La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattuto politico italiano dal 1945 ad oggi

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La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattuto politico italiano dal 1945 ad oggi

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Storia e Società

© 2005, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2005

Filippo Focardi

La guerra della memoria La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2005 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7609-8 ISBN 88-420-7609-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

PREMESSA

Questo lavoro trae origine da una relazione presentata al convegno internazionale svoltosi a Bad Homburg dal 22 al 25 marzo 2000 sul tema Culture del ricordo in Germania, Italia e Giappone dopo il 1945. Su sollecitazione di uno degli organizzatori del convegno, Lutz Klinkhammer, affrontai il tema Anniversari e opinione politica in Italia. 1945-1995. Come fonte principale utilizza gli interventi pronunciati dai politici più rappresentativi, soprattutto dalle massime cariche istituzionali, in occasione delle celebrazioni degli anniversari della Resistenza: 25 aprile, 8 settembre, 25 luglio, 24 marzo (giorno della strage delle Fosse Ardeatine). Ho quindi approfondito l’argomento l’anno successivo presentando una relazione al convegno organizzato dal 6 all’8 luglio a Cumberland Lodge in Windsor Park dall’Istituto storico germanico di Londra, dedicato al tema Restructuring Western Europe: Cultural, Social, and Political Change in Western Europe, 19451958. In quell’occasione mi sono soffermato sulla memoria della seconda guerra mondiale in Italia nel primo decennio postbellico proponendo un intervento che aveva per titolo: Reshaping the Past: Collective Memory and the Second World War in Italy, 19451955. Successivamente ho ripreso e ampliato i due interventi del 2000 e 2001 – entrambi pubblicati nei volumi di atti dei relativi convegni1 – in un lungo saggio apparso sulla rivista «Novecento»: Memorie di guerra. La memoria della guerra e della Resistenza nei discorsi commemorativi e nel dibattito politico italiano (19431 Cfr. F. Focardi, Gedenktage und politische Öffentlichkeit in Italien. 19451995, in C. Cornelissen, L. Klinkhammer, W. Schwentker (a cura di), Erinnerungskulturen. Deutschland, Italien und Japan seit 1945, Fischer Taschenbuch, Frankfurt am Main 2003, pp. 210-21 e F. Focardi, Reshaping the Past: Collective

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Premessa

2001)2. Quest’ultimo articolo ha rappresentato la base del presente volume. Il libro è suddiviso in due parti: una prima in forma di saggio e una seconda costituita da un’ampia sezione documentaria. Il saggio è frutto di un’accurata rielaborazione del testo pubblicato su «Novecento», con numerosi approfondimenti. Nuove sono le pagine dedicate agli anni dal 2001 al 2004, periodo caratterizzato da un forte inasprimento della disputa politica e culturale sulla memoria della Resistenza. Particolare attenzione ho prestato al ruolo svolto dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, impegnato fin dall’inizio del suo mandato a riaffermare nel paese i valori e la memoria della guerra di liberazione. Il lavoro non ha la pretesa di trattare tutti i momenti e gli aspetti dell’intenso dibattito politico sulla Resistenza sviluppatosi in Italia dal dopoguerra a oggi. Mi sono proposto di analizzare le caratteristiche di quella che ho chiamato la «narrazione egemonica» sviluppata dall’antifascismo nell’immediato dopoguerra e di seguire le fasi successive del confronto sulla memoria della Resistenza attraverso la ‘lente’ dei discorsi pronunciati dalle più importanti cariche istituzionali e dai politici più in vista in occasione delle ricorrenze della lotta di liberazione, con particolare riguardo ai principali anniversari del 25 aprile. Solo per il periodo che va dagli anni Novanta a oggi ho cercato di ripercorrere, in modo più ampio e organico (ma senza pretese di esaustività), l’acceso dibattito pubblico italiano sulla Resistenza. L’allargamento dell’attenzione dai politici ai principali opinion leaders è parso necessario per dar conto del ruolo sempre più importante giocato negli ultimi anni dai mass-media nell’alimentare e nell’orientare il dibattito sulla Resistenza. La scelta dei documenti è stata conforme all’impostazione del saggio, con una preferenza accordata agli interventi scritti o pronunciati da personalità politiche, cui si è aggiunto, per gli anni reMemory and the Second World War in Italy, 1945-1955, in D. Geppert (a cura di), The Postwar Challenge: Cultural, Social, and Political Change in Western Europe, 1945-58, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 41-63. 2 In «Novecento», 5, luglio-dicembre 2001, pp. 91-128. La rivista è pubblicata dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Modena.

Premessa

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centi, un maggiore interesse ai contributi degli opinionisti più autorevoli, storici, politologi e giornalisti. Alla vigilia del sessantesimo anniversario della Resistenza, ho cercato dunque di tracciare le coordinate fondamentali di un dibattito tuttora aperto, che continua a essere vissuto con passione e coinvolgimento da moltissimi italiani. Spero di non aver fallito di troppo questo scopo. Il mio ringraziamento principale va a chi per primo mi ha spinto ad approfondire questi temi, Lutz Klinkhammer dell’Istituto storico germanico di Roma, con cui da lungo tempo mi lega un intenso rapporto di amicizia e collaborazione. Voglio poi ringraziare Luca Baldissara, attuale direttore di «Novecento», che mi ha gentilmente concesso di utilizzare il saggio pubblicato sulla sua rivista. Un grazie va anche a tutte quelle persone e istituti che mi hanno aiutato nella raccolta del materiale documentario. Sono innanzitutto riconoscente all’Istituto storico della Resistenza in Toscana, presso il quale ho potuto raccogliere la maggior parte dei documenti, grazie alla cordiale disponibilità dimostrata dal presidente Ivan Tognarini, da Silvano Priori e da Sonia Goretti. Ho un debito di gratitudine anche verso il personale della Fondazione Filippo Turati di Firenze, della Biblioteca Ettore Anchieri di Padova e della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Ringrazio poi Claudio Pavone per alcuni buoni consigli. Un sentito ringraziamento va inoltre all’amico Claudio Novelli che mi ha procurato alcuni importanti documenti e che mi scuserà se non ho dedicato più spazio ai suoi (nostri) amati azionisti. Claudio Novelli e Lutz Klinkhammer hanno anche letto con attenzione il mio lavoro. Devo loro molte preziose osservazioni. Dedico questo lavoro a mia moglie Leila, che mi è stata vicina con grande sensibilità e comprensione, e a mio figlio Edoardo Omar, cui do con immensa gioia il benvenuto.

LA GUERRA DELLA MEMORIA LA RESISTENZA NEL DIBATTITO POLITICO ITALIANO DAL 1945 A OGGI

Capitolo primo LE ORIGINI DELLA NARRAZIONE ANTIFASCISTA DELLA GUERRA 1943-1947

Al pari di tutti i grandi conflitti armati della storia, anche la seconda guerra mondiale ha inciso profondamente sulle memorie individuali e collettive, rivoluzionando paradigmi mentali, raffigurazioni e autoraffigurazioni nazionali. In Italia la varietà dell’esperienza bellica ha prodotto una molteplicità di «memorie divise», spesso «inconciliate» e «antagoniste»1. La storiografia più attenta ha coniato l’espressione «memoria frantumata»2, che esprime con efficacia la pluralità e la differenza dei ricordi degli italiani coinvolti a vario titolo nella guerra: ex combattenti delle guerre fasciste (reduci d’Africa, di Albania e di Grecia, di Russia, della Jugoslavia), partigiani di diversa affiliazione politica, fascisti di Salò, internati militari in Germania, prigionieri di guerra in mano alleata, vittime della deportazione politica e razziale, famiglie e comunità colpite dalle efferate stragi nazifasciste, dai bombardamenti e dagli stupri alleati, italiani vittime delle foibe e dell’esodo dai territori dell’Istria e della Dalmazia. Diversi i fronti di battaglia, diverse le esperienze di prigionia, diverso il coinvolgimento di civili e militari dopo l’8 settembre. Non solo, dunque, è sempre rimasta acuta la contrapposizione fra memoria fascista e memoria antifascista, ma sono persistiti elementi di differenziazione anche 1

Cfr. G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995,

p. 7. 2 Cfr., per esempio, M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Mondadori, Milano 1989, pp. 247 sgg.

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all’interno della stessa memoria antifascista e nelle forme assunte dal ricordo della guerra dell’Asse, combattuta dall’Italia a fianco della Germania, e della guerra successiva combattuta dall’Italia sul fronte opposto, come cobelligerante a fianco degli Alleati. Al di sopra di quest’universo di memorie frammentate, di singoli e di gruppi, è però esistita anche una memoria pubblica della guerra, celebrata dall’antifascismo vincitore, basata su una narrazione di fondo condivisa dalle singole componenti del fronte antifascista e impostasi come narrazione dominante. Una memoria pubblica che è stata in grado di attivare nel paese processi di identificazione profondi, tali da conferirle i tratti di una memoria collettiva3. La memoria pubblica della guerra, affermatasi nell’Italia repubblicana, ha avuto le proprie radici nella raffigurazione del conflitto tracciata dalle forze antifasciste già all’indomani dell’armistizio proclamato l’8 settembre 1943. Tale raffigurazione scaturì da alcune fondamentali esigenze politiche condivise dall’intero fronte antifascista, tanto dalla monarchia e dal governo Badoglio, fuggiti da Roma e rifugiatisi nell’Italia meridionale liberata dagli Alleati, quanto dai risorti partiti antifascisti riuniti nel Comitato di liberazione nazionale: l’esigenza di controbattere la propaganda della Repubblica sociale italiana che stigmatizzava l’armistizio come «tradimento» della nazione e dell’alleato tedesco e invitava gli italiani a continuare la lotta a fianco del Terzo Reich; l’esigenza di mobilitare il paese nella lotta contro la Germania (cui il re Vittorio Emanuele III aveva dichiarato ufficialmente guerra il 13 ottobre 1943); l’esigenza di rivendicare dagli Alleati il superamento dello status armistiziale dell’Italia, la quale, pur riconosciuta come Stato «cobelligerante», restava un nemico sconfitto, cui era stata imposta una resa incondizionata4. 3 Per un inquadramento storiografico del tema della memoria cfr. F. Lussana, Memoria e memorie nel dibattito storiografico, in «Studi Storici», XLI, ottobre-dicembre 2000, 4, pp. 1047-81. Sul rapporto fra memoria individuale e memoria collettiva e per le loro definizioni si rimanda a P. Jedlowski, Memoria individuale e memoria collettiva, in N. Gallerano (a cura di), La Resistenza fra storia e memoria, Mursia, Milano 1999, pp. 19-30. 4 Sulle trattative fra governo italiano e autorità alleate per la definizione dell’armistizio e sui rapporti intercorsi fra le due parti nel periodo immediatamente successivo cfr. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Il Mulino, Bologna 2003 (II ed. ampliata).

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La risposta a tale triplice esigenza prese la forma di un intenso sforzo propagandistico che poggiò in maniera precipua sull’elaborazione di una lettura del passato condensata in slogan e luoghi comuni interpretativi relativi alla trascorsa esperienza del fascismo, all’alleanza italo-tedesca e alla partecipazione italiana alla guerra dell’Asse, nonché, contemporaneamente, sulla costruzione di un’immagine codificata del nemico: il tedesco. «Chi ha tradito?», questa fu la domanda cruciale intorno alla quale si scontrarono fascismo e antifascismo. Ribaltando le accuse di «tradimento» lanciate dalla propaganda di Salò5, il fronte antifascista replicò che chi aveva tradito gli italiani portandoli alla rovina era stato Mussolini, il quale aveva imposto un’alleanza «contro natura» con la Germania di Hitler, da tutti avversata, e precipitato il paese in una guerra al suo fianco «né voluta né sentita» (questa formula fu usata dal maresciallo Badoglio e poi ripresa da tutto l’antifascismo)6. Il filosofo liberale Benedetto Croce parlò per esempio di «alleanza dissennata e nefasta», frutto di un «patto di partito» contrario a tutta la tradizione nazionale7. Identico fu il giudizio del leader del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, che condannò recisamente l’alleanza stipulata dal fascismo con il «nemico secolare» del paese, l’«odiato tedesco»; alleanza firmata «senza alcuna consultazione e senza il consenso del popolo italiano, contro tutte le tradizioni e gli interessi della nazione italiana»8. Anche il comportamento della Germania venne descritto co5 Sulla propaganda del governo repubblicano fascista cfr. Fondazione Luigi Micheletti (a cura di), 1943-45. L’immagine della RSI nella propaganda, Mazzotta, Milano 1985 e M. Isnenghi, Autorappresentazioni dell’ultimo fascismo nella riflessione e nella propaganda, in P.P. Poggio (a cura di), La Repubblica sociale italiana 1943-45. Atti del convegno, Brescia 4-5 ottobre 1985, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 1986, pp. 99-111. 6 La formula fu utilizzata per la prima volta da Badoglio in un discorso pronunciato dai microfoni di Radio Bari il 19 settembre 1943. Il testo in A. degli Espinosa, Il Regno del Sud, Rizzoli, Milano 1995 (I ed. 1946), pp. 75-77. 7 Le espressioni di Croce sono tratte dal Manifesto per la chiamata dei volontari, affisso a Napoli il 10 ottobre 1943. Il testo in M. Milan, F. Vighi (a cura di), La Resistenza al fascismo. Scritti e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 146-49. 8 Sono parole pronunciate da Togliatti il 29 dicembre 1945 al V congresso del Partito comunista. Cfr. P. Togliatti, Opere, vol. V, 1944-1955, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 176-77.

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me proditorio. Nell’azione di Berlino fu individuato il tentativo subdolo, messo in atto con la stesura del Patto d’acciaio, di legare a sé l’Italia per utilizzarla da gregaria nella conquista dell’egemonia mondiale. Nei disegni germanici anche l’Italia sarebbe stata ridotta a un satellite del grande Reich e il duce trasformato in un semplice Gauleiter del Führer. Tradimento tedesco, dunque, fin dall’inizio nei calcoli del governo nazista e tradimento poi – si aggiungeva – anche, di fatto, sui campi di battaglia. Sia la propaganda monarchica sia la stampa e la pubblicistica antifasciste negarono il preteso cameratismo italo-germanico cui inneggiava la propaganda mussoliniana e descrissero viceversa il tedesco come un alleato infido, altezzoso verso i soldati italiani ritenuti razzialmente inferiori e pronto a tradirli, come si diceva fosse successo in Africa a El Alamein e in Russia sul Don. Secondo lo sdegnato giudizio italiano, qui i comandi germanici, per mettere in salvo le proprie truppe incalzate dall’avanzata avversaria, avevano sacrificato intenzionalmente i reparti italiani, abbandonati a piedi e senza rifornimenti a un triste destino di morte o di prigionia. L’immagine dei soldati italiani buttati giù con la forza dai camion tedeschi sui quali avevano tentato di salire o scaraventati fuori, sebbene assiderati o feriti, dalle capanne dei contadini russi in cui avevano cercato rifugio divenne presto un topos nel racconto italiano della guerra. L’immagine ebbe senza dubbio un forte impatto emotivo nel paese e fu presentata dall’antifascismo quale simbolo della falsità del cameratismo germanico e preludio della violenza e dell’odio che i tedeschi avrebbero scaricato sugli italiani dopo l’8 settembre9. A quest’azione rivolta contro le affermazioni della propaganda fascista, si accompagnò lo sforzo comune profuso dalla monarchia e dalle forze antifasciste per mobilitare il paese contro l’«invasore» tedesco. Facendo leva sulla tradizione risorgimentale e sulla memoria antigermanica retaggio della prima guerra mondiale10, gli italiani furono chiamati a riprendere le armi conCfr. F. Focardi, «Bravo italiano» e «cattivo tedesco»: riflessioni sulla genesi di due immagini incrociate, in «Storia e Memoria», V, 1996, 1, pp. 62-66. 10 Sull’immagine del «tedesco» elaborata in Italia durante la prima guerra mondiale cfr. A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003, pp. 107-32. 9

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tro l’«atavico nemico» della nazione, contro l’«eterno barbaro teutonico» tornato a insidiare le loro case e le loro vite11. I martiri caduti contro il «bestiale oppressore» germanico furono paragonati a quelli caduti contro il dominio austriaco, l’insurrezione napoletana contro i tedeschi del settembre 1943 fu paragonata alle gloriose «giornate» delle lotte d’indipendenza dell’Ottocento12. La guerra condotta dopo l’armistizio a fianco degli Alleati fu descritta in termini epici come un «secondo Risorgimento» della nazione italiana, come una «guerra di liberazione nazionale» sostenuta concordemente da tutto il popolo stretto intorno alle truppe regolari del regio esercito e alle formazioni partigiane. Un popolo alla macchia fu l’icastica espressione utilizzata dal dirigente comunista Luigi Longo13, uno dei più importanti comandanti militari della Resistenza14. Ad incidere ancora più a fondo sulla raffigurazione della guerra fu l’azione politica e propagandistica intrapresa nei confronti dei vincitori angloamericani. Preoccupazione fondamentale e legittima della classe dirigente antifascista fu quella di evitare una pace punitiva per il paese uscito sconfitto dal conflitto bellico. Riprendendo una posizione già sostenuta dal primo governo Badoglio, tutti i governi di «unità nazionale», nati dopo l’accordo della primavera del 1944 fra Comitato di liberazione nazionale e monarchia, posero al centro della propria azione internazionale la rivendicazione dei meriti avuti dall’Italia nella lotta contro la Ger11 Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 206-20, e E. Collotti, I tedeschi, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 65-86. 12 Cfr., per esempio, C. Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista (8 settembre - 1° ottobre 1943), nuova ed. a cura di S. Muzzupappa, La Città del Sole, Napoli 2004 (I ed. 1944). 13 L. Longo, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1947. Insieme al libro dell’azionista Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma: diario di un uomo nella guerra di un popolo (La Nuova Italia, Firenze 1947), e al volume La riscossa del generale Raffaele Cadorna (Rizzoli, Milano 1948), l’opera di Longo costituisce la trilogia classica sulla Resistenza per quanto riguarda la produzione dell’immediato dopoguerra. 14 Longo fu vicecomandante del Corpo volontari della libertà, l’organismo unitario dipendente dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, che dal giugno 1944 comandava le operazioni di tutte le forze partigiane attive nell’Italia centro-settentrionale.

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mania dopo l’8 settembre e, in base a essi, il riconoscimento di un’alleanza paritaria con le Nazioni Unite. L’«Italia democratica e antifascista» non doveva pagare per le colpe dell’«Italia di Mussolini». A questo fine risultò utile sia enfatizzare lo sforzo profuso dal paese contro il «comune nemico» tedesco (cosa che contribuì a raffigurare la Resistenza in termini epici come grande lotta di liberazione nazionale) sia separare il più nettamente possibile la condotta italiana da quella della Germania, a fianco della quale pure la nazione aveva combattuto per oltre tre anni15. Un valido supporto offrì la propaganda alleata. Fin dall’inizio delle ostilità, tale propaganda (indistintamente quella britannica, statunitense e sovietica) aveva mirato a incrinare l’alleanza dell’Italia fascista col Reich hitleriano e insistito, a questo scopo, nel distinguere le responsabilità del fascismo da quelle del popolo italiano, succube della dittatura, e le responsabilità italiane da quelle assai più gravi della Germania16. Il fronte antifascista fu unanime nel riproporre con forza tale distinzione. Esso presentò gli italiani come «vittime» del fascismo e della «guerra di Mussolini», condotta a servizio dell’«odioso teutone». Mentre i tedeschi, con fede cieca nella Grande Germania nazista, si erano dimostrati guerrieri fanatici, disciplinati e crudeli, gli italiani avevano viceversa partecipato al conflitto senza alcuna convinzione, senza odio per il nemico, capaci di muto sacrificio personale ma non di crudele violenza. Il differente epilogo bellico fu presentato come prova definitiva del diverso rapporto intercorso fra popolo e regime nei due Stati dell’Asse. Mentre il popolo tedesco era rimasto schierato col proprio Führer fino al «tramonto nibelungico» del Reich, quello italiano era insorto contro il fascismo, aveva liberato il paese e giustiziato il duce insieme a numerosi gerarchi. Le dif15 Cfr. F. Focardi, L’Italia antifascista e la Germania (1943-1945), in «Ventesimo Secolo», V, gennaio-aprile 1995, 13, pp. 144 sgg. 16 Sulla propaganda britannica e statunitense cfr. M. Piccialuti Caprioli, Radio Londra 1939-1945, Laterza, Roma-Bari 1979; L. Mercuri, Guerra psicologica. La propaganda anglo-americana in Italia, 1942-1946, Archivio Trimestrale, Roma 1983; A. Pizarroso Quintero, Stampa, radio e propaganda. Gli Alleati in Italia, 1943-1946, Franco Angeli, Milano 1989. Per quanto riguarda la propaganda di fonte sovietica, si vedano i discorsi pronunciati dalla Russia da Palmiro Togliatti: P. Togliatti, Da Radio Milano-Libertà, Editori Riuniti, Roma 1974 e i Discorsi agli italiani contenuti in P. Togliatti, Opere, vol. IV, 2, 1935-1944, a cura di F. Andreucci, P. Spriano, Editori Riuniti, Roma 1979.

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ferenze così poste in risalto rispetto alla Germania di Hitler erano senza dubbio fondate su dati concreti, nondimeno la rappresentazione dell’Italia come paese capillarmente antifascista e vittima della guerra era, come vedremo, inesatta e fuorviante. La classe dirigente antifascista sottolineò anche il diverso comportamento tenuto durante la guerra dalle truppe italiane e tedesche nei territori occupati, ad esempio in Jugoslavia e in Grecia. Alla figura del «cattivo tedesco» capace di ogni nefandezza contro le popolazioni civili e, in particolare, contro gli ebrei, venne contrapposta quella del «bravo italiano»17. Male armato, mal vestito, mal nutrito, catapultato contro il proprio volere in una guerra sciagurata, il soldato italiano aveva solidarizzato con le popolazioni dei paesi invasi per ordine di Mussolini, le aveva aiutate contro la fame e la miseria, dividendo quel poco che aveva, e, soprattutto, le aveva protette dai soprusi e dalle violenze dei commilitoni germanici, salvando così molte vite, come era il caso di migliaia di ebrei strappati dalle grinfie degli sterminatori tedeschi. Come osservò lo storico Gaetano Salvemini, l’«innato senso di umanità» del soldato italiano si era contrapposto alla «fredda brutalità meccanica» dell’«automa teutonico», «barbaro e incivile»18. Anche in questo caso se da un lato la descrizione dei soldati italiani come «difensori degli oppressi»19 poggiava su dati di fatto incontrovertibili (ad esempio l’aiuto prestato agli ebrei)20, dall’altro lato essa 17 Cfr. Focardi, «Bravo italiano» e «cattivo tedesco», cit., pp. 66-68, e Id., La memoria della guerra e il mito del «bravo italiano». Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in «Italia Contemporanea», settembre-dicembre 2000, 220-221, pp. 393-99. 18 G. Salvemini, G. La Piana, La sorte dell’Italia, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945, p. 55. 19 Cfr. M. Donosti [Mario Luciolli], Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista, Leonardo, Roma 1945, p. 271. 20 Sull’azione delle autorità civili e militari italiane in difesa degli ebrei esiste una vasta produzione di studi. Cfr., per esempio, L. Poliakov, J. Sabille, Gli ebrei sotto l’occupazione italiana, Comunità, Milano 1956; M. Shelah, Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito italiano e gli ebrei in Dalmazia (1941-1943), Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1991; D. Carpi, Between Mussolini and Hitler. The Jews and the Italian Authorities in France and Tunisia, Brandeis University Press, Hanover-London 1994; J. Steinberg, Tutto o niente. L’Asse e gli Ebrei nei territori occupati, 1941-1943, Mursia, Milano 1997 (ed. or. 1990). Davide Rodogno ha dimostrato che la protezione italiana non fu dettata da ragioni umanitarie come spesso questa storiografia ha

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oscurava però un altro aspetto della realtà assai meno edificante (e dannoso ai fini del trattato di pace), ovvero le responsabilità italiane per la guerra d’aggressione e i gravissimi crimini commessi anche da parte italiana contro i civili e i partigiani, specialmente in Jugoslavia, teatro di efferate rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, distruzioni di interi paesi, deportazioni di popolazione in campi di concentramento21. Già alla conclusione del conflitto l’antifascismo italiano delineò, dunque, la trama di una narrazione dell’esperienza della guerra e del fascismo che avrebbe costituito la base per la costruzione di una memoria collettiva largamente autoassolutoria, fondata sul paragone costante fra il caso italiano e quello tedesco, e sulla conseguente minimizzazione delle colpe italiane. Tale narrazione fu ribadita nei primi due anni del dopoguerra22, nel perio-

posto in evidenza, ma piuttosto da ragioni di prestigio per sottolineare l’autonomia italiana rispetto alle richieste tedesche. Lo studioso ha oltretutto richiamato l’attenzione su alcuni casi significativi, come quello di Fiume, nei quali le autorità italiane consegnarono gli ebrei ai tedeschi, segnandone la sorte. Cfr. D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 432-84. 21 Cfr., per esempio, T. Sala, Guerra ed amministrazione in Jugoslavia 19411943: un’ipotesi coloniale, in B. Micheletti, P.P. Poggio (a cura di), L’Italia in guerra 1940-1943, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 1992, pp. 83-94; T. Ferenc, La provincia «italiana» di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine 1994; Id., «Si ammazza troppo poco»: Condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella Provincia di Lubiana. 1941-1943. Documenti, Drusˇtvo piscev zgodovine Nob-Insˇtitutza novejso zgodovino, Ljubljana 1999; Id., Rab-Arbe-Arbissima. Confinamenti-rastrellamenti-internamenti nella Provincia di Lubiana. 1941-1943, Drusˇtvo piscev zgodovine Nob-Insˇtitutza novejso zgodovino, Ljubljana 2000; E. Collotti, Sulla politica di repressione italiana nei Balcani, in L. Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 181-208 (ora anche in E. Collotti, L’Europa nazista. Il progetto di nuovo ordine europeo, 19391945, Giunti, Firenze 2002, pp. 257-92); B. Mantelli, Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, in C. Dipper, L. Klinkhammer, A. Nützenadel (a cura di), Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder zum 65. Geburtstag, Duncker & Humblot, Berlin 2000, pp. 57-74; C.S. Capogreco, Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’internamento dei civili jugoslavi (1941-1943), in «Studi Storici», XLII, gennaio-marzo 2001, 1, pp. 203-30; Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit., pp. 397-431. 22 Cfr. S. Cavazza, La transizione difficile: l’immagine della guerra e della resistenza nell’opinione pubblica dell’immediato dopoguerra, in G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guer-

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do cioè di discussione del trattato di pace e di creazione dello Stato repubblicano, da un’imponente azione giornalistica e pubblicistica che produsse un vero e proprio «racconto egemonico». In sintesi, i pilastri di questo racconto furono i seguenti: il popolo italiano aveva subito la dittatura fascista ed era stato trascinato da Mussolini e dai suoi «scherani» in una guerra invisa, a fianco di un alleato detestato come la Germania; i soldati italiani avevano combattuto con valore sacrificandosi per una guerra condotta in condizioni di grave inferiorità e impreparazione; si erano distinti dai commilitoni tedeschi per l’umanità dimostrata verso le popolazioni dei paesi occupati; erano stati costantemente traditi sul campo di battaglia dai camerati germanici; non appena la dittatura mussoliniana aveva allentato la presa, il popolo italiano aveva dimostrato i suoi veri sentimenti antifascisti; tutto il popolo italiano aveva partecipato alla lotta di liberazione nazionale, non solo le forze armate e i partigiani ma anche i civili, che avevano sostenuto la Resistenza pagando un grave tributo di sangue, come attestavano le numerose stragi perpetrate dai fascisti e dai tedeschi; gli italiani, al fianco delle truppe alleate, avevano liberato con le proprie forze le città dell’Italia centro-settentrionale sconfiggendo i tedeschi e i loro complici fascisti; l’Italia aveva ottenuto con ciò un pieno riscatto, tanto da poter essere considerata moralmente vincitrice. Non c’è dubbio che simile narrazione, pur dettata dai sentimenti più vivi del momento e originata da istanze politiche legittime, producesse però un racconto parziale e reticente della storia nazionale23. Venivano infatti omessi aspetti fondamentali come l’esistenza di un consenso popolare al fascismo24; il favore con cui molti italiani nella primavera del 1940 avevano accolto la guerra a fianco della Germania in previsione di una rapida vittoria25; il carattere anche di guerra civile avuto dalla Resira e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 427-64. 23 Cfr. P.G. Zunino, La Repubblica e il suo passato, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 283 sgg. 24 Sul tema, ampiamente e accesamente dibattuto dalla storiografia, si rimanda alla voce curata da Gianpasquale Santomassimo in V. De Grazia, S. Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. I, Einaudi, Torino 2002, pp. 347-52. 25 Contraria alla partecipazione alla guerra dell’Italia al momento dell’aggressione nazista della Polonia nel settembre 1939, l’opinione pubblica italiana

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stenza, non riducibile esclusivamente a una lotta contro lo straniero e i suoi «servi» fascisti26. Non del tutto veritiera era anche la raffigurazione del «tradimento» tedesco sui campi di battaglia. In alcune circostanze – ad esempio nella ritirata di Russia – il comportamento delle truppe italiane non fu dissimile da quello assai poco cameratesco addebitato all’alleato germanico: anche i soldati italiani non avevano mancato di compiere prevaricazioni e violenze sui commilitoni tedeschi per cercare di mettersi in salvo27. Analogamente, l’accusa rivolta ai tedeschi dopo El Alamein di aver abbandonato gli italiani nel deserto alla mercé del nemico era stata soprattutto un’efficace invenzione della propaganda britannica28. In sintesi, la narrazione antifascista scaricava su Mussolini e sui tedeschi ogni responsabilità per la guerra fascista combattuta dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943, ne taceva o minimizzava il carattere aggressivo soffermandosi sull’opera umanitaria dei «bravi soldati italiani» e valorizzava quanto compiuto nella «seconda guerra» combattuta dagli italiani dall’8 settembre 1943 alla fine di aprile del 1945, considerata la «vera guerra», nella quale il popolo italiano aveva potuto dimostrare la sua autentica volontà nello dette segno di capovolgere il proprio orientamento l’anno successivo, a seguito delle travolgenti vittorie tedesche sul fronte occidentale. Cfr. P. Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 50 sgg., e S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 334-39. Giovanni De Luna ha sottolineato il carattere ondivago e superficiale di questo consenso alla guerra, legato all’evolversi degli eventi bellici, e ha posto in evidenza la persistenza di un «pensiero medio» contraddistinto da un radicato desiderio di pace degli italiani e da una diffidenza nei confronti della guerra. Cfr. G. De Luna, L’identità coatta. Gli italiani in guerra (1940-1945), in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia, Annali 18, Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002, pp. 759 sgg. 26 Sulla Resistenza come espressione, a un tempo, di guerra patriottica, di guerra civile e di guerra di classe si rimanda all’opera fondamentale di Pavone, Una guerra civile, cit. 27 Studiando la campagna di Russia negli archivi tedeschi, Alessandro Massignani ha riscontrato come da parte germanica furono mosse nei confronti dell’alleato italiano le medesime accuse sollevate dalla stampa italiana nei confronti delle truppe germaniche: abbandono dell’alleato, accaparramento dei rifornimenti, soperchierie e violenze. Cfr. A. Massignani, Alpini e tedeschi sul Don, Rossato, Novale di Valdagno 1991. 28 Cfr. A. Massignani, J. Greene, Rommel in Africa Settentrionale settembre 1940-novembre 1942, Mursia, Milano 1996, p. 183.

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sforzo concorde contro gli odiati fascisti e l’odiato tedesco. Fu quest’ultima guerra, la guerra dell’Italia cobelligerante e della Resistenza partigiana, che venne celebrata da un ceto politico e intellettuale che di quella lotta era stato protagonista e che da lì traeva la propria fonte di legittimazione come classe dirigente del paese29. Ogni forza politica commemorò i propri martiri caduti per mano nazifascista, che trovarono posto nel ricordo a fianco di quanti erano morti nel corso del ventennio per opporsi al regime mussoliniano: accanto ai fratelli Rosselli, a Gobetti, a Matteotti, a don Minzoni, ad Amendola, a Gramsci furono così collocati i Duccio Galimberti, i Bruno Buozzi, i don Morosini, i sette fratelli Cervi30. Al di là dell’appartenenza di partito, i «martiri della Resistenza» furono celebrati congiuntamente nel dopoguerra dai partiti antifascisti, che vi riconobbero la testimonianza più alta della comune lotta per la libertà dell’Italia. Quale segno del tributo pagato dal paese, furono ricordate alcune delle stragi più crudeli compiute dai tedeschi contro militari italiani, come a Cefalonia; contro civili e militari, come alle Fosse Ardeatine; contro civili inermi, fra cui donne e bambini, come a Boves, Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto31. Da subito, inoltre, fu dato risalto e valore simbolico ad alcune date ed eventi significativi: il 25 luglio 1943, preso come giorno del crollo del regime fascista «minato dall’opposizione ventennale» del popolo italiano32; l’8 settembre 1943, considerata come data d’inizio della Resistenza, contrassegnata da alcuni episodi topici come, ad esempio, la difesa di Roma contro i tedeschi a porta San Paolo, la strage germanica della 29 Non si può dar conto qui della ricchissima messe di studi sulla Resistenza. Per un inquadramento storiografico aggiornato cfr. S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004. Un buon lavoro di sintesi, che ricostruisce le vicende della storia italiana fra il 1943 e il 1945 è: G. Oliva, I vinti e i liberati. 8 settembre 1943-25 aprile 1945. Storia di due anni, Mondadori, Milano 1994. 30 Cfr. E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino 2001, rispettivamente pp. 547-49, 500-501, 594, 513-14. 31 Per quanto riguarda le Fosse Ardeatine, Boves, Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, cfr. ivi, rispettivamente pp. 380-83, 370-72, 395-96, 388-91. Per Cefalonia cfr. infra, nota 33. 32 Sul 25 luglio cfr. M. Franzinelli, Il 25 luglio, in Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date, cit., pp. 219-40.

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guarnigione italiana a Cefalonia33 e l’insurrezione vittoriosa di Napoli34; il 24 marzo 1944, giorno della strage delle Fosse Ardeatine, commemorata come il primo grande sacrificio di italiani, civili e militari insieme, cattolici ed ebrei, comunisti e monarchici35; infine, il 25 aprile, la Liberazione, la data più importante, presa come simbolo del riscatto nazionale e istituita ufficialmente nel 1946 come festa nazionale36. La narrazione elaborata dall’antifascismo aveva avuto modo di strutturarsi e di affermarsi in virtù dell’accordo politico stretto fra la monarchia e i partiti politici del Cln dopo la «svolta di Salerno», cioè dopo la decisione di Togliatti, nel marzo-aprile del 1944, di togliere la pregiudiziale antimonarchica per collaborare con Casa Savoia nella lotta contro i tedeschi e la Repubblica di Salò. Tale accordo, entrato già ripetutamente in tensione durante i mesi del conflitto, si ruppe nel dopoguerra al momento della campagna elettorale per il referendum del 2 giugno 1946, che avrebbe deciso la forma istituzionale del nuovo Stato. Il confronto fra fautori della monarchia (fra cui vi erano, come noto, molti elettori liberali e democristiani) e fautori della Repubblica (sostenuta soprattutto dai partiti della sinistra) si tradusse anche in una disputa sulla memoria. I sostenitori della Repubblica, riprendendo All’indomani dell’8 settembre, la divisione Acqui comandata dal generale Gandin, di stanza sull’isola greca di Cefalonia, aveva rifiutato di arrendersi ai tedeschi e ingaggiato con questi battaglia dal 15 al 22 settembre 1943, finché non era stata sopraffatta. Erano seguite fucilazioni di massa di ufficiali e soldati italiani. Il numero degli assassinati non è certo. In base alle fonti italiane oscilla fra i 4.700 e i 5.300. Le fonti tedesche parlano invece complessivamente di circa 4.000 caduti in combattimento o fucilati. Cfr. G. Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000 (ed. or. 1996), pp. 74-83. 34 Cfr. M. Franzinelli, L’8 settembre, in Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date, cit., pp. 241-70. 35 Per una sintetica ricostruzione della strage con annessa bibliografia cfr. la voce curata da Giancarlo Monina in Collotti, Sandri, Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, cit., pp. 380-83. Per lo studio più recente e accurato si rimanda a S. Prauser, Mord in Rom? Der Anschlag in der Via Rasella und die deutsche Vergeltung in den Fosse Ardeatine im März 1944, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 2002, 2, pp. 269-301. 36 Sulla celebrazione del 25 aprile come festa nazionale cfr. C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile, in L. Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 325-78, e M. Ridolfi, Le feste nazionali, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 199-233. 33

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temi mai scomparsi dalle pagine della stampa antifascista, accusarono la monarchia di aver appoggiato il regime mussoliniano fino ad avallare la guerra con la Germania e di aver provocato la catastrofe dell’8 settembre con una condotta malaccorta e indegna, culminata nella fuga precipitosa del re e della Corte dalla capitale e nell’abbandono delle forze armate in balia dei tedeschi. La monarchia replicò chiamando in causa uno dei pilastri della narrazione sviluppata dal fronte antifascista: il rapporto fra la dittatura di Mussolini e il popolo italiano. Da parte monarchica si fece rilevare che il sovrano aveva acconsentito all’ingresso in guerra dell’Italia non potendo opporsi alla volontà interventista degli italiani, schierati col duce37. Fu inoltre rivendicato il ruolo fondamentale giocato dal sovrano nella caduta del fascismo nel luglio del 1943 e caparbiamente difesa la scelta di abbandonare la capitale al momento dell’armistizio per garantire la continuità istituzionale38. Come finì il confronto? In estrema sintesi, si può osservare che il responso del referendum del 2 giugno 1946 con la vittoria della Repubblica ebbe l’effetto di spazzare via gli argomenti monarchici. Da allora in poi la memoria della guerra dell’Italia repubblicana acquisì in maniera stabile come suo elemento costitutivo la recisa condanna della fuga del re da Roma. Rimase inoltre incontestato l’assunto dell’ostilità del popolo italiano alla guerra di Mussolini. Altri terreni di attrito furono rappresentati dalla questione delle responsabilità nella catastrofica condotta militare e dalla questione dei crimini di guerra. Esse investivano esponenti di primo piano dell’establishment militare come ad esempio i generali Giovanni Messe, Mario Roatta, Taddeo Orlando, rimasti a fianco del re e di Badoglio dopo l’armistizio con incarichi di alto livello39. La 37 Questa posizione, espressa nell’aprile 1944 dal principe Umberto in un’intervista al «Times», aveva provocato una grave crisi politica con le forze antifasciste. Il governo Badoglio di unità nazionale era stato costretto a diramare un duro comunicato di condanna delle dichiarazioni del principe. Cfr. A.G. Ricci, Aspettando la Repubblica. I governi della transizione 1943-1946, Donzelli, Roma 1996, pp. 27-28. 38 Cfr. P. Silva, Io difendo la monarchia, De Fonseca, Roma 1946 (I ed. 1944), pp. 134-205. 39 Giovanni Messe aveva comandato il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) e organizzato l’ultima difesa delle forze italiane in Africa settentrionale. Fatto prigioniero dagli inglesi, fu liberato su richiesta di Badoglio e nomina-

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condanna del comportamento del «falso» alleato germanico era servita ai vertici militari passati con Badoglio (coinvolti nel precedente disastro bellico) per riversare sui tedeschi ogni responsabilità per le fallimentari sconfitte patite dall’Italia sui vari fronti di guerra. Da parte delle sinistre antifasciste non si mancò invece di considerare il «tradimento» tedesco sui campi di battaglia un’aggravante nei confronti dei generali italiani, incapaci di impedire simile comportamento e di tutelare le proprie truppe. La salvaguardia dell’onore del soldato italiano, ingiustamente accusato di scarsa capacità combattiva da parte tedesca, non significava per le sinistre un salvacondotto per gli inetti comandi superiori40. Nell’ambito dei progetti di epurazione delle forze armate promossi a partire dall’estate del 1944, le sinistre tentarono di portare sul banco degli accusati i vertici militari italiani responsabili della guerra fascista, incriminati sia per la disastrosa inefficienza bellica sia per aver commesso delitti di guerra41. Quali furono i risultati? Si può osservare che, mentre la critica alla pessima preparazione militare della guerra e alla sua maldestra conduzione fu tenace e ottenne l’effetto di uno screditamento dell’operato dei comandi (effetto morale, non giudiziario perché nessuna inchiesta venne aperta, tranne quella amministrativa sulla mancata difesa di Roma), i tentativi di processare membri delle forze armate per crimini di guerra furono invece deboli e non dettero alcun risultato, to capo di Stato maggiore delle forze armate. Nel dopoguerra fu senatore democristiano e in seguito deputato monarchico e liberale. Mario Roatta aveva diretto prima della guerra il servizio segreto militare. Dal marzo 1941 al gennaio 1942 era stato capo di Stato maggiore dell’Esercito, quindi comandante della Seconda Armata in Jugoslavia e della Prima Armata in Sicilia. Fu di nuovo capo di Stato maggiore dell’Esercito dal maggio al novembre 1943. Nel novembre 1944 fu arrestato per essere processato dinanzi all’Alta corte di giustizia per crimini fascisti. Fuggì durante il processo nel marzo 1945 rifugiandosi nella Spagna franchista. Taddeo Orlando, generale di divisione in Jugoslavia, rivestì poi la carica di comandante generale dell’Arma dei carabinieri, fu ministro della Guerra dal febbraio al giugno 1944 e nel 1947 fu nominato segretario generale del ministero della Difesa. Roatta e Orlando furono richiesti dalla Jugoslavia come criminali di guerra. 40 Cfr. Focardi, «Bravo italiano» e «cattivo tedesco», cit., pp. 62-63. 41 Cfr. L. Mercuri, L’epurazione in Italia 1943-1948, L’Arciere, Cuneo 1988, pp. 51 sgg.; R. Palmer Domenico, Processo ai fascisti, Rizzoli, Milano 1996 (ed. or. 1991), pp. 64 sgg.; H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna 1997 (ed. or. 1996), pp. 187 sgg.

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infrangendosi contro l’opposizione della corona e dell’esercito, sostenuti dalle forze antifasciste moderate e dalle autorità militari alleate in Italia. Quest’ultimo punto merita un approfondimento42. Come si è detto, la «narrazione egemonica»43 elaborata dal fronte antifascista aveva annoverato fra i suoi capisaldi l’elogio del «bravo italiano» contrapposto al «cattivo tedesco». Nella categoria del «bravo italiano» le sinistre antifasciste includevano i soldati semplici, ma non i loro comandanti né le camicie nere che si erano macchiati di gravi delitti, specie nei Balcani. Fra il settembre 1944 e il giugno 1945 le sinistre – socialisti, comunisti, azionisti e repubblicani – fecero alcuni tentativi per processare i colpevoli di crimini di guerra, in primo luogo il generale Mario Roatta, già comandante della Seconda Armata di stanza in Slovenia e Croazia, che era stato arrestato per reati commessi prima del conflitto nella sua veste di capo del servizio segreto militare. Le sinistre chiesero che egli fosse giudicato dall’Alta corte di giustizia anche per i crimini di guerra compiuti dalle sue truppe in Jugoslavia44, ma non ottennero alcun successo. Anzi, Roatta riuscì a eludere qualsiasi giudizio. Nel marzo del 1945 il generale, infatti, scappò e si rifugiò all’estero45. La volontà di processare i criminali di guerra si affievolì drasticamente dopo la temporanea occupazione jugoslava di Trieste e della Venezia Giulia (1° maggio-12 giugno 1945). Il pericolo corso sviluppò per reazione, nelle forze politiche, una forte preoccupazione per gli interessi nazionali minacciati. Du42 Sulla questione cfr. F. Focardi, L’Italia fascista come potenza occupante nel giudizio dell’opinione pubblica italiana: la questione dei criminali di guerra (19431948), in «Qualestoria», XXX, giugno 2002, 1, pp. 159-61. 43 Sul concetto di «narrazione egemonica», cfr. C. Maier, Fare giustizia, fare storia: epurazioni politiche e narrative nazionali dopo il 1945 e il 1989, in «Passato e Presente», XIII, 1995, 34, pp. 23-32, e S. Woolf, Memoria, narrazione egemonica e pluralismo europeo, ivi, pp. 32-37. 44 Famigerate sono le direttive impartite da Roatta alle truppe italiane nel 1942, raccolte nella cosiddetta Circolare 3C, che prevedevano misure draconiane contro le popolazioni civili jugoslave per la lotta contro la guerriglia partigiana. Cfr. M. Legnani (a cura di), Il ‘ginger’ del generale Roatta. Le direttive della seconda armata sulla repressione antipartigiana in Slovenia e Croazia, in «Italia Contemporanea», dicembre 1997-marzo 1998, 209-210, pp. 155-74. 45 L’Alta corte condannò Roatta in contumacia all’ergastolo. La sentenza fu annullata nel 1948.

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rante i negoziati per la pace italiana, che corsero dalla conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945) lungo tutto il 1946 fino alla firma del trattato di pace nel febbraio 1947, i comunisti furono la sola forza politica che sostenne, pur blandamente, le richieste avanzate dalla Jugoslavia per la consegna dei presunti criminali di guerra italiani46. Per evidenti ragioni nazionali, tutte le altre forze politiche della sinistra si astennero dal prendere una simile posizione. Solo dopo l’esclusione delle sinistre dal governo nel maggio 1947, la stampa socialista, insieme con quella comunista, dette risalto all’inizio del ’48 alle accuse di crimini di guerra allora rinnovate da Belgrado. Nessuno, tuttavia, portò mai la questione in discussione in Parlamento. Un deputato socialista, Giusto Tolloy, affermò espressamente che per «carità di patria» ciò sarebbe stato inopportuno47. Del resto, anche la Commissione d’inchiesta, appositamente costituita in Italia nel maggio 1946 per indagare sui criminali di guerra italiani, non arrivò a nessun risultato concreto48. Di essa fecero parte anche esponenti socialisti e comunisti49, che di fatto avallarono (o comunque non riuscirono a modificare) la linea assai cauta della Commissione, interessata più a proteggere gli indagati che ad accertarne le responsabilità. Almeno una quarantina di civili e militari italiani furono comunque deferiti dalla Commissione d’inchiesta alla giustizia militare perché fossero giudicati. Ma tutto fu lasciato cadere. Nessun processo per crimini di guerra fu mai celebrato50. Ciò ha contribuito a preservare l’immagine autoassolutoria e autocelebrativa del «bravo italiano».

46 Per l’atteggiamento comunista e, più in generale, per il dibattito in Italia sulla questione dei criminali di guerra si rimanda a Focardi, L’Italia fascista come potenza occupante, cit. 47 Cfr. ivi, p. 181. 48 Cfr. Id., La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LXXX, 2000, pp. 578 sgg.; F. Focardi, L. Klinkhammer (a cura di), La questione dei «criminali di guerra» italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata, in «Contemporanea», IV, luglio 2001, 3, pp. 497-528. 49 Si tratta del senatore comunista Mario Palermo e del socialista Domenico Albergo. 50 Cfr. F. Focardi, I mancati processi ai criminali di guerra italiani, in pubblicazione nel secondo volume degli atti del convegno Guerra ai civili (Bologna, 19-22 giugno 2002) presso l’Ancora del Mediterraneo di Napoli.

Capitolo secondo CRISI DELLA «NARRAZIONE EGEMONICA» ANTIFASCISTA 1948-1953

I casi sopra ricordati di conflitto sulla memoria intervenuti nel dopoguerra fra la monarchia e le forze repubblicane, fra l’establishment militare e le sinistre antifasciste, non intaccarono i fondamenti della «narrazione egemonica» elaborata fra il 1943 e il 1945. Contro questa si pose invece, fin dall’immediato dopoguerra, la memoria antagonista e rancorosa del neofascismo1. Essa sostenne le ragioni della partecipazione italiana alla guerra a fianco della Germania in nome di una più «equa ripartizione» delle risorse mondiali accaparrate dagli imperi di Francia e Gran Bretagna, affermò l’esistenza di una vasta adesione della nazione alla guerra dell’Asse ed esaltò l’eroismo dimostrato in combattimento dai soldati italiani (dalle gesta dei paracadutisti a El Alamein alle imprese degli incursori della Marina contro le navi inglesi). Soprattutto, il neofascismo stigmatizzò il tradimento della patria compiuto dalla Corona, responsabile del crollo del regime il 25 luglio 1943 e dell’armistizio successivo, che aveva condotto alla rovina della nazione rimasta alla mercé delle truppe nemiche. Un analogo giudizio di tradimento bollò anche l’azione delle forze antifasciste. Secondo questa lettura, l’8 settembre aveva rappresentato non l’inizio del riscatto del paese come sostenuto dall’antifascismo, bensì la tragica «disfatta morale» della nazione; mentre la Resistenza 1 Sulla memoria della guerra sviluppata dal neofascismo cfr. F. Germinario, L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

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veniva considerata una cruenta «guerra fratricida» fra italiani, da cui solo lo straniero aveva tratto vantaggio. Dopo la firma del trattato di pace (10 febbraio 1947) che impose all’Italia rinunce territoriali e il pagamento di riparazioni, la stampa neofascista pose in risalto con rinnovato vigore la pretesa funzione patriottica svolta dalla Repubblica sociale italiana, elogiata per aver posto un freno alla volontà di distruzione della Germania hitleriana furiosa contro il traditore italiano2. Tale funzione fu contrapposta ai risultati, ritenuti pessimi, conseguiti dall’Italia della cobelligeranza, incapace di opporsi a una pace punitiva che aveva messo in ginocchio il paese3. Ho difeso la Patria, fu questo il titolo emblematico del volume di taglio memorialistico del maresciallo Graziani, l’ex comandante supremo delle forze armate della Repubblica sociale4. Per Graziani il governo fascista di Salò aveva impedito che l’Italia fosse ridotta dai tedeschi in una «seconda Polonia»5. Queste posizioni non restarono confinate alla stampa e all’editoria neofasciste, che per altro ebbero una circolazione assai va2 In realtà, i reparti della Repubblica sociale italiana furono protagonisti di molte atrocità compiute ai danni dei civili italiani, dimostrando sovente maggiore efferatezza rispetto alle stesse truppe tedesche. È noto, oltretutto, che il governo di Mussolini non riuscì a mantenere il controllo di zone estese del territorio nazionale come l’Alto Adige e la Venezia Giulia che passarono sotto la completa giurisdizione tedesca. Cfr. M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 19432001, Mondadori, Milano 2002, pp. 38-60; L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993; D. Gagliani, Brigate nere, Bollati Boringhieri, Torino 1999; L. Ganapini, La Repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999; P.P. Poggio, Repubblica sociale italiana, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, Einaudi, Torino 2000, pp. 66-77. 3 L’Italia democratica uscita dalla Resistenza non poteva cancellare la sconfitta subita dall’Italia fascista. Se si considera il ruolo di primo piano giocato da quest’ultima a fianco della Germania nazista, il prezzo fatto pagare al paese dai vincitori col trattato di pace non appare eccessivo: Briga e Tenda sul confine francese, l’Istria sul confine orientale (con Trieste tornata all’Italia nell’ottobre 1954), rinuncia ai diritti sulle colonie, riparazioni di guerra non troppo gravose a favore dei paesi aggrediti. Sulla vicenda del trattato di pace italiano cfr. A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 27-42. 4 R. Graziani, Ho difeso la Patria, Garzanti, Milano 1948. 5 Sulla figura di Graziani cfr. R. Canosa, Graziani. Il maresciallo d’Italia, dalla guerra d’Etiopia alla Repubblica di Salò, Mondadori, Milano 2004.

II. Crisi della «narrazione egemonica» antifascista. 1948-1953

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sta (ad esempio «Rivolta ideale», principale settimanale neofascista, arrivò a tirare 150 mila copie – il libro di Graziani fu uno dei best seller dell’epoca). Alcuni dei temi neofascisti – fra cui la celebrazione dell’eroismo bellico, il ricordo nostalgico della potenza passata, la critica alla Resistenza come movimento egemonizzato dalle sinistre – trovarono ricezione in larghi settori dell’opinione pubblica italiana, specie nella piccola e media borghesia meridionale ancora intrisa di sentimenti nostalgici verso il fascismo6, nonché fra le fila di una parte degli ex combattenti e dei prigionieri di guerra catturati in Russia o in Africa, che avevano sofferto in molti casi una prigionia particolarmente dura e penosa7. Gli umori di questi ampi settori dell’opinione pubblica trovarono espressione in giornali allora influenti come «Il Tempo» di Renato Angiolillo e soprattutto nel movimento politico nato intorno al settimanale di Guglielmo Giannini, «L’Uomo Qualunque»8. Diffusa in questi ambienti era una forte insofferenza per la retorica antifascista e soprattutto un atteggiamento visceralmente anticomunista. Già nel 1946 esponenti autorevoli dell’Uomo Qualunque ed esponenti monarchici posero pubblicamente sotto accusa l’antifascismo. Ad esempio, nel febbraio 1946, in occasione del primo congresso dell’Uomo Qualunque, Emilio Patrissi, un membro della Consulta nazionale, definì gli antifascisti «sciacalli piovuti dall’estero per dilaniare il corpo della nazione»9. Il caso 6 Cfr., per esempio, A.M. Imbriani, Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948), Il Mulino, Bologna 1996. 7 Sofferta, spesso drammatica, fu soprattutto l’esperienza dei prigionieri italiani internati nei campi in Unione Sovietica, in quelli francesi dell’Africa settentrionale e in alcuni campi britannici, ad esempio in India. Sul tema della prigionia di guerra cfr. in generale: R.H. Rainero (a cura di), I prigionieri militari italiani durante la seconda guerra mondiale. Aspetti e problemi storici, Marzorati, Milano 1985; F.G. Conti, I prigionieri di guerra italiani (1940-1945), Il Mulino, Bologna 1986; Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Franco Angeli, Milano 1989. Sui prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica cfr., in particolare, M.T. Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Il Mulino, Bologna 2003. Sul problema dei reduci, ancora poco studiato dalla storiografia, cfr., invece, C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in N. Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 87-106. 8 Sull’esperienza dell’Uomo Qualunque, cfr. S. Setta, L’Uomo Qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari 1975 (nuova ed. 2005). 9 Ivi, p. 139.

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suscitò reazioni furibonde in tutti i partiti dello schieramento antifascista, dai comunisti (Li Causi chiese che a Patrissi fosse revocato il mandato di consultore) ai liberali (Edgardo Sogno – animoso capo partigiano – minacciò di riprendere in mano le armi)10. Accuse analoghe contro l’antifascismo e analoghe, immediate proteste si ebbero nuovamente pochi mesi dopo, nel luglio del 1946, allorché alla Costituente, in occasione del dibattito sulla politica estera, il generale monarchico Roberto Bencivenga si scagliò contro i governi del Cln insediati dallo «straniero», ritenuti responsabili delle «tristi condizioni» nazionali e internazionali del paese11. Alle prese di posizione di Patrissi e di Bencivenga, che chiamavano in causa il patriottismo e dunque la stessa legittimità politica dei governi ciellenisti, i partiti antifascisti avevano reagito allora unanimemente. La coesione del fronte antifascista risultava però già minata dall’anticomunismo, diffuso non solo negli ambienti della destra neofascista e qualunquista ma anche nei settori antifascisti moderati di matrice democratico-cristiana e liberale. L’anticomunismo fu fortemente alimentato dall’intensa campagna di stampa lanciata sin dall’autunno del 1945 dai giornali moderati e conservatori sulla questione dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica12. La campagna, che accusava Mosca di aver causato la morte di migliaia di prigionieri italiani e di trattenerne ancora un gran numero come «schiavi del lavoro», raggiunse l’acme in occasione delle elezioni del 18 aprile 194813. Il serrato confronto politico-ideologico tra il fronte delle sinistre, socialista e comunista, estromesse l’anno precedente dal go10 Cfr. Atti della Consulta nazionale, Discussioni dal 25 settembre 1945 al 9 marzo 1946, Camera dei Deputati, Roma 1946, pp. 762-65. 11 Cfr. Atti dell’Assemblea costituente, Discussioni dal 25 giugno al 14 dicembre 1946, vol. 328, Camera dei Deputati, Roma 1947, p. 69. 12 Cfr. R. Morozzo della Rocca, La vicenda dei prigionieri in Russia nella politica italiana, 1944-1948, in «Storia e Politica», XXII, settembre 1983, 3, pp. 480-542; E. Aga Rossi, V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 167-76. Sulla sorte effettiva dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica cfr. Giusti, I prigionieri italiani in Russia, cit., e V. Zilli, Gli italiani prigionieri di guerra in URSS: vicende, esperienze, testimonianze, in Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, Gli italiani sul fronte russo, De Donato, Bari 1982, pp. 297-309. 13 Cfr. Morozzo della Rocca, La vicenda dei prigionieri in Russia, cit., pp. 480-542.

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verno, e la Democrazia cristiana di De Gasperi sostenuta dai comitati civici dell’Azione cattolica, si ripercosse anche sulla celebrazione del 25 aprile, caduta a pochi giorni di distanza dalla vittoria elettorale democristiana. Mentre il primo anniversario della Liberazione, nel 1946, era stato celebrato in maniera unitaria con «solenni manifestazioni» che avevano visto la partecipazione delle istituzioni civili e religiose e delle associazioni partigiane14, la festa della Liberazione del 1948 fu viceversa teatro di un’aspra contrapposizione. Un decreto legislativo del febbraio 1948 aveva vietato l’uso in pubblico di uniformi o divise15. Con ciò il governo aveva inteso impedire celebrazioni all’aperto del 25 aprile, nel timore di una loro strumentalizzazione politica da parte delle sinistre. La risposta delle sinistre fu contraddistinta da una forte «enfasi testimoniale»16. Parlando a Milano, nella celebrazione organizzata al Castello Sforzesco, il comunista Luigi Longo tuonò contro «la pretesa che la ricorrenza della Liberazione fosse ricordata in locali chiusi a porte chiuse come si ordina per gli spettacoli immorali»17. «Il 25 aprile – egli affermò – è stata l’insurrezione di tutto un popolo. La sua commemorazione è festa di tutto un popolo». Dappertutto in Italia ci furono tentativi di eludere le disposizioni restrittive del governo. Ne seguirono numerosi scontri fra manifestanti e polizia. Ad esempio a Milano, un corteo che aveva cercato di raggiungere piazzale Loreto per deporre fiori sulla lapide dei quindici martiri partigiani lì giustiziati nel 1944 fu caricato dalla celere. Ci furono venti feriti e un morto fra le forze dell’ordine. Nel celebrare la Liberazione le sinistre avevano riproposto un messaggio unitario che esaltava la Resistenza come fenomeno nazionale e popolare fondato sull’unità antifascista. L’«insurrezione 14 Cfr. C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile, in L. Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 343-52. 15 Cfr. ivi, p. 353. 16 A. Ballone, La Resistenza, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 415. Ballone individua nel «silenzio istituzionale» dei governi centristi e nell’«enfasi testimoniale» delle sinistre i due atteggiamenti tipici che avrebbero connotato le commemorazioni della Resistenza dal 1948 al 1960. 17 Cfr. Il governo ha tentato d’impedire a Milano l’omaggio dei partigiani alle tombe dei caduti, in «l’Unità», 27 aprile 1948.

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di tutto un popolo» ricordata da Longo a Milano era acclamata anche nell’appello lanciato dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi)18, secondo il quale l’«insurrezione vittoriosa» dei partigiani sostenuti dal popolo italiano aveva «suggellato» la «dura lotta» dell’«Italia del nuovo Risorgimento»19. Accanto al tema unitario era risuonato contemporaneamente il richiamo alla «vigilanza per la difesa delle istituzioni democratiche, della libertà e del progresso sociale» contro «le forze che vorrebbero corrodere e colpire il patrimonio della Resistenza»20. La difesa delle «conquiste della Liberazione», fra cui innanzitutto la Costituzione repubblicana, non esauriva però i compiti cui le sinistre richiamavano i propri elettori e i cittadini italiani. Già durante la campagna elettorale era emerso il riferimento alla Resistenza come una «rivoluzione a metà» che andava ripresa e completata per il trionfo definitivo di quegli ideali di rinnovamento democratico professati durante la guerra partigiana. Il tema sarebbe tornato con insistenza negli anni a seguire. Commemorando nel 1949 l’anniversario del 25 aprile, il presidente dell’Anpi, il comunista Arrigo Boldrini, sottolineava come la Resistenza non fosse stata soltanto un’«epopea di popolo». Essa – egli affermò – «fu lotta armata per amor di Patria ma anche per creare le necessarie condizioni per un avvenire migliore»21. Nella stessa direzione si esprimeva il socialista Riccardo Lombardi. A suo giudizio, se il 25 aprile 1945 18 L’Anpi, nata nell’ottobre 1944, aveva raggruppato tutte le organizzazioni partigiane e, come organismo unitario, aveva organizzato le celebrazioni del 25 aprile nel 1946 e 1947. Dopo l’estromissione dal governo del Pci e del Psi nel maggio 1947, al primo congresso nazionale dell’Anpi, nel dicembre 1947, vi era stata la scissione delle componenti democristiane e liberali che avevano dato vita poco dopo, all’inizio del 1948, alla Federazione italiana volontari della libertà (Fivl). In occasione del secondo congresso dell’Anpi, nel marzo 1949, vi fu una seconda scissione, con la nascita della Federazione italiana associazioni partigiane (Fiap), che raggruppava le componenti di ispirazione azionista e repubblicana. L’Anpi era dunque rimasta l’organizzazione rappresentativa dei partigiani comunisti e socialisti. Cfr. P. Dogliani, La memoria della guerra nell’associazionismo post-resistenziale, in G. Miccoli, G. Neppi Modona, P. Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 532-44. 19 Uniti contro il fascismo, in «Avanti!», 25 aprile 1948. 20 Ibid. 21 A. Boldrini, Il 25 aprile, in «l’Unità», 24 aprile 1949.

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aveva segnato «il coronamento dell’epopea della Resistenza», non ne aveva però rappresentato «la conclusione bensì una tappa»22. Una semplice tappa nella lotta condotta per liberare l’Italia da quelle «forze sociali oppressive» che avevano trovato nel fascismo lo strumento del loro dominio. La tappa di un cammino bloccato dalla «controffensiva della restaurazione clerico-moderata» culminata nelle elezioni del 18 aprile. Per Lombardi, la Resistenza doveva dunque considerarsi una «rivoluzione interrotta». E le responsabilità di tale inceppo andavano addebitate principalmente ai partiti antifascisti moderati, la Democrazia cristiana e il Partito liberale, che avevano agito affinché le riforme democratiche necessarie al paese «venissero affidate non alle forze popolari suscitate e rese esperte dalla Resistenza ma alla burocrazia del ricostituito Stato prefascista». Se da un lato, dunque, le sinistre ribadivano la tradizionale narrazione antifascista imperniata sul richiamo unitario alla guerra di liberazione come guerra patriottica, dall’altro lato utilizzavano una lettura «di classe» della Resistenza in funzione di lotta politica, per mobilitare le proprie forze e per contrastare i partiti di governo, in particolare la Democrazia cristiana, accusati di aver tradito il mandato storico della Resistenza e di favorire il ripristino di modelli sociali di stampo fascista. A quest’uso della memoria della Resistenza da parte delle sinistre si contrappose quello della Democrazia cristiana23. Come si è accennato, preoccupazione principale del partito di De Gasperi fu di contestare alle sinistre il monopolio della Resistenza e di impedirne un uso strumentale a fini politici. Appoggiando le disposizioni governative contro le commemorazioni pubbliche della Liberazione, il 25 aprile 1948 «Il Popolo» invitò a celebrare la ricorrenza «nell’intimo dei nostri cuori», senza «chiassate» potenzialmente pericolose24. Per l’organo democristiano, i cittadini italiani erano in fondo «felici di non ritrovarsi oggi tra i piedi alcuna R. Lombardi, 25 aprile, in «Avanti!», 24 aprile 1949. Cfr. G. Formigoni, La memoria della guerra e della Resistenza nelle culture politiche del «mondo cattolico» (1945-1955), in «Ricerche di Storia politica», XI, 1996, pp. 7-42 (ora anche in Miccoli, Neppi Modona, Pombeni, a cura di, La grande cesura, cit., pp. 479-526). 24 Celebriamo il 25 aprile nell’intimo dei nostri cuori, in «Il Popolo», 25 aprile 1948. 22 23

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manifestazione patriottarda, ma in realtà asservita alla propaganda comunista». Netta era la condanna dell’uso della memoria della Resistenza fatto dalle sinistre. Al quotidiano del Partito socialista, l’«Avanti!», che aveva parlato della guerra di liberazione come di una «rivoluzione a metà»25, De Gasperi replicò deprecando in quel giudizio una pericolosa «involuzione», ovvero il «ritorno allo Stato-partito e al metodo totalitario, che intacca o annulla la libertà degli altri partiti e con ciò il metodo democratico»26. Le accuse di tradimento dell’eredità della Resistenza e di attentato alle libertà democratiche venivano così ribaltate. In un discorso tenuto a Milano nel 1949 in occasione della commemorazione del quarto anniversario del 25 aprile, De Gasperi rivendicò al proprio partito la capacità di rappresentare «tutto lo spirito della liberazione», che egli identificava con «libertà all’interno, nessuna sopraffazione all’esterno, pace e sicurezza contro coloro che alla pace attentassero»27. Per il leader trentino, le sinistre non potevano affermare di parlare «a nome dei partigiani». «Non ne hanno diritto – egli sosteneva –, perché moltissimi partigiani sono nel campo nostro e soprattutto i partigiani migliori, quelli che hanno combattuto per la Patria e solo per la Patria, senza riservare nulla al Partito»28. La Democrazia cristiana rivendicava così i propri diritti sul patrimonio storico-politico della Resistenza, in quanto interprete più fedele del suo significato nazionale. Anche il partito di De Gasperi, al pari delle sinistre, rinnovò il tradizionale richiamo alla Liberazione come guerra di popolo e «nuovo Risorgimento» nazionale. In contrapposizione con esse, però, ne sottolineò al contempo il significato di «lotta per l’indipendenza e la libertà», valori soggetti alla minaccia esterna dell’imperialismo sovietico e a quella interna del totalitarismo comunista. Il patrimonio della Resistenza andava dunque difeso non solo dalle insidie di un risorgente fascismo ma anche dalla sfida lanciata dalle sinistre di orientamento marxista. A questo scopo, nell’ottobre 1950, Cfr. Battaglia aperta ed a fondo, in «Avanti!», 1° febbraio 1948. Si tratta di parole pronunciate il 2 febbraio 1948 in occasione del Convegno nazionale a Roma delle donne della Democrazia cristiana che ricoprivano la carica di consigliere comunale. Cfr. A. De Gasperi, Discorsi politici, a cura di T. Bozza, Cinque Lune, Roma 1956, vol. I, p. 177. 27 Ivi, p. 207. 28 Ivi, p. 209. 25 26

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De Gasperi chiamò i partigiani cristiani a una «nuova resistenza», «contro le forze disgregatrici» sia di destra sia di sinistra, identificate entrambe con «l’antilibertà»29. Resistenza «nel segno della libertà» contro Resistenza come «rivoluzione interrotta», fu questa la forma che assunse il confronto sulla memoria della guerra all’interno del vecchio campo antifascista negli anni dell’incipiente guerra fredda. Occorre tuttavia specificare che da parte della Democrazia cristiana e delle forze moderate vi fu più la preoccupazione di neutralizzare l’uso politico della Resistenza fatto dalle sinistre, che non la preoccupazione di coltivare e diffondere una propria memoria della Resistenza. Il richiamo ai valori della guerra di liberazione, declinato per lo più in chiave patriottica e come appello morale rivolto alle coscienze, rimase una risorsa politica utilizzata solo parzialmente. Nel 1948, del resto, per vincere le elezioni la Democrazia cristiana aveva fatto appello più ai valori e ai simboli dell’«Italia cattolica» che a quelli della Resistenza30. Fin dall’immediato dopoguerra aveva avuto un ruolo importante nel dibattito pubblico italiano l’idea, particolarmente caldeggiata dagli ambienti dei reduci di Salò, di raggiungere una «pacificazione» fra fascisti e antifascisti, fra vinti e vincitori31. L’esigenza di una pacificazione era stata condivisa nell’immediato dopoguerra anche dai partiti antifascisti, che nel campo avverso avevano cercato di distinguere fra la massa dei gregari, soprattutto le giovani generazioni che avevano conosciuto soltanto l’educazione impartita dal fascismo, contro cui nessuno intese accanirsi, e quanti avevano avuto invece responsabilità di comando o si erano macchiati di gravi delitti. L’amnistia del 22 giugno 1946, firmata, come ministro della Giustizia, da Palmiro Togliatti, era stata varata in nome della «concordia nazionale»32 con l’intento di integrare i primi 29 Ivi, pp. 291-92. Il discorso di De Gasperi fu pronunciato a Roma il 28 ottobre 1950 in occasione del congresso dei partigiani cristiani. 30 Cfr. G. De Luna, Il 18 aprile, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 321-31. 31 Importante fu soprattutto la lettera aperta pubblicata sul foglio neofascista «Il Meridiano d’Italia» dallo storico Gioacchino Volpe, intellettuale di grande prestigio che aveva aderito al fascismo. Cfr. G. Volpe, Per la pacificazione di tutti gli italiani, in «Il Meridiano d’Italia», I, 31, 6 ottobre 1946. 32 Cfr. l’editoriale non firmato pubblicato il 22 giugno 1946 dall’«Unità» col titolo Generosità e forza.

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nell’Italia democratica. Le reiterate proposte di «riconciliazione» avanzate dalla destra assunsero però una valenza ben diversa nel clima della prima legislatura 1948-1953, caratterizzato da una crescente contrapposizione ideologica fra le forze della sinistra marxista e la compagine governativa centrista a guida democristiana. In quegli anni tali richieste si configurarono, infatti, come domanda di vera e propria riabilitazione degli ex fascisti, potenziali alleati del fronte anticomunista. Ciò implicava la minaccia di una definitiva svalutazione della Resistenza quale mito fondante dello Stato repubblicano e dell’antifascismo come suo riferimento etico-politico. Le proposte di «riconciliazione» della destra si inserirono in un contesto caratterizzato da forti tensioni. Numerosi furono in questo periodo i processi a carico di partigiani, per lo più appartenuti a formazioni di sinistra, accusati per azioni svolte durante la guerra: associazione a delinquere, rapine, furti, estorsioni, omicidi33. Migliaia furono i partigiani posti sotto inchiesta, sovente in base alle denunce raccolte nel periodo bellico dalle autorità fasciste. I procedimenti si risolsero spesso con alcuni anni di carcerazione preventiva, non si arrivò in molti casi neppure al processo vero e proprio e quasi sempre i condannati furono prosciolti in appello. L’effetto complessivo fu in ogni modo rilevante: la Resistenza fu messa in stato di accusa e criminalizzata. Significativa da questo punto di vista fu la causa promossa nel 1948 contro i partigiani autori dell’attentato di via Rasella a Roma, cui era seguita per rappresaglia la strage delle Fosse Ardeatine34. La causa fu intentata da alcuni parenti delle vittime che avevano considerato illegittima l’azione partigiana e chiamato a rispondere delle sue conseguenze i responsabili, fra cui noti antifascisti come Sandro 33 Cfr. A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza, in AA.VV., Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955, pp. 360 sgg.; L. Alessandrini, A.M. Politi, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico e organizzazione della difesa, in «Italia Contemporanea», marzo 1990, 178, pp. 41-62. Più in generale cfr. M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999. 34 Sulle polemiche sorte sull’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine cfr. R. Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Editori Riuniti, Roma 1994 (ed. or. 1967), pp. 203 sgg.; A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999.

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Pertini, Giorgio Amendola, Riccardo Bauer, Franco Calamandrei35. Anche se il tribunale di Roma nel 1950 dette torto all’accusa e sancì la legittimità dell’azione partigiana36, il processo costituì di per sé una sfida alla memoria della Resistenza. A rendere ancor più teso il clima politico della prima legislatura fu, in concomitanza con l’ondata di processi contro ex partigiani, la fine dell’azione epurativa nei confronti dei fascisti. Il processo era stato innescato dall’amnistia del giugno 1946, che venne applicata in maniera estremamente elastica37. Al momento dell’amnistia c’erano in carcere circa 12 mila fascisti sotto condanna o in attesa di giudizio. L’anno successivo si erano ridotti a 2 mila38. Nel 1952 ne rimanevano solo 26639. Una nuova amnistia concessa nel novembre 1953 estese i benefici della legge anche a quei fascisti che si erano dati alla latitanza e liberò praticamente tutti i detenuti40. Nel biennio 1948-1950, in particolare, furono liberati molti esponenti di primo piano del fascismo repubblicano, sui quali pendevano gravi responsabilità. Fra questi basti ricordare il principe Junio Valerio Borghese, comandante dell’unità di marina Decima Mas, macchiatasi di efferate violenze nella lotta antipartigiana41; l’ex ambasciatore in Germania Filippo Anfuso (già condannato a morte nel 1945); il capo della Guardia nazionale fascista Renato Ricci. Emblematico fu il caso del maresciallo Graziani. Nel maggio del 1950 il tribunale militare di Roma lo condannò a 19 anni di reclusione. Per effetto di condoni e amnistie, Graziani restò in carcere soltanto pochi mesi42. Alla sua libera35 Oltre a questi, furono chiamati in giudizio anche Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Carlo Salinari, autori dell’attentato. 36 Cfr., per esempio, Fu un fatto di guerra l’episodio di via Rasella, in «Avanti!», 10 giugno 1950 e Piena conferma della legittimità dell’azione di via Rasella, in «l’Unità», 10 giugno 1950. 37 Cfr. H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna 1997 (ed. or. 1996), pp. 533 sgg.; Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 59-70. 38 Cfr. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 544-45. 39 Cfr. Dondi, La lunga liberazione, cit., p. 69. 40 Cfr. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 549. 41 Imputato per responsabilità dirette in 43 omicidi, Borghese fu condannato nel febbraio 1949 a 12 anni di reclusione, ma ottenne immediatamente la libertà grazie a un condono. 42 Sul processo Graziani cfr. Z.O. Algardi, Processi ai fascisti, Parenti, Firenze 1958, pp. 125-81.

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zione assunse la carica di presidente onorario del Movimento sociale italiano, il partito sorto nel 1946 in aperta continuità ideale con la Repubblica sociale italiana. Se i partiti della sinistra protestarono contro il processo intentato alla Resistenza e contro la riabilitazione del fascismo, il maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, sottolineò piuttosto l’esigenza di una riconciliazione degli animi dopo le aspre divisioni della guerra. Centrale risultò il tema dell’omaggio ai «caduti di tutte le guerre», della cristiana pietà verso i combattenti periti sui diversi fronti bellici. L’argomento, caldeggiato in primo luogo dal Vaticano, era stato condiviso nell’immediato dopoguerra da tutte le forze politiche dell’antifascismo che avevano commemorato i caduti della guerra fascista come vittime di Mussolini al pari dei caduti nella lotta contro il nazifascismo43. Lo stesso argomento, ribadito nella temperie della guerra fredda, rischiava però di compromettere o quantomeno di erodere la memoria della guerra elaborata dall’antifascismo. Intervenendo il 1° marzo 1953 a Bari a rendere onore ai militari italiani trucidati dai tedeschi a Cefalonia, in Grecia, il vicepresidente del Consiglio Attilio Piccioni invitava a reprimere i sentimenti di sdegno e di odio e a ricordare quei martiri come «esempio di fedeltà al dovere e di attaccamento intrepido e devoto fino al sacrificio alla Patria»44. Analoga ispirazione ebbe il discorso celebrativo per il decennale della strage delle Fosse Ardeatine tenuto da un altro esponente della Democrazia cristiana, il ministro della Difesa ed ex partigiano Paolo Emilio Taviani45. Il sacrificio delle 335 vittime inermi, simbolo dei sacrifici affrontati dall’Italia durante la guerra, doveva ispirare negli italiani una volontà di pacificazione. «Ispiri Iddio gli italiani – disse Taviani – affinché nella celebrazione del passato non approfondiscano solchi già fin troppo profondi». Mentre il comunista Giorgio Amendo-

43 Sulla commemorazione dei caduti cfr. G. Schwarz, La morte e la patria: l’Italia e i difficili lutti della seconda guerra mondiale, in «Quaderni Storici», CXIII, 2003, 2, pp. 551-88. 44 Il riconoscente omaggio della Patria a mille Salme di militari caduti in Grecia, in «Il Popolo», 2 marzo 1953. 45 Nel decennale del glorioso sacrificio dei 335 Caduti delle Ardeatine, l’Italia ha esaltato i valori della libertà e della rinascita nazionale, ivi, 25 marzo 1954.

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la, nel celebrare le vittime delle Ardeatine, rendeva omaggio anche all’azione dei partigiani in via Rasella46, solo un vago riferimento alla Resistenza veniva invece fatto da Taviani che nel sacrificio degli innocenti vedeva semmai una «condanna alle deformazioni di ogni totalitarismo» e l’esempio di un’assoluta fedeltà al dovere. Dedizione alla patria, senso dell’onore militare e del dovere, spirito di sacrificio erano anche i valori che lo stesso Taviani ricordava nel novembre 1954, in una visita in Egitto al cimitero di El Alamein47: i valori che l’anno precedente Piccioni aveva elogiato nei combattenti di Cefalonia giustiziati dai tedeschi erano gli stessi esaltati da Taviani nei soldati italiani caduti in battaglia a fianco dei tedeschi contro le armate di Montgomery. Vi era una certa assonanza fra l’appello alla pacificazione mosso dagli ambienti neofascisti in nome della retorica patriottica e lo spirito di riconciliazione che ispirava i politici democristiani. L’idea della pacificazione avanzata dai neofascisti racchiudeva un calcolo politico preciso: puntare alla sostituzione dell’antifascismo con l’anticomunismo quale fonte di legittimazione della Repubblica, nella prospettiva di accreditarsi come forza di governo per la ‘crociata anticomunista’48. L’idea di accogliere le destre estreme, di matrice sia monarchica sia neofascista, nel blocco anticomunista trovò sostegni nell’establishment vaticano e nella destra democristiana49. Questo fu evidente soprattutto dopo l’irrigidimento della situazione internazionale prodotto dalla guerra di Corea nel giugno 1950 e dopo la scelta in favore del Patto Atlantico compiuta nel 1951 dal Movimento sociale italiano. Una prova di attuazione di quel disegno fu il tentativo, ispirato dal papa Pio XII, di costruire a Roma una lista di centro-destra guidata da Luigi Sturzo con la partecipazione delle forze monarchiche e fa46 G. Amendola, Onore agli eroi della Resistenza romana!, in «l’Unità», 24 marzo 1954. 47 Cfr. V. Bachelet, Uniti idealmente i Caduti per la Patria da El Alamein alla città giuliana, in «Il Popolo», 4 novembre 1954. 48 Sulla «strategia dell’inserimento» del Msi cfr. P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 53-99. 49 Cfr. A. Riccardi, Il «Partito Romano» nel secondo dopoguerra (1945-1954), Morcelliana, Brescia 1983, pp. 119 sgg. Per una ricostruzione sintetica si rimanda a S. Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Tea, Milano 1996 (I ed. 1984), pp. 623-31.

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sciste, da contrapporre al blocco delle sinistre nelle elezioni amministrative cittadine dell’aprile 195250. Il tentativo naufragò trovando resistenze entro la stessa area democristiana, a partire dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi51. La legge Scelba del giugno 1952, che dava attuazione al dettato costituzionale che proibiva la ricostituzione del disciolto Partito fascista, rese manifesti i limiti insuperabili che sussistevano a un’intesa fra il maggior partito di governo e la destra di ispirazione fascista. Del resto, De Gasperi era stato più volte chiaro a proposito delle insistite richieste di pacificazione provenienti da quella parte. Parlando a Trento il 25 aprile 1951, il leader democristiano aveva affermato: «Ci possiamo pacificare con gli uomini, ma non possiamo accettare riabilitazioni della dottrina e della direttiva politica che condusse al disastro nazionale»52. Nessuna pacificazione era a suo avviso possibile con «quelli che si ostinano a non trarre ammaestramenti dalla sconfitta». A ostacolare l’intesa politica col Movimento sociale italiano restava dunque l’ancoraggio all’antifascismo e alla memoria della Resistenza53. 50 Cfr. F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia Cristiana, vol. II, De Gasperi e l’età del centrismo. 1948-1954, Cinque Lune, Roma 1988, pp. 147 sgg. 51 Cfr. A. Riccardi, Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta, Laterza, Roma-Bari 2003; A. D’Angelo, De Gasperi, le destre e l’«operazione Sturzo», Studium, Roma 2002. 52 Cfr. De Gasperi, Discorsi politici, cit., vol. II, p. 33. 53 Come ha osservato Ernesto Galli della Loggia: «tutto sommato l’anticomunismo del blocco centrista egemonizzato dalla Dc [...] non produsse mai l’attenuarsi o il venir meno nel partito cattolico e nei suoi alleati di una larga, effettiva, pregiudiziale antifascista» (cfr. E. Galli della Loggia, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia come elemento strutturale della lotta politica nell’Italia repubblicana, in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia, a cura di, Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, p. 242).

Capitolo terzo TENUTA E RILANCIO DELLA «NARRAZIONE EGEMONICA» ANTIFASCISTA 1953-1960

Se è vero che da un lato la Democrazia cristiana aveva screditato la «Resistenza comunista» come espressione di un’ideologia totalitaria e, in nome della riconciliazione nazionale, aveva stemperato il richiamo alla lotta di liberazione, dall’altro lato essa non era però disposta a condividere la lettura della guerra che la destra, non solo neofascista, si ostinava a fare. Ciò emerse in modo evidente nella seconda legislatura iniziata nel 1953, in una temperie politica caratterizzata sul piano internazionale dal profilarsi, dopo la morte di Stalin, della prima distensione e dunque dall’affievolirsi della contrapposizione ideologica comunismo/anticomunismo e, sul piano interno, dalla necessità del partito cattolico di recuperare consenso dopo l’arretramento elettorale registrato nelle elezioni del giugno 1953. Secondo Cristina Cenci, proprio questa esigenza di riscatto, dopo la débâcle della legge elettorale maggioritaria (cosiddetta «legge truffa» per i suoi avversari)1, spinse i leader democristiani a puntare su un «recupero del mito resistenziale»2. Ciò in sintonia, del resto, con le altre forze della 1 La legge prevedeva un premio di maggioranza alla Camera per la coalizione che avesse superato il 50 per cento dei suffragi. Non scattò per pochi voti. Il responso elettorale decretò una forte sconfitta politica per De Gasperi. Sulla legge elettorale del 1953 cfr. G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, Il Mulino, Bologna 2003; M.S. Piretti, La legge truffa: il fallimento dell’ingegneria politica, Il Mulino, Bologna 2003. 2 C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile, in L. Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 356.

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coalizione centrista3. Proprio in quegli anni il richiamo alla memoria della Resistenza aveva rivelato la sua persistente capacità di efficace strumento di mobilitazione politica, come avevano dimostrato le grandi campagne lanciate dalle sinistre contro il riarmo della Repubblica federale tedesca, focalizzatesi nella lotta contro la firma del trattato della Comunità europea di difesa (Ced) e contro la sua ratifica4. Le forze moderate non erano dunque disposte a lasciare nelle mani delle sinistre il monopolio politico della memoria della Resistenza. Innanzitutto, esse si attivarono per una sua difesa nei confronti delle accuse reiterate portate dalla destra. Significativi furono due processi tenutisi fra la fine del 1953 e la prima metà del 1954: ci riferiamo al processo intentato dal ministro della Difesa, il repubblicano Pacciardi, e da alcuni ammiragli della Marina contro lo storico e giornalista neofascista Antonino Trizzino e quello promosso dal leader democristiano Alcide De Gasperi contro il noto giornalista Giovanni Guareschi5. Trizzino, nel volume Navi e poltrone, pubblicato nel 1952, aveva sollevato contro i vertici della Marina militare l’ennesima accusa di tradimento a favore del nemico britannico e un’accusa simile aveva rivolto Guareschi a De Gasperi, incolpato, sulla base di documenti fasulli, di aver chiesto agli Alleati il bombardamento di Roma. La questione del tradimento, come abbiamo visto, era una questione discriminante: non riguardava un’interpretazione della 3 De Gasperi aveva guidato dal maggio 1948 al gennaio 1950 una maggioranza di governo con liberali, socialdemocratici e repubblicani; dal gennaio 1950 al luglio 1951 un governo con socialdemocratici e repubblicani; successivamente, fino al luglio 1953 un governo col Partito repubblicano. Seguì poi un governo monocolore della Democrazia cristiana guidato da Pella in carica fino al gennaio 1954. Con Scelba, nel febbraio ’54, si ricompose una compagine centrista fondata sull’alleanza fra Dc, Psdi e Pli. La formula di governo fu riproposta nel luglio 1955 dal primo governo Segni che restò in carica fino al 1957. 4 Il trattato istitutivo della Ced fu firmato il 27 maggio 1952. Come noto, il Parlamento italiano non arriverà mai a discutere il trattato, che fu bocciato dall’Assemblea nazionale francese nell’agosto 1954. Il riarmo della Germania occidentale si attuerà a partire dall’anno successivo (1955) con la sua integrazione nell’Unione europea occidentale e nel Patto Atlantico. 5 Il processo contro Trizzino si svolse a Milano dal 19 ottobre al 5 dicembre 1953. Quello contro Guareschi sempre a Milano dal 13 al 15 aprile 1954. Sul valore dei processi ai fini dell’affermazione di una «narrazione egemonica» cfr. C. Maier, Fare giustizia, fare storia: epurazioni politiche e narrative nazionali dopo il 1945 e il 1989, in «Passato e Presente», XIII, 1995, 34, pp. 23-32.

