unicamente) in ambito letterario; 2) il requisito di mimicità ci assicura che, se e quando le interfacce di lettura per testi elettronici si saranno evolute abbastanza da permettere finalmente una lettura ragionevolmente comoda di tali testi, almeno relativamente a questo tipo di lettura esse saranno virtualmente indistinguibili da un libro. La conclusione che si potrebbe essere tentati di trarre da queste premesse è che in fondo quello del libro elettronico sia un falso problema. Finché non avremo un vero libro elettronico (“a genuine electronic book”, nelle parole di Nunberg), pur utilizzando i testi elettronici in mille modi diversi, continueremo a leggere libri a stampa. Quando avremo un vero libro elettronico, lo leggeremo nello stesso modo in cui leggiamo un libro a stampa. Perché, allora, occuparsi dei libri elettronici? O almeno, perché occuparsene adesso? Se la nostra attenzione è rivolta alla lettura, più che alle attività di consultazione e di ricerca, è molto meglio restare nel più sicuro, affidabile e conosciuto territorio del libro a stampa. A ben vedere, questo ragionamento sottintende una forma sottile (e curiosamente capovolta) di determinismo tecnologico: la strada che i libri elettronici devono seguire, se vogliono aver successo come strumenti di lettura, è già tracciata, ed è inevitabile. È la strada del ‘ritorno al libro’, espressa dal requisito di mimicità. Come tutte le trappole più insidiose, anche questa contiene una buona dose di verità: il requisito di mimicità impone indubbiamente, a chi progetta dispositivi di lettura, il confronto continuo con il modello rappresentato dal libro a stampa, e l’esigenza di avvicinarne la perfezione ergonomica. Ma occorre fare almeno tre considerazioni. In primo luogo, come abbiamo sottolineato più volte, il requisito di mimicità (a differenza di quello di autosufficienza, che potrebbe essere applicato anche ad altri tipi di testi) riguarda la lettura tradizionale di testi prevalentemente lineari. Si tratta di una componente essenziale, ma tutt’altro che esclusiva, delle nostre pratiche di lettura. I dispositivi di lettura per libri elettronici devono affrontare anche la sfida rappresentata dalla possibilità di leggere i testi tradizionali in forme e modi nuovi, integrando l’at50

tività di lettura con quelle di ricerca, consultazione, integrazione all’interno di larghe basi di dati testuali, gestione di annotazioni eventualmente condivise fra più utenti, ecc. In secondo luogo, ai dispositivi che utilizzeremo per leggere testi elettronici tradizionali chiederemo probabilmente anche la capacità di ‘leggere’ testi di tipo nuovo, con caratteristiche ipertestuali e multimediali assai più avanzate. In terzo luogo, proprio come un libro non consiste unicamente in un insieme rilegato di pagine (ricordate l’iniziale delusione di Tusmann?, “soltanto un libro... no, nemmeno un libro, della carta rilegata!”), un libro elettronico non consiste semplicemente nel dispositivo di lettura. Occorre tenere presenti – come vedremo nella quarta e nella quinta lezione – anche le scelte fatte nella codifica e dunque nella rappresentazione del testo, le sue forme di distribuzione, il tipo di licenza commerciale che lo accompagna... Questo insieme di considerazioni fa sì che, per quanto piacevole possa sembrare, la scelta di sederci tranquillamente a leggere un buon libro a stampa, senza preoccuparci delle alterne vicende di sviluppo dei libri elettronici (o dei loro prototipi, ancora largamente imperfetti), in attesa di trovare nella scatola del mago Lorenzo o sui banconi del nostro negozio di elettronica il libro magico del signor Tusmann, non sarebbe affatto saggia. Lo sviluppo del libro elettronico non richiede solo competenze tecnologiche: impone anche scelte non facili di politica culturale, e sarebbe opportuno che i lettori, gli autori, i bibliotecari, gli editori effettivamente interessati a promuovere e a difendere la tradizione della cultura del libro non delegassero queste scelte a una pretesa ‘mano invisibile’ del mercato o a quella, assai più concreta, delle grandi multinazionali dell’informatica e dell’editoria.

III

Dalla carta allo schermo (e ritorno?)

1. Alla ricerca dell’e-book perfetto Nelle prime due lezioni abbiamo affrontato temi prevalentemente teorici, con l’obiettivo principale di capire meglio cosa sia (o cosa possa essere) un libro elettronico. È arrivato ora il momento di esaminare un po’ più da vicino anche la storia di questa idea e dei primi tentativi concreti di realizzarla. È quel che faremo nella prima parte di questa lezione, prima di passare, nella seconda parte, a una rassegna sulla storia e sullo stato dell’arte dei dispositivi di lettura. Questa lezione chiede al lettore un po’ più di pazienza delle altre: inevitabilmente, dovremo attraversare una foresta di idee, di date, di modelli. Attenzione però: è un attraversamento importante, perché ci permetterà di capire come, al di là della teoria, si sia effettivamente declinata nel tempo l’idea di libro elettronico, come siano state pensate le interfacce e i dispositivi di lettura, in che modo insomma il mondo dell’e-book si sia mosso e si muova per raggiungere qualcosa di effettivamente paragonabile alla perfezione ergonomica del libro su carta, e fino a che punto si sia concretamente avvicinato a questo proposito. Nell’affrontare tale compito, cercherò comunque di evitare il rischio della semplice enumerazione: obiettivo di queste pagine non è una pura accumulazione di nomi e date, ma piuttosto il tentativo di individuare le linee di evoluzione e le tendenze del mercato: è su di esse, infatti, che in primo luogo è importante riflettere. 52

È bene partire da un’osservazione che abbiamo già avuto occasione di fare: nonostante la sua perfezione ergonomica, il libro è ed è sempre stato anche un prodotto tecnologico. Come tale è cambiato nel tempo, attraversando fasi di mutamento profondo – come il passaggio dal volumen al codex, o la rivoluzione gutenberghiana – ma conoscendo anche un’evoluzione continua nei materiali impiegati e nelle tecniche di produzione. Osserva giustamente il semiologo belga Christian Vandendorpe, che alla storia e alle teorie della lettura ha dedicato un interessante volume1: Il libro è il risultato di una serie di rotture storiche e di secoli di perfezionamenti; la sua lunga storia è dominata da un obiettivo costante, che diverrà sempre più chiaro nel corso del tempo: dare al testo un supporto perfettamente maneggevole e che interponga i minori ostacoli possibili tra il lettore e la “materia da pensare (o da sognare)” del testo2.

Accanto al libro come interfaccia di lettura, si sono evolute nel tempo da un lato le forme della testualità, dall’altro i modelli di distribuzione e vendita del libro considerato come prodotto commerciale. E naturalmente, come abbiamo visto, questi sviluppi si sono influenzati a vicenda. La già citata osservazione di Eco secondo cui il libro appartiene a quell’insieme di strumenti “che, una volta inventati, non possono più essere migliorati”3 va dunque intesa cum grano salis: se alcuni aspetti della forma-libro mostrano in effetti una forte capacità di persistenza, per molti altri versi il libro che abbiamo in mano oggi non è affatto lo stesso oggetto di cinquecento o mille anni fa. E proprio perché il libro è sempre stato anche un oggetto culturale in continua evoluzione, sono state moltissime le innovazioni tecnologiche che hanno trovato applicazione – o per le quali si è prospettata, magari in maniera ingenua o visionaria, un’applicazione – anche nel campo della produzione, distribuzione, lettura, conservazione dei libri. Occorre anche tener presente che non sempre il successo di una innovazione tecnologica o le sue conseguenze culturali e sociali sono immediatamente evidenti al lettore. Ad esempio, si potrebbe pensare che la fotocomposizione sia una tecnologia relativamente ‘trasparente’, dato che il libro fotocomposto non è poi troppo diverso, dal punto di vista del lettore, rispetto a quello stampato con procedure di composizione tradizionale. Ma a ben vedere questo 53

non è del tutto vero: anche se l’interfaccia di lettura è cambiata relativamente poco, la fotocomposizione ha reso possibile una notevole crescita nel numero dei libri stampati e messi in commercio, e un abbassamento dei costi: due mutamenti che hanno avuto evidenti conseguenze anche per il lettore (così come, anche se indirettamente, hanno avuto conseguenze sociali l’abbassamento del rischio da avvelenamento da piombo per chi lavora in tipografia, lo sviluppo del mercato indotto legato alle tecnologie di fotocomposizione e il ridimensionamento di quello legato alle tecnologie precedenti, ecc.). E considerazioni non troppo diverse potrebbero essere fatte, ad esempio, per il precedente passaggio dalla composizione a mano alla linotipia, o per il successivo passaggio dalla fotocomposizione all’impaginazione digitale. Lo stesso vale, indipendentemente dal successo o meno delle interfacce di lettura digitali, per la rivoluzione informatica. Già oggi le nostre pratiche di lettura coinvolgono nella quasi totalità dei casi una qualche forma di testo elettronico, anche se si tratta per lo più di testi elettronici trasferiti su supporto cartaceo. I testi dei libri, delle riviste, dei quotidiani che leggiamo sono di norma scritti dall’autore in formato elettronico, raggiungono l’editore in formato elettronico, sono formattati e impaginati in formato elettronico, sono archiviati in formato elettronico. Il fatto che il supporto di lettura non sia elettronico rappresenta in un certo senso un’anomalia (e un costo) per la catena di produzione editoriale, così come essa si è venuta configurando dopo la rivoluzione informatica: un’anomalia perfettamente giustificata dall’enorme superiorità che il supporto cartaceo ha avuto finora rispetto a quelli digitali dal punto di vista della comodità delle interfacce di lettura, ma che tenderebbe probabilmente a scomparire se questa superiorità venisse meno. Su questi problemi dovremo tornare quando avremo a disposizione un po’ più di informazioni sullo stato dell’arte nel campo della lettura in ambiente digitale. E per acquisire queste informazioni è utile cominciare dal prendere in esame alcune fra le tappe principali dell’evoluzione che ha conosciuto finora l’idea di ebook, in particolare dal punto di vista del supporto per la lettura in ambiente elettronico. Ma prima di parlare di dispositivi effettivamente realizzati, può essere interessante soffermarci brevemente su qualche dispositivo solo immaginato, frutto della fantasia degli autori di fantascienza. 54

La fantascienza apre una finestra spesso rivelatrice, più che sul futuro che effettivamente ci aspetta – che nonostante le notevoli capacità predittive di alcuni autori resta sempre per qualche verso inattingibile, imprevedibile e sorprendente –, sulle immagini del futuro, le aspettative, le linee di sviluppo verso cui si muove o si rivolge il presente. Il confronto fra i futuri possibili immaginati dagli autori di fantascienza e il concreto svolgersi degli avvenimenti non serve solo a individuare opzioni ipotizzate e quindi abbandonate, strade non seguite, ma rivela qualcosa anche sul panorama al cui interno ha preso forma il percorso poi effettivamente intrapreso. Abbiamo citato in apertura di questo libro il racconto Chissà come si divertivano! di Isaac Asimov. Ma Asimov non è il solo a immaginare dispositivi di lettura più o meno futuribili. Tre anni prima del suo racconto, nel 1948, Robert Heinlein inserisce nel romanzo per ragazzi Il cadetto dello spazio4, assieme a una chiara prefigurazione dei telefoni cellulari, un dispositivo in grado di proiettare sui banchi degli studenti (evidentemente considerati fin dall’inizio fruitori privilegiati – o vittime designate – delle nuove tecnologie di lettura) i loro libri di testo, partendo da bobine magnetiche utilizzabili peraltro anche su lettori portatili. In Ritorno dall’universo, scritto nel 1961 dall’autore polacco Stanislaw Lem, i libri del futuro sono invece affidati a due curiosi dispositivi, gli optoni e i lectoni, per certi versi abbastanza simili agli odierni lettori per e-book, compresa la capacità di leggere il testo con una voce di sintesi. E non manca neanche una prefigurazione dell’idea di print on demand, anche se applicata a un supporto diverso dalla carta. Il protagonista della narrazione è un astronauta, che torna sulla Terra dopo un viaggio che per lui è durato dieci anni, ma durante il quale sul nostro pianeta è trascorso oltre un secolo. Ho passato il pomeriggio in una libreria. Non conteneva libri. Nessun libro è stato stampato in quasi mezzo secolo. E come li desideravo, dopo i microfilm che costituivano la biblioteca del Prometheus! Niente, nessuna fortuna. Non è più possibile scorrere gli scaffali, soppesare i volumi con le mani, sentire la loro mole, promessa di una lettura ponderosa. La libreria assomiglia piuttosto a un laboratorio elettronico. I libri sono cristalli con un contenuto registrato. Per leggerli si deve usare un optone, un dispositivo simile a un libro ma con una sola pagina fra le copertine. Toccandola vi compaiono sopra, una alla volta, le pagine di te55

sto. Ma gli optoni non sono molto usati, mi ha detto il robot-venditore. Il pubblico preferisce i lectoni, che leggono il testo a voce alta e possono essere impostati per ogni tonalità di voce, velocità di lettura e modulazione. Solo le pubblicazioni scientifiche con una circolazione assai limitata vengono ancora stampate, su un’imitazione plastica della carta. Così tutti i miei acquisti sono entrati in una sola tasca, anche se doveva trattarsi di quasi trecento titoli. La mia manciata di cristalli – i miei libri. [...] Il robot che mi ha assistito è esso stesso una enciclopedia, dato che – come mi ha spiegato – è direttamente collegato, attraverso cataloghi elettronici, alle copie-modello di ogni libro esistente sulla faccia della terra. Come regola, una libreria possiede solo singole ‘copie’ dei libri, e quando qualcuno ha bisogno di un libro particolare, il suo contenuto viene copiato su un cristallo. [...] In tal modo un libro viene stampato, di fatto, ogni volta che qualcuno lo richiede. La questione della stampa, della sua tiratura, dell’esaurimento delle scorte, ha cessato di esistere. Certo, un grande risultato! Ma egualmente mi dispiace la scomparsa dei libri5.

Il libro elettronico prefigurato da Lem, con la sua unica pagina fisica sulla quale, al tocco di un dito, si succedono le pagine virtuali del testo, ricorda abbastanza da vicino i dispositivi di lettura oggi disponibili. Ma il lettore di notizie prefigurato da Arthur C. Clarke nel romanzo 2001: Odissea nello spazio – pubblicato nel 1968, in coincidenza con l’uscita dell’omonimo, straordinario film di Stanley Kubrick – non è da meno: Quando si stancava delle relazioni e dei memorandum e delle minute ufficiali, poteva collegare il suo Newspad, grande quanto una cartellina, ai circuiti informativi della nave, e scorrere le ultime notizie provenienti dalla Terra. Uno dopo l’altro, poteva richiamare i principali quotidiani elettronici. Conosceva a memoria i codici dei più importanti, senza neanche il bisogno di consultare l’elenco sul retro del suo lettore. Passando alla memoria tampone del dispositivo, poteva mantenere visibile la prima pagina, mentre scorreva rapidamente i titoli e marcava le notizie che lo interessavano. Ciascuna aveva un codice di due cifre: immettendolo, il rettangolo delle dimensioni di un francobollo si allargava a riempire lo schermo, permettendogli di leggerla comodamente. Una volta terminato, tornava alla pagina completa e selezionava un nuovo argomento. Floyd qualche volta si domandava se il Newspad e la fantastica tecnologia che lo rendeva possibile rappresentassero l’ultima parola nel56

la ricerca umana di una comunicazione perfetta. Lui era lì, lontano nello spazio, in allontanamento dalla Terra alla velocità di migliaia di chilometri l’ora, e tuttavia in pochi millisecondi poteva visualizzare le notizie di qualunque giornale desiderasse. Lo stesso termine ‘giornale’ [il termine inglese ‘newspaper’ include un riferimento alla carta, ‘paper’] rappresentava naturalmente un residuo anacronistico nell’età dell’elettronica. Il testo si aggiornava automaticamente ogni ora. Anche leggendo solo la versione inglese, si poteva passare tutta una vita senza fare nient’altro che seguire e assorbire il flusso ininterrotto di informazioni provenienti dai satelliti informativi. Era difficile immaginare come questo sistema potesse essere perfezionato o reso più efficiente. Ma prima o poi, pensò Floyd, sarebbe stato abbandonato, per lasciar spazio a qualcosa di altrettanto inimmaginabile quanto il Newspad stesso sarebbe stato per Caxton o per Gutenberg6.

Queste brevi puntate nel mondo della fantascienza potrebbero proseguire: da Jerry Pournelle a Philip Dick, dai vari tipi di PADD (Personal Access Display Device) che compaiono negli episodi di Star Trek7 al quotidiano elettronico che compare in Minority Report di Spielberg8 (curiosamente vicino a quello che nel mondo di Harry Potter è invece un prodotto della magia, il quotidiano animato «Daily Prophet»), ipotesi e anticipazioni sul futuro del libro e della lettura non mancano. Ma una citazione a parte merita un romanzo di Ben Bova, Cyberbooks, che è completamente dedicato all’idea di libro elettronico. Pubblicato nel 1989, il romanzo ha per protagonista un inventore geniale e idealista, Carl Lewis, che ha realizzato un lettore per libri elettronici con il quale aspira a rivoluzionare il mercato editoriale. All’inizio della storia, Carl viaggia in taxi verso la casa editrice che dovrebbe acquistare e produrre il dispositivo, in compagnia di quella che si rivelerà la spia di una casa editrice concorrente, e resiste all’impulso di mostrargli la sua invenzione, nonostante una voce nella sua testa lo spronasse ad afferrare la valigetta posata fra di loro sul sedile e ad estrarre la meraviglia che stava portando alla Bunker Books. Una sottile custodia di plastica e metallo, più o meno delle dimensioni di un libro tascabile. Con sulla superficie un display capace di riprodurre qualunque pagina di qualunque libro mai stampato. Il primo prototipo del libro elettronico. L’invenzione di Carl, il suo parto, l’orgoglio del suo genio9. 57

Attorno a quest’invenzione si scatena una guerra senza esclusione di colpi fra case editrici rivali, compresa una serie di misteriosi delitti le cui vittime hanno tutte nomi di famosi investigatori privati, e – singolare prefigurazione delle cause legali di cui ci occuperemo in seguito a proposito del progetto Google Books – una vera e propria battaglia legale. Ma sul curioso libro di Ben Bova (che dal punto di vista della scrittura e della costruzione narrativa è comunque assai inferiore a Lem o Clarke) avremo occasione di soffermarci ancora. Per il momento torniamo invece al mondo reale, e alla storia dei libri elettronici e dei loro dispositivi di lettura. Nelle pagine che seguono parlerò di dispositivi ormai dimenticati, e talvolta mai realizzati. L’obiettivo non è la curiosità antiquaria, ma piuttosto la comprensione di quali siano i fattori in gioco nella faticosa ricerca di un ‘buon’ dispositivo di lettura, le ragioni dei successi e dei fallimenti. Se guardata in questa luce, la storia della ricerca dell’e-book perfetto (o piuttosto delle varie e talvolta un po’ vaghe idee di e-book che hanno guidato il lavoro dei progettisti) ci insegnerà molto sulla direzione in cui ci si sta muovendo oggi e su quelle ipotizzabili per il futuro. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, e cosa fossero o volessero essere effettivamente alcuni degli strani marchingegni di cui parleremo, è però difficile affidarsi solo alle parole: in alcuni casi sarebbe indispensabile vedere direttamente, toccare, provare a usare i dispositivi di cui si parla. Offrire questa possibilità è evidentemente impossibile per un libro a stampa come quello che avete in mano, ma la disponibilità in rete di immagini e filmati ci consente comunque un qualche avvicinamento almeno all’aspetto fisico di questi oggetti. Per questo motivo ho inserito in questa sezione del testo alcune immagini e soprattutto, quando possibile, rimandi a materiali video disponibili in rete. Raccomanderei al lettore di dare un’occhiata anche a questi ultimi: permetteranno un curioso viaggio indietro nel tempo, ma anche uno sguardo sul cammino non certo lineare ma comunque istruttivo delle interfacce per la lettura in ambiente elettronico. 2. Le origini Come progenitore del libro elettronico viene talvolta10 citato il Memex, un dispositivo meccanico ideato negli anni ’40 dall’ingegnere americano Vannevar Bush11. Nel progetto di Bush, il Memex (che 58

non venne mai realizzato in pratica) doveva essere una sorta di scrivania meccanizzata, in grado di facilitare l’organizzazione e la consultazione di informazioni conservate su microfilm, permettendo – fra l’altro – di aggiungere ai microfilm commenti e annotazioni, di collegare fra loro fotogrammi di microfilm diversi, e di automatizzare il loro reperimento12. Pur offrendo notevoli intuizioni relative soprattutto al concetto di ipertesto, il Memex non ha una relazione diretta con l’idea di libro elettronico: non si tratta infatti di un dispositivo elettronico, e la sua funzione principale non è quella di permettere la lettura di libri. Tuttavia il Memex, come lo immaginava Bush, può essere senz’altro considerato anche come dispositivo di lettura lean forward – pur se relativo a microfilm e non a testi elettronici – e prefigura chiaramente un’idea che merita tutta la nostra attenzione: l’idea che la tecnologia costituisca uno strumento fondamentale per ‘potenziare’ l’attività di lettura, sia semplificando il reperimento e l’organizzazione delle informazioni, sia consentendo una migliore integrazione fra l’attività di lettura e quella di scrittura. Fra gli antenati del libro elettronico vengono a volte annoverati anche altri sistemi legati in qualche modo all’evoluzione dei microfilm (e della microfotografia), e al loro incontro con tecnologie elettriche o elettroniche di ricerca, immagazzinamento o visualizzazione. È questo il caso di dispositivi ormai dimenticati come il VERAC, un sistema il cui prototipo (che risultò insoddisfacente nella capacità di visualizzazione, e non venne quindi mai commercializzato) venne sviluppato nel 1964 dalla AVCO Corporation. Abbiamo già accennato al fatto che il VERAC ricordava abbastanza da vicino il dispositivo immaginato da Asimov più di un decennio prima e menzionato in apertura di questo lavoro. Tecnicamente, era basato sulle riproduzioni microfotografiche di migliaia di pagine di libri, rese accessibili attraverso un servomeccanismo che ne doveva consentire la visualizzazione su sistemi di televisione a circuito chiuso. In sostanza, si sarebbe trattato di una sorta di Jukebox in cui al posto dei dischi avremmo avuto tavole di microfotografie e al posto dell’altoparlante un sistema di videoproiezione. Nell’intenzione dei progettisti, un’unità VERAC – pensata anche per l’uso in biblioteca – doveva essere grande più o meno quanto un televisore, e avrebbe potuto immagazzinare fra i 3 e i 5.000 libri13. Il VERAC, comunque, non può ovviamente essere considerato un sistema per la lettura di libri elettronici, da59

to che i testi che vi dovevano essere immagazzinati non erano in formato digitale. Fra i lavori pionieristici che costituiscono importanti tappe di avvicinamento all’idea di libro elettronico dobbiamo invece sicuramente annoverare quello di Douglas Engelbart. Il suo è un nome che ricorre con incredibile frequenza quando esploriamo le innovazioni alla base della rivoluzione digitale: è a lui che dobbiamo, fra le altre cose, l’invenzione del mouse, l’idea di un’interfaccia basata sulla compresenza di più finestre sullo schermo, la prima implementazione di un programma di videoscrittura, la prima implementazione di un sistema ipertestuale, l’idea di condivisione dello schermo nelle videoconferenze, e molto altro ancora14. Engelbart cominciò a lavorare all’inizio degli anni ’60 a sistemi destinati all’archiviazione e al lavoro collaborativo su documenti elettronici, riassumendone nel 1962 le caratteristiche fondamentali in una relazione dal titolo particolarmente significativo: Augmenting Human Intellect: A Conceptual Framework15. In tale lavoro, Engelbart argomenta con convinzione a favore della possibilità di superare, attraverso l’uso di modalità non lineari di organizzazione dell’informazione (banche dati testuali e ipertesti, anche se il termine ipertesto non compare ancora), i limiti imposti dall’organizzazione seriale e lineare della forma-libro. Engelbart è anche un abile narratore, e fa esporre alcune delle sue tesi da un personaggio fittizio, Joe, che ci parla da un futuro in cui l’uso di sistemi informatici di gestione dell’informazione è ormai pienamente diffuso. Joe racconta così come, dopo aver trasferito verbatim nei sistemi informatici un gran numero di libri e articoli, gli utenti del futuro tendano a utilizzarli non più in forma lineare ma riorganizzando, riformulando, stabilendo legami. Dopo che questo processo è stato avviato, ci spiega Joe, raramente si torna al testo nella sua originaria forma lineare: è come essere passati da una visione bidimensionale a una tridimensionale, come aver estratto il succo da un’arancia la cui buccia resta come riferimento ma, isolatamente, non ha più molto da offrire16. Per Engelbart, che in questo caso scrive ovviamente prima dello sviluppo di Internet e della nascita del web, il passaggio del libro al mondo digitale ha dunque una conseguenza di estremo rilievo: la perdita della linearità, e, con essa, dell’idea di libro come entità autonoma e autosufficiente. Una previsione che si è ri60

velata corretta per quel che riguarda il web e la testualità in rete, ma che per ora non sembra applicabile al libro. È solo questione di tempo, o la struttura lineare ha, nel caso del libro, una sua funzione specifica che ne limita l’assorbimento ipertestuale e la totale diluizione all’interno delle basi di dati testuali? Ha ragione il vicepresidente di NetLibrary (un servizio di aggregazione di contenuti in formato elettronico, e-book compresi, per l’accesso da parte di biblioteche e privati), che in una conversazione con Chris Armstrong afferma che “fra 10 anni non ci saranno più libri elettronici, solo e-content”17, dato che agli utenti importa solo il contenuto e non la particolare forma di organizzazione testuale (libro, articolo, pagina web...) che lo veicola? Si tratta di un tema cruciale per capire quale sarà il futuro del libro, e la sua discussione – che affronteremo nella sesta lezione – richiederà evidentemente anche una distinzione fra tipi diversi di libri e di organizzazioni testuali. Proprio allo sviluppo del concetto di ipertesto e di strumenti per la creazione e la lettura di ipertesti sono legati i nomi di Ted Nelson – che nel 1965 fu il primo a usare i termini ‘hypertext’ e ‘hypermedia’ – e di Andries van Dam, un informatico della Brown University al quale è invece attribuito il primo uso del termine ‘ebook’. Con la collaborazione di Nelson, van Dam realizzò fra il 1967 e il 1968 l’Hypertext Editing System (HEP), che – proprio come il sistema Augment realizzato da Engelbart – fu non soltanto uno dei primi sistemi ipertestuali, ma anche uno dei primi sistemi utilizzati per la lettura su schermo18. Ma sul tema degli ipertesti e del loro rapporto con la forma-libro, come si è detto, torneremo. È invece arrivato il momento di incontrare altri due protagonisti della nostra storia: Alan Kay e Michael Hart, che quasi contemporaneamente, all’inizio degli anni ’70, mossero i primi passi in due settori chiave: rispettivamente, lo studio delle interfacce di lettura e il lavoro di digitalizzazione e codifica dei testi. La riflessione di Kay inizia in realtà già alla fine degli anni ’60, durante gli studi di dottorato, e prosegue negli anni ’70 nei laboratori della Xerox di Palo Alto, uno dei centri propulsori nello sviluppo dell’informatica personale. In un periodo nel quale i computer sono grossi mainframe costosissimi, il cui uso è limitato a pochi specialisti, Kay pensa a ‘personal media’ portatili, capaci di 61

funzionare come estensioni di strumenti di lavoro quotidiano quali la carta o il libro, tanto semplici da poter essere usati da bambini (e in grado di aiutarli nell’apprendimento). È in questo contesto che, nel 1968, Kay inizia a lavorare all’idea del Dynabook, un computer portatile pensato per essere insieme strumento di lettura, scrittura ed apprendimento19. Il Dynabook, del quale Kay realizza anche uno schizzo grafico e un modello di legno, prevedeva una tastiera e uno schermo facilmente leggibile, con addirittura la capacità di collegarsi senza fili ad altri computer. Al contrario dei portatili attuali, tastiera e schermo non sono disposti a libretto ma su un unico dispositivo rigido a forma di tavoletta: un design penalizzante per la scrittura ma comodo per la lettura, anche lean back, e sorprendentemente simile a quello del lettore per e-book Kindle, realizzato quarant’anni dopo e di cui parleremo più avanti (tranne che per la tastiera: quella immaginata per il Dynabook è più larga e più funzionale di quella del Kindle!).

Figura 1. Alan Kay mostra, nella conferenza per il quarantennale del Dynabook, il modello da lui realizzato all’epoca.

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La capacità predittiva della visione di Kay e Goldberg era tale, che quasi tutte le idee specifiche relative all’uso di computer portatili sviluppate nel gruppo diretto da Kay al Palo Alto Research Center (PARC) della Xerox si sono rivelate valide. L’idea di fondo – secondo cui i notebook sarebbero stati degli strumenti multifunzionali, e insegnanti, uomini d’affari, poeti, avrebbero tutti usato lo stesso tipo di Dynabook – si è anch’essa dimostrata valida20.

La tecnologia per realizzare effettivamente un dispositivo di questo tipo non era tuttavia disponibile all’epoca, e i progetti di Kay rimasero sulla carta, anche se ebbero sicuramente un ruolo nello sviluppo di uno dei primissimi computer palmari, l’Apple Newton: lo stesso Kay fu fra i consulenti Apple negli anni ’80, quando a un dispositivo di questo tipo si cominciava a pensare. Ma il progetto di Kay è interessante, dal nostro punto di vista, anche e forse soprattutto per le considerazioni teoriche che l’ispirarono, e in particolare per l’esplicito richiamo – evidente già nel nome ‘Dynabook’ – al modello rappresentato dal libro, rispetto al quale sono evidenziati sia gli aspetti di continuità sia quelli di possibile cambiamento. Kay definisce così il Dynabook come “un personal computer portatile e interattivo, con la stessa accessibilità di un libro”21, e nell’articolo Personal Dynamic Media, scritto con Adele Goldberg nel 1977, afferma esplicitamente: “Il Dynabook può essere usato per leggere un libro”. Inoltre, pur ritenendo che il Dynabook “non deve essere considerato come la simulazione di un libro a stampa, dato che si tratta di un nuovo medium con nuove proprietà”, Kay e Goldberg sottolineano un’esigenza molto vicina a quello che abbiamo chiamato requisito di autosufficienza: “Uno degli obiettivi del design del Dynabook è di non essere peggiore della carta in nessun aspetto di rilievo”22. Una caratteristica distintiva del Dynabook, come proposto da Kay, è dunque l’interrelazione fra la capacità di ‘assorbire’ la cultura del libro e di permettere la fruizione di testi dalla struttura tradizionale da un lato, e la capacità di sfruttare al meglio le potenzialità multimediali e ipertestuali del nuovo medium digitale dall’altro: Quando ho cominciato a riflettere sul Dynabook, l’ho pensato dal punto di vista della letteratura. Come sarà, questa nuova letteratura? Ebbene, la nuova letteratura sarà tantissime cose, ma dovrà includere 63

la vecchia letteratura. [...] I libri che sono nati a stampa dovranno avere sostanzialmente lo stesso aspetto sul Dynabook23.

Kay dunque non solo sembra adottare un principio molto simile al requisito di autosufficienza, ma sembra anche respingere la tesi della radicale eterogeneità fra libro a stampa e media digitali, ferme restando naturalmente le nuove possibilità aperte da questi ultimi. La sua posizione è quindi abbastanza vicina a quella che ho cercato di delineare nella seconda lezione. E non sorprenderà la sua conclusione, ribadita anche recentemente: un ‘vero’ Dynabook non esiste ancora, anche se “abbiamo oggi qualcosa di assai più simile al Dynabook di quanto non sia mai accaduto in passato”24. Il processo di avvicinamento al Dynabook è lento anche e soprattutto perché non si tratta di un processo solo tecnologico, ma anche culturale e sociale, proprio come nel caso della progressiva diffusione della rivoluzione gutenberghiana. Del resto, Kay non è l’unico che negli anni ’70 comincia a pensare in termini nuovi al rapporto fra libro e tecnologie elettroniche: una menzione merita a questo riguardo anche Ray Kurzweil. Specializzato soprattutto in tecnologie legate al riconoscimento ottico dei caratteri e alla sintesi vocale e sonora, Kurzweil – singolare figura di inventore e futurologo, le cui riflessioni teoriche sul ciclo di sviluppo delle tecnologie discuteremo nelle Conclusioni di questo libro – introduce nel 1976 un dispositivo non direttamente legato al mondo dell’e-book ma certo significativo per il nostro contesto: la Kurzweil Reading Machine25. Destinata in primo luogo ai non vedenti, ma anche al sostegno dell’apprendimento linguistico nei bambini, la Reading Machine permetteva la scansione di pagine di testo a stampa e la loro contemporanea visualizzazione su un monitor, mentre una voce di sintesi ne leggeva il contenuto. Un dispositivo con caratteristiche per l’epoca davvero impressionanti, che suscitò grandi entusiasmi (il cantante Steve Wonder ne fu ad esempio affascinato, e comprò uno dei primi esemplari), ma che aveva costi troppo alti per una larga diffusione. La sua tecnologia ha portato comunque in anni più recenti a sviluppare anche dispositivi portatili, come il Blind Reader: una sorta di computer palmare intrecciato con una macchina fotografica, capace di acquisire una fotografia digitale di una pagina di testo e leggerla ad alta voce26. E funzionalità di que64

sto tipo sono oggi alla portata delle ultime generazioni di smartphone con fotocamera incorporata. Se la Reading Machine di Kurzweil permetteva il passaggio dal testo al computer attraverso uno dei primi sistemi di riconoscimento ottico dei caratteri, un’altra esperienza pionieristica di digitalizzazione dei testi, quella avviata da Michael Hart, si basava inizialmente sulla semplice digitazione, e dunque trascrizione manuale della scrittura, sul terminale di un computer. Del resto il progetto di Hart è nato nel 1971, quando le tecnologie di riconoscimento ottico dei caratteri (OCR, Optical Character Recognition) esistevano già (il primo esempio precede addirittura i computer: un dispositivo fotomeccanico brevettato dall’inventore Gustav Tauschek nel 1929) ma erano costose e limitate a situazioni come lo smistamento della posta o il riconoscimento di biglietti aerei: nessuno pensava ancora di utilizzarle su testi della lunghezza di un libro. Ma in cosa consisteva il progetto di Michael Hart? L’obiettivo era ambizioso: realizzare una vera e propria biblioteca di testi elettronici disponibili in rete, denominata appunto ‘progetto Gutenberg’. Tuttora attivo e vitale (http://www.gutenberg.org), e oggi largamente basato, come tutti i progetti di digitalizzazione, proprio sull’uso di tecnologie OCR, il progetto Gutenberg ha avuto una funzione di estrema importanza nel far percepire il ruolo che le nuove tecnologie e gli strumenti di rete potevano avere nella trasmissione e diffusione della cultura del libro. L’avvio del progetto è quasi casuale: nel 1971 Hart, amico di due operatori del computer Xerox Sigma V dell’Università dell’Illinois, ottiene su quella macchina un account che gli consente un accesso quasi illimitato alle risorse di calcolo. All’epoca, il valore del ‘tempo di calcolo’ fornito da un account del genere è enorme: come sfruttarlo? Hart ha un’idea per l’epoca assolutamente rivoluzionaria: si rende conto che in futuro “il valore più grande creato dai computer non consisterà nella computazione, ma nell’archiviazione, nel recupero e nella ricerca di ciò che è conservato nelle nostre biblioteche”27. A costituire questo valore contribuisce quella che Hart chiama ‘Replicator Technology’: la possibilità di riprodurre qualsiasi contenuto digitale – una volta che esso sia stato creato – in maniera illimitata e a costi bassissimi. Ma i contenuti digitali devono prima essere creati: per farlo, e dunque per impiegare in maniera adeguata il tempo macchina a 65

sua disposizione, Hart deve avviare un vero e proprio lavoro di digitalizzazione. Il lavoro comincia, nel dicembre di quello stesso anno, dalla Dichiarazione di indipendenza americana: è questo il primo testo elettronico del progetto Gutenberg, trascritto in sole lettere maiuscole perché i terminali utilizzati all’epoca non prevedevano l’uso delle lettere minuscole. A lavoro completato, Hart pensa di inviare una copia del file a tutti gli account della rete (l’antenata della rete Internet, che all’epoca si chiamava ancora DARPANet); per fortuna si ferma in tempo, a un passo dal diventare il creatore del primo ‘spam virus’ della storia: le risorse allora disponibili erano talmente limitate che un invio del genere, nonostante le dimensioni assai ridotte del file (per gli standard di oggi!), avrebbe provocato il loro totale collasso. Una volta completata la digitalizzazione, il primo problema che Hart deve affrontare è quello di garantire la conservazione nel tempo del suo file sul server: lo spazio macchina è all’epoca così prezioso che la stessa idea di allocarne in permanenza una parte per conservare un file di testo (e di un testo facilmente disponibile a stampa) sembra antieconomica. È soprattutto per questo motivo che lo sviluppo del progetto è nei primi anni assai lento – un testo ogni anno fra il 1971 e il 1979 – e solo l’avvicinarsi delle celebrazioni per il bicentenario rende possibile, nel 1975, la digitalizzazione di un testo di dimensioni un po’ più ragguardevoli: l’intera Costituzione americana28. Ma già nel 1975 i collaboratori al progetto sono diversi, tanto che Hart non riuscirà in seguito a ricostruire chi sia stato il ‘copista’ della prima versione elettronica della Costituzione29. Negli anni ’80, in coincidenza con la diffusione dei primi home e personal computer, il numero dei volontari cresce e il costo delle risorse macchina necessarie al lavoro di digitalizzazione diminuisce enormemente. Il decennio 1980-1990 vede così la digitalizzazione di testi di dimensioni assai più consistenti: in particolare, la Bibbia e le opere complete di Shakespeare. Ma la vera esplosione del progetto avviene all’inizio degli anni ’90: nel 1991 viene digitalizzato un libro al mese, nel 1992 due libri al mese, nel 1993 quattro. Nel 1994 viene digitalizzato il centesimo libro, e la biblioteca cresce ormai al ritmo di otto libri al mese: un tasso di crescita che sarà ancora raddoppiato nel 1995 e nel 1996. Il millesimo libro arriva nel 1997. Nel 2003, con la Magna Carta, il progetto raggiunge il traguardo dei diecimila libri, nel 2006 quello dei ventimila, e nel dicembre 2009 il nu66

mero complessivo di testi resi disponibili dal progetto Gutenberg ha superato la cifra ragguardevole di trentamila. Durante tutto questo periodo, Michael Hart rimarrà fedele alla codifica del solo testo dell’opera e all’uso del formato ASCII (uno dei primi formati di codifica, basato sul solo alfabeto latino). La scelta di un formato ‘solo testo’ è infatti considerata da Hart l’unica atta a garantire l’accesso da parte del 99% degli utenti al 99% dei testi. E questo anche quando, in anni più recenti, si affermeranno i linguaggi di marcatura e in particolare gli standard – dei quali ci occuperemo nella prossima lezione – pensati espressamente per le forme di testualità più vicine alla cultura del libro. La scelta di codificare i libri in formato solo testo ha suscitato qualche perplessità, soprattutto per la rinuncia alla maggiore potenza espressiva garantita dalla rappresentazione strutturata dei contenuti e dall’inclusione di metadati (cioè di informazioni descrittive e strutturali di corredo al testo), ma ha l’indubbio vantaggio di permettere la collaborazione al progetto di un numero maggiore di volontari, anche privi di preparazione specifica sull’uso delle tecniche di marcatura, fornendo comunque un testo base al quale marcature specifiche possono essere eventualmente applicate in seguito. Tabelle di codifica più ampie del formato ASCII sono comunque di necessità utilizzate dal progetto Gutenberg per i testi in lingua straniera, e da alcuni anni il sito fornisce anche un meccanismo di generazione automatica di file in HTML (Hyper-Text Mark-up Language, il formato utilizzato per la realizzazione delle pagine web) e nei principali formati non proprietari per e-book, a cominciare dal formato ePub. Ma anche su questo torneremo nella prossima lezione, quando ci occuperemo appunto dei formati di codifica dei testi. A partire dalla fine degli anni ’90, i volontari del progetto cominciano a chiamare ‘e-book’ anziché semplicemente ‘e-text’ i testi elettronici realizzati, coerentemente con la già ricordata convinzione di Hart secondo cui nel parlare di ‘libro elettronico’ ci si riferisce esclusivamente al contenuto, indipendentemente dal formato e dagli strumenti di fruizione usati. In ogni caso la scelta non è il risultato di una decisione esplicita: le stesse ‘domande frequenti’ (FAQ, Frequently Asked Questions) del progetto Gutenberg ricordano che Michael Hart ha inizialmente utilizzato il termine ‘eText’, e che il termine ‘e-book’ è diventato popolare in seguito ed è stato adottato semplicemente per la sua larga diffusione30. 67

A ben guardare, il lavoro avviato da Hart si è rivelato pionieristico sotto almeno cinque profili: 1) l’idea – formulata e messa in pratica con oltre vent’anni di anticipo rispetto alla Digital Library Initiative promossa nel 1994 dalla National Science Foundation statunitense – della creazione di una biblioteca digitale di testi in grado di raccogliere e rendere disponibili anche sui nuovi media elettronici le opere fondamentali del nostro patrimonio testuale; 2) l’idea che l’accesso a tale biblioteca possa avvenire via rete, attraverso la conservazione permanente dei testi su un server di riferimento; 3) l’idea che questo accesso possa essere libero e gratuito per tutti: da questo punto di vista, il progetto Gutenberg può essere considerato come una delle prime manifestazioni della linea di pensiero che in anni più vicini a noi porterà ai movimenti a favore dell’open content e dell’open access; 4) la realizzazione collaborativa attraverso la rete di un progetto culturale da parte di un largo gruppo di volontari: primo e più duraturo esempio di volontariato telematico in campo culturale, e da questo punto di vista prefigurazione di esperienze successive quali quella di Wikipedia; 5) il riconoscimento dell’importanza dell’uso di standard di codifica aperti, condivisi e largamente accessibili, rappresentati, nel caso del progetto Gutenberg, dalla codifica in formato ASCII. 3. Gli anni ’80 e ’90 Nel corso degli anni ’80, mentre il progetto Gutenberg si arricchisce dei primi testi letterari, tre importanti novità contribuiscono a creare le condizioni per un primo allargamento dell’attenzione verso il tema della lettura in ambiente digitale. Innanzitutto, il prepotente sviluppo dell’informatica personale, attraverso la diffusione di home e personal computer. Tale sviluppo consente una rapida crescita del bacino di utenti almeno potenzialmente consapevoli delle possibilità offerte dalla testualità elettronica, e in grado di produrre, visualizzare, manipolare, conservare testi elettronici. In secondo luogo, la progressiva diffusione delle reti telematiche – e in particolare di Arpanet-Internet31 – nelle comunità di ricerca, anche se non ancora a livello di grande pubblico. Una diffusione che contribuisce, almeno in alcuni casi (paradigmatico al riguardo è proprio il caso del progetto Gutenberg), a far indivi68

duare in Internet uno strumento possibile di distribuzione e accesso a ‘biblioteche’ di testi elettronici. Infine, comincia a farsi strada l’idea di dispositivi informatici portatili, che possano essere utilizzati anche o principalmente per la lettura di veri e propri ‘libri’ elettronici, Non a caso, è proprio in questi anni che si comincia a parlare di ‘libro elettronico’. È soprattutto di questo sviluppo che ci occuperemo nelle pagine che seguono. Il primo nome da ricordare al riguardo è probabilmente quello di un’azienda nata nel 1981 a Burlington, nel New Jersey, con il nome di Franklin Computer Corporation. Inizialmente, la Franklin produceva cloni dei primi computer Apple (in particolare dell’Apple II); ma la lunga causa legale che la vide contrapposta all’azienda di Steve Jobs finì per indurla a spostare l’attività su un settore nuovo: quello dei dispositivi elettronici portatili. I primi dispositivi di questo tipo prodotti dalla Franklin sono del 1986, e si concentrano quasi subito sul settore dell’editoria elettronica e degli strumenti di reference: primo esempio è il correttore ortografico Spelling Ace, che consentiva all’utente di inserire la pronuncia fonetica di una parola, e ne restituiva lo spelling esatto. Lo Spelling Ace costava 90 dollari, ed ebbe un enorme successo, con 800.000 esemplari venduti in due anni32.

Figura 2. Franklin Spelling Ace. Includeva il dizionario Webster, e alcuni lo considerano il primo esempio di e-book.

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Se i primi titoli del progetto Gutenberg sono generalmente considerati i primi e-book dal punto di vista del contenuto testuale, lo Spelling Ace della Franklin è uno dei pretendenti al titolo se consideriamo un e-book come la fusione di un contenuto testuale (includeva il dizionario Webster) e di un dispositivo di lettura. Non si trattava tuttavia ancora di un vero e proprio ‘lettore’ in grado di accettare e visualizzare testi diversi, e più che alla lettura era destinato a brevi consultazioni interattive. Negli anni successivi, comunque, la Franklin continua a produrre dizionari o enciclopedie basati su piccoli dispositivi portatili, con un enorme successo: già nel 1989, le sue vendite – oltre 63 milioni di dollari – superano quelle del mercato statunitense dei dizionari su carta, e all’epoca la Franklin può rivendicare una quota pari all’80% di quello che l’azienda stessa comincia a chiamare ‘electronic book market’. Non sorprende dunque, nel 1990, la decisione di cambiare nome: la Franklin Computer Corporation diviene Franklin Electronic Publishers. Nel 1991 arriva il primo dispositivo Franklin destinato in qualche misura anche alla lettura e non solo alla consultazione interattiva: una versione elettronica della Bibbia, con uno schermo di 4 righe33. Ma quella che dal nostro punto di vista è la mossa realmente decisiva avviene nell’ottobre 1992, quando la Franklin – che all’epoca distribuisce una trentina di ‘titoli’, per lo più dizionari o opere di riferimento, ciascuna legata a uno specifico dispositivo hardware – introduce il Digital Book System: un unico dispositivo portatile, dal prezzo di circa 200 dollari, sul quale possono essere visualizzati e utilizzati contenuti diversi sostituendo delle cartucce. Fra le cartucce disponibili continuano ad avere un ruolo di primo piano dizionari ed enciclopedie, ma progressivamente l’offerta si diversifica, pur restando legata alla consultazione interattiva più che alla lettura. Oltre alla Bibbia compaiono una guida ai film in commercio, una guida ai vini, enciclopedie sportive e cartucce colme di dati relativi al mondo del baseball o del golf. Ben presto, il mercato legato alle discipline mediche acquista un ruolo particolare, con la pubblicazione di opere di riferimento e di alcuni manuali. Nel 1993 esce la versione 2 del Digital Book System, con il prezzo ridotto a 130 dollari e la capacità, per l’epoca davvero notevole, di gestire fino a 200 megabyte di dati34. Nel 1995 esce il primo esemplare di una nuova serie di dispo70

Figura 3. Franklin eBookMan: il punto d’arrivo dell’avvicinamento della Franklin al mondo dell’e-book.

sitivi che avrà una grande fortuna, il Franklin Bookman. Sempre basato su cartucce, in soli due anni il Bookman vende circa 15 milioni di esemplari. Negli anni successivi ne vengono realizzati diversi modelli, e nel 1999, quando – come vedremo – compare la prima ondata di veri e propri lettori per e-book, al Bookman si affianca l’eBookMan, che unisce le funzionalità di lettore e-book e quelle di organizer tascabile. Il dispositivo viene venduto esplicitamente come e-book reader, ed è pensato effettivamente per la lettura e non solo per la consultazione interattiva. La produzione dell’eBookMan cessa ufficialmente nel 2002, ma è ancora possibile acquistarne su eBay e in qualche negozio di elettronica on-line; la disponibilità di una versione gratuita del software per la lettura di e-Book in formato Mobipocket – un formato su cui torneremo nella prossima lezione – consente, a chi non si lascia scoraggiare da uno schermo a cristalli liquidi ormai datato, la lettura di un gran numero di libri elettronici. La Franklin continua ancora oggi a produrre dispositivi portatili che – in un mondo in cui dizionari ed enciclopedie on-line sono 71

consultabili senza problemi e gratuitamente, ad alta risoluzione e a colori, attraverso il cellulare – hanno ormai un po’ il gusto dei tempi andati: dizionari, giochi di parole, sudoku elettronici, che conservano in genere schermi monocromatici a cristalli liquidi, capaci di visualizzare poche righe di testo e destinati prevalentemente al mercato scolastico. Ma devo confessare che il Merriam-Webster Franklin, con vocabolario in cinque lingue e il pulsantino per ascoltare la pronuncia delle parole, è ancora al suo posto sulla mia scrivania. Durante la prima parte degli anni ’90, la principale rivale della Franklin nel campo dei dispositivi di lettura è una azienda ben più nota, la Sony. Il primo dispositivo di lettura per e-book della Sony compare prima ancora del Digital Book System Franklin, nel 1990: si tratta del Data Discman, un lettore che assomiglia vagamente a una versione sovrappeso del Tricorder, il comunicatore portatile multifunzione utilizzato dai personaggi di Star Trek. Il Data Discman utilizzava come supporto dei mini-CD, che potevano essere letti su un piccolo schermo monocromatico a cristal-

Figura 4. Il Data Discman Sony.

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li liquidi; uno schermo che qualunque utente di oggi giudicherebbe illeggibile o quasi35. Considerate le caratteristiche dello schermo, non sorprende che questo dispositivo, analogamente a quanto già visto nel caso dei primi dispositivi Franklin, fosse pensato soprattutto per opere di riferimento, da consultare rapidamente e in maniera interattiva (il Data Discman disponeva anche di una piccola tastiera), e non certo per la lettura lunga e intensiva tipica dei libri. Ma a un prezzo di 550 dollari difficilmente un dispositivo di questo genere poteva conoscere una larga diffusione, pur permettendo l’ascolto anche di mini-CD musicali. Considerazioni in gran parte analoghe possono essere fatte per il secondo tentativo della Sony in questo settore, il Sony Bookman. Di dimensioni maggiori, si trattava sostanzialmente di un PC portatile (utilizzava lo stesso processore di molti computer IBMcompatibili dell’epoca, l’Intel 20286) dalla forma un po’ strana e con un display dalla risoluzione di 300x200 pixel. Ma il prezzo era ancora più alto: 900 dollari. Col senno di poi, appare difficile capire come questi dispositivi – costosi, poco ergonomici e dagli schermi piccoli e graficamente limitati – potessero aspirare a un qualche successo, o addirittura a replicare, come i nomi scelti dalla Sony sembravano suggerire, il successo del walkman. Fra l’altro, il sistema per la realizzazione dei contenuti era proprietario e costava da solo oltre 9.000 dollari: primo esempio di un errore – la ‘chiusura’ dei dispositivi – che i produttori di lettori per e-book paiono ripetere, come vedremo, con allarmante frequenza. Se nella prima metà degli anni ’90 l’evoluzione dei dispositivi di lettura sembra davvero in uno stato embrionale, legata a strumenti forse portatili ma ancora assolutamente inadatti alla lettura lean back, la disponibilità di testi elettronici comincia a crescere. Si è già accennato al progetto Gutenberg, che nel 1994 era arrivato alla digitalizzazione del centesimo titolo. Nel 1993 avvia la sua attività anche OmniMedia, una piccola casa editrice specializzata in editoria elettronica e fondata da Jon Noring, tuttora uno dei principali e più informati protagonisti del mondo e-book. Durante gli anni ’90, OmniMedia avvia la pubblicazione di e-book di autori contemporanei: comincia dunque a farsi strada l’idea che il medium elettronico possa essere anche un possibile ambiente di pubblicazione di opere originali ed autonome. 73

Sul fronte dei contenuti, qualcosa si muove anche in Italia: nel 1993 esce su CD-ROM la prima edizione della LIZ, la Letteratura Italiana Zanichelli a cura di Pasquale Stoppelli ed Eugenio Picchi. Si tratta della raccolta – in edizione filologicamente affidabile – di diverse centinaia di testi classici della letteratura italiana, la cui fruizione è però possibile solo su personal computer. Più che di libri elettronici si tratta quindi di una base dati testuale, con funzioni di ricerca e interrogazione. La seconda versione della LIZ uscirà nel 1995. Il prezzo della raccolta, che in queste prime versioni è superiore al mezzo milione di lire, e le modalità di consultazione, con testi protetti e dunque non esportabili, ne limitano inizialmente l’uso al contesto strettamente accademico, anche se nel decennio successivo alcuni dei testi raccolti dalla LIZ entreranno in biblioteche digitali in rete e saranno distribuiti come allegati di riviste a larga diffusione. Ma il periodo a cavallo fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 è anche l’epoca dei cosiddetti BBS (Bulletin Board System), i sistemi amatoriali che – prima ancora della diffusione capillare di Internet e della nascita del web – consentono a molti di fare il primo incontro con le potenzialità della telematica. E su sistemi quali MC-Link, Agorà, FidoNet cominciano a circolare anche testi elettronici di una qualche lunghezza: in primo luogo manuali e FAQ legate all’uso degli strumenti tecnici, ma presto anche racconti (su MC-Link gli appassionati di fantascienza organizzano concorsi per il miglior racconto e si scambiano commenti e giudizi) e i primi testi letterari. Il 13 marzo 1993 Pieralfonso Longo, un utente di MC-Link, propone con un messaggio al forum ‘Narrativa-Comm’ di aprire sul sistema un’area dedicata a testi letterari in formato ASCII, sul modello del progetto Gutenberg. Moderatore dell’area è Marco Calvo, che accoglie l’idea: in un messaggio del 17 marzo, suggerisce: “Potremmo allora chiamare ‘Progetto Manuzio’ la nostra idea. Magari non se ne fa niente, però avrà avuto un bel nome”36. I partecipanti al forum si mettono al lavoro, e producono il primo e-book italiano distribuito in maniera libera e gratuita: una versione dei Malavoglia. Nel frattempo Fabio Ciotti, all’epoca laureando presso l’Università di Roma “La Sapienza”, lavora sotto la guida di Giuseppe Gigliozzi – compianto pioniere nel campo degli studi di informatica umanistica – e di Raul Mordenti alla digitalizzazione di alcuni testi per il Televideo RAI, che proprio 74

in quel periodo aveva deciso di rendere disponibile attraverso il servizio di telesoftware il testo di alcuni classici della letteratura italiana. Si trova così a disporre della versione elettronica di 4 o 5 testi, fra cui I promessi sposi: è possibile farci anche qualcos’altro, oltre che affidarli al telesoftware? Lo spazio appena aperto su McLink sembra la sede ideale. Il progetto Manuzio comincia in tal modo a prendere forma, e ad acquisire i primi testi. Dopo il primo anno di attività, arriva il momento di organizzarlo in maniera più stabile; in una birreria di San Lorenzo la questione viene discussa all’interno di un gruppo di amici particolarmente attivi nei forum letterari di MC-Link: oltre a Marco Calvo e a Fabio Ciotti, anche Marco Zela, e... chi scrive. Nel novembre 1994 per sostenere il progetto viene così fondata una associazione culturale: Liber Liber (http://www.liberliber.it). Sia Liber Liber sia il progetto Manuzio sono ancora pienamente operativi, sotto la guida di Marco Calvo, e offrono oggi accesso libero e gratuito a oltre duemila testi fuori diritti (o con autorizzazione del detentore dei diritti). I testi del progetto Manuzio sono opera di volontari, e non offrono dunque piena affidabilità filologica, ma il processo di continua revisione al quale sono sottoposti da parte della comunità degli utenti ha prodotto comunque risultati in media più che discreti: la biblioteca gestita da Liber Liber continua in tal modo ad essere una delle raccolte di riferimento per la disponibilità di opere italiane fuori diritti, anche perché i progetti accademici e istituzionali di digitalizzazione bibliotecaria avviati in Italia negli anni successivi – pur garantendo risultati scientificamente assai più curati – hanno proceduto con una certa lentezza. 4. A cavallo del nuovo millennio: la prima generazione di dispositivi di lettura dedicati Abbiamo visto come i primi dispositivi hardware legati al mondo dei libri elettronici non fossero veri e propri lettori, ma piuttosto strumenti interattivi di consultazione, legati soprattutto a enciclopedie, dizionari e materiali di reference. La situazione, però, cambia radicalmente nel 1998. La Nuvomedia, un’azienda californiana, lancia nella catena di librerie statunitensi Barnes & Noble il Rocket 75

eBook37: un dispositivo di lettura per libri elettronici delle dimensioni di un libro, con uno schermo a risoluzione sufficientemente alta da permettere l’uso di tipi di carattere diversi e la capacità di conservare in memoria 4.000 pagine di testo e grafica, e dunque una decina di libri. La batteria promette (ma la promessa non è pienamente mantenuta) 20 ore di uso attivando la retroilluminazione dello schermo e 45 ore rinunciando alla retroilluminazione. Il prezzo è di 270 dollari, e i libri vengono ordinati attraverso un apposito negozio on-line, e scaricati sul dispositivo collegandolo al PC. Per la prima volta, non si tratta di un dispositivo orientato all’interazione breve, alla consultazione, ma di un dispositivo pienamente orientato alla lettura, e in particolare alla lettura lean back, rilassata, in poltrona. Il modello di riferimento è chiaro: non più un computer in scala ridotta, come accadeva in fondo per i primi dispositivi Franklin e Sony, ma un libro. Guardando il Rocket eBook con il senno di poi e a più di dieci anni di distanza, è tuttavia difficile evitare l’impressione di trovarsi davanti a un prototipo di primissima generazione, ancora as-

Figura 5. Il Rocket eBook Nuvomedia (a destra) a confronto con un lettore ebook di seconda generazione, il Sony Reader, basato su carta elettronica.

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solutamente inadatto a una commercializzazione su larga scala. La risoluzione dello schermo è in realtà discreta, ma il contrasto è pessimo, e anche utilizzando la retroilluminazione, la combinazione dei cristalli liquidi grigio-blu con lo schermo grigio-verde non è certo ideale. Ma all’epoca la sensazione degli addetti ai lavori è diversa, l’entusiasmo è grande, e a scommettere sul nuovo dispositivo sono in molti: è il periodo del boom dell’economia di rete, e le aziende che vendono nuove tecnologie sembrano procedere col vento in poppa. Inoltre, il Rocket eBook non è solo: nello stesso periodo esce anche un secondo dispositivo di lettura in parte analogo, il SoftBook, che sembra ancor migliore38: ha una copertina in similpelle rigida che funge anche da meccanismo di accensione (il libro elettronico si accende aprendo la copertina: un’idea geniale, che rafforza immediatamente nel lettore l’impressione di trovarsi davanti a un oggetto certo tecnologico, ma comunque identificabile con un libro), lo schermo ha sedici sfumature di grigio ed è molto più largo e leggibile di quello del Rocket eBook. Ma è anche più pesante (circa un chilo e trecento grammi), e soprattutto molto più costoso: 600 dollari. Inoltre emette più luce (e stanca quindi maggiormente la vista), e la durata delle batterie è minore. Alcuni passi avanti sono però evidenti: la selezione dei testi avviene attraverso uno schermo sensibile al tocco di uno stilo, e di discreta qualità; inoltre, il SoftBook può collegarsi a Internet anche indipendentemente da un PC, attraverso un modem incorporato. Né il Rocket eBook né il SoftBook hanno un grande successo: la vendita complessiva dei due dispositivi non supera nel primo anno le 50.000 unità. Ma l’euforia attorno a tutto ciò che è collegato ai nuovi media e alla rete impedisce di cogliere il segnale, che avrebbe consigliato maggiore cautela e minori entusiasmi. Al contrario, la novità del loro design e la disponibilità di titoli suscitarono interesse e controversie, e catturarono l’immaginazione di consumatori e aziende in tutto il mondo. Nel gennaio 2000, Nuvomedia e SoftBook Press furono acquistate dal gruppo Gemstar eBook39.

Il successivo accordo fra Gemstar e RCA traghettò la produzione e soprattutto la distribuzione dei nuovi lettori per libri elet77

Figura 6. Il SoftBook del 1998 a confronto con un Kindle di oggi.

tronici da piccole start-up informatiche quali erano state Nuvomedia e SoftBook a un colosso nel settore dell’elettronica di consumo come la RCA. Il passaggio è marcato dall’uscita di due nuovi modelli, che rappresentano rispettivamente l’evoluzione del Rocket eBook e del SoftBook: il REB 1100 e il REB 1200. Rispetto al suo predecessore, il REB 1100 è leggermente più leggero e include un modem. Il prezzo resta attorno ai 300 dollari. Quanto al REB 1200, lo schermo diventa a colori: si tratta di uno dei primi dispositivi portatili con un touch screen a colori di alta qualità, e la disponibilità dei colori rende possibile l’adattamento per il REB 1200 di riviste come «Newsweek». Anche la durata delle batterie è per l’epoca – e per uno schermo a colori con queste caratteristiche – più che ragionevole: 5 o 6 ore. Il prezzo però è alto, circa 700 dollari: siamo davanti a una sorta di Rolls Royce del mondo e-book, lanciata però in un mercato ancora estremamente limitato, e che nel frattempo attraversava la sua prima, vera crisi: l’esplosione della bolla speculativa legata alle aziende Internet. Dalla fiducia assoluta nelle sorti felici e progressive di qualunque novità tecnologica, si passa alla diffidenza e al pessimismo. 78

Figura 7. Il REB 1100 della RCA.

