Scolpitelo nel vostro cuore. Dal binario 21 ad Auschwitz e ritorno: un viaggio nella memoria 9788858521670

Non ditelo mai che non ce la potete fare, non è vero. Ognuno di noi è fortissimo e responsabile di se stesso. Dobbiamo c

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Scolpitelo nel vostro cuore. Dal binario 21 ad Auschwitz e ritorno: un viaggio nella memoria
 9788858521670

Table of contents :
Indice......Page 50
Frontespizio......Page 5
Il libro......Page 3
L’autrice......Page 4
Introduzione. di Daniela Palumbo......Page 7
Vi racconto una storia......Page 10
Le leggi razziali......Page 12
La guerra e la fuga......Page 17
La prigione......Page 22
Il viaggio verso Auschwitz......Page 26
Nel campo di sterminio......Page 31
La fine della grande Germania......Page 38
Il ritorno......Page 42
Io, senatrice a vita......Page 45

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Il libro

“L

a memoria di Liliana Segre cerca il suo approdo nel presente. Le

sue parole lo svelano: racconta di se stessa in guerra come una profuga, una clandestina, una rifugiata, una schiava lavoratrice. Usa

espressioni della nostra contemporaneità affinché la testimonianza del passato sia un ponte per parlare dell’oggi. Qui e ora. E, interrogando il presente, Liliana indica quel futuro che solo i ragazzi in ascolto potranno, senza indifferenza e senza odio, disegnare, inventare, affermare.”

L’autrice Nata a Milano 1938, quando è stata espulsa dalla scuola “per la colpa di essere nata”, come lei stessa racconta, aveva otto anni. A tredici anni ha vissuto l’esperienza della deportazione nel campo di Auschwitz-Birkenau. è partita il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della stazione Centrale di Milano ed è stata l’unica bambina di quel treno a tornare indietro. Nel 1990 è diventata testimone della Shoah. Da allora ha ricordato e rivissuto in pubblico il proprio dolore migliaia di volte, per seminare la speranza di un mondo diverso. Il 19 gennaio 2018 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha nominata senatrice a vita, e il suo ingresso in Senato è stato accolto da un lunghissimo, unanime, applauso.

Liliana Segre

SCOLPITELO NEL VOSTRO CUORE a cura di Daniela Palumbo

Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. PRIMO LEVI , La tregua

Introduzione di Daniela Palumbo

Ci sono molti modi differenti di essere testimoni della Shoah. Nel tempo, i sopravvissuti ai campi di sterminio hanno raccontato e ricordato, ognuno mettendo l’accento su un aspetto piuttosto che su un altro. C’è chi ha narrato l’orrore, chi la speranza, chi la quotidianità, chi invece i carnefici. Liliana Segre, ora Senatrice a vita, spesso inizia dicendo, proprio come nel nostro libro: «Questa è una storia che finisce bene». Il suo pubblico ideale sono i ragazzi, i giovani, quelli che lei chiama con affetto “i miei nipoti”. è a loro che si rivolge dicendo, appunto: «Questa è una storia che finisce bene». Eppure, sa che dovrà parlare loro di affetti spezzati, di dolore, di orrore, di morti innocenti, di freddi aguzzini. E allora, come può finire bene? Finisce bene. Non solo perché lei sopravvive, c’è molto più di questo nelle sue parole. Dobbiamo guardare anche all’invisibile quando ascoltiamo Liliana. A un lascito silenzioso che rivolge ai suoi nipoti ideali. Ciò che fa, testimoniando, è infatti affidare (termine che nel suo significato contiene la speranza di cura) il ricordo dell’orrore indicibile, il suo passato, a coloro i quali rappresentano il domani, i ragazzi. Perché è il futuro che interessa a Liliana. Il suo grido di dolore («Ma quanto le può fare male» mi chiedevo scrivendo i suoi ricordi «ogni volta rivedere con gli occhi della memoria la sofferenza attraverso cui è passata?») è un dono che questa meravigliosa donna semina affinché i ragazzi e le ragazze in ascolto possano immaginare un mondo senza le persecuzioni, l’indifferenza, l’ingiustizia, il dolore degli innocenti. Senza la guerra. Immaginarlo, per poterlo costruire. La memoria di Liliana cerca il suo approdo nel presente. Le sue parole lo svelano: racconta di se stessa in guerra come una profuga, una clandestina, una rifugiata, una schiava lavoratrice. Usa espressioni della nostra contemporaneità affinché la testimonianza del passato sia un ponte per parlare dell’oggi. Qui e ora. E, interrogando il presente, Liliana indica quel

futuro che solo i ragazzi in ascolto potranno, senza indifferenza e senza odio, disegnare, inventare, affermare. Ma un futuro va sognato, non va subìto. Per questo una delle cose che mi ha sempre colpito di Liliana è la sua capacità di guardarli in faccia i ragazzi e le ragazze - con le paure che abbiamo avuto tutti a tredici come a diciott’anni - e dire loro, a modo suo, che di ogni azione che lasciamo dentro il mondo, ci dobbiamo assumere la responsabilità. E questa è un’altra delle memorie preziose che ci consegna la Senatrice a vita. La coscienza dell’importanza che hanno le nostre azioni. Liliana, testimoniando, in fondo, affida ai nostri ragazzi anche il suo sogno di ragazza - quello che lei avrebbe avuto se non avessero cercato di cancellarle il futuro, per la colpa di essere nata: il sogno di un mondo in cui ci sia posto per la compassione. Fra tutti i sentimenti è quello che più ama e che più le è mancato perché negli anni della guerra, e anche dopo, le sarebbe stato di conforto se qualcuno le avesse chiesto perché si sentiva diversa dalle sue coetanee, perché si sentiva vecchia a quindici anni. Quando sentiva su di sé, Liliana ragazza, la stessa indifferenza che l’aveva consegnata allo sterminio. Quando qualcosa resta di quell’ascolto i ragazzi e le ragazze le si avvicinano e le chiedono: «Liliana, cosa possiamo fare per non disperdere le tue parole?». E lei risponde sempre: «Sconfessate la menzogna. Diventate candele della Memoria». Perché la Senatrice Liliana Segre sa che la menzogna è l’arma più potente dei carnefici, di ieri e di oggi. La sua storia, insomma, non ha fine. Continua dentro la Storia, qui e ora, attraverso i ragazzi che incontra. Che incontrerà. Tornando a lavorare con Liliana a questo libro, ho potuto riascoltare le sue parole: quelle che lei ha seminato nelle scuole, come un dono, ai ragazzi, e che sono le più potenti. E lo sono perché Liliana le pronuncia, ogni volta, con la consapevolezza del motivo per il quale quel giorno di quasi trent’anni fa decise di iniziare a essere una testimone della Shoah. Sono sue, solo sue le parole di questo libro. Non potrebbe essere altrimenti. Avere avuto cura delle parole di Liliana per me è stato più di un onore. È stata una carezza, un gesto di tenerezza che ho sentito ancora una volta nel cuore. Come accade ai ragazzi che l’ascoltano. Ogni lettore, ragazzo o

adulto, conserverà un passo delle parole di Liliana, quello che avrà un riverbero di luce più forte dentro di lui o lei. Personalmente, ne conservo uno che sarà per sempre. Non finirò mai di ringraziare Liliana per la scelta di non uccidere il suo carnefice. Di non vendicarsi. Perché mi ha insegnato che il valore di una persona passa per la capacità di assumersi la responsabilità, prima ancora che per la libertà. E questa coscienza nessun carnefice potrà mai sopprimerla.

Vi racconto una storia

Se sono qui, a raccontare questa lunga storia, è per i ragazzi. Solo per loro. E vorrei vedervi uno a uno, voi, lettori giovani, vorrei guardare i vostri occhi, che sono così importanti. Perché prima di ogni altra cosa, io sono una nonna. Una nonna tremenda, sapete? Una che non educa. Una che vizia. Vi racconto questo perché proprio quando nacque il mio primo nipote, Edoardo, si mosse dentro di me qualche cosa di così potente, di così istintivo, di così umano, così decisivo, che aveva a che fare anche con la maternità. Era qualcosa di così grande che dal silenzio della mia casa, dal silenzio di quarantacinque anni di silenzio su questo argomento, ho sentito, in quel momento, che ero in grado di diventare una testimone. Per parlare ai ragazzi, a tutti i ragazzi e le ragazze, miei nipoti ideali, oggi. Sì, sento, oggi più che mai, che può essere utile testimoniare, e voglio raccontare anche perché lo devo a tutti quelli che non sono diventati grandi, che non sono diventati adulti, che non sono diventati vecchi e che non sono diventate quelle persone che sarebbero state, se non fossero state sterminate per la colpa di essere nate. Racconterò una storia tragica, ma che finisce bene. E questo è importante, perché anche le storie tragiche possono finire bene. Mi chiamo Liliana Segre e sono nata a Milano, una città che amo profondamente. La mia casa era in corso Magenta, al 55. Sono nata nel 1930. E nel 1938 ero una bambina qualunque, di otto anni. Una bambina come mille altre, come milioni di altre bambine sotto tutte le latitudini e sotto tutti i cieli. Andavo nella scuola pubblica di via Ruffini, qui avevo fatto la prima e la seconda elementare. Ero molto amata in casa, ero una bambina serena, allegra, viziata anche. La mia era una famiglia di religione ebraica, ma i miei erano assolutamente agnostici. Non frequentavano la sinagoga, non frequentavano gli ambienti ebraici, erano cittadini italiani, fortemente patrioti. Io non avevo mai sentito parlare in casa di ebraismo, non sapevo molto sulla storia della mia famiglia, mi ero sentita sempre uguale alle mie compagne di scuola. C’era una sola differenza tra me e loro (ero in una classe femminile): io ero esonerata dall’ora di religione, perché ebrea. In classe ero l’unica.

Così, andava a finire che nell’ora di religione cattolica mi ritrovavo insieme alle bambine ebree delle altre aule a correre come matte nei corridoi. Le nostre compagne che restavano in classe ci invidiavano molto. Mi ricordo che ci dicevano: «Beate voi!». Eh sì, ci dicevano proprio così.