III. Tenuta e rilancio della «narrazione egemonica». 1953-1960

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Resistenza, ma toccava un punto nevralgico rispetto al quale anche le forze moderate dell’antifascismo non potevano transigere. Non è un caso che i due processi si concludessero rapidamente con la condanna in primo grado degli imputati6. Ciò segnò un momento importante per quanto riguarda la creazione di una memoria della guerra in Italia, in quanto pose dei limiti precisi al revisionismo promosso dalla destra e infranse l’attacco da essa portato alla narrazione elaborata dalle forze antifasciste incentrata sul valore della lotta di liberazione come base di legittimazione della Repubblica democratica. Pur risultando indebolita per effetto della strenua contrapposizione politica dei primi anni Cinquanta, tale narrazione sostanzialmente tenne. Essa, anzi, fu di lì a poco rilanciata con forza. Occasioni importanti di mobilitazione antifascista e di riattivazione della memoria della Resistenza furono altri due processi al centro in quegli anni dell’attenzione dell’opinione pubblica: quello per diffamazione intentato dal capo della Resistenza italiana, l’azionista Ferruccio Parri, contro due giornalisti del «Meridiano d’Italia», Ugo Franzolin e Franco Maria Servello, che lo avevano accusato di tradimento nei confronti dei compagni di lotta7, e quello condotto dalla magistratura militare contro i critici cinematografici Renzo Renzi e Guido Aristarco, arrestati e incriminati per vilipendio delle forze armate. Il processo Parri, iniziato nell’ottobre 1953 e conclusosi in sede civile nell’aprile 1955 con la 6 Trizzino fu riconosciuto colpevole di vilipendio delle forze armate e di diffamazione continuata nei confronti di tre ammiragli e per ciò condannato a due anni e quattro mesi di reclusione. Il suo libro, Navi e poltrone, che aveva provocato l’azione giudiziaria, fu confiscato. Guareschi fu riconosciuto colpevole di diffamazione nei confronti di De Gasperi e condannato a un anno di reclusione. Nel 1954 la sentenza di appello scagionò Trizzino. Il significato politico del processo resta comunque inalterato. Guareschi, dal canto suo, rinunciò a ricorrere in appello. 7 Nel maggio 1953, alla vigilia delle elezioni politiche di giugno, il settimanale neofascista aveva accusato Parri di aver tradito la causa della Resistenza quando, nel gennaio 1945, era stato arrestato dai tedeschi. Per ottenere la libertà Parri avrebbe svelato i segreti dell’organizzazione partigiana provocando la cattura e la fucilazione di numerosi antifascisti. Cfr. I diffamatori di Ferruccio Parri condannati a pagare 7 milioni, in «La Stampa», 5 aprile 1955. Notizie sul processo anche nella biografia di Parri di L. Polese Remaggi, La nazione perduta. Ferruccio Parri nel Novecento italiano, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 345-46.

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condanna dei due giornalisti neofascisti8, vide il ricostituirsi intorno al comandante Maurizio (questo il nome di battaglia di Parri durante la Resistenza) di una larga solidarietà antifascista, che andava dai cattolici ai comunisti, dall’area socialista a quella liberaldemocratica, con la mobilitazione di numerosi giornali di diverso orientamento politico, fra cui «La Stampa» di Torino, «Il Mondo» di Mario Pannunzio, «Il Ponte» di Piero Calamandrei. Analogo effetto suscitò il procedimento contro Renzi e Aristarco, arrestati nel febbraio 1953 e poi condannati dalla corte militare di Milano per aver pubblicato un progetto di sceneggiatura per un film-denuncia sulla guerra di Grecia, intitolato L’armata s’agapò9. In questo caso la reazione dell’opinione pubblica antifascista si rivolse contro l’applicazione a carico di due civili del codice penale militare del 1941, di chiaro stampo fascista, in manifesta contraddizione con lo spirito della Costituzione repubblicana10. Tenuta e riattivazione della memoria antifascista della guerra risultarono evidenti in occasione della ricorrenza del decennale della Liberazione, che fu celebrato il 22 aprile 1955 dal Parlamento a Camere riunite. Dopo le accuse mosse alla Dc dalle sinistre di aver tradito la Resistenza (per averle estromesse dal potere e aver impedito un vero rinnovamento democratico del paese per la mancata attuazione dei dettati della carta costituzionale) e dopo le repliche democristiane contro i partigiani comunisti cultori di una dottrina totalitaria antidemocratica, la celebrazione istituzionale venne a ricomporre l’unità antifascista e a riproporre una memoria ufficiale della guerra. Se, tutto sommato, convenzionale fu l’intervento del presidente del Senato Cesare Merzagora11, di Il processo penale iniziato a Milano il 28 ottobre 1953 fu spostato a Roma e quindi bloccato dall’amnistia del 1953. Parri chiese allora che la questione fosse riaperta in sede civile. La sentenza dell’aprile 1955, confermata in appello nel gennaio 1956, obbligò Franzolin e Servello a pagare una somma come risarcimento danni. Cfr. I diffamatori di Ferruccio Parri, cit. 9 L’articolo, firmato da Renzi, fu pubblicato sulla rivista «Cinema Nuovo» diretta da Aristarco. Il testo è riprodotto in R. Biasion, Sagapò, Einaudi, Torino 1991, pp. 193-98. 10 Cfr. P. Calamandrei, R. Renzi, G. Aristarco, Il processo s’agapò. Dall’Arcadia a Peschiera, Laterza, Bari 1954. 11 L’intervento di Merzagora fu ispirato a retorica patriottica e spirito di conciliazione. Cfr. I presidenti del Senato e della Camera esaltano gli ideali di libertà della Resistenza, in «Il Popolo», 23 aprile 1955. 8

III. Tenuta e rilancio della «narrazione egemonica». 1953-1960

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grande significato fu invece il discorso tenuto dal presidente della Camera dei Deputati, il democristiano Giovanni Gronchi, figura di spicco dell’antifascismo cattolico12. Gronchi con spirito di riconciliazione non mancò di ricordare i tanti italiani caduti «al loro posto di dovere» nella guerra di Mussolini, ma in primo luogo rese omaggio ai combattenti della Resistenza, «a tutti coloro che per la libertà e l’indipendenza del paese offrirono l’olocausto della loro vita». Egli non tacque il carattere di «guerra civile» dello scontro, ma ne sottolineò il significato storico pregnante di «lotta di liberazione» celebrando la Resistenza come autentico «moto popolare», come un «secondo Risorgimento», che aveva raggiunto «una temperatura di consenso e di impegno diretto da parte delle masse popolari» sconosciuta alle lotte risorgimentali dell’Ottocento. All’«élite di condottieri e di combattenti» partigiani non era infatti mai mancata la solidarietà e la collaborazione attiva della nazione. Grazie all’«esperienza vitale» della lotta di liberazione, l’Italia aveva saputo riscattarsi dall’«avvilimento della dittatura». Per Gronchi, malgrado le divisioni politiche intervenute dopo la guerra, la Resistenza restava e doveva restare il comune punto di riferimento per le forze democratiche del paese. Nel suo nome era possibile produrre «uno sforzo concorde verso forme, istituti, costumi di democrazia sostanziale» fondati «sulla libertà e la giustizia», «sulla tolleranza delle opinioni», «sull’impero della legge», «sulla rivalutazione costante di quei valori nazionali» che non avevano niente a che fare «con le infatuazioni nazionalistiche», ma rappresentavano piuttosto «il solo terreno fecondo e l’atmosfera vivificatrice per ogni progresso». Il discorso di Gronchi fu salutato dagli applausi di tutti i deputati del Parlamento, con l’eccezione dei deputati neofascisti significativamente assenti dall’aula. Per decisione unanime di maggioranza e opposizione di sinistra, l’Assemblea dispose che il testo del discorso fosse «affisso in tutta Italia». Pochi giorni dopo Giovanni Gronchi veniva eletto presidente della Repubblica. La storiografia di sinistra ha comunemente legato il rilancio della memoria della Resistenza al mutamento di clima politico de12 Il testo integrale del discorso in G. Gronchi, Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma 1986, pp. 472-80.

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gli anni Sessanta e ha posto le celebrazioni del primo decennale della Liberazione sotto il segno della continuità con il periodo precedente, caratterizzato dal «lungo inverno» del centrismo13. In effetti, le commemorazioni del 25 aprile 1955 presentarono ancora alcune delle caratteristiche tipiche della contrapposizione ideologica della guerra fredda. Le forze di governo rivendicarono il monopolio delle manifestazioni, disponendo affinché nelle celebrazioni ufficiali non prendessero la parola oratori comunisti e socialisti14; su indicazione del governo, fu esaltato in primo luogo il valore che la Resistenza aveva rivestito per la «rinascita della patria» e il ruolo in essa giocato dalle forze armate; in molti discorsi ufficiali, come quello di Taviani a Milano15, tornò l’appello prioritario alla riconciliazione nazionale; numerosi furono poi nel paese gli interventi dei prefetti contro manifestazioni organizzate dalle sinistre (con il divieto di esporre bandiere rosse nei cortei); nella stampa di partito, ad esempio in quella democristiana, non mancarono le consuete accuse ai comunisti incolpati di traviamento totalitario16. Nonostante ciò, resta il fatto che il governo investì molte energie nelle celebrazioni del decennale, mostrando di riconoscere nella Resistenza un «fondamento irrinunciabile dell’Italia repubblicana»17. Sia la commemorazione tenuta in Parlamento sia la grande manifestazione di Milano ebbero un carattere unitario, come dimostrano il discorso di Gronchi e la partecipazione alle celebrazioni milanesi di una folta rappresentanza di reparti ex partigiani e dei presidenti delle tre associazioni partigia13 Cfr., per esempio, M. Flores, L’antifascismo all’opposizione, in «Problemi del Socialismo», gennaio-aprile 1986, 7, pp. 34-61; A. Ballone, La Resistenza, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 403-38; G. Santomassimo, I lunghi inverni della Resistenza 1945-1955, in «In/Formazione», XIII, maggio-novembre 1994, 2526, pp. 5-8; G. De Luna, Le identità, in G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 129 sgg. 14 Cfr. G. Crainz, I programmi televisivi sul fascismo e la Resistenza, in E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 473. 15 Cfr. Il decennale della Resistenza celebrato da Taviani a Milano alla presenza di Einaudi, delle Forze Armate e dei partigiani, in «Il Popolo», 26 aprile 1955. 16 Cfr. in proposito M. Rumor, Un patrimonio in comune, in «Il Popolo», 24 aprile 1955. 17 Cenci, Rituale e memoria, cit., p. 358.

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ne, Cadorna, Parri e Boldrini, cui fu assegnato un posto d’onore fra le autorità18. L’organo della Democrazia cristiana, «Il Popolo», se presentò spunti in chiave anticomunista, dedicò però anche molto spazio a rievocazioni commosse di episodi della Resistenza, dalla difesa di Roma a Porta San Paolo, alle giornate di Napoli alla strage di Cefalonia19. Inequivocabile risultò la presa di posizione della Dc e delle altre forze di governo contro la concomitante campagna lanciata dal Movimento sociale italiano per la pacificazione nazionale contro la celebrazione del «decennale del massacro» e delle «stragi fratricide»20. Il liberale Alfredo Pizzoni, ex presidente del Comitato liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), parlando alla manifestazione di Milano, riconobbe che la Resistenza aveva significato anche «guerra civile», ma addebitò ai fascisti la responsabilità di averla scatenata e fu fermissimo nel distinguere le ragioni dei contendenti21. Tutto ciò – come già accennato – faceva seguito a un mutamento nella politica della memoria prodottosi nella Democrazia cristiana a partire dal 1953. È stato il presidente dell’Anpi in persona, Arrigo Boldrini, a testimoniare pochi anni fa che dopo il 1953 il clima delle celebrazioni delCfr. Il decennale della Resistenza celebrato da Taviani a Milano, cit. Cfr. L. Brenno, Dalla drammatica battaglia di Porta S. Paolo cominciò il calvario di Roma città aperta; F. Alvesi, Le quattro giornate di Napoli: primo episodio di insurrezione popolare; L. Ghilardini, A Cefalonia i nostri soldati morirono per la fratellanza di tutti i popoli. Tutti gli articoli furono pubblicati sul «Popolo», 24 aprile 1955. Nello stesso numero del giornale, fra gli altri, anche due articoli di Achille Marazza (Sulle orme dei martiri) ed Enrico Mattei (Celebrazione). 20 Cfr., per esempio, Ci avete divisi per dieci anni: ora basta!; G. Almirante, Non è festa; Non viva la Resistenza: viva l’Italia!, tutti pubblicati sul «Secolo d’Italia», 24 aprile 1955, e L’Italia ha detto no alla festa del «decennale», in «Il Secolo d’Italia», 27 aprile 1955. La «campagna tricolore contro la celebrazione del 25 aprile e per la pacificazione degli italiani» aveva avuto inizio con l’Appello agli italiani rivolto il 4 marzo 1955 dal direttore del «Secolo d’Italia», Franz Turchi, e si era conclusa il 28 aprile nell’anniversario della morte di Mussolini. Accanto all’appello alla pacificazione era risuonato quello all’unione delle «forze sane» della nazione contro «la minaccia bolscevica». 21 «Resti ben chiaro – egli disse – che noi insorgemmo contro il giogo nazista e per la riconquista della nostra libertà. La guerra civile che insanguinò l’Italia e intorbidò le coscienze di tanti italiani, noi non la volemmo. La subimmo e dovemmo accettarla e combatterla con animo angustiato e col cuore oppresso, perché così dovevamo agire ed era grave sofferenza rivolgere le armi contro italiani, anche se indegni, o illusi, pur sempre figli della stessa Patria» (Il decennale della Resistenza celebrato da Taviani a Milano, cit.). 18 19

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la Resistenza era mutato ed era venuta meno l’«opzione anti-partigiani»22. Del resto, a sinistra, anche uno storico attento come Gianpasquale Santomassimo non ha mancato di cogliere l’importanza del discorso di Gronchi23 e ha ravvisato «segnali di mutamento» nel suo mandato presidenziale, caratterizzato da una «spinta decisiva nell’attuazione di alcuni elementi qualificanti della Costituzione»24. In conclusione, se «gran parte della società dominante» nell’Italia centrista degli anni Cinquanta mantenne probabilmente, come affermato da Parri, una «chiara avversione» nei confronti della Resistenza25, è però da rilevare che nessuna narrazione alternativa né diverso mito legittimante scalzò la memoria antifascista della guerra e che tale memoria, legata ai valori dell’antifascismo, trovò, a partire soprattutto dal 1953, convinti e pugnaci difensori anche all’interno delle istituzioni e dei partiti di governo. Lo stesso Ferruccio Parri rivelerà nel 1960 di aver percepito «da un paio di anni», all’interno della società italiana, segnali positivi di una ripresa dell’antifascismo e un atteggiamento più favorevole nei confronti della Resistenza26.

Riportato in Cenci, Rituale e memoria, cit., p. 356. Santomassimo, I lunghi inverni della Resistenza, cit., pp. 7-8. Santomassimo ha parlato del discorso di Gronchi come di una «cospicua eccezione», «rispetto alla genericità e all’ipocrisia delle celebrazioni ufficiali». 24 G. Santomassimo, La Resistenza e gli antifascismi, in N. Gallerano (a cura di), La Resistenza tra storia e memoria, Mursia, Milano 1999, pp. 370-71. 25 Cfr. F. Parri, 1945-1955, in «Il Ponte», X, aprile-maggio, 4-5, 1955, p. 468. 26 Cfr. Id., Carte in tavola, ivi, XV, luglio 1960, 7, pp. 1015-16. 22 23

Capitolo quarto L’AFFERMAZIONE DEL «PARADIGMA ANTIFASCISTA» E IL CONFRONTO FRA «RESISTENZA ROSSA» E «RESISTENZA TRICOLORE» 1960-1978

La memoria e i valori della Resistenza celebrati da Gronchi nell’aprile 1955 divennero un patrimonio ampiamente condiviso dal paese negli anni Sessanta1. Al pieno recupero della memoria dell’antifascismo contribuì da un lato il clima prodotto nell’estate del 1960 dalle reazioni popolari contro il governo Tambroni, responsabile di aver autorizzato la riunione a Genova del congresso nazionale del Movimento sociale italiano2 e, dall’altro lato, l’avvento al potere nel 1963 della coalizione di centro-sinistra, con la partecipazione al governo del Partito socialista3.

1 Cfr. G. Crainz, La «legittimazione» della Resistenza dalla crisi del centrismo alla vigilia del ’68, in «Problemi del Socialismo», gennaio-aprile 1986, 7, pp. 6297; G. Santomassimo, La memoria pubblica dell’antifascismo, in Id., Antifascismo e dintorni, manifestolibri, Roma 2004, pp. 287 sgg. 2 Cfr. G. De Luna, I fatti di luglio 1960, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 359-71. 3 Col governo Moro del dicembre 1963. Sul centro-sinistra cfr. G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Rizzoli, Milano 1990; P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, 1945-1990, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 313-54; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, pp. 307-42; A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 195-222; P. Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, Utet, Torino 1995, pp. 98 sgg.; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Laterza, Roma-Bari 1999; G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003, pp. 3-362.

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Il governo monocolore Dc guidato da Fernando Tambroni si era insediato alla fine di aprile del 1960 con l’appoggio al Senato dei voti missini. Politicamente il governo apparve come l’ultimo tentativo delle forze della destra democristiana, sostenuta dai potentati industriali e dai settori più tradizionalisti della Chiesa cattolica, di ostacolare l’apertura a sinistra voluta da Fanfani. La scelta di Tambroni di avallare la decisione del Msi di tenere il suo VI congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, provocò il 30 giugno 1960 una mobilitazione di massa nella città ligure, con la ricostituzione delle vecchie brigate e dei comandi partigiani. Seguirono scontri di piazza con le forze dell’ordine anche a Roma, Reggio Emilia, Palermo e Catania con almeno otto morti e numerosi feriti fra i manifestanti. Alla fine, il congresso missino fu annullato e Tambroni costretto alle dimissioni (19 luglio). Mentre l’organo fascista, «Il Secolo d’Italia», di fronte alla protesta popolare gridò al complotto comunista ordito da Mosca4, l’organo del Pri, «La Voce Repubblicana», plaudì alla «energica vigilanza democratica» delle masse antifasciste che avevano garantito la «legalità repubblicana» e rotto l’intesa «clerico-fascista»5. Parri, a sua volta, rilevò con entusiasmo la partecipazione intensa al movimento di protesta di «giovani studenti e operai»6. A suo avviso, le nuove generazioni erano scese in campo per impulso autonomo piuttosto che per spinta dei partiti, mosse dagli stessi ideali che quindici anni prima avevano animato la lotta di liberazione7. Per Parri «il sentimento antifascista» manifestato dal paese costituiva «un punto di partenza» incoraggiante per il rinnovamento democratico ancora da compiere. Frutto della mobilitazione antifascista contro il governo Tambroni fu un rinnovato interesse nei confronti della Resistenza, che investì soprattutto le giovani generazioni. Lo testimonia il moltiplicarsi di cicli di lezioni universitarie sulla Resistenza, di conferenze e incontri8. Significativo risulta il fatto che per la prima volCfr. L’ultimo quarto d’ora, in «Il Secolo d’Italia», 3 luglio 1960. Cfr. La legalità repubblicana, in «La Voce Repubblicana», 2-3 luglio 1960. Editoriale non firmato. 6 Cfr. F. Parri, Carte in tavola, in «Il Ponte», XV, luglio 1960, 7, p. 1015. 7 Cfr. G. Crainz, Storia del miracolo economico. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Donzelli, Roma 2001 (I ed. 1996), pp. 173-81. 8 Cfr. G. Crainz, I programmi televisivi sul fascismo e la Resistenza, in E. Col4 5

IV. L’affermazione del «paradigma antifascista». 1960-1978

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ta nel 1960 una circolare del ministero della Pubblica Istruzione estese l’insegnamento della storia nelle superiori fino alla nascita della Repubblica (il limite precedente era costituito dalla prima guerra mondiale). È anche degno di nota il fatto che la televisione di Stato dedicasse per la prima volta nel 1961 una trasmissione alla celebrazione del 25 aprile. Questa spinta trovò ulteriore accelerazione coi governi di centro-sinistra, il cui primo esperimento d’avvio fu il governo Fanfani del febbraio 1962, passato con l’astensione dei socialisti, coinvolti nella definizione del programma. I primi anni del centro-sinistra furono caratterizzati dalle celebrazioni di date significative della lotta di liberazione di cui cadeva il ventesimo anniversario. Contrariamente alla ricorrenza del primo decennale, quando non vi era stata alcuna cerimonia ufficiale, in tutta Italia fu rievocata nel 1963 la ricorrenza dell’8 settembre, salutata – per usare le parole del leader socialista Pietro Nenni – come «fine della guerra fascista e battesimo della Resistenza»9. Pochi giorni più tardi, il 28 settembre 1963, il presidente del Consiglio, il democristiano Giovanni Leone, commemorava a Napoli l’anniversario dell’insurrezione popolare che aveva liberato la città dai tedeschi, «primo segno della riscossa nazionale» ed episodio che sanciva l’unità della lotta di liberazione da nord a sud10. L’anno successivo in Parlamento venivano ricordati i grandi scioperi del marzo 1944, prova della partecipazione attiva dei lavoratori alla Resistenza. Significativo fu il discorso con cui il presidente del Consiglio Aldo Moro, alla guida del primo governo di centro-sinistra, commemorò il 24 marzo 1964 il ventennale delle Fosse Ardeatine11. Mentre in occasione del decennale, nel 1954, il suo compagno di partito Taviani aveva usato una sola volta il termine Resistenza, nell’orazione di Moro la parola ricorreva ben sette volte. «L’eccidio delle Ardeatine va collegato – affermava Moro – a quel vasto e decisivo movimento ideale che ha preso il nome di Resistenza». Le celebralotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 476 sgg. 9 P. Nenni, Il battesimo della Resistenza, in «Avanti!», 8 settembre 1963. 10 L’on. Leone esalta il valore popolare delle «Quattro giornate», in «Il Popolo», 29 settembre 1963. 11 Moro: il sacrificio delle Ardeatine segna il riscatto civile del Paese, ivi, 25 marzo 1964.

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zioni proseguirono alla Camera e al Senato il 4 giugno 1964 in occasione dell’anniversario della liberazione di Roma e culminarono nelle cerimonie per la ricorrenza del ventennale della Liberazione, il 25 aprile 1965. Il ventennale segnò l’ufficializzazione della festa. Per la prima volta, infatti, sotto l’alto patronato della presidenza della Repubblica, venne istituito un comitato nazionale con l’incarico di sovrintendere alle manifestazioni commemorative. Il comitato, presieduto dal presidente del Consiglio Aldo Moro, risultò composto da numerose personalità politiche, fra cui alcuni esponenti comunisti di primo piano quali Longo (da poco eletto segretario del partito), Terracini, Scoccimarro e Boldrini. Possenti manifestazioni unitarie esaltano i valori della Resistenza: così titolò il 26 aprile a tutta pagina «l’Unità», che plaudì alle celebrazioni tenute nelle maggiori città d’Italia, da Firenze a Bologna, da Genova a Torino, da Roma a Milano. A tenere i discorsi commemorativi si alternarono esponenti di tutti i partiti politici protagonisti della lotta di liberazione, dal cattolico La Pira al comunista Luigi Longo, dal socialista Nenni al repubblicano La Malfa, al capo riconosciuto della Resistenza partigiana Ferruccio Parri. A Roma, l’ex presidente della Repubblica, Antonio Segni, insieme a rappresentanti delle Camere, rese omaggio alla tomba del Milite Ignoto e al sacrario delle Fosse Ardeatine12. Simbolo del carattere unitario della celebrazione della Liberazione fu il messaggio rivolto al paese dal Comitato nazionale per la celebrazione del ventennale della Resistenza13. Il messaggio rendeva onore ai combattenti per la libertà, rinnovava l’impegno di fedeltà del paese agli ideali della Resistenza e l’impegno a difendere e rafforzare gli istituti democratici che da essa erano nati. Nei discorsi tenuti dai diversi esponenti politici la memoria ufficiale della guerra risultò ribadita con forza. Significativi furono soprattutto quello tenuto a Milano il 25 aprile dal vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni14 e quello pronunciato il 9 maggio, L’Italia democratica ha celebrato la Resistenza, ivi, 26 aprile 1965. Cfr., per esempio, Trionfino gli ideali della Resistenza con una nuova unità operaia e democratica, in «l’Unità», 25 aprile 1965, e L’Italia celebra il XXV aprile, in «Il Popolo», 25 aprile 1965. 14 Cfr. La Resistenza dette alla Liberazione un contenuto nazionale e popolare, in «Avanti!», 27 aprile 1965. 12 13

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sempre a Milano, dal presidente della Repubblica, il socialdemocratico Giuseppe Saragat15, in occasione della principale manifestazione promossa per il ventennale. Possiamo prendere quest’ultimo intervento come esemplificativo. Saragat ricordò la «rivolta morale» degli italiani al momento dell’alleanza di Mussolini con Hitler, rivolse quindi un «pensiero reverente agli eroici soldati nostri caduti sui campi di battaglia col sacro nome della patria sulle labbra», rinnovò la condanna «per i capi politici che hanno spinto l’Italia e i suoi eroici soldati in una guerra da cui la patria non poteva uscire che perdente o perduta». Caloroso seguiva poi l’elogio della Resistenza. Riaffermata la «continuità» tra l’antifascismo del ventennio e la lotta di liberazione, Saragat tracciava di quest’ultima la tradizionale raffigurazione di secondo Risorgimento, di «eroica rivolta popolare» che aveva coinvolto tutti i ceti sociali, il clero, le donne, e alla quale si era unita l’«eroica lotta delle forze armate italiane, che sul territorio nazionale, nella penisola balcanica, nelle isole dell’Egeo» avevano combattuto con valore contro i nazisti e affrontato poi «stoicamente il martirio» nei campi di prigionia tedeschi rifiutando di lasciarsi arruolare nelle fila della Repubblica sociale di Mussolini. Le tappe della lotta di liberazione erano rievocate una a una: le quattro giornate di Napoli, la Resistenza romana, gli scioperi del ’44, i primi combattimenti a Montelungo del Corpo italiano di liberazione, la liberazione di Firenze, «le grandi stragi di popolazioni innocenti» a ridosso degli Appennini, l’«espansione partigiana» nelle valli alpine, fino ad arrivare all’«insurrezione nazionale» dell’aprile 1945. Saragat sottolineava poi il «significato politico e storico» della Resistenza: non «lotta di un partito per fini di partito», ma «lotta di un popolo organizzato in diversi partiti alleati tra di loro per la sua assunzione all’autogoverno» e «atto supremo di riconciliazione nella libertà dell’immensa maggioranza degli italiani». L’unità dei partiti del Cln aveva significato per Saragat «volontà di accettare una convivenza democratica». Su questa base era nata la «Repubblica democratica fondata sul lavoro» nella quale gli italiani si erano riconosciuti. Sia Saragat sia Nenni concludevano i rispetti15 Cfr. G. Saragat, Quaranta anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965, a cura di L. Preti, I. De Feo, Mursia, Milano 1966, pp. 651-62.

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vi interventi riconoscendo i limiti delle realizzazioni compiute sulla via del progresso sociale rispetto alle attese nutrite nel 1945, e si rivolgevano ai giovani rimettendo nelle loro mani il «completamento» dell’opera iniziata dalla Resistenza. Grazie allo sforzo unitario sopra descritto, testimoniato dalle celebrazioni del secondo decennale della Liberazione, la Resistenza fu dunque legittimata come «mito di fondazione» dello Stato repubblicano. Occorre però osservare che, contemporaneamente, le diverse forze politiche non smisero di utilizzare la memoria della Resistenza per i propri obiettivi, come strumento di mobilitazione e di lotta politica. Ad esempio, il Partito comunista trasse spunto dalle varie celebrazioni della guerra di liberazione per sostenere le lotte anticoloniali e antimperialiste di paesi come l’Algeria, il Congo, Cuba, il Vietnam; e rinnovò la denuncia in chiave antidemocristiana della «Resistenza tradita» (per l’insabbiamento della Costituzione) e l’appello alla ricostituzione di un blocco unitario di forze democratiche che ponesse fine all’esclusione dei comunisti dal governo del paese e aprisse la strada a riforme sociali incisive16. Da parte sua la Democrazia cristiana non interruppe mai la polemica contro tale uso politico della Resistenza, difendendo il proprio ruolo di tutrice delle libertà democratiche messe in pericolo non solo dalla minaccia di un ritorno neofascista ma anche da quella di un eventuale successo del Partito comunista, portatore di un’ideologia totalitaria17. A partire dal 1968 emerse un nuovo riferimento alla memoria della Resistenza, anch’esso fortemente connotato in chiave di polemica politica: quello del movimento studentesco18. Il moviCfr., per esempio, L. Longo, Solidarietà antifascista, in «Rinascita», 25 aprile 1964; E. Berlinguer, La Resistenza oggi, in «l’Unità», 25 aprile 1965; L. Longo, La Resistenza vive nelle lotte per un mondo di pace, ivi, 26 aprile 1965; Id., Rinnovare il patto democratico dal quale nacque la Repubblica, ivi, 2 giugno 1966. Gli interventi di Longo sono stati poi ripubblicati in L. Longo, Chi ha tradito la Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1975. 17 Cfr., per esempio, Eredità preziosa e M. Rumor, L’eredità della Resistenza, in «Il Popolo», 25 aprile 1965. 18 Cfr. C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile, in L. Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 36768; Crainz, La «legittimazione» della Resistenza, cit.; Santomassimo, La memoria pubblica dell’antifascismo, cit., pp. 293 sgg. Sul Sessantotto cfr. M. Flores, A. De Bernardi, Il sessantotto, Il Mulino, Bologna 2003 (I ed. 1998). 16

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mento rifiutava nettamente la retorica celebrativa unitaria delle commemorazioni ufficiali e rivendicava la dimensione di classe della lotta partigiana. In particolare, esso si rifaceva all’esperienza dell’antagonismo operaio nelle sue forme «spontanee», come ad esempio gli scioperi del marzo 1943, visti quale espressione di una genuina spinta «dal basso». Esplicita era la polemica contro la tradizione togliattiana del Partito comunista, accusato di aver imbrigliato con la «svolta di Salerno» le energie rivoluzionarie della Resistenza. Era un ritorno ai temi della Resistenza come «occasione mancata» e «rivoluzione interrotta», con le responsabilità però attribuite non solo alle forze moderate, ma anche alle forze organizzate della sinistra, e in primo luogo alla maggiore di esse: il Partito comunista. Agiva qui l’influenza della tradizione azionista, recepita anche sul versante dell’insegnamento morale che dalla guerra di liberazione veniva tratto19. Come ha osservato Giovanni De Luna20, prima ancora dell’antagonismo di classe, del patrimonio della Resistenza i giovani del ’68 condividevano l’«antifascismo esistenziale», tradotto nell’obbligo morale alla disobbedienza nei confronti di un «ordine oppressivo», nel riconoscimento della «crucialità del conflitto», nella ricerca e nell’esperienza di forme di vita alternative, sull’esempio della «comunità liminare» rappresentata dalla banda partigiana, modello di democrazia diretta21. Contro la «beatificazione della Resistenza» e la sua «imbalsamazione», i movimenti giovanili dettero vita in occasione delle celebrazioni del 25 aprile a «cortei alternativi» che per un tratto sfilavano insieme al corteo ufficiale, per poi però abbandonarlo e concludere la manifestazione in maniera autonoma, in mezzo a slogan battaglieri che recitavano: «La Resistenza è rossa non è democristiana», «Ora e sempre Resistenza»22. 19 Non è un caso che l’area culturale azionista rintracciasse nell’azione del movimento studentesco un solido filo di continuità con il messaggio della Resistenza. Cfr., per esempio, G. Quazza, Nella protesta dei giovani lo spirito della Resistenza, in «Resistenza», XXI, settembre 1968, 9. 20 G. De Luna, Le identità, in G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 141-48. 21 Sulla banda partigiana come «comunità liminare» capace di tramandare una propria specifica memoria cfr. Cenci, Rituale e memoria, cit., pp. 331-36. 22 Ivi, p. 367.

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La valenza politica della memoria della Resistenza emerse in maniera assai evidente negli anni Settanta23, contrassegnati dal fenomeno della violenza terroristica, che mise a repentaglio le istituzioni dello Stato repubblicano. Alle lotte studentesche e sindacali culminate nell’«autunno caldo» del 1969 era seguita una spirale di violenza politica, innescata dalla strage neofascista di piazza Fontana (12 dicembre 1969), contrassegnata da scontri di piazza fra gruppi extraparlamentari di destra e di sinistra, con pestaggi e aggressioni all’ordine del giorno. Di fronte alla sfida lanciata dall’estrema destra (si calcola che il 95 per cento degli episodi di violenza politica «spicciola» compiuti fra il 1969 e il 1973 avessero una matrice neofascista, così come oltre la metà degli attentati rivendicati)24, l’«antifascismo esistenziale» del movimento studentesco si trasformò nell’«antifascismo militante» dei gruppi di estrema sinistra quali Lotta continua o Potere operaio25. A partire almeno dal 1972, per una vasta area politica di sinistra radicale la ricorrenza del 25 aprile divenne una vera e propria «scadenza di lotta»26, l’occasione di un’attiva «mobilitazione antifascista» indirizzata sia contro il «fascismo squadrista» dei missini sia contro quello che veniva definito il «fascismo di Stato» della Democrazia cristiana, considerata strumento dei «progetti reazionari» del «blocco capitalista». Vi fu dunque mobilitazione nell’aprile del 1972 per scongiurare uno scivolamento a destra del paese nelle vicine elezioni parlamentari indette per il 7 maggio27; mobilitazione il 25 aprile 1974 contro il 23 Per un quadro della storia italiana negli anni Settanta, cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, vol. II, Dal «miracolo economico» agli anni ’80, Einaudi, Torino 1989, pp. 404 sgg.; Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 489 sgg.; Crainz, Il Paese mancato, cit., pp. 363 sgg.; G. De Rosa, G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. IV, Sistema politico e istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 24 Cfr. P. Ignazi, Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, Il Mulino, Bologna 1994, p. 48. Come episodi di «violenza spicciola» l’autore intende pestaggi, aggressioni, danneggiamenti. 25 Cfr. De Luna, Le identità, cit., pp. 148-55. 26 L’espressione è tratta da: Trent’anni dopo: basta con la DC!, in «Lotta Continua», 25 aprile 1975. 27 Cfr. Ai fascisti ci pensiamo noi e Perché i partigiani, ivi, 25 aprile 1972; Lo Stato celebra la Liberazione. Liberato il nazista Rauti, ivi, 26 aprile 1972.

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referendum abrogativo sul divorzio, terreno d’intesa fra missini e democristiani28; mobilitazione nel 1975 contro le leggi sull’ordine pubblico (definite «leggi liberticide») in discussione in Parlamento29 e per mettere fuorilegge il Msi30, tutto ciò in un clima reso incandescente dalla morte nei giorni precedenti di quattro militanti di sinistra, caduti in scontri con la polizia o per mano di aggressori31. Nelle manifestazioni per il 25 aprile non mancò una serrata polemica contro i partiti della sinistra storica32. Nel mirino entrarono, infatti, anche «i riformisti del Psi e i revisionisti del Pci»33, accusati di far «da palo» alla reazione, impedendo il possibile sbocco rivoluzionario della crisi italiana34. Sotto accusa fu posto lo «spirito unitario» delle celebrazioni della Resistenza, il rilievo dato alla sua dimensione patriottica che ne oscurava il più autentico significato di «classe». All’«antifascismo tricolore», considerato falso e stantio, si contrappose l’«antifascismo rosso», vibrante e smanioso d’azione35. «È stato un 25 aprile nuovo – scriveva «Lotta Continua» nel 1972 –, vissuto con una tensione che ha ridicolizzato le mummificazioni celebrative»36. Il giornale tuonava contro l’«antifascismo a parole e disarmante dei dirigenti revisionisti» del Pci, contrapponendogli «quello militante dei compagni»37. A essere cercato, anche materialmente nei cortei, fu un contatto diretto con i vecchi partigiani. Alla loro esperienza di combattimento si richiamarono i giovani dell’estrema sinistra, che stabiliCfr. Dal 25 aprile al 12 maggio, ivi, 25 aprile 1974. Si trattava della prima legge Reale, poi approvata, nota per le disposizioni sul «fermo» di polizia. Cfr. Il parlamento discute a tappe forzate le leggi fasciste di Moro e Fanfani, ivi, 25 aprile 1975. 30 Sciogliere il MSI: questo è il nostro 25 aprile, ivi, 25 aprile 1975. 31 Si trattava di Claudio Varalli, militante del Movimento studentesco, Giannino Zibecchi, militante dei comitati antifascisti di quartiere, Tonino Miccichè di Lotta Continua, Rodolfo Boschi del Pci. 32 Cfr. M. Galleri, La rappresentazione della Resistenza 1955-1975, Working Paper dell’Università di Siena, n. 34, 1998, pp. 15 sgg. 33 Sciogliere il MSI, cit. 34 Chi fa da palo al partito della reazione, in «Lotta Continua», 26 aprile 1975. 35 Cfr. L. Ganapini, Antifascismo tricolore e antifascismo di classe, in «Problemi del Socialismo», 1986, 7, pp. 98-105. 36 Dal 25 aprile al 1° maggio, in «Lotta Continua», 27 aprile 1972. 37 Ibid. 28 29

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rono un legame fra la lotta contro il nazifascismo dei partigiani e la lotta sulle barricate condotta nel luglio 1960 contro la polizia di Tambroni. «Prendiamo di nuovo il nostro fucile, facciamo ancora il 25 aprile»; «Compagni partigiani tornate al vostro posto, siamo al vostro fianco»; «Fascisti, padroni, per voi non c’è domani. Stanno nascendo i nuovi partigiani». Questi alcuni degli slogan che furono gridati nei «cortei alternativi» in occasione della festa della Liberazione38. Fortemente connotato in termini politici fu anche il richiamo alla Resistenza fatto dai partiti tradizionali. Per bloccare la minaccia dell’eversione di destra tesa a creare un clima di tensione che propiziasse una svolta autoritaria, le principali forze della sinistra storica – il Pci e Psi – fecero appello ai valori dell’«unità antifascista» e chiamarono in causa il comportamento della Democrazia cristiana, accusata di volersi mantenere equidistante fra gli estremismi di destra e di sinistra (gli «opposti estremismi») e di coltivare connivenze pericolose con gli ambienti reazionari che, fuori e dentro lo Stato, tramavano contro la Repubblica39. Replicando, la Democrazia cristiana difese il proprio ruolo storico di garante della libertà e della democrazia conquistate con la lotta di liberazione e reiterò le accuse al Partito comunista di coltivare un’ideologia antidemocratica. Non mancarono anche critiche alla contiguità ideologica del Pci col terrorismo di sinistra. Un’accusa vibrata al maggiore partito di governo fu lanciata nel discorso tenuto il 25 aprile 1975 ad Avellino dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer, che condannò «la linea faziosa seguita dall’attuale segretario politico della Dc, ispirata a un anacronistico e ossessivo anticomunismo», «in antitesi aperta con lo spirito unitario e rinnovatore della Resistenza»40. Per Berlinguer, la «crocia-

Cfr., per esempio, Torino: 10.000 al corteo dell’ANPI, ivi, 26 aprile 1972. Cfr., per esempio, A. Boldrini, Il nostro no, in «l’Unità», 25 aprile 1974; Id., La Resistenza e le Forze armate, ivi, 2 giugno 1974; L. Longo, Resistenza oggi, ivi, 25 aprile 1975. Si veda anche la Risoluzione della Direzione del Pci del 23 aprile 1975: Debellare il terrorismo e la violenza fascista, ivi, 24 aprile 1975. Per la posizione dei socialisti cfr. F. De Martino, Tutta la forza dell’antifascismo, in «Avanti!», 25 aprile 1975. 40 La linea della divisione e dell’anticomunismo è dannosa per il Paese, in «l’Unità», 26 aprile 1975. 38 39

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ta anticomunista» di Fanfani incoraggiava «le forze reazionarie e fasciste». Solo la risposta unitaria delle «forze popolari, democratiche e antifasciste» poteva sventare le trame eversive. Un messaggio analogo fu indirizzato dalle colonne dell’«Avanti!» dal leader del Partito socialista, Francesco De Martino41. De Martino non poneva in discussione «le origini popolari e antifasciste» della Democrazia cristiana, così come il suo contributo alla lotta di liberazione. Stigmatizzava però gli «orientamenti» poi prevalsi nel partito, che avevano condotto alla rottura dell’unità antifascista, da cui era derivata l’incapacità di affrontare la minaccia rinnovata del fascismo. L’unità delle forze antifasciste andava ripristinata. Per De Martino, infatti, la risposta alla violenza dell’estrema destra poteva essere solo una risposta politica, che spettava «a tutti i partiti che hanno contribuito a dar vita alla Repubblica e alla Costituzione repubblicana, senza distinzione tra quelli di governo e quelli di opposizione, perché gli uni e gli altri sono legati alla comune origine della lotta di liberazione e della vittoria del 25 aprile, all’impegno della legalità repubblicana». Agli appelli unitari delle sinistre non mancarono repliche molto recise da parte della Democrazia cristiana. Parlando a Cassino, il 25 aprile 1975, il segretario del partito Amintore Fanfani ricordava come l’«impegno comune» profuso dalle forze del Cln durante la Resistenza non avesse annullato «la diversità dell’ispirazione»: «quando gli obiettivi del supremo impegno comune furono raggiunti tornarono legittimamente a riaffiorare le diversità»42. A giudizio di Fanfani esisteva un legame imprescindibile fra democrazia e «articolazione delle forze politiche» ed era merito storico della Democrazia cristiana aver garantito negli anni quel legame. Per Fanfani, la proposta unitaria comunista andava risolutamente respinta poiché, come egli spiegava, i disegni politici volti a «sovrapporre alle distinzioni nella libertà l’unità nella confusione» erano «sempre sfociati nella sopraffazione e nel totalitarismo». «Al totalitarismo fascista – egli affermava – portò la pretesa unità di tutti gli italiani sull’altare di un esasperato e non democraticamente accertato interesse nazionale. Al totalitarismo coDe Martino, Tutta la forza dell’antifascismo, cit. Fanfani: la vera libertà presuppone la distinzione tra forze politiche, in «Il Popolo», 26 aprile 1975. 41 42

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munista ha portato in ogni paese del mondo, la pretesa unità degli uomini sull’altare di un esasperato interesse di classe definito dai dittatori». Nonostante questi elementi polemici, va osservato che a prevalere fu la convergenza e la coesione a difesa delle istituzioni minacciate. Il tentativo eversivo fascista e la sfida del terrorismo di sinistra (passata a una fase nuova dopo il rapimento del giudice Sossi da parte delle Brigate Rosse nell’aprile 1974) finirono, infatti, per rinsaldare l’antifascismo dei ceti popolari e la solidarietà tra i partiti che avevano partecipato alla lotta di liberazione e scritto la Costituzione. L’intesa fra le forze, che non a caso si dissero dell’«arco costituzionale», si cementò nel richiamo alla Resistenza, intesa come fonte di legittimazione del sistema politico repubblicano. Si può osservare in primo luogo che tutte le commemorazioni ufficiali mantennero un carattere unitario. Tali furono la commemorazione del trentennale della difesa di Roma, celebrato l’8 settembre 1973 a Porta San Paolo43, e la commemorazione del trentennale della strage delle Fosse Ardeatine celebrata il 22 marzo 1974, coi discorsi del comunista Antonello Trombadori e del ministro socialista Mario Zagari44. Un contributo importante allo «spirito unitario» delle celebrazioni venne dall’adesione e dalla partecipazione della Federazione unitaria sindacale Cgil-Cisl-Uil. Il 2 giugno 1974 vennero celebrati congiuntamente, per la prima volta, l’anniversario della nascita della Repubblica e il trentennale della liberazione di Roma45. E per la prima volta alla tradizionale parata militare sul viale dei Fori Imperiali a Roma presero parte anche le rappresentanze delle forze della Resistenza con le loro bandiere di combattimento. Un ampio riconoscimento riscosse poi il discorso commemorativo tenuto in occasione del trentennale della Liberazione dal presidente della Repubblica, Giovanni Leone, nella Sala della Lupa a Montecitorio46. Fu un in43 L’antifascismo unito celebra il XXX della difesa di Roma, in «l’Unità», 8 settembre 1973. 44 Roma antifascista ha ricordato i martiri delle Fosse Ardeatine, ivi, 23 marzo 1974. 45 Cfr. Viva la Repubblica antifascista, ivi, 2 giugno 1974, e Boldrini, Resistenza e Forze armate, cit. 46 Cfr. Gli ideali della Resistenza per una società più giusta, in «Il Popolo», 25 aprile 1975.

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tervento volto, nelle intenzioni, tanto a svelenire gli animi quanto a ribadire e rafforzare le radici storiche e morali della Repubblica. Da un lato Leone ammise che il fascismo «per un certo periodo di tempo» aveva goduto nel paese di un’«area di consenso» (pur effimera e destinata a svanire), riconobbe che la lotta di liberazione era stata «anche una guerra civile con i suoi errori e orrori» e rese omaggio «alla memoria di quelli che caddero combattendo in buona fede nel campo opposto». Dall’altro lato, però, ribadì i capisaldi della «narrazione antifascista»: l’ostilità popolare all’«assurda alleanza col nazismo»; la guerra «non voluta e non compresa» dal popolo italiano, «scatenata nella più assoluta e non ignorata impreparazione»; la condanna della Repubblica sociale, «convulso e tragico tentativo di rinascita del fascismo»; l’«epopea» della Resistenza, fenomeno unitario e nazionale, e il suo «collegamento ideale» con la nascita della Repubblica e la stesura della Costituzione. Leone condannò quindi gli «attacchi eversivi allo Stato» e il «terrorismo politico» neofascisti, ma anche la «violenza scatenata dai gruppi della sinistra extraparlamentare», rivendicando allo Stato democratico il diritto esclusivo di «sradicare la violenza fascista». Questo passaggio fu aspramente criticato dai gruppi dell’estrema sinistra47. Non dal Partito comunista che, proprio in occasione del 25 aprile, aveva condannato «le tendenze, presenti nei gruppi estremisti, alla ricerca dello scontro fisico, alle ritorsioni violente, all’avventurismo»48. La convergenza sulla memoria pubblica della Resistenza fra governo e opposizione comunista trovò ispirazione nella politica di «solidarietà nazionale» di Moro e Berlinguer, mirante a ristabilire l’intesa fra cattolici e comunisti del periodo resistenziale interrottasi nel 1947, considerata necessaria per la difesa della democrazia minacciata dal terrorismo49. L’intesa fra le vecchie forze 47 «Lotta Continua» parlò di «rabbioso attacco» di Leone all’antifascismo militante (Il parlamento discute a tappe forzate le leggi fasciste di Moro e Fanfani, cit.). Apprezzamento fu invece espresso dai missini (cfr. Smobilitare l’odio, in «Il Secolo d’Italia», 25 aprile 1975). 48 Debellare il terrorismo e la violenza fascista, cit. 49 Per una sintetica descrizione della politica di «solidarietà nazionale» si rimanda a Lepre, Storia della prima Repubblica, cit., pp. 274 sgg.; Scoppola, La Repubblica dei partiti, cit., pp. 364-78; Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 635 sgg.

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antifasciste a salvaguardia della «Repubblica nata dalla Resistenza» culminò nel 1978, con la risposta unitaria alla sfida lanciata dalle Brigate Rosse col rapimento di Aldo Moro (16 marzo 1978), seguito dalla sua uccisione (9 maggio 1978). La celebrazione del 25 aprile fu occasione quell’anno di una grande mobilitazione di massa, che vide strettamente a fianco i partiti della sinistra e la Democrazia cristiana50. Nell’«imponente manifestazione unitaria» di Milano, accanto ai cori della rappresentanza democristiana «Moro è qui, con tutta la Dc», risuonò per tutti la parola d’ordine: «Contro il terrorismo, contro la violenza, ora e sempre Resistenza»51. Nei discorsi commemorativi tenuti dai rappresentanti delle tre associazioni partigiane, i poliziotti caduti contro il terrorismo furono ricordati accanto ai caduti nella lotta di liberazione come martiri della libertà e della democrazia. Fu organizzata anche una commemorazione a Roma in via Fani, il luogo del rapimento di Moro e dell’uccisione della scorta, «divenuto nella coscienza di tutti i democratici sacrario di una nuova Resistenza»52. La lotta contro il terrorismo nella quale erano caduti i poliziotti della scorta coinvolgeva tutte le forze democratiche della nazione. Lo affermava «l’Unità», che nella vasta e commossa partecipazione del paese alle manifestazioni del 25 aprile ravvisava «una nuova Resistenza per difendere il bene comune della democrazia dall’atto eversivo»53. Scrivendo nei giorni immediatamente successivi all’assassinio di Moro, il leader della Cgil, il comunista Luciano Lama, collocava l’insigne vittima fra «i martiri della Repubblica» e paragonava i suoi carnefici a «quei tedeschi dei campi di Mauthausen e di Auschwitz che torturarono e uccisero milioni di uomini, di donne, di bambini innocenti e indifesi»54. Proprio nel 1978 veniva eletto alla presidenza della Repubblica l’ottantaduenne socialista Sandro Pertini, vecchio oppositore del regime fascista e protagonista di primo piano della lotta di liberazione nazionale. Il presidente Pertini ribadì in più occasioni Cfr. Cenci, Rituale e memoria, cit., pp. 368-71. Imponente manifestazione unitaria a Milano, in «l’Unità», 26 aprile 1978. 52 Presidi in via Fani, in «Il Popolo», 23 aprile 1978. La commemorazione fu organizzata dalla Federazione romana unitaria di Cgil, Cisl e Uil. 53 Popolo, giovani, soldati, partiti..., in «l’Unità», 26 aprile 1978. 54 L. Lama, Una minaccia che rimane grave, in «Rinascita», 12 maggio 1978. 50 51

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la memoria antifascista della Resistenza. Così fece, ad esempio, nel novembre 1978 nel discorso tenuto per il trentacinquesimo anniversario della strage di Boves e nel novembre 1980 in occasione della visita di Stato a Cefalonia, la prima di un rappresentante del governo italiano55. Lontano da ogni retorica di circostanza, il presidente Pertini celebrò con passione la Resistenza, forte di una credibilità personale e di un consenso nel paese superiori a quelli dei suoi predecessori. 55 Cfr. rispettivamente S. Neri Serneri, A. Casali, G. Errera (a cura di), Scritti e discorsi di Sandro Pertini, vol. II, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 1992, pp. 175-82 e 251-52.

Capitolo quinto LA SFIDA ALLA MEMORIA PUBBLICA DELLA RESISTENZA. DALLA «GRANDE RIFORMA» DI CRAXI ALLA PROPOSTA DI «RICONCILIAZIONE» DI FINI

La «narrazione egemonica» dell’antifascismo usciva apparentemente corroborata dal clima politico della «solidarietà nazionale» e della risposta unitaria al terrorismo, confermata nella sua salda supremazia sia nei confronti della contestazione dei gruppi extraparlamentari di sinistra che avevano mosso una critica «interna» alla memoria ufficiale della Resistenza, sia nei confronti della memoria antagonista coltivata dagli ambienti neofascisti, ancorata alle commemorazioni dell’«eroico sacrificio» dei parà della Folgore a El Alamein1, alla caparbia difesa della partecipazione italiana alla guerra (in nome della «sfida dell’Italia agli imperi che dominavano il mondo»)2, alla tradizionale critica alla Resistenza come «guerra fratricida», all’ennesima richiesta di «pacificazione» nazionale3. La narrazione antifascista è stata posta però sotto accusa e scossa duramente nel corso degli anni Ottanta. A determinare il processo di critica radicale al «paradigma antifascista»4 è stato il mutamento del quadro politico, caratterizzato dalla nascita del cosid1 Cfr., per esempio, Il messaggio di Almirante al Generale Frattini, in «Il Secolo d’Italia», 22 ottobre 1972. 2 Cfr. F. Massobrio, Una battaglia per l’Europa, in «Il Secolo d’Italia», 22 ottobre 1972. 3 Cfr. F.M. D’Asaro, Venticinque aprile, ivi, 25 aprile 1975. 4 Cfr. N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, in «Problemi del Socialismo», 1986, 7, pp. 106-33.

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detto «pentapartito»5 e dal rinnovato isolamento all’opposizione del Partito comunista6. Uno stimolo importante al revisionismo della memoria provenne dall’esigenza politica di un profondo rinnovamento istituzionale promosso fin dai primi anni Ottanta dal Partito socialista di Bettino Craxi. La cosiddetta «grande riforma», di cui Craxi si fece fautore, trovava nell’impianto della Costituzione «nata dalla Resistenza»7 un ostacolo da superare per fondare quella «nuova Repubblica» che, nelle intenzioni del gruppo dirigente socialista, doveva fornire strutture istituzionali adeguate alla modernizzazione del paese. Sulla via del rinnovamento costituzionale si pose come baluardo il Partito comunista, che storicamente aveva legato la propria legittimazione democratica alla difesa della Resistenza e dell’assetto istituzionale da essa generato attraverso la Costituzione. Si incrinò così quel fronte dei partiti eredi del Comitato di liberazione nazionale che negli anni Settanta aveva trovato compattezza nella difesa della «Repubblica antifascista». Nel discorso pubblico ebbero larga circolazione argomenti polemici nei confronti della memoria della Resistenza, che riproponevano temi e luoghi comuni tipici dell’offensiva antiresistenziale della guerra fredda, giocati prevalentemente in chiave anticomunista8. Al richiamo, di per sé ineccepibile, della necessità di distinguere fra antifascismo e democrazia (il comunismo in quanto antifascista non poteva definirsi ipso facto democratico)9, si accompagnarono rinnovate critiche a noti episodi della Resistenza di cui erano stati protagonisti partigiani comunisti, come l’atten5 L’accordo di governo fra Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli che ha dominato la politica italiana dal 1981 al 1992. 6 Per un inquadramento del periodo cfr. P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino 1998, pp. 257 sgg.; P. Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, Utet, Torino 1995, pp. 850 sgg. 7 Sul nesso fra «paradigma antifascista» e Costituzione repubblicana cfr. A. Baldassarre, La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione repubblicana, in «Problemi del Socialismo», 1986, 7, pp. 11-33. 8 Cfr. S. Lupo, Antifascismo, anticomunismo e anti-antifascismo nell’Italia repubblicana, in A. De Bernardi, P. Ferrari (a cura di), Antifascismo e identità europea, Carocci, Roma 2004, pp. 365-78. 9 Cfr., per esempio, L. Colletti, L’alibi dell’antifascismo, in «Corriere della Sera», 24 marzo 1985. Per un lucido inquadramento storico, su posizioni diverse rispetto a Colletti, cfr. L. Rapone, Antifascismo e storia d’Italia, in E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 219-39.

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tato di via Rasella o l’uccisione a Firenze del filosofo Giovanni Gentile. Con i responsabili del primo accusati (senza fondamento) di criminale codardia per aver lasciato compiere ai tedeschi la cruenta rappresaglia delle Ardeatine senza il coraggio di consegnarsi nelle loro mani10. E con i responsabili del secondo stigmatizzati come rei di un omicidio politico immotivato11. Al ricordo della violenza fascista furono contrapposti quello delle stragi delle foibe perpetrate contro gli italiani dai comunisti di Tito12 e quello delle uccisioni di fascisti o presunti tali commesse da ex partigiani in alcune regioni italiane nell’immediato dopoguerra (insistita fu soprattutto la condanna delle violenze avvenute nel cosiddetto «triangolo della morte» in Emilia)13. Furono poi sollevati casi, già conosciuti, di violenze e omicidi compiuti durante la Resistenza da partigiani comunisti ai danni di partigiani di altro colore politico, primo fra tutti l’eccidio di Porzus in Friuli14. Tipica fu 10 In realtà, il meccanismo della rappresaglia tedesca scattò immediatamente senza prevedere che i colpevoli si consegnassero. Cfr. R. Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Editori Riuniti, Roma 1994 (ed. or. 1967); A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999. 11 Considerato il ruolo di primo piano svolto da Gentile durante il fascismo e il suo impegno a favore della Repubblica sociale, la scelta dei partigiani di colpire il noto intellettuale non pare priva di motivazioni nel contesto della guerra civile allora in corso. Sull’omicidio Gentile cfr. L. Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Sellerio, Palermo 1992 (I ed. 1985). Sulla figura di Gentile, G. Turi, Giovanni Gentile: una biografia, Giunti, Firenze 1995. 12 Sulle foibe, voragini di origine carsica, luogo di esecuzioni sommarie di italiani avvenute in parte successivamente all’8 settembre 1943 e in parte dopo la fine della guerra nel maggio-giugno 1945, si rimanda alla ricostruzione sintetica e alla bibliografia curate da Tristano Matta, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino 2001, pp. 377-80. 13 Per un inquadramento storiografico cfr. G. Crainz, Il conflitto e la memoria. «Guerra civile» e «triangolo della morte», in «Meridiana», XIII, 1992, pp. 17-55; M. Dondi, La lunga liberazione, Editori Riuniti, Roma 1999; M. Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e forze politiche a Modena 1945-1946, Franco Angeli, Milano 1995; Id., Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Marsilio, Venezia 1998. 14 Qui, nel febbraio 1945, elementi comunisti della divisione Natisone trucidarono sedici membri della brigata Osoppo formata da partigiani di orientamento cattolico e azionista. Nei primi anni del dopoguerra un processo aveva condannato alcuni dei responsabili dell’eccidio. Cfr. la voce curata da Galliano

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inoltre l’accusa formulata contro il Cln di aver rappresentato l’origine di uno dei vizi più perniciosi della vita politica nazionale: la partitocrazia (riecheggiavano qui gli argomenti dell’«Uomo Qualunque» contro la cosiddetta «esarchia» ciellenistica). Di importanza centrale, quale fattore di rottura della memoria della Resistenza, fu infine la descrizione della lotta di liberazione come guerra civile fra due fazioni contrapposte, nessuna delle quali avrebbe goduto dell’appoggio popolare. Ciò colpiva uno dei cardini della memoria pubblica antifascista, la quale, se non aveva disconosciuto il carattere anche di guerra civile della Resistenza, aveva tuttavia sempre rivendicato la sua dimensione precipua di lotta di liberazione condotta col sostegno del popolo italiano. Si trattava di argomenti mai scomparsi dalle pagine della stampa conservatrice e ossessivamente riproposti da quella neofascista, che adesso – in forme e toni certo diversi da questa – trovavano eco nella più vasta opinione pubblica, grazie anche all’avallo di personalità autorevoli come lo storico Renzo De Felice15. Tali critiche alla Resistenza si inserivano per di più in un’azione culturale, ampiamente sostenuta dai maggiori mezzi di comunicazione, contraddistinta da una rilettura edulcorata del fascismo, che ne riabilitava l’immagine, dipingendolo come un «autoritarismo all’italiana», retorico e velleitario, ben distinto dal truce totalitarismo nazista; come un regime bonario e paternalista, che aveva accelerato la modernizzazione del paese godendo a lungo di un vasto consenso fra gli italiani16. Fogar in Collotti, Sandri, Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, cit., pp. 122-23. 15 Di notevole importanza furono le due interviste rese da Renzo De Felice a Giuliano Ferrara, pubblicate sul «Corriere della Sera» il 27 dicembre 1987 e l’8 gennaio 1988. De Felice sosteneva che l’antifascismo di matrice resistenziale era insufficiente e persino dannoso alla creazione di una «autentica democrazia repubblicana». Le interviste sono riportate in J. Jacobelli (a cura di), Il fascismo e gli storici oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 3-11. Anche i volumi della biografia di Mussolini di De Felice, in particolare i due tomi del terzo volume, Gli anni del consenso: 1929-1937 (Einaudi, Torino 1974) e Lo stato totalitario: 1936-1940 (Einaudi, Torino 1981), influenzarono a fondo l’atteggiamento dei mass-media nei confronti del fascismo e dell’antifascismo. Come noto, le tesi defeliciane avevano già avuto una larga diffusione a partire dalla pubblicazione, nel 1975, dell’Intervista sul fascismo (Laterza, Roma-Bari). 16 Cfr. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, cit.; N. Tranfaglia, Fascismo e mass media: dall’intervista di De Felice agli sceneggiati televisivi, in

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Le celebrazioni del quarantennale della Liberazione, nel 1985, risentirono in pieno del nuovo discorso pubblico, del mutamento del «senso comune storico» prodottosi nel paese. Enzo Forcella su «la Repubblica» parlò di un «intorpidimento» della memoria del fascismo, sempre più raffigurato dai media nei «suoi aspetti minori, psicologici, privatistici, familiari»17. Guido Quazza su «il manifesto» deprecò con forza il «sistematico diffondersi» di una «pseudo-cultura della riabilitazione del ventennio mussoliniano», prodotta da una storiografia che «sotto maschera di ‘oggettività’ introduceva in dosi sempre più forti la ‘neutralità’ in nome della ‘conciliazione’ fra gli italiani»18. Molte delle commemorazioni furono caratterizzate dalla difesa della memoria ufficiale insidiata. A Monza il ministro democristiano Luigi Granelli, a Napoli il senatore socialista Francesco De Martino misero in guardia nei confronti di quanti, «con l’aiuto di storiografie alla moda», tendevano a porre sullo stesso piano gli antifascisti e i fascisti , «i perseguitati e i persecutori»19. A Siena il presidente della Camera, la comunista Nilde Iotti, contestò la tesi di coloro che riconducevano al Comitato di liberazione nazionale la nascita della lottizzazione partitocratica20. Nei loro discorsi il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il presidente del Consiglio Bettino Craxi ribadirono i temi tradizionali della memoria antifascista21: la partecipazione popolare, le «gesta eroiche» dei partigiani, il sacrificio dei martiri. Sulla stampa socialista, però, non mancarono di riecheggiare i temi della campagna «revisionista». Sull’«Avanti!» Giulio Scarrone invitò a demitizzare il ricordo della Resisten«Passato e Presente», 1983, 3, pp. 135-48; M. Flores, Il «buon fascismo». Memoria di fine secolo, in «il manifesto», 25 aprile 1985. 17 E. Forcella, Come eravamo quel 25 aprile, in «la Repubblica», 25 aprile 1985. 18 G. Quazza, Un 25 aprile mussoliniano, in «il manifesto», 30 aprile 1985. 19 Cfr. Il giorno che tornò la libertà, in «la Repubblica», venerdì 26 aprile 1985. Le frasi citate sono di Granelli. De Martino espresse un analogo concetto. 20 Cfr. Quarant’anni dalla Liberazione. Sblocchiamo la democrazia, in «l’Unità», 26 aprile 1985. 21 Cfr., rispettivamente, L’Italia celebra la Liberazione. Solenne omaggio di Pertini ai martiri della Benedicta, in «la Repubblica», 26 aprile 1985, e Ogni nostro progresso ingrandisce il significato di quei giorni, in «Avanti!», 26 aprile 1985.

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za e rilanciò con forza l’esigenza della riforma costituzionale22. A sua volta Ruggero Guarini, sulla rivista culturale del partito «Mondoperaio», sottolineò in chiave anticomunista come «l’opposizione fascismo/antifascismo fosse meno decisiva dell’antitesi totalitarismo/democrazia»23. Dunque, mentre vecchi esponenti socialisti come De Martino e Pertini difendevano la memoria della Resistenza e dell’antifascismo, la stampa socialista ne metteva in dubbio alcuni dei capisaldi. Craxi, sebbene nelle celebrazioni ufficiali riproponesse la tradizionale retorica antifascista, in realtà era l’ispiratore di quelle critiche. Negli anni Novanta l’accusa mossa nel decennio precedente alla cosiddetta «vulgata resistenziale» si è tramutata nell’aperta sollecitazione esercitata sulle istituzioni dello Stato perché promuovessero una nuova memoria pubblica «pacificata», svincolata dalla contrapposizione fascismo/antifascismo. Anche in questo caso il fattore di spinta è da ricercare nel mutamento del quadro politico intervenuto dopo il crollo del comunismo e la crisi della cosiddetta Prima Repubblica24. Da un lato, il tracollo nel 1992, con «Tangentopoli», dei partiti politici protagonisti della Resistenza, Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito liberale, Partito repubblicano, e la trasformazione del Partito comunista in una forza del socialismo democratico europeo, pagata con una scissione e un drastico ridimensionamento di forze. Dall’altro lato, l’affermazione di due attori politici nuovi come Forza Italia e Lega Nord, privi di legami col patrimonio storico dell’antifascismo resistenziale, e la legittimazione politica del Movimento sociale italiano con la partecipazione al governo Berlusconi nel 1994, seguita dalla nascita di un nuovo soggetto politico post-fascista, Alleanza nazionale25. Come già nei primi anni del dopoguerra, al centro del dibattito è stata posta l’esigenza della «pacificazione» fra gli ex nemici, G. Scarrone, Un ricordo senza miti, in «Avanti!», 26 aprile 1985. R. Guarini, Per un antifascismo conseguente, in «Mondoperaio», 5, maggio 1985. 24 Per un inquadramento cfr. L. Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, vol. VI, L’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 541-640. 25 Cfr. M. Tarchi, Dal Msi ad An: organizzazione e strategie, Il Mulino, Bologna 1997. 22 23

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fascisti e antifascisti. Non è un caso che la richiesta si sia fatta pressante nel 1993, anno di importanti elezioni amministrative, che hanno visto la candidatura di Gianfranco Fini, segretario del Msi, alla poltrona di sindaco di Roma come rappresentante dello schieramento di centro-destra26. Evidente appare il nesso fra richiesta di superamento della discriminante fascismo/antifascismo ed esigenza di legittimazione del Movimento sociale e, con esso, del nuovo blocco conservatore. Sul piano retorico-argomentativo, la «pacificazione» è stata invocata dalla destra in nome del riconoscimento del valore delle motivazioni che dopo l’armistizio avrebbero spinto tanti giovani italiani («i ragazzi di Salò») a schierarsi con Mussolini per la difesa del paese e dell’«onore nazionale»27. Condivisa da larghi settori dell’opinione pubblica moderata, tale esigenza di riconciliazione è stata riconosciuta anche da alcuni rappresentanti della Resistenza. In occasione del cinquantesimo anniversario dell’8 settembre, ad esempio, il generale Luigi Poli, presidente dell’Associazione nazionale combattenti della guerra di liberazione, e Giulio Cesco Baghino, presidente dell’Unione combattenti della Repubblica sociale italiana – dunque un ex combattente della Resistenza militare e un ex «repubblichino» – rivolgevano insieme un appello al presidente della Repubblica, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, perché ponesse fine alle «drammatiche divisioni del periodo della guerra civile»28. Sul discorso che Scalfaro avrebbe tenuto a Porta San Paolo si caricavano molte aspettative. L’intervento del presidente rimaneva però 26 Nelle elezioni di novembre, Fini perse la sfida con Francesco Rutelli, candidato del centro-sinistra, ma ottenne un ottimo risultato politico con il 47 per cento dei voti. 27 Sui «ragazzi di Salò» sono state pubblicate a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta molte opere di taglio memorialistico e autobiografico. Fra queste vanno almeno segnalati due libri di Carlo Mazzantini: A cercar la bella morte, Mondadori, Milano 1986, e I balilla andarono a Salò, Marsilio, Venezia 1997. Importante è stata poi la pubblicazione del libro dello storico Roberto Vivarelli, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2000. L’autore, stimato professore di sentimenti antifascisti, ha rivendicato con orgoglio la propria giovanile militanza nella Repubblica sociale italiana. Ciò ha suscitato clamore e acceso un intenso dibattito. 28 Cfr. F. Guiglia, Un 8 settembre senza steccati, in «Il Giornale», 8 settembre 1993 (favorevole all’iniziativa), e Tra ex partigiani e repubblichini niente strette di mano, in «l’Unità», 7 settembre 1993 (contro l’iniziativa).

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nell’alveo della tradizione commemorativa della Resistenza. Scalfaro non mancava di ricordare «la memoria di tutti i morti, di ogni fronte, di ogni battaglia», ma richiamava altresì con fermezza la necessità di distinguere fra quanti erano caduti per la libertà e quanti invece dalla parte della dittatura: «fu grave follia la guerra, lo sterminio, le stragi, fu eroismo l’avere ubbidito al forte richiamo della libertà per la patria»29. «Solo il leale rispetto della verità – egli affermava – può essere base sicura per una vera pacificazione». Le reazioni suscitate nel partito di Fini dalle parole del presidente erano indicative delle aspettative che in realtà si nutrivano dietro la richiesta di «pacificazione». Il parlamentare missino Mirko Tremaglia, già aderente alla Repubblica sociale, esprimeva «rammarico» e affermava che il suo partito avrebbe continuato la battaglia, non solo per la pacificazione, ma anche per la «parificazione», sia dei caduti sia degli ex combattenti30. Superare le divisioni della guerra civile significava evidentemente pretendere pari dignità storica e morale fra le due parti in lotta. La pressione politica per una «riconciliazione nazionale» è cresciuta dopo il successo elettorale dello schieramento di centro-destra nel marzo 1994, sotto l’urgenza di una legittimazione piena e definitiva del Msi, storicamente escluso dall’ambito di governo per le sue radici nel fascismo storico, ma affermatosi alle elezioni come una delle componenti principali della coalizione vittoriosa31. In occasione del 25 aprile 1994 il segretario del partito, Gianfranco Fini, rilasciava un’intervista al «Corriere della Sera» in cui auspicava che l’anniversario della Liberazione avesse un significato «antitotalitario» e costituisse «il primo giorno di un anno della riconciliazione» per «tutta la collettività nazionale»32. Fini com29

Cfr. F. Guiglia, L’ora della pacificazione, in «Il Giornale», 9 settembre

1993. Ibid. Alle elezioni del 27-28 marzo 1994 il Msi ha ottenuto il 13,5 per cento dei voti, il miglior risultato elettorale della sua storia. Sull’ingresso del Msi-An al governo cfr. P. Ignazi, Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 99-111. 32 P. Franchi, Fini: il mio 25 aprile? Antitotalitario, in «Corriere della Sera», 23 aprile 1994. Per un’attenta ricostruzione del dibattito pubblico in occasione del 25 aprile 1994, cfr. L. Baldissara, Auf dem Weg zu einer bipolaren Geschichtsschreibung? Der öffentliche Gebrauch der Resistenza in einer geschichtslosen Ge30 31

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piva dunque un importante gesto simbolico: partecipava a Roma a una messa in onore di tutti i caduti33. Era la prima volta che un esponente missino prendeva parte a una celebrazione del 25 aprile. «Spero che questa ricorrenza – affermava Fini – sarà considerata la data in cui è finita la seconda guerra mondiale e in cui è cominciata la riconciliazione fra gli italiani». A suo giudizio, non si trattava «di riscrivere la storia, ma di consegnare alla storia i tragici avvenimenti di mezzo secolo fa, per risanare e ricostruire il tessuto morale, economico e istituzionale del Paese». Dal presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, proveniva una risposta all’insegna dell’appello alla moderazione degli animi (il 25 aprile non doveva essere «una giornata di odio anacronistico»), ma salda nel ribadire la memoria della Resistenza34. A sua volta, il ministro Leopoldo Elia confermava il messaggio di Scalfaro dell’anno precedente. Citando parole di Norberto Bobbio35, Elia sosteneva che non si poteva «confondere pacificazione con riconciliazione, in quanto non è possibile riconciliare la tirannide con la libertà»36. Significativo era il richiamo fatto da Fini all’esigenza di «risanare e ricostruire il tessuto morale, economico e istituzionale del Paese». L’appello alla riconciliazione nazionale lanciato dalla destra era infatti motivato dall’esigenza di fondare un nuovo patriottismo al di là della contrapposizione fascismo/antifascismo. Di fronte allo smottamento della Prima Repubblica e alle minacce di sgretolamento dell’assetto unitario del paese rese manifeste dall’ondata leghista, la destra post-fascista rivendicava l’urgenza di costruire una memoria storica condivisa da tutti gli italiani come base di una comune identità nazionale. La contrapposizione fascismo/antifascismo (e dunque la memoria della Resistenza che su quella si fondava) andava «consegnata alla storia» perché non avrebbe più attivato sentimenti di riconoscimento e di identificazione. Nel gennaio 1995, a Fiuggi, il XVII congresso del Msi, nel genwart, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LXXXII, 2002, pp. 599-604. 33 Cfr. F. Guiglia, Il Requiem di Fini al fascismo, in «Il Giornale», 26 aprile 1994; Fini prega anche per i partigiani, in «Corriere della Sera», 26 aprile 1994. 34 Cfr. G. Credazzi, Non portiamo in piazza la sconfitta, in «Corriere della Sera», 25 aprile 1994. 35 Cfr. N. Bobbio, Democratici e no, in «La Stampa», 25 aprile 1994. 36 Cfr. C.G., Scalfaro: è riconfermata l’unità del nostro popolo, in «Corriere della Sera», 26 aprile 1994.

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sancire l’atto di nascita di Alleanza nazionale, affermava nelle tesi politiche la necessità di «sciogliere tutti i fasci»: non solo il fascismo, ma anche l’antifascismo37. A proposito di quest’ultimo, se si riconosceva che esso «fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato», si negava però che costituisse «un valore a se stante e fondante» poiché nel dopoguerra era diventato lo strumento ideologico adoperato dai paesi comunisti e dal Pci per la propria legittimazione. La critica post-fascista all’antifascismo e alla Resistenza recepiva l’importante dibattito sull’identità nazionale italiana sollecitato proprio in quegli anni da storici come Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia, che asserivano il carattere esiziale per l’identità nazionale del «trauma» dell’8 settembre, letto come «morte della patria», e rilevavano l’incapacità dei partiti antifascisti e della Repubblica da essi fondata di riparare a quel trauma e a quel decesso38. Ampiamente rilanciata dai mass-media – fra cui, in prima fila, il maggior quotidiano nazionale, il «Corriere della Sera», impegnato in un’attiva campagna politico-culturale39 – questa tesi aveva guadagnato velocemente largo credito nell’opinione pubblica. Da qui una diffusa disponibilità a cercare nuove radici per l’identità nazionale ‘al di là’ del retaggio antifascista della Resistenza e il favore riscosso dalla domanda di «riconciliazione». 37 Cfr. Pensiamo l’Italia, il domani c’è già. Valori, idee e progetti per l’Alleanza nazionale, supplemento del «Secolo d’Italia», 7 dicembre 1994. 38 Cfr. R. De Felice, Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Baldini & Castoldi, Milano 1995; E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione dopo la seconda guerra mondiale, in G. Spadolini (a cura di), Nazione e nazionalità in Italia. Dall’alba del secolo ai nostri giorni, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 125-61; E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996. Per una risposta critica a queste tesi cfr. G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995; G. De Luna, M. Revelli, Fascismo/antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Firenze 1995; P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995; M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 62-72; M. Isnenghi, La polemica sull’8 settembre e le origini della Repubblica, in Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo, cit., pp. 241-72. 39 Sul «Corriere della Sera» si veda, per esempio, l’anticipazione del volume di Galli della Loggia (E. Galli della Loggia, Resistenza, così è morta la patria, in «Corriere della Sera», 9 marzo 1996) e la recensione di D. Cofrancesco, Tutti orfani della patria, sul numero del 26 marzo 1996.

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L’occasione di rilanciare un forte appello alla «pacificazione» nazionale è stata offerta nel 1995 dalla ricorrenza del cinquantesimo anniversario della Liberazione40. Alla vigilia del 25 aprile i giovani di Alleanza nazionale rivolgevano al presidente Scalfaro un messaggio in cui si sottolineava l’esigenza per il popolo italiano di «un nuovo patto nazionale», che non poteva più essere «quello basato sul valore contrappositivo dell’antifascismo»41. Analogo era l’appello lanciato dal quotidiano del partito che auspicava «il superamento degli odii della guerra civile per ricostruire l’Italia»42. Lo stesso significato aveva anche la visita al Milite Ignoto resa da Fini, insieme al coordinatore di Forza Italia Cesare Previti e al senatore del Ccd D’Onofrio, in occasione della quale l’ex partigiano monarchico Edgardo Sogno e due ex «ragazzi di Salò», Carlo Mazzantini e Bartolo Gallitto, deponevano una corona di fiori, con la dedica: «Ai fratelli caduti, i fratelli riconciliati»43. Anche questa volta, però, le aspettative di Fini e più in generale dello schieramento di centro-destra andavano deluse. Il presidente Scalfaro pronunciava infatti le stesse parole scandite l’8 settembre 1993: «pacificazione sì, ma nella verità». Scalfaro rinnovava l’invito alla «concordia» e al «rispetto per l’avversario», ma, criticando la «voglia di amnesia» diffusa nel paese, riaffermava che «solo il rispetto della storia e della verità» poteva essere «la base per la riconciliazione»44. Il presidente riconosceva che «errori» potevano essere stati fatti «anche dalla parte che lottava per la libertà», così come ammetteva che «anche dalla parte sbagliata c’erano giovani convinti di servire la Patria». Tuttavia egli ribadiva come imprescindibile il valore della Resistenza. Solo dal suo riconoscimento, infatti, poteva «nascere la pacificazione invocata perché il 25 aprile sia davvero una festa di tutti». L’offensiva sulla memoria lanciata negli anni Novanta dalla destra post-fascista ha individuato esattamente l’obiettivo da colpire – quel «paradigma antifascista» già seriamente danneggiato nel Cfr. Baldissara, Auf dem Weg, cit., pp. 609-14. L’appello è stato pubblicato sul «Secolo d’Italia» il 25 aprile 1995. 42 A. Giorleo, Un 25 aprile di riconciliazione, in «Il Secolo d’Italia», 25 aprile 1995. 43 25 aprile, cerimonia di riconciliazione, ivi, 23 aprile 1995. 44 Scalfaro: difendiamo la Costituzione, in «Corriere della Sera», 26 aprile 1995. 40 41

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decennio precedente –, mentre si è mostrata più reticente nel proporre date e luoghi simbolici da celebrare in alternativa a quelli della tradizione resistenziale. Si è dunque erta a paladina dei neoacquisiti valori liberaldemocratici contro la ‘contaminazione’ dell’antifascismo di matrice comunista e ha ventilato in modo generico il proposito di dedicare una giornata alle vittime del comunismo. Questo risulta se si analizza il livello delle dichiarazioni pubbliche dei suoi rappresentanti politici. L’esame delle rievocazioni storico-giornalistiche presenta al contrario una realtà diversa, ovvero la continuità di una «narrazione» ancora profondamente permeata dalla vulgata neofascista45. È quanto emerge osservando i commenti pubblicati sul «Secolo d’Italia» e sul «Giornale» in occasione della ricorrenza del cinquantenario dell’8 settembre e del 25 aprile. L’8 settembre, ad esempio, è stato presentato secondo un vecchio cliché come il «giorno del disonore»46, l’inizio del «fratricidio» fra italiani (come ha scritto anche Montanelli47), l’inizio delle tribolazioni del paese consegnato alla spietata sete di vendetta dei tedeschi (frenati unicamente dalla Rsi)48 e alla violenza antitaliana degli infoibatori di Tito49. Non diverso è stato il trattamento riservato al 25 aprile. Accanto alla critica, dichiaratamente ispirata a De Felice, della Resistenza come fenomeno elitario di una minoranza combattente50 e all’accusa (infondata) rivolta alla storiografia e alla memoria pubblica antifasciste di aver sottaciuto l’apporto alla Resistenza della componente militare, è infatti com45 Dubbi sull’effettivo cambiamento in senso liberale di Alleanza nazionale ha espresso Roberto Chiarini, che ha descritto un partito preso fra «vecchio nostalgismo di maniera e nuovo liberalismo di facciata». Cfr. R. Chiarini, M. Maraffi (a cura di), La destra allo specchio. La cultura politica di Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia 2001, p. 26. 46 Cfr. A. Giovannini, 8 settembre 1943, il giorno del disonore, e F. Massobrio, Il giorno del disonore, in «Il Secolo d’Italia», 8 settembre 1993. 47 I. Montanelli, La disfatta continua, in «Il Giornale», 8 settembre 1993. 48 Cfr. Giovannini, 8 settembre 1943, cit. 49 Cfr. B. Borlandi, E fu genocidio sul fronte istriano-dalmata, in «Il Secolo d’Italia», 8 settembre 1993. 50 Cfr. De Felice, Rosso e nero, cit., e Id., Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997. De Felice legge la lotta di liberazione come una guerra civile combattuta da due opposti «attivismi» minoritari, partigiani e forze della Repubblica sociale, fra i quali si situerebbe la vasta «zona grigia» della maggioranza «attendista» del popolo italiano.

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parsa anche una «narrazione» di segno genuinamente neofascista. Ci riferiamo, ad esempio, a quella avanzata da Piero Buscaroli51 sulla prima pagina del «Giornale», divenuto sotto la direzione di Vittorio Feltri il quotidiano d’opinione di riferimento per l’area del centro-destra52. Buscaroli ha riproposto una trama intessuta di argomenti tipici e inequivocabili: la Repubblica sociale esaltata nella sua funzione di «scudo» protettivo, per evitare che l’Italia fosse trasformata dalla Wehrmacht in una «seconda Polonia»; Mussolini «buon italiano» che «accettò l’umiliazione di governare» perché comprese che le «sole difese» rimaste all’Italia erano «l’amicizia e il riguardo» nutriti nei suoi confronti da Hitler53; l’azione nefasta dei comunisti che imposero al paese «una privata guerra civile» che si sovrappose e cancellò la ‘resistenza’ (virgolettato nel testo) dinastica e democratica e, soprattutto, fece naufragare l’opera di salvataggio nazionale della Rsi; l’inconsistenza militare della Resistenza, le cui azioni sarebbero anzi da stigmatizzare in quanto avrebbero prodotto le rappresaglie tedesche e reso «tremendo il contributo di sangue innocente» pagato dal paese; l’attribuzione della vittoria esclusivamente agli Alleati, cui spetterebbe il merito altrettanto esclusivo della «presente democrazia»; il ricordo della «brutale occupazione» di Trieste e della Venezia Giulia operata nella primavera del 1945 dai «banditi di Tito»; infine, la «strage dei vinti», compiuta in Italia dopo il 25 aprile dai comunisti, «convinti di aprirsi, con tale ‘pulizia’ sociale e politica, la via al potere». Come appare evidente, dietro agli appelli alla «riconciliazione» e al riconoscimento dell’importanza storica della Resistenza per il ritorno della libertà nel paese, ha continuato a circolare un forte filone nostalgico intriso di aspettative di revanche. La formula «Sciogliere tutti i fasci» si è tradotta dunque, nella prassi, nel tentativo di screditare politicamente e storicamente un antifascismo già tartassato, per «riabilitare», almeno da un punto di vista 51 Intellettuale e giornalista, ha collaborato al «Borghese» di Leo Longanesi ed è stato poi direttore dal 1970 al 1974 del quotidiano «Roma» di Napoli. 52 Cfr. P. Buscaroli, Il 25 aprile, un giorno come un altro, in «Il Giornale», 24 aprile 1995. 53 Anche a proposito del ruolo della Rsi e di Mussolini si trovano evidenti punti di convergenza con le tesi di Renzo De Felice (cfr., per esempio, De Felice, Rosso e nero, cit., pp. 112-20).