In un campo come questo, le impressioni soggettive vanno sempre prese con grande cautela, ma vorrei aggiungere a questo punto una considerazione personale. Fra il 2001 e il 2002, ho utilizzato in maniera piuttosto intensiva sia un REB 1100 sia un REB 1200. Li ho ancora qui, davanti a me, mentre scrivo. Il primo dispositivo, con un uso generoso di gomma e di plastica spessa, in un colore grigioverde quasi militare, ispira enorme robustezza. L’impugnatura è abbastanza comoda, anche se il peso suggerisce l’uso di due mani. Ma l’esperienza di lettura è assai povera: potendo scegliere, nessuna persona sana di mente lo preferirebbe a un libro. Il discorso cambia, invece, con il REB 1200. In questo caso, il lettore è più pesante e meno maneggevole. Ispira maggiore fragilità (anche se, a quasi dieci anni di distanza, si accende e funziona ancora senza problemi, mentre il suo fratello minore è rimasto vittima di un incauto collegamento alla presa di corrente sbagliata). Ma la qualità della lettura è assai migliore, in particolare per le riviste, e la possibilità di inserire pagine bianche sulle quali scrivere con lo stilo offre un comodo ibrido fra dispositivo di lettura e quaderno. Il REB 1100 ha rappresentato per me una interessante oc79

casione per sperimentare una nuova interfaccia: il REB 1200 è stato invece un vero e proprio strumento di lavoro, utilizzato con soddisfazione e in maniera abbastanza intensiva. Con un browser, un collegamento WiFi, nuove batterie e l’aggiunta di funzionalità di agenda sarebbe utile ancor oggi. Certo, neanche il REB 1200 riusciva a sfidare vittoriosamente il libro su carta. Ma, oltre al prezzo decisamente eccessivo e all’ergonomia ancora imperfetta, a decretare l’insuccesso dei due lettori Gemstar-RCA è stato, credo, anche e forse soprattutto un altro fattore. Entrambi adottavano una politica che ritroveremo (nonostante i risultati tutt’altro che incoraggianti) in molti dispositivi di lettura successivi: la sostanziale chiusura rispetto ai contenuti provenienti da venditori diversi dal produttore dell’hardware. In sostanza, in questi casi l’azienda che produce il dispositivo di lettura si propone anche come fornitore privilegiato – e a volte di fatto unico – dei contenuti che possono esservi letti. Per l’acquisto dei testi, in particolare di quelli sotto diritti e dunque più recenti, l’utente non ha altra scelta se non rivolgersi al solo servizio al quale il suo dispositivo di lettura è in grado di collegarsi: quello, appunto, offerto dall’azienda che lo produce. Certo, per i produttori risulta assai attraente l’idea di vendere non un semplice strumento di lettura ma una sorta di esca per acquisti ulteriori: un po’ come le macchine da caffè vendute a poco prezzo in cambio dell’impegno a rifornirsi della materia prima sempre e solo attraverso lo stesso produttore, o i cellulari offerti gratis in cambio di contratti (talvolta capestro) con una particolare compagnia di telefonia mobile. Come vedremo, è questo il modello ancora oggi adottato dal Kindle di casa Amazon e dal Nook di Barnes & Noble. Ma dal punto di vista degli utenti non si tratta necessariamente di una scelta ragionevole, e proprio questa politica ha di fatto rappresentato uno degli ostacoli principali al successo di dispositivi che peraltro restavano (e restano) ancora assai lontani dalla perfezione ergonomica del libro a stampa. Chi di noi acquisterebbe una scaffalatura da un falegname che pretendesse di proporsi anche come nostro libraio esclusivo, e vietasse di fatto di utilizzare i propri scaffali per ospitare libri comprati altrove? 80

5. Protagonisti nascosti: il ruolo dei computer palmari Ma ritorniamo ad affacciarci sugli anni ’90. Come abbiamo visto, verso la fine del decennio Rocket eBook e SoftBook prima, e le loro versioni marchiate RCA poi, danno l’illusione che la lettura in ambiente elettronico abbia finalmente trovato dispositivi in grado di sfidare il libro anche in situazioni di fruizione lean back. Ma si tratta, per il momento, solo di una illusione: per usare una terminologia di Raymond Kurzweil che discuteremo nelle Conclusioni, siamo davanti a false pretender, a pretendenti che non sono in grado di mantenere le loro promesse. In compenso, proprio gli anni ’90 vedono la prima affermazione di un dispositivo tecnologico completamente diverso, che si avvia a conquistare un successo ben maggiore, e che negli anni successivi si sarebbe fuso con il telefono cellulare per dar vita agli smartphone di oggi: l’organizer tascabile, o PDA (Personal Digital Assistant). Si tratta di piccoli computer palmari, adatti a gestire appuntamenti, indirizzi e numeri di telefono, a fare calcoli, a usare alcuni programmi di intrattenimento, a prendere appunti e a leggere brevi testi in situazioni di mobilità. I primi palmari appaiono in realtà nel decennio precedente e vengono da una azienda che risale addirittura all’era degli home computer: la Psion. Lo Psion Organizer nasce nel 1984, ma è solo con la versione II, nel 198640, che il display passa da una riga a due e poi a quattro, e che una casa indipendente, la Widget UK, produce un rudimentale programma di videoscrittura utilizzabile anche per leggere testi. Si tratta di un oggetto che assomiglia molto più a una calcolatrice tascabile che a un computer palmare, ma il suo successore – lo Psion 3, che esce nel 1991 – rappresenta un notevole passo avanti41: lo schermo è migliore, l’uso delle batterie molto efficiente (due normali pile alcaline AAA lo facevano funzionare per circa un mese), e compaiono applicazioni un po’ più usabili per la gestione dei testi. Il formato utilizzato per i file di testo dallo Psion 3 e dai modelli successivi si chiama TCR ed è un formato compresso con una caratteristica interessante: per decomprimerlo non serve avere a disposizione tutto il file, ne basta una qualunque porzione. Il TCR è stato probabilmente il primissimo formato utilizzato per realizzare e-book da leggere in mobilità su computer palma81

Figura 8. Lo Psion 3.

ri: cercando in rete, se ne trovano ancora alcuni. Ma non si trattava certo di una lettura comoda, e del resto gli organizer Psion non erano pensati come strumenti di lettura. Va detto, comunque, che in qualche misura l’eredità della Psion è ancora viva: il sistema operativo EPOC, sviluppato per le ultime generazioni dei suoi palmari, è alla base del Symbian, il sistema operativo di telefonini e smartphone Nokia, rilasciato in open source nel febbraio 2010. Il primo palmare che, almeno sulla carta, aveva la possibilità di diventare anche uno strumento di lettura è stato probabilmente l’Apple Newton, il cui primo modello, l’Apple Newton Message Pad 100, è del 1993. Il Newton era, per l’epoca, un prodotto tecnologico avanzatissimo42, con la possibilità di scrivere sullo schermo utilizzando uno stilo e un software di riconoscimento della calligrafia che prometteva di trasformare in testo elettronico le parole scritte in questo modo. Ma le batterie utilizzate – delle normali pile AAA – duravano pochissimo, e il ri82

Figura 9. Uno degli ultimi modelli dell’Apple Newton a confronto con un iPhone.

conoscimento dei caratteri era inizialmente del tutto inadeguato. Inoltre, la lunga e costosa fase di progettazione – a un certo punto, la Apple dovette assumere degli psicologi per aiutare programmatori e progettisti del Newton a sopportare lo stress43 – e le tecnologie d’avanguardia utilizzate imponevano un prezzo decisamente alto: 800 dollari. La notizia che nel frattempo anche la Amstrad aveva sviluppato un dispositivo simile, con meno pretese ma dal costo assai minore, contribuì a far percepire l’Apple Newton come un gadget per pochi. Fra il 1993 e il 1997 lo sviluppo continuò, portando nel 1997 ai modelli 2000 e 2100, lussuosissime ma costosissime (il prezzo era salito a 1.000 dollari) e ingombranti ammiraglie di questa prima generazione di palmari44, ma dal punto di vista commerciale il Newton si rivelò per la Apple una scommessa fallita, e non ebbe mai il successo che l’azienda sperava. Va detto, comunque, che lo sforzo tecnologico che portò alla realizzazione del Newton fu capitalizzato in seguito, quando an83

che questa esperienza contribuì a fornire alla Apple il know-how necessario a realizzare dispositivi portatili destinati a ben altro successo, dagli iPod all’iPhone e oggi all’iPad. Per farcene un’idea, basti ricordare che lo schermo delle ultime generazioni del Newton, pur non essendo a colori, aveva nel 1997 la stessa risoluzione che ha oggi l’iPhone. Ma quel che a noi interessa è che l’Apple Newton è il primo dispositivo palmare per il quale fu sviluppato un software destinato alla lettura di e-book e direttamente incluso nel sistema operativo. Anche i ‘Newton book’ anticiparono tendenze oggi assai più diffuse: utilizzavano un formato di pacchetto (un concetto su cui torneremo nella prossima lezione), caratterizzato dall’estensione .pkg, capace di incorporare indici e immagini. Il successo che mancò all’Apple Newton lo ebbe invece un PDA uscito nel 1996: il Palm Pilot. Il Palm aveva pretese assai meno elevate del Newton, ma costava di meno e poteva vantare un’interfaccia estremamente intuitiva e funzionale. Il sistema di riconoscimento dei caratteri era anch’esso meno avanzato – anziché cercare di imparare la calligrafia dell’utente, come aspirava a fare il Newton, il dispositivo richiedeva all’utente di scrivere sullo schermo utilizzando movimenti predefiniti – ma funzionava abbastanza bene. Prova del suo successo è il fatto che la linea dei palmari Palm

Figura 10. Una carrellata sui palmari Palm, dal Palm 3 agli smartphone di oggi.

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sopravvisse fino all’incontro con la telefonia cellulare, dando vita ad alcuni fra i primi smartphone. Dopo un inizio promettente, gli smartphone Palm hanno progressivamente perso terreno, ma sono tuttora in vendita con modelli comunque di ottima qualità. Il ruolo giocato dai PDA Palm alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo millennio fu notevole anche nel settore degli ebook. I Palm erano certo dispositivi di dimensioni assai ridotte e con schermi inadatti alla lettura prolungata, ma la loro enorme diffusione li trasformò in una piattaforma di sviluppo appetibile anche nel campo della lettura in mobilità. Fin dal 1996 venne quindi sviluppato un formato per l’uso di documenti ed e-book sul sistema operativo Palm, il PalmDOC, caratterizzato dall’estensione .pdb. A partire dal 1997 lo sviluppo di questo formato fu portato avanti dalla società Aportis, da cui il nome Aportis DOC con il quale è anche conosciuto. Si tratta di un formato che sarebbe sopravvissuto ai dispositivi palmari su cui era nato, e ancora assai importante nel mondo e-book: basti pensare che è uno dei formati utilizzati dal lettore e-book di Barnes & Noble, il Nook, di cui ci occuperemo fra breve. I primi e-book in formato PalmDOC cominciarono a diffondersi molto presto: erano realizzati per lo più da appassionati, che trovavano tale formato – facile da usare e capace di una buona compressione, garanzia di e-book poco pesanti – comodo per produrre, scambiare via rete e leggere sui propri PDA testi talvolta piratati. È infatti proprio in questi anni, con la disponibilità dei primi palmari, che nasce e comincia a diffondersi il fenomeno degli e-book pirata, inizialmente limitato a una comunità abbastanza ristretta e interessata soprattutto a testi di informatica e a classici di fantascienza. Accanto al formato PalmDOC, un ruolo importante viene presto assunto da un altro formato, e da un altro software di lettura per e-book, che trova nei Palm il suo primo ambito di diffusione e che, come vedremo nella prossima lezione, conserva ancor oggi un suo ruolo: il formato mobi, adottato dal programma di lettura Mobipocket e caratterizzato dalle estensioni .mbp o .prc. Per ora, ci interessa piuttosto ricordare che anche questo formato, adottato peraltro da alcuni dei primi servizi di vendita in rete di e-book, si è diffuso rapidamente nella comunità degli utenti di palmari (anche in questo caso, un ruolo importante l’hanno avuto probabil85

mente i molti e-book pirata realizzati in formato mobi). Va notato che anche il formato mobi è sopravissuto ai primi palmari: nel 2005 infatti la Amazon ha acquistato la società francese che lo aveva realizzato, e il formato adottato dall’Amazon Kindle è in realtà una sua minima variante. Ma Psion, Apple Newton e Palm sono solo tre fra i contendenti che negli anni ’90 si affacciano sul mondo dei palmari. Nel 1994 l’HP aveva ad esempio introdotto l’HP 200LX45, che racchiudeva in un palmare – di dimensioni in realtà abbastanza generose – un intero computer MS-DOS compatibile, e poteva quindi utilizzare gli strumenti di elaborazione e lettura di testi disponibili per quel sistema operativo. Il suo prezzo, però, non ne faceva uno strumento destinato a una grande diffusione. E, soprattutto, nel 1993 anche la Microsoft aveva cominciato a lavorare su un sistema operativo dedicato ai computer palmari: Windows CE, nato per un progetto denominato WinPad, per qualche aspetto curiosa prefigurazione dell’iPad Apple, che venne però presto abbandonato46. Anziché produrre l’hardware, Microsoft decise infatti di limitarsi a fare quel che già faceva nel settore dei PC da scrivania: produrre un sistema operativo e le specifiche necessarie alla sua implementazione in dispositivi prodotti da aziende terze. I primi dispositivi commerciali basati su Windows CE apparvero nel 1996, e diedero vita a una famiglia di dispositivi ricca e variegata. Il suo sviluppo passa attraverso l’introduzione, nel 2000 e per i dispositivi più avanzati fra quelli basati su Windows CE 3.0, del nome ‘Pocket PC’, e arriva anch’esso fino all’ibridazione con i telefoni cellulari, avvenuta con il successore di Windows CE e Pocket PC, Windows Mobile (a sua volta sostituito a inizio 2010 da un sistema operativo mobile largamente innovativo, Windows Phone). Non infliggerò al lettore elenchi e date dei palmari che hanno utilizzato Windows CE. Va però ricordata almeno una delle incarnazioni di questo sistema operativo, apparsa proprio in coincidenza con l’uscita dei primi lettori dedicati. È infatti nel 1998 che un’azienda francese, la Cytale, decide di produrre anch’essa un lettore e-book di dimensioni e forma vicine a quelle di un libro a stampa: il Cybook. Il primo Cybook non era un lettore dedicato (era possibile usarlo per navigare in rete, controllare e scrivere posta elettronica, gestire calendario e appuntamenti, sfruttare insomma – con la comodità di uno schermo più largo – tutte le ap86

plicazioni tipiche di un palmare), ma era pensato in primo luogo per la lettura. Tuttavia, se l’idea è eccellente, l’implementazione lo è assai meno: il Cybook è pesante, lo schermo lascia molto a desiderare, la durata delle batterie non supera di fatto le 3 ore. La tecnologia, insomma, non è ancora in grado di supportare l’intuizione della Cytale, e anche il Cybook entra fra i fallimenti di prima generazione. La casa produttrice fallisce nel 2003, anche se dalle sue ceneri nascerà una delle poche aziende europee oggi attive nel settore, la Bookeen, che vende ottimi dispositivi di lettura basati su e-paper, riprendendo anche il nome Cybook. Ma a Windows CE, o meglio, ai primi dispositivi Pocket PC, che abbiamo visto affacciarsi sul mercato a partire dal 2000, è legato un altro sviluppo che ci interessa. Proprio con i primi Pocket PC, infatti, Microsoft introduce come componente del sistema operativo un programma dedicato specificamente alla lettura di e-book: Microsoft Reader47. Microsoft Reader è tuttora disponibile (anche se con una storia, come vedremo, piuttosto travagliata) e utilizza un formato denominato LIT; il nome dell’estensione ne dichiara esplicitamente il proposito: LIT è infatti l’abbreviazione di ‘Literature’. Nonostante il supporto assai incostante da parte della Microsoft, la diffusione e il numero dei dispositivi Pocket PC e la disponibilità di una versione per Windows hanno reso il formato LIT piuttosto popolare: ancora oggi, è uno dei formati più utilizzati da parte degli e-book pirata. Torneremo dunque a parlarne nella prossima lezione. 6. Interludio: la lezione di un fallimento Proviamo a questo punto a tirare le fila di quanto abbiamo imparato da questa messe di dispositivi e di formati, che ci hanno fatto incontrare almeno i principali fra i molti volti della prima generazione di dispositivi di lettura in ambiente elettronico. Innanzitutto, come il lettore avrà notato, ci siamo soffermati solo sui dispositivi che possono avere un qualche interesse per la fruizione di testi in modalità lean back o in mobilità. La storia del computer da scrivania è molto più nota e assai meglio documentata, e il numero di pretesi ‘e-book’ distribuiti su CD-ROM a partire dagli anni ’90 è 87

imponente, ma in questa sede ci interessa decisamente meno, proprio perché sostanzialmente limitata (con la possibile eccezione dei tablet PC, cui faremo cenno in seguito) alla fruizione lean forward. Come abbiamo osservato, un dispositivo limitato alla sola fruizione lean forward non può candidarsi al ruolo di ‘libro’: al più, può rappresentare un supporto per alcune forme di testualità, quelle che maggiormente richiedono o suggeriscono una fruizione attiva e interattiva. E da quanto si è visto finora sarà chiaro che nessuno dei dispositivi di prima generazione per la lettura lean back o in mobilità si è rivelato in grado di mettere in discussione il ruolo di supporto di lettura per eccellenza acquisito nei secoli dal libro a stampa. Il primo (e breve) boom degli e-book, nel periodo 1998-2001, era stato legato all’epoca, nella stampa e nella percezione di molti analisti, soprattutto alla prima generazione di lettori dedicati: Rocket eBook, SoftBook, e i loro eredi Gemstar-RCA. Strumenti che promettevano di portare nel mondo della lettura in digitale la fruizione lean back e si proponevano dunque come alternativa diretta al libro. Ma questi primi dispositivi – che avevano l’obiettivo di permettere la lettura degli stessi libri che potremmo comprare in libreria, a partire dai romanzi – non riuscivano a soddisfare se non in piccola parte i requisiti di mimicità e di autosufficienza. Potevano, è vero, ospitare un gran numero di libri, ma la lettura era comunque assai più scomoda che su carta. E trattandosi di dispositivi dedicati, che dunque servivano solo come supporto per la lettura di libri, questo limite si è rivelato decisivo. Il prezzo, la durata delle batterie, l’adozione di politiche di gestione dei diritti chiuse e poco funzionali, l’idea di una sorta di fornitore unico di contenuti, caratterizzato peraltro da una scelta abbastanza limitata di titoli, sono fattori ulteriori che hanno contribuito al flop. Ma mentre i lettori dedicati sono andati incontro a un sostanziale fallimento, un ruolo importante e inatteso è stato svolto dal nuovo mercato dei PDA e dei primi smartphone: un mercato che ha attraversato, acquistando progressivamente rilievo, tutti gli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio. Dispositivi che non si proponevano come lettori dedicati, e per i quali anzi la lettura era solo una delle funzionalità disponibili (e non la più importante). Dispositivi che non avevano alcuna pretesa di sostituirsi al libro nella fruizione lean back, ma si rivolgevano esclusivamente alla 88

fruizione in mobilità. Dispositivi che tuttavia offrivano all’utente la comodità di portarsi dietro anche alcuni contenuti da leggere, magari accanto ad appunti e documenti di lavoro. A usare questi primi strumenti è stato un bacino di utenza almeno inizialmente abbastanza limitato e fortemente orientato alla tecnologia, ma comunque più ampio di quello, ridottissimo, che erano riusciti a raggiungere i dispositivi dedicati. Utenti in cerca di tutt’altre funzionalità, ma che si ritrovavano in mano uno strumento che, all’occasione, può essere anche usato per leggere qualcosa: non una lettura tranquilla e rilassata, ma brevi pause di lettura occasionale. Esempio, spesso citato, di questa modalità di lettura è il fenomeno dei ‘Keitai’, o ‘m-books’ (mobile books), i romanzi e racconti giapponesi destinati allo schermo del telefonino. Caratterizzata da una scrittura rapida ed essenziale, per molti versi simile a quella dei fumetti, questa forma letteraria è stata inaugurata da un autore giovanissimo, Yoshi, che nel 2000 ha scritto un racconto per cellulare dal titolo Deep Love, e ha visto casi di enorme successo, come la scrittrice Chaco, che con What the Angel Gave Me in Giappone ha venduto tra il 2006 e il 2007 oltre un milione di copie. Abbiamo osservato nel primo capitolo come le caratteristiche del supporto possano influenzare le forme della testualità, contribuendo a delineare alcuni aspetti dello specifico ‘spazio di possibilità’ al cui interno si muovono i testi. Uno spazio che offre la libertà dell’esplorazione, ma anche la costrizione di confini legati alle modalità di fruizione che il supporto stesso consente o, al contrario, impedisce. Che forme di testualità suggeriscono dispositivi portatili dallo schermo tanto piccolo? Una possibile risposta ci scorre davanti agli occhi quasi ogni giorno: il ‘parlar spedito’ dei messaggi SMS48. Un’altra è fornita proprio dai ‘Keitai’ giapponesi. Un articolo del «Wall Street Journal» ne offre un illuminante esempio: Molti romanzi mobili (mobile novels) sono influenzati dai fumetti sui quali i loro giovani autori si sono formati. Ciò significa molto dialogo e paragrafi brevissimi, che entrano bene in uno schermo piccolo. Larghi spazi bianchi fra le frasi servono a suggerire che i personaggi siano immersi nei loro pensieri. In To Love You Again, Shuhei, un liceale adolescente, accompagna la sua innamorata, Kaori, in un’aula di scienze vuota per un momento 89

di privacy prima dell’inizio delle lezioni, quando qualcuno chiude a chiave la porta. Il testo della scena successiva è questo: Din Don Din Don (spazio) La campanella suona (spazio) “Accidenti. Perderemo la lezione” (spazio) disse lei con espressione annoiata. Il trucco è immaginare nella nostra testa uno schermo cinematografico, e tradurre queste immagini in parole, spiega l’autrice, Satomi Nakamura49.

Le prime generazioni di smartphone suggerivano dunque una scrittura ancor più essenziale di quella del web, tanto modulare da diventare sincopata, certo assai lontana dalla forma libro tradizionale. Si trattava di strumenti che consentivano anche la lettura, ma i testi che vi venivano letti erano sui generis. E tuttavia questi strumenti sono stati usati per la lettura assai più della prima generazione di lettori dedicati. Ed è a loro, più che ai lettori dedicati di prima generazione, che si deve lo sviluppo dei formati e-book che utilizziamo ancor oggi. Ma torniamo ai primi anni del nuovo millennio. Il flop della prima generazione di dispositivi dedicati, come abbiamo accennato, non arriva in una situazione in cui sia possibile prenderlo alla leggera: è tutto il comparto dei new media e delle tecnologie legate alla rete che con l’esplosione della cosiddetta ‘dot-com bubble’, la bolla speculativa delle aziende Internet, si ritrova in crisi. Il Nasdaq, l’indice borsistico legato alle nuove tecnologie, scende dal picco di oltre 5.000 punti raggiunto nel marzo 2000 ai valori sotto i 1.150 punti dell’ottobre 2002: in due anni, il mercato ha perso tre quarti del suo valore. Per rendersi conto della portata del crollo, basti pensare che al 1 febbraio 2010 il Nasdaq non ne ha recuperato neanche la metà, con l’indice poco sopra i 2.100 punti, e che nel pieno dell’ultima crisi borsistica, nel marzo 2009, navigava nuovamente sotto i 1.500 punti. Il fallimento dei lettori e-book è naturalmente solo una com90

ponente minima, pressoché irrilevante, di questo quadro. Ma è significativo che proprio nel momento in cui le aspettative sono al massimo e un colosso come la RCA decide di entrare nel settore, tutta la nave delle aziende new-tech si avvii al naufragio. In un contesto così catastrofico, diventa difficile pensare ad aggiustamenti o a piccoli, progressivi miglioramenti tecnologici: chi ha investito nel settore e-book si tira semplicemente indietro, chi non vi ha ancora investito evita accuratamente di farlo. I lettori di e-book diventano così un esempio paradigmatico di fallimento tecnologico, e fra il 2001 – anno in cui era uscito un dispositivo di lettura coreano, denominato Hiebook, che in occidente non si vide quasi – e il 2005 (in verità il primo dispositivo di lettura basato su carta elettronica, il Sony Librié, esce come vedremo nel 2004, ma solo sul mercato giapponese e con scarso successo), il mercato è sostanzialmente fermo. A muoversi, in questi anni, è invece Internet. Paradossalmente, la crisi delle aziende che avevano rappresentato la forza propulsiva nella prima fase di sviluppo della rete apre spazio ad aziende ed idee nuove. Sono gli anni dell’esplosione del cosiddetto User Generated Content, il contenuto generato dagli utenti, prima attraverso i blog e poi attraverso i primi servizi di condivisione di contenuti. In pochi anni, il web cambia volto: non nelle tecnologie, come era avvenuto nel quinquennio precedente, ma nelle modalità d’uso e nelle tipologie dei servizi offerti agli utenti. La rete è fondamentalmente la stessa, ma la banda larga – che consente un enorme sviluppo dei contenuti multimediali – e la diffusione dei CMS (Content Management System), i sistemi di gestione dei contenuti alla base della ‘blog revolution’, preparano quello che sarà chiamato, con uno slogan che probabilmente non coglie appieno la complessità dell’evoluzione ma che ha un’immediata fortuna, Web 2.0. Nell’oscillazione di significato che abbiamo individuato in partenza, fra e-book come dispositivi fisici di lettura ed e-book come contenuto digitale, il pendolo in questi anni si muove decisamente nella seconda direzione. Il mondo degli e-book, che non è riuscito a dotarsi dei dispositivi dedicati necessari per il lean back, e che non può evidentemente accontentarsi del minimo di mobilità garantito da dispositivi palmari comunque piccoli e scomodi, si concentra sulla modalità di fruizione che meglio 91

corrisponde agli strumenti disponibili: il lean forward. Ma è un lean forward che lo sviluppo del web riesce a potenziare enormemente: sono gli anni in cui si afferma l’idea di biblioteca digitale, in cui ai progetti di volontariato telematico come il Gutenberg o il Manuzio si affiancano finalmente progetti istituzionali di grande respiro e progetti privati. Quello delle biblioteche digitali è evidentemente un settore che ha dal nostro punto di vista un grande rilievo: anche se non è questa la sede per una trattazione approfondita, va notato come sia proprio il periodo 2000-2005 a prospettare una situazione in parte diversa rispetto al passato. Ad affiancare e soppiantare progressivamente il volontariato sono (almeno) quattro modelli diversi di biblioteca digitale: 1) i grandi progetti istituzionali pubblici, come – in ambito europeo – la biblioteca digitale francese Gallica, che nasce nel 1997 ma conosce proprio a partire dalla ristrutturazione del 2000 la prima fase di espansione (la seconda arriverà nel 2007 con l’avvio di Gallica 2). Al centro del loro interesse è evidentemente in primo luogo la digitalizzazione di opere fuori diritti (anche se Gallica si è recentemente aperta all’accordo con editori privati). A questa tipologia, nonostante le dimensioni assai inferiori, si possono per molti versi collegare anche progetti di digitalizzazione più ristretti provenienti da istituzioni di ricerca o da singole realtà bibliotecarie; 2) gli aggregatori di contenuto ‘autonomi’, che cercano di negoziare direttamente e individualmente accordi con gli editori ma non sono espressione diretta di gruppi editoriali: un modello rappresentato inizialmente da servizi come Ebrary, Questia o NetLibrary, ma che sia la crisi del periodo 2000-2003 sia la progressiva presa di coscienza da parte degli editori del valore rappresentato dall’offerta di contenuti in rete hanno contribuito a mettere in discussione. Oggi, Questia sopravvive a fatica, mentre Net Library (nel frattempo acquisita dall’OCLC) ed Ebrary si caratterizzano più come fornitori di servizi e contenuti al mondo bibliotecario che come vere e proprie biblioteche digitali autonome; 3) le piattaforme di aggregazione di contenuti realizzate direttamente da grandi gruppi editoriali multinazionali come Penguin, Springer-Kluwer, Elsevier, Parlgrave-Macmillan, Bertelsmann, 92

ThomsonReuters ecc., proposte sul mercato con meccanismi di norma abbastanza onerosi di abbonamento. Si tratta di piattaforme finalizzate alla consultazione in particolare da parte di utenti appartenenti al mondo della ricerca, in genere attraverso la mediazione delle biblioteche e delle istituzioni di appartenenza. In questo caso al centro dell’interesse – e del modello di redditività economica – sono dunque in primo luogo contenuti sotto diritti (riviste e libri) legati al mondo della ricerca scientifica: esempio paradigmatico di contenuti destinati a una fruizione lean forward. Aggregazioni fra più realtà editoriali sono possibili, ma sono di norma guidate da accordi diretti: iniziative totalmente autonome di soggetti terzi sono assai più rare, e sono rivolte semmai agli editori medio-piccoli; 4) progetti massicci di digitalizzazione privata, in qualche misura ‘esterni’ rispetto al mondo editoriale tradizionale. Progetti di questo tipo sono legati soprattutto all’offerta di funzionalità di indicizzazione e ricerca dell’informazione; gli esempi principali sono Google Books e il progetto di digitalizzazione libraria avviato e poi interrotto da Microsoft. Questi progetti sono per vocazione onnivori: il loro scopo fondamentale è l’indicizzazione di informazione validata, per accrescere il valore dei rispettivi motori di ricerca. Proprio questo aspetto onnivoro li spinge a incrociare il cammino sia dei progetti provenienti dal mondo editoriale sia di quelli istituzionali: può trattarsi di incontri produttivi, o di scontri anche duri. Su queste iniziative di digitalizzazione, e sui problemi che pongono, ci soffermeremo nella quinta lezione. Nei primi anni del nuovo millennio, all’arretramento dell’attenzione verso i dispositivi di lettura corrisponde dunque un forte aumento di attenzione verso i contenuti disponibili in rete. Ma questo sviluppo implica anche una forma di rimozione delle situazioni di fruizione lean back. Il mondo digitale sembra in tal modo in grado di assorbire alcuni tipi di lettura, ma non altri. Si tratta di una situazione che appare così ‘naturale’ da rafforzare uno dei più diffusi – e insidiosi – luoghi comuni legati alla testualità elettronica: quello secondo cui la fruizione digitale può funzionare per opere di reference, e non può invece funzionare per la letteratura e le opere che corrispondono a grandi linee alla categoria editoriale della ‘varia’: saggistica e divulgazione caratte93

rizzate da un impianto fondamentalmente lineare e da una struttura comunque in qualche misura narrativa. Questa idea può risultare attraente per diversi motivi. È rassicurante per gli editori tradizionali, che si rendono conto di perdere progressivamente controllo (e redditività) sulle pubblicazioni legate alla ricerca e in parte anche alla didattica universitaria: settori in cui i contenuti – destinati a una fruizione lean forward – sono irresistibilmente attratti dalla rete e dai modelli di accesso aperto che la rete rende possibili. Una prospettiva che per gli editori è fonte di preoccupazione, e rispetto alla quale risulta confortante illudersi che la narrativa e la saggistica divulgativa – che costituiscono comunque per la maggior parte di loro il grosso delle vendite – siano ‘naturalmente’ resistenti all’abbraccio ricco di incognite e pericoli del digitale. L’idea che il lean back non sia assorbibile dall’ambiente digitale è poi ovviamente rassicurante, a maggior ragione, per i librai. Ed è rassicurante per i lettori appartenenti alle fasce di età meno giovani, più direttamente legati alla forma abituale del libro a stampa. Si tratta però, come abbiamo già visto, di un’idea basata su una fallacia: l’assolutizzazione del dato tecnologico relativo a un determinato momento di sviluppo delle tecnologie digitali, e in particolare delle tecnologie legate allo schermo e alla visualizzazione dei contenuti. Curiosamente rovesciata, è – questa sì – una forma di determinismo: siccome una certa tecnologia, in una determinata fase del suo sviluppo, si è mostrata incapace di funzionare per la lettura lean back, se ne deduce che la lettura lean back sia per sua natura impermeabile all’ambiente digitale. Siccome una certa tecnologia, in una determinata fase del suo sviluppo, si è mostrata più adatta a una fruizione lean forward, se ne deduce che la fruizione lean forward sia un tratto caratterizzante e necessario dell’ambiente digitale. Le caratteristiche delle tecnologie attuali diventano il fattore determinante non solo della riflessione teorica, ma anche della proiezione di questa riflessione sul futuro. Il primo rischio di questo ragionamento – giacché le nostre interpretazioni della realtà sono fra i fattori che ne influenzano lo sviluppo – è una scissione di lungo periodo tra due forme diverse di testualità che erano state entrambe legate in passato alla cultura del libro, ed erano state in rapporto assai più stretto di 94

quanto non avvenga oggi. Pensiamo al rapporto fra letteratura di ricerca (la cui fruizione è normalmente in modalità lean forward) e letteratura di divulgazione (la cui fruizione è normalmente in modalità lean back): in passato, il confine fra le due forme era più esile, le influenze reciproche maggiori. Oggi, per collegarle occorre attraversare non solo, come in passato, il gap esistente fra una fruizione ‘di studio’, lean forward, e una fruizione ‘narrativa’, lean back, ma anche, assai spesso, il gap fra due ambienti di fruizione radicalmente diversi, fra due media diversi. Nel mondo della testualità elettronica “l’azione antica di leggere con lentezza un libro serio diventa un esercizio elegiaco”, osservava con malinconia già nel 1994 Sven Birkerts50; ma la risposta a questa percezione, non del tutto peregrina, richiede a mio avviso non la rivendicazione di una sorta di invalicabile differenza di genere fra la cultura dei nuovi media elettronici e la lettura lenta di un buon libro, come sembra ritenere Birkerts, ma la disponibilità di buoni strumenti per la lettura lean back anche nell’ambiente digitale. Il secondo rischio è legato specificamente alle giovani generazioni, alla generazione dei cosiddetti born digital, i nativi digitali, abituati a considerare il mondo digitale come ambiente naturale per la fruizione di contenuti informativi. In questo ambiente, essi trovano alcune forme di testualità e non altre. Trovano le pagine web, scritte per essere il più possibile brevi, semplici e modulari. Trovano la testualità veloce, l’oralità secondaria delle conversazioni via SMS, via chat e in qualche misura delle mail. E trovano una testualità complessa ma iperspecializzata, quella della letteratura di ricerca, che non sempre sono in grado di interpretare, e che nella maggior parte dei casi non ha per loro alcuna attrattiva immediata. Il ponte rappresentato dalla narrativa e dalla forma-saggio – che abituano alla complessità della costruzione e dell’argomentazione, all’uso sapiente della scrittura, al piacere della lettura di largo respiro – è altrove, in un mondo percepito come diverso, meno attraente, più povero nella capacità di usare e integrare codici comunicativi diversi: in una parola, più noioso. Queste considerazioni non implicano, naturalmente, che sia obbligatorio farci piacere a forza i supporti digitali proposti per la fruizione lean back, e dunque i dispositivi di lettura per e-book fi95

no ad oggi realizzati: abbiamo già visto che almeno la prima generazione di questi dispositivi era semplicemente e talvolta penosamente inadeguata a veicolare la testualità destinata a tali situazioni d’uso. Richiedono però di considerare con qualche attenzione il fallimento di cui abbiamo appena parlato a proposito della prima generazione di dispositivi di lettura dedicati: la vittoria del libro a stampa, in questa prima battaglia, è stata una vittoria netta, ma che rischia anche di essere una vittoria di Pirro: il libro magico del cancelliere Tusmann mostra di essere ancora lontano, ma noi ne avremmo bisogno subito. Diventa dunque importante capire se, al secondo tentativo, i dispositivi di lettura siano in grado di ottenere risultati migliori. E il secondo tentativo è legato da un lato a una nuova tecnologia, quella della carta elettronica, che si affaccia sul mercato attorno al 2004-2005, e dall’altro proprio all’enorme successo culturale e sociale del web, che ha ulteriormente accresciuto la pervasività dell’ambiente digitale e dunque la sua forza di attrazione. La combinazione di questi due fattori fa riemergere l’idea dei dispositivi di lettura dedicati. 7. L’e-paper al potere: la seconda generazione di dispositivi dedicati Per capire le caratteristiche di questo sviluppo, occorre in primo luogo capire cosa sia la tecnologia della carta elettronica, sulla quale si basa la seconda generazione di lettori per e-book, quella – per intenderci – del Kindle e del Nook. In realtà, dietro ai termini ‘e-paper’ (carta elettronica) ed ‘e-ink’ (inchiostro elettronico) si nasconde una famiglia di tecnologie leggermente diverse ma strettamente imparentate, per le quali, almeno a livello di grande pubblico, i due termini vengono utilizzati in maniera interscambiabile. Per farcene una idea, ne descriverò brevemente una fra le più diffuse e fra le più semplici nei principi di base. Si tratta di una delle tecnologie commercializzate dalla E Ink Corporation (http://www.eink.com). Adeguandomi all’abitudine corrente, utilizzerò al riguardo prevalentemente il termine ‘e-paper’, carta elettronica. L’idea di base, su cui si è cominciato a lavorare addirittura all’inizio degli anni ’70, è in realtà piuttosto semplice. Pensiamo a 96

una cartellina trasparente, costituita da due sottili fogli di plastica e al cui interno si trova un foglio di carta stampato: possiamo leggerne benissimo il contenuto, dato che la cartellina è trasparente. Ebbene, anche la carta elettronica si basa su due sottili strati plastici trasparenti e sovrapposti, sigillati, al cui interno si trovano al posto della carta un liquido oleoso e al posto dell’inchiostro delle minuscole (ma davvero minuscole: la dimensione è di circa un micron, un millesimo di millimetro) capsule sferiche bianche e nere. Le sferette bianche sono caricate positivamente, quelle nere sono caricate negativamente. A loro volta, i due strati di plastica trasparente sono percorsi da un fittissimo reticolo di cellette o pixel, ciascuno dei quali può essere caricato positivamente o negativamente. Questo consente di far emergere a comando, per ogni punto dello schermo, le sferette bianche o quelle nere. Un’occhiata all’immagine seguente dovrebbe chiarire il concetto.

Figura 11. Principi di funzionamento di un modello di e-paper.

Per comporre una pagina, dunque, si controlla la carica elettrica di centinaia di migliaia di ‘punti’ dello schermo, ciascuno dei quali diventa, a comando, bianco o nero. Ovviamente, i puntini neri corrisponderanno all’‘inchiostro’ nero, quelli bianchi allo sfondo della pagina. La resa di questa tecnologia è sorprendente: l’impressione è effettivamente quella di trovarci davanti a un foglio stampato, 97

Figura 12. Esempio di resa grafica della tecnologia e-paper.

anche se ci si rende immediatamente conto che non si tratta di un foglio di carta ‘normale’, ma di qualcosa di molto più vicino a un foglio di plastica, di color grigio chiaro e con un aspetto un po’ lucido, simile alla carta patinata delle riviste più che a quella dei libri51. La risoluzione comunque è ottima, e su schermi di dimensioni adeguate permette una buona resa anche di un formato nato su computer ma orientato alla rappresentazione della pagina per la stampa, il diffusissimo formato PDF (Portable Document Format) della Adobe. A differenza degli schermi tradizionali, che emettono luce propria, la carta elettronica non emette luce ma la riflette soltanto: questo significa che, proprio come un libro (e all’opposto di quanto fa un tradizionale display retroilluminato), un e-book basato su tecnologia e-paper si legge meglio se c’è parecchia luce, e si legge meno bene se l’ambiente intorno è più buio. Per molti utenti (anche se le discussioni scientifiche al riguardo sono tutt’altro che concordi) lo schermo di un display, che emette luce, è più stancante e faticoso da leggere della carta, che non emette luce ma la riflette soltanto. La carta elettronica ha 98

dunque un immediato vantaggio in termini di leggibilità. Inoltre, il fatto che assomigli di più alla carta alla quale siamo abituati sembra andare esattamente in direzione del requisito di mimicità, addirittura a livello delle impressioni sensoriali dell’utente. Un vantaggio ulteriore è dato dalla durata della batteria: un dispositivo basato su carta elettronica consuma corrente solo quando si ‘cambia pagina’ (e cioè si riconfigura la posizione delle sferette bianche e delle sferette nere). Per tutto il tempo in cui il dispositivo resta fermo sulla stessa pagina, non si consuma nessuna corrente. Un vantaggio davvero notevole rispetto ai display tradizionali, che consumano corrente in continuazione (e ne consumano molta di più, dovendo anche emettere luce). A dire il vero, a questa enunciazione teorica non corrisponde sempre la pratica: molti dispositivi di lettura basati su carta elettronica consumano comunque un poco di corrente anche se non si cambia pagina, perché devono restare ‘vigili’ per verificare se vengono premuti tasti e, in alcuni casi, per collegarsi a intervalli prefissati alla rete di telefonia mobile o alla rete Wi-Fi. Ma si tratta comunque di un enorme passo avanti rispetto alla durata dei display tradizionali: se quest’ultima si misura in genere in ore, quella dei display e-paper si misura in giorni o in settimane (o in numero di ‘cambi pagina’). Si capisce dunque l’entusiasmo dei profeti dell’e-paper: finalmente, abbiamo a disposizione una tecnologia che non richiede cavi o fili, fatta eccezione per una breve ricarica ogni settimana o due, e soprattutto che non fa rimpiangere la carta dal punto di vista della lettura! Ma è davvero così? Il libro magico del cancelliere Tusmann è davvero a portata di mano? Torneremo più avanti su questi interrogativi, ma è bene ricordare subito anche alcuni degli svantaggi dell’e-paper. Innanzitutto, gli schermi e-paper oggi disponibili sono solo in bianco e nero, per di più con poche tonalità di grigi (nei dispositivi attualmente in circolazione, al massimo 16). Esistono schermi sperimentali a colori, e si lavora alacremente per renderli commerciabili, ma per ora sono troppo cari, i colori risultano slavati e di qualità non elevatissima52. Nessun dispositivo di lettura in commercio propone al momento schermi e-paper a colori, anche se è probabile che i primi dispositivi di questo tipo vedranno la luce fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Si parla molto, in particolare, della tecnologia Mirasol, su cui dovrebbe basarsi un innovati99

vo e-book realizzato dalla Qualcomm. Una tecnologia che sembra interessare da vicino anche la Telecom, che parrebbe orientata ad affacciarsi sia nel settore delle piattaforme di distribuzione per ebook sia – attraverso il glorioso marchio Olivetti – in quello (in verità già piuttosto affollato) dei dispositivi di lettura. Ma, almeno per ora, questi sviluppi restano promesse per il futuro: la capacità dell’e-paper a colori di imporsi come alternativa valida ed economicamente praticabile sia all’e-paper in bianco e nero sia alle altre tecnologie di cui parleremo fra breve, resta da verificare. In secondo luogo, le sferette di inchiostro elettronico – che, ricordiamolo, si devono muovere in un fluido oleoso – impiegano un certo tempo per comporre la pagina: in sostanza, per cambiare pagina occorre poco meno di un secondo. Sembra poco, più o meno lo stesso tempo che serve per voltare pagina in un libro, ma in questo secondo la pagina diventa ovviamente illeggibile, con un effetto che può risultare abbastanza fastidioso53. E c’è un ulteriore problema: se cambiare il contenuto visualizzato dallo schermo (quello che tecnicamente si chiama ‘refresh’ dello schermo) richiede quasi un secondo, diventa impossibile inserire nel nostro e-book anche animazioni e filmati. Certo, inserire animazioni e filmati era impossibile anche nei libri a stampa, ma non ci aspettavamo che proprio questa possibilità fosse uno dei tratti distintivi della nuova testualità digitale? L’e-paper appare insomma, da questi punti di vista, una tecnologia un po’ povera e sostanzialmente priva di capacità multimediali. Anche sulla velocità di refresh si lavora, e alcuni prototipi basati su una tecnologia un po’ diversa da quella tradizionale – compresi quelli basati su e-paper a colori Mirasol già ricordati – sembrano in grado di superare questo limite, ma per arrivare alla capacità dei normali display LCD (in cui il refresh avviene in pochi millisecondi) o anche solo a quella necessaria per visualizzare un filmato in maniera ragionevolmente fluida, la strada sembra ancora abbastanza lunga. Infine, se è vero che l’e-paper ‘assomiglia’ molto di più alla carta stampata che allo schermo di un monitor, è vero però che lo sfondo della pagina è più vicino al grigio chiaro che al bianco (un po’ come la carta riciclata non sbiancata), e il nero dei caratteri è più vicino al grigio scuro che a un nero pienamente saturo. Insomma, il ‘nero su bianco’ dell’e-paper lascia per ora abbastanza a desiderare. 100

Figura 13. Visualizzazione di un fumetto sul Sony Librié.

Tanti vantaggi, dunque, accompagnati però – almeno per ora – anche da diversi svantaggi. Ma è arrivato il momento di vedere un po’ più da vicino almeno i principali fra i dispositivi di lettura basati su e-paper. Il primo, oggi quasi dimenticato, è stato il Sony Librié, uscito solo sul mercato giapponese (anche se alcuni esemplari vennero importati in occidente grazie alla disponibilità di una traduzione inglese del sistema operativo) nel 2004. Come tutti i dispositivi basati su carta elettronica, il Librié garantiva una risoluzione discreta, pari a circa 170 dpi (circa il doppio di un normale monitor, circa la metà di un testo a stampa: ci soffermeremo su questo concetto in seguito, parlando della terza generazione di dispositivi portatili). Il display era da 6 pollici, di dimensioni cioè paragonabili alla pagina di un libro tascabile. Quattro normali batterie AAA fornivano corrente per circa 10.000 cambi pagina. Uno slot Memory Stick, una tecnologia molto usata all’epoca dalla Sony, garantiva la possibilità di espandere la memoria a 2 gigabyte: abbastanza per migliaia di libri. Il 101

peso era di circa 200 grammi, e il prezzo in Giappone era equivalente a circa 370 dollari. Un sogno? Non proprio: il Librié, ripetendo l’errore che aveva contribuito al fallimento dei dispositivi di prima generazione, adottava per gli e-book un formato proprietario, denominato Broad Band eBook (BBeB), e aveva una singola fonte privilegiata di contenuti: la Publishing Link, una joint venture fra la Sony e alcuni grandi editori giapponesi. Era poi possibile, con una procedura comunque un po’ elaborata, inserire anche documenti prodotti dall’utente. Ma non erano disponibili altre fonti (o almeno altre fonti legali) di e-book commerciali. Il Librié non ebbe grande successo: probabilmente, la memoria del fallimento dei dispositivi di prima generazione era ancora troppo vicina, ma secondo molti analisti il limite principale percepito dagli utenti era proprio la chiusura dei meccanismi di acquisto di contenuti. Anche il primo dispositivo basato su carta elettronica adottava insomma quello che potremmo chiamare ‘modello del falegname impazzito’: era uno scaffale che accettava solo libri venduti dal falegname che lo aveva realizzato. Ma la capacità tecnica per costruire dispositivi di lettura basati sulla carta elettronica era stata raggiunta. E negli anni seguenti sarebbe stata esplorata da molti altri produttori. Non avrebbe senso, qui, seguire uno per uno tutti questi dispositivi. La tabella disponibile su Wikipedia all’interno della voce Comparison of e-book readers54 dà un’idea di quanto sarebbe faticoso (e probabilmente noioso per il lettore) cercare di farlo. Va detto inoltre che le varianti sul tema, per quanto significative, fanno comunque riferimento a una tecnologia – quella della carta elettronica – che è sostanzialmente la stessa e offre caratteristiche almeno per ora abbastanza uniformi: in sostanza, dal punto di vista della risoluzione e delle caratteristiche dello schermo (anche se non delle sue dimensioni) questi dispositivi si assomigliano tutti. Ci limitiamo a ricordarne quattro, che per vari motivi sono stati particolarmente importanti Il primo è l’iLiad iRex, uscito nel 2006 e prodotto da una società europea, l’olandese iRex Technologies, nata come ‘spin-off’ della Philips: primo lettore basato su e-paper ad offrire sia un display sul quale prendere appunti con uno stilo, sia la connettività Wi-Fi, anche se a un prezzo piuttosto elevato: inizialmente, 649 euro. L’i102

Liad55 aveva uno schermo piuttosto largo (8 pollici), ma, soprattutto per l’uso della tecnologia touch screen, consumava molto più degli altri dispositivi e-paper: di fatto, la batteria durava fra le 10 e le 15 ore. La vendita di contenuti si affidava all’eBook store Mobipocket, ma era in linea di principio aperta anche ad altri venditori, e in generale la politica di gestione dei contenuti era più aperta di quanto non accadesse per il Sony Librié. Negli anni successivi, l’iRex ha prodotto altri lettori. Una seconda edizione del primo modello è uscita nel 2007, e fra il 2008 e il 2010 è uscita una nuova linea di modelli, denominata Digital Reader, con schermi da 10 pollici (Digital Reader 1000) e da 8 pollici (Digital Reader 800). Punto di forza anche di questi modelli è il touch screen che consente di prendere appunti con uno stilo, punto debole è la durata delle batterie. Il costo resta mediamente maggiore di quello degli altri lettori, quasi tutti prodotti in estremo oriente. Il secondo è il Sony PRS 500, uscito anch’esso nel 2006, e seguito da una nutrita famiglia di altri dispositivi56, tutti caratterizzati dalla sigla PRS (Portable Reader Sony). A differenza del Librié, questi dispositivi Sony sono usciti anche in occidente (ma non in Italia) e non solo in Giappone. E sul mercato statunitense la Sony li ha lanciati con investimento pubblicitario assai significativo: testimonianza delle attese assai maggiori che in passato. In sostanza, dopo l’esperienza infelice della RCA, questi lettori costituiscono il primo tentativo di riprovare a lanciare con forza sul mercato un dispositivo di lettura per libri elettronici da parte di una grande azienda internazionale. Inizialmente, però, la Sony non sembrava aver imparato molto dall’esperienza non certo positiva del Librié: anche questi dispositivi prevedevano un meccanismo chiuso per l’acquisizione di contenuti, basato su formati proprietari e su un unico negozio on-line, gestito dalla stessa Sony e denominato Connect Bookstore. Il falegname impazzito, insomma, aveva colpito ancora. La situazione, però, era destinata a cambiare radicalmente fra il 2007 e il 2008, con l’uscita di un altro parto del nostro falegname folle, un dispositivo sostanzialmente chiuso che però almeno questa volta aveva alle spalle la libreria più grande del mondo: il Kindle della Amazon, di cui parleremo fra un attimo. Il Bookstore della Sony non aveva nessuna possibilità di competere con Amazon dal punto di vista dell’offerta di contenuti (e di supporto a chi voleva vendere contenuti). Per mantenere competitivi i propri prodotti, l’unica 103

possibilità per la Sony era dunque quella di distinguerli dal Kindle proprio attraverso una maggiore apertura a contenuti in formati non proprietari: improvvisamente la Sony, che come abbiamo visto si era in precedenza distinta per l’assoluta chiusura delle sue politiche commerciali, fu costretta a scoprire le virtù dei formati aperti. La svolta fu annunciata con molta solennità (e una certa faccia tosta nel rivendicarne l’assoluta continuità con le politiche precedenti) nel corso di uno dei principali incontri annuali della comunità ebook, la conferenza Digital Book 2008 organizzata nel maggio 2008 a New York dall’International Digital Publishing Forum (IDPF). Concretamente, questo significava l’apertura dei lettori Sony al principale formato aperto esistente nel settore, il formato ePub, di cui ci occuperemo nella prossima lezione. Una novità apparentemente tecnica, che però implicava una vera e propria rivoluzione: se aveva capitolato anche la Sony, voleva dire che da quel momento, per avere qualche motivo di interesse rispetto al Kindle e alla forza di Amazon, qualunque altro dispositivo di lettura avrebbe dovuto accettare anche e-book in formato ePub. L’IDPF, che come vedremo aveva proposto il formato molto tempo prima, ma non era mai riuscita a imporlo veramente come standard diffuso e condiviso, vinceva finalmente la sua battaglia. E l’annuncio fatto dalla Sony nel McGraw-Hill Auditorium di New York fu salutato, posso testimoniarlo direttamente, da un lunghissimo applauso liberatorio. Tutti i modelli successivi della famiglia PRS della Sony (e anche il PRS 500, con una modifica di firmware che la casa produttrice offre gratuitamente) permettono dunque di visualizzare anche contenuto in formato ePub, e di acquistare e-book da diversi fornitori: finalmente, lo scaffale è veramente aperto. Paradossalmente, oltre ad avere un effetto positivo sulla politica di gestione dei contenuti da parte dei dispositivi di lettura Sony, la concorrenza del Kindle – concentrando un’enorme attenzione sui lettori per e-book – ha avuto un effetto positivo anche sulle vendite: gli e-book reader Sony hanno cominciato a vendere di più proprio dopo l’uscita del dispositivo di casa Amazon. Nonostante questo, però, è opinione diffusa (i dati di vendita effettivi sono in questi casi protetti come segreti industriali) che le vendite da parte della Sony siano comunque rimaste inferiori rispetto alle aspettative. Senza il Kindle, difficilmente la seconda generazione di dispositivi di lettura sarebbe stata considerata un vero successo. 104

Il terzo dispositivo che non possiamo non menzionare è dunque proprio l’Amazon Kindle. Non tanto per le sue caratteristiche tecniche, quanto per il ruolo che ha avuto nel far percepire la seconda generazione di dispositivi di lettura, quella basata su epaper, come un salto di qualità ma anche di quantità nella base di utenza, e dunque come qualcosa di diverso da un semplice miglioramento tecnologico57. Il primo modello del Kindle è uscito sul mercato statunitense nel novembre 2007; lo schermo non aveva nulla di innovativo rispetto ai dispositivi di altre case (un display da 6 pollici con e-paper a quattro livelli di grigio), ma una novità rilevante riguardava lo scaricamento dei libri: il Kindle è infatti in grado di scambiare dati sulla rete di telefonia mobile statunitense (e nelle ultime versioni anche sulle principali reti europee), un po’ come un telefonino di ultima generazione. Non è però possibile fare telefonate tradizionali: si tratta comunque di un dispositivo dedicato unicamente alla lettura. In questo modo, in maniera trasparente agli utenti, il Kindle è in sostanza sempre connesso, e può scaricare libri in qualunque momento. A parte questa caratteristica, dal punto di vista strettamente tecnologico il primo modello di Kindle58 non solo non offriva particolari vantaggi rispetto agli altri lettori basati su e-paper, ma non sembrava avere particolari attrattive. L’aspetto estetico della confezione era magnifico, quello del dispositivo, migliorato solo in parte nelle ultime versioni, era assai meno entusiasmante: piuttosto tozzo e squadrato, lontanissimo – solo per fare un esempio – dalle meraviglie del design Apple, e più vicino a una trasposizione high-tech delle tavolette cerate utilizzate nell’antichità che al modello rappresentato dal libro. La tastiera messa a disposizione nella parte inferiore del dispositivo per aggiungere annotazioni era (ed è) decisamente scomoda. Una progettazione infelice aveva trasformato in pulsanti per voltare pagina sostanzialmente l’intero bordo destro e buona parte del bordo sinistro del dispositivo, con il risultato di rendere l’oggetto quasi impossibile da maneggiare senza voltare inavvertitamente pagina (un difetto, questo, corretto nei due modelli successivi). Ma il limite principale, dal punto di vista dell’utente, è e resta la chiusura dei dispositivi. Il formato adottato per gli e-book, pur essendo in ultima analisi basato su ePub, è proprietario (si tratta di una 105

lieve modifica del formato Mobipocket), e gli utenti Kindle possono acquistare e-book solo presso Amazon. Certo, in questo caso il falegname è più furbo che folle: Amazon è un gigante, e praticamente tutti i libri presenti sul mercato anglosassone per i quali sia stata realizzata una edizione e-book sono disponibili per Kindle. Amazon stessa, peraltro, provvede a predisporre la versione e-book per i libri degli editori che decidono di accettare lo schema di prezzo e di ripartizione dei profitti previsto. Ma trasferire contenuti propri sul Kindle, pur essendo possibile, richiede un minimo di iniziativa: occorre o spedirli in allegato a una mail indirizzata al proprio dispositivo, al quale Amazon assegna automaticamente un indirizzo di posta elettronica, o trasferirli manualmente collegando il Kindle al computer attraverso un cavo USB (Universal Serial Bus, gli stessi usati per collegare al computer stampanti, lettori MP3 e altri dispositivi esterni). La seconda versione del dispositivo ha infatti eliminato lo slot per schede di memoria disponibile nella prima. Con i nuovi Kindle non è quindi possibile utilizzare delle schede SD (Secure Digital: quelle, per intenderci, usate da telefonini e macchine fotografiche digitali) come supporto per i contenuti, cosa che invece permettono di fare quasi tutti gli altri dispositivi. E il Kindle non riconosce il formato aperto ePub, utilizzato come vedremo dalla maggior parte degli e-book di pubblico dominio. Eppure il Kindle è stato un successo, almeno dal punto di vista di Amazon: come sempre, non esistono dati ufficiali sulle vendite, ma si stima che fino a fine 2009 il Kindle abbia venduto oltre un milione e mezzo di esemplari. Per le feste del Natale 2009, è stato il singolo oggetto più acquistato su Amazon. Poco prima, e per la prima volta, un libro elettronico – la versione e-book dell’ultimo romanzo di Dan Brown, The Lost Symbol – aveva raggiunto la posizione di best-seller del sito. Nel frattempo, al primo modello del Kindle era seguito il secondo, che ne correggeva qualche difetto e come si è accennato estendeva la copertura del trasferimento dati anche alle reti telefoniche europee, rendendo il Kindle pienamente utilizzabile anche in Europa (pur con il limite rappresentato dal fatto che quasi tutti i contenuti in vendita su Amazon sono in inglese; la disponibilità di e-book in italiano è ad esempio al momento quasi nulla). E nel maggio 2009 è uscito anche un modello dallo schermo più grande, il Kindle DX, più riuscito esteticamente e assai più 106

confortevole per la lettura59. Il prezzo del Kindle ‘base’ è intanto sceso a 259 dollari, mentre il prezzo di lancio del Kindle DX è al momento di 489 dollari. Come mai, nonostante tutti i limiti che abbiamo indicato, il Kindle ha avuto almeno parte di quel successo che è invece mancato a tanti altri dispositivi dedicati apparsi sul mercato più o meno nello stesso periodo? Fattore essenziale è stato in questo caso a mio avviso il ‘marchio’ Amazon. Amazon non è semplicemente un negozio on-line di libri: è uno dei principali protagonisti della svolta rappresentata dal cosiddetto ‘collaborative filtering’, il filtraggio collaborativo dei contenuti. Amazon cioè non si limita a venderci dei libri, ma analizza le nostre ricerche e i libri che ci interessano, e offre automaticamente consigli basati sui comportamenti di navigazione nel sito e sui comportamenti di acquisto da parte di utenti dal profilo e dai gusti simili ai nostri. Offre inoltre agli utenti la possibilità di creare liste di opere consigliate, di scrivere recensioni, di suggerire libri alternativi rispetto a quello descritto nella pagina che si sta visitando... Insomma, Amazon non è un catalogo, ma un sito che attorno alla vendita di libri ha costruito un’esperienza in qualche misura sociale. La percezione di questo carattere sociale del sito, la sua frequentazione da parte di una comunità di lettori di cui si è soddisfatti se non orgogliosi di far parte, è una componente integrante dell’esperienza di acquisto su Amazon. Il Kindle, quindi, non è percepito dall’utente abituale di Amazon come un gadget tecnologico fra gli altri: è percepito come un dispositivo che fa parte dell’arco di strumenti offerti da Amazon per aiutare e favorire la propria esperienza di lettura. Non è percepito solo come un lettore per e-book, ma anche come un canale per restare sempre connesso, nella selezione dei testi e nella loro lettura, alla casa madre. Il Kindle non è semplicemente un dispositivo di lettura, è un’estensione di Amazon. Questa caratteristica costituisce insieme il fattore di successo e il limite del Kindle: le vendite, fra gli utenti abituali di Amazon, sono andate benissimo. Ma è davvero un modello che può funzionare, in maniera generalizzata, anche per lettori meno Amazon-dipendenti, e che dispone quindi di margini ulteriori di crescita? Lo si capirà, probabilmente, nel corso dei prossimi due anni. Allo stesso interrogativo deve del resto rispondere il quarto e ul107

timo dispositivo basato su e-paper al quale vorrei dedicare qualche parola: il Nook di Barnes & Noble. A differenza di Amazon, Barnes & Noble è in primo luogo una catena di negozi fisici: il negozio on-line è nato dopo, e nonostante le notevoli risorse economiche e tecniche messe in campo non può competere con Amazon proprio dal punto di vista del filtraggio collaborativo, della capacità di mettere in comune esperienze di acquisto e di lettura. Ma questo carattere di libreria che è insieme punto di aggregazione è garantito dalle librerie fisiche: le librerie Barnes & Noble hanno sempre un bar piacevole e attrezzato in cui sedersi a leggere bevendo un caffè o mangiando una fettina di torta, offrono navigazione WiFi gratuita ai clienti, hanno meccanismi di fidelizzazione come tessere e buoni-sconto. Insomma, anche Barnes & Noble può contare su un’utenza in qualche misura fedele e affezionata, dai gusti probabilmente meno eterogenei e più commerciali di quella di Amazon, ma egualmente assai vasta. Così come il Kindle si rivolgeva in primo luogo ai clienti Amazon, il Nook di Barnes & Noble si rivolge in primo luogo a questa utenza. E, certo anche per differenziarsi dal Kindle, cerca di stupirla con effetti speciali: il Nook è infatti basato su una interfaccia innovativa, che comprende nella parte superiore dello schermo il tradizionale display e-paper e nella parte inferiore un display a colori, con funzionalità touch screen, sul quale scorrere le copertine dei libri, impostare le dimensioni dei caratteri e gli altri settaggi del lettore, o – attraverso una tastiera virtuale simile a quella dell’iPhone e di molti altri smartphone (ma in verità non proprio precisissima al tocco) – immettere termini da ricercare o brevi annotazioni. Il Nook si basa dunque su una doppia interfaccia, che almeno nelle intenzioni cerca di riunire il meglio dei due mondi: lo schermo e-paper per la lettura, lo schermo a colori per copertine, tastiera e controllo delle funzionalità del dispositivo60. A differenza del Kindle, il Nook permette di utilizzare schede di memoria e di leggere e-book in formato ePub, ma le prestazioni dello schermo e-paper sono state considerate da molti analisti lievemente inferiori a quelle del lettore di casa Amazon. Il Nook tuttavia ha il notevole vantaggio di affiancare al collegamento attraverso le reti di telefonia mobile anche la possibilità di collegamento WiFi. Come nel caso del Kindle, il dispositivo costa 259 dollari. 108

Figura 14. Il Nook di Barnes & Noble.

Nel momento in cui scrivo, è ancora presto per avere stime affidabili sul successo del Nook, ma apparentemente la fase di lancio è andata molto bene, con vendite superiori alle disponibilità, che hanno costretto ad alcuni ritardi nella spedizione dei lettori agli acquirenti. Nel febbraio 2010 è cominciata anche la vendita nelle librerie fisiche, un canale di distribuzione del quale ovviamente Amazon non dispone. Il successo del Kindle ha prodotto una vera e propria corsa alla realizzazione di lettori basati su e-paper. E sono annunciate o cominciano ad apparire alcune interessanti variazioni sul tema: Spring Design ha annunciato un lettore a doppio schermo simile al Nook ma di dimensioni più generose, QUE e Skiff hanno annunciato lettori con schermi ancor più ampi, adatti alla lettura di 109

giornali, enTourage e Asus hanno annunciato dispositivi che si aprono su cerniera come un libro e offrono uno schermo e-paper e uno tradizionale a colori – o due schermi a colori – sulle due facciate, Plastic Logic promette dispositivi che sfruttino anche a livello di interfaccia la flessibilità dello schermo, e altri annunci sicuramente ci aspettano nei prossimi mesi. Ma l’entusiasmo per l’e-paper è davvero giustificato? E fino a che punto? In parte, sicuramente sì: l’esperienza di lettura si avvicina per la prima volta, almeno in qualche misura, a quella del libro su carta, e sicuramente costituisce un enorme passo avanti rispetto a tutti i dispositivi disponibili in precedenza. Inoltre, la tecnologia epaper ha ancora larghi margini di miglioramento tecnico. D’altro canto, come si è visto, neanche i lettori basati su e-paper riescono per ora a raggiungere – e tantomeno a superare – il libro su carta in termini di comodità d’uso: all’e-book, per vincere davvero la sua battaglia, manca ancora qualcosa. Ma se non abbiamo ancora a disposizione dispositivi capaci di sostituire il libro su carta, i lettori basati su e-paper fanno capire che quest’obiettivo non è irraggiungibile. Nel frattempo, sono i primi che possono aspirare ad affiancarlo in maniera ragionevolmente diffusa: la comodità rappresentata dal potersi portare dietro, su un unico lettore, un’intera biblioteca di titoli e la discreta leggibilità costituiscono comunque un mix che anche il cancelliere Tusmann troverebbe attraente. Ma per poter rischiare un giudizio più articolato, abbiamo ancora bisogno di parecchi elementi. Dovremo parlare di software e formati, e lo faremo nella prossima lezione. E dobbiamo parlare delle aspettative che sembra aver sollevato negli ultimi mesi una terza classe di dispositivi, il cui rappresentante paradigmatico è l’iPad della Apple. Per affrontare quest’ultimo compito, è opportuno innanzitutto tornare per un momento al mondo dei dispositivi non dedicati e di dimensioni più piccole. Li avevamo lasciati mentre, partiti come computer palmari, erano avviati all’ibridazione con gli smartphone; li ritroviamo a ibridazione ormai avvenuta, con schermi e caratteristiche sorprendenti.