Liliana con il papà Alberto

LE LEGGI RAZZIALI

Nell’estate del 1938, una sera come tante, eravamo a tavola per la cena, io, mio papà e i miei nonni Olga e Giuseppe - mia madre era morta quando io avevo pochi mesi. Ero allegra e gioiosa, ero quasi sempre così in quegli anni. Però avvertivo qualcosa di diverso quella sera, a tavola. A un tratto papà cominciò a parlarmi, era emozionato, sapeva che mi avrebbe fatto soffrire e non avrebbe mai voluto dirmi una cosa così brutta. Cercò di spiegarmi con delicatezza che la terza elementare non l’avrei più potuta fare in via Ruffini. Ero stata espulsa dalla scuola. ESPULSA! Era una cosa grave, lo è ancora oggi. Per essere espulsi si deve aver fatto qualcosa di tremendo. Infatti, mi ricordo che chiesi subito: «Perché? Cosa ho fatto di male?». C’era questo senso di colpa che cominciai improvvisamente a provare dentro di me, senza capire per cosa. Solo poi, negli anni, compresi che la mia colpa era stata quella di essere nata. Ma quella sera c’era questa domanda che mi martellava in testa: «Perché? Perché? Perché?». Una domanda che mi agita ancora. Non riesco neppure oggi a rispondere a quel perché. Non ci potrà mai essere una risposta sensata, perché quello che accadde da quel momento in poi è assurdo. Mi sono ritrovata più di una volta nella mia vita a chiedermi con angoscia, con stupore: «Perché?». Senza mai aver avuto risposta. Quel giorno papà cercò di dare una spiegazione al mio perché. Ma era molto difficile per lui, poveretto, dirmi che avevamo perso - a causa di leggi razziali fasciste vergognose - i diritti civili. E, tra queste leggi, c’era il divieto assoluto per gli ebrei di frequentare le scuole pubbliche, sia come alunni di tutti gli ordini di scuola, sia come maestri, professori e docenti. Papà mi disse che le leggi valevano per tutti gli ebrei: anche gli ufficiali venivano cacciati dall’esercito, così come gli impiegati e i dirigenti dai ministeri. Avevano mandato via tutti gli ebrei da qualunque luogo pubblico. Non eravamo più cittadini. Ma io allora ero solo una bambina. A me tutto il resto non importava, non potevo sapere cosa significasse per tutti. Restai sbalordita e confusa, quella

sera di settembre, a sentire che non avrei più potuto fare la terza elementare nella mia scuola. Cambiai scuola e cominciai a frequentarne una privata, che mi accettò. Ma era vicina a via Ruffini, per andarci passavo tutti i giorni nella strada della mia vecchia scuola. Vedevo le mie compagne e loro iniziarono a segnarmi col dito. Questa è una cosa che io racconto sempre ai ragazzi perché loro possono capire. È importante a quell’età sentirsi uguali, quando stai insieme ai tuoi compagni. Io, invece, a otto anni cominciai a capire che le altre bambine mi consideravano diversa. Quando passavo con papà, mi segnavano col dito, le sentivo dire: «Quella lì è la Segre. Non può più venire a scuola perché è ebrea!». E io sono sicura che quelle bambine - come del resto io - non sapessero assolutamente che cosa volesse dire essere ebrea. Io, poi, ho avuto tanto tempo per capirlo. Perfino i testi, adottati nelle scuole da professori ebrei, vennero cancellati dai piani di studio. Furono tolti i libri scritti da ebrei dalle biblioteche comunali, accadevano cose assurde. Per le famiglie di religione ebraica iniziò quel periodo in cui in ogni luogo ci si sentiva diversi: nei negozi, in strada, dal medico, negli uffici. Non eravamo più italiani? Patrioti? Cittadini? Per esempio, mio padre e mio zio erano stati ufficiali nella Prima Guerra Mondiale e si sentivano profondamente italiani, amavano la loro patria. Eppure, venne restituita loro la tessera di ufficiali in congedo. Mi ricordo che la trovai anni fa, tra le vecchie carte di papà. Alberto Segre, di razza ebraica, viene cancellato. Anche dalle fila degli ufficiali in congedo! Dopo che erano stati in trincea, dopo che avevano combattuto per la loro Italia. E cominciai, così, a vivere una vita strana, una vita su due piani: casa e scuola. Ero come dissociata. Nella nuova scuola iniziai a essere invisibile, quasi in modo inconscio. Non parlavo mai con nessuno di quello che succedeva a casa mia, perché la mia casa - che era stata una casa serena, di persone modeste, perbene - in quel periodo fu spesso perquisita. Arrivavano i poliziotti che entravano con aria truce, cattiva. Ci dovevano trattare da nemici della patria, come improvvisamente eravamo diventati. E allora, entravano e perquisivano l’appartamento, venivano a fare degli interrogatori assurdi. Ricordo mia nonna che riceveva questi poliziotti, voleva essere gentile, gli offriva la torta. Ma quelli rifiutavano in malo modo. Io all’inizio stavo fuori dalla porta a

sentire, ma poi a un certo punto ho cominciato ad avere paura di quello che avrei potuto sentire e vedere. Mi arrivava il disprezzo delle risposte date ai miei nonni, mi sentivo male a sentire certe cose, e me ne andavo in camera. Diventavo grande, mi chiudevo in me stessa, e mi sentivo sola: avevo nove, poi dieci anni. Mi ricorderò sempre la sensazione di smarrimento dei miei parenti e di papà. Mio zio era addirittura fascista, e non riusciva proprio a rassegnarsi al fatto di essere dichiarato nemico della patria. Io non raccontavo niente alle mie nuove compagne di tutto questo terremoto che c’era nella mia vita. Cercavo di essere una bambina qualunque in classe, ma più silenziosa e schiva di prima. Scrutavo gli occhi di papà quando mi veniva a prendere, per capire se avesse subìto nuove umiliazioni, nuove delusioni, perché quello che capitò in quei primi anni della persecuzione fascista, e che mi fece davvero male, fu l’isolamento. Fu la solitudine. La solitudine del perdente. Dovuta all’indifferenza. L’indifferenza, sì. A volte, quasi sempre, è più grave della violenza. Perché dalla violenza uno sa che si deve difendere e si prepara, magari poi non ci riesce, però è preparato. Invece l’indifferenza di chi volta la faccia dall’altra parte, di chi non ti saluta più, di chi non si ricorda più di telefonarti, di chiederti come stai e dirti: «Sono vicino a te in questo momento che sei in disgrazia!», è pesantissima, gravissima. Fa male. L’indifferenza è complice. È quella che ha fatto dire a milioni di persone in tutt’Europa: «Ma io non lo sapevo! Io non avevo capito!». La solitudine del perdente, la solitudine del malato, del povero, dell’emarginato, è lì che scatta l’indifferenza. E come siamo pronti a salire, invece, sul carro del vincitore, del ricco, del fortunato, del divo, di quello che è popolare e ha un sacco di amici… Eh sì, è facile stare col vincitore. Ma quanto è difficile stare con gli ultimi! Però, gli amici del perdente, quelli che non ti abbandonano quando stai male, quando sei povero, quando sei emarginato, quando hai bisogno… be’, quelli sono amici con la A maiuscola. E non bisogna mai dimenticare che la parola amicizia ha la stessa radice della parola amore. Infatti, certe volte nella vita diventa più importante l’amicizia dell’amore. Noi li contavamo gli Amici veri, quegli amici che ci furono vicini fino in fondo, gli amici che arrivarono a rischiare la loro vita per noi. Quanto sono stati importanti. Tanto. Però, sta di fatto che la maggior parte delle persone che consideravamo

amici, persone care, ebbene, non furono amici. Ci abbandonarono. Furono indifferenti. Voltarono la faccia dall’altra parte. Non capitava solo a noi, naturalmente. A tutti gli ebrei. La maggior parte degli indifferenti non si accorse che 35.000 cittadini italiani, colpevoli solo di essere nati ebrei, venivano messi al bando. Eravamo diventati cittadini di serie B, fino a diventare cittadini di serie Z, e poi non bastò l’alfabeto. Ricordo una Liliana bambina che sentiva una grande solitudine. Si assottigliava ogni giorno il numero delle persone che ci salutavano ancora per strada, si contavano sulle dita di una mano quelli che telefonavano per dirci che ci erano vicini e che ci volevano bene. Eravamo molto soli. E allora, gli affetti familiari diventavano molto più importanti. Il piccolo gruppo familiare si stringeva in un amore, in un affetto che era molto più forte di prima. Era così importante quel nucleo familiare, quella tavola semplice.

Liliana in spiaggia a Celle Ligure, 1933

LA GUERRA E LA FUGA

Poi scoppiò la guerra, e anche Milano cominciò a essere bombardata. Era un continuo, quasi tutte le notti sentivamo le bombe cadere da qualche parte, anche vicino a noi. La maggior parte della gente, chi poteva, andò via e si rifugiò in campagna; lì si viveva in modo più tranquillo. Anche noi sfollammo in un paesino della Brianza, a Inverigo. Laggiù non c’erano scuole private. C’era un’unica scuola pubblica e io ero una ragazzina di dodici anni - eravamo nel 1942 - che non poteva frequentare. Mi ricordo che le altre bambine del paese erano curiose, mi chiedevano: «Ma tu, come mai non vieni?». Io, che avevo adottato il sistema di non parlare mai a scuola di quello che succedeva a casa mia, anche in quel caso rispondevo: «Sto a casa perché mio nonno è molto malato e lo devo curare». In realtà, questo era anche vero. Io curavo nonno Pippo, lo chiamavamo così, colpito dal morbo di Parkinson. Lo adoravo. Nonno tremava in tutto il corpo, sia negli arti che nella testa, ormai era terribilmente compromesso. Io stavo con lui tutto il giorno, lo amavo tantissimo. Lo imboccavo, gli tagliavo le unghie, fingevo un’allegria che non avevo; gli facevo delle recite, gli leggevo il giornale, ma purtroppo, mentre il corpo di nonno era in disfacimento, il cervello era perfettamente funzionante e sapevo che soffriva ad assistere alla rovina della sua famiglia. Nonno non poteva fare più nulla da solo e, in quelle condizioni, lui e nonna Olga, furono deportati, nel maggio del 1944, come nemici della patria, gasati e bruciati all’arrivo ad Auschwitz. Ma allora, tutte queste cose che accadevano nei campi di sterminio, noi non le sapevamo. A Inverigo sentivo la radio dei vicini che, al contrario di noi, essendo cattolici, potevano girare quella manopola che a noi era proibita, e sentire Radio Londra. Io ascoltavo e mi informavo sull’andamento della guerra, e poi raccontavo tutto a nonno. Le notizie ci facevano disperare perché a quel tempo i nazisti stavano mettendo, uno dopo l’altro, al tappeto gli eserciti di tutt’Europa. Polonia, Cecoslovacchia, Francia, Belgio, Ungheria… vincevano dappertutto. E dopo