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storico e morale, il fascismo e l’esperienza di Salò. Nell’ottobre del 1992 il Msi aveva commemorato a piazza Venezia la ricorrenza del settantesimo anniversario della marcia su Roma all’insegna di camicie nere e saluti romani spavaldamente ostentati54. Due anni dopo Gianfranco Fini aveva eletto Mussolini «il più grande statista del secolo»55. Pare sussistere un robusto filo di continuità fra episodi come questi, poi sconfessati con la svolta di An e il quadro fornito dalla stampa di partito e di area. Una continuità che è stata confermata dalla politica della memoria portata avanti sul territorio da Alleanza nazionale, col sostegno delle altre forze di centro-destra, grazie alle posizioni di governo conquistate prima a livello locale e poi, dopo le elezioni del maggio 2001, a livello nazionale. La discussa mozione con cui il 9 novembre 2000 il Consiglio regionale del Lazio si è impegnato, su proposta del partito di Fini, a costituire una «Commissione di esperti sui testi scolastici» ha rivelato il proposito di esercitare un controllo e un indirizzo sulla produzione storiografica e sull’apprendimento del sapere storico56. Al di là dei propositi, una «riscrittura» della storia è stata di fatto avviata attraverso la proposta di una nuova toponomastica. In nome di un «passato riconciliato», si sono fatte sempre più numerose le iniziative per dedicare vie, piazze o edifici pubblici a personaggi e gerarchi fascisti. Sul lungomare di Bari è stato inaugurato un busto in bronzo in ricordo del podestà e ministro di Mussolini Araldo di Crollalanza, a Legnano si è dedicata una via a Carlo Borsani, eroe di guerra e virulento portavoce della Rsi57, a L’Aquila il sindaco di Forza Italia (ma ex missino) Biagio Tempesta ha deciso di intestare la nuova piscina comunale ad Adelchi Serena, già segretario nazionale del Partito fascista. Numerose sono state le proposte di intitolare strade a Giorgio AlCfr. Ignazi, Postfascisti?, cit., p. 92. Cfr. A. Statera, Il migliore resta Mussolini, in «La Stampa», 1° aprile 1994. 56 Sul dibattito suscitato dall’iniziativa cfr. L. Baldissara, Di come espellere la storia dai manuali di storia. Cronache di una polemica autunnale, in «Sissco. Il mestiere di storico», Annale II, 2001, pp. 62-80 (http://www.sissco.it/pubblicazioni/annali/annale2/baldissara.htm). 57 Cfr. Il sindaco: «Una piazza per il portavoce di Salò». E l’Anpi in corteo dice no, in «l’Unità», 26 aprile 1996 e A. Biotti, Carlo Borsani eroe della pacificazione. E a 50 anni dalla morte Legnano gli dedica una piazza, in «Il Secolo d’Italia», 21 aprile 1995. 54 55

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mirante, leader storico del Msi, coinvolto nella persecuzione antiebraica durante la Repubblica sociale. In un paesino in provincia di Catania, a Tremestieri Etneo, la giunta guidata dal sindaco di Alleanza nazionale, Guido Costa, ha addirittura deciso di dedicare una delle strade principali a «Benito Mussolini. Statista». Decisione poi bloccata dall’intervento del prefetto. Questa frenetica attività ha suscitato vibrate proteste a sinistra58, ma anche l’allarme dell’opinione pubblica moderata e richiami autorevoli a Fini perché esercitasse un maggior controllo sul suo partito59. Gli anni che seguono il successo elettorale del centro-destra nel 2001 hanno segnato una nuova fase. Si è completato il percorso di legittimazione democratica compiuto da Gianfranco Fini, nuovo vicepresidente del Consiglio, che nell’ottobre 2004 ha ottenuto l’importante dicastero degli Esteri, prova del conseguimento di una legittimazione anche internazionale. La rottura con l’ingombrante passato fascista è stata incentrata da Fini sulla resa dei conti con l’antisemitismo e la persecuzione antiebraica60. Il processo è passato attraverso la visita nel giugno 2001 alla Risiera di San Sabba a Trieste61, unico campo tedesco in Italia con forno crematorio; è continuato con l’intervista rilasciata al giornale israeliano «Ha’aretz» nel settembre 2002 con la richiesta di perdono per le leggi razziali62; è culminato nel viaggio in Israele compiuto nel novembre 2003 con la condanna delle «infami leggi razziali del 1938 volute dal fascismo», giudicato – in quanto corresponsabile della Shoah – un «male assoluto»63. Presentato dalla destra come sanzione del nuovo corso liberale di Alleanza nazioM. Sartori, Italia, torna il fascismo, in «l’Unità», 27 ottobre 2001. Cfr. P. Mieli, Strade intitolate a Mussolini? È ora di smetterla, in «Corriere della Sera», 3 novembre 2001. 60 Sul rapporto nel dopoguerra fra la destra italiana e l’antisemitismo cfr. G. Scipione Rossi, La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 61 Nel 1999 Fini aveva visitato il campo di sterminio di Auschwitz. 62 Cfr. M. Galluzzo, Leggi razziali, Fini chiede perdono come italiano, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2002, e Ebrei, il mea culpa di Fini «perdono per le leggi razziali», in «la Repubblica», 13 settembre 2002, che riproduce ampi brani dell’intervista a Fini. 63 Cfr. Fini in Israele: «Le leggi razziali sono infami», in «Corriere della Sera», 24 novembre 2003; U. De Giovannangeli, Fini in Israele: «Il fascismo è un male assoluto», in «l’Unità», 25 novembre 2003. Il viaggio di Fini si è svolto dal 23 al 26 novembre. 58 59

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nale, il significato dei gesti di Fini è stato messo in discussione da autorevoli commentatori di parte avversa, che hanno apprezzato l’iniziativa personale del vicepresidente del Consiglio, dubitando però dell’orientamento reale del suo partito64. Alcune reazioni negative all’interno di Alleanza nazionale, come l’uscita di Alessandra Mussolini, sembrano aver fornito una conferma a queste obiezioni. Ma è soprattutto l’uso strumentale che il partito ha fatto del passo compiuto da Fini in Israele a dimostrare la fondatezza delle critiche: la condanna della persecuzione antiebraica è stata infatti assunta negli ambienti di Alleanza nazionale come una definitiva «resa dei conti» col fascismo («gli esami sono finiti»), che autorizzerebbe da ora in poi a parlare senza remore dei meriti storici del regime e a incalzare gli avversari affinché facciano a loro volta piena ammenda dei crimini del comunismo. Gli anni del secondo governo Berlusconi sono stati in effetti caratterizzati da una ripresa in grande stile della polemica anticomunista su temi che riguardano la Resistenza65. Già in campagna elettorale erano apparse accuse trancianti al Pci, incolpato di aver mirato con l’attentato di via Rasella all’eliminazione fisica delle altre componenti politiche della Resistenza romana, falciate dai tedeschi alle Fosse Ardeatine66. Accuse di questo genere sono state presto rinnovate. Ad esempio, l’omicidio del filosofo Giovanni Gentile è stato addebitato a un presunto disegno togliattiano di sgominare politicamente gli alleati del Partito d’Azione67. Ma è 64 Cfr., per esempio, M.L. Salvadori, Ma il partito deve mostrare coerenza, in «la Repubblica», 13 settembre 2002 (sull’intervista di Fini a «Ha’aretz»); N. Tranfaglia, Fascismo, chi si è ribellato, in «l’Unità», 26 novembre 2003, e E. Scalfari, Fini apre la corsa a Palazzo Chigi, in «la Repubblica», 7 dicembre 2003 (dopo la visita di Fini in Israele). 65 Per una valutazione critica dell’azione del governo Berlusconi cfr. G. Santomassimo (a cura di), La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, Il Saggiatore, Milano 2003. 66 Cfr. P. Guzzanti, La strage della verità, in «Il Giornale», 20 dicembre 2000, e R. Farina, L’ex segretario di Togliatti: le fosse Ardeatine volute dal Pci, in «Libero», 20 aprile 2001. 67 Cfr., ad esempio, il libro di Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Le Lettere, Firenze 2004, e la recensione di Antonio Carioti, Gentile. «Fu Palmiro Togliatti il mandante morale del delitto», in «Corriere della Sera», 29 ottobre 2004. Secondo Perfetti, uno dei capofila del nuovo revisionismo, con l’omicidio di Gentile Togliatti avrebbe mirato a indebolire il Partito d’Azione, i cui esponenti di punta erano per lo più di formazione culturale gentiliana.

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soprattutto sulle efferatezze partigiane dell’immediato dopoguerra contro gli sconfitti che è stata alimentata la campagna anticomunista, che ha sfruttato il libro pubblicato nell’ottobre 2003 da Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti68. Il volume, che si basa disinvoltamente su fonti storiografiche serie e su fonti memorialistiche assai meno affidabili, è stato potentemente reclamizzato ed è diventato presto un caso editoriale con centinaia di migliaia di copie vendute nelle librerie e nei supermercati69. Il fatto che Pansa sia un noto giornalista di cultura antifascista è stato presentato come certificato di indiscussa veridicità del suo racconto. Il serrato confronto sulla memoria, oggetto sulla stampa e nelle televisioni di un dilagante uso politico, ha caratterizzato anche le celebrazioni dell’anniversario del 25 aprile. Di fronte alla mobilitazione del centro-sinistra, il governo ha rilanciato il consueto appello alla «pacificazione» già avanzato negli anni Novanta. Nel messaggio diramato per il 25 aprile 2002, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha espresso l’augurio di «una definitiva riconciliazione nazionale all’insegna dei valori condivisi della libertà, della democrazia e della Patria»70. Ma l’appello a fare del 25 aprile «una festa di tutti», che si richiama ai messaggi di concordia nazionale del presidente Ciampi, si è scontrato con la realtà di una contrapposizione politica non ricomposta dal momento celebrativo. Il 25 aprile è diventato la festa dell’opposizione che riempie le piazze. Mentre è spiccata l’assenza istituzionale del presidente del Consiglio. Berlusconi non ha partecipato ad alcuna celebrazione pubblica nel 200271; ha disertato l’anno successivo la grande festa organizzata per la prima volta al Quirinale dal presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi72; ha preferito riti-

Il libro è edito da Sperling & Kupfer. Per una critica efficace e radicale alla campagna organizzata dalla destra sul Sangue dei vinti, cfr. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 26-29. 70 Cfr., per esempio, I morti non hanno colore e vanno rispettati, in «Il Secolo d’Italia», 26 aprile 2002; F. De Feo, Ciampi: basta vendette. Berlusconi: è l’ora della riconciliazione, in «Il Giornale», 26 aprile 2002. 71 Cfr. M. Mafai, Le vacanze del Cavaliere, in «la Repubblica», 26 aprile 2002. 72 Cfr., per esempio, V. Vasile, Ciampi spiega la Costituzione a Berlusconi, in «l’Unità», 26 aprile 2003. 68 69

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rarsi nelle sue abitazioni private anche nel 200473. Se la sinistra ha sfruttato il 25 aprile come occasione di mobilitazione antigovernativa, anche la destra non ha tenuto fede ai concilianti appelli unitari e ha trovato più congeniale la polemica contro gli avversari. Ha questo sapore l’omaggio che il presidente del Consiglio Berlusconi e il presidente del Senato Pera hanno rivolto il 25 aprile 2002 alla memoria di Edgardo Sogno74, prode partigiano liberale di cui è noto l’impegno anticomunista nel dopoguerra (e altresì il coinvolgimento reo confesso in progetti di golpe autoritari)75. La figura di Sogno è diventata il simbolo della Resistenza di segno governativo, conciliante a parole ma separata e antagonista di fatto76. Sempre per l’anniversario del 25 aprile 2002, che è caduto poco dopo l’omicidio di Marco Biagi compiuto dalle Brigate Rosse, vi sono stati espliciti moniti alla sinistra perché prendesse nettamente le distanze da una lettura «militante» della Resistenza, accusata di essere stata fonte di ispirazione del terrorismo rosso negli anni Settanta. Il riferimento è stato fatto da «Il Foglio» di Giuliano Ferrara77 che ha preso di mira i cosiddetti «girotondi», sorti sulla spinta emotiva dell’appello lanciato dal procuratore di Milano, Saverio Borrelli, a «resistere» a oltranza al nuovo governo. «La mitologia della Resistenza tradita – ha messo in guardia «Il Foglio» – è stata, in questo dopoguerra, la nutrice di quasi tutte le pulsioni estremistiche e antidemocratiche di sinistra, come quella della vittoria mutilata era stata, dopo la grande guerra, la base ideologica dell’eversione fascista». L’infiltrazione del terrorismo nelle manifestazioni organizzate dalla sinistra per celebrare il 25 aprile a Milano è stata apertamente condannata dal «Giornale»78 e dal

73 Cfr., per esempio, B. Jerkov, Le tante assenze di Berlusconi, in «la Repubblica», 25 aprile 2004. 74 Cfr. I morti non hanno colore, cit., e De Feo, Ciampi: basta vendette, cit. 75 Cfr. E. Sogno, Testamento di un anticomunista. Dalla Resistenza al Golpe bianco, intervista con A. Cazzullo, Mondadori, Milano 2000, pp. 137 sgg. 76 Nel suo messaggio Berlusconi ha elogiato Sogno come «un patriota che ha combattuto strenuamente per l’onore dell’Italia [...] un combattente della libertà che si è opposto in egual misura al fascismo, al nazismo e al comunismo». 77 Cfr. W il 25 aprile, ma..., in «Il Foglio», 25 aprile 2002. 78 Cfr. G.B. Guerri, La festa della faziosità, in «Il Giornale», 26 aprile 2002; P. Fucilieri, E con i centri sociali sfilano gli amici delle BR, ivi.

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«Secolo d’Italia»79. Un editoriale su quest’ultimo ha stigmatizzato la «deriva radicale di settori consistenti dell’opposizione» e giudicato i «post-comunisti» bloccati «in un limbo attraversato da scorie totalitarie»80. Anche l’anno successivo, la celebrazione della Liberazione è nata sotto il segno della polemica, innescata dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio contro l’«impronta sovietica» della Costituzione italiana81 e del portavoce di Forza Italia, Sandro Bondi, su presunte responsabilità comuniste per la strage di Marzabotto82. Sia nel 2002 che nel 2003 camera di scoppio delle tensioni fra governo e opposizione è stata la città di Trieste. Giunta comunale e provinciale di centro-destra hanno deciso di celebrare nel 2002 la Liberazione rendendo omaggio non solo alla Risiera di San Sabba, luogo simbolo della Resistenza triestina83, ma anche alla foiba di Basovizza. L’iniziativa della doppia cerimonia, presentata come atto di pietas verso «tutti i caduti per la libertà», ha avuto un chiaro carattere antiresistenziale suscitando vibrate proteste. Alla Risiera di San Sabba hanno avuto luogo due celebrazioni separate: quella istituzionale (contestata) e quella delle associazioni antifasciste84. Le proteste si sono rinnovate l’anno successivo per una clamorosa gaffe del sindaco di Trieste Roberto Di Piazza che, dopo un discorso dai toni suadenti tenuto a San Sabba, ha chiuso l’intervento chiedendo «Onore ai martiri delle foibe»85. Se si esclude la componente moderata della coalizione di governo, l’Unione dei democratici cristiani di Casini e Follini che si richiama al retaggio della Resistenza di ispirazione cattolica, le al79 A.T., Disobbedienti e resistenti in corteo. A Milano effigi di Stalin e la stella delle BR, in «Il Secolo d’Italia», 26 aprile 2002. 80 A. Di Lello, La storia non è un’arma impropria, ivi. 81 Cfr., per esempio, G. Luzi, Un’impronta sovietica nella nostra Costituzione, in «la Repubblica», 13 aprile 2003. 82 Cfr., per esempio, C. Fusani, Il centrodestra all’attacco della festa del 25 aprile, in «la Repubblica», 23 aprile 2003. Bondi aveva accusato i partigiani comunisti di aver agito senza tener presente le possibili reazioni delle forze nazifasciste contro la popolazione civile. 83 Nel campo di sterminio furono uccise circa 5.000 persone. 84 Cfr. Rabbia a Trieste e Bologna. Sputi e monete contro i politici, in «la Repubblica», 25 aprile 2002. Fra i commenti critici cfr. G.A. Stella, La guerra dei fantasmi, in «Corriere della Sera», 26 aprile 2002. 85 Cfr., per esempio, C. Brambilla, Trieste, la gaffe del sindaco, in «la Repubblica», 26 aprile 2003.

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tre componenti, da Forza Italia ad An alla Lega, hanno mostrato evidenti difficoltà nei confronti della festa del 25 aprile. Coerentemente non sono mancate voci autorevoli che ne hanno chiesto l’abolizione come ha fatto padre Gianni Baget Bozzo, uno dei principali consiglieri di Berlusconi86. Altrettanto coerenti sono stati i tentativi, promossi soprattutto da An, di spostare il significato delle celebrazioni del 25 aprile, scegliendo nuovi luoghi simbolici, fino a proporre una nuova memoria pubblica con proprie date da celebrare. Il caso di Trieste è da questo punto di vista molto significativo. Città segnata da memorie contrapposte, con una forte memoria anticomunista (e antislava) coltivata dal Movimento sociale prima e da Alleanza nazionale poi, Trieste è diventata il perno della politica della memoria condotta negli anni Duemila dal partito di Fini, grazie soprattutto all’impegno di Roberto Menia, parlamentare di An e uomo forte dell’amministrazione locale triestina. Accanto alla memoria della Resistenza e in competizione con essa è stata intrapresa la costruzione di un’altra memoria pubblica, incentrata sul ricordo delle foibe e delle vicende del confine orientale. Anche qui il primo passo è stato compiuto a livello di toponomastica, con strade e piazze dedicate in tutta Italia «ai martiri delle foibe». Il processo è culminato nell’istituzione di un «Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale», approvata con la legge 92 del 30 marzo 2004. Il «giorno del ricordo» cade il 10 febbraio, data della firma del trattato di pace nel 1947 che sancì la perdita dei territori orientali e il conseguente esodo di oltre 300 mila italiani. L’approvazione della legge ha trovato l’opposizione solo di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, non delle altre forze del centro-sinistra87. Anche a livello locale, del resto, la dedica di strade «ai martiri delle foibe» è passata spesso, come a Firenze, col voto di giunte di sinistra. Si è così voluto compiere da quella parte politica un doveroso atto di pietà e insieme ricorContro le dichiarazioni di Baget Bozzo si veda la presa di posizione della Fondazione corpo volontari della libertà del 20 novembre 2002 (http://www. anpi.it/dichiarazioni/cvl_211002.htm). 87 Contro la legge, cfr. G. Polo, La storia in gioco, in «il manifesto», 11 febbraio 2004. 86

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dare una pagina drammatica e poco nota della storia nazionale88. Ma con ciò il centro-sinistra ha lasciato aperto il campo alla «narrazione» elaborata dalla destra post-fascista, che ha riproposto, con maggiore autorevolezza e capacità di presa sul pubblico, la vecchia vulgata missina89. Questa tace ogni responsabilità del fascismo per la politica di snazionalizzazione forzata messa in atto contro sloveni e croati, tace la sanguinosa repressione seguita all’occupazione italiana della Jugoslavia dopo il 1941, e celebra i caduti delle foibe come «martiri» della nazione, vittime incolpevoli dell’odio antitaliano dei comunisti di Tito, senza distinguere fra gli innocenti trucidati solo per il proprio passaporto e quanti furono invece presi di mira perché responsabili di precedenti violenze e soperchierie contro la popolazione slava, vittime di una vendetta crudele e selvaggia ma non immotivata90. L’umano sentimento di pietà per tutti i morti, trascurando il valore delle azioni compiute dai vivi, rischia alla fine di rendere ragione alla vecchia tesi neofascista che glorifica l’«azione patriottica» svolta dalle forze di Mussolini che combatterono dopo l’8 settembre 1943 nella Venezia Giulia contro la Resistenza italiana e jugoslava. Se si passa a osservare il campo opposto, cioè l’area politica e culturale che si richiama all’antifascismo, negli anni Novanta si possono rilevare atteggiamenti diversi e i segnali di alcuni importanti mutamenti che investono la memoria della guerra. 88 Le stime più attendibili calcolano a circa 5.000 gli italiani vittime degli uomini di Tito, in parte «infoibati», in parte deceduti o uccisi nei campi di internamento jugoslavi. Le uccisioni non furono dovute tanto a uno scoppio di violenza incontrollata, ma furono piuttosto il frutto di un preciso disegno delle forze del movimento di liberazione jugoslavo volto ad ottenere l’annessione dei territori italiani della Venezia Giulia. Cfr. la voce Foibe curata da Tristano Matta in Collotti, Sandri, Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, cit., pp. 377-80; R. Pupo, S. Spazzali, Foibe, Mondadori, Milano 2003; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esodo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 61-102. 89 Sulla contesa memoria delle foibe cfr. G. Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997, e Id., Le foibe: una storia per la memoria, in L. Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 379-95. 90 Cfr. E. Collotti, Foibe: tra propaganda neofascista e vulgata giornalistica, in «Nuvole», XI, settembre 2001, 1, pp. 20-22 (contro il progetto di legge, approvato dalla Camera dei Deputati nel marzo 2001, che prevedeva la concessione di un riconoscimento ai congiunti delle vittime delle foibe).

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Non è mancata da parte di alcuni esponenti della sinistra una disponibilità ad aprire un dialogo sulla memoria, con un atteggiamento che è giunto in certi casi fino a condividere le proposte di «revisione» della memoria storica della destra in nome della «riconciliazione». In questo senso si possono giudicare iniziative come quella dell’allora sindaco di Roma, Francesco Rutelli, che nel 1995 propose di dedicare una via a uno dei massimi gerarchi del fascismo, Giuseppe Bottai91, o la proposta dell’ex sindaco di Trieste, Riccardo Illy, di sostituire il 25 aprile con un altro giorno di festa in cui ricordare le «vittime di ogni totalitarismo» (proposta subito fatta propria da molti esponenti del centro-destra)92. Un esame a parte merita l’azione controversa dell’ex presidente della Camera, l’esponente dei Democratici di sinistra Luciano Violante, per alcuni anni il fautore più convinto della necessità di superare le cosiddette «memorie contrapposte». Nel suo discorso d’insediamento, il 9 maggio 1996, Violante ha rilevato come la Resistenza non appartenesse ancora alla «memoria collettiva dell’Italia repubblicana» e ha posto la questione della mancanza in Italia di «valori nazionali comunemente condivisi». Chiedendosi cosa fare «perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale», il presidente della Camera ha quindi invitato il paese a riflettere sui «vinti di ieri; non perché avessero ragione», né per «sposare [...] una sorta di inaccettabile parificazione fra le parti, bensì – come egli ha sottolineato – perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per cui migliaia di ragazzi, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà». L’esigenza di «capire», di «leggere tutte le pagine» della storia nazionale, fra cui la vicenda dei «ragazzi di Salò» e delle foibe, è stata ribadita da Violante in un incontro con Gianfranco Fi91 La proposta fu poi ritirata per le proteste sollevate. Cfr. R. Gagliardi, I futuri Bottai, in «il manifesto», 8 settembre 1995; S. Gentili, G. Mele, Bottai non vale una targa, ivi (contro la proposta); G. Malgeri, Un gesto di civiltà, in «Il Secolo d’Italia», 5 settembre 1995; G. Zincone, Chi ha paura di Bottai?, in «Corriere della Sera», 15 settembre 1995 (a favore della proposta). 92 La proposta è stata avanzata da Illy il 25 febbraio 2000. Contro la proposta del sindaco progressista e a difesa del 25 aprile veniva diffuso il 1° marzo un appello di alcune importanti figure della Resistenza, fra le quali Arrigo Boldrini, Carla Capponi, Rosario Bentivegna, Giovanni Pesce.

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ni a Trieste nel marzo 199893. In quell’occasione si è scatenata sul presidente della Camera una fitta pioggia di critiche da parte degli ambienti della sinistra antifascista94. Non sono mancate allusioni aperte al calcolo politico che avrebbe spinto Violante a lusingare la destra per ottenerne l’appoggio in vista della futura elezione del presidente della Repubblica95. È difficile e non ci interessa esprimere qui una valutazione a riguardo. Osservando invece il contenuto delle sue dichiarazioni, si può convenire con Gian Enrico Rusconi che lo sforzo di «capire i ragazzi di Salò», auspicato da Violante, fosse effettivamente legato – come egli stesso aveva affermato nel 1996 – «alla necessità di conquistare al valore della Resistenza, letta in chiave di impresa nazionale» anche quanti storicamente si erano riconosciuti nella parte avversa96. Ciò detto, pare però condivisibile anche l’osservazione di Rusconi secondo cui l’ex magistrato avrebbe sopravvalutato «l’effetto pedagogico e formativo del puro comprendere»97. Nell’ottica di Violante il semplice sforzo di capire le ragioni dei «ragazzi di Salò» sarebbe stato sufficiente a determinare la riconciliazione della destra post-fascista coi valori della Resistenza e a cementare l’unità nazionale. Esiti, questi, che potevano essere tutt’al più favoriti, ma difficilmente raggiunti98. Del resto, opinabile pare lo stesso assunto di partenza di Violante e cioè la necessità di avere una «memoria condivisa». Tutte le grandi nazioni democratiche, dalla Francia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna alla Germania, sono nate da traumi e da guerre civili e si reggono, tuttavia, su salde memorie pubbliche elaborate dalla parte vincitrice. C’è poco 93 Cfr. L. Mattina (a cura di), Democrazia e nazione. Dibattito a Trieste tra Luciano Violante e Gianfranco Fini, Eut, Trieste 1998. L’incontro di Fini e Violante con gli studenti dell’Università di Trieste si tenne il 14 marzo 1998. 94 Alcuni dei principali interventi sono riportati nel volume di Liborio Mattina sopra citato. 95 Cfr. G. Bocca, Nella nostra sinistra c’è sempre qualcuno che mira ai voti degli ex fascisti, in «L’Espresso», 26 marzo 1998. 96 Cfr. Mattina (a cura di), Democrazia e nazione, cit., p. 59. 97 Ivi, p. 61. 98 Un esame acuto della posizione di Violante è stato svolto da Raffaele Romanelli, che ha posto in evidenza sostanziali elementi di differenza rispetto alla posizione di Fini. Cfr. R. Romanelli, Retoriche di fine millennio, in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 341-43.

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spazio per la Vandea e Vichy in Francia, tanto meno per il nazionalsocialismo in Germania. Di fronte alla sfida lanciata dal revisionismo della destra99 si è avuta nel corso degli anni Novanta una nuova, forte, mobilitazione a difesa della Resistenza. Un momento cruciale è stato rappresentato dalla celebrazione della festa della Liberazione nel 1994. A pochi giorni di distanza dalla vittoria elettorale del Polo delle libertà (27-28 marzo), essa è stata l’occasione di una mobilitazione intensamente emotiva contro la presenza nella futura coalizione di governo di un partito erede del fascismo come il Msi-An100. Per il valore assunto, si può dire che il 25 aprile 1994 abbia anticipato di un anno la ricorrenza del cinquantesimo anniversario della Liberazione. Alla manifestazione di Milano, promossa dal «manifesto», hanno partecipato 300 mila persone e per la prima volta si sono trovate insieme le rappresentanze dell’antifascismo tradizionale, nelle sue diverse componenti, e la sinistra antagonista dei centri sociali101. Nello stesso comizio in piazza Duomo ad ascoltare gli interventi di figure storiche della lotta partigiana, come il socialista Aldo Aniasi, il comunista Arrigo Boldrini, il democristiano Paolo Emilio Taviani, sono convenuti esponenti politici e sindacali, registi e attori e soprattutto un gran numero di giovani e giovanissimi, trovatisi insieme a cantare (molti, forse per la prima volta) canzoni partigiane come Bella ciao e Fischia il vento e a sventolare striscioni che invitavano a una nuova Resistenza («Contro il fascismo e Sua Emittenza ora e sempre Resistenza»)102. In un clima di accesa contrapposizione politica, non sono 99 Per una riflessione critica sul revisionismo si rimanda al volume monografico di «Teoria Politica», 1997, 1, e al volume già citato Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, curato per Laterza da Enzo Collotti, in particolare al saggio di Claudio Pavone intitolato Negazionismi, rimozioni, revisionismi: storia o politica? Come esempio di revisionismo storiografico cfr., invece, G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia, G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, in particolare, per i temi che ci interessano, si vedano le voci curate da Ernesto Galli della Loggia: Anche l’Italia ha vinto la guerra, La Resistenza tradita, Il mito della Costituzione. 100 Per un’attenta analisi delle prese di posizione dei principali organi di stampa si rimanda a Baldissara, Auf dem Weg, cit., pp. 599-604. 101 Cfr. Cenci, Rituale e memoria, cit., pp. 375-78. 102 Cfr., per esempio, D. Gorodiski, R. Grassi, Occhetto: non è il giorno della rivincita, in «Corriere della Sera», 26 aprile 1994; G. Manin, Salvatores e Moretti scatenati con la cinepresa, ne uscirà un film, ivi.

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mancati slogan più pugnaci e minacciosi come quelli lanciati dagli autonomi: «Bossi Fini e Formentini, farete la fine di Mussolini», «Se pacificazione è la proposta, piazzale Loreto è la risposta»103. Né è mancata anche una violenta contestazione contro la delegazione leghista costretta ad abbandonare il corteo. Passando a considerare il piano di quella che si è chiamata la «narrazione antifascista», i discorsi ufficiali tenuti in occasione delle commemorazioni dell’8 settembre e del 25 aprile non hanno presentato scostamenti dal canone tradizionale. Una diversa sfumatura è affiorata semmai negli interventi sulla stampa. Sono stati in particolare «grandi vecchi» dell’antifascismo di matrice azionista, come Leo Valiani e Vittorio Foa, o come lo storico Claudio Pavone, a confrontarsi con le questioni poste dalla storiografia revisionista: l’interpretazione dell’8 settembre, il carattere di guerra civile della Resistenza, il ruolo del Partito comunista, i contrasti interni alle forze del Cln, il rapporto fra governi ciellenisti e partitocrazia. Le risposte non hanno stravolto in alcun modo la trama della tradizionale «narrazione» antifascista della guerra e della Resistenza, ma sono state caratterizzate piuttosto da un cambiamento dei toni (fermi ma ben lontani da qualsiasi afflato celebrativo) e da una maggiore articolazione del discorso rispetto, ad esempio, agli interventi degli anni Sessanta o Settanta. Gli articoli pubblicati in quegli anni per celebrare la Liberazione non avevano disconosciuto né il carattere di guerra civile della Resistenza, né il carattere di «avanguardia» dell’antifascismo e della lotta partigiana rispetto alla massa della popolazione, né le tensioni interne alle forze antifasciste e nemmeno l’importanza decisiva del contributo degli Alleati alla vittoria finale. Avevano però richiamato di passaggio questi aspetti e dato enfasi al momento «epico» e corale della lotta di liberazione contro il nazifascismo. Nel clima degli anni Novanta la risposta alle critiche della destra ha comportato un confronto più diretto e approfondito sui temi controversi sollevati dal dibattito pubblico104. Nel far questo la cultura G. Nuzzi, Bossi Fini e Formentini, farete la fine di Mussolini, in «Il Giornale», 26 aprile 1994. 104 Fra questi va ricordata anche la polemica sull’azionismo sollevata da Ernesto Galli della Loggia nel 1993, con la pubblicazione dell’articolo La democrazia immaginaria. L’azionismo e l’«ideologia italiana», in «il Mulino», 2, mar103

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antifascista ha mostrato un’accresciuta consapevolezza storiografica, cui ha molto contribuito il volume di Claudio Pavone, Una guerra civile, pubblicato nel 1991. «La Resistenza è un retaggio vivo solo per chi sa guardare in faccia i suoi limiti e i suoi lati oscuri», ha scritto Claudio Magris sul «Corriere della Sera» il 25 aprile 1995, in un articolo che al contempo ribadiva fermamente il valore «fondante» della lotta di liberazione per la «rinascita nazionale» e la democrazia105. È questo l’atteggiamento riscontrato sulla stampa in occasione degli anniversari del 25 luglio, dell’8 settembre e del 25 aprile. Così, ad esempio, in un’intervista all’«Unità» pubblicata il 25 luglio 1993, Claudio Pavone riconosceva che l’8 settembre era stato un «trauma senza precedenti», ma lo ricordava innanzitutto come «occasione di libertà e di rinascita»106. Il giudizio era confermato il 25 aprile 1995 da Vittorio Foa, secondo il quale l’8 settembre non andava considerato «il simbolo dello sfascio, come pensa De Felice», bensì «momento di scelta e di recupero dell’identità nazionale tradita dal fascismo»107. Ancora Pavone ammetteva che la «Resistenza attiva» fosse stata «opera di una minoranza», così come «una minoranza» erano «anche i fascisti di Salò». Ma sosteneva che la «Resistenza attiva» aveva potuto contare su «un consenso largo», alimentando «la Resistenza passiva di una maggioranza». Al pari, Foa riconosceva l’esistenza di una «zona grigia attendista e passiva fra i due campi», ma sottolineava che i partigiani avevano goduto all’interno di essa di «un’area di disponibilità fortissima». Indiscusso era il riconoscimento del carattere di guerra civile della Resistenza. I fascisti «c’erano, e non erano puri fantocci del tedesco», affermava Foa. «Era della gente – egli continuava – che aveva una certa nozione d’Italia opposta alla nostra. zo-aprile 1993, in cui, assimilando l’intera esperienza del Partito d’Azione a quella dell’azionismo torinese, lo storico criticava la subalternità della cultura azionista al Pci e accennava ad un suo presunto carattere antipatriottico. Per una ricostruzione della polemica cfr. C. Novelli, Il Partito d’Azione e gli italiani, La Nuova Italia, Firenze 2000, pp. VII-XXIV. 105 C. Magris, Il mito di ogni giorno, in «Corriere della Sera», 25 aprile 1995. 106 B. Gravagnuolo, Il trauma che creò l’Italia, in «l’Unità», 25 luglio 1993. Intervista a Claudio Pavone. 107 B. Gravagnuolo, Tutti eredi della lotta partigiana, in «l’Unità», 25 aprile 1995. Intervista a Vittorio Foa.

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Loro avevano i miti nazionalisti e imperialisti. Noi credevamo in un’Italia pacifica e cooperativa. Si è trattato di uno scontro armato fra noi e loro». Nessun dubbio sussisteva su chi stesse dalla parte della ragione e nessun dubbio sul fatto che la guerra civile – come affermava Valiani – «ci venne imposta dal fascismo di Salò»108. Anche sui contrasti fra le forze antifasciste e gli Alleati nessuna reticenza. Aperto era il riconoscimento dell’apporto militare risolutivo di quest’ultimi («ovviamente la Resistenza poté avere successo – scriveva Valiani – perché le potenze antinaziste stavano sconfiggendo, in Occidente e in Oriente, la Germania hitleriana»109). E franco anche il riconoscimento delle fratture e degli scontri all’interno degli stessi partiti antifascisti. «I comunisti – notava Foa – avevano delle idee specifiche sull’assetto sociale da realizzare, eppure la Resistenza li aveva coinvolti fino in fondo nella battaglia democratica». A suo giudizio, «oltre le differenze politiche c’era un orizzonte dinamico fatto di valori condivisi, denso di speranze». La Resistenza aveva infatti costituito «un modello etico di convivenza». «Il Cln – egli rilevava – è stato un esperimento segnato dalla lotta interna per l’egemonia, e insieme dominato dalla prefigurazione di un’Italia diversa». I mali del paese non erano nati dalla rinascita dei partiti antifascisti e dalla loro pretesa smania lottizzatrice, bensì – come ricordava Pavone – dalla «continuità» degli apparati dello Stato. Una delle principali reazioni della cultura antifascista all’offensiva sulla memoria scatenata dalla destra è stata la rinnovata attenzione prestata nei confronti dei crimini nazisti in Italia. Un ruolo decisivo ha avuto alla metà degli anni Novanta la vicenda del processo contro l’ex capitano delle SS Erich Priebke, uno dei responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Il risultato del primo processo, conclusosi il 1° agosto 1996 col proscioglimento dell’imputato, ha scatenato un’energica mobilitazione dell’opinione pubblica antifascista e innescato un’importante operazione di rilancio della memoria della Resistenza110. L’operazione ha fatto L. Valiani, Festa di concordia, in «Corriere della Sera», 25 aprile 1994. Ibid. 110 Priebke fu condannato in un secondo processo a quindici anni di carcere il 22 luglio 1997 (dopo che la Cassazione aveva annullato il primo verdetto) e infine condannato all’ergastolo nel processo d’appello il 7 marzo 1998. At108 109

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perno sulla sensibilità ancora viva del paese verso le atrocità commesse dai tedeschi durante la guerra. È stato così recuperato uno degli elementi costitutivi della «narrazione egemonica» antifascista, ovvero l’immagine del «cattivo tedesco», di quel nemico «barbaro e sanguinario» contro il quale le forze della Resistenza avevano assieme combattuto e per mano del quale il paese aveva patito lutti e distruzioni non dimenticati111. Il ricordo delle nefandezze nazifasciste è stato efficace fattore di coagulo della memoria antifascista, diventando poi, nel confronto politico e culturale sull’elaborazione del passato, l’arma principale utilizzata contro le proposte di «riconciliazione», a partire da quelle considerate improvvide e pericolose lanciate dalle fila stesse della sinistra, in primo luogo da Luciano Violante. Si è trattato di un’operazione di riattivazione della memoria che ha tratto alimento dallo sforzo profuso da magistratura e storiografia, tornate a occuparsi intensamente di crimini e criminali tedeschi. Il rinvenimento nel 1994 del cosiddetto «armadio della vergogna», con centinaia di fascicoli giudiziari contenenti materiale d’inchiesta sui crimini tedeschi archiviati illegittimamente nel 1960112, ha generato numetualmente si trova agli arresti domiciliari. Sul caso giudiziario e sul dibattito a esso seguito cfr.: C. Dal Maso, S. Micheli (a cura di), Processo Priebke. Le testimonianze, il memoriale, Il Mondo, Roma 1996; Processo Priebke: la sentenza, Il Mondo, Roma 1996; R. Katz, Dossier Priebke: anatomia di un processo, Euroclub, Trezzano sul Naviglio 1997; Priebke e il massacro delle Ardeatine, L’UnitàIstituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (Irsifar), Roma 1996 (contributi di W. Settimelli, A. Rossi-Doria, C. Pavone, C. Galante Garrone, M. Battini, A. Portelli); W. Leszl, Il processo Priebke e il nazismo, Editori Riuniti, Roma 1997. Sulla stampa si segnalano almeno B. Spinelli, Una sentenza contro la storia, in «La Stampa», 2 agosto 1996 (contro la sentenza di primo grado che metteva in libertà l’imputato), e I. Montanelli, Ma io dissento, in «Corriere della Sera», 3 agosto 1996 (a favore della sentenza). 111 Sul ricordo del «cattivo tedesco» come legame fra le diverse componenti dell’antifascismo si rimanda a F. Focardi, L’ombra del passato. I tedeschi e il nazismo nel giudizio italiano dal 1945 a oggi. Un profilo critico, in «Novecento», luglio-dicembre 2000, 3, pp. 69-70, e M. Missiroli, Un rapporto ambivalente. Le due Germanie viste dall’Italia 1945-1989, in «Storia e Memoria», 1996, 1, pp. 99100. 112 I 695 fascicoli rinvenuti contengono i nomi di oltre 400 presunti criminali di guerra tedeschi e alcune decine di fascisti italiani responsabili di stragi perpetrate in collaborazione o meno con le truppe tedesche. Cfr. M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 1943-2001, Mondadori, Milano 2002, e F. Giustolisi, L’ar-

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rose indagini presso le procure militari, seguite da processi e da condanne, con alcuni ergastoli in contumacia comminati nei confronti di criminali nazisti come Theodor Saevecke, Friedrich Siegfried Engel, Michael Seifert113. I processi sono continuati nel 2004 con il procedimento istruito a La Spezia contro i responsabili della strage di Sant’Anna di Stazzema, una delle grandi stragi di italiani rimaste impunite114. Il Parlamento si è inoltre attivato per stabilire le cause politiche dell’insabbiamento delle inchieste. Un’indagine conoscitiva della Commissione Giustizia della Camera115, conclusa nel marzo 2001, ha confermato l’«illegalità» del comportamento della magistratura militare e auspicato una Commissione d’inchiesta parlamentare, poi istituita nel maggio 2003116. Sul versante storiografico, convegni, progetti di ricerca, libri e pubblicazioni specialistiche hanno affrontato la questione delle stragi tedesche, indagate sia nel quadro più ampio della politica di occupazione germanica, sia con l’attenzione rivolta agli efmadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004. Sulla vicenda dell’insabbiamento è stata svolta anche un’indagine interna della magistratura militare conclusa nel marzo 1999. Cfr. Relazione approvata dal Consiglio della Magistratura Militare (CMM) in data 23 marzo 1999, in «Storia e Memoria», 1998, 2, pp. 165-78. 113 Saevecke ed Engel sono stati condannati nel 1999 dal Tribunale militare di Torino; Seifert nel novembre 2000 dal Tribunale militare di Verona. Sui processi Saevecke ed Engel si veda il volume del procuratore militare di Torino, Pier Paolo Rivello: P.P. Rivello, Quale giustizia per le vittime dei crimini nazisti? L’eccidio della Benedicta e la strage del Turchino tra storia e diritto, Giappichelli, Torino 2002. 114 Sui processi ai criminali di guerra nazisti in Italia cfr. M. Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Roma-Bari 2003; F. Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LXXX, 2000 (in particolare, pp. 543-78); Id., Un accordo segreto tra Italia e RFT sui criminali di guerra. La liberazione del «gruppo di Rodi» 1948-1951, in «Italia Contemporanea», settembre 2003, 232, pp. 40137; Franzinelli, Le stragi nascoste, cit.; P. Pezzino, Punire i colpevoli? Riflessioni in margine ai processi ai criminali di guerra, in «Storia e Memoria», 1998, 2, pp. 249-58; Id., Sui mancati processi in Italia ai criminali di guerra tedeschi, in «Storia e Memoria», 2001, 1, pp. 9-72. 115 Il documento conclusivo della Commissione approvato il 6 marzo 2001 in: Memoria e giustizia. Stragi, crimini di guerra, processi. Italia 1943-1945, l’Unità, Roma 2003, pp. 141-55. 116 La Commissione, istituita con la legge 107 del 15 maggio 2003, non ha ancora terminato i suoi lavori. Per il testo della legge istitutiva cfr. Memoria e giustizia, cit., pp. 156-59.

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fetti prodotti sulla memoria locale117. L’esempio più significativo del rinnovato interesse per i crimini nazisti e dell’uso fattone ai fini di una politica della memoria è stato rappresentato dall’Associazione per la storia e le memorie della Repubblica, che ha raggruppato studiosi, politici, amministratori, enti e istituti collocati in una vasta area della sinistra. Sorta per iniziativa principale dello storico Leonardo Paggi, l’associazione ha cercato di riattivare la memoria della Resistenza e dell’antifascismo a partire dalla memoria delle stragi naziste118. Anche al più alto livello istituzionale 117 Cfr. L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, manifestolibri, Roma 1996, e G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997 (dedicati entrambi alla strage di Civitella della Chiana in provincia di Arezzo); P. Pezzino, Anatomia di un massacro: controversia sopra una strage tedesca, Il Mulino, Bologna 1997 (sull’eccidio di Guardistallo in provincia di Pisa); Id., Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Il Mulino, Bologna 2001; M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1996; T. Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Electa, Milano 1996; Portelli, L’ordine è stato eseguito, cit.; G. Chianese (a cura di), Mezzogiorno fra guerra e dopoguerra, numero monografico della rivista «Nord Sud», novembredicembre 1999; E. Collotti, T. Matta, Rappresaglie, stragi, eccidi, in Collotti, Sandri, Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, cit., pp. 254-67; C. Gentile, «Politische Soldaten». Die 16. SS-Panzer-Grenadier-Division «Reichsführer-SS» in Italien 1944, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LXXXI, 2001, pp. 529-61; I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste, Carocci, Roma 2002; G. Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale. Per un atlante delle stragi naziste in Italia, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; M. Palla (a cura di), Tra storia e memoria. 12 agosto 1944: la strage di Sant’Anna di Stazzema, Carocci, Roma 2003; T. Baris, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 3-57; L. Baldissara, P. Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra. Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004. Molto ricco è stato anche il contributo della storiografia tedesca: cfr. F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. or. 1995); L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997; G. Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000. 118 Atto di nascita dell’associazione, che inizialmente si chiamava Associazione per la memoria della Repubblica, può essere considerato il convegno tenuto a Roma il 26-27 giugno 1997 sul tema Identità e storia repubblicana. Fra i promotori Leonardo Paggi, Giuseppe Vacca e Franco De Felice, dell’Istituto Gramsci. Per una presentazione delle finalità dell’associazione cfr. L. Paggi, Per una ricostruzione della memoria dell’Italia repubblicana, in «I Viaggi di Erodoto», 1997, 33, pp. 29-35.

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si è mostrata nuova attenzione alla necessità di tenere viva la memoria. Significativa è stata a riguardo l’istituzione del Parco nazionale della pace a Sant’Anna di Stazzema. Il progetto di legge istitutivo, fortemente sostenuto dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, è stato approvato dal Parlamento nell’ottobre 2000, dopo che per molti anni era rimasto bloccato119. Di grande rilievo è stata poi la ‘riscoperta’ della strage di Cefalonia. Il 15 settembre 1999 Mario Pirani, in un articolo particolarmente appassionato pubblicato sulla «Repubblica», proponeva di commemorare l’«epopea» dei soldati della divisione Acqui come eroico momento d’inizio della Resistenza120. L’appello del giornalista è stato positivamente recepito dalle istituzioni dello Stato. Con una lettera aperta al direttore della «Repubblica» l’allora ministro della Difesa, Carlo Scognamiglio, ha riconosciuto nella vicenda del generale Gandin e dei suoi uomini «uno dei punti più alti della Resistenza» e insieme «simbolicamente l’atto fondativo del nuovo esercito della ritrovata democrazia»121. Il ministro, con la dichiarata approvazione del presidente della Repubblica, annunciava «prossime iniziative» atte a «promuovere nei cittadini, e in particolare nei più giovani, la memoria di quella così alta pagina della nostra storia nazionale». L’iniziativa più significativa è stata presa il 1° marzo 2001 dallo stesso presidente Ciampi con la visita di Stato a Cefalonia. Nel suo discorso commemorativo, Ciampi ha individuato nella decisione della guarnigione italiana di «non cedere le armi» ai tedeschi e di «morire per la patria» il «primo atto della Resistenza di un’Italia libera dal fascismo»122. All’intervento di Ciampi ha fatto seguito l’ennesimo attacco della stampa e della storiografia revisioniste contro la vulgata antifascista, accusata di aver valorizzato esclusivamente la 119 Il progetto di legge, approvato il 25 ottobre 2000, era stato presentato dall’on. Carlo Carli nel 1987. La legge istitutiva è dell’11 dicembre 2000. La gestione del parco è stata affidata al Comitato per le onoranze ai martiri di Sant’Anna di Stazzema. 120 M. Pirani, Cefalonia una strage dimenticata da tutti, in «la Repubblica», 15 settembre 1999. 121 C. Scognamiglio, Cominciò lì la Resistenza, ivi, 17 settembre 1999. 122 Il testo integrale di Ciampi in «Diario», VI, 4 maggio 2001, 18, pp. 1213. Come tutti i discorsi di Ciampi, il testo è reperibile anche sul sito internet del Quirinale (http://www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=14351).

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memoria della guerra partigiana, rimuovendo l’episodio di Cefalonia perché espressione della Resistenza militare. La tesi, sostenuta con vigore polemico da ‘penne’ accreditate come Montanelli123 e Galli della Loggia124, era sostanzialmente inesatta, essendo Cefalonia episodio da lungo tempo trattato dalla storiografia di sinistra e da sempre presente nelle commemorazioni della Resistenza125. L’attenzione posta sulle stragi e sui crimini nazisti, dettata da esigenze sacrosante di memoria storica e di risarcimento morale delle vittime, ha consentito la riattivazione della tradizionale narrazione antifascista che aveva descritto gli italiani come vittime del nazifascismo ed esaltato la formula del «popolo unito in lotta contro la tirannide». Questa raffigurazione aveva favorito, pur senza volerlo, la rimozione delle colpe italiane grazie al comodo alibi degli «italiani brava gente», di cui avevano approfittato soprattutto coloro che, militari o funzionari fascisti, portavano gravi responsabilità nelle guerre d’aggressione condotte dal regime di Mussolini126. Contro l’autorappresentazione del «bravo italiano» si è 123 Cfr. I. Montanelli, Gli eroi postumi della Resistenza, in «Corriere della Sera», 1° marzo 2001. 124 Cfr. E. Galli della Loggia, Presidente, parliamo della Patria, ivi, 4 marzo 2001. 125 Cfr. B. Mantelli, Cefalonia e la storia, in «l’Unità», 17 aprile 2001, e Id., Cefalonia. L’evento, la memoria, la mistificazione, in «Nuvole», XI, settembre 2001, 1, pp. 27-29. Per quanto riguarda la storiografia, cfr. G. Rochat, M. Venturi (a cura di), La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, Mursia, Milano 1993. Occorre sottolineare che manca ancora una ricostruzione storiografica definitiva della vicenda. Non colma questa lacuna il volume di G.E. Rusconi, Cefalonia 1943: quando gli italiani si battono, Einaudi, Torino 2004, che mette a confronto fonti storiografiche secondarie tedesche e italiane. Per una lettura basata su fonti primarie che ridimensiona il mito dell’eroismo italiano ma conferma la gravità della strage tedesca cfr. L. Klinkhammer, Der Stahlpakt endete im Bleihagel. Kephalonia und das deutsche Massaker an italienischen Soldaten, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 16 marzo 2002. 126 Cfr. F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del «bravo italiano». Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in «Italia Contemporanea», settembre-dicembre 2000, 220-221, pp. 393-99. Sul nesso fra rappresentazione antifascista della Resistenza come guerra di popolo e mancato esame di coscienza sulle colpe collettive si veda anche C. Pavone, Negazionismi, rimozioni, revisionismi: Storia o politica?, in Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo, cit., pp. 21-24; G. Santomassimo, Il primato degli italiani, in «il manifesto», 25 aprile 2001.

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però riscontrato negli anni Novanta un risveglio della coscienza critica della cultura d’ispirazione antifascista, che ha manifestato una nuova attenzione nei confronti del colonialismo italiano, della persecuzione antiebraica e della partecipazione italiana alla guerra dell’Asse, con particolare riguardo alle politiche di occupazione e ai crimini commessi nei paesi occupati. Significativo è stato, nel febbraio 1996, il riconoscimento ufficiale fatto dal ministero della Difesa dell’impiego dei gas da parte delle forze armate italiane durante la guerra d’Etiopia. Il comunicato del ministero ha posto fine ad anni di accese polemiche fra studiosi, come Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, che per primi avevano documentato e denunciato i misfatti delle campagne coloniali del fascismo in Libia e in Etiopia, e gli accaniti difensori di un’immagine nostalgica dell’italiano in Africa, come Indro Montanelli, affezionati allo stereotipo di un presunto colonialismo italiano «dal volto umano», ricco di meriti nella «civilizzazione» dei popoli africani, distinto e contrapposto all’esoso «colonialismo di sfruttamento» delle altre potenze europee127. Indagata e posta sotto accusa è stata parimenti la condotta italiana nella «guerra fascista». Vi è stato un rinnovato interesse storiografico, ad esempio, sull’occupazione italiana nei Balcani128 e sulla viSulla lunga e aspra polemica sul colonialismo italiano si rimanda ad A. Del Boca, Una battaglia per la verità, in Id., I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra di Etiopia, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 17-48. Per una storia generale del colonialismo italiano a partire dall’Ottocento che tiene conto delle più recenti acquisizioni storiografiche cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002. 128 Cfr. C.S. Capogreco, Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’internamento dei civili jugoslavi (1941-1943), in «Studi Storici», XLII, gennaio-marzo 2001, 1, pp. 203-30; E. Collotti, Sulla politica di repressione italiana nei Balcani, in L. Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 181-208; B. Mantelli, Die Italiener auf dem Balkan 19411943, in C. Dipper, L. Klinkhammer, A. Nützenadel (a cura di), Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder zum 65. Geburtstag, Duncker & Humblot, Berlin 2000, pp. 57-74; Id. (a cura di), L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, numero speciale di «Qualestoria», XXX, giugno 2002, 1 (con saggi di B. Mantelli, A. Di Michele, D. Rodogno, P. Iuso, E. Gobetti, G. Villari, R. Pupo, L. Santarelli, F. Focardi); Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit.; L. Santarelli, Il sistema dell’occupazione italiana in Grecia. Aspetti e problemi di ricerca, in «Annali dell’Istituto milanese per la storia dell’età contemporanea, della resistenza e del movimento operaio», 2000, 5, pp. 365-79; Id., Fra coabitazione e conflitto: invasione italiana e popolazione civile 127

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cenda dei criminali di guerra italiani129. Anche la stampa di sinistra ha dato spazio a questi temi. Già in occasione del cinquantesimo anniversario dell’ingresso italiano nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1990, «l’Unità» aveva dedicato un lungo articolo ai «nostri crimini dimenticati»130. Il giornale è tornato sull’argomento alla metà degli anni Novanta, in occasione della polemica fra Del Boca e Montanelli sui gas in Etiopia131. Per la ricorrenza del 25 aprile del 2001 alcuni degli articoli del dossier speciale dell’«Unità» hanno di nuovo preso di mira lo stereotipo del «bravo italiano», soffermandosi sulla partecipazione di fascisti italiani alle rappresaglie tedesche, sulla persecuzione antisemita messa in atto dalla Repubblica sociale italiana, sui campi di concentramento fascisti per jugoslavi, sulla vicenda dei criminali di guerra richiesti da Jugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia, Unione Sovietica, mai consegnati e mai processati in Italia per i loro delitti132. Al tema della mancata «Norimberga italiana» è stata prestata una crescente attenzione, non solo da parte di giornali della sinistra, come ad esempio «il manifesto»133, ma anche da parte di un grande giornale indipendente come «La Stampa»134. Va ossernella Grecia occupata (primavera-estate 1941), in «Qualestoria», XXX, giugno 2002, 1, pp. 143-55; Id., La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Baldissara, Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit., pp. 271-91. Ma si veda anche il sito internet www.criminidiguerra.it 129 Cfr. Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra, cit.; F. Focardi, L. Klinkhammer (a cura di), La questione dei «criminali di guerra» italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata, in «Contemporanea», IV, luglio 2001, 3, pp. 497-528; F. Focardi, L’Italia fascista come potenza occupante nel giudizio dell’opinione pubblica italiana: la questione dei criminali di guerra (19431948), in «Qualestoria», XXX, giugno 2002, 1, pp. 159-61; Id., I mancati processi ai criminali di guerra italiani, in uscita nel secondo volume degli atti del convegno di Bologna, Guerra ai civili (Bologna, 19-22 giugno 2002). 130 A. Savioli, I nostri crimini dimenticati, in «l’Unità», 10 giugno 1990. 131 Cfr. W. Settimelli, Italiani brava gente?, ivi, 20 agosto 1995, e Id., Italiani malagente, ivi, 8 settembre 1996. 132 Cfr. D. Gagliani, I giorni tristi dei ragazzi di Salò; M. Franzinelli, Delazioni e torture: la stagione infame delle squadre speciali; B. Mantelli, Una macchina antisemita che parlava italiano; C.S. Capogreco, Oltre centomila gli jugoslavi nei campi fascisti; F. Focardi, Le guerre crudeli di Mussolini. Cade il mito del bravo italiano. 133 Cfr. F. Longo, La lista della vergogna, in «il manifesto», 23 aprile 2000. 134 Cfr. A. Papuzzi, Italiani bravi boia, in «La Stampa», 24 maggio 2001, e Id., Italiani bravi boia salvati da De Gasperi, ivi, 27 luglio 2001. Si vedano anche

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vato però che non si è ancora prodotto nel paese un vero dibattito sul ruolo svolto dall’Italia fascista come Stato aggressore e oppressore. Mancano ancora, del resto, delle ricostruzioni storiografiche complessive sia della politica di occupazione italiana in Grecia e in Jugoslavia sia della questione dei criminali di guerra italiani. Se le ricerche storiche sulla guerra d’Etiopia e sulla riconquista della Libia, grazie anche al (tardivo) riconoscimento del governo circa l’impiego dei gas, sembrano aver contribuito a modificare almeno in parte nell’opinione pubblica la vecchia immagine edulcorata del colonialismo italiano, i gravi crimini di guerra commessi nei Balcani restano invece per lo più ignoti alla coscienza storica del paese, grazie anche al controllo esercitato dalle istituzioni. Lo dimostra il caso del documentario della Bbc inglese, Fascist Legacy, sui crimini di guerra italiani in Etiopia e Jugoslavia, acquistato dalla Rai nel 1992, tradotto in italiano, eppure mai mandato in onda dalla televisione pubblica nazionale135. I telespettatori italiani hanno potuto vederlo solo su una rete minore, La7, all’interno di un coraggioso programma diretto dallo storico Sergio Luzzatto, presto cancellato dal palinsesto136. Un’eccezione importante è quella rappresentata dalla memoria della persecuzione antiebraica. Qui il profondo rinnovamento storiografico, maturato a partire dalla ricorrenza nel 1988 del cinquantenario dell’introduzione in Italia delle leggi razziali, si è tradotto in una presa di coscienza diffusa nel paese e, infine, in alcuni importanti sbocchi che riguardano la promozione della memoria pubblica. Ricerche fondamentali, prime fra tutte quelle di Michele Sarfatti137, hanno rivelato la falsità della tradizionale rafE. Galli della Loggia, Criminali di guerra nostrani per tutti arrivò la «soluzione all’italiana», in «Sette» (supplemento settimanale del «Corriere della Sera»), 26, 28 giugno 2001, p. 11; F. Giustolisi, Il muro di gomma intorno a Salò, in «L’Espresso», XLVII, 2 agosto 2001, 31, pp. 112-13. 135 Il documentario fu mandato in onda dalla Bbc nel 1989, suscitando le immediate proteste diplomatiche dell’ambasciatore italiano a Londra. Negli anni sono stati lanciati vari appelli perché la Rai lo mettesse in onda. Finora senza esito. Cfr., per esempio, Perché non va in onda?, in «Corriere della Sera», 4 giugno 1994. 136 Il documentario è stato trasmesso in due puntate il 3 e il 10 maggio 2003. 137 Cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994; Id., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000.

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figurazione dell’antisemitismo fascista quale copia blanda del modello nazista, imposta da Berlino contro i sentimenti di una nazione solerte nell’aiuto dei perseguitati138. Profondità delle radici autoctone del fenomeno, capillarità della legislazione e della prassi antisemite, coinvolgimento italiano nella persecuzione degli ebrei prima e durante la guerra, con responsabilità accertate nella deportazione e nello sterminio, hanno rivelato, accanto al volto – pur storicamente fondato – degli italiani «brava gente», capaci di solidarietà e prodighi di aiuto nei confronti degli ebrei, anche il volto imbarazzante e fin qui rimosso di tanti connazionali «malagente» persecutori, delatori, approfittatori o semplicemente acquiescenti e noncuranti. Quest’ultima dimensione, dalle pagine dei saggi di storia, è potuta penetrare estesamente nell’opinione pubblica grazie a opere letterarie e cinematografiche come il libro La parola ebreo di Rosetta Loy139 e il film La vita è bella di Roberto Benigni, che ha avuto grande successo di pubblico sia al cinema sia in televisione140. La maturazione di una conoscenza e di una sensibilità nuove nei confronti della persecuzione antiebraica, frutto di un impegno artistico e culturale che ha trovato adeguato sostegno istituzionale per tutto il corso degli anni Novanta, è culminata nella decisione del Parlamento di istituire un «giorno della memoria» in ricordo della Shoah. La legge 211 del 20 luglio 2000 ha scelto come data il 27 gennaio, giorno dell’«abbattimento dei cancelli di Auschwitz», stabilendo che in questa ricorrenza fossero ricordati «la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito Contro questa vera e propria vulgata, in parte ancora in auge cfr. E. Collotti, Il razzismo negato, in Id. (a cura di), Fascismo e antifascismo, cit., pp. 35575; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano 1994; F. Focardi, Alle origini di una grande rimozione. La questione dell’antisemitismo fascista nell’Italia dell’immediato dopoguerra, in «Horizonte. Italianistische Zeitschrift für Kulturwissenschaft und Gegenwartsliteratur», IV, 1999, pp. 135-70; G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Laterza, Roma-Bari 2004. 139 Pubblicato da Einaudi nel 1997, il libro è stato per alcune settimane in testa alle classifiche di vendita. 140 Uscita nel 1997, la pellicola di Benigni ha vinto l’Oscar come miglior film straniero. Mandato in onda su Rai Uno il 22 ottobre 2001, ha fatto registrare un record di ascolto con oltre 15 milioni di telespettatori. 138

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la deportazione, la prigionia e la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e, anche a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». L’istituzione della «giornata della memoria» è stata frutto – come si evince anche dal passaggio sopra riportato – di un accordo fra destra e sinistra, che ha inteso riconoscere le colpe e commemorare le vittime, senza rinunciare a ricordare i meriti degli italiani, qualunque fosse stato il loro credo politico. In occasione dell’approvazione della legge, molte personalità della destra si sono comunque pronunciate a favore dell’istituzione di una «giornata della memoria per le vittime del comunismo», quasi a compensazione della giornata della Shoah. Le celebrazioni della ricorrenza negli anni successivi hanno rivelato propensioni e finalità diverse. Seguendo il dettato dell’art. 2 della legge, amministrazioni locali, stampa e associazioni di sinistra hanno sviluppato riflessioni e iniziative, specialmente dirette al mondo della scuola, dedicate al ricordo della persecuzione antiebraica del nazismo e del fascismo nonché alla memoria della deportazione militare e politica italiana nei lager tedeschi. A destra si è manifestata, piuttosto, una maggiore solerzia a celebrare episodi di solidarietà e aiuto compiuti da italiani a favore degli ebrei. A questo fine è stata valorizzata la figura di Giorgio Perlasca, un commerciante che riuscì con abilità e coraggio a porre in salvo in Ungheria migliaia di ebrei141. La insistita celebrazione di Perlasca, figura a lungo sconosciuta e riscoperta meritoriamente in Italia da un giornalista di cultura antifascista come Enrico Deaglio142, corre il rischio di trasformarsi in un comodo paravento per la coscienza nazionale, restia a fare i conti con le non trascurabili responsabilità italiane nella persecuzione degli ebrei. Un pericolo di questo genere è stato avvertito nel paese. Del resto, non sono mancate sui giornali legati al centro-sinistra critiche, anche aspre, alla legge, per aver scelto una data, il 27 gennaio, legata alle colpe della Germania, piuttosto che una data che ricordasse le colpe della politica antisemita del fascismo italiano143. Un lettore della 141 La Rai ha prodotto e mandato in onda un film su Perlasca, che ha avuto grande successo di pubblico. 142 E. Deaglio, La banalità del bene, Feltrinelli, Milano 1993. 143 La sinistra inizialmente, nel 1997, aveva proposto in sede parlamentare

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«Repubblica» ha parlato in proposito di autentico «atto di vigliaccheria»144. Come ogni ricorrenza con forte valore simbolico, anche il «giorno della memoria» si è prestato a un uso politico. Ad esempio, nel clima segnato dal tragico dopoguerra iracheno, la Fondazione corpo volontari della libertà ha diramato, nel gennaio 2004, un appello pacifista perché «il giorno della memoria» fosse occasione di condanna contro «l’odio razziale, etnico e religioso, contro la violenza e contro le guerre che continuano a insanguinare molte parti del mondo»145. Di segno opposto (e decisamente meno in linea col significato della ricorrenza) è stato l’uso politico fatto l’anno precedente dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. In un messaggio per il 27 gennaio 2003, egli ha colto l’occasione per condannare gli «orrori e [...] le sofferenze inferte agli uomini dai due totalitarismi: quello nazista e quello comunista»146. Ricordando quindi il valore supremo della «difesa della libertà», Berlusconi ha sottolineato la necessità di rispondere alla sfida portata alla comunità internazionale dal terrorismo e da «quei regimi che minacciano la pace nel mondo». «Ancora una volta – egli ha affermato – la scelta fra la pace e la guerra è nelle mani di chi nega la libertà alla sua gente e attenta alla convivenza pacifica fra i popoli». Era un palese riferimento all’Iraq di Saddam Hussein, contro cui si sarebbe scatenato di lì a poco l’attacco americano.

di scegliere come «giorno della memoria» il 16 ottobre, ricorrenza del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma nel 1943. Cfr. S. Buzzanca, Giorno della Shoah, primo sì, in «la Repubblica», 29 marzo 2000. 144 Cfr. la lettera di Claudio Giusti dal titolo Il giorno della memoria e i crimini dell’Italia, in «la Repubblica», 12 gennaio 2003. 145 Giorno della Memoria, appello della Fondazione CVL (22 gennaio 2004), in http://www.anpi.it/dichiarazioni/cvl_270104.htm. 146 Cfr. Messaggio del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel giorno della Memoria, in http://www.governo.it/Presidente/Interventi/testo_int.asp? d= 18094.

Capitolo sesto IL PRESIDENTE CIAMPI E LA «RIFONDAZIONE DELLA MEMORIA DELLA RESISTENZA»

Si situa nella cornice fin qui descritta la «guerra della memoria» intrapresa dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi1. Una fitta serie di gesti simbolici e di discorsi commemorativi hanno punteggiato l’azione di Ciampi, che ha assunto la fisionomia di una vera e propria «pedagogia civile» volta a far crescere nel paese un «patriottismo costituzionale» fondato sul recupero e la condivisione della memoria della Resistenza vista come atto di nascita della Repubblica. L’operazione condotta dal Quirinale si è sviluppata progressivamente fin dai primi mesi successivi alla nomina di Ciampi. Le caratteristiche della proposta del presidente si sono chiarite con precisione già entro i primi due anni, ovvero dall’entrata in carica nel 1999 alla vittoria elettorale del centro-destra nel maggio 2001. Questa prima fase è stata contraddistinta da alcuni passaggi significativi: l’incontro con il presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Arrigo Boldrini (21 settembre 1999); l’omaggio reso alle vittime della strage di Sant’Anna di Stazzema (25 aprile 2000); la consegna della medaglia d’oro al valor militare alla città di Piombino (8 ottobre 2000); la visita di Stato a Cefalonia il 1° marzo 2001; il discorso tenuto a Sulmona il 17 maggio 20012. E in questa fase può essere fatto rientrare anche il discorso commemorativo della difesa di 1 C. Romano, La «guerra della memoria» del presidente Ciampi, in «l’Unità», 6 giugno 2000. 2 Per i testi dei discorsi del presidente Ciampi si rimanda al sito web del Quirinale (http://www.quirinale.it/Discorsi/Discorsi.asp).

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Roma a Porta San Paolo tenuto il 10 settembre 2001. Fin dall’incontro con Arrigo Boldrini il presidente Ciampi ha rivelato chiaramente i propri intendimenti: recuperare la memoria della Resistenza come patrimonio di ideali e valori da tramandare alle giovani generazioni e come patrimonio storico e morale con cui rianimare e su cui fondare il senso di appartenenza nazionale e l’unità del paese. La prima preoccupazione di Ciampi è stata la difesa del significato patriottico della Resistenza contro gli assertori della «morte della patria». La polemica è emersa esplicitamente in occasione del discorso tenuto a Piombino in ricordo della lotta antitedesca di cui fu protagonista la città all’indomani dell’armistizio. «L’8 settembre – ha affermato Ciampi – non è stato, come qualcuno ha scritto, la morte della patria». Nonostante la «dissoluzione dello Stato» e il venir meno di «tutti i punti di riferimento», «fu in quelle drammatiche giornate che la Patria si è riaffermata nella coscienza di ciascuno di noi». Nel richiamare il carattere patriottico della Resistenza, il presidente della Repubblica ha sottolineato il valore della scelta compiuta da quei militari italiani, ufficiali e soldati, che dopo il «trauma spaventoso» dell’8 settembre rifiutarono di arrendersi ai tedeschi e restarono fedeli al loro giuramento. Un posto centrale nella «narrazione» di Ciampi ha occupato la rievocazione della vicenda esemplare dei soldati italiani a Cefalonia, considerata atto di nascita della Resistenza. «Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento», così ha esordito Ciampi, che ha elogiato negli eroi di Cefalonia «la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali». Gli stessi valori che, a suo giudizio, dopo l’8 settembre guidarono tanti militari italiani disseminati in Italia e all’estero, compreso lo stesso Ciampi, allora giovane sottotenente dell’esercito («La memoria di quei giorni è ancora ben viva in noi. Interrogammo la nostra coscienza. Avemmo, per guidarci, soltanto il senso dell’onore, l’amor di Patria, maturato nelle grandi gesta del Risorgimento»). Per accreditare il significato patriottico del gesto dei soldati del generale Gandin e di tutti gli altri militari italiani che scelsero di resistere, Ciampi ha sottolineato il valore della «continuità dello Stato», mai venuta meno anche nella drammaticità degli eventi bellici. A questo proposito – non nei discorsi, ma in alcune interviste alla stampa – egli, pur condannando la mo-

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narchia per aver lasciato allo sbando, dopo l’armistizio, le forze armate, ha espresso esplicitamente una valutazione positiva sulla scelta di Vittorio Emanuele III di lasciare Roma per garantire la continuità istituzionale3. Il giudizio va controcorrente rispetto alla tradizionale memoria antifascista, caustica nei confronti del «re fuggiasco». Eccetto questo punto, la raffigurazione della Resistenza tracciata da Ciampi è rimasta ancorata alla tradizionale «narrazione egemonica» elaborata dalle forze antifasciste, incentrata sulla Resistenza come guerra di liberazione nazionale. Ciampi ha delineato meglio i contorni di tale raffigurazione dopo Cefalonia, nei discorsi tenuti a Sulmona e a Porta San Paolo. Nel racconto del presidente, la Resistenza ha assunto i tratti di «una vera epopea popolare», realizzatasi come «unione di popolo e forze armate». Nel discorso di Sulmona, ad esempio, Ciampi ha elogiato l’aiuto spontaneo prestato dalle popolazioni abruzzesi ai soldati italiani in fuga dopo l’8 settembre, e sottolineato «la continuità spirituale e materiale fra l’assistenza data da gente di ogni classe a coloro che cercavano rifugio» e la formazione successiva di bande partigiane (in questo caso la «Brigata Maiella»). La Resistenza è stata raffigurata dal presidente come un grande movimento di riscatto nazionale, animato dall’azione di quattro protagonisti principali: i militari che si opposero all’intimazione di resa dei tedeschi, la popolazione che si schierò spontaneamente al loro fianco proteggendoli e sfamandoli, i 600 mila soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi che si rifiutarono – nella stragrande maggioranza – di servire la Repubblica di Salò e, infine, la «punta avanzata» rappresentata dai partigiani4. Per Ciampi rappresentano momenti di alto valore simbolico quelli in cui si ebbe 3 In un’intervista rilasciata a Mario Pirani, Ciampi ha osservato che, con la fuga a Brindisi, la Corona ha «assicurato la continuità delle istituzioni rifugiandosi in un territorio liberato dalla presenza tedesca. Il che permise al governo Badoglio di dichiarare guerra alla Germania, all’Esercito di ricostituirsi e partecipare al conflitto». «La condotta dei Savoia e di Badoglio – ha aggiunto il presidente – resta senza scusanti per il modo con cui operarono, lasciando senza ordini e all’oscuro i comandi, senza guida l’Esercito e la Marina di fronte al prevedibile attacco tedesco» (cfr. M. Pirani, Ecco la mia idea di Patria, in «la Repubblica», 3 marzo 2001). 4 Si veda in particolare il discorso tenuto il 10 settembre 2001 a Roma a Porta San Paolo.

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l’unione di soldati e semplici cittadini contro i tedeschi, come a Roma a Porta San Paolo o a Piombino. Cemento per tutti i protagonisti della Resistenza sarebbe stato l’«amor di patria» d’ispirazione risorgimentale, caratterizzato in senso mazziniano non come egoismo nazionalistico ma come attaccamento alla propria nazione non disgiunto dal rispetto degli altri popoli e da un più ampio sentimento di fratellanza europea. La meta della lotta è stata per il presidente la conquista della democrazia, tutelata dalla Costituzione repubblicana, considerata «tuttora valida» e rispecchiante nella sua prima parte «in maniera piena e rigorosa» il sentire del popolo italiano5. L’esaltazione della Resistenza in chiave patriottica ha suscitato largo consenso nell’opinione pubblica e riscosso apprezzamenti più o meno sinceri da parte delle forze politiche, esclusa la Lega. Ha sollevato però anche un confronto polemico con quanti, in prima fila lo storico ed editorialista Galli della Loggia, avevano letto l’8 settembre come «morte della Patria». Galli della Loggia ha ribadito il suo punto di vista in un’intervista sul «Corriere della Sera» pubblicata poco dopo il discorso di Ciampi a Piombino6 ed è intervenuto nuovamente, in maniera più diretta e clamorosa, all’indomani della visita di Ciampi a Cefalonia con una lettera al presidente pubblicata sempre sul quotidiano milanese7, cui è seguita una risposta di Ciampi8. Lo storico ha rivendicato, piccato, il «proprio dovere di non farsi condizionare dalle polemiche aggressive di chicchessia» e confermato l’opinione di una mancanza nell’Italia repubblicana di un sentimento nazionale da ricondurre ai limiti e alle contraddizioni della Resistenza9. Il presidenLe espressioni di Ciampi fra virgolette sono tratte dal discorso tenuto il 21 settembre 1999 in occasione dell’incontro con Arrigo Boldrini (http://www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=9668). 6 Cfr. D. Fertilio, Patria. L’amore perduto dopo l’8 settembre, in «Corriere della Sera», 10 ottobre 2003. 7 Cfr. E. Galli della Loggia, Presidente, parliamo della Patria, ivi, 4 marzo 2001. Lo storico replicava alle dichiarazioni fatte da Ciampi in un’intervista rilasciata a Mario Pirani, pubblicata sulla «Repubblica» il 3 marzo (cfr. Pirani, Ecco la mia idea di Patria, cit.). 8 Cfr. C.A. Ciampi, Io, la Patria e i doveri di testimone, in «Corriere della Sera», 5 marzo 2001. 9 L’intervento di Galli della Loggia è stato mosso senza dubbio dalla volontà di replicare alle parole di Ciampi contro gli assertori dell’8 settembre come 5

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te, a sua volta, ha confermato pacatamente il parere opposto e il suo diritto di intervenire su questi temi senza alcuna intenzione di censura o di condizionamento degli storici. La vittoria elettorale del Polo delle libertà nel 2001 ha determinato una seconda fase nell’azione del Quirinale. Anche qui si possono rintracciare alcuni momenti significativi: il discorso di Ciampi a Lizzano in Belvedere (14 ottobre 2001); la visita a Marzabotto, compiuta insieme al presidente della Repubblica tedesca Johannes Rau, nell’aprile 2002; il discorso pronunciato ad Ascoli Piceno per il 25 aprile 2002; le dichiarazioni rilasciate nel maggio successivo nel corso di una visita a Trieste; l’intervento per il sessantesimo anniversario della battaglia di El Alamein (20 ottobre 2002); la decisione di celebrare per la prima volta la festa della Liberazione al Palazzo del Quirinale nel 2003; le celebrazioni del sessantesimo anniversario dell’8 settembre condotte in varie parti d’Italia. La radicalizzazione del confronto fra governo e opposizione ha incrementato il rilievo politico dell’opera svolta da Ciampi sulla memoria nazionale. La destra, nel suo complesso, ha cercato di sfruttare il richiamo presidenziale alla «concordia nazionale» per neutralizzare la mobilitazione politica degli avversari; mentre sul piano culturale, con l’eccezione della Lega, ha cercato di utilizzare l’appello di Ciampi all’«amor di patria» per promuovere i propri valori nazionali. La sinistra, invece, ha visto nel presidente della Repubblica un baluardo contro i tentativi revisionistici del centro-destra di porre sotto accusa la memoria della Resistenza e riscrivere la Costituzione. All’importanza crescente assunta dall’azione di Ciampi è corrisposto l’aumento dell’intensità delle polemiche nate contro o intorno alle sue dichiarazioni. La più accesa di queste è stata quella sorta a seguito del discorso tenuto a Lizzano in Belvedere, nell’ottobre 2001. Alla fine di un intervento tutto dedicato a celebrare la Resistenza (l’occasione era la concessione di una medaglia d’oro al partigiano Antonio Giuriolo), Ciampi aveva rivolto alcune parole ai «ragazzi di Salò», affermando che «molti dei gio«morte della Patria», ma vi si potrebbe anche scorgere una scintilla della vecchia polemica lanciata da Galli della Loggia nel 1993 contro l’azionismo. Come noto, il presidente Ciampi aveva aderito in gioventù al Partito d’Azione.

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vani che allora fecero scelte diverse, le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria», animati dal sentimento dell’«unità» del paese. Subito riprese ed enfatizzate dalle televisioni e dai giornali vicini al centro-destra, e apprezzate in particolare da An (il ministro Tremaglia vi scorgeva il definitivo «suggello» alla riconciliazione), quelle affermazioni hanno suscitato a sinistra alcune reazioni risentite, espresse nella forma più aperta nella critica dello scrittore Antonio Tabucchi pubblicata sull’«Unità»10. Tabucchi ha parlato di «deriva ideologica» e di parole «improponibili per una Repubblica nata dall’antifascismo come l’Italia». Lo scrittore ha negato recisamente che «i repubblichini, scherani e servi dei nazisti, autori di massacri e aguzzini» avessero difeso l’unità del paese e ha sottolineato come, con le loro azioni, avessero screditato e involgarito l’«idea di patria e il concetto di onore» in nome dei quali proclamavano di combattere. «Nelle sue incaute parole – ha continuato Tabucchi – il presidente della Repubblica dimentica che i nazi-fascisti non sono gli Assiro-babilonesi, scomparsi da quattromila anni: essi sono ancora presenti in Europa in varie forme di neo-nazismo, e fra l’altro il Parlamento italiano trabocca di ex-fascisti». Ciampi, in effetti, si era spinto un passo oltre quel tributo ai caduti di tutte le parti ispirato da umana pietà, da sempre presente nelle celebrazioni della Resistenza (rinnovato anche da Scalfaro negli anni Novanta), e al di là anche dell’appello di Violante a capire le ragioni dei «ragazzi di Salò». Aveva infatti sostenuto che «molti» di loro («alcuni, non tutti», preciserà successivamente)11 erano animati dalle stesse ragioni di chi faceva la Resistenza: amor di patria e volontà di preservare l’unità nazionale. Giudizio che da un lato premiava i combattenti fascisti omettendo altre ragioni o conseguenze della loro lotta, e dall’altro lato restringeva gli orizzonti politici ed etici della Resistenza che non si era battuta solo per la patria ma anche per un suo rinnovamento democratico. La A. Tabucchi, L’Italia alla deriva, in «l’Unità», 21 ottobre 2001. Il quotidiano ha riproposto il testo di un articolo di Tabucchi pubblicato in precedenza su «Le Monde». 11 Cfr. A. Cazzullo, La mia idea dell’Italia, in «La Stampa», 1° novembre 2001, intervista col presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. 10

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patria dei combattenti di Salò non era affatto la stessa dei partigiani. Per rispondere alle critiche, il Quirinale rendeva noto nei giorni successivi il motivo ispiratore delle affermazioni del presidente: una lettera ricevuta alcuni mesi prima dal senatore di Alleanza nazionale Piero Pellicini, che aveva chiesto alla massima autorità dello Stato «una parola pubblica di pace e di rispetto anche per coloro che ritennero di fare il proprio dovere combattendo dall’altra parte»12. Veniva diramato anche il testo della risposta di Ciampi. Il presidente si era detto d’accordo col senatore sul «desiderio di concorrere a rafforzare la coesione nazionale», ma non aveva mancato di ricordare all’interlocutore che «la Repubblica sociale appoggiò con la sua azione la causa del nazismo», contro la quale combatterono, invece, le forze militari rimaste fedeli al re, insieme a tutte le altre forze della Resistenza13. La rivelazione del retroscena dimostrava che non vi era stato da parte di Ciampi nessun proposito di «parificazione» fra le parti nel discorso di Lizzano. Sulla stampa di sinistra seguivano presto numerosi e autorevoli interventi di solidarietà al presidente della Repubblica14. Il segretario dei Democratici di sinistra Piero Fassino non aveva esitato a prendere fin dall’inizio le distanze da Tabucchi e a schierarsi a fianco di Ciampi15. Era il segno di una sintonia e di una convergenza sempre maggiori dello schieramento di centro-sinistra con l’azione del presidente della Repubblica. Non sono mancate di nuovo critiche, an12 Cfr. M. Breda, Dietro le dichiarazioni sui combattenti repubblichini, il messaggio di un senatore di An, in «Corriere della Sera», 17 ottobre 2001. Pellicini, capogruppo di An alla Commissione Difesa del Senato, si era rivolto a Ciampi nel marzo 2001, in occasione della discussione di un disegno di legge per la concessione dell’Ordine del Tricolore ai combattenti della seconda guerra mondiale, osteggiato da Alleanza nazionale perché escludeva i combattenti della Repubblica sociale. 13 Ciampi aveva testualmente scritto: – «Il giudizio storico sulla Repubblica di Salò – creata in antitesi allo Stato legittimo, il Regno d’Italia che non cessò di esistere fino al referendum del 2 giugno 1946 – non può dimenticare che essa appoggiò con la sua azione, la causa del nazismo, anche se scelte individuali di adesione furono ispirate al convincimento di fare in tal modo il proprio dovere». 14 Cfr., ad esempio, M. Pirani, Il Capo dello Stato tra Salò e Resistenza, in «la Repubblica», 5 novembre 2001. 15 P. Fassino, Fascismo e antifascismo, in «l’Unità», 22 ottobre 2001.

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che vigorose, come quelle espresse dopo la visita compiuta da Ciampi a El Alamein nell’ottobre 2002, per rendere omaggio a soldati che – come qualcuno giustamente ha rilevato – erano caduti combattendo a fianco della Germania nazista16. Ma questi appunti critici non hanno intaccato un consenso di fondo ampiamente maggioritario a sinistra per l’opera di Ciampi, manifestatosi in forma palese proprio nel 2002 in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della Liberazione. Sull’esempio del 25 aprile 1994, dopo la prima vittoria elettorale del centro-destra, anche la ricorrenza del 25 aprile 2002 è stata l’occasione di un’imponente mobilitazione politica dell’opposizione contro il secondo governo Berlusconi, sulla scia delle manifestazioni guidate nei mesi precedenti dal sindacato contro le proposte del centro-destra in materia di legislazione del lavoro. Non è un caso che il discorso di chiusura della grande manifestazione di Milano per la festa della Liberazione fosse tenuto dal segretario della Cgil, Sergio Cofferati, leader riconosciuto della protesta contro il governo. Dal palco Cofferati ha espresso un «no» deciso al revisionismo storico della destra. «La pietà per i morti, tutti i morti – egli ha detto – non deve stravolgere le responsabilità politiche e morali di chi ha combattuto dalla parte del fascismo. Nessuno può accettare che chi combatteva per superare il regime fascista e conquistare la libertà venga accomunato e confuso con gli stessi che quella libertà combattevano con la violenza»17. Lo stesso giorno ad Ascoli Piceno anche Ciampi, celebrando la Resistenza, dichiarava «improponibile» il revisionismo18. Il centro-destra ha ostentato apprezzamento per il discorso di Ciampi, sottolineandone un passaggio in cui il presidente aveva invocato uno «spirito di riconciliazione» nazionale19, ma era in evidente difficoltà per la puntualizzazione sul revisionismo. La sini16 Cfr., per esempio, S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 20-21. 17 Cfr. E. Bonerandi, Cofferati acclamato dalla folla. «Pietà, ma senza alterare i fatti», in «la Repubblica», 26 aprile 2002. 18 Cfr. Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della consegna della medaglia d’oro al valor militare al gonfalone della città, in http://www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=17430. 19 Cfr., per esempio, F. Jappelli, Ciampi: ricordare, ma senza odio, in «Il Secolo d’Italia», 26 aprile 2002.