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8. Dall’iPhone all’iPad, passando per Android: verso la terza generazione? Lo smartphone più famoso, e quello che ha rivoluzionato il mercato, è indubbiamente l’iPhone. Uscito nel giugno 2007, si è trasformato immediatamente nell’oggetto del desiderio per una generazione di teenager, nello status symbol di ventenni e trentenni d’assalto, nel gadget tecno-trendy di quarantenni e cinquantenni arrivati. Se il dato (stimato) di un milione e mezzo di Kindle venduti sembrava sorprendente, va considerato che si tratta di meno del 5% dei circa 34 milioni di iPhone che si calcola siano stati venduti più o meno nello stesso periodo, fino al dicembre 2009. Ma l’iPhone non è rilevante solo per la sua diffusione in termini assoluti: è diventato il punto di riferimento e il modello da seguire – o da superare – per tutta l’ultima generazione degli smartphone. Difficile non concordare con «Time magazine», che gli ha attribuito la palma di invenzione dell’anno per il 2007. Il design dell’iPhone è indubbiamente superbo. Ma quel che colpisce dopo i primi minuti di uso sono soprattutto due fattori: da un lato, la qualità dello schermo e la sua sensibilità al tocco; dall’altro, la funzionalità dell’interfaccia disegnata da Apple, con le sue icone colorate dalle funzioni immediate e intuitive. La qualità dello schermo è legata in parte alla risoluzione, in parte alla buona qualità dei componenti, che garantiscono colori vividi e luminosi. E siccome di risoluzione abbiamo parlato diverse volte e torneremo a parlare, è bene forse approfittare dell’occasione per chiarirci le idee al riguardo. Sappiamo tutti che l’immagine visualizzata da un televisore, guardata da lontano, appare compatta e continua, ma guardata da vicino appare composta da piccoli puntini luminosi. Questi puntini luminosi sono i pixel, abbreviazione di picture element, elementi dell’immagine. Tutti i dispositivi di visualizzazione digitali si basano sulla scomposizione dello schermo in pixel: a parità di dimensioni, più pixel ci sono più l’immagine appare ‘densa’ e ben definita. Gli schermi dei computer possono avere dimensioni e caratteristiche diverse, ma per farci un’idea possiamo dire che un display da 15 pollici (28 cm di diagonale) ha oggi in genere una risoluzione di almeno 1024 pixel in orizzontale e 768 pixel in verticale. 111

In tutto, dunque, sarà composto da 1024x768 pixel: 786.432 pixel complessivi. Lo schermo dell’iPhone è fatto da 480x320 pixel, cioè 153.600 pixel. Molti di meno dello schermo di un computer... ma l’iPhone è molto, molto più piccolo. Per confrontare la risoluzione di due dispositivi di dimensioni diverse, dobbiamo andare a vedere quanti puntini ci sono in una stessa area o in uno stesso segmento lineare. E siccome in campo informatico il mondo anglosassone la fa da padrone, la misurazione si fa prendendo come riferimento i pollici anziché i centimetri. L’indicazione ‘dpi’ (‘dot per inch’, puntini per pollice), o ‘ppi’ (‘pixel per inch’, pixel per pollice) ci dice proprio questo. Le due misurazioni ‘dpi’ e ‘ppi’ si equivalgono, ma in genere la prima è usata per la stampa, la seconda per gli schermi. Il nostro ipotetico monitor con diagonale da 15 pollici corrisponde a un rettangolo con base lunga 12 pollici e altezza lunga 9 pollici. Se la base è lunga 12 pollici, e corrisponde a 1024 pixel, vuol dire che in ogni pollice lineare entrano circa 85 pixel: il nostro monitor ha dunque una ‘densità’ effettiva di 85 dpi (o 85 ppi, se volete essere rigorosi). La risoluzione di un libro a stampa è di norma pari ad almeno 300 dpi, ed è spesso superiore (soprattutto se ci sono illustrazioni). Lo schermo del computer che abbiamo usato come esempio ha dunque una risoluzione assai minore di quella di un libro a stampa. Bella forza, direte voi: lo si vede a occhio, che lo schermo di un computer è meno nitido, meno definito della pagina di un libro. Anzi, questa è proprio una delle ragioni (non l’unica, come ricorderete) per cui il libro è superiore allo schermo. Vero. Ma, come si è evoluta la tipografia, anche gli schermi si evolvono. Torniamo al nostro iPhone: la sua risoluzione, abbiamo detto, è di 480x320 pixel. Ma i 480 pixel di lunghezza del suo schermo corrispondono a meno di 3 pollici: l’iPhone ha dunque una ‘densità’ dell’immagine assai maggiore di quella del nostro monitor da computer. Per l’esattezza, una densità di 163 ppi: quasi il doppio degli 85 ppi del monitor. Certo, i 300 dpi della stampa sono ancor meglio, ma ci siamo avvicinati. E alcuni telefonini più recenti dell’iPhone, come il Nexus One, il telefonino prodotto da Google e uscito nel gennaio 2010, si spingono ancora più vicino: 252 ppi. 112

Figura 15. L’iPhone come dispositivo di lettura.

Questo significa che gli schermi digitali sono ormai molto, molto vicini a garantire la stessa ‘nitidezza’ della stampa: l’argomento per cui il libro a stampa presenta i caratteri in maniera più nitida e definita dello schermo di un computer si avvia dunque a non corrispondere più alla realtà. Determinismo tecnologico? No, previsione razionale, non delle più difficili e abbondantemente confortata dai fatti. Ma torniamo al nostro iPhone: con uno schermo due volte più nitido e definito di quello di un normale monitor da computer, non sorprende che anche la resa del testo sia piuttosto buona. Certo, l’iPhone resta assai più piccolo di un libro, ma nello spazio che c’è, il testo si legge bene (e ancor meglio si legge sul Nexus One). 113

Come abbiamo visto, applicazioni per leggere testi e libri elettronici c’erano perfino per i primi computer palmari, i cui schermi erano assai peggiori. Non stupisce, dunque, che ci siano anche per iPhone. L’iPhone, insomma, è pronto per essere utilizzato come dispositivo per la lettura di e-book, scomodo per le ridotte dimensioni ma capace di garantire una discreta qualità nella resa del testo. E lo stesso vale per gli altri smartphone di ultima generazione. Non si tratta, ovviamente, di dispositivi dedicati: uno smartphone fa anche altre cose, e anzi nasce soprattutto per fare altre cose. Le sue dimensioni non sono quelle che dovrebbe avere un lettore di e-book, e – a differenza dell’e-paper – lo schermo emette luce: quindi, almeno nel giudizio della maggior parte degli utenti, stanca di più. Uno smartphone di ultima generazione non soddisfa dunque i nostri requisiti per un buon dispositivo di lettura: indubbiamente preferiremmo leggere su un libro a stampa (o su un lettore basato su e-paper) che sul suo schermo. Ma ci si avvicina molto, molto di più dei vecchi computer palmari e degli smartphone di prima generazione: leggere un libro sull’iPhone o su telefonini analoghi con uno schermo abbastanza ampio (dai 3 pollici in su) non è comodo, ma non è neanche un’impresa impossibile. E sicuramente, sia a livello di lettura sia di scrittura, i limiti di dimensioni e risoluzione che avevano portato all’esigenza di leggere e di inviare solo testi di poche righe è ormai superato: non a caso, questi dispositivi sono ormai adeguati anche per la gestione della posta elettronica, e non solo degli SMS. Naturalmente, dato che uno smartphone è più piccolo di un libro, a parità di dimensione dei caratteri le ‘pagine’ saranno più brevi, cioè conterranno meno testo. Occorre quindi cambiare pagina molto più spesso che leggendo un libro. Ma, avendo a disposizione uno schermo sensibile al tatto, per cambiare pagina basta sfiorare lo schermo: l’azione, in sé, è più veloce e meno faticosa che su un libro di carta, e questo compensa in parte il fatto di doverla svolgere più spesso. Devo confessare di avere sempre nutrito un enorme scetticismo sull’idea di utilizzare per la lettura dispositivi di dimensioni così ridotte. Un aspetto importante della perfezione ergonomica del libro sono le sue dimensioni. Ma dopo diversi mesi di lettura anche su iPhone (e più recentemente su Nexus One) il mio scetticismo è assai minore: potendo scegliere preferisco senz’altro un 114

libro, ma – ad esempio – ho smesso di portarmi dietro un libro quando vado dal dentista: per i 10-15 minuti di attesa, la lettura su iPhone o Nexus One va benissimo. E non è un caso che perfino un dispositivo portatile per videogiochi come il Nintendo DS – favorito dalla struttura a doppio schermo – si sia recentemente aperto al mondo degli e-book61. Come abbiamo già osservato a proposito dei palmari, si tratta comunque di dispositivi pensati per la mobilità più che per il lean back: se posso leggere seduto in poltrona, mi rivolgo senza esitazione al libro (o al lettore su e-paper). Nella prossima lezione parleremo più da vicino di programmi e formati per la lettura di e-book, sia su dispositivi dedicati sia sugli smartphone di ultima generazione. In questa sede, è bene completare la nostra rassegna di dispositivi ricordando innanzitutto come anche tutti gli smartphone concorrenti dell’iPhone abbiano ormai schermi ad alta o altissima risoluzione e sensibili al tatto, dalle dimensioni di norma sufficientemente generose da permettere la lettura, pur se meno comoda di quella possibile su un libro a stampa. È inutile fare un elenco di marche e dispositivi. Vale la pena, però, ricordare i telefonini basati sul sistema operativo mobile realizzato da Google, denominato ‘Android’. Mentre la Apple utilizza il proprio sistema operativo (iPhone OS) solo sui propri dispositivi, e non permette a terzi di creare telefonini ‘compatibili’, Android è un sistema operativo aperto: Google non solo permette a terzi di utilizzarlo (esiste dunque una vasta schiera di telefonini di marche diverse che lo usano62), ma ne ha affidato lo sviluppo a un consorzio di aziende, ed è possibile realizzarne anche versioni modificate. Fanno eccezione alcune applicazioni strettamente collegate ai servizi offerti da Google via rete, ma sono eccezioni che in questa sede non ci interessano. I telefonini basati su sistema operativo Android hanno ormai poco da invidiare all’iPhone. In alcuni casi, come quello del già ricordato Nexus One (al momento il solo fra i telefonini Android realizzato direttamente da Google, attraverso un accordo con una delle principali aziende che producono telefoni cellulari, HTC), sono anzi ormai per molti aspetti, come la risoluzione e la qualità dello schermo, decisamente più avanzati. Anche in 115

Figura 16. Lo smartphone Google Nexus One; l’interfaccia del programma Aldiko, uno fra i diversi disponibili per la lettura di e-book, simula una libreria.

questo caso, dunque, siamo davanti a ottimi candidati per la lettura in mobilità. Ma c’è ancora qualcosa da dire su Android: trattandosi di un sistema operativo aperto, è possibile utilizzarlo non solo su telefonini ma anche su altri dispositivi, e quindi – volendo – anche direttamente su lettori di e-book di dimensioni più grandi. In effetti il Nook, il dispositivo di lettura realizzato da Barnes & Noble e del quale abbiamo già parlato, utilizza proprio Android come sistema operativo! Abbiamo detto che gli schermi dell’iPhone, e ancor più quelli di smartphone di ultimissima generazione come il Nexus One, 116

raggiungono una nitidezza ormai assai vicina a quella di un libro a stampa, e perfettamente comparabile con quella dell’e-paper, che è compresa fra i 150 e i 200 dpi. Si pone a questo punto un interrogativo: visto che l’e-paper ha comunque i suoi svantaggi (come abbiamo visto, almeno per ora, niente colori e niente animazioni e filmati, oltre al bianco e al nero un po’ slavati), non varrà la pena indirizzarsi piuttosto verso le nuove generazioni di schermo a colori, che dai tradizionali display LCD (Liquid Crystal Display) stanno intanto passando a tecnologie più avanzate? Un ruolo particolare, in questa riflessione, lo ha una nuova tecnologia di schermo, la tecnologia OLED (Organic Light-Emitting Diode). Alla base dei display OLED è l’idea di rendere elettroluminescenti – cioè capaci di emettere luce – delle piccole molecole organiche. Nei normali schermi LCD, invece, si usano dei cristalli liquidi che non emettono direttamente luce, e devono dunque essere retroilluminati: occorre quindi uno ‘strato’ in più, quello della retroilluminazione. Grazie alla ‘autosufficienza luminosa’ delle molecole alla base dei display OLED, questi ultimi possono essere molto più sottili e anche flessibili. Inoltre, la resa visiva è migliore: colori più vivi e meno stancanti. Abbiamo dunque un nuovo candidato, pronto per una terza generazione di dispositivi e-book: il display OLED. Ma i display OLED sono effettivamente meglio dell’e-paper? Difficile dirlo. Spariscono i problemi nel visualizzare filmati e animazioni, il refresh della pagina è immediato, al posto di bianco e nero un po’ slavati abbiamo colori vividi e perfetti, ma i display OLED emettono comunque luce, mentre carta ed e-paper no. La luce emessa sembra essere meno faticosa per gli occhi di quella dei tradizionali display a cristalli liquidi, ma c’è. E proprio perché si basano su luce emessa e non su luce riflessa, i display OLED sono, come i display LCD (e in certi casi anche un pochino di più), difficili da leggere in situazioni di piena luce, ad esempio all’aperto in una giornata assolata. C’è anche un altro problema: i display OLED richiedono pochissima corrente per i pixel neri, ma ne richiedono molta di più per i pixel bianchi. Noi, però, siamo abituati a leggere nero su bianco, non bianco su nero: in una pagina c’è quindi molto più bianco (lo sfondo) che nero (il testo). La visualizzazione di una pagina di testo, nero su bianco, consuma dunque parecchia corren117

te: almeno nella loro generazione attuale, i display OLED non sono in grado di avvicinarsi alla lunga durata di batterie offerta dall’e-paper. La partita, insomma, sembrerebbe quasi in parità; per leggere testo scritto – soprattutto in ambienti bene illuminati – è per ora meglio l’e-paper, per leggere testi ricchi di immagini o con animazioni e filmati sono per ora molto meglio gli schermi OLED. In prospettiva, il grosso vantaggio degli schermi OLED (o degli schermi a cristalli liquidi di ultima generazione e di alta qualità, che usano una retroilluiminazione a LED) è quello di permettere la realizzazione di dispositivi che non servano solo a leggere e-book, ma anche a fare altro, sul modello degli smartphone o dei computer. E proprio a questa possibilità fa riferimento l’idea di una terza generazione di dispositivi di lettura. Dispositivi non dedicati – capaci dunque di fare anche molte altre cose – ma di forma, dimensioni e peso adatti anche alla lettura lean back, proprio come accade nel caso dei dispositivi dedicati. Quest’idea ha i suoi precursori: i cosiddetti ‘tablet’, computer in commercio ormai da diversi anni e che possono essere utilizzati anche come una tavoletta, in verticale o in orizzontale. Dal nostro punto di vista, il vantaggio dei tablet risiede soprattutto nel fatto che possono essere usati anche lontano da una scrivania, ad esempio in poltrona, senza bisogno di appoggiarsi a un piano di lavoro. Anziché attraverso una tastiera, con un tablet si interagisce attraverso una sorta di penna, proprio come se si trattasse di un quaderno. Molti dei tablet disponibili hanno comunque una tastiera, che permette di usarli anche come un normale computer portatile e si nasconde dietro lo schermo quando il computer viene usato in modalità tablet. Altri invece – denominati ‘slate’, piccole lavagne interattive – consistono nel solo schermo con stilo: la tastiera può essere all’occorrenza collegata ma è un dispositivo esterno, opzionale, e in molte situazioni (ad esempio leggendo) non serve proprio. In assenza di tastiera fisica, per l’input dei caratteri si può ricorrere a tastiere virtuali visualizzate sullo schermo (su cui – a seconda della tecnologia adottata – si può digitare con lo stilo o direttamente con le dita) e/o a sistemi di riconoscimento della calligrafia. I tablet non hanno finora avuto il successo che molti si aspettavano: la loro incarnazione principale (e sostanzialmente unica) 118

era costituita dalla linea Microsoft denominata ‘Tablet PC’ e basata su Windows, che anche negli adattamenti per tablet conservava tutta la sua pesantezza. Si trattava inoltre di dispositivi piuttosto costosi e ancora troppo ingombranti. Ma questa situazione sembra destinata a cambiare. L’idea è dunque quella di creare dispositivi che siano: a) multifunzione, un po’ come uno smartphone di ultima generazione; b) di dimensioni e forma comunque adatte alla lettura (ma anche alla visualizzazione di un video, o alla scrittura): più o meno la dimensione di un libro o di un quaderno, e comunque più grandi di uno smartphone; c) basati su display touch screen ad alta risoluzione e di alta qualità (preferibilmente OLED). Equipaggiati con una videocamera, dispositivi di questo tipo potrebbero essere ottimi strumenti per videotelefonate e videoconferenze volanti. Le loro dimensioni li renderebbero perfettamente in grado di consentire la navigazione in rete, senza i limiti imposti dalla visualizzazione delle pagine web su un dispositivo di dimensioni troppo ridotte come uno smartphone. Funzionerebbero inoltre assai meglio degli smartphone per la visualizzazione di filmati. Non entrerebbero in un taschino, ma conserverebbero tutta la portabilità di un libro a stampa o di uno dei piccoli netbook di ultima generazione. E a differenza di un netbook sarebbero interamente concentrati sulla resa a video. Non sarebbero insomma in primo luogo dispositivi lean forward, come pur nelle loro ridotte dimensioni continuano comunque ad essere anche i netbook, ma dispositivi nati per il lean back portatile. Tutto questo vi ricorda qualcosa? Ebbene sì: l’iPad Apple, presentato da Steve Jobs a fine gennaio 2010 e in circolazione a partire dalla primavera dello stesso anno, è basato esattamente su questa filosofia. Tecnologicamente, l’iPad non è un prodotto nuovo: assomiglia moltissimo a un iPhone di dimensioni più grandi e senza telefono; la Apple del resto commercializza da tempo anche un dispositivo che è in buona sostanza un iPhone senza telefono, l’iPod Touch. Per permetterne la vendita a un prezzo più basso, la prima generazione di iPad non dispone di uno schermo OLED ma di uno schermo LCD, che utilizza però un particolare meccanismo di retroilluminazione a LED capace di garantire comunque 119

una buona qualità. Lo schermo è in grado di garantire una risoluzione di 132 ppi: minore di quella degli smartphone di ultima generazione (e ovviamente di quella garantita da un libro a stampa), ma superiore a quella della maggior parte dei tradizionali schermi per computer. La telecamera non c’è ancora, ma c’è da scommettere che se l’iPad avrà il successo previsto arriverà anch’essa in una successiva versione del dispositivo. Ma la vera questione non è nelle capacità e nelle caratteristiche strettamente tecnologiche dell’iPad: è stato detto, a ragione, che quel che fa l’iPad (e probabilmente di più) può farlo anche un qualsiasi netbook: il punto è nel come queste cose vengono fatte, nell’interfaccia, nell’idea di un computer destinato anche, se non principalmente, a una fruizione lean back. Non a caso, a disposizione di Steve Jobs sul palcoscenico in cui il dispositivo è stato presentato non c’era un tavolo ma la più tradizionale delle poltrone. È su questo fronte che si potrà misurare il successo (o il fallimento) dell’iPad. La novità, dunque, non è tecnologica ma di interfaccia, e per l’esattezza nelle dimensioni dell’interfaccia, che suggeriscono per l’iPad usi diversi sia da quelli di uno smartphone, sia da quelli di un computer portatile, e molto più direttamente orientati al lean back. A ulteriore dimostrazione di come, fra le tante caratteristiche dei dispositivi che usiamo per ricevere ed elaborare informazione, anche le dimensioni contino, e contino molto. Non stupirà dunque che l’iPad sia stato lanciato anche (ma non unicamente) come dispositivo di lettura: offre un programma apposta, iBooks, che imita abbastanza da vicino se non la sensazione tattile almeno quella visiva di un libro, e offre il collegamento con un servizio di vendita gestito – guarda caso – dalla stessa Apple e denominato iBookstore. Accetta e permette di usare – come tutti i concorrenti del Kindle – il formato ePub, e dunque funziona senza problemi e senza necessità di conversioni anche con gli e-book di pubblico dominio. Inoltre può essere utilizzato con applicazioni di terze parti orientate alla lettura, come quella, davvero notevole, realizzata dal «New York Times». Applicazione, quest’ultima, che offre una sorta di ibrido fa i contenuti del sito web (da cui sono tratte le notizie continuamente aggiornate) e un’impaginazione che cerca in qualche modo di riprodurre e aggiornare il layout grafico del giornale su carta. 120

Figura 17. L’Apple iPad.

Possiamo allora considerare l’iPad come il primo esempio di una terza generazione di dispositivi, che pur non essendo dedicati sono fortemente indirizzati anche verso la lettura? Probabilmente sì. In primo luogo, la Apple ha una straordinaria capacità di creare (o far percepire) bisogni, anche a un’utenza che finora non ha mostrato di considerare un tablet come la prima delle sue necessità. In secondo luogo, la Apple non è la sola azienda a cercare il tablet perfetto. Pochi giorni dopo la presentazione dell’iPad, Google ha divulgato qualche dettaglio su un suo prototipo che sembra largamente analogo, pur senza specificare se e quando verrà prodotto. E il sistema operativo ‘leggero’ realizzato da Google, Chrome, sembra perfetto per un dispositivo di questo tipo. Su questo fronte si muovono poi diverse altre aziende, compresi i produttori asiatici. Anche la Sony sembra intenzionata ad entrare in questo settore di mercato. E la Microsoft aveva fatto circolare ancor prima del lancio dell’iPad qualche dettaglio su un nuovo dispositivo denominato Courier, con due touch screen a colori incernierati a formare una sorta di libro. Perfino il computer a basso costo e per bambini progettato dall’iniziativa di Nicholas Negroponte ‘One Laptop Per Child’, destinata principal121

mente ai paesi del terzo mondo, proporrà un modello di ‘tablet leggero’. Ma i dispositivi di seconda e di terza generazione costituiscono davvero – e fino a che punto – un’alternativa valida al libro su carta? O dovremo aspettare generazioni ulteriori, magari basate su una delle tecnologie emergenti nel mondo della ricerca ma ancora abbastanza lontane dalla commercializzazione, con nomi astrusi come i display ChLCD (Cholesteric Liquid Crystal Display), i display basati sulla tecnologia dell’electrowetting (che promettono una carta elettronica con tempi di refresh adatti anche alla riproduzione di filmati), o addirittura l’idea di trasformare ogni singolo pixel del testo in una micro-macchina in nanotecnologia? Prima di poter rispondere a questa domanda, dobbiamo ricordare che un libro elettronico non è fatto di solo hardware: vanno dunque considerati più da vicino anche altri fattori, legati ai formati utilizzati, alle funzionalità del software, ai modelli di gestione dei diritti. È quello che faremo nelle prossime lezioni.

IV

Problemi di forma

1. La rappresentazione del testo Nella lezione precedente, abbiamo ripercorso insieme la storia dell’idea di libro elettronico e abbiamo parlato dei dispositivi di lettura che sono stati man mano sviluppati per cercare di dare all’e-book un supporto funzionale. In particolare, abbiamo sottolineato l’importanza di collegare le caratteristiche del supporto alle situazioni di lettura. Rilevando che, mentre il libro ha fra le sue principali virtù quella di essere perfettamente utilizzabile nelle tre situazioni che ci interessano più da vicino – lean forward, lean back e mobilità – i supporti digitali sono stati finora assai meno flessibili: il computer, nella sua incarnazione tradizionale, è uno strumento adatto solo al lean forward; palmari e smartphone sono destinati alla mobilità (e anche in quel caso possono dirsi abbastanza funzionali solo nelle ultimissime generazioni, dall’iPhone in poi); e solo i dispositivi dedicati hanno l’ambizione di avvicinarsi al libro anche nella capacità di adattarsi a più situazioni di lettura. Un’ambizione non ancora coronata da pieno successo, anche se con la seconda (e-paper) e con la terza (iPad e mini-tablet) generazione di dispositivi sono stati fatti notevolissimi passi avanti. Prima di trarre qualche conclusione più articolata, tuttavia, occorre discutere un altro aspetto della testualità elettronica che ha grande importanza per capire quali siano le reali possibilità di successo dei supporti elettronici nell’avvicinarsi a quelli su carta: non 123

più il supporto fisico, e cioè l’interfaccia hardware, ma la ‘resa’ del testo, la sua ‘messa in pagina’, e le funzionalità offerte per il supporto alla lettura: descrizione del libro, ricerca dei termini, annotazioni e sottolineature, segnalibri, e simili. Bisogna infatti ricordare che, mentre nel libro a stampa il supporto e la ‘forma’ del testo finiscono per costituire un oggetto unico e inscindibile, nel mondo digitale dispositivo di lettura e testo elettronico sono oggetti separati, che si incontrano nel momento della lettura ma hanno, prima e dopo, vita autonoma. Cosa determina allora la ‘messa in pagina’ – che in questo caso diventa organizzazione sullo schermo – del testo elettronico, di per sé oggetto fluido e intangibile? Come fare per guidarla e controllarla, adattandola al particolare dispositivo che viene utilizzato? Di questa dimensione fa innanzitutto parte una componente essenziale, di cui purtroppo si tende spesso a trascurare l’importanza: la rappresentazione del testo e dei fenomeni testuali. Un libro – come del resto un messaggio di posta elettronica, o un articolo scientifico, o un copione cinematografico – non è una semplice successione di caratteri: alla pura componente testuale si affianca una struttura abbastanza complessa. Ad esempio, nel caso del libro abbiamo di norma una copertina (e talvolta una sovraccoperta con informazioni editoriali sul retro e sui risvolti o ‘bandelle’), un frontespizio, un colophon con un’altra tipologia di informazioni editoriali; a volte, perfino il dorso riporta informazioni utili, come il logo della collana di appartenenza. Abbiamo poi un indice, una prefazione, una suddivisione in capitoli e in paragrafi, l’eventuale presenza di illustrazioni... È anche grazie a queste caratteristiche del testo che si fa ‘libro’, e alle molte altre che potremmo individuare o che potrebbero essere presenti, che possiamo e sappiamo differenziare un libro da una lettera (la lettera non è solo più breve: è organizzata in modo diverso) o da un articolo. Quali di queste caratteristiche vogliamo o possiamo rappresentare in un libro elettronico? Quali caratteristiche nuove si aggiungono? E come vengono rappresentate, queste caratteristiche? Per fare solo qualche esempio: vogliamo che il nostro libro elettronico abbia o possa avere una copertina illustrata? In questo caso, il formato utilizzato per codificare il testo deve prevedere la possibilità di inserirla. Vogliamo un indice? E di che tipo? Se 124

il libro elettronico è ottenuto a partire da un libro a stampa, vogliamo che le paginazioni coincidano e che il libro elettronico sia una sorta di riproduzione anastatica del libro su carta, pagina per pagina? In questo caso, dovremo utilizzare un formato basato su una rappresentazione del testo orientata alla pagina – ad esempio il formato PDF – e fare i conti con il fatto che i nostri dispositivi di visualizzazione potranno avere uno schermo di dimensioni più piccole (o chissà, magari talvolta più grandi) di quelle del libro a stampa originale, con la conseguenza di perdere leggibilità. In cambio, però, potremmo utilizzare lo stesso meccanismo di citazione ‘orientata alla pagina’ che è abituale per i libri su carta. O preferiamo invece lasciare il testo libero di ‘riadattarsi’ alle dimensioni del dispositivo utilizzato per visualizzarlo, perdendo però la comodità di una paginazione fissa? E se perdiamo la paginazione fissa, con cosa potremmo sostituirla se vogliamo citare un passo specifico di un libro? Se partiamo da un testo a stampa (o da un manoscritto), abbiamo anche il problema di decidere se rappresentare o no, e come, eventuali annotazioni marginali, note di possesso, ex-libris... informazioni cioè che non facevano parte del libro uscito dalla tipografia o dalla mano del copista, ma che sono state aggiunte dal lettore (o dai lettori) di quell’esemplare. Informazioni irrilevanti? Non è detto: il libro potrebbe essere stato annotato dall’autore stesso, o da un lettore ‘importante’ (ad esempio, un altro autore famoso); e anche se di autore ignoto, alcune annotazioni potrebbero correggere errori o risultare interessanti per altri motivi. Nel caso dei manoscritti, poi, potremmo avere cancellature, correzioni, cambio di mano del copista, miniature... E che dire delle differenze che possono esistere fra due edizioni diverse dello stesso libro, o addirittura fra due copie diverse della stessa edizione? Dobbiamo rappresentarle, e come? C’è poi il problema di descrivere il libro in modo da ritrovarlo efficacemente sia sulla piattaforma in rete dalla quale dovremo prevedibilmente comprarlo o comunque scaricarlo, sia sul dispositivo di lettura, che di libri elettronici, come abbiamo visto, può contenerne migliaia. L’individualità dei libri su carta è data in teoria da autore, titolo e dati di edizione – o, più semplicemente, dal codice ISBN – ma quando cerchiamo un libro negli scaffali di casa o di una libreria non abbiamo in genere a disposizione un catalogo e ci basiamo spes125

so su altri criteri, legati al libro come oggetto fisico: la posizione, le dimensioni, il colore del dorso o della copertina... In ambiente elettronico basterà limitarci alla gestione e alla ricerca dei cosiddetti metadati descrittivi come autore e titolo, o preferiamo riprodurre graficamente la metafora degli scaffali sui quali posizionare virtualmente le copertine illustrate? E, visto che abbiamo menzionato i metadati, quali metadati ci servono, e come standardizzarli? Inoltre, va tenuto conto che – proprio come un libro a stampa – un e-book è anche un oggetto commerciale, al quale andranno associate informazioni utili a gestirne la distribuzione e, se del caso, la vendita. Perfino nel caso di libri fuori diritti distribuiti gratuitamente, come accade per i testi del progetto Gutenberg o del progetto Manuzio, ma anche per un buon numero di testi offerti da progetti di digitalizzazione pubblici o privati (a cominciare da Google Book Search), occorrono informazioni specifiche che dichiarino lo status dell’e-book e le sue clausole di distribuzione. E se il libro è invece sotto diritti e in vendita, potrà essere necessario proteggerne in qualche modo il contenuto da copie non autorizzate: tema delicatissimo nel mondo digitale, in cui la copia di un file è operazione banale e immediata, e produce una copia indistinguibile dall’originale. Una selva di problemi, come vedete, che ci lasciano con un’unica certezza: l’idea che per realizzare un libro elettronico basti trascrivere al computer il testo di un libro su carta è assolutamente ingenua; il lavoro da fare è molto più complesso. Da questo punto di vista, gli e-book ‘solo testo’ del progetto Gutenberg lasciano molto a desiderare. La pura trascrizione del contenuto, abbiamo visto, non basta, e negli stessi e-book del progetto Gutenberg al testo vero e proprio è premessa una sezione con alcuni metadati di base: autore, titolo, informazioni sull’edizione di riferimento utilizzata e sulla data di realizzazione, un breve riassunto sulle condizioni di distribuzione dei testi del progetto. Altre informazioni, compresa una versione estesa e dettagliata delle clausole di distribuzione, sono inserite in chiusura. Dato che all’e-book corrisponde un unico file, queste informazioni non sono però ben differenziate dal corpo del testo. Ed è complicato o impossibile rappresentare altri aspetti del libro da cui si è partiti: di norma sparisce la paginazione, sparisce la copertina, spariscono gli indici, la suddivisione in capitoli deve affidarsi solo ad artifici grafici come qualche salto di riga e all’uso del 126

maiuscolo nei titoli, e – come vedremo – artifici in qualche misura analoghi servono a rappresentare corsivi e grassetti, anch’essi impossibili da rendere direttamente in un file solo testo. In sostanza: il formato .txt è certo comodo perché quasi universalmente riconosciuto, ma è assai povero per la rappresentazione del complesso fenomeno testuale rappresentato da un libro. Ecco perché quasi tutti i formati utilizzati per la realizzazione di un e-book si basano, in una forma o nell’altra, su linguaggi di marcatura. Un linguaggio di marcatura è fondato su un’idea assai semplice: distinguere e separare il puro contento testuale – la mera successione dei caratteri – dalle (meta)informazioni presentazionali (corsivi, grassetti, dimensione dei caratteri, ecc.), strutturali (suddivisione in paragrafi, capitoli, ecc.), descrittive (autore, titolo, casa editrice, anno di pubblicazione, ecc.), gestionali (situazione dei diritti, condizioni di distribuzione, prezzo, ecc.). Tutte queste metainformazioni, che qui abbiamo organizzato in quattro macro-categorie da considerare comunque come piuttosto fluide e non sempre facili da distinguere con chiarezza, vengono espresse aggiungendo marcatori al testo. I marcatori vengono convenzionalmente inseriti fra una coppia di parentesi acute: ‘’. Per semplificare (anche se in realtà non è sempre così) possiamo pensare che tutto quel che è fuori dalle parentesi acute sia contenuto testuale, e tutto quel che è dentro le parentesi acute sia marcatura, mark-up, metainformazione che ha il compito di dichiarare come quel contenuto testuale debba essere presentato, strutturato, descritto, gestito. Una sorta di ‘spiegazione’, destinata in primo luogo al programma che si occupa di visualizzare il testo, che in tal modo saprà, ad esempio, dove inserire grassetti e corsivi o dove inserire un salto pagina. Suona complicato, ma in realtà è abbastanza semplice. Supponiamo di avere a che fare con la Divina Commedia. E di voler partire dal puro testo del primo canto dell’Inferno. Avremo dunque a che fare con un contenuto testuale di questo tipo: INFERNO CANTO I Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. 127

Come vogliamo rappresentare a schermo questo testo? Una possibilità è decidere di rappresentare ‘Inferno’ come un titolo in evidenza (un titolo di primo livello), ‘Canto I’ come un titolo di secondo livello, e fare in modo che i versi siano contenuti in un unico paragrafo ma separati andando a capo. Possiamo farlo usando un marcatore per il titolo di primo livello (la ‘H’ sta per heading, intestazione), un marcatore per il titolo di secondo livello, il marcatore

per il paragrafo e il marcatore
(break) per l’a capo. Naturalmente, proprio come faremmo inserendo delle parentesi che devono essere prima aperte e poi chiuse, dovremo indicare non solo dove comincia ma anche dove finisce il titolo di primo livello, e lo stesso per il titolo di secondo livello e il paragrafo. Convenzionalmente, la ‘chiusura’ di un marcatore viene indicata inserendo, sempre fra parentesi acute, il marcatore stesso preceduto da una barra. Il nostro testo diventa in questo modo INFERNO CANTO I

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.



In questo modo, ‘Inferno’, rinchiuso fra un marcatore H1 aperto e poi chiuso verrà rappresentato come titolo di primo livello, ‘Canto 1’ come titolo di secondo livello, e la terzina come un paragrafo i cui versi sono separati da un a capo. L’andata a capo è un marcatore vuoto, che non ‘abbraccia’ una porzione di testo ma ne specifica un punto: viene quindi aperto e chiuso contemporaneamente, e in questo caso anziché scriverlo come

si abbrevia con
. Attenzione: non è affatto detto che questa sia effettivamente la marcatura migliore o preferibile. Ad esempio, non è detto che considerare le terzine come paragrafi separati sia effettivamente la scelta migliore nella rappresentazione del testo della Divina Commedia (probabilmente non lo è, e sarebbe meglio utilizzare marcatori specifici per i versi). Ogni volta che si marca un testo si compiono delle scelte, spesso tutt’altro che banali, a cominciare dal linguaggio di marcatura utilizzato e dunque dall’insieme di marcatori che si hanno a disposizione. 128

Inoltre, dal nostro esempio di marcatura manca il contesto: qualunque marcatura dovrebbe infatti cominciare indicando (‘dichiarando’) quale linguaggio di marcatura viene usato, cosa che noi non abbiamo fatto, e dovrebbe probabilmente comprendere una sezione di metainformazioni iniziali. Ma il nostro scopo non è imparare a usare un linguaggio di marcatura: è solo farci un’idea assai generale dei suoi principi di funzionamento. Nel mondo digitale i linguaggi di marcatura sono ormai onnipresenti, anche se sono normalmente ‘nascosti’ all’utente: quel che l’utente vede è l’interpretazione che del testo marcato ci offre il programma di visualizzazione. Magari non lo sapete, ma tutte le pagine web sono costruite usando un linguaggio di marcatura (che nella sua versione di base si chiama HTML, Hyper-Text Mark-up Language, cioè linguaggio di marcatura ipertestuale). Solo che navigando fra le pagine di un sito voi non vedete il testo marcato ma l’interpretazione di questo testo da parte del vostro programma di navigazione, o ‘browser’ (che potrà essere, a seconda delle vostre preferenze e del dispositivo che usate per navigare, Firefox, Internet Explorer, Chrome, Safari, Opera...). Se usate un programma di videoscrittura come Microsoft Word o Open Office Writer, vedrete sullo schermo davanti a voi la pagina di testo al quale state lavorando, con titoli, paragrafi, corsivi, grassetti ciascuno al proprio posto, visualizzati così come lo saranno quando stamperete la pagina. Ma dietro quel testo, nascosta ai vostri occhi, c’è la pagina sotto forma di testo marcato: tutti i principali programmi di videoscrittura usano ormai un linguaggio di marcatura per rappresentare, in maniera trasparente all’utente, le varie caratteristiche presentazionali, strutturali, descrittive ecc. del testo al quale l’utente stesso sta lavorando. I linguaggi di marcatura disponibili sono molti, ma ormai sono quasi tutte varianti – o meglio, applicazioni – di un unico metalinguaggio di marcatura, denominato XML (eXtensible Mark-up Language). A grandi linee, posiamo pensare a XML come a una specie di laboratorio in cui fabbricare linguaggi di marcatura specifici, rispettando alcune norme generali e comuni. Per scopi diversi avremo infatti spesso bisogno di linguaggi di marcatura (e dunque di insiemi di marcatori) diversi: se il nostro obiettivo è ad esempio rappresentare la struttura di un insieme di ricette di cucina, ci serviranno dei marcatori per identificare gli in129

gredienti e la loro quantità; se dobbiamo rappresentare un albero genealogico, ci serviranno marcatori per rappresentare rapporti di parentela; se dobbiamo rappresentare pagine web, ci serviranno marcatori in grado di gestire non solo le caratteristiche presentazionali del testo (titoli, corsivi, grassetti...), ma anche tabelle, liste, e l’inserimento di link e immagini; se dobbiamo rappresentare le carte di un archivio, ci serviranno marcatori che permettano di far emergere le aggregazioni documentali e archivistiche, i rapporti delle carte con gli enti produttori, le persone nominate, e così via. E naturalmente se l’informazione primaria con la quale dobbiamo lavorare è costituita da libri, ci serviranno marcatori specifici adatti alla rappresentazione della ‘forma-libro’: sia dal punto di vista presentazionale (la ‘messa in pagina’ del testo, con tutte le sue caratteristiche), sia da quello strutturale (suddivisione in capitoli, indici...), sia da quello descrittivo (la ‘scheda’ del libro), sia da quello gestionale (gestione dei diritti, della distribuzione, della vendita). Va detto subito che, al momento, non abbiamo un singolo linguaggio di marcatura adatto a rappresentare in maniera sufficientemente articolata e potente la ‘forma libro’ in tutte le sue caratteristiche. L’attenzione si è finora indirizzata, in maniera comprensibile ma un po’ schizofrenica, verso due direzioni diverse: una è costituita dai fenomeni testuali di interesse soprattutto tipografico-editoriale: se il nostro obiettivo è creare concretamente un libro elettronico, ci interessano in primo luogo le caratteristiche della sua impaginazione, la resa sui dispositivi, la gestione dei diritti, i metadati che permettono di organizzare una biblioteca di titoli e di reperire quelli che ci servono. L’altra direzione è invece quella filologico-critica, attenta ai fenomeni testuali che possono interessare lo studioso: la struttura del testo (più che la sua resa a schermo), il rapporto di un testo con le sue eventuali fonti (manoscritti, edizioni diverse...), la sua storia (revisioni, modifiche...), e così via. Naturalmente, fra queste due prospettive vi sono larghe sovrapposizioni. Ma al momento la scelta dell’uno o dell’altro approccio suggerisce l’uso di uno fra due diversi schemi: da un lato la marcatura ePub, le cui specifiche sono state prodotte dall’IDPF (International Digital Publishing Forum, il già ricordato consorzio internazionale che comprende autori, editori e aziende informatiche) e che è orientata alla rappresentazione tipografico-edi130

toriale di un testo destinato a essere visualizzato e letto in ambiente elettronico. Dall’altro la marcatura TEI (il nome abbrevia ‘Text Encoding Initative’, ovvero ‘Iniziativa per la codifica testuale’; anche in questo caso si tratta di uno standard prodotto da un consorzio internazionale di organizzazioni e studiosi), che è orientata soprattutto alla rappresentazione filologica di testi di ambito umanistico, e in primo luogo (ma non unicamente) di testi letterari. In questa sede non ci occuperemo di marcatura TEI1, ma è bene che il lettore sappia almeno della sua esistenza, e della prospettiva che essa rappresenta. Ci occuperemo invece, più avanti in questa stessa lezione, di ePub, che è di fatto emerso negli ultimi due o tre anni come standard di riferimento per il mondo degli e-book. Non ce ne occuperemo però dal punto di vista strettamente tecnico: obiettivo di questo lavoro non è infatti fornire istruzioni pratiche sulla realizzazione di libri elettronici (ci sono in rete ottime guide e parecchi strumenti utilizzabili a questo scopo, e nel seguito avremo occasione di menzionarne diversi), ma fornire le informazioni necessarie a riflettere sulla loro natura e sulle loro potenzialità. ePub, però, non è nato dal nulla, e – anche se c’è chi fin da dieci anni fa aveva visto giusto scommettendo sul formato da cui ePub è nato, denominato all’epoca OEB (Open E-Book, dal primo nome dell’IDPF: Open E-Book Forum) – la sua diffusione, come si è accennato, è solo recente. Come si è arrivati a ePub, come funziona questo formato, e cosa permette di fare? Quali sono, o sono stati, i suoi principali concorrenti? E quali programmi vengono usati per visualizzare i file codificati con questi formati? Si tratta di domande solo apparentemente ‘tecniche’: come abbiamo rilevato in apertura, dalle caratteristiche dei formati di codifica del testo dipendono i fenomeni testuali che siamo (o non siamo) in grado di rappresentare, e dunque molta parte della ‘forma’ dei nostri libri elettronici. Vale la pena, dunque, saperne qualcosa di più. 2. Se il testo è nudo... Come ricorderete, il primo formato in assoluto a essere stato usato per la realizzazione di libri elettronici è il formato .txt. È la scelta che abbiamo visto alla base della biblioteca digitale del 131

progetto Gutenberg, e per l’assoluta portabilità del formato – che può essere letto sostanzialmente da tutti i dispositivi e in ogni ambiente informatico – questa scelta rimane ancora abbastanza popolare. In un file di questo tipo l’unico fenomeno testuale considerato è la successione dei caratteri. Come sapete, il computer lavora ‘macinando’ bit, rappresentati attraverso lunghe successioni di ‘0’ e ‘1’. In questo caso, dunque, ogni singolo carattere è codificato da un gruppo di bit, e (con pochissime eccezioni, come l’andata a capo, rappresentate attraverso caratteri speciali o ‘di controllo’) non viene codificato nient’altro che non sia parte della successione dei caratteri del testo. Per essere precisi, quando parliamo di questi file – detti ‘di solo testo’ – dobbiamo però fare anche riferimento alla tabella di codifica dei caratteri utilizzata. Ma... cos’è una tabella di codifica dei caratteri? Nessun timore, non si tratta di un concetto troppo complicato2. Abbiamo detto che, perché il computer possa utilizzarli, ogni carattere è fatto corrispondere a una particolare combinazione di bit: in sostanza, a una particolare combinazione di ‘0’ e ‘1’. Questo presuppone l’accordo su una tabella di corrispondenza ‘standard’ fra caratteri da un lato e numeri binari (formati solo dalle cifre ‘0’ e ‘1’) dall’altro. In questo modo, una stessa successione di bit sarà interpretata sempre come lo stesso carattere (o come la stessa successione di caratteri), indipendentemente dal computer utilizzato. Come costruire questa tabella? Dovremo ricordarci di includere fra i caratteri da codificare tutti quelli che vogliamo effettivamente differenziare in un testo scritto: se vogliamo poter distinguere fra lettere maiuscole e minuscole dovremo dunque inserirvi l’intero alfabeto sia maiuscolo che minuscolo, se vogliamo poter inserire nei nostri testi anche dei numeri decimali e date dovremo inserire le dieci cifre (0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9), se vogliamo poter utilizzare segni di interpunzione (punto, virgola, punto e virgola...) dovremo inserire i caratteri corrispondenti, e così via... senza dimenticare naturalmente di includere lo spazio per separare una parola dall’altra! Per molto tempo, la tabella di riferimento è stata quella corrispondente alla cosiddetta codifica ASCII (American Standard 132

Code for Information Interchange; attenzione: si scrive ASCII ma si legge con la ‘c’ dura: ‘aski’). La codifica ASCII originaria (detta anche ‘ASCII stretto’: quella che abbiamo visto essere la codifica scelta da Michael Hart, l’ideatore del progetto Gutenberg) faceva corrispondere a ogni carattere una sequenza di 7 bit, e permetteva quindi di distinguere 128 caratteri: 2 elevato alla settima. La trovate riportata nella tabella seguente, con i numeri binari convertiti, per comodità, nei corrispondenti numeri decimali e con l’omissione dei primi simboli, che anziché corrispondere a caratteri alfanumerici vengono fatti corrispondere a caratteri di controllo (ricordate il discorso fatto a proposito dell’‘a capo’?). Tabella 1. Il codice ASCII (caratteri alfanumerici e segni di interpunzione). 33

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Quindi, ad esempio, la lettera ‘a’ minuscola viene codificata dal computer utilizzando il numero binario corrispondente al numero decimale ‘97’, e cioè ‘01100001’. Se date un’occhiata alla tabella, vedrete che sono codificate le lettere maiuscole e minuscole dell’alfabeto latino... ma mancano le vocali accentate presenti in diverse lingue (a cominciare da italiano e francese), mancano le vocali con l’umlaut tedesche, e così via: in sostanza, l’ASCII stretto funziona quasi esclusivamente per l’inglese. Per questo motivo, dall’ASCII stretto si è presto passati a una tabella più ampia: l’ASCII esteso, o ISO Latin 1, che distingue 256 caratteri, i primi 128 dei quali sono ‘ereditati’ dall’ASCII stretto. L’indicazione ISO indica l’approvazione da parte dell’International Standardization Organization (l’organizzazione internazionale responsabile della standardizzazione), e ‘Latin 1’ indica che si tratta della tabella di riferimento per gli alfabeti di tipo latino. Ma naturalmente in molti casi anche l’ISO Latin 1 non basta: ci sono alfabeti diversi da quello latino (greco, ebraico, cirillico, armeno, arabo...) e ci sono lingue che usano sistemi non strettamente alfabetici, come i caratteri giapponesi, cinesi ecc.; per questo motivo, esistono tabelle di codifica dei caratteri ancora più ampie, come Unicode, che è oggi lo standard utilizzato da molti sistemi operativi. Di norma, gli e-book (o almeno gli e-book scritti in lingue che utilizzano l’alfabeto latino) codificati in formato solo testo usano o l’ASCII stretto o l’ISO Latin 1. La codifica binaria di un testo avviene dunque seguendo lo schema seguente: O

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G

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Sullo schermo, ad esempio utilizzando un programma di videoscrittura, l’utente scriverà (e leggerà) la stringa di testo ‘oggi piove’; il computer, dal canto suo, lavorerà invece con la rappresentazione binaria di quella stringa. In generale, tutte le volte che utilizzate un computer per visualizzare un testo scritto o per la134

vorarvi sopra, lo schermo vi presenterà il testo nella familiare forma alfabetica, ma il computer lavorerà in effetti su quel testo in forma binaria: la tavola di conversione lo aiuterà a ‘tradurre’ i caratteri alfabetici nella relativa codifica binaria, e viceversa. Se mi avete seguito fino a questo punto, potete tirare un sospiro di sollievo: la parte strettamente tecnica della trattazione è tutta qui. Per capire cosa sia un file ‘solo testo’, spesso individuato attraverso l’estensione ‘.txt’ aggiunta al suo nome, non ci serve nient’altro. Vi suggerisco invece un brevissimo esercizio: andate all’indirizzo http://www.gutenberg.org/files/1342/1342.txt e date un’occhiata a un ‘e-book’ del progetto Gutenberg in formato solo testo. Si tratta del testo inglese di Pride and Prejudice (Orgoglio e pregiudizio) di Jane Austen. Provate a scorrerlo: non vi troverete altro che caratteri ASCII. Niente grassetti, niente corsivi, anche se qualche ‘trucco’ è stato usato per rendere in qualche modo quelli presenti nel testo. È così, ad esempio, nel passo seguente, tratto dalla celebre scena iniziale del romanzo: “My dear Mr. Bennet," said his lady to him one day, "have you heard that Netherfield Park is let at last?" Mr. Bennet replied that he had not. "But it is," returned she; "for Mrs. Long has just been here, and she told me all about it." Mr. Bennet made no answer. "Do you not want to know who has taken it?" cried his wife impatiently. "_You_ want to tell me, and I have no objection to hearing it”.

La parola ‘You’ dell’ultima frase è preceduta e seguita da un trattino basso (underscore) per indicare che va interpretata come scritta in corsivo. Si tratta in sostanza di una forma assai semplice di marcatura: il simbolo ‘_’ è usato come marcatore del corsivo. Una marcatura, come è facile vedere, priva delle convenzioni complesse (ma estremamente potenti) cui abbiamo fatto cenno in precedenza, a cominciare dall’uso delle parentesi acute aperte e chiuse per racchiudere i marcatori. Provate a immaginare, dietro a questo testo, gli ‘0’ e gli ‘1’ utilizzati dal computer: a ogni singolo carattere corrisponderà, in maniera assolutamente regolare e sulla base della tabella ASCII che abbiamo appena incontrato, la corrispondente successione di 135

‘0’ e ‘1’. Il file non è altro che una lunga concatenazione di questi ‘0’ e ‘1’. E qualunque computer conosca la tabella ASCII, indipendentemente dal suo sistema operativo, dalle sue caratteristiche, dalla sua età, sarà capace di leggerlo, interpretarlo e mostrarvi sullo schermo (o inviare alla stampante) il testo corrispondente. Il problema principale dei normali file ‘.txt’, come quello che abbiamo usato come esempio, è evidentemente la scarsa capacità di rappresentare perfino i fenomeni testuali più semplici, come il corsivo o la dimensione dei caratteri. Inoltre, il file potrà contenere al suo interno dei metadati (ad esempio il nome dell’autore o il titolo dell’opera), ma – non essendoci alcuna marcatura che permetta a un programma di riconoscere questi metadati – sarà assai difficile riuscire a gestirli in maniera automatica. Attenzione, però: questo non vuole affatto dire che i file di testo siano inutili: di fatto, anzi, la maggior parte degli e-book in circolazione è composta fondamentalmente da file di testo. Solo che al loro interno non è presente solo il contenuto testuale dell’opera, ma anche una marcatura potente ed espressiva, come quelle aderenti agli standard TEI o ePub. Alla base vi saranno sempre e comunque file di testo (ricordate? I marcatori non sono altro che... testo, compreso fra i caratteri ‘’), ma ‘potenziati’ dall’uso della marcatura. Il loro carattere di file di testo permetterà comunque di usarli su qualunque sistema che conosca la relativa tabella di codifica dei caratteri, mentre il riconoscimento della marcatura richiederà qualcosa di più, un software in grado di interpretare i marcatori e comportarsi di conseguenza, ad esempio permettendo la visualizzazione corretta di grassetti e corsivi. Così, ad esempio, la riga contenente il corsivo nel passo sopra citato si trasforma, nel file principale del corrispondente pacchetto ePub (vedremo fra un attimo cos’è un ‘pacchetto’ ePub), in

"You want to tell me, and I have no objection to hearing it."



Sempre di testo si tratta, ma questa volta il testo comprende il marcatore ‘

’, che verrà interpretato come l’apertura di un paragrafo, e il marcatore , che verrà interpretato come l’apertura di un corsivo (italic), assieme alle rispettive chiusure

e . 136

Ma torniamo per un attimo alle origini e ai soli file di testo senza marcature. Dove e come leggerli? In realtà, proprio per la loro semplicità possono essere visualizzati praticamente su qualunque dispositivo: dai PC ai telefoni cellulari, dai lettori dedicati (di qualunque generazione) all’iPad e agli altri mini-tablet. Per leggere ebook in formato .txt può convenire però impostare nel programma di visualizzazione un carattere (font) diverso dal Courier che viene spesso utilizzato come standard nel rendere a video i file solo testo. Infine, un cenno alla questione delle dimensioni del file. In realtà, nel caso di file che contengono testo, di qualunque formato si tratti, le dimensioni sono ormai raramente un problema: a far crescere le dimensioni dei file sono piuttosto immagini, suoni, video. Ma economizzare bit è sempre una buona abitudine, e i file di testo si prestano bene ad essere compressi. Per questo, molto spesso gli e-book in formato .txt sono distribuiti in forma compressa, in genere utilizzando il formato .zip o quello .rar. I file compressi in formato .zip sono ormai riconosciuti da quasi tutti i sistemi operativi recenti; in ogni caso sia per creare sia per decomprimere i file .zip, .rar, o nel formato .sit usato frequentemente nel mondo Mac, esistono innumerevoli programmi gratuiti. L’importante è tener presente che in questo caso abbiamo a che fare con file ‘a due strati’: il file risultato dell’operazione di compressione, che oltre a permettere di risparmiare bit funziona un po’ come una scatola, come un contenitore, e il file (o i file) originari, nel nostro esempio in formato .txt. Prima di poter usare il file in formato .txt dovremo dunque ‘estrarlo’ dalla scatola rappresentata dal file compresso. Se volete provare direttamente il meccanismo, un buon esempio è rappresentato dal primo e-book realizzato dal progetto Manuzio, I Malavoglia di Verga: lo trovate alla pagina http://www.liberliber.it/biblioteca/v/verga/index.htm, disponibile – fra gli altri formati – come file .txt all’interno di un pacchetto zippato. Naturalmente, la ‘scatola’ rappresentata dal file compresso potrebbe comprendere anche più di un file: ad esempio, potremmo scegliere di usare file diversi per i diversi capitoli di un libro, o per i diversi volumi di un’opera in più volumi. E proprio 137

la capacità che hanno i file compressi di comportarsi come un contenitore, includendo al loro interno più file diversi, viene sfruttata anche – nel caso di formati come il già ricordato ePub – per unire il file o i file che contengono il corpo del testo con altri file, contenenti prevalentemente metainformazioni (indici, descrizioni di varia natura), nonché con eventuali immagini (ad esempio l’immagine di copertina, se ne vogliamo una). Si parla in questo caso di file di pacchetto, e i formati che utilizzano la compressione non solo per risparmiare bit ma anche per unire in un unico pacchetto più file che hanno funzioni diverse ma fanno tutti parte di una stessa ‘pubblicazione’ digitale vengono detti formati di pacchetto. Lo vedremo concretamente più avanti, parlando del formato ePub. 3. PDF: quando la pagina è tutto Se i file in formato .txt rappresentano l’estremo della semplicità, con un testo ‘nudo’ e sostanzialmente privo di formattazione, l’estremo opposto è rappresentato dai file PDF (Portable Document Format), nei quali alla resa grafica della pagina è dedicata la massima attenzione. Il formato PDF è stato sviluppato da una delle aziende software più importanti, la Adobe, all’inizio degli anni ’90, e negli anni successivi ha conosciuto una notevole evoluzione, fino a diventare, nel 2008, uno standard ISO aperto. Nel frattempo comunque la Adobe ne prosegue lo sviluppo, con il risultato di una qualche tensione fra la versione ‘standard’ adottata dall’ISO e le versioni proprietarie che la Adobe continua a sviluppare. Il formato PDF era inizialmente rivolto soprattutto al cosiddetto ‘desktop publishing’, ovvero alla preparazione su computer di documenti destinati alla stampa. Non sorprende dunque che l’obiettivo iniziale fosse in primo luogo una buona impaginazione: il PDF è nato come formato ‘orientato alla pagina’ più che allo schermo, e anche per questo è molto amato nel mondo dell’editoria. Per lo stesso motivo, i documenti in formato PDF hanno di norma la caratteristica di mantenere la stessa impaginazione e la stessa resa grafica, indipendentemente dal dispositivo sul quale 138

vengono visualizzati. Ricordate la fondamentale distinzione fra impaginazione ‘fissa’, che rimane la stessa su schermi grandi o piccoli, o stampata su carta, e impaginazione ‘liquida’ o fluida, in cui il testo si adatta alle dimensioni dello schermo e ci permette di scegliere la dimensione dei caratteri che preferiamo? Ebbene, il formato PDF è il principale esponente della prima categoria. La scelta di una impaginazione fissa ha vantaggi e svantaggi: il vantaggio principale è proprio la garanzia del totale controllo della resa su pagina: possiamo ad esempio tranquillamente usare numeri di pagina, con la sicurezza che resteranno gli stessi su ogni dispositivo e con qualunque modalità di visualizzazione. In un file PDF, pagina 47 è sempre la stessa, comincia sempre con la stessa riga, finisce sempre con la stessa riga, utilizza sempre gli stessi caratteri, contiene sempre le stesse immagini, se ce ne sono, sempre nella stessa posizione. Ma quel che è un vantaggio da un punto di vista, è uno svantaggio da un altro: su schermi piccoli, i file PDF possono risultare quasi illeggibili... e non possiamo migliorare la situazione aumentando la dimensione dei caratteri: possiamo solo ‘zoomare’ all’interno della pagina, vedendone una zona ingrandita, ma perdendo la visione d’insieme. Nella digitalizzazione di testi già apparsi a stampa, o destinati comunque anche alla stampa, PDF garantisce la perfetta corrispondenza fra la pagina del libro stampato e la pagina del libro visualizzata sullo schermo: indubbiamente, una grande comodità. Ma perché la cosa abbia senso occorre che lo schermo abbia più o meno le stesse dimensioni della pagina del libro: se è molto più piccolo, siamo nei guai. Per questo il PDF è un formato abbastanza adatto alla lettura lean forward su computer (anche se manca di norma la possibilità di intervenire sul testo), ma adatto alla lettura lean back solo se supportata da schermi di dimensioni abbastanza generose – ad esempio quello del Kindle DX, il dispositivo al momento forse più adatto per questo formato – e decisamente poco funzionale per la lettura in mobilità. Se un testo in formato .txt è nudo, un testo in formato PDF è assai ben vestito, ma con un abito che non è possibile cambiare, e che è adatto solo a certe situazioni. 139

Va detto, per amor di precisione, che – entrando ‘all’interno’ del file PDF (che come struttura assomiglia un po’ a un database contenente oggetti di livelli diversi, ivi compreso il contenuto testuale delle pagine3) – alcuni programmi e dispositivi possono, se il file lo consente, cercare di migliorare un po’ la situazione distribuendo ad esempio un’unica pagina PDF su due schermate e aumentando la dimensione dei caratteri. Si tratta di una operazione conosciuta come ‘reflow’, riformattazione dinamica; il Kindle, ad esempio, è in grado di compierla. Ma è un’azione che su un formato orientato alla pagina com’è il PDF ha comunque poco senso: la resa grafica di questi tentativi – che si propongono di rendere in qualche misura fluido un formato per sua natura rigido – è in genere pessima, soprattutto su documenti con impaginazione complessa. Negli anni passati, la Adobe ha puntato molto sul PDF come formato per la realizzazione e la distribuzione di libri elettronici, realizzando un programma di visualizzazione specifico, che nella versione più recente si chiama Adobe Digital Editions e comunica con una vera e propria piattaforma di distribuzione. Inizialmente, nel periodo di ‘interregno’ fra la prima e la seconda generazione di lettori dedicati, lo sforzo era stato dedicato a costruire attorno al formato PDF una serie di strumenti di protezione dei diritti e di visualizzazione sul desktop del PC, e dunque in situazioni lean forward. Come ricorderete, infatti, in quel periodo (più o meno fra il 2001 e il 2006) il pendolo oscillava in direzione degli e-book prevalentemente di ricerca e di reference, utilizzati in modalità lean forward sullo schermo di un normale computer. Era nato così l’Adobe eBook Reader, che offriva la possibilità di visualizzare e-book in formato PDF, organizzarli nella propria biblioteca (Library) e acquistarli attraverso il Bookstore, una libreria virtuale basata sul meccanismo di protezione e gestione dei diritti sviluppato da Adobe. L’emergere dei lettori dedicati basati su ePaper ha parzialmente cambiato la situazione: Adobe si è resa conto che il formato PDF, utilissimo in certe situazioni, non poteva però funzionare in tutte, e ha cominciato a rivalutare il formato ‘liquido’ ePub, del cui consorzio di sviluppo come vedremo faceva parte. L’ultima versione di quel che era l’Adobe eBook Reader e che è oggi Adobe Digital Editions, disponibile sia per Windows sia per 140