venimmo a sapere che, man mano che conquistavano una nuova nazione, con una ferocia e con una forza del male incredibili vessavano tutti i cittadini ma, in modo particolare, perseguitavano gli ebrei di qualunque nazionalità. Quando raccontavo queste notizie dentro casa sentivo la disperazione aleggiare, e capivo. Capivo, ma non facevo domande. Dentro di me sentivo che qualche cosa di grave stava per succedere alla mia famiglia. Diventavo grande, e diventavo una bambina già vecchia. Nell’estate del 1943 i nazisti divennero padroni anche dell’Italia del Nord perché si costituì la Repubblica di Salò, un governo fantoccio guidato da Benito Mussolini e al servizio della Germania nazista. Allora, alle leggi razziali italiane, severe e umilianti, si sovrapposero le leggi della Repubblica di Salò, ancora più crudeli, e quelle naziste di Norimberga che facevano riferimento a due paroline: Soluzione Finale. Erano due termini sibillini di cui solo più tardi capimmo la reale portata. In quei giorni cominciò una vera e propria caccia all’ebreo. Ricordo che gli occupanti nazisti, coi loro servi repubblichini, aiutati da prefetti e questori solerti, avevano in mano gli elenchi di un censimento che era stato fatto tempo prima alla popolazione italiana di religione ebraica e, quindi, andavano di casa in casa ad arrestare uomini e donne, vecchi, bambini, anche neonati, donne incinte. Si muovevano sempre con uno spiegamento di forze incredibile. Capitava di vedere su quei camion bambini portati via da soldati armati fino ai denti. I nazisti promettevano anche ricompense a chi catturava ebrei: 5.000 lire a ebreo. Questa fu un’altra infamante vergogna di quei giorni terribili. Papà, a quel punto, decise che io sarei andata via, dovevo nascondermi; aveva paura delle continue retate dei fascisti. Aveva comprato, a caro prezzo, due carte d’identità false, una per me e una per lui. E io, stupida com’ero, coi miei tredici anni, mi rifiutavo di imparare a memoria quelle generalità che non erano le mie. Mi impuntavo. Proprio non capivo. «Ma come, papà? Devo dire che sono nata a Palermo? Ma perché devo imparare tutte queste bugie? Sono notizie false.» Lui, pazientemente, mi spiegava: «Liliana, devi imparare a memoria queste generalità perché possono salvare la vita a te, se sarai arrestata, e anche alle persone così buone da tenerti nascosta a casa loro». C’erano, infatti, questi amici con la A maiuscola, amici generosi che rischiarono la vita, e si offrirono di tenermi nascosta in casa loro. Così, lasciai

per sempre i miei nonni. Non sapevo, in quel momento, che non li avrei mai più rivisti. Per qualche mese rimasi nascosta in due famiglie di amici: persone straordinarie, per me indimenticabili che, con generosità, con affetto, mi ospitarono. Voglio scrivere il loro nome perché furono fra i giusti che incontrai in quegli anni: la famiglia Civelli e la famiglia Pozzi. Ma io, morta di nostalgia, lontana da casa e dagli affetti, quando mio papà, sfidando tutti i controlli con la sua carta di identità falsa, mi veniva a trovare presso questi amici, lo pregavo di portarmi via: «Partiamo! Andiamo in Svizzera. Fuggiamo. Ho paura. Non voglio stare sola. Non voglio stare qui». Lui mi diceva che dovevamo aspettare, che presto saremmo partiti. Attese a lungo un permesso per i suoi genitori che non voleva lasciare per paura che venissero fatti prigionieri, e lo ottenne, a caro prezzo anche quello. E io lo vidi poi, dopo la guerra, questo pezzo di carta straccia, che la questura di Como aveva rilasciato, scrivendo che Olga e Giuseppe Segre, per le loro condizioni psicofisiche, potevano restare sotto la custodia dei padroni di casa a Inverigo. Era la protezione che papà aspettava per i suoi genitori. Altrimenti non sarebbe partito, non li avrebbe mai abbandonati. Be’, noi credemmo a quel documento, perché si era abituati a credere alla parola data. Ma i miei nonni, nel maggio successivo, quando mio papà probabilmente era già morto ed io ero ad Auschwitz da qualche mese, furono arrestati nella loro casa, portati prima nel campo di concentramento italiano di Fossoli, vicino a Modena, e poi caricati sui treni della deportazione. Arrivarono vivi ad Auschwitz, dove furono immediatamente gasati e bruciati nei forni. Ma io e mio papà, a quel tempo, neppure immaginavamo che degli uomini avessero costruito un programma simile per altri uomini. Ricordo che fu un momento straordinario, quando, con quel documento in mano, papà venne a prendermi e mi disse: «Sì! Adesso sono tranquillo e io e te andiamo in Svizzera, Liliana!». La Svizzera rappresentava la salvezza per noi. Così credevamo. Ci affidammo a dei contrabbandieri. Non si poteva fare altro per cercare di passare il confine. I contrabbandieri di uomini, in quel periodo, fecero man bassa di quelli che erano renitenti alla leva, degli antifascisti e degli ebrei che volevano tentare la fuga in Svizzera. Hanno fatto i soldi, tanti, con la

disperazione del prossimo. Come gli scafisti odierni. E io, oggi, mi rivedo là, su quelle montagne dietro Varese, insieme a mio padre, con il freddo, e noi inadeguati nell’abbigliamento in quelle condizioni climatiche, piccoli borghesi, ridicoli in quel contesto, che tentavamo la fuga. I contrabbandieri di uomini li avevano contattati gli amici che mi avevano tenuta nascosta. Avevano organizzato tutto loro perché papà, dopo anni di persecuzione, era un uomo stressato, esaurito, impaurito. Cominciò anche questo viaggio. Trascinavamo su sentieri di montagna le nostre valigie, con dentro le poche cose che avevamo potuto portare via, ma avevamo con noi almeno la speranza, che non ci abbandonava. Mi sentivo un’eroina. Mi sentivo come un personaggio di quegli stupidi film che avevo visto quando ero ancora una bambina. Ho provato sulla mia pelle cosa significa essere una clandestina. Con i documenti falsi. Oggi, quando sento parlare di clandestinità, quante cose mi tornano in mente. Io lo sono stata, con mio padre, avevamo documenti falsi perché cercavamo di fuggire alla persecuzione. E sono stata una richiedente asilo. So cosa significa essere respinta quando pensi di essere salva. Dopo la fuga sulle montagne dietro la Svizzera, nel pieno dell’inverno del 1943, arrivammo a destinazione. La meravigliosa Svizzera. Che però non ci volle dare asilo. Anzi, ci rimandò dagli aguzzini. Sì, perché dopo questa avventura disgraziata sulle montagne, trovammo un funzionario svizzero tedesco, di cui non ho mai voluto sapere il nome, che con grande disprezzo e totale mancanza di umanità ci rimandò indietro, più o meno da dove eravamo scesi con grande fatica. Io e papà siamo dovuti tornare a quella rete dove, alla mattina - come i clandestini, come gli animali - eravamo passati sperando di essere salvi. Io avevo tredici anni, e lì mi sentii perduta. Dall’altra parte della rete avevamo i fucili puntati dei soldati italiani. Che ci catturarono. La nostra fuga era finita. Io so che significa essere respinti. Perdere in un attimo tutta la speranza.

Liliana con il papà al mare

LA PRIGIONE

Tutt’altro avrebbe voluto mio papà per me! Ero la principessina dei suoi sogni. Una figlia a cui dare il massimo. Invece, mi portarono in prigione. Difficile ricordare, senza commuoversi, i suoi polsi con le manette. Lui che non aveva mai fatto niente di male, che era stato ufficiale della Grande Guerra, che era una persona perbene. Eppure, al momento dell’arresto, venne ammanettato come un delinquente comune. Difficile ricordare una giornata così senza sentirsi un po’ morire dentro. Anche se oggi sono una donna vecchia. A tredici anni sono entrata nel carcere femminile di Varese, dopo che il nostro tentativo di espatriare in Svizzera era fallito. Papà fu rinchiuso in quello maschile. Ero completamente sola. Dentro quelle celle buie mi guardavo come dall’alto e mi dicevo: «Io sono in prigione! Io, io, io, io!». E mi domandavo: «Perché? Perché? Perché? Perché?». Ecco, un altro “perché?”, e anche a questo non ho mai trovato risposta. Lo disse anche Primo Levi, nelle righe di quel libro straordinario che è La tregua. È il 27 gennaio 1945. I tedeschi sono già scappati da Auschwitz, portandosi via i prigionieri che potevano ancora camminare. Dentro il campo sono rimasti i moribondi, i morti e i malati, come lo stesso Primo Levi. Quel giorno entrano i soldati russi ad Auschwitz. Superano quei cancelli che nascondono al mondo l’orrore. Non sono ufficiali, ma soldati giovani, persone semplici. Entrano a cavallo, guardano la devastazione, vedono quei corpi martoriati che escono dalle baracche come fantasmi. Guardano gli altri corpi, senza vita, scheletrici, lasciati sulla neve, come cose inutili. E cosa si legge nei loro occhi? Negli occhi dei quattro soldati russi c’è tutto lo stupore per il male altrui, così ce ne parla Primo Levi. Unico, eccezionale, Levi, nel raccontarci il senso di smarrimento di chi è innocente di fronte al Male. Ero già una donna libera da anni quando lessi il libro di Primo Levi e capii che questo sentimento fortissimo, che mi aveva accompagnato durante