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stra si è invece stretta intorno al Quirinale. Numerosi sono stati i commenti favorevoli apparsi sulla stampa. Sul «manifesto» Gianpasquale Santomassimo ha fatto un paragone fra l’atteggiamento dei due «presidenti»: il presidente del Consiglio Berlusconi col suo omaggio «surreale» alla figura del golpista Edgardo Sogno e il presidente della Repubblica col suo netto e meritorio richiamo ai valori della Resistenza20. Del resto, a Milano i partecipanti alla manifestazione per la Liberazione avevano trovato volantini con il testo di Bella ciao su un lato e l’Inno di Mameli sull’altro21, segno che la lezione di Ciampi era stata ben assimilata. La celebrazione del 25 aprile è stata caratterizzata nel 2002 anche da una significativa presa di posizione di Luciano Violante, ora capogruppo dei Ds alla Camera. Giudicando mutata la situazione rispetto al 1996, anno in cui aveva pronunciato le concilianti parole sui «ragazzi di Salò», Violante è ritornato sui suoi passi denunciando «un tentativo di restaurazione autoritaria basato sui modelli ideologici del fascismo» e ha dichiarato perciò impossibile una «pacificazione» con l’attuale destra22. L’esponente dei Ds ha menzionato alcuni fatti allarmanti che lo avevano indotto a mutare opinione: la decisione di alcuni comuni retti dal centro-destra di cancellare strade intitolate a famosi antifascisti23; la contestazione aggressiva, condotta a Roma da un gruppo di giovani legati ad An, contro uno spettacolo teatrale di condanna della Repubblica sociale24; la decisione infine – già ricordata – dell’amministrazione di Trieste di celebrare il 25 aprile una «festa della libertà» commemorando contemporaneamente le vittime della Risiera di San Sabba e le vittime delle foibe25. Sul caso di Trieste, motivo di aspre polemiche, è intervenuto il 4 maggio 2002 il preCfr. G. Santomassimo, Presidenti, in «il manifesto», 26 aprile 2002. Cfr. Duecentomila in piazza a Milano. Cofferati: «No al revisionismo», in «www.repubblica.it», 25 aprile 2002. 22 Cfr. Niente pacificazione con questa destra, in «Corriere della Sera», 25 aprile 2002, e L. Benini, Troppe minacce e intimidazioni e il governo fa finta di nulla, in «l’Unità», 26 aprile 2002, intervista con Luciano Violante. 23 Ad esempio, nel comune di Scanno, in Abruzzo, era stato proposto di togliere una targa dedicata al filosofo antifascista Guido Calogero. 24 Si trattava dello spettacolo di Bebo Storti Mai morti, che metteva in scena al teatro Vascello di Roma la figura di un comandante della Decima Mas. 25 Per un commento critico all’intervento di Violante cfr. G. Belardelli, Un giudizio fuori misura, in «Corriere della Sera», 25 aprile 2002. 20 21

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sidente della Repubblica. Nel corso di una visita alla redazione del quotidiano triestino «Il Piccolo», Ciampi ha ribadito la condanna espressa pochi giorni prima ad Ascoli Piceno contro il revisionismo26. Il presidente ha espresso pietà per tutte le vittime, le vittime delle foibe al pari delle vittime della Risiera, ambedue «orribili manifestazioni di violenza e di aberrazione, ambedue da non dimenticare, ciascuna nel suo contesto storico». Ma ha anche sottolineato come le due vicende, «entrambe esecrande», fossero «storicamente distinte». Nessun dubbio infine sul significato che doveva avere la celebrazione del 25 aprile. «Il 25 aprile – ha affermato Ciampi – simboleggia l’esito finale, positivo, il successo della Resistenza nella lotta al nazifascismo e dunque l’inizio della vita democratica della nuova Italia». Su questo punto non erano ammesse ambiguità: non era consentito stravolgere il significato della festa. Insomma, come ha concordato Giovanni Belardelli sul «Corriere della Sera», non si potevano «celebrare insieme la Liberazione e le vittime delle foibe»27. Generale è stato l’apprezzamento per le parole di Ciampi espresso dalla sinistra, a partire da uno dei suoi più pugnaci opinionisti, l’ex partigiano piemontese Giorgio Bocca28. Dopo gli interventi di Ciampi contro il revisionismo pronunciati nel 2002 si è creato dunque un saldo legame fra il Quirinale e l’area politica e culturale del centro-sinistra, ancorato al comune riconoscimento del nesso che intercorre fra la difesa della Resistenza e la difesa della Costituzione. È emblematico che in occasione di ogni ricorrenza celebrativa, dell’8 settembre come del 25 aprile, i comunicati delle associazioni partigiane facciano costantemente riferimento al magistero del presidente Ciampi. È altresì significativa la decisione del quotidiano «l’Unità» di pubblicare il testo integrale dell’intervento pronunciato da Ciampi il 25 aprile 2003. Il discorso tenuto da Ciampi ad Ascoli Piceno il 25 aprile 2002 ha avuto importanza anche dal punto di vista della raffigurazione della Resistenza. Vi hanno trovato, infatti, compiuta espressione 26 Cfr. M. Breda, Risiera e foibe simboli di violenze diverse, ivi, 5 maggio 2002; G. Battistini, Non confondere Risiera e foibe, in «la Repubblica», 5 maggio 2002. 27 G. Belardelli, Le parole di Ciampi e le nostalgie di An, in «Corriere della Sera», 7 maggio 2002. 28 Cfr. G. Bocca, Il valore del 25 aprile, in «la Repubblica», 5 maggio 2002.

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tre caratteristiche già presenti nella ‘retorica’ celebrativa del presidente: l’idea di una «Resistenza allargata», l’idea del legame fra Resistenza e costruzione europea, l’idea di edificare una «memoria intera», che non trascuri alcun aspetto della storia del paese. Ciampi ha prima di tutto precisato la sua concezione della Resistenza, riprendendo la raffigurazione già tracciata in precedenza, ad esempio nei discorsi di Piombino, di Sulmona o di Porta San Paolo. Il presidente ha individuato nella lotta di liberazione tre fattori principali: «la Resistenza attiva di chi prese le armi in pugno, partigiani, soldati, militari che seguirono l’impulso della propria coscienza»; «la Resistenza silenziosa della gente, dei cittadini che aiutarono, soccorsero feriti, fuggiaschi, combattenti, esponendosi a rischi elevati»; infine, «la Resistenza dolorosa dei prigionieri nei campi di concentramento, di chi si rifiutò di collaborare». Qualcuno ha visto in questa lettura della Resistenza l’eco dell’interpretazione (e della proposta) fatta nel 1995 dallo storico e intellettuale cattolico Pietro Scoppola29. Difficile dire quanto Ciampi debba a questa supposta fonte d’ispirazione, certamente a lui ben nota. Nella sostanza, si può comunque osservare che la «visione corale» del presidente non fa che riproporre il canone resistenziale sviluppato dall’antifascismo già all’indomani della guerra e proposto costantemente negli anni seguenti in occasione delle commemorazioni della Resistenza30. Un canone che privilegia, come comune denominatore, il carattere di guerra di liberazione nazionale della Resistenza, stemperando, fin quasi a nascondere, gli elementi di differenziazione e di attrito fra le varie componenti antifasciste e l’aspetto di guerra civile del confronto con il fascismo di Salò. Un canone, inoltre, che sottolinea il carattere nazionale della Resistenza anche dal punto di vista delle sue radici storiche, con l’enfasi tributata al legame fra Risorgimento e lotta di liberazione, interpretata appunto come «secondo Risorgimento». Ciampi ha riproposto con passione questa lettura di fondo, con la novità – non irrilevante – di una accentuazione rispetto al passato del ruolo della Resistenza militare, in cui emerge probabilmente anche un dato biografico personale. Nel riproporre P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995. Un esempio potrebbe essere il discorso per il ventennale tenuto dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. 29 30

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una «Resistenza tricolore», il Quirinale ha inteso promuovere nel paese un’idea della Resistenza in cui tutti possano riconoscersi senza che nessuno possa vantarne il monopolio. È stato però osservato che così il significato della lotta di liberazione viene fortemente limitato. La Liberazione, infatti, diventa «principalmente un fatto militare, la Resistenza una ribellione contro l’illegittimo governo di Salò al soldo dello straniero»31. Il secondo aspetto è rappresentato dal richiamo all’Europa. Pochi giorni prima di tenere il discorso ad Ascoli Piceno, vi era stata l’importante visita condotta da Ciampi insieme al presidente della Repubblica tedesca Rau a Marzabotto, luogo della più grande strage nazista in Italia. Nell’occasione Ciampi, in sintonia con le parole del presidente tedesco, aveva lanciato il monito: «Mai più odio, sangue, tra i popoli d’Europa»32. Era lo stesso messaggio di fratellanza fra i popoli europei che Ciampi aveva fatto risuonare nella sua prima commemorazione di El Alamein nel 2000, e rilanciato poi nel corso della seconda visita sul luogo della battaglia nell’ottobre di due anni dopo. Lo stesso richiamo Ciampi ha fatto il 25 aprile 2002. «Dalla tragedia della guerra – egli ha affermato – la mia generazione uscì con una idea chiara: costruire un’Europa sorretta da istituzioni fondate sui principi della democrazia, un’Europa generatrice di pace, l’Europa dei valori, della libertà, della giustizia, del rispetto della dignità umana, della solidarietà». Per Ciampi, dunque, la Resistenza ha un significato che trascende l’ambito nazionale, rappresenta un momento cruciale di lotta per la democrazia e la libertà che accomuna l’Italia e gli italiani agli altri popoli d’Europa, che nel 1945 si liberarono o furono liberati dall’oppressione nazista. In concomitanza con l’avvicinarsi di passaggi fondamentali del processo di unificazione europea, come l’allargamento e la stesura della Costituzione, il presidente ha accentuato i suoi riferimenti all’Europa, legando assieme in maniera sempre più stretta Risorgimento-Resistenza-Repubblica italiana-Unione europea.

G. Polo, Le giuste divisioni, in «il manifesto», 26 aprile 2003. Cfr. Intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della cerimonia commemorativa dei caduti di Marzabotto, San Martino, 17 aprile 2002, in http://www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=17363. 31 32

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Un terzo fattore di rilievo emerso nel discorso di Ascoli Piceno riguarda il nesso fra memoria storica e giustizia. «Il lavoro della memoria – ha detto Ciampi – presuppone la giustizia, non per spirito di vendetta, ma per riaffermare i fondamenti dei nostri ordinamenti, della nostra civiltà; il lavoro della memoria impone soprattutto che nessuna delle vicende di quegli anni venga dimenticata». Il concetto è stato ripreso l’anno successivo, in un’intervista concessa al «Corriere della Sera»33. Qui Ciampi ha parlato della necessità di creare in Italia una «memoria intera», con l’obiettivo «di ritrovarci tutti insieme in una storia comune», una storia «fatta di momenti esaltanti e di errori». Leggere, dunque, tutte le pagine della storia italiana per promuovere una «riconciliazione senza amnesie» (per citare ancora l’intervista al «Corriere della Sera»). Questo il proposito ambizioso e impegnativo di Ciampi, che ad Ascoli ha sollecitato a questo fine l’accertamento della verità sui crimini nazifascisti nascosti nell’«armadio della vergogna». E un passo in questa direzione può essere considerato anche il ricordo e la commemorazione della «pagina nera» delle foibe fatti in più occasioni dal presidente34. Lo storico Giovanni Sabbatucci ha riscontrato una contraddizione fra il monito di Ciampi contro l’«improponibile revisionismo» e l’invito, lanciato poche battute dopo, a fare i conti con ogni vicenda della storia nazionale, ancorché scabrosa e imbarazzante35. Pensiamo in proposito che Ciampi avesse di mira il cosiddetto «revisionismo dei valori» e non intendesse in alcun modo porre limiti o indirizzare la ricerca storiografica. C’è tuttavia il rischio effettivo che l’appello alla verità e alla giustizia promosso dal Quirinale incontri dei limiti di fondo: sia confinato cioè a quelle vicende che hanno visto gli italiani soltanto nel ruolo di vittime, vestissero i carnefici la divisa della Wehrmacht o quella di partigiano jugoslavo. Saremmo così di fronte a una ennesima espressione di quel «patriottismo espiativo» di cui ha parlato Gian Enrico Rusconi, ovvero al senti33 Cfr. M. Breda, Una memoria intera, un Paese più unito, in «Corriere della Sera», 25 aprile 2003. 34 Fin dalla visita di Ciampi a Trieste nel febbraio 2000. 35 Cfr. D. Fertilio, Sabbatucci: la ricerca non può avere limiti. Il presidente fa un uso politico della storia, in «Corriere della Sera», 26 aprile 2002. Per un diverso punto di vista cfr. M.Br., Viroli: le cattive analisi cancellano le colpe. Chi ha seguito ideologie sbagliate lo confessi, ivi.

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mento di un’appartenenza nazionale degli italiani fondato sull’idea di un riscatto nazionale basato sulle comuni sofferenze patite36. Resterebbero escluse quelle pagine poco nobili della storia italiana che hanno visto nostri connazionali rivestire i panni di «oppressori e carnefici», ad esempio nei Balcani dopo il 1941. Non avrebbe forse Ciampi l’obbligo morale di far visita a uno dei luoghi simbolo dell’occupazione italiana in Jugoslavia, così come ha fatto il presidente tedesco Rau recandosi in visita a Marzabotto?37 Certamente dietro il gesto di Rau c’è un lungo e travagliato processo di resa dei conti col proprio passato che i tedeschi hanno avviato da almeno quarant’anni con una determinazione sconosciuta all’Italia, dove il fascismo passa ancora per quel regime che «mandava la gente in vacanza al confino»38. Probabilmente, prima di un analogo gesto da parte di Ciampi, occorre che si diffonda nel paese una consapevolezza critica per il momento quasi inesistente. 36

Cfr. G.E. Rusconi, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 22-

23. Cfr. Tranfaglia: ora si scusi l’Italia, in «l’Unità», 18 aprile 2002. Secondo la nota dichiarazione fatta dal presidente del Consiglio Berlusconi in un’intervista resa il 27 agosto 2003 al giornale inglese «The Spectator». Cfr. G. Liuzzi, Berlusconi choc su Mussolini, in «la Repubblica», 12 settembre 2003, e P. Franchi, Cavaliere, ripassi un po’ di storia, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2003. 37 38

CONCLUSIONI

La crisi della memoria della Resistenza e del «paradigma antifascista» data dagli anni Ottanta, allorché la sfida lanciata da Craxi al Partito comunista per l’egemonia sulla sinistra si tradusse anche in un confronto sulle origini e la storia della Repubblica. Il leader socialista aveva buone ragioni per incalzare il Pci sul nesso antifascismo-democrazia, essendo il primo condizione necessaria ma non sufficiente della seconda. La sua azione produsse però, come effetto più o meno intenzionale, lo scatenarsi di tutte quelle forme di critica alla Resistenza da sempre circolate in ampi settori dell’opinione pubblica del paese sotto la scorza della memoria ufficiale elaborata dall’antifascismo. Elemento di grande rilievo fu poi rappresentato, verso la fine degli anni Ottanta, dalla proposta di abolizione della XII norma transitoria e finale della Costituzione italiana che impedisce la ricostituzione del disciolto Partito fascista. Il passo fu autorevolmente auspicato anche da Renzo De Felice, convinto del carattere residuale del Movimento sociale italiano e della necessità di superare l’«antifascismo come ideologia di Stato» per edificare una sana democrazia in Italia1. Il crollo del comunismo dopo il 1989 e la crisi del sistema dei partiti della Prima Repubblica hanno quindi impresso un’accelerazione alla crisi della narrazione e del paradigma antifascisti. Si è fatta pressante la richiesta di una nuova memoria pacificata corrispondente al nuovo assetto bipolare del sistema politico italiano. Una memoria che, come ha sostenuto l’attuale presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, dovrebbe essere co1 Cfr. le due interviste rilasciate da De Felice a Giuliano Ferrara per il «Corriere della Sera» nel dicembre 1987 e nel gennaio 1988, in J. Jacobelli (a cura di), Il fascismo e gli storici oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 3-11.

Conclusioni

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struita su basi diverse da quelle poste nel dopoguerra dalla «storiografia figlia dell’arco costituzionale», ancorata alla «pregiudiziale antifascista»2. Si tratta di un’affermazione opinabile. Le trasformazioni dei sistemi politici, infatti, non comportano necessariamente degli adeguamenti della memoria pubblica nazionale, come dimostra il passaggio in Francia dalla Quarta alla Quinta Repubblica. In Italia, tale adeguamento è diventato urgente in ragione della presenza nella coalizione di centro-destra di una componente come Alleanza nazionale con radici tuttora ben salde nella memoria del fascismo. Ne è nato un braccio di ferro sulla memoria pubblica della Resistenza che per molti aspetti ricorda le contrapposizioni dei primi anni Cinquanta fra i governi centristi e le forze della sinistra. Si assiste, infatti, a un intenso uso politico di quella memoria che punta, in ultima istanza, alla delegittimazione dell’avversario. Il centro-destra, ad esempio, ha cercato di utilizzare il richiamo alla lotta di liberazione per sostenere la ‘liberazione’ dell’Iraq compiuta dagli americani3, mentre la sinistra ha invocato la stessa memoria per le ragioni opposte, per condannare la «guerra preventiva» di Washington in Medio Oriente4. Il centro-destra, come la Dc negli anni più cupi della guerra fredda, celebra la Resistenza come riconquista della libertà e dell’indipendenza nazionali contro l’indebita appropriazione e l’indebito utilizzo politico fattone dai «comunisti». E il centro-sinistra, come le sinistre di allora, si mobilita e scende «in trincea» per difendere la memoria della Resistenza da chi intende ancora una volta tradirla e affossarla. Esistono però differenze marcate rispetto agli anni Cinquanta. La minaccia comunista rappresenta adesso solo uno spauracchio, mentre ai tempi della Corea era qualcosa di tangibile. Fra coloro che incalzano le sinistre da posizioni di governo ci sono ora anche i nemici storici della Resistenza, apparentemente ravveduti, ma ancora avvezzi – come affermano essi stessi – a passare il 25 aprile ascoltando in poltrona i di2 Cfr. G. Tiberga, «Basta con l’arco costituzionale». Casini: una storiografia da Prima Repubblica, in «La Stampa», 13 novembre 2000. Intervista a Pier Ferdinando Casini. 3 Cfr., per esempio, M. Teodori, La Resistenza dell’ideologia, in «Il Giornale», 25 aprile 2003. 4 Cfr., per esempio, Le bandiere partigiane e pacifiste insieme per celebrare il 25 aprile, in «la Repubblica», 25 aprile 2004.

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scorsi di Mussolini5. Incomparabile risulta anche la capacità di agire attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La tv degli anni Cinquanta, controllata dalla Dc, aveva una potenza di gran lunga inferiore rispetto al sistema televisivo odierno controllato da Silvio Berlusconi. Ne deriva che, mentre negli anni Cinquanta ci fu una competizione fra i partiti per accaparrarsi il monopolio della Resistenza, secondo un meccanismo che a detta di qualcuno rappresentò il modo in cui la memoria della Resistenza potette affermarsi6, negli anni Novanta, e ancor più all’inizio del nuovo millennio, la competizione politica ha invece messo a repentaglio i fondamenti stessi di quella memoria. Lo dimostrano le proposte di trasformare il 25 aprile in una «festa della libertà» contro ogni totalitarismo o di abolire del tutto la ricorrenza, non ultimo attraverso il taglio dei fondi alle associazioni che dovrebbero preservarne la memoria7. Lo dimostra, infine, l’azione svolta da An per edificare una memoria parallela o alternativa legata al ricordo delle foibe e a quello dell’espulsione degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Rispetto a queste sfide, la memoria della Resistenza ha dimostrato di essere un patrimonio ancora vivo, capace di unire e di ispirare forze politiche e culturali diverse che si riconoscono nei valori dell’antifascismo, dall’area cattolica a quella liberaldemocratica, dall’area socialista a quella marxista della sinistra radicale. Grazie anche all’azione del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la memoria della Resistenza è stata efficacemente preservata dall’attacco dei suoi potenti detrattori. Ma la sua difesa (per il momento riuscita) non ne garantisce la persistenza nel

5 È quanto dichiarato dal sindaco di Benevento, Sandro D’Alessandro, esponente di Alleanza nazionale. Sotto la sua guida, nel maggio 2002, la giunta comunale mutò il nome di piazza Matteotti in piazza Santa Sofia. Cfr. G.A. Stella, La «Liberazione» di Benevento, cancellato Matteotti, in «Corriere della Sera», 28 aprile 2002. 6 Cfr. C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile, in L. Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 358. 7 Si veda l’allarme lanciato nell’agosto 2004 da Arrigo Boldrini, che ha denunciato un taglio del 55 per cento dei fondi destinati all’Anpi. Cfr. G.A. Boldrini, C’è chi vuole farla finita con la Resistenza. Più forza all’ANPI, più forza alla memoria, più forza alle battaglie per la democrazia, in http://www.anpi.it/sottoscr04/.

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futuro né attesta di per sé la sua vitalità. La proposta più incisiva di riattivazione della memoria della Resistenza è stata sicuramente quella avanzata negli ultimi anni dal presidente della Repubblica, caratterizzata dal forte richiamo ai valori nazionali. Valori che connotano l’intera presidenza di Ciampi, contraddistinta da atti significativi come la riapertura del Vittoriano e il ripristino, il 2 giugno, della festa della Repubblica. Abbiamo già avanzato alcune riflessioni e alcuni interrogativi sulla politica della memoria del Quirinale. Ma occorre un ulteriore approfondimento. Il «patriottismo costituzionale» promosso da Ciampi ha avuto finora successo come baluardo della memoria della Resistenza e della Costituzione, ma si è prestato anche a un’opera di intensa manipolazione. È sufficiente ricordare un paio di casi. All’indomani del discorso di Lizzano in Belvedere, un giornale radio della Rai informava gli ascoltatori, con manifesto compiacimento, che, «dopo il discorso del presidente della Repubblica sui giovani che hanno scelto la Repubblica sociale, sono a disposizione i volumi editi rispettivamente dall’Istituto di Studi Storici della Repubblica sociale e dalle Edizioni dello Scarabeo sulle pagine indimenticabili della Repubblica di Salò»8. Il secondo caso emblematico è quello di una nota trasmissione televisiva che nell’ottobre 2004 ha mandato in onda un lungo servizio in cui la tragica sorte dei soldati italiani uccisi nell’attentato di Nassiriya veniva paragonata impropriamente a quella dei militari trucidati dai tedeschi a Cefalonia9. La riscoperta di Cefalonia fatta da Ciampi veniva così utilizzata politicamente per sostenere la missione italiana in Iraq. Nello sforzo di accreditare il significato nazionale della Resistenza, Ciampi ha enfatizzato la sua dimensione patriottica glorificando le gesta compiute nella lotta di liberazione. Meno risalto ha dato invece alla condanna delle colpe del fascismo, di cui si trovano tracce piuttosto scarne nei suoi discorsi. Fra queste si segnalano la condanna della «guerra di aggressione» contro la Gre8 F. Colombo, Un giorno nella vita de l’Unità, in «l’Unità», 22 ottobre 2001. Nostro il corsivo nella citazione. 9 Ci riferiamo a una puntata della trasmissione Porta a porta, di Bruno Vespa, andata in onda su Rai Uno il 26 ottobre 2004.

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cia fatta a Cefalonia10 o la condanna pronunciata a Trieste della «guerra sbagliata e perduta [...] voluta dalla dittatura, costata a tutto il popolo italiano un altissimo prezzo di vite spezzate, di terre italiane irrimediabilmente perdute»11. Come accennato, il concetto di «memoria intera» sviluppato dal presidente sembrerebbe includere tutte le pagine nere di violenza subita dagli italiani, ma non le pagine altrettanto nere di violenza arrecata. Questo rende il messaggio di Ciampi probabilmente più unitario e capace di riscuotere maggior consenso immediato, ma anche più strumentalizzabile, in primo luogo da coloro che, pur condannando a parole gli «orrori» del fascismo (la dittatura, la persecuzione razziale, lo sterminio), nei fatti riabilitano, su giornali e tv, uomini e realizzazioni del ventennio, compreso chi si rese complice di tali «orrori» schierandosi dopo l’8 settembre dalla parte di Mussolini. Di fronte all’enfasi con cui la destra (non leghista) si appella al concetto di patria, tornano utili alcune riflessioni dello storico Federico Romero. A suo giudizio, il limite del dibattito sull’identità nazionale e sulla morte vera o presunta della patria, sta nell’evitare di affrontare «non il post-8 settembre, bensì il pre-8 settembre»: «la lunga parabola del nazionalismo italiano che conduce all’impero e alla guerra prima ancora che alla sconfitta»12. Per Romero, con l’8 settembre è morto il concetto di patria di matrice nazionalista, condiviso ed esaltato dal fascismo, inteso come «progetto di indipendenza e grandezza nazionale definito dalla capacità di essere potenza pari alle altre grandi potenze europee». Alla destra politica italiana – come egli sostiene – riesce difficile fare i conti «con l’intrinseco rapporto tra il fascismo e l’intera parabola fallimentare del nazionalismo come progetto identitario»13. 10 Nel discorso tenuto a Cefalonia il 1° marzo 2001 Ciampi aveva affermato: «Non dimentichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia, vittima di una guerra di aggressione». 11 Cfr. Intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione del 50° anniversario del ricongiungimento della città all’Italia, Trieste 4 novembre 2004, in http://www.quirinale.it/Discorsi/Discorso.asp?id=25740. 12 F. Romero, Le rimozioni dell’identità nell’Italia postbellica, in «Italia Contemporanea», settembre-dicembre 2000, 220-221, p. 425. 13 Cfr. l’intervento di Id., Orfani degli anni quaranta: Italia e Stati Uniti, tenuto il 22 settembre 2001 al convegno di Urbino, Cantieri di storia, organizzato

Conclusioni

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Entro quest’area sono in tanti a nutrire la convinzione di una reviviscenza di tale progetto nel mondo post-bipolare. Convinzione che alimenta un alacre lavoro politico e culturale. Un progetto identitario di questo genere è favorito, in ultima analisi, dalla scarsa consapevolezza del paese – potremmo dire dalla sua diffusa amnesia – circa la realtà storica del fascismo, declassato da moderno esperimento totalitario a una «dittatura benigna», a un regime in fin dei conti benevolo, consono all’indole degli italiani e non privo di presunti meriti storici (dal ristabilimento della «legge e dell’ordine» dopo gli scombussolamenti sociali del primo dopoguerra, alla modernizzazione del paese finalmente dotato di treni in orario e paludi bonificate). È questo processo, che Emilio Gentile ha chiamato di «defascistizzazione retroattiva» del regime14, a rendere plausibile la proposta di un modello di identità nazionale di sapore antico, che esalta l’«amor di patria» a prescindere dall’impresa per la quale venga profuso. Diventa dunque urgente affrontare di nuovo il nodo storico e storiografico del fascismo, e in particolare quello fin qui lacunosamente indagato e clamorosamente rimosso dei suoi crimini. Rimosso innanzitutto per volontà dei loro responsabili, ma anche per effetto di una «narrazione antifascista» concentrata sulla valorizzazione dei meriti guadagnati dopo l’8 settembre e molto meno sul riconoscimento delle colpe italiane nella guerra dell’Asse. Motivi sia politici (il trattato di pace, la legittimazione dei partiti antifascisti) che psicologici (la «rimozione terapeutica» del ventennio per consentire agli italiani di riprendere una nuova vita nell’alveo della democrazia) hanno storicamente giustificato quella narrazione. A distanza di tempo, però, certe omissioni non hanno più ragione di essere. La memoria della Resistenza non rischia in alcun modo di essere compromessa da un esame di coscienza doveroso, che solo pochi hanno cercato di avviare e che resta ancora tutto da compiere nella coscienza del paese e della sua classe dirigente. Occorre, infine, ricordare che esistono modelli di identità nazionale diversi e alternativi. Identità significa avere delle radici, dalla Sissco. Il testo è disponibile sul sito web dell’associazione (http://www. sissco.it/attivita/sem-set-2001/abstracts/romero-relazione.doc). 14 Cfr. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. VII.

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ma anche condividere un progetto che le trascende15. Ciampi ha il merito di aver difeso il patrimonio del Risorgimento e della Resistenza dal martellante attacco revisionista, ma soprattutto quello di aver legato le origini resistenziali della Repubblica al progetto dell’Unione europea, di un’Europa democratica e unita, di cui la sua generazione ha posto le fondamenta dopo le tragedie della guerra, ma che deve ancora progredire e affrontare sfide nuove e impegnative. Come hanno notato alcuni osservatori16, il legame fra Resistenza italiana, Resistenza europea e ricostruzione democratica dell’Europa rappresenta un nesso di riflessione storica e di impegno etico e politico che può contribuire a dare un rinnovato significato alla memoria della Resistenza.

15 Per una bella riflessione sul concetto di patria cfr. C. Magris, Un’idea di patria (senza retorica), in «Corriere della Sera», 2 giugno 2002. Rappresentano un punto di riferimento i volumi: M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari 1995 e W. Barberis, Il bisogno di patria, Einaudi, Torino 2004. 16 Cfr. G. Arfè, Europa unita, un sogno resistente, in «il manifesto», 25 aprile 2004.

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LE ORIGINI DELLA NARRAZIONE ANTIFASCISTA DELLA GUERRA

SI COMPIE IL NOSTRO SECONDO RISORGIMENTO. GUERRA DI POPOLO [Alberto Cianca, «L’Italia Libera», 27 aprile 1945]

La guerra a cui il fascismo trasse l’Italia a fianco ed al servizio della Germania hitleriana fu guerra del regime dittatoriale, col necessario concorso dei suoi complici, contro il popolo italiano. Badoglio, nell’infausto proclama del 25 luglio, annunciò che quella guerra continuava. E, per impedire che le masse popolari scendessero in piazza ad affermare la loro volontà contraria, i comandanti militari di Milano, di Torino e di altre città ebbero l’ordine di impedire, con la minaccia delle armi, le spontanee manifestazioni del sentimento pubblico. Intanto, gli esponenti massimi della situazione politica che aveva condotto l’Italia alla disfatta abbandonavano Roma e cercavano la salvezza nella fuga. Il popolo era lasciato a se stesso, senza guida; tradito dai generali che dovevano organizzare la difesa di Roma e del territorio nazionale contro l’invasore tedesco. Ma, nell’ora tragica, il popolo ritrovava la coscienza del suo compito e offriva la miglior parte di sé alla lotta partigiana, fatta di geniali iniziative, di accorta capacità organizzatrice, di temerario coraggio e di passione eroica. Così s’iniziava la vera guerra del popolo; la sola, che gli italiani abbiano accettata e sostenuta con l’entusiasmo che trae alimento dall’adesione spirituale alla causa per cui si combatte, ossia dalla fede. Intellettuali, operai, contadini; giovani diciottenni e veterani, tutti hanno nobilmente gareggiato nella lotta clande-

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stina e nell’ostinata offensiva antitedesca, scrivendo pagine di autentica gloria in questo sanguinoso slancio di liberazione e di riscatto. Le brigate partigiane che sulle loro bandiere portano, a incitamento e simbolo, il nome del grande condottiero delle camicie rosse e quelli dei martiri antifascisti annunciatori della loro epopea, attestano di fronte al mondo la continuità ideale tra il primo Risorgimento, che l’azione corruttrice ed angusta di forze negative compresse nei suoi sviluppi e tradì nei suoi fini, ed il secondo Risorgimento, che dovrà aprire all’Italia, nella libera e affratellata nazione europea, le vie dell’avvenire. È per opera dei patrioti, guidati dai Comitati di Liberazione, che i centri del Nord, ove fascisti e nazisti avevano instaurato il loro vile e feroce terrorismo, vengono ad uno ad uno restituiti alla nazione. A Genova, il Comando tedesco tratta la resa col Comitato di Liberazione. Dalle radio delle città riconquistate giungono alle altre zone dell’Italia liberata voci di fiera esultanza. Se non temessimo di immiserire con accenni retorici la grandiosa bellezza di questi momenti, diremmo che a quella esultanza partecipano gli spiriti di tutti coloro che, nelle prigioni, nel confino, nell’esilio offrirono libertà e vita alla lotta antifascista e, soprattutto, gli spiriti dei più generosi fra i nostri, che caddero davanti ai plotoni di esecuzione o negli scontri col soverchiante nemico. Oggi, i martiri delle Fosse Ardeatine debbono sentirsi in parte vendicati. In parte; perché il loro sacrificio, come quello dei compagni che li hanno preceduti e seguiti, non troverà pieno compenso se non nella vittoria degli ideali da cui quel sacrificio trasse ispirazione ed alimento. È alla luce di questi ideali, che le magnifiche gesta dei patrioti del Nord debbono essere considerate e potenziate sul terreno politico. Esse confermano – contro le menzogne del fascismo e di quanti si sforzano di nascondere o attenuare le proprie responsabilità, storicamente incancellabili, dietro le presunte responsabilità del popolo italiano – che questo popolo non può essere giudicato responsabile di una guerra che era estranea, non solo al suo interesse, ma al suo reale sentimento: esse testimoniano che questo popolo, non appena è stato in condizioni di farlo, ha dimostrato, nonostante tradimenti e defezioni, la sua volontà e la sua capacità di liberarsi, stretto dal vincolo di un’alleanza di sangue, se non ancora di trattati, con le Nazioni Unite.

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La coincidenza della liberazione delle città settentrionali per opera dei patrioti con le prime sedute della Conferenza di San Francisco accresce la legittimità e l’amarezza della nostra delusione per l’assenza dell’Italia da quel consesso internazionale, che dovrà stabilire le fondamenta di una pace di giustizia e di ricostruzione, che non è concepibile senza la collaborazione attiva del nostro paese. Ma, oltreché sul terreno internazionale, le gesta dei patrioti del Nord ci richiamano a un più illuminato e virile esame della situazione nel campo della politica interna. La vittoria dei partigiani è frutto del loro ardimento, ma è anche frutto dell’azione politica e morale dei Comitati di Liberazione; i quali hanno riaffermato l’importanza decisiva della loro funzione, rappresentativa e direttiva, nei riguardi dei problemi essenziali della crisi e della rinascita. Sono i Comitati di Liberazione Nazionale che hanno preparato nella drammatica vigilia ed ora guidano l’insurrezione popolare, volta non solo a snidare e cacciare il nemico in armi, ma ad estirpare alle radici, attraverso un’opera di giustizia e di ricostruzione, le cause che hanno determinato, con l’avvento del fascismo, le sciagure di cui soffre il paese. Ai motivi ed allo spirito di questa insurrezione deve oggi adeguarsi l’opera di un governo che sia degno di questo nome e capace di interpretare ed attuare le esigenze che si esprimono dalla superba vittoria popolare. L’insurrezione apre le porte dell’avvenire ad un’Italia nuova: nuova negli istituti politici, negli ordinamenti sociali, nel costume. La lotta che s’iniziò con l’offensiva squadristica contro il lavoro e il pensiero prima che il vecchio Stato liberale abdicasse in favore della fazione che lo negava; la lotta che conobbe le tristezze dell’asservimento e il duro sacrificio delle proteste generose, conosce in questi giorni l’inebriante conforto di una grande vittoria. Ma la lotta avrà, storicamente, la sua conclusione solo il giorno in cui tutte le forze su cui pesa la responsabilità del fascismo, della guerra e della disfatta non saranno state messe in condizione di non poter più nuocere, per i loro interessi particolari, agli interessi della nazione. Verso questa opera di rinnovamento, nell’attesa della Costituente, debbono tendere fin da ora i partiti e il popolo.

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GIUSTIZIA [Guido Gonella, «Il Popolo», 30 aprile 1945]

Alle truppe alleate entrate in Milano, la metropoli lombarda ha mostrato un duplice volto: un popolo plaudente che si è liberato dal servaggio nazista e fascista, e la macabra punizione dei responsabili del nostro dramma. Nello stesso luogo in cui un anno fa un manipolo di patrioti milanesi cadde vittima del piombo fascista, giacciono i cadaveri dei grandi e piccoli agenti di Hitler, dei più crudeli istigatori dell’odio fratricida. Giustizia è stata fatta. E ora i cadaveri stanno meglio nelle fosse che nelle piazze, perché il popolo italiano deve liberarsi al più presto dallo stesso ricordo di un infausto passato. Non c’è bisogno né di nuovo odio, né di salme insepolte. La folla, fino a ieri costretta a osannare il tiranno, oggi si è fatta giustiziera del tiranno. E così Mussolini è uscito come un fuggitivo dalla nostra storia. Senza coraggio, senza nobiltà e senza aureola di gloria. In quella stessa Milano dalla quale ventitré anni fa partì la marcia degli aggressori dello Stato, sono ora ritornate entro funebri carri le spoglie di coloro che hanno regalato all’Italia vergogna e lagrime. Fra le due date vi è una storia di disonore e di morte, una storia di futilità e meschinità di cui Mussolini resta la più alta personificazione. Un mondo plebeo dominato dalla rumorosa corpulenza gladiatoria del capo, la cui smisurata ambizione era divenuta il metro della nostra storia e dei sacrifici stessi del nostro popolo, è definitivamente crollato. Fino all’ultimo momento i borsari neri della storia d’Italia hanno conservato il loro stile codardo. Truccati con divise germaniche, imbottiti di oro rubato, legati nella vita e nella morte alle loro cortigiane, non hanno saputo trovare neppure nell’ora estrema quella dignità morale e quella forza di animo che non abbandona mai neppure il vinto, quando la lotta è stata generosa e leale. Morte senza grandezza, come la vita fu parodia di grandezza. Di fronte alla severa maestà della morte e al suo inesplicabile mistero, la coscienza cristiana sente, accanto alla pietà per il vin-

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to, la smisurata grandezza della giustizia che libera un popolo dall’incubo di un male tenace. Giustizia sì, ma precisa e controllata. Questa è guerra civile la cui responsabilità risale a quegli stessi che oggi ne sono le vittime; ma nessuno può desiderare che il bagno di sangue si prolunghi oltre i limiti della stessa guerra civile, nessuno può desiderare che lo spettacolo ammonitore di chi ha finalmente pagato per i propri delitti si trasformi in una ripugnante esibizione. Ed ora, abbiamo la forza di dimenticare! Dimenticare al più presto. Dimenticare ed espiare con la pronta riscossa delle forze morali. E guardiamo avanti: a Milano, a Torino, a Genova, a Venezia e a Trieste, alle città che ritornano libere, all’Italia che ha spezzato le catene, alla libertà trionfante sul servaggio che scende nella fossa.

DUE ANNI FA: L’8 SETTEMBRE [Mario Borsa, Due anni fa, «Corriere d’Informazione», 8 settembre 1945]

8 settembre 1943... La data rimarrà storica per molte ragioni e anche per la più spudorata fra le tante falsificazioni storiche di Mussolini. Egli, infatti, ha scritto nella sua Storia del Tempo del bastone e della carota: «...La resa a discrezione del settembre 1943 è stata la più grande catastrofe materiale e morale nei trenta secoli della nostra storia. Da quell’infausto mese le sofferenze del popolo italiano sono indicibili e superano l’umano per entrare nell’irreale. Mai un popolo salì più doloroso calvario». Tutto falso. Dalla prima all’ultima parola. Le nostre sofferenze non datano da «quell’infausto mese»; il nostro «doloroso calvario» lo dobbiamo non all’8 settembre 1943 ma al 10 giugno 1940; non all’armistizio che tentò, anzi, di salvare il salvabile, ma alla dichiarazione di guerra – la guerra meditata, auspicata, provocata da Mussolini – che doveva gettarci, come ci gettò, nel più nero degli abissi.

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Le nostre sconfitte in Grecia, in Africa Orientale, in Libia sono tutte venute prima dell’8 settembre 1943. Pantelleria fu perduta prima dell’8 settembre; la Sicilia fu vinta e invasa e occupata prima dell’8 settembre; e così pure gran parte dell’Italia meridionale. Mentre il Sud era già perduto, il Nord era sotto il terrore delle incursioni aeree. Genova, Torino, Milano – per citare solo alcune delle nostre città – furono sinistrate, in modo particolarmente grave, nell’ottobre del 1942 e le ultime disastrose incursioni si ebbero nell’agosto del 1943: cioè prima dell’«infausto mese» che avrebbe visto, secondo Mussolini, «la più grande catastrofe materiale e morale nei trenta secoli della nostra storia». Nell’estate del 1943, dunque, la guerra era già militarmente perduta. Venne l’armistizio: preparato in malo modo e concluso ancor peggio, con molta inettitudine e incoscienza. Tuttavia se non ci fosse stato l’8 settembre la nostra sorte sarebbe stata assai peggiore perché: a) man mano che i nemici avessero occupato dal sud al nord la terra italiana le popolazioni sarebbero state trattate, o meglio maltrattate, come nemiche; non avrebbero avuto un governo proprio, né avrebbero ricevuto quel poco che gli alleati potevano dare (e diedero loro, se dobbiamo credere alla gratitudine manifestata dal Sommo Pontefice nel suo messaggio natalizio del 1944); b) l’Italia non avrebbe potuto sperare di avere alla fine della guerra un trattamento diverso da quello riservato alla vinta Germania, né sarebbe stata aiutata come ora lo è, nei limiti del possibile, economicamente. Né è a credere che senza l’8 settembre ci saremmo risparmiati l’obbrobrio della sanguinosa e ladresca occupazione tedesca. I Tedeschi erano già qui: già occupavano da padroni l’Italia ricevendo sino a tredici miliardi al mese per... spese di occupazione; già avevano fatto man bassa di tutto nel Meridionale e, combattendo sul nostro suolo, cedendo a palmo a palmo il terreno, sarebbero sempre stati la causa di quelle distruzioni e devastazioni delle nostre città, dei nostri borghi e delle nostre campagne che Mussolini lamenta come se si fossero potute evitare senza l’8 settembre. Ma veniamo alla più mostruosa di tutte le falsità: che cioè l’armistizio sia stato anche una «catastrofe morale». Diciamolo subito. Tutto ciò che di catastrofico moralmente e socialmente seguì

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all’8 settembre non si deve all’armistizio, ma a ciò che dell’armistizio ha osato fare Mussolini. Condannato il 25 luglio da una esplosione popolare, che salutò con tanto sincero e clamoroso entusiasmo la caduta dell’uomo e del regime, egli – se avesse avuto a cuore il bene del suo Paese – avrebbe dovuto eclissarsi e scomparire. Invece, impastato com’era solo di tracotante albagia e di criminosa passionalità, egli vide nell’armistizio un possibile salvagente e vi si afferrò disperatamente per rimettersi a galla, per tornare ad essere lui, il duce, il divo, l’onnipotente. I tedeschi, che lo disprezzavano, l’avevano uncinato dal Gran Sasso per servirsene, nelle circostanze, ai loro fini di guerra, e Mussolini, che odiava in cuor suo i Tedeschi, si prestò al loro gioco per soddisfare la sua febbre di ambizione, di odio e di vendetta. Che cosa fece? Scatenò la guerra civile, di cui non c’era stata la traccia dopo il 25 luglio. Gridò al tradimento, lui che un anno più tardi, il 16 dicembre 1944, nel suo discorso al Lirico doveva proclamare solennemente che il popolo italiano non era colpevole di aver tradito alcuno. Bella novità: chi ne aveva mai dubitato? C’è stato un tradimento e uno solo: il patto d’acciaio, che fu la negazione di tutto quello che era ed è italianità nella storia, nel sentimento, nell’interesse del nostro Paese. Fu lui, dunque, il traditore e fu ancora lui che in omaggio alla lealtà e alla coerenza... verso se stesso inscenò il farsesco epilogo della tragedia fascista; fu lui a istituire tribunali speciali e a far fucilare consiglieri nazionali, gerarchi, generali, ammiragli; fu lui a mettere in piedi, con tutti gli avanzi di galera, coi discoli dei riformatori, coi paurosi, con gli illusi, coi disorientati, le varie bande repubblicane; fu lui a mandare in Germania migliaia di disgraziati perché fossero istruiti dai Tedeschi a maneggiare le armi per usarle non contro gli Anglosassoni ma contro i loro fratelli, i cosiddetti «fuori legge», i cosiddetti «ribelli», i cosiddetti «banditi», i cosiddetti «partigiani» messi al muro, quando erano sorpresi, e fucilati dai loro connazionali, contro quei disgraziati che furono i soli che la storia ricorderà come i veri patrioti; fu lui a galvanizzare i superstiti fascisti contro gli antifascisti, cioè contro la enorme maggioranza degli italiani; fu lui a riaccendere l’odio di parte e a impossessarsi un’altra volta dei giornali, che ripresero la loro ridda oscena di menzogne e di lordure. Ma non basta! Ma non basta nemmeno tutto questo! Tutto

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questo è stato ancora poco, tutto questo è stato nulla al confronto del supremo delitto di aver gettato Italiani contro Italiani, non solamente con le armi ma con tutte le forme della depravazione: lo spionaggio, le denunzie, le delazioni, le vessazioni poliziesche e quelle lettere anonime di cui i Tedeschi stessi erano e si dicevano nauseati. Concludendo, fu dopo l’8 settembre, ma non per colpa dell’8 settembre, se nella repubblica fascista, con la repubblica fascista e grazie alla repubblica fascista avemmo una «catastrofe morale» di cui sentiamo ancora gli effetti e rifiorirono tutte quelle insidie, quegli odi, quei pervertimenti, quei ladrocini, quelle violenze, quelle viltà di cui avevamo avuto sì un vago senso sotto il regime fascista, ma che con la guerra civile, scatenata da Mussolini, dovevano darci uno spettacolo unico nella storia e ben mortificante per il senso morale e civile di un popolo... imperiale come il nostro. Questo – tutto questo, e tutto questo soltanto – il significato dell’8 settembre.

I NOVEMILA DI CEFALONIA [«Risorgimento Liberale», 14 settembre 1945; articolo non firmato]

Ricorre in questi giorni il secondo anniversario del tragico eccidio di Cefalonia, dove 9000 soldati della Divisione Acqui, trovarono la morte, parte combattendo e parte vittime di tradimento. La gravità di quest’eccidio, che getterà per sempre una macchia disonorevole nell’esercito tedesco si fa più mostruosa se si pensa che esso è stato perpetrato contro tutte le norme del diritto di guerra, in obbedienza a un odio bestiale, lo stesso odio che ha offeso la civiltà con i campi di concentramento, le camere a gas e i massacri di popolazioni inermi. Da Lidice, dove un intero paese fu raso al suolo e i suoi abitanti uccisi, a Cefalonia, dove migliaia di prigionieri furono massacrati, i tedeschi non smentirono mai, difatti, la loro linea di condotta. Ma Cefalonia fu soprattutto il primo episodio della resistenza italiana contro i tedeschi, episodio che illumina di luce gloriosa le sue vittime, perché la lotta si svolse in condizioni di disperata in-

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feriorità e di svantaggio militare, in un’isola tagliata fuori dai soccorsi e in giornate di grande incertezza. Non si legge senza fremere di orrore il racconto dei pochi superstiti. Tra i tanti dolorosi episodi di quelle giornate ricorderemo quello narrato dal sottoten. Beni, quando 600 italiani fatti prigionieri e incolonnati per una marcia vennero improvvisamente trucidati da mitraglieri tedeschi, alcuni dei quali – giorni prima – avevano avuto salva la vita dagli stessi italiani. «Grida di terrore proruppero da tutti i petti – narra il testimonio – subito spenti dalle raffiche, e poco dopo, un tedesco percorse la strada coperta di cadaveri facendo fuoco sui feriti. Quindi l’interprete si avvicinò al mucchio di cadaveri e invitò i feriti a venire fuori, che avrebbero avuto salva la vita. 15 soldati coperti di sangue si alzarono lentamente tra i cadaveri, perché credettero alla parola di un tedesco. Una raffica li abbatté, sottolineata da grida di scherno. Soltanto tre, tra i feriti, non credettero e rimasero nascosti nel mucchio di cadaveri». Insieme a tragici episodi di tradimento come questo narrato, altri rimangono a testimoniare dell’eroismo e della fede dei nostri soldati della «Acqui». In questi giorni 9000 famiglie italiane rivivono il loro lutto, ma attorno ad esse è tutta la nazione che partecipa al cordoglio, perché le giornate di Cefalonia sono già scolpite nelle pagine più nobili della nostra storia.

AL

RAPPORTO DI PALMIRO TOGLIATTI V CONGRESSO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO (29 DICEMBRE 1945)

[P. Togliatti, Opere, a cura di L. Gruppi, vol. V, 1944-1955, Editori Riuniti, Roma 1984]

[...] Compagni, se guardiamo al cammino che in questi anni abbiamo percorso possiamo concludere che abbiamo adempiuto con onore il compito che ci eravamo prefissi e che era di servire la causa della classe operaia, del popolo e della nazione italiana; abbiamo adempiuto il compito di lottare per la distruzione del fascismo, per la restaurazione delle libertà democratiche, per il rin-

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novamento d’Italia. Presentiamo oggi non soltanto ai nostri nuovi iscritti e militanti, presentiamo a tutto il popolo un bilancio di attività in favore del nostro paese quale pochi partiti possono presentare. Sappiamo che, con la nostra azione, abbiamo dato un contributo decisivo alla liberazione d’Italia dalla vergogna della tirannide fascista; che abbiamo dato un contributo decisivo a quell’azione che ci permette oggi di considerare con una certa fiducia le prospettive di quella che dovrà essere tra poco la nostra pace. Messi al bando dalla vita nazionale per venti anni, ci siamo affermati come i figli migliori della nazione italiana, i migliori eredi e continuatori delle sue tradizioni. Abbiamo tolto ogni base possibile, nella coscienza degli italiani onesti e sinceri, alle stupide calunnie contro il comunismo. Nel fallimento delle classi dirigenti, raccolte tutte, a un certo momento, attorno al fascismo, siamo riusciti a portare la classe operaia italiana ad adempiere una funzione nuova, una funzione nazionale. Il nostro contributo alla causa della liberazione d’Italia – permettetemi di ricordarlo – è stato però un contributo di carattere particolare. Lungi da me l’intenzione di togliere importanza all’opposizione di coloro i quali con gli scritti condussero, negli anni tristi della tirannide, la lotta per la libertà. Anche se talora, purtroppo, in qualcuno dei loro scritti veniva ripetuto il tentativo di confondere insieme la tirannide e quelli che lottavano contro di essa, gli assassini della libertà e coloro che per la libertà languivano nei carceri e sapevano morire, non vogliamo ad ogni modo negare valore a coloro che hanno saputo per la libertà tenere la penna. Anche noi per la libertà abbiamo scritto e condotto polemiche. Il contributo nostro alla lotta comune, però, è stato soprattutto contributo di opere, di lavoro, di combattimento, di libertà perduta, di vite umane sacrificate, di sangue versato sul campo di battaglia: migliaia di anni di carcere, centinaia di morti, migliaia di uomini i quali hanno saputo cadere su terra italiana perché questa terra fosse libera di nuovo. Fra tutti i partiti antifascisti siamo il partito di coloro che per la libertà hanno saputo dare non solo le parole ed i pensieri, ma il sangue e la vita. [...] Noi che crediamo che la storia non viene mai né esclusivamente dall’alto, né esclusivamente dal basso, sappiamo che senza il nostro partito non vi sarebbe stata, durante gli anni della ti-

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rannide, la resistenza indomabile di una avanguardia verso la quale erano volti gli sguardi e alla quale andavano i palpiti di simpatia e di affetto della parte migliore del popolo italiano. Sappiamo che senza l’azione organizzata dell’avanguardia, che è raccolta nelle nostre file, probabilmente non vi sarebbero stati i grandi scioperi del marzo del 1943, che dettero la prima scossa seria all’edificio della tirannide fascista, che prepararono effettivamente il 25 luglio e tutto quello che ne doveva seguire. Sappiamo che, senza l’azione dei nostri dirigenti e degli uomini raccolti attorno alle nostre organizzazioni, il movimento partigiano non si sarebbe organizzato con quella sicurezza, con quella ampiezza, con quella disciplina con cui si è organizzato e che ne garantirono la vittoria. Sappiamo soprattutto che, senza l’azione organizzata e senza la lotta politica chiaroveggente del nostro partito, non si sarebbero potuti raggiungere quei risultati più o meno grandi, ma in determinati momenti molto importanti, che si sono potuti ottenere nella ricostruzione di un’unità materiale e spirituale del popolo italiano dopo il crollo fascista, nella ricostruzione di un regime democratico di libertà e di lavoro. In questa lotta non siamo stati soli, né pretendiamo nessun merito esclusivo. Abbiamo avuto accanto a noi operai e lavoratori socialisti, lavoratori e intellettuali del Partito d’azione, del partito democratico cristiano e di altre correnti democratiche e liberali a cui mandiamo il saluto fraterno dei combattenti. Nella lotta per la liberazione del nostro paese si è creata tra il nostro partito e queste altre tendenze democratiche una unità di propositi e di azione che è stata tra le cause principali della nostra vittoria. Questa unità non si deve oggi spezzare, anzi deve durare e consolidarsi, deve diventare una delle fondamenta della nuova Italia che insieme vogliamo costruire. Abbiamo avuto accanto a noi nella lotta – forze veramente decisive – le armate dei paesi anglosassoni e degli altri paesi alleati i cui eserciti si sono schierati in campo contro l’imperialismo hitleriano e contro il fascismo. Anche a questi combattenti inviamo oggi da questa nostra tribuna, a nome degli operai, dei lavoratori e del popolo italiano, il più fraterno, il più riconoscente saluto. Ricorderemo in eterno i soldati e gli ufficiali inglesi, degli Stati Uniti, della Francia, dell’Africa del sud, dell’Australia, del Brasile, i quali hanno lasciato la loro vita o versato il sangue loro per la li-

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berazione del suolo della nostra patria. Il loro nome vivrà nel cuore del nostro popolo; il loro sacrificio sarà un pegno di unione e di fraternità fra i nostri paesi. Assicuriamo a questi combattenti che la causa della libertà dei popoli, dell’indipendenza delle nazioni, e della democrazia per la quale hanno combattuto, troverà nel popolo italiano assertori e difensori infaticabili, i quali sapranno lavorare e battersi affinché dal nostro paese mai più debba sorgere un regime di tirannide, vergogna nostra e vergogna dell’umanità. [...] Dagli esponenti delle vecchie classi dirigenti non abbiamo avuto che il 25 luglio e l’8 settembre: il primo fu in sostanza un tentativo per impedire che si iniziasse con la caduta del fascismo un profondo rinnovamento della vita politica italiana, l’altro fu una fuga dinanzi alle proprie responsabilità e alla necessità di una lotta nazionale rinnovatrice. La resistenza e l’insurrezione contro i tedeschi e i fascisti sono state organizzate essenzialmente per iniziativa dei partiti popolari, e a questi partiti si deve, quindi, se sono stati fatti determinati passi in avanti nella difesa dell’unità del paese e per la riconquista della sua indipendenza. Non è quindi per vano romanticismo rivoluzionario o garibaldino che noi esaltiamo il movimento partigiano; lo esaltiamo come uomini politici, coscienti che essenzialmente ad esso dobbiamo il fatto che oggi tra i paesi che appartenevano al blocco fascista l’Italia ha una posizione che è, nonostante tutto, migliore di quella della Germania e del popolo tedesco. Se siamo riusciti a evitare la dura e tragica sorte della Germania, lo dobbiamo principalmente all’azione del popolano, dell’operaio, dell’intellettuale, del lavoratore che spontaneamente ha prese le armi, ha accettato la disciplina delle formazioni partigiane, è andato a battersi per il proprio paese, ha dimostrato che eravamo ancora capaci di contribuire alla vittoria delle grandi nazioni democratiche. Perciò è triste, come italiani e come patrioti, dover registrare le immonde campagne di calunnie, di ingiurie, di diffamazioni, che vengono condotte contro il movimento partigiano da torbide correnti reazionarie e dalla loro stampa. È triste dover constatare che persiste in certe parti dell’apparato dello Stato la tendenza a fare il processo al movimento dei nostri partigiani, perché nell’una o nell’altra località essi sarebbero andati al di là della legalità fissata dai codici, come se si potesse fare il processo al popolo che prende le

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armi e lotta contro i traditori e gli invasori della patria, per la propria indipendenza! Alla lotta popolare di liberazione, e in particolare alla unità che nel corso di essa si creò tra i partiti politici democratici antifascisti, si deve se sono state gettate le basi di una nuova unità politica e morale e quindi di un rinnovamento della nazione italiana. Base e forma politica di questa unità sono stati i Comitati di liberazione nazionale, contro i quali pure si sono scatenati gli attacchi della reazione, favoriti e appoggiati, purtroppo, da alcuni tra i partiti che fanno parte dei comitati stessi, e in particolare dai liberali. Di fronte a questi partiti è nostro dovere difendere il movimento dei CLN non solo per quello che è stato e ha fatto, ma per quello che avrebbe potuto fare se non fosse stato in questo modo minato e tradito dall’interno. Il movimento dei CLN è stato il movimento politico popolare di più grande rilievo dei nostri ultimi secoli, più notevole, sia per profondità di ispirazione politica che per ampiezza di adesione popolare, tanto della Carboneria quanto della Giovane Italia. Esso offriva alla democrazia italiana la possibilità di rinnovare il paese in modo molto più efficace e molto più rapido di quanto ora stiamo facendo. Il movimento dei CLN presentava alla nazione italiana quella che vorrei chiamare una grande scorciatoia sulla via della restaurazione dei principi di libertà e di democrazia e della soluzione di una gran parte delle tragiche, gravissime questioni che ancora stanno davanti a noi e che non riusciamo a risolvere. [...]

CRISI, TENUTA E RILANCIO DELLA «NARRAZIONE EGEMONICA» ANTIFASCISTA

L’AMNISTIA DELLA PACIFICAZIONE APPROVATA DAL CONSIGLIO DEI MINISTRI [Generosità e forza, «l’Unità», 22 giugno 1946; articolo non firmato]

L’atto solenne di amnistia con cui la Repubblica celebra il suo avvento rappresenta, al tempo stesso, un atto di generosità e un atto di forza, cioè di fiducia in se stessa e nella sua funzione pacificatrice e unificatrice di tutti gli italiani. Il decreto di amnistia e condono, presentato dal compagno Togliatti e approvato ieri dal Consiglio dei Ministri, esteso com’è largamente ai delitti di natura politica, viene infatti a riammettere nella vita civile tutta la larga schiera di cittadini che, illusi o traviati dal fascismo, si resero colpevoli di fronte alla Nazione e ne insidiarono la sicurezza e l’onore. Di necessità, e proprio per un senso di superiore giustizia, restano esclusi da questo beneficio coloro che, al servizio dei fascisti e del tedesco invasore, rivestirono «elevata responsabilità di comando», o si macchiarono di delitti particolarmente riprovevoli e sanguinosi o di natura tale che nessuna perversione politica o morale può giustificare. Il decreto, insomma, distingue i veri responsabili da coloro che ne furono lo strumento più o meno cosciente, e distingue, fra costoro, solo chi mostrò di dar sfogo, sotto bandiera di parte, ad una natura sostanzialmente criminale. Anche ai diretti responsabili del tradimento fascista, e anche ai perversi, tuttavia, la giustizia repubblicana s’è voluta rivolgere con un volto clemente: e di qui la commutazione in ergastolo della pe-

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na capitale, che viene quindi eliminata ora praticamente dalla nostra legislazione anche come misura straordinaria dettata da particolari necessità di difesa della Nazione. I democratici e gli antifascisti italiani, e primi fra tutti noi comunisti, ci eravamo impegnati, superata vittoriosamente la lotta per la sconfitta della monarchia fascista, a iniziare una politica di pacificazione per ricostruire, sotto il vessillo repubblicano, l’unità di tutti gli italiani: la Repubblica non ha atteso molto per gettare concretamente le basi di questa politica. È, lo ripetiamo, un atto di generosità e, al tempo stesso, di fiducia cosciente nella propria intima forza. Non ci resta, a noi che abbiamo adempiuto alla nostra promessa, che auspicare che tutti gli italiani si rendano conto oggi dei propri doveri verso la Nazione, facciano sinceramente ammenda dei propri errori, e ritrovino, in seno al nuovo Stato democratico, la volontà e la possibilità di ricostruirsi una vita più onesta, migliore e più felice.

PER LA PACIFICAZIONE DI TUTTI GLI ITALIANI [Gioacchino Volpe, «Meridiano d’Italia», I, n. 31, 6 ottobre 1946]

Le ultime settimane è stato, nei giornali e nei discorsi, un grande invocare conciliazione fra gli italiani, ora divisi da rancori e odi partigiani, da risentimenti per ingiustizie e danni subiti. La hanno invocata liberali e democratici cristiani, repubblicani e socialisti, l’uomo della strada e il Presidente della Repubblica, in nome del necessario lavoro ricostruttivo della Patria italiana, percossa da tutte le parti e bisognosa di un fronte unico di resistenza. Chi vorrà opporsi a quest’invocazione? Nessuno, neanche chi potrebbe in realtà lamentarla un po’ tardiva, ora, a cose fatte, anziché un anno e sei mesi addietro, prima che centinaia di migliaia di italiani insanguinassero del loro sangue le strade, prima che migliaia e decine di migliaia fossero cacciati dai loro posti di lavoro, infamati davanti all’opinione pubblica, privati del diritto di cittadini. Ma non sottilizziamo, per il vano desiderio di un ormai irrevocabile meglio, sul bene che ora si offre; non raggeliamo coi ram-

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marichi il calore dei consensi intorno a questa pace interna, mentre ancora dura, sul terreno diplomatico, la pace esterna. Benvenuta sia la pacificazione. Ma ognuno vede come essa abbia un presupposto necessario. Essa non deve essere un «perdono». E neanche una «amnistia»: amnistia che fa d’ogni erba un fascio, «delinquenti fascisti», brigante Musolino e anarchici dinamitardi; amnistia che pone subito il problema mortale di quelle leggi, di quei decreti, di quei tribunali, di quei giudici in virtù e per opera dei quali ieri si irrorano centinaia di condanne a 20 e 30 anni di galera e oggi si spalancano le porte ai condannati. Non grazia ma giustizia Non perdono od amnistia, dunque. Non grazia, ma giustizia, vera giustizia. Sia ben chiaro e chiaramente riconosciuto che non hanno commesso reato ma esercitato un loro diritto i tanti che accettarono il caduto regime, sorto, quando sorse, con il consenso, con la fiducia col plauso della grande maggioranza degli italiani e sostenuto fin quasi al suo crollo, con opere e scritti, anche da odierni vituperatori: un Calamandrei che collaborò ai codici così detti fascisti, un Salvatorelli che elogiò il «Duce» e il suo governo, altri che chiesero e ottennero la tessera in un momento che tanti fascisti non l’avrebbero né chiesta né accettata. Dobbiamo forse credere che questi e consimili valent’uomini abbiano fatto e scritto quel che hanno fatto e scritto senza sincerità, per far quattrini o per captare onori? Io per conto mio mi rifiuto di crederlo. Sia ben chiaro e chiaramente riconosciuto che non sono venuti meno a nessun loro dovere i tanti che il loro dovere hanno creduto compiere servendo onoratamente quel regime o, meglio, il paese durante quel regime, dai loro uffici alti e bassi e dai loro posti di comando; che tanto meno sono da bollare di «indegnità», come per effetto di colpa morale commessa, quelli che liberamente e sinceramente gli hanno dato contributo attivo di opere e pensieri; che non sono da presumere ladri e «profittatori di regime», senza neanche il diritto, pur umiliante diritto, di dimostrare la perfetta liceità di ogni loro atto, i tanti che nel ventennio hanno seguitato a lavorare e, se ci sono riusciti, come in tutti i tempi

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e regimi si può riuscire, a risparmiare, a guadagnare, a farsi, beati loro!, una casa o un podere. Questo è necessario. Non grazia, ancora una volta, ma giustizia, vera giustizia. Col tempo – ma non è mai troppo presto cominciare – ci vorrà poi anche qualche altra cosa: liberare il terreno da quel ciarpame di pseudo-giudizi, di pseudo-definizioni, di pseudo-storia con cui si è creduto di sopprimere un ventennio di vita italiana, l’«obbrobrioso ventennio», con relativa «invasione degli Hyksos» e «banda di ladroni» e Accademia d’Italia «corrotta e corruttrice» e altre così fatte non so bene se puerili o senili amenità, dietro il cui schermo si sono compiute e giustificate poi tante e tanto enormi cose, d’ordine materiale e morale, contro le persone. Dunque, venti anni, tutti negativi! Venti anni, senza storia o parentesi nella storia, chiusa la quale il discorso riprende al punto in cui era stato interrotto, il sole torna a risplendere su dal cielo, la felicità a regnare in terra. Tutta una generazione di italiani, o più generazioni accomunate dallo stesso destino nel ventennio, bollate di viltà e di stupidità (a scelta!), gettata in mare! Tutto il lavoro profuso attorno a problemi nuovi e vecchi, problemi di organizzazione corporativa, problemi coloniali e africani, problemi economico-sociali imperniati attorno alla bonifica del monte e del piano (e non è tutta dilettantesca la ricca letteratura in proposito!); tutto il sincero entusiasmo di tanta gioventù, il calore di adesione di tanti cittadini allo Stato, il senso di fraternità nazionale che ha caratterizzato molti felici momenti del ventennio, tutto, tutto come non sia stato, anzi, peggio ancora, ammesso solo come male, se pure – gran filosofica degnazione! – come necessario momento del bene. Il fascismo e la disfatta Che cosa si volle in quel ventennio, intorno a che cosa si lavorò, quale fu il cemento che unì i milioni di italiani, quale fu la sostanza ideale, quali i miraggi, e non tutti ingannevoli miraggi, che fecero tante volte brillare gli occhi di commozione al contadino come all’uomo di studio? Si volle risollevare lo Stato dal discredito e dall’impotenza in cui era caduto; ravvalorare internazionalmente la nazione, pacificarla socialmente e tentare nuove forme di rap-

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presentanza politica; ravvivare il sentimento di solidarietà del paese con i milioni di fratelli sparsi per il mondo; assicurare ad esso un minimo di indipendenza politica; accrescere il suo lavoro ed elevare il concetto del lavoro, di ogni lavoro, a fine non di classe ma di bene generale della nazione; bonificare le sue colonie e avviare verso di esse una parte di quella nostra emigrazione che stava diventando dissanguamento e a cui del resto tante porte di beati possidenti si venivano chiudendo; imprimere un più energico impulso alla sua agricoltura e creare nuovi liberi contadini; rinnovare le classi di governo e dare una vigile educazione alla gioventù; organizzare una solida assistenza alle famiglie, alla madre, al fanciullo (oggi tutti gli schedari che erano stati fondamento a tale opera sono andati distrutti!); compiere per quel tanto che può essere compiuta l’opera di conciliazione dello Stato italiano con la Chiesa e col Papato ecc. Per questo, per questo, tanti italiani si sono riscaldati nel ventennio, tanti di essi hanno «servito» il fascismo o compiuti «atti rilevanti» a favore del regime. Erano scopi riprovevoli, da doversi oggi battere il petto, anche se impari poi si dimostrarono altri modi e mezzi di attuazione, e tanti oneri troppo inferiori alla soma? Riprovevoli, anche se, per raggiungerli tanti italiani mostrarono di non fare gran conto, per allora, della «libertà», di quella libertà di piazza che era caduta in gran discredito, a dire il vero presso tutti, compreso quelli che ora la deificano? Ma anche nel decennio cavouriano, tra il ’49 e il ’59, Carlo Cattaneo rimproverava agli italiani, pur senza per questo crederli scellerati, di aver unità, forza, grandezza. È che ogni generazione ha i suoi problemi, le sue particolari esigenze, i valori a cui annette più pregio, mentre meno sente quelli che torneranno poi ad essere sentiti ed apprezzati, dopo attuati i primi o magari nello sforzo stesso di attuarli come molti di essi non si stancarono in quegli anni di dire e ripetere. Il decennio cavouriano fu coronato dal 1859 al 1860; il ventennio a noi vicino si è concluso con la disfatta: d’accordo. Ma bisognerà anche qui, se non dispiace, fare qualche revisione e rettifica: sganciare un po’ il ventennio, sganciare il «fascismo» e ciò che esso fu per tanti italiani; sganciarlo, dico, dalla disfatta finale, non veder quello tutto alla luce di questa. Nella guerra ultima, minimo è, per chi non si fermi troppo alla superficie, il contenuto cosiddetto ideologico del fascismo, è molto più il concreto conte-

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nuto politico posto dalla nostra storia e dal nostro crescere di statura, dalla necessità di questi 45 milioni di uomini rinserrati in poca e non ricca terra, dagli egoismi dei grandi del mondo, sferratisi dopo il 1919; minima l’iniziativa e la volontà italiana, e massima l’iniziativa e la volontà, vorrei dire l’istinto, lo slancio vitale di popoli o stirpi lottanti per espandersi e primeggiare, di fronte a cui il nostro giugno 1940 poté rappresentare più che altro un infelice tentativo di parare le conseguenze di una schiacciante ed esclusiva vittoria di quello che allora appariva il vincitore; minima, infine, la nostra «responsabilità» e massima quella degli altri, anche ben dissimulata dietro la cortina fumogena dei grandi principi. I quali, che cosa effettivamente fossero e a che cosa effettivamente servissero, lo stiamo vedendo ora, noi italiani. I morti non risuscitano Si vuole con ciò risuscitare il fascismo? I morti non risuscitano. E il fascismo è morto, almeno in certo suo modo di governare, nel suo ipertrofico accentramento e mal inteso, mal praticato autoritarismo, nelle sue impalcature gerarchiche (ma quali nuove e migliori gerarchie ne hanno preso il posto?), nella sua insensibilità morale elevata a sistema (ma la moralità pubblica è ora proprio maggiore dell’antica?). Creare un nuovo fascismo? Ogni parola, come ogni cosa, ha il suo tempo, oltre il quale essa è anacronistica. Ma si vuole che cessi la condanna totale e la iniqua diffamazione delle cose e delle persone e la degradazione di tanti Italiani a cittadini «minoris juris» o «sine juribus» e col solo obbligo di pagare le tasse; che si cominci a riconoscere – e per molti si tratta solo di sincerità e di coraggio – che questi venti anni sono stati una cosa seria, per noi e per gli altri; che quei problemi di cui sopra tornino ad essere vivi e presenti, come problemi non di partito o di regime, ma della nazione; che non si lascino cadere certi concetti e intuizioni e interpretazioni della realtà politica nazionale e internazionale che ogni giorno più ricevono il collaudo della realtà e non si perda il frutto di certe esperienze positive, e non si creda si possa ricostruire il tempio distrutto con le formulette o i formuloni dell’antifascismo ad oltranza, con i soli uomini dell’antifascismo, magari passati dal fascismo all’antifascismo, rimasti nel ventennio a guardare o andatisene per il mondo a sommuovere le

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opinioni pubbliche contro l’Italia, a sollecitare la guerra contro l’Italia e in ultimo, con stupida credulità o con orrendo calcolo, ad aiutare la vittoria contro l’Italia. Ormai è ben chiaro anche alla coscienza popolare: «Per ammazzare un partito hanno ammazzato l’Italia». Testuali parole che sentii per caso ieri uscire dalla bocca di un uomo del popolo. Ed ecco poste, non da uomo di parte, che non sono mai stato, ma da uomo, che sono e da storico che forse sono, le condizioni della pace interna; della pace di oggi, e di quella per la quale è da dare tempo al tempo. Se così non fosse, la campagna per la pace troppo ricorderebbe quella «offensiva di pace» che nell’autunno 1918 si scatenò sul nostro fronte contro i combattenti [che], pure assetati di pace, respinsero.

DESISTENZA [Piero Calamandrei, «Il Ponte», II, n. 10, ottobre 1946]

Quel miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto, quando ogni speranza pareva perduta, in tutti i popoli europei agonizzanti sotto il giogo della tirannia interna ed esterna, ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome: «resistenza». Sotto la morsa del dolore o sotto lo scudiscio della vergogna, gli immemori, gli indifferenti, i rassegnati hanno ritrovato dentro di sé, insospettata, una lucida chiaroveggenza: si sono accorti della coscienza, si sono ricordati della libertà. Prima che schifo della fazione interna, prima che insurrezione armata contro lo straniero, questo improvviso sussulto morale è stato la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza: sete di verità e di presenza, ritorno alla ragione, all’intelligenza, al senso di responsabilità. La resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l’uomo si è reso capace nei millenni di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui. Si è scoperto così che il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale

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lungamente maturata nell’interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell’infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi. Questo generale abbassamento dei valori spirituali da cui son nate in quest’ultimo ventennio tutte le sciagure d’Europa, merita di avere anch’esso il suo nome clinico, che lo isoli e lo collochi nella storia, come il necessario opposto dialettico della resistenza: «desistenza». Di questa malattia profonda di cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto: e la resistenza è stata la crisi benefica che ci ha guariti, col ferro e col fuoco, da questo universale deperimento dello spirito. Così ci illudevamo due anni fa, alla vigilia della liberazione. Ma oggi ci sembra di avvertire d’intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento. Ciò che ci turba non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori, può essere una incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo. No, il pericolo non è in loro: è negli altri, è in noi: in questa facilità di oblìo, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato. Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani? una forma di banditismo. I comitati di liberazione? un trucco dell’esarchia. I processi dei generali collaborazionisti si risolvono in trionfi degli imputati. I grandi giornali si affrettano a riaprire le terze pagine alle grandi firme, care ai lettori borghesi: dieci anni fa celebravano l’impero e la guerra a fianco della grande alleata, oggi scrivono collo stesso stile requisitorie contro la pace spietata: e il pubblico si compiace di questi elzeviri ritrovati e non si accorge che questa pace è la conseguenza di quella guerra. Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli «scrittori della desi-

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stenza»: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie. Sono questi i segni dell’antica malattia. E nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo è il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo. Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.

UNITI CONTRO IL FASCISMO [«Avanti!», 25 aprile 1948] ITALIANI

Il 25 aprile rievoca i giorni in cui tutto il popolo italiano acclamò nei suoi partigiani, la vittoria delle forze democratiche sul nazi-fascismo. Il 25 aprile ricorda giorni di esultante unità nazionale, giorni di grandi speranze degli oppressi e di generosi propositi per il rinnovamento di tutta la Nazione e di tutta la società Italiana. CITTADINI

la rovina cui ci ha condotto il fascismo ci impone il dovere della vigilanza per la difesa delle istituzioni democratiche, della libertà e del progresso sociale contro quelle forze che vorrebbero corrodere e colpire il patrimonio della Resistenza che è indissolubilmente legato all’avvenire ed alle fortune della Patria. L’opera è ancora ardua e difficile. A voi spetta il compito di consolidare e difendere le intangibili istituzioni democratiche di realizzare l’an-

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sia di progresso sociale, le aspirazioni di pace, lo spirito di unità che sono a fondamento della Repubblica Italiana. PARTIGIANI D’ITALIA

i nostri Morti, i Caduti delle nostre eroiche formazioni che, insieme ai mutilati, ai feriti ed agli invalidi, pareggiano quasi i combattenti sopravvissuti, ci stanno davanti, luminoso insegnamento, e ci ammoniscono con il loro sacrificio, con lo strazio della loro carne, con i disagi patiti nella durissima guerra combattuta, che le nostre forze debbano restare unite. L’unità delle nostre forze è garanzia preziosa della salvezza democratica del Paese: non tornerà mai più il fascismo in Italia, quando uniti sono i partigiani, quando con loro è unita la Nazione. ITALIANI

salutiamo con serena fermezza il terzo anniversario della Liberazione. Il 25 aprile 1945 suggellò con l’insurrezione vittoriosa la dura lotta contro la duplice oppressione, dischiuse al popolo italiano le vie della sua immancabile rinascita. Sulle macerie della guerra, sugli immensi sacrifici, sulle rovine del regime tirannico sorge, con l’aureola del martirologio partigiano, l’Italia del nuovo Risorgimento. LA GIUNTA ESECUTIVA DEL COMITATO NAZIONALE DELL’AN.P.I.

DISCORSO DI LUIGI LONGO A MILANO PER LA LIBERAZIONE [Il governo ha tentato d’impedire a Milano l’omaggio dei partigiani alle tombe dei caduti, «l’Unità», 27 aprile 1948; articolo non firmato]

Aveva dunque appena parlato il sindaco Greppi facendo appello ai sentimenti unitari del popolo e riscuotendo vivi applausi, quando Luigi Longo – vice comandante del CVL – ha preso la parola. Allora per la prima volta in tutta la giornata e in tutti i di-

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scorsi che si erano fatti qua e là da parte di personaggi diversi, per la prima volta si è sentito un oratore che si rivolgeva direttamente al popolo, salutando a nome dell’ANPI le vedove e gli orfani dei Caduti, i gappisti e i sappisti, i partigiani dei monti, i patrioti che non hanno mai chiesto nessuna autorizzazione per scendere in lotta e i lavoratori insorti spontaneamente per salvare le fabbriche. Il compagno Longo ha rilevato con tono di sdegno il tentativo, comune oggi a una parte ben identificata dello schieramento politico italiano, di sminuire la lotta partigiana, i sacrifici che essa comportò. «Si vorrebbe – ha detto Longo – che quel sacrificio restasse semplicemente inciso sulla fredda pietra delle lapidi e dei cippi mortuari e non diventasse lievito fecondo di generosi sentimenti e di alti propositi nell’animo delle nuove generazioni». «Il culmine di questi tentativi contro la resistenza è consistito nella pretesa che la ricorrenza della liberazione fosse ricordata in locali chiusi a porte chiuse – ha detto Longo – come si ordina per gli spettacoli immorali». «Ma la commemorazione dell’insurrezione – dice ancora Longo – non si lascia rinchiudere tra le quattro pareti di un locale. Il 25 aprile è stata l’insurrezione di tutto un popolo. La sua commemorazione è festa di tutto il popolo». «Si è voluto circondare questa assemblea – ha continuato Longo – di armati e di carri armati, quasi che qui ci fosse un’accolta di banditi e non di patrioti, di gente che minaccia la Repubblica e la libertà e non di gente che la Repubblica e la libertà ha conquistato e intende presidiare e difendere. Ma tutto questo fa parte della campagna di denigrazione e di menzogne che attaccando gli artefici della liberazione della Patria intende attaccare le conquiste stesse di questa liberazione. Non saranno gli sbarramenti di agenti e di armati che riusciranno a separare i partigiani e i patrioti dal popolo e da quanti italiani sentono democraticamente e patriotticamente». «Noi non inveiamo per questo però, né contro agenti né contro carabinieri, essi sono figli del popolo, molti combatterono con noi contro i fascisti ed i tedeschi; nessuna disciplina, nessun ordine potrà soffocare in essi il sentimento filiale che li lega al popolo ed ai suoi ideali di libertà!». Longo ha enumerato le calunnie contro il movimento parti-

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giano, le invenzioni con cui si tirano in ballo fantastiche formazioni militari e paramilitari, i divieti opposti ai combattenti della libertà perché non indossino le loro divise, non si annodino al collo i fazzoletti rossi, simbolo di una fede per cui i loro compagni migliori sono morti. «Ma chi può sentirsi offeso, chi può sentirsi minacciato – si è chiesto Longo – vedendo sfilare i partigiani che commemorano la loro vittoria? Soltanto coloro che ieri furono contro i partigiani, coloro che ieri calpestavano la libertà e la dignità del popolo italiano». «A chi vuol privarci delle libertà conquistate e sancite solennemente dalla Costituzione – ha concluso Longo tra fragorosissimi applausi – rispondiamo che oggi come allora, senza cartolina precetto e senza autorizzazione, noi ci leviamo a difesa della libertà del popolo. Commemoriamo le giornate di eroismo e di gloria di tre anni fa, affrontiamo i compiti che la situazione attuale e gli eventi ci pongono innanzi perché quello che fu il sogno dei nostri Caduti diventi realtà».

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[Riccardo Lombardi, «Avanti!», 24 aprile 1949]

La data del 25 aprile 1945 segnò uno dei momenti culminanti della rivoluzione popolare antifascista, ma non già il suo epilogo e la sua conclusione: ecco il perché noi non vogliamo oggi, nella quarta ricorrenza, «commemorarla». Si commemorano i morti non i vivi, le opere compiute non quelle semplicemente interrotte. Non contribuiremo perciò ai troppi e troppo ipocriti fiori che – non accompagnati da «opere di bene» – saranno profusi su quello che a torto si ritiene un cadavere, né, tanto meno, ci cospargeremo il capo di cenere nel ricordo di quello che avrebbe potuto essere e non fu. Per noi la data del 25 aprile ha un significato ben preciso che non si presta alle commemorazioni ma soltanto alla meditazione delle opere da continuare e delle nuove da intraprendere: in verità difatti il 25 aprile 1945, se segna il coronamento dell’epopea

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della Resistenza, non ne rappresenta la conclusione bensì una tappa. Sta in noi fare che la tappa non divenga un arresto, e che il cammino si riprenda. Se questo non dovesse avvenire, se dovessimo considerare il 25 aprile come una pietra sepolcrale su eventi ed esperienze conchiuse e irrepetibili anche nel loro spirito, allora sì che dovremmo astenerci anche dal ricordo e deferire la «commemorazione» della data non alla Resistenza ma all’Antiresistenza, allo stesso modo che nell’Italia sabauda del post-risorgimento si finì per deferire ai monarchici la esitazione «ufficiale» di Mazzini o, come si è visto recentemente, assunta da clericali e clericaleggianti quella della Repubblica Romana del ’49. La verità è che il 25 aprile non acquista significato se non in relazione alla lotta e alla resistenza contro il fascismo nazionale e internazionale dal 1922 in poi, lotta di cui rappresenta una fase culminante ma non l’esaurimento. Il 25 aprile ha un senso per chi è stato contro il fascismo e contro le cause profonde del fascismo, per chi è stato contro il nazionalismo, contro i patti lateranensi, contro il «patto anticomintern», contro il colpo di stato di Franco, contro l’hitlerismo, contro Monaco, contro Salazar e contro Vichy: o anche per tutti coloro che, in errore allora, giudicano oggi quegli avvenimenti come aspetti inseparabili di un unico fenomeno: il fascismo internazionale. Il 25 aprile non ha senso e significato se non visto in questa luce e giudicato in questa prospettiva: non come l’episodio culminante di una lotta contro lo straniero e i suoi complici indigeni, bensì di una lunga, tormentata, sanguinosa guerra politica e sociale combattuta sul piano europeo e mondiale, per la «liberazione»: cioè non soltanto per cacciare i tedeschi dal suolo della Patria e i loro servi repubblichini dal potere, ma per liberare l’Italia, l’Europa e il mondo dalle forze sociali oppressive che avevano trovato nel fascismo lo strumento più «economico» per mantenere il loro dominio. La «Resistenza», dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è stata guidata da tale acuto senso della continuità della lotta: la stessa politica di «unione nazionale» fatta attorno ai C.L.N. ritraeva giustificazione e vigore dal fatto che la direzione effettiva ne era assunta da uomini, gruppi e partiti che si trovavano concordi in tale impostazione politica e sociale e che intendevano non «ferma-

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re» la rivoluzione popolare ma spingerla avanti nella generosa – ma non immotivata – fiducia che ciò potesse avvenire su di un piano di lotta politica civile. Per questo l’ideale e il proposito immediato dei partiti d’avanguardia della Resistenza – socialisti, comunisti, azionisti – fu allora non la rivoluzione socialista ma la «rivoluzione democratica», cioè il rinnovamento in profondità degl’istituti politici, amministrativi, economici, culturali, la sostituzione della classe dirigente responsabile del fascismo e della guerra con la nuova classe politica espressa dalla Resistenza, l’ammodernamento e la popolarizzazione dello Stato mercé la partecipazione più diretta e immediata possibile delle masse popolari alla gestione degl’interessi collettivi. Il raggiungimento di queste mete era possibile e attuabile a condizione che esso fosse stato operato a caldo e non a freddo, cioè in presenza delle forze popolari suscitate dalla Resistenza e prima della loro smobilitazione politica. Il tristo capolavoro dei partiti conservatori, della Democrazia Cristiana assecondata dal Partito Liberale, fu l’aver impedito – con consumata tattica ritardatrice favorita dagli alleati e da talune opacità dei partiti di sinistra – che la riforma dello Stato si operasse a caldo, nel vivo dell’entusiasmo creatore suscitato dal 25 aprile, in modo che le riforme venissero affidate non alle forze popolari suscitate e rese esperte dalla Resistenza ma alla burocrazia del ricostituito Stato prefascista. Il ritardo nelle dimissioni del ministero Bonomi (cui partecipavano i comunisti ma non i socialisti e gli azionisti) dopo il 25 aprile, il rifiuto alla convocazione immediata di una consulta politica formata dai C.L.N., la liquidazione delle gestioni commissariali nelle fabbriche, la riammissione dei capitani d’industria defenestrati o – come a Milano – perseguiti addirittura da mandati di arresto, la liquidazione dei prefetti e dei questori dei C.L.N., la defenestrazione del ministero Parri, l’insabbiamento dell’epurazione nelle secche della burocrazia e del doppio gioco, il ritardo nel ritiro del Governo Militare Alleato nell’Italia settentrionale e conseguentemente della convocazione della Costituente, e infine, più grave di tutto, la sottrazione alla Costituente di compiti legislativi deferiti al Parlamento eletto ben tre anni dopo la liberazio-

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ne, furono le tappe della controffensiva della restaurazione clerico-moderata. Coronamento ne fu il 18 aprile. Per questo noi abbiamo parlato e parliamo di «rivoluzione interrotta». Non per indulgere a un frasario estremista ma per indicare il come e il perché una rivoluzione matura nei motivi, costruttiva nei fini, civile e adulta nelle forme e nei metodi, abbia potuto portare a una situazione la quale richiama assai di più il clima del 28 ottobre 1922 che non quello del 25 aprile 1945. I motivi profondi della Resistenza antifascista rimangono validi e lo rimarranno fino a che ad essi non si sia data una risposta e una soluzione: risposta e soluzione che non possono essere le stesse che potevano attendersi dallo Stato prefascista. Ecco perché noi non «commemoriamo» il 25 aprile ma ad esso ci richiamiamo come ad un giorno che dovrà avere il suo domani. Se presto o tardi non dipende solo da noi ma dipende anche da noi.