Mac, è quindi in grado di visualizzare sia file PDF sia e-book in formato ePub, organizzandoli in ‘scaffali’ virtuali. Questo non significa affatto che il formato PDF sia destinato a sparire: su lettori di dimensioni un po’ più grandi, e nel caso di contenuti in abbonamento che possono essere in qualche modo ‘abbinati’ a un lettore (ad esempio quotidiani e riviste) un formato orientato alla pagina può essere assai utile. E programmi come il sorprendente Blio (http://www.blioreader.com), alla cui realizzazione ha contribuito proprio quel Ray Kurzweil di cui abbiamo parlato nella lezione precedente, promettono per il PDF una seconda giovinezza, con la gestione di animazioni e video e con effetti molto realistici, legati ad esempio all’operazione di sfogliare le pagine. Blio integra anche un servizio di vendita, e si propone in sostanza come una versione ‘potenziata’ di Adobe Digital Editions. Ma torniamo appunto ad Adobe Digital Editions4. Un aspetto interessante del software è la paginazione: come abbiamo visto, quando si lavora con un file PDF non ci sono problemi, ma come risolvere la questione nel caso di un formato fluido come ePub? La soluzione adottata è degna di nota: è possibile aggiungere al libro una cosiddetta ‘page-map’, una vera e propria mappa, che indica attraverso una marcatura specifica dove comincia e dove finisce una pagina. In questo modo, diventa possibile creare una corrispondenza fra la paginazione fissa di un libro a stampa e la paginazione di un e-book fluido: certo, la visualizzazione dell’e-book non rispetterà le ‘pagine’ fisse della page-map, ma sarà comunque possibile sapere in ogni momento in quale ‘pagina’ ci si trovi e saltare a qualsiasi pagina si desideri. E in assenza di una edizione a stampa di riferimento? In questo caso, si può realizzare automaticamente una paginazione fissa utilizzando un criterio convenzionale: una pagina ogni 1.024 caratteri. E anche questa paginazione fissa e convenzionale potrà essere visualizzata come informazione sullo schermo, pur non corrispondendo di norma alla paginazione effettiva visualizzata dall’utente, che come ormai sappiamo dipende dalle dimensioni dello schermo e del carattere scelto per la lettura. Adobe Digital Editions non è solo un software di visualizzazione: ‘dialoga’ infatti con l’ultima versione (la versione 4, nel momento in cui scriviamo) di Adobe Content Server, un programma 141

Figura 1. L’interfaccia di lettura di Adobe Digital Editions - versione per PC.

server che può essere utilizzato come base per la creazione di una libreria in rete o per la distribuzione di contenuti protetti. Questo significa che venditori diversi, e dunque ad esempio diverse librerie in rete, possono adottare lo stesso software (Adobe Content Server) e utilizzarlo per vendere o distribuire contenuti a chiunque disponga del client adatto. E il client non esiste solo per PC e per Mac: anche numerosi dispositivi dedicati adottano la soluzione Adobe per la gestione dei contenuti protetti. Fra gli altri, tutti i lettori per e-book della Sony. Ma la lista dei dispositivi supportati comprende moltissimi lettori di seconda generazione (Kindle escluso). I meccanismi di protezione e di gestione dei diritti, basati su una tecnologia denominata ADEPT (Adobe Digital Experience Protection Technology), sono complessi e articolati su diversi livelli: Adobe ha del resto una lunga esperienza al riguardo, maturata sul formato PDF. L’e-book protetto che viene acquistato può (con alcuni limiti) essere trasportato da un dispositivo all’altro e 142

può perfino essere prestato ad altri, purché venga letto su un solo dispositivo per volta. In sostanza, quella offerta dalla Adobe non è certo un’architettura aperta (le tecnologie usate sia lato server sia per la protezione degli e-book, siano essi in formato PDF o ePub, sono proprietarie, e l’Adobe Content Server si paga), ma non è neanche un parto del falegname impazzito; offre la possibilità di avere più servizi di vendita, e offre la possibilità di leggere i contenuti su piattaforme diverse: il computer di casa (con l’eccezione dei PC che adottano il sistema operativo Linux, al momento non supportato) per i testi più adatti al lean forward, e lettori dedicati per i testi più adatti al lean back. Naturalmente, per sfruttare effettivamente un’architettura del genere occorre implementarla: ad esempio, il Nook utilizza il sistema di protezione sviluppato da Adobe, ed è quindi possibile utilizzare Adobe Digital Editions per caricare sul Nook e-book acquistati attraverso altri venditori. Ma il software del Nook permette l’acquisto diretto dei libri solo attraverso il catalogo di Barnes & Noble: per leggere e-book comprati altrove occorre dunque un software in più, e un passaggio che per un utente inesperto può rivelarsi non proprio banale. Anche la capacità effettiva di trasferire un e-book da un dispositivo all’altro dipenderà dal meccanismo di protezione adottato: ad esempio, al momento un ebook acquistato sul sito di Barnes & Noble non può essere letto su dispositivi dedicati diversi dal Nook. 4. Ci prova anche la Microsoft (o forse no...) Come abbiamo accennato nella lezione precedente, la famiglia di computer palmari basata sul sistema operativo Microsoft Windows Pocket PC offriva direttamente come componente del sistema operativo un programma per leggere libri elettronici. Il programma, la cui prima versione è stata realizzata nel 2000, si chiama Microsoft Reader, e adotta un particolare formato, sviluppato anch’esso dalla Microsoft e denominato LIT (abbreviazione di ‘Literature’). Il formato LIT è basato su XML, come ormai quasi tutti i suoi principali concorrenti, e per l’esattezza sul particolare XML utilizzato dal formato progenitore di ePub, il già ricordato 143

OEB. Ma anche qui, come in molti (troppi?) altri casi, il formato è stato ‘chiuso’ attraverso l’adozione di un meccanismo di protezione proprietario. Dal punto di vista della resa su schermo, LIT è un tipico formato fluido: non esiste una paginazione assoluta, e il testo si reimpagina dinamicamente a seconda delle dimensioni del carattere e del dispositivo utilizzato per visualizzarlo. E Microsoft Reader cerca di utilizzare al meglio queste caratteristiche: si tratta di un programma pulito e funzionale, che permette di organizzare gli ebook in una ‘biblioteca’ e di effettuare su ciascuno di essi ricerche e annotazioni sia grafiche sia testuali. La leggibilità è buona, grazie anche all’adozione di una tecnologia – denominata ClearType – che consente di visualizzare il testo con una risoluzione migliore di quella normalmente utilizzata dal dispositivo di lettura. Appoggiandosi a un modulo esterno di sintesi vocale – sempre di casa Microsoft – il programma è anche in grado di effettuare la lettura audio del testo. L’interfaccia di Microsoft Reader è ben disegnata5. La metafora su cui si basa è quella della pagina di un libro, e sono del tutto assenti barre dei pulsanti, menu a discesa e finestre multiple, caratteristici delle comuni interfacce grafiche. All’avvio il programma si posiziona sull’ambiente ‘Biblioteca’. Questa schermata contiene l’elenco degli e-book disponibili; ciascuno è caratterizzato da una piccola icona cui è affiancata l’indicazione del titolo e dell’autore del testo. È possibile ordinare i libri secondo vari criteri (autore, titolo, data di acquisto). Il meccanismo di protezione dei diritti è articolato in diversi livelli, ma in quelli più alti è assai restrittivo: un e-book protetto deve essere attivato, utilizzando un account Microsoft Passport, e dopo l’attivazione ‘riconosce’ l’hardware su cui viene letto, accettando un massimo di sei soli ‘spostamenti’ da un dispositivo all’altro. Un po’ come un libro che permettesse solo sei spostamenti da uno scaffale all’altro prima di diventare illeggibile: una caratteristica che potremmo difficilmente associare alla nostra idea di libro come strumento in grado di offrire non solo un supporto di lettura, ma anche un supporto di conservazione del testo, e difficilmente compatibile con la costruzione da parte dell’utente di una propria biblioteca ‘stabile’ di testi. Inoltre, il lettore vede assai limitata la propria libertà di spostare da un dispositivo all’al144

Figura 2. Microsoft Reader - la Biblioteca.

tro il libro da lui acquistato, magari in occasione di un viaggio o di una particolare esigenza di lavoro: infatti, per attivare Microsoft Reader su un dispositivo portatile utilizzando la stessa chiave già attivata su PC (in modo da poter leggere i libri precedentemente acquistati) occorre ovviamente ‘spendere’ una delle attivazioni a disposizione. Una soluzione di questo tipo offre insomma all’utente ottimi motivi per preferire i libri su carta a quelli elettronici, e non aiuta certo a rendere gli e-book attraenti per gli amanti del libro a stampa! In compenso, la vendita di e-book in formato LIT ‘protetto’ è possibile da parte di qualunque casa editrice o libreria in rete decida di adottarne il formato: come nel caso di Adobe, le tecnologie usate non sono aperte, ma almeno non esiste un vincolo verso un singolo venditore (anche se l’attivazione dell’e-book acquistato deve comunque essere effettuata passando per Microsoft Passport). Alla sua nascita, anche per il peso della Microsoft, il formato 145

LIT è sembrato in grado di imporsi come uno dei punti di riferimento del mondo e-book. Ma le cose sono andate diversamente: i dispositivi Pocket PC non avevano ancora le caratteristiche di risoluzione e qualità di schermo che troviamo sugli smartphone di oggi, e si prestavano dunque abbastanza male alla lettura. D’altro canto, sebbene Microsoft Reader esistesse anche in versione per PC, nelle situazioni lean forward la capacità di impaginazione complessa e la resa grafica del PDF erano difficilmente raggiungibili. E il formato è comparso proprio nel momento in cui, come abbiamo visto, si è arrestato lo sviluppo dei dispositivi dedicati che avrebbero potuto implementarlo. Come risultato di questo insieme di fattori, né il formato LIT né Microsoft Reader sono riusciti a raggiungere la diffusione auspicata da Microsoft. Tanto che, a un certo punto, la casa di Redmond ne aveva sospeso di fatto lo sviluppo e il supporto. Così, ad esempio, il plug-in che consente di realizzare e-book in formato LIT dall’interno di Microsoft Word non era più supportato in Word 2007 (per creare e-book in formato LIT si possono tuttavia utilizzare strumenti messi in commercio da terze parti, come il software ReaderWorks della OverDrive), e Microsoft Reader non veniva incluso in Windows Mobile, il sistema operativo che soppianta Pocket PC dopo l’ibridazione fra palmari e smartphone. Anche lo sviluppo della versione per PC del programma sembrava essere stato interrotto. Ma dopo la diffusione della ‘seconda ondata’ di lettori dedicati, il successo del Kindle, e soprattutto la diffusione di programmi per la lettura di e-book su iPhone e sugli smartphone Android, qualcosa sembra cambiare: Microsoft si rende conto che del vecchio e quasi dimenticato Microsoft Reader c’è forse ancora bisogno, e in sordina rinnova il sito web da cui è possibile scaricarlo. Nel settembre 2009, compare anche la tanto attesa versione per Windows Mobile (ma, al momento in cui scriviamo, non ancora per il suo successore, il già ricordato Windows Phone). Non è chiaro, però, se e quanto questo ‘ripescaggio’ possa essere foriero di una nuova giovinezza per Microsoft Reader e per il formato LIT: per un verso, se Microsoft entrerà effettivamente nell’arena dei mini-tablet utilizzabili anche come comodi lettori per e-book – come ha annunciato di voler fare partendo dal di146

spositivo ‘a libretto’ Courier – avrà bisogno di un software di lettura, ed è probabile che si tratterà in qualche modo di un’evoluzione di Microsoft Reader. D’altro canto, nella babele di formati esistente il vecchio LIT è ormai abbastanza obsoleto: si fonda su una versione ormai superata di marcatura, e il suo meccanismo di protezione, nonostante la sua complessità, è già stato ‘craccato’: esistono cioè programmi semiclandestini in grado di sproteggere e rendere leggibili e copiabili gli e-book che lo usano. Una nuova versione di Microsoft Reader dovrebbe affrontare questi problemi, e probabilmente muoversi da un lato verso ePub, rendendo possibile leggere anche e-book in formato ePub non protetto, dall’altro verso meccanismi di protezione diversi da quelli inizialmente adottati (e, auspicabilmente, più liberali nel passaggio dei contenuti da un dispositivo all’altro). 5. I francesi e gli Yankee: da Mobipocket al Kindle, passando per Amazon Come forse ricorderete, abbiamo già menzionato Mobipocket parlando di dispositivi di lettura: si tratta infatti di uno dei primi e probabilmente del più longevo programma di lettura per ebook, e sicuramente di quello in grado di supportare il maggior numero di dispositivi. Il formato associato al programma, denominato ‘mobi’, è un’evoluzione del formato PalmDOC che era adottato dai dispositivi Palm, e oltre all’estensione .mobi può essere caratterizzato dall’estensione .prc, anch’essa originariamente associata ai dispositivi Palm. Oggi il formato si basa comunque in ultima analisi su una marcatura compatibile con ePub: al testo marcato viene applicata una compressione e, se lo si desidera proteggere, un meccanismo di protezione proprietario. La vendita di e-book protetti presuppone uno scambio fra il dispositivo di lettura e un server Mobipocket o Overdrive. L’e-bookstore di Mobipocket si basa ovviamente su un server di questo tipo, ma anche librerie on-line indipendenti possono proporsi come fornitori di contenuti, a condizione di acquistare e utilizzare lo stesso programma server. La Mobipocket è nata all’inizio del 2000 come piccola società indipendente francese. Il suo obiettivo è riassunto nello slogan 147

‘read everywhere’, ‘leggi ovunque’, e i dispositivi mobili sono lo strumento per raggiungerlo: fin dall’inizio Mobipocket ha così prodotto software di lettura destinati a dispositivi palmari (a cominciare da quelli Palm) e smartphone, pensati specificamente per un uso mobile. Così, ad esempio, i software per dispositivi mobili sono tutti organizzati in modo da poter essere usati con una sola mano, quella che regge il palmare o lo smartphone. E le poche righe che accompagnano lo slogan ‘read everywhere’ sono una sorta di manifesto programmatico della lettura in mobilità: “Cinque minuti da aspettare? Ho sempre un telefonino in tasca. Metropolitana affollata? C’è comunque abbastanza spazio per tirar fuori il telefonino. In vacanza? Ho con me la mia intera biblioteca. È buio? Niente di meglio di uno schermo retroilluminato”6. Per questi scopi, secondo Mobipocket lo schermo del telefonino può funzionare, e le dimensioni ridotte sono in effetti un vantaggio: una tesi probabilmente azzardata sui primi palmari, ma assai più ragionevole se riferita agli smartphone più recenti. “Gli e-book sono leggeri e si può voltare pagina con la stessa mano che li regge. Un bel vantaggio in metropolitana o spingendo una carrozzina, non è vero?”7, sostiene ancora la stessa pagina di breve autopresentazione. E il riferimento alla carrozzina segnala un interesse particolare per il pubblico femminile, confermato dalla larghissima presenza di romanzi rosa nel catalogo della libreria. Una caratteristica interessante del software Mobipocket è che si è orientato assai presto (prima ancora della diffusione dei feed RSS, un meccanismo sul quale non ci soffermeremo in dettaglio ma che semplifica la distribuzione di contenuti ‘di flusso’ come le notizie giornalistiche o i messaggi sui blog) verso l’integrazione fra lettura di e-book, lettura di fonti giornalistiche (quotidiani e riviste in rete), e lettura di documenti prodotti dall’utente8. I programmi per palmari e smartphone, così come quello per PC sul quale ci soffermeremo fra un attimo, dividevano dunque i contenuti in e-book, e-news ed e-documents. Accanto al programma per dispositivi mobili, dicevamo, Mobipocket ha anche sempre previsto una versione per PC del software di lettura. Arrivato nel momento in cui scriviamo alla versione 6.2, il programma Mobipocket adotta oggi molte delle caratteristiche tipiche dei programmi di ultima generazione, a 148

cominciare dalla metafora degli scaffali di legno sui quali visualizzare le copertine dei libri. La categoria degli e-documents non è più presente nell’interfaccia principale, ma l’utente può comunque usare il programma per convertire e caricare su dispositivi mobili anche i propri documenti, realizzando e-book personali a partire da file Word, Excel, PowerPoint, RTF e TXT. Restano invece le due categorie degli e-book e delle e-news: queste ultime sono raccolte attraverso i feed RSS dei siti preferiti dall’utente e sono presentate con una impaginazione che ricorda graficamente la prima pagina di un quotidiano, sotto la testata ‘Mobi News’. Il programma per PC, disponibile solo per il sistema operativo Windows, ha sostanzialmente due funzioni: permettere la lettura lean forward dei contenuti (con alcuni accorgimenti interessanti per migliorarne la qualità: l’utente può ad esempio scegliere se visualizzare il testo su una, due o tre colonne), e fungere da ‘ponte’ per trasferirli verso i propri dispositivi mobili. Ma è quest’ultima la funzionalità principale: come abbiamo visto, la ‘mission’ di Mobipocket è sempre stata la lettura in mobilità. Probabilmente, proprio la scelta di concentrarsi programmaticamente sulla lettura d’occasione in mobilità, accompagnata dalla realizzazione di moltissime versioni del software per i principali dispositivi e smartphone della generazione precedente l’iPhone, è una delle componenti che spiegano la capacità di sopravvivenza della Mobipocket, nonostante la crisi che come abbiamo ricordato ha investito molte aziende del settore nei primi anni del nuovo millennio. Software di lettura per il formato mobi – capaci di gestire il relativo meccanismo di protezione dei diritti – esistono così per gli smartphone basati su sistema operativo Symbian (come i Nokia e alcuni Sony-Ericsson), Palm, Windows Mobile e il suo successore Windows Phone, Blackberry. Il lettore Mobipocket è inoltre preinstallato su almeno due dispositivi dedicati di seconda generazione: l’iLiad della iRex e il Cybook Gen 3 della Booken. Dall’elenco degli smartphone supportati mancano iPhone e Android, ma c’è una spiegazione: nel 2005, Mobipocket è stata comprata da Amazon. Che ovviamente più che a proseguire il lavoro di sviluppo dei programmi di lettura per smartphone o a gestire l’e-bookstore Mobipocket (rimasto comunque attivo) era in149

teressata ad acquisire competenze e tecnologie utili alla realizzazione del Kindle e alla gestione dei relativi contenuti. In effetti, come si è già accennato, il formato utilizzato dal Kindle – caratterizzato dall’estensione .azw, che probabilmente abbrevia Amazon Whispernet – è una minima variante del formato Mobipocket. Tanto che i file .azw non protetti possono essere letti senza problemi utilizzando il software Mobipocket (cosa che garantisce loro un minimo di leggibilità anche su smartphone di prima generazione), e che i file .mobi o .prc non protetti possono essere letti dal Kindle. Il meccanismo di protezione è invece leggermente diverso, e da questo punto di vista i due formati non sono compatibili: il solo e-bookstore disponibile per il Kindle è Amazon. Amazon, tuttavia, ha in un certo senso proseguito la tradizione Mobipocket anche nel campo dei dispositivi portatili e del programma per la lettura su PC. Si tratta però di applicazioni per il momento assai più spartane di quelle che erano state realizzate dalla casa francese: permettono di utilizzare su dispositivi diversi la libreria di titoli acquistati, e soprattutto di ‘fare shopping’ sul sito Amazon, ma per il resto lasciano molto a desiderare. Nella prima versione di ‘KindleforPC’, disponibile solo per computer basati su sistema operativo Windows9, manca ad esempio la possibilità di aggiungere annotazioni e addirittura di fare ricerche,

Figura 3. Kindle for iPhone: visualizzazione del testo.

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anche se si tratta di funzionalità annunciate per le prossime versioni. E un discorso in parte analogo vale per l’applicazione ‘Kindle for iPhone’: pur promettendo “la miglior esperienza di lettura su iPhone e iPod touch”10, per il momento non è certo all’altezza di programmi come Stanza, di cui diremo qualcosa fra breve. Nel febbraio 2010 è stata resa disponibile anche l’applicazione per telefonini Blackberry, nel momento in cui leggete queste pagine dovrebbero esserci anche quelle per iPad e per Mac, ed è probabile che – nonostante l’accesa rivalità fra Google e Amazon – quella per Android non tarderà troppo (anche se, significativamente, nel momento in cui scrivo non è stata in alcun modo annunciata). Se il numero di dispositivi supportati si allarga, vi è però un limite nel numero di lettori diversi sui quali gli e-book acquistati possono essere caricati: come avevamo già visto nel caso di Microsoft Reader, anche Amazon consente un massimo di sei trasferimenti del contenuto da un lettore all’altro (e, in base agli accordi con gli editori, il numero effettivo può essere anche più basso). L’impressione è comunque che – almeno in questa fase – per Amazon le applicazioni per la lettura di e-book su dispositivi diversi dal Kindle siano più una mossa d’immagine (e uno strumento ulteriore per permettere agli utenti di acquistare titoli sul proprio e-bookstore) che un’alternativa effettiva al lettore dedicato. Un altro degli slogan che accompagnano la distribuzione di ‘Kindle for iPhone’ è significativo: “permette l’accesso ai tuoi libri anche se non hai il Kindle con te”11. Un ripiego d’emergenza, dunque: come dispositivo di lettura, Amazon punta esclusivamente sul Kindle. Scelta comprensibile – il Kindle si propone dopotutto come dispositivo capace di sfidare il libro su carta sul piano delle situazioni di fruizione, sia per la lettura lean forward sia per quella lean back e in mobilità – ma non priva di rischi: il Kindle è davvero all’altezza del compito? Delle sue caratteristiche hardware abbiamo già parlato. Resta da dire qualcosa sul software12 e sui formati supportati. Su Kindle è possibile come sappiamo leggere testi nel formato proprietario .azw (nonché in una sua variante, denominata Topaz e caratterizzata dall’estensione .tpz o .azw1, che permette di integrare nell’e-book tipi di carattere non standard) e testi in PDF. Que151

st’ultima opzione è però sensata quasi esclusivamente sul grande display dell’ammiraglia della linea di lettori Kindle, il Kindle DX. Sul Kindle standard la maggior parte dei testi in PDF risulta o troppo piccola per essere letta comodamente, o – se il file lo permette – riformattata dinamicamente e dunque impaginata in maniera assai deludente. Per l’importazione di documenti e materiali in altri formati (ad esempio in formato Word) esiste il già ricordato meccanismo della spedizione del file all’indirizzo del dispositivo; la conversione viene dunque fatta sul server Amazon, e nonostante si tratti di un meccanismo automatico ci si può chiedere se la procedura offra le necessarie garanzie di privacy, ad esempio nel caso in cui si abbia necessità di trasferire sul proprio dispositivo di lettura documenti di lavoro sensibili. Per fortuna, come vedremo, il compito di convertire e trasferire file può anche essere assolto – collegando il Kindle al computer attraverso porta USB – da applicazioni indipendenti realizzate da produttori terzi. Il sistema permette – come si è accennato, al momento solo sul Kindle – di inserire annotazioni, che vengono salvate in un file a parte e possono quindi essere richiamate anche da dispositivi diversi. La tastiera usata per inserirle è però assai scomoda, e sarebbe certo preferibile poter sottolineare ed annotare anche con uno stilo. Ma il Kindle, come sappiamo, non dispone per ora di uno schermo sensibile al tocco (anche se Amazon ha acquistato a inizio 2010 un’azienda specializzata proprio in display a colori touch screen: un indizio di un possibile riposizionamento attraverso la realizzazione di dispositivi di terza generazione, per contrastare la prevista concorrenza dell’iPad?). È poi possibile cercare parole all’interno del testo, e – funzionalità preziosa – visualizzare in maniera immediata la definizione di qualunque parola inglese desiderata attraverso la versione del New Oxford American Dictionary inclusa nel dispositivo. È anche possibile utilizzare un sistema di lettura vocale dei testi attraverso una voce di sintesi, anche se alcuni e-book commerciali disabilitano questa opzione, e scaricare audiolibri attraverso il servizio di vendita specializzato Audible.com. Il Kindle, come abbiamo già accennato, si collega a Internet e in particolare ad Amazon attraverso la rete di telefonia mobile. Amazon ha battezzato Whispernet questa modalità di collegamento, che funziona anche nei paesi europei grazie a un accordo 152

con l’operatore telefonico internazionale AT&T. Attraverso Whispernet, oltre ad acquistare e ricevere contenuti, è possibile usare il Kindle per consultare la versione inglese di Wikipedia, e utilizzare un browser assai spartano per navigare in rete, anche se l’operazione ha senso solo per siti ad alto contenuto testuale (ricerche su Google, blog...) mentre le caratteristiche dell’e-paper rendono impossibile come sappiamo utilizzare animazioni e filmati. L’uso del browser (ma non la funzionalità di consultazione di Wikipedia) è comunque disabilitato nella maggior parte dei paesi europei. Oltre agli e-book, è possibile leggere su Kindle anche alcune riviste e alcuni quotidiani, con meccanismi di abbonamento. La visualizzazione è basata in genere su una interfaccia diversa da quella tradizionale del quotidiano a stampa: la navigazione non avviene dunque attraverso la familiare ‘pagina’ di un quotidiano, ma attraverso indici e menu che elencano gli articoli disponibili. Si tratta di una differenza non priva di conseguenze: sappiamo bene che l’impaginazione delle notizie in un quotidiano ha essa stessa un valore semantico, fornendo gerarchie di importanza e stabilendo connessioni fra articoli diversi. Nella struttura più ‘piatta’ adottata sul Kindle, molte di queste informazioni si perdono: la navigazione degli articoli di politica estera del «New York Times», ad esempio, non ci permette di capire a quali articoli l’edizione a stampa del giornale attribuisca maggiore o minore evidenza, e quali articoli siano eventualmente collegati fra loro in una sezione tematica (anche se evidentemente l’ordine in cui gli articoli sono inclusi nell’indice può fornirci qualche indizio al riguardo). Non stupisce dunque che una ricerca svolta presso l’University of Georgia mostri una certa insoddisfazione per la lettura di quotidiani sullo schermo di un Kindle13. Sarà interessante verificare se l’applicazione per iPad realizzata dal «New York Times» e ricordata nella lezione precedente risulterà più efficace. Ai giornali si possono affiancare anche blog e siti informativi: se non vogliamo utilizzare il rudimentale browser web di cui si è parlato, possiamo ‘abbonarci’ ai flussi informativi di molti fra i blog e i siti più noti, che Amazon impaginerà e ci trasmetterà automaticamente attraverso il servizio Whispernet. Ma l’operazione ha un piccolo costo: certo basso, ma comunque significativo se consideriamo che si tratta di contenuti disponibili gratuitamente 153

in rete. Amazon ha inoltre introdotto da poco anche la disponibilità (in questo caso gratuita) di versioni per Kindle di alcuni fra i più importanti documenti di fonte pubblica statunitense, come la legge finanziaria. Per Kindle esistono già – ma non sono semplicissimi da usare – meccanismi che sfruttano il browser interno ad esempio per ricevere la posta elettronica o usare un sistema di instant messaging. È probabile che nei prossimi mesi lo spazio per ‘applicazioni Kindle’ possa crescere: Amazon ha infatti annunciato a inizio 2010 la disponibilità gratuita degli strumenti necessari a realizzare applicazioni di questo tipo, cosa che potrebbe portare allo sviluppo di un mercato (comunque limitato per le scarse capacità multimediali del dispositivo) un po’ sul modello degli ‘application store’ esistenti per iPhone o Android. Infine, un piccolo trucco per i lettori che dispongono di un Kindle: sul sito Jungle-Search, alla pagina http://www.junglesearch.com/US/kindle.php, è disponibile un servizio di ricerca titoli decisamente più comodo di quello di Amazon. Vengono segnalati anche e-book in formato Kindle disponibili in pubblico dominio, e le offerte temporanee di e-book gratuiti che vengono a volte fatte da Amazon o da altri per scopi promozionali. 6. Formati aperti e mobili Ikea: da OEB a ePub Di ePub abbiamo già parlato moltissime volte, ma il formato è così importante da meritare una trattazione specifica. Sappiamo già, almeno a grandi linee, di cosa si tratti: un formato per eBook basato su un linguaggio di marcatura della famiglia XML. Abbiamo anche visto che, in una forma o nell’altra, ePub o una delle sue varianti (come OEB, che ne è stata la prima versione) sono alla base di molti altri formati: dai ‘vecchi’ formati LIT e Mobipocket al solo apparentemente ‘nuovo’ formato .azw di Amazon. In tutti questi casi, la procedura è più o meno la stessa: si parte da un testo marcato, lo si incapsula in un file compresso (eventualmente con l’aggiunta di alcuni altri file di metadati) e si applica alla fine una cifratura proprietaria, che protegge l’e-book e contemporaneamente ha l’effetto di renderlo leggibile solo con alcuni programmi o su alcuni dispositivi. 154

È la protezione, dunque, e non la marcatura di partenza, a rendere ‘chiuso’ un formato e-book. ePub è allora un formato ‘di passaggio’, che interessa solo chi deve creare un e-book ma non l’utente finale? Tutt’altro: si tratta forse dell’unica speranza per evitare la completa balcanizzazione del mondo e-book, lacerato fin dalla nascita dalla guerra fra formati diversi. Torniamo dunque al periodo della ‘prima ondata’ di lettori dedicati. Già a quell’epoca la babele dei formati imperava: il RocketBook e il REB 1100 usavano un formato denominato RB, il REB 1200 un formato denominato IMP (che per di più esisteva in due versioni, per testi in bianco e nero e a colori), il Palm come ricorderete usava i formati .pdb e .prc, il Franklin eBookMan un formato caratterizzato dall’estensione .fub, la Microsoft stava introducendo il formato LIT, e gli esempi potrebbero proseguire. La necessità di avere punti di riferimento comuni era evidente, ma d’altro canto ciascuno voleva essere libero, in particolare nel campo della protezione, di implementare meccanismi proprietari che tagliassero fuori la concorrenza dalla propria fetta di mercato e che, auspicabilmente, si rivelassero migliori o comunque più diffusi degli altri, in modo da obbligare il maggior numero possibile di operatori ad adottare le proprie soluzioni e le proprie piattaforme di distribuzione e di lettura. Era chiaro che il punto di riferimento comune dovesse essere un linguaggio di marcatura della famiglia XML. Ma come svilupparlo? A cavallo fra il 1998 e il 1999, nasce un gruppo di lavoro che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe coinvolgere i produttori di dispositivi di lettura e dei relativi software, gli editori, i distributori, le principali associazioni bibliotecarie, e un gruppo dei principali esperti del settore. È il primo nucleo dell’OeBF (Open eBook Forum): partecipano case software come Microsoft, case produttrici di hardware come Palm e Franklin, editori come Random House, Simon & Schuster, McGraw-Hill, HarperCollins, Reed Elsevier e Mondadori, enti pubblici statunitensi come la Library of Congress e il National Institute of Standards and Technology, associazioni come la American Library Association. Inizialmente c’è una certa rivalità con un altro gruppo di lavoro in parte analogo, denominato EBX (Electronic Book Exchange Working Group) e promosso dalla Adobe, ma nel 2000 le due ini155

ziative decideranno di unire gli sforzi e l’EBX confluirà nell’OeBF. Il primo lavoro dell’OeBF è proprio quello di sviluppare uno standard: si chiamerà OEB-PS, o semplicemente OEB (Open eBook Publication Structure). Come è fatto un file OEB? Vale la pena farsene un’idea, perché i file ePub sono costruiti sostanzialmente nello stesso modo. Si tratta in realtà, come potremmo aspettarci, di un file compresso, e per la compressione viene utilizzato il formato all’epoca (e tuttora) più diffuso: ZIP. Un file OEB – ma lo stesso vale per un file ePub – può dunque essere aperto utilizzando un qualunque programma di decompressione in grado di gestire i file zippati, anche se naturalmente per visualizzare poi l’e-book contenuto al suo interno vi servirà un programma specifico, in grado di riconoscerlo e interpretarlo. OEB è dunque un formato di pacchetto. Ma cosa contiene il pacchetto? Innanzitutto, una sorta di indice: si tratta dell’OEB Package File, un file XML (caratterizzato dall’estensione .opf, abbreviazione, come avrete intuito, proprio di OEB Package File) che raccoglie al suo interno diverse componenti. La più importante si chiama manifest e specifica l’elenco dei file (testuali e grafici) che costituiscono nel complesso il contenuto dell’e-book. Il manifest è preceduto da un identificatore univoco del pacchetto (che dovrebbe avere un po’ la stessa funzione del codice ISBN, anche se le specifiche del formato non indicano come debba essere costruito) e da un insieme di metadati descrittivi che seguono lo standard Dublin Core, uno standard molto usato in ambito bibliotecario. Dopo il manifest troviamo invece l’indicazione della sequenza lineare delle parti (spine), eventuali sequenze di lettura alternative (tours), e l’elenco e i riferimenti alle componenti strutturali (o guide) della pubblicazione (copertina, indice, sommario...). Accanto al package file occorre poi ovviamente il contenuto. In buona sostanza, si tratta del testo del nostro libro elettronico, marcato usando lo stesso linguaggio usato per realizzare pagine web: HTML, o meglio, la particolare variante di HTML aderente agli standard XML e denominata XHTML. Non entreremo qui in ulteriori dettagli tecnici, ma la sostanza dovrebbe essere chiara: un file OEB (o ePub) è una sorta di scatola (chiusa utilizzando il formato .zip), al cui interno troviamo le 156

parti testuali di un e-book – potrà trattarsi di un file unico o di più file – accompagnate dalle ‘istruzioni’ per metterle insieme e per visualizzarle correttamente. Qualcosa dunque che assomiglia abbastanza da vicino al mobile da assemblare che potreste comprare all’Ikea: una scatola, con dentro i pezzi da montare e un foglio di istruzioni, ribattezzato per l’occasione ‘package file’. Ma a cosa doveva servire lo standard OEB? Per alcuni degli esperti coinvolti, come il già citato Jon Noring, l’obiettivo principale era superare la guerra dei formati attraverso l’adozione di uno standard aperto e condiviso. Per Noring, e per chi condivide le sue idee, non vi era alcun motivo per considerare OEB solo come un formato sorgente da cui ricavare e-book protetti. Al contrario, un formato come OEB può essere perfettamente utilizzabile anche per la realizzazione di e-book destinati all’utente finale, in particolare nel caso di opere di pubblico dominio, che non richiedono quindi nessuna protezione. Ma all’epoca (e almeno in parte in parte ancora oggi) le principali aziende del settore non erano molto interessate all’adozione di standard aperti. L’interesse principale era nel vendere ebook commerciali, che hanno bisogno di una protezione. E lo standard OEB – come oggi ePub – non entra nel merito dei meccanismi di protezione: lascia ciascuno libero di adottare quelli che ritiene più adatti. Per di più, la crisi delle aziende Internet aveva provocato – come abbiamo visto – una decisa frenata nello sviluppo di dispositivi di lettura: il pendolo girava in direzione della lettura lean forward su PC collegati alla rete, e dunque di contenuti spesso meno adatti a formati ‘liquidi’ come OEB e la cui resa era assai migliore attraverso formati orientati alla pagina come il PDF. Come risultato, fra il 2002 (anno di pubblicazione della versione 1.2 delle specifiche) e il 2007 (anno in cui usciranno le specifiche di ePub, di fatto la versione 2.0 di OEB) l’idea stessa di un formato e-book aperto basato su XML diventa ‘fuori moda’. Anche in Italia, chi parlava di e-book in formato OEB veniva abbondantemente sbeffeggiato: a cosa serviva, quel formato sconosciuto, che nessuno sembrava disposto ad adottare? Come poteva pensare di competere con le meraviglie del PDF? “Books, not OEB” diventava addirittura lo slogan di una delle iniziative italiane di distribuzione di testi elettronici in formato digitale. 157

La realtà, però, era ben diversa: un formato orientato all’impaginazione fissa come il PDF, come abbiamo visto (e come ha ormai perfettamente chiaro anche l’Adobe, divenuta nel frattempo fra i più attivi protagonisti nello sviluppo del formato ePub), può funzionare per certi scopi ma non certo per tutti. E il mondo ebook, sommerso da una marea di formati diversi14, aveva bisogno assoluto di un minimo comun denominatore. Inoltre, lo sviluppo dei progetti di digitalizzazione bibliotecaria faceva crescere esponenzialmente il numero dei testi fuori diritti disponibili in rete. Per usarli sulla nuova generazione di lettori, dedicati e non, era indispensabile un formato standard. E dato che i nuovi lettori erano e sono di dimensioni diverse e prodotti da aziende diverse, lo standard doveva essere necessariamente un formato fluido e aperto: il PDF, insomma, restava un formato potentissimo ed estremamente utile in molte situazioni, ma – proprio come Noring andava sostenendo da anni – non poteva trasformarsi in alcun modo nella ‘lingua comune’ del mondo e-book. Non è un caso, dunque, che lo sviluppo del formato riprenda proprio fra il 2006 e il 2007, in coincidenza con la diffusione della seconda generazione di dispositivi dedicati e degli smartphone con schermi evoluti. Nel frattempo, forse proprio pagando il prezzo della crisi che aveva toccato, come abbiamo visto, l’idea stessa di e-book, l’Open eBook Forum aveva cambiato nome, diventando IDPF (International Digital Publishing Forum). E la stessa sorte tocca al nome del formato: OEB 2.0 diventa così ePub, e le specifiche elaborate dall’IDPF vengono rese pubbliche nel settembre 200715. Non mi soffermerò sulle differenze fra la prima e la seconda versione del formato: dal nostro punto di vista sono inessenziali. L’unica che può avere una qualche rilevanza in questa sede è la scelta dell’estensione .epub per il file zippato che funge da ‘scatola’. Ma la natura del file non cambia: se sostituiamo all’estensione .epub l’estensione .zip, il pacchetto sarà perfettamente riconosciuto e aperto da qualunque programma di decompressione. Di ePub, abbiamo detto, c’era assoluto bisogno: non è un caso che quasi tutti i lettori di seconda generazione (Kindle escluso, almeno per ora) lo riconoscano, e che il formato sia usato per la distribuzione e l’uso su dispositivi di lettura di opere fuori diritti come quelle digitalizzate dal progetto Google Books, di cui 158

parleremo nella prossima lezione, o come quelle distribuite dal progetto Gutenberg, che da qualche anno ha affiancato alcuni formati e-book – a cominciare proprio da ePub – al tradizionale formato solo testo. Nonostante il successo, atteso tanto a lungo, sia alla fine arrivato, ePub continua ad essere usato da molti produttori di contenuti soprattutto come un formato sorgente per produrre file protetti con meccanismi proprietari. Questo significa che ePub – utilissimo nel caso dei testi di pubblico dominio – nel campo dell’editoria elettronica commerciale non ha in realtà messo fine alla guerra dei formati: ne ha solo delimitato il campo di battaglia. Eppure, con un po’ più di saggezza, anche questa situazione potrebbe cambiare. Se è vero infatti che, come già OEB, ePub è neutrale rispetto alle scelte di protezione, è anche vero che sono disponibili meccanismi di protezione non proprietari, perfettamente compatibili con ePub, che avrebbero il vantaggio di permettere finalmente l’apertura dei dispositivi di lettura all’acquisto di contenuti attraverso venditori diversi, e di garantire ai venditori stessi un mercato composto potenzialmente da tutti i dispositivi di lettura e non solo da quelli ‘di famiglia’. Si tratta di un punto di grande importanza: finché, in una forma o nell’altra, il mercato resta ostaggio dei vari falegnami impazziti o dei libri che si autodistruggono cambiando scaffale, difficilmente gli e-book potranno proporsi come seri candidati alla successione del libro a stampa, per quanto buoni possano essere i dispositivi di lettura. Ma su questo torneremo fra breve. Prima, vale la pena ricordare almeno alcuni fra i software utilizzabili per leggere (e per creare!) libri ePub. Innanzitutto, abbiamo già accennato al fatto che il formato è riconosciuto da Adobe Digital Editions, che permette anche di annotare i testi o aggiungere segnalibri. Potete scaricare gratuitamente il software dal sito della Adobe, alla pagina http://www. adobe.com/products/digitaleditions/, e poi provarlo ad esempio con un testo ePub del progetto di digitalizzazione Google Books, come The Importance of Being Earnest, di Oscar Wilde, che trovate alla pagina http://books.google.com/books?id=4 HIWAAAAYAAJ. Attenzione: come vedremo nella prossima lezione, pochi fra questi testi sono in realtà disponibili in file ePub di 159

buona qualità. Anche in questo caso, la strana miscela fra testo digitalizzato e testo presente sotto forma di immagini è piuttosto sconcertante16, ma illustra bene uno degli aspetti che abbiamo cercato di sottolineare in questa lezione: una buona esperienza di lettura non richiede solo un dispositivo di lettura funzionale ed ergonomico, ma anche una buona rappresentazione del testo. Ma il programma sicuramente più utile, con il quale si può fare molto più che leggere un libro in formato ePub, è Calibre. Si tratta di uno strumento davvero prezioso per chiunque voglia lavorare con gli e-book o disponga di un dispositivo di lettura. Lo trovate alla pagina http://calibre-ebook.com/, e la prima cosa da fare è sicuramente guardare la demo del programma. È in inglese, e illustra con grande chiarezza le molte funzionalità offerte. Calibre è un po’ l’equivalente di iTunes per il mondo eBook: permette di visualizzare i propri e-book attraverso una finestra di lettura, di raccoglierli in una sorta di biblioteca personale, di convertirli nel formato adottato dal proprio particolare dispositivo di lettura (sono supportati sia molti formati e molti lettori dedicati di seconda generazione, sia diversi software di lettura per dispositivi non dedicati, come l’iPhone, gli smartphone Android o l’iPad), e di trasferirli al lettore. Inoltre, Calibre può creare e-book in molti formati diversi – compreso ePub – partendo da file HTML o RTF, e cioè da file che possono essere creati praticamente da tutti i programmi di videoscrittura (Microsoft Word e OpenOffice inclusi). In sostanza, con Calibre potrete creare con estrema facilità i vostri e-book personali. E per finire è anche possibile trasformare in ebook materiali disponibili su web, ad esempio le notizie di un sito informativo: il programma comprende perfino un elenco dei principali siti giornalistici in diverse lingue, e può scaricarne automaticamente il contenuto per poi impaginarlo e trasferirlo sul nostro lettore di e-book. Ciliegina sulla torta: Calibre è disponibile sia per Windows, sia per Mac, sia per Linux, ed esiste anche con interfaccia in italiano. Il suo creatore – il programmatore indiano Kovid Goyal, al quale la comunità e-book dovrebbe dedicare un monumento – l’ha rilasciato in open source, permettendone lo sviluppo collaborativo da parte di una comunità piccola ma entusiasta di sviluppatori. Fra gli altri programmi in grado di leggere e-book in formato ePub (e in diversi altri formati), una segnalazione merita sicura160

Figura 4. Calibre: interfaccia utente e visualizzazione di un e-book.

mente Stanza per iPhone. Si tratta di un’applicazione gratuita, che permette di creare e gestire una biblioteca personale di e-book, di scaricare e-book da una serie di depositi in rete (sia gratuiti, come il progetto Gutenberg, sia commerciali), di leggerli attraverso un’interfaccia a pieno schermo semplice e intuitiva, in cui è riprodotto realisticamente perfino l’effetto di voltare le pagine. Meno curato nell’interfaccia di lettura, ma altrettanto comodo ed efficace e con una bella rappresentazione ‘in scaffale’ della propria biblioteca di titoli, è il programma Aldiko, disponibile per il mondo Android17. Anch’esso non ha problemi nel leggere file ePub, così come diversi altri formati del mondo e-book. Stanza e Aldiko non sono certo i soli lettori per e-book disponibili su smartphone, e in particolare sulle due piattaforme da questo punto di vista più avanzate del settore, iPhone e Android. Ma le loro caratteristiche sono abbastanza rappresentative, ed esaminare una per una le molte altre applicazioni disponibili ri161

sulterebbe assai pesante e fornirebbe al lettore informazioni comunque a rischio di rapidissima obsolescenza: una ricerca su Google, e sull’informatissimo blog TeleRead, potranno rivelarsi assai più efficaci18. Per motivi in parte analoghi eviterò di appesantire la trattazione discutendo singolarmente le interfacce software dei molti dispositivi di lettura dedicati in grado di leggere il formato ePub: come si è già accennato, i lettori basati su e-paper si assomigliano tutti abbastanza, e un esame dettagliato risulterebbe assai pesante. D’altro canto, alle differenze fondamentali si è già accennato nella lezione precedente (presenza o meno di display touch screen che permettano di inserire annotazioni con uno stilo, l’originale interfaccia a doppio schermo del Nook...), e la discussione delle caratteristiche dell’interfaccia del Kindle – che pure, per una scelta assai discutibile di casa Amazon, non è in grado come sappiamo di leggere il formato ePub in modo nativo – sono anch’esse in fondo abbastanza rappresentative. Segnalo solo alcuni casi interessanti, come il Que, dispositivo di lettura distribuito da Plastic Logic e che dovrebbe arrivare sugli scaffali – almeno negli Stati Uniti – proprio in contemporanea con l’uscita di questo libro, che integra alle funzionalità di lettura tradizionali per dispositivi basati su e-paper anche una agenda e la capacità di gestire e-mail e documenti Microsoft Office (che possono essere letti e annotati ma non direttamente modificati); o lo Skiff Reader, pensato espressamente per quotidiani e riviste e dunque con uno schermo particolarmente generoso e risoluzione assai alta (1.200 x 1.600 pixel), che utilizza un’impaginazione assai vicina a quella dei giornali su carta, e un telaio flessibile. Entrambi questi dispositivi usano plastica leggerissima e dovrebbero essere resistenti alle cadute (come un libro...). Per quanto riguarda poi i dispositivi di terza generazione, a cominciare dal loro ‘apripista’, l’iPad, nel momento in cui scrivo è troppo presto per pensare a rassegne o a discussioni dettagliate. Quel che si può dire è che il programma iBooks, presente sull’iPad, sembra rispondere ottimamente al requisito di mimicità almeno per quanto riguarda l’interfaccia software, che imita in maniera davvero impressionante l’esperienza di sfogliare un libro19. Per capire se anche il dispositivo nel suo insieme (schermo, risoluzione, durata delle batterie) possa avvicinarsi suffi162

Figura 5. L’applicazione iBooks per iPad.

cientemente alla perfezione ergonomica del libro – o se possano farlo altri fra i dispositivi di terza generazione annunciati, magari basati su schermi OLED – bisognerà però aspettare, probabilmente, ancora un po’ di tempo.

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Da Kant a Google: gestione dei diritti e dei contenuti digitali

1. Quali diritti e quali interessi tutelare? Del tema della protezione dei diritti in ambiente digitale (Digital Rights Management, spesso abbreviato con l’acronimo DRM) abbiamo già accennato in diverse occasioni nelle lezioni precedenti. Ma è sicuramente opportuno riprendere il discorso in maniera un po’ più organica. E può essere interessante farlo, ancora una volta, partendo da una breve digressione storica. Alla fine del XVIII secolo, in un periodo di particolare fioritura del commercio librario, nella Germania influenzata dall’Illuminismo si sviluppò un vivace dibattito sulla questione delle ristampe non autorizzate di libri. La pirateria, infatti, non è certo un’invenzione di oggi: già all’epoca, stampatori senza troppi scrupoli (o convinti di poter ristampare senza particolari problemi né legali né morali opere in fondo utili e richieste dal pubblico) si procuravano un esemplare già pubblicato dei libri di maggior successo e ne preparavano e vendevano ristampe senza chiedere autorizzazioni a nessuno. Si trattava di un comportamento lecito? E in caso contrario, in base a quale principio sanzionarlo? Da un lato l’autore sembrava ricavarne un danno: la sua opera veniva ristampata senza la sua autorizzazione, dunque in forma non controllata e senza offrirgli alcun compenso. Dall’altro, però, sembrava ricavarne un vantaggio: la sua opera circolava di più. E far circolare il proprio lavoro 164

e il proprio nome è sempre stato un interesse prioritario degli autori: già Orazio si vantava con orgoglio del fatto che la sua Ars Poetica fosse letta dal Bosforo alla Spagna, dalla Gallia all’Africa, e – solo per restare al mondo romano – troviamo analoghe considerazioni ad esempio in Marziale o in Plinio il giovane1. Se l’autore poteva consolarsi pensando alla sua fama, l’editore originale non aveva questa opzione: per lui, le ristampe non autorizzate rappresentavano solo un danno. E i lettori? Per loro c’era il vantaggio di poter reperire l’opera più facilmente, anche in zone lontane da quelle in cui era apparsa l’edizione originale, e magari a un prezzo più basso: chi ristampava doveva comunque ricomporre le pagine, ma poteva farlo partendo da un testo già ‘pulito’ e non dal manoscritto, che spesso richiedeva lavoro di collazione e interpretazione, e poteva quindi abbassare i costi. Ma c’era lo svantaggio di avere in mano un testo non controllato dall’autore, e spesso meno affidabile. A essere in questione erano in sostanza i rispettivi diritti e interessi di autore, stampatore, lettore. Quello che si sviluppa nella Germania del XVIII secolo è dunque un dibattito di grande interesse, perché vi si delineano i concetti di proprietà morale e intellettuale dei testi, che richiede di essere salvaguardata in quanto diritto fondamentale, e di interesse sociale alla libera circolazione del sapere. Una delle figure chiave di questo dibattito è Kant, che nel 1785 pubblica un saggio su L’illegittimità della stampa dei libri2. Le posizioni che Kant vi esprime sono state variamente interpretate, ma un punto sembra chiaro: l’argomentazione di Kant – che mira a mostrare l’illegittimità della ristampa non autorizzata di libri – si basa sulla distinzione fra il riconoscimento della paternità intellettuale dell’autore (che rimane anche se il libro viene ristampato illegalmente) e il suo diritto a controllare la circolazione del suo ‘discorso’ scritto. È quest’ultimo diritto che viene esercitato attraverso l’editore autorizzato, considerato come una sorta di ‘delegato’ dell’autore a far circolare il suo testo. Kant vede così chiaramente che il diritto d’autore è indipendente dal diritto di copia, ma nel contempo – almeno nel caso dei testi, che a differenza di altri tipi di opera sono espressione diretta della voce dell’autore – riconduce sostanzialmente entrambi i diritti all’autore, di cui l’editore non è che, letteralmente, un portavoce. 165

Il protagonista di questa prima fase della riflessione sui diritti librari è dunque, appunto, l’autore: è suo non solo l’interesse a veder riconosciuta la paternità intellettuale delle sue opere, ma anche quello a farle circolare attraverso un editore che, di fatto, lavora in suo nome e per sua delega. Per Kant gli interessi di autore ed editore tendono dunque a coincidere, perché sostanzialmente si riconducono entrambi all’interesse dell’autore. La tutela non riguarda in primo luogo il libro come oggetto, ma il libro come ‘discorso’ dell’autore, come testo. L’evoluzione dell’editoria commerciale ha tuttavia seguito una strada parzialmente diversa da quella prospettata da Kant: all’autore viene certo riconosciuto il diritto alla paternità intellettuale dell’opera, ma il diritto a farla circolare e a sfruttarla commercialmente viene di norma trasferito integralmente, attraverso il contratto firmato dall’autore con l’editore, all’editore stesso. L’editore non è più un portavoce dell’autore, ma un titolare di interessi propri, che acquista dall’autore un bene – il diritto di sfruttamento commerciale dell’opera – e cerca di metterlo a profitto. Le percentuali sulle vendite pagate dall’editore all’autore servono a cointeressare l’autore allo sfruttamento commerciale del libro: gli interessi di autore ed editore continuano in tal modo per lo più a coincidere, ma una volta pubblicato il libro è ora l’editore a condurre le danze. Il passaggio al digitale prefigura una terza fase, in cui gli interessi di autore ed editore non coincidono necessariamente, e il già ricordato interesse dell’autore a far circolare il più possibile la propria opera e le proprie idee può trovare sbocchi diversi da quelli dell’editoria commerciale. Vediamo di capire perché. Come sappiamo, nel mondo digitale il testo può viaggiare indipendentemente dal supporto (o meglio, può viaggiare da supporto a supporto). L’editore non è abituato a questa situazione, e tende naturalmente a fare quel che ha sempre fatto: considerare il testo come un ‘oggetto’ da vendere al lettore, trattando il testo elettronico in maniera analoga al libro fisico. Ma la facilità con cui il testo elettronico può essere copiato e trasferito cambia la situazione: diviene man mano più chiaro che ci sono non solo due, ma (almeno) tre tipologie diverse di interessi dell’autore: 1) l’interesse al riconoscimento della paternità intellettuale dell’opera; 2) l’interesse a massimizzarne la circolazione 166

(e dunque a massimizzare la circolazione delle sue idee, il riconoscimento del suo nome e dunque la sua fama); 3) l’interesse a ricavarne un guadagno economico. In passato, messo da parte l’ostacolo rappresentato dalle ristampe pirata (che in verità, va detto, non sono mai scomparse del tutto, neanche nell’epoca dell’editoria commerciale globalizzata) e dalle fotocopie, il secondo e il terzo interesse sostanzialmente coincidevano, e coincidevano con gli interessi dell’editore: per massimizzare la diffusione dell’opera occorreva massimizzare la vendita degli oggetti concreti che contenevano il testo e su cui l’editore guadagnava: libri fatti di pagine di carta. E questo portava sia l’autore sia l’editore a massimizzare anche i profitti. La massimizzazione della diffusione e la massimizzazione dei profitti erano di fatto la stessa cosa. Nel mondo digitale, però, il secondo e il terzo interesse dell’autore non coincidono più necessariamente: avendo comunque accesso a uno strumento di facile diffusione globale dei contenuti (il web), l’interesse a massimizzare la circolazione dell’opera e il riconoscimento del suo nome può spingere l’autore a cercare di diffondere le sue opere anche attraverso meccanismi non commerciali. In passato la distribuzione gratuita di un libro era estremamente onerosa (la stampa del libro doveva comunque essere pagata), e tanto più onerosa quante più copie del libro venivano distribuite. Oggi la distribuzione gratuita di un testo elettronico avviene a costi assai bassi, e che restano assai bassi indipendentemente dal numero di copie distribuite (il costo marginale delle copie – e cioè la variazione di costo legata a un aumento delle copie realizzate e distribuite – tende allo zero). L’autore si trova dunque a dover pesare da un lato il guadagno economico direttamente legato alla ‘vendita controllata’ del testo a stampa da parte dell’editore, dall’altro il guadagno di notorietà e fama legato dalla diffusione gratuita (o pirata) del suo testo in formato elettronico. L’editore, però, non ha semplicemente una funzione di stampatore, incaricato della mera riproduzione materiale del testo. Ha una funzione di selezione editoriale, di elaborazione redazionale e di validazione. Più l’editore è valido e prestigioso, più questa funzione ha valore anche per l’autore. Garantisce maggior fama e notorietà la pubblicazione di un libro con – poniamo – Oxford 167

University Press, o la sua diffusione gratuita in rete attraverso un sito web qualunque? Ecco dunque che, se l’editore è noto, affidabile e di prestigio, l’autore ha comunque interesse ad affidargli la diffusione della sua opera. Se invece è poco noto e poco selettivo, la concorrenza della pubblicazione fai-da-te in rete (magari accompagnata dalla progressiva realizzazione di depositi che si costruiscano una fama di affidabilità e garantiscano un livello minimo di validazione dei contenuti) è fortissima. Ma la fama dell’editore non sempre basta: se il compenso economico dell’autore non è interessante, e – soprattutto – se il costo economico dell’opera per il lettore è molto alto (come accade oggi in particolare nel campo dell’editoria accademica internazionale di qualità, delle riviste scientifiche internazionali ecc.), e ancor più se si tratta di testi destinati a una fruizione prevalentemente lean forward, dunque adatti alla lettura ‘attiva’ sullo schermo di un tradizionale computer, la spinta a creare canali alternativi di distribuzione via rete del solo testo elettronico dell’opera, attraverso sistemi in qualche misura ‘garantiti’3, è comunque altissima. Dopo essere andati a braccetto per lungo tempo, dunque, soprattutto nel caso dell’editoria scientifica e di ricerca gli interessi di autore ed editore possono cominciare a divergere. E in una situazione in cui la disponibilità di buoni dispositivi di lettura accentuasse la funzionalità e l’usabilità dei testi elettronici, questa divergenza potrebbe tendere a sua volta ad accentuarsi. A rafforzare questa tendenza è spesso chiamato in causa un elemento percepito da molti come ulteriore fattore di rischio per il mondo editoriale: la disintermediazione. 2. Professioni a rischio? Abbiamo già avuto occasione di ricordare, discutendo l’immaginario fantascientifico legato al futuro del libro e della lettura, il curioso romanzo Cyberbooks pubblicato nel 1989 da Ben Bova. Ricordate Carl, il giovane e ingenuo inventore orgoglioso del suo prototipo di libro elettronico? Lo ritroviamo mentre ne mostra le potenzialità a Malzone, uno dei dipendenti della casa editrice alla quale spera di venderlo. Il passo merita di essere citato per esteso. 168

“Cosa devo fare?”, chiese Malzone. “Basta toccare il bottone verde per passare alla pagina successiva. Se lo tieni premuto, andrà avanti rapidamente da una pagina all’altra fino a quando non solleverai il dito. Poi si fermerà. E se vuoi andare a una pagina specifica, basterà digitarne il numero nel tastierino sulla destra.” Malzone passò diversi minuti scorrendo le pagine avanti e indietro. Guardando sopra la sua spalla, Carl vide che lo schermo funzionava bene: tutto era perfettamente a fuoco, e le illustrazioni risultavano meravigliosamente nitide. “Un aggeggio carino”, disse alla fine Malzone restituendolo a Carl. “Tutto qui il tuo commento?” Malzone si strinse nelle spalle. “È un sistema elettronico per guardare un libro. Come una TV tascabile, solo che ci puoi leggere libri anziché guardare programmi televisivi. Potrebbe costituire un regalo divertente per le feste di Natale”. “Ma è assai più di questo!” disse Carl con fervore. “Quest’oggetto sostituirà i libri su carta! È la più grande scoperta nel mondo dell’editoria dopo l’invenzione della stampa!” “Nooo.” Malzone scosse la testa, aggrottando le sopracciglia. “È un’idea carina, ma non sostituirà i libri. Chi comprerebbe una macchina che finirà per costare almeno cento dollari quando con quindici si può comprare un libro rilegato? E un tascabile costa ancor meno.” “Ma chi comprerà più un libro rilegato o un tascabile”, replicò Carl, “se un libro elettronico costerà solo pochi centesimi?” Malzone grugnì come se qualcuno l’avesse colpito allo stomaco con una stecca da biliardo “Centesimi?” “Certo, il lettore – questo dispositivo qui – costerà più di quanto costi una mezza dozzina di libri. Ma una volta che ne hai uno, potrai ottenere i tuoi libri elettronicamente. Attraverso la linea telefonica, se vuoi. I libri più cari non costeranno più di un dollaro!” “Aspetta un minuto. Vuoi dire...” “Niente più carta!” Carl era esultante. “Non ci sarà più bisogno di tagliare alberi e fabbricare la carta e trasportarne tonnellate fino alle tipografie e poi trasportare tonnellate di libri stampati ai negozi. Muoverai protoni ed elettroni anziché carta! È economico ed efficiente!” Per un lungo momento, Malzone non disse niente. Poi esalò un lungo, pesante sospiro. “Stai dicendo che un editore non avrà più bisogno di tipografie, carta, inchiostro, venditori, agenti di distribuzione, responsabili di zona, autisti di camion... e neanche di librerie?” 169

“Può essere fatto tutto elettronicamente,” assentì Carl entusiasta. “I libri potranno essere acquistati attraverso lo schermo televisivo o via telefono. Saranno trasmessi quasi istantaneamente in ogni angolo della terra, direttamente al cliente.” Malzone si guardò intorno a disagio, scrutando le ombre della stanza vuota. Quasi in un sussurro, disse a Carl, “Dio santo, ragazzo, finirai per farci uccidere tutti e due!”4

A preoccupare Malzone – e il seguito del romanzo rivelerà che le sue preoccupazioni non erano affatto ingiustificate – è l’idea di un cambiamento radicale del processo di produzione del libro: un processo che salta completamente le figure di intermediazione, e che risulta quindi completamente eversivo rispetto all’organizzazione tradizionale del mondo editoriale. Si tratta di un rischio reale? Il termine ‘disintermediazione’ è collegato a un libro per certi versi profetico: The Next Economy5, scritto nel 1983 da Paul Hawken, un autore molto impegnato sul fronte del rapporto fra commercio e ambiente. In anni più recenti, ‘disintermediazione’ è diventata una delle parole-feticcio del nuovo web. L’idea è che gli strumenti di rete consentano agli utenti di svolgere autonomamente tutta una serie di attività che normalmente richiedevano figure di mediazione: dall’acquisto di un biglietto aereo (non serve più recarsi all’agenzia viaggi, in rete si può fare perfino il checkin...) alle operazioni bancarie, dalla prenotazione di un albergo alla denuncia dei redditi. E in questi casi è in effetti innegabile che un processo di disintermediazione ci sia, e non manchi di produrre conseguenze culturali, sociali ed economiche, anche sul mercato del lavoro. Del resto, non si tratta di per sé di un processo nuovo: basti pensare alla progressiva scomparsa di figure come i centralinisti (o meglio le centraliniste, dato che si trattava di una occupazione prevalentemente femminile), o come i bigliettai sull’autobus. Più complessa è la questione quando abbiamo a che fare con l’idea di disintermediazione informativa. Secondo i teorici di una sorta di autonoma onnipotenza della rete nella gestione e selezione delle informazioni, non servirebbero più giornalisti (o almeno, certe figure di giornalisti), perché il citizen journalism reso possibile da blog e social network è più capillare e – grazie ai meccani170

smi di verifica diffusa dell’informazione – perfino più affidabile; non servirebbero più bibliotecari, perché gli OPAC (i cataloghi in rete delle biblioteche) e la disponibilità di strumenti di reference on-line e in prospettiva di vere e proprie biblioteche digitali ne farebbero venir meno la funzione; e, nel campo dell’editoria, non servirebbero più né librerie e librai (i libri si comprano in rete) né editori, dato che ciascuno è in grado di pubblicare e distribuire da solo i propri lavori in formato elettronico. Questa prospettiva, presentata con accenti opposti ma argomentazioni straordinariamente simili da tecnoentusiasti e catastrofisti, nasconde a ben vedere una notevole confusione di idee. Il citizen journalism è in molti casi una risorsa preziosa, ma siamo sicuri che possa funzionare senza nessuna forma di supporto e riferimento da parte del giornalismo professionale? Siamo sicuri che abbia i mezzi per arrivare a coprire con tempestività qualunque tipo di notizia, per permettere sempre di verificarne le fonti e valutarne correttamente l’importanza, per garantirsi l’accesso a tutti i tipi di informazione rilevante? Lo scandalo Watergate sarebbe emerso? La guerra in Afghanistan sarebbe stata coperta nello stesso modo? In breve: siamo proprio sicuri che la formazione e le competenze dei giornalisti professionisti siano proprio inutili?6 Un discorso analogo si potrebbe fare in altri settori, ad esempio in quello della mediazione politica. Ma a noi interessa in primo luogo il campo dell’editoria e della lettura. E, lungi dallo scomparire, il ruolo della mediazione informativa tende in questi casi a rafforzarsi, anche se certo si sposta in parte dal mondo fisico verso la rete. Così, ad esempio, il ruolo dei bibliotecari non solo non è venuto meno ma si è rivelato cruciale davanti al compito di aggiungere metainformazione semantica alle informazioni disponibili in rete, di orientare l’utente-cittadino all’interno di un universo informativo in perenne mutamento (anche attraverso un lavoro di information literacy, alfabetizzazione informativa più che semplice alfabetizzazione informatica), di integrare informazione a stampa e informazione on-line, di trasferire in digitale l’informazione disponibile su carta, di lavorare per garantire la conservazione a lungo termine anche dell’informazione in formato digitale, e così via. E d’altro canto chi dovrebbe realizzare e curare gli 171