tutto quel tempo, era stato lo stupore per il male altrui. Io non l’avevo mai capito fino in fondo, e non avrei mai saputo dirlo con le mie povere parole. Lo fece Primo Levi, con pochissime parole: tutto lo stupore per il male altrui. Ecco, io l’avevo vissuto, giorno dopo giorno, nella mia prigionia: guardandomi intorno, guardando come sono i cattivi, come sono gli ingiusti, così diversi dai giusti, così diversi dai buoni. Ed era uno stupore incredibile, pensare e vedere che delle persone assolutamente uguali - salvo per il peso, perché quelli non erano scheletri; salvo per la divisa, che per noi era quella a righe dei prigionieri, diversa dalla divisa dei soldati o delle guardiane del campo - ma le persone erano uguali. Non erano pazzi. Quando sento: «Hitler era un pazzo», dico no, assolutamente no. Hitler era un uomo molto intelligente, che aveva studiato a tavolino - aiutato da industriali, da chimici, da medici, da scienziati, da politici - la Soluzione Finale. Non c’era niente di improvvisato in quel programma. Era una macchina della morte perfettamente funzionante e ben congegnata. Hitler non era un pazzo. E neppure le persone che gli furono accanto e perseguirono i suoi stessi scopi. Lo stupore che c’è stato, fisso, dentro di me, bambina, poi adolescente, ma che ho compreso davvero quando ero già grande, non mi aveva, in realtà, mai abbandonato. Io, che avevo conosciuto un mondo semplice, piccolo borghese, di persone buone intorno a me, improvvisamente mi rendevo conto di cos’era l’orrore della cattiveria e della crudeltà umana. Quanti “perché” nella mia vita di bambina! Perché la secondina di Varese, che mi afferra e mi sbatte dentro una cella, non mi dice: «Poverina, non piangere. Vedrai che passerà»? No! Mi sbatte dentro con cattiveria, senza una parola, e la cella si chiude. E io non capisco. «Ma perché? Perché sono in prigione? Perché?» Poi ci misero nella prigione di Como. Sempre impronte digitali, fotografie. E nessuno che ti dicesse una parola gentile. Come una delinquente comune. «Ma perché, cos’ho fatto?» continuavo a chiedermi. Infine, ci portarono a Milano, nel grande carcere di San Vittore. Be’, io sono nata in via San Vittore! Ho sempre vissuto intorno a quella zona. Il muro che oggi circonda il carcere a quel tempo non c’era, è stato tirato su dopo la guerra, in seguito a una fuga. Dunque, da dentro il carcere si vedeva fuori. Vedevo piazza Aquileia e tutte le strade che mi erano care, dove avevo vissuto per dieci anni. A San Vittore stavamo insieme, donne e uomini. Io ero

felice perché entrai in carcere con mio papà, eravamo di nuovo insieme. Ci trovavamo nel quinto raggio, che era stato destinato agli ebrei. Le famiglie erano tutte riunite. E questa fu una cosa meravigliosa per tutti. Ritrovarsi dopo tanto tempo, anche se in prigione, fu una cosa bellissima: è difficile raccontare l’immensa gioia che provammo rivedendo i nostri cari. Quella piccola cella, la 202, fu l’ultima “casina” che io divisi con papà. Eravamo in prigione, certo, e non sapevamo che cosa sarebbe successo dopo, e neppure sapevamo quanto tempo avremmo passato lì dentro. Però eravamo insieme. Quando parlo con i ragazzi racconto sempre questa cosa perché loro intuiscono quanto sia importante, a volte, stringersi ai propri genitori. Perché i genitori non sono sempre fortissimi, non sono sempre vincenti. Al contrario, possono essere fragili, possono aver bisogno del nostro aiuto, possono essere dei perdenti, così come era il mio meraviglioso padre. E hanno bisogno di noi, più che mai. Ricordo che spesso gli uomini venivano portati via per gli interrogatori. Era la Gestapo a interrogarli, li torturavano per ore. Io restavo sola, in quella cella che dividevo con lui, lo aspettavo. E diventavo vecchia. Lui tornava, pallido e terrorizzato, e io non ero più la sua bambina, ero la sua mamma. Ero sua sorella. Lo abbracciavo, senza parole. Non c’era bisogno di parlare, vivevamo l’uno per l’altro. Sono stata molto fortunata nella mia vita, ho avuto tre meravigliosi figli. Il mio primogenito si chiama Alberto, come si chiamava mio padre. E, oggi, mio figlio è grande, alto, sano, ha una bella famiglia, è molto più vecchio di com’era mio papà, allora. Lui con me, con la mamma di ottant’anni, è affettuoso, è protettivo, è quasi paterno, e allora ho uno sdoppiamento nella testa tra questi due amori. Qual è il figlio? Quel povero Alberto disperato, che aveva la sua principessa in prigione, che mi chiedeva scusa di avermi messa al mondo? Sì, mi diceva questo in carcere: «Liliana, ti chiedo scusa di averti messa al mondo», perché non sopportava che soffrissi in quel modo, come lui. E io avevo una pena dentro quando lo sentivo chiedermi perdono del suo amore. E allora, mi facevo coraggio e rispondevo: «Papà, io sono contenta di essere qui con te! Non vorrei essere in nessun altro posto se non con te. L’importante è che stiamo insieme». Anche nella sofferenza c’era una comunione di spiriti fra me e lui che era meravigliosa.

Liliana a sei anni

IL VIAGGIO VERSO AUSCHWITZ

Il 30 gennaio 1944 un nazista, nel raggio del carcere di San Vittore, elencò i nomi di chi sarebbe stato portato via, in uno dei tanti trasporti. C’erano anche i nostri nomi. 605 ne elencò quel giorno il soldato nazista, da quel carico siamo tornati in 20. E quegli altri 585? Sono tutti morti. Uccisi o bruciati o fucilati o morti di fame o di malattia. 585, ma solo per quel trasporto, perché ne partirono in migliaia da quel binario 21 della stazione Centrale di Milano, di ebrei. La destinazione? Ignota. Almeno per noi, che non sapevamo nulla di quello che ci aspettava. Come si guarda in faccia il proprio padre che ha sognato per te una vita felice, per il quale eri una principessa, e niente era mai abbastanza perché tu fossi felice? Come si guarda in faccia un padre quando si sta andando al macello? Io ho avuto la fortuna di viverlo da figlia questo dramma. Quando sono diventata mamma, e ho visto i miei figli avere l’età che avevo io allora, e quando vedo oggi i miei nipoti, e li guardo, con tutti i loro programmi meravigliosi: di sport, di feste, di divertimento… Non avrei potuto sopportarlo come madre. E mi chiedo: «Come facevo? Come facevo a far finta di essere serena?». Abbracciavo mio papà, questo disperato padre con gli occhi rossi e la pena nel cuore. Ci preparammo a partire per l’ignota destinazione. Era una lunga fila di prigionieri. Eravamo in carcere, ma non avevamo fatto niente, solo che avevamo la colpa di essere nati. Attraversammo il cortile interno. San Vittore non era stato ancora rinnovato ed era un po’ come quelle prigioni americane che vediamo nei film, con tanti ballatoi davanti alle celle. Improvvisamente vedemmo tantissimi detenuti comuni affacciarsi a quei ballatoi. Furono fantastici! Ci fu un bagno di umanità e di pietà che ho sempre ricordato con riconoscenza. Sono voluta tornare a San Vittore. Ho incontrato i detenuti e ho fatto lì, dentro il carcere, la mia testimonianza. Perché è un debito che ho verso la loro pietà. Questa parola assolutamente inusuale allora, e anche oggi. Furono capaci di pietà, loro. È così importante avere pietà per qualcuno, nel senso buono del termine. La pietas latina è un sentimento di amore, di

compassione, verso un altro essere umano. È straordinario essere capaci di pietà verso l’altro ed è importante anche riceverla, soprattutto nei momenti in cui pensi che sia una parola dimenticata. I detenuti si sporgevano fuori dai ballatoi e ci buttavano una mela, un’arancia, un paio di guanti, una cosa qualsiasi ma, soprattutto, ci gridavano parole meravigliose: «Che Dio vi benedica! Vi vogliamo bene! Non avete fatto niente di male! Coraggio!». E fu un bagno di umanità straordinaria. Ci vollero anni, poi, per ritrovare uomini capaci di pietà. E dopo, fuori. Le SS e i repubblichini ci caricarono a calci e pugni sui camion che attraversarono la città silente, la città indifferente, la città muta, la città che accettava qualunque cosa. Ognuno aveva già abbastanza guai per preoccuparsi anche di quelli degli ebrei. Milano sembrava deserta quel giorno. Tutti dentro. Le imposte chiuse. Le serrande abbassate. Io, che ero in fondo al camion, vidi la mia casa di corso Magenta. Era un momento di addio alla città in cui ero nata e cresciuta, in cui erano nati e cresciuti i miei genitori e i nonni. Fu triste e terribile. Rivedere da prigioniera le vie dove ero nata, le vie che mi avevano visto bambina felice: pattinare, andare al cinema, giocare con le mie amiche, uscire con nonno Pippo. Attraversai molte di quelle strade. E poco dopo arrivammo alla stazione Centrale. La mia stazione. Quella da cui ero partita per andare in montagna, al mare, sempre con mio padre e con i nonni. Felice di partire! Alla stazione Centrale, però, non arrivammo sui binari normali. Noi partimmo dal ventre nero. Sotterraneo. Da dove partivano le merci, la posta, gli animali che andavano al macello. Così come eravamo considerati noi. Venimmo caricati in fretta. Non capivamo quello che succedeva. Con una violenza inaudita ci spingevano dentro i vagoni coi portelli aperti, erano vagoni piombati, c’erano piccoli finestrini schermati al posto delle finestre. Una scena dell’orrore. Quaranta, cinquanta persone in un vagone bestiame, prigionieri. Incominciò questo viaggio. Oggi noi, quando ci spostiamo, lo facciamo in aereo, in pullman, in treno, si mangia, si beve, si ride. Si ascolta musica, si chiacchiera. Non era così! Nel vagone c’era un secchio per i bisogni, un po’ di paglia per terra, niente luce e niente acqua. Il viaggio durò una settimana in quelle condizioni. Attraversammo prima un pezzo d’Italia e poi arrivammo al confine. Lì, tutti piangevano disperati: ci