IL MODO MIGLIORE DI SERVIRE IL PAESE [«Il Popolo», 24 aprile 1949; discorso di Alcide De Gasperi a Milano il 23 aprile 1949]

[...] Amici miei, vi ricordate una seduta che avvenne in questa sala una delle prime dopo la liberazione? C’erano tutti coloro che si erano battuti, c’erano i rappresentanti dei partigiani nostri amici. Presso alcuni c’era una certa diffidenza da principio verso i vecchi che venivano da Roma. Sembrava che rappresentassimo il mondo vecchio, il mondo che non avrebbe tenuto conto di questo concorso, del contributo dato dalla gioventù. Non è stato vero; noi ne abbiamo tenuto conto. Forse si sarebbe potuto tenerne conto di più ancora se una parte dei partigiani non avesse voluto scontare la palma del patriottismo con vantaggi di partito. Se non fosse nata la diffidenza sugli scopi per cui si voleva puntare sui meriti del passato. Non dimenticherò mai l’entusiasmo, anche in mezzo alle contraddizioni, che abbiamo goduto in quella seduta, qui, in presenza di ottimi amici un po’ ancora pugnaci, col sapore acre della montagna da cui erano appena discesi.

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Oggi dopo la prova di tre anni sono certo che i nostri partigiani ammetteranno che abbiamo assorbito in noi tutto lo spirito della liberazione. Ma la liberazione, la salvezza, la indipendenza del paese vuole soprattutto la libertà all’interno, nessuna sopraffazione all’esterno, pace e sicurezza contro coloro che alla pace attentassero. Ecco che così decidendo sul Patto Atlantico, noi ci siamo ricordati di quei nostri giovani che avevano sofferto e degli scopi per i quali avevano combattuto. Ed oggi ancora crediamo di essere sulla linea della Resistenza perché bisogna resistere, bisogna resistere soprattutto al male, alla violenza delle passioni che furono esiziali sempre in tutta la storia d’Italia, bisogna resistere ai nazionalismi fatali e cercare la collaborazione internazionale in un mondo che si ricostruisce su basi nuove. [...] stiamo lottando contro le conseguenze di una guerra e di una politica disastrosa, che venne imposta da uno Stato-partito il quale negava ai cittadini, ai migliori cittadini, ai democratici cristiani, ai democratici in genere, qualsiasi intervento nella direzione della politica. Non vogliamo tornare più a questa pericolosa situazione, anche se ora lo Stato-partito viene invocato con argomentazioni di estrema sinistra. Non pretendete che noi siamo meno cauti e meno restii ad accettare il loro ragionamento. Non ci vengano a dire: «Noi parliamo a nome dei partigiani». Non ne hanno il diritto. Perché moltissimi partigiani sono nel campo nostro e soprattutto i partigiani migliori, quelli che hanno combattuto per la Patria e solo per la Patria, senza riservare nulla al Partito. Non ci vengano a dire che vogliono la pace perché essi predicano la diserzione dei cittadini in caso di guerra e preparano la porta spalancata in caso di invasione, quando essa venisse dallo Stato-partito. Le decisioni popolari sono state chiare, precise e ci hanno dato il mandato che noi osserveremo fino alla fine. [...]

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PER LA DIFESA DELLE LIBERE ISTITUZIONI [«Il Popolo», 31 ottobre 1950; discorso di Alcide De Gasperi a Roma il 28 ottobre 1950 in occasione del congresso dei Partigiani cristiani]

Se questo Congresso fosse anche solo un atto commemorativo e celebrativo, il dovere del Governo nella persona del suo capo sarebbe di inchinarsi dinanzi ai morti e associarsi alla celebrazione del sacrificio dei vivi; ma questo non è un Congresso che guarda semplicemente al passato. È rivolto, come abbiamo sentito dagli oratori precedenti che hanno esposto il programma, innanzitutto al presente e all’opera dell’avvenire. Ed ecco che il mio sostanziale dovere come Capo del Governo è di ringraziare gli oratori e voi che vi siete associati alle loro conclusioni per il rinnovamento dell’impegno che avete preso verso la Patria italiana, verso la Patria e verso il regime libero delle istituzioni democratiche. La Patria in questo momento ha bisogno di solidarietà, ha bisogno di una nuova resistenza: la resistenza contro le forze disgregatrici; ha bisogno di ardimento operoso contro l’antilibertà. Ha detto bene il comandante Mauri: «Voi non vi siete battuti semplicemente per la cacciata dei tedeschi; voi vi siete battuti per creare un rinnovamento profondo nel Paese», quello – da lui definito – il secondo Risorgimento: «la libera comunità di italiani in una libera comunità delle Nazioni». Con questo ha formulato il suo, il vostro, il nostro ideale. La guerra vista dalla montagna, fa nascere e sorgere idee e prospettive secolari alle quali nella valle della vita quotidiana non siamo atti a guardare, e così avviene in tutte le crisi dei grandi avvenimenti storici. Ci sono dei momenti in cui tutto quello che è preoccupazione quotidiana e quanto sa di ordinaria amministrazione, si mette da parte e si vedono in prospettiva le grandi linee, i grandi principî, le grandi mète. Ed ecco perché anche voi, ritirati sulle montagne per la difesa, avete avuto il concetto del riscatto politico e morale del vostro Paese. La vostra parola comune è libertà. Una parola magica che vuol dire molte cose, che sottintende molte cose; libertà prima nel senso di indipendenza del Paese contro qualsiasi dominazione ed aggressione; libertà poi in regime politico, avvento delle forze po-

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polari al Governo; libertà nella giustizia sociale, cioè ridistribuzione della proprietà, del reddito, della ricchezza; libertà consapevole dei valori spirituali eterni e religiosi. Per taluni, pochi, che venivano dal mondo della cultura, fra i partigiani la libertà sarà stata anche una dottrina filosofica, ma per tutti divenne e fu la conclusione pratica di un’esperienza storica. Una conclusione definitiva dopo venti anni di dittatura e sopratutto innanzi agli orrori della guerra civile, una conclusione pratica che ora si rinnova nel vostro impegno e ci sta di fronte come necessità della nostra opera. Allora, era più facile intendersi su questa parola in una sfera molto ampia; l’anti-libertà si chiamava Hitler e si traduceva un po’ adattando il significato della parola il «Deutschland über alles». Oggi c’è un «bolscevismo über alles». C’è un concetto generale di una dominazione che non conosce frontiere, anzi che spacca le frontiere; la dominazione di un regime, non parlo della dottrina, parlo di un regime, un regime il quale non conosce libertà e non conosce istituzioni rappresentative di carattere democratico. Veramente queste cose le sapevamo; veramente le abbiamo imparate un po’ alla volta dal 1945 in qua, però il caso della Corea è stato così impressionante che sarebbe grave errore non trarne ammaestramento. Ma vi siete accorti che con un automatismo rapidissimo, quanto è rapida la comunicazione telefonica o radiotelefonica nel mondo, anche l’Italia si è trovata spaccata in due parti, come se il parallelo 38° fosse passato metaforicamente a dividerla nel medesimo momento. Questa scissione automatica e istintiva ci ha spaventati tutti, anche coloro che sapevano che doveva finire così. Ma, dunque, ci siamo detti: la Russia, questo Stato che rappresenta il bolscevismo, aggredisca o non aggredisca, abbia torto o ragione; la Russia dunque deve essere obbedita, e le Patrie esistono solo subordinatamente a questo ideale supremo del bolscevismo. Dunque la Costituzione italiana che dice sacra la difesa della Patria vale in quanto si accetti sempre ed in qualunque caso la subordinazione alla Russia. Da ciò i telegrammi a Stalin e la speranza fanatica di una «liberazione». Liberazione da che? Liberazione dall’Italia democratica che il popolo ha voluto, e ciò per imporci un regime dittatoriale, uno Stato-partito contro cui voi partigiani insorgeste.

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Ecco, amici volontari, che voi seguendo oggi un precetto della vostra coscienza, vi trovate anche nella logica degli storici sviluppi del vostro movimento. È la vostra conquista che siete chiamati a difendere. Voi avete contribuito in forma eminente a ricostruire questa Italia, a darle una dignità. Oggi abbiamo bisogno di solidarietà nazionale e voi potete contribuirvi, alimentando nella vita quotidiana la fede nel patriottismo sincero, vigilando sui pericoli, scuotendo gli incerti, incoraggiando i pavidi, sollevando la speranza e la fede nell’avvenire d’Italia. Non si tratta di difendere un partito, ma i principî vitali della democrazia. Domani ci può essere un’altra maggioranza diversamente costituita, ma il principio non deve essere perduto: istituzioni libere e possibilità di trasmissione diretta della sovranità del popolo; questa è la libertà politica della volontà del popolo. [...]

PER IL SECONDO RISORGIMENTO D’ITALIA [«Il Popolo», 26 aprile 1951; discorso di Alcide De Gasperi a Trento il 25 aprile 1951]

[...] Abbiamo celebrato oggi a Verona l’anniversario della Liberazione e della Resistenza. In presenza di migliaia e migliaia di partigiani, che avevano il diritto e il dovere di ricordare il sacrificio fatto, abbiamo detto però che non celebriamo la lotta fratricida; quella fu un grande delitto di Caino, che vogliamo obliare, vogliamo che resti nel buio delle ombre della nostra storia. Abbiamo celebrato la lotta contro la guerra dello straniero accampato in Italia, il quale impose la guerra fratricida. Abbiamo celebrato la lotta dei partigiani come lotta per la pace, ed abbiamo detto che tanti furono i fulgidi esempi di questa resistenza disinteressata e tanti furono i sacrifici e lo spargimento di sangue in buona fede, che questa luce lascia nell’ombra anche quei crimini che sono deplorevoli, ma che purtroppo si accompagnano sempre all’urto della storia, quando sul palcoscenico ad agire sono folle prese da passione. Lotta dunque oggi contro la guerra e lotta per la pace e lotta anche per la pacificazione. Ma si sottraggono a que-

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sta pacificazione quelli che si ostinano a non trarre ammaestramenti dalla sconfitta. Ci possiamo pacificare con gli uomini, ma non possiamo accettare riabilitazioni della dottrina e della direttiva politica che condusse al disastro nazionale. Ecco la differenza. Possiamo riprendere la nostra unità, cercarla affannosamente e fraternamente, purché non si voglia riabilitare un passato che è così denso di colpe e così grave di responsabilità. [...]

CEFALONIA [«Avanti!», 8 settembre 1953; articolo non firmato]

Dieci anni or sono, all’ora del tramonto, nell’isola jonica di Cefalonia aveva inizio la tragedia più gloriosa e terribile vissuta dall’esercito italiano nella seconda guerra mondiale. Non è difficile immaginare quale potesse essere l’atmosfera dell’isola nel pomeriggio dell’8 settembre ’43 prima che la radio diramasse l’annuncio dell’armistizio: comandi silenziosi e sonnolenti, soldati annoiati dal lungo ozio, ronzio di mosche e, tutt’intorno, la grande distesa azzurra dello Jonio. All’improvviso la scarica elettrica di una parola inattesa: armistizio. Che fare? In quello stesso momento quella parola lanciata in proclami criminalmente confusi dai supremi comandi del continente seminava il caos fra i reparti dell’esercito di tutta Italia. A Cefalonia la situazione sembrava anche peggiore: mancanza assoluta di mezzi di comunicazione, radio mute, nessun cavo telegrafico. Silenzio. Silenzio nel cielo, sulla terra, sul mare. Silenzio fra i reparti tedeschi improvvisamente freddi ed ostili dietro le proprie armi. Finalmente un radiogramma annunciò che bisognava resistere ai tedeschi, qualora questi avessero attaccato; ma poco dopo un secondo radiogramma ordinava di cedere le armi collettive e le artiglierie alle truppe germaniche. Poi di nuovo silenzio, rotto soltanto dalla voce dura del comandante tedesco che chiedeva immediata cessione delle armi. Fu allora che il comandante della Divisione, generale Gandin, sulle cui spalle gravava la tremenda responsabilità di undicimila vite umane, prese quello che forse fu il primo provvedimento demo-

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cratico adottato dall’esercito nel corso della seconda guerra mondiale. A tutti i reparti convocati dagli ufficiali in un’atmosfera di pesante gravità fu posto il dilemma: con i tedeschi, contro i tedeschi, cedere le armi. La risposta fu unanime: contro i tedeschi. E la tragedia cominciò. Due settimane di combattimenti accaniti, feroci, sanguinosissimi sulle balze sassose dell’isola, fra i tronchi contorti degli ulivi e le bianche casupole dei contadini greci. All’inizio i tedeschi erano di gran lunga inferiori, ma presto ottennero rinforzi via mare mentre il cielo era completamente controllato dagli Stukas. Intorno ai nostri, invece, una cortina di silenzio. L’Italia ufficiale li aveva dimenticati. Più di quattromila soldati italiani caddero nel giro di pochi giorni. Poi, finita ogni riserva, il nemico ebbe il sopravvento, cominciò l’orgia di sangue. I superstiti laceri e insanguinati furono ammassati contro i muretti, sul fondo dei valloncelli petrosi, lungo le scarpate polverose. E falciati con le mitragliatrici. Una tragedia che trova l’uguale soltanto negli incredibili massacri di Buchenwald o di Auschwitz. Cinquemila fucilati. Solo pochissimi si salvarono. Qualcuno si inerpicò sulle balze dell’Aenos e riuscì a nascondersi insieme ai partigiani greci. La lotta continuava. Il nome di Cefalonia, da allora, assunse un valore luminoso e preciso: la gemma che salda le migliori tradizioni del nostro esercito all’impeto generoso della lotta partigiana.

ONORE AGLI EROI DELLA RESISTENZA ROMANA! [Giorgio Amendola, «l’Unità», 24 marzo 1954]

Il 23 marzo 1944, in Via Rasella, i Gruppi di azione patriottica delle brigate Garibaldi colpivano con un’audace azione offensiva il nemico che sfilava, armato e tracotante, nel cuore della città, in violazione impudente dello statuto di «Città aperta», sottoscritto ipocritamente dall’invasore come prezzo della capitolazione di settembre. Roma, infatti, era diventata la base armata delle divisioni schierate sui fronti di Cassino e di Anzio, al centro del sistema di comandi e di collegamenti dell’esercito tedesco. Era un momento difficile della guerra di liberazione. Infuriava la con-

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troffensiva tedesca contro la testa di ponte di Anzio. Il movimento patriottico pagava con dure e dolorose perdite il coraggioso slancio che lo aveva portato all’attacco, fino al limite dell’insurrezione, nell’ultima settimana di gennaio. Il Comitato di liberazione nazionale era paralizzato da una lunga crisi politica, che venne poi risolta soltanto allorché a Napoli si giunse, per l’iniziativa unitaria di Palmiro Togliatti, alla formazione di un governo di unità nazionale. Attesisti e capitolardi predicavano la rassegnazione e l’inerzia di fronte a un nemico che, sempre più esigente e rapace, moltiplicava le razzie e le deportazioni e trasformava Roma in un campo trincerato per una difesa ad oltranza della città. Mai Roma corse pericolo maggiore, non solo nella sua struttura materiale e nella sicurezza dei suoi figli, ma anche nel suo patrimonio morale, bene comune di tutta l’Italia: se Roma si fosse allora inginocchiata dinanzi all’occupante, avrebbe perduto ogni titolo per restare capitale della nuova Italia. Per la salvezza di Roma e la difesa dei suoi cittadini, per il suo onore e il suo avvenire, bisognava colpire il nemico e porre un freno alla sua prepotente tracotanza, bisognava fargli sentire la presenza attiva dei partigiani nel cuore della città e la minaccia sempre incombente di una insurrezione popolare. Non preghiere o intrighi del doppio gioco occorrevano, ma l’azione e il coraggio dei patrioti, la resistenza attiva e solidale di tutto il popolo romano. I partigiani seppero interpretare questa necessità morale, politica e militare del momento ed i GAP, reparti d’avanguardia, forti dell’appoggio dei cittadini, intensificarono, sprezzanti di ogni pericolo, la loro azione. Il 10 marzo un corteo di traditori repubblichini, organizzato in occasione dell’anniversario della fondazione della milizia, fu attaccato a colpi di bomba e messo in fuga, in via Tomacelli. Altro corteo era preparato per il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci, ed esso era già atteso al passaggio quando, con la consueta prudenza, i fascisti rinunciarono alla parata, troppo pericolosa per i loro gusti. Pronto ed audace, l’attacco dei G.A.P. fu diretto allora contro un reparto armato tedesco, ed in Via Rasella gli invasori sentirono che a Roma non erano padroni assoluti, che Roma non tremava e trescava, ma che nella capitale d’Italia essi si trovavano di fronte soldati italiani capaci di contrastare loro il passo e di volgerli in fuga. Presi dal panico, atterriti dalla minaccia di un moto insurre-

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zionale del popolo romano, i boia nazisti diedero sfogo alla loro rabbia e ordinarono il massacro dei 335. Il nome di Roma si aggiungeva a quelli di Marzabotto, di Oradour, delle città e dei borghi d’Europa che, dall’Atlantico al Volga, si coprivano di croci, duro prezzo imposto da un nemico disumano ai popoli che non si rassegnavano alla viltà e alla capitolazione. Perciò l’eroismo dei G.A.P. di Via Rasella e il martirio delle Fosse Ardeatine sono i due momenti di una stessa epopea, quella della Resistenza romana. Caddero alle Fosse Ardeatine i nostri compagni più cari di partito e di lotta: versarono il loro sangue fraternamente uniti comunisti e monarchici, socialisti e liberali, cattolici ed ebrei, coloro che andavano consapevoli alla morte avendo liberamente scelto il loro posto nel fronte nazionale, e le vittime più straziate ed ignare, strappate alle case o razziate nelle strade, ma anch’esse unite agli altri nel sacrificio supremo, agli altri affratellate nell’ultimo grido di «Viva l’Italia!» e nel comune sentimento di fierezza e di odio contro l’invasore. Quel sangue non fu versato invano. Tutti i popoli liberi trassero dal dolore e dallo sdegno suscitato dal massacro delle Fosse Ardeatine nuove energie per continuare la guerra fino alla vittoria. Gli italiani si unirono più strettamente alla Resistenza, e diedero ai partigiani un appoggio più vasto e più attivo. Il nemico comprese che a Roma non conveniva tentare una difesa ad oltranza, perché il popolo romano avrebbe saputo combattere l’ultima battaglia, ed ogni strada sarebbe potuta diventare una Via Rasella: ogni casa una trincea. Noi possiamo oggi ricordare a fronte alta e col cuore puro i caduti delle Fosse Ardeatine e tutti i caduti della guerra di Liberazione, di tutti i partiti e di tutte le fedi, e pensare reverenti e commossi alle loro vedove e ai loro figlioli, perché sappiamo, dopo dieci anni, di essere restati fedeli alla memoria dei 335, di non averli mai rinnegati e traditi, e di portare intatto nell’animo nostro il messaggio di speranza e di amore che essi lasciarono al popolo italiano. Noi possiamo ricordarli perché non lavoriamo per dare nuovamente ai boia delle Ardeatine, ai Kesselring e ai loro padroni nuove divisioni corazzate: perché lottiamo contro la CED e contro la rinascita del militarismo tedesco. Possiamo ricordarli perché non sollecitiamo i voti e le allean-

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ze degli Spampanato che esaltarono pubblicamente il massacro e la «severa punizione» inflitta ai «comunisti badogliani»; perché lottiamo a difesa dei valori di libertà, democrazia e indipendenza, in nome dei quali combatterono e caddero i 335, e per l’unione del popolo italiano consacrata dal sangue versato in comune dai martiri delle Fosse Ardeatine. E noi possiamo ricordarli, diciamolo infine, perché lottiamo per ripulire Roma e l’Italia dai vari Montagna i quali, già collaboratori e servi dell’invasore tedesco, sono tornati in queste settimane a sporcare il nome di Roma. Cosicché, a più forte ragione, Roma delle Fosse Ardeatine appartiene a noi, appartiene a quanti sono rimasti fedeli al testamento dei suoi eroi e dei suoi martiri, e non appartiene ai complici e ai protettori degli avventurieri che della capitale d’Italia vorrebbero fare il loro nido.

NEL DECENNALE DEL GLORIOSO SACRIFICIO DEI 335 CADUTI ALLE ARDEATINE L’ITALIA HA ESALTATO I VALORI DELLA LIBERTÀ E DELLA RINASCITA NAZIONALE [«Il Popolo», 25 marzo 1954; discorso del ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani]

Mentre gli anni passano il tempo travolge e cancella passioni e ricordi, ci sono avvenimenti che restano fissati in una presenza immutabile, e continuamente si ripropongono a noi, esigendo non un omaggio formale e distratto, ma un personale impegno di meditazione e di azione. Parlare di questi avvenimenti richiede uno sforzo: lo sforzo di vincere il pudore di chi si avvicina a qualche cosa di sacro e teme di usare parole logorate dalla retorica di inutili ripetizioni. Misteriose sono le leggi della vita: per esse l’apparente sconfitta del giusto, il sacrificio dell’innocente testimoniano della giustizia, divengono sorgente di vita. L’eccidio delle Fosse Ardeatine, crimine chiuso nella sua impotente ferocia, tragicamente rinvigorisce il movimento che ha scosso il popolo italiano, indicandogli la via dura, ma unica e necessaria, della «liberazione».

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Nella comune disperazione ciascuno si sentì personalmente colpito, personalmente impegnato a riscattare se stesso e la patria nella lotta e nel sacrificio. E la lotta della Resistenza fu contro il dubbio e l’angoscia, propria e altrui, fu anzitutto lotta dello spirito e solo lo spirito fu vittorioso, là dove il corpo soggiaceva alle torture della prigione o del campo di concentramento. Oggi possiamo constatare che coloro appunto i quali sembrarono vittime della storia, furono i più validi artefici di storia. L’efficacia della loro azione non può essere interpretata né con le leggi dell’utilità, né con le leggi dell’economia: essa si illumina attraverso i suoi motivi spirituali e si afferma come rifiuto di ogni determinismo, di ogni materialismo, di ogni fatalità di annientamento. Quelle tragiche giornate sono ormai lontane, ma restano sempre indelebilmente impresse nella nostra memoria e nel nostro cuore. Il meditare sull’efficacia che esse ebbero anche e soprattutto là, dove furono segnate dalla tortura e dalla morte, ci conduce a dire che sono proprio coloro che rifiutano la menzogna e l’ingiustizia ed escono dalla mediocrità morale, quelli che costruiscono la storia. Gli uomini possono trasformare il mondo in una prigione comune, ma sono ancora gli uomini che possono trasformare il mondo in una fraterna casa comune. Ed è perciò che oggi noi commemoriamo i morti delle Ardeatine senza spirito di faziosità o di odio. Qui caddero militari, di ogni grado e di ogni arma, e civili, di ogni età e di ogni categoria sociale: generali, ufficiali, sottufficiali e soldati; impiegati e operai, professionisti, contadini, sacerdoti, studenti, artisti, uomini di fedi differenti: in religione come in politica. Li ha accomunati l’aspirazione alla libertà e alla giustizia e la assoluta fedeltà al dovere. In questo supremo sacrificio noi vediamo quasi il simbolo degli innumerevoli sacrifici della guerra: i piccoli, i grandi, gli estremi olocausti. Li commemoriamo nella serena coscienza che questo – come tutte le sofferenze della guerra – molte delle quali ancora perdurano – non è stato consumato invano. Perché non è vano il dolore dei singoli e di un popolo, se dal dolore si sanno trarre ragioni di vitalità e di rinnovamento su stra-

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de che non ripetano gli errori da cui scaturirono le lacrime e il sangue. Ispiri Iddio gli italiani, affinché nella celebrazione del passato non approfondiscano solchi già fin troppo profondi, ma traggano, dal ricordo commosso, l’incitamento all’unione nella libertà per il progresso civile e sociale e per la sempre più stretta solidarietà tra i popoli liberi. Quando lo sgomento ancora ci prende, perché sembra che l’odio debba dominare incontrastato nel mondo e le nostre forze umane appaiono troppo piccole e impotenti; quando la nebbia dell’incertezza si diffonde e ci avviluppa, sì che lo smarrimento soffoca le speranze e conturba la fede, qui veniamo, presso queste tombe. Qui, con la presenza perenne del loro sacrificio, i martiri delle Ardeatine ci esprimono la più drammatica condanna alle deformazioni di ogni totalitarismo; qui ci rivelano come, nonostante tutto, perfino nei momenti più oscuri e torbidi della barbarie, si possa rimanere uomini, salvando i fratelli dall’abisso della disperazione e del male. Essi hanno sfidato l’incubo della solitudine, l’orrore della tortura, l’irreparabilità della morte, proprio per affermare il valore di una comunità in cui gli uomini liberi possano vivere e comprendersi senza rancore, senza disprezzo, senza egoismo. Questo è il supremo insegnamento che i morti delle Fosse Ardeatine ci hanno lasciato e che a noi si impone come meta finale e come quotidiano dovere. Nel rivolgere il saluto deferente e commosso della nazione agli Eroi caduti, non dobbiamo né vogliamo dimenticare coloro che, uniti ad Essi da vincoli di affetto e di sangue, li piangono afflitti e sconsolati. Qui sono le spose, i babbi, le mamme, i figli dei martiri le cui spoglie terrene giacciono sotto le fredde pietre del sacrario. A loro va il nostro pensiero particolarmente affettuoso e commosso: e in loro noi vediamo rappresentate l’immensa schiera delle mamme, dei babbi, delle spose, degli orfani di tutti i caduti e dei disperati nell’immane tragedia della guerra. E a loro vorrei dire, a parziale conforto di tanto strazio, vorrei dire: presso il vostro figlio, il vostro sposo, il vostro padre, nel momento tragico del supremo trapasso stava accanto l’Angelo di

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Dio, e l’Angelo di Dio deve pur aver sussurrato qualcosa al cuore, alla mente degli eroi, qualcosa di misteriosamente grande: – Tu muori, perché viva l’Italia dei tuoi figli, dei tuoi fratelli, di tutti i tuoi Cari. Essi son morti perché l’Italia viva. E l’Italia vive. Viva l’Italia!

CELEBRAZIONE DEL DECENNALE DELLA RESISTENZA* [Discorso di Giovanni Gronchi alla Camera dei Deputati, seduta pomeridiana del 22 aprile 1955] PRESIDENTE (Gronchi). (Si leva in piedi, e con lui i deputati ed i membri del Governo). Onorevoli colleghi, la volontà del Governo, incontrandosi con la volontà dell’enorme maggioranza del popolo italiano, ha fatto sì che il decennale della Resistenza assuma carattere di celebrazione austera e solenne, soprattutto nel paese. Ma è evidente che la Camera dei deputati, non soltanto per il fatto che essa annovera tra i suoi membri tanti uomini che nella Resistenza hanno dato il segno della loro devozione alla libertà ed alla patria, ma per la stessa grandiosità del fatto che nella Resistenza si espresse, è evidente – dico – che la Camera non può mancare di associarsi a questa celebrazione. Ed è veramente grande onore per me che dai vari settori di questa Assemblea si sia rivolto invito al Presidente perché fosse la sua parola, e solo la sua parola, ad esprimere i sentimenti comuni a tutti noi quando, con ammirazione e gratitudine, ricordiamo tanto sacrificio e tanta gloria. Il pensiero che ricorre a quegli anni si rivolge anzitutto a rievocare con un tributo di omaggio, reverente e commosso, tutti coloro che per la libertà e l’indipendenza del paese offrirono l’olocausto della loro vita. Con la nobiltà e la fierezza di chi ha in sé la certezza di aver interpretato ed espresso le esigenze storiche e spirituali più profonde della nostra gente, noi possiamo ben accomunare in piena sincerità a questo pensiero riverente anche gli altri morti, tutti gli altri morti che sono caduti al loro posto di do-

* Tratto da G. Gronchi, Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma 1986.

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vere, nella consapevole e disinteressata volontà di servire non una parte politica, ma una loro idealità e, attraverso questa idealità, la patria. Il pensiero della Resistenza non può né deve immiserirsi – come da qualche parte si è andato tentando – in una specie di macabro bilancio delle vittime delle varie parti. Tentativo miserando, perché di un fatto che ha tale ampiezza e così complessa significazione spirituale prima che politica, sarebbe veramente confondere le dimensioni e sminuire il valore pretendendo di identificarne la misura storica e morale coll’unilaterale elencazione di taluni eccessi che sono episodi marginali, e rifiutandosi faziosamente di apprezzare quali fossero l’anelito e l’ansia di rinnovamento da cui il movimento di liberazione fu ispirato e condotto. Ogni guerra civile – ed il popolo italiano fu allora veramente costretto ad una guerra civile – ha i suoi orrori ed i suoi errori, ha le vittime dall’una e dall’altra parte, per tragiche incomprensioni o per scoppio improvviso di settarismi e di istinti di violenza. Ma non in questo si è materiato il grande fatto storico che domina in Italia l’ultimo biennio della guerra. E se noi forse non siamo ancora in grado di dare un giudizio obiettivo compiuto sulla sua rilevanza nel corso della storia nazionale (troppo vicine sono le sue vicende e troppo accese le passioni), noi possiamo certo trarre già oggi, con sicura coscienza della verità, alcune considerazioni e constatazioni. La prima è che, per la testimonianza indubitabile dei fatti, una lotta come quella della liberazione, continuando il solco impresso nella feconda generosa terra della nostra compagine nazionale dal primo risorgimento, fu un moto popolare nel senso più largo ed effettivo della parola. Forse, da un confronto storico che chi verrà dopo di noi potrà fare con stato d’animo più distaccato e con documentazione più sicura, si vedrà che in effetti l’altro risorgimento, pur così gloriosamente materiato anche di partecipazione popolare, non raggiunse l’alta temperatura di consenso e di impegno diretto da parte delle masse popolari che fu la caratteristica più significativa di questo nostro secondo risorgimento. Perché è vero che, anche per la lotta di liberazione, promotrici ed animatrici in misura determinante furono quelle che noi potremmo chiamare le élites; cioè lo spirito e l’attività di coloro i quali dalla consapevolezza della loro responsabilità e dalla coscienza del lo-

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ro dovere civico, dalla chiara intuizione degli interessi più alti della patria e dalla fede negli ideali della libertà, trassero la forza per suscitare e guidare il tenace ed eroico entusiasmo che presto raccolse così larga ed operante partecipazione. È vero altresì che la massa dei partigiani che si rifugiarono sui nostri monti, che popolarono invisibili le nostre campagne, che combatterono così tenacemente per lunghi anni, vincendo talvolta più lo scoramento che non le fatiche ed i pericoli della guerra, furono pur sempre una minoranza di generosi, consapevolmente votati al sacrificio per tutti gli altri; ma è certo che il consenso popolare circondò questa élite di condottieri e di combattenti di tale solidarietà, di tale risoluta volontà di collaborazione, che in nessun altro momento della storia dei nostri tempi si videro così numerose e temerarie le donne, e con queste i giovani e i giovanissimi, prestarsi fino al sacrificio della vita per sostenere, dimentichi di ogni pericolo, delle inumane privazioni e della fame, materialmente e moralmente, l’efficienza e la volontà dei combattenti lontani. Vi è in questa partecipazione un profondo significato: gli ideali che furono il segno distintivo della bandiera di battaglia per la liberazione erano così connaturati alla coscienza nazionale che senza sforzo e senza penose lentezze riuscirono ad infondere, anche nelle masse popolari le meno politicamente sensibilizzate, la persuasione che si combatteva per una causa che trascendeva partiti e ideologie particolari: che si doveva anche riuscire, serenamente, per ridare alla patria il dono della libertà e la capacità di riprendere e custodire la propria indipendenza. (Vivissimi, generali applausi). In questo senso si può affermare, senza retorica, che la lotta di liberazione è stata una esperienza vitale; in questo senso si può e si deve sperare che quanto si incominciò a intravedere e ad attuare nel travaglio sempre doloroso, talvolta disperato, di quella lotta, non rappresenta un’esperienza troncata o conclusa. E su questa via noi ci spieghiamo il perché, malgrado le divisioni inevitabilmente sopravvenute, malgrado l’inasprirsi degli odi di parte, gli uomini della Resistenza si riconoscono ancora, qui e fuori di qui (Vivissimi, generali applausi), e si continueranno a riconoscere, almeno finché durerà la loro generazione. Negli anni che seguiranno, quando alla loro generazione succederanno le nuove, e per queste il periodo della Resistenza sarà soltanto ed inevitabilmen-

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te un episodio, un sia pur grande episodio, ricordato nei libri e nei racconti appassionati dei sopravvissuti, tanta luce ideale e così alta testimonianza di fede, se noi non ne perpetueremo nelle opere il valore e lo spirito, sarà argomento di letteratura o di storia piuttosto che materia palpitante di vita vissuta. Si può aggiungere, senza timore di indulgere alla retorica o di deformare la verità, che la lotta di liberazione fu nei suoi dati essenziali un fatto soprattutto spirituale, in quanto rappresentò l’ansia di riscatto contro l’avvilimento che ogni dittatura porta sempre con sé. La dittatura non è soltanto sovrapposizione arbitraria ad una tradizione nazionale ancora valida, di istituti e di costumi che non trovano alcuna giustificazione nella coscienza popolare, ma è anche degradazione della dignità personale ed umana del cittadino, è impedimento a che il cittadino concorra, nella libertà, che è il dono più divino che esso abbia, col proprio pensiero e colla propria attività, nei limiti della legge – garanzia sicura per tutti – al perenne progredire delle forme di convivenza economica, politica e sociale, che sono la componente di forze diverse in libero ed ordinato sviluppo. Non si può dimenticare infatti che nella storia di poco precedente alla riscossa del nostro paese vi sono alcune date in cui il senso della dignità, del coraggio e della responsabilità, in confronto di difficili ed avverse fortune, apparve oscurato, se non tristemente perduto: 25 luglio, quando un regime orgoglioso crollò senza alcuna resistenza da parte di alcuno dei fedeli seguaci, offrendo la miserevole prova che esso non era radicato ormai più neanche in una piccola zona della coscienza popolare; 8 settembre, che vide lo smarrimento delle classi dirigenti italiane, da cui di conseguenza dilagò subitamente un processo di disgregazione che parve travolgere tutte le possibilità di ripresa. Chi vi parla, ritornando in Roma dopo la notizia dell’armistizio per prendere il suo posto di responsabilità, ebbe lungo il viaggio l’impressione evidente e tremenda di questo disfacimento. Io ricordo ancora, come se fosse storia di ieri, le folle dei soldati incoraggiate ad abbandonare caserme ed armamenti, condotte a vergognarsi della gloriosa divisa del soldato italiano, ed a liberarsene miserevolmente prima che si arrivasse ad una stazione dove si temeva che soldati tedeschi vigilassero inesorabili in armi su tanta improvvisa e forse inconscia viltà.

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Fortunatamente fu davvero significativo che tanti reparti dell’esercito, in patria ed in terre lontane, riscattassero poi con un eroismo che ci diede commossa ammirazione quel breve periodo di smarrimento. E fu altrettanto significativo che così gran parte dei prigionieri ritrovassero poi, nella dolorosa vita d’esilio, la fierezza della loro italianità. Ma dal ricordo del doloroso disgregarsi della compagine nazionale eran rimasti come un’eco di umiliazione ed una minaccia di pericolo nell’animo di molti. E questo ricordo, e le conseguenze dolorose ed avvilenti che erano in atto, certo operarono come fermento nella guerra di liberazione. Parve a molti di noi, soprattutto a quelli di noi che soffrirono quasi nelle loro carni il marchio della vergogna comune, parve – dico – più imperiosa l’esigenza di riscattarsi dalla triste avventura, di risorgere affrontando rischi e sacrifici supremi affinché l’Italia potesse apparire anche di fronte agli altri paesi non una nazione nella quale fosse spento il senso della dignità individuale e collettiva, ma dove il popolo, superato un attimo di smarrimento, aveva saputo ritrovare nell’abnegazione e nel coraggio, quasi per un’espiazione consapevole, la sua via e meritare il suo nuovo destino. Ed è in questo un altro dei significati profondi della lotta di liberazione. Ma qualcuno soggiunge subito: parole, rievocazione rispettabilmente commossa, che ripete la sua verità dal sentimento più che dalla constatazione dei fatti. È dai risultati che si può misurare la vitalità di un movimento, e questi risultati forse, almeno finora, sono impari all’aspettazione ed alla volontà di sacrificio di allora. Ma pur non potendosi fare un bilancio totalmente attivo di quello che è stato lo sforzo di ascensione del nostro paese in questi anni, pur dovendo riconoscere lentezze, incertezze, confessare deficienze le quali ancora si manifestano e si perpetuano, io credo che la grigia perplessità del pessimismo non possa ragionevolmente offuscare in alcuno di noi la fiducia nell’avvenire, poiché le difficoltà che questo nostro popolo italiano ha dovuto superare in questi anni sono state numerose e tremende. Esse hanno avuto origine non soltanto dalle città e dalle officine distrutte, dall’attività economica sconvolta, dalla fatica e dal tormento di ricreare le possibilità stesse della vita civile, ma sono derivate soprattutto dalla inevitabile lentezza nel guarire da una specie di deviazione spirituale che aveva allontanato il popolo dalla coscienza dello Stato e lo aveva fatto strumento passivo di una politica antitetica agli orientamen-

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ti naturali del suo pensiero che non aveva contribuito in alcun modo a determinarla o anche soltanto ad influenzarla. Sicché apparve subito che l’eredità della dittatura appena crollata senza onore non aveva il suo male maggiore negli istituti che essa lasciava, istituti aberranti dalla struttura nazionale e democratica dello Stato, ma soprattutto in una impostazione dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini, in un oscuramento della coscienza civile per cui il cittadino quasi si sentiva esonerato dal pensare agli interessi pubblici ed al destino stesso del proprio paese; e se vi era una idealità della quale si cercava di riempirgli la mente ed il cuore, questa idealità, che pure aveva un istintivo fondamento nazionale, era distorta dalla infatuazione di orgoglioso imperialismo che doveva preparare al nostro paese i giorni tremendi della guerra. Furono insomma il costume, gli interessi creatisi e consolidatisi durante quegli anni, l’allontanarsi della coscienza popolare dallo Stato, gli ostacoli più duri che ci fecero più lentamente risalire l’erta dalla bassura in cui eravamo caduti. Ma i risultati ci sono, e spesso imponenti, a dare la misura del cammino percorso. Basterebbe guardare soprattutto al campo internazionale, dove il fatto grandioso della lotta di liberazione poté spezzare tempestivamente l’equazione dittatura-Italia; equazione la quale avrebbe pesato sinistramente su tutto il nostro avvenire. (Vivissimi applausi). Non che noi, diciamolo con il coraggio della gente serena e forte perché consapevole di non aver mai esorbitato dalla difesa di giusti interessi, non che noi abbiamo da esser soddisfatti senza riserve della linea di condotta dei vincitori verso di noi. Molte ingiustizie non sono ancora sanate e troppo tormentosa fatica noi abbiamo durato per l’affermazione di elementari diritti. Ma se noi guardiamo quale è stata ed è, almeno in parte, tuttora la posizione di altri paesi, siano essi Germania o Austria noi possiamo renderci conto di quale valore abbia avuto lo spezzare l’equazione di cui parlavo ed il conquistare per il popolo italiano un posto tra i popoli che hanno coscienza della loro dignità e della loro libertà e possono perciò imporsi, malgrado ogni risentimento ed ogni ragione di stato spesso categorica ed ingiusta, al rispetto se non alla ammirazione dei vincitori. (Applausi). E vorrei aggiungere ancora, guardando alle vicende interne del nostro paese, che l’aspirazione, la quale fu propria del movimento della Resistenza, verso uno stato più popolare, cioè basato più

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largamente sul consenso popolare, verso uno stato che assicuri maggiore giustizia, e, sulla base di questa, maggiore libertà, è tuttora come un germe vivo che fermenta anche se non ha dato i suoi frutti. Si vedono già i segni, per quanto incerti talvolta e confusi, di una coscienza nazionale che si rinnova, che attinge ai valori supremi spirituali e storici che la patria sintetizza, che rende imperiosa l’esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza verso ogni egemonia dei più forti; che dà piena e adeguata valutazione ai diritti di ciascun individuo, gruppo o classe sociale. E questi diritti cercano di armonizzarsi in una nuova concezione di tutti i rapporti della vita nazionale; concezione, che, allargandosi poi alla vita internazionale, preme per rompere il cerchio fatale dei miti della violenza, del diritto della forza, dell’equilibrio di potenze; e ricerca nel rispetto delle esigenze della libertà e della indipendenza di tutti, e quindi nella pace, il terreno unico e fecondo nel quale può svilupparsi la vita autonoma di ogni paese e, primo fra tutti nel nostro pensiero, di questa Italia risorta. (Vivissimi applausi al centro). Tali valori, ripeto, fermentano e daranno frutti; non ne dubitate anche se la impazienza è grande, anche se noi vorremmo bruciare le tappe per l’edificazione del nuovo Stato che appare ancora assai fragile (e quanti medici stranamente solleciti al capezzale di questa giovane democrazia!); anche se la coscienza civica dei più appare incerta e insidiata da molte parti. Questi valori – io sento di non ingannarmi – scuotono le fondamenta dei vecchi istituti, intaccano la vetusta certezza delle vecchie concezioni, premono per la costruzione di uno Stato assai diverso, che non continui od aggravi l’accentramento anonimo teorizzato e realizzato dalla dittatura, e forse preparato dal periodo che la precedette; che sia l’amministratore responsabile e insieme il garante della libertà; che abbia il consenso ed il prestigio necessari a tutelare i diritti, ma insieme a ricordare e ad imporre con imparzialità rigorosa i doveri di ciascuno: ambivalenza indispensabile a stabilire le condizioni di ogni progresso. Questo travaglio spirituale verso un nuovo costume fermenta anche nei partiti, nessuno dei quali si salva oggi da crisi interiori, che non sono sempre le crisi pericolose e disgregatrici che gli interessati avversari cercano di fomentare o di interpretare a loro arbitrio, ma si palesano più spesso generatrici di impulsi vitali atti a dare alle organizzazioni politiche la capacità di adeguarsi alle nuo-

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ve necessità e alle nuove condizioni della realtà nazionale ed internazionale. Nessuno di noi ripieghi, scoraggiato o deluso, perché aveva sperato dalla Resistenza rinnovamenti più pronti e più integrali, ed oggi vede che il cammino è ad ogni passo più difficile e tormentoso. Ciascuno ricordi che dipende anche da noi accelerare il moto di rinnovamento e raggiungere certe mete; ed io anzi vi dico che il grande ideale della lotta di liberazione si compirà solo che noi lo vogliamo, solo che le classi dirigenti nuove sappiano essere pari ai loro compiti. Tali sono le ragioni per le quali la Resistenza non può servire come occasione di appello ad una unità fittizia, dove i sottintesi di volontà egemoniche e di conseguenti teorizzazioni della necessità di sacrificare ad esse la libertà e la democrazia dell’ordinamento civile rendano vano il proposito proclamato e dissimulino l’insidia del reciproco tradimento. La Resistenza può fare un appello unitario soltanto per uno sforzo concorde verso forme, istituti, costumi di democrazia sostanziale che si fondino sulla libertà e sulla giustizia, sole condizioni di convivenza ordinata dei ceti sociali; sulla tolleranza delle opinioni, sull’impero della legge, sulla rivalutazione costante di quei valori nazionali che nulla hanno da fare con le infatuazioni nazionalistiche, ma che costituiscono il solo terreno fecondo e l’atmosfera vivificatrice per ogni progresso. In questa direzione, attraverso le differenti fisionomie ideologiche dei partiti che concorrono a formare lo schieramento politico nazionale, io credo che una volontà concorde si possa formare; purché questa volontà, ripeto, non abbia sottintesi e sia pronta veramente a subordinare ogni interesse di parte all’interesse superiore di quella che in termini sociali, si chiama comunità della nazione e, in termini più storici e politici, la grande patria italiana. Credo che un tale sforzo rappresenti veramente la possibilità concreta di concorrere da opposte parti a che il patrimonio della Resistenza non vada disperso. Ogni pensiero rivolto agli uomini che si sono sacrificati col coraggio sereno e consapevole dei forti, trova sempre sulle loro labbra, soprattutto all’avvicinarsi dell’istante supremo, poche parole che non sono espressioni retoriche, ma segnano con solenne immediatezza i lineamenti spirituali di questi martiri: la libertà, la giustizia, l’Italia. Tre parole che ci fanno meditare anche oggi e possono veramente formare non solo un

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testamento spirituale, ma un programma, una via segnata alla nostra volontà di contribuire, con purezza di animo e rettitudine di intenti, al progresso morale e civile del nostro popolo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi). CHIARAMELLO. PRESIDENTE.

Chiedo di parlare.

Ne ha facoltà.

CHIARAMELLO. A nome dell’intera Camera, chiedo che il nobile discorso pronunziato dal nostro Presidente, ad esaltazione di ciò che è stata la eroica Resistenza del popolo italiano, venga affisso in tutte le città, in tutti i comuni, in tutti i villaggi d’Italia. Così il nostro consesso onorerà la celebrazione del decennale. Prego l’onorevole Presidente di voler porre ai voti questa mia proposta. (Vivissimi, generali applausi).

(La proposta è approvata per acclamazione). PRESIDENTE. Ritengo di poter attribuire a questo voto della Camera il significato di un consenso verso una valutazione di un grande fatto della vita nazionale: sia, la volontà della Camera, il segno del fermo intendimento di operare nel solco degli ideali della Resistenza. (Vivissimi, generali applausi).

NON È FESTA [Giorgio Almirante, «Il Secolo d’Italia», 24 aprile 1955]

Dunque, domani è festa. La legge del mio Stato comanda che domani sia festa. La legge della mia moralità, del mio carattere, della mia vita, la legge del sangue comanda che domani sia giornata di lutto. Se obbedisco allo Stato vengo meno a me stesso. Se obbedisco a me stesso, lo Stato mi pone di fronte ad una silenziosa e tremenda alternativa; andarmene a cercare libertà altrove, subire in Patria la costrizione altrui. Alla medesima alternativa furono posti di fronte gli antifasci-

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sti, e se ne andarono, anteponendo – secondo il loro costume – la libertà alla Patria. Ma lo Stato di allora aveva il coraggio delle proprie posizioni. Si dichiarava fascista e antidemocratico. Diceva di volersi costituire a regime. Toglieva in libertà quello che aggiungeva in stabilità. Toglieva in democrazia quello che garantiva in ordine. Era un sistema, in se stesso coerente, con gli avversari duro ma leale. Lo Stato di oggi è ipocrita: non per nulla sue levatrici furono De Gasperi e Togliatti. Lo Stato di oggi mi comanda di festeggiare l’avvento della libertà nel momento stesso in cui mi toglie la libertà più elementare e più umana: quella di non far festa quando il mio cuore e la mia mente sono in lutto. E poiché non è nostro costume anteporre la libertà (vale a dire la legge dei comodi propri) alla Patria, poiché tra i fascisti nessuno ha reclutato fuoriusciti, questo Stato ci pone dinanzi ad una alternativa fittizia e ad una costrizione reale: bisogna accettare la legge democratica, vale a dire la legge del più forte; e, in attesa di tempi migliori (che verranno!), spiegare sospirando ai nostri figli, che non videro la tragedia ma vedono ignari il pianto, che domani ci sono le bandiere alle finestre perché la strage dei nostri amici più cari è festa per la Nazione. Dunque, domani è festa; ma è la festa della non libertà. È la festa del regime antifascista, succeduto in virtù delle armi straniere al regime fascista. Ogni regime sceglie le sue feste e i suoi decennali; e così si qualifica. Padronissimi gli antifascisti di qualificarsi come «quelli del 25 aprile». Se ragionassimo come uomini di parte, diremmo: accomodatevi. Se mirassimo soltanto al nostro utile politico, penseremmo: che fortuna, poterci distinguere da loro sul metro del 25 aprile, di una data che la pubblica opinione non solo italiana ma mondiale non disgiungerà mai dagli orridi ceffi degli assassini comunisti di Piazzale Loreto! Scegliete, antifascisti, le compagnie che preferite; ma dopo averle scelte non lagnatevi se l’inesorabile: ...e ti dirò chi sei – vi raggiungerà. Celebri il 25 aprile? Walter Audisio è la tua compagnia. Sei degno di Walter Audisio. Voi ponete noi davanti ad una costrizione fisica e giuridica. Noi siamo molto più forti: vi teniamo chiusi in una galera morale, dalla quale non uscirete se non quando avrete avuto il coraggio di spezzare i legami ciellenisti. E smettetela di far danzare, sul fondo del caleidoscopio della

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vostra storiografia di comodo, la stolida teoria delle «ombre». Se Audisio fu soltanto un’ombra, se ombre, vale a dire eccezioni, furono Moranino, Moscatelli, Ortona, Gorrieri e tutti gli altri innumerevoli delinquenti comuni, la luce qual’è, qual’è – dov’è? – la regola positiva? Sono passati dieci anni: la metà di un Ventennio. Avanti, resistenti: mostrateci lo spiraglio di luce in mezzo a così fitte tenebre di sangue. Dimostrate di aver fatto, davvero, una rivoluzione. Storicamente, se non moralmente, la rivoluzione può giustificare anche il sangue. La rivoluzione francese ne versò: meno di voi, ma ne versò tanto. Nessuno ha redento i massacratori di allora dalle loro colpe; orrida è tuttora la memoria della maggior parte di essi; ma la rivoluzione c’è stata e ha manifestato, anche negli errori, la sua grandezza. Ha lasciato dottrine, leggi, una sua moralità, un suo costume, sue tradizioni. Alcuni tra i suoi protagonisti giganteggiano. Nel decennale della «resistenza», vorremmo essere invitati non soltanto alla celebrazione dei massacri, ma anche alla constatazione delle mete rivoluzionarie raggiunte, al bilancio delle positive realizzazioni. Quale Italia abbiamo intorno a noi dopo un mezzo Ventennio di codesta rivoluzioncina da grand-guignol? Ad esser benevoli nella interpretazione, a voler mettere accanto – e ne chiediamo venia – un De Gasperi ad un Orlando, uno Scelba ad un Don Sturzo, ci hanno restituito, rimpicciolendola, l’Italia prefascista: stessi errori, stessi metodi, stesse debolezze, stessa crisi di sistema, stesso equivoco di fondo. Con la giunta di un formidabile partito comunista e d’un partito democristiano monopolista dell’intrallazzo. Il Parlamento è quel che fu: peggiorato. Il disordine legislativo è quel che fu: aggravato. L’incertezza giuridica è quella che fu: accentuata. Il marasma sociale è quel che fu: esasperato. Lo Stato è nave con troppi nocchieri in gran tempesta. Arbitri assoluti, financo della scelta del Presidente della Repubblica, sono i direttivi dei partiti politici. Nella più alta Assemblea suonano parole di incitamento pubblico al tradimento e alla diserzione. In entrambi i rami del Parlamento siedono numerosi i pregiudicati per reati comuni. La Costituzione, che pur tanto sangue costò, giace inevasa e negletta. A nessuna solida riforma si è posta mano. Contro la marea montante della disoccupazione nessun argine sociale;

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nessuna diga economica contro le speculazioni più folli e sfrontate. Eserciti sovversivi liberamente organizzati sotto gli occhi del potere costituito. Scandali a catena e scioperi a singhiozzo. Il senso morale in frantumi. La gioventù preda dei mali esempi. Le peggiori mode straniere dilaganti. Cristo rimosso dalle scuole cui la tirannide l’aveva restituito: il marxismo in cattedra. Riaperta nelle coscienze la questione religiosa: Guelfi e Ghibellini in piazza. Diviso ogni comune, ogni borgo: contaminata della peggior politica l’amministrazione. Regionalizzata l’Italia, insidiata l’unità nazionale. La dignità della Patria svilita da mandrie di sciuscià promossi alla vita politica. Insuperbito qualsiasi predone straniero dalla possibilità di manomettere le carni martoriate d’Italia. Quale di tali successi celebrerete domani, o «resistenti»? Bando alle ipocrisie: voi vi accingete a celebrare soltanto il vostro personale successo, voi festeggiate l’ambizione per venti anni repressa e in un decennio scatenata, voi vi compiacete fino al narcisismo per il potere politico finalmente conquistato, voi brindate alla poltrona in coppe piene di sangue italiano. E non ci dite che dei morti avete rispetto. Consentiteci di dirvi che persino dei vostri morti abbiamo più rispetto di voi. I morti, nostri e vostri, vogliono silenzio; vogliono pace. Avete offeso chi in buona fede cadde dieci anni fa nelle vostre file, perché – ottimi discepoli di Roosevelt – avete tradito i solenni impegni di allora. Non li offendete ancora. Quel che di spontaneo o di generoso poté esservi dalla vostra parte non merita il postumo oltraggio della celebrazione da parte di Audisio o di Sereni. Tacete, dunque. Domani – la carità di Patria comanda più della legge antifascista – non è festa.

L’ITALIA HA DETTO NO ALLA FESTA DEL «DECENNALE» [Comunicato della Presidenza Nazionale Federazione Combattenti Repubblicani, «Il Secolo d’Italia», 27 aprile 1955]

La Presidenza Nazionale della Federazione Combattenti Repubblicani – retta da Valerio Borghese e da Renato Ricci – ha diramato il seguente ordine del giorno.

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Mentre il Governo e i Partiti del C.L.N. celebrano il decennale della cosiddetta «liberazione», la Federazione dei Combattenti della R.S.I. invita gli italiani a meditare sul falso storico che da dieci anni si va perpetrando. – Il 25 aprile non segna e non ricorda alcuna «liberazione» né alcuna «vittoria». – Il 25 aprile non fu una «liberazione» perché segnò soltanto l’inizio dell’asservimento dell’Italia agli interessi imperialistici di Potenze straniere. – Non fu una vittoria nazionale perché furono eserciti stranieri a vincere ed imporre le loro bandiere sul suolo della Patria. – Non fu una vittoria rivoluzionaria perché furono Potenze straniere ad imporre ordinamenti e governanti di comodo agli italiani. – Non fu una vittoria di popolo ma solo una fazione – spalleggiata dalle armi straniere – ad imporsi alla Nazione. – Non fu infine una vittoria della libertà perché – come è ormai storicamente documentato – a Yalta ogni libertà fu barattata. – Il 25 aprile e l’8 settembre sono e resteranno le date più tristi che la Storia d’Italia ricordi. – Con l’inqualificabile iniziativa di patrocinare la celebrazione del 25 aprile il Governo avalla l’azione disgregatrice e antinazionale del comunismo, insulta ed offende il dolore di coloro che ancora soffrono per quanti caddero e furono massacrati, riaccende i motivi di discordia e svela quanto sia falsa la sua sbandierata volontà di pacificazione nazionale. – Nella ricorrenza dell’infausto anniversario i combattenti della Repubblica Sociale Italiana – più che mai fieri d’aver, in un momento disperato, difeso l’onore d’Italia – mentre formulano voti perché la Patria possa risorgere libera ed unita, s’inchinano riverenti dinanzi al sacrificio di quanti caddero compiendo, con l’offerta della vita, un supremo atto di Fede. Italia! Italia! Italia!

L’AFFERMAZIONE DEL «PARADIGMA ANTIFASCISTA» E IL CONFRONTO FRA «RESISTENZA ROSSA» E «RESISTENZA TRICOLORE»

I FATTI DI GENOVA E LA PROTESTA CONTRO IL GOVERNO

TAMBRONI

[La legalità repubblicana, «La Voce Repubblicana», 2-3 luglio 1960; articolo non firmato]

Il congresso neofascista non si farà. La protesta popolare contro il premeditato oltraggio alla gloriosa città della Resistenza è stata così energica da indurre gli squallidi rimasugli delle brigate nere ad abbandonare in fretta e di soppiatto la capitale ligure. Quella che nella fantasia degli organizzatori doveva essere una baldanzosa manifestazione di rivincita, si è tramutata in una disfatta politica del partito neofascista e dei suoi spregiudicati protettori. Le imponenti manifestazioni di Genova, di Torino e di tanti altri centri d’Italia hanno dimostrato, a chi aveva bisogno di tale dimostrazione, quanto sia pericoloso calpestare i sentimenti democratici della Nazione e oltraggiare i valori sui quali si fonda la legittimità costituzionale dello Stato italiano; sono serviti a rincuorare i democratici sfiduciati, i quali, di fronte alla triste situazione politica, temevano che si fosse assopito lo spirito della Resistenza, la capacità di reagire a tentativi di sovvertimento della legalità repubblicana. L’imponente mobilitazione popolare a Genova e in tutte le altre città ha detto che le istituzioni repubblicane sono garantite da una energica vigilanza democratica, capace di schiacciare ogni di-

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sgraziato tentativo di sovvertimento; che la causa della libertà ha ancora in Italia molti e validi partigiani, pronti a rintuzzare ogni velleità di oppressione. Il congresso missino, è vero, era cosa, in fin dei conti, assai modesta; ma, negli intendimenti degli organizzatori, voleva essere la consacrazione di un nuovo corso politico, che ristabilisce le vecchie posizioni del fascismo e ricaccia le forze democratiche fuori della legalità repubblicana; voleva essere il congresso della rivincita e della rinascita, della incontrastata ripresa del potere da parte di quelle forze antipopolari, che oggi lanciano all’assalto i lugubri epigoni delle camicie nere e la reazione delle sacrestie. Se la manifestazione di Genova fosse passata sotto silenzio, se le forze democratiche non avessero dimostrato la capacità di organizzare una protesta, che è innanzi tutto protesta morale, forse il processo di deterioramento degli istituti repubblicani sarebbe continuato su una china sempre più ripida, che ha come punto di arrivo l’esperimento clerico-fascista. Il congresso della rivincita neofascista doveva segnare l’inserimento degli uomini di Salò, opportunamente riverniciati di democrazia, in una stabile maggioranza di governo, destinata a travolgere le residue opposizioni antifasciste tuttora vive in parte della Democrazia Cristiana. La protesta popolare è servita, perciò, innanzi tutto, a sventare una subdola manovra politica, da tempo predisposta e caldeggiata da tutti i gruppi del conservatorismo, che tramano per impedire il rinnovamento politico e sociale della Nazione. Una manovra tipica della reazione italiana, sempre pronta a inscenare la controriforma, per impedire la riforma. Molti finti democratici stamane piangono calde lacrime sulla libertà calpestata, sui principi democratici violati, assumendo che le regole della democrazia non subiscono eccezioni. Non vi è bisogno di molte parole per smontare queste posizioni pseudo-legalitarie. La protesta popolare non è stata volta ad impedire il congresso di un movimento eversivo, che tuttavia ha cittadinanza nella tollerante democrazia italiana, ma a chiarire che le forze della libertà non potevano accettare il significato politico che si voleva dare a quella manifestazione. In altre occasioni i neofascisti hanno potuto tenere indisturbati i loro lugubri riti, che hanno sollevato, semmai, l’ilarità degli os-

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servatori per le ridicole posizioni velleitarie sostenute. Ma ora la questione era ben differente: dietro i pagliacci in camicia nera si agitavano più serie e consistenti forze, che intendevano scagliare i neofascisti come masse di rottura, secondo una tecnica altra volta vantaggiosamente sperimentata. La sollevazione popolare si è rivolta essenzialmente contro quelle forze, per ammonirle che gli istituti della libertà, conquistati a prezzo di dure lotte e di sacrifici sono inviolabili. Sono inviolabili da qualsiasi parte provenga l’assalto: questo sia ben chiaro. Quando le velleità liberticide venivano dall’estremo opposto, non abbiamo esitato, con la stessa decisione, a chiamare a raccolta le forze della libertà, ad esigere con fermezza il rispetto della legalità repubblicana e proprio a Genova, in ben altre condizioni, abbiamo sostenuto una prova decisiva. Allora come oggi la difesa degli istituti repubblicani era il nostro unico intendimento. Gli istituti politici valgono per i valori che essi racchiudono e per la partecipazione della coscienza popolare nella salvaguardia di questi valori. Abbiamo diverse volte paventato che il degradante spettacolo della involuzione politica potesse assopire le coscienze e ridurre gli istituti ad una vuota forma. Ora siamo rassicurati: gli episodi che rattristano tutti i democratici sono serviti ad aumentare la fiducia popolare nelle istituzioni e a rafforzare la decisione di difenderle contro ogni assalto eversivo.

I FATTI DI GENOVA: IL MSI DENUNCIA ALLA NAZIONE LA GRAVE MINACCIA COMUNISTA

[L’ultimo quarto d’ora, «Il Secolo d’Italia», 3 luglio 1960; articolo non firmato]

Basta leggere i titoli dei giornali di estrema sinistra, per rendersi conto della enorme gravità di ciò che è avvenuto a Genova. Sono titoli da scatola, visibili a distanza di vari metri dalle edicole che espongono i suddetti quotidiani; e scagliano sul volto del passante, con la violenza di un pugno, la parolona: vittoria! Di quale vittoria si tratti, è ormai talmente chiaro da rendere

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addirittura superflua ogni spiegazione. A Genova, teatro di un urto drammatico le cui fasi sono state seguite con ansioso interesse da tutta la Nazione, hanno vinto la loro prima grossa battaglia le forze che si propongono come fini supremi la distruzione della nostra attuale società, l’instaurazione della dittatura del proletariato, l’inserimento dell’Italia nel blocco orientale. È duro, doverlo constatare. Ma sarebbe supremamente idiota volerlo nascondere: certe verità vanno guardate in faccia con coraggio, pesate e valutate, per il presente e per l’avvenire. Altrimenti non si fa che imitare lo struzzo, sciocco animale destinato sempre a lasciarsi travolgere dal pericolo che crede di evitare nascondendo la testa. Qualsiasi vittoria, naturalmente, suppone uno sconfitto. Nella fattispecie, gli sconfitti sono più di uno. Lo Stato, innanzitutto, che dopo una parvenza di resistenza alla piazza ed alla sedizione, si è miserevolmente arreso alla tracotante imposizione dei «commandos» mobilitati dal partito comunista, agli uncini degli scaricatori del porto di Genova, alle sbarre di ferro degli attivisti affluiti nella città di Balilla da varie regioni. Tristissimo, lo spettacolo di questa capitolazione, a quindici anni dalla fine della guerra ed a quattordici dalla nascita della Repubblica democratica. Essa rivela che in tutto questo tempo trascorso, lo Stato anziché acquistare vigore e mettersi in grado di esercitare con fermezza i suoi legittimi poteri, è andato regredendo fino al limite estremo della debolezza, che è quello dell’incapacità di imporre il rispetto della legge. Ha soggiaciuto, insomma, ad un processo di degenerazione, il cui frutto è l’attuale tragica situazione, aggravata per giunta da un sommovimento di carattere mondiale. Battuto lo Stato, la sconfitta si estende alla Costituzione, alla libertà, alla democrazia, per la quale non usiamo più di proposito l’iniziale maiuscola. Da ieri, difatti, è divenuta, come le altre due, una parola completamente priva di senso. Non la si può più pronunciare senza indurre al riso, in un paese dove un partito di ispirazione nettamente nazionale, cattolica ed anticomunista, un partito che conta su quasi due milioni fra iscritti e simpatizzanti, un partito legalmente riconosciuto e con proprie rappresentanze in Parlamento e nelle amministrazioni provinciali e comunali, si vede impedire dalle autorità, inginocchiate di fronte alla massa manovrata dalla centrale di Mosca attraverso i suoi luogotenenti, di

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tenere regolarmente e liberamente un Congresso, per giunta autorizzato e riautorizzato in precedenza varie volte. Il cedimento, anzi il crollo, verificatosi a Genova, è pauroso, non soltanto per le conseguenze immediate, ma per le prospettive che apre. Nessuno ignora che l’offensiva socialcomunista si dirigeva contro il MSI, giustamente ritenuto la sola forza politica in condizione di opporsi con successo alla conquista bolscevica della penisola; ma oltre il MSI puntava alla caduta del governo Tambroni, ed oltre a Tambroni allo svincolamento dell’Italia dalla NATO, premessa all’eliminazione delle basi difensive americane che infastidiscono Nikita Kruscev. Per scatenare un movimento sul tipo di quello di Tokio, si cercava un pretesto. Lo si è trovato nel fatto che il Movimento Sociale Italiano intendeva tenere a Genova, com’era suo pieno diritto, la sua sesta assise nazionale; ed era un pretesto futile, ma anche comodo, in quanto avrebbe permesso di prendere due piccioni con una sola fava. È servito benissimo. Ha dato modo a Via delle Botteghe Oscure di saggiare l’esperienza dell’apparato rivoluzionario di cui dispone, l’abilità dei capi, la decisione dei gregari; e nello stesso tempo di accertarsi che le possibilità di difesa e di reazione della Repubblica «borghese» sono scarsissime, per non dire addirittura nulle. Ciò significa che si può procedere impunemente all’esecuzione del resto del programma, magari anche senza attendere il ritorno di Togliatti dalle sue «vacanze» moscovite. L’amarezza dei missini dinanzi alla inaudita abdicazione di uno Stato che ciascuno di essi, per educazione politica e per formazione mentale, era avvezzo a rispettare, raggiunge oggi, comprensibilmente, punte altissime. Serve a mitigarla soltanto una circostanza; e cioè che in fondo si deve proprio al MSI se il bubbone è scoppiato, se attualmente appare in tutta la sua terribile evidenza il marchio che avanza con la stessa forza della lava, minacciando di spazzar via le istituzioni già colpite a morte. Adesso, solo chi non vuol capire, non capirà. Siamo all’ultimo quarto d’ora. Non Annibale, ma il comunismo, è alle porte. Se tutti coloro che ancora amano la libertà e vogliono vivere in una Patria che non sia una provincia sovietica, non si uniscono, non fanno muro contro la mareggiata che sale, è veramente finita.

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CARTE IN TAVOLA [Ferruccio Parri, «Il Ponte», XV, n. 7, luglio 1960]

Genova rompe una situazione statica, pesante di disagio e di sospetto, e ne rivela i dati nuovi. Ancora la sassata del Balilla che rompe un incanto. Forse il tono della politica italiana non era mai sceso così in basso come durante la lunga crisi di primavera. Questa impressione deprimente venne aggravata dalla soluzione Tambroni, prima sconfessata poi subita dalla Direzione Moro. Tambroni aveva ricercato nell’apporto missino la garanzia numerica della tregua ch’egli avrebbe dovuto impersonare: ma la tregua serviva solo al salvataggio della DC dall’impasse. Questa inserzione del MSI nella maggioranza di governo non era, come ha potuto parere, l’invenzione estemporanea della ultima ora. O per lo meno si inquadrava in una linea di sviluppo affiorata già ai tempi del Congresso DC di Firenze. Non preoccupava dunque il MSI e la sua promozione, lungamente agognata, all’albo degli intrallazzi governativi. Preoccupava questa lenta, sorniona sommersione e svirilizzazione della democrazia italiana. Niente di solido, tutto equivoco. A qual punto avremmo potuto fermarci? Pure da un paio di anni qualche cosa di nuovo vedevamo. Almeno nel campo più vicino a noi, dell’antifascismo e della liberazione; una maggior presa dei nostri richiami, una maggior sensibilità, un diffuso interesse di conoscere da parte dei giovani: forse dunque una forza da opporre, e, occorrendo, da mobilitare. Mancava la misura o della forza o della nostra illusione. Genova ha reso di acuto interesse questo discorso. A Genova e altrove in prima linea erano apparsi giovani studenti ed operai, nei quali il partito, dove c’era, era visibilmente soverchiato da un comune anche se spesso generico combattentismo giovanile. In tutte le manifestazioni, prevalentemente pacifiche, tenute in questi giorni in un gran numero di città d’Italia, si son visti assai più giovani che in passato. Sono minoranze forse ancor piccole nelle regioni più povere, dove la maggior incertezza dell’avvenire, oltre

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alla cappa di piombo di ambienti arretrati, e perciò retrivi, toglie autonomia critica ed irreggimenta nel conformismo. Ma in tutto il mondo tira un certa aria come se ai giovani gli prudessero le mani: i teddy boys sono un poco come i campioni di scarto di questo immenso esercito senza bandiera. Io sono certo che anche in Italia, almeno in quella che ho visto e conosco, soffia questo vento. Sorgono problemi di grande portata e responsabilità serie. Saper orientare, non deludere le attese, è forse condizione che il vento non si risolva in una ventata. Forse qui si prepara la vittoria per le battaglie di domani. Vincerà chi saprà avere con sé lo spirito dei giovani, o almeno la parte più eletta e consapevole di essi. Ardua conquista di coscienze che, almeno in questi tempi, sembra più difficile nell’ambito dei partiti che fuori di essi. Se già prima di Genova, dunque, c’erano nuove speranze, grande restava l’incertezza e la diffidenza verso le facili illusioni. Le prediche possono convertire Frate Lupo, ma non gli apatici ed i menefreghisti, tanto che parlando del ministero Tambroni eravamo costretti a prevedere la eventualità di una ribellione solo se il MSI fosse stato chiamato anche formalmente al governo e fosse stata così consumata e consacrata la smentita dell’Italia 1960 alla Costituzione del 1945. Genova e la settimana che la segue ci ha prevenuto. La ribellione è venuta prima. Riunire il congresso dei neo-fascisti a due passi del Sacrario dedicato alle vittime dei fascisti? Genova ha sussultato: la sassata è partita, ed il governo è caduto. La sassata è partita, un coperchio si è rotto ed è sgorgata in tutta questa settimana di dimostrazioni un’ondata spontanea, semplice e profonda di sentimento antifascista di una ampiezza e di una intensità inattese. Una lama di fondo dunque, che ha travolto molte cose, ha sgomentato molte superbie, ha rivelato la forza di un richiamo e chiarito le possibilità dell’avvenire. Benedetta sia. Non tutto dunque in Italia era sonno ed adipe. Benedetta sia, perché un punto di arresto è stato posto, ed anche un punto di partenza.

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IL BATTESIMO DELLA RESISTENZA [Pietro Nenni, «Avanti!», 8 settembre 1963]

Si è celebrato poche settimane or sono il ventennale del 25 luglio, cioè del colpo di Stato di Palazzo (il Quirinale) che alla chetichella eliminò dal potere Mussolini e gli sostituì un governo di militari e di tecnici presieduto dal generale Badoglio. Quel governo ebbe bisogno di quaranta giorni per decidere sulla posizione dell’Italia nella guerra e prese la sua decisione il 3 settembre firmando l’armistizio con gli anglo-americani, di cui dette l’annuncio esattamente venti anni or sono, l’8 settembre 1943, alle 19.45 di una giornata di angosciosa attesa per i pochi che sapevano ed i molti che intuivano come qualcosa di grosso stesse succedendo. L’annuncio dell’armistizio era già stato diramato dal generale Eisenhower nelle prime ore dell’8 settembre. Era quindi ufficialmente noto ai tedeschi e noto a ristretti circoli politici della capitale. Al Comitato antifascista, che da allora assunse il nome e la funzione di Comitato di Liberazione Nazionale, le notizie erano confuse e contraddittorie. Sapevamo dell’armistizio e del nuovo stato di cobelligeranza che l’Italia doveva assumere. Si parlava di sbarco alleato ad Anzio (lo sbarco ci fu il giorno 11 ma a Salerno), si dava per certo un lancio di paracadutisti anglo-americani a Centocelle, si faceva il nome del generale Caviglia come comandante della difesa di Roma. Il solo fatto certo era l’accerchiamento nazista della capitale. Per parte loro il re ed il governo non dominavano la situazione neppure nel perimetro dei palazzi reali e ministeriali. L’esercito era abbandonato a se medesimo, fatta eccezione per la marina che poté attuare ordinatamente il concentramento a Malta previsto dall’armistizio. Per ogni cosa da fare la risposta ufficiale era: troppo tardi o troppo presto. Il comunicato col quale la radio informò dell’armistizio conteneva un vago accenno alla resistenza con le parole «esse (le forze armate) reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi parte vengano». Nulla però era stato predisposto in tale senso. E così l’alba livida del nove settembre vide il re e Badoglio prendere la fuga per Pescara, lasciare dietro di loro un esercito in sfacelo ed una po-

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polazione smarrita da avvenimenti ai quali non era stata preparata e nei cui confronti reagiva o reclamando armi per combattere o ripiegando sotto l’ala protettrice del Vaticano e riponendo ogni fiducia nella proclamazione di Roma città aperta. Furono quelle, comunque, le giornate che dettero il battesimo alla Resistenza. Essa nasceva come iniziativa di scarsi nuclei popolari e di pochi reparti militari. Infatti alla fuga del re faceva riscontro il 10 settembre il tentativo di resistenza dei granatieri e di pochi altri reparti militari a cui s’erano uniti i primi popolani in armi, antesignani del moto partigiano. A Porta San Paolo il primo caduto tracciava con l’impronta del sangue la via del sacrificio che a migliaia, anzi a decine di migliaia altri avrebbero seguito. La risposta nazi-tedesca fu immediata, con la minaccia di Hitler ad «essere duri con l’Italia», i proclami arroganti di Kesselring, la fuga di Mussolini da Campo Imperatore e il suo ritorno in scena alla testa della repubblica di Salò. Ma è dall’8 settembre, e non dal 25 luglio, che ha inizio la riscossa. Dopo quarant’otto ore tutto poteva sembrare finito, mentre in verità tutto cominciava nella clandestinità. Il Comitato Antifascista si trasformava in Comitato di Liberazione. Si organizzavano le prime formazioni partigiane che presto ebbero diramazioni in tutta la zona al disopra della cosiddetta linea Gustav, pressapoco da Salerno a Pescara tenuta dagli angloamericani. Il nostro Partito lanciava dalle colonne dell’«Avanti!» clandestino l’invito a combattere: «A coloro – scrivevamo – che, smarriti, ci chiedono una meta, una parola d’ordine, una direttiva, rispondiamo: combattere. L’iniziativa della lotta politica è passata alle classi lavoratrici. Il popolo italiano entra da oggi nella comunità della gente oppressa. Dovrà contribuire alla sua ed alla liberazione dell’Europa a fianco dei partigiani jugoslavi, francesi, sovietici, polacchi, norvegesi; di quanti combattono contro il nazi-fascismo per l’indipendenza, la libertà e un avvenire migliore». Combattere sarebbe diventato di lì a poco l’imperativo dei napoletani (le quattro giornate di ottobre). Ma nella varietà delle situazioni e delle esperienze in cui l’Italia si trovò divisa (regno del Sud, col potere nominale del governo di Brindisi e quello effetti-

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vo degli anglo-americani; centro Italia, da Roma a Firenze, in mano dei tedeschi, con il contro potere del CLN in parte simbolico e la posizione di particolare prestigio del Vaticano; Italia del Nord, con l’effimera repubblica di Salò a copertura del dominio tedesco e con il potere di via in via sempre più effettivo del CLN dell’alta Italia e del comando partigiano); nella varietà, dicevo, delle esperienze, fu soprattutto da Firenze in su, dalla linea gotica alle Alpi, che la legge ferrea del combattimento assunse carattere di massa. Quanto la diversità delle tre esperienze che il Paese ha vissuto dall’8 settembre del ’43 al 25 aprile del ’45, abbia influito sull’ulteriore corso politico italiano negli anni che seguirono la Liberazione, non è stato ancora studiato ed approfondito quanto meritava, dopo l’accenno che ne fece l’insigne storico Chabod. Quella diversità di esperienze fu per certo un fattore che pesò molto allorché divenne necessario raccogliere e riassumere in un unico movimento le componenti diverse di quello che giustamente è stato chiamato il Secondo Risorgimento e che col Primo ha avuto in comune anche il dato comunalistico e regionalistico di una molteplicità di situazioni ed esperienze diverse e contrastanti. Ma è questo un altro discorso, che ci condurrebbe al tema delle contraddizioni che si sono accumulate negli anni che hanno fatto seguito alla Liberazione. Quello che oggi è da sottolineare è che la giornata dell’8 settembre evoca uno dei momenti della nostra storia recente, in cui la fede il coraggio il combattimento dimostrarono che c’è sempre una soluzione anche per le situazioni più disperate.

IL SACRIFICIO DEI MARTIRI DELLE FOSSE ARDEATINE [«Il Popolo», 25 marzo 1964; discorso di Aldo Moro il 24 marzo 1964]

Signor Presidente della Repubblica, voglia concedermi l’onore, in questa solenne cerimonia commemorativa, dell’eccidio che qui fu consumato, di esprimere l’unanime commosso omaggio del

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Governo e del popolo italiano alle vittime innocenti di una odiosa rappresaglia compiuta in dispregio di ogni senso di giustizia e di umanità; di testimoniare la solidarietà profonda verso i congiunti, che piangono i 335 caduti con lo stesso dolore di sempre, dopo 20 anni. Quella delle Ardeatine è una tragedia che assume, nel quadro generale della lotta di liberazione, un suo particolare significato per il numero delle vittime, per la loro così diversa e varia provenienza sociale, per le circostanze drammatiche nelle quali si svolse, per il cieco spirito di vendetta che la provocò. Orrore ed umana pietà sono stati, sono e saranno i sentimenti degli uomini dinanzi al terribile sterminio. Il sacrificio dei martiri innocenti delle Ardeatine documenta che la barbarie comincia là dove cessa la regola del vivere civile fondato sul diritto, sul rispetto della persona umana, sulla dignità del cittadino. Perché il tempo non scolori avvenimenti che non debbano essere dimenticati, questa data e questi luoghi dove la pietà ha fermato sulle lapidi i nomi e i volti di coloro che furono strappati dalla violenza e dall’odio alla vita, sono un punto di riferimento, una difesa contro una dimenticanza impossibile ed offensiva. C’è dunque un patrimonio prezioso di sentimenti e di affetti, una eredità morale e civile, una lucida coscienza del proprio tempo ed un presagio dell’avvenire nei ricordi che hanno lasciato di sé i 335 caduti delle Ardeatine. C’è un insegnamento che discende dalla meditazione serena sulla loro vita e sulla loro morte perché sia più vera, e più degna dell’uomo la vita che per il nostro tempo ci sforziamo di costruire. L’eccidio delle Ardeatine va collegato a quel vasto e decisivo movimento ideale che ha preso il nome di «Resistenza» e del quale, nella ricorrenza ventennale, ci accingiamo a cogliere gli aspetti più significativi ed i motivi profondi anche per rendere omaggio nel modo più proprio a quanti hanno combattuto la battaglia della libertà. Tutti coloro che si sono qui succeduti in questi anni nella celebrazione hanno ricordato che le Ardeatine sono la condanna della violenza, dell’odio, del sopruso, della ingiustizia, della mortificazione della libertà. Ma essi hanno anche giustamente sottolineato che qui, in queste tombe allineate, è il simbolo del riscatto morale e civile del nostro Paese, della sua rinascita, che un intero popolo ha voluto alla libertà. In realtà la libertà fu conquistata dopo un lungo tempo di smarrimento e di mortificazioni,

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non in un istante, non con una singolare iniziativa, non con l’opera di uno solo o di alcuni; fu conquistata in una lunga preparazione, in una complessa esperienza politica, in una significativa tensione ideale, con uno sforzo pieno di sofferenza e di serietà. Opera di tutti coloro che credettero ed attesero, mentre il sacrificio di alcuni eletti fu il punto culminante e conclusivo di una crisi storica dalla quale emergevano valori nuovi per una società nuova. Il Paese comprese davanti alla ferocia irrazionale della tirannia che il passaggio dalla guerra alla pace, dall’occupazione alla indipendenza, da un regime fondato sulla coercizione ad un altro ispirato alla democrazia non sarebbe stato né breve né facile. Comprese che esso sarebbe costato molto. Ed il popolo accettò il sacrificio che doveva essere sofferto, senza misurare la drammatica insufficienza delle forze, senza un calcolo di convenienza, ma con il coraggio ostinato e vigoroso che nasce da una grande speranza. Senza questo atteggiamento popolare, senza il lento ma sicuro risveglio delle coscienze, senza l’accettazione del doloroso calvario della lotta organizzata, costi quel che costi, la Resistenza non avrebbe potuto dare al Paese tutto quello che essa doveva dare ed ha dato. Per questo la Resistenza ha una data anche antecedente a quella che si è soliti citare come inizio di un moto organizzato di ribellione. La Resistenza cominciò nella reazione morale degli antifascisti, nell’inquietudine ed insofferenza dei giovani i quali andavano maturando nella onesta ricerca personale un giudizio negativo sul fascismo, nel lavoro dei gruppi i quali cercavano in anni bui di aprire un varco verso un avvenire di libertà che non immaginarono mai potesse venir meno. E poi la Resistenza fu lotta, con le sue vittime, con le sue indicibili sofferenze, con le sue lacerazioni eppure con le sue speranze. È questa Resistenza patrimonio di tutti, al di là delle parti, fondamento del regime democratico in Italia. È questa complessa esperienza che vogliamo o dobbiamo ripensare. È in questo mesto e virile richiamo un principio di vita nuova per noi. Il ricordo che abbiamo ravvivato in questo anniversario degli eventi tristi e gloriosi insieme delle Fosse Ardeatine non si esaurisce in se stesso. In esso non è solo l’omaggio doveroso alla memoria dei Caduti, ma anche un insegnamento ed un monito. In questa drammatica vicenda emerge infatti il valore supremo della libertà. Perché si combatteva una guerra per salvare, in de-

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finitiva, contro la minacciosa avanzata della tirannide, la libertà degli uomini e dei popoli. Perché la brutale e cieca repressione che votò al sacrificio degli innocenti – ed era autentico sacrificio, perché sofferenza e morte erano al di fuori di ogni colpa – era assurda ed intollerabile coercizione della libertà e ne faceva risplendere, per contrasto, tutto il valore. Ed ora siamo qui, superstiti, a rendere omaggio ai caduti per la libertà, nella libertà che ci è stata conquistata e come meritata dal sacrificio di coloro che qui riposano e di quanti, come loro e con loro, soffersero e si offrirono per la libertà. Siamo qui a rendere omaggio alla libertà che dà significato e valore alla vita sociale. Siamo qui per dire che crediamo in essa, nella sua difficoltà, nei rischi che comporta, nella dedizione che richiede e sollecita, nella sua incomparabile fecondità, nel suo straordinario valore per l’uomo, per la società, per lo Stato. Siamo qui per riconoscere ad un tempo i diritti ed i doveri nei quali si esprime e si esplica, per ritrovare in essa quella dignità e quel costruttivo equilibrio i quali danno un suggello di nobiltà, di stabilità, di valore alle istituzioni politiche. Siamo qui per ritrovarci, come è necessario specie nei momenti difficili e creativi della storia umana, quali sostenitori e difensori della libertà. Siamo qui dunque a chiamare a raccolta nel culto delle memorie, l’intero popolo italiano, perché valorizzi e difenda la libertà, ne faccia un dato essenziale e fuori discussione nella dialettica politica, ad essa si ispiri, come ad alto criterio di orientamento nel suo incessante movimento di assestamento e di progresso. Questa guida e questa ragione motrice sono necessarie. Si tratta di vivere in libertà e per la libertà. Si tratta di difendere la libertà contro qualsiasi minaccia, contro la tentazione di travolgere gli istituti democratici, per sostituire ad essi, alla difficile e feconda vicenda del libero dibattito, la forza rude e semplificatrice delle autorità che si afferma e della decisione che si impone. Si tratta anche di difendere la libertà contro l’insidia che è dentro di noi, contro la minaccia che parte dalla nostra stessa stanchezza morale, dalla nostra debolezza, dal nostro pessimismo, dal nostro egoismo, dal vuoto pauroso di quelle virtù umane nelle quali ha la sua radice la libertà e nelle quali si afferma la dignità umana. Non solo la violenza ma anche il disordine e l’egoismo insidiano e compromettono la libertà. Non è solo da salvaguardare il

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principio della libertà, ma anche la sua efficacia equilibratrice ed ordinatrice. Non è solo da salvaguardare la libertà, ma anche la solidarietà nella quale essa compostamente s’inserisce, promuovendola ed arricchendola del suo valore, perché essa sia appunto una libera scelta e come il riflesso della libertà. In realtà questi martiri si sono sacrificati per tutti, per un intero popolo, per la libertà che lo avrebbe dovuto guidare e per la giustizia nella quale si sarebbe dovuto ritrovare. Ed è questo il nostro impegno nella costruzione della società quale essi hanno voluto, per propiziare la quale essi sono morti. Abbiamo dovuto e dobbiamo sempre più tradurre gli istituti di libertà in opere di giustizia, fare della dignità e libera iniziativa dell’uomo uno strumento efficace per il promovimento della giustizia. Una dissociazione di questi termini, libertà e giustizia, impulso operoso dell’uomo e senso di responsabilità e solidarietà, falserebbe la vita sociale e condannerebbe la nostra esperienza storica. Questa vita democratica che prende avvio dalla Resistenza, che nasce e si sviluppa dalla somma di sacrifici, di generosità, d’impegni, d’insegnamento che essa racchiude in sé, è tutta animata e, direi, giustificata da questo valore di libertà che la pervade e da questa meta di giustizia che la muove. Siffatti obiettivi e valori sono irrinunciabili e noi tutti siamo per essi totalmente impegnati. Vogliamo difendere la libertà anche facendone strumento di solidarietà e di unità. Vogliamo giustizia nella più equa distribuzione dei beni e del potere. Vogliamo giustizia nelle attese e nei sacrifici sempre necessari. Non possiamo rinunciare a chiedere a tutti consapevolezza e senso di responsabilità. Ma a nessuno vogliamo e possiamo chiedere più di quanto è giusto in un quadro di generale impegno e di generale responsabilità. Dobbiamo andare avanti. Dobbiamo continuare. Ricordiamo i morti con profonda commozione per andare avanti. Perché questo è il nostro dovere. Raccogliamo l’insegnamento del sacrificio per riaffermare la dignità umana, per dare alimento ideale alla nostra azione. A questo punto, su queste tombe, con questi ricordi e propositi cessa la pur legittima dialettica delle opinioni e lo sforzo contrastato per ricercare ed indicare la via migliore per il bene comune. Qui Governo e popolo sono solidali ed il Paese sente di avere una sola fisionomia ed un solo destino, una sola anima. L’anima di un’Italia giusta, democratica, aperta all’incontro, fautrice

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di pace, rinvigorita dal sacrificio dei suoi figli, pronta a procedere unita per il suo domani.