OPAC o – affiancando prevedibilmente figure editoriali specializzate – la gestione delle biblioteche digitali, se non i bibliotecari? Possiamo ormai dire con cognizione di causa che non solo la professione del bibliotecario non è sparita, ma che nell’era del digitale si tratta anzi di una delle professionalità più interessanti e con maggiori prospettive di sviluppo7. Più problematica è certo la situazione di librai e librerie. La necessità di luoghi fisici di vendita distribuiti sul territorio si indebolisce con la creazione delle grandi librerie on-line, e tende progressivamente a venir meno con il passaggio al digitale dei contenuti. L’idea del libraio-amico, lettore onnivoro e competente, capace di conoscere il cliente e di suggerirgli in maniera quasi infallibile il libro più adatto, corrisponde purtroppo sempre più – nell’era delle librerie-megastore – a una sorta di mito romantico. E d’altro canto i sistemi di filtraggio collaborativo dell’informazione, che permettono a librerie on-line come Amazon di suggerirci i libri più interessanti sulla base dell’analisi dei nostri comportamenti d’acquisto precedenti, del modo in cui ci muoviamo nel catalogo della libreria, e dell’analisi dei comportamenti di lettori dai gusti simili ai nostri, si rivelano spesso sorprendentemente accurati, almeno in presenza di una larga base di utenti che gli algoritmi del sito possano ‘studiare’. Difficile, dunque, che la sopravvivenza delle librerie possa affidarsi solo al libro come oggetto fisico e al fascino del libraio-amico. Una prospettiva assai più interessante potrebbe essere invece rappresentata dalla progressiva trasformazione di molte librerie in circoli di lettura e di servizio attorno al libro, in cui sviluppare anche in presenza l’aspetto sociale della lettura. Una prospettiva che potrebbe portare ad avvicinare ancor più, in futuro, librerie e biblioteche. E naturalmente – pur in presenza di una forte tendenza alla concentrazione – crescerà lo spazio per le librerie in rete, che si trasformeranno progressivamente, come del resto stanno già facendo Amazon e Barnes & Noble, in centri d’acquisto non solo per libri a stampa ma anche e sempre più per libri elettronici e contenuti digitali. Il dato relativo alle vendite dell’ultimo best-seller di Dan Brown, la cui versione per Kindle ha su Amazon superato nelle vendite quella su carta, è significativo, anche se piuttosto deprimente per quanto riguarda i gusti di lettura del pubblico. 172

E gli editori? Saranno davvero travolti dal fai-da-te in rete e dal print on demand? Anche in questo caso, la notizia della morte della mediazione editoriale è a mio avviso decisamente prematura. Certo, in alcuni settori – in cui esiste a monte un meccanismo affidabile di validazione e di selezione dei contenuti – le forme tradizionali di mediazione editoriale cambieranno. In particolare, il mondo della ricerca potrà in molti casi organizzare meccanismi vantaggiosi di circolazione aperta dei propri contenuti, ad esempio attraverso il sistema già ricordato degli Open Archive. Non sparisce il ruolo della mediazione e della validazione editoriale, ma si tratta di un ruolo che potrà essere sempre più spesso assunto direttamente dalla comunità scientifica di riferimento. Il meccanismo della peer-review non richiede, di per sé, una gestione esterna al mondo della ricerca, e potrà essere affiancato da altri meccanismi basati su una sorta di ‘filtraggio collaborativo’ in rete. C’è dunque spazio per una mediazione editoriale altamente specializzata, collaborativa e aperta nelle procedure di validazione e nelle sedi di distribuzione dei contenuti, e in qualche modo interna alla comunità scientifica: certo abbastanza diversa da quella fin qui appannaggio di grandi gruppi editoriali privati. La situazione però cambia se dalla ricerca specialistica passiamo alla divulgazione, alla saggistica, alla narrativa, insomma all’editoria di consumo (che può in molti casi essere anche editoria di qualità) destinata al grande pubblico. Qui il discorso non è più interno a una comunità ristretta di esperti, e richiede un lavoro di selezione e mediazione editoriale assai diverso, con professionalità specifiche. È difficile immaginare che questo ruolo possa essere assunto direttamente da una sorta di ‘auto-organizzazione intelligente’ degli utenti in rete. Certo, la disponibilità di modelli per la distribuzione gratuita dei contenuti – come le licenze Creative Commons8: uno strumento giuridico di estremo interesse, che consente all’autore di conservare alcuni diritti sull’opera pur garantendone la libera circolazione (e di selezionare quali diritti conservare: attribuzione, modifica, circolazione solo in forma noprofit) – permette già oggi di realizzare forme di distribuzione aperta e ‘disintermediata’ di grande rilievo. E il filtraggio collaborativo può in questi casi far emergere tendenze e prodotti ‘popolari’ o di particolare importanza. Ma si tratta di strumenti destinati a mio avviso solo ad affiancare e integrare – non a sostitui173

re – la mediazione editoriale professionale, rispetto alla quale saranno anzi possibili forme innovative di ibridazione. Per sopravvivere al passaggio in digitale di molta parte dei contenuti, il mondo dell’editoria deve dunque imparare a muoversi anche in rete, e rafforzare anche in rete la funzione che gli è propria: offrire non solo la mera riproduzione del libro (a stampa o in digitale), ma soprattutto e in primo luogo dei servizi di mediazione informativa legati all’opera: la validazione scientifica, la buona redazione editoriale (anche a livello di descrizione attraverso metadati), la promozione attraverso meccanismi che ne migliorino la visibilità, la capacità di far crescere e valorizzare anche professionalmente sia i propri autori sia i propri lettori, una linea editoriale che sia espressione di una politica culturale consapevole e condivisibile, e così via. Passata la fase del print on demand – che molti considerano la grande rivoluzione dell’editoria ma che rappresenta a mio avviso piuttosto un tipico fenomeno di transizione, legato alla mancanza di buoni supporti per la lettura in ambiente digitale, e che dunque ha senso solo nel periodo (certo non necessariamente breve) di passaggio verso dispositivi di lettura e meccanismi di distribuzione più evoluti e funzionali – saranno esclusivamente queste capacità di servizio che potranno garantire non solo la sopravvivenza ma il successo di una casa editrice. Nel mondo digitale, con i limiti già ricordati, la funzione di mediazione informativa tipica dell’editore non solo non scompare ma viene esaltata: bisognerà però saperla svolgere bene, anche in rete e attraverso strumenti di rete. Il problema centrale non è dunque la scomparsa del ruolo dell’editore. Il problema è attraverso quali meccanismi remunerare sia l’autore sia l’editore, continuando per quanto possibile a conciliarne e armonizzarne gli interessi. Per secoli, i guadagni di entrambi sono stati legati alla vendita di oggetti informativi che erano anche oggetti fisici. Oggi, si avviano ad essere legati alla distribuzione di oggetti digitali che possono essere copiati da chiunque a costo zero e via rete. Sia i contenuti autoriali, sia la mediazione editoriale continuano ad avere un valore altissimo... ma come remunerarlo, se chiunque può appropriarsene liberamente? Torniamo dunque, inevitabilmente, al problema dei meccanismi da studiare per tutelare e comporre i vari diritti che abbiamo già ricordato: il diritto dell’autore a veder riconosciuta la pater174

nità intellettuale dell’opera, il suo interesse a diffonderla, la sua esigenza di guadagnarci abbastanza da assicurarsi autosufficienza economica; le esigenze di riconoscibilità e remunerazione economica dell’editore, impegnato in una funzione di mediazione editoriale che abbiamo visto restare essenziale; l’interesse sociale a promuovere la diffusione e la circolazione della cultura all’interno di un ecosistema ricco ed articolato, in cui trovino posto le necessarie funzioni di mediazione informativa, di formazione, di distribuzione e conservazione organizzata dei contenuti. I meccanismi di gestione dei diritti (DRM) ipotizzati per il mondo dei contenuti digitali sono in grado di rispondere a queste esigenze, certo complesse e difficili da conciliare? E in che modo? Per rispondere a questi interrogativi, sarà opportuno innanzitutto tornare su un terreno più concreto, e vedere un po’ più da vicino come funzionano i meccanismi di DRM oggi disponibili per il mercato editoriale digitale: meccanismi al momento prevalentemente basati sul concetto di protezione e ‘chiusura’ dei contenuti. 3. Proteggere a tutti i costi? DRM, pirateria e i rischi della balcanizzazione Nel caso degli e-book – o meglio, nel caso dei sistemi implementati dalle aziende leader di mercato nel settore dei dispositivi di lettura e della vendita di contenuti digitali sotto diritti – il DRM ha in genere tre dimensioni fra loro interconnesse: 1) le scelte ‘a monte’ dell’editore in materia di licenza d’uso e di possibilità offerte all’acquirente dell’e-book. Proteggere o no il testo? Con quali meccanismi? Permetterne o no, ad esempio, il passaggio da un dispositivo all’altro, il prestito, la lettura attraverso sistemi di sintesi vocale? Si tratta di scelte astratte, almeno alcune delle quali dipendono però dalle possibilità offerte dalla piattaforma di distribuzione adottata, e sono dunque connesse a 2) la concreta gestione dei diritti sul server del venditore. Il software installato su tale server deve ‘ricordare’ l’acquirente, permettergli di scaricare il testo protetto sul suo lettore, attivarlo, conservarlo nel tempo (anche se l’e-book è stato nel frattempo cancellato dal dispositivo di lettura per far posto ad altri contenuti), e – se queste operazio175

ni sono consentite – monitorarne lo spostamento da un dispositivo all’altro, il prestito, e così via. Per svolgere questi compiti, e garantire la protezione dell’e-book, il software del server di distribuzione genera di norma, sulla base delle caratteristiche e delle specifiche del formato finale utilizzato, 3) la ‘buccia’ protettiva che avvolge il pacchetto ePub, trasformandolo in un file in formato proprietario e rendendolo illeggibile su dispositivi di lettura diversi da quello su cui il libro è stato acquistato e attivato. Questo ‘involucro protettivo’ viene di norma chiuso attraverso una vera e propria cifratura: il server di distribuzione dialoga con il dispositivo di lettura, e ne usa le particolarità hardware (ad esempio il codice del processore) per generare una chiave di cifratura alla quale l’utente non ha alcun accesso diretto. Tale chiave viene utilizzata per ‘attivare’ il file particolare scaricato dall’utente. Apparentemente, lo scopo dei sistemi DRM è chiaro: nel mondo digitale, come si è già detto, copiare un file è semplicissimo, non costa praticamente nulla (tanto più nel caso degli e-book, che ‘pesano’ in genere assai poco in termini di bit), e la copia è identica all’originale. Senza un meccanismo di protezione, qualunque e-book potrebbe essere copiato e fatto circolare in rete. E gli editori conoscono benissimo il precedente della musica MP3, che ha messo in ginocchio il mercato discografico. Ma i meccanismi di protezione sopra descritti sono davvero efficaci? E sono l’unica possibilità per proteggere un contenuto? Non esistono meccanismi di protezione meno invasivi? E la protezione dei contenuti deve davvero essere così generalizzata? Prima di provare a rispondere a queste domande, è utile avere qualche informazione in più sul mondo, le convinzioni, gli strumenti di chi questi meccanismi di protezione cerca di sfidare e scardinare. Muniamoci dunque per un istante di una benda su un occhio e di un cappello da pirata (nonché di un buon antivirus aggiornato e di un buon firewall per il nostro computer: i siti che visiteremo non offrono sempre garanzie di totale affidabilità): per un paio di pagine faremo rotta attraverso mari un po’ più avventurosi del solito. Non senza un’avvertenza obbligatoria: non intendo qui promuovere la pirateria dei contenuti, o suggerire comportamenti illegali. I libri – elettronici o su carta – è sempre bene comprarli, e non solo la legge ma anche l’etica e il buon senso suggeriscono che autori ed editori debbano essere adeguatamente 176

compensati per il loro lavoro. A non essere affatto scontata, però, è l’idea che questo compenso debba essere garantito facendo ricorso alle forme spesso inutilmente coercitive e vessatorie (nonché assai costose!) degli attuali sistemi di DRM, o a provvedimenti legislativi che rischiano di limitare diritti fondamentali come quelli all’informazione e alla privacy, senza alcun riguardo verso l’interesse sociale alla diffusione libera e aperta delle conoscenze, e senza alcuna comprensione del fatto che le caratteristiche di un oggetto digitale come un e-book sono diverse da quelle di un oggetto fisico come un libro a stampa e possono suggerire meccanismi assai diversi di tutela. Lo scopo della nostra incursione nel territorio dei pirati è proprio cercare di capire meglio se, e in che misura, la realtà costituita da pratiche illegali ma largamente diffuse di distribuzione in rete di contenuti sotto diritti possa suggerire strategie un po’ diverse di tutela e di protezione. Ma su questo torneremo. Per adesso, dirigiamoci verso un sito che, con il suo sfondo bianco, non sembra a prima vista particolarmente piratesco o insidioso: Gigapedia, che troviamo – se il server non è stato nel frattempo chiuso o reso irraggiungibile – all’indirizzo http://www.gigapedia.com. Capire a prima vista cosa sia Gigapedia è tutt’altro che banale: c’è un banner pubblicitario, un box di ricerca, e una lista di libri in genere accademici e seriosi, con una riproduzione in miniatura delle rispettive copertine. Proviamo a digitare nel box di ricerca un qualunque termine, ad esempio ‘economics’. Gigapedia ci restituirà, dopo alcuni risultati sponsorizzati, una serie di link, ciascuno dei quali corrisponde a un libro. Cliccando, ognuno di questi link ci porterà a una scheda completa del libro, impaginata in maniera abbastanza povera. Qualche indagine in più ci rivelerà che il testo della scheda è tratto da Amazon. Ma cosa dovremmo farci? Per capirlo, occorre fare un passo in più, e registrarsi. La registrazione richiede un indirizzo di posta sul sistema Gmail di Google, e sarà bene usarne uno creato apposta, diverso da quello che usiamo normalmente. Una volta registrati ed effettuato il login, la situazione cambia: la nostra ricerca con chiave ‘economics’ produrrà gli stessi risultati, ma questa volta cliccandone uno si arriva a una pagina in cui è disponibile una linguetta ‘Links’, che a sua volta rimanda a siti (in genere dedicati alla condivisione di 177

file) presso cui è possibile scaricare una copia di norma pirata del libro in questione. Non fatelo, è illegale. Ma non è illegale rendersi conto di quanto numerosi siano i libri disponibili. Si tratta di testi prevalentemente in inglese, ma sono presenti anche altre lingue; l’italiano non è tuttavia molto rappresentato. Se cercate titoli compresi fra i testi curricolari di corsi tenuti presso college o università statunitensi, molto probabilmente li troverete, di norma in formato PDF: gli studenti li scannerizzano – o si procurano il file dai depositi a pagamento delle case editrici, ai quali le biblioteche universitarie sono abbonate, e se necessario li sproteggono – e li mettono in rete per poterli studiare senza doverli acquistare. Certo, per questo scopo ci sarebbero le biblioteche. Ma nel caso dei libri di studio, che suggeriscono una lettura lean forward, magari prendendo appunti, l’immancabile portatile di cui è dotato qualunque studente statunitense ha il vantaggio di rendere il libro disponibile ovunque, senza scadenze di prestito. E il formato PDF, che conserva l’impaginazione del libro a stampa, è in questo caso il più adatto. Di siti di questo tipo, che – previa registrazione – rendono disponibili i link a libri piratati, ce ne sono parecchi. Ad esempio Bookfiesta4u.com, che si distingue per originalità: senza la registrazione, offre schede di libri che terminano con la raccomandazione “ti è piaciuta la descrizione? Acquista il libro su Amazon.com”. Ma una volta registrati, sotto la raccomandazione compaiono, quasi invisibili, le iniziali del servizio di condivisione di file presso il quale il libro in questione si può scaricare in versione pirata. FreeBookSpot non richiede neanche la registrazione, e offre persino statistiche sui download. Cerco e trovo subito un libro ‘familiare’, la traduzione inglese del volume La ricchezza delle idee scritto da mio fratello Alessandro (l’esempio mi dovrebbe garantire un minimo di immunità da possibili risentimenti dell’autore...). Solo attraverso quel sito, il libro è stato scaricato 206 volte: se pensiamo alle tirature dei volumi accademici, in genere non elevatissime, ci renderemo conto del fatto che già oggi l’impatto che può avere la pirateria libraria non è indifferente. D’altro canto, però, non è affatto detto che quelle 206 persone avrebbero effettivamente comprato il libro: magari – con qualche attesa e scomodità in più – molte fra loro l’avrebbero consultato in biblioteca, o avrebbero semplicemente fatto a meno di utilizzarlo. 178

Ma le 206 persone che hanno scaricato il libro su FreeBookSpot sono probabilmente solo una frazione abbastanza piccola del totale. Lo stesso libro – che su Gigapedia non c’è – lo trovo senza problemi su altri servizi di scambio di link, come Ebooksbay (www.ebooksbay.org/) o Okebooks (http://okebooks.blogspot. com), nonché su siti cinesi dedicati anch’essi allo scambio di link verso libri pirata, come Ebokee (http://www.ebookee.net/), Ufindbook (http://www.ufindbook.com.cn/) e Cnshare (http:// www.cnshare.org/), e su un sito russo così infestato da spam e virus che è meglio dimenticarne l’indirizzo. Libri sotto diritti si trovano poi frequentemente anche su piattaforme di condivisione di testi come Scribd, ma – soprattutto – in altri due arcipelaghi nel vasto mare della rete: i newsgroup (ve ne sono diversi specificamente dedicati allo scambio di libri pirata) e il peer-to-peer, un meccanismo per lo scambio di file che costituisce da tempo una sorta di zona franca in cui viaggiano anche musica e video e al cui interno gli utenti si muovono utilizzando programmi come BitTorrent o eMule. È proprio su newsgrup e peer-to-peer che sono più diffusi i testi dedicati al lean back (in primo luogo fantascienza e fantasy, generi letterari particolarmente amati dal popolo della rete) e in cui troviamo e-book nei formati adatti anche a dispositivi dedicati: Mobipocket, LIT, HTML, solo testo, e sempre più spesso anche ePub. Con una particolarità: oltre ai testi singoli, non è raro incontrare anche raccolte zippate, che possono arrivare a dimensioni anche assai considerevoli. Vi sono perfino collezioni che superano gli 8 Gigabyte: abbastanza per migliaia e migliaia di e-book. Con un unico scaricamento (anche se piuttosto lungo) si ottiene un’intera biblioteca di libri pirata. Fermiamo la nostra scorribanda, evitando di fornire indicazioni esplicite anche sui siti italiani dedicati alla distribuzione di libri sotto diritti, che pure non mancano, e fermiamoci un momento a riflettere. La prima considerazione da fare è che evidentemente, nonostante i meccanismi di protezione e una legislazione che comunque in una forma o nell’altra punisce lo scambio di contenuti sotto diritti, la pirateria editoriale in rete gode di ottima salute. E la cosa non stupisce: intanto, i meccanismi di protezione davvero inattaccabili sono rarissimi (se pure esistono). In secondo luogo, 179

qualsiasi protezione ha un punto debole abbastanza ovvio: sullo schermo dell’utente, il libro deve comunque essere visualizzato in chiaro. All’interno del computer, allo schermo corrisponde una zona di memoria su cui possono operare senza problemi programmi capaci di ‘fotografare’ l’immagine visualizzata e analizzarla, proprio come se si trattasse dell’immagine ottenuta da uno scanner, per ricavarne il testo. In sostanza, è sempre possibile ‘mettere al lavoro’ un programma di riconoscimento automatico dei caratteri (OCR, Optical Character Recognition) sull’immagine del testo visualizzato, in modo da ricavarne il contenuto testuale. La procedura può essere lunga, ma è praticamente impossibile impedirla. Così come, nel caso di libri pubblicati anche a stampa, è impossibile impedire che il testo stampato venga scannerizzato e convertito in testo da un utente munito di OCR, per quanto protetta possa esserne la versione digitale distribuita a pagamento. In sostanza: se c’è interesse ad ottenere una versione digitale pirata di un libro, perché molto richiesto o perché troppo costoso, è praticamente impossibile impedire che essa venga realizzata. Certo, le case produttrici hanno a disposizione una opzione da arma finale: utilizzare massicciamente nei dispositivi di visualizzazione (PC, lettori dedicati, ecc.) dei chip che siano sotto il loro diretto controllo e che si occupino non solo di proteggere i contenuti acquistati legittimamente, ma di bloccare quelli illegali, o azioni non consentite. In sostanza, un chip di questo tipo (la tecnologia più usata si chiama TPM, Trusted Platform Module, ed è presente in diversi computer commerciali, in particolare in molti portatili) può comportarsi un po’ come un gendarme: impedisce i tentativi di usare in maniera illegale i contenuti acquistati, blocca l’eventuale contenuto illegale scaricato, e al limite può anche denunciarci. Ma anche intraprendere fino in fondo questa strada presenta i suoi problemi: da un lato, trasforma l’interno dei nostri computer in uno stato di polizia, in cui tutto viene controllato. Siamo davvero disposti ad accettarlo? Dall’altro, a meno di non imporre per legge la presenza di chip di questo tipo in tutti i dispositivi (e in questo caso non sarebbe solo l’interno dei nostri computer a diventare uno stato di polizia...), non può impedire agli utenti, come a quel punto sarebbe ragionevole fare anche solo per proteggere la propria privacy, di utilizzare dispositivi diversi. 180

Insomma, la battaglia per la protezione totale e assoluta dei contenuti attraverso sistemi ‘sicuri’ di DRM è disperata e molto costosa, sia in termini economici, sia in termini di fastidio per l’utenza (che può essere portata a ripiegare su contenuti pirata, paradossalmente, proprio per l’eccessiva complicazione e le limitazioni insensate imposte da molte politiche di protezione), sia in termini di tutela dei diritti individuali. E alcune aziende cominciano a capirlo: non a caso, il negozio di musica e video di casa Apple, iTunes, ha rinunciato già dal gennaio 2009 ad applicare meccanismi di DRM sulla musica venduta, e lo stesso aveva fatto qualche tempo prima Amazon. Perché, allora, affannarsi a moltiplicare i metodi di protezione (e i formati) nel campo dei libri elettronici? Da un lato, la balcanizzazione ha in questo caso un effetto che agli editori non dispiace: allungare i tempi del passaggio al digitale, dando loro più respiro per capire come muoversi e quali politiche adottare. Viene anche impedita o quantomeno rallentata la costruzione di un ‘mercato unico’ che finirebbe per provocare un abbassamento dei prezzi. Sintomatico è al riguardo il recente caso Macmillan-Amazon-Apple, che ha visto la casa editrice Macmillan riuscire a imporre un prezzo più alto per i propri e-book giocando di sponda fra gli e-bookstore di Amazon per il Kindle e di Apple per l’iPad: un mercato segmentato in venditori concorrenti che utilizzano formati incompatibili offre infatti all’editore la possibilità di spuntare prezzi più alti per l’autorizzazione all’inserimento dei contenuti nell’uno o nell’altro negozio. Nel contempo, i produttori di dispositivi di lettura possono cercare di costruire posizioni di rendita basate su varianti del meccanismo ‘falegname impazzito’: si considera scontato che gli utenti più smanettoni utilizzino anche contenuti piratati, ma ci si concentra sugli altri, cercando di imporre loro l’uso di un singolo negozio – il proprio – per l’acquisto dei contenuti. Magari contando anche su un qualche fattore generazionale: il pubblico interessato ai libri potrebbe essere un po’ più uniformemente distribuito per fasce d’età, e dunque mediamente un po’ più ‘anziano’, di quello impegnato a scaricare senza troppi scrupoli musica in formato MP3. Ma la balcanizzazione non è certo negli interessi né degli utenti, né della tutela dell’abitudine alla lettura, in particolare proprio nelle fasce più giovani della popolazione. Come abbiamo già ri181

cordato, è soprattutto tenendo presente il pubblico più giovane che è importante garantire la disponibilità nel mondo digitale anche delle forme di testualità complessa e articolata proprie della cultura del libro. La balcanizzazione dei formati e delle politiche di DRM va dunque combattuta, e la battaglia per avere contenuti ragionevolmente liberi di migrare da una piattaforma a un’altra, di essere usati su computer da scrivania se siamo impegnati in una lettura lean forward attiva, associata ad esempio al prendere note e allo scrivere, ma anche su lettori dedicati per la lettura lean back e in mobilità, è una battaglia non solo di ‘comodità’ per l’utente, ma anche di rilevanza culturale e sociale. Modelli alternativi di DRM, che propongono l’uso di standard condivisi, esistono. E proprio per la ‘neutralità’ di ePub rispetto agli strumenti di protezione dei contenuti, possono essere facilmente implementati utilizzando tale standard. Un esempio è costituito dai cosiddetti modelli di ‘social DRM’. Il loro principio è semplice: incorporare nell’oggetto digitale – e dunque nel nostro caso nell’e-book – alcune informazioni personali relative all’acquirente. Ad esempio il suo nome, o il suo codice fiscale. Ci sono diverse tecniche per farlo: ad esempio, attraverso le cosiddette ‘filigrane’ digitali. Questo lascerebbe all’utente un file normale, che può essere spostato senza problemi da un dispositivo all’altro, che non si autodistrugge dopo un certo numero di passaggi di scaffale, che può essere acquistato su qualunque piattaforma (giacché il meccanismo di creazione della filigrana sarebbe unico e standard) e letto su qualunque lettore. Ma l’utente non sarebbe incoraggiato a copiarlo e distribuirlo illegalmente in giro: facendolo, ogni copia si porterebbe dietro anche il suo nome, e nel farlo denuncerebbe il suo crimine. L’idea, naturalmente, corre subito all’ex-libris: il social DRM si configurerebbe come una sorta di ex-libris (e potrebbe essere addirittura reso ‘attraente’ associandolo, come nel caso dell’ex-libris, a un’immagine e/o a un motto scelti dall’utente e applicati al frontespizio dell’e-book). L’uovo di Colombo? No: sicuramente salterebbero fuori programmi per rimuovere la filigrana digitale, o per intestare il libro a utenti fittizi. Il problema delle copie pirata, insomma, non sarebbe risolto. Ma l’ex-libris digitale – se ben realizzato – potreb182

be offrire al lettore una ragione ‘d’immagine’ in più per mantenersi nell’ambito della legalità, e comprare i propri libri. E la semplificazione nella gestione dei contenuti eliminerebbe un forte incentivo alla pirateria, quello rappresentato proprio da politiche di DRM cervellotiche e assai scomode per l’utente. Certo, si tratta di un palliativo. In prospettiva, probabilmente, è tutto il sistema di gestione dei diritti e di distribuzione dei contenuti che andrà ripensato. È ragionevole ipotizzare che in futuro possa risultare almeno in alcuni casi più sensato prevedere anche per gli utenti finali, un po’ come avviene oggi per le collezioni di contenuti legati al mondo della ricerca, abbonamenti a biblioteche di titoli anziché l’acquisto di singoli libri. Ed è possibile che la giusta remunerazione sia della funzione autoriale sia di quella di mediazione editoriale possa richiedere un qualche intervento pubblico, almeno nei casi in cui l’interesse alla libera circolazione dei contenuti sia da considerare prevalente. Una prospettiva certo eretica per i teorici di un mercato che considera con orrore qualunque intervento pubblico, salvo poi richiederlo quando si tratta di evitare le conseguenze di situazioni di crisi che i propri comportamenti hanno contribuito a far nascere. Ma che potrebbe concretizzarsi in una forma aggiornata di meccanismi di sostegno pubblico all’editoria. Meccanismi non certo nuovi, per di più con un ritorno in termini di diffusione dei contenuti assai maggiore di quanto non sarebbe mai possibile attraverso il supporto cartaceo. Si tratta comunque di temi che richiederebbero una trattazione autonoma e approfondita, e che esulano dagli obiettivi di questo lavoro. C’è invece un altro settore legato a questioni di gestione dei diritti che richiede sicuramente di essere preso in esame: quello dei grandi progetti di digitalizzazione libraria, a cominciare dal più famoso di tutti, la ciclopica iniziativa avviata da Google Books. 4. Google Books: le ragioni di un progetto Sono passati ormai quasi sei anni da quando, nell’ottobre 2004, in occasione dall’annuale fiera del libro di Francoforte Google ha presentato il suo progetto di digitalizzazione libraria. E, da allora, le discussioni e le polemiche sull’iniziativa non sono certo man183

cate9. Le posizioni al riguardo sono spesso fortemente cristallizzate: sostegno entusiastico a un progetto considerato – a ragione – come il primo tentativo di digitalizzazione libraria su scala globale, o, al contrario, rifiuto altrettanto netto di scelte percepite, a seconda dei casi, come culturalmente ‘imperialiste’ nella selezione delle priorità, dei partner e dei testi da digitalizzare (che vedono una larga prevalenza dell’inglese), guidate da logiche commerciali e non culturali, poco attente alla salvaguardia dei diritti esistenti sulle opere acquisite (e in questo caso le resistenze vengono soprattutto dalle grandi case editrici), o al contrario fonte di ulteriori restrizioni nelle modalità di accesso ad alcune tipologie di testi, e in particolare, come vedremo, alle cosiddette ‘opere orfane’. Può essere dunque il caso di premettere subito che, nel parlarne in questa sede10, non intendo né proporre una difesa di ogni aspetto del progetto, né partire da una posizione aprioristicamente critica: il mio obiettivo è quello di presentare e discutere alcune fra le caratteristiche fondamentali dell’iniziativa avviata da Google, cercando di argomentarne razionalmente limiti e vantaggi (spesso, come vedremo, strettamente intrecciati). Per i nostri scopi, credo sia utile ricordare che quello di Google è un progetto sviluppato da parte di un’azienda che ha il suo core business nella ricerca e nell’indicizzazione di informazione. Come sappiamo, Google nasce come motore di ricerca, ed è a questa funzionalità di motore di ricerca, capace di conquistarsi sul campo una posizione di assoluta preminenza grazie agli eccellenti algoritmi di ordinamento (ranking) dei risultati in base alla loro pertinenza per l’utente, che si sono man mano collegati i servizi che garantiscono la redditività dell’azienda. In primo luogo il ‘microadvertising’ contestuale, che costituisce la principale fra le fonti di reddito: basti pensare che i ricavi pubblicitari costituiscono ad oggi (dati relativi al 200911) il 97% delle entrate di Google (il 67% proveniente da siti Google, il 30% da siti partner) rispetto a un 3% derivante da entrate legate alla vendita di licenze o di altro tipo di servizi. E si tratta di cifre di tutto rispetto: quasi 23 miliardi di dollari nel corso del 2009. Perché, allora, un motore di ricerca dovrebbe imbarcarsi in un progetto di digitalizzazione libraria? La risposta si basa a mio avviso su tre considerazioni fondamentali: in primo luogo, perché si tratta di lavorare con una quantità di informazione assolutamen184

te compatibile – come ordine di grandezza – con quella già presente in rete e che Google è abituato ad indicizzare12. In secondo luogo perché – a differenza di molta parte dell’informazione grezza presente in rete – i libri contengono per lo più informazione validata, dunque di alto valore potenziale per gli utenti di un motore di ricerca. Infine, perché in questo modo Google può anticipare e cavalcare una tendenza che vede evidentemente all’orizzonte: la transizione verso il digitale anche dei supporti per la lettura (e dunque in primo luogo dei libri), dopo quelli utilizzati per la musica, per le immagini e per il video. Non è un caso, dunque, che quello di Google sia un progetto di digitalizzazione libraria più che strettamente un progetto di digitalizzazione bibliotecaria. Almeno in prima battuta, a Google in fondo non interessa – se non nell’aspetto giuridico ed economico di definizione dei relativi accordi, aspetto che ovviamente ha in pratica, come vedremo, un ruolo assolutamente essenziale – se i materiali digitalizzati provengano da una biblioteca o da una casa editrice, se si tratti di testi del secolo scorso o di pubblicazioni appena uscite. Il progetto di digitalizzazione dell’azienda di Mountain View nasce come naturalmente onnivoro, guidato in primo luogo dal criterio della potenziale appetibilità dei contenuti rispetto alle ricerche effettuate dagli utenti. Gli accordi con le biblioteche e quelli con le case editrici, pur diversi in natura, rispondono a questo obiettivo comune. La natura onnivora del progetto si scontra però, inevitabilmente, con i diversi regimi giuridici e con le diverse caratteristiche proprie di oltre cinque secoli di produzione libraria a stampa. I libri recenti sono naturalmente i più appetibili dal punto di vista delle ricerche degli utenti, ma sono ancora sotto diritti, e i diritti sono detenuti da case editrici diverse, che possono avere – e di fatto hanno – atteggiamenti diversi rispetto all’iniziativa di Google. I libri meno recenti si trovano in biblioteca, e la loro digitalizzazione – peraltro spesso più complessa per via delle modalità di stampa e delle condizioni di conservazione degli esemplari utilizzati – richiede dunque accordi con almeno alcune fra le grandi biblioteche di riferimento. Anche in questo caso ci sono inoltre spesso problemi di diritti, sia per le opere ancora in commercio sia per la vasta classe delle cosiddette ‘opere orfane’, quelle per le quali risulta difficile reperire l’autore, o risalire alla sua 185

data di morte (e quindi alla data di scadenza dei diritti), o individuare gli eredi. 5. Entrano in scena gli avvocati La situazione che abbiamo fin qui delineato, almeno in partenza semplice e lineare negli obiettivi ma ben presto complessa e controversa negli sviluppi organizzativi, giuridici e legali, spiega un po’ la storia del progetto avviato da Google. Inizialmente, l’azienda di Mountain View aveva previsto (e intrapreso) un lavoro di digitalizzazione relativamente uniforme nella gestione di tipologie diverse di libri, sostenendo che la digitalizzazione di opere ancora sotto diritti avveniva al solo scopo di indicizzarne i contenuti, rendendo disponibili agli utenti solo gli indici e degli ‘snippets’ dell’opera (brevi frammenti o ‘ritagli’ del testo, la cui disponibilità Google riteneva fondata sul diritto di citazione, o fair use), corrispondenti alle ricerche effettuate dagli utenti stessi. Ma la situazione, si è detto, doveva rivelarsi assai più complicata. Davanti alle prime critiche, per rafforzare la tesi che il lavoro effettuato riguardasse in primo luogo la realizzazione di strumenti di indicizzazione e ricerca, Google abbandonò subito – a pochi mesi dall’avvio del progetto – il primo nome scelto, Google Print, a favore del più esplicito Google Book Search, e differenziò esplicitamente al suo interno il programma di digitalizzazione relativo ai testi in commercio (avviando al riguardo i primi contatti con gli editori) e il programma di digitalizzazione bibliotecaria (Google Books Library Project), che a sua volta cercava e trovava fin dal dicembre 2004 importanti partnership, fra cui le biblioteche delle Università di Harvard, di Stanford e del Michigan, la New York Public Library e la biblioteca dell’università di Oxford, che include la famosa Bodleian Library. La tesi di fondo sostenuta da Google – e la politica adottata al riguardo, che relativamente ai testi sotto diritti prevedeva l’esclusione dal progetto di digitalizzazione bibliotecaria dei soli editori che ne facessero esplicita richiesta (una politica cosiddetta optout), anziché l’inclusione dei soli editori esplicitamente intenzionati ad aderire (politica opt-in) – restava tuttavia fortemente controversa, e veniva in particolare contestata sia dalla Authors Guild 186

of America sia dalla Association of American Publishers, che nel 2005 intentavano a Google due cause separate, sostenendo – fra l’altro – che la realizzazione degli indici si basava comunque sulla gestione di banche dati on-line contenenti il testo delle opere digitalizzate, e che nel caso di opere ancora sotto diritti tale gestione, indipendentemente dalla disponibilità o meno del testo completo delle opere per gli utenti finali, costituiva di per sé una violazione massiccia e sistematica del copyright. Gli aggiustamenti operati da Google – incluso il passaggio a politiche opt-in di esplicita e consensuale partnership con gli editori per quanto riguarda la gestione delle opere in commercio – non potevano evidentemente risolvere il problema di fondo, relativo a questo punto soprattutto al progetto di digitalizzazione bibliotecaria: con quali procedure e con quali limiti è possibile la digitalizzazione di opere sotto diritti, sia pure con il solo scopo di indicizzarle? Che tipo di risultati può restituire la ricerca, per restare all’interno del ‘fair use’ dell’opera? La rapida apparizione in rete di strumenti software più o meno clandestini in grado di ‘rippare’ (e cioè catturare e trasformare in testo riutilizzabile, in analogia con quanto fatto dai programmi in grado di estrarre dai loro supporti originali musica e video protetti) le pagine visualizzate da Google Book Search non aiutava, ovviamente, la posizione di Google. La disputa giuridica che ne è seguita è stata fra le più discusse e commentate degli ultimi anni, e non è mia intenzione analizzarla in questa sede, anche perché ne esistono già trattazioni competenti e approfondite13. Basti dire che la prima proposta di accordo (settlement agreement) che ne è risultata è lunga, fra testo e appendici, oltre 300 pagine14. Fra i suoi punti qualificanti era la creazione di un Registro indipendente per i diritti sui libri (Book Rights Registry), che dovrebbe raccogliere in maniera aperta e trasparente informazioni sui detentori di diritti relativi a opere librarie, permettendo di utilizzare tali informazioni sia nell’ambito del progetto di digitalizzazione portato avanti da Google – in modo da compensare gli aventi diritto – sia nel caso di altre iniziative analoghe curate da altre società. In base alla proposta di accordo, Google si sarebbe impegnata a versare a tale registro una cifra iniziale di 34,5 milioni di dollari, e a una serie di altri adempimenti per un impegno finanziario complessivo di 125 milioni di dollari. La proposta di accordo prevede anche una divisione dei 187

ricavi della vendita on-line di opere sotto diritti digitalizzate da Google (singolarmente o sulla base di abbonamenti cumulativi) o dei ricavi derivanti dalla pubblicità aggiunta da Google ai risultati di ricerche sul contenuto di tali opere, nella proporzione del 63% per autori ed editori detentori dei diritti, e del 37% per la stessa Google. Come era facile prevedere, la proposta di accordo non ha certo messo a tacere le polemiche, e le ha anzi in diversi casi rafforzate, rimescolando però non poco i ruoli e i temi discussi. Se in precedenza, come si è visto, la disputa legale era fra Google da un lato e Authors Guild e Association of American Publishers dall’altro, dopo la diffusione del testo della prima proposta di accordo la controversia vede Google e le sue due controparti su posizioni assai più vicine, impegnate a rispondere alle critiche spesso assai aspre formulate nei confronti dell’accordo da almeno quattro fronti, a loro volta spesso intrecciati e variamente sovrapposti: 1) i concorrenti diretti di Google, a cominciare da Microsoft, Yahoo! e Amazon; 2) le associazioni in difesa della libera circolazione dell’informazione, a cominciare dall’Internet Archive, pronte spesso ad alleanze inattese con le grandi corporation antiGoogle; 3) altre associazioni di autori ed editori e altre case editrici, soprattutto straniere, che considerano i propri diritti danneggiati da un accordo nel quale non sono parti in causa; infine, come vedremo fra breve, 4) istituzioni pubbliche (anche statunitensi) e governi esteri, preoccupati dalla definizione attraverso accordi privati di temi legati a interessi pubblici prevalenti, come quello alla libera circolazione della conoscenza, e dal rischio di creazione di posizioni dominanti o monopolistiche. Se qualcuno fra i lettori di questo libro è un appassionato di legal thriller, la lettura anche solo di una piccola parte dell’immensa documentazione depositata presso la corte statunitense incaricata di esaminare il caso15 basterà a soddisfarlo per mesi e mesi. Lettere e memorandum fortemente contrari rispetto alla proposta di accordo vengono innanzitutto dagli Stati Uniti, compreso il Department of Justice, che osserva come [...] la proposta di accordo – e particolarmente gli accordi commerciali proiettati sul futuro che essa si propone di creare – suscitano significative preoccupazioni legali. Fattore discriminante è che il problema 188

principale che la proposta di accordo si propone di superare – l’inaccessibilità di molte opere a causa della scarsa chiarezza sui detentori del copyright e sullo status del copyright – è questione di pertinenza pubblica e non meramente privata. Una gestione globale dei diritti su milioni di opere sotto copyright è il genere di cambiamento di politiche che viene tipicamente implementato attraverso la legislazione, non attraverso un accordo giudiziario privato16.

Fra i punti più controversi dell’accordo è il meccanismo proposto per la gestione delle opere orfane. Tali opere – rispetto alle quali erano state in passato portate avanti numerose iniziative, anche legislative, tendenti all’adozione di politiche liberali di gestione dei diritti17 – risulterebbero invece fortemente ‘chiuse’ sulla base dell’accordo, che prevede un accesso per lo più a pagamento (attraverso licenze istituzionali, individuali o – nel solo ambito bibliotecario – di accesso pubblico). Il rischio è evidentemente quello – direttamente richiamato proprio dal memorandum del Department of Justice già citato – di offrire a Google una sorta di monopolio di fatto sulla loro gestione, dal momento che per altri operatori diventerebbe assai oneroso e complesso costituire collezioni alternative di contenuti e negoziarne indipendentemente le condizioni di distribuzione. Significativa al riguardo è la dichiarazione di Brewster Kahle, co-fondatore dell’Internet Archive e della Open Content Alliance e fra gli oppositori più decisi all’iniziativa di Google, che esprime in maniera assai decisa le proprie perplessità: L’accordo è stato visto come una soluzione alla questione delle opere orfane, il che ha indebolito gli sforzi per approvare una legislazione al riguardo. Se Google abbandonasse il tentativo di appropriarsi di queste opere per il suo proprio guadagno privato, allora le aziende tecnologiche e le biblioteche potrebbero parlare con una voce più forte, muovendosi di comune accordo e lavorando insieme per ottenere l’approvazione di una legislazione adeguata. [...] Liberiamo le opere orfane, non facciamole passare dal loro limbo legale a una vita controllata da Google e dal suo Books Rights Registry18.

Per rendersi conto dell’importanza della questione delle opere orfane, va considerato che la grande maggioranza dei libri pubblicati nel corso del secolo scorso è composta da opere o sotto 189

copyright o orfane: dei sette milioni di libri che Google dichiara di aver digitalizzato al novembre 200819, circa un milione è composto da opere di pubblico dominio, circa un milione da opere in commercio, e circa cinque milioni sono orfane o sotto copyright ma fuori commercio20. Non meno controversa è la questione dell’applicabilità dell’accordo al di fuori degli Stati Uniti: non a caso, nella documentazione depositata troviamo lettere e memorandum di numerosissimi editori europei (compresa l’Associazione Italiana Editori) e quelli – evidentemente concordati nei contenuti – dei governi di Francia e Germania. Può essere utile, anche solo per curiosità, citare per esteso qualche passo del memorandum presentato – ovviamente in stretto linguaggio legale – dal governo tedesco: La Repubblica Federale Tedesca (“Germania”) sottopone con questo atto un Memorandum legale per far presente alla Corte il significativo e sfavorevole impatto che l’accordo proposto avrebbe su autori, editori e biblioteche digitali tedesche in particolare, e più in generale su autori, editori e biblioteche digitali dell’Unione Europea (“EU”) e di altri paesi al di fuori dagli Stati Uniti (“U.S.”). Anche se questo atto è specificamente diretto alla salvaguardia degli interessi dell’amicus curiae, si ritiene che molte delle questioni viste con preoccupazione dagli autori, dagli editori e dalle biblioteche digitali tedesche siano analogamente preoccupanti per autori, editori e biblioteche digitali negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Le 134 pagine dell’accordo proposto (allegati esclusi) delineano quel che si sostiene essere un sistema organico di gestione dei diritti nell’era digitale. Questo sistema, tuttavia, non è stato approvato da alcun corpo legislativo o associazione industriale, mentre dovrebbe tener conto, senza essere influenzato da profitti o vantaggi commerciali, delle tendenze e delle linee di sviluppo interne e internazionali nell’industria editoriale e nella legislazione sul copyright. Al contrario, l’accordo proposto è un documento di negoziazione privata elaborato in segreto e a porte chiuse fra tre parti interessate: la Authors Guild, l’Association of American Publishers e Google, Inc. (“Google”), con il risultato di produrre un documento guidato da interessi commerciali e contrario a trattati e legislazione internazionale vigente. Tali norme includono in particolare il più antico e venerabile trattato multilaterale di protezione del copyright esistente al mondo, la Convenzione di Berna (“Berne”), così come il più recente World Copyright Treaty (il “WCT”), che si propone di regolare le relazioni internazionali relative al copyright nell’era 190

digitale. L’accordo è anche in contrasto con la legislazione nazionale tedesca in materia, così come con le iniziative pubbliche europee per creare biblioteche digitali internazionali e non commerciali21.

Un testo, come si vede, assai esplicito, e il lettore erudito potrà leggere con curiosità anche il seguito del documento22, che per riaffermare il legittimo interesse del governo tedesco nella vicenda non manca di ricordare con enfasi il contributo tedesco alla cultura letteraria mondiale, il ruolo di Gutenberg come inventore della stampa, l’importanza storica delle fiere librarie tedesche. Largamente analogo (compresi i riferimenti culturali, che in questo caso spaziano da Pascal a Descartes, da Voltaire a Diderot, da Molière a Racine, da Baudelaire a Sartre) è il documento francese, il cui incipit è identico a quello tedesco ma che prosegue sottolineando con particolare chiarezza il tema della salvaguardia della diversità culturale e linguistica europea: Particolarmente preoccupante per il Governo Francese è la minaccia che l’accordo proposto rappresenta per la salvaguardia della diversità culturale. Ponendo nelle mani di una singola entità privata un potere così concentrato e privo di controllo sul processo di digitalizzazione e di distribuzione pubblica dell’enorme ricchezza di opere letterarie create dal 1923 fino al 5 gennaio 2009, l’accordo trasforma Google nel custode della pubblica conoscenza in una forma che presumibilmente porterà a indebolire la ricca varietà di voci che potevano essere ascoltate e apprezzate in Francia e in altri paesi23.

Fra gli altri temi controversi è la gestione delle stesse opere di pubblico dominio, che vengono messe a disposizione da Google in versioni disciplinate da licenze comunque non completamente aperte e, nel caso dei file PDF, accompagnate da una ‘filigrana digitale’ (digital watermarking) per identificarne l’origine. Infine, controversa è anche la previsione di alcune limitazioni all’accesso e all’uso dei testi da parte delle biblioteche partner del progetto, per le quali era invece inizialmente prevista la piena disponibilità di una copia dei file di tutti i libri digitalizzati in collaborazione con Google. Per questi motivi, e per le considerazioni già ricordate legate alle modalità di gestione delle opere orfane, la biblioteca dell’Università di Harvard, che era stata fra i primi 191

partner di Google, ha minacciato recentemente di abbandonare l’iniziativa. E si tratta di una presa di posizione tanto più importante in quanto viene da una delle figure di riferimento nella discussione su storia e natura del libro e sul suo futuro nell’era digitale24, il più volte citato Robert Darnton, che proprio della prestigiosa biblioteca di Harvard ha assunto nel 2007 (e dunque dopo l’avvio del progetto) la direzione. Il futuro della causa legale, e della proposta di accordo, è a questo punto tutt’altro che chiaro. Molto probabilmente, nel momento in cui leggerete queste pagine la situazione sarà già almeno in parte cambiata. Il 13 novembre 2009 è stato infatti presentato dalle parti al tribunale un accordo di patteggiamento modificato, che prevede alcuni cambiamenti di un qualche interesse; fra gli altri, l’allargamento delle licenze per l’accesso pubblico al database di opere orfane nel contesto bibliotecario (la prima proposta prevedeva che l’accesso pubblico potesse avvenire in una sola postazione per biblioteca, indipendentemente dalle dimensioni della biblioteca stessa) e una maggiore apertura, almeno sul piano formale, a iniziative di digitalizzazione alternative a quella di Google. Ma il cambiamento dal nostro punto di vista più significativo (e sul quale torneremo fra breve) è l’accordo per eliminare dalla transazione i libri pubblicati o registrati fuori dagli Stati Uniti, dal Canada, dal Regno Unito o dall’Australia. Queste modifiche lasciano tuttavia sostanzialmente inalterato l’impianto generale dell’accordo, e non interrompono il procedimento legale: il tribunale ha accettato la presentazione dell’accordo modificato, ha raccolto un secondo giro di proposte e obiezioni, e il 18 febbraio 2010 ha ascoltato in seduta pubblica alcune delle parti interessate, compreso il Department of Justice statunitense, secondo il quale, pur se sono stati fatti alcuni progressi, anche la seconda versione dell’accordo lascia aperte questioni sostanziali. Il giudice ha a questo punto preferito prendere tempo prima di decidere, e all’inizio di marzo la situazione sembrava ancora in stallo. Nel frattempo, però, molti fra gli autori più in vista del mercato editoriale anglofono (circa 6.500, secondo quanto riportato da diversi organi di stampa) hanno deciso di esercitare il diritto di fuoriuscita dall’accordo, rifiutando – per quanto di loro competenza – le condizioni di Google: fra gli altri, è stata questa la scelta di autori del calibro di Thomas Pynchon, Jeffrey Archer, 192

Michael Chabon, Philip Pullman, Ursula Le Guin. Affidare le mie opere a Google, ha sostenuto la scrittrice Marika Cobbold, “sarebbe come affidare i miei figli a una babysitter che non ho mai incontrato”25. Preoccupazioni eccessive, che rischiano di rendere meno ricco e completo un progetto comunque destinato a rendere accessibile gran parte del nostro patrimonio librario, o obiezioni legittime al prefigurarsi di un monopolio troppo potente? Difficile dirlo. Nel frattempo non è escluso un terzo giro di modifiche all’accordo, di memorie e di obiezioni, e gli avvocati delle parti coinvolte avranno indubbiamente occasione di chiedere e di riscuotere nuove parcelle. La disputa legale (e la disputa culturale) intorno al progetto di digitalizzazione libraria di Google insomma proseguirà, così come nelle decine di biblioteche coinvolte nel progetto proseguirà, parallelamente, il lavoro di scannerizzazione e acquisizione dei testi. In questa situazione, la tentazione di disinteressarsi di una questione che sembra presentare troppi aspetti strettamente giuridico-legali e troppi aspetti strettamente tecnologici per risultare appassionante sotto il profilo culturale può essere comprensibilmente forte. Ma sottovalutare il rilievo culturale di quanto sta succedendo sarebbe un gravissimo errore. Dobbiamo sempre ricordare che dietro i cavilli legali e dietro le astrusità tecnologiche c’è in questo caso un progetto – la creazione di una biblioteca digitale globale, in linea di principio accessibile e ricercabile da parte di chiunque – che ha una portata culturale potenzialmente enorme, tale da far impallidire l’idea della biblioteca di Alessandria e da avvicinarsi piuttosto alla Biblioteca di Babele di borgesiana memoria. Disgraziatamente, fare le mosse giuste in questo contesto è tanto più importante quanto più è difficile individuare quali siano le mosse giuste da fare. 6. Quale ruolo per l’Europa e l’Italia? La già ricordata esclusione dall’accordo – fra gli altri – dei libri editi nell’Europa continentale è intesa evidentemente a rispondere alle proteste che come abbiamo visto erano state avanzate da editori e governi del vecchio continente, ma il risultato concreto 193

rischia di rivelarsi un boomerang proprio per chi rivendicava l’esigenza di una maggiore apertura del progetto di Google verso lingue diverse dall’inglese e verso la tradizione culturale europea. Sostanzialmente, Google risponde a queste critiche rinunciando per il momento a rendere accessibili in maniera integrale opere orfane provenienti dal mondo non anglofono, e rilanciando la palla ai suoi critici. Critici che – occorre dirlo con chiarezza – non si sono rivelati per ora capaci di avviare o di portare avanti con efficacia iniziative altrettanto ambiziose o comprensive. Europeana (http://www.europeana.eu/), che intende proporsi come il deposito digitale di riferimento per la cultura europea, aspetta una normativa europea comune per le opere orfane, che dovrebbe sfruttare il già ricordato registro europeo ARROW, ma che al momento non sembra dietro l’angolo. Ed è nel frattempo limitata all’aggregazione di contenuti di pubblico dominio prodotti da progetti nazionali assai diversi fra loro e comunque ancora lontani dall’essere pienamente rappresentativi della ricchezza culturale del vecchio continente, caratterizzati per di più da enormi differenze (quantitative e qualitative) nel procedere dei rispettivi piani di digitalizzazione. La digitalizzazione è infatti a carico delle singole istituzioni partecipanti, e non tutti i governi (a cominciare dal nostro) sembrano rendersi conto dell’importanza di stanziare a questo fine finanziamenti adeguati. Capita perfino che le digitalizzazioni di opere di pubblico dominio non siano rese accessibili perché gli oggetti digitali che ne risultano vengono considerati coperti da copyright da parte delle istituzioni che li hanno prodotti. Per farsi un’idea del problema, basti citare quanto osserva Susanne Bjørner in un recente intervento: Il problema non è solo che occorre aggiungere un numero maggiore di opere. È anche necessaria una partecipazione più equilibrata fra tutte le biblioteche partecipanti, e deve essere aumentato il contenuto in lingua originale. A luglio [2009], la situazione vedeva la Francia ancora come il maggior fornitore di contenuti per Europeana, con una quota del 47%, anche se la cifra è in calo rispetto al 52% che la Francia deteneva all’avvio del progetto. La Germania segue con il 15%, l’Olanda e il Regno Unito hanno contribuito ciascuno con l’8% dei contenuti, la Svezia, la Finlandia e la Norvegia (che non è neanche membro dell’U.E.) sono al 4-5%, e gli altri paesi sono assai più 194

indietro, con quote dell’1% o meno. Un problema ancor più notevole per molti utenti – e un problema imbarazzante dato che Europeana si vanta di offrire un’interfaccia nelle lingue di tutti i suoi membri – è nel fatto che molti tesori nazionali non sono presenti nella loro lingua originale. Facendo una ricerca con chiave ‘Leonardo da Vinci’, ad esempio, si troveranno 460 oggetti in francese ma solo 140 in italiano. Shakespeare è presente con 606 oggetti in francese e solo 317 in inglese. Lo scrittore spagnolo Cervantes ha 176 oggetti in francese e solo 43 in spagnolo. E si potrebbe pensare che l’autore danese Hans Christian Andersen fosse in realtà tedesco, con 387 oggetti in tedesco e solo uno in danese!26

In questo contesto, le dichiarazioni rilasciate a fine agosto 2009 da Viviane Reding, Commissario europeo per la società dell’informazione e i media, che hanno suscitato scandalo per l’apertura a Google proprio nel momento in cui almeno parte del vecchio continente sembrava fieramente avversarne l’iniziativa, sono in realtà comprensibili e tutt’altro che peregrine: La Commissione assume il punto di vista per cui la digitalizzazione dei prodotti culturali, inclusi i libri, rappresenta un compito erculeo che richiede una stretta cooperazione fra i detentori dei diritti e le società legate al mondo dei nuovi media, così come fra il settore pubblico e quello privato. La Commissione difende dunque un approccio aperto a iniziative provenienti dal settore privato e all’innovazione tecnologica. Risposte ideologiche non rappresentano certo il metodo migliore per stimolare l’innovazione, la creatività e la realizzazione di offerte di contenuti digitali orientate ai consumatori. [...] I soli progetti commerciali non possono certo coprire la dimensione di interesse pubblico propria dei prodotti culturali. [...] Tuttavia, la Commissione guarda con interesse alle nuove soluzioni allo studio fra Google e i detentori dei diritti negli Stati Uniti, per rendere le opere orfane (opere sotto copyright per le quali l’autore non può essere identificato) accessibili a un vasto pubblico. Trovare soluzioni alla questione delle opere orfane è una componente assai importante dell’obiettivo comunitario di preservare le opere culturali. La Commissione raccomanda quindi che tutti gli agenti interessati al problema in Europa considerino assai da vicino la discussione in corso negli Stati Uniti, per vedere come le esperienze fatte in quel paese possano essere utilizzate al meglio per trovare anche una soluzione europea alla questione delle opere orfane27. 195

In questo quadro, la decisione presa dai ministri della cultura dell’Unione Europea, riuniti a Brussels il 27 novembre 2009, di creare “un progetto comune di digitalizzazione libraria, partendo dalla formazione di un comitato che lavori a delineare il piano di lavoro”28, rappresenta certo una nobile dichiarazione di intenti, ma appare difficilmente realizzabile (e pericolosamente vicina a tante altre dichiarazioni di intenti fatte in passato, che non hanno quasi mai portato ai risultati concreti auspicati) senza una qualche forma di accordo che includa partner in grado di portare avanti concretamente – e in tempi ragionevoli – il lavoro. Se si tengono presenti le considerazioni fin qui svolte, si capirà perché la notizia della partnership avviata fra Google e il nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali per la digitalizzazione di circa un milione di opere fuori diritti conservate nelle Biblioteche nazionali di Roma e Firenze rappresenti comunque a mio avviso, e pur con tutte le cautele del caso, uno sviluppo positivo. Il progetto, annunciato nel marzo 2010 e denominato @Libris29, costituisce indubbiamente una novità nel rapporto – come abbiamo visto tutt’altro che facile – fra Google Books e il vecchio continente. In base all’accordo, Google fornirà inoltre alle due biblioteche le copie digitali di ciascun libro parte del progetto, così che possano a loro volta renderli disponibili anche su piattaforme diverse da Google Books, quali, ad esempio, quella del progetto Europeana. L’accordo tra MiBAC e Google prevede la digitalizzazione e messa in rete di circa un milione di volumi, 285 mila dei quali sono stati già metadatati e catalogati dal Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN). Nei prossimi due anni si completerà la catalogazione dei volumi scelti, che saranno digitalizzati da Google e successivamente messi online. Il costo della digitalizzazione invece sarà a carico di Google, che si occuperà anche di allestire uno scanning center in Italia30.