portavano via, ma dove? Nessuno sapeva. Cominciava a cambiare il paesaggio. E il treno andava, andava, andava. E ci portava sempre più lontano dalle nostre case, dai nostri profumi, dai nostri odori. Un viaggio disumano. Non c’era neanche il posto per allungarsi, riposare. Eravamo in una promiscuità assoluta. Appiccicati l’uno all’altro. Persone di tutte le età. Malati, donne incinte, bambini. E come si guarda al proprio vicino? Al proprio padre, alla propria madre? C’era odore di morte in quel vagone. Dopo i pianti e dopo le preghiere, nell’ultima parte del viaggio, nessuno parlò più. Il silenzio era solenne. Un silenzio che io sottolineo sempre coi ragazzi, perché loro non sono abituati al silenzio, guai! Dappertutto c’è rumore. Io lo vedo anche con i miei nipoti. Il silenzio è considerato una penitenza. Be’, quel silenzio è stato per noi importantissimo. Era un silenzio in cui ci si riconosceva l’uno con l’altro, che ci faceva uguali. Quando si sta per morire si sta zitti, si stringe la mano di chi ci ama, e lì si stava tutti per morire. Lo avvertivamo. Lo sapevamo dentro di noi. Mi ricordo che il treno, a un certo punto, si fermò. Dai piccoli finestrini del vagone vedemmo un orologio. Grande, importante. Era sulla facciata principale della stazione ferroviaria, quella vera, ufficiale, della cittadina di Oświęcim, in Polonia. Ma poi proseguimmo la nostra corsa. Noi eravamo diretti, infatti, a una stazione artificiale preparata dai nazisti. Non era come quella della città di Oświęcim, ma era stata costruita appositamente per tutti i treni che arrivavano carichi di stücke (“pezzi” in tedesco) come noi. Animali da macellare. Già da un po’ di tempo in quel posto surreale arrivavano quotidianamente carichi umani, e avrebbero continuato ad arrivare ancora per molto. I treni come il nostro venivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti. Era impressionante questa stazione di arrivo artificiale, un enorme spiazzo desolato, pieno di neve, con i binari morti, la Judenrampe. Quella era la nostra destinazione finale: Auschwitz. Era il 6 febbraio del 1944. Iniziò la discesa dai vagoni. Si fa per dire. Venivamo tirati giù dalla carrozza bestiame con una violenza inaudita. Atterravamo su questa finta banchina dove c’era una grandissima confusione: sentivamo i fischi, i latrati dei cani, i comandi che ci arrivavano in quella lingua terribile per me, il tedesco. Era uno di quei momenti in cui tu esci da te stesso, dalla tua testa, dalle tue gambe, dalla tua pancia, dal tuo cuore, e dici: «Ma sono io? Sono

proprio io? Io, io, io, io, che sono qui?». Sono quegli incubi che di solito uno ha di notte, quando ha mangiato tanto, non può dormire e sogna di appartenere a un mondo che non esiste. Invece, era tutto vero. E stava accadendo a me. Un ufficiale ci gridò di stare calmi. Qualcuno tradusse nelle diverse lingue delle persone che erano sui treni quel giorno. Il suo messaggio era per tenerci buoni: «Vi dobbiamo solo registrare. Stasera sarete di nuovo uniti. Gli uomini andranno al lavoro, le donne faranno i lavori di casa». Noi ci volevamo credere. Faceva un freddo terribile. Divisero gli uomini dalle donne. Io fui incolonnata con le donne di quel trasporto. Mi sentii strappare dalla mano di mio padre. A un tratto ero sola. Cercai di farmi forza. Lo salutai, gli sorrisi. Credevo di rivederlo alla sera, come aveva detto quell’uomo. «Sì, lo rivedrò» mi dicevo. Lo avevo rivisto dopo Varese, dopo Como, eravamo rimasti insieme a San Vittore e poi nel vagone. Volevo credere che la sera saremmo stati di nuovo insieme. Intanto lui si allontanava nella fila degli uomini. Nessuno dei due voleva far vedere la disperazione all’altro, soprattutto io. All’inizio lo salutavo da lontano, ma poi lui scomparve dalla mia vista, lo cercai tanto, ma non lo vedevo più. Da quel momento, su quella neve di Auschwitz, non ci siamo incontrati mai più. Devo dire che quel mio papà meraviglioso, è stata la figura più importante della mia vita. Non c’è figlio, non c’è nipote, non c’è marito, non c’è casa, nulla che sia più importante di quel papà straordinario, che mi chiedeva scusa di avermi messo al mondo. E io gli rispondevo con la morte nel cuore: «Ma io sono qui con te! Solo questo conta, papà. È la cosa più importante per me!». Quel ricordo è eterno dentro di me. La spianata bianca con la neve. Udire quel comando: uomini a destra e donne a sinistra. Io che perdo la mano di mio padre. Fu il mio ultimo istante con lui.

Liliana con il nonno Pippo nel 1936

NEL CAMPO DI STERMINIO

Ero sola. A tredici anni entrai da sola nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. I ragazzi mi chiedono spesso: «Ma come hai fatto, Liliana? Come ha fatto quella bambina, da sola, lì dentro?». Non so rispondere, e spesso anch’io me lo domando. È qualche anno che confido all’amico Ferruccio De Bortoli, che mi accompagna pazientemente durante la testimonianza del Giorno della Memoria: «Ho paura». Eppure, sono così tanti anni che parlo di questo argomento, è la mia missione. A volte mi sento un araldo, di quelli che andavano per i paesi gridando le notizie perché i giornali non c’erano. È la mia missione, ma non ho sempre la risposta a tutte le domande. Me lo chiedo anch’io, sì. Come ha fatto quella ragazzina lì? Quella Liliana ingenua e fragile, come tutte le ragazzine a quell’età? E mi sento sdoppiata, mi sento la nonna di me stessa, sono la nonna di me stessa, come mi sento oggi la nonna dei ragazzi che incontro. Come ha fatto, una gamba davanti all’altra, a sopravvivere? Così sola? A resistere alla fame? Al freddo? Alle percosse? Come ha fatto a non piangere più? Come è riuscita a dimenticare il mondo intorno a sé, per vivere? A crearsi una vita fasulla, una vita di fantasia: la sua stellina che salutava tutte le sere dalla finestra, come se vivesse in un luogo normale. Come ha fatto a resistere? Io ho una pena infinita di me stessa ragazzina. Veramente, ne ho una pena infinita. Devo parlare di una cosa a questo punto: la spinta alla vita. Sì, fu straordinaria! È la spinta alla vita che mi era stata consegnata con l’amore che avevo avuto prima, fra i miei cari. Quell’amore meraviglioso di mio papà e dei miei quattro nonni e la casa, le belle cose che avevo, quello che avevo avuto in quei tredici anni della mia vita precedente. Fu questo a farmi scegliere la vita. La vita può riservare delle splendide sorprese. E infatti io, quando parlo ai ragazzi, miei nipoti ideali, dico: «Scegliete sempre la vita. Non fatevi abbattere dalle difficoltà. Se ce l’ho fatta io, ce la farete anche voi». A volte leggo di ragazzi che si sono suicidati per i problemi a scuola, o perché vittime di bullismo. «Ma dovete essere fortissimi» dico negli incontri.

«Anche contro i bulli. Perché voi siete più forti dei bulli. Sono i bulli che sono pietosi. Se sono violenti vuol dire che dentro di loro sono debolissimi. Se anche prendete uno schiaffo, una botta, da un bullo, dovete avere nei suoi confronti disprezzo e non paura, perché sono loro i perdenti nella vita. Quelli che credono di essere gli eletti, quelli che credono di essere i più forti: lo vedete cosa ha dimostrato la Storia? La Storia ci ha fatto vedere come vanno a finire quelli che credono di essere i più forti.» Quella povera Liliana di allora sceglieva la vita. Ma attenzione, dentro Auschwitz non ci si salvava perché si sceglieva la vita. Tutte noi prigioniere sceglievamo la vita. E la maggior parte non sono tornate. È stato il caso. O forse era il mio destino. Forse dovevo salvarmi per essere qui, dopo così tanti anni, a trasmettere questo monito verso la vita, contro l’odio, contro i razzismi, contro tutto quello che oggi sembra ripresentarsi: non bisogna lasciare che passi, guai a farli sentire i più forti. Quelli che propugnano di nuovo le teorie che la Storia ha bocciato, non sono loro i più forti, sono degni solo di disprezzo. Sono le persone civili, le persone rette, le persone giuste e quelle che fanno il loro dovere, i forti. Non sono quelli che hanno cercato, anche su di me, di averla vinta. Io ho scelto la vita. Quella ragazzina debole, scheletrita, arrivata a pesare trentadue chili, ha provato a farcela. Io sono stata come quei malati terminali che non staccano la spina, perché la vita può essere bellissima, perché dopo una fase tragica, come quella che ho vissuto, puoi ancora vedere i fiori sbocciare sugli alberi, puoi ancora vedere che da te nasce ancora la vita! Puoi ancora vivere l’amore, puoi ancora, di nuovo, avere la tua casa nel mondo. Quindi bisogna essere forti. Avere speranza e scegliere la vita. Sempre. Sì, è stata dura per Liliana bambina dentro il campo. Diventai operaia-schiava per più di un anno in una fabbrica di munizioni. Ho conosciuto anche la catena di montaggio, con il lavoro che ti opprime e non vedi mai la fine della giornata. Sei obbligata, da schiava quale sei, a fare un lavoro per la guerra. Facevamo le munizioni per l’armata tedesca. Dopo aver lavorato tutto il giorno come operaia-schiava, tornavi al campo. Non ne potevi davvero più dalla stanchezza. Era qualcosa di inimmaginabile. Trascinavamo le gambe ed entravamo nella baracca. Da lì si vedeva, in fondo, una ciminiera. Fuoco o fumo segnalavano se erano attivi i forni in quel momento o se lo erano stati durante la giornata. E la notte? I ragazzi me lo chiedono. «Liliana, com’era la notte? Si