L’ITALIA CELEBRA IL XXV APRILE [«Il Popolo», 25 aprile 1965; messaggio alla nazione del Comitato nazionale per la celebrazione del ventennale della Resistenza]

Dopo vent’anni il ricordo della conclusione vittoriosa della lotta di liberazione che, riscattando l’Italia dalla dittatura e dalla dominazione straniera, apriva la via ad una rinnovata esperienza democratica, ritorna carico di commozione e di insegnamento. Esso è anzitutto omaggio di riconoscenza verso le ricostituite Forze armate dello Stato e delle forze partigiane, verso gli uomini e donne di ogni condizione sociale e di ogni fede politica che – non sostenuti spesso da altro conforto se non la possibilità di testimoniare la propria fede mediante il supremo sacrificio – combatterono, soffrirono, morirono, perché la libertà, la giustizia, la pace potessero di nuovo essere assicurate agli italiani. Esso è impegno di fedeltà agli ideali civili ed umani che hanno illuminato anche le ore più fosche e hanno sorretto sacrifici e rischi tremendi, quando proprio dall’abisso di sofferenze atroci e di gravi pericoli, più generosa e più pura si levò l’aspirazione verso una convivenza civile, nuova, più solidale, più concorde, più giusta. Esso è impegno a difendere, a rafforzare gli istituti democratici attraverso i quali la libertà conquistata a così duro prezzo è stata organizzata e fatta garanzia di giustizia e di elevazione sociale nella partecipazione sempre più larga di tutti i cittadini ai vantaggi del progresso e nella loro presenza sempre più attiva e responsabile nella vita dello Stato durante un ventennio che, se ha conosciuto esperienze difficili, ha potuto anche dimostrare la fecondità incomparabile della libertà. Esso è, soprattutto, coscienza di una comunità di destini che lega il passato all’avvenire, e che esige l’apporto consapevole e generoso di tutti alla salvaguardia dei supremi beni della solidarietà, della sicurezza, della pace perché mai più abbiano a ripetersi gli orrori dell’oppressione, della tirannia, della guerra. Nel ricordo della celebrazione del 25 aprile 1945 si riafferma la nostra

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fedeltà – non di parole ma di fatti – agli ideali per i quali hanno lottato, sono caduti e hanno vinto i combattenti della Resistenza.

LA RESISTENZA OGGI [Enrico Berlinguer, «l’Unità», 25 aprile 1965]

La denigrazione, l’oblio, le contraffazioni, la pura retorica celebrativa sono state le armi che di volta in volta le classi dirigenti hanno adoperato negli ultimi venti anni per cercare di cancellare dall’animo popolare l’attaccamento al significato più genuino della Resistenza ed ai suoi ideali. E non può certo essere dimenticata la parte che in questi tentativi ha preso il partito che ha avuto in tutto questo periodo le maggiori responsabilità di governo. Eppure, a vent’anni dall’insurrezione del 25 aprile, gli ideali della lotta antifascista e della guerra di liberazione non solo restano vivi e profondamente radicati nella coscienza nazionale, ma si presentano ancora come un punto essenziale di riferimento e di ispirazione per tutte le forze che intendono continuare nelle odierne condizioni la lotta per il rinnovamento della nostra società, e per tanta parte di quelle stesse generazioni nuove che pure della Resistenza non hanno vissuto direttamente l’esperienza. Due motivi assai semplici e in pari tempo profondi possono spiegare questo fatto e aiutarci a comprendere il rilievo eccezionale che vanno assumendo e dovranno assumere le celebrazioni del Ventennale. Il primo di questi motivi è nella lotta ostinata e lungimirante che tutto uno schieramento di forze operaie e democratiche, e il nostro partito in prima linea, hanno condotto in questi venti anni per difendere dalla denigrazione e dalla recriminazione disfattista il patrimonio della Resistenza e soprattutto per dare continuità alla lotta antifascista, intesa, com’è detto nel documento pubblicato nei giorni scorsi dal P.C.I., come «il fatto più rivoluzionario della storia d’Italia», come il momento in cui si è realizzato l’ingresso «della classe operaia e delle masse popolari nella vita nazionale come protagoniste di una rivoluzione democratica» a cui tutta la società italiana era ed è interessata. Così, e proprio in questo suo significato, la Resistenza ha continuato a vivere e ad

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operare, nonostante tutto, nella vita politica italiana e nelle coscienze, e in un movimento popolare imponente, che è ciò che fa diversa l’Italia da altri Paesi capitalistici e che ha impedito che essa ritornasse indietro oppure divenisse una di quelle tante società dell’Occidente nelle quali la democrazia è tanto spesso una pura forma. Il secondo motivo della vitalità che gli ideali della Resistenza conservano nell’animo di tutti gli strati popolari e del peso che essi esercitano e dovranno continuare ad esercitare su tutta la vita nazionale viene dalla serietà stessa della situazione che ci è di fronte e dai gravi e urgenti impegni di lotta che ne discendono. È vero: ciò che avviene nel mondo (l’attacco barbaro che gli americani conducono contro il popolo del Vietnam, la minaccia che tutta la loro politica fa pesare sulla pace), e ciò che accade in Italia (un’offensiva padronale e un’involuzione politica che mettono in causa conquiste fondamentali delle classi lavoratrici e le prospettive stesse di un’avanzata del nostro regime democratico), tutto questo ci fa sentire quanto grande sia ancora il distacco tra gli ideali della lotta di liberazione e tutta l’odierna realtà. E ci indica, al tempo stesso, la necessità di affrontare problemi che per tanti aspetti sono nuovi: problemi di sviluppo e di organizzazione di una lotta internazionale che respinga indietro le aggressioni imperialistiche alla libertà dei popoli e faccia avanzare la causa della coesistenza pacifica e della liberazione nazionale e sociale: problemi, in Italia, della lotta per un radicale spostamento dei rapporti di classe e dell’avvio a una politica di riforme sociali e politiche che consolidino la nostra democrazia e aprano la strada all’avvento delle classi lavoratrici alla direzione della vita nazionale. Per questo la principale necessità dell’ora è oggi quella di sviluppare un tessuto ampio e per molti aspetti nuovo di rapporti unitari fra tutte le forze operaie e democratiche e di cercare un legame più saldo con tutta una generazione che scende ora nell’agone sociale e politico. Compiti nuovi, condizioni per tanti aspetti diverse. Non vi è però nessuna contraddizione tra gli obiettivi che oggi si propongono e i motivi ispiratori più profondi della Resistenza. Realizza-

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re questi obiettivi significa anzi continuare il processo rivoluzionario che la Resistenza ha aperto, essere fedeli alla grande linea di sviluppo che essa ha tracciato alla democrazia italiana. Proprio per questo non suona certo retorico né ai vecchi combattenti né alle giovani forze rivoluzionarie l’appello del compagno Longo perché l’Italia della Resistenza sia tutta, moralmente, politicamente e in tutte le forme concrete che si renderanno necessarie, con la Resistenza del popolo del Vietnam, nella lotta contro l’aggressione e contro la guerra. E proprio per questo ha un significato profondo che proprio nei giorni del Ventennale, e davanti a una situazione economica e politica che testimonia ancora una volta il fallimento delle vecchie classi dirigenti nella risoluzione dei grandi problemi del Paese, il Comitato centrale del nostro Partito abbia tracciato una linea che chiama la classe operaia a riaffermare nella lotta per il rinnovamento sociale e politico del Paese quella funzione nazionale ed unificatrice che proprio con la Resistenza essa ha conquistato ed assunto in tutta la società italiana.

IL VENTENNALE DELLA RESISTENZA* [Discorso del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat il 9 maggio 1965]

Italiani, venti anni or sono, in questo stesso giorno, finiva la seconda guerra mondiale in Europa con il crollo del Terzo Reich – le ostilità dovevano prolungarsi ancora per tre mesi nell’Estremo Oriente – e ancor oggi viviamo e forse per molto tempo ancora vivremo in un mondo in cui permangono conseguenze del più spaventevole dei conflitti che la storia ricordi. Ancor oggi il nostro spirito è turbato dal pensiero di un pericolo mortale cui l’umanità si è sottratta dopo sei anni di lotte implacabili: il pericolo di vedere spazzata via dalla faccia della terra ogni speranza di progresso civile, morale, sociale, ogni traccia della millenaria ricerca che l’umanità * Tratto da G. Saragat, Quaranta anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965, a cura di L. Preti e I. De Feo, Mursia, Milano 1966.

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faticosamente conduce per l’avvento della giustizia, della libertà, della pace; il pericolo di vedere il mondo avviarsi forse per secoli – il maggiore responsabile della tragedia aveva vaticinato un millennio – attraverso il buio cupo della più inumana delle dittature. Il nazismo sino all’ultimo ha fatto pesare sul destino dell’umanità la minaccia di una diabolica egemonia fondata sulla forza brutale, esasperata dai miti bestiali del sangue e della razza. Per bene intendere il sacrificio di coloro che sui campi di battaglia dell’Europa e di altri continenti, sui mari e nei cieli del mondo, sulle montagne, nelle valli, nelle pianure della nostra cara Italia hanno lottato e donato la vita, occorre valutare il pericolo che per anni ci ha sovrastato. Sempre gli uomini si sono affrontati in guerre crudeli e sempre sangue è stato versato. Non c’è forse zolla del nostro Paese e della nostra Europa, che nel corso dei tempi non sia stata bagnata dal sangue di combattenti e di vittime innocenti; per millenni paci precarie si sono alternate con guerre implacabili, e l’umanità ha percorso il suo cammino nel dolore, nel sacrificio e tra le tombe. Ma anche nei periodi più tetri della storia mai il patto umano che lega tutte le creature era stato totalmente rinnegato e distrutto. Gli ideali in nome dei quali si è sempre combattuto, anche se esasperati dal fanatismo, non avevano mai perduto il contatto con la comune radice umana che affiora anche nei campi di battaglia. Mai la violenza della guerra si era scatenata in nome di principi totalmente disumani; sempre, come obbedendo a una legge di vita, che si impone anche nel corso delle mischie più furibonde, si era combattuto per il proprio focolare e per i propri altari, o magari anche per imporre il proprio dominio, ma con la convinzione di portare nel mondo una legge più alta di quella esistente presso i popoli contro i quali si combatteva. Mai nella storia si era assistito allo spettacolo di un partito, che, dopo aver imposto la più implacabile delle dittature al suo popolo, travolto da uno spirito diabolico, rompeva tutti i legami non soltanto con le altre genti, ma anche con la propria umanità, celebrando il culto mostruoso della razza. In questo delirio non solo portava il ferro e il fuoco presso altre genti, ma autodistruggeva la propria essenza umana e sterminava sul proprio suolo e su quello dei paesi occupati milioni di creature. Si rabbrividisce pensando al rischio che l’umanità, ferita nella sua stessa ragione di essere, ha

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corso in quel periodo. Il lavoro di millenni di storia, che, pur tra contraddizioni ed errori, era stato compiuto dall’umanità intera, mai come allora è stato più vicino al pericolo di una distruzione totale. Accanto al mito della razza si esaltava quello del superuomo, sorta di mostro che avrebbe dovuto dirigere non si sa perché, proprio quegli uomini di cui si vaneggiava non facesse parte e al cui destino era quindi estraneo. In questo sinistro capovolgimento di tutti i valori civili, cristiani, umani, c’era come il suggello di una inumanità radicale, assoluta, portata alle estreme conseguenze, che colpiva come un flagello tutte le genti. Di proposito ho voluto in questo giorno solenne ricordare a tutti gli Italiani qual è stata la posta della terribile guerra che si è conclusa in Europa il 9 maggio 1945 con la vittoria non di un gruppo di popoli su altri popoli, ma con la vittoria delle nazioni riunite in difesa dell’umanità contro il delirio di chi l’umanità aveva rinnegato e calpestato. In realtà il nazismo fu, come è stato detto con eloquenza e rigore di verità da Benedetto Croce in un’epigrafe che ricorda il massacro di umili creature, «non l’umano avversario nelle umane guerre, ma l’atroce nemico della umanità». Lungi da noi la stoltezza di riversare sui popoli gli errori, di cui sono vittime e di cui talvolta si fanno ciechi strumenti per la disperazione di altri popoli. Tutti sappiamo ora quali eroici sacrifici hanno affrontato tedeschi coraggiosi per eliminare il tiranno. Tutti sappiamo quali prove di eroismo hanno dato lavoratori e intellettuali tedeschi affrontando il martirio per difendere la libertà. Lungi da noi quindi l’assurda identificazione tra nazismo e popolo tedesco. La responsabilità storica di quanto è avvenuto ricade su coloro che hanno posto come scopo della loro azione il ripudio del patto umano; che si sono estraniati dalla umanità; che hanno fatto di sé idoli mostruosi per una demoniaca volontà di potenza e hanno ingannato e tradito il loro popolo. Il senso dell’umano è in noi come un germe prezioso cui dobbiamo la nostra dignità, la nostra forza morale, la nostra stessa ragione di essere. Esso è libertà nel senso più pieno, è rifiuto di subire ingiustizie, è rifiuto soprattutto di rovesciare i rapporti che legano l’uomo a ciò che l’uomo stesso crea. È rifiuto insomma di divinizzare lo Stato o un partito di fronte al quale la coscienza dovrebbe abdicare. Ricordiamo la profon-

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da parola della Scrittura: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato». Siamo fieri come Italiani di ricordare che in questa lotta l’Italia, oppressa da una dittatura ventennale, ha ritrovato la sua anima vera e si è battuta unita con strenuo coraggio. Anche l’immensa maggioranza di coloro che per tanti anni avevano seguito la dittatura fascista, nel momento in cui i dirigenti politici, ormai travolti dalla paura, cercavano di aggiogare l’Italia al dominio nazista, avvertiva una rivolta morale e tentava ogni via per riconciliarsi nella libertà con tutto il popolo italiano. Leviamo un pensiero reverente alla memoria degli eroici soldati nostri caduti sui campi di battaglia col sacro nome della Patria sulle labbra. Di fronte ai caduti sui campi di battaglia la Patria riconoscente si inchina. Rinnoviamo la nostra condanna per i capi politici che hanno spinto l’Italia e i suoi eroici soldati in una guerra da cui la Patria non poteva uscire che perdente o perduta. Le infime minoranze che hanno seguito il nazismo rinnegando l’Italia, non riescono a oscurare lo spettacolo glorioso di unità e di coraggio che il popolo italiano ha dato nell’ora della lotta suprema. Se l’Italia ha potuto ritrovare la sua unità spirituale dal 25 luglio 1943 sino alla fine della guerra e partecipare eroicamente alla lotta comune, ciò è dovuto tanto a un risveglio istintivo della coscienza nazionale, quanto alla Resistenza, che è, come fu ben detto dal Vice Presidente del Consiglio Nenni, «l’evento che campeggia su questo epilogo e dà un senso alla liberazione». C’è una continuità tra antifascismo e Resistenza che caratterizza in modo originale la Resistenza italiana. Certo, tutti i movimenti di Resistenza, opponendosi alla schiavitù nazista d’Europa, furono antifascisti e antinazisti per definizione. Ma in altri paesi dominò il sentimento della riscossa nazionale, della rivincita per le battaglie perdute. Nella Resistenza italiana il motivo delle libertà politiche e della indipendenza nazionale, da strappare in una lotta faccia a faccia con il fascismo ed il nazismo, dominò su tutti gli altri per forza di cose. Nella lunga lotta dell’antifascismo i vari aspetti della libertà si affermano a uno a uno gradatamente. Prima il diritto all’esistenza delle organizzazioni dei lavoratori, schiantate dalla violenza fa-

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scista nel 1921-1922. Poi la difesa dell’esistenza dei partiti, del diritto di opposizione, della legalità elettorale, dal 1922 fino all’assassinio di Giacomo Matteotti. Poi la difesa delle libertà costituzionali, con l’Aventino, con l’esilio, con gli uomini grandi oppositori al Senato. Poi la difesa della dignità personale e intellettuale, del carattere civile del Paese. Poi la difesa dei popoli oppressi e della solidarietà internazionale contro la ragione di Stato. Infine la difesa dell’umanità comune degli uomini contro la vergogna razzista. Ma erano grandi temi umani difesi da avanguardie. Nel moto di popolo della Resistenza tutti questi temi si trovano fusi e solidali. Questa lunga maturazione precedente spiega perché sia stato possibile superare rancori e divergenze ideali, anche profonde, all’interno dell’antifascismo. La lotta si è iniziata nel 1920 prima come rifiuto morale e poi come rifiuto concretamente politico, vale a dire come azione organizzata. In Italia, nella clandestinità, nelle carceri o nell’esilio, questa lotta si è sviluppata con alterne vicende sino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che vedrà, dopo tragiche e sanguinose prove, il fiore della gioventù italiana gettarsi nella mischia liberatrice accanto al fiore della gioventù in armi di tutti i paesi aggrediti del mondo. All’indomani della prima guerra mondiale in tutti i paesi del nostro continente l’enorme sforzo militare, finanziario, economico, compiuto per fronteggiare la situazione e riportare la vittoria, aveva provocato una profonda crisi: crisi materiale e crisi spirituale. Gli immani sacrifici sopportati avevano dato vita a una profonda delusione, perché la pace di Versailles non aveva corrisposto agli ideali in nome dei quali si era combattuto. Nello stesso tempo l’inflazione, sconvolgendo l’economia, defraudava i lavoratori del frutto delle loro fatiche e li spingeva ad agitazioni che ceti interessati avevano buon gioco nel presentare come dettate da aspirazioni eversive. Si trattava in realtà di un grande moto, che storicamente può essere oggi giudicato come un tentativo non riuscito di trasformare il liberalismo tradizionale in una democrazia moderna fondata sul lavoro; tentativo non riuscito per l’arretratezza di ceti privilegiati e per gli errori dei partiti antifascisti. Si è trattato di una crisi profonda, difficile e laboriosa, che an-

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dava considerata con umanità, con senso di responsabilità, con consapevolezza della vera natura del travaglio in corso. Ciò non è avvenuto. Anziché tener fede alla tradizione risorgimentale e alle ragioni stesse di una guerra contro l’imperialismo militarista e contro l’arcaica egemonia su genti diverse di un impero multinazionale; anziché assecondare la trasformazione dello Stato liberale in Stato democratico, si è lasciato aperto il varco a una dittatura rozza, la quale, con l’appoggio di ceti privilegiati e di istituzioni che avevano perso il senso delle loro origini, ingannava una parte del popolo italiano, riuscendo a far credere di rappresentare essa stessa i valori della vittoria di cui era invece la negazione. Fu così possibile a quella dittatura impadronirsi del potere, facendo deviare per un ventennio l’Italia dal corso suggerito dal suo genio e dalla sua storia. Con giusta indignazione Concetto Marchesi, lasciando nel 1943 l’Università di Padova, levava la sua accusa: «Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra queste rovine portare l’impeto dell’azione e ricomporre la giovinezza e la Patria». Quale immenso tesoro di energie morali, di vite generose, il fascismo ha umiliato e distrutto! I duri anni dell’esilio, del carcere, della lotta clandestina in Italia, hanno maturato la coscienza dei problemi da affrontare e risolvere: duri anni, durante i quali, accanto all’azione politica, si sviluppa la critica di una piccola cerchia di autentici intellettuali, che darà frutti copiosi nelle ore decisive. L’Italia nel periodo della lunga resistenza antifascista, ha dimostrato di avere in sé una grande riserva di energie intellettuali e morali, che accesero il gran fuoco della resistenza armata con la partecipazione diretta o indiretta di tutto il popolo italiano. Tra i caratteri salienti della Resistenza comuni a quelli del Risorgimento, ricordiamo l’appassionato amore per l’indipendenza della Patria e per la libertà politica, considerate inseparabili nel mondo civile moderno; il profondo sentimento morale che è doveroso non rassegnarsi all’oppressione, ma agire affrontando ogni rischio per mettervi fine; la consapevolezza della solidarietà tra i popoli di diversa nazionalità che si battono per la loro libertà; una lunga vigilia d’attesa, di lotte, che richiese tenacia e sacrifici, da parte di alcuni figli illustri e di numerosi figli oscuri dell’Italia che si ridestava; infine l’equilibrio

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tra il senso della comunità nazionale e i doveri verso l’umanità e gli altri popoli europei. Caratteristico della Resistenza italiana è che i suoi primi atti di unità e di lotta siano insieme atti di nascita o di rinascita dei partiti. Si direbbe che nel momento di scendere all’azione, il popolo, che pure aveva criticato debolezze o difetti dei partiti antifascisti, abbia voluto affermare la sua fede nella diversità e nella sostanziale concordia delle correnti ideali della tradizione nostra presenti nei partiti. La Resistenza italiana, che discendeva dall’antifascismo, doveva difendere la legittimità di una società pluralistica, democratica. Perciò il Comitato di Liberazione Nazionale fu un’alleanza di partiti autentici. Non era ancora una democrazia parlamentare, che non poteva esistere durante il crollo di un regime e la nascita di uno Stato libero, ma era l’affermazione della volontà di accettare una convivenza democratica. Questa convivenza di partiti e programmi ha consentito la concordia, in seno alla Resistenza, di diversi ceti; ha evitato le lacerazioni drammatiche avutesi in altri paesi. Nel grande quadro della lotta gigantesca, dominato dallo scontro di colossali eserciti che si fronteggiavano, la Resistenza ha rappresentato un momento fondamentale anche sul piano militare. Resistenza e Alleati sono inconcepibili fuori della loro azione reciproca. La coscienza di questo dato si esprimeva, prima ancora che nelle direttive politiche e militari, nell’opera di soccorso popolare ai prigionieri alleati che cercavano rifugio tra il popolo italiano. La vittoria, per quanto dovuta militarmente in modo determinante alle colossali forze armate americane, britanniche e sovietiche, fu perciò in questo modo una vittoria comune. Quello che sarebbe stato un puro fatto strategico, divenne così un patrimonio di popolo. Vada il nostro pensiero reverente ai caduti degli eserciti alleati, che dormono l’eterno sonno degli eroi nei cimiteri di guerra, vegliati dalla pietà riconoscente del popolo italiano. Nella tragedia che si abbatteva sull’Italia in preda alle devastazioni di guerra e alla furia vendicativa dei nazisti, accanto alla eroica rivolta popolare, si levava l’eroica lotta delle Forze Armate italiane, che sul territorio nazionale, nella penisola balcanica, nelle isole dell’Egeo, combatterono strenuamente, affrontando terribili massacri, ai quali la loro inferiorità di armamento li votava,

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pur di non schierarsi con gli invasori nazisti. Parallelamente, centinaia di migliaia di soldati e ufficiali italiani, portati in campi nazisti di prigionia, rifiutavano di lasciarsi arruolare e affrontavano stoicamente il martirio. All’eroismo di questi soldati d’Italia si aggiunge quello dei volontari del nuovo esercito, che sorge col nome di Corpo Italiano di Liberazione, che a cominciare da Montelungo diede un prezioso contributo alla liberazione del Paese. Lo stoico comportamento della Marina da guerra, sulla quale si abbatté l’ira dei nazisti, l’eroico contributo di sangue dell’Esercito e dell’Aviazione, i leggendari atti eroici di carabinieri, sono tra le pagine più alte della lotta contro il nemico dell’umanità. Prima di questi eventi, il risveglio che annunzia la grande partecipazione del popolo si ha con gli scioperi del 1942 e del ’43, che mettono in luce come sotto il forzato silenzio della classe operaia durante il ventennio si celasse la preparazione alla riscossa. Gli scioperi sono anteriori ai grandi bombardamenti, agli intrighi dei gerarchi, al colpo di Stato del 25 luglio. La Resistenza armata nasce come volontariato popolare sui monti e nelle valli, ove ai reduci delle formazioni dell’esercito, cui gli occupanti nazisti davano la caccia, si affiancano immediatamente – quando non li precedono – civili di ogni età, dai più giovani non ancora chiamati alle armi, agli anziani tuttora in grado di maneggiarle; uomini di ogni condizione e ceto sociale, uomini di ogni ideologia o di nessuna particolare ideologia, ma animati dalla ferma decisione di combattere tanto gli invasori nazisti quanto i loro ausiliari fascisti. I contadini proteggono i patrioti e ne condividono i rischi, subendo eroicamente rappresaglie feroci. Nelle città, nei borghi, la Resistenza trova rapidamente le sue basi organizzative, i suoi centri di rifornimento, la sua direzione politica. Se l’audace insurrezione di Napoli, alla fine del settembre del ’43, esplode non guidata da un potere organizzato, i combattenti che a partire dall’autunno ’43 impegnano crescenti forze militari nemiche, e la guerriglia che i patrioti conducono finanche nelle città, sono coordinati ben presto da una rete organizzativa che si costituisce attorno ai Comitati di Liberazione Nazionale. Sin dal 9 settembre ’43, le direzioni nazionali dei partiti antifascisti si alleano a Roma in un CLN il quale si proclama Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e il 16 ottobre 1943 rivendica a sé, fino a quando il popolo non potrà fare le sue libere scelte, il diritto di

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fungere da governo straordinario, investito del compito di garantire l’esercizio democratico di poteri costituzionali resisi di fatto vacanti. Che non si trattasse di una usurpazione di poteri l’hanno poi dimostrato tutte le elezioni politiche, che dal ’46 ad oggi hanno sempre dato all’insieme dei partiti, che erano stati nel CLN – malgrado le naturali divisioni che dovevano separarli a liberazione ultimata – più del 90 per cento dei suffragi. Non è compito mio tracciare qui la storia, così vasta e complessa, di un movimento che vede, come mai nelle epoche precedenti, tutto il popolo italiano unito nel comune cimento. Le tappe principali sono segnate dalle quattro giornate di Napoli; dalla Resistenza romana che paga un altissimo contributo di vittime (prigionieri, deportati, fucilati) e prepara la formazione del primo governo democratico; dall’azione del Gruppo dei Patrioti della Maiella; dalla battaglia per la liberazione di Firenze; dalla lotta nella regione padana. A ridosso degli Appennini, dove avvengono le grandi stragi di popolazioni innocenti, e nelle valli alpine, l’espansione partigiana è legata alla molestia delle retrovie, all’interdizione delle linee di comunicazione. Si tratta di una offensiva partigiana, quella dell’estate ’44, condotta senza riserve, senza calcoli di sicurezza. Milano è, per la prima volta dopo il 1848, centro organizzatore dell’intera regione padana. Del resto la reazione politica, morale e militare del CLN dell’Alta Italia, dei comandi e dei partiti a un erroneo consiglio alleato di tregua all’azione, segna un momento di grande maturità della Resistenza. Per merito della Resistenza dell’Italia occupata dai nazisti, per merito della flotta italiana, che presta servizio coraggiosamente e disciplinatamente dalla parte degli Alleati, per merito del Corpo Italiano di Liberazione, ma soprattutto per merito del popolo italiano, che protegge amorosamente i combattenti e ne condivide i rischi e le speranze, l’Italia passa dalla situazione di Paese vinto arresosi a discrezione, a quella di Paese cobelligerante delle nazioni alleate. Intanto le strutture dello Stato si ricompongono e si riconoscono nella Resistenza. I dipendenti dello Stato, magistrati, professori, impiegati, carabinieri, forze di polizia, guardie di Finanza, si sottraggono al servizio dei nazisti o rifiutano obbedienza ad essi; i giovani di leva si ribellano ai bandi illegali di chiamata fasci-

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sta alle armi; gli operai, gli impiegati, gli artigiani paralizzano la produzione bellica del nazismo con scioperi frequenti e sempre più vasti, che culminano nello sciopero generale delle regioni del Nord nella prima settimana del marzo ’44, organizzato con successo dai comitati clandestini di agitazione sindacale d’intesa col CLN dell’Alta Italia. Tutti i ceti sociali, tutti gli strati sociali, da quelli che hanno la forza della loro istruzione a quelli che hanno la forza delle loro braccia, il clero, che ha dato martiri ed eroi, le donne che si rivelano pari agli uomini per slancio patriottico, tutti i cittadini che aiutano i perseguitati del nazismo e del fascismo, tutti gli Italiani insomma che anelano alla riconquista delle libertà e detestano l’occupazione nazista, quali che siano le loro aspirazioni per il futuro, si affratellano nel pericolo. L’atto culminante della Resistenza è l’insurrezione nazionale. L’insurrezione si afferma per la prima volta nella sua audace e dura realtà a Firenze nell’agosto del ’44. Buona parte di Firenze si libera per merito dei propri insorti, operanti su appello del CLN toscano, prima ancora dell’ingresso degli Alleati. Alla luce dell’esperienza di Firenze, il CLN dell’Alta Italia impartisce alla Resistenza le direttive dell’insurrezione nazionale, da scatenare in ogni dove all’avvicinarsi degli eserciti alleati, che debbono trovare e troveranno al loro arrivo le città e i borghi d’Italia già liberi ad opera di insorti italiani. Basata sullo sciopero generale che paralizza le comunicazioni nemiche, sull’occupazione degli impianti industriali e dei servizi pubblici, che le maestranze insorte proteggono dai tentativi di distruzione del nemico al momento della ritirata, sulla discesa in pianura delle divisioni e brigate partigiane, sull’attacco agli edifici pubblici tenuti dal nemico e sulla loro liberazione, l’insurrezione nazionale divampa nella seconda metà dell’aprile ’45. Essa scoppia a Bologna il 19 aprile, a Genova nella notte dal 23 al 24 aprile, a Milano il 25 aprile, e nelle ore e giornate successive in ogni lembo dell’Italia ancora occupato da truppe naziste. Gli eserciti alleati sono accolti dappertutto da Italiani che si sono liberati da sé e che continuano a combattere al loro fianco fino alla resa totale delle truppe nemiche. Così l’Italia è tornata libera, così si è conquistato il ritorno nel concerto delle nazioni. Accogliendo il CLN dell’Alta Italia ai pri-

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mi di maggio del ’45, nella sede romana del CLN centrale, Alcide De Gasperi tenne a dichiarare «che la sua qualità di Ministro degli Esteri gli consentiva di sottolineare la parte preminente che l’insurrezione ha avuto nel dare all’Italia una nuova posizione morale nei confronti dell’opinione mondiale e dei governi alleati». Il valore dell’insurrezione vittoriosa non è sminuito dalle già iniziate trattative di capitolazione tedesca e dal crollo imminente del regime hitleriano. Come a Vittorio Veneto, mentre i regimi stanno crollando, gli eserciti sono ancora in piedi, combattono e possono ancora infliggere almeno localmente danni decisivi. Tale immensa somma di sacrifici non riassume che un aspetto della Resistenza. Il suo significato politico e storico deve sovrastare ad ogni altra considerazione. E qui vorrei fissare alcuni punti che paiono ormai generalmente accolti. Non è immagine deformata e retorica della lotta di liberazione presentarla non come lotta di un partito per fini di partito, ma come lotta di un popolo organizzato in diversi partiti alleati tra di loro per la sua assunzione all’autogoverno. Non è deformarne la sostanza presentare la Resistenza come l’atto supremo di riconciliazione nella libertà dell’immensa maggioranza degli Italiani resi consapevoli dell’abiezione della dittatura fascista e del valore supremo della democrazia politica come garanzia comune del libero sviluppo nella giustizia e nella pace. È sottolineare l’aspetto essenziale della Resistenza affermare questo suo spirito democratico, questa sua volontà di creare una comunità nazionale tutelatrice dei diritti naturali dell’uomo e del cittadino e condizione di sviluppo di una società economicamente giusta. La verità storica è che la Resistenza fu combattuta in nome dell’autonomia del popolo italiano, in nome delle libertà dell’Italia, la quale, secondo un’accorata espressione del capo dell’Aventino, Giovanni Amendola, non è un istituto di corrigendi o di minorenni, ma è la Patria di un popolo libero. Il popolo italiano ha diritto di godere di tutti i diritti umani, politici e sociali che si configurano nello Stato democratico. Certo l’unità dei partiti antifascisti non fu un idillio, ma gli idilli si ritrovano soltanto nelle pagine della più vieta propaganda e non mai in quelle della storia, che sono sempre pagine di lotte, tanto più democratiche quanto più sono combattute ad un livello alto ed umano.

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Dalle speranze e dai progressi della Resistenza sembrava potersi attendere soluzioni di problemi sociali più rapide e radicali di quelle conquistate nei successivi venti anni di repubblica democratica. In realtà la Resistenza è rimasta fedele a se stessa e al suo impegno di libertà, accettando la via maestra della democrazia per lo sviluppo sociale del Paese, anche se ciò ha comportato tempi meno rapidi di attuazione. Così facendo, si è reso più vasto il settore delle forze che agiscono consapevolmente per il progresso sociale e la giustizia, anziché limitarlo alle avanguardie politiche. E tuttavia il programma di allora resta l’impegno di queste più vaste forze di oggi. Lo spirito democratico creato dalla Resistenza ha permesso di affrontare con serenità l’arduo problema istituzionale, che ha visto l’Italia, dopo una momentanea divisione, riconoscersi nella Repubblica democratica fondata sul lavoro. La Repubblica ha potuto nascere per atto di popolo, come coronamento del Risorgimento nazionale e come garanzia di pace, di libertà e di giustizia per tutti gli Italiani. In questo senso il Risorgimento può dirsi veramente compiuto. Commemorando lo scorso anno Bruno Buozzi, mi posi la domanda non retorica se la nostra generazione, che aveva combattuto la lotta antifascista e della Resistenza, potesse, dopo tanti anni dalla conclusione di quelle lotte, meritare la serenità che premia chi ha fatto tutto il proprio dovere. Per quanto riguarda le lotte del passato, certo possiamo avere la coscienza serena. Rispetto invece alla situazione, certamente grave, che è ancora di fronte a noi, in un mondo in cui, come è stato giustamente detto, l’eventuale pericolo ascende sino all’infinito, così pure per i problemi rimasti insoluti, anche se avviati a soluzione, nel nostro Paese, la risposta non possiamo darla noi. La daranno le generazioni che avanzano e che riprenderanno il lavoro al punto in cui noi lo avremo interrotto. Ai giovani di oggi affidiamo con fiducia ed amore il completamento di questa sacra missione. Coloro che non hanno vissuto e sofferto il travaglio del passato possono sentirsi estranei ai grandi ideali della Resistenza. Ricordino, però, i giovani che la libertà così duramente riconquistata è il massimo dei beni concessi all’uo-

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mo e che non esiste libertà propria senza fervido consenso alla libertà altrui. Ciò che possiamo affermare è che se la marcia è stata più lenta di quanto forse si poteva sperare, la direzione della marcia è quella giusta. Rimangono fermi nel nostro spirito come valori fondamentali della vita, quelli che ci hanno orientati nelle lotte del passato, quelli che ci hanno guidati nei venti anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, e che ci guideranno anche per il futuro. Sono i valori della libertà politica, della giustizia sociale, della pace nella sicurezza e nell’indipendenza di tutti i popoli della terra. Sono questi i valori che illuminano oggi la coscienza del popolo italiano, quali che siano le differenze di interpretazione e magari la diversità degli accenti e degli impegni. Nell’azione continua per il consolidamento delle libere istituzioni, per la realizzazione di una sempre più completa giustizia sociale, per l’avvento di una pace inviolabile, il popolo italiano trova e troverà sempre la ragione del suo sviluppo, la condizione dell’elevazione della Patria una e indivisibile nel grande consesso delle altre nazioni del mondo. Viva la Resistenza! Viva l’Italia!

NELLA PROTESTA DEI GIOVANI LO SPIRITO DELLA RESISTENZA [Guido Quazza, «Resistenza», XXI, n. 9, settembre 1968]

Bene ha fatto «Resistenza» ad affrontare (come anche tenta di fare da tempo il Circolo della Resistenza di Torino con tutta la propria attività) un discorso – quello dei giovani e la Resistenza – che negli ultimi anni si è fatto, per quanto riguarda i rapporti fra la generazione dei partigiani e quella del movimento studentesco, assai delicato e spesso incandescente. C’è, indubbiamente, negli attacchi dei giovani, una carica recriminatoria che va al di là del segno, e coinvolge responsabilità di singoli – la ricerca dell’alibi, come dice giustamente Pavone –

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con quelle di un intero fenomeno storico, che esige ben altra complessità e perciò pacatezza di giudizio. Tuttavia, essi hanno toccato un tasto giusto, e in ogni caso hanno colpito la Resistenza in quell’immagine che essa stessa si è data o lasciata dare nel corso degli anni che ci dividono dalla Liberazione. La «colpa» è perciò di coloro che, imbalsamandola come mito edificante della coscienza patria, o presentandola come blocco unitario e quindi come compromesso fra le più diverse e opposte tendenze politiche, hanno avallato la tesi che l’attuale Italia sia figlia diretta della Resistenza. Dalle gravi, gravissime deficienze dell’attuale Italia era logico per questa via dedurre, da parte dei giovani più impegnati moralmente e politicamente, una sia pur parziale condanna della Resistenza in quanto madre colpevole di quelle deficienze. Si vuol dire con questo che il discorso sui giovani e la Resistenza deve toccare più i resistenti che i giovani, o almeno prima quelli che questi. Il senso di delusione o addirittura di inganno provato dai giovani è, in verità, in ragione diretta dell’avere i resistenti avallato l’identificazione della Resistenza con una pura guerra di liberazione nazionale, quasi la quinta guerra di indipendenza, mascherandone il profondo carattere di conflitto ideologico e di unità dialettica di durissimi contrasti fra diverse o anche opposte concezioni del rapporto fra Società e Stato. Ciò risulta di tutta evidenza se si guarda ai due principali motivi che hanno presieduto in modo diretto e specifico alla rivolta giovanile: il Vietnam e la questione negra. Come per noi la guerra fredda, col massacro dei partigiani greci e la dottrina Truman, con i colpi di stato staliniani nell’Europa orientale e, più tardi, col maccartismo e la repressione russa in Ungheria, furono una terribile mazzata alla «grande speranza» del ’45 e una conferma delle tragiche conseguenze del perdurare della politica di potenza, così per i giovani lo scatenarsi dell’imperialismo americano nel Vietnam (e i fenomeni analoghi nell’Africa e nell’America latina) ha costituito lo choc decisivo per avviarli al riconoscimento che dopo la Liberazione si era avuta una «restaurazione», e quindi per convincerli che la protesta contro il «sistema» non poteva non implicare in qualche modo la disapprovazione di una Resistenza, la quale appariva una rivoluzione mancata, quanto meno, una Resistenza «tradita» o «incompiuta». Lo spettacolo di oppressione, distruzione, spesso di violenza barbarica, simile anche nelle tor-

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ture a quella nazista, nel quale i giovani hanno visto protagonisti i soldati di quell’America che era nata da una rivoluzione anticoloniale, li ha convinti che SS non si nasce ma si diventa, che dunque è la struttura stessa del «sistema» la matrice di queste negazioni d’ogni autentica democrazia. Il consenso, o il silenzio, di non pochi resistenti di fronte alla pretesa di Johnson di presentare una guerra repressiva come operazione vitale per la difesa del sistema democratico occidentale ha avuto un peso essenziale nel compromettere agli occhi di molti giovani la lezione della Resistenza. Se, poi, si collega quella pretesa all’esplodere dell’inutilità degli sforzi «non violenti» per avviare a soluzione la questione negra, non è difficile spiegare come il sistema-modello delle libertà rappresentative sia apparso macchiato di sinistre analogie con un troppo noto esempio di repressione non solo di classe ma anche di razza. Non è qui il luogo per analizzare per quali molteplici vie, e col concorso di quali e quanti altri motivi, si sia sviluppato nei giovani il senso urgente di una ribellione all’autoritarismo di una società dei consumi che appariva la fonte diretta di un neo-imperialismo dalla prassi così profondamente negatrice dell’umanità. Soltanto è necessario aggiungere quanto sia significativo, per il discorso che qui si conduce, che la protesta giovanile, pur partendo da premesse come quelle già insite nel marxismo, non abbia mostrato di condividere la speranza che, nonostante Stalin, larghi strati della Resistenza avevano condiviso: la speranza del Secondo Mondo. La diagnosi dei giovani è stata dura anche verso il mondo comunista e non a caso ha cercato il suo rifugio positivo nei dissidenti da questo mondo, nella Cina di Mao soprattutto, e nei movimenti di liberazione del Terzo Mondo: non più nelle «metropoli» americana e russa, ma nelle «campagne» dei Paesi sottosviluppati. Affrontare i termini generali della diagnosi contestataria richiederebbe un discorso assai più complesso: ed è certo il solo vero discorso di fondo che dovrebbe essere fatto sul piano politico. Tuttavia, anche se qui ci si deve limitare a ciò che di quel discorso tocca più direttamente il tema dei giovani e la Resistenza, non ci si può non richiamare almeno a quanto costituisce l’innegabile continuità, pur nel mutare della situazione storica, fra la rivolta partigiana e la rivolta studentesca. Soltanto in questa continuità, infatti, il discorso sui giovani e la Resistenza ritrova la sua ragion

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d’essere, e non per la riabilitazione – che in ogni caso è uno pseudoproblema – della Resistenza agli occhi della nuova protesta, ma per la possibilità di evitare un’incomprensione della nostra generazione verso i giovani, che sarebbe fatale ad ogni speranza di progresso verso una meno limitata e precaria libertà e giustizia. L’atteggiamento del P.C.F. durante il maggio francese e, con un’evidenza più brutalmente drammatica, l’occupazione della Cecoslovacchia, presentandosi come riprove esemplari della validità della denuncia dei giovani – da sinistra – all’involuzione di un grande movimento rivoluzionario, impongono ora ai resistenti di cercar di capire, e di non rinnegare, lo stretto legame con la lotta al nazifascismo di quello che è il motivo centrale della rivolta giovanile: il rifiuto dell’autoritarismo a tutti i livelli e comunque mascherato, rifiuto perseguito attraverso la partecipazione diretta del singolo alle decisioni che coinvolgono la collettività. La guerra a un sistema oligarchico, in cui la volontà del singolo viene manipolata o distorta o tradita da una rappresentanza affidata di fatto a pochi e privata d’ogni controllo efficace, ha, certo, ragioni più evidenti e pressanti in alcuni che in altri Paesi, ma non può trarre una sua validità universale dal carattere internazionale che nel mondo d’oggi assumono tutti i problemi. Del resto, chi potrebbe negare che anche il fascismo italiano nacque dal rafforzamento dell’esecutivo e dei suoi vincoli con l’economia di guerra durante il primo conflitto mondiale e fu, non già una invasione degli Hyksos, ma una degenerazione dell’oligarchico Stato liberale, e che troppi segni di quel potere di pochi restano vivi oggi nel nostro Paese? Chi non vede che ad un Parlamento eletto, ma quasi incapace di porre in atto se non le decisioni dell’esecutivo (oggi sempre più detentore di fatto anche del potere legislativo e influente sul potere giudiziario), corrisponde ad ogni livello della vita politica e sociale una presso che totale mancanza di controllo comunitario, per cui fin nei piccoli comuni il consigliere – non che il cittadino! – non ha alcun peso sulla gestione degli affari che lo toccano sull’uscio, anzi spesso dentro l’uscio, di casa? Certo, non è il fascismo brutale e primitivo che noi combattemmo, ma chi sia convinto che il fascismo non è l’opera di uno o pochi mostri, ma la conseguenza di un sistema, non può appagarsi di questo confronto. L’esperienza che i giovani hanno di fronte a sé nell’orizzonte internazionale – non occorre citare esempi che

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sono presenti a tutti – convalida il timore che possa ripetersi, magari con metodi più complessi e sfumati, praticabili con l’enorme capacità di manipolazione delle coscienze che il possesso dei mass media più perfezionati consente, un ricorso alla più recisa reazione repressiva da parte dei pochi detentori del potere se appena preoccupati di perderlo. L’esempio nostrano nel settore della Scuola è parso, ad ogni buon conto, sufficientemente probante ai giovani, quando, dopo avere per vent’anni chiesto riforme per vie pacifiche, hanno fatto ricorso a un sia pur pallido simulacro di violenza. Dinanzi a un’esplosione a cui la colpevole inadempienza della classe politica e per molti versi degli stessi docenti toglieva ogni ragione di meraviglia, il «potere accademico» ha subito reagito, di là dalle sanzioni disciplinari, dalle serrate e dalle minacce di annullamento dell’anno accademico (superate soltanto, anch’esse, con la ribellione di qualche docente), col ricorso alle forze repressive del potere politico: polizia, denunce e condanne della magistratura. Questa è parsa al movimento studentesco la prova palmare, e tanto più efficace quanto più subita in corpore vili, del nesso inscindibile tra i vari livelli del sistema oligarchico. Dall’Università allo Stato, dagli accademici ai politici, il fronte di difesa del potere costituito è scattato appena ha visto scalfito il proprio monopolio. Al confronto delle idee si è preferito il confronto di forza, alla discussione sui problemi addirittura il rifiuto di svolgere la propria funzione istituzionale. Può dunque essere cagione di stupore per resistenti autentici l’origine e il modo della protesta? Quanto all’origine, essi, se interrogano la propria coscienza (ma non l’hanno detto e scritto innumerevoli volte?), non possono non riconoscere che l’insoddisfazione dei giovani verso l’Italia e il mondo attuali è la loro stessa. Quanto al modo, se guardano al carattere di «iniziativa dal basso» della protesta studentesca, essi non possono, a parte il diverso grado di rischio, non ritrovarci lo stesso tipo di spinta che li mosse nel ’43-’45 ad assumere da sé soli, senza il conforto dell’«autorità», la responsabilità di scegliere la lotta. Nel rifiuto dell’autorità – la Patria, lo Stato, allora; i partiti, la Chiesa ufficiale, oggi – è presente, non è negabile, una medesima volontà di partecipare di persona, di non delegare ad altri i propri doveri, quel partecipare senza il quale è vano parlare di autogoverno, cioè di vera democrazia. Se la guerra di liberazione vietnamita, e non la

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Resistenza dei padri, è stata il modello diretto dei giovani, la lezione è stata la stessa: di una ripresa coscienza che i «fattori soggettivi» hanno pur peso nel corso della storia: tanto peso da riuscire a tenere in iscacco con mezzi spesso primitivi la più grande potenza militare della storia. In questa coscienza, nella quale sta – lo sappiamo – il valore più alto della nostra stessa Resistenza, è un profondo valore umano, quello che spiega come i giovani siano venuti alla protesta da ogni settore del cosiddetto arco democratico e abbiano abbandonato per esso i partiti tradizionali. Che, poi, le soluzioni studentesche al problema della partecipazione – assemblea o gruppi di lavoro – siano esaurienti è altro problema. Il punto della questione, il nucleo centrale, cioè, della crisi della democrazia è qui: su questo non è lecito il dubbio. Meno che mai per coloro che ricordano come la Resistenza italiana, pur non avendo la lucida coscienza politica maturatasi nei giovani attraverso una altrui e loro «rivoluzione culturale», gridasse allora, per bocca del liberale Einaudi, «Via il prefetto!», con i democristiani volesse rompere il centralismo dello Stato liberale per mezzo delle autonomie locali e con gli azionisti addirittura rinnovare tutta la struttura di esso fondandola sui C.L.N., organi non eletti ma sorti nel fuoco della lotta insurrezionale con la sola legittimità d’essere costruiti sulla partecipazione diretta, di persona, di coloro che lottavano. Molto ancora si potrebbe scrivere sulle analogie fra il rapporto tra singolo e assemblea (o gruppo) nel quadro del movimento studentesco e il rapporto tra partigiano e banda nel quadro del movimento di liberazione. La partecipazione non delegata, non parziale, non intermittente, ma di tutto l’uomo è il tratto che ricorre in entrambi i rapporti: nessuna iniziativa che non sia comune, nessuna decisione dei soli capi, la formazione di una volontà generale attraverso il confronto di tutti i componenti il gruppo, la mutua educazione senza contenuti predeterminati o imposti e, anche, il senso di pienezza derivante da una responsabilità collettiva, la «gioia» – come la chiamano i propugnatori dell’«immaginazione al potere» – di un vivere costruito insieme nelle esperienze e nelle regole. Al carattere di iniziativa dal basso, e di iniziativa del singolo, al concrescere della volontà individuale con quella collettiva si unisce un altro elemento presente nell’esperienza del ’43-’45: la contrapposizione, alla violenza dell’autorità repressiva, della violenza

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che da sempre è il metodo obbligato connesso col «diritto alla resistenza». È vero che il «sistema» non ha da noi ancora sfoderato tutta la violenza del fascismo di allora o di regimi dominanti oggi in altri Paesi. Ma è altrettanto vero che occupazioni e dimostrazioni studentesche non sono state che una pallida ombra, quasi una caricatura della violenza che il sistema stesso possiede e può e sa adoperare. Ognuno di noi si augura che la lotta – protesta e repressione – si svolga ad un livello più alto, meno incivile che quello di oltre vent’anni fa o di altri conflitti odierni fuori del nostro Paese, ma il problema nei suoi termini qualitativi resta lo stesso: lo scontro fra la violenza «istituzionalizzata», la violenza «legale», e la violenza degli irregolari, la violenza «illegale». Se la violenza «illegale» si presentava allora come il dramma di coscienza di chi doveva assumere responsabilità di condanne o di rappresaglie o di azioni che potessero coinvolgere i «civili», chi può giurare che si sarebbe giunti a quel grado di violenza «illegale» se nel 1922 (o ancora nel ’24, ai tempi dell’Aventino) si fosse reagito alla violenza «legale» con una tempestiva azione di forza? Per fermare la corsa verso l’abisso bisogna avere ben fermo e chiaro che il trapasso dal potere oligarchico al fascismo è graduale e passa, oggi più ancora di ieri, attraverso il silenzio e l’inerzia della paura in misura assai maggiore che attraverso l’esplicita collaborazione. Per questo non sembra possibile che chi resta fedele allo spirito della Resistenza non capisca chi non tace ma protesta. Dal silenzio dell’«attendismo» è nato il fascismo, e dall’attendismo dovette difendersi in primo luogo la Resistenza per vincere. Se ciò nel Vietnam, nell’America latina o nell’Africa portoghese è così evidente che il dovere del ricorso alla violenza degli oppressi è predicato addirittura da preti cattolici, in ogni Paese la libertà non può escludere da sé l’esercizio dell’azione se si vuole veramente difendere. «L’idea che esista un diritto più alto del diritto positivo è vecchia come la civiltà stessa... L’ordine costituito ha dalla sua il monopolio legale della violenza e il diritto politico, anzi il dovere, di esercitare questa violenza a sua difesa. Ma a ciò si oppongono il riconoscimento di un diritto più alto e il riconoscimento del dovere di resistere come forza propulsiva dello sviluppo storico della libertà... Senza questo diritto di resistenza, senza questo intervento di un diritto più elevato contro il diritto

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esistente, oggi noi ci troveremmo ancora al livello della più primitiva barbarie». La certezza talora sconcertante che i giovani manifestano di dover esercitare questo diritto non renda coloro, che – per esser più vecchi – più non la posseggono, ciechi o egoisti a tal punto da non riconoscere che allo sforzo dei giovani in primo luogo è affidata la salvezza stessa del proprio passato di uomini che con la Resistenza si erano condannati ad essere un’avanguardia che «non conosce congedo».

PERCHÉ I PARTIGIANI [«Lotta Continua», 25 aprile 1972; articolo non firmato]

Ce lo ricordiamo tutti il proclama di Parri nel luglio ’60. La polizia sconfitta nelle piazze, i fascisti asserragliati negli alberghi; il governo «democratico», impotente e rabbioso, sfogò il suo odio ammazzando compagni e proletari a Reggio Emilia e in Sicilia. Col PCI che su quei morti rilanciò la sua strategia dell’inserimento nell’area del potere borghese, con i padroni impegnati a trovarsi una copertura politica «a sinistra» per i loro piani di sviluppo, una sola forza a Genova e in tutta Italia rappresentò politicamente e militarmente un punto di riferimento qualsiasi per le masse: l’ANPI. Parri nel suo proclama disse in poche parole: se lo stato borghese non è in grado di proteggerci e di difenderci dai fascisti, si tiri da parte. Consegni nelle caserme la sua polizia e il suo esercito, che ai fascisti ci pensiamo noi partigiani. Si ricostruiscono in quel luglio le Brigate Garibaldine, nomi di divisioni famose in tutta la Liguria riapparvero sulle labbra dei proletari: la Coduri, la Pinan-Chichero, la Longhi. Ognuno riprese il suo posto nella sua squadra. E i fascisti e la polizia furono sconfitti. E questo il «potere» ai partigiani genovesi non glielo ha mai perdonato. Oggi i padroni italiani sono alla ricerca di un nuovo Tambroni. E cominciano ad eliminare tutti coloro che non lo vogliono. E fra i primi i partigiani: quelli che sanno sparare, quelli che contro

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i nazifascisti dimostrarono capacità politiche e militari che sono patrimonio di tutta la classe operaia, e di cui il proletariato deve riappropriarsi. Ecco l’attacco ai partigiani oggi: una vendetta postuma e vigliacca del luglio ’60, una rappresaglia preventiva sulla via della fascistizzazione.

DEBELLARE IL TERRORISMO E LA VIOLENZA FASCISTA [«l’Unità», 24 aprile 1975; risoluzione della Direzione del PCI]

La Direzione del PCI ha approvato nella sua riunione di ieri la seguente risoluzione. Ancora una volta la vita del Paese è stata gravemente turbata da tragici avvenimenti e da momenti di estrema tensione, provocati dal terrorismo e dalla violenza fascista. La selvaggia uccisione del giovane Claudio Varalli, insieme con una serie di criminali attentati dinamitardi, ha dato il segno di una rinnovata volontà – da parte di forze fasciste e di gruppi reazionari, italiani e stranieri, che tramano nell’ombra – di sconvolgere l’ordine democratico e la convivenza civile della nazione. Le possenti e responsabili risposte unitarie che sono venute in questi giorni dal movimento operaio, popolare e antifascista, hanno dimostrato che ogni tentativo eversivo può essere fatto fallire, che salde e profonde sono le basi del regime democratico in Italia. Ma più che mai necessarie restano la mobilitazione e la vigilanza di tutti i democratici per far fronte ai pericoli dell’attuale momento e per ottenere un effettivo impegno dei pubblici poteri a garanzia delle istituzioni sorte dalla Resistenza. Tutti gli organi dello Stato debbono essere energicamente orientati a colpire e liquidare – sulla base delle leggi vigenti e attraverso l’adozione di ulteriori, appropriate misure – i centri e i gruppi da cui partono sistematicamente le spedizioni squadristiche e le azioni terroristiche. Va stroncata ogni forma di propaganda e agitazione neofascista. Vanno finalmente messi nella impossibilità di nuocere i professionisti del terrore, della provocazione, della violenza. Il MSI, le cui responsabilità per il riemerge-

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re di una minaccia fascista e le cui complicità con le trame eversive si fanno sempre più evidenti, va isolato politicamente e moralmente, attraverso un’azione antifascista unitaria e una lotta politica e sociale tali da scalzarne le basi di massa in alcune zone del Paese. Questo hanno chiesto milioni di lavoratori con lo sciopero generale – di eccezionale ampiezza e vigore – del 22 aprile; questo chiedono tutti gli antifascisti nelle solenni celebrazioni del trentennale della Resistenza. A queste richieste è indispensabile che corrispondano subito prese di posizioni inequivoche e impegnative, e atti concreti, da parte del governo. Il movimento dei lavoratori ha nuovamente mostrato di saper garantire alla protesta e alla mobilitazione antifascista la massima fermezza e disciplina. In questo senso il PCI chiama ad uno sforzo ancora maggiore sul piano della vigilanza contro ogni provocazione, e fa appello alle masse studentesche e giovanili perché isolino e battano le tendenze – tuttora presenti nei gruppi estremisti – alla ricerca dello scontro fisico, alle ritorsioni violente, all’avventurismo. Il PCI sottolinea al tempo stesso la necessità che le forze dell’ordine siano chiaramente orientate contro i nemici reali della Repubblica, guidate con senso di responsabilità, difese da inquinamenti provocatori, non manovrate equivocamente e spinte a reazioni estreme. Non si può tollerare che abbiano a verificarsi nel nostro Paese episodi torbidi e tragici come quelli in cui – per diverse e convergenti responsabilità – hanno perso la vita il giovane Zibecchi e il compagno Boschi. Una situazione come quella attuale richiede l’impegno comune, in difesa della libertà e delle istituzioni, di tutte le forze democratiche, al di là delle divergenze su ogni altra questione. È questa l’esigenza a cui oggi richiamano tutti coloro che cercano di esprimere le attese dell’opinione pubblica e le necessità della nazione. Non può invece non considerarsi sciagurata la tendenza, manifestata anche in questi giorni dal segretario democristiano, a deformare e strumentalizzare i temi gravissimi dell’ordine democratico, così come quelli dell’ordine pubblico in generale. Vergognosa ed assurda è la pretesa di chiamare in causa le sinistre e il PCI – il cui coerente e combattivo impegno antifascista e democratico è fuori discussione – per la mancata soluzione dei problemi della lotta al fascismo ed alla criminalità comune, la cui re-

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sponsabilità ricade sul partito che da trent’anni governa il Paese. Ma il tentativo di salvare la credibilità della DC con iniziative e agitazioni smaccatamente elettorali si traduce in un pesante ostacolo allo sviluppo di quel civile confronto e alla ricerca di quelle ampie intese che oggi appaiono indispensabili per far fronte alle più acute esigenze del Paese, per consolidare la democrazia, per far funzionare correttamente gli organi dello Stato. I comunisti sono più che mai convinti del fatto che i guasti profondi oggi riscontrabili nel funzionamento dello Stato, e in modo particolare la prolungata e persistente carenza di una azione capace di debellare il terrorismo e la violenza fascista, derivano dalla rottura a suo tempo verificatasi nell’unità delle forze antifasciste, dall’assunzione dell’anticomunismo e della divisione tra le forze popolari a criterio ispiratore della politica di governo della DC, dalla ricorrente tentazione integralista e dal permanente calcolo elettorale e di potere che hanno caratterizzato il modo di governare della DC. La svolta deve, perciò, essere profonda: i problemi non si risolvono con improvvisazioni preelettorali e con promesse miracolistiche come suggerisce il sen. Fanfani, né possono eludersi le responsabilità della DC con l’assurdo espediente di presentare addirittura il partito democristiano in opposizione al suo governo. Del tutto coerente è dunque l’appello dei comunisti all’abbandono dell’anticomunismo e di ogni pregiudiziale e radicale divisione tra le forze democratiche, il loro richiamo alla matrice antifascista rimasta viva anche nella DC, la loro denuncia dell’integralismo e della corsa ad una rissa elettorale, il loro impegno a riportare la lotta politica sul terreno del civile confronto e della comune ricerca di soluzioni adeguate ai più gravi problemi del Paese, da quello della difesa e dello sviluppo del regime democratico a quelli del lavoro, della ripresa economica, della giustizia fiscale. È questo lo spirito con cui il PCI si prepara all’imminente battaglia elettorale. Anche il problema di nuove e immediate misure di legge a tutela dell’ordine pubblico richiede una seria e pacata ricerca, con il contributo di tutte le forze democratiche. I gruppi parlamentari comunisti si sono costruttivamente e responsabilmente orientati per un rapido dibattito in Commissione e quindi, nei prossimi giorni, per un impegnativo, ma serrato confronto in Assemblea sul progetto del governo, al fine di renderne limpide e

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inequivoche, e al tempo stesso più ampie ed efficaci, le norme di prevenzione e repressione del neofascismo e della criminalità. La Direzione del PCI impegna anche le proprie organizzazioni a far conoscere e sostenere le precise proposte avanzate dai gruppi parlamentari comunisti per la revisione delle norme relative al cumulo dei redditi e per una più equa distribuzione del carico fiscale.

TRENT’ANNI DOPO: BASTA CON LA DC! [«Lotta Continua», 25 aprile 1975]

È il 30esimo anniversario dell’insurrezione di popolo che liberò l’Italia dai nazisti e dai loro servi repubblichini; ma il 25 aprile di quest’anno non offre alcuno spazio alle celebrazioni di circostanza che, negli anni del primo centro-sinistra, avevano cercato di imbalsamare in una retorica legittimazione del regime democristiano il significato di quella che fu una lotta di popolo attraversata, in tutto il suo svolgimento, da una continua e profonda contrapposizione di classe. Già da qualche anno, a partire dalla campagna elettorale del 72, e poi, con più forza ancora, durante il periodo del governo Andreotti nel 73, o nel pieno dello scontro elettorale nel 74, il 25 aprile era tornato ad essere una scadenza di lotta, investito da una consapevolezza di massa sempre più larga che il nemico da battere è il regime democristiano. Quest’anno il 25 aprile cade nel mezzo di uno scontro durissimo; esso vede le masse antifasciste operaie, studentesche, impegnate a respingere con una mobilitazione larghissima, che lo sciopero del 22 aprile ha mostrato in tutta la sua estensione, l’offensiva reazionaria guidata dalla segreteria democristiana e dal governo Moro. Un’offensiva che ha nelle squadre e nel terrorismo fascista i suoi strumenti di provocazione, nella polizia e soprattutto nei carabinieri le sue truppe di repressione, ma che punta soprattutto sul ricatto esercitato sulle sinistre parlamentari e sui dirigenti sindacali come sull’unica possibilità di riuscire a spuntarla. Questa offensiva è già costata al movimento popolare quattro

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compagni assassinati, molti feriti, un numero crescente di arresti. Per la sua intensità, e per il bilancio di sangue e di violenza reazionaria che l’ha accompagnata, può essere paragonata già oggi, mentre è ancora in pieno svolgimento, ai più duri scontri politici e di piazza che hanno segnato la storia del regime democristiano tutte le volte in cui esso ha attraversato una svolta, dall’attentato a Togliatti al luglio ’60. E tanto più profondo, e lungo, è da prevedere che sarà lo scontro di oggi, quanto maggiore ne è la posta in gioco: con questa sortita infatti Fanfani e tutte le forze reazionarie che si sono raccolte intorno al suo proclama anticomunista e antiproletario stanno tentando di investire con la forza della repressione e del ricatto il processo irreversibile di crisi del regime democristiano che giunge in questi mesi ad una sua battuta decisiva. Se i primi a prendere atto del fatto che il 25 aprile non poteva essere celebrato insieme ai propri aguzzini, ai propri sfruttatori, ai propri nemici di classe, sono state le masse, che hanno fatto dai funerali di Brescia in poi, in tutte le manifestazioni e le scadenze «unitarie» antifasciste terra bruciata per i democristiani, Fanfani e la DC non hanno potuto evitare di prenderne atto. In molte città il 25 aprile verrà celebrato facendo sfilare accanto ai partigiani quelle stesse gerarchie militari che nella loro stragrande maggioranza sono state e restano il quartier generale e la base di appoggio di tutte le trame eversive, di tutte le stragi fasciste, di tutti i tentativi reazionari, compreso quello attuale che vede schierata in prima linea l’arma dei carabinieri; ma questa finzione ha le gambe corte e la DC ha già dovuto annunciare pubblicamente che celebrerà «per conto proprio» il 25 aprile facendone una occasione per rilanciare – in tutti i posti dove il suo potere clientelare le consentirà ancora di raccogliere un numero di persone sufficiente a riempire una sala – i suoi proclami reazionari. La DC oggi si appresta a celebrare il trentennale della liberazione chiamando «occupazione» la liberazione della Cambogia dal sanguinario governo fantoccio che l’imperialismo americano ha imposto e sorretto per quattro anni con gli stessi metodi che i nazisti avevano usato con la repubblica di Salò, e chiamando dittatura il regime più libero d’Europa; quello che gli operai, i soldati e gli ufficiali democratici hanno conquistato rovesciando la dittatura fascista portoghese, che la DC ha sempre appoggiato ed

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a cui Fanfani si è ispirato fin dall’inizio della sua carriera di fascista. Ed a questo stesso partito solo l’altro ieri il boia Almirante, funzionario della repubblica di Salò e fucilatore di partigiani, ha offerto il suo appoggio ed i suoi voti dando così il suo riconoscimento alla sostanza reazionaria della DC, ricevendone, per tutta risposta da Fanfani, l’assicurazione che la politica chiesta da Almirante la DC è in grado di farla da sola. Il modo in cui la DC è costretta in questi giorni a togliersi la maschera ed a riassumere il suo antico volto di lunga mano dell’imperialismo USA e di quartier generale dell’anticomunismo come negli anni dell’immediato dopoguerra è di per sé un segno della violenza e della radicalità dello scontro di classe. Uno scontro in cui l’aggressività della DC è tanto maggiore quanto più alla stabilizzazione controrivoluzionaria imposta a tutto il mondo negli anni del dopoguerra si è sostituita un’offensiva rivoluzionaria che dall’Indocina, all’Africa, alla Europa vede accumularsi le disfatte dell’imperialismo USA e dei suoi regimi. Ma questo scontro ha oggi il suo cuore nella saldatura strettissima tra il ruolo del governo e il tentativo di rimonta politica della segreteria DC. Mentre il partito della reazione lancia i suoi sicari, nella veste di terroristi fascisti, di squadristi missini, di killer prezzolati, o di poliziotti e carabinieri, mascherati e in divisa, mentre quelli stessi ufficiali dei carabinieri, che hanno ordinato di sparare sulla folla ed hanno comandato le cariche in cui è stato assassinato il compagno Zibecchi, denunciano il nostro ed altri giornali democratici rei di aver detto la verità su questo assassinio di stato, mentre in tutta Italia si stanno succedendo a ritmo sempre più serrato, in coincidenza con il 25 aprile, gli arresti di compagni e di militanti rei di antifascismo; mentre tutto questo ed altro ancora sta succedendo, il governo Moro si sta apprestando a raccogliere i frutti dell’offensiva reazionaria guidata da Fanfani, spingendo per l’approvazione della sua legge liberticida e anticostituzionale, e non trovando tra le forze che siedono in parlamento alcuna opposizione se non di pura forma; e pronta per di più a svendere decisivi diritti costituzionali sul tavolo di una contrattazione con il governo. Non ci potrebbe essere divaricazione più profonda tra la volontà espressa dalle masse in questi giorni di mobilitazione e lo

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sprezzo dimostrato verso di esse dalle forze che le dovrebbero rappresentare. Su questa divaricazione si regge un fragile equilibrio istituzionale che il movimento di massa ha la forza di far saltare. La giornata di oggi è una occasione per confermare questo impegno di lotta.

TUTTA LA FORZA DELL’ANTIFASCISMO [Francesco De Martino, «Avanti!», 25 aprile 1975]

A trent’anni dalla liberazione si sarebbe tentati di fare una breve storia di questo lungo periodo, nel quale tra luci ed ombre, la società italiana si è trasformata profondamente ed ha raggiunto livelli civili mai conseguiti, mostrando con grande chiarezza di essere in grado di procedere a nuove, più avanzate conquiste. Ma gli eventi tragici di questi ultimi giorni pongono a tutti in modo imperioso di rispondere alla domanda che il paese ci rivolge con ansia sulla sicurezza delle nostre istituzioni repubblicane, sul futuro della nostra democrazia, sulla minaccia del fascismo. Dopo cinque anni di terrorismo e violenza fascista, in particolare dopo la strage di Brescia e dell’Italicus fino agli ultimi criminosi fatti che hanno stroncato giovani vite e turbato profondamente il paese, il fascismo non è un fantasma che si aggira in mezzo a noi, evocato dai ricordi del passato, è un nemico spietato, pronto a colpire, seminare stragi, lutti, tragedie, tanto più aggressivo, quanto più isolato. D’altra parte, né gli errori delle forze democratiche, né la crisi economica e politica che ci attanaglia, gli hanno dato consensi nel paese. Nel suo persistente attacco allo stato democratico ed alle sue istituzioni il fascismo di oggi non è riuscito a suscitare movimenti di massa e grandi correnti di opinione, come fu all’origine del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, i quali profittarono degli errori della democrazia e delle delusioni seguite alla guerra. A differenza di un tempo nemmeno i gruppi più significativi del capitalismo sembrano appoggiarlo. In tali condizioni appare incomprensibile che il pericolo sia tanto grave ed attuale, che lo sta-

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to non abbia finora mostrato di essere in grado di stroncarne le cause. Quali forze fermano o rallentano l’azione dei pubblici poteri? È un disonore per una nazione civile, che a sei anni dalla strage di Milano non si sia ancora potuto tenere un processo con l’esemplare condanna dei colpevoli, mentre per altri gravi casi giudiziari conflitti di competenze e disastrose lungaggini impediscano che il paese sappia se e come la sua sicurezza democratica sia stata posta in pericolo da complotti e trame. Sono incontestabili fatti in forte contrasto con la grande fermezza dimostrata dalle masse e da tutto il popolo in questi anni, con la non scossa fiducia nel sistema democratico, con il permanente valore degli ideali della Resistenza, ai quali si ricollegano i giovani, che sono divenuti importanti protagonisti della lotta politica e non considerano quegli ideali come qualcosa di retorico da celebrare con stanchi discorsi commemorativi, ma come valori attuali, validi, storicamente vittoriosi. Lo scopo della violenza e del terrorismo è indubbio. È quello di provocare reazioni e disordine nel paese, spingere le masse sulla via della provocazione, portarle allo scontro frontale coinvolgendo in esso le forze armate ed alla fine dimostrare che solo mediante l’instaurazione di un regime autoritario è possibile garantire l’ordine e la convivenza civile. Finora questo scopo non è stato raggiunto per la grande fermezza dimostrata dalle masse popolari, dai partiti, dai sindacati, i quali hanno saputo contrapporre alla strategia della violenza e dello scontro quella della lotta politica democratica e della grande protesta civile. Ma negli ultimi tempi la parte più inquieta del paese ed in particolare gruppi di giovani, stanchi di assistere all’impotenza dello Stato ed all’impunità dei colpevoli, si sono lasciati trascinare in questa provocazione e si sono abbandonati ad atti di ritorsione e di violenza, che contribuiscono al disegno eversivo ed al piano della cosiddetta restaurazione dell’ordine, se addirittura agenti provocatori non si sono mescolati tra di loro per compiere atti autentici di teppismo. Bisogna quindi intervenire con energia estirpando il male alle radici e superando la contraddizione tra il paese che vuole farla finita con il fascismo e vuole garantire la sicurezza delle istituzioni e lo Stato, che appare debole, incerto, quasi impotente di fronte alla violenza fascista. Ma lo Stato non è una astrazione, esso è fatto e diretto da uomini, da forze politiche, da

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partiti ai quali incombe l’obbligo di una risposta adeguata e giusta, ferma e senza incertezze alla crescente richiesta di sicuro ordine democratico. Le responsabilità maggiori ancora una volta sono politiche e la risposta non può che essere politica. Essa spetta a tutti i partiti, che hanno contribuito a dar vita alla Repubblica ed alla costituzione repubblicana, senza distinzione tra quelli di governo e quelli di opposizione, perché gli uni e gli altri sono legati alla comune origine della lotta di Liberazione e della vittoria del 25 aprile, all’impegno della legalità repubblicana. Tra queste responsabilità vengono in primo piano quelle della DC, della quale non discutiamo l’origine e le caratteristiche popolari ed antifasciste, né dimentichiamo la parte avuta nella lotta di Liberazione e nella creazione della Repubblica, ma discutiamo gli orientamenti prevalsi ed oggi ancora più accentuati, fino al punto di infrangere l’unità antifascista, mentre questa dovrebbe essere posta al di sopra delle contrapposizioni politiche come la più valida eredità della Resistenza. Quasi timorosa di potere essere incolpata di cedere alle lusinghe del compromesso storico, troppo sensibile agli attacchi della destra, la DC mira a porsi equidistante tra estremismi di destra e di sinistra, immedesimandosi in pari tempo con una ragione di stato la quale non riesce ad ammettere che abbia potuto esservi qualche deviazione od inquinamento di singoli personaggi nelle forze armate e nell’amministrazione. Espressioni di questa ragion di stato, le correnti conservatrici esistenti nelle alte gerarchie del potere pubblico hanno contribuito ad indebolire l’azione dello Stato di fronte al fascismo. Ma nonostante gli errori compiuti, se si vuole, si è in tempo per agire. In questa storica data il nostro appello è rivolto a salvaguardare l’unità antifascista, l’unità di tutte le forze che trent’anni or sono hanno vinto il fascismo e posto le basi della Repubblica. Se questa unità verrà ritrovata, indipendentemente dalla posizione che ciascun partito ha nella vita politica del paese, al governo od all’opposizione, un decisivo passo può essere compiuto. Un indirizzo chiaro, preciso, fermo del governo a tutte le autorità dello Stato in senso nettamente antifascista, senza diversivi, come espressione della più ampia coscienza popolare è doveroso ed urgente.

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A chi si pone l’inquietante domanda se lo Stato democratico sa e vuole colpire ed estirpare il fascismo e già pensa che non rimane altro che farsi giustizia con le proprie mani, occorre dare una convincente risposta, che ristabilisca la generale fiducia. Per quanto riguarda noi socialisti, non ricerchiamo divisioni ed artificiose polemiche. Il nostro scopo è e rimane quello di associare tutte le correnti politiche del paese, i giovani, le forze armate e dell’ordine, nella difesa della democrazia e nella ricerca di nuove conquiste. Emerga dalle grandi manifestazioni del 25 aprile l’impegno per una lotta che continua oggi con i mezzi della democrazia, come allora con le armi.