Ma perché questo sviluppo sia realmente positivo occorre siano affrontate in maniera esplicita, e attraverso soluzioni sottoposte apertamente al vaglio della comunità degli studiosi, alcune questioni importanti, fra le quali quelle della qualità e uniformità dei metadati e della qualità della scannerizzazione e – soprattutto – dell’acquisizione e validazione del corrispondente testo elettronico (che su opere non recenti come sono nella maggior parte dei 196

casi quelle fuori diritti non può essere ottenuto attraverso l’uso dei soli programmi OCR) e della sua marcatura. Per inquadrare correttamente anche queste tematiche è tuttavia necessario allargare il discorso alla considerazione di alcuni altri fattori di questa complessa equazione: fattori che l’asprezza della disputa legale può portare a sottovalutare, e che invece è sicuramente opportuno tenere ben presenti. 7. Google e la concorrenza Un primo fattore importante è rappresentato dai risultati fin qui ottenuti complessivamente dal progetto Google Books. Abbiamo già ricordato che nel dicembre 2008 Google dichiarava il completamento della digitalizzazione di circa sette milioni di libri, e che a fine 2009 questo numero è arrivato a superare i dieci milioni (tra i due e i quattro milioni dei quali sono rappresentati da libri europei31). Si tratta di un risultato sicuramente notevole, che mostra sia l’enorme impegno dell’azienda di Mountain View in un progetto nel quale evidentemente crede molto (e molto ha investito), sia la rapidità con la quale – disponendo di fondi adeguati e di volontà politica adeguata – la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale potrebbe procedere. Si può affermare senza timore di smentita che, nonostante le controversie che abbiamo appena esaminato, e nonostante i numerosi limiti e le numerose imperfezioni anche tecniche del lavoro portato avanti da Google, su cui torneremo fra breve, un’azienda privata è riuscita ad avviare un progetto che nessuna istituzione pubblica di alcun paese al mondo ha avuto (purtroppo) la forza, le risorse e la capacità di affrontare in maniera altrettanto determinata ed efficace. Rispetto alle dimensioni del lavoro avviato da Google, i progetti nazionali e istituzionali di digitalizzazione bibliotecaria – pur se di norma assai più validi dal punto di vista scientifico – hanno dimensioni e numeri quasi amatoriali32. Mentre Google estrae già petrolio – pur se non raffinato e di qualità spesso decisamente scadente – i suoi concorrenti istituzionali sono impegnati in carotaggi esplorativi, certo più sofisticati ma al momento assai meno redditizi in termini di risorse informative effettivamente acquisite e messe a disposizione del pubblico. Fra i concorrenti di Google, un ruolo particolare – ma co197

munque caratterizzato da una minore capacità di produrre risultati tangibili, nonostante le dimensioni di alcuni dei partner privati inizialmente coinvolti – ha l’Open Content Alliance. Riassumiamone brevemente la storia, che come vedremo chiama in causa il principale concorrente di Google, Microsoft. Mentre attorno al progetto di Google si sviluppavano le prime polemiche, Microsoft aveva infatti avviato un progetto rivale, denominato ‘Live Search Books’. Si trattava di un’iniziativa esplicitamente anti-Google, che rifiutava le posizioni dell’azienda di Mountain View in materia di fair use, rifiutava la digitalizzazione libraria basata su politiche opt-out (richiedendo invece l’esplicita adesione delle case editrici interessate), e si concentrava in primo luogo – almeno inizialmente – sulla digitalizzazione di opere di pubblico dominio. È difficile pensare che le scelte di Microsoft fossero in questo caso legate all’adesione convinta verso politiche di accesso aperto (che l’azienda di Redmond contrastava in molti altri settori): si trattava piuttosto dell’esigenza, più che comprensibile dal punto di vista delle logiche di mercato, di attaccare i punti deboli di un’iniziativa rivale, della quale Microsoft avvertiva il potenziale rilievo, ma che era stata avviata e gestita da parte del suo più pericoloso concorrente commerciale. In questa situazione, Microsoft agiva innanzitutto per catalizzare consenso e sottrarlo al progetto di Google, stringendo un’alleanza (che non poteva non far sollevare qualche sopracciglio) con associazioni del calibro dell’Internet Archive, paladine della diffusione aperta dei contenuti, e contribuendo – insieme a Yahoo! e ad altri partner pubblici e privati – alla costituzione nell’ottobre 2005 dell’Open Content Alliance. Iniziativa, questa, vista inizialmente con grande favore anche in Europa: la British Library aveva aderito al progetto, e attenzione era stata manifestata dalla Bibliothèque Nationale de France, all’epoca presieduta da JeanNoël Jeanneney, uno dei più attivi oppositori di Google Book Search e dell’idea di una singola ‘biblioteca universale’, al cui interno Jeanneney temeva il prevalere di logiche commerciali e il predominio della produzione culturale anglofona33. L’avvio del progetto aveva lasciato ben sperare: la sola Microsoft aveva contribuito alla digitalizzazione di circa 750.000 opere, con una qualità media talvolta – ma non sempre34 – maggiore di quella garantita da Google. Ma nello stesso periodo, come abbia198

mo visto, Google Book Search aveva digitalizzato diversi milioni di volumi. E Microsoft si era nel frattempo accorta che, almeno dal punto di vista strettamente commerciale, concentrarsi sulle opere fuori diritti non portava lontano: ai fini delle necessità della maggior parte degli utenti e dello sfruttamento nell’ambito di un motore di ricerca, una volta acquisite alcune decine di migliaia di ‘classici’ maggiori e minori, i testi pubblicati prima del ’900 – pur preziosi per gli studiosi – avevano un interesse assai più limitato di quelli pubblicati nel corso del secolo scorso e di quelli in commercio. Come abbiamo ricordato, oltre l’80% dei libri digitalizzati da Google è costituito da opere orfane o sotto diritti, e proprio queste opere costituiscono il principale vantaggio competitivo del progetto avviato dall’azienda di Mountain View. Così nel maggio 2008, dopo un tentativo tardivo di includere anche testi sotto diritti avviato l’anno precedente, Microsoft decide un clamoroso ripensamento, e abbandona il proprio progetto. Nel farlo, lascia in eredità all’Open Content Aliance – che rimane attiva – una ricca dote di volumi, ora accessibili attraverso la Open Library (http://openlibrary.org/) e integrati con altre opere acquisite nell’ambito dell’iniziativa (e con i soli dati bibliografici di quasi 23 milioni di altri libri). Ma lascia anche un’eredità di recriminazioni e problemi per le biblioteche che si erano ‘fidate’ del progetto e che si sono ritrovate improvvisamente prive di quello che ne doveva essere il principale partner privato (e il principale finanziatore). Una situazione, come è facile capire, che ha forse sottratto inizialmente a Google alcuni potenziali partner nel mondo bibliotecario, ma che ne ha alla lunga confermato il ruolo di punto di riferimento più affidabile – e di fatto al momento unico – per la digitalizzazione libraria su grande scala. 8. La questione dei formati e della qualità La battaglia legale attorno al settlement agreement e l’enorme attenzione che si è – a ragione – concentrata sulle vicende legali del progetto Google, hanno lasciato decisamente troppo in ombra gli aspetti che rappresentano, dal punto di vista scientifico e teorico, il cuore di ogni iniziativa di digitalizzazione libraria, e che dovrebbero essere comunque considerati anche dai progetti di digi199

talizzazione di massa come Google Books: le scelte operate in sede di rappresentazione del testo, i formati utilizzati per la sua codifica, la qualità e affidabilità del lavoro svolto. Ogni digitalizzazione parte da una specifica forma del testo – quella costituita dalla particolare edizione a stampa considerata – e porta a una forma testuale diversa ma altrettanto specifica, quella dell’oggetto digitale che viene prodotto. In questo passaggio, come abbiamo visto nella lezione precedente, vengono operate scelte ben precise rispetto alla rappresentazione dei fenomeni testuali. Alcuni di questi fenomeni vengono rappresentati, attraverso il ricorso a specifiche marcature del testo, altri possono non esserlo. E in relazione a queste scelte il documento elettronico risultante dal processo di digitalizzazione può avere caratteristiche diverse, anche molto diverse. Al livello più basso, può trattarsi solo di una sorta di ‘fotocopia digitale’ dell’originale, in cui il testo non è ricercabile perché all’immagine digitalizzata non è mai stato associato il corrispondente testo elettronico. Possiamo poi integrare – e si tratta della scelta per molti versi preferibile – l’immagine del testo a stampa con un testo elettronico prodotto attraverso un procedimento di riconoscimento ottico dei caratteri, e auspicabilmente corretto attraverso una revisione manuale (gli OCR – soprattutto se applicati a edizioni non recenti – producono di norma testi assai scorretti). Possiamo infine abbandonare ogni pretesa di conservare una immagine della forma originale a stampa del documento ed affidarci alla sola rappresentazione digitale del testo, offrendone una nuova impaginazione o consentendone la reimpaginazione dinamica in funzione del dispositivo di lettura utilizzato. In tutti questi casi, vanno prese decisioni che incidono in maniera essenziale sulla qualità del lavoro: per fare solo qualche esempio, il formato dell’immagine, la sua risoluzione, la scelta di lavorare su immagini a colori o in scala di grigi (e l’ampiezza della tavolozza di colori o di grigi utilizzata), l’insieme di metadati (cioè di informazioni descrittive e gestionali) associata alle immagini e al testo elettronico, e così via. Se si utilizza un programma OCR, bisogna decidere quale programma utilizzare, e capire, ad esempio, se e in che misura è in grado di gestire testi in più lingue (ad esempio, testi in una lingua che contengano brani o citazioni in lingue diverse): un OCR pensato per l’italiano produrrà spesso 200

risultati disastrosi davanti a una breve citazione latina. E il testo risultante dal processo di digitalizzazione potrà essere o no marcato, e – come ormai sappiamo – essere marcato utilizzando insiemi di marcatori diversi: dall’insieme curato e validato rappresentato dai marcatori TEI35 ai marcatori ePub, più adatti per la produzione di e-book ma meno adatti a una rappresentazione filologicamente accurata del testo, a insiemi di marcatori assai più ridotti, o addirittura fuori standard. Su tutti questi aspetti, vitali per l’affidabilità scientifica del lavoro di digitalizzazione, il progetto Google dichiara pochissimo, e il poco che dichiara – o che è ricavabile dal lavoro svolto o dalle indicazioni fornite da chi vi ha partecipato – non sempre è soddisfacente. Ovviamente Google non si accontenta della digitalizzazione delle immagini (né potrebbe farlo, dato che come abbiamo visto il suo obiettivo principale è rendere ricercabili i testi), ma il tipo di formato e di marcatura del testo associato all’immagine della pagina restano poco chiari. Si tratta presumibilmente di una marcatura XML imparentata con ePub, dato che – grazie anche a una collaborazione con Sony, che come sappiamo produce dispositivi di lettura dedicati e compatibili con il formato aperto ePub – Google Book Search offre da qualche mese la possibilità di scaricare circa un milione di testi di pubblico dominio, oltre che in formato PDF, anche in formato ePub. Questo è un fattore positivo, ma l’assenza di informazioni attorno alla specifica marcatura utilizzata (e ai relativi metadati) non lo è36. Apparentemente, comunque, il sistema usato produce la marcatura in maniera automatica, partendo direttamente dall’immagine del testo e cercando di riconoscervi le componenti strutturali37: un compito che con testi meno recenti diventa, come è facile capire, assai improbo. Presumibilmente, l’assenza di informazioni è in questo caso legata anche al carattere di ‘work in progress’ proprio dell’iniziativa di Google. È auspicabile che questo lavoro possa avvenire attraverso l’adozione di formati di codifica aperti e documentati e di insiemi standard di metadati, scelti in collaborazione con il mondo della ricerca. Le biblioteche partner dovrebbero prestare un’attenzione assai maggiore a questo aspetto del progetto, e condizionare la loro collaborazione all’adozione di standard e politiche trasparenti al riguardo. Scelte che, del resto, sono nel miglior interesse della stessa Google, e solo grazie alle quali sarà possibi201

le utilizzare le basi dati testuali che verranno a costituirsi attraverso il lavoro di digitalizzazione non solo per ricerche occasionali (e con poche garanzie sulla completa affidabilità dei risultati) ma anche per forme di data mining e di analisi testuali complesse38. È auspicabile che anche la già ricordata collaborazione avviata fra Google e il nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali tenga presente questa necessità. A questo aspetto è legato anche il miglioramento della qualità del lavoro di scannerizzazione e di restituzione del testo elettronico. Al momento, in molti casi sembra che il prodotto dell’applicazione di un OCR alle immagini scannerizzate sia poco o per nulla controllato da operatori umani competenti39, e che i metadati siano spesso estratti in automatico dal sistema sulla base del lavoro di parser e algoritmi evidentemente ancora largamente imperfetti. Il risultato è quello che Geoffrey Nunberg, uno dei maggiori esperti del mondo dei libri elettronici, definisce enfaticamente ma correttamente “un disastro per gli studiosi”, osservando che “i metadati di ricerca sono un incubo: un pasticcio caotico avvolto nella confusione”40 e riportando una lista impressionante di errori di ogni genere, spesso evidenti, talvolta elusivi, non di rado sistematici, e in alcuni casi ai limiti del comico. Per fare solo un esempio, fino a qualche mese fa Google Book Search attribuiva a Sigmund Freud impressionanti capacità profetiche, registrandolo come autore di una guida alla navigazione su Internet pubblicata nel... 1939! Le conclusioni di Nunberg mi sembrano interamente condivisibili, e perfettamente compatibili con le considerazioni proposte all’inizio di questo articolo: più che a una politica volontariamente trascurata o disattenta, questi problemi sono legati al fatto che il progetto è figlio del carattere ‘onnivoro’ di Google come motore di ricerca. Ho la sensazione che molti dei problemi iniziali siano legati al muoversi un po’ nervoso e disordinato di Google nel cercare di dominare un settore che si è rivelato assai più complesso di quanto l’azienda pensasse all’inizio. È chiaro che Google ha progettato il sistema senza preoccuparsi troppo dell’acquisizione di metadati attendibili. In effetti, il principale risultato conseguito da Google come servizio di ricerca in rete è stato dimostrare come fosse facile reperire informazioni uti202

li senza la necessità di metadati o di sistemi di classificazione come quelli sui quali si era inizialmente basato Yahoo!. Ma i libri non sono semplici veicoli per comunicare informazione, e gestire una vasta collezione bibliotecaria richiede competenze diverse, un diverso approccio e dati diversi rispetto a quelli che hanno permesso a Google di dominare la ricerca su web41.

È non solo auspicabile ma necessario che questi errori vengano corretti attraverso un lavoro sistematico di revisione e attraverso il miglioramento degli algoritmi utilizzati: le biblioteche che partecipano al progetto possono lavorare nella prima direzione, mentre Google – che del progressivo perfezionamento degli algoritmi utilizzati ha fatto la propria arma vincente – dovrebbe dedicare un’attenzione assai maggiore alla seconda. 9. Uno sguardo al futuro (e al problema della conservazione) Come si vede, la situazione è estremamente complessa ed è difficile adottare al riguardo posizioni manichee. Google non è il diavolo: al momento, soprattutto se sarà possibile intervenire sui (gravi) problemi di qualità della scannerizzazione e dei metadati che abbiamo appena ricordato, e se vi sarà una maggiore apertura e una più attenta discussione sui formati di codifica utilizzati, è il partner probabilmente più efficiente per progetti di digitalizzazione libraria su larga scala. Ma è comunque un’azienda privata con obiettivi e priorità che non coincidono necessariamente con quelle di una biblioteca o di una istituzione culturale. E alcuni aspetti del settlement agreement suscitano indubbiamente, anche nella sua versione modificata, più di una perplessità; va comunque detto che le perplessità manifestate dagli editori internazionali sono assai diverse, e talvolta di segno opposto, rispetto a quelle manifestate da chi vorrebbe una maggiore apertura nella gestione delle opere orfane. In generale, quel che ci insegna l’esperienza di questi anni è che la digitalizzazione libraria è un’impresa costosa, complessa, per molti versi controversa, ma preziosa e necessaria: portare in rete il nostro patrimonio librario vuol dire garantirne vitalità e fruizione anche nell’era del digitale, allargarne la reperibilità, ren203

derlo (per la prima volta) pienamente integrato e ricercabile. E questo – come abbiamo visto – anche in vista della disponibilità di dispositivi di lettura in ambiente elettronico che cominciano lentamente ad avvicinarsi alle caratteristiche di ‘perfezione ergonomica’ proprie del libro a stampa. Si tratta dunque di una scelta corretta sia dal punto di vista culturale sia da quello economico, anche se assai impegnativa su entrambi i fronti. Ma è un’impresa che comporta inevitabilmente un work in progress, un lavoro continuo, nel quale le stesse opere saranno probabilmente digitalizzate più volte, anche da soggetti diversi e con criteri diversi (ed è importante che le clausole di qualunque accordo stipulato al riguardo prevedano questa possibilità). Un’impresa alla quale contribuiranno soggetti pubblici e privati, che dovranno imparare non solo a convivere ma a collaborare. In questo lavoro, Google ha e continuerà ad avere nei prossimi anni sicuramente un ruolo importante, ma ha bisogno di partner che non si limitino a porgergli libri da digitalizzare o a chiedergli soldi e attrezzature: ha bisogno di partner che lo sappiano incalzare e che ne sappiano orientare opportunamente le scelte. Non solo le scelte giuridiche, ma anche quelle tecniche e culturali. Così come scelte importanti dovranno fare i governi, e in primo luogo i governi europei: scelte non di arroccamento, ma di adozione di standard e politiche condivise. La rete può permettersi di avere una pluralità di biblioteche digitali frutto di progetti diversi, ma solo se si tratterà di iniziative pienamente interoperabili e condotte con criteri di sostenibilità economica di lungo periodo. Per raggiungere questi obiettivi, l’apertura alla collaborazione e l’uso dell’argomentazione razionale sono armi preferibili rispetto alle guerre legali. Vi è inoltre un’altra dimensione, essenziale, da considerare: quella della conservazione. Per un verso, la digitalizzazione può aiutare nella conservazione degli originali cartacei di opere del passato, riducendo la necessità di manipolarli e i rischi di danneggiarli (ma attenzione, gli originali vanno comunque attentamente preservati, per molti e ottimi motivi: il mondo digitale è ancora troppo giovane per offrire garanzie assolute di conservazione di lungo periodo, dipende da tecnologie complesse che potrebbero venire a mancare in situazioni impreviste, e ogni digitalizzazione, come abbiamo visto, offre sempre e comunque solo 204

una particolare ‘vista’ sul documento originale, documento che può sempre rivelarsi necessario studiare o considerare sotto un diverso punto di vista). Per un altro verso, però, viene a porsi il problema della conservazione degli stessi file digitali, e della loro disponibilità di lungo periodo. A richiedere attenzione, in questo caso, sono almeno due fattori. In primo luogo l’obsolescenza dei supporti, legata sia all’uso di materiali e leghe spesso recentissime, che non sempre offrono garanzie adeguate di durata nel tempo (un esempio tipico è rappresentato dai primi CD-ROM, che a solo una decina di anni di distanza dalla produzione risultavano spesso illeggibili), sia alle caratteristiche di miniaturizzazione estrema proprie delle tecnologie informatiche, che fanno sì che anche danni minimi al supporto rendano del tutto illeggibile l’informazione che vi è conservata. In secondo luogo l’obsolescenza delle codifiche e dei formati (cosa fareste se vi trovaste a dover recuperare oggi un testo conservato su un floppy disk da 5 pollici e mezzo e scritto in Word per DOS?). Non si tratta, per fortuna, di problemi in linea di principio insolubili: tecnologie e materiali studiati per la long term preservation, la conservazione di lungo termine di dati in formato digitale, esistono e vengono perfezionati: una delle Rover che hanno raggiunto Marte trasportava ad esempio un DVD – battezzato un po’ enfaticamente ‘First Martian Library’, prima biblioteca marziana – inciso con tecniche speciali e che dovrebbe risultare leggibile per migliaia di anni, con una biblioteca di testi e testimonianze legate all’esplorazione e all’immaginario costruitosi nel tempo sul pianeta rosso. Non è improbabile che i testi di quel DVD possano sopravvivere ai libri su carta della maggior parte delle nostre biblioteche. E la ridondanza creata dalla rete può trasformarsi, se usata in maniera consapevole e accompagnata da politiche accorte di migrazione dei dati, in uno strumento di conservazione potenzialmente efficacissimo. Un settore in cui potrebbe risultare assai utile anche il contributo proprio di aziende come Google, abituate alla gestione di grandi quantità di dati, purché le relative politiche di long term preservation siano scientificamente controllate ed elaborate con la collaborazione e il controllo di enti pubblici. Quanto ai formati, la balcanizzazione di cui abbiamo più vol205

te parlato rappresenta indubbiamente un rischio enorme anche dal punto di vista della conservazione. Mentre i formati basati su XML offrono, per la natura sempre e comunque ‘esplicita’ della marcatura, una garanzia assai maggiore di sopravvivenza e leggibilità nel tempo. Va detto infine che il problema della conservazione non si pone solo a proposito della sopravvivenza e della leggibilità di lungo periodo dei documenti digitali, ma – almeno dal punto di vista degli utenti di oggetti informativi commerciali come e-book, musica, video – anche in una prospettiva assai più immediata. Abbiamo già accennato alle politiche di DRM che consentono a un e-book solo un certo numero di trasferimenti di dispositivo prima di renderlo illeggibile: in questo caso, viene meno l’idea della disponibilità nel tempo del bene informativo acquistato, e dal punto di vista dell’utente l’acquisto si trasforma in una sorta di noleggio, per di più con una scadenza non chiara e difficilmente valutabile in anticipo. E considerazioni analoghe si potrebbero fare, ancora una volta, a proposito della babele di formati proprietari. Esiste una qualche garanzia che un libro acquistato per il Kindle e conservato in rete sui server di Amazon sarà ancora in mio possesso, disponibile e leggibile, fra dieci o venti o quarant’anni? In tutta sincerità, la risposta a questa domanda è al momento negativa: credo che neanche Amazon se la sentirebbe di mettere nero su bianco una garanzia del genere. E si tratta, anche in questo caso, di un problema non da poco per chi è abituato alla concreta, tangibile affidabilità dei libri su carta (o almeno di quelli non stampati su carta acida, che si sono a loro volta spesso sostanzialmente autodistrutti in meno di un secolo). Problemi risolvibili, certo, ma che vanno anch’essi affrontati con chiarezza se si vogliono davvero sfidare i vantaggi – come si vede, forse non solo ergonomici – del libro a stampa.

VI

Quali libri ci aspettano?

1. Volta la pagina, e premi ‘play’ Anthony Zuiker è noto soprattutto per aver creato una serie televisiva assai popolare, C.S.I. Ma a Zuiker si deve anche una sperimentazione assai curiosa: nel settembre 2009 ha infatti pubblicato un libro dal titolo Level 26: Dark Origins, che include, come parte della narrazione, spezzoni di filmato accessibili in rete attraverso codici inseriti all’incirca ogni venti pagine del libro. Ecco come lo stesso Zuiker presenta questo lavoro: Level 26: Dark Origins unisce le migliori caratteristiche del libro, del film e delle tecnologie digitali interattive, integrandole in una esperienza narrativa unica: il primo esempio mondiale di quella che abbiamo chiamato “Digi-Novel™”. Level 26: Dark Origins ha come protagonista Steve Dark, l’investigatore definitivo, sulle tracce di un killer così brutale da indurre le forze dell’ordine a inventare una nuova classificazione del male per poterlo descrivere. Dark Origins può essere letto sulla spiaggia o su un aeroplano senza alcun accesso alla rete... ma dove si ferma la storia tradizionale, è disponibile un livello più profondo di immersione: sul sito www.level26.com, esclusivamente per i lettori del libro. Ogni venti pagine circa, avrete la possibilità di entrare nel sito e di affacciarvi sulla storia attraverso una finestra digitale – un filmato di tre minuti con attori famosi, gli stessi che potreste incontrare in un grande film o in una serie televisiva di successo. Davanti ai vostri occhi, i personaggi 207

prenderanno vita, i dettagli della scena del crimine emergeranno dallo schermo. Il sito web potrebbe persino chiedervi il vostro numero di telefono – un numero al quale il killer potrà raggiungervi direttamente. Potete considerarlo come una versione potenziata di CSI. Level 26 non è solo qualcosa da leggere. È un’esperienza. Leggete, guardate, collegatevi. Buon divertimento!1

La trama del libro non farà certo fare salti di gioia a un appassionato di buone letture, e personalmente ho qualche dubbio sul successo dell’ambiziosa tiratura iniziale di 200.000 copie e dei due sequel già programmati. Ma si tratta di un esempio interessante di una tendenza che sembra ormai emergere con una certa chiarezza: la sperimentazione di una nuova forma-libro, in cui il testo continua a costituire la struttura portante, ma viene integrato attraverso contenuti multimediali. Un altro esempio simile è costituito da Skeleton Creek di Patrick Carman, un intreccio fra mistery e ghost story uscito nel febbraio 2009 e destinato agli adolescenti, i cui due protagonisti, Ryan e Sarah, comunicano utilizzando due registri diversi: un diario scritto nel caso del ragazzo, filmati nel caso di Sarah. Il libro è dunque metà della narrazione (ma ne rappresenta comunque la struttura portante), mentre i filmati – disponibili in rete – ne costituiscono l’altra metà. Anche in questo caso sono previsti dei sequel, il primo dei quali – Ghost in the Machine – è già uscito. Una novità assoluta? Tutt’altro. In realtà, l’idea di affiancare al testo di un libro alcuni contenuti non testuali non è nuova. Le nostre edicole sono piene di ingombranti confezioni che uniscono contenuti testuali e non testuali, a seconda dei casi più o meno collegati fra loro: riviste e dispense accompagnate da CD o DVD, ma anche da modellini vari, circuiti elettrici, componenti da montare, giochi, occhiali per la visione 3D, e quant’altro. E anche nel caso dei libri, l’integrazione di codici comunicativi diversi non è affatto rara. Basti pensare all’ovvio esempio costituito dai libri illustrati, la cui genealogia risale quantomeno ai manoscritti miniati medievali (ma codici e papiri con immagini esistevano anche in precedenza, e non è un caso che buona parte della polemica sull’autenticità del famoso ‘papiro di Artemidoro’ verta proprio sulle immagini). Una storia lunga, dunque, che annovera molteplici esempi di uso non solo illustrativo ma anche narrativo delle immagini: tecnica, que208

sta, che i surrealisti conoscevano benissimo, e di cui è esempio geniale il sorprendente Nadja di Breton. E il peso narrativo delle immagini può in molti casi diventare preponderante, come accade nel caso di fumetti, graphic novel, fotoromanzi. Né mancano libri con allegati video o sonori. Anche in questo caso, il legame narrativo con il contenuto del libro è talvolta tenue, talvolta assai più stretto. Così, ad esempio, Always Coming Home (trad. it. Sempre la valle), un romanzo del 1985 della scrittrice Ursula le Guin, parla di un popolo immaginario – i Kelsh – di cui una cassetta allegata al libro raccoglie musiche e canzoni, alcune delle quali legate a singoli episodi o a singole pagine del libro. In altri casi, il libro può includere veri e propri oggetti (gli steli di Achillea o le monetine utilizzati per la consultazione dell’antico testo divinatorio cinese I Ching fanno in un certo senso parte del libro? In ogni caso, molte edizioni moderne li includono). Per fare solo un esempio, possiamo ricordare i numerosi esperimenti di libri gialli con allegati indizi utili a risolvere il caso (lettere, telegrammi, documenti, ma anche frammenti di stoffa o fiammiferi...): una strada tentata anche recentemente dalla collana italiana per ragazzi Detective alla prova della Vallardi, o – per tornare all’ambito nordamericano – da Personal Effects: Dark Art, di J.C. Hutchins e Jordan Weisman, in cui al libro è allegato un raccoglitore colmo di indizi (la patente di uno dei protagonisti, foto e documenti sparsi, alcuni numeri di telefono da chiamare – ai quali risponderà una segreteria telefonica –, ecc.). E naturalmente fra i libri per bambini troviamo innumerevoli esempi di libri-gioco di ogni genere, capaci di interazione visiva e sonora con i loro piccoli lettori. L’idea che la forma-libro debba prevedere sempre e comunque solo pagine di testo, destinate a una lettura rigorosamente silenziosa e possibilmente priva di stimoli sensoriali esterni, è dunque assai lontana dalla realtà. D’altro canto, il libro stesso nasce in un certo senso come oggetto multimediale, destinato ad essere letto e recitato ad alta voce, accompagnato da un’adeguata gestualità e talvolta anche da musica. In una divertente lettera, Plinio il giovane si dispera con Svetonio per la propria scarsa capacità nel leggere e recitare in pubblico, e si chiede se, facendo leggere un liberto al posto suo, egli debba o no “accompagnarne la lettura con sussurri, sguardi e gesti, come fanno in molti”, temendo di essere altrettanto negato come mimo che come lettore2. E fra i rotoli li209

turgici ve ne erano alcuni composti col testo su una facciata e le immagini sull’altra, in modo che durante la lettura da parte del celebrante i fedeli potessero seguire la narrazione anche attraverso le immagini che a mano a mano si srotolavano: testo, voce e immagini collaboravano in tal modo alla costruzione del senso. Non vi è dubbio però che l’evoluzione dell’editoria digitale e la nascita degli e-book aprano possibilità del tutto nuove all’intreccio fra testualità scritta, comunque tradizionalmente legata alla forma libro, e contenuti multimediali e interattivi. Nelle prossime pagine, cercheremo di esplorarne qualcuna. 2. Un libro per Platone? In un celebre passo del Fedro, Platone attribuisce a Socrate una critica del testo scritto che rappresenta un momento cruciale nella storia del rapporto fra oralità e scrittura, ed è stata oggetto nel tempo di innumerevoli interpretazioni e discussioni. Il Socrate platonico, va notato, non condanna di per sé la scrittura (“in sé, lo scrivere discorsi non è un male”, Fedro 258d) e ne riconosce la capacità di conservare la parola nel tempo. Lamenta però il carattere esteriore della memoria scritta, che rischia di far perdere la capacità di ricordare “dall’interno di sé stessi” (Fedro 275a), producendo solo una sapienza apparente. Gli insegnanti che deplorano la tendenza dei loro studenti a ripetere a pappagallo il libro di testo, senza capirne realmente il contenuto, non avranno difficoltà a comprendere il senso di questo rimprovero platonico. Ma quel che in primo luogo Platone lamenta è il principale limite del testo scritto rispetto alla conversazione orale: l’assenza di interattività. La scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare, quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono, esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Pre210

varicato e offeso oltre ragione, esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può né difendersi né aiutarsi3.

Il concetto espresso è chiaro: il testo scritto è incapace di interagire col lettore. L’interazione la cui assenza è lamentata da Platone è di tre tipi: il testo scritto non sa rispondere alle domande poste per capirne meglio il contenuto, non è in grado di adattarsi alle diverse tipologie di lettori (parla a tutti allo stesso modo), non è capace di ‘reagire’ alle interpretazioni sbagliate. A differenza di un testo scritto, una persona in carne e ossa è in grado evidentemente di fare tutte e tre le cose. L’interattività non va confusa con la multimedialità, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. La multimedialità ha a che fare con l’uso contemporaneo di codici comunicativi diversi – testo, immagini, suoni, video – all’interno di uno stesso oggetto informativo (e sarebbe forse più propriamente caratterizzata dal termine ‘multicodicalità’4); l’interattività ha a che fare con la sua capacità di interagire con l’utente. Possono esserci oggetti informativi che sono multimediali ma non interattivi (ad esempio un libro illustrato), e possono esserci oggetti informativi che sono interattivi ma non multimediali (ad esempio il vecchio televideo RAI). Ma nel mondo digitale, interattività e multimedialità sono spesso compresenti. L’interattività è dunque spesso considerata una delle caratteristiche principali dei nuovi media digitali. È possibile pensare a libri interattivi in grado di rimediare almeno al alcuni dei limiti segnalati da Platone? E che caratteristiche avrebbero, libri di questo tipo? Per affrontare questo problema, è innanzitutto opportuno soffermarsi sull’esatto significato termine ‘interattività’. In cosa differiscono, i media interattivi da quelli non interattivi? Come sappiamo, tutta la nostra esperienza nasce dall’interazione con la realtà. Da questo punto di vista, qualunque oggetto e qualunque fenomeno è per noi ‘interattivo’: nel conoscerlo, interagiamo con esso. A livello di fisica quantistica, il principio di indeterminazione ci dice addirittura che questa interazione non è mai neutrale: l’osservatore e l’oggetto osservato fanno parte di un unico sistema, e alcuni parametri relativi all’oggetto sono influenzati dall’atto di osservazione o di misura. Qualcosa di simile vale per gli atti di comunicazione, anche 211

quando essi si concretizzano in un ‘oggetto comunicativo’ dall’apparenza fissa e immutabile. Da questo punto di vista anche un testo scritto, pur essendo fissato sulla pagina, è in un certo senso interattivo: il libro modifica il lettore, e gli studi nel campo della semiotica e della critica letteraria ci hanno spiegato da tempo che, in un senso tutt’altro che banale, il lettore modifica e addirittura crea il libro che sta leggendo. Non è questo, però, il significato di interattività che aveva in mente Platone. E anche quando parliamo di interattività a proposito dei nuovi media intendiamo probabilmente riferirci a qualcosa di diverso. Ma a cosa, esattamente? Proviamo a proporre una definizione5: un oggetto informativo (ad esempio un programma) si dice interattivo se può partecipare a un processo di comunicazione modificando in maniera esplicita l’informazione emessa, in corrispondenza delle scelte degli altri partecipanti a tale processo. Da questo punto di vista un libro a stampa non è interattivo: come osserva giustamente Platone, il suo testo resta immutabile, indipendentemente dalle caratteristiche del lettore, dalle sue conoscenze, dai suoi interessi, dalle sue eventuali esigenze di chiarimenti o approfondimenti, dalle sue osservazioni o dalle sue critiche. La sola interazione possibile avviene attraverso il supporto del testo: possiamo sottolineare, aggiungere commenti ai margini, oppure – e per un bibliofilo è quasi una profanazione – piegare l’angolo della pagina per tenere il segno o marcare un passaggio importante. Ma in questi casi siamo noi a modificare l’oggetto informativo, che invece, dal canto suo, resta incapace di ‘rispondere’ alla nostra lettura modificando in maniera esplicita l’informazione emessa, come richiedeva la nostra definizione. Il libro condivide questa caratteristica con molti altri media: almeno nel mondo precedente la rivoluzione digitale, un film, una fotografia, un canale televisivo o radiofonico sono altrettanto poco interattivi (a meno che la trasmissione non preveda l’intervento diretto del pubblico, che non a caso avviene attraverso un medium naturalmente interattivo come il telefono). Certo, nel caso della radio o della televisione se un programma non ci piace possiamo cambiare canale: l’apparecchio radiofonico o televisivo – a differenza del singolo canale – ha dunque una sua interattività: è in grado, passando da un canale all’altro, di modificare l’informazione emessa in conseguenza di una nostra scelta6. 212

Nel mondo digitale, l’interattività è molto più diffusa e assai maggiore. Il nostro programma di videoscrittura può modificare in un istante le dimensioni e il tipo di carattere utilizzato in un intero testo, e visualizzarlo in modi diversi (paginato, non paginato...). All’interno di un ambiente di realtà virtuale possiamo muoverci e cambiare punto di vista, e la porzione di ‘mondo’ visualizzata cambierà in maniera corrispondente. Un videogioco reagisce immediatamente ai nostri comandi, e ci consente di fare strage dei suoi abitanti virtuali. In tutti questi casi, le nostre scelte modificano in maniera esplicita l’informazione che riceviamo. A cosa può servire, l’interattività, nel caso di un libro? Possiamo, credo, distinguere due scenari: il particolare tipo di interattività che è legato a un’organizzazione ipertestuale dei contenuti, in cui è possibile decidere un proprio specifico percorso di lettura all’interno di una pluralità di percorsi possibili, e l’aggiunta di singoli elementi interattivi all’interno di un testo fondamentalmente lineare (ad esempio, un box in cui compiere un ‘esperimento virtuale’ all’interno di un testo di fisica). Può essere utile esaminare singolarmente queste due tipologie7. 3. Ipertesti Sulla scrittura ipertestuale esiste una letteratura sconfinata, e una trattazione approfondita dell’argomento richiederebbe un lavoro a parte, anche solo per rendere giustizia alla pluralità delle posizioni e delle interpretazioni possibili8. E tuttavia, stranamente, la discussione su questo tema – vivacissima alla fine degli anni ’90 – sembra oggi languire. Come osserva giustamente Giovanna Cosenza, oggi il dibattito sugli ipertesti si è quasi completamente spento. Eppure non ci sarebbero ragioni per questo, visto che gli ipertesti sono più vivi di prima, sia come tecnologie che come forme comunicative9.

Quali sono le ragioni di questo calo di attenzione? Probabilmente, due fattori hanno avuto un ruolo particolarmente importante al riguardo: da un lato, lo scarso sviluppo che hanno avuto – dopo le prime sperimentazioni – gli ipertesti che più da vicino sembravano sfidare la supremazia della forma-libro tradizionale, e cioè gli ipertesti narrativi e saggistici; dall’altro, paradossalmen213

te, proprio l’ubiquità del web e del suo modello ipertestuale, che può aver contribuito a creare l’illusione che web e ipertesti fossero quasi tutt’uno, e costituissero una realtà ormai acquisita. Quest’ultima opinione è totalmente erronea – il web non è che un modello di ipertesto, e un modello per molti versi ancora carente – ma non è questa la sede per discuterla. In questa sede è piuttosto la prima tematica, quella degli ipertesti narrativi e saggistici e del loro rapporto con la cultura del libro, a interessarci in maniera più diretta. Mi limiterò quindi a esaminare, in forma peraltro assai sommaria, alcune questioni che mi sembrano particolarmente rilevanti per la nostra discussione sul futuro del libro. Al centro del mio interesse sarà dunque il possibile uso dell’ipertestualità come strumento per l’organizzazione e la strutturazione dei contenuti di un libro, e non altre forme di ipertestualità – pur di grande interesse, e ovviamente a loro volta collegate all’evoluzione della cultura del testo – come quelle tipiche del web, alle quali si farà riferimento solo in alcuni esempi. L’ipertesto può sembrare, a prima vista, una forma di testualità strettamente legata ai media digitali, ma anche in questo caso un rapporto con la tradizione esiste senz’altro. Un rapporto che a mio avviso non va in primo luogo individuato nell’idea – assai diffusa, ma anche assai discutibile – secondo cui l’ipertestualità consista nell’esplicitare i rimandi intertestuali o intratestuali implicitamente presenti nel testo. Semmai, questo legame risiede nella già esplicita dimensione ipertestuale di strumenti come le note a piè di pagina, i commenti, le glosse, gli indici, i rimandi. E, dal punto di vista della messa in discussione della natura fondamentalmente lineare delle strutture narrative, da forme testuali quali i libri-game o – a tutt’altro livello – da alcuni esiti della sperimentazione letteraria novecentesca: si pensi ad esempio al Calvino del Castello dei destini incrociati, e in generale agli autori dell’Oulipo. Raymond Queneau aveva del resto pubblicato già nel 1967 il breve racconto dal titolo Un conte à votre façon (Un racconto a vostro piacimento), la cui costruzione combinatoria – ispirata non a caso dalla programmazione dei primi computer – è sostanzialmente analoga a quella di un libro-game10. Curiosamente, il primo librogame vero e proprio, Lucky Les: The Adventures of a Cat of Five Tales, di E.W. Hildick, è anch’esso del 1967: si tratta di un libro 214

per bambini il cui protagonista è il gatto Les, guidato nelle sue avventure dalle scelte del lettore11. Quanto all’intertestualità, essa costituisce una dimensione presente in ogni testo, e dunque sia nei testi lineari sia negli ipertesti, giacché ogni testo è prodotto sociale, risultato di una pratica di scrittura (e di lettura) che non è mai isolata ma presenta sempre un orizzonte testuale di riferimento. Certo, i link ipertestuali vengono stabiliti dall’autore all’interno di tale orizzonte, e rappresentano dunque anche una forma di esplicitazione di alcuni riferimenti intertestuali privilegiati, ma sono lontanissimi dall’esaurirlo o anche solo dal delinearne i contorni in maniera rappresentativa. Per questo, trovo sorprendentemente ingenua l’idea espressa ad esempio da Ilana Snyder (ma con riferimento sia a Landow sia a Bolter) secondo cui gli ipertesti [...] ci offrono una opportunità unica per visualizzare l’intertestualità. [...] Gli ipertesti possono dunque essere utilizzati per trasformare in link tutte le allusioni e i riferimenti presenti in un testo, sia esterni (intertestualità) sia interni (intratestualità)12.

L’ipotesi di “trasformare in link tutte le allusioni e i riferimenti presenti in un testo” – come se si trattasse di un insieme precostituito, chiuso e precisamente individuabile – rappresenta in realtà un compito in molti casi impossibile, e quand’anche non lo fosse produrrebbe comunque risultati confusi e poco gestibili. In molti casi, non sarebbe neanche chiaro verso quali tipi di contenuti testuali dovrebbero rimandare tali link. Pensate, ad esempio, a un’eventuale resa ipertestuale di quella vera e propria miniera di intertestualità offerta da una preghiera come il ‘Padre nostro’: quali riferimenti sciogliere? Il contesto teologico che vi trova espressione? Le sue raffigurazioni artistiche? E quali? La storia complessa del testo? Ognuna di queste ipotesi delinea in realtà una famiglia, assai ricca, di possibili rimandi, ciascuno dei quali a sua volta si porterebbe dietro il suo bagaglio di intertestualità, in un gioco di rinvii tendenzialmente inesauribile. L’ipertestualità non si caratterizza dunque a mio avviso tanto come uno strumento per fare emergere in maniera generalizzata intertestualità implicita, quanto come una scelta selettiva di alcuni elementi di un orizzonte vastissimo. Una scelta che costituisce 215

una forma esplicita di ‘tessitura’ e organizzazione testuale, una modalità specifica di costruzione e costituzione del testo: e questo sia nel caso delle forme di rimando ipertestuale pre-elettroniche (i casi già ricordati rappresentati da note a piè di pagina, indici, rimandi ad esempio all’interno di una enciclopedia ecc.) sia nel caso dell’ipertestualità tipica del mondo digitale. Indubbiamente, però, le possibilità offerte dall’ipertestualità digitale sono per molti versi inedite: al posto di ‘link locali’, che partono da e portano verso testi fondamentalmente lineari, abbiamo la possibilità di costruire tessiture ipertestuali ben più complesse, nelle quali assumono rilievo due dimensioni presenti solo in nuce nella testualità tradizionale: la complessità ipertestuale, e la tipizzazione dei link. Gli ipertesti, infatti, non sono tutti uguali. Alcuni presentano una rete di rimandi fitta e articolata, e propongono una lettura-navigazione assai lontana dalla linearità. Potrebbero avere ad esempio questo carattere le pagine di una guida ipertestuale di un museo, analogamente a quanto accade oggi per i siti web dei musei più importanti. In una guida del genere sarebbero presenti rimandi a schede sugli autori e sulle singole opere, a siti web e immagini di opere possedute da altri musei, a schede su tecniche e materiali utilizzati, a testi pensati per tipologie diverse di pubblico – ad esempio i bambini – e in lingue diverse. Analogamente, una struttura ipertestuale complessa si presta bene alla costruzione della guida turistica di una città: il turista può cominciare la sua visita da punti diversi, avere interessi diversi e tempi diversi a disposizione. Alcuni saranno interessati a musei e cultura, altri allo shopping, altri all’architettura urbana, o alla natura; alcuni preferiranno ristoranti e alberghi di lusso, altri trattorie e sistemazioni più economiche; alcuni preferiranno una cucina internazionale, altri la cucina tipica, e così via. Guide di questo tipo potrebbero essere utilizzate su dispositivi di lettura per libri elettronici, e proporsi dunque come ‘libro’, ma declinandone l’organizzazione testuale in una direzione assai diversa da quella tradizionale13. Altri tipi di ipertesto, invece, propongono link e collegamenti di approfondimento o di allargamento dell’orizzonte testuale pur restando all’interno di modelli fondamentalmente lineari (può essere il caso, ad esempio, della versione elettronica di una dispensa didattica, in cui la ricchezza dei link e dei collegamenti non de216

ve mai risultare eccessiva o dispersiva e deve comunque rispettare un percorso di apprendimento che presenta di norma tappe e momenti obbligati). Queste differenze di complessità ipertestuale possono spesso essere analizzate in maniera formale, attraverso l’uso di strumenti come la teoria dei grafi. D’altro canto, anche i link non sono tutti uguali: una realtà nascosta dal fatto che in rete i link tendono a essere tutti dello stesso tipo (collegamenti unidirezionali da una zona ‘attiva’ del testo o della pagina a un’altra pagina o risorsa, all’interno dello stesso sito o di un sito diverso), ma in realtà di estrema importanza per la realizzazione di ipertesti efficaci e funzionali. Ad esempio, la guida turistica di una città (che richiede come abbiamo visto un livello di complessità ipertestuale abbastanza alto) potrebbe trarre grande vantaggio dalla possibilità di differenziare, anche graficamente, i link che rimandano a risorse legate allo shopping (negozi ecc.), quelli che rimandano a musei e beni culturali, quelli che rimandano ad aspetti paesaggistici e naturalistici, quelli che rimandano a locali in cui mangiare o bere qualcosa (ristoranti, caffè...), quelli che rimandano al sistema dei trasporti urbani e al collegamento fra zone diverse della città, e così via: si tratta di link che potrebbe essere utile tipizzare, cioè distinguere per tipologie. Una situazione analoga si incontra, ad esempio, nella realizzazione di una edizione elettronica di un testo, quando può essere utile differenziare da un lato i rimandi all’apparato filologico delle varianti, dall’altro quelli a note interpretative o di commento. Anche in questo caso, l’esigenza di tipizzare collegamenti e varianti non è di per sé nuova – nella tradizione gutenberghiana, queste differenze nella tipologia dei rimandi potevano essere espresse attraverso ordini diversi di note, distinti ad esempio attraverso l’uso per i rimandi di sistemi diversi di numerazione (numeri romani, numeri arabi, lettere...) – ma la testualità elettronica ne permette una notevole espansione, e nel contempo ne semplifica notevolmente la gestione. Queste differenze nelle tipologie degli ipertesti (e dei loro link) si riflettono, in maniera maggiore o minore, in tutti gli usi dell’ipertestualità, e riguardano dunque anche il caso che a noi interessa più da vicino: quello del libro. Un tradizionale testo lineare privo di note o rimandi, ad esempio un libro giallo, può essere considerato corrispondente a un ‘gra217

do zero’ di complessità ipertestuale: il testo può certo essere scomposto in unità testuali di livello inferiore (capitoli, paragrafi...), ma queste unità sono concatenate in maniera lineare, e il percorso di lettura seguito dal lettore implicito – il lettore ‘presupposto’ dal testo, di cui abbiamo parlato nella seconda lezione – è a sua volta lineare. Naturalmente, un lettore reale potrà anche scegliere di leggere un libro giallo cominciando dalla fine, e di scoprire subito chi è l’assassino: ma il libro non è costruito per essere letto in questo modo, è costruito per essere letto – linearmente – dall’inizio alla fine. Un testo con note pone invece il lettore davanti a delle scelte: il lettore sa che (se l’autore ha usato le note in modo corretto) la lettura della nota non è necessaria alla comprensione del testo, ma può offrire riferimenti o approfondimenti. Consultarla o no? Ogni lettore ha le sue strategie: ad esempio, valutare il testo che precede la nota: se si tratta di una citazione, probabilmente la nota conterrà il relativo riferimento bibliografico, e – a meno di non voler recuperare immediatamente il contesto del passo citato – in molti casi potrà essere saltata. Se invece la nota è inserita in un passo di particolare complessità argomentativa, potrà offrire approfondimenti che l’autore ha preferito non inserire nel corpo principale del testo per evitare di appesantirlo ulteriormente. Se le note sono a fine paragrafo, il lettore potrà a ogni consultazione sbirciare rapidamente anche le note successive, e decidere in anticipo quali varrà la pena leggere. E non mancano i lettori che preferiscono scorrere le note, tutte insieme, solo una volta completata la lettura del relativo capitolo o addirittura di tutto il libro. In ogni caso, le note introducono complessità ipertestuale, ma in un grado ancora abbastanza basso: il libro è un’autostrada con una direzione ben precisa, e la possibilità di una breve deviazione per far rifornimento alla stazione di servizio non ne modifica la natura fondamentalmente lineare. Un manuale scolastico accompagnato da finestre e riquadri di approfondimento costituisce un caso già più complesso. Ha una direzione di lettura ben precisa, che corrisponde all’ordine della trattazione e – auspicabilmente – all’ordine e alla concatenazione delle varie competenze che devono essere acquisite, ma la libertà di saltare alcune parti e approfondirne altre è maggiore. Il viaggio conserva dunque un itinerario abbastanza ben definito, ma le deviazioni del lettore non assomigliano più al semplice rifornimen218

to nella stazione di servizio dell’autostrada: semmai, possono essere paragonate alle soste per visitare un monumento o un paesino che si incontra lungo il viaggio. Nel caso di una guida turistica, la complessità e la varietà dei percorsi di lettura possibili aumenta ancora: il lettore si sposta avanti e indietro a seconda delle sue esigenze, salta completamente parti che non lo interessano e si sofferma invece su altre, sulle quali gradirebbe magari informazioni assai più dettagliate. Non esiste più un percorso di lettura prevedibile o privilegiato, il lettore implicito si trasforma in realtà in un lettore plurale e multiforme, estremamente attivo, tanto che è quasi impossibile soddisfarlo completamente. Il quadro fin qui delineato ci mostra che alla domanda “sono davvero possibili libri ipertestuali?” non esiste una sola risposta ma ne esistono molte, a seconda del tipo di orizzonte testuale e delle caratteristiche del percorso che l’autore intende proporre al lettore. Personalmente, tranne che in alcuni casi legati soprattutto a forme di sperimentazione, non ho molta fiducia nel futuro dei cosiddetti ipertesti letterari, di cui si parlava molto alcuni anni fa. Alcuni fra gli esempi più noti sono certo curiosi e interessanti, e un ruolo particolare va qui riconosciuto alla Eastgate, affascinante mix di piccola casa editrice, di sito web14, di casa produttrice di software, che ha pubblicato i primi ipertesti letterari di un qualche interesse, da Afternoon, a Story di Michael Joyce a Patchwork Girl di Shelley Jackson a Victory Garden di Stuart Moulthrop. Ma la forma ipertestuale complica enormemente la costruzione dei personaggi, che nella narrativa tradizionale prendono forma anche e soprattutto attraverso le loro reazioni alla successione di vicende che si trovano ad affrontare. Una versione ipertestuale dei Promessi Sposi che lasciasse il lettore libero di scegliere fra il don Abbondio che conosciamo, pavido davanti alla minaccia dei bravi, e un don Abbondio risoluto e determinato nel respingerne le pretese, avrebbe poi il problema – non certo facile da risolvere – di costruire nel seguito della vicenda (anzi, nei molti seguiti, corrispondenti a questa e alle altre scelte che fossero lasciate al lettore) caratterizzazioni diverse ma individualmente coerenti e sufficientemente interessanti del personaggio15. Non è un caso, dunque, che il limite principale dei libri-game sia proprio la caratterizzazione dei personaggi. E non è un caso che molti fra gli ipertesti letterari in circolazione siano caratterizzati da 219

un’impronta stilistica in cui alla narrazione si sostituisce una scrittura a volte fortemente poetica o metaforica, altre volte strutturata per ‘accumulazione di indizi’ e basata su una lettura non lineare di un insieme di frammenti che concorrono a formare un quadro non necessariamente coerente e univoco, ma dotato comunque di significato narrativo. L’idea che la nostra coscienza sia a sua volta frammentata, e che lo stream of consciousness sia in realtà più una navigazione per suggestioni e associazioni libere che un flusso lineare o linearizzabile, accompagna spesso questo tipo di narrativa: un’idea ben rappresentata nel già ricordato Patchwork Girl, in cui al centro della narrazione è una sorta di donna-Frankenstein costruita per accostamento di frammenti fisici e mentali. È nota la distinzione introdotta dai formalisti russi fra fabula e intreccio, dove la fabula è la sequenza degli eventi narrati, nel loro effettivo ordine cronologico e nella loro concatenazione causale, e l’intreccio è la loro riorganizzazione ad opera dell’autore (con anticipazioni, flashback, digressioni, introduzione di elementi che non fanno parte della sequenza principale degli eventi, ecc.). Ebbene, come nota a ragione Rosa Maria Di Natale a proposito di Afternoon, a Story, in molti ipertesti narrativi è difficile farsi coinvolgere dalla fabula presi come si è dall’intreccio, dal voler seguire una trama difficile da cogliere negli eventi che toccano uno o più personaggi, nelle relazioni tra di essi e nelle finalità delle loro azioni16.

Più radicalmente, potremmo dire che gli autori di molti ipertesti letterari sembrano voler mettere in discussione l’idea stessa dell’esistenza di una fabula, o la possibilità di ricostruirla in maniera univoca, e sembrano in realtà considerare l’intreccio stesso come una struttura in qualche modo debole e plurale, risultato dell’interazione fra testo e lettore più che di una costruzione a tavolino da parte dell’autore. Posizione in verità in qualche modo paradossale, dato che è comunque l’autore a ‘dare le carte’, a stabilire (a tavolino) le regole del gioco: un ipertesto assomiglia certo al borgesiano giardino dei sentieri che si biforcano, ma si tratta di sentieri tracciati comunque dall’autore, anche se il lettore è libero di seguire solo quelli che preferisce. In ogni caso, la difficoltà di caratterizzazione dei personaggi, la 220

rinuncia alla fabula e la moltiplicazione degli intrecci trasformano la maggior parte degli ipertesti letterari in opere che – nei casi migliori – possono certo essere interessanti dal punto di vista della sperimentazione e della ricerca, ma che difficilmente possono proporsi come ‘nuova’ forma narrativa egemone o anche solo di larga diffusione. Si aggiunga il fatto che le continue scelte richieste al lettore rischiano di distrarlo dalla narrazione anziché coinvolgerlo maggiormente: gli esperimenti di cinema interattivo, in cui si chiedeva agli spettatori di votare sul seguito dell’azione attraverso pulsanti posti sul bracciolo della poltrona, o gli esperimenti analoghi fatti con alcune serie televisive, sono certo curiosi, ma – a quasi vent’anni dai primi tentativi – non hanno rivoluzionato né il cinema né la televisione: tanto il lettore quanto lo spettatore preferiscono di norma farsi accompagnare in un viaggio e immergersi nella narrazione, piuttosto che esserne continuamente sbalzati fuori per compiere delle scelte. Se si cerca un livello di coinvolgimento e di interattività maggiore, la soluzione sono semmai i videogiochi, in cui la costruzione del personaggio è assai più libera: dotati anch’essi delle loro brave strutture narrative (e si comincia a studiarle con esiti assai interessanti), ma altra cosa rispetto alla forma-libro. Sui nostri lettori e-book non ci aspetta dunque – credo – un’improvvisa scomparsa delle strutture narrative che ci sono familiari a favore di un genere totalmente nuovo di opere caratterizzate da strutture ipertestuali complesse: anche nel caso di testi che integrassero componenti multimediali (immagini, suoni, filmati), il percorso di lettura resterà a mio avviso nella maggior parte dei casi fondamentalmente lineare, basato sul meccanismo dell’immersione più che su quello dell’interazione continua proprio invece dei videogiochi. Almeno in parte diverso sembra essere il discorso per quel che riguarda la saggistica. Le opere saggistiche sono in genere caratterizzate da una forte attenzione alla struttura argomentativa (l’autore non vuole semplicemente accumulare descrizioni, ma organizzarle in una struttura coerente, che mira a illustrare e argomentare delle tesi). Ora, in prima istanza si potrebbe pensare che la struttura di un’argomentazione sia comunque fondamentalmente lineare. È quel che sembra ritenere Cartesio, quando individua alla base della nostra conoscenza “lunghe catene” di ragionamenti: 221

Quelle lunghe catene di ragioni, affatto semplici e facili, di cui i geometri si servono abitualmente per portare in fondo le loro dimostrazioni più difficili, mi avevano fatto immaginare che tutte le cose suscettibili di cadere sotto la conoscenza umana si susseguano allo stesso modo17.

Tuttavia, nonostante il fascino e la fortuna dell’immagine dell’argomentazione concepita come catena lineare, i nostri processi argomentativi hanno spesso strutture diverse. Così, ad esempio, una conclusione può spesso essere supportata da premesse indipendenti, ciascuna delle quali richiede una propria argomentazione18. In questi casi, l’ordine nel quale gli argomenti vengono affrontati all’interno di un libro dipende spesso da considerazioni legate all’organizzazione retorica del testo più che alla sua struttura logica. L’autore può trovarsi, anche inconsapevolmente, a trattare per primi argomenti più familiari, o sui quali si aspetta un più facile consenso da parte del lettore. E può essere portato a costruire legami narrativi fra argomenti che non hanno fra loro stretti legami argomentativi. Cosa succede quando trasportiamo queste situazioni – e questi testi – nel mondo della scrittura e della lettura digitale? In linea di principio, come abbiamo visto, le interfacce digitali non impongono la struttura intrinsecamente lineare propria di un libro a stampa, organizzato in pagine che si susseguono. Ciò può permettere un’organizzazione dei contenuti più vicina alla struttura logica delle argomentazioni avanzate dall’autore, con una migliore esplicitazione delle dipendenze e indipendenze reciproche delle varie parti del testo. Inoltre, la struttura ipertestuale consente una gestione assai più efficace di apparati e rimandi, spesso fondamentali per la scrittura saggistica e di ricerca. Come nota Pietro Corrao in un intervento dedicato proprio alla possibile evoluzione ipertestuale della forma-saggio, il ricorso a tecniche – anche semplici – di carattere ipertestuale conferisce al testo una percorribilità, un’utilizzabilità enormemente più alta di quanto i tradizionali strumenti di indicizzazione, di rimando, di integrazione fra testo e apparato critico non consentissero nella scrittura tradizionale19. 222

Ed è lo stesso Corrao a riassumere con grande chiarezza ed efficacia le caratteristiche che dovrebbero essere proprie della saggistica ipertestuale: Ma quale ipertestualità? Certamente un’ipertestualità che consenta l’organizzazione del testo su livelli differenti, accessibili indipendentemente, a diversi livelli di approfondimento; che consenta l’uso diversificato del testo in relazione all’esigenza e allo scopo di diverse categorie di lettori o a diverse esigenze dettate dallo specifico interesse del momento da parte dello stesso lettore; che esalti le prospettive comparative; che sia capace di esprimere proposte interpretative, evitando il rischio dello smarrimento in un universo indifferenziato e non gerarchizzato secondo un’idea forte dell’autore20.

Un’influente ipotesi di possibile organizzazione di un ipertesto saggistico è stata avanzata da Robert Darnton in un articolo del 1999, discusso e citato in molte sedi e da molti autori (compreso l’intervento appena citato di Corrao), e che lo stesso Darnton ha ripubblicato con poche variazioni nel recente volume The Case for Books. Vale la pena riportarla per esteso: Non voglio suggerire una mera accumulazione di dati, né sostenere la necessità di link verso banche dati. I cosiddetti link ipertestuali possono trasformarsi facilmente in una forma elaborata di note a piè di pagina. Anziché dilatare il testo, penso sia possibile strutturarlo in livelli organizzati come una piramide. Il livello superiore può consistere di una discussione sommaria dell’argomento, disponibile magari in paperback. Il livello successivo può contenere versioni espanse di diversi aspetti dell’argomentazione, organizzate non sequenzialmente e in forma narrativa, ma piuttosto come unità autosufficienti che si incardinano nel livello superiore. Il terzo strato potrebbe essere composto da documentazione, anche di generi diversi, accompagnata da saggi interpretativi specifici. Un quarto livello può essere teoretico o storiografico, con una selezione di pagine degli studiosi che si sono occupati in precedenza dell’argomento e la loro discussione critica. Un quinto livello può essere pedagogico, costituito da suggerimenti per discussioni in classe, da un modello di programma di studio e da pacchetti didattici. E un sesto livello può contenere le relazioni dei recensori editoriali, gli scambi di messaggi fra autore ed editore, le reazioni dei lettori, che potrebbero costituire un corpus di commenti che cresce progressivamente, man mano che il libro arriva ai suoi diversi pubblici. 223

Un libro di questo tipo suggerirebbe un nuovo tipo di lettura. Alcuni lettori si accontenterebbero di un rapido sguardo al livello superiore. Altri potrebbero preferire una lettura verticale, seguendo alcuni temi in profondità attraverso i materiali e i saggi di supporto. Altri ancora potrebbero navigare in direzioni impreviste, cercando collegamenti che soddisfino i loro specifici interessi o rielaborando materiali in forme nuove ed autonome. In ogni caso, i testi utilizzati potrebbero essere stampati e rilegati seguendo le indicazioni del lettore. Lo schermo del computer sarebbe utilizzato per ricercare e scorrere i materiali, mentre la lettura concentrata e di largo respiro avverrebbe attraverso il convenzionale volume a stampa21.