dormiva?» Oh, sì, si dormiva. Si dormiva in quei giacigli sporchi, stretti. Eravamo cinque, sei prigionieri. Si dormiva con gli insetti che ti camminavano sopra, con la prepotenza di chi trascinava dalla sua parte quella orrenda coperta stracciata che era per sei persone. Si dormiva con le dita nelle orecchie, per non sentire i rumori del lager, di notte. Quali rumori? I gruppi dei deportati che arrivavano, le famiglie che venivano divise e i bambini che piangevano. Le grida di chi veniva portato subito al gas. C’erano quei rumori nella notte del lager. Noi non volevamo sentire. Noi volevamo vivere. Noi dovevamo dormire: dopo quella giornata, ne iniziava un’altra. Erano richiami di un’umanità che eravamo stati all’inizio, appena arrivati al campo. Poi dovevi cambiare per sopravvivere. Le grida dei bambini a cui era stata strappata la madre, che venivano subito gasati e bruciati, quei piccoli innocenti erano i grandi nemici del Grande Reich Tedesco. Non volevo sentire! Io mi ero creata una doppia vita vigliacca, perché io ero paurosa. Io non sono stata mai un’eroina. Non è per raccontare che sono stata un’eroina, che ogni anno rivivo lo strazio di quei giorni. Per carità! Ero l’ultima delle prigioniere, la più stupida, quella a cui poteva capitare qualunque cosa. Semplicemente mi ero creata un’altra vita: non volevo vedere le compagne in punizione, le persone sofferenti, non volevo vedere quei mucchi di cadaveri scheletrici fuori dal crematorio, in fila, pronti per essere bruciati. Non ce la facevo. No. Non volevo guardare i soldati, non volevo guardare il filo spinato, io non volevo guardare la fiamma del forno. Sapevo, ma non volevo, non volevo, non volevo essere lì. Io ero un’altra. Ero quella di prima, quella che correva nei prati. Nel tempo che trascorsi a Birkenau e ad Auschwitz passai tre volte la selezione. Le kapò ci chiudevano nelle baracche a gruppi di quaranta, cinquanta donne, tutte nude. E quella nudità era anche persecuzione, perché la prigionia delle donne, il togliere loro la dignità, faceva - ne sono convinta parte di un disegno di persecuzione ancora più orrendo di quello verso gli uomini. Col nostro povero corpo indicibilmente magro avevamo perso anche ogni tratto femminile: eravamo ormai senza sesso, senza età, non più persone, non più donne. Nude, dovevamo entrare in una sala e presentarci a quel tribunale di vita o di morte che ci aspettava lì dentro. Tre uomini, due in divisa e un medico. Quest’ultimo ci avrebbe guardate davanti, dietro, in bocca, per vedere se eravamo ancora adatte al lavoro. E come ha fatto quella Liliana d’allora? Come ha fatto - nuda, misera, sola - a presentarsi davanti a

quel tribunale? Era orrendo sentirsi scrutare da quel medico col camice bianco. Lessi poi, dopo molto tempo, che si trattava di Josef Mengele, tristemente noto anche per gli esperimenti sui bambini ebrei. Un giorno lui mi fermò. Io, terrorizzata, dentro di me continuavo a ripetermi: «Voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere». Quello mi mise un dito sulla pancia e mi chiese in tedesco: «Tu di dove sei?». E io, col terrore nella voce, risposi in tedesco che ero italiana. E lui disse: «Oh, ma che orrendo taglio ha fatto questo mio collega italiano! Che brutta cicatrice. A questa povera ragazza, quando sarà una donna, nuda, si vedrà sempre questa brutta cicatrice». Poi spiegò che lui la faceva piccola, piccola, perché era molto più bravo del medico italiano. Infine, fece il gesto che attendevo: potevo andare via. Ero salva. E io ero pazza di felicità. Ogni volta era una nascita, un compleanno! L’assassino mi lasciava ancora in vita. Felice, mi rivestivo, non mi importava niente di quello che era successo un minuto prima. Ero viva, ero viva, ero viva, ero viva. Quando parlo delle selezioni per le quali sono passata, non posso non nominare, non posso dimenticare Janine. Janine è importante. Io lavoravo alla macchina nella fabbrica di munizioni Union con questa ragazza francese che era più grande di me, avrà avuto vent’anni. Era gentile, una ragazza molto carina, con gli occhi azzurri, una voce dolcissima. Lei era diventata un’operaia specializzata, mentre io, che ero la più stupida di tutte, ero la sua inserviente. Portavo questi bossoli di mitragliatrice a Janine e lei doveva lavorarli. La macchina le aveva tranciato le falangi di due dita quindici giorni prima che ci fosse la selezione. Lei nella stanza era dopo di me, era nuda come tutte, ma aveva uno straccio che le copriva la mano. Io ero appena passata e sentii che Janine veniva mandata al gas: non era più utile per il lavoro con le dita falciate. In quel momento io sono stata orribile. Ero una lupa affamata di vita, egoista. Non ero più quella ragazzina che era scesa dal treno insieme al suo papà. Non mi sono voltata, quel giorno. Ho fatto la cosa più brutta della mia prigionia. Io non accettavo più distacchi. Non volevo affezionarmi a nessuno. Non volevo essere amica di nessuno. Non volevo che nessuno mi fosse amico. Quel giorno non mi sono voltata a salutare Janine. Avevo capito che la stavano mandando al gas, ma non mi sono girata verso di lei per dirle, come i detenuti di San Vittore che avevano avuto pietà di noi: «Ti voglio bene, non hai fatto niente di male».

«Janine!» Sarebbe stato bello urlare il suo nome per salutarla. Ma non l’ho chiamata. Janine non è diventata vecchia, non è diventata moglie, non è diventata mamma, non è diventata nonna. È stata uccisa, in quel giorno del 1944, per la colpa di esser nata. Io mi sono rivestita e, il giorno dopo, un’altra operaia era a quella macchina, al suo posto. Ma non mi sono mai dimenticata di Janine. Sento una spinta così forte a parlare di lei. Penso spesso che vorrei fare, e forse un giorno lo farò, una piccola conferenza parlando solo di Janine e del rapporto che si poteva creare tra due prigioniere, una un po’ più grande e una così sciocca, come quella Liliana d’allora, che non ha avuto la forza di voltarsi e che di questo non si è mai perdonata. La guerra continuava. Noi non sapevamo niente. Non c’erano certo radio e giornali lì dentro, per noi. Dovevamo solo lavorare, eravamo schiavi con una sopravvivenza calcolata, come tutto nel campo. Ma sentivamo i rumori degli aerei che passavano sopra la fabbrica. Stavano bombardando. E un giorno, almeno due settimane prima del 27 gennaio 1945, noi prigionieri fummo costretti dai soldati nazisti a cominciare la cosiddetta “marcia della morte”. Lessi poi che eravamo circa 58.000 persone. Perché fu chiamata “marcia della morte”? Bisogna pensare a schiere di uomini e donne scheletrici, gente che aveva perso già tutto, che era prigioniera anche da un anno, come me, per esempio. E improvvisamente, senza neppure capire cosa stesse succedendo, fummo costretti a metterci in cammino nella neve e nel freddo lungo le strade polacche, e poi tedesche. Marciavamo senza sosta. Chilometri e chilometri. Senza cibo. Ci buttavamo sui rifiuti per mangiare qualcosa. Per bere c’era la neve. Eravamo come animali. Se qualcuno cadeva per la stanchezza, i nazisti non ti davano certo il tempo di riprenderti, ti sparavano in testa sul posto, e venivi lasciato lì, sulla neve. Io lo sapevo e cercavo di non cadere mai. Avevano fretta i soldati tedeschi, volevano sfuggire all’esercito dell’Armata Rossa che stava arrivando. I russi finalmente avevano rotto quel fronte che i tedeschi avevano difeso con successo per tanto tempo, e sarebbero arrivati. I nazisti lo sapevano. Non volevano solo scappare, volevano anche nascondere noi. Il mondo non doveva venire a conoscenza di quello che accadeva dentro i campi. Prima di partire da Auschwitz con noi, infatti, avevano fatto saltare le strutture di morte dei campi di sterminio. Ma non riuscirono a distruggere

tutte le prove. Ebbene, mi sembra incredibile, ma quella ragazza che marciava in mezzo alla neve, senza cibo, senza sapere la meta, ero ancora io. Una gamba davanti all’altra, volevo vivere. Per questo poi ai ragazzi che incontro nella mia testimonianza dico che non sono deboli, nessuno di loro lo deve pensare. E voglio dirglielo anche da qui, come faccio quando li vedo nelle scuole. Non dite mai che non ce la potete fare, non è vero. Io ho sperimentato sulla mia pelle quanto l’uomo sia capace di lottare per rimanere attaccato alla vita. Non appoggiatevi a nessuno: dovete trovare la forza in voi stessi per andare avanti e raggiungere i vostri obiettivi, superando le difficoltà. E non bisogna neppure pensare che la colpa di quel che ci accade sia degli altri. La professoressa. La mamma o il papà. L’amico che mi tradisce. No, ognuno di noi è fortissimo e responsabile di se stesso. Semmai, possiamo aiutare gli altri a rendersene conto. Dobbiamo camminare nella vita, una gamba davanti all’altra. Che la marcia che vi aspetta sia la marcia della vita, e non della morte. Questo vorrei dirvi.