GLI IDEALI DELLA RESISTENZA PER UNA SOCIETÀ PIÙ GIUSTA

[«Il Popolo», 25 aprile 1975; discorso del Presidente della Repubblica Giovanni Leone a Montecitorio il 24 aprile 1975]

Il 25 aprile 1945 segnò la fine del fascismo, la liberazione del territorio nazionale dall’incubo nazista, la ripresa della vita libera e democratica: tre eventi indissolubilmente collegati, ciascuno dei quali ci induce a riflessioni essenziali per dare a questa celebrazione un contenuto che non sia solo di rievocazione ma anche di invito ad una serena meditazione. La condanna del fascismo e l’impegno ad impedire la rinascita non solo sono consacrati nella Costituzione, ma hanno radici profonde nella nostra coscienza morale. E poiché per condannare occorre conoscere, noi dobbiamo stimolare tutti – specie i giovani che il fascismo non hanno sperimentato – ad approfondire le cause, i caratteri e gli sviluppi. Tale compito – al quale sono tenuti a dare un fondamentale contributo la scuola, il mondo della cultura e le forze politiche – consiste non solo nell’analisi e nella valutazione di un lungo periodo della nostra storia, ma anche nel dimostrare che la contrapposizione tra dittatura e democrazia non fu e non è tra due miti, bensì tra due forme di vita individuale e collettiva. Si tratta cioè di porre a confronto un regime che privò il cittadino di ogni parte-

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cipazione alla vita e al destino della comunità nazionale, e un tipo di società, libera e civile, nella quale è consentita, anzi è sollecitata e favorita, la piena esplicazione della personalità umana in una prospettiva di elevazione sociale e morale. Le cause dell’instaurazione della dittatura fascista furono varie e sono state identificate sovratutto nelle gravi incertezze e negli errori della classe dirigente e degli stessi massimi responsabili dello Stato, nella collusione con forze reazionarie, nell’assenza di ogni intervento dei poteri pubblici per eliminare lo stato permanente di conflitto e di disordine, nella stanchezza del Paese, dovuta anche a delusioni conseguenti al trattato di pace ed al mancato accoglimento di fondamentali e legittime istanze popolari. Quel regime dette al Paese la risposta più dura ed involutiva, che culminò nella soppressione di tutte le libertà, dei partiti politici, delle libere organizzazioni sindacali e del Parlamento. Le stesse realizzazioni compiute – che in un certo periodo di tempo determinarono un’area di consenso – finirono col dissolversi in una realtà che deluse, quando perfino non le pregiudicò irreparabilmente, le aspettative del popolo italiano. Basti pensare alla sterile politica autarchica; alla drammatica constatazione che la cortina delle spettacolari parate e delle retoriche esaltazioni patriottiche copriva il vuoto della impreparazione militare; al fallimento di una politica estera imperniata su intimidazioni e scelte irrazionali ed impulsive che ci precipitarono nell’assurda alleanza col nazismo e nella consegna del Paese all’abbraccio mortale con quello che fu definito «il mostro che stava per divorare il mondo». Sul Paese cadde la cortina pesante dell’oppressione. I superstiti oppositori furono costretti a rifugiarsi in riunioni clandestine od a rinchiudersi, mal tollerati, in un oscuro angolo di vita, mentre i più decisi e non rassegnati conobbero l’asprezza del carcere e l’amarezza dell’esilio. Lo sbocco della dittatura – come accade quasi per una logica inesorabile ai regimi che non sono interpreti della volontà popolare – fu la guerra, non voluta e non compresa dal popolo italiano, contraria agli interessi, alla tradizione, alla storia del nostro Paese e scatenata nella più assoluta e non ignorata impreparazione. E tuttavia popolo e Forze armate per tre duri anni compirono il proprio dovere, tanto più apprezzabile, quanto più si deli-

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neava infausta la prospettiva finale, nella morsa di una drammatica alternativa: o l’umiliazione e la tragedia della sconfitta, o – nel caso di vittoria, che si sarebbe risolta nell’esclusivo trionfo del nazismo – l’instaurazione per un lungo arco di anni in tutta l’Europa, e probabilmente anche in altri continenti, di un regime di oppressione, di disprezzo della dignità umana, di discriminazione razziale e di genocidio. La guerra fu sofferta da tutto il popolo, che nelle gravissime restrizioni, nell’incubo di spaventosi bombardamenti, nella distruzione delle città e delle strutture della vita organizzata, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza fisica, seppe esprimere dal fondo della rassegnazione, che non fu mai rinuncia, insospettabili energie. Gli italiani in armi, dovunque – nel territorio nazionale ed in lontane regioni del mondo – pur nella costante disparità delle forze, affrontarono duri sacrifici, illuminati da episodi di fulgido eroismo. Ad essi – a tutta la generazione che ancor oggi vive nel proprio animo il drammatico ricordo della partecipazione alla guerra e che sente giustamente di aver compiuto il proprio dovere – si rinnova l’espressione di riconoscenza della Patria. Il 25 luglio 1943 non coincise purtroppo con la fine della guerra e del già lungo sacrificio. I pochi mesi che trascorsero tra quel giorno e l’armistizio costituirono la drammatica premessa di eventi, la cui dimensione superò ogni più fosca previsione. I nazisti, che avevano guardato l’Italia con costante sospetto, mostrarono il loro vero volto e, più tardi – con la complicità della cosiddetta repubblica sociale, convulso e tragico tentativo di rinascita del fascismo – estesero anche al nostro Paese il brutale disegno di distruzione e di morte. Emblema tragico ne restano i campi di sterminio, il cui allucinante ricordo peserà sulla coscienza civile di ogni tempo. Mai come allora l’umanità si è sentita ferita nei suoi sentimenti profondi ed elementari, nella stessa angosciosa e millenaria ricerca della ragion d’essere degli uomini, dei popoli, della storia. La resistenza armata scoppiò come ribellione a quello spietato disegno ed impetuosa ventata di libertà. Ad essa il popolo italiano partecipò in tutte le sue componenti con ferma decisione, pa-

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ri alla lucida visione dei pericoli mortali e della imponente sproporzione di mezzi. Nella guerra partigiana si ritrovarono insieme uomini e donne di ogni età, di ogni ceto, di ogni ideologia, numerosi militari, intere popolazioni – che costituirono la grande ed essenziale retroguardia morale – in una fraterna e fervida unione nella quale le diversità di provenienza sociale, di fede religiosa e di concezioni ideologiche, anche profonde, si scioglievano nella lucida coscienza dell’asprezza della lotta e nell’ardente unità dell’impegno patriottico. L’Italia visse questa epopea con identica tensione morale, anche se diverse per durata e sacrificio ne furono le vicende nelle varie regioni. Nel clima di quei durissimi mesi, in cui l’Italia parve consumarsi fino in fondo, nel Mezzogiorno reparti delle nostre Forze armate già si organizzavano e si affiancavano alle Forze alleate, risalendo la Penisola a liberare lembo per lembo la nostra terra. Alle Forze armate italiane impegnate nella Resistenza, che anche fuori del territorio nazionale scrissero pagine superbe consacrate dal sangue di tanti eroici caduti, va il nostro pensiero riconoscente, nella consapevolezza che oggi come allora esse costituiscono il fondamentale presidio della Patria. Eguale sentimento va rivolto alle Forze armate alleate, il cui contributo fu determinante per la Liberazione del territorio nazionale ed è testimoniato dal numero imponente di caduti raccolti nei numerosi cimiteri di guerra sparsi in tutto il Paese, custoditi dalla nostra riconoscente pietà. Nelle regioni occupate intanto i partigiani salivano sui monti, creavano fortilizi nei casolari, formavano un grande movimento per la libertà; iniziative individuali ed improvvisati nuclei si componevano in una organizzazione di guerra. Nella Resistenza venne così a trasfondersi l’impegno unitario di tutto il popolo, che alla fine esplose nell’insurrezione delle grandi città del nord; sicché essa, prima ancora che un fatto militare, fu un avvenimento di carattere politico e morale di storica importanza. Ai protagonisti di quell’epica pagina di valore patriottico e costruttiva di una grande coscienza unitaria va la nostra profonda gratitudine. Alla memoria di quanti, perché l’Italia sopravvivesse, sacrificarono la vita in aspri combattimenti, nei disumani tormenti delle camere di tortura, nella furia delle atroci rappresaglie scate-

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nate contro vittime innocenti anche in tenerissima età o nella strage di intere popolazioni va il riverente omaggio del popolo italiano, che con legittimo orgoglio ed a riconsacrazione di quei valori ideali nelle città e nelle borgate che furono teatro della lunga e dura lotta ne rivive oggi il ricordo in austere e significative celebrazioni. E poiché quella fu anche guerra civile – che con i suoi errori ed orrori tristemente vide italiani l’un contro l’altro armati – ricordiamo che noi, come ogni Paese civile, nell’accingerci a ricomporre il tessuto nazionale, rendemmo onore anche alla memoria di quelli che caddero combattendo in buona fede nel campo opposto. Il 25 aprile 1945 segnò il richiamo di tutti all’imponente impegno della ricostruzione materiale e morale del Paese. La strada da percorrere era quella indicata dai caduti nella Resistenza che avevano sognato una società nuova, libera e giusta e ci avevano lasciato nelle lettere dei condannati a morte, come testamento spirituale, parole di perdono per i carnefici, di fiducia nella resurrezione della Patria, di severa condanna dell’«uccidersi tra fratelli», di invito alla concordia. A nessun altro insegnamento saprei chiedere il presidio dell’autorità morale all’accorato invito a smobilitare l’odio, a rinunciare alla rappresaglia indiscriminata e terroristica, a spezzare l’assurda e tragica spirale della violenza. Cominciò dal giorno del riscatto la ricostruzione del Paese, un’opera la cui imponenza avrebbe scoraggiato chiunque non avesse radicata la propria aspirazione e la guida del proprio operare nel profondo senso patriottico del nostro popolo e nella concorde certezza di risorgere come comunità civile. Da qui le prime fondamentali premesse per la rinascita economica ed il reinserimento dell’Italia, dovuto a lungimiranza di grandi statisti, nella grande famiglia internazionale. Se la ricostruzione rivelò la coscienza morale che gli italiani avevano saputo ritrovare sotto le macerie, il referendum istituzionale e la contemporanea prima consultazione elettorale del 1946, anche per il clima di legalità e di tolleranza in cui si svolsero, dimostrarono che la lunga dittatura e la tragedia della guerra non avevano spento – avevano anzi alimentato, nel segreto dell’animo

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e nella macerazione della sofferenza – il senso vivo della libertà e la fede nella democrazia. Questo storico Palazzo è stato scelto a ragione dai Presidenti delle Assemblee parlamentari a sede per la solenne celebrazione nazionale della Liberazione. In esso si era consumato il graduale processo di annullamento del libero Parlamento; ma in esso, per significativo e contrapposto collegamento ideale, fu proclamata la Repubblica e votata la Carta costituzionale, nella quale – e per molti di noi è motivo di orgoglioso ricordo personale – i valori della Resistenza si rifusero nelle nostre tradizioni giuridiche e culturali. Rinnoviamo oggi solennemente l’attestazione di fedeltà ai valori che ispirarono la fondazione della Repubblica e dello Stato democratico, a quei valori che sono i pilastri della Costituzione ed hanno consentito all’Italia di risorgere dalla distruzione materiale e di dare inizio ad un processo, tuttora in atto, di elevazione morale ed economica. Questa celebrazione non può e non deve essere soltanto esaltante ricordo di pagine di coraggio, di valore e di eroismo, ma anche una serena registrazione di ciò che siamo oggi come Paese, di quanta parte di quei valori e di quei principi è già realtà e di quanta parte rimane da attuare. Nessuno può disconoscere che, dopo l’iniziale slancio ricostruttivo e le tempestive premesse per l’inserimento dell’Italia nel mondo, grandi progressi sono stati compiuti: l’impostazione delle strutture essenziali alla vita civile; la diffusione della cultura; l’evoluzione tecnica con la grande trasformazione dell’economia (da quella prevalentemente agricola alla moderna economia industriale); il sorgere di un’attiva e vivace classe imprenditoriale; la consapevolezza dei lavoratori del posto di primato che spetta loro nel tessuto sociale e quindi il ruolo svolto dalle organizzazioni sindacali; la partecipazione attiva e diretta delle componenti regionali alla vita dello Stato e al progresso del Paese; un pluralismo sociale espressione di una rigogliosa ricchezza di libertà; la pace religiosa, che neppure, recenti avvenimenti hanno turbato; una struttura costituzionale dello Stato che – se pur non interamente attuata e accompagnata nelle sue esplicazioni da imperfezioni, a volte funzionali – costituisce sempre nei suoi valori e nelle sue articolazioni il saldo pilastro e il punto di riferimento per l’ulterio-

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re sviluppo della società italiana; la costante e vigile azione diretta alla distensione internazionale, al perseguimento della pace ed alla costruzione di una solida unità europea. Lungo queste linee l’Italia deve muoversi negli anni a venire, per poter assicurare che il progresso realizzato sia finalmente fonte di maggiore giustizia e che la libertà conquistata sia più amata dai cittadini per la sua capacità di garantir loro la piena espressione delle personalità in un clima di sicurezza e di pace sociale. Proprio per continuare a percorrere la nostra strada di libertà e di giustizia, è necessario perché su di essa si attesti la fiducia del Paese, delineare un’immagine del nostro avvenire, indicando le scelte di fondo che investono le responsabilità delle forze politiche e sociali: dare sempre più ampio respiro alla nostra politica estera per la sua capacità di essere espressione di pace e di solidarietà tra i popoli, che fu uno degli ideali che animarono i combattenti per la libertà; affinare gli strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato; rendere più efficiente il funzionamento delle istituzioni, in particolare l’amministrazione della giustizia; riordinare la vita amministrativa; rafforzare i centri di decisione, perché sia costante la sensazione di un potere responsabile che dirige e amministra; creare una organica direzione di politica economica e finanziaria; eliminare le più palesi sperequazioni sociali, a cominciare dagli squilibri retributivi; tendere ad una sempre maggiore giustizia fiscale; dare senso di sicurezza al cittadino. Presupposto fondamentale di tale prospettiva è il costume. Non vi è infatti ordinamento costituzionale ben congegnato, non vi sono leggi ben ispirate e ben formulate che possano dar garanzia al cittadino, se non vi corrisponde da parte dei responsabili del potere pubblico – in ogni grado ed in ogni posizione – il senso costante del dovere, della laboriosità, del disinteresse e dell’ispirazione ideale. Grande è l’attesa del Paese perché sia garantita la sicurezza collettiva e individuale. Noi abbiamo il dovere di tutelare la sicurezza collettiva e dell’ordine democratico, eliminando il diffuso allarme che nasce in tutti i cittadini dalla individuata esistenza di aggressioni e tentativi di aggressione alle istituzioni repubblicane nel folle intento di restaurare il regime dittatoriale. Su tali attacchi si deve – ad ogni livello – far luce, perché si pos-

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sa giungere ad individuare i responsabili del terrorismo, delle stragi e dei massacri consumati o tentati. Degli attacchi eversivi allo Stato e del terrorismo politico che portano il marchio inconfondibile dei neofascisti va decisamente e duramente stroncato il disegno, con l’approfondimento delle cause e la ricerca dei legami tuttora oscuri. Ma ogni forma di violenza è intollerabile e va colpita alla radice, qualunque ne sia la pretesa ispirazione; come la violenza scatenata dai gruppi della sinistra extraparlamentare, che deve essere stroncata con vigore e rigore e nei cui confronti si esprime, segno di matura coscienza democratica, la generale esacrazione e la ferma ed esplicita condanna da parte delle forze politiche democratiche e del mondo del lavoro, le quali ricacciano i maniaci della violenza nella loro squallida solitudine, riconoscendo esclusivamente allo Stato il compito di sradicare la violenza fascista. Sono convinto infatti che nessuno sia disposto a tollerare che, sotto un preteso scopo politico, possano scatenarsi violenze teppistiche o azioni squadristiche che pratichino il metodo dell’intimidazione, della intolleranza, dell’aggressione fisica. Sappiamo con quanto deciso impegno il Governo e le Forze dell’ordine affrontano questa dura battaglia, alla quale daranno ulteriore forza indifferibili misure legislative e più idonei strumenti di prevenzione. La magistratura – mai come oggi chiamata a dare il suo determinante contributo alla salvaguardia delle istituzioni – saprà con sollecitudine, con fermezza e con rigorosa imparzialità suggellare l’impegno comune. Sia le manifestazioni di criminalità politica e di terrorismo di qualunque ispirazione, sia l’aumento della criminalità comune – tutte caratterizzate dalla più ripugnante viltà – determinano un grave e generale turbamento. È uno stato d’animo che, anche in relazione a deluse aspettative, tende ad emergere ed a farsi strada nei momenti più difficili della vita di ogni Paese e che trova terreno più fertile nei giovani, la cui generosità e combattività – che sono le caratteristiche di questa felice stagione della vita – possono essere insidiate e deviate dalla seminagione dell’odio e travolte da sogni insensati. Ai giovani suggestionati dal mito dello Stato autoritario ricordiamo in quale abisso ci precipitò la dittatura; ai giovani sugge-

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stionati dalla contestazione che, quando è composta e civile è congeniale alla loro età, diciamo di rispettare i limiti imposti dal sistema democratico e di apprezzarne l’insostituibile valore politico e morale, in quanto esso consente ogni espressione ed espansione del libero convincimento, ogni manifestazione politica, in pieno svolgimento delle loro stesse istanze critiche, che, depurate dall’irrazionalità, possono essere convogliate verso concrete prospettive di sviluppo e di progresso. E poiché sappiamo che la grandissima maggioranza dei giovani – studenti e lavoratori – è tesa a ricondurre aspirazioni nuove e fervide inquietudini in propositi ben definiti di rinnovamento, ad essi rivolgiamo un invito: cimentatevi sul piano delle idee; indirizzate la ricchezza dei vostri sentimenti verso l’identificazione di costruttive mete di progresso; date – specialmente oggi che siete chiamati al voto in più giovane età – un contributo diretto e stimolante alla vita politica, arricchendola così di fresche energie; siate consapevoli che questa è l’epoca di grandi svolte politiche e sociali, alla quale più che in altri tempi la vostra azione, l’entusiasmo e il vostro senso di responsabilità potranno dare un contributo nuovo e persino esaltante. Le sofferenze, le delusioni, così come gli ideali e le speranze delle generazioni che vi hanno preceduto, vi ammoniscano a non ricadere negli antichi errori. Lo Stato democratico ha il diritto ed il dovere di difendersi; ma ha bisogno della collaborazione di tutti i cittadini, specie di voi giovani. Voi potete con l’esempio e l’opera di convinzione concorrere a sottrarre molti vostri coetanei alla subdola e mistificante attrattiva di quelli che li reclutano per i loro disegni di sovversione e di terrorismo. Aiutateci a combattere contro l’odio e la violenza. E, quando avremo vinto insieme questa battaglia, noi avremo – sovratutto per merito vostro – consacrato l’insostituibilità del regime democratico, preservata la dignità della persona umana e salvaguardato il Paese da nuove tragiche esperienze nelle quali naufragherebbe con la libertà ogni ispirazione di rinnovamento. Un’altra preoccupazione grava sull’anima di tutti gli italiani; è quella concernente la gravissima ondata di criminalità comune. Vero è che la delinquenza abusa del clima di libertà e di legalità che contrassegna lo Stato di diritto, ed è prodotta da una società

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in rapido sviluppo, quasi segno di contraddizione dei tempi. Ma proprio perciò occorre che, accanto all’azione di bonifica morale e sociale, anche nei confronti delle allarmanti forme di criminalità comune si proceda con sempre maggiore fermezza con le misure legislative ed amministrative vigenti e quelle che si riconoscano necessarie. E poiché nella lotta alla criminalità sono impegnate in prima linea le Forze dell’ordine, rinnoviamo ad esse la nostra attestazione di gratitudine e di fiducia. Il Paese è consapevole e grato del loro duro impegno, degli atti di coraggio e di eroismo e dei non rari episodi di sacrificio della vita. Perciò – anche nel riconoscimento di alcune fondamentali esigenze degli appartenenti ad esse, che non sono solo di ordine economico ma anche di una migliore organizzazione di strumenti e servizi – occorre rendere più sicuro il risultato della loro opera, meno pericolosa e più garantita la loro azione. 25 aprile 1945; 2 giugno 1946; 1° gennaio 1948; la Liberazione, la proclamazione della Repubblica, l’entrata in vigore della Costituzione. Sono le date storiche del nostro secondo Risorgimento che confluiscono in questa celebrazione. A coloro che, combattendo nella guerra di liberazione, sognarono un’Italia libera, democratica e giusta, possiamo presentarla questa nostra Patria con la coscienza di averla servita – pur tra errori non tutti inevitabili – senza tradire il senso ideale della lotta per la libertà combattuta trent’anni fa; ma sentiamo anche di dover dire che c’è una lunga strada ancora da percorrere, chiedendo a tutti – specie a quelli investiti delle più impegnative responsabilità – un ritorno alle origini delle nostre più pure ispirazioni ideali. Ed anche di fronte alle permanenti difficoltà economiche che intralciano il cammino di progresso del nostro Paese, pur nella cauta ma realistica constatazione che le punte più aspre sono in via di superamento, sappiamo di poter attingere alla nostra intatta capacità di lavoro, alla generale consapevolezza dell’ora difficile, al senso di sacrificio, e quindi sempre alle nostre risorse morali. È perciò più che un atto di fede, una previsione radicata nella realtà affermare che quando un popolo in poco più di trent’anni ha affrontato virilmente una durissima guerra; ha riscattato l’umiliazione della dittatura e della sconfitta e riconquistato la libertà,

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ricostituito il volto del Paese ed impresso alla sua vita un ritmo di progresso, questo popolo ha il diritto di guardare con fiducia al proprio avvenire. Abbiamo una strada da percorrere, un avvenire da costruire; ma tutti insieme, con l’opera ed il consenso di tutti. Bisogna credere di più nei valori della convivenza, attivare un circuito di fiducia tra noi, sentirci – ognuno – artefice di quello che chiamiamo il comune destino. La celebrazione del trentesimo anniversario della Liberazione sia perciò non solo un momento di esaltante ricordo ma anche motivo di riflessione e di risveglio delle sempre vive forze morali del nostro popolo. Sia sovratutto l’assunzione di un solenne impegno, che vale per tutti, ma specialmente per noi che siamo stati chiamati a posti di responsabilità; riprendere il lungo cammino nella luce degli ideali vivi e permanenti della Resistenza, compiendo senza esitazioni, in umiltà ma con fermezza, fino in fondo il proprio dovere. Viva la Repubblica! Viva l’Italia!

FANFANI: LA VERA LIBERTÀ PRESUPPONE LA DISTINZIONE TRA FORZE POLITICHE [«Il Popolo», 26 aprile 1975; discorso del segretario della Dc Amintore Fanfani a Cassino il 25 aprile 1975]

Tristezza e gratitudine: ecco i due sentimenti che si sono, a volta a volta, sovrapposti durante la cerimonia religiosa con la quale si è aperta questa celebrazione a scala nazionale promossa in Cassino dal partito della Democrazia Cristiana. Tristezza per la immensità di sacrifici e per l’abbondante lavacro di sangue. L’uno e l’altra, può dirsi, abbiano avuto le prime cospicue manifestazioni proprio qui a Montelungo il 7 e 8 dicembre del ’43, protagonisti gli universitari, come a Curtatone e Montanara, del battaglione allievi ufficiali, i bersaglieri, gli artiglieri del primo nucleo del nascente corpo dell’esercito di Liberazione. Eppoi in questa piana di Cassino fino al maggio del 1944 men-

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tre progressivamente in tutti i monti e le città d’Italia le azioni dei liberatori si protrassero per più di un anno. Oltre la tristezza per i motivi ricordati stamani abbiamo insieme provato gioia per la grandezza dell’evento che il 25 aprile si verificò: la fine del dominio nazi-fascista, la riunificazione del territorio nazionale, la riconquista della libertà. Così il 25 aprile risultarono sconfitti la violenza, la disunione, il totalitarismo. La gioia per quegli eventi ancora genera in tutti noi sentimenti di ammirazione. Ammirazione per tutti i resistenti, i soldati, i partigiani, che pur con diversi ideali, seppero contenere le differenze per propiziare la conquista dei beni supremi dell’indipendenza, della unità, della libertà della Patria. Ai sentimenti di ammirazione si accompagnano quelli di gratitudine per le migliaia e migliaia di concittadini che al raggiungimento di così grandi beni sacrificarono la libertà nel carcere come Alcide De Gasperi e tanti altri; l’energia nella lotta, come Enrico Mattei e tanti partigiani e soldati; la vita nell’olocausto come don Morosini e tutti gli altri, laici ed ecclesiastici, credenti o atei che ne imitarono il grande esempio. Questi sentimenti di ammirazione e gratitudine si rivolgono a tutti i benemeriti quale sia stata l’ispirazione ideale che li mosse. Ma con particolare intensità si rivolgono a coloro che per tanti sacrifici trassero forza dai nostri stessi ideali. La diversità dell’ispirazione non impedì ad ognuno di convergere in uno stesso impegno. Ma l’impegno comune non annullò la diversità dell’ispirazione. L’impegno comune per l’indipendenza e l’unità della Patria: per la libertà di tutti gli Italiani. Quando gli obiettivi del supremo impegno comune furono raggiunti tornarono legittimamente a riaffiorare le diversità. Nella diversità degli ideali orientatori si alimentò la nuova democrazia italiana e la nuova articolazione consentì nelle procedure dei liberi ordinamenti di appurare anche quantitativamente la preferenza del popolo italiano per certi ideali e certi valori. Le scelte democratiche e le preferenze popolari del 1946 e degli anni seguenti sostanzialmente non sono più state smentite in questi trent’anni. Trenta anni di responsabilità prevalente per la Democrazia

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Cristiana: non per imposizione di dittatori, ma per libera scelta dei cittadini. Trenta anni di diuturno sforzo per svolgere il mandato popolare di attuare un preciso programma, sintesi del nostro e di quelli delle altre forze democratiche che con la Democrazia Cristiana si incontrarono e si intesero. E in questi trenta anni una persistente volontà di incontro con le forze democratiche. Essa non si attenuò nella Democrazia Cristiana neppure quando il voto popolare le dette forza di maggioranza assoluta. Trenta anni di persistente fedeltà anche da parte nostra al retaggio più valido dello sforzo eroico della Resistenza e della Liberazione. Così si è consolidata l’unità della Patria, si è spansa la libertà per tutti i cittadini; è avanzato il progresso, e si è mantenuta la pace per tutto il popolo italiano. Così, grazie alle preferenze manifestate dal voto dei cittadini, la Democrazia Cristiana con le altre forze democratiche restò fedele all’impegno di promuovere il progresso in tutti i suoi aspetti. Ognuno sente la fierezza di poter ricordare le linee essenziali e caratteristiche dell’azione svolta nei trenta anni passati. La Democrazia Cristiana ha voluto che all’odierna rievocazione in Cassino delle gesta degli scomparsi e dell’azione degli anziani viventi assistessero in folla giovani e giovanissimi. E ciò affinché conoscessero i sacrifici e ne intendessero il senso ricevendo in consegna ideale il frutto che quei sacrifici hanno prodotto. Tutto il frutto dei lunghi sacrifici deve essere conservato: deve essere preservato da ogni insidia. E va difeso da ogni allettante invito. Contro affermazioni confuse deve essere ricordato che non si preserva la democrazia rinunciando ai benefici della articolazione delle forze politiche che in essa operano. Non si gode né a lungo si preserva la libertà lasciandola annegare in un indistinto e confuso amalgama unitario. Il lungo cammino millenario della evoluzione dei civili ordinamenti testimonia che il sistema democratico ha finito per prevalere tra gli uomini proprio per valorizzare le distinzioni anche partitiche prodotte dal pieno godimento della libertà. Della libertà dei cittadini, della libertà dei partiti, della libertà del confronto, della libertà del dialogo anche tra maggioranza e opposi-

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zione. La libertà difende e quindi valorizza l’individualità; e dalla articolata distinzione democratica delle singole e delle consociate individualità nasce la possibilità di perfezionare l’azione di incivilimento. Fermo il comune impegno antifascista, vacui e sinora vani sono sempre stati i disegni politici di sovrapporre alle distinzioni nella libertà l’unità nella confusione. E quale che sia stata l’intenzione dei promotori tali disegni hanno sempre sfociato nella sopraffazione e nel totalitarismo. Al totalitarismo fascista portò la pretesa unità di tutti gli italiani sull’altare di un esasperato e non democraticamente accertato interesse nazionale. Al totalitarismo comunista ha portato, in ogni Paese del mondo, la pretesa unità degli uomini sull’altare di un esasperato interesse di classe definito dai dittatori. Alla libertà ha sempre riportato, anche dopo lunghi periodi di oscurità, il rispetto delle distinte convinzioni circa la difesa degli interessi della Patria e circa il rispetto degli interessi dei singoli gruppi sociali. Nessuno disconosce le feconde conseguenze dell’unità nel momento dei supremi pericoli. Ma solo delle perniciose disattenzioni possono consigliare di adottare il pretesto dell’unità, rinunciando ai benefici che per la libertà reca la distinzione tra le forze politiche. A queste considerazioni elementari fatte nei millenni dai più alti spiriti, è ispirata la Costituzione della Repubblica Italiana. Ai principi di essa siamo rimasti fedeli. Ai nostri figli e nipoti trasferiamo l’impegno di restarvi fedeli. Ecco perché oggi qui in Cassino, celebrando la Resistenza e la Liberazione, simbolicamente ai giovani di tutta Italia che pieno iure, fra un mese, parteciperanno col voto alla sovranità popolare consegnamo ciò che fu conquistato negli anni della Resistenza e della Liberazione e che per trenta anni è stato preservato. A questi giovanissimi passiamo il compito di conservarlo e di farlo ulteriormente fruttificare. In tempi difficili di risorgenti nostalgie neo-fasciste, di reazioni violente alle medesime e di oscure preparazioni a profondi mutamenti inconciliabili con la Costituzione si verifica la celebrazione di ciò che fu fatto per trent’anni. E proprio, in questi momen-

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ti difficili, con piena fiducia trasferiamo nelle mani dei giovani la missione di perfezionare la opera svolta. Questo trasferimento avviene nel ricordo dei morti che con riconoscenza profonda abbiamo commemorato. Questo trasferimento avviene al cospetto di un monumento insigne che per oltre un millennio è stato luminoso punto di riferimento per la fede, la sapienza, l’operosità. Questo trasferimento di missione dagli anziani ai giovanissimi avviene qui, fra i monti dove trentadue anni fa infuriò la battaglia per la riconferma dell’unità d’Italia, per la liberazione dal nazi-fascismo, per la riconquista della libertà. Questo trasferimento pone in mani pure il frutto di passate conquiste e il seme di nuovi progressi. In questa piazza che a lui si intitola, Alcide De Gasperi a voi giovani rivolge un pressante invito: «Voi giovani e con voi i vostri anziani, e tutti insieme con i vostri morti siate idealmente uniti per essere forti, per restare liberi. Della vostra opera, o giovani, ha bisogno la Democrazia Cristiana, per continuare, perfezionandola, la sua azione a favore dell’Italia democratica: della sua libertà, del suo progresso, della sua pace».

VENTICINQUE APRILE [Franz Maria D’Asaro, «Il Secolo d’Italia», 25 aprile 1975]

Nel calendario d’Italia ricorre oggi una data storica. A trent’anni dalla conclusione della guerra perduta – con l’orribile appendice della guerra civile – questa ricorrenza avrebbe potuto essere celebrata in un clima di altissima civiltà all’insegna della pacificazione. E invece no: si celebra ancora – persino più di dieci o vent’anni fa – all’insegna dell’odio. Salvo la rara eccezione del Capo dello Stato. Perché? È una ricorrenza che riguarda tutti gli italiani, certamente, anche se del 25 aprile 1945 non fu protagonista l’intero popolo italiano ma soltanto due minoranze, profondamente divise e contrapposte negli ideali: sino al sacrificio della vita. La minoranza che fece la Resistenza e la minoranza che militò nella Repubblica

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Sociale Italiana. La prima confortata dalla certezza della vittoria nel quadro della più vasta strategia militare degli alleati, la seconda avvilita dalla certezza della sconfitta ma tenuta in piedi dalla disperata volontà di concludere onorevolmente una guerra onorevolmente combattuta. Il resto del popolo italiano – diciamo come stanno le cose – attese. Prigioniero della paura. Non c’è da stupirsene, non c’è da pronunciare alcuna condanna: in quei tempi «compromettersi» significava giocarsi la pelle. Il «tengo famiglia» era il viatico verso la salvezza, attraverso gli orrori della guerra fratricida. Attese: e il 25 aprile applaudì il vincitore. Seguirono giorni impietosi. Ancora una volta il «guai ai vinti» ebbe il sopravvento e i cimiteri videro moltiplicarsi all’infinito le tombe senza nome. C’era però anche l’altro aspetto della «liberazione», quello responsabile di voler dare un contenuto a ciò che doveva significare nella storia d’Italia il 25 aprile 1945. Il vincitore – ed era giusto che fosse così – innalzò le sue bandiere che annunciavano l’avvento dei «tempi nuovi»: l’Italia era finalmente libera, finalmente protesa alla conquista della civiltà. Ma si commise un errore: non si volle comprendere che soltanto la pacificazione sarebbe stata il miracoloso cicatrizzante delle tremende ferite materiali e spirituali della Nazione. Sarebbe ingeneroso non ricordare l’amnistia voluta da Togliatti per i fascisti o l’accorato appello di De Gasperi perché si interrompesse «la spirale della vendetta» o il nobile impegno di Guglielmo Giannini perché si ponesse veramente fine alla divisione degli italiani. Sarebbe ingiusto non ricordare come questa esigenza fosse avvertita dal socialista Tito Zaniboni (che pure aveva attentato alla vita di Mussolini) dal cattolico Don Sturzo, dal monarchico Covelli, dal liberale Pietro Operti. E da tanti altri che silenziosamente operarono per la pacificazione. Ma sarebbe oltremodo ingeneroso ed ingiusto non ricordare quanti – e potremmo dire più di tutti – portarono il loro generoso, appassionato contributo a questa speranza di pacificazione, nello struggente sogno di rivedere l’Italia unita e gli italiani placati: per riprendere insieme, tutti insieme, la costruzione della Patria lacerata. E questi erano i vinti: coloro che nella tempesta delle passioni avevano il dono di non saper smarrire la giusta via per uscire dall’insanguinato labirinto dell’odio. Ma fu tutto inutile. Oggi dobbiamo amaramente constatare che i veri vincitori sono stati i peggiori: i sacerdoti dell’odio.

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A trent’anni di distanza i padri della Resistenza si guardano desolatamente intorno. Che cosa è rimasto di quelle promesse per un’Italia «più giusta», finalmente libera, finalmente democratica? Dov’è la giustizia sociale, dov’è la democrazia per tutti gli italiani, dov’è «l’Italia nuova»? Dov’è – soprattutto – quell’antifascismo che si diceva illuminato e che, con l’esempio, avrebbe dovuto recuperare alla libertà tanti italiani «mal educati» alla democrazia? In trent’anni le generazioni si sono avvicendate e se oggi l’antifascismo strumentale (non più, quasi sempre, illuminato) è più virulento di quello di ieri contro un «fascismo» anagraficamente morto e sepolto nel 1945, ma che si reputa ancora così vitale e così insidioso da aver «corrotto» persino comandanti partigiani decorati di medaglia d’oro, il meno che si possa dire è che l’antifascismo ha fallito perlomeno nella sua missione prima «rieducativa» e poi «educativa». La verità è che certo antifascismo non ha nulla a che fare con la libertà e la democrazia: ma è ormai l’alibi sin troppo scoperto di una strategia sovversiva che usurpando i vessilli e gli ideali della resistenza ha già instaurato un regime dittatoriale, carico di odio e di istinti distruttivi. A tal punto che oggi, 25 aprile 1975, c’è chi, come noi, può celebrare non una resistenza che durò due anni ma un’altra resistenza che si prolunga da trent’anni. La resistenza di quanti sono costretti a battersi ogni giorno, ogni ora, contro chi – con le discriminazioni, le uccisioni, i pestaggi, le menzogne – non ci perdona di predicare e di volere la pacificazione, non ci perdona soprattutto di opporci con tutte le nostre forze al comunismo, primo responsabile di questa povera Italia sconquassata dai brividi dell’odio.

L’ASSASSINIO DI ALDO MORO [Luciano Lama, Una minaccia che rimane grave, «Rinascita», 12 maggio 1978]

Aldo Moro è morto e il suo sacrificio lo colloca fra i martiri della Repubblica, vicino a tanti altri italiani padri e fratelli nostri che hanno voluto una patria libera e democratica e giusta, e che per questa causa hanno dato la vita.

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I suoi carnefici, con la loro sadica ferocia, non si dimostrano da meno di quei tedeschi dei campi di Mathausen e di Auschwitz che torturarono e uccisero milioni di uomini, di donne, di bambini innocenti e indifesi. Ancora una volta, in questo drammatico periodo della nostra vita e della vita dell’Italia, dobbiamo far violenza alla spinta dei sentimenti, della passione e usare l’arma della ragione. E la ragione ci dice che la minaccia è grave ma non invincibile. Gli assassini sono pochi, e l’efferatezza dei crimini che commettono contribuisce a isolarli oggettivamente nella coscienza delle masse. Essi non hanno alcun disegno alternativo, alcuna proposta, per quanto assurda e disumana, da offrire al nostro popolo: sono solo capaci di distruggere, di uccidere e, infatti, distruggono e uccidono. Ma proprio per l’orrore che destano nel popolo possono essere battuti e puniti, a condizione che il popolo e cioè ogni lavoratore, ogni cittadino, si senta singolarmente impegnato in questa lotta per difendere i valori supremi della Repubblica che sono anche conquista nostra, la libertà, la democrazia, una convivenza pacifica e impegnata a rendere più bella e più giusta la vita degli uomini. In questo campo c’è ancora molto da fare perché la mobilitazione non è totale, perché troppa indifferenza ancora rimane di fronte alla violenza, perché troppi ancora – seppure infima minoranza – solidarizzano con le Brigate rosse o ne giustificano i crimini. Le forze dell’ordine e la magistratura devono applicare con severità le leggi dello Stato, che sono sufficienti, ma che devono appunto essere applicate; ogni lassismo deve essere combattuto e colpita ogni connivenza laddove si manifesta. Le istituzioni devono rinnovarsi, la democrazia deve difendersi! Ma oggi, senza il contributo delle masse, e cioè di ogni cittadino cosciente, il pericolo incombente potrebbe sopraffarci e distruggere la Repubblica. Per questo ognuno deve compiere il proprio dovere, in ogni momento della giornata. Per questo i lavoratori devono rafforzare la loro unità; per questo le forze democratiche devono intensificare la ritrovata collaborazione nella impresa difficile di rinnovare le istituzioni salvaguardando la libertà. Se sarà così, se il destino dell’Italia sarà preso nelle proprie mani da ogni lavoratore cosciente, l’esito dello scontro è già deciso.

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Le Brigate rosse potranno ancora distruggere e uccidere, la loro barbarie inumana potrà farci ancora soffrire, ma esse non prevarranno.

NEL 35° ANNIVERSARIO DELL’ECCIDIO DI BOVES* [Discorso del Presidente della Repubblica Sandro Pertini a Boves il 12 novembre 1978]

Cittadini di Boves, partigiani italiani, eccoci qui a ricordare ancora una volta la lotta di allora, ma non per fare della vana retorica e del vano reducismo. Vogliamo ricordare soprattutto perché i giovani non sanno. Io mi sono sempre chiesto questo: come mai nelle scuole italiane non viene introdotta la storia dell’antifascismo e della Resistenza? Se avessimo introdotto questa storia nelle scuole già dopo la Liberazione, se avessimo fatto sapere che cosa è costata la libertà al popolo italiano, molti giovani che oggi sono su una strada di dannazione, sarebbero invece al nostro fianco, a difendere la democrazia e la Repubblica. Ricordo più che a voi, a me stesso il martirio di Boves, la tremenda e terribile giornata che qualche anziano qui presente custodisce nel suo animo, quella del 19 settembre del 1943. Don Giuseppe Bernardi, parroco di Boves, con Antonio Vassallo, d’accordo con il comando tedesco va a trattare con i partigiani per ottenere la restituzione di due prigionieri tedeschi. E Peiper e gli altri dicono, mentendo ancora una volta: fateci restituire i due prigionieri e noi non compiremo nessuna rappresaglia, ce ne andremo. Don Bernardi e Antonio Vassallo prendono contatto con i partigiani, riescono ad ottenere il rilascio dei due prigionieri tedeschi, e Don Bernardi, con carità cristiana, porta via anche la salma di un tedesco ucciso per consegnarla al colonnello Peiper. Ed il colonnello Peiper riceve i due prigionieri, riceve la salma del suo, e poi, ancora una volta mentendo, come hanno sempre men* Tratto da Scritti e discorsi di Sandro Pertini, vol. II, a cura di S. Neri Serneri, A. Casali, G. Errera, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1992.

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tito i criminali e i briganti, dà inizio alla spietata rappresaglia. No, noi non siamo fatti della loro stoffa. Egli è morto. Ed allora dimentichiamo questo colonnello che ha pagato con la morte i suoi misfatti... Don Bernardi e Vassallo vengono fatti salire su un camion tedesco e costretti ad assistere alla rappresaglia: distrutte e incendiate le case, 26 cittadini vengono trucidati. E poi anche Vassallo e Don Bernardi vengono crudelmente assassinati e i loro cadaveri bruciati. Ma la Bisalta resiste. Poi vengono i giorni e le notti tremende che vanno dal 31 dicembre 1943 al 3 gennaio 1944. Boves nuovamente devastata e con Boves la Rivoira, 157 partigiani cadono in combattimento. Cadono anche ragazzi non ancora ventenni, o giovani che mi ascoltate: Giulio Marchisio, Carlo Cavalera, Barale. E i tedeschi incendiano 256 case di Rivoira e Castellar. Ma la Bisalta resiste, la Bisalta questo cuore forte e ardente di Cuneo Medaglia d’Oro e capitale morale della Resistenza, madre di Duccio Galimberti eroe nazionale. Ed io mi sento veramente orgoglioso di essere stato nominato cittadino onorario di Cuneo. Questo noi dobbiamo insegnare ai nostri giovani. Nelle nostre scuole, giustamente, si fa studiare la storia del Primo Risorgimento. Anche noi ci siamo esaltati studiando le gesta dei nostri padri che portarono all’unità nazionale il popolo italiano. Abbiamo rabbrividito, giovanotti, quando ci raccontavano delle spietatezze dei generali di Radetzki. E perché non far conoscere ai nostri giovani quello che è stato fatto a Boves, alle Fosse Ardeatine, a Fossoli, al Turchino e a Marzabotto? Ci siamo esaltati quando i nostri maestri ci hanno parlato dei Martiri del fulgente Belfiore. E come e perché tacere ai nostri giovani come seppero affrontare la morte i partigiani del Secondo Risorgimento? Quinto Bevilacqua, operaio, qualche istante prima di andare al Martinetto e affrontare il plotone di esecuzione scrive ai suoi una breve lettera: «Non piangete perché nemmeno io piango mentre vi scrivo e vado incontro alla morte con risolutezza». Don Aldo Mei, 32 anni: «Muoio vittima dell’odio che tiranneggia il mondo. Muoio perché trionfi la carità cristiana». Eusebio Giamboni, operaio: «Fra poche ore io certamente non sarò più. Ma sta pure certa che sarò calmo – scrive alla moglie – e tranquillo di fronte al plotone di esecuzione». Tenente Franco Balbis, 32 anni:

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«Possa il mio grido di ‘Viva l’Italia libera’ sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte». Duccio Galimberti: «Ho agito a fin di bene e per un’idea. Per questo sono sereno e dovete esserlo anche voi». Perché non far conoscere questo ai nostri giovani? [...] Noi ci siamo esaltati quando ci hanno parlato del martirio di Don Tassoni e di padre Ugo Bassi. Perché non ricordare ai nostri giovani come seppero affrontare il plotone di esecuzione don Minzoni, don Morosini, don Bobbio? Noi ci siamo esaltati sentendo parlare dei fratelli Bandiera e dei fratelli Cairoli. E perché non ricordare ai nostri giovani come seppero morire i fratelli Di Dio e i sette fratelli Cervi? Le Cinque Giornate di Milano e le Dieci Giornate di Brescia? E perché non ricordare, [...] l’insurrezione di Firenze, l’insurrezione di Genova, l’insurrezione di Bologna, l’insurrezione di Milano? È il secondo Risorgimento. Ma non è storia di un partito o di una fazione, è storia del popolo italiano. Noi abbiamo letto con commozione le «Ricordanze» di Luigi Settembrini e «Le mie prigioni» di Silvio Pellico. E perché non far leggere e meditare nelle nostre scuole «Le ultime lettere dei condannati a morte» e le virili, forti lettere di un mio indimenticabile compagno di carcere, le lettere di Antonio Gramsci? Giustamente nelle scuole, parlando del primo Risorgimento, si mette in evidenza il contributo, la forza e l’eroismo dell’esercito piemontese che, dopo un’iniziale sconfitta, prese slancio per le vittorie che poi portarono all’unità della nostra nazione. E perché non far sapere quello che ha fatto l’esercito italiano nel secondo Risorgimento? Troppe volte, partigiani che mi ascoltate, quando si rievoca la Resistenza si tace di quanto ha fatto l’esercito italiano nel secondo Risorgimento. Io, per esempio, ho come consigliere militare un coraggioso aviatore partigiano che si è battuto in Jugoslavia, il generale Bernardini. Bene, perché non dire ai nostri giovani quello che hanno fatto le Divisioni «Ariete» e «Piave» che si batterono nel Lazio? I Granatieri del Battaglione «Sassari» – ed io ero presente allora con loro – si batterono a Porta San Paolo col popolo minuto di Roma: eravamo armati io e il popolo di sassi e di rabbia, perché il Re era fuggito a Pescara con Badoglio, comportandosi in maniera non degna certamente del suo antenato, Vittorio

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Emanuele II, che invece collaborò a portare a unità la nostra Nazione. Le Divisioni «Acqui» a Cefalonia e a Corfù, non lo sanno i nostri giovani, si batterono senza speranza per mantenere fede al giuramento di fedeltà alla Patria e alla Nazione. I superstiti delle divisioni «Murgie», «Macerata» e «Zara» danno vita alla formazione partigiana «Mameli». E i reparti militari con i partigiani fanno della Bisalta una roccaforte inespugnabile. Seicentomila tra ufficiali e soldati vengono deportati nei campi di concentramento. E mi si presenta alla mente la figura dolorante di un mio fratello ucciso crudelmente a Flossemburg. Trentamila di questi militari non fecero più ritorno. Settemila furono i deportati carabinieri. E mi basti per i carabinieri ricordare solo un episodio, ma veramente significativo, che i nostri giovani non conoscono, l’episodio del brigadiere Salvo D’Acquisto, ed io non comprendo [...] perché questo non venga insegnato nelle scuole. Questo giovane brigadiere non aveva che 25 anni, ma pur di salvare la vita a 25 ostaggi si presenta al comando tedesco e dice: «Sono io l’autore di quell’attentato», e paga con la vita, e salva l’esistenza dei 25 ostaggi. Perché non insegnare nelle scuole nostre tutto questo? È la storia del secondo Risorgimento italiano. Però vi è una differenza tra il primo e il secondo Risorgimento. Nel primo Risorgimento protagonista è stata la media borghesia italiana, ed anche parte dell’aristocrazia piemontese, lombarda e veneta, anche se poi i figli del popolo risposero agli appelli di Garibaldi e di Pisacane. Protagonista, invece, del secondo Risorgimento è stata la classe lavoratrice italiana. A mio avviso, ed è mia opinione personale che da buon democratico non voglio imporre a nessuno, a mio avviso al secondo Risorgimento partecipa la classe lavoratrice, ma vi partecipava già dalla lotta antifascista. Cioè io penso che se non vi fossero stati i vent’anni di lotta contro il fascismo, noi avremmo avuto durante l’occupazione tedesca dei focolai di resistenza, questo non vi è dubbio, ma non avremmo avuto la Resistenza come ci si presenta oggi, in modo organico e come fatto storico. Tanto è vero che i reduci dalle galere e dal confino diventano poi i quadri delle formazioni partigiane. Bene, io ho detto che protagonista è stata la classe lavoratrice italiana. Ecco, dinanzi al tribunale speciale, dove io ho avuto l’o-

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nore di comparire, vengono pronunciate 4596 condanne, 3898 contro operai e artigiani, 546 contro contadini, 220 contro professionisti, 164 contro studenti, 37 contro donne casalinghe. E trecento furono i confinati. Appartenevano tutti alla classe lavoratrice. Poi vi sono gli scioperi del 1943 e del 1944. Non furono scioperi per un aumento di salario, ma per sabotare l’attività dell’esercito nazista, gli scioperi alla Fiat, gli scioperi a Milano. Bene, signori, non dimentichiamo mai questo: dopo la Liberazione, quando i tedeschi stavano per lasciare o si apprestavano a lasciare le nostre città, chi è che ha difeso il porto di Genova? Sono stati i portuali. Chi ha difeso i complessi industriali? Sono state le maestranze a difendere le fabbriche. È dunque la classe lavoratrice che diventa protagonista del secondo Risorgimento. E la classe lavoratrice, signori – è storia questa, non vuole essere polemica – che era stata messa ai margini della storia italiana: era stata considerata oggetto della storia italiana. Ebbene, oggi, dopo il secondo Risorgimento la classe lavoratrice ha cessato di essere oggetto di storia del nostro Paese per diventare soggetto e protagonista della storia italiana. Ci siamo battuti per cacciare via i tedeschi e i resti del fascismo, anche se poi abbiamo avuto qualche rigurgito che si va spegnendo. Ci siamo battuti per la libertà, per la libertà che per me è un bene prezioso e inalienabile. Dinanzi al Parlamento, quando sono stato insediato come Presidente, ho detto: «Se a me socialista da sempre, da 62 anni, offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata». [...] Amici, patrioti, noi non ci siamo battuti soltanto per la nostra libertà, ci siamo battuti anche per la libertà dei nostri avversari. Io sono sempre rimasto fedele, amico Bucalossi, all’insegnamento di Voltaire, che diceva al suo avversario: «Io combatto la tua idea perché è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi fino al sacrificio della mia vita perché la tua idea tu possa esprimerla sempre liberamente». Ma non basta la libertà in senso astratto, in senso politico e morale. Se non vogliamo che la libertà resti una conquista fragile che può essere spazzata via al primo vento della reazione, se vogliamo cioè una conquista solida, che per diventare tale deve affondare le proprie radici nella classe lavoratrice italiana, dobbiamo dare alla

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libertà il suo naturale contenuto economico e sociale. Non vi può essere libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. Ed allora, signori, e lo dico al rappresentante del Governo, perché il Governo ha più poteri di quelli che ha il Presidente della Repubblica, nonché alla classe politica: bisogna risolvere molti problemi di carattere sociale che stanno dinanzi al popolo italiano. Il problema dell’occupazione, per esempio. Chi vi parla ha conosciuto la disoccupazione quando, portato dagli eventi del suo Paese in terra straniera, ha dovuto fare l’operaio. La disoccupazione è un male tremendo. Ma, badate, è anche un terreno fertile per il terrorismo, di cui parlerò fra poco. Vi è poi il problema della casa. Ma perché una famiglia, un operaio quando ha finito di lavorare non può avere una casa confortevole, dignitosa, dove deve trovare un meritato riposo alla sua fatica di ogni giorno? E ancora: la salute. Oh, amico Stammati, le famiglie benestanti, anche se vi sono scioperi negli ospedali, non si preoccupano. È vero, professore e amico Bucalossi? Mandano i loro malati nelle cliniche italiane, e se le cliniche italiane, per loro non sono confortevoli, li mandano in Svizzera, dove qualcuno di essi, per carità data la carica che ricopro e, non devo fare insinuazioni, può darsi che abbia depositato qualche gruzzolo; può darsi, io non ne sono sicuro. Ed allora bisogna attrezzare gli ospedali, fare in modo che ogni famiglia possa curare il suo congiunto, ma lo possa veramente curare anche se non ha mezzi. Anche la scuola deve essere attrezzata. Bisogna fare in modo che la popolazione studentesca possa avere una scuola veramente confortevole. Bisogna attrezzare le nostre scuole, perché la democrazia deve reggersi anche direi e soprattutto sulla cultura. Noi dobbiamo diffondere la cultura nel nostro popolo. Perché il nostro popolo coltivando la mente rafforza anche il proprio animo democratico, il proprio amore per la libertà. Libertà, ho detto. Ma noi non concederemo mai la libertà di uccidere la libertà, questo non lo potremo mai concedere! Parliamo di questo male che tormenta e inquieta e sconvolge la nostra Patria, il terrorismo. Io pensavo che ormai, dopo la Liberazione, non si sarebbe più verificato quello che nella mia giovinezza avevo visto e avevo anche sofferto. Allora erano le squadracce fasciste che si scatenavano, e ora invece vi è questo male tremendo che è il terrorismo. Ancora in me dura la commozione, cittadini di Bo-

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ves, che mi ha colto venerdì quando andai a Frosinone per rendere omaggio alla salma del Procuratore della Repubblica, dell’agente e dell’autista. E vidi, lì, i familiari dell’agente, dell’autista e del procuratore. Non avevano più lacrime, ormai, al loro dolore: erano impietriti. Cercavo di parlare loro, ma le parole, signori, non servono a nulla. Una madre mi ha detto: «Ma chi mi ridarà più mio figlio?». È tremendo questo. E mi sia consentito di ricordare che sette sono i magistrati crudelmente assassinati. Ora, signori, possiamo fare polemiche quante vogliamo, possiamo dare dei giudizi, ma almeno in questo momento cerchiamo di rispettare la magistratura perché sta pagando un alto prezzo pur di svolgere il suo compito e la sua missione. E mi sia consentito di ricordare qui, in questa terra di Piemonte, non per non ricordare tutti gli altri, un nome solo che vale tutti gli altri, Carlo Casalegno, che è stato crudelmente ucciso. Che male aveva fatto questo nostro collega in giornalismo? Quale male, qual era la sua colpa? Era un uomo libero, pacato, umano, sereno. Io leggevo sempre con interesse i suoi articoli sulla stampa, ed è stato assassinato. E poi si presenta alla mia mente la figura a me più cara. Era un mio amico, era da me tanto stimato per il suo ingegno, per la sua cultura, per la sua coscienza di uomo onesto, Aldo Moro. Questi brigatisti lo hanno crudelmente ucciso fisicamente. Signori, stiamo attenti di non uccidere moralmente Moro, lasciamolo, lasciatelo in pace. Smettiamola, signori, con questo voler indagare quasi con la lente del detective le lettere e i memoriali che giungono, lasciamo che riposi in pace questo nostro amico che ha pagato con la vita. Che cosa aveva fatto per meritare la morte? Ma guardate che se voi continuate in questa indagine spietata voi ucciderete moralmente Moro dopo che gli altri lo hanno ucciso fisicamente. Brigatisti rossi! No, noi li abbiamo visti combattere, i rossi, nella guerra partigiana con molto coraggio e con molto valore per i nobili ideali. No, costoro sono dei briganti e dei criminali. E di fronte a dei criminali, costi quel che costi, non bisogna cedere. Bisogna difendere questa Repubblica! Qualcuno ha affermato: né con la Repubblica, con lo Stato, né con i terroristi. Antifascista del primo momento, non dell’8 settembre, io ricordo che nel primo dopoguerra vi erano delle persone ben pensanti che dicevano: né con il fascismo né con gli antifascismi, e poi finirono per adeguarsi

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al fascismo, anche senza prendere la tessera fascista, finirono per adeguarsi supinamente al fascismo. No, questa forma di neutralità in questo momento, non esito a dirlo, è una forma di viltà. Bisogna difendere questa Repubblica perché, patrioti e partigiani che mi ascoltate, questa Repubblica non ci è stata donata su un piatto d’argento, l’avete conquistata voi con la vostra lotta e con il vostro sacrificio, l’hanno conquistata quelli della Bisalta, l’hanno conquistata i martiri di Boves, l’hanno conquistata tutti coloro che hanno partecipato al secondo Risorgimento! È una vostra conquista e dobbiamo difenderla. È vero, avrà dei difetti, delle imperfezioni, ed eccoci qui pronti a correggere questi difetti e queste imperfezioni, vi è un Parlamento, un libero Parlamento per farlo, e noi dobbiamo adoperarci perché questa Repubblica diventi umana e forte. Umana con i deboli, ma forte con i colpevoli e con i terroristi senza pietà. E non dimenticate – ripeto quello che è stato già detto da altri – che abbiamo una delle più perfette Carte Costituzionali che esistono nel mondo. Ce lo dicono i giuristi degli altri Paesi. Ebbene dietro ogni articolo della Carta costituzionale stanno centinaia e centinaia di partigiani che sono caduti per la libertà del popolo italiano. E adesso l’ultima mia parola, come sempre, è ai giovani. Io credo in voi giovani. Se non credessi in voi dovrei disperare dell’avvenire della Patria, perché non siamo più noi che rappresentiamo l’avvenire della Patria, siete voi giovani che con la vostra libertà, con il vostro entusiasmo lo rappresentate. Non badate ai miei capelli bianchi, ascoltate il mio animo che è giovane come il vostro. Voi non avete bisogno di prediche, voi avete bisogno di esempi, esempi di onestà, di coerenza e di altruismo. La classe politica non deve fare prediche ai giovani, deve dare questi esempi se vogliamo che i giovani credano in noi. Non usate però la violenza, o giovani, per far valere le vostre ragioni, per esprimere le vostre passioni e gli entusiasmi. Siete giovani, e guai se voi non foste animati da passioni e da entusiasmi! Ma non armate la vostra mano, altrimenti scendete sul terreno dei criminali terroristi. Armate il vostro animo di una fede sicura, scegliete voi. Io non sono mai stato un mercante della politica che va sulle piazze ad offrire la propria posizione politica quasi essa racchiudesse la verità assoluta. Siete liberi di scegliere, purché questa scelta presupponga il principio di libertà, perché se non pre-

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suppone il principio di libertà dovete respingerla, altrimenti potreste avviarvi verso la rovina morale e politica. Scegliete una fede, giovani che mi ascoltate, se volete che la vostra vita non trascorra vuota, grigia e se non volete avere delle frustrazioni. [...] Ecco, giovani che mi avete ascoltato, noi anziani stiamo camminando verso il tramonto, ma credetemi se dico che ci siamo battuti tutta la vita per il vostro domani. La nostra vita è rappresentata ormai dal nostro pensiero. E mi dovete credere se vi dico che questo nostro passato è stato intessuto più di rinunce che di soddisfazioni. Ma questo non ve lo dico accoratamente, ma con l’orgoglio di chi sa di avere combattuto, di chi sa di aver pagato un alto prezzo di sacrifici e rinunce perché voi poteste vedere un domani che noi, da giovani, non abbiamo potuto conoscere, di serenità e di felicità. Finché ci animerà un alito di vita noi anziani staremo al vostro fianco per abbattere gli ostacoli che sono sul vostro cammino, onde voi possiate percorrerlo con passo sicuro e spedito. Staremo al vostro fianco per batterci con voi. Ed a voi oggi noi consegnamo la bandiera della Resistenza. Consegnamo a voi il patrimonio politico-morale della Resistenza, perché lo difendiate, perché possiate trarre da questo patrimonio le norme per la vostra vita e i principi per la vostra lotta politica, purché sia una lotta democratica, combattuta sul terreno della democrazia. Ecco il mio saluto, giovani che mi ascoltate: avanti voi oggi perché l’avvenire è vostro. E con voi ora e sempre Resistenza!

LA SFIDA ALLA MEMORIA PUBBLICA DELLA RESISTENZA. DALLA «GRANDE RIFORMA» DI CRAXI ALLA PROPOSTA DI «RICONCILIAZIONE» DI FINI

PERCHÉ SI È RIAPERTO IL DIBATTITO SU FASCISMO E ANTIFASCISMO

[Ugo Pecchioli, «Rinascita», 9 marzo 1985]

Il 40° anniversario della Resistenza – in corso di svolgimento – ha già visto un numero assai grande di manifestazioni e celebrazioni unitarie nelle quali forze antifasciste e istituzioni democratiche si sono unite nella rievocazione degli episodi più significativi del difficile cammino per riconquistare la libertà. Ciò ha un grande valore. Tuttavia questo anniversario non è ancora diventato anche l’occasione di una controffensiva ideale, culturale, politica per gettare il necessario allarme sui tentativi in atto di manipolazione della storia e persino di rivalutazione più o meno strisciante del fascismo. Tali tentativi si accompagnano a insidiose operazioni volte a colpire valori e idealità della Resistenza spesso rappresentata unicamente come «guerra civile», mettendo cioè sullo stesso piano chi si è battuto per riaprire all’Italia le vie di uno sviluppo civile e democratico e chi è stato dalla parte dei fascisti di Salò a fianco dei nazisti. Si cerca infine di accreditare la tesi che l’antifascismo apparterrebbe ad una epoca storica ormai superata senza più alcun rapporto con i problemi e le esigenze dell’Italia moderna. La stessa liberazione del criminale nazista Reder ha assunto il carattere di un segnale in questo senso. Sono posizioni allarmanti e pericolose che attentano a princi-

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pi e regole cardine su cui si regge la nostra vita democratica. Non sembra una forzatura collocare in questo contesto anche la spregiudicata utilizzazione dei voti del Msi ad opera di questo governo. La ricerca di sostegni nelle file del Msi non costituisce certo una novità. Ma ora si è passati dalle vecchie, tradizionali contrattazioni sottobanco tipiche di molti governi precedenti, alla nuova linea del presidente del Consiglio che già all’atto della costituzione di questo governo ha proclamato apertamente la fine della «ghettizzazione» del Msi. Tutto questo significa dare legittimazione ad un gruppo politico che ha sempre contestato – spesso in termini eversivi – il regime democratico rivendicando la sua continuità col passato fascista. Significa inoltre voler colpire quel fondamentale punto di riferimento politico, morale, istituzionale rappresentato dal ruolo di garanzia democratica delle forze che hanno dato vita alla Costituzione. C’è dunque – perseguito per vie molteplici – un disegno tendente a rimettere in discussione la natura antifascista del nostro regime democratico. Occorre saperlo, valutarne significato e pericoli, reagire con la fermezza e il vigore necessari. Si pone anzitutto un problema di battaglia culturale. È certo necessario respingere atteggiamenti di faziosità e schematismi nell’analisi storica del fascismo. Già Togliatti fin dal 1935 nelle sue «Lezioni sul fascismo» aveva dato un contributo, ancora oggi prezioso, mettendo l’accento sulle sue peculiarità come «regime reazionario di massa». Ma il giudizio sulla sostanza del fascismo non può che essere preciso. Il fatto che esso abbia portato l’Italia alla guerra, alla dipendenza, alla rovina non è stato un incidente. È stato lo sbocco della sua natura di regime fondato sulla oppressione, su una politica aggressiva e organicamente collegato agli interessi di classe di forze decisive del capitalismo italiano. Invece in questi anni ci sono stati numerosi travisamenti di certa storiografia «afascista» che, attraverso una rivalutazione delle fonti fasciste, ha fornito una visione edulcorata e giustificazionista del ventennio, corrispondente non tanto alla realtà quanto all’immagine che il fascismo intendeva dare di sé. I risultati di questo tipo di ricerca storica sono stati, in più occasioni, utilizzati dai mass media per traduzioni e divulgazioni semplificate e disorientatrici. Non si può dunque dare per scontata la conoscenza di che cosa sia stato il fascismo. Respingere i tentativi di colpire il patrimonio antifascista

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significa perciò anche aprire un serrato dibattito critico con le posizioni di rivalutazione e giustificazione del fascismo, anche utilizzando meglio gli apporti rigorosi di tanti storici, uomini di cultura, combattenti antifascisti. La Resistenza non può essere archiviata o considerata alla stregua di una delle tante eredità patriottiche del passato cui richiamarsi coi soliti riti celebrativi. Essa è l’atto di nascita della nuova democrazia italiana. Ha rappresentato nella vita del nostro paese una svolta storica che ha trovato la sua sanzione nei caratteri avanzati della Costituzione nata da convergenze e apporti di forze diverse, ma in sostanziale continuità con gli ideali e le spinte rinnovatrici della Resistenza. Non solo. Quei tratti originali di permanente partecipazione e tensione democratica che caratterizzano da quarant’anni la vita del nostro paese, trovano spiegazione nel fatto che con la Resistenza si verificò un profondo mutamento nei ruoli delle classi e delle forze politiche. Una classe dirigente nuova e forze sociali nuove – attraverso un processo unitario non facile – si collocarono alla testa dell’Italia. Ed una parte determinante fu svolta dal partito comunista e dalla classe operaia. È vero che successivamente – nel mutato quadro dei rapporti internazionali – si sono aperte aspre tensioni fra i partiti antifascisti e la Dc ha guidato una dura politica di rottura con le forze più avanzate della società per ribaltare i nuovi processi avviati dalla lotta di liberazione. Ma una fondamentale conquista della Resistenza, cioè la nuova collocazione dirigente, di governo, delle classi lavoratrici non ha potuto essere intaccata. Essa si è espressa nelle battaglie per tenere aperta la strada di un rinnovamento della società e dello Stato e per realizzare le più ampie convergenze attorno ad obiettivi di progresso civile, sociale e democratico. A queste battaglie il Pci ha dato il contributo della sua forza e della sua capacità di rinnovarsi rimuovendo «doppiezze», affermando con rigore la propria autonomia e sforzandosi di trarre in tutti i campi le necessarie conseguenze del nuovo, indissolubile rapporto fra democrazia e socialismo costruito nella Resistenza. Sta qui l’originalità del «caso italiano». Nel fatto che l’antifascismo rappresenta sul piano politico e morale il cemento della democrazia e resta – nelle mutate condizioni di oggi – il punto di riferimento delle lotte per rinnovare la società italiana nel quadro di una politica di pace, di unità dell’Europa, di solidarietà con i

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popoli oppressi, di superamento del sottosviluppo in tanta parte del mondo. Ai tentativi di considerare ormai anticaglia, anzi addirittura un impaccio il patrimonio dei valori antifascisti occorre dunque dare ferma risposta. Si vorrebbe recidere il processo politico italiano dal suo vitale retroterra rappresentato dalla Resistenza per svuotarlo di contenuti e obiettivi rinnovatori e intaccare i fondamenti stessi del nostro regime democratico. Per quanti – ovunque collocati – considerano l’antifascismo come autentica misura della loro coerenza democratica, non può che esser motivo di profonda preoccupazione il fatto che questo governo, sia pure tra lacerazioni e contrasti, tenda con vari suoi atti a collocarsi in una simile logica. Ne è esempio la prassi ormai costante di manomettere le prerogative del Parlamento, la forzatura continua delle regole parlamentari, gli attacchi al sistema delle autonomie puntando all’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Ciò mentre insiste l’attacco al ruolo dei partiti di massa quali promotori della partecipazione democratica, ed è andata pericolosamente avanti, per quanto riguarda la Dc e poi anche il Psi, una concezione degradata della politica e del partito in funzione di manovre di potere, di mercati, di traffici oscuri. Sono soltanto alcuni esempi. Ma indicatori di pericolosi sbocchi di una linea che in nome di una presunta modernità tende a voltare le spalle all’antifascismo. Occorre invece riproporre con forza la centralità, l’attualità delle grandi scelte della Resistenza in una situazione nella quale sono ormai maturate condizioni nuove per portare a compimento quel vitale processo di cambiamento, di avvicendamento di classi e di forze di governo per il quale la Resistenza ha posto fondamentali premesse. È auspicabile che su questo complesso di questioni il 40° sia occasione di un confronto serrato, di una ricerca costruttiva fra le forze di sinistra e antifasciste. Il tentativo insidioso di colpire le fondamenta antifasciste della nostra democrazia può essere respinto attraverso una ferma battaglia culturale, ideale, politica ed anche col peso di una vera rivolta morale.

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L’ALIBI DELL’ANTIFASCISMO [Lucio Colletti, «Corriere della Sera», 24 marzo 1985]

Tra qualche settimana, mentre saremo nel pieno di una campagna elettorale che già ora si annuncia ai ferri corti e quando incomberà, forse, più di oggi la prospettiva di un referendum dagli effetti distruttivi, ricorrerà il 40° anniversario del 25 Aprile. C’è da scommettere sullo spettacolo a cui assisteremo anche questa volta. Messe da parte (non senza ipocrisia) le divisioni profonde che tuttora lacerano il Paese, la ricorrenza verrà presa a pretesto non solo per celebrare l’«unità antifascista», ma per inculcare e ribadire un principio che sembra ormai fuori discussione: quello dell’identità tra antifascismo e democrazia. La tesi è, in apparenza, ovvia: in realtà, cela un equivoco. Se la democrazia infatti non può non essere antifascista, non sempre è vera l’affermazione inversa. Non tutte le forze antifasciste sono per ciò stesso democratiche. In quanto ha combattuto contro il nazifascismo, l’Unione Sovietica, ad esempio, è stata certamente una potenza antifascista. Sarebbe difficile tuttavia giudicarla uno Stato democratico. Considerazioni analoghe valgono anche per la Resistenza italiana. Le forze che la guidarono, e che erano raccolte nel CLN, andavano dai liberali ai comunisti: includevano partiti che si ispiravano agli ideali della liberaldemocrazia e partiti che avevano, al contrario, come fine ultimo la cosiddetta «dittatura del proletariato». Nessuno può naturalmente dimenticare il grande tributo di sangue che il Pci ha offerto alla Resistenza. Ed è certo che, tra quelle forze, vi fu unità d’azione nella lotta contro il fascismo. Ma non diversamente da come, sul piano internazionale, le democrazie occidentali e l’Unione Sovietica si trovarono a combattere insieme contro la Germania di Hitler. Il fatto che si colpisse lo stesso obiettivo non abolì mai le differenze profonde che esistevano tra loro. Ciò è tanto vero che gran parte della lotta politica in Italia, nel secondo dopoguerra, verté proprio intorno a quel punto. Chi teneva ai valori della democrazia occidentale e sul fondamento di essi intendeva ricostruire il Paese – De Gasperi, Saragat, La Malfa e altri – fu costretto a rompere l’«unità antifascista», per uscire

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dall’equivoco della collaborazione con quanti guardavano all’Unione Sovietica come allo Stato-guida e alla dittatura del partito unico come al fine ultimo. Opposta, invece, fu la scelta che venne compiuta dall’altra parte. Qui la democrazia venne ridotta, puramente e semplicemente, all’«antifascismo» e quest’ultimo innalzato a principio supremo. Le conseguenze e i vantaggi, che ne derivavano, erano fin troppo evidenti. L’Unione Sovietica, ora, non era da considerarsi più soltanto una potenza antifascista, ma uno Stato democratico: e anzi, come allora si andava affermando, la democrazia più avanzata e progressista del mondo (malgrado la dittatura totalitaria del partito unico, i lager e tutto il resto). Sul piano interno, le conclusioni che vennero ricavate dall’identità di antifascismo e democrazia non furono meno importanti. La prima fu quella secondo cui non avrebbe potuto esserci democrazia senza «unità antifascista». La collaborazione dei tre maggiori partiti – il che poi significava collaborazione tra i cattolici e i socialcomunisti (allora stretti dal «patto d’unità d’azione») – avrebbe dovuto essere, per tutta una fase storica, la forma di governo della «democrazia progressiva» in Italia. (La «democrazia consociativa» di Berlinguer sarà la ripresa di quest’idea di Togliatti). L’importanza della tesi non può sfuggire. Alla luce di essa, la rottura dell’«unità antifascista» e l’allontanamento del Pci dal governo sarebbero stati considerati atti «illegittimi», un attentato ai fondamenti stessi della democrazia. Veniva, in altre parole, introdotto un «principio di legittimità» nuovo. Non quello della democrazia, per la quale è legittimo ogni governo che disponga della maggioranza dei voti alle elezioni. Bensì quello dell’«unità antifascista», per cui sono legittimi solo i governi che includano anche il Pci. (Un principio – sia detto tra parentesi – che riecheggia tuttora nell’affermazione secondo cui «non si governa senza i comunisti», e che creerebbe forse qualche problema il giorno in cui, accolto il Pci nel governo, venisse in mente a qualcuno di sbarcarnelo). Non contraddice a ciò l’apporto che il Pci dette al varo della Costituzione. Per il principio dell’«antifascismo», essa venne iscritta in un arco che si estendeva fino ad abbracciare anche le democrazie «più avanzate», cioè le cosiddette «democrazie po-

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polari» dei Paesi dell’Est. Così che, sebbene fosse considerata in sostanza solo una costituzione «democratico-borghese», essa era giudicata come la prima tappa di un cammino (la «lunga marcia attraverso le Istituzioni») che si sarebbe dovuto ricongiungere, alla fine, con gli altri Stati socialisti. Oggi, si tende a far passare Togliatti come un padre della democrazia. Ma, nel 1962, al X Congresso del suo partito, l’ultimo da lui diretto, Togliatti giudicava ancora la democrazia italiana come «una dittatura di classe della grande borghesia monopolistica». E ad essa opponeva la democrazia, ben più «progredita» di quei Paesi nei quali, nonostante limiti ed errori, «si compie un vero processo di libertà» e in cui «gli uomini possono sentirsi veramente fratelli». Si obietterà che tutto ciò è acqua passata. E, in un certo senso, è così. Il Pci da allora è mutato. Ma, poiché il cambiamento è avvenuto sempre nella «continuità», è pur vero che non è cambiato al punto che si possa dire che non è più un partito comunista. O, insomma, è cambiato sì, ma tenendo sempre, per così dire, un piede dentro e uno fuori. Nel 1975, sembrò che Berlinguer stesse per spingere il processo di «revisione» fino in fondo. In due dichiarazioni congiunte con Carrillo e Marchais (tornati, nel frattempo, filosovietici), egli sposò senza riserve il «pluralismo» e tutte le libertà civili e politiche. Tuttavia, in quello stesso anno, al XIV Congresso del Pci, Berlinguer additava ancora nell’URSS una «civiltà storicamente superiore». E, quasi non bastasse, tre anni dopo, nell’estate del 1978, restaurava la teoria leninista della rivoluzione («A me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato elaborando una vera teoria rivoluzionaria»). A quale di queste dichiarazioni credere? La novità, tuttavia, non è che il Pci sia tuttora «in mezzo al guado». La novità è che, in mezzo al guado (per usare quest’eufemismo), siano finiti nel frattempo alcuni partiti che muovevano dalla sponda opposta. Si fa oggi un gran gridare intorno al «sorpasso». Ma si dimentica che, tempo fa, è stato ufficialmente dichiarato che non esisteva più, contro il Pci, «alcuna pregiudiziale ideologica». E che, proprio ad esso, è stato assegnato, or non è molto, il ruolo e la funzione dell’«alternativa». Che si vuole dunque? Affermare, del Pci, queste cose significa, se le parole hanno un

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senso, che quel partito è, dal punto di vista democratico, pienamente legittimato. Agitare contro di esso lo spettro del «sorpasso» vuol dire, al contrario, giudicarlo un partito antisistema. Quale delle due affermazioni è vera? Nella Repubblica federale tedesca o in Gran Bretagna, ad esempio, non avrebbe senso che un partito conducesse la sua campagna elettorale agitando lo spauracchio del «sorpasso» da parte dell’opposizione. Farebbe semplicemente ridere. Da noi, invece, sembra che si giochi sempre su due tavoli o, per riprendere una celebre metafora, che si strizzi l’occhio a «due fornai». Alla recente intervista di Natta, in cui veniva prospettata la possibilità (nel caso il Pci si confermi partito di maggioranza relativa) che esso chieda l’incarico per la formazione del governo o, altrimenti, solleciti elezioni politiche anticipate, è stato risposto dai partiti della maggioranza con un fermo rifiuto. Nessuno di essi, a quanto pare, è disponibile a condividere responsabilità di governo con il Pci. Ma, se questo è vero, che si smetta allora, dentro la maggioranza, di praticare le arti dell’adescamento verso l’opposizione. E, soprattutto, di lavorare a tempo pieno, perché il quadro politico si riduca ai «due poli» contrapposti. (I quali poi, è vecchia storia, saprebbero come mettersi d’accordo tra loro, magari per spartirsi il monopolio del governo e quello dell’opposizione).

PER UN ANTIFASCISMO CONSEGUENTE [Ruggero Guarini, «Mondoperaio», 38, n. 5, maggio 1985]

Un vasto, rosso, magico drappo ondeggiante, fra le cui dolci pieghe tutte le forze politiche legittimate, quarant’anni fa, dall’epilogo vittorioso della lotta antifascista, convergendo in un unico abbraccio, potevano far prevalere le loro somiglianze, a volte tenui, sulle loro differenze, spesso profonde: ecco il compito svolto, dalla Resistenza in poi, dal sentimento antifascista. Sotto quel drappo la nostra Sinistra poteva così ritrovare la propria unità genetica, assimilandosi indistintamente, nella sua totalità, all’area delle forze democratiche. Ma si sa che da qualche tempo quel sen-

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timento non riesce più a svolgere con l’efficacia d’una volta la sua antica funzione. L’antifascismo è insomma entrato in crisi, com’è provato, fra l’altro, dal clima sempre più convenzionale con cui si svolgono, da un anno all’altro, le celebrazioni del 25 aprile. Vuol forse dire, questo, che niente potrà mai più restituire al sentimento antifascista un senso che non sia soltanto quello, un po’ vacuo, d’una fiacca commemorazione? No: riattivare quel sentimento senza cadere, con ciò, in una retorica celebrativa ormai priva d’oggetto (dov’è più il vecchio fascismo da abbattere?), resta pur sempre un compito possibile. Basterebbe, per assolverlo, accentuare il contenuto antitotalitario di ogni vero e conseguente antifascismo, e quindi rivolgere il suo aculeo contro tutti quei germi di «fascismo rosso» che possono ancora allignare in certe aree della sinistra italiana. Ma ognun vede che il rilancio dell’antifascismo in un simile registro (che è poi l’unico adeguato ai veri problemi, nazionali e planetari, di quest’ultimo scorcio di secolo), anziché introdurre nel campo della Sinistra un elemento unificante, vi inserirebbe un fattore di differenziazione e di autoanalisi, cioè qualcosa che mal si concilia col facile pathos dei festeggiamenti unitari. In ogni caso, un eventuale rilancio del sentimento antifascista in una chiave risolutamente antitotalitaria incontrerebbe l’ostacolo più difficilmente sormontabile nella riluttanza, ancora molto forte in certe aree della Sinistra, ad ammettere che, ai fini di una giusta percezione della portata e del senso del dramma epocale della Modernità, l’opposizione fascismo/antifascismo è meno decisiva dell’antitesi totalitarismo/democrazia. Quanto all’origine di questa riluttanza, si sa dove risiede: nella convergenza del fascismo e del comunismo nella comune avversione per quell’oggetto supremamente inquietante che è la troppo aperta, dissolutrice, disincantata, priva di centro, moderna società industriale e mercantile, avversione che fa tutt’uno col rifiuto di quell’unica, possibile democrazia che resta indissociabile da quella società. Non sto identificando rozzamente fascismo e comunismo come se fossero semplicemente due varietà di una medesima specie; noto soltanto che condividono entrambi almeno un tratto ideologico: il rifiuto della Modernità, mostrando con ciò di dipendere ambedue, per certi aspetti, da quella cultura romantico-apocalit-

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tica che nella moderna società industriale, a partire forse da Rousseau, non cessò mai di vedere un obbrobrio da esorcizzare. Qui si potrà obiettare che quella cultura antimoderna suole in genere demonizzare capitalismo e comunismo, e al limite America e Russia, come due varianti di un solo e medesimo Orrore, designandolo con molti nomi diversi ma affini: Massificazione, Alienazione, Disumanizzazione, Età della Tecnica, Amministrazione Totale e così via. (Una delle espressioni più radicali di questo atteggiamento si trova in Heidegger, che negli anni trenta asserì esplicitamente l’«equivalenza metafisica» degli Stati Uniti e dell’URSS con luoghi di un estremo e identico «oblio dell’Essere»). È noto, tuttavia, che quando estreme circostanze storiche impongono una scelta fra l’una e l’altra variante di quel supposto medesimo Orrore, spesso quella cultura sceglie impavidamente la variante russa: segno evidente che per lei, alla resa dei conti, l’estremo, insopportabile Orrore è la cosa più moderna, cioè la Cosa americana. Sintomatica, in questo senso, resta la parabola politica di Drieu La Rochelle, del quale tutti sanno che collaborò coi nazisti nella Francia di Pétain, mentre è meno noto che negli ultimi giorni della sua vita, dopo la catastrofe di Vichy, nella Parigi liberata – orrore! – dai soldati americani, meditò (come annota nel suo diario e confessò ad André Malraux) di «passare coi bolscevichi». Incoerenza? Opportunismo? Niente di tutto ciò. A fargli vedere nella Russia di Stalin il nuovo San Giorgio da contrapporre al drago americano erano gli stessi sentimenti (nausea per la mediocrità moderna, disprezzo per la volgarità capitalistica, orrore per la banalità democratica) che in Mussolini e Hitler gli avevano fatto vedere gli araldi di una nebbiosa aristocratica Rinascita Europea... L’avversione per gli Stati Uniti è ancora oggi molto diffusa nella Sinistra italiana. Dopo aver rinunciato a tante favole, sopravvive in lei – in una parte di lei – la tendenza a identificare ciò che è più moderno con ciò che è più temibile. Che il vero oggetto di questo timore non sia, semplicemente, la democrazia? In ogni caso, vorrà pur dire qualcosa che ciò che fascismo e comunismo hanno in comune sia appunto questa fobia. E forse è questo il motivo per cui il nostro antifascismo non è stato, non è, non è ancora un antifascismo conseguente, radicale, puro.

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DE FELICE E IL SUPERAMENTO DELL’ANTIFASCISMO [«Corriere della Sera», 27 dicembre 1987 e 8 gennaio 1988; interviste di Giuliano Ferrara a Renzo De Felice]

F. Craxi ha incontrato il giovane erede di Almirante, Gianfranco Fini. Un’ora e mezzo di dialogo sulle riforme istituzionali. Atmosfera tranquilla. La sede era quella del gruppo socialista alla Camera. Un «normale scambio di vedute» con il leader di un partito che, riunito a congresso, aveva appena finito di rivendicare la qualifica di «fascista». È la normalizzazione, professor De Felice? D.F. Sì, e alla radice di questa normalizzazione c’è un fatto, intanto, quasi biologico. La vecchia guardia del regime e della Rsi è ormai in via di estinzione. Il nuovo segretario missino è di tutt’altra generazione. Cade il collegamento anagrafico con il fascismo. E questo cambia qualcosa. Ma non c’è solo questo. F. Che altro, professore? D.F. In Italia, nel bene e nel male, salvo Craxi e in parte Comunione e Liberazione, non esistono gruppi che facciano politica sul serio. Tutti gli altri sono immersi nel piccolo cabotaggio: hanno paura di alzare una vela che li porti troppo al largo... F. Può spiegarsi meglio? D.F. Voglio dire che anche Craxi è giovane, ha radici nell’antifascismo ma è estraneo alla retorica antifascista. E non può fermarsi a una pregiudiziale che perde sempre più significato e valore anche di fronte all’opinione pubblica. Sa che un discorso di innovazione del sistema politico incontra naturalmente il problema del revisionismo storico: se si deve passare a una nuova Repubblica, è ovvio che ci si debba liberare dei pregiudizi su cui si è fondata la vecchia. È un discorso un po’ aspro, che può offendere qualche sensibilità anche generosa, ma è così. F. Lei non ha obiezioni morali da opporre?

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D.F. Una obiezione morale deve servire come norma effettiva di comportamento e di vita. Non è efficace, anche moralmente, una mera petizione di principio. Io sono antifascista. Ma la realtà è che noi conviviamo tranquillamente con un partito piccolo borghese come il Msi, diviso tra un’anima moderata e bottegaia e un’anima di sinistra, da molti decenni. Oggi i missini sono integrati nella Rai e nelle partecipazioni statali. Riconoscere questa realtà non ha niente di immorale, anzi. F. Insomma, la prima riforma costituzionale consisterebbe nell’abolire le norme che vietano la ricostituzione del partito fascista, se capisco bene. D.F. Lei sa meglio di me che si tratta di norme grottesche, e che il ridicolo è nemico della credibilità di un sistema istituzionale. Un partito fascista c’è, è il Msi, ed è sopravvissuto a tutte le tempeste; sopravvive al tempo giudice implacabile. E dunque? F. Ma fino a ieri l’antifascismo sembrava sopravvivere al giudizio del tempo. Non è più così? D.F. Idealmente, alla base di questa nostra Repubblica c’è l’antifascismo. Ma nella pratica non è stato costruito niente di diverso dal vecchio Stato giolittiano e liberale, magari con qualche restauro. E sono sopravvissute con successo, sia pure risciacquate nella democrazia, le innovazioni introdotte dal fascismo italiano, dall’industria di Stato al sistema previdenziale. Certo, la classe dirigente fascista era illiberale. Ma siamo sicuri che fosse, per tutto il resto, tanto peggiore di quella attuale? La burocrazia fascista aveva forse un senso dello Stato e dei doveri civili inferiore a quella repubblicana? Vede bene che se la nuova Repubblica, o la grande riforma, ha da essere qualcosa di serio e non il rappezzo di qualche regolamento parlamentare, allora è importante che la rottura, anche sul piano intellettuale, investa alcune delle pigrizie ideologiche che hanno permesso il logoramento quarantennale di questa classe dirigente. Craxi è uno dei pochissimi leader politici che hanno capito la necessità di questa rottura e hanno visto ciò che gli altri si ostinano a non vedere.

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F. I comunisti non sono d’accordo. Il loro capogruppo alla Camera, Zangheri, ha usato un tono blando, ma ha criticato la scelta dei socialisti di incontrare Fini, giudicandola non opportuna. D.F. Eppure questo discorso riguarda anche loro. Da qualche anno il Pci ha cominciato a cambiare e a fare acqua. E si è fortemente attenuato lo schema comunismo-anticomunismo. È anche per questo che tutti i difetti della costruzione costituzionale hanno cominciato a venire in evidenza. Ed è logico che cada anche l’altra grande alternativa fascismo-antifascismo. Non ha più senso né nella coscienza pubblica né nella realtà della lotta politica quotidiana. Se resta ferma a quel dogma insincero, la nostra Costituzione si autoinchioda. F. Si rende conto, professore, del fatto che quanto lei dice può avere una risonanza traumatica per molti italiani di diverse generazioni? D.F. Io ho fatto e faccio il mio lavoro di storico del fascismo. So che il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio, è fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano è stato «migliore» di quello francese o di quello olandese. Inoltre, da noi la revisione è più utile, per le ragioni che le ho appena esposto e che riguardano la necessità di costruire una nuova Repubblica, e meno rischiosa. Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell’immigrazione nordafricana in Francia, che ha portato il fascismo petainista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo con maggiore serenità. Per capire, innanzitutto. E per fare, per costruire qualcosa di nuovo. Basta con gli stereotipi. Ha letto le memorie di Cristina Ocamp, l’amica di Drieu La Rochelle? F. No. D.F. Beh, racconta che Drieu il fascista, prima del suicidio scrisse tre lettere. Una a lei, una a un camerata e una a André Malraux. Malraux, capisce? Vede bene che tra cielo e terra...

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❏❏❏ F. L’abbiamo combinata grossa, professore, con quell’intervista sul fascismo e antifascismo. D.F. Perché mai? F. Beh, nell’intervista lei affermava che in Italia, oggi, si può parlare di quell’argomento con serenità. Non so se ha mantenuto ferma la sua opinione dopo la polemica di queste settimane. D.F. Lasciamo stare il tono mediamente basso, con punte di sorprendente rozzezza culturale, di alcune reazioni. In generale, però, non ho affatto perso la fiducia nella possibilità di discutere con serenità, appunto, del nostro passato. L’accusa secondo cui avrei inteso riabilitare il fascismo non mi ha colpito nemmeno di striscio. Per chi sa leggere, è una semplice sciocchezza. Io ho contestato che l’antifascismo, inteso come ideologia di Stato, sia un discrimine storicamente, politicamente e civilmente utile per stabilire che cos’è una autentica democrazia repubblicana, una democrazia liberaldemocratica. Questo a me, antifascista senza fanfare e storico del fascismo, premeva dire. E l’ho detto. D’altra parte, la cosa che mi ha stupito di più non è certa petulanza dotta, ma certi toni pigri e ripetitivi, quelli di gran parte della classe dirigente. F. Che cosa vuol dire, precisamente? D.F. Due cose. Innanzitutto, come lei sa e come tutti sanno, le norme antifasciste della Costituzione non sono applicate da quella stessa classe dirigente che sembra volerle difendere con le unghie e con i denti. Vuol dire che hanno un mero valore simbolico. Ma di che cosa sono il simbolo? Di un certo conservatorismo, di una scarsa volontà di cercare altrove, dopo quarant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la legittimazione di una vera e moderna liberaldemocrazia. Si ripete ossessivamente: siamo democratici perché siamo antifascisti. Ma non è vero. Alcune voci si sono levate per ribadire che si può essere antifascisti e non demo-

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cratici. E questo, in secondo luogo, è un discorso che vale anche per i comunisti italiani. F. Cioè? D.F. Finché resiste l’ombrello antifascista è più difficile stimolare i comunisti a portare fino in fondo la loro revisione, affermando con radicalità di quali valori si nutra una loro moderna identità e mentalità liberaldemocratica. E, per converso, è invece più facile cercare con loro un rapporto, magari tortuoso e insincero, che li integri in una mera democrazia senza ricambio, in un sistema politico bloccato. Se invece cadesse la cultura ufficiale dell’antifascismo, allora ciascuno sarebbe più direttamente responsabile della propria identità civile, politica, culturale e storica. L’abito antifascista non farebbe più il monaco democratico. F. Dalle sue parole si deduce che si può andare oltre il fascismo e l’antifascismo perché il fascismo non è più un pericolo. Eppure Bobbio, e con lui molti altri, è di tutt’altro parere. D.F. Mi hanno segnalato una rivista in cui è comparsa una fotografia di una nipote di Mussolini completamente nuda: mi pare che siamo ormai davvero lontani dal momento mitico del fascismo europeo e italiano. I missini sopravvivono per una confusa mescolanza ideologica; predicano una terza via tra capitalismo e socialismo che non ha né forza politica né vera suggestione. Piuttosto, mi lasci dire che l’opposizione concettuale fascismo-antifascismo, nella nostra realtà storica, impedisce proprio di fare un discorso positivo sulla democrazia e di individuarne i veri valori. Affermare che la democrazia è uguale all’antifascismo significa dare una definizione solo negativa della democrazia. E ridotta al solo antifascismo, la democrazia rischia di suicidarsi, perché non riesce a riconoscere e a individuare i nemici che hanno un’altra faccia. Se dovessimo temere un ritorno delle camicie nere, potremmo dormire sonni tranquilli. Ma le cose, lo sappiamo, non stanno così.

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F. Può fare qualche esempio, professore? D.F. Se lo ricorda quanto tempo c’è voluto per capire che le Brigate rosse erano qualcosa che attaccava la democrazia ma che non aveva niente a che vedere col fascismo? F. Sì che me lo ricordo. Persino Giorgio Amendola, che poi fu uno tra i primi a capire come stavano le cose, parlava di fascismo rosso, agli inizi. E ricordo una lunga discussione all’Hotel Ligure, a Torino, in cui alcuni di noi cercavano di spiegargli che il terrorismo allignava nelle fabbriche, che cresceva nella tradizione del movimento operaio e, per estremo paradosso, che prosperava in quella cultura del cosiddetto «antifascismo militante» la cui parola d’ordine era «uccidere i fascisti non è reato». D.F. Ecco. E si ricorda quanti antifascisti, magari appoggiando sentimentalmente le Br o formazioni e comportamenti estremistici della stessa area, dimostravano nei fatti di essere antifascisti e nello stesso tempo antidemocratici? F. Ricordo anche questo, e faccio due nomi emblematici. Giangiacomo Feltrinelli e i gruppi che ruotavano intorno a Pietro Secchia negli ultimi anni della sua vita. Ma torniamo al punto. Dunque, secondo lei, l’antifascismo come ideologia ufficiale indebolisce una vera democrazia... D.F. Sì, e il mio non è un discorso solo strettamente politico. Nelle società moderne si sviluppano oggi processi che vanno in direzione contraria a quella della democratizzazione. Si tratta di tendenze spesso inafferrabili, che corrono per così dire sotto la pelle delle istituzioni, dell’economia, del sistema sociale. Contemporaneamente, il potere si concentra al vertice, con tratti di vero oligarchismo, e si frammenta alla base, con tratti di vero anarchismo. Il risultato è che crescono le concentrazioni di autorità e decresce invece, alla base della piramide, la governabilità. Pensi alla burocratizzazione, agli apparati sempre meno controllabili. Pensi all’avanzamento della tecnocrazia, con l’estrema specializzazione delle conoscenze necessarie a mandare avanti la macchina socia-

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le. È in atto una sottile riduzione del potere dei cittadini, del loro massimo potere: quello di essere informati sui termini di una scelta e poi di scegliere. Questi sono pericoli reali, non i missini. Qui è la difficoltà della democrazia moderna, non nei fantasmi ideologici. Ed è mai possibile, a questo punto, che il discorso sulle forme, sui contenuti, sui compiti della democrazia possa partire e finire (perché di questo si tratta) dalla e nella opposizione fascismoantifascismo? Ora, se la revisione costituzionale si occupa di questo, ben venga. Altrimenti non ci facciano perdere tempo con discorsi a vuoto. Capisco Craxi quando dice: delle norme transitorie contro il fascismo non me ne importa molto; possono restare; col fascismo il discorso è storicamente chiuso. E paradossalmente capisco anche quelli che dicono: no, quelle norme devono restare dove stanno. Hanno ragione. Se non si vuole cambiare nulla, allora vuol dire che la Costituzione è considerata come un monumento archeologico. Dunque è giusto non toccare nemmeno un sasso, sennò «Italia Nostra» interviene, e sono guai. Ma io pensavo, al contrario di certi suoi custodi ufficiali, che la Costituzione fosse una cosa viva e vivificabile: questo è il mio modo di rispettarla. F. Lei ha citato Craxi, professore. Ci risiamo. Ora diranno che siamo mosche cocchiere. D.F. Ho riso molto, di quest’accusa. Mi mette davvero di buon umore l’idea che De Felice abbia bisogno di Craxi, e Craxi di De Felice.