Potremmo dunque aspettarci che l’evoluzione e la diffusione dell’e-book porti a opere saggistiche e di ricerca caratterizzate da un’organizzazione del testo non necessariamente lineare, modulare e stratificata come ipotizzato da Darnton, e dall’uso di strumenti interattivi (schemi, indici costruiti attraverso diagrammi riorganizzabili) che consentano percorsi diversi di navigazione del testo stesso, a seconda degli interessi e delle esigenze del lettore. Strutture di questo tipo potrebbero risultare particolarmente utili, ad esempio, in situazioni didattiche, permettendo al docente di organizzare materiali e argomenti indipendenti in funzione delle specifiche esigenze di svolgimento del programma. E, nel caso dei lavori di ricerca, potrebbero aiutare a focalizzare il dibattito di volta in volta sulle singole sezioni e argomentazioni rilevanti. Inoltre, il meccanismo del trackback – che discuteremo più avanti – aiuterebbe a creare il sesto livello ipotizzato da Darnton, quello che raccoglie reazioni e commenti anche successivi alla pubblicazione dell’opera. Tuttavia, a più di dieci anni dalla pubblicazione del saggio di Darnton, gli esempi di saggistica ipertestuale restano abbastanza pochi, per quanto interessanti22, e nella maggior parte dei casi hanno poco a che fare con l’idea di ‘libro ipertestuale’, avvicinandosi piuttosto a un incrocio fra sito web, database testuale e repertorio di risorse. Si potrebbe essere tentati di attribuire questa situazione allo stadio di evoluzione dei lettori di e-book, come abbiamo visto ancora lontani dal raggiungere un’effettiva competitività ergonomica con il libro a stampa. Ma questa ipotesi è smentita proprio dalla parte 224

conclusiva del passo di Darnton appena citato: per costruire strutture saggistiche di questo tipo bastano gli strumenti di scrittura e circolazione digitale dei testi di cui siamo già in possesso, e non vi è affatto bisogno di buoni dispositivi digitali di lettura. Anzi, Darnton – che ricordiamo scrive nel 1999, ma non ha modificato in nulla questa sezione del saggio nel ristamparlo dieci anni dopo – non attribuisce ai dispositivi di lettura alcun ruolo particolare e, in perfetto accordo con una tradizione che abbiamo visto ancora largamente maggioritaria fra gli studiosi, ipotizza che la lettura di largo respiro avvenga comunque “attraverso il convenzionale volume a stampa”. Nel frattempo, il diffondersi del print on demand ha semmai reso questa procedura più semplice e ancor meno costosa. Perché, allora, l’idea di una nuova forma-libro ipertestuale di ambito saggistico non sembra per ora decollare, proprio come abbiamo visto non decollare l’idea di una forma-libro ipertestuale in ambito letterario? Ho l’impressione che – accanto all’indubbia difficoltà della sfida proposta da Darnton, che presupporrebbe un lungo e faticoso lavoro di preparazione e, forse, una più attenta capacità di valutazione accademica per le forme di testualità diverse da quella tradizionale – anche in questo caso giochino un ruolo centrale proprio le ragioni di organizzazione retorica dei contenuti che abbiamo già ricordato. Anche se i lavori saggistici e di ricerca hanno – o dovrebbero avere – una salda e solida struttura argomentativa, la loro componente per così dire ‘narrativa’ e retorica non è affatto secondaria. E tale componente richiede da parte dell’autore un controllo maggiore del percorso del lettore nel testo, proprio come accade nel caso della narrativa. L’autore non vuole solo convincere il lettore della correttezza formale delle proprie argomentazioni: vuole anche coinvolgerlo e affascinarlo, e questo si può fare assai meglio accompagnandolo lungo un percorso prefissato – e sapientemente organizzato anche a questo scopo – anziché lasciandolo libero di muoversi a proprio piacimento. Se questa ipotesi è corretta, la forma-libro che abbiamo ereditato dalla tradizione lega fra loro narrativa e saggistica argomentativa in maniera assai più stretta di quanto non si possa ritenere a prima vista: in entrambi i casi, l’elemento affabulatorio ha un ruolo rilevante che rende assai difficile (e assai costoso in termini di efficacia retorica) il passaggio alla forma ipertestuale. 225

Resta il settore delle opere di documentazione e riferimento, che abbiamo esemplificato nelle pagine precedenti attraverso il caso della guida turistica o museale, ma che comprende evidentemente molte altre tipologie di risorse. In questo caso, la componente narrativa e affabulatoria è minore, e prevale una funzione strumentale assai più efficacemente rappresentata da strutture ipertestuali. Non mi stupirei quindi se, più che da narrativa e saggistica argomentativa, esempi di libri ipertestuali destinati al mondo dei nuovi lettori e-book arrivassero proprio e prevalentemente da questo settore. I prossimi anni permetteranno di confermare – o di smentire – questa ipotesi. 4. Il mondo è diventato un posto migliore? Le considerazioni fin qui svolte – se si dimostreranno corrette – delineano una situazione in cui la forma-libro tradizionale e forme di organizzazione ipertestuale dei contenuti, a seconda dei casi più o meno complesse, possono benissimo convivere, anche sugli stessi dispositivi di lettura. La scelta dell’una o dell’altra dipenderà in primo luogo dalla natura dei contenuti, e dal prevalere o meno, anche in ambito argomentativo, di uno specifico interesse dell’autore a una costruzione in qualche misura narrativa del testo. Questione diversa, non direttamente legata alla scelta di una struttura più o meno ipertestuale dei contenuti, è l’eventuale integrazione del testo scritto attraverso il ricorso a contenuti multimediali. Così come un’illustrazione, una tabella, un grafico non trasformano un libro in un ipertesto complesso, e non ne snaturano il percorso di norma fondamentalmente lineare, ma propongono piuttosto un’integrazione del contenuto testuale attraverso il ricorso a forme di rappresentazione o visualizzazione di dati e informazioni pertinenti, anche nel caso di un libro elettronico potremo introdurre – in un’organizzazione dei contenuti che potrà comunque, se opportuno, restare fondamentalmente lineare – materiali multimediali: non solo immagini, tabelle, grafici, ma, grazie alle potenzialità del digitale, anche animazioni, filmati, contenuti sonori. Nel campo della narrativa, questo permetterà di sviluppare in maniera assai più integrata e interessante alcuni degli esperimenti ai quali si è fatto cenno nella prima parte di questa lezione: ad 226

esempio, il dialogo fra un personaggio che racconta quel che gli accade attraverso la scrittura e uno che lo fa attraverso filmati non richiederebbe più al lettore il passaggio continuo da un supporto (il libro a stampa) all’altro (il computer da scrivania), come accade oggi in casi quali il già ricordato Skeleton Creek di Patrick Carman. L’idea di libro animato è già stata esplorata in molte forme diverse attraverso prodotti multimediali su CD-ROM, DVD o in rete, ma il limite principale di queste sperimentazioni era costituito dall’obbligo alla fruizione lean forward, che tendeva a indebolire la struttura narrativa per favorire le forme forti di interattività che il lean forward stesso suggerisce. La disponibilità di dispositivi di lettura adatti anche al lean back potrà offrire a queste sperimentazioni un terreno più fertile e più rispettoso della natura immersiva propria della narrazione. Ciò non significa, ovviamente, che le opere narrative dovranno necessariamente trasformarsi da testuali a ibride e multimediali, ma solo che – in alcuni casi – potranno farlo: è difficile immaginare l’Alice di Lewis Carroll senza le illustrazioni di John Tenniel, e solo la fotografia ha reso possibile Nadja di Breton, ma questo non impedisce certo a moltissimi altri autori di lavorare, e di lavorare benissimo, solo con le parole. Anche per quel che riguarda la forma-saggio e la scrittura argomentativa, l’integrazione fra testi e contenuti multimediali potrà in determinati casi funzionare, e offrire strumenti espressivi in più, a condizione di poter essere fruita con la stessa comodità e nelle stesse situazioni in cui possiamo oggi leggere un libro. Se ad esempio nelle pagine che avete letto avessi potuto introdurre direttamente, e non semplicemente attraverso rimandi testuali all’interno delle note a piè di pagina, i filmati di YouTube che illustrano le caratteristiche di alcuni dei dispositivi di cui abbiamo parlato nella terza lezione, la lettura di quelle pagine sarebbe probabilmente risultata insieme più piacevole e più chiara. Certo, incorporare quei filmati sarebbe stato già possibile, e ormai perfino facile, all’interno di un testo su web, o di un file PDF (che nelle ultime versioni accetta senza problemi contenuti multimediali); ma, al momento, questo ne avrebbe immediatamente suggerito la fruizione al computer. Se state leggendo su carta questo libro, avete la comodità di poterlo leggere in poltrona, o – anche se siete alla scrivania – di poterlo leggere rilassati, nella modalità propria del lean back (in che posizio227

ne vi trovate, adesso?). Ma il prezzo di questa comodità è la rinuncia alla possibilità di incorporare direttamente nel testo i contenuti multimediali ai quali ho fatto riferimento. E anche se state leggendo queste pagine su un lettore per e-book, è probabile che o il lettore (è basato su e-paper? Allora, come ricorderete, niente filmati!), o il formato del file, o entrambi, non consentano al momento con semplicità l’inclusione di filmati. Ma questa situazione sta rapidamente cambiando. Già oggi, su alcuni dispositivi (l’iPad, ad esempio), la fruizione di un testo ibrido del genere di quello prefigurato è non solo ipotizzabile ma sicuramente realizzabile. In particolare, arma preziosa per la scrittura argomentativa potrà essere l’animazione dei dati, che in molti casi è in grado di migliorare enormemente la chiarezza e la forza argomentativa del testo. Per rendersene conto, vi suggerisco ancora una volta – visto che per il momento non posso incorporarla qui nel testo – di andare in rete a visualizzare una animazione davvero notevole, quella realizzata dalla società Gapminder e intitolata Has the world become a better place?23 La fondazione Gapminder è stata fondata in Svezia da Hans Rosling, un professore di medicina presso il Karolinska Institutet di Stoccolma, e ha sviluppato Trendanalyzer, il sorprendente software su cui si basa quell’animazione. Si tratta di uno strumento per l’animazione di dati statistici, che riesce a integrare in un unico grafico animato una quantità sorprendente di informazioni, permettendone una rappresentazione immediatamente comprensibile a chiunque. Tecnicamente si tratta di animazioni Flash, facilmente incorporabili in oggetti multimediali di ogni genere. Avete provato a guardarla? La potenza espressiva di uno strumento del genere è sorprendente, e non stupisce che Google si sia affrettata nel 2006 ad acquistare la Gapminder Foundation. Sul sito Gapminder.org sono oggi disponibili molte animazioni di questo tipo, assieme alla possibilità di costruire i propri grafici animati all’interno del ‘Gapminder World’, scegliendo fra un gran numero di insiemi di dati (dataset) relativi a numerosi fattori statistici diversi. Inoltre, l’idea di base di Trendanalyzer è stata implementata, in maniera ancora abbastanza rudimentale, in Motion Chart, un gadget utilizzabile dall’interno di Google Spreadsheet, il foglio di calcolo disponibile nel servizio in rete Google Docs. Ma quel che ci interessa è il ruolo che animazioni di questo ti228

po potrebbero avere all’interno di un libro: una sola animazione come quella che abbiamo visto potrebbe probabilmente sostituire una decina di tabelle e grafici tradizionali, e risulterebbe nel contempo molto più chiara e comprensibile. Si tratta di un singolo esempio fra i molti che si potrebbero fare: la geolocalizzazione dei dati utilizzando Google Earth, l’uso di mappe storiche e geografiche animate (per rendervi conto di quante tipologie ve ne siano, provate a fare una ricerca su YouTube con chiave “animated maps”), la realizzazione di timeline animate, la simulazione di esperimenti fisici o chimici, la visualizzazione di modelli interattivi di ogni genere, la rappresentazione di funzioni matematiche attraverso grafici interattivi che variano al variare dei valori delle variabili... gli esempi sono davvero innumerevoli. Per staccarsi dallo schermo del computer e appoggiarsi sulle pagine di un libro, questi strumenti aspettano solo libri adatti, che possano essere letti su dispositivi di lettura adeguati. E arrivare a poterlo fare è nel nostro interesse: solo in questo modo potremo infatti incorporarli in forme di testualità argomentativa che conservino anche una struttura narrativa più forte di quella possibile attraverso la sola fruizione lean forward davanti a un computer tradizionale. 5. Libri che si aggiornano da soli Un altro aspetto che potrà essere interessante per alcune tipologie di libri è costituito dalla possibilità di interagire con il testo in forme nuove, diverse dal modello ipertestuale tradizionale. Anche in questo caso, gli esempi non mancano. A partire dall’agosto 2010, Macmillan, uno dei principali editori al mondo e fra i più attivi nel mondo accademico e della formazione, distribuirà ad esempio un centinaio di titoli attraverso una piattaforma che consente ai docenti di modificarli, ‘ritagliarli’ e anche integrarli con contenuti propri (immagini e video compresi). Il testo risultante potrà essere utilizzato on-line o stampato attraverso un servizio di print on demand. Macmillan ha battezzato DynamicBook quest’offerta, e si prepara a creare un’interfaccia specifica per permettere a docenti e studenti di fruirne via iPad24. Un altro esempio interessante è costituito dalla possibilità di avere libri elettronici capaci di aggiornarsi in maniera automatica: 229

una funzionalità che è ovviamente di grande importanza anche al di fuori della forma-libro, in particolare per le notizie (l’applicazione del «New York Times» realizzata per l’iPad lo fa ad esempio in maniera assai elegante), e che è ovviamente offerta da qualunque dispositivo che, come fa il Kindle e come fanno diverse applicazioni per smartphone, permetta l’accesso al ‘work in progress’ enciclopedico per eccellenza costituito da Wikipedia. Ma una funzionalità che può essere utile anche per i libri più tradizionali, ai quali è certo chiesta una maggiore ‘stabilità’ dei contenuti, ma che potrebbero ad esempio tener traccia automaticamente di citazioni e recensioni. Un meccanismo di questo tipo esiste già nel mondo Weblog: si chiama trackback, e si basa sulla capacità che hanno le principali piattaforme blog di dialogare fra loro. Così, se in un articolo sul mio blog commento, cito o critico un articolo del blog di qualcun altro (e riferimenti di questo tipo sono la regola nella cosiddetta ‘blogosfera’), e se la funzionalità è attivata, la mia piattaforma osserverà il link che ho usato, proverà a seguirlo e provvederà a ‘informare’ la piattaforma che ospita il blog che ho commentato. La quale, a sua volta, potrà inserire automaticamente alla fine dell’articolo in questione un link al mio commento o alla mia critica. In questo modo, pur essendo stato scritto ovviamente prima dei testi che lo discutono o lo commentano, l’articolo di un blog può aggiornarsi automaticamente, per tener traccia di chi lo cita. Uno strumento di questo tipo può essere ovviamente prezioso anche nel campo dei libri: cosa ne direste di trovare in fondo a questo libro quattro o cinque pagine bianche che si aggiornano automaticamente, ogni volta che compaiono recensioni, citazioni, commenti, critiche, permettendovi di andare a darci un’occhiata? E i riferimenti potrebbero anche essere puntuali: se qualcuno avesse commentato o criticato dopo l’uscita del libro proprio questa frase che state leggendo, non sarebbe comodo poterne trovare traccia in una nota a margine del testo? Dal punto di vista tecnico, realizzare funzionalità di questo tipo non è difficile, supponendo che i dispositivi di lettura per ebook siano costantemente o almeno spesso collegati alla rete (come fanno tutti quelli dotati della possibilità di scambiare dati attraverso le reti di telefonia mobile o attraverso reti wireless: ad esempio, il Kindle). E del resto un meccanismo che – pur con di230

versi limiti – identifica automaticamente e tiene traccia almeno di alcune citazioni è utilizzato da diversi servizi in rete, ad esempio da Google Scholar. Se provate a consultare Google Scholar (http://scholar.google.com) qualche mese dopo l’uscita di questo libro, inserendovi i suoi dati bibliografici, probabilmente – auspicando che il libro abbia avuto un qualche successo – troverete già traccia di citazioni o recensioni al riguardo. Anche la condivisione di annotazioni è una funzionalità relativamente facile da implementare, ed anzi è già disponibile su diverse fra le piattaforme utilizzate per la lettura di libri elettronici, su PC o su dispositivi dedicati. Come abbiamo visto, infatti, il software utilizzato per la visualizzazione del testo consente spesso di aggiungere sottolineature, evidenziazioni, annotazioni, e ne tiene traccia di norma in un file separato rispetto a quello dell’ebook vero e proprio. Questo significa che non è difficile passare da un lettore all’altro e da una persona all’altra annotazioni e sottolineature. L’insieme di queste funzionalità delinea possibilità di uso sociale dei testi abbastanza diverse da quelle tradizionali, che potrebbero integrarsi con un’altra fra le offerte di rete interessanti dal punto di vista del futuro del libro: quella costituita dalle piattaforme di social reading. Si tratta di siti per certi versi non troppo dissimili dai social network tradizionali come Facebook, ma orientati alla lettura. Di norma, consentono all’utente-lettore di costruirsi una propria ‘libreria’ di titoli, al cui interno è possibile includere (e differenziare) i libri che si possiedono, i libri che si sono effettivamente letti, i libri che si stanno leggendo, i libri che non si possiedono ma che si vorrebbero leggere. I libri sono rappresentati attraverso l’immagine della loro copertina, e questo consente di costruire ‘scaffali’ virtuali visivamente assai simili agli scaffali reali, anche se, per mostrarne meglio la copertina, i libri sono di solito appoggiati di piatto anziché di taglio: nei territori virtuali della rete, lo spazio per le scaffalature non è un problema, e non occorre risparmiarlo. Ogni libro può essere recensito, o anche semplicemente ‘votato’ dal lettore, e la piattaforma – confrontando i nostri gusti con quelli di altri utenti, individuando quelli più ‘simili’ a noi e andando a consultare le loro librerie – può utilizzare questi dati per fornire raccomandazioni su libri che potrebbero piacerci: se ri231

cordate abbiamo già incontrato, parlando di Amazon, meccanismi di questo tipo, basati sul cosiddetto ‘filtraggio collaborativo’ delle informazioni. E, naturalmente, utenti con gusti molto simili ai nostri in materia di libri sono anche potenziali contatti interessanti, se si desidera usare la rete per conoscere nuove persone. Al momento, le principali piattaforme di social reading disponibili in rete sono sei o sette; le più conosciute sono Anobii, probabilmente la più usata in Italia, Shelfari, acquistata da Amazon nell’agosto 2008, GoodReads, fra le più ricche di funzionalità, LibraryThing, molto apprezzata anche in ambito bibliotecario, Living Social Books (nota anche come Visual Bookshelf) e weRead (che si chiamava inizialmente iRead: il cambiamento di nome è evidentemente significativo...). Tutte queste piattaforme offrono anche piccole applicazioni per Facebook, il social network ‘generalista’ più diffuso, che permettono all’utente di far comparire lo ‘scaffale’ dei libri posseduti o in lettura all’interno del proprio profilo su Facebook, e di condividere anche su Facebook recensioni o commenti sui libri letti. Le piattaforme di social reading al momento parlano di libri, ma non dialogano con o attraverso i libri, perché i libri sono su carta. Ma, avendo a disposizione libri elettronici, permetterebbero di fare molto di più: ad esempio, far comparire non solo sulla piattaforma ma direttamente all’inizio o alla fine del libro i commenti al riguardo dei nostri amici che l’hanno già letto. Queste possibilità possono sembrare futuribili, forse un po’ visionarie, o non particolarmente allettanti per i lettori – e sono molti – per i quali la lettura è innanzitutto un dialogo privato con il testo: così come potrei non essere troppo interessato a sapere, attraverso Facebook, se il vicino del piano di sotto si è svegliato o no di buon umore, potrei essere più infastidito che interessato dai suoi commenti entusiastici su un libro che personalmente trovo orribile o dal suo disprezzo per un libro che a me piace moltissimo. Va ricordato, però, che la lettura è da sempre anche un fatto sociale, e lo è in particolare per le giovani generazioni, quelle che vorremmo conquistare al fascino del libro. Quanti libri sono per noi importanti anche perché ricordiamo con affetto la persona che ce li ha fatti conoscere, o a cui noi li abbiamo fatti conoscere, o con cui ne abbiamo parlato? Quante volte associamo immediatamente un libro alla situazione in cui lo abbiamo letto? Soprattutto per la ge232

nerazione dei ‘nativi digitali’, la rete è ormai un luogo di relazioni sociali di grande importanza: inserire anche il libro nella rete di queste relazioni, associarvi strumenti e funzionalità per loro già familiari (come i social network), può rappresentare una strategia importante per la promozione del libro e della lettura. 6. L’e-book a scuola Arriviamo così a un ultimo tema su cui vorrei spendere qualche parola. Un tema che richiederebbe peraltro, per essere trattato con l’attenzione e il rigore che sarebbero necessari, ben altri spazi e probabilmente una sede specifica25. Quello del rapporto fra e-book e formazione. Occorre a questo proposito, a mio avviso, distinguere con grande chiarezza due aspetti assai diversi: quel che gli e-book permetteranno di fare quando avremo dispositivi di lettura finalmente soddisfacenti, non troppo costosi, capaci di piena integrazione di contenuti multimediali e capaci nel contempo di rispondere appieno anche al requisito di mimicità, e quel che possiamo fare oggi, in una situazione in cui il settore degli e-book è in rapido e vigoroso sviluppo ma i dispositivi di lettura disponibili, i modelli di gestione dei diritti e dei contenuti, la capacità di integrazione di contenuti multimediali su piattaforme diverse da quelle basate su un uso lean forward, presentano ancora numerosi problemi non risolti. In prospettiva, le potenzialità degli e-book sono enormi. Possiamo farcene un’idea ad esempio attraverso un prototipo, per ora su carta, di “Learning Device of the (Near) Future”, ovvero “dispositivo di apprendimento del (prossimo) futuro” immaginato dall’Aptara (http://aptaracorp.com), una società specializzata nella creazione e organizzazione dei contenuti digitali e che si occupa anche di libri elettronici. Un prototipo dichiaratamente basato sulle caratteristiche dell’iPad, di cui vengono esplorate le potenzialità multimediali, senza però considerare fattori pure importanti come il prezzo (al quale si dovrebbe comunque aggiungere il costo dei contenuti), la resistenza in situazioni abbastanza ‘di battaglia’ come quelle tipiche dell’ambiente scolastico, le politiche di gestione dei contenuti, ecc. 233

Figura 1. L’ipotesi di “Learning Device” prospettata da Aptara.

Non vi è dubbio, comunque, che l’idea prospettata da Aptara (e da molti altri operatori del settore) sia da guardare con estrema attenzione. Un dispositivo di lettura funzionale e portatile, capace di sfidare la risoluzione della carta, di contenere una intera biblioteca di riferimento, di integrare contenuti testuali con animazioni, suoni e filmati, costituirebbe senz’altro uno strumento prezioso per facilitare l’apprendimento. Così come, del resto, già oggi il computer e i contenuti digitali costituiscono strumenti preziosi per la didattica e l’apprendimento, pur essendo purtroppo ancora poco e male usati nelle nostre scuole e nelle nostre università. Nel concreto, però, dobbiamo domandarci se i dispositivi di lettura e gli strumenti tecnologici oggi disponibili siano davvero in grado non già di offrire una utile, preziosa, indispensabile integrazione agli strumenti didattici tradizionali e in particolare al ricorso ai libri a stampa, ma di sostituire in tutto e per tutto il libro su carta nelle nostre scuole, ad esempio attraverso la rinuncia ai libri di testo tradizionali. 234

Paradossalmente i nostri legislatori, spesso assai pigri nella promozione dell’alfabetizzazione informatica e – ancor prima – dell’alfabetizzazione informativa che servirebbero sia nella formazione scolastica e universitaria sia nella formazione permanente del cittadino, sembrano pensare di sì. L’articolo 15 della legge 133/2008 (la legge finanziaria per il 2008) ha così introdotto, nel campo dei libri di testo per la scuola, una innovazione su cui si è molto discusso. “A partire dall’anno scolastico 2008-2009 [...] i competenti organi individuano preferibilmente i libri di testo disponibili, in tutto o in parte, nella rete internet. [...] A partire dall’anno scolastico 2011-2012, il collegio dei docenti adotta esclusivamente libri utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista”. Ma sono davvero e-book, questi libri di testo distribuiti anche o esclusivamente on-line che si preparano a entrare nella scuola? Prima di rallegrarsi per l’apertura alla rete, lo svecchiamento delle pratiche didattiche, l’alleggerimento degli zaini degli studenti, l’uso di bit al posto della poco ecologica cellulosa e le prevedibili economie nel costo, è forse bene fermarsi un momento a riflettere: cosa sono, esattamente, i libri di testo on-line che ha in mente il ministero? La rete è da tempo veicolo di distribuzione di contenuti di apprendimento multimediali (i cosiddetti learning object, più o meno organizzati e strutturati), e la loro crescita – qualitativa e nel numero di pratiche e situazioni d’uso – rappresenta senz’altro un fenomeno positivo e un enorme arricchimento degli strumenti didattici a disposizione dei docenti. Il libro di testo, tuttavia, ha un ruolo del tutto diverso da quello dai learning object e dai vari tipi di sussidi multimediali che le tecnologie digitali ci mettono oggi a disposizione anche via rete. Il libro di testo conserva infatti due funzioni specifiche: rappresentare un po’ il punto di riferimento e il filo narrativo che accompagna lo svolgimento del programma, e offrire il primo (e purtroppo in molti casi unico) incontro con quella che è stata per secoli la forma principale di organizzazione del sapere: la forma-libro. L’integrazione del libro di testo con altre forme di sussidi e strumenti didattici è più che desiderabile, ma non ne fa venir meno queste importanti funzioni. Come ho cercato fin qui di argomentare, il passaggio del libro al mondo del digitale è un passaggio probabilmente obbligato e 235

per molti versi benvenuto, e lo è anche perché permette di allargare la forma-libro a nuove tipologie di contenuti, in particolare a contenuti multimediali, avvicinandola al mondo dell’esperienza giovanile. Ma è un passaggio che, evidentemente, richiede comunque il pieno supporto per quella che è la base stessa della forma-libro: il testo scritto. E abbiamo visto che – nonostante il lavoro che indubbiamente è stato fatto per avvicinare questo obiettivo – mentre disponiamo di buoni dispositivi digitali di ‘lettura’ per suoni e musica (a cominciare dai lettori MP3) e per il video, i dispositivi di lettura per e-book non hanno ancora raggiunto – soprattutto nelle situazioni di fruizione lean back e in mobilità – le caratteristiche di ergonomia e usabilità del libro su carta. Nonostante lo sviluppo di tecnologie come l’inchiostro elettronico e il passaggio dalla prima alla seconda e oggi alla terza generazione di dispositivi di lettura, non abbiamo ancora, insomma, un ‘iPod per la lettura’. Forse ci arriveremo presto, con i successori del’iPad, o con una nuova generazione di carta elettronica, aperta al colore e con una migliore resa del bianco. Ma, se l’obiettivo è certo in vista, non può ancora dirsi raggiunto. I libri elettronici che la legge 133/2008 vuole sostituire ai libri di testo su carta mancano dunque ancora di un valido supporto tecnologico, e – potremmo aggiungere – di modelli condivisi e condivisibili di gestione dei diritti e dei contenuti. In questa situazione, il risultato è facilmente prevedibile: i famosi ‘libri di testo on-line’ si ridurranno a file PDF che, in assenza di supporti digitali adatti, gli studenti si troveranno a studiare sullo schermo del computer (se ne dispongono o se ne dispone adeguatamente la scuola, cosa purtroppo in molti casi ancora tutt’altro che scontata) – e dunque obbligatoriamente lean forward – o finiranno per stampare a casa, o negli uffici del papà o della mamma. Al posto del libro avremo una pila di fogli sciolti, che saranno usati separatamente e faranno perdere ancor più alle nuove generazioni il contatto con la forma-libro. In questa situazione, la previsione legislativa, che peraltro nulla dice su natura e tipologia degli e-book che si vorrebbero sostituire ai libri di testo, sulla copertura dei costi per i relativi dispositivi di lettura, sui modelli di gestione dei diritti, sulle garanzie di serietà, affidabilità, sostenibilità che il sistema dovrebbe offrire sia a studenti e genitori, sia agli stessi editori (ai quali si chiede di pro236

durre qualcosa che il ministero per primo non sa ben spiegare e definire) rischia di produrre molti più danni che risultati utili. Ben vengano dunque testi elettronici che affianchino quelli su carta, ben vengano contenuti di apprendimento e materiali multimediali integrativi di ogni tipo, ben vengano le sperimentazioni, ma prima di togliere ai nostri studenti l’ultimo contatto con il buon vecchio libro su carta forse sarebbe bene aspettare di avere effettivamente a disposizione quel valido sostituto tecnologico, quel dispositivo digitale capace di permettere una lettura realmente facile e comoda anche di testi elettronici lunghi e complessi, che in queste pagine abbiamo cercato di prefigurare e di cui abbiamo cercato di ricostruire la faticosa gestazione, ma che, nonostante i progressi fatti e le molte meraviglie dei dispositivi di lettura più recenti, per il momento ancora ci manca.

Conclusioni: falsi pretendenti e legittimi eredi

Abbiamo già incontrato in queste pagine l’inventore e futurologo statunitense Raymond Kurzweil, ideatore della Kurzweil Reading Machine. Kurzweil è anche uno scrittore prolifico e brillante di saggi sul presente e – soprattutto – sul futuro delle tecnologie digitali, che per il loro carattere spesso sospeso fra il profetico e il visionario, ma anche per la forza dell’impianto argomentativo, non mancano mai di suscitare discussione e polemiche. E all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso a Kurzweil è stata affidata dal «Library Journal» – una delle più importanti riviste dedicate al mondo delle biblioteche – una fortunata rubrica dal titolo Futurecast. Della ventina di articoli scritti per quella rubrica1, diversi sono dedicati al futuro del libro e delle biblioteche. Nel primo di essi2, Kurzweil applica anche al libro una suggestiva ricostruzione del ciclo di vita delle tecnologie, basata su sette diverse fasi: la fase dei precursori, in cui la tecnologia in questione è prefigurata o auspicata ma mancano le basi tecnologiche per la sua realizzazione; la fase dell’invenzione, in cui la tecnologia compare; la fase dello sviluppo, in cui viene raffinata; la fase della maturità, in cui diventa per la comunità un fatto acquisito e quasi naturale; la fase dei falsi pretendenti, in cui la tecnologia dominante viene sfidata da idee nuove e dai primi tentativi di concretizzarle, senza tuttavia soccombere, sia per la sua posizione di forza sia perché le tecnologie sfidanti sono ancora immature, “prive di alcuni elementi chiave di funzionalità 238

o qualità”; la fase dell’obsolescenza, e infine la fase dell’antichità, in cui quella che era stata un tempo la tecnologia dominante diventa ormai una curiosità storica e antiquaria. Il modello elaborato da Kurzweil è interessante e articolato, ma è difficile dar torto ai critici che lo accusano di cadere in una forma di sostanziale determinismo tecnologico3. Il problema principale è l’apparente chiusura della ricostruzione proposta: come se le fasi di sviluppo delle tecnologie non interagissero affatto con altri fattori sociali, economici, culturali, che possono indirizzare la ricerca in una direzione anziché in un’altra, favorire certi indirizzi o al contrario rallentare o bloccare lo sviluppo di tecnologie in sé promettenti, ma scomode o pericolose rispetto a interessi costituiti o a valori sociali condivisi. Non serve ricorrere a teorie del complotto per rendersi conto, ad esempio, che il lavoro sulle fonti di energia alternative al petrolio è stato probabilmente – in anni in cui il potere economico e politico delle multinazionali petrolifere era fortissimo – finanziato meno di quanto sarebbe stato opportuno. O che la ricerca in settori come la clonazione umana deve fare i conti con perplessità legate a valori etici e morali condivisi, che suggeriscono di non superare certi limiti. All’inizio del XV secolo, la Cina aveva una flotta di navi tecnologicamente assai sofisticate: Le navi cinesi erano costruite con legni speciali, giunzioni complesse, tecniche sofisticate di impermeabilizzazione, e una chiglia centrale mobile. Le cosiddette ‘navi del tesoro’ avevano cabine larghe e lussuose, vele di seta, e saloni con finestre. Tutte erano costruite in bacini di carenaggio a Nanchino, il cantiere navale più grande e avanzato del mondo. Nei tre anni dopo il 1405, 1.681 navi furono costruite o riadattate a Nanchino. Nulla di neanche lontanamente paragonabile sarebbe stato immaginabile nell’Europa dell’epoca4.

Ma l’avventura tecnologicamente avanzatissima della flotta navale cinese venne bruscamente ridimensionata a partire dal 1430, per motivi che con la tecnologia non hanno nulla a che vedere. Un nuovo imperatore decise di limitare le esplorazioni e i commerci, considerati troppo costosi rispetto al ritorno economico conseguito, e avviò una politica – destinata a proseguire per tutto il XVI secolo – di isolamento territoriale e di assoluta ostilità verso l’e239

spansione navale: la costruzione di navi di grandi dimensioni e in grado di affrontare l’oceano arrivò ad essere punita con la morte. Senza questo sviluppo, le esplorazioni che i cinesi avevano avviato nei primi anni del XV secolo non sarebbero state interrotte, lo sviluppo tecnologico delle loro formidabili navi nemmeno, e la storia del mondo sarebbe stata probabilmente assai diversa5. Quel che questi esempi (e i molti altri che potrebbero essere fatti6) ci insegnano è che il mondo delle tecnologie non è un settore chiuso e autoreferenziale. I suoi sviluppi specifici sono certo assai rilevanti, e – come abbiamo cercato di mostrare nel caso del libro elettronico – non vi è dubbio che molti di essi richiedano determinati prerequisiti tecnici, ma è rischioso ritenere che tutto si risolva in una dialettica puramente tecnologica, come sembra spesso sottintendere Kurzweil. Tuttavia, la nozione di ‘falso pretendente’ è dotata di notevole potere espressivo ed esplicativo, e Kurzweil ha sicuramente buon gioco nell’applicarla al libro elettronico dell’inizio degli anni ’90, da lui identificato in primo luogo con la tecnologia del CD-ROM visualizzato sullo schermo di un computer da scrivania. D’altro canto, identificare e distinguere i falsi pretendenti dai legittimi eredi è tutt’altro che facile: nello stesso articolo, Kurzweil osserva come le audiocassette si siano rivelate solo falsi pretendenti alla sostituzione della tecnologia fonografica, ma sembra invece considerare i CD come i legittimi eredi del disco di vinile: oggi le audiocassette sono indubbiamente quasi scomparse, ma i CD – incalzati da lettori MP3 e musica in rete – non godono certo di buona salute. Si è trattato anche in quel caso di un falso pretendente, o di un legittimo erede dal regno particolarmente breve? Un altro problema è identificare esattamente a quale livello, a quale tipo di ‘oggetto tecnologico’ si possano applicare queste classificazioni. Nel nostro caso, la tecnologia dominante e ‘matura’, quella del libro a stampa, è ben conosciuta e facilmente individuabile, ma dal lato degli sfidanti troviamo una situazione assai meno chiara. Potremmo riferirci, in generale, all’idea astratta di libro elettronico come l’abbiamo discussa nella seconda lezione? Ricorderete però che una delle tesi centrali sostenuta in quella sede è che ha poco senso parlare di e-book senza considerare anche le caratteristiche del supporto. E le differenze fra dispositivi di lettura appartenenti a generazioni diverse sono così forti 240

che avrebbe davvero poco senso chiedersi se, complessivamente, si tratti o no di falsi pretendenti. Il livello di analisi deve essere senz’altro più specifico, e soffermarsi quantomeno su classi di dispositivi accomunati da caratteristiche tecnologiche simili. È quel che abbiamo fatto cercando di distinguere una prima generazione di dispositivi di lettura, basata su schermi tradizionali, una seconda generazione basata su e-paper (o almeno sulle sue prime incarnazioni, ancora incapaci di colore e con un ‘refresh’ della pagina assai lento), e una terza generazione basata su display ad alta definizione, la cui resa grafica è migliorata dall’uso di tecnologie come la retroilluminazione a LED o l’uso di schermi OLED. Indubbiamente, la prima generazione di dispositivi di lettura non ha avuto successo: le sue caratteristiche erano troppo lontane dalla ‘perfezione ergonomica’ del libro a stampa, e la gestione della distribuzione e dei diritti troppo cervellotica e frammentata, per poter pensare di sostituirlo o anche solo di impensierirne la posizione di tecnologia dominante. E – come si sarà capito dalle considerazioni fin qui svolte – personalmente dubito che i dispositivi di seconda o anche di terza generazione possano proporsi fin d’ora come legittimi eredi in grado di sostituire il libro a stampa, anche se riescono a offrire una esperienza di lettura tutto sommato accettabile anche in situazioni lean back e in mobilità. Ma, dal punto di vista strettamente tecnologico, il progresso è indubbio. Kurzweil, già all’inizio degli anni ’90, considerava non lontano il passaggio dai falsi pretendenti (i primi e-book su CD-ROM) a una nuova tecnologia di lettura dominante, quella dei ‘virtual books’, destinati all’uso su dispositivi di lettura digitali e in grado di sostituire il libro a stampa, aggiungendovi nuove caratteristiche prima non disponibili. Nel farlo, indicava nella ‘stabilità’ dello schermo (assenza dello sfarfallio tipico dei primi monitor) e nella sua risoluzione due fattori essenziali al riguardo. Le sue tesi sono andate incontro a diverse critiche, ma è un fatto che abbiamo ormai a disposizione schermi virtualmente privi di sfarfallio, e che – con buona pace ad esempio di Terje Hillesund, che nel 2001 scriveva “lo sviluppo degli schermi a cristalli liquidi è stato sorprendentemente lento, e non vi è alcuna indicazione che schermi commerciali con una risoluzione di 200 dpi saranno disponibili ancora per parecchi anni”7 – non occorre essere né milionari né esper241

ti di tecnologia per avere oggi in tasca uno smartphone con uno schermo OLED e una risoluzione superiore ai 250 dpi. La maggior parte dei critici che si sono soffermati sull’aspetto strettamente tecnologico dei libri elettronici per sostenere l’esistenza di un divario incolmabile rispetto ai libri su carta, finiscono insomma per cadere proprio in quell’assolutizzazione acritica dell’aspetto tecnologico che spesso rimproverano ai sostenitori degli e-book. Lo sviluppo dei libri elettronici ha – come abbiamo visto – precondizioni tecnologiche che sono essenziali (buoni schermi ad alta risoluzione e alta leggibilità, portabilità, costi, durata delle batterie, ecc.); ma chi guardi con un minimo di buon senso all’evoluzione che ho cercato di delineare nella terza lezione, potrà assai difficilmente evitare la conclusione che queste precondizioni tecnologiche – già parzialmente avvicinate dai lettori di seconda e terza generazione – saranno soddisfatte in tempi non troppo lontani. E poco importa se questo accadrà a partire da sviluppi legati all’e-paper a colori e con refresh adatto ai filmati, o da un’ulteriore evoluzione degli schermi OLED, o da un’altra delle tecnologie allo studio. Le precondizioni tecnologiche, però, sono appunto solo precondizioni: perché i libri elettronici possano funzionare e diffondersi serve anche altro. Serve passare dalla balcanizzazione dei formati a standard condivisi (e solo recentemente, con la diffusione del formato ePub, ci stiamo forse avviando in questa direzione); servono politiche di gestione dei diritti che non siano eccessivamente penalizzanti per l’utente e garantiscano disponibilità e conservazione nel tempo degli e-book; serve da parte degli editori un’attenzione alle potenzialità innovative dell’editoria elettronica, libera dal vero e proprio terror panico che sembra aver caratterizzato finora l’atteggiamento di molti di loro; servono utenti, che, nel frattempo, non abbiano dimenticato e non dimentichino i piaceri delle forme di testualità legate alla cultura del libro, e servono politiche culturali che – in particolare nel campo della scuola e della formazione – aiutino a raggiungere tale obiettivo. Una delle idee alla base di questo lavoro è che il cammino verso gli e-book vada guardato da chi ama i libri e la lettura in chiave certo attenta e vigile ma positiva, libera dal pregiudizio che spesso sembra ancora contrapporre la ‘vecchia’ cultura del libro e la ‘nuova’ cultura dei media digitali. Anche nel mondo dei me242

dia digitali il libro può conservare il suo ruolo e la sua essenziale funzione, a patto che i suoi difensori ed estimatori lo accompagnino in questa trasformazione, e ne seguano e indirizzino attivamente le modalità. Occorre, in particolare, aiutare i giovani a incontrare il libro all’interno del loro orizzonte informativo ed esperienziale, un orizzonte nel quale le risorse digitali hanno oggi un ruolo di estremo rilievo. Il libro è in grado di compiere questo passo: la capacità di rinnovarsi fa parte del suo genoma. Purtroppo, alcuni fra i suoi difensori sembrano non accorgersene. Nell’ormai lontano 2001, in occasione del primo convegno dedicato agli e-book organizzato presso l’Università della Tuscia, avevo proposto otto tesi, che riassumevano cosa secondo me i libri elettronici non dovrebbero essere8. Credo che quelle tesi restino valide, e debbano orientare il nostro percorso di avvicinamento all’e-book per evitare che esso prenda strade sbagliate. Le ripropongo quindi – con minime modifiche – in queste conclusioni: 1. Il libro elettronico NON è un formato alternativo per visualizzare del testo sullo schermo di un computer tradizionale. Né il computer da tavolo né i normali computer portatili possono competere col libro a stampa in quanto a facilità d’uso e portabilità, anche se possono risultare utili in situazioni di lettura attiva lean forward. I libri elettronici – se vogliamo che abbiano un futuro – devono poter essere letti anche utilizzando strumenti che per dimensioni, peso, portabilità siano più vicini al libro che al computer. 2. Il libro elettronico NON deve basarsi su formati chiusi e proprietari. L’esperienza del web insegna che l’uso di standard pubblici ed aperti è la migliore garanzia per la diffusione e l’affermazione di un medium elettronico. Nel caso degli e-book, gli standard aperti sono quelli proposti dall’International Digital Publishing Forum (formato ePub). Occorre dunque che i programmi di lettura offrano la possibilità di importare e, per le opere non protette, di esportare direttamente il testo elettronico da e verso tale formato, e che esso sia pienamente supportato da tutti i dispositivi di lettura. 3. Il libro elettronico NON nasce per essere stampato. Se leggendo un testo su un dispositivo informatico sentiamo il bisogno di stamparlo, vuol dire che non stiamo leggendo un libro elettro243

nico, o almeno non stiamo leggendo un libro elettronico ‘riuscito’, o che non lo stiamo leggendo sullo strumento giusto. 4. Il libro elettronico NON deve essere un oggetto ‘volatile’, che rischia di scomparire ogni volta che dobbiamo cambiare dispositivo di lettura o sistema operativo. I libri sono oggetti persistenti: quando compriamo un libro ci aspettiamo di poterlo conservare nella nostra biblioteca per anni ed anni. Si buttano giornali e riviste, dopo averli letti, ma di solito non si buttano i libri. L’uso di meccanismi di protezione che rendono illeggibile il libro elettronico dopo un certo numero di cambiamenti nel dispositivo di lettura o di reinstallazioni del relativo software è incompatibile con queste abitudini, e scoraggia il lettore dall’investire soldi nella costruzione di una propria biblioteca. In definitiva, dunque, anche questa impostazione danneggia le prospettive di sviluppo del settore. 5. Corollario: i meccanismi di tipo ‘pay per view’ possono funzionare per film, giornali, riviste (in generale, per informazione ‘di flusso’), ma – tranne in alcuni casi (repertori, enciclopedie, collezioni e corpora di testi) – NON per i libri. Non a caso, nel caso degli stessi film noleggiamo i DVD o i dischi Blu-Ray che desideriamo vedere una volta, ma acquistiamo quelli che amiamo di più. Anche quando gli e-book sono conservati ‘on the cloud’, all’interno dei server offerti dai servizi di vendita on-line, occorre quindi garantirne la piena e continua disponibilità. 6. Il libro elettronico NON deve essere un oggetto chiuso neanche dal punto di vista della fruizione: deve poter essere commentato, annotato, prestato, regalato, proprio come è possibile fare nel caso dei libri su carta, sfruttando anzi le maggiori possibilità di circolazione e condivisione dell’informazione messe a disposizione dalle nuove tecnologie. È tecnicamente possibile garantire la salvaguardia dei diritti di autori ed editori senza bisogno di impedire queste operazioni, che sono del resto fondamentali per aiutare la diffusione dei libri e per promuovere – anche attraverso nuovi strumenti di rete e servizi innovativi – la dimensione sociale della lettura. 7. Il libro elettronico NON deve essere pensato come strumento destinato unicamente alla lettura di informazioni testuali: deve essere possibile, come già accade nel caso dei libri a stampa, l’inserimento di illustrazioni, tabelle, formule scientifiche e mate244

matiche, e deve essere inoltre possibile – se l’autore ritiene opportuno farne uso – l’inserimento di contenuti multimediali come suoni, video, animazioni interattive. 8. Il libro elettronico NON deve orientarsi unicamente verso la visualizzazione o la lettura di testi lineari, così come NON deve orientarsi programmaticamente verso la visualizzazione o la lettura di ipertesti multimediali: deve essere aperto a entrambe le possibilità, permettendo all’autore di strutturare il proprio testo nel modo da lui considerato più conveniente e di esplorare, se ritiene di farlo, nuove forme di organizzazione dei contenuti, rese possibili dall’uso del formato digitale. Le ultime due tesi, e l’insieme di sviluppi discussi nella sesta lezione, pongono un problema di grande rilievo: quello dei confini dell’idea di libro elettronico. Se un e-book può includere animazioni e componenti interattive, dove finisce il libro e dove comincia, ad esempio, il videogioco? I libri-chat della serie Vampire Academy annunciata dalla Penguin, che offrono un mix di lettura e interazione con una comunità di amici appassionati di vampiri, possono ancora essere considerati dei libri9? La dichiarazione fatta al riguardo dall’amministratore delegato di Penguin, John Makinson, nel corso della conferenza di presentazione dei nuovi titoli per iPad, è significativa: La definizione stessa di libro è pronta per essere ripensata. Non sappiamo se un’introduzione video al libro sarà utile ai consumatori. Troveremo una risposta a queste domande solo per tentativi ed errori10.

L’uso del termine ‘consumatori’ al posto di ‘lettori’ da parte di uno dei massimi responsabili di una delle più importanti case editrici al mondo lascia l’amaro in bocca, ma è probabilmente legata più alle caratteristiche del mercato editoriale globale – che vede nei libri, non importa se su carta o elettronici, innanzitutto l’aspetto di merci da consumare – che alla particolare tipologia dei contenuti propria dei nuovi e-book. Riguardo ai quali Makinson ha probabilmente ragione: solo il tempo permetterà di individuare nuovi generi e nuovi confini. È possibile che anche in questo caso l’interfaccia giochi un ruolo importante: una presentazione ‘paginata’ dei contenuti potrà rimandare ad esempio all’idea di li245

bro, anche se i contenuti sono fortemente interattivi. Così come, probabilmente, il contesto della cultura del libro potrà essere richiamato dall’uso del testo come strumento portante della trattazione. Non si tratta, comunque, di cambiamenti da subire passivamente. Nei prossimi decenni, molte delle funzioni tradizionalmente affidate al libro su carta passeranno probabilmente a libri elettronici letti utilizzando dispositivi che avranno più o meno la forma e le dimensioni di un libro, ma che permetteranno di fare anche molte altre cose, così come la funzione di telefono è ormai solo una fra le molte offerte dai moderni smartphone. Ma la capacità di rendere questi dispositivi – e i testi che vi leggeremo – anche eredi legittimi della cultura del libro, la capacità di conservare nell’era del digitale le forme di testualità complessa – narrativa e argomentativa – alle quali il libro ci ha abituato, dipenderanno in ultima analisi da noi. Il libro magico del cancelliere Tusmann è ormai, tecnologicamente, quasi alla nostra portata; ma l’uso che ne faremo e i libri che vi leggeremo, il modo in cui concretamente popoleremo di testi e di contenuti lo spazio di possibilità aperto dai nuovi dispositivi, dipenderanno in gran parte da scelte non solo tecnologiche ma innanzitutto sociali e culturali. Per fare le scelte giuste sarà importante, su pagine di carta o di bit, continuare a leggere.

Note

Introduzione 1 Isaac Asimov, Chissà come si divertivano!, trad. it. di Hilia Brinis, in Il meglio di Asimov, vol. I, Mondadori, Milano 1975, p. 235. 2 Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, trad. it. La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 1984, 20093. Su questo tema si veda anche Elizabeth L. Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change, Cambridge University Press, Cambridge (MA) 1979, one-volume paperback edition, 1980, 19976, pp. 453-488. 3 Roger Chartier, Forms and Meanings: Texts, Performances and Audiences from Codex to Computer, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1995, trad. it. Cultura scritta e società, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 1999, p. 23. Analogamente, Jason Epstein, in Publishing. The Revolutionary Future, in «The New York Review of Books», vol. 57, n. 4, March 11, 2010, http://www.ny books.com/articles/23683, considera il passaggio al digitale “un cambiamento tecnologico maggiore per ordini di grandezza rispetto alla pur importantissima evoluzione dagli scriptoria dei monaci alla stampa a caratteri mobili avviata sei secoli fa da Gutenberg nella città tedesca di Mainz”. 4 In letteratura si parla in realtà spesso di terza rivoluzione, omettendo però o il momento fondativo rappresentato dal passaggio da oralità a scrittura o – più spesso – quello rappresentato dal passaggio dal volumen al codex, dal rotolo al libro paginato (cfr. ad esempio la peraltro eccellente sintesi delle ‘tre rivoluzioni’ in Domenico Fiormonte, Scrittura e filologia nell’era digitale, Bollati Boringhieri, Milano 2003, pp. 36-53). Passaggio, quest’ultimo, che per i motivi che saranno discussi in seguito, legati alla centralità delle interfacce di lettura, ci sembra anch’esso meritevole di piena considerazione, pur nell’ambito di un elenco che è certo frutto di un’estrema semplificazione, e nel quale dovrebbe forse trovar posto anche la lunga fase di progressiva integrazione (e quindi sostituzione) dei supporti ‘sottili’ – papiro, carta, pergamena – ai supporti ‘spessi’ come tavolette d’argilla o tavolette cerate. Va rilevato che l’espressione ‘quarta rivolu-

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zione’ è stata utilizzata a proposito della rivoluzione digitale – ma in diverso contesto – da Luciano Floridi, che vede la centralità dell’infosfera come un quarto salto epistemologico dopo la rivoluzione copernicana, l’evoluzionismo darwiniano e il lavoro di Freud in campo psicoanalitico. Per una presentazione sintetica di questa tesi si vedano il video disponibile su YouTube, all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=N2AE8zy6PFo, e il podcast disponibile alla pagina http://philosophybites.com/2009/06/luciano-floridi-on-the-fourthrevolution.html. 5 Cfr. Harold A. Innis, Empire and Communications, Oxford University Press, Oxford 1950, DunDurn Press, Toronto 20074, trad. it. dell’edizione Press Porcépic, Victoria 1986 a cura di Andrea Miconi, Impero e comunicazioni, Meltemi, Roma 2001. Per una introduzione alle idee di Innis al riguardo si veda, oltre all’introduzione di Miconi alla traduzione italiana appena citata, il primo capitolo di Matteo Sanfilippo e Vincenzo Matera, Da Omero al cyberpunk. Archeologia del villaggio globale, Castelvecchi, Roma 1995. 6 Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1995, 2009, p. IX. 7 In particolare, alcune sezioni di questo lavoro riprendono, con aggiornamenti e modifiche, alcuni passi dei miei articoli seguenti: Libri elettronici: problemi e prospettive, in «Bollettino AIB», vol. 4, 2001, pp. 409-442; Quali e-book per la didattica?, in Roberto Delle Donne (a cura di), Libri elettronici. Pratiche della didattica e della ricerca, ClioPress, Napoli 2005, pp. 113-120; Leggere in formato digitale, in Claudio Gamba e Maria Laura Trapletti (a cura di), Le teche della lettura. Leggere in biblioteca al tempo della rete, Editrice Bibliografica, Milano 2006, pp. 82-90; Scritture digitali, in «Lettera internazionale», vol. 98, pp. 48-51; Google Book Search e le politiche di digitalizzazione libraria, in «Digitalia», n. 2/2009, pp. 17-35; e-Book e ipertesti: un incontro possibile?, in corso di pubblicazione in Jean-Philippe Genet e Andrea Zorzi (a cura di), Les historiens et l’informatique: un métier à réinventer, Actes de la table ronde, Rome, 4-6 décembre 2008, École Française de Rome, Roma.

I. Il libro e il cucchiaio 1 Corpus Inscriptionum Latinarum, I, 1007. Il testo latino è consultabile anche in rete, in Harry Thurston Peck e Robert Arrowsmith (a cura di), Roman Life in Latin Prose and Verse, American Book Company, New York 1894, pp. 1819, http://ia310838.us.archive.org/1/items/romanlifeinlatin00peck/romanlifein latin00peck.pdf. Dovrebbe essere disponibile anche all’interno del database CIL: http://cil.bbaw.de/cil_en/index_en.html, che tuttavia al momento della consultazione risultava non funzionante. 2 Werner Peek, Griechische Vers-Inschriften I, Akademie-Verlag, Berlin 1955, n. 1210 1-3, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura cit., p. 6. 3 Questa definizione, e parte di questo paragrafo, sono ripresi (con modifiche e integrazioni) dal paragrafo che ho dedicato alle interfacce in Fabio Ciotti e Gino Roncaglia, Il mondo digitale, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 181-183. 4 Il passo è riportato in Lo specchio di carta. Epigrammi, aforismi, frasi e brani sul leggere, lo scrivere, il libro e dintorni, redazione di Francesco De Fiore,

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prefazione di Valerio Magrelli, Il pensiero scientifico, Roma 1990, p. 90, ed ulteriormente ripreso in Piero Innocenti e Cristina Cavallaro, Passi del leggere, Vecchiarelli, Manziana 2003, p. 318. Di quest’ultima raccolta antologica – in cui sono inclusi anche i due passi di Croce e Contini citati più sotto – esiste una versione in rete, nel sito Letturaweb (http://www.letturaweb.net/) coordinato da Maurizio Vivarelli. 5 Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1989, p. 15. 6 Gianfranco Contini, Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Mondadori, Milano 1989, p. 136. 7 Salvatore Nigro, Corteggiamento, possesso, godimento, in Scuola Normale Superiore di Pisa, «NormaleNews on the web», Articoli/Numero Sette, 23 aprile 2007, http://normalenews.sns.it/print.php?sid=333. 8 Roger Chartier, Du Codex à l’Écran: les trajectoires de l’écrit, in «Solaris», dossier du GIRSIC, 1994/1, pp. 65-77, http://biblio-fr.info.unicaen.fr/bnum/ jelec/Solaris/d01/1chartier.html. Traggo la traduzione da Giuseppe Vitiello, Il libro contemporaneo, Editrice Bibliografica, Milano 2009, p. 42, che la riferisce però a un passo di Roger Chartier, Cultura scritta e società, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 1999, che non ritrovo alle pagine indicate. 9 Umberto Eco, Librai e millennio prossimo, in Vent’anni di Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, a cura di Silvana Ottieri Mauri, Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, Milano 2003, pp. 359-370. Eco torna sulla perfezione ergonomica del libro, quasi con le stesse parole, in varie sedi, e da ultimo in Jean-Claude Carriére e Umberto Eco, N’espérez pas vous débarasser des livres. Entretiens menés par Jean-Philippe de Tonnac, trad. it. Non sperate di liberarvi dei libri, Bompiani, Milano 2009, pp. 16-17. 10 Marshall McLuhan, Understanding Media, trad. it. Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 15. 11 Fabio Ciotti, Comunicazione, linguaggio e media, in Fabio Ciotti e Gino Roncaglia, Il mondo digitale cit., pp. 279-314, p. 294. 12 Steven Johnson, Interface Culture. How New Technology Transforms the Way We Create and Communicate, HarperEdge, San Francisco 1997, p. 14. 13 Erodoto, Storie II, 36, su cui cfr. Derrick De Kerkhove, Dall’alfabeto a internet. L’homme «littéré»: alfabetizzazione, cultura, tecnologia, Mimesis, MilanoUdine 2008, p. 35. In questo libro, De Kerkhove dedica al tema del verso della scrittura un interessante capitolo (pp. 35-62). 14 Cfr. Steven Roger Fisher, A History of Reading, Reaktion Books, Clerkenwell (London) 2003, pp. 67-68. 15 Un’utile discussione della differenza fra situazioni di fruizione lean forward e lean back, che ne sottolinea anche l’applicabilità al libro e alla lettura, è in Giulio Lughi, Cultura dei nuovi media. Teorie, strumenti, immaginario, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 168. 16 Cfr. Derrick De Kerckhove, Biblioteche e nuovi linguaggi: come cambia la lettura, in Claudio Gamba e Maria Laula Trapletti (a cura di), Le teche della lettura: leggere in biblioteca al tempo della rete, Editrice Bibliografica, Milano 2006, pp. 23-33. 17 George Landow (a cura di), Hyper/Text/Theory, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994, p. 14. Curiosissimo e suggestivo l’errore di stampa che troviamo in Maria Teresa Di Natale, Potere di Link. Scritture e letture dalla

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carta ai nuovi media, Bonanno, Acireale 2009, p. 41, in cui il termine diventa wreaters, aggiungendo alla connotazione della scrittura e della lettura quella del ‘mangiare’ il testo: un’idea che ricorda la lettura per morceaux, frammenti di testo “strappati coi denti”, risultato della metodologia della decomposizione applicata da Derrida al linguaggio. Cfr. George Landow, Hypertext. The Convergence of Contemporary Critical Theory and Technology, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1992, trad. it. Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna 1993, p. 11, con riferimento a J. Derrida, Glas, Denoël, Paris 1974, 19822. Alle edizioni successive di questo testo di Landow avremo occasione di far riferimento in seguito. 18 Le categorie fin qui considerate sono per molti versi diverse dalla celebre distinzione proposta da McLuhan (Gli strumenti del comunicare cit., pp. 31-42) fra media caldi (come la radio o il cinema, che “estend[ono] un unico senso fino a una ‘alta definizione’” e dunque richiedono un minor lavoro di ‘completamento attivo’ da parte del fruitore) e media freddi (come il telefono e la televisione, o almeno la televisione tecnicamente assai limitata degli anni ’50 e ’60, che “offrono poco” e richiedono dunque un maggior lavoro di “partecipazione e completamento”); una distinzione che tuttavia aveva anch’essa a che fare con la considerazione del tipo di attenzione richiesta all’utente. 19 Rolf Engelsing, Die Perioden der Lesergeschichte in der Neuzeit, in «Archiv für Geschichte des Buchwesens», vol. 10, 1970, coll. 945-1002, e Id., Der Bürger als Leser. Lesergeschichte in Deutschland. 1500 – 1800, Metzler, Stuttgart 1974. Su questa distinzione e sulle discussioni alle quali ha dato luogo cfr. Robert Darnton, What is the History of Books?, in «Daedalus», Summer 1982, pp. 65-83, ristampato in Id., The Case for Books, Public Affairs, New York 2009, pp. 175-206, p. 203. 20 Frederic Barbier, Histoire du Livre, trad. it. Storia del libro: dall’antichità al XX secolo, Dedalo, Bari 2004, pp. 11-12. Cfr. anche Giuseppe Vitiello, Il libro contemporaneo cit., p. 21. 21 UNESCO, Recommendation Concerning the International Standardization of Statistics Relating to Book Production and Periodicals, 1964, http://portal. unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13068&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SEC TION=201.html. Sulla definizione proposta dall’UNESCO si veda anche Giuseppe Vitiello, Il libro contemporaneo cit., pp. 21-23. In un interessante articolo su questi temi, Chris Armstrong ricorda come la definizione dell’UNESCO sia stata ripresa dall’Enciclopedia Britannica. Una curiosa testimonianza della sua fortuna è la singolare modifica – che porta a 64 pagine la soglia necessaria al raggiungimento dello status di libro – operata al riguardo da un’azienda tipografica di Tucson, la AlphaGraphics. Cfr. Chris Armstrong, Books in a Virtual World: The Evolution of the E-Book and its Lexicon, in «Journal of Librarianship and Information Science», 40/3, September 2008, http://cadair. aber.ac.uk/dspace/bitstream/2160/647/3/Armstrong_BooksinaVirtualWorld_ JOLIS.pdf. 22 Philip Smith, The Whatness of Bookness, nel sito della Canadian Bookbinders and Book Artists Guild, http://www.cbbag.ca/BookArtsWeb/book ness.html. 23 Edward Hutchins, Defining Books in the Electronic Age, http://www. artistbooks.com/editions/wiab.html.

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24 Cfr. Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009. 25 Roberto Casati, Tutto quello che Internet ci ha insegnato sulla vera natura del libro, progetto «text-e», novembre 2001, http://www.text-e.org/conf/in dex.cfm?switchLang=Ita&ConfText_ID=6. 26 Il documento è disponibile in rete, all’indirizzo http://www.ifla.org/files /cataloguing/frbr/frbr_2008.pdf. Una traduzione italiana è stata edita a cura dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche nel 2000: Requisiti funzionali per record bibliografici: rapporto conclusivo, trad. it. a cura di Gloria Ammannati Cerbai et al., ICCU, Roma 2000. Una utile introduzione alle FRBR è rappresentata da Barbara Tillet, What is FRBR? A Conceptual Model for the Bibliographic Universe, in «Technicalities», vol. 25, n. 5, Sept./Oct. 2003, disponibile anche come fascicolo edito dalla Library of Congress, http://www.loc.gov/cds/downloads/FRBR.PDF. Una introduzione in italiano è offerta da Mauro Guerrini, Requisiti funzionali per le registrazioni bibliografiche, in «Bibliotime», a. V, n. 1, marzo 2002, http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-v-1/guerrini.htm. Si veda anche Carlo Ghilli e Mauro Guerrini, Introduzione a FRBR (Functional Requirements for Bibliographic Records), Editrice Bibliografica, Milano 2001.

II. Il libro magico del cancelliere Tusmann 1 A conferma del proposito di divertita ironia sulla mania bibliofila di Tusmann, Hoffmann ci fornisce i dettagli bibliografici completi del libro: “Brevi lineamenti di avvedutezza politica, onde riuscire di buon consiglio a se stessi e altrui e imparare a condursi assennatamente in ogni umano rapporto. Della massima utilità per chiunque si presuma assennato o intenda ancora diventarlo. Tradotto dal testo latino del signor Thomasius. Segue indice dettagliato. - Francoforte e Lipsia - Per i tipi degli eredi di Johann Grossen – 1710” (in originale, “Kurzer Entwurff der politischen Klugheit, sich selbst und andern in allen Menschlichen Gesellschafften wohl zu rathen und zu einer gescheiden Konduite zu gelangen; Allen Menschen, die sich klug zu seyn dünken, oder noch klug werden wollen, zu höchst nöthiger Bedürfniß und ungemeinem Nutzen, aus dem Lateinischen des Herrn Thomasii übersetzt. Nebst einem ausführlichen Register. Frankfurt und Leipzig. In Verlag Johann Großens Erben. 1710”). Christian Thomasius (1655-1728) è stato un importante filosofo tedesco, e i dettagli relativi al libro presentati nel racconto di Hoffmann sono assolutamente autentici. La traduzione italiana dei passi del racconto che utilizzeremo in questa sede è tratta da Ernst T.A. Hoffmann, Racconti, trad. it. di Barbara Allason e Gemma Sartori, UTET, Torino 1981, pp. 193-279. 2 Ernst T.A. Hoffmann, Racconti cit., pp. 193-279, 273-275. 3 A mia conoscenza, l’unico riferimento al racconto di Hoffmann e al libro magico del signor Tusmann nel contesto delle discussioni sul libro elettronico è quello fatto da Hartmut Walravens nel suo intervento alla sessantaseiesima conferenza generale dell’IFLA (Gerusalemme, 13-18 agosto 2000): Hartmut Walravens, Die Zukunft der Zeitschriften – Realismus oder Utopie?, in «Mitteilungen der Staatsbibliothek zu Berlin», n. 2, 2000, http://staatsbibliothek-ber lin.de/deutsch/publikationen/2_2000/282_walravens/index.html, trad. ingl. di

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Hartmut Walravens, The Future of Serials - Realism or Utopia, 2000, http:// www.ifla.org/IV/ifla66/papers/143-144e.htm. In compenso, il testo tedesco del racconto di Hoffmann è disponibile in formato e-book, scaricabile dalla pagina http://txtr.com/text/bencz9/Hoffmann-E-T-A-Die-Brautwahl. 4 Il numero esatto dipende evidentemente dalle caratteristiche del formato di codifica prescelto; un libro elettronico di 250 pagine in formato solo testo occupa circa 500Kb, ed esistono numerosi algoritmi di compressione in grado di ridurre sensibilmente la quantità di memoria impegnata. Questo spiega come mai anche molti formati con migliori capacità di formattazione riescano a contenere le dimensioni di un libro elettronico lungo anche diverse centinaia di pagine entro il limite dei 500Kb. Naturalmente, la presenza di immagini può far salire considerevolmente questo valore, che è qui usato solo come puramente indicativo. 5 Cit. in David Streitfeld, E-Book Saga Is Full of Woe - and a Bit of Intrigue, in «Los Angeles Times», 6 agosto 2001. Si veda anche il giudizio analogo di Edna Annie Proulx, cit. in James J. Donnell, The Pragmatics of the New: Trithemius, McLuhan, Cassiodorus, in Geoffrey Nunberg (a cura di), The Future of the Book, University of California Press, Berkeley 1996. 6 Michael Gorman, The Library Shall Endure. A Conversation with Michael Gorman, February 2003, in The Book & The Computer, http://www.honco.net/ os/gorman.html (pagina non più raggiungibile nel gennaio 2010). 7 Magda Vassiliou e Jennifer Rowley, Progressing the Definition of “e-Book”, in «Library Hi Tech», 26/3, 2008, pp. 355-368, pp. 355-356. Nel sostenere questa tesi, Vassiliou e Rowley fanno riferimento a Lucy Tedd, E-Books in Academic Libraries: an International Overview, in «New Review of Academic Librarianship», vol. 11, n. 1, 2005, pp. 57-59, a Linda Bennett, E-books: The Options. A Manual for Publishers, The Publishers Association, London 2006, e alla relazione Promoting the Uptake of E-books in Higher and Further Education, JISC eBooks Working Group, London 2003, http://www.jisc-collections.ac.uk/ workinggroups/ebooks/coll_ebookstudy2_hefe.aspx. Due ulteriori rassegne sul problema della definizione del termine e-book – anche se parziali e ormai datate – sono offerte da Ruth Wilson, The Problem of Defining Electronic Books, 2000, EBONI Project, http://ebooks.strath.ac.uk/eboni/documents/definition. html, e da Harold Henke, Electronic Books and ePublishing, Springer-Verlag, London 2001, pp. 18-19. 8 Wikipedia, voce EBook, http://en.wikipedia.org/wiki/Ebook, nella versione del 15 aprile 2005. 9 Wikipedia, voce EBook, http://en.wikipedia.org/wiki/Ebook, nella versione dell’11 gennaio 2010. 10 John Feather e Rodney Paul Sturges (a cura di), International Encyclopedia of Information and Library Science, Routledge, London-New York 1997, p. 130. 11 John Feather e Rodney Paul Sturges (a cura di), International Encyclopedia of Information and Library Science, Routledge, London-New York 20032, p. 168. 12 Open eBook Forum, A Framework for the Epublishing Ecology, 2000, Version 0.78, http://www.idpf.org/doc_library/ecology.htm. 13 Documento ANSI/NISO Z39.7-2004: Information Services and Use: Metrics & Statistics for Libraries and Information Providers – Data Dictionary, http://www.niso.org/dictionary/section4.