Liliana a Inverigo, 1943

LA FINE DELLA GRANDE GERMANIA

Era aprile quando arrivammo nel campo di Malchow, in Germania. Ormai eravamo delle prigioniere giunte alla fine della possibilità fisica di sopravvivere. Non sentivamo neppure più la fame, eravamo ridotte a larve. A Malchow non si lavorava. Era un campo di concentramento, non di sterminio. Anche le guardie in quei giorni si dimenticavano di noi prigioniere, se non per distribuire qualche percossa quando qualcuna le incrociava, per caso, per sfortuna. Io ero conciata molto male. Mi ricordo che avevo un dolore terribile sotto il braccio sinistro. Avevo avuto un ascesso mesi prima ed era diventato molto grande. Non lo avevo fatto vedere ad Auschwitz per il terrore dell’infermeria: di solito non si usciva vivi da lì. Così, mi ero tenuta l’ascesso, ma adesso era grande come un mandarino e il dolore era insopportabile. Allora mi decisi ad andare all’ospedale del campo dove una terribile donna, una SS, lo incise con le forbici, facendo uscire il pus. Nei giorni seguenti mi venne un’infezione, poi la febbre. Riuscii però a sopravvivere anche a quello. Quel giorno, quando rientrai nella baracca, ero pallida come una morta, soffrivo moltissimo, si vedeva. La pseudo-infermiera nazista che mi aveva inciso l’ascesso mi aveva ordinato di non svenire, ce l’avevo fatta, non so come, ma il dolore non mi dava tregua. Una prigioniera, una donna più grande di me, che non avevo mai visto prima, si impietosì vedendomi entrare in quello stato. Venne a offrirmi una rondella di carota. Un pezzettino. Ma fu un gesto enorme per me. Un dono incredibile lì dentro, inatteso. La fame ci consumava e un pezzettino di carota era tantissimo. Anche adesso, quando mangio le carote, non posso fare a meno di ricordare quella donna e il suo gesto, grande, di pietà. Ricordo che i pomeriggi uscivo dalla baracca insieme ad altre prigioniere. Alcune compagne di lager però non riuscivano più ad alzarsi dal letto, erano troppo deboli. Guardavamo nascere i fiori che erano al di là del filo spinato. I prati stavano diventando verdi. Era una primavera meravigliosa. Il miracolo di quel verde tenero che oggi ci sembra normale, per noi era un regalo

inaspettato; era magnifico vedere la natura rinascere. Sapete, può essere bellissimo vedere una foglia che, pian piano, si affaccia su un tronco. Guardavamo fuori dal filo spinato, sognando di poter essere di nuovo delle ragazze normali e correre e camminare su un prato. Ogni giorno passavano di là dei prigionieri di guerra, erano ragazzi francesi. Loro non erano degli scheletri come noi. Lavoravano nelle fattorie dei contadini tedeschi e il cibo era più abbondante del nostro. Ci guardavano allibiti, un giorno dopo l’altro. Erano sorpresi perché noi eravamo spaventose, così magre e provate. Eravamo ridotte a degli ectoplasmi, i fantasmi delle ragazze che eravamo state. Quei ragazzi un giorno ci gridarono in francese: «Ma chi siete?». E noi, che facevamo fatica anche a parlare, rispondemmo in coro per fargli arrivare la nostra voce: «Siamo delle ragazze ebree». E quelli erano sempre più sbalorditi. C’era anche nei loro occhi lo stupore per il male altrui, perché non potevano credere che fossimo delle ragazze, non avevamo più le sembianze di una donna. Ci dicevano: «Coraggio, non morite! La guerra sta finendo. I tedeschi perdono tutte le posizioni. Stanno congiungendosi le due armate, qui vicino, da una parte gli americani, dall’altra i russi! Resistete!». Noi, che eravamo così deboli e che avevamo sopportato tutto - i lutti, la prigionia, la morte dei nostri cari, avevamo visto il male altrui in tutte le sue forme - be’, alla gioia della speranza non eravamo preparate. Debolmente rientravamo nelle baracche e lo dicevamo alle nostre compagne che non si alzavano più, di resistere, di stringere i denti, che i russi e gli americani erano vicini. Ma molte di loro non riuscirono a vedere la fine della guerra. Ce la dovevamo fare a vedere quel momento sognato, ma si aveva anche paura di sperare. Invece quel giorno arrivò. Le guardie, i nostri carnefici, dopo aver portato via le scrivanie, i dossier, dopo averci mostrato con la violenza il loro nervosismo, un giorno obbligarono anche noi a uscire da quel campo. Aprirono il cancello e noi ci ritrovammo fuori, a toccare l’erba, a strappare una foglia per cercare di mangiarla, con i denti che ballavano già per la piorrea. Però era un sapore meraviglioso, il sapore della clorofilla. E lì, su quella strada, fummo testimoni: noi stücke, come venivamo chiamate, i pezzi, ragazze nulla, destinate alla morte. Noi fummo testimoni della Storia che cambiava in quel momento. Vedemmo i nostri assassini buttare via le divise, mandare via i cani, quei cani delle SS, lupi, dobermann, che ancora mi

spaventano. I cani cercavano di tornare indietro, perché erano abituati a stare attaccati alla gamba del loro padrone, e loro li cacciavano via, poiché erano l’emblema del loro potere su di noi fino a un minuto prima. Io li guardavo questi soldati, buttare via divise, armi, e scappare, tornare alle loro case. Questi soldati che poi, dopo, avranno anche detto: «Persecuzione? Campi di concentramento, di sterminio? Bah, sì, ci saranno stati, ma io no! Io non c’ero». Quel giorno, il 1° maggio del 1945, mentre succedeva l’incredibile, passò accanto a me il comandante del campo. Non ho mai saputo il suo nome, non mi interessavo dei nomi delle persone. Per me lui era il Male, e basta. Il nazista si spogliava vicino a me, si era messo addirittura in mutande, perché faceva caldo. E io lo guardavo, incredula. Lo guardavo mentre gettava la divisa lontano e indossava i suoi vestiti civili, dopo essere stato un carnefice. Buttò via anche la pistola. La lanciò non distante da me, in terra. Per un momento ho provato una tentazione fortissima, come non mi sarebbe mai più capitato nella vita. Avrei voluto raccogliere quella pistola e sparargli. Potevo farlo. È stato un attimo, ma poi ho capito. Io non ero come lui. Non ero come il mio assassino. Io avevo sempre scelto la vita e per nessuna ragione al mondo avrei potuto toglierla a un essere umano, anche se così colpevole. Non ho raccolto quella pistola, per fortuna. L’etica della mia famiglia e l’amore che avevo ricevuto me l’hanno impedito. Sono molto contenta di non essermi vendicata, non ho mai parlato di odio e di vendetta nelle mie testimonianze. Non ne parlerò mai perché le mie parole sono dirette ai ragazzi e alle ragazze, ai miei nipoti ideali, a cui voglio portare la pace, l’amore, la libertà. Quell’uomo orribile aveva scelto per me la morte, ma io avevo scelto la vita. Sempre. Da quel momento sono stata, e sono rimasta, la donna libera e di pace che sono oggi.

Liliana in vacanza insieme al marito Alfredo

IL RITORNO

Poi tornai a casa. Fu un viaggio lunghissimo. Era il 31 agosto 1945. Ero ingrassata tanto! Perché dalla liberazione non avevo mai smesso di mangiare. La fame perseguitò per molto tempo noi sopravvissuti dei campi di sterminio. Milano mi apparve all’improvviso, e mi emozionò, mi sentivo a casa. La mia città era stata bombardata in modo terribile. Scesi alla stazione di Cadorna, a due passi dalla mia casa di corso Magenta. Le ferite della guerra erano profonde, ma le persone erano sì, posso dire, felici, perché in quei giorni si respirava la speranza. La vita ricominciava dappertutto. Arrivata a casa, il custode non mi riconobbe. Ero vestita miseramente, indossavo un paio di pantaloni e una camicia da uomo, rimediati dopo il campo, e avevo fatto tutto il viaggio di ritorno con quelle povere cose. Si chiamava Antonio, il custode: vedendomi, pensò che fossi una mendicante e mi disse di andare via. Quando infine capì che ero io, chiamò subito i miei nonni materni e gli zii. Li riabbracciai tutti. Erano passati due anni dall’ultima volta che mi avevano vista. Erano felici di ritrovarmi. E anche io. Il mio appartamento, dove avevo passato tutta la mia infanzia, con papà e i nonni, era stato affittato ad altre persone. Non lo vidi mai più. Andai a vivere con i miei zii. Così cominciò la mia nuova vita, da persona libera. I miei parenti avevano tante attenzioni per me, io sentivo il loro affetto. Ma pensavo, così come facevano loro, a chi non c’era più. Papà. Il mio adorato padre. E nonno Pippo e nonna Olga. Non fu facile per me in quegli anni. Liliana non era più la bambina che avevano conosciuto i miei cari. E loro se ne accorsero ben presto. Era un’adolescente scontrosa a cui tutti, parenti e conoscenti, dicevano: «Adesso è tutto passato. Devi ricominciare a vivere, Liliana». Sì, era il passato, era vero. Ma io mi sentivo profondamente diversa. Il carico di sofferenza che portavo dentro non si poteva cancellare automaticamente a guerra finita.

Capii subito, però, che le persone non volevano sentire parlare di lager e sofferenza. C’era solo la voglia di ricominciare. Soprattutto, di dimenticare. Ma io non potevo. Come fargli capire, ai miei parenti innanzitutto, l’indicibile sofferenza di Auschwitz? Come fargli capire che eravamo diventati oggetti nel campo di sterminio, che ci avevano privati della nostra umanità, che avevo visto andare a morire così tante persone? E che non sarei potuta tornare semplicemente a vivere, spazzando via i ricordi che erano macigni dentro di me? Ricominciare a vivere per me era inammissibile. Io ero spezzata dentro. Il campo di sterminio non mi aveva annientata fisicamente, ma psicologicamente ero devastata, mi sentivo una specie di zombie, senza gioia di vivere. Ricordo gli sforzi dei miei zii e dei nonni materni per farmi stare composta a tavola, per non farmi esagerare col cibo, per farmi dimagrire. Loro, in fondo, cercavano di darmi delle regole, come è giusto che sia. Ma io ero un essere ormai selvatico, la vita nel lager mi aveva segnata. Intanto almeno avevo ripreso ad andare a scuola. Studiavo molto. Ma non legavo con nessuna delle mie coetanee, loro erano adolescenti con tanta voglia di vivere. Io mi sentivo vecchia. Non andavo alle loro feste. Non ascoltavo le loro chiacchiere sulla moda e sui film di tendenza. Non ero sintonizzata sulla loro età. In quel periodo tornarono a tormentarmi i ricordi di Auschwitz. Tutta la sofferenza che avevo visto accanto a me, dentro il lager, e che avevo scacciato per non esserne annientata, venne a bussare per chiedermi il conto. Ma più forte di tutto, c’era il grande vuoto, incolmabile per me, della mancanza di mio padre. Ricordavo tutti gli istanti passati con lui fino all’arrivo ad Auschwitz. Non mi davo pace. Nella mia condizione di sopravvissuta la cosa che mi era più insopportabile era non averlo accanto. Anche i nonni, Pippo e Olga, mi mancavano tantissimo. Avevo vissuto con loro, erano parte della mia vita. Ma era una vita che non avevo più. Era una Liliana che non esisteva più. E io dovevo farci i conti con tutto questo. Non fu facile. Se nella mia vita dentro il lager le parole che si erano annidate dentro di me erano state: «Voglio vivere», al mio ritorno io desiderai morire. Era la prima volta. Me ne stavo molto sola, sentivo che in fondo nessuno aveva voglia di sapere davvero ciò che era stato il campo. Conservare quel peso

soltanto dentro di me, mi rendeva la vita opprimente. Avvertivo di nuovo su di me quel senso di indifferenza, di odiosa trascuratezza della sofferenza di un altro essere umano. Ma, in fondo, lo capii più tardi, i miei parenti mi amavano, a modo loro pensavano di dovermi far tornare alla vita normale. Eppure io tutto mi sentivo, fuorché una normale adolescente. La volontà, però, non venne mai meno. Mi misi a studiare con impegno e alla fine recuperai gli anni perduti e passai gli esami statali del ginnasio. Cominciai il liceo classico. Il tempo è una grande risorsa. Lo è davvero. Miglioravo. La voglia di vivere piano piano tornava ad affacciarsi dentro di me. E poi diventò prepotentemente forte grazie all’incontro più importante della mia storia personale, quello con mio marito, Alfredo. Era più grande di me. Alfredo non aveva aderito alla Repubblica di Salò ed era stato internato in un campo di prigionia per i militari italiani. Quando vide il mio numero tatuato sul braccio, capì subito che ero stata ad Auschwitz. Gli raccontai tutto. Finalmente potevo parlare con qualcuno che voleva ascoltare anche l’indicibile. Lui mi capiva. E io ritrovai un po’ di pace. Finalmente. Quando devo iniziare a parlare come testimone c’è sempre, prima di sedermi per cominciare, un tempo di preparazione. È come prendere fiato prima di un tuffo da un trampolino altissimo. È quasi una forzatura, uno strappo alla mia vita serena di nonna, di donna. Ma poi guardo i ragazzi e ricordo che ho iniziato a testimoniare per loro, in quel lontano 1990. E guardo i giorni di oggi e so che non sarebbe giusto non essere lì. Allora mi siedo e comincio. La mia vita è anche dentro gli incontri di testimonianza, negli sguardi attoniti dei giovani, in quella compassione che mi accoglie e che fa parte della mia vita a pieno titolo. Quando termino, spesso i ragazzi mi chiedono cosa possono fare per non rendere vane le mie parole. Io rispondo loro di continuare a combattere la menzogna, da chiunque arrivi. Questo è anche un modo per non dimenticare gli esseri umani che hanno messo in gioco la propria vita perché credevano in un mondo più giusto. Sconfessate la menzogna. Diventate candele della Memoria.

Io, Senatrice a vita

Sono stata chiamata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 19 gennaio 2018. Una mattina è squillato il mio telefono e la voce gentile del Presidente mi annunciava che aveva preso la decisione di nominare me Senatrice a vita. Mi sono sentita onorata e l’ho ringraziato per questo altissimo riconoscimento che mi ha colta di sorpresa. Davvero, non me lo aspettavo. Non ho mai fatto politica attiva, mi sento fondamentalmente una nonna. Sono una donna con tanti impegni e molti interessi: la politica era un luogo a cui guardavo con curiosità, con rispetto, ma come cittadina - anche critica - nulla di più. Ecco perché il Presidente mi ha colta di sorpresa. Ma, un momento dopo, ho immediatamente sentito su di me, come è avvenuto spesso nella mia vita, fin da ragazza, la grande responsabilità del compito che mi veniva affidato. Affidare: un verbo che rispetto, perché rivela grande fiducia in un passaggio di consegne importante. Ebbene, il mio pensiero è stato subito quello di onorare questa consegna del Presidente della Repubblica, facendo il mio dovere. Credo che il Presidente Mattarella abbia voluto fare memoria, attraverso la mia persona, dei tanti esseri umani che non ci sono più per la colpa di essere nati. E, con essi, ha voluto rammentare alle coscienze, a mo’ di ammonimento, questo anno, il 2018, in cui ricorre l’ottantesimo anniversario dell’emanazione delle leggi razziali. Nel ruolo di Senatrice sento fortissimo l’impegno a tentare di portare dentro le stanze della politica quelle voci lontane, e che si allontanano sempre di più dalle nostre vite, fino a rischiare di essere perdute nell’oblio. Le voci di quelle migliaia di italiani della minoranza ebraica che, come me, subirono la violenza e il rifiuto: come cittadini, come esseri umani. Espulsi dalle scuole, dalle professioni, dal cuore degli amici e dalla vita del proprio Paese. Le leggi razziali perpetrarono questo scempio. Fu la persecuzione, la sottrazione di diritti - e, soprattutto, il silenzio nel quale tutto questo avvenne - a preparare la strada alla Shoah. È nell’indifferenza generale che i dittatori compiono i saccheggi più gravi alla dignità dell’uomo.

Il mio impegno, in ogni decisione che prenderò, in ogni proposta di legge che definirò, sarà quello di dare voce a quanti non sono tornati da quello sterminio premeditato: essi non hanno tomba e sono finiti nel vento. Il mio impegno è, ancora, quello che prendo ogni volta con i ragazzi che incontro. Contrastare il razzismo. Tramandare la Memoria. Costruire un mondo di fratellanza e di pace, in piena sintonia con la nostra Costituzione. Non mi dimenticherò dei ragazzi. Non voglio, infatti, trascurare l’impegno che ho preso con loro: testimoniare, raccontare, coltivare la speranza attraverso le loro giovani menti. Le scuole restano il mio luogo del cuore perché è lì che ci sono i miei nipoti ideali. Continuerò, finché avrò le forze, a raccontare loro l’assurdità della Shoah, la pericolosità della predicazione dell’odio. Ma senza rancore. Nel mio impegno nelle scuole e in politica io non porterò mai il rancore e l’odio. Sono una persona che non dimentica, ma libera dallo spirito di vendetta: la mia libertà sta nel sentirmi una donna di pace. È questo spirito che mi accompagnerà durante il mandato che mi è stato affidato nel Parlamento del mio Paese. Un cammino che ho iniziato nel mio primo discorso in Senato con queste parole…

Signor Presidente del Consiglio, colleghi Senatori, prendendo la parola per la prima volta in quest’aula, non posso fare a meno di rivolgere innanzitutto un ringraziamento al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale ha deciso di ricordare l’ottantesimo anniversario dell’emanazione delle leggi razziali razziste del 1938, facendo una scelta sorprendente e nominando quale Senatrice a vita una vecchia signora. Una persona tra le pochissime ancora viventi in Italia, che porta sul braccio il numero di Auschwitz e ha il compito, non solo di ricordare, ma anche di dare in qualche modo la parola a coloro che ottant’anni or sono non la ebbero. A quelle migliaia di italiani, quarantamila circa, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che subirono l’umiliazione di essere espulsi dalle scuole, dalle professioni e dalla società, quella persecuzione che preparò la Shoah italiana del 1943-45 e che purtroppo fu un crimine anche italiano, del fascismo italiano. Soprattutto si dovrebbe dare realmente la parola a quei tanti che, a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, uccisi per la sola colpa di esser nati. Loro, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento. Salvarli dall’oblio non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri. In quei campi di sterminio altre minoranze oltre agli ebrei vennero annientate. Tra queste voglio ricordare oggi gli appartenenti alle popolazioni rom e sinti che inizialmente suscitarono la nostra invidia di prigioniere perché nelle loro baracche le famiglie erano lasciate unite. Ma presto all’invidia seguì l’orrore perché una notte furono portati tutti al gas e il giorno dopo in quelle baracche vuote regnava un silenzio spettrale.

Per questo mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi. Se dovesse accadere mi opporrò con tutte le energie che mi restano. Mi accingo a svolgere il mandato di Senatrice ben conscia della mia totale inesperienza politica e confidando molto nella pazienza che tutti loro vorranno usare nei confronti di un’anziana nonna, come sono io. Tenterò di dare un modesto contributo alla attività parlamentare, traendo ispirazione da ciò che ho imparato. Ho conosciuto la condizione di clandestina e di richiedente asilo, ho conosciuto il carcere, ho conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite del campo di sterminio. Non avendo mai avuto appartenenze di partito, svolgerò la mia attività di Senatrice senza legami di schieramento politico e rispondendo solo alla mia coscienza. Una sola obbedienza mi guiderà: la fedeltà ai vitali principi e ai programmi avanzatissimi, ancora in larga parte inattuati, dettati dalla Costituzione Repubblicana. Con questo spirito ritengo che la scelta più coerente con le motivazioni della mia nomina a Senatrice a vita sia quella di optare oggi per un voto di astensione sulla fiducia al governo. Valuterò volta per volta le proposte e le scelte del governo senza alcun pregiudizio e mi schiererò pensando all’interesse del popolo italiano e tenendo fede ai valori che mi hanno guidato tutta la vita. (Intervento del 5 giugno 2018)

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Frontespizio ____________________________________________5 Il libro__________________________________________________3 L’autrice _______________________________________________4 Introduzione. di Daniela Palumbo __________________________7 Vi racconto una storia___________________________________10 Le leggi razziali ________________________________________12 La guerra e la fuga _____________________________________17 La prigione ____________________________________________22 Il viaggio verso Auschwitz _______________________________26 Nel campo di sterminio __________________________________31 La fine della grande Germania ___________________________38 Il ritorno ______________________________________________42 Io, senatrice a vita ______________________________________45