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14 EBX Working Group, EBX System Specification, 2000, Version 0.8, http://xml.coverpages.org/ebx-spec08.pdf. 15 Chris Armstrong, Books in a Virtual World cit., p. 12. La definizione proposta pone in questo caso un ulteriore problema, quello di definire cosa si intenda per ‘schermo’ (tecnologie quali l’e-paper sono, come vedremo, assai lontane dagli schermi tradizionali). 16 Andrew Cox e Sarah Ormes, E-Books, in «Library and Information Briefings (LIBS)», n. 96, 2001. 17 Come vedremo nella prossima lezione, il progetto Gutenberg, archetipo di tutte le biblioteche digitali nate da iniziative di volontariato, è stato il primo a introdurre il termine e-book per riferirsi ai propri testi. 18 Promoting the Uptake of E-books cit. 19 Jan O. Borchers, Electronic Books: Definition, Genres, Interaction Design Patterns, intervento al convegno CHI’99 International Conference on Human Factors in Computing Systems, Pittsburgh (PA), May 15-20, 1999, http://media. informatik.rwth-aachen.de/materials/publications/borchers1999c.pdf, p. 1. 20 Si veda ad esempio la definizione di digital book in Clifford Lynch, The Battle to Define the Future of the Book in the Digital World, in «First Monday», vol. 6, n. 6, 2001, http://firstmonday.org/issues/issue6_6/lynch/. 21 Ad esempio nella definizione proposta da Ana Arias Terry: “Al suo livello più semplice, un e-book consiste in contenuto elettronico tratto da libri, riviste o materiali di riferimento tradizionali, scaricato dalla rete e visionato attraverso dispositive hardware”. Ana Arias Terry, Demystifying the e-Book, in «Against the Grain», 11, n. 5, 1999, pp. 18-21, http://www.against-the-grain. com/ATG_AnaEbook.html. Sostanzialmente analoga la definizione inizialmente fornita dal servizio NetLibrary dell’Online Computer Library Center (OCLC): “Il termine eBook si riferisce a materiali pubblicati, come libri di reference, monografie accademiche e libri commerciali, che sono stati convertiti in format digitale per la distribuzione elettronica”: NetLibrary, Help - Frequently Asked Questions, 2001-2005, http://legacy.netlibrary.com/help/unaffiliated _faq.asp#ebook. 22 Magda Vassiliou e Jennifer Rowley, Progressing the Definition of “e-Book” cit., p. 360. 23 La formulazione forse più rigorosa e autorevole di questa posizione, attenta a evitare la trappola dell’identificazione fra libro come oggetto testuale e libro effettivamente disponibile a stampa, è quella proposta da Jon Noring – uno dei protagonisti più autorevoli del mondo e-book – nel suo Message 16751 to the list The eBook Community, March 8, 2003, http://groups.yahoo.com/ group/ebook-community/message/16751: “Definisco un ebook come la manifestazione elettronica del testo di un’opera testuale canonica in forma di libro”. 24 Comunicazione personale via e-mail, 30 agosto 2005. 25 Giuseppe Laterza, Chiamiamolo DIASS, intervento al convegno Il libro elettronico entra all’università: quali e-book per la didattica e la ricerca?, Università della Tuscia, Viterbo, 8 maggio 2001, http://www.unitus.it/confsem/ ebook/discussione3.htm. 26 Jean-Gabriel Ganascia, Le livre électronique - Réflexion de prospective, 1995, CNRS-Cellule “Sciences de la cognition”, http://www-apa.lip6.fr/GIS. COGNITION/livr1.html. 27 Il concetto di lettore implicito è assai discusso in narratologia, a partire

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soprattutto dai contributi di Wolfgang Iser: Der implizite Leser. Kommunikationsformen des Romans von Bunyan bis Beckett, Fink, München 1972, 19792, trad. ingl. di Wolfgang Iser, The Implied Reader. Patterns of Communications in Prose Fiction from Bunyan to Beckett, John Hopkins University Press, Baltimore-London 1974; e Der Akt des Lesens. Theorie ästhetischer Wirkung, Fink, München 19842, trad. it. L’atto della lettura: una teoria della risposta estetica, Il Mulino, Bologna 1987. Al concetto di lettore implicito è parzialmente accostabile quello di lettore modello utilizzato da Eco: cfr. Umberto Eco, Lector in fabula: la cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1979, pp. 53-66. Lo stesso Eco in I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, pp. 17-21, offre una rapida ma utile sintesi della discussione su questi temi. Si veda al riguardo anche Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985, pp. 13-15. Dal punto di vista che ho cercato di illustrare in queste pagine, del lettore implicito è importante considerare non solo competenze, motivazioni, comportamenti di lettura, ma anche le condizioni materiali della lettura stessa. Ad esempio, molte delle considerazioni relative all’usabilità dei siti web e agli stili di ‘scrittura per la rete’ presuppongono un lettore implicito che non solo utilizza un ambiente di lettura elettronico, ma utilizza un certo tipo di ambiente di lettura elettronico (uno schermo verticale, che emette luce, tende a stancare rapidamente la vista, non è facilmente trasportabile; un programma basato sullo scrolling verticale del testo; ecc.). 28 Intorno al 1637 il matematico francese Pierre de Fermat annotò, in margine alla sua copia dell’Aritmetica di Diofanto: “È impossibile separare un cubo in due cubi, o una potenza quarta in due potenze quarte, o in generale, tutte le potenze maggiori di due come somma della stessa potenza. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina”. Da allora, la ricerca di una dimostrazione del teorema enunciato da Fermat ha impegnato generazioni di matematici. È improbabile che la dimostrazione trovata da Fermat, qualunque essa fosse, potesse essere effettivamente corretta – il teorema è stato dimostrato solo nel 1995 e con metodi estremamente complessi – ma il dubbio resta. Se Fermat avesse lavorato su un libro elettronico, con la possibilità di aggiungere annotazioni senza limiti di spazio, oggi disporremmo del suo famoso ‘ultimo teorema’. Sempre che, ovviamente, libro elettronico e annotazioni fossero giunti fino a noi come ha potuto fare il testo su carta: anche le modalità di conservazione nel tempo dell’informazione hanno evidentemente un ruolo importante nella valutazione delle caratteristiche dei supporti; un tema su cui torneremo. 29 Michael Gorman, The Library Shall Endure cit. 30 Semmai, come si è accennato, sono forme e strutture della testualità – e non certo l’uso della codifica digitale – ad essere influenzate dalle caratteristiche ergonomiche dell’interfaccia di lettura utilizzata. 31 Si vedano del resto al riguardo gli interessanti risultati raccolti già nel 2001 in Miriam Schcolnik, A Study of Reading with Dedicated E-Readers, a dissertation submitted in partial fulfillment of the requirements for the degree of Doctor of Philosophy, Nova Southeastern University, 2001, http://www.planete book.com/downloads/schcolnik.pdf. 32 Michele Santoro (nel suo Paperless variations: le alterne vicende del libro elettronico, in «Biblioteche Oggi», n. 5, 2005, pp. 7-18, e poi nel peraltro utilis-

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simo Biblioteche e innovazione, Editrice Bibliografica, Milano 2006, pp. 261263) considera questa idea come un esempio di determinismo tecnologico. Non è così: come ho esplicitamente sostenuto già nel testo al quale egli si riferisce (Gino Roncaglia, Libri elettronici: problemi e prospettive cit.), e come cerco di mostrare anche in questa sede, l’evoluzione prefigurata (e peraltro già chiaramente avviata fra il 2005 e oggi), pur avendo evidenti precondizioni tecnologiche, è ben lontana dall’essere unicamente o prevalentemente ‘technology driven’ e dipende in maniera essenziale da considerazioni legate – fra l’altro – all’usabilità delle interfacce, alle politiche di digitalizzazione, alla scelta di dedicare maggiore attenzione alle condizioni di fruibilità in ambiente digitale di forme di testualità prevalentemente lineari, alle scelte in materia di gestione dei diritti, ecc. Come osservava giustamente già nel 1993 Geoffrey Nunberg, “è chiaro che le nuove tecnologie avranno un effetto sul libro e sulle istituzioni che lo contornano. Il trucco è cercare di considerare questi cambiamenti senza scivolare in un determinismo totalizzante, e soprattutto senza assumere che ad essere in gioco sia qui un mero elemento tecnologico” (Geoffrey Nunberg, The Places of Books in the Age of Electronic Reproduction, in «Representations», 24, 1993, http://www-csli.stanford.edu/~nunberg/places3.html). Tuttavia, il rifiuto delle forme più estreme di determinismo tecnologico (rappresentato – nel nostro caso – dall’idea che i mutamenti nelle forme di fruizione dei testi siano unicamente e meccanicamente sovradeterminati dall’evoluzione tecnologica) non implica e non può implicare la rinuncia al certo non facile e sempre fallibile esercizio della previsione razionale, basato sull’analisi di precondizioni che sono in questo caso culturali e sociali ma anche – ovviamente – tecnologiche. Per una esposizione introduttiva delle ragioni per rifiutare forme estreme di determinismo tecnologico si veda già Fabio Ciotti e Gino Roncaglia, Il mondo digitale cit., pp. 312-314. Il dibattito sul determinismo tecnologico, nel contesto della discussione sull’evoluzione e sull’impatto sociale dei nuovi media, è stato fortemente influenzato dall’analisi critica delle tesi sul rapporto fra tecnologia e società avanzate da Innis e McLuhan; fra i molti rimandi bibliografici possibili al riguardo, si vedano almeno l’introduzione di Andrea Miconi a Harold A. Innis, Impero e comunicazioni cit., pp. 7-54, e Denis McQuail, McQuail’s mass communication theory, SAGE Publications, London 20055, pp. 85-87 e passim. Utili le distinzioni proposte in Andrea Miconi, Determinismo tecnologico, nel sito Elettropedia, http://www.elettropedia.org/determinismo_tecnologico.htm. Per un esame più generale dell’idea di determinismo tecnologico, non limitato al settore dei nuovi media, si veda Merritt Roe Smith e Leo Marx (a cura di), Does Technology Drive History? The Dilemma of Technological Determinism, The MIT Press, Cambridge (MA) 1994. Cfr. anche Donald A. MacKenzie e Judy Wajcman (a cura di), The Social Shaping of Technology, Open University Press, London 1985, 1999. 33 Tendiamo facilmente a dimenticarci delle molte ‘vittime’ dell’evoluzione dei media, dalla macchina da scrivere al giradischi, dalla posta pneumatica alle schede perforate. Il tema dei ‘media estinti’ ha un enorme fascino, e vale la pena ricordare, come memento per l’eccessivo entusiasmo che – anche nel campo dei libri elettronici – può suscitare questa o quella tecnologia, il lavoro di documentazione al riguardo avviato dal ‘Dead Media Project’ proposto da Bruce Sterling e a sua volta in qualche misura abbandonato (alla pagina http:// www.deadmedia.org/ si trova al momento solo un avviso di ‘work in progress’;

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ma cfr. la voce di Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/Dead_Media _Project). Cfr. anche Nicola Nosengo, L’estinzione dei tecnosauri. Storie di tecnologie che non ce l’hanno fatta, Sironi, Milano 2003. 34 Umberto Eco, Librai e millennio prossimo cit. 35 Geoffrey Nunberg, The Places of Books in the Age of Electronic Reproduction cit. 36 La definizione qui proposta costituisce una rielaborazione – e in parte una specificazione – di quella suggerita in Marco Calvo, Fabio Ciotti, Gino Roncaglia, Marco A. Zela, Frontiere di rete. Internet 2001: cosa c’è di nuovo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 105-106, e già sviluppata in Gino Roncaglia, Libri elettronici: problemi e prospettive cit. Abbastanza vicino alla definizione qui proposta è il significato più recente e ‘specifico’ del termine individuato in Sarah Ormes, An E-book Primer, 2001, http://www.ukoln.ac.uk/public/earl/issuepapers/ ebook.htm: “e-book è un termine vago utilizzato per descrivere un testo o una monografia disponibile in formato elettronico. [...] Sempre più spesso, però, il termine e-book è usato specificamente per descrivere un testo che richiede per essere letto l’uso di un software o di un hardware specifici. Questo software o hardware riproduce il testo in un formato digitale di alta qualità e di facile lettura, che si propone di imitare la qualità di riproduzione del testo offerta da un libro su carta”. 37 È d’obbligo ricordare al lettore che l’analisi qui proposta, in base alla quale sul medio-lungo periodo la diffusione di dispositivi di lettura di buona qualità limiterà il ruolo delle tecnologie di print on demand, non è condivisa da molti operatori del settore, che vedono invece nel print on demand la vera rivoluzione introdotta dalle tecnologie digitali nel mondo dell’editoria. Una tesi di questo tipo è ad esempio sostenuta in Jason Epstein, Reading: The Digital Future, in «The New York Review of Books», 48, n. 11, 2001, http://www.nybooks.com/ articles/14318 (una traduzione italiana è disponibile all’indirizzo http://www. text-e.org/conf/index.cfm?switchLang=Ita&fa= printable&ConfText_ID=13). In questo senso anche Sulaiman Adebowale, Is the Future Print-on-Demand? Increasing Revenue for Publishers in the 21st Century, 2002, in «Bellagio Publishing Network Newsletter», http://www.bellagiopublishingnetwork.com/ newsletter30/adebowale.htm. 38 Ricordiamo, accanto ai testi fin qui citati, anche i loro contributi all’interno del volume collettaneo che raccoglie gli atti del convegno internazionale tenutosi a S. Marino nel luglio 1994 e dedicato al futuro del libro: Geoffrey Nunberg (a cura di), The Future of the Book, University of California Press, Berkeley 1996.

III. Dalla carta allo schermo (e ritorno?) 1 Christian Vandendorpe, Du papyrus à l’hypertexte. Essai sur les mutations du texte et de la lecture, Boréal, Montréal 1999, La Découverte, Paris 1999, trad. ingl. con aggiornamenti From Papyrus to Hypertext. Toward the Universal Digital Library, Illinois University Press, Champaign 2009, http://vandendorpe.org/ papyrus/PapyrusenLigne.pdf. 2 Christian Vandendorpe, Livre virtuel ou codex numerique? Les nouveaux pretendants, in «Bulletin des Bibliothèques de France», 45, 6, 2001, p. 17,

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http://bbf.enssib.fr/consulter/bbf-2000-06-0017-001. Traggo la citazione (e la traduzione) da Michele Santoro, Biblioteche e innovazione cit., p. 233. 3 Umberto Eco, Librai e millennio prossimo cit. 4 Robert A. Heinlein, Space Cadet, Scribner, New York 1948, trad. it Il cadetto dello spazio, Bompiani, Milano 1952, con numerose edizioni successive. 5 Stanislaw Lem, Powrót z gwiazd, trad. it. Ritorno dall’universo, Garzanti, Milano 1975. Traggo il passo dal sito Technovelgy, http://www.technovelgy.com/ ct/content.asp?Bnum=1024. 6 Arthur C. Clarke, 2001: A Space Odissey, New American Library, New York 1968, trad. it. 2001: Odissea nello spazio, Longanesi, Milano 1969. Anche in questo caso, il passo è tratto dal sito Technovelgy, http://www.technovelgy. com/ct/content.asp?Bnum=529. 7 Una esauriente rassegna di modelli e tipologie di questo dispositivo fittizio è presente sulle pagine del Wiki Memory-Alpha, http://memoryalpha. org/en/wiki/PADD. 8 Se non avete visto il film, o se avete dimenticato questo particolare, date un’occhiata alla breve scena disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/ watch?v=4eSibJkRCsw. 9 Ben Bova, Cyberbooks, Tor, New York 1989, p. 12. 10 Ad esempio in Robert Darnton, The New Age of the Book, in Id., The Case for Books cit. 11 Il progetto è descritto in un famoso articolo pubblicato nel 1945 dalla rivista «The Atlantic Monthly»: Vannevar Bush, As We May Think, in «The Atlantic Monthly», 176, n. 1, 1945, pp. 101-108, http://www.theatlantic.com/ doc/194507/bush. L’articolo di Bush influenzò fortemente molti fra i pionieri dello sviluppo di sistemi informatici (fra gli altri Douglas Engelbart, di cui parleremo fra breve), ed è citato da Ted Nelson fra le fonti del suo lavoro sull’idea di ipertesto: cfr. Theodor H. Nelson, As We Will Think, in From Memex to Hypertext: Vannevar Bush and the Mind’s Machine, a cura di James M. Nyce e James M. Kahn, Academic Press, Boston 1991, pp. 245-260. Su Bush si veda anche G. Pascal Zachary, Endless Frontier: Vannevar Bush: Engineer of the American Century, Free Press, New York-London 1997. 12 Un filmato che mostra quale avrebbe dovuto essere il funzionamento del Memex è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=c539cK58ees. 13 Cfr. Ted Striphas, Book 2.0, in «Culture Machine», vol. 5, 2003, http:// culturemachine.tees.ac.uk/Cmach/Backissues/j005/Articles/Striphas.htm. 14 Un interessante video di tributo a Engelbart e alle sue realizzazioni è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=lAv-5Z7TPHE. 15 Douglas Engelbart, Augmenting Human Intellect: A Conceptual Framework, SRI Summary Report AFOSR-3223, Washington, October 1962, http://dougengelbart.org/pubs/augment-3906.html. 16 Ivi, sezione IV, paragrafi 4 e 5. 17 Cit. in Chris Armstrong, Books in a Virtual World cit., p. 6. 18 Con Yankelovich e Meyrowitz, van Dam è anche autore di uno dei primi articoli dedicati al tema del libro elettronico e alle differenze fra testualità elettronica e testi a stampa: Nicole Yankelovich, Norman Meyrowitz e Andries van Dam, Reading and Writing the Electronic Book, in «Computer», vol. 18, n. 10, ottobre 1985, pp. 15-30, ristampato in Paul Delany e George P. Landow, Hypermedia and Literary Studies, The MIT Press, Cambridge (MA) 1992, pp. 53-80.

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19 Il video dell’incontro dedicato dal Computer History Museum al quarantesimo anniversario del Dynabook è disponibile su YouTube, http:// www.youtube.com/watch?v=tQg4LquY0uU. 20 Noah Wardrip-Fruin e Nick Montfort, The New Media Reader, The MIT Press, Cambridge (MA) 2003, p. 391. 21 Cit. in Alan Kay, The Dynabook Revisited. A Conversation with Alan Kay, 2002, in The Book and the Computer, http://www.honco.net/os/kay.html. 22 Alan Kay e Adele Goldberg, Personal Dynamic Media, in «Computer», 10, n. 3, 1977, pp. 31-41, ristampato in Noah Wardrip-Fruin e Nick Montfort, The New Media Reader cit., pp. 393-404, http://www.newmediareader.com /excerpts.html. 23 Alan Kay, The Dynabook Revisited. A Conversation with Alan Kay cit. (il corsivo nella citazione è mio). 24 Ibid. 25 Un’eccellente introduzione al lavoro di Kurzweil è il breve filmato disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=YbwQvU1aUDc. 26 Un video che mostra le capacità del Blind Reader è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=jGTTOWk3mhI. 27 Michael Hart, History and Philosophy of Project Gutenberg, 1992, http://www.gutenberg.org/about/history. 28 Cfr. Michael Hart, A Brief History of Project Gutenberg, 2005, a cura di Biff Mitchell, http://www.biffmitchell.com/eBook_Week/Gutenberg.pdf. 29 Ibid. 30 Project Gutenberg, FAQ R.37, http://www.gutenberg.org/wiki/Guten berg:Readers%27_FAQ. 31 Per una veloce introduzione alla storia di Internet, si veda Marco Calvo, Fabio Ciotti, Gino Roncaglia, Marco A. Zela, Internet 2004. Manuale per l’uso della rete, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 480-499. 32 Lo Spelling Ace ha avuto in seguito molte incarnazioni, una delle più recenti è mostrata nel video disponibile alla pagina http://espanol.video.yahoo.com/ watch/4635163/12392275. 33 Una rapida sintesi dei primi passi nello sviluppo dei dispositivi dedicati, dalla quale traggo questo e alcuni altri dati riportati in seguito, è offerta da Ruth Wilson, Evolution of Portable Electronic Books, in «Ariadne», n. 29, September 2001, http://www.ariadne.ac.uk/issue29/wilson/. 34 Un video che mostra il Digital Book System Franklin in una delle sue ultime incarnazioni è disponibile alla pagina http://video.yahoo.com/watch/ 1299495/5706853. Il ragazzo che lo presenta non ha dubbi: meglio leggere un vero libro. E guardando il dispositivo, è davvero difficile dargli torto. 35 Un video che mostra le caratteristiche dello schermo di un modello del Data Discman risalente al 1993 è disponibile su YouTube, http://www.youtube. com/watch?v=ICBYrLWwOXQ. 36 I messaggi legati alla nascita del progetto Manuzio sono ancora conservati sul sito di Liber Liber, http://www.liberliber.it/comunicare/chisiamo/origini. htm. 37 Un video di YouTube – http://www.youtube.com/watch?v=uOz-E4Ou HMI – lo paragona impietosamente a un iPhone di oggi; la data che il video indica per il dispositivo (2000) è in realtà relativa alla successiva versione distribuita dalla Gemstar, e non a quella originale di Nuvomedia.

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38 Un video in cui vedere all’opera il SoftBook è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=kmFoQuml5Io. 39 Ruth Wilson, Evolution of Portable Electronic Books cit. 40 Per farvi un’idea del suo aspetto, potete dare un’occhiata al video disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=2VJGdBawuzs. 41 Trovate un video sullo Psion serie 3 – anche se relativo alla versione 3c, che esce solo nel 1996 – su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=yQoCSy MWFKI&feature=related. 42 Potete farvene un’idea guardando la videorecensione d’epoca che trovate su YouTube, seconda di una interessante serie tutta dedicata ai computer palmari del 1993, http://www.youtube.com/watch?v=ExVWoW_Vd7E; un emulatore dell’Apple Newton è disponibile per Windows e Mac, http://code.google. com/p/einstein/downloads/list. 43 Un curioso e interessante racconto della progettazione del Newton è fornito da Tom Hormby, The Story Behind Apple’s Newton, nel sito LowEndMac, http://lowendmac.com/orchard/06/john-sculley-newton-origin.html. 44 È possibile farsi un’idea delle dimensioni di questi ultimi modelli – più vicine a quelle di un netbook di oggi che a quelle di un dispositivo tascabile – in un filmato disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=bBWH27BXO fk. 45 Potete vederlo all’opera nel video disponibile su YouTube, http://www. youtube.com/watch?v=HlSTGO5LHJY. 46 Una storia assai dettagliata della nascita e dello sviluppo di Windows CE è in Chris Tilley, The History of Windows CE, http://www.hpcfactor.com/ support/windowsce/. 47 Un tutorial che ne illustra l’uso e le principali funzionalità è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=UaaI9-GiWD4. 48 Cfr. Elena Pistolesi, Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e SMS, Esedra editrice, Padova 2004. 49 Yukari Iwatani Kane, Ring! Ring! Ring! In Japan, Novelists Find a New Medium, in «The Wall Street Journal Online», September 26, 2007, http://online.wsj.com/public/article_print/SB119074882854738970.html. 50 Sven Birkerts, The Gutenberg Elegies. The Fate of Reading in an Electronic Age, Fawcett Columbine-Ballantine Books, New York 1994, 19952, p. 6. 51 Una rassegna di diverse applicazioni dell’e-paper, che dà l’idea dello stato dell’arte in materia a fine 2009, è disponibile su YouTube, http://www. youtube.com/watch?v=xe-wsh8ZFck. 52 Potete farvene un’idea nel breve filmato disponibile su YouTube, http:// www.youtube.com/watch?v=85O8bhkumqI. 53 Per farvene un’idea, guardate il video disponibile alla pagina http://cnettv.cnet.com/speed-test-kindle-vs-kindle-2/9742-1_53-50005375.html, che mette a confronto proprio relativamente a questa caratteristica la prima e la seconda generazione del Kindle. 54 All’indirizzo http://en.wikipedia.org/wiki/Comparison_of_e-book_readers. Un’altra tabella molto completa è offerta dal Mobile Read Wiki, un prezioso Wiki interamente dedicato al mondo e-book, http://wiki.mobile read.com/wiki/Ebook_Reader_Matrix. 55 Potete vederlo all’opera nel video di Antonio Tombolini disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=o2oObK4jSrU.

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56 Trovate una presentazione molto completa della versione PRS 550 nel video disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=Ud2GY50_4R0. 57 Una curiosa testimonianza di questo cambiamento di percezione è nella entusiastica e un po’ messianica presentazione – non priva di qualche imprecisione – che dell’Amazon Kindle fa Beppe Grillo in un suo spettacolo: potete trovare il filmato su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=BfEXLTd2RVk. 58 Da non perdere la prima videorecensione italiana del dispositivo, ad opera di Antonio Tombolini, su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v= dfdd5Oq-RE. 59 Una videorecensione del Kindle DX – fra le tante disponibili – è su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=CUCLyu-3bEE. 60 Per una lunga e dettagliata videorecensione, che illustra tutte le funzionalità del Nook, si può vedere su YouTube il filmato, http://www.youtube. com/watch?v=IiB5sPPkfms. 61 Si veda al riguardo il curioso video disponibile su YouTube, http:// www.youtube.com/watch?v=EnBrDDlgNRk. La recente versione DSi-XL, caratterizzata da uno schermo più largo, viene presentata come ancor più adatta allo scopo. 62 Un elenco è disponibile su Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/List _of_Android_devices.

IV. Problemi di forma 1 Un riferimento introduttivo al riguardo è il già citato, ottimo lavoro a cura di Fabio Ciotti: Fabio Ciotti (a cura di), Il manuale TEI Lite: introduzione alla codifica elettronica dei testi letterari, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2005. 2 Per una introduzione al concetto di informazione in formato digitale, di bit e di codifica dei caratteri rimando al primo capitolo di Fabio Ciotti e Gino Roncaglia, Il mondo digitale cit., di cui riprendo nel seguito qualche passo. 3 Si veda al riguardo Thom Parker, Navigating the Internal Structure of a PDF Document, nel sito PlanetPDF, http://www.planetpdf.com/developer/article. asp?ContentID=navigating_the_internal_struct&page=0. 4 Due presentazioni di Adobe Digital Editions, una in italiano e una in inglese, sono disponibili su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=4WprMV j51Pg e http://www.youtube.com/watch?v=Uo46qzccVVs&feature=related. 5 Una presentazione di Microsoft Reader, utilizzato su uno smartphone abbastanza recente, è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com /watch?v =6leuUdQQVXM. 6 Da http://www.mobipocket.com/en/Corporate/AboutMobipocket.asp? Language=EN. 7 Ibid. 8 Una presentazione di una delle prime versioni di Mobipocket per PocketPC è disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v= iPVDnf2MY4M&feature=related. 9 Potete trovarne una presentazione su YouTube, http://www.youtube.com/ watch?v=nAn6lmselTo. 10 Cfr. http://www.amazon.com/gp/feature.html?ie=UTF8&docId=10003

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01301. Potete trovarne una presentazione su YouTube, http://www.youtube. com/watch?v=r9aeH99g-vM. 11 Ibid. 12 Per una rassegna piuttosto esaustiva delle caratteristiche software del Kindle si può vedere su YouTube il video, http://www.youtube.com/watch?v= Ct2yoTIe5RU. 13 Cfr. Sherrie R. Whaley, UGA researchers find e-readers fall short as news delivery tool, http://www.uga.edu/news/artman/publish/100125_Kindle.shtml. 14 Per farvene un’idea, date un’occhiata alla pagina http://wiki.mobile read.com/wiki/E-book_formats. 15 La parte essenziale delle specifiche è quella relativa alla struttura della pubblicazione; la trovate sul sito dell’IDPF, http://www.idpf.org/2007/ops /OPS_2.0_final_spec.html. 16 Per fare qualche esperimento in più, potete trovare una raccolta di e-book in formato ePub di qualità leggermente migliore – ma ancora tutt’altro che soddisfacenti – alla pagina http://www.infogridpacific.com/igp/AZARDI/ePub %20Books%20and%20Resources/. E trovate la possibilità di acquistare questo libro in formato ePub alla pagina http://www.ebooklearn.com/libro. 17 Guardatelo all’opera nel video disponibile su YouTube, http://www. youtube.com/watch?v=Iratn-Vu8HU. 18 Per due rapide rassegne sullo stato dell’arte a fine 2009 dei software di lettura per iPhone e Android si vedano rispettivamente David Winograd, eBook Roundup: 8 Apps for iPhone Readers, nel blog Tuaw, http://www.tuaw.com /2009/08/13/ebook-roundup-8-apps-for-readers/, e il thread http://androidfo rums.com/android-applications/29333-e-book-reader-mini-review.html sul forum specializzato Androidforums. 19 Potete farvene un’idea guardando il filmato disponibile su YouTube, http://www.youtube.com/watch?v=HJ4t5X2ja2c.

V. Da Kant a Google: gestione dei diritti e dei contenuti digitali Cfr. Steven Roger Fischer, A History of Reading cit., p. 72. I testi fondamentali del dibattito sono raccolti e discussi in Riccardo Pozzo (a cura di), I. Kant, J.G. Fichte, J.A.H. Reimarus, L’autore e i suoi diritti. Scritti polemici sulla proprietà intellettuale, Biblioteca di via Senato, Milano 2005. Del saggio di Kant è disponibile in rete, con licenza Creative Commons, la traduzione di Maria Chiara Pievatolo, all’indirizzo http://bfp.sp.unipi.it/hj05b/56. 3 Come gli Open Archive: non ce ne occupiamo in questa sede, ma su questo prezioso strumento al servizio della comunità internazionale della ricerca si vedano Antonella De Robbio, Archivi aperti e comunicazione scientifica, ClioPress, Napoli 2007, http://www.storia.unina.it/cliopress/derobbio.htm e Mauro Guerrini, Gli archivi istituzionali, Editrice Bibliografica, Milano 2010. 4 Ben Bova, Cyberbooks cit., pp. 60-61. Può essere interessante confrontare le previsioni di Bova con le considerazioni svolte da Jason Epstein in Publishing. The Revolutionary Future cit. Per Epstein, come si è già ricordato, il passaggio al digitale costituisce per l’editoria “un cambiamento tecnologico maggiore per ordini di grandezza rispetto alla pur importantissima evoluzione dagli scriptoria 1 2

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dei monaci alla stampa a caratteri mobili avviata sei secoli fa da Gutenberg nella città tedesca di Mainz”. Come conseguenza di questa rivoluzione, l’editoria e le sue costose infrastrutture, “tipografie, depositi stipati di oggetti fisicamente inventariabili e trasportabili, canali di distribuzione tutti basati su costose sedi fisiche, si trovano di fronte alla prospettiva di svanire all’interno di una nuvola di depositi in rete, in cui alla fine tutti i libri del mondo si troveranno come file digitali, pronti ad essere scaricati istantaneamente, titolo per titolo, da dovunque sulla faccia della Terra esista una connessione”. 5 Paul Hawken, The Next Economy, Ballantine, New York 1984. 6 Per una discussione di questi temi si veda il volume – ben argomentato pur se spesso discutibile nella radicalità delle conclusioni – di Fabio Metitieri, Il grande inganno del Web 2.0, Laterza, Roma-Bari 2009. 7 Si vedano al riguardo almeno Giovanni Solimine, La biblioteca. Scenari, culture, pratiche di servizio, Laterza, Roma-Bari 20084; Fabio Metitieri e Riccardo Ridi, Biblioteche in rete. Istruzioni per l’uso, Laterza, Roma-Bari 20073; Riccardo Ridi, La biblioteca come ipertesto, Editrice Bibliografica, Milano 2007; Michele Santoro, Biblioteche e innovazione cit. 8 Per informazioni al riguardo, si veda il sito http://www.creativecom mons.org. 9 Per una bibliografia piuttosto ampia (ma limitata alla lingua inglese) di articoli e interventi su Google Book Search si veda Charles W. Bailey, Google Book Search Bibliography, http://www.digital-scholarship.org/gbsb/gbsb.htm. Nel momento in cui scrivo, la bibliografia è disponibile nella versione 5, aggiornata al 14 settembre 2009. 10 Questa sezione del libro si basa su una versione rielaborata di Gino Roncaglia, Google Book Search e le politiche di digitalizzazione libraria, in «Digitalia», n. 2/2009, pp. 17-35. 11 Cfr. Google Inc., Fourth Quarter and Fiscal Year2009 Results, January 21, 2010, http://investor.google.com/pdf/2009Q4_earnings_google.pdf. La quota di entrate di Google derivanti dall’advertising è stata peraltro negli ultimi anni sostanzialmente costante. 12 Cfr. Gino Roncaglia, I progetti internazionali di digitalizzazione bibliotecaria: un panorama in evoluzione, in «Digitalia», n. 1/2006, pp. 11-30, http://digitalia.sbn.it/upload/documenti/digitalia20061_RONCAGLIA.pdf. 13 Accanto alla già citata bibliografia di Charles W. Bailey mi limito a ricordare, in ambito italiano, l’approfondito articolo di Antonella De Robbio, La gestione dei diritti nelle digitalizzazioni di massa. Un’analisi alla luce del caso Google Book Search, in «Bibliotime», a. XII, n. 2, luglio 2009, http://www2.spbo. unibo.it/bibliotime/num-xii-2/derobbio.htm, e, sempre di Antonella de Robbio, l’aggiornatissimo 2010 Odissea Google Libri. Il Google Book Search Project e la nuova proposta di accordo transattivo, in corso di pubblicazione su «Biblioteche Oggi». 14 La proposta di accordo, le sue successive modifiche e altri materiali relativi alla causa, assieme ai moduli per la rivendicazione dei diritti d’autore sulle opere comprese nel database di Google Book Search, sono disponibili alla pagina http://www.googlebooksettlement.com. 15 La documentazione è consultabile anche in rete, alla pagina http://news. justia.com/cases/featured/newyork/nysdce/1:2005cv08136/273913/. 16 Cfr. http://digital-scholarship.org/digitalkoans/2009/09/20/u-s-depart ment-of-justice-files-objection-to-google-book-search-settlement/.

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17 Così, ad esempio, negli Stati Uniti era stato proposto nel 2003 e di nuovo nel 2005 un Public Domain Enhancement Act che avrebbe consentito il passaggio nel pubblico dominio di un gran numero di opere orfane in caso di mancato rinnovo del relativo copyright. Tale proposta, tuttavia, non è mai stata approvata dal Congresso. Proposte di legislazione su questo tema sono comunque ancora in discussione negli Stati Uniti sia alla Camera sia al Senato, e verrebbero inevitabilmente influenzate in maniera notevole – e in senso restrittivo – dalla formulazione dell’accordo fra Google e le associazioni di autori ed editori. Politiche di apertura relativamente alle opere orfane, una volta esercitata la dovuta cura (“due diligence”) nel tentativo di individuare i detentori dei relativi diritti, anche attraverso la creazione di infrastrutture in grado di favorire lo scambio di informazioni al riguardo (come il progetto europeo ARROW, su cui cfr. Piero Attanasio, Un approccio cooperativo per la gestione dei diritti nelle biblioteche digitali: il progetto ARROW, in «Digitalia», n. 2/2008, pp. 55-62), sono state del resto sollecitate in molte sedi. A livello europeo, il Final Report on Digital Preservation, Orphan Works, and Out-of-Print Works adottato nel giugno 2008 nell’ambito dell’iniziativa i2010 Digital Libraries ad opera del High Level Expert Group – Copyright Subgroup (il testo è in rete, all’indirizzo http:// ec.europa.eu/information_society/activities/digital_libraries/doc/hleg/reports/ copyright/copyright_subgroup_final_report_26508-clean171.pdf) si basa sulla considerazione per cui le iniziative “di digitalizzazione sistematica e su larga scala e di accessibilità on-line dei contenuti potrebbero essere gravemente danneggiate se non si trovassero soluzioni adeguate al problema delle opere orfane” (p. 10), raccomandando l’adozione di politiche europee comuni su questo tema e offrendo una cornice dettagliata per il concetto di “diligent search”. 18 Brewster Kahle, Google Claims to be the Lone Defender of Orphans: Not Lone, not Defender, post all’interno del blog della Open Content Alliance, http:// www.opencontentalliance.org/2009/10/07/google-claims-to-be-the-lone-defen der-of-orphans-not-lone-not-defender/. 19 Nel 2009, il numero complessivo di libri digitalizzati nell’ambito del progetto dovrebbe essersi avvicinato ai dieci milioni. 20 Robert Darnton, The Case for Books cit., p. 14. 21 Il documento è riportato in copia anastatica all’indirizzo http://docs.justia. com/cases/federal/district-courts/new-york/nysdce/1:2005cv08136/273913/179/, e può essere (forse più agevolmente) letto in formato testo alla pagina http://www.book-grab.com/germany2.txt. 22 Come ha fatto peraltro anche Robert Darnton, nell’articolo Google and the New Digital Future, in «The New York Review of Books», vol. 56, n. 20, December 17, 2009, http://www.nybooks.com/articles/23518. 23 Testo del memorandum francese, http://www.book-grab.com/france.pdf. 24 Si veda in particolare Robert Darnton, The Case for Books cit. 25 Cit. in Alison Flood, Thousands of Authors Opt Out of Google Book Settlement, in «The Guardian», 23 febbraio 2010, http://www.guardian.co.uk/ books/2010/feb/23/authors-opt-out-google-book-settlement. 26 Susanne Bjørner, Europeana and Digitization: The Collaboration Is Only Beginning, in «Information Today», September 10, 2009, http://newsbreaks. infotoday.com/NewsBreaks/Europeana-and-Digitization-The-CollaborationIs-Only-Beginning-56079.asp.

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27 La dichiarazione è disponibile in rete, alla pagina http://www.euractiv. com/29/images/Reding%20Position%20Google%20Books_tcm29-184905.doc. La dichiarazione afferma anche il sostegno per una eventuale collaborazione fra il progetto Google Books e le biblioteche nazionali francese e italiana (che dovrebbe comunque riguardare solo opere di pubblico dominio). 28 Cfr. http://www.dw-world.de/dw/article/0,,4942737,00.html. 29 Per informazioni al riguardo, si veda il comunicato disponibile sul sito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, alla pagina http://www.beniculturali.it /mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/Ministero/Accordi/Altri/visua lizza_asset.html_1672918906.html. Nel momento in cui scriviamo, non è stato ancora reso pubblico il testo integrale del protocollo d’accordo. È auspicabile ciò avvenga al più presto, senza dover aspettare, come accaduto in Francia nel caso dell’accordo fra Google e la Biblioteca di Lione (peraltro estremamente interessante: lo trovate in rete, all’indirizzo http://medias.francetv.fr/bibl/url_autres/2009/11 /27/59238762.pdf), addirittura il ricorso alla legislazione che garantisce l’accesso alla documentazione di interesse pubblico. 30 Ibid. 31 Il dato è stato fornito dai rappresentanti di Google nel corso di una audizione sul Google Book Search Settlement e sulle sue conseguenze per l’editoria e gli autori europei, tenuta alla Commissione Europea il 7 settembre 2009: cfr. http://www.ifrro.org/upload/documents/NOTESandANNEX_EC_Hearing_ Google_Settlement_7Sept09_1.pdf. 32 È ben vero che Europeana dichiara di raccogliere circa cinque milioni di ‘oggetti digitali’, ma nel conto sono inclusi anche immagini, brani sonori e video, record catalografici. Per dimensioni, il secondo progetto internazionale di digitalizzazione libraria – dopo Google Book Search – è HathiTrust (http:// www.hathitrust.org/), che vede la partecipazione delle biblioteche di 12 università del Midwest (fra cui la University of Michigan, la University of Iowa e la University of Illinois) e di 11 biblioteche della University of California. La base dati di HathiTrust comprende al momento quasi 5 milioni di volumi digitalizzati, ma la grande maggioranza di essi proviene proprio dal progetto Google Book Search, di cui le biblioteche partecipanti sono partner. Si tratta dunque più di una forma di conservazione ridondante finalizzata all’uso dei testi in un contesto universitario che di un progetto alternativo: il suo vero interesse è nel proposito di predisporre strumenti sofisticati di data mining e analisi testuale sui corpora testuali acquisiti. 33 L’assai discusso pamphlet di Jeanneney Quand Google défie l’Europe: plaidoyer pour un sursaut, Mille et une Nuits, Paris 2005, riassume le ragioni di questa polemica, e ha avuto una notevole influenza anche nel mondo anglofono, grazie alla traduzione inglese edita nel 2007 dalla Chicago University Press sotto il titolo Google and the Myth of Universal Knowledge. Interessanti sono al riguardo i materiali raccolti nella primavera 2008 da Randal C. Picker per il Tech Policy Seminar della University of Chicago Law School: http://picker.typepad. com/picker_seminar/week_1/. 34 Per un confronto anche qualitativo fra i due progetti si veda Kalev Leetaru, Mass Book Digitization: The Deeper Story of Google Books and the Open Content Alliance, in «First Monday», vol. 13, n. 10, October 6, 2008, http://www. uic.edu/htbin/cgiwrap/bin/ojs/index.php/fm/article/viewArticle/2101/2037. 35 Del rapporto fra TEI e progetti di digitalizzazione libraria su larga scala

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si è recentemente occupato John Unsworth, nel corso del suo intervento al meeting annuale del Consorzio TEI, svoltosi ad Ann Arbor nel novembre 2009. Un abstract del suo intervento è alla pagina http://www.lib.umich.edu/spo/tei meeting09/keynotes.html e le slide sono scaricabili dall’indirizzo http://www3. isrl.illinois.edu/~unsworth/TEI.MM09.pptx. 36 Google ha reso disponibili nel settembre 2008 le API per Google Book Search, e questo rende possibile includere in altri siti (embedding) l’anteprima del libro visualizzabile attraverso il sito. Tuttavia, le API distribuite non dialogano direttamente con la codifica XML del testo, che rimane nascosta. 37 È quanto sembra ricavarsi, ad esempio, da un post sul blog di Google consultabile alla pagina http://booksearch.blogspot.com/2009/02/15-millionbooks-in-your-pocket.html. 38 Analisi di questo tipo pongono evidentemente ulteriori problemi nel caso delle opere sotto diritti. Il settlement agreement offre al riguardo un passo interessante, relativo alle attività eseguibili dall’utente nell’ambito delle biblioteche che aderiscono al progetto, che includono “ricerche in cui analisi computazionali sono eseguite su uno o più libri, e ricerche in cui un ricercatore non ha la necessità di leggere o visualizzare porzioni sostanziali del testo per comprendere il contenuto intellettuale presentato” (un tipo di ricerca definito non-consumptive). 39 Per qualche esempio, si veda David Ludlow, Google Turns Classic Books into Free Gibberish eBooks, in «Computer Shopper», August 27, 2009, http:// www.expertreviews.co.uk/news/267379/google-turns-classic-books-into-freegibberish-ebooks.html. 40 Geoffrey Nunberg, Google’s Book Search: A Disaster for Scholars, in «The Chronicle of Higher Education», August 31, 2009, http://chronicle.com/article/ Googles-Book-Search-A/48245/. Si veda anche Geoffrey Nunberg, Google Books: A Metadata Train Wreck, nel blog Language Log del Linguistic Data Consortium presso l’University of Pennsylvania, http://languagelog.ldc.upenn.edu/ nll/?p=1701. Quest’ultimo intervento è seguito fra gli altri da un lungo commento di Jon Orwant, che spiega le ragioni di alcuni degli errori e ribadisce l’impegno di Google nel migliorare la situazione. Molti degli errori rilevati da Nunberg erano però ancora riscontrabili – non corretti – nel dicembre 2009. Una discussione su questo tema si è svolta recentemente anche in un incontro promosso dalla American Library Association, su cui cfr. Eric Hellman, Google Exposes Book Metadata Privates at ALA Forum, nel blog Go To Hellman, http://go-tohellman.blogspot.com/2010/01/google-exposes-book-metadata-privates.html. 41 Ibid.

VI. Quali libri ci aspettano? 1 Anthony Zuiker, presentazione di Level 26: Dark Origins, nel sito di Amazon, http://www.amazon.com/gp/product/0525951253. 2 Cfr. Stever Roger Fischer, A History of Reading cit., pp. 74-75. 3 Fedro, 275d-e. Questo e gli altri passi del Fedro sono citati nella traduzione di Piero Pucci, in Platone, Opere Complete, Laterza, Roma-Bari, 19896, pp. 207280. Non è qui possibile ricostruire neanche per sommi capi il complesso dibattito sul rapporto fra oralità e scrittura nel mondo greco (e non solo), di cui costi-

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tuiscono momenti essenziali Eric A. Havelock, Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1963, trad. it. Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari 1973; Id., The Literate Revolution in Grece and its Cultural Consequences, Princeton University Press, Princeton 1984; Walter Ong, Orality and Literacy: The Technologizing of the Word, Metuhen, New York 1982 (seconda edizione Routledge, New York 2002), trad. it. Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna 1986. Per una sua rapida ma efficace sintesi si veda Domenico Fiormonte, Scrittura e filologia nell’era digitale cit., pp. 36-47. 4 Cfr. Fabio Ciotti e Gino Roncaglia, Il mondo digitale cit., pp. 321-327. 5 Ripresa, assieme ad alcune delle considerazioni svolte in questa sede, da Fabio Ciotti e Gino Roncaglia, Il mondo digitale cit., pp. 325-327. 6 Riccardo Ridi mi fa giustamente notare che una considerazione in parte analoga si potrebbe fare per le biblioteche rispetto al singolo libro. 7 La sezione che segue riprende in parte il mio testo e-Book ed ipertesti: un incontro possibile?, in corso di pubblicazione in Jean-Philippe Genet e Andrea Zorzi (a cura di), Les historiens et l’informatique: un métier à réinventer cit. 8 Una rassegna utile – anche se ferma al 2002-2003 – è fornita al riguardo da Maria Teresa di Pace nel primo capitolo della sua tesi Il dibattito sull’ipertestualità in campo letterario, disponibile in rete all’interno del sito Un libro come una città e dintorni – City di Alessandro Baricco – Viaggi dentro e attorno al testo, http://www.labcity.it/Strumenti/Materiali/Ildibattitosullipertestualit%C3% A0/tabid/65/language/en-US/Default.aspx. Dopo questa data, va ricordata almeno la pubblicazione di George Landow, Hypertext 3.0. Critical Theory and New Media in an Era of Globalization, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2006, terza versione (talmente accresciuta e rimaneggiata da rappresentare più un nuovo libro che una nuova edizione) del classico Hypertext. The Convergence of Contemporary Critical Theory and Technology, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1992. In italiano, molte tematiche relative a storia e natura degli ipertesti sono affrontate in Paola Castellucci, Dall’ipertesto al Web. Storia culturale dell’informatica, Laterza, Roma-Bari 2009. Una presentazione sintetica ma assai chiara di alcuni aspetti importanti del concetto di ipertesto è in Riccardo Ridi, La biblioteca come ipertesto, Editrice Bibliografica, Milano 2007, pp. 31-41. 9 Giovanna Cosenza, Semiotica dei nuovi media, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 14. 10 Tanto da prestarsi immediatamente alla trasformazione in ipertesto elettronico: in tale forma, il racconto può essere ‘letto’ alla pagina http://www. gefilde.de/ashome/denkzettel/0013/queneau.htm e, in versione inglese, alla pagina http://post-post.net/asyoulikeit/. Il testo di Queneau era stato pubblicato per la prima volta su «Le Nouvel Observateur» nel luglio 1967. 11 Sulla storia dei libri-game cfr. Andrea Angiolino, Narrare per bivi, pubblicato nell’aprile 2004 all’interno del blog Riflessi di luce lunare, http://www.rill.it/?q=node/51, e, dello stesso autore, Costruire i libri-gioco. Come scriverli, utilizzarli per la didattica, la scrittura collettiva e il teatro interattivo, Edizioni Sonda, Casale Monferrato 2004. 12 Ilana Snyder, Hypertext. The Electronic Labyrinth, New York University Press, New York 1997, pp. 55-56. Cfr. George P. Landow, Hypertext 3.0 cit., p. 71 e Jay David Bolter, Writing Space. The Computer, Hypertext, and the History of Writing, Lawrence Erlbaum, Hillsdale 1991, pp. 163-164, trad. it. Lo spazio

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dello scrivere. Computer, ipertesto e la ri-mediazione della stampa, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 234-235. Il riferimento al concetto di intertestualità rimanda a Jonathan Culler, The Pursuit of Signs. Semiotics, Literature, Deconstruction, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1981. Su tale concetto cfr. anche Michael Worton e Judith Still (a cura di), Intertextuality: Theories and Practices, Manchester University Press, Manchester 1990, e in italiano Marina Polacco, L’intertestualità, Laterza, Roma-Bari 1998. 13 Un buon esempio di quel che si potrebbe fare è costituito dalla guida turistica in forma di libro elettronico interattivo che compare nel bel filmato Possible ou probable realizzato dalla società Editis. Lo trovate su YouTube, http:// www.youtube.com/watch?v=aK75RSQBZYs. 14 Raggiungibile all’indirizzo http://www.eastgate.com. Il catalogo degli ipertesti narrativi pubblicati dalla Eastgate è consultabile alla pagina http:// www.eastgate.com/catalog/Fiction.html. 15 Un’argomentazione in parte analoga è stata sostenuta da Umberto Eco durante un’intervista alla BBC con riferimento alla morte del principe Andrej in Guerra e pace. Cit. in Chris Armstrong, Books in a Virtual World cit., p. 13. 16 Rosa Maria Di Natale, Potere di link. Scritture e letture dalla carta ai nuovi media, Bonanno, Acireale 2009, p. 48. 17 René Descartes, Discours de la methode, Part II, § 11, trad. it. di Maria Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, a cura di Eugenio Garin, vol. 1, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 303. 18 Ho sviluppato questa tesi in Gino Roncaglia, Ipertesti e argomentazione, in Le comunità virtuali e i saperi umanistici, a cura di Paola Carbone e Paolo Ferri, Mimesis, Milano 1999, pp. 219-242. La stessa tesi era peraltro già espressa con grande chiarezza fin dal 1962 nella sezione III, paragrafo 4 del già ricordato e pionieristico lavoro di Douglas Engelbart, Augmenting Human Intellect: A Conceptual Framework cit. 19 Pietro Corrao, Saggio storico, forma digitale: trasformazione o integrazione?, abstract della relazione quadro della sessione dedicata a La saggistica e le forme del testo nell’ambito del I workshop nazionale di studi medievali e cultura digitale Medium-evo. Gli studi medievali e il mutamento digitale, Firenze, 21-22 giugno 2001, http://www.storia.unifi.it/_PIM/medium-evo/abs-Corrao.htm. 20 Ibid. 21 Robert Darnton, The Case for Books cit., pp. 76-77. 22 Fra questi, e a solo scopo esemplificativo, ricordiamo in italiano e in campo storico i lavori dello stesso Corrao (in particolare, Un dominio signorile nella Sicilia tardomedievale. I Ventimiglia nel territorio delle Madonie (sec. XIIIXV). Un saggio ipertestuale, in «Reti Medievali – Rivista», II, 2001/1, http:// www.storia.unifi.it/_rm/rivista/iper/venti.htm) e di Antonella Ghignoli (I Romani di CDL 206, in «Reti Medievali – Rivista», I, 2000/1, http://www.storia. unifi.it/_RM/rivista/iper/romani-sum.htm), ma anche – con modelli di volta in volta diversi – progetti di ambito letterario come L’HyperDecameron, diretto da Claude Cazalé Bérard (cfr. Claude Cazalé Bérard, Le projet HyperDécaméron, in «Le Médiéviste et l’ordinateur», n. 38, 1999, pp. 2-18, 40-43), o di ambito filosofico come l’HyperNietzche, al quale hanno lavorato Paolo D’Iorio e Hans Walter Gabler (http://www.hypernietzsche.org/). 23 La trovate alla pagina http://www.gapminder.org/downloads/flash-pre sentations/has-the-world-become-a-better-place/.

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24 Motoko Rich, Textbooks That Professors Can Rewrite Digitally, in «The New York Times», 21 febbraio 2010, http://www.nytimes.com/2010/02/22/ business/media/22textbook.html. 25 Al tema sono peraltro dedicati alcuni lavori specifici, fra i quali in italiano si segnala per completezza il recente lavoro di Mario Rotta, Michela Bini, Paola Zamperlin, Insegnare e apprendere con gli e-book. Dall’evoluzione della tecnologia del libro ai nuovi scenari educativi, Garamond, Roma 2010.

Conclusioni: falsi pretendenti e legittimi eredi 1 Li trovate anche in rete, all’interno del curioso e ricchissimo sito di Kurzweil, all’indirizzo http://www.kurzweilai.net/meme/memelist.html?m=13. 2 Raymond Kurzweil, The Future of Libraries, Part 1: The Technology of the Book, in «Library Journal», January 1992, pp. 80-81, http://www.kurzweilai.net/ articles/art0262.html?m=13. 3 Fra gli altri Michele Santoro, che dedica all’argomento di Kurzweil – e ad alcune fra le critiche alle quali è andato incontro – un’attenta e utile ricostruzione: Michele Santoro, Biblioteche e innovazione cit., pp. 243-252. 4 Fahred Zakaria, The Post-American World, W.W Norton & Company, New York 2008, p. 50. 5 Ibid. 6 Una interessante lettura al riguardo è offerta da Nicola Nosengo, L’estinzione dei tecnosauri cit. 7 Terje Hillesund, Will E-books Change the World?, in «First Monday», vol. 6, n. 10, October 1, 2001, http://www.uic.edu/htbin/cgiwrap/bin/ojs/index. php/fm/article/view/891/800. 8 Gino Roncaglia, Gli e-book sono davvero dei libri? Otto tesi su cosa i libri elettronici non dovrebbero essere, in Id., Attorno all’e-book: articoli e interventi, Università della Tuscia, Viterbo 2001. Libro elettronico disponibile sul sito web dell’Università della Tuscia, all’indirizzo http://www.unitus.it/virtual/e-book/ libreria/attorno_all_ebook.lit. 9 Il video di presentazione degli e-book Penguin per iPad, fra cui alcuni titoli per bambini e la serie Vampire Academy, è disponibile all’indirizzo http://vimeo.com/9883606, ed è facilmente reperibile anche su YouTube. 10 Cit. in Robert Andrews, First Look: How Penguin Will Reinvent Books With iPad, nel sito paidContent:UK, http://paidcontent.co.uk/article/419-firstlook-how-penguin-will-reinvent-books-with-ipad/.

Bibliografia e risorse di rete

1. Bibliografie generali e risorse di riferimento in rete Fornire una bibliografia completa sulle tematiche legate al futuro del libro e ai libri elettronici richiederebbe molto più spazio di quello disponibile in questa sede, ma fortunatamente sono disponibili in rete diverse risorse che possono risultare utili sia come orientamento generale sia per reperire riferimenti bibliografici e discussioni su temi specifici. Va innanzitutto ricordata, a questo riguardo, la Scholarly Electronic Publishing Bibliography (SEPB), a cura di Charles W. Bailey, Jr., che nel momento in cui scrivo è arrivata alla versione 77 del 15 dicembre 2009. I testi segnalati sono quasi esclusivamente in inglese, ma per quel che riguarda il mondo anglofono la copertura è davvero assai ampia. L’indirizzo è http://www.digital-scholarship.org/sepb/sepb.html. Lo stesso sito Digital Scholarship che ospita la SEPB include anche una bibliografia specifica sul progetto di digitalizzazione libraria avviato da Google Book Search. Sempre a cura di Charles W. Bailey, Jr., la Google Book Search Bibliography è disponibile alla pagina http://www.digitalscholarship.org/gbsb/gbsb.htm. Può anche essere utile ricordare alcuni siti di riferimento con informazioni e notizie aggiornate sul mondo degli e-book. A partire da TeleRead, all’indirizzo http://www.teleread.org/. Si tratta del sito più antico e probabilmente della fonte di informazioni più completa sul tema, ed è stato gestito per lungo tempo da David Rothman, una figura conosciutissima fra gli addetti ai lavori, che si occupa di e-book fin dal 1992. Nel febbraio 2010 TeleRead è stato venduto alla North American Publishing Company, e Paul Biba ha sostituito David Rothman come editore responsabile del sito. Altra risorsa utilissima è costituita dal Wiki MobileRead, all’indirizzo http://

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wiki.mobileread.com/; il suo forum, all’indirizzo http://www.mobileread. com/forums/index.php, costituisce uno dei punti di ritrovo in rete della comunità interessata al tema. Fra le diverse mailing list dedicate all’argomento, la più antica e conosciuta è The eBook Community (TeBC), oggi ospitata da Yahoo! Groups e raggiungibile all’indirizzo http://groups. yahoo.com/group/ebook-community/. Gli archivi 1996-2002 sono conservati all’indirizzo http://www.planetpdf.com/mainpage.asp?webpageid= 2300. Per l’Italia, il principale sito di riferimento sul mondo e-book è costituito dalla Simplicissimus Book Farm di Antonio Tombolini, all’indirizzo http://www.simplicissimus.it/, che accanto a un e-book store in cui è possibile acquistare diversi modelli di dispositivi dedicati offre un blog ricco di notizie e informazioni. La lista e-book Revolution, ospitata dalla sezione ‘gruppi’ di Google all’indirizzo http://groups.google.com/group/ebookrevolution?hl=it, è stata anch’essa promossa da Tombolini e costituisce uno dei principali punti d’incontro per chi si interessa di e-book in Italia. Luigi M. Reale ha dedicato notevole attenzione al tema degli e-book sul sito Italianistica Online: i suoi interventi al riguardo sono raggiungibili all’indirizzo http://www.italianisticaonline.it/it/ebook/, mentre all’indirizzo http:// www.italianisticaonline.it/e-book/ è disponibile un dossier sull’argomento, che al momento in cui scrivo è fermo alla versione 3.0 con ultimo aggiornamento nel 2004. Infine, il sito Ebooklearn, all’indirizzo http://www. ebooklearn.com, offre, accanto all’accesso al corso on-line promosso su questo tema dall’Università degli Studi della Tuscia, un forum e una community. Ricordo ancora che nell’ambito di tale sito, all’indirizzo http:// www.ebooklearn.com/libro/, sono disponibili alcune risorse e sei lezioni in video nate come integrazione al libro che avete in mano. Infine, fra le biblioteche digitali che permettono di scaricare e-book è bene ricordare innanzitutto – se non altro per ragioni anagrafiche – il progetto Gutenberg, all’indirizzo http://www.gutenberg.org, e poi, per dimensioni, Google Book Search, all’indirizzo http://books.google.com (e, per l’Italia, http://books.google.it/), e la collezione disponibile attraverso l’Internet Archive, erede del progetto di digitalizzazione avviato – e poi abbandonato – da Microsoft, all’indirizzo http://www.archive.org/de tails/texts. Scarso uso viene per ora fatto dei formati e-book nelle altre principali biblioteche digitali; comunque per l’Europa vanno sicuramente citate Gallica, progetto avviato dalla Biblioteca Nazionale Francese, il cui sito, recentemente rinnovato, è raggiungibile all’indirizzo http://gal lica.bnf.fr/, e Europeana, progetto di integrazione delle risorse del web culturale europeo, all’indirizzo http://www.europeana.eu. Una menzione merita anche la World Digital Library promossa dall’UNESCO, e raggiungibile all’indirizzo http://www.wdl.org/en/. Per l’Italia, ricordiamo la biblioteca digitale del progetto Manuzio, che dovrebbe avviare nel prossimo futuro anche la distribuzione di testi in formato ePub e che è rag-

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giungibile all’indirizzo http://www.liberliber.it/biblioteca/, e – purtroppo ancora abbastanza povera di testi – la Biblioteca Digitale Italiana, all’indirizzo http://www.bibliotecadigitaleitaliana.it/. Una raccolta di e-book gratuiti in italiano è messa a disposizione da Simplicissimus Book Farm, all’indirizzo http://ebookstore.simplicissimus.it/100_free. Altri e-Book in italiano sono disponibili nella sezione relativa ai testi in lingua italiana del progetto Gutenberg, alla pagina http://www.guten berg.org/browse/languages/it.

2. Alcuni testi di riferimento In questa sezione ho incluso i dati relativi a cinque libri in inglese e cinque in italiano, oltre a un testo in italiano disponibile in formato e-book, che sono specificamente dedicati al tema del futuro del libro e a natura e sviluppo dei libri elettronici; si tratta di testi che – pur se talvolta ormai datati – possono essere assai utili per un approfondimento degli argomenti trattati in questo volume. In inglese è da ricordare innanzitutto Nunberg, Geoffrey (a cura di): The Future of the Book, University of California Press, Berkeley 1996. Si tratta degli atti del bel convegno sul futuro del libro svoltosi a S. Marino nel 1994 per iniziativa di Umberto Eco e Patrizia Violi. Dalla sua pubblicazione sono ormai passati diversi anni, ma molti dei testi raccolti in questo volume anticipano tematiche che sarebbero diventate di grande attualità negli anni successivi, e il libro può considerarsi ancor oggi un riferimento obbligato. Più volte citato in queste pagine, va poi ricordato un libro che è invece recentissimo, anche se alcuni dei saggi che contiene risalgono ad alcuni anni or sono: Darnton, Robert: The Case for Books, Public Affairs, New York 2009. Infine, tre testi che costituiscono le sintesi a mio avviso più utili e complete – anche se non sempre necessariamente condivisibili, e ciascuna ovviamente con un taglio specifico – della discussione su natura e futuro dei libri elettronici: Cope, Bill e Philips, Angus (a cura di): The Future of the Book in the Digital Age, Chandos, Oxford 2006. Gomez, Jeff: Print is Dead. Books in Our Digital Age, Palgrave, New York 2008. Thompson, John B.: Books in the Digital Age, Polity, Cambridge (UK) 2005. In italiano, vanno innanzitutto ricordati due agili volumetti pubblicati nella prima fase di interesse per il tema degli e-book, e rappresentativi della situazione al momento della comparsa della prima generazione di lettori dedicati:

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D’Anna, Riccardo: e-Book. Il libro a una dimensione, ADN Kronos Libri, Roma 2001. Sala, Virginio B.: e-book. Dal libro di carta al libro elettronico, Apogeo, Milano 2001. Testimonianza della ripresa di interesse sul tema degli e-book dopo il periodo di crisi seguito al fallimento della prima generazione di dispositivi dedicati, e assai utili per una rappresentazione d’insieme del settore all’affacciarsi del dispositivi di lettura di seconda generazione, sono invece: Cavalli, Nicola e Solidoro, Adriano: Oltre il libro elettronico. Il futuro dell’editoria libraria, Guerini e Associati, Milano 2008. Di Natale, Maria Teresa: Potere di Link. Scritture e letture dalla carta ai nuovi media, Bonanno, Acireale 2009. Eletti, Valerio e Cecconi, Alessandro: Che cosa sono gli e-book, Carocci, Roma 2008. Infine, disponibile in formato e-book sul sito di Garamond, all’indirizzo http://www.garamond.it/index.php?pagina=666, e acquistabile con una interessante formula di ‘prezzo scelto dal lettore’, è il recentissimo: Rotta, Mario; Bini, Michela; Zamperlin, Paola: Insegnare e apprendere con gli e-book. Dall’evoluzione della tecnologia del libro ai nuovi scenari educativi, Garamond, Roma 2010.

3. Opere e lavori citati o utilizzati Questa sezione della bibliografia elenca i testi, a stampa o in rete, citati o richiamati all’interno del volume o che mi sembrano essere comunque di diretta rilevanza per la discussione di alcuni dei temi affrontati. Non ho incluso alcuni testi citati solo in maniera incidentale e non specificamente pertinenti, né – con le sole eccezioni di Cyberbooks di Ben Bova e del racconto di Hoffmann – le opere narrative, che sono comunque sempre identificate in nota al momento della citazione. Per completezza, sono invece nuovamente inclusi i testi citati nel paragrafo precedente. Aarseth, Espen J.: Cybertext. Perspectives on Ergodic Literature, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1997. Adebowale, Sulaiman: Is the Future Print-on-Demand? Increasing Revenue for Publishers in the 21st Century, 2002, in «Bellagio Publishing Network Newsletter», http://www.bellagiopublishingnetwork.com/newsletter30/ adebowale.htm. Andrews, Robert: First Look: How Penguin Will Reinvent Books With iPad,

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Fonti delle illustrazioni

Le illustrazioni utilizzate risultano tutte distribuite con licenza Creative Commons o comunque disponibili per uso a stampa. In assenza di fonte, le immagini sono state realizzate dall’autore.

Capitolo III Figura 1: http://www.flickr.com/photos/mwichary/3010032738/. Figura 2: http://www.flickr.com/photos/boltron/3991030352. Figura 3: http://www.flickr.com/photos/43354049@N00/516473039. Figura 4: http://www.flickr.com/photos/imabuddha/3224961132/. Figura 5: http://www.flickr.com/photos/librarycommission/2262899712/. Figura 6: http://www.flickr.com/photos/jurvetson/2608962510/. Figura 8: http://www.flickr.com/photos/tomconte/516564086/. Figura 9: http://www.flickr.com/photos/blakespot/2379207825/. Figura 10: http://www.flickr.com/photos/wooandy/119328897/. Figura 11: E Ink Corporation, http://www.eink.com. Figura 12: http://www.flickr.com/photos/ivyfield/3510266058/. Figura 13: http://www.flickr.com/photos/pmtorrone/218714303/. Figura 14: http://www.flickr.com/photos/librarianbyday/4174456950/. Figura 15: http://www.flickr.com/photos/dsifry/3477801056/. Figura 17: Courtesy by Apple.

Capitolo IV Figura 5: http://db.tidbits.com/resources/2010-01/ipad_ibook_two_pages.jpg.

Capitolo VI Figura 1: © Aptara, http://www.aptaracorp.com/index.php?/ipad.html. 287