IL TRAUMA CHE CREÒ L’ITALIA [Bruno Gravagnuolo, «l’Unità», 25 luglio 1993; intervista a Claudio Pavone]

Nelle epoche di «crisi organica» gli storici ritornano ai «principii». Nel senso dei principii fondativi, e in quello degli inizi temporali. Oggi ad esempio il biennio 1943-45 appare a molti decisivo per la nascita della prima repubblica. Guardando a quegli an-

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ni, alla vigilia del cinquantennale del 25 Luglio, tre studiosi (De Felice, Rusconi, Romano) hanno parlato sulla Stampa di «trauma», di sconfitta non elaborata, di identità nazionale da allora traballante. Insomma, il male dell’Italia moderna è congenito. Tra quelli che non sono d’accordo con questa diagnosi c’è Claudio Pavone, autore di un volume che ha fatto molto discutere l’anno passato, e a cominciare dal titolo: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati-Boringhieri). «Il vero male della Repubblica – dice oggi – nasce dalla continuità che nonostante tutto, vi fu col Fascismo, non dalla rinascita dei partiti antifascisti. Dopo il ventennale regime monopartitico la pluralità dei partiti apparve del tutto ovvia». Abbiamo analizzato con Pavone un piccolo tratto del fatale biennio in cui i partiti «rinacquero» i 45 giorni che stanno tra la caduta del regime e l’armistizio. Si tratta di un segmento decisivo per gli sviluppi successivi, di una cellula temporale in qualche modo sottovalutata o non interamente approfondita. B.G. 25 luglio-8 settembre 1943: Pavone, furono davvero 45 giorni «bianchi», poco importanti per l’antifascismo, quelli seguiti alla caduta del regime? C.P. Non credo proprio. La situazione era fin troppo drammatica perché le cose andassero così. Il punto d’avvio è certo il 25 luglio, quando il regime si sgretola. Protagonista principale è la monarchia, che utilizza i gerarchi dissidenti guidati da Grandi, moderato e filomonarchico, nel chiaro intento di uscire dalla guerra col minor danno possibile. Certo l’antifascismo non ha conquistato in armi Palazzo Venezia, ma da qui a considerarlo inessenziale in quel frangente ce ne corre. Gli scioperi del marzo ’43 avevano fatto suonare un campanello d’allarme, ponendo con evidenza il problema della successione al regime ormai votato alla sconfitta. Si fanno avanti i «revenant», come Bonomi, Orlando, i liberali schierati attorno a Croce, vicini alla corona. Anche i comunisti, attraverso Concetto Marchesi e Giorgio Amendola, avevano cercato un contatto con i moderati. C’era il Partito d’Azione, rosselliano e liberalsocialista. C’erano i cattolici non compromessi col Fascismo, come de Gasperi, su cui il Vaticano, che aveva affossato

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Sturzo, ora puntava. Nenni con i socialisti, più volte divisi, poi riunitisi. Proprio durante i 45 giorni nasce il Partito socialista di unità proletaria, dalla loro fusione col movimento di unità proletaria di Lelio Basso. B.G. Un panorama frastagliato e ancora debole. Su quali punti strategici si profila l’unità? C.P. Dopo il 25 luglio i partiti semiclandestini pongono due problemi: la pace e la liberazione dei prigionieri politici. La scarcerazione arriverà tardi per anarchici e comunisti. Per alcuni mai. Su Badoglio, viene esercitata una notevole pressione, in direzione della pace e della defascistizzazione. Un’azione che riesce tra l’altro a porre qualche freno alle tendenze repressive del capo di stato maggiore dell’esercito Roatta. Possono svolgersi senza vittime altri scioperi, con parole d’ordine schiettamente politiche. Bozzi, Roveda e Achille Grandi sono nominati commissari della ex Confederazione dei lavoratori dell’industria fascista. B.G. Qual è l’atteggiamento verso Badoglio? C.P. Si cerca di indurre Badoglio ad apprestare le difese contro i tedeschi. Si tenta di creare un’unità esercito-paese che fallisce miseramente, per l’ostilità dei generali, come Roatta, timorosi di sommovimenti radicali. Tutto viene travolto l’8 settembre. B.G. L’armistizio viene firmato a Cassibile in Sicilia il 3 settembre, e annunciato soltanto l’8. Perché questa sfasatura? C.P. L’accordo era quello di far coincidere la data dell’armistizio con lo sbarco degli alleati. Questi avevano persino pensato di far arrivare a Roma una divisione aereotrasportata. Dopo aver inviato in segreto nella capitale il generale Taylor rinunciarono, perché capirono che sarebbe stato un massacro. Sbarcarono poi a Salerno all’indomani dell’8 settembre. Dopo il 3 Badoglio, che si illudeva di avere ancora margini di manovra, non si decideva ad annunciare l’armistizio cioè la resa, alimentando così la diffidenza alleata. Allora il generale Eisenhower, dal quartier generale di Al-

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geri, fece dare l’annuncio via radio, mentre le navi alleate erano già in rotta verso il golfo di Salerno. B.G. Restiamo ai «45 giorni». Durante questo periodo non c’è ancora traccia di quella che tu hai definito «guerra civile», la quale a tuo avviso connoterà la Resistenza... C.P. Ve ne sono i prodromi. Il Fascismo non era stato imposto dall’esterno. Aveva messo radici in Italia, conquistando una sua forza, un suo blocco sociale, anche se poi, dopo il 25 luglio, il regime si squagliò come neve al sole. Molti fascisti si sentirono umiliati da quella fine ingloriosa e approfitteranno dell’arrivo dei tedeschi per vendicarsi, per tentare di riscattarsi. Prima ancora della Repubblica di Salò alcuni fascisti avevano fatto la loro ricomparsa. Sul fronte antifascista c’era uno speculare desiderio di rivincita, il desiderio di scendere in campo in prima persona, a differenza del 25 luglio. Durante i 45 giorni non furono comunque compiute vendette. Quando sopraggiunge l’occupazione tedesca, la situazione muta. L’unione tra fascisti e tedeschi genera un doppio conflitto: la guerra tra italiani e la guerra contro lo straniero. B.G. Parlavi di «blocco sociale» fascista. Ma da un punto di vista sociologico esisteva davvero un insediamento del consenso fascista così ampio e tale da alimentare una «guerra civile»? La gran parte degli italiani, magari passivamente, non era «nazionalmente» schierata? C.P. Il «blocco» sociale vero e proprio si era sfaldato con gli anni di guerra. La Resistenza attiva, la quale godeva di un consenso largo, fu opera di una minoranza che alimentava peraltro la cosiddetta Resistenza passiva di una maggioranza. Anche i fascisti di Salò furono una minoranza e poterono approfittare di un certo consenso passivo, magari estorto con la coscrizione obbligatoria, ma anche consapevole. Vi fu chi non si sottrasse alla leva, chi per convinzione o per paura collaborò e continuò a far funzionare l’amministrazione: impiegati, carabinieri riciclati come guardia nazionale repubblicana, prefetti, questori. Senza di loro la Re-

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pubblica sociale non sarebbe durata nemmeno un giorno, e vi sarebbe stata soltanto un’occupazione tedesca diretta. B.G. Fermiamoci sul fatidico 8 settembre 1943, momento in cui lo stato si spezza e l’identità nazionale entra in fibrillazione. Quel «trauma» agisce ancora sulla coscienza degli italiani, come hanno sostenuto De Felice, Rusconi e Sergio Romano? C.P. Trauma vi fu senz’altro, e senza precedenti. Ma costituì anche un’occasione di libertà e di rinascita. Uno degli obiettivi della Resistenza, sviluppatasi a partire da quella data, fu proprio quello di ricostruire un’identità nazionale. Dire che quella frattura non è stata assorbita e che fu solo catastrofica, è storicamente inesatto. La vera tragedia per l’Italia era nata dall’esser stata trascinata in una guerra che quasi nessuno sentiva. Persa la guerra, gli italiani avrebbero potuto affidarsi soltanto alle armi alleate, rimanere passivi. Con conseguenze morali e politiche facilmente immaginabili. B.G. Dunque, per usare ancora il tuo lessico, la Resistenza non fu una «guerra civile» per procura, come da destra ha chiosato qualcuno... C.P. Proprio così. Fu una sorta di resa di conti fra italiani, in cui la maggioranza della popolazione, come sempre accade nelle guerre civili, partecipò più passivamente che attivamente. Se però nessuno avesse reagito contro i tedeschi e la Rsi, l’identità nazionale sarebbe stata ben più colpita e i prezzi da pagare ben più alti. Il trauma è stato anche un momento positivo, perché ha prodotto verità, crescita civile, e le diverse identità politiche, ricchezza di un paese democratico, si sono manifestate per quel che erano. B.G. Dal «trauma» nacquero anche i partiti che hanno creato la prima Repubblica. Il declinare di quest’ultima quali riflessioni retrospettive ti suggerisce? C.P. È passato mezzo secolo e sarebbe sbagliato mettere meccanicamente sul conto dei partiti, allora rinati, tutti i mali della Re-

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pubblica. Ci sono state la Costituzione, la libertà sindacale, la lunga egemonia democristiana, l’ampliamento sociale e civile degli anni 70, bloccato dalla strategia della tensione, e poi gli anni ottanta. Ecco, il vero male partitocratico, le degenerazioni, nascono negli anni 80, e il craxismo ne è stato il fenomeno di punta. La sinistra ha sempre sostenuto che non tutto quanto era implicito nella Resistenza è stato recepito dalla Repubblica. Le è stato opposto che si trattava di un atteggiamento piagnone, blasfemo, improduttivo. Oggi le parti sembrano paradossalmente invertite. Si tende a travolgere in blocco Repubblica, antifascismo e Resistenza. La sinistra deve perciò farsi carico non di una difesa d’ufficio, ma di una considerazione critica e anche autocritica che aiuti ad uscire dalla preoccupante situazione attuale, senza sacrificare i valori essenziali cui si ispirarono le tavole di fondazione della Repubblica.

LA DISFATTA CONTINUA [Indro Montanelli, «Il Giornale», 8 settembre 1993]

Ci sono ricorrenze che preferiremmo dimenticare. L’8 settembre è una di queste. E non perché ci ricorda una disfatta e una resa: disfatte e rese rientrano nella fisiologia degli eserciti e delle nazioni. Ma per il modo in cui ci arrivammo. Il Giornale ha ricostruito domenica scorsa le tappe di questa vicenda che, sebbene ne avesse tutti gli estremi, non riuscì a sollevarsi al livello della tragedia. Tutto, salvo i morti, fu meschino. Meschini i sotterfugi cui si ricorse per mascherare il voltafaccia, e meschini gli uomini che vi si adoperarono. Si dirà – ed è vero – che è facile giudicare e condannare col senno del poi e da semplici spettatori esentati da responsabilità personali e dirette. Ma ci sembra di poter dire che mai inganno fu consumato con tanta malaccortezza, inefficienza e pavidità. Non vorremmo essere fraintesi. L’Italia doveva uscire da una guerra che non aveva voluto; che aveva sperato di non fare considerandola già vinta; e che era ormai irrimediabilmente perduta. Per questo gli uomini più responsabili del fascismo avevano fatto,

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a loro rischio, il 25 luglio, che non aveva, né poteva avere altro significato. Per cui non si capisce a chi fosse diretto e da chi potesse essere creduto il famoso «la guerra continua» del primo proclama di Badoglio. Cominciò di lì la grande «patacca» che, escogitata per non pagare dazio né all’amico né al nemico, finì per imbestialire l’uno, per discreditarci presso l’altro, e per ingannare soltanto gl’italiani. Nessuna manovra fu peggio orchestrata di quelle che mettemmo in atto per l’approccio agli Alleati. Parlo al plurale perché furono varie, affidate ad emissari di cui nessuno sapeva dell’altro e si contraddicevano a vicenda fino ad avvalorare nell’interlocutore il sospetto che stessimo barando per trarlo in qualche agguato. Che Badoglio, per condurre a termine l’operazione, non si fidasse dei civili, si può anche capire. Ciò che rimane incomprensibile è che si fidasse di militari come Castellano, Carboni, Roatta, di cui doveva ben conoscere la caratura. La loro pochezza era il frutto delle devastazioni provocate dal fascismo in tutti i campi, compreso quello militare. «L’Italia guerriera» di Mussolini aveva scremato una nomenclatura di Generali che si erano guadagnati la «greca» non sul campo di battaglia, ma in quello degl’intrallazzi politici, e che ad una cosa sola pensavano e miravano: a salvare pelle e carriera. Come dimostrò il vergognoso affollamento sul molo di Ortona. In seguito giustificata con la necessità di garantire una continuità di poteri governativi, quella fuga non fece invece che travolgere, per il modo in cui si svolse, quei valori di Patria, di Nazione, di Stato che già il regime aveva, inflazionandoli, screditato e svuotato. La Resistenza non nacque alla loro insegna. Non fu una gesta d’italiani contro l’occupante tedesco che, salvo alcuni luminosi ma rarissimi episodi, non venne mai disturbato; ma quella di una parte politica contro le altre parti politiche. Un fratricidio, insomma, che seguitò a consumarsi, specie in certe regioni, anche a guerra finita ed a liberazione avvenuta, e che ci sono voluti cinquant’anni per smascherare. Non osiamo dire che lo sfascio dei valori di Stato e di Nazione a cui oggi stiamo assistendo sia una conseguenza dell’8 settembre di cinquant’anni fa. Ma che faccia parte del suo retaggio, non c’è dubbio. Quella che avrebbe dovuto essere la loro rinascita lo fu per meno di un decennio, grazie agli uomini del prefascismo, che

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il senso della Nazione e dello Stato lo avevano, e cercarono di restaurarlo. La partitocrazia lo ha cancellato sostituendolo col culto della tessera e della clientela. Ma uccideva un uomo morto. Morto l’8 settembre del ’43. Speriamo che a nessuno salti in testa di celebrare questa data come un fasto nazionale. La resa fu un «atto dovuto» ed inevitabile. Ma la pretesa di salire sul carro del vincitore fino ad accampare il merito (anche questo fu detto da alcuni svergognati) di essere stati noi a farli vincere, ci coprì di ridicolo agli occhi di tutti (e spero anche della maggioranza degl’italiani). Quando alla Conferenza della pace a Parigi De Gasperi disse con dignitosa umiltà: «So di rappresentare un Paese vinto che non può accampare né diritti né rivendicazioni», un giornale inglese – mi pare il Times – titolò: «Un italiano anomalo». Lo era, purtroppo.

FINI: IL MIO 25 APRILE? ANTITOTALITARIO [Paolo Franchi, «Corriere della Sera», 23 aprile 1994; intervista a Gianfranco Fini]

Roma – Macché luglio ’60, macché «magliette a strisce». Gianfranco Fini alle analogie tra la manifestazione indetta a Milano dalle sinistre per il 25 aprile e la mobilitazione di massa che trentaquattro anni fa portò alla caduta del governo Tambroni e aprì definitivamente la strada al centro-sinistra non crede neanche un po’. E non si mostra nemmeno troppo preoccupato: «Nel luglio ’60 c’erano una regia, delle coperture istituzionali, un progetto politico. Stavolta no: ha letto, giorni fa, l’editoriale di Walter Veltroni sull’Unità? Una posizione seria, responsabile. Stavolta c’è solo il rischio di provocazioni da parte di gruppetti di estrema sinistra o di estrema destra. Ne ho parlato giorni fa con il capo della polizia, Parisi. Se le forze dell’ordine sapranno prevenire, vigilare, intervenire qualora servisse, supereremo anche questo scoglio. Per quel che mi riguarda, ho detto ai nostri sindaci di autorizzare tutte le manifestazioni, anche quelle degli estremisti. P.F. E il vostro 25 aprile, che giornata sarà?

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G.F. «Il primo giorno di un anno della riconciliazione, per fare del prossimo 25 aprile, quello del ’95, una grande festa di definitiva liberazione dagli orrori della guerra, come ha scritto Gianni Baget Bozzo». P.F. Pacificazione, riconciliazione... Sembrano parole o troppo vuote o troppo difficili da pronunciare. G.F. «Perché? Intanto non sono sinonimi. Pacificazione mi convince poco. È un concetto che riguarda soprattutto chi ha combattuto, dall’una o dall’altra parte. Ma quelli che si sono sparati addosso, tranne qualche «ultimo giapponese», la pace l’hanno fatta, creda a me. La riconciliazione, invece, riguarda tutta la collettività nazionale. La sua capacità di rileggere la nostra storia non per rinnovarne le fratture, ma per guardare avanti...». P.F. Sta invocando un revisionismo storico all’italiana? G.F. «Neanche per idea. Significherebbe contrapporre alla storia scritta dai vincitori la storia scritta dai vinti. E invece io trovo che Scalfaro avesse ragione davvero quando ha detto che la storia è verità, la storia non si riscrive. Certo tutto sarebbe più facile se anche in Italia, come nel resto d’Europa, antifascismo fosse sinonimo di antitotalitarismo...». P.F. Vuol dire che Auschwitz e il Gulag sono le due facce del mostro totalitario del ventesimo secolo, e che in questo senso Fini l’antitotalitario è assieme anticomunista e antifascista? G.F. «Se stiamo parlando dell’hitlerismo e dello stalinismo, questo ragionamento lo sposo in pieno. La storia del fascismo, che pure totalitario lo fu, è in parte un’altra. Comunque: quando sostengo che da noi, nel dopoguerra, l’antifascismo, o meglio quella che Togliatti chiamava l’ideologia dell’antifascismo, non ha coinciso con l’antitotalitarismo, intendo dire che ha funzionato soprattutto da base di legittimazione per il Pci non solo come forza costituente della democrazia post-fascista, ma anche come

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campione e potenziale erede di questa. L’equivoco, il grande equivoco, era tutto qui. E credo sia stato definitivamente dissipato». P.F. Capisco. Ma lei ha detto di considerare Mussolini il più grande statista del secolo... G.F. «Scusi, ma l’ho giurato: di questo non parlo più... ».

LE VERITÀ SCOMODE DELLA STORIA [Marcello Veneziani, «Il Giornale», 24 aprile 1994]

Hanno ragione. Non si può cancellare né dimenticare la storia. Coltivare la memoria è segno di civiltà. Ma la memoria non coincide con il rancore. E si esercita su tutte le tappe significative del nostro passato collettivo e non solo su alcune. Non si ferma a cinquant’anni fa, ma risale molto più indietro nella storia del nostro Paese. E procede molto più avanti. È curioso infatti notare che l’istigazione a ricordare gli eventi di cinquant’anni fa si accompagni, ad esempio, all’amnesia sugli anni di piombo e di sangue di vent’anni fa. Se non ci fosse una sottintesa malafede si potrebbe parlare di un curioso fenomeno di arteriosclerosi collettiva: si ricordano eventi trapassati e si dimenticano quelli più recenti. Sui quali prevalgono la rimozione e il perdonismo. Comunque, noi non vogliamo dimenticare neanche il 25 aprile. Ma se vogliamo risalire dal pregiudizio politico al giudizio storico dobbiamo avere il coraggio di dire alcune cose sgradevoli forse un po’ per tutti, fascisti, antifascisti e afascisti. Per cominciare, i confini tra fascismo e antifascismo erano molto più esili di quanto si voglia far credere. Non furono pochi i partigiani e i repubblichini che scelsero la loro strada provenendo dalla strada opposta, o avendola costeggiata e frequentata. Non mancarono antifascisti che cercarono nella lotta partigiana di inverare il loro fascismo rivoluzionario che ritenevano fosse stato tradito dal regime. Cercando il fascismo sociale e socialista, trovarono poi il comunismo o l’azionismo. Seconda scomoda verità. Non si trattò di una guerra civile tra

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difensori della libertà e difensori della dittatura. Le forze più cospicue che presero parte alla Resistenza furono i comunisti e gli azionisti di Giustizia e Libertà. La stragrande maggioranza dei primi combatteva nel nome di Marx, Lenin e Stalin, nel nome della dittatura del proletariato e riteneva legittimo l’uso della violenza rivoluzionaria. Ma anche gli azionisti non erano poi campioni di liberaldemocrazia. Ernesto Rossi e Silvio Trentin parlavano della necessità di «una nuova dittatura rivoluzionaria» per educare le masse (progetto gentiliano); Duccio Galimberti prefigurava un progetto costituzionale in cui si vietavano i partiti politici. E La Malfa e Ragghianti nel programma del Partito d’Azione del ’43 svolgevano una violenta polemica contro «ogni potenza del grande capitale» e sostenevano un programma di nazionalizzazioni. Si deve poi ricordare anche l’altra faccia della guerra civile. Ai patrioti che combatterono, dall’una e dall’altra parte, per una certa idea dell’Italia, si sovrapposero le immagini di un’Italia colonizzata in senso tripartito: filotedesca, filosovietica e filoangloamericana. E da quei giorni sorse l’eclisse d’Italia, la sua scomparsa perdurata fino ai nostri giorni. La guerra civile segnò la fine del Risorgimento e non la sua rinascita. Senza dire che, come ricordava De Felice, dal Cln non nacque solo la democrazia ma anche il suo rovescio, la partitocrazia. Quell’esarchia fu l’anticamera e la legittimazione della successiva lottizzazione. Attenzione dunque all’uso celebrativo di quei giorni. Celebriamo la libertà ma non dimentichiamo il suo pozzo nero. Per questo sarebbe bello se il 25 aprile fosse la Festa di liberazione dal complesso del fascismo e dell’antifascismo. Il passato non torna e va metabolizzato. Digeriamolo una buona volta, senza evocare (o invocare?) rigurgiti.

FESTA DI CONCORDIA [Leo Valiani, «Corriere della Sera», 25 aprile 1994]

L’Italia uscì disfatta e semidistrutta dalla guerra nella quale Mussolini l’aveva stoltamente precipitata, al seguito di Hitler, il cui trionfo avrebbe ridotto anche il nostro Paese alle dipendenze della forsennata egemonia razziale tedesca.

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La Resistenza italiana, conclusasi con l’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945, ebbe successo nei limiti realisticamente obbligatori che le erano imposti dalla presenza delle truppe di occupazione inglesi e americane. Ovviamente la Resistenza poté avere successo perché le potenze antinaziste stavano sconfiggendo, in Occidente e in Oriente, la Germania hitleriana. Lungi dal togliere alcunché al valore dimostrato dai partigiani italiani, che combatterono, sfidando inenarrabili sevizie, fin quasi alla fine in condizioni disperate, questa constatazione ci ricorda che la vittoria fu animata dalle idee di libertà e democrazia che, diversamente dalla condotta della potenza vincitrice, grazie a sforzi ancora più immensi e sanguinosi in Oriente, le nazioni vittoriose in Occidente e i movimenti di Resistenza dei Paesi ivi liberati avevano in comune. La Repubblica democratica, uscita dal libero voto popolare del 2 giugno 1946, fu il risultato storico della Resistenza. La Repubblica ci ha dato con il duro lavoro e le capacità di iniziativa degli italiani, generosamente aiutati dagli americani nei difficili primi tempi della ricostruzione dalle macerie degli avvenimenti bellici, decenni di grandi progressi economici, civili, culturali. Le libertà democratiche hanno funzionato pienamente a vantaggio di tutti coloro che le hanno accettate. L’Italia ha potuto inserirsi utilmente nell’Alleanza Atlantica, che ha garantito finora la pace in questa parte del mondo, e partecipare come socio fondatore al processo di unificazione europea. Già nell’antichità classica si avvertiva che la democrazia corre sovente il rischio di avere governi deboli e i governi deboli, democratici o assolutistici che siano, corrono il rischio di sfociare nella corruttela. Questo rischio la Repubblica italiana lo ha corso. La magistratura e l’opinione pubblica hanno dato inizio al risanamento morale. Sul rinnovamento istituzionale non c’è ancora concordia e sarebbe vano volerla imporre artificiosamente. Ci vuole, invece, concordia per il mantenimento dei valori di libertà e di giustizia, dei diritti democratici che spettano al governo e alle opposizioni politiche e a tutte le forze sociali e culturali. La dittatura fascista ne fu, per un ventennio, prima ancora del folle asservimento all’occupazione nazista, la totale negazione. La celebrazione dell’anniversario della Resistenza deve significare il richiamo alla difesa e al consolidamento delle libertà democratiche,

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la cui durevolezza è possibile soltanto in un clima di reciproca tolleranza. La guerra civile ci venne imposta a suo tempo dal fascismo di Salò, nel corso della guerra di liberazione, ma la affrontammo allora, senza volerla rivedere mai più. Le odierne manifestazioni di massa sono calorosamente augurabili come imponenza, ma è altrettanto augurabile che non vengano disturbate da estremisti di sorta. Nel 1975 l’allora sindaco di Milano, Aldo Aniasi, mi chiese di inaugurare in consiglio comunale le celebrazioni per il trentennale della Liberazione. Cominciai con il ricordare le violenze squadristiche del fascismo, ma conclusi il mio discorso dicendo che l’Italia avrebbe dovuto e potuto superare la crisi inflazionistica, che in quel momento la travagliava, nell’ordine, nella disciplina e nel lavoro. Poteva sembrare un invito alla moderazione delle rivendicazioni di vario genere, allora molto radicali, ma quell’invito io lo avevo ricavato da un opuscolo di uno dei grandi rivoluzionari del passato. Esso mi pare più che mai attuale. Ogni rivoluzione costruttiva ne ha bisogno non meno di ogni conservazione illuminata.

DEMOCRATICI E NO [Norberto Bobbio, «La Stampa», 25 aprile 1994]

Non avrei mai pensato che si dovesse cogliere l’occasione dell’anniversario del 25 Aprile, non tanto per rievocare gli eventi di quei giorni, quanto per spiegarne il significato storico, per farli capire a coloro che dopo mezzo secolo mostrano di non averli ancora capiti. La miglior prova della confusione che regna nel dibattito di questi giorni è la reiterata richiesta di «riconciliazione», senza che a questa parola si dia o si voglia dare un senso preciso. Sia detto allora una volta per sempre che, da un lato, l’Italia fascista, che è cominciata con una dittatura ed è finita alleata della Germania nazista, e, dall’altro, l’Italia, che dopo la caduta del fascismo, attraverso la guerra a fianco degli Alleati nel Sud e la guerra partigiana contro i tedeschi e i neo-fascisti della Repubblica di

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Salò nel resto del Paese, è rientrata a far parte delle nazioni civili e ha avviato un processo di democratizzazione che dura tuttora, sono storicamente irriconciliabili. Non so con quali argomenti si possa sostenere il contrario. Stato totalitario e democrazia sono antitetici. Il passaggio dall’uno all’altra è un vero e proprio capovolgimento che, una volta avvenuto, dovrebbe essere irreversibile. Dal punto di vista storico, ripeto, non vedo che altro si possa aggiungere. In un articolo comparso il 21 aprile su questo giornale («Il tribunale s’immischia nella storia») Barbara Spinelli ha giustamente osservato che la seconda guerra mondiale non è stata una guerra come tutte le altre: è stata una guerra delle democrazie contro quella forma moderna di dispotismo che si fonda sul principio dell’obbedienza al Capo («credere, obbedire, combattere»). Problema completamente diverso è quello della pacificazione. Come è stato più volte osservato, per quello che spettava allo Stato democratico, la pacificazione è avvenuta da tempo con l’amnistia voluta nel 1946 da Togliatti, allora ministro della Giustizia: una pacificazione che ha indotto, fra l’altro, i vari governi della Repubblica a non applicare e quindi a lasciar cadere in desuetudine la norma XII delle Disposizioni transitorie della Costituzione, che vieta «la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Non dimentico la violenza con cui si sono combattuti per anni gli «opposti estremismi» che peraltro sono sempre stati condannati dai partiti democratici. Proprio perché ricordiamo anni infausti, e li deprechiamo, non abbiamo dubbi, in questi giorni in cui rievochiamo una festa di tutti gli italiani, sulla necessità di riconfermare la volontà di pace, condizione essenziale per la vita di una libera democrazia. La impossibilità di una riconciliazione storica non esclude – anche questo è stato detto e ripetuto – e la pacificazione esige il senso di umana pietà (che va ben al di là del perdono) per tutte le vittime della guerra, da qualunque parte abbiano combattuto, e la compassione, intesa letteralmente come «patire insieme», di fronte al dolore inestinguibile dei familiari e degli amici di tutti i caduti. Fatte queste doverose distinzioni non mi pare così difficile spiegare il significato storico permanente del 25 Aprile. La Liberazione ha posto le premesse per stabilire in Italia le condizioni di una libera gara fra parti diverse, avversarie non più nemiche. La prima durevole creazione di questa libera gara è stata la Costituzione repubblica-

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na. Ebbene, i caposaldi della Carta costituzionale sono due: l’art. 2, secondo cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo»; l’art. 3, secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». Imprimiamoli bene in mente questi due principi. C’è qualcuno che li rifiuta? Credo proprio di no. E allora possiamo dire che sino a che varranno ci sarà uno Stato democratico in Italia, e che, sino a che vivremo democraticamente, l’origine di questo Stato deve essere cercata negli eventi della fine di aprile e dei primi di maggio del 1945, in Italia e in Europa, quando sono stati sconfitti nazismo e fascismo, i cui principi ispiratori erano non la libertà, ma l’ordine imposto dall’alto, non la pari dignità di tutti gli uomini, ma la divisione tra popoli o razze superiori e inferiori. Se antifascismo significa letteralmente il contrario di fascismo, penso che possiamo continuare a chiamarci a pieno diritto antifascisti, anche se dobbiamo augurarci che in una democrazia compiuta l’antagonismo fra fascisti e antifascisti cessi di essere attuale. È vero che non basta essere antifascisti per essere buoni democratici. Ma è altrettanto vero che chi continua a esaltare il fascismo, com’è accaduto anche in questi giorni, suscita il sospetto di non essere buon amico della democrazia.

«SCIOGLIERE TUTTI I FASCI» [Tesi politiche approvate al XVII Congresso del MSI-AN, Fiuggi 25-29 gennaio 1995]

Il secolo delle ideologie sta finendo e seppellisce le tentazioni totalitarie che l’hanno segnato. Se ne va il Novecento, con le sue contraddizioni e i suoi aspri scontri, e lascia al Terzo Millennio masse popolari protagoniste della storia, cittadini consapevoli del loro ruolo, conquiste tecnologiche e scientifiche e, soprattutto, una concezione della libertà come supremo valore che nessuno è più disposto a mettere in discussione. Di questi cento anni di fuoco e di speranza, di conquiste sociali e di offese alla dignità umana, di avventure spaziali e di miserie morali, ogni italiano assume nel suo giudizio tutto senza tra-

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lasciare nulla. E proprio perché l’allucinante tragedia dei Gulag e dei Lager ha fatto comprendere a tutti i pericoli e gli orrori delle dittature, anche noi siamo sottomessi a quel diritto naturale che al primo posto annovera la tutela e la pratica della libertà come valore e bene prezioso ed irrinunciabile. Da essa, dalla libertà, discende la nostra concezione dello Stato, della società, dei rapporti economici. Ad essa si ispira l’azione politica, tesa all’affermazione della persona umana, della destra italiana. Per questo non si può identificare la destra politica con il fascismo e nemmeno istituire una discendenza diretta da questo. La Destra politica non è figlia del fascismo. I valori della destra preesistono al fascismo, lo hanno attraversato e ad esso sono sopravvissuti. Le radici culturali della Destra affondano nella storia italiana, prima, durante e dopo il Ventennio. Di un chiaro rapporto con la storia del Novecento non ha tuttavia necessità solo la Destra, che deve fare i conti con il fascismo al pari di quanto altri debbono fare con l’antifascismo. Se è infatti giusto chiedere alla Destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato, altrettanto giusto e speculare è chiedere a tutti di riconoscere che l’antifascismo non è un valore a sé stante e fondante e che la promozione dell’antifascismo da momento storico contingente a ideologia fu operata dai paesi comunisti e dal PCI per legittimarsi durante tutto il dopoguerra. Nel dopoguerra non tutto l’antifascismo è stato infatti antitotalitarismo. Erano certamente antifascisti anche coloro che proponevano, col modello di Stato sovietico, una gerarchia di valori assolutamente totalitari negatori della democrazia, dei diritti più elementari della persona umana e della libertà; il comunismo era antifascista, ma nessuno può negare che il totalitarismo è entrato nella scena politica europea di questo secolo con la Rivoluzione d’Ottobre e ne è uscito 72 anni dopo con la caduta del muro di Berlino. Quindi prima e dopo il regime fascista. Oggi i post-comunisti italiani – se hanno i consensi sufficienti – possono governare. La logica di Yalta non c’è più: oggi la Destra

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politica fa propri i valori democratici che il fascismo aveva negato. Perché mai dovrebbe sopravvivere l’antifascismo? L’antifascismo è sopravvissuto 50 anni alla morte del fascismo per ragioni internazionali e interne oggi non più presenti. La fine del socialismo reale ha chiuso un’epoca, quella del totalitarismo rosso, in cui il riferimento all’antifascismo era sopravvissuto alla fine del regime fascista ed era obbligato quanto strumentale. Con la fine del socialismo reale e del dopoguerra si impone quindi la definitiva storicizzazione anche dell’antifascismo. È tempo che anch’esso raggiunga il fascismo perché entrambi affrontino il giudizio della storia. Poco importa se ciò significa «sciogliere tutti i fasci, quelli fascisti e quelli antifascisti», come chiede Buttiglione, oppure se ciò significa liberare la politica italiana dal demone dello scontro ideologico. Bisogna farlo, perché solo così si può davvero dar vita ad una nuova fase della storia politica italiana alle soglie del XXI secolo.

IL 25 APRILE, UN GIORNO COME UN ALTRO [Piero Buscaroli, «Il Giornale», 25 aprile 1995]

L’indomani del 25 luglio, Degasperi [sic!] espose a Bonomi le convenienze dell’antifascismo: tra «due diverse partite: l’abbattimento di Mussolini e la conclusione di un accordo con gli angloamericani», la prima, «attiva, era ormai liquidata»; non restava che la passiva, «opera difficile che creerà responsabilità penose per i suoi negoziatori: sarebbe errore politico per i nostri uomini accettarla. Si decise pertanto di rimanere in attenta osservazione e non assumere alcuna responsabilità. È il Gran Consiglio che ha abbattuto Mussolini: scelga il Re la persona più adatta a rimuovere un cadavere così ingombrante». Giunta la sua ora dopo due decenni d’inconcludenti cospirazioni, l’antifascismo democratico diserta. Non si adopera ad impetrare, dalle democrazie vittoriose, sorte migliore all’Italia uscita dalla dittatura.

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[...] Esce, per viltà, dalla scena. Vi rientrerà soltanto a guerra finita. La «partita passiva», l’armistizio, è lasciata, suprema astuzia, ai militari. I quali hanno in mente altre astuzie. Nel 1940 Pétain non tentò approcci diretti coi tedeschi; chiese l’intermediazione di Franco. Gli angloamericani si aspettavano un passo neutrale, o vaticano, non ambascerie di militari in borghese. Non conoscevano i generali badogliani, smaniosi di andar di persona, mica a chiedere armistizi, ma a offrire alleanze per una nuova guerra a fronte rovesciato con cui rubare al vincitore un pezzo di vittoria. Senza misurare questa differenza, la catastrofe resta incomprensibile. Ci misero quaranta giorni a capire che dovevano arrendersi, e intanto «tennero a bada» i tedeschi; così bene, che l’8 settembre ce n’erano, in Italia, cinque volte che il 25 luglio. Per tenersi le mani libere, Mussolini non li voleva in casa. Badoglio, per imbrogliarli meglio, li fece entrare a fiumi. Non ci fu armistizio. La guerra continuava davvero, come Badoglio aveva detto per ingannare l’alleato. Il nemico restava nemico, e fracassava selvaggiamente le nostre città. L’alleato era diventato occupante. Non c’era più l’Italia, liquefatta in un giorno, con due milioni di uomini alle armi e una flotta imponente che non aveva messo un colpo di grosso calibro su una nave nemica. Fuggendo, Badoglio abbandonò ai tedeschi inferociti i quattro quinti del territorio. Senza uno Stato a loro gradito che le facesse da scudo, l’Italia sarebbe stata trattata come una Polonia qualsiasi. Testimoniò Kesselring che la «Repubblica necessaria», così la chiamò Piero Pisenti, ministro della Giustizia, fu accolta con fastidio dai capi militari tedeschi, perché gl’impediva di trattare l’Italia come meritava. Mussolini accettò l’umiliazione di governare lottando per riconquistare la sovranità, un brandello dopo l’altro, quando comprese che le sole difese che all’Italia restassero erano l’amicizia e il riguardo di Hitler, diavolo dell’inferno, ma tedesco e romantico, per la sua persona. Da buon italiano alieno da romanticherie, pensò di sfruttare tali sentimenti, che non ricambiava. Sarebbe stata fortuna, nella gran disgrazia, se il partito comunista non avesse deciso di occupare, con una sua privata guerra civile, il posto che l’antifascismo democratico aveva disertato. La guerra civile che i comunisti imposero ai capi della Rsi, ri-

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luttanti e disperati per il fallimento, che comportava, del loro tentativo, fu completamente diversa dalla «resistenza» di altre nazioni europee. Annullò i riguardi che la Rsi tentava di garantire all’Italia, e si sovrappose alla «resistenza» dinastica e democratica, confiscandola e cancellandola. Il peso militare fu nullo. Non accelerò di un giorno la fine del Reich, ma rese tremendo il contributo di sangue innocente alle sorti, già decise, della guerra, istigando i tedeschi a quelle rappresaglie con cui qualsiasi esercito si difende dalla guerriglia. Le odierne celebrazioni, alimentate da trenta miliardi rapinati all’impoverito Erario con una legge che il governo di centro-destra si guardò bene dal revocare, rinnova, dopo mezzo secolo, la vergognosa confusione contro cui insorse, nel 1965, il generale Cadorna: «Diciamolo con chiarezza: lo Stato che i comunisti sognavano d’instaurare era una dittatura di modello sovietico». Ci pensino gl’irresponsabili loquaci laudatori: la presente democrazia non fu frutto della guerra partigiana, ma della sola vera vittoria, inglese e americana. Non diversamente che nella Controriforma («cuius regio, illius et religio») la sorte dell’Italia fu decisa, durante ancor la guerra, su altri tavoli: Casablanca, Teheran, Jalta. E tanto ciò è vero, che il comunismo italiano, dopo aver fornito il maggior contributo di azioni e di sangue, non ebbe il premio del potere. I patti dei vincitori lasciavano l’Italia nella sfera occidentale, e Stalin non volle rischiare il suo bottino per mandare al governo i servi italiani. Ebbe, però, il Pci, il suo premio in una legittimazione quale forza nazionale che prima non possedeva. Se, come si ripete, la «resistenza» fu un «secondo risorgimento», non si può negare che Longo vi tenga lo stesso ruolo di Cavour nel primo. I comunisti, che una guerra avanti erano paladini dei disertori, ora vennero consacrati, per la loro «resistenza» e la servile ratifica che ricevette dai soci-prigionieri del Cln, forza nazionale di primo merito. Il comunismo italiano prefigurò quelle «vie nazionali» che dovevano entrare, pochi anni più tardi, nella dottrina di Mosca. Quanti nella «resistenza» avevano salutato una forza rieducatrice, un insegnamento di libertà e responsabilità, un’elevazione

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morale e politica degl’italiani, si appartarono con ribrezzo, da Cadorna a Pacciardi, a Sogno: «non per questo», dissero, avevano combattuto. Nella maggiore storia militare, il 25 aprile non ha posto. La guerra in Italia finì con la resa di Caserta, il 2 maggio. In Europa, il 7 maggio. Il 25 aprile segnò l’insurrezione di una parte del Nord contro i tedeschi che, vinti dagli angloamericani, se ne andavano per conto loro. Finì la guerra, ma non vi fu, per l’Italia, alcuna vittoria. «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata [...] anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata», disse Benedetto Croce all’Assemblea Costituente il 24 luglio 1947, nel discorso contro la ratifica del Trattato di pace, con le sue umiliazioni e mutilazioni. Il 1° maggio 1945 si abbatté su Trieste e la Venezia Giulia la più brutale occupazione che mai un lembo d’Italia patisse, quella dei banditi di Tito. E intanto imperversava la strage dei vinti italiani. Per opera dei comunisti, convinti di aprirsi, con tale «pulizia» sociale e politica, la via al potere. Non sapevano ancora ch’era loro vietata. Ci sono mille e una ragioni per restituire il 25 aprile a San Marco Evangelista. Per le calende della storia, è un giorno qualsiasi.

«TUTTI EREDI DELLA LOTTA PARTIGIANA» [Bruno Gravagnuolo, «l’Unità», 25 aprile 1995; intervista a Vittorio Foa]

B.G. Foa, c’è chi ritiene, come Renzo De Felice, che il 25 aprile sia stato l’epilogo di uno scontro ristretto, consumatosi tra l’élite fascista e quella antifascista. Sempre per De Felice il vero momento cruciale, traumatico, è stato per l’Italia l’8 settembre. In che senso invece il giorno della Liberazione rimane per te una data «fondante»? V.F. Anch’io attribuisco molta importanza all’8 settembre. E non perché sia il simbolo dello sfascio, come pensa De Felice. Al con-

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trario. Di lì parte la replica a tutto quello che era stato il fascismo. Momento di scelta dunque, e di recupero dell’identità nazionale tradita dal fascismo. Però il 25 aprile fu una data ancora più importante, una giornata di delirante entusiasmo. Io partecipai all’insurrezione di Milano e ne ho un ricordo vivissimo. Assaporavamo una enorme disponibilità verso il futuro. Era come se il domani ci appartenesse. Tuttavia, e qui sono molto polemico verso un certo «revisionismo» c’era anche dell’altro: eravamo pervasi da un sentimento fraterno, unitario, che ci legava tutti, malgrado le diversità ideologiche. Sentivamo di poter costruire qualcosa di nuovo, e insieme... B.G. Uno stato di «fusione» che annullava gli aspri contrasti politici interni al Cln? V.F. Non li annullava affatto. Noi vivevamo una situazione di reale pluralismo, a due livelli. Oltre le differenze politiche c’era un orizzonte dinamico fatto di valori condivisi, denso di speranze. Io credo che la Resistenza rappresenti davvero un valore fondante per la Repubblica. E non in rapporto agli ordinamenti, elaborati dopo il 1945. Parlo di un modello etico di convivenza. Il Cln è stato un esperimento segnato dalla lotta interna per l’egemonia, e insieme dominato dalla prefigurazione di un’Italia diversa. I comunisti, per esempio, avevano delle idee specifiche sull’assetto sociale da realizzare. Eppure la Resistenza li aveva coinvolti fino in fondo nella battaglia democratica. Ai vari storiografi, che ci accusano di aver legittimato i comunisti malgrado il totalitarismo, io dico: per fortuna! Proprio in tal senso la Resistenza ha reso i comunisti costruttori e protagonisti a pieno titolo della democrazia. Ebbene anche questo è un merito non piccolo del biennio ’43-45. B.G. Quello democratico rimase un connettivo durevole fra le forze politiche, malgrado il profilarsi della rottura politica dentro l’antifascismo? V.F. Alla Costituente i conflitti ebbero libero corso, ma c’era una consapevolezza generale: si costruivano delle regole comuni.

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B.G. Il richiamo a quelle «regole» è un fatto cerimoniale, teso a preservare un nobile denominatore comune, oppure indica ancora un percorso da compiere? V.F. Il richiamo ai «princìpi» allude sempre alla comune volontà di costruire qualcosa di nuovo. Dunque non è mero riconoscimento dell’esistente. Lo spirito dell’Aprile ’45 fu questo: fare un’Italia diversa. Diversa dalla vecchia Italia prefascista, elitaria. L’ingresso delle classi popolari nella Resistenza, rappresentò una visibile rottura nella storia nazionale. E lo capivano anche i borghesi più retrivi. Non si trattava perciò di entrare nella vecchia casa, per apportare piccole modifiche. Avvertivamo la necessità di un rinnovamento radicale, profondo. Poi vennero le delusioni. Affiorarono i tenaci legami col passato e una destra profonda, la continuità burocratica e amministrativa con la vecchia Italia... B.G. Nondimeno mi pare che tu non condivida la nota polemica azionista sulla «Resistenza tradita»... V.F. Noi azionisti siamo scomparsi dalla scena politica. E quando si scompare dalla politica si tende ad incolpare gli altri. Ci sembrava che fosse ritornato il vecchio mondo. E proprio nel momento in cui invocavamo l’autogestione sociale, lo stato anticentralista... In realtà quel che veniva avanti non era una restaurazione vera e propria, ma una spinta più complessa. Era ricominciato con il ’44, in forme inedite, un certo cammino, un difficile processo. Il processo bloccato dal fascismo nel 1921. Dopo la prima guerra era emersa con forza la necessità di dare rappresentanza politica alle masse escluse. Nel 1919 i socialisti ebbero 150 deputati, e i popolari, nati appena da un mese, 100 deputati. Operai e contadini prendevano per la prima volta, e in massa, la parola. Il 1944 fu la riaffermazione esplosiva di quel processo bloccato nel 1922. La delusione azionista non teneva conto della profonda novità costituita dall’irruzione della democrazia distrutta dal fascismo. E tuttavia veniva colto un punto: la ricostruzione centralistica dello stato attraverso i partiti. Da allora ogni conflitto, ogni vertenza venne mediata dalla rete stato-partiti, nel quadro di istituzioni centralistiche. Quest’elemento di verità, preconizzato, anzi-

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tempo dal Partito d’Azione, apparve via via più chiaro in seguito, cioè negli anni 70 e 80. B.G. Torniamo al 43-45. Fu davvero un biennio segnato da uno scontro tra élite? E inoltre: fu «guerra civile» quel biennio, secondo quanto oggi viene sostenuto da opposti fronti storiografici? V.F. La Resistenza fu certo un fenomeno di avanguardia, capace di successo, senza una retrovia di consenso ampia e disponibile. La figura del combattente ha un senso solo in questo quadro. E la famosa «zona grigia», attendista e passiva tra i due campi, è piena di cose diverse. Ma un’area di disponibilità, in essa, esisteva, ed era fortissima. Innegabilmente il bisogno di pace favoriva l’antifascismo. Anche per questo il consenso che lo premiò fu rilevante. Quanto alla «guerra civile», è una disputa che non mi appassiona. Si usino pure le parole che si vogliono. C’erano o non c’erano i fascisti? C’erano. E non erano puri fantocci del tedesco. Era della gente che aveva una certa nozione dell’Italia, opposta alla nostra. Loro avevano i miti nazionalisti e imperialisti. Noi credevamo in un’Italia pacifica e cooperativa. Si è dunque trattato di uno scontro armato fra noi e loro. Non è vero che i fascisti sparirono dopo il 25 luglio 1943. Attenzione: c’è il rischio di celebrare solo la grande esaltazione popolare della Liberazione. Perdendo di vista radici, conflitti e responsabilità precise. Si è cancellato tutto. Non si è più parlato delle colpe della Chiesa, né dell’accettazione del fascismo in vasti strati sociali. E divenimmo tutti liberi, tutti antifascisti. Non è vero! C’erano dei fascisti, nel 43-45. Via via sempre di meno, legati ai tedeschi, contro i quali prendemmo le armi. Ma non erano solo dei mercenari. B.G. Hai riaffermato il valore fondativo dell’antifascismo alla base della Repubblica. Ma di recente, discorrendo con Furio Colombo, hai negato che per essere democratici sia ancora indispensabile passare per l’antifascismo. Come si conciliano questi due convincimenti? V.F. Non c’è il minimo dubbio che la Repubblica, pur tra i diversi impulsi che essa ha assorbito, sia stata fondata dall’antifascismo.

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E tuttavia l’affermazione della democrazia, dell’eguaglianza, della tolleranza, possono scaturire da sensibilità e da esperienze storiche molteplici. Perché mai dovrei imporre ad un ventenne di oggi lo schema dell’antifascismo! Scelga lui le parole che vuole. Se andranno nel senso dei valori per cui io ho lottato, ne sarò ben lieto. Non c’è una realtà «antropologica» dell’antifascismo come dice il mio amico Giovanni De Luna. L’antifascismo è un dato storico, non metafisico.

RESISTENZA, COSÌ È MORTA LA PATRIA [Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 9 marzo 1996]

Dire che l’8 settembre si consumò in Italia la «morte della patria» non vuol dire affatto negare che la Resistenza, e per essa tanti suoi singoli militanti, siano stati animati da un vivo desiderio di riscossa nazionale, o che essa abbia avuto un’importante componente patriottica e perciò svolto una funzione di rinascita nazionale. Sulla Resistenza che dall’inizio si sarebbe presentata «come la riaffermazione di un’identità nazionale smarrita» ha giustamente insistito più volte Vittorio Foa, la cui opinione trova la conferma più immediata nelle innumerevoli ultime lettere dei condannati a morte antifascisti, che terminano con le parole «viva l’Italia» o altre analoghe. Il punto è che non si vede per quale mai ragione riconoscere il carattere patriottico della Resistenza, o almeno una sua parte, dovrebbe essere concettualmente o storiograficamente incompatibile con il considerare l’8 settembre una tragedia dello Stato nazionale italiano e dunque dell’intero popolo italiano. Se si assume infatti come un dato univocamente positivo – e in certo senso come il dato centrale – l’elemento di riscossa nazionale contro il tedesco contenuto nella lotta armata antifascista, se insomma si rivendica il compito propriamente nazionale a cui la Resistenza avrebbe adempiuto, allora non si può non considerare che ben altra vastità, e dunque ben altro impatto politico, essa avrebbe di certo posseduto se, invece di compiersi nella virtuale assenza/disintegrazione dello Stato, avesse viceversa potuto svolgersi, al limite,

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come scelta politico-militare dello Stato italiano, dunque coinvolgendo istituzioni e poteri statali, sia pure in condizioni di clandestinità o di segretezza, sul modello di quanto avvenne, per intenderci, in Olanda o in Polonia. Il punto è che una Resistenza siffatta avrebbe avuto sì un impatto politico più vasto, – e probabilmente, a livello internazionale, di assai maggior beneficio per l’Italia – ma sarebbe risultata assolutamente poco gradita alla maggioranza dei suoi militanti e dei suoi partiti. Si tocca qui con mano un elemento decisivo circa il carattere nazional-patriottico del movimento antifascista armato. Tale carattere, sebbene presente con larghezza in un’accezione per così dire sentimentale, in realtà era però inevitabilmente compresso e deviato dal fatto che la quasi totalità delle forze protagoniste della Resistenza si trovavano schierate ideologicamente e politicamente contro lo Stato nazionale italiano effettivamente esistente, e dunque in tanto potevano credersi e dirsi patriottiche in quanto però fosse chiaro che si trattava di una patria diversa e contrapposta alla patria monarchica, con il cui itinerario storico e con il cui profilo ideologico (anche al di là dell’«inquinamento» fascista) ben poco poteva esserci in comune. Al cuore del patriottismo e dell’ispirazione nazionale della Resistenza stava dunque una non piccola contraddizione: nell’occupazione nazista e nel suo alleato fascista essa combatteva il nemico della nazione italiana, ma al tempo stesso non poteva né voleva ad alcun costo identificarsi, ed anzi non celava la propria ostilità, verso lo Stato che comunque, tuttavia, rappresentava la nazione italiana e la cui autorità formale – culmine dei paradossi – essa Resistenza alla fine sarebbe stata però costretta a riconoscere, avendo per giunta quello Stato dichiarato guerra esso pure a nazisti e fascisti. È facile capire come, schiacciati entro questi limiti così contraddittori, il patriottismo e l’ispirazione nazionale della Resistenza non avessero modo di esprimersi con alcun empito travolgente, non riuscissero a divenire in alcuna occasione pathos collettivo di popolo; e come, d’altra parte, dal punto di vista ideologico, l’uno e l’altra fossero guardati sempre con sospetto nelle file dell’antifascismo militante in armi: ben a ragione, infatti, questo era convinto che un’effettiva, prevalente, centralità del carattere nazionale della Resistenza avrebbe impedito – o reso assai più diffi-

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cile – quella rottura della continuità statale che gli stava sommamente a cuore. Dà voce per l’appunto a questo implicito dilemma Claudio Pavone, quando scrive: «Ancora oggi considerare l’8 settembre come una mera tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una linea che distingue le interpretazioni di opposte sponde». Ciò che tuttavia gli si può rimproverare è di trasporre tal quale il dilemma delle posizioni e degli attori di allora in contrasto di tipo ideologico-storiografico, aderendo ad uno dei corni del dilemma, senza provare, invece, a smontarne il senso. Il senso sta, a mio giudizio, in una duplice opposta impossibilità che scatta con l’armistizio e che caratterizza tutto il periodo successivo: l’impossibilità da parte dello Stato nazionale italiano rappresentato dalla monarchia, a motivo della sua compromissione con il passato, di essere sufficientemente e credibilmente antifascista, e la reciproca impossibilità, da parte della Resistenza antifascista, di essere sufficientemente e credibilmente nazionale e patriottica, a motivo della sua ipoteca sul futuro dello Stato (e del suo collocamento internazionale). L’8 settembre – vale a dire le modalità della preparazione e dell’attuazione dell’armistizio, con la loro incredibile sequela di inettitudini e di viltà dei gruppi dirigenti, sfociate alla fine nella disgregazione dell’esercito e dello Stato – l’8 settembre fu per l’appunto l’evento che ratificò e saldò questa duplice impossibilità, che anzi in certo senso la produsse e la consacrò. Ogni esercizio di controfattualità storica è certamente esposto all’accusa di essere in fin dei conti sterile e dunque di lasciare il tempo che trova. Esso però può essere utile per approfondire l’analisi delle questioni in gioco mettendone in luce tutti gli aspetti. Ebbene, se quel giorno l’esercito italiano non si fosse sfasciato, bensì in qualche modo, sotto la guida di un’autorità politica statale, fosse riuscito a reggere l’urto della Wehrmacht e a creare un fronte «italiano» degno di questo nome, cosa avrebbe potuto verosimilmente accadere? Possiamo pensare a quattro conseguenze principali: a) la lotta antitedesca avrebbe assunto uno spiccato carattere patriottico nazionale, capace di suscitare un non indifferente seguito popolare e una vasta adesione ideologica del paese; b) non essendoci un enorme vuoto politico da riempire e un’«onta» da lavare, Mussolini avrebbe esitato molto a imbocca-

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re la strada della Repubblica sociale: in tal modo non vi sarebbe stata alcuna guerra civile nella penisola; c) tutto il mutamento istituzionale del paese all’indomani della guerra avrebbe avuto un andamento assai tormentato e traumatico: probabilmente la monarchia sarebbe rimasta, ma di sicuro rigenerata e convertita definitivamente alla democrazia nella persona di Umberto II (non sarebbe stata né la prima volta né l’ultima nel corso della storia degli Stati); d) potendo contare su una guida politica nazionale resa più forte dalla catena di eventi ipotizzati sopra, l’Italia avrebbe potuto ragionevolmente aspirare ad un trattamento internazionale migliore di quello che effettivamente ebbe. Se quanto appena immaginato si fosse – in parte o in tutto – realmente verificato, ciò sarebbe stato un bene o un male per la comunità politica italiana? Ognuno risponde, come è ovvio, sulla base della propria scala di valori. Ciò che è opportuno ribadire è che non si tratta di fare la storia con i se. Si tratta di portare alla nostra consapevolezza storica che quella che ho chiamato la «morte della patria», benché andasse preparandosi da tempo, e benché, come è ovvio, abbia avuto ogni buona ragione per accadere, tuttavia ebbe uno snodo assolutamente decisivo in un evento specifico che fu per l’appunto l’8 settembre. È troppo sbrigativo, come fa Claudio Pavone, ascrivere a «un’interpretazione di opposta sponda» il considerare l’8 settembre «una mera tragedia». In questo modo, infatti, vanno completamente perdute la vastità e la profondità dei materiali etico-politici implicati in quell’evento, che rappresentò fuor di dubbio la cesura più drammatica e più gravida di conseguenze nella storia dello Stato unitario e della compagine nazionale; e non già una semplice, benché agitata, pagina della vicenda politica del paese. Che, poi, anche dalla tragedia possa nascere alcunché di positivo, e che nel caso nostro sia effettivamente nato, è un altro discorso: il quale, tuttavia, non può essere motivo per chiudere gli occhi di fronte alla vera natura di ciò che è stato. In una giornata d’autunno del 1944, un reparto del Corpo italiano di liberazione – cioè del minuscolo segmento combattente contro i tedeschi, di quello che era stato il Regio Esercito – entrava a Jesi, una cittadina delle Marche. Geno Pampaloni, giovane ufficiale di quel reparto, ci ha lasciato un ricordo di quei momenti:

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«...Quando i cittadini dalle finestre videro che sulla colonna dei camion che si avvicinava sventolava il tricolore, furono presi da un entusiasmo incontenibile. Si riversarono nella campagna correndoci incontro tra i filari dorati dal limpido sole d’autunno; i vigneti, i sentieri, le redole si gremirono di gente festante, ci abbracciavano, piangevano, gridavano: “sono italiani!”; i ragazzi rubavano le bandiere, le donne con le braccia alzate ci porgevano i bambini da baciare, i vecchi offrivano vino chiamandoci “figli”». Come non pensare a quale diversa via avrebbe imboccato la nostra storia se questa scena si fosse ripetuta in altre mille contrade della penisola? Come non pensare a ciò che avrebbe potuto essere?

SUI RAGAZZI DI SALÒ [Discorso d’insediamento di Luciano Violante alla Presidenza della Camera, 9 maggio 1996]

[...] A differenza di altri importanti paesi europei, non abbiamo ancora valori nazionali comunemente condivisi. Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza, hanno coinvolto solo una parte del paese e solo una parte delle forze politiche. Quelle che ne sono uscite sconfitte, ma anche settori di quelle vincitrici, tanto a metà dell’Ottocento, quanto, un secolo dopo, a metà del Novecento, hanno potuto, per ragioni diverse, frenare la portata innovativa e nazionale di quegli eventi. Oggi del Risorgimento prevale un’immagine oleografica e denudata dei valori profondi che lo ispirarono. La Resistenza e la lotta di liberazione corrono lo stesso rischio e, per di più, non appartengono ancora alla memoria collettiva dell’Italia repubblicana. Mi chiedo, colleghi, me lo chiedo umilmente, in che modo quella parte d’Italia che in quei valori crede e che quei valori vuole custodire e potenziare nel loro aspetto universale di lotta alla tirannide e di emancipazione dei popoli, non come proprietà esclusiva, sia pure nobile, della sua cultura civile o della sua parte po-

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litica, mi chiedo – dicevo – cosa debba fare quest’Italia perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale, e perché si possa quindi uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri. Mi chiedo se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà (Applausi). Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni. [...]

FOIBE: CONTRO VIOLANTE UN APPELLO PER LA VERITÀ [«il manifesto», 15 marzo 1998]

I firmatari di questo appello vogliono dichiarare il proprio netto dissenso dall’iniziativa pubblica di Trieste con la quale Luciano Violante ha inteso spendere la propria autorità istituzionale a sostegno dell’ambigua campagna di «pacificazione» che lo vede impegnato sin dalla sua elezione alla presidenza della Camera dei Deputati. In quanto studiosi e cittadini della Repubblica non intendiamo entrare nel merito del senso politico di proposte del genere; ci sta a cuore invece sottolineare l’infondatezza storica dell’argomentazione e l’inconsistenza delle richieste avanzate. Le foibe, come l’espulsione delle minoranze di lingua italiana da vaste zone dell’Istria e della Dalmazia, rappresentano certamente un dramma storico di vaste dimensioni, uno dei frutti av-

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velenati della seconda guerra mondiale. È giusto quindi che esse vengano studiate e che in proposito si apra una seria discussione; tuttavia è tanto semplicistico quanto unilaterale far ricadere la responsabilità delle foibe, secondo quanto l’on. Violante ritiene, soltanto sui partigiani dell’esercito popolare di liberazione jugoslavo. Non si può dimenticare, infatti, che la responsabilità della trasformazione di frizioni e conflitti interetnici, consueti e scontati in zone di confine, in contrapposizioni politiche irriducibili e risolvibili solo con la violenza ricade prima di tutto sul regime monarchicofascista che resse l’Italia dal 1922 in poi. Un regime caratterizzato da un violento spirito antislavo, che per un ventennio fece di tutto per snazionalizzare le minoranze slovene e croate con deportazioni in massa, con i deferimenti al Tribunale Speciale e con numerose condanne a morte di irredentisti slavi. E che poi, nel 1941, aggredì la Jugoslavia per smembrarla e ne invase significative porzioni annettendosi la provincia di Lubiana e instaurando un regime d’occupazione durissimo che ben poco ebbe da invidiare a quello che l’Italia avrebbe subito dopo l’8 settembre 1943. Trentamila sloveni furono deportati in campi di concentramento non dissimili da quelli nazisti di Dachau e Mauthausen (tristemente famoso quello dell’isola di Rab). Regio esercito e camicie nere si resero responsabili di veri e propri crimini di guerra: fucilazioni di massa, incendi di villaggi, rappresaglie analoghe alle Fosse Ardeatine; a ciò va aggiunto il tentativo degli Alti Comandi di strumentalizzare le tensioni interetniche tra i diversi popoli jugoslavi, per esempio in Bosnia, armando milizie locali reciprocamente ostili. In questo senso, delle foibe e delle espulsioni di massa deve essere considerato almeno corresponsabile il fascismo mussoliniano con la sua politica imperiale ed aggressiva. Se c’è una questione di cui la Repubblica deve farsi carico è, semmai, il non aver mai fatto entrare nella propria memoria collettiva i crimini di guerra di cui l’Italia monarchicofascista si è macchiata in Jugoslavia e non solo (anche in Etiopia ed in Grecia, per esempio), e il non aver mai processato alti ufficiali e gerarchi del regime che emanarono ordini criminali di rappresaglia contro la popolazione civile. La storia d’Italia è unitaria. Le sole divisioni dipendono dal rifiuto degli eredi politici del fascismo di riconoscere le enormi responsabilità di un regime reazionario, imperialista e razzista che

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tolse al paese libertà e dignità per poi gettarlo dal 1935 in poi in una guerra praticamente ininterrotta che culminò nell’intervento al fianco di Hitler. Iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione, e suonano offesa alla memoria di quanti hanno pagato con la vita la costruzione della democrazia in questo paese e nel resto dell’Europa. Non dimentichiamo che il discrimine vero tra antifascisti e fascisti sta nel fatto che i secondi difendevano – di fatto – il sistema che aveva prodotto le camere a gas ed i forni crematori di Auschwitz, che i primi invece volevano cancellare dalla faccia della terra. Questa verità storica e questa memoria intendiamo difendere senza cedimenti, e perciò faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani. Aldo Agosti, Luciano Allegra, Piero Ambrosio, Francesco Barbagallo, «Belfagor» (Firenze), Silvano Belligni, Angelo Bendotti, Cesare Bermani, Giovanna Bernardelli, Duccio Bigazzi, Riccardo Bottoni, Michelangelo Bovero, Alberto Burgio, Luigi Cajani, Luciano Canfora, Andrea Catone, Gian Mario Cazzaniga, «Centro di Cultura Einaudi», Francesco Ciafaloni, Enzo Collotti, Luigi Cortesi, Claudio Costantini, Antonino Criscione, Pinella Di Gregorio, Angelo d’Orsi, Ferdinando Fasce, Paolo Ferrari, Francesca Ferratini Tosi, Filippo Focardi, Gianni Francioni, Emilio Franzina, Mimmo Franzinelli, Francesco Germinario, Chiara Giorgi, Paolo Giovannetti, Gaetano Grassi, Augusto Graziani, Luciano Guerci, Gianni Isola, Nicola Labanca, Maria Carla Lamberti, Adriana Lai, Emilio Lastrucci, Domenico Losurdo, Salvatore Lupo, Bruno Maida, Saro Mangiameli, Brunello Mantelli, Pietro Margheri, Alfio Mastropaolo, Renato Monteleone, Claudio Natoli, Gianni Oliva, Claudio Pavone, Gianni Perona, Pier Paolo Poggio, Gianfranco Porta, Franco Quesito, Carlo Ferdinando Russo, Rino Sala, Alfredo Salsano, Mariuccia Salvati, Renato Sandri, Enzo Santarelli, Marco Scavino, Frediano Sessi, Silvana Sgarioto, Livio Sichirollo, Paolo Soddu, Gabriella Solaro, Corrado Stajano, Gabriele Turi, Cetti Vacante, Mario Vegetti, Albertina Vittoria, Maria Grazia Zanaboni.

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IL «GIORNO DELLA MEMORIA» [Testo della legge n. 211 del 20 luglio 2000]

Istituzione del «Giorno della Memoria» in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica hanno approvato; IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PROMULGA

la seguente legge Art. 1 La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, «Giorno della Memoria», al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetti i perseguitati. Art. 2 In occasione del «Giorno della Memoria» di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica ita-

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liana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Data a Roma, addì 20 luglio 2000 CIAMPI AMATO,

Presidente del Consiglio dei Ministri Visto, il Guardasigilli FASSINO

IL GIORNO DELLA MEMORIA E I CRIMINI DELL’ITALIA [«la Repubblica», 12 gennaio 2003, Lettere]

Il 27 gennaio – giorno in cui l’Armata Rossa arrivò ad Auschwitz – è la data scelta per ricordare lo sterminio degli ebrei. Da parte dell’Italia questa scelta, a mio parere, è un atto di vigliaccheria: avremmo dovuto scegliere un’altra data, ma noi italiani non siamo ancora in grado di guardare in faccia il nostro passato. Infatti, quando parliamo della seconda guerra mondiale ci mettiamo sempre fra le vittime – delle rappresaglie tedesche, dei bombardamenti alleati, dei partigiani di Tito – e mai fra gli aggressori. Di fronte alle Fosse Ardeatine viene sventolato, in una sorta di oscena par condicio, l’orrore delle foibe, ma si evita accuratamente di parlare degli spaventosi crimini di cui si sono macchiati i nostri soldati in Jugoslavia, dell’occupazione della Libia e dell’Etiopia (quanti italiani sanno delle migliaia di abissini massacrati dopo l’attentato a Graziani?). L’Italia poteva scegliere fra date molto più significative dell’arrivo a Auschwitz dell’Armata Rossa, per ricordare la Shoah, aveva l’obbligo morale di ricordare le leggi razziali del 1938 e poteva farlo scegliendo fra il 14 luglio (manifesto degli scienziati razzisti), il 6 ottobre (dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo) o il 5 settembre (regio decreto che espulse gli ebrei dalle scuole e dalle università). Invece abbiamo preferito scappare, scegliendo una data che non ci coinvolgesse direttamente. Claudio Giusti

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MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SILVIO BERLUSCONI NEL «GIORNO DELLA MEMORIA», 27 GENNAIO 2003* Oggi in Italia e in molti paesi si celebra il giorno della Memoria. Una ricorrenza dolorosa e solenne, che chiama tutti a riflettere sulle atrocità di cui può essere capace l’uomo e sulle aberrazioni a cui possono condurre ideologie che non riconoscono la dignità ed anzi, direi, la sacralità di ogni essere umano. Il secolo appena trascorso avrebbe potuto essere ricordato per i traguardi straordinari raggiunti nel campo del progresso economico e sociale, per le grandi scoperte scientifiche e tecnologiche che hanno cambiato la condizione dell’uomo e aperto a nuove prospettive di benessere, di civiltà e di libertà. Oltre che per questi innegabili risultati, il novecento sarà purtroppo ricordato anche per gli orrori e per le sofferenze inferte agli uomini dai due totalitarismi: quello nazista e quello comunista. Mi rivolgo specialmente alle ragazze e ai ragazzi di oggi, che si trovano a vivere in un Paese che ha saputo riconoscere i propri errori ed ha saputo, anche grazie al soccorso della grande democrazia americana e al sacrificio di molte sue giovani vite, ricostruire appunto una «democrazia», rispettosa della dignità delle persone e dei principi di uguaglianza e di libertà di tutti i cittadini. La libertà è l’essenza dell’uomo, è l’essenza della nostra intelligenza e del nostro cuore, è l’essenza della nostra capacità di amare e di creare; e Dio fin dalle origini, l’uomo l’ha voluto così, lo ha voluto libero. Anche per il futuro dovete essere consapevoli che questa libertà non è data una volta per tutte ma deve essere difesa giorno dopo giorno dai nuovi pericoli che la minacciano. La difesa della libertà è la missione più alta, più nobile e più entusiasmante che ci sia. Quest’anno, nel celebrare il giorno della Memoria, ricordiamo che la comunità internazionale è impegnata per combattere il ter* Tratto dal sito www.governo.it.

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rorismo e per rendere inoffensivi quei regimi che minacciano la pace nel mondo. Ancora una volta la scelta fra la pace e la guerra è nelle mani di chi nega la libertà alla sua gente e attenta alla convivenza pacifica fra i popoli. Noi siamo a favore della pace, ma non possiamo diventare corresponsabili di una resa di fronte a chi insidia la nostra sicurezza, la nostra libertà e la nostra democrazia. Questo giorno deve essere dunque l’occasione per coltivare la memoria, per non dimenticare, per combattere i rigurgiti dell’intolleranza dell’uomo, del razzismo e dell’antisemitismo che ancora si manifestano in molte parti della terra. Questo deve essere per ciascuno di noi l’occasione per assumere l’impegno a non dimenticare ed a contribuire alla costruzione di un mondo più giusto fondato sulla pace, sulla democrazia, sulla libertà di tutte le donne e di tutti gli uomini.

INDAGINE CONOSCITIVA SUL RINVENIMENTO DI FASCICOLI RELATIVI A CRIMINI NAZIFASCISTI, 6 MARZO 2001*

[Documento conclusivo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati]

Obiettivi dell’indagine conoscitiva In data 18 gennaio 2001 la Commissione Giustizia ha deliberato una indagine conoscitiva sulle archiviazioni di 695 fascicoli, contenenti denunzie di crimini nazifascisti commessi nel corso della seconda guerra mondiale, e riguardanti circa 15.000 vittime. L’indagine è nata dall’esigenza di verificare le cause di tali archiviazioni, le quali, già da un primo esame, risultano essere anomale in ragione sia del contenuto stesso dei fascicoli rinvenuti sia * Tratto da Memoria e giustizia. Stragi, crimini di guerra, processi. Italia 19431945, «l’Unità», Roma 2003.

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della modalità della loro conservazione. Questi, infatti, sono stati ritrovati – anziché nell’archivio degli atti dei Tribunali di guerra soppressi e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato – a palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, in un armadio, con le porte sigillate e rivolto verso la parete, situato in uno stanzino, chiuso da un cancello di ferro. La circostanza che tali documenti, sembrerebbero essere stati occultati, piuttosto che archiviati, ha indotto il Consiglio della magistratura militare a deliberare, in data 7 maggio 1996, una indagine conoscitiva per stabilire «le dimensioni, le cause e le modalità della ‘provvisoria archiviazione’ e del trattenimento nell’ambito della Procura generale militare presso il Tribunale supremo militare di procedimenti per crimini di guerra». L’indagine si è conclusa con la deliberazione di una relazione conclusiva. La circostanza, che ha indotto, prima, il Consiglio della magistratura militare e, poi, la Commissione Giustizia a deliberare una indagine conoscitiva, risale all’estate del 1994, quando in un locale di palazzo Cesi in via degli Acquasparta 2 in Roma, sede degli uffici giudiziari militari di appello e di legittimità, veniva rinvenuto un vero e proprio archivio di atti relativi a crimini di guerra del periodo 1943-1945. Nella relazione dell’organo di autonomia della magistratura militare si riporta che il carteggio era suddiviso in fascicoli, a loro volta raccolti in faldoni. Nello stesso ambito venivano alla luce anche un registro generale con i dati identificativi dei vari fascicoli e la corrispondente rubrica nominativa. Il materiale rinvenuto era in gran parte costituito da denunce e atti di indagine di organi di polizia italiani e di Commissioni di inchiesta anglo-americane sui crimini di guerra, che risultavano essere raccolti e trattenuti in un archivio, invece di essere inviati, ai magistrati competenti per le opportune iniziative e l’esercizio dell’azione penale. Per quanto il locale del ritrovamento si trovasse tra quelli di pertinenza della Procura generale presso la Corte militare d’appello, sui fascicoli figurava la provvisoria archiviazione adottata dalla Procura generale militare presso il Tribunale supremo militare, organo giudiziario soppresso nel 1981, le cui funzioni erano passate alla Procura generale militare presso la Corte di Cassazione. L’obiettivo dell’indagine del Consiglio della magistratura militare era naturalmente strettamente connesso ai compiti istituzionali di tale organo, per cui l’indagine mirava a verificare se vi fossero responsabilità di magistra-

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ti militari ancora in vita nell’occultamento delle pratiche rinvenute. Nonostante che questo fosse l’obiettivo, dalla relazione risulta che in occasione delle indagini emersero dei fatti estremamente importanti per la ricostruzione storica della vicenda, che si è andata sempre più prefigurando di carattere politico, piuttosto che giuridico. I gravi dubbi che la relazione suscita circa una presunta volontà politica diretta a occultare i fascicoli sulle stragi nazifasciste e l’insistente disperata ricerca della verità da parte di associazioni dei partigiani, dei parenti delle vittime di tali stragi, dei comuni che ne sono stati tragici teatri ed, in particolare, del Comitato per la verità e giustizia hanno indotto la Commissione Giustizia a deliberare una indagine conoscitiva che chiarisca i termini complessivi della vicenda, che oramai assume una valenza sempre più politica. La delimitazione dell’ambito dell’indagine non ha potuto non risentire del ristretto margine di tempo a disposizione della Commissione, in ragione dell’imminente conclusione della legislatura. L’indagine è stata deliberata infatti non tanto per verificare se da una analitica lettura dei fascicoli rinvenuti possano emergere nomi e responsabilità degli autori dei crimini, ma soprattutto per comprendere quali siano stati i condizionamenti subiti dalla magistratura militare e se sarebbe stato quindi possibile, a tempo debito, perseguire i colpevoli. Individuare le responsabilità penali dei militari che hanno compiuto i crimini in questione dopo cinquant’anni di ritardo è difficile se non impossibile, poiché molti di essi, così come pure molti dei testimoni, sono deceduti. È possibile invece capire se le diverse Procure militari dei luoghi dove si svolsero i fatti avrebbero potuto individuare e perseguire i responsabili dei reati scoperti, qualora fossero stati loro trasmessi, a tempo debito, i fascicoli. È parsa, pertanto, necessaria e urgente una valutazione parlamentare, attraverso lo strumento dell’indagine conoscitiva, al fine di verificare se vi sia stato un occultamento durato cinquant’anni, e poi valutare l’opportunità di promuovere l’istituzione di una Commissione di inchiesta, che verifichi gli ambiti delle eventuali responsabilità storiche, politiche e giuridiche.

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Conclusioni Dalle audizioni svolte e dal materiale raccolto nel corso della indagine conoscitiva, in primo luogo, risulta evidente la responsabilità della magistratura militare e, in particolare, dei Procuratori generali militari che si sono succeduti dal 1945 al 1974. L’illegalità ha avuto inizio dal primo dopo guerra, quando, anziché trasmettere i fascicoli alle procure militari competenti per territorio, si è preferito accentrarli presso un organo, quale la Procura generale militare presso il Tribunale supremo militare, che non aveva competenza al riguardo, non avendo alcuna competenza e responsabilità di indagine e di esercizio dell’azione penale. Come si è detto, l’esito della riunione del 20 agosto 1945 molto probabilmente non è stato quello di occultare i fascicoli, ma di accentrarli per poi smistarli, secondo il disegno tracciato dagli Alleati, secondo il quale la competenza per l’accertamento dei crimini di guerra si doveva suddividere tra l’Italia e gli Alleati, secondo criteri legati alla localizzazione del fatto incriminato o al grado dei militari coinvolti. Occorreva quindi una operazione di smistamento dei fascicoli. Tuttavia, neanche dopo il 1954, quando al dottor Borsari era succeduto il dottor Mirabella, i fascicoli vennero distribuiti alle procure competenti, così come peraltro non avvenne quando nel 1958 al dottor Mirabella subentrò il dottor Santacroce, il quale, anzi, adottò dei provvedimenti formali di «archiviazione provvisoria». In realtà, da nessun documento risulta che vi sia stata una volontà diretta, da parte dei magistrati militari, a insabbiare i fascicoli relativi ai crimini di guerra. Tuttavia la costante violazione della legge a causa della mancata trasmissione dei fascicoli alle procure competenti, da parte di tre diversi soggetti, non può non far pensare a un disegno unitario volto a impedire la celebrazione di processi sui crimini di guerra. È da ritenere che i magistrati militari furono in realtà uno strumento in mano ai politici e, in particolare, del governo. A tale proposito è opportuno ricordare che sino alla riforma del 1981 la magistratura militare non godeva delle guarentigie della indipendenza, terzietà e imparzialità proprie della magistratura ordinaria e delle magistrature speciali. Prima di tale data la magistratura militare era organizzata verticalmente, per cui i magistrati dipendevano dal Procuratore generale militare, il quale veniva nominato dal

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Consiglio dei ministri che costituiva, nella persona del presidente del consiglio, il vero e ultimo vertice della piramide. Solo con una direttiva politica dal vertice la vicenda in esame, con tutta l’illegalità che la caratterizza, può essere spiegata. Alla base della inspiegabile inerzia della magistratura militare vi fu, infatti, la «ragion di stato», la quale, come abbiamo visto, dovrebbe essere stata determinata dalla «Guerra fredda» che caratterizzava negli anni Cinquanta e Sessanta non solo la politica internazionale degli Stati, ma anche quella interna. È da chiedersi se la scelta politica di non procedere all’accertamento dei crimini di guerra sia stata condizionata anche dal timore che l’Italia venisse coinvolta per la condotta di guerra antecedente all’8 settembre soprattutto nei Balcani. Si tratta di una considerazione espressa dagli Alleati nel 1946, che però non ha trovato alcun riscontro nella realtà dei fatti. A circa cinquanta anni di distanza dall’accadimento dei fatti è quanto mai arduo raggiungere la verità processuale sugli stessi. Gran parte dei procedimenti scaturiti dalle denunzie contenute nei fascicoli sono stati definiti con archiviazioni o sentenze di non luogo a procedere. Purtroppo la prescrizione dei reati, nei casi in cui operi, la dispersione negli anni delle fonti di prova, il decesso degli autori o l’impossibilità del loro riconoscimento sono tutti fattori che rischiano di lasciare impunite stragi naziste come, ad esempio, quelle di Cefalonia, di Fossoli e di Sant’Anna di Stazzema. All’inerzia colpevole dello Stato, che per cinquanta anni non ha voluto cercare e perseguire i colpevoli, la magistratura militare sta cercando di porre oggi rimedio effettuando tutti quei processi, relativi ai crimini di guerra, che è ancora possibile svolgere. Vi è un debito morale di giustizia postuma nei confronti delle migliaia di vittime delle stragi di guerra, che le istituzioni devono oggi pagare, assicurando loro giustizia e tenendo vivo il ricordo di quanti si sono sacrificati per il bene della Patria e delle vittime inermi di raccapriccianti e vigliacche rappresaglie, espressioni della ingiustificata e inaudita ferocia delle forze naziste alleate della dittatura fascista. Bellona, le Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Boves e Fossoli sono solo alcuni dei luoghi in cui sono state compiute le atrocità nei confronti di bambini, donne, anziani e uomini inermi. Proprio in riferimento a tali stragi, il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha ricevuto una delegazione composta dai sindaci di Carpi e di Sant’Anna di Staz-

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zema e dai presidenti delle Associazioni partigiane combattentistiche, realtà promotrici del Comitato per la verità e la giustizia, il cui scopo è fare piena luce sulle 695 stragi nazifasciste oggetto della indagine conoscitiva. In tale occasione il presidente della repubblica, come ha affermato il sindaco di Carpi, ha confermato il suo impegno affinché si ottengano verità e giustizia sulle stragi compiute dai nazifascisti in tante parti d’Italia a partire dal 1944, facendo peraltro riferimento anche alla indagine conoscitiva in corso presso la Commissione giustizia della Camera dei deputati. Accanto alle stragi delle quali è stata vittima la popolazione civile vi sono poi gli eccidi dei soldati italiani e dei partigiani. Non si può non ricordare la strage di Cefalonia, nella quale 6500 soldati italiani furono massacrati dalle truppe tedesche. Come ha sottolineato il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in occasione della commemorazione dei caduti italiani a Cefalonia tenuta il 1° marzo 2001, «l’inaudito eccidio di massa, di cui furono vittime migliaia di soldati italiani denota quanto profonda fosse la corruzione degli animi prodotta dalla ideologia nazista». Il debito che ogni cittadino italiano ha nei confronti di chi è morto per la libertà della Patria può essere pagato ricordando i sacrifici compiuti. A tale proposito è opportuno richiamare nuovamente quanto affermato dal presidente della repubblica ultimamente a Cefalonia: «Ai giovani di oggi, educati nello spirito di libertà e di concordia fra le nazioni europee, eventi come quelli che commemoriamo sembrano appartenere a un passato remoto, difficilmente comprensibile. Possa rimanere vivo, nel loro animo, il ricordo dei loro padri, che diedero la vita perché rinascesse l’Italia, perché nascesse l’Europa di libertà e di pace. Ai giovani italiani, ai giovani greci e di tutte le nazioni sorelle dell’Unione europea, dico: non dimenticate».

Interventi proposti Dalla breve indagine che la Commissione Giustizia ha svolto è emersa con tutta evidenza che l’inerzia in ordine all’accertamento dei crimini nazifascisti sia stata determinata dalla «ragion di stato», le cui radici in massima parte devono essere rintracciate nel-

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le linee di politiche internazionali che hanno guidato i Paesi del blocco occidentale durante la «Guerra fredda». Si tratta di un tema che merita di essere approfondito nella prossima legislatura, al fine di delineare con maggiore precisione gli ambiti di responsabilità degli organi dello Stato coinvolti. Lo strumento più adeguato per raggiungere tale obiettivo è sicuramente l’inchiesta parlamentare ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione. La Commissione di inchiesta, della quale si auspica l’istituzione, non dovrà procedere all’accertamento delle responsabilità delle stragi di guerra, il cui compito spetta alla magistratura militare, ma verificare quali siano stati gli ostacoli che hanno impedito alla giustizia di fare il suo corso, anche nominando un comitato composto da storici, al quale affidare il compito di procedere a una esauriente ricostruzione storica del fenomeno. In tal senso, al termine dell’indagine conoscitiva, la Commissione Giustizia sottolinea l’esigenza che agli storici italiani, studiosi di quella vicenda, sia messa a disposizione la documentazione custodita negli archivi italiani (ministero degli Esteri, della Difesa, della Giustizia, dell’Arma dei carabinieri, della Procura generale militare). Il lavoro di ricostruzione storica di quel periodo è stato sinora affidato alla possibilità di consultare archivi stranieri (in particolare inglesi e americani). La desegretazione, ove non rechi pregiudizio agli interessi dell’ordinamento tutelati dal segreto di stato, appare oggi, da parte del governo italiano, un atto concreto e affermativo di una volontà del Paese di ricercare la verità storica di quei fatti, così facendo, insieme, un atto di giustizia.

LE GUERRE CRUDELI DI MUSSOLINI. CADE IL MITO DEL BRAVO ITALIANO [Filippo Focardi, «l’Unità», 25 aprile 2001]

«Abbiamo distrutto tutto, da cima a fondo, senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo famiglie intere, ogni notte, a furia di colpi o con le armi. Se cercano soltanto di muoversi, tiriamo senza pietà, e chi muore muore». Così scriveva ai familiari un soldato della provincia di Firenze, raccontando la sua esperienza di occu-

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pante in Jugoslavia, impegnato in azioni antipartigiane. Saccheggi e incendi di villaggi, esecuzioni sommarie, torture della polizia, deportazione di popolazioni civili, campi di concentramento. Sistemi repressivi in tutto simili a quelli messi in atto dai tedeschi. Le «guerre di Mussolini» ebbero questo volto efferato, nei territori jugoslavi come in Albania, in Grecia e ancor prima in Libia e in Etiopia. Responsabili di tante sofferenze non furono solo esaltati fascisti in camicia nera ma anche, anzi in massima parte, «i gioviali soldati del civile esercito italiano» (E. Kocbek). Per le atrocità commesse, furono più di mille gli italiani denunciati dopo il 1945 come criminali di guerra dai paesi vittime del fascismo. Oltre 700 furono richiesti dalla Jugoslavia, circa 150 rispettivamente dalla Grecia e dall’Albania, 12 dall’Unione Sovietica, molti dall’Etiopia con in prima fila Badoglio e Graziani, circa una trentina dalla Francia. Il governo italiano, che poté contare sull’appoggio britannico e statunitense, riuscì ad evitarne la consegna. Roma rivendicò il diritto di giudicare in Italia i presunti criminali e istituì a questo scopo una commissione d’inchiesta. Nessuno però fu mai chiamato a pagare per i misfatti compiuti. Nel corso degli anni le istituzioni sono state sempre molto reticenti a proposito dei crimini di guerra italiani. Nel 1989 la Farnesina ha protestato con la BBC inglese per un documentario, intitolato Fascist Legacy, sui crimini italiani in Africa e nei Balcani. Acquistato successivamente dalla RAI, il programma non è ancora andato in onda. Emblematica anche la vicenda del libro sui criminali italiani dello storico americano Michael Palumbo: annunciato in pubblicazione dalla Rizzoli nel 1992 col titolo L’olocausto rimosso, il volume non ha mai visto la luce. Solo nel febbraio 1996 il Ministero della Difesa ha ammesso l’utilizzo dei gas in Africa da parte italiana. Dal dopoguerra a oggi la verità sui crimini di guerra del fascismo ha dunque stentato a farsi strada. Nella coscienza collettiva ha predominato l’immagine autoassolutoria degli «italiani brava gente»: vittime anch’essi delle guerre volute da Mussolini, pronti a solidarizzare con le popolazioni dei paesi invasi, salvatori di ebrei, tanto più umani e compassionevoli in raffronto ai «cattivi tedeschi», sui quali è stato scaricato tutto il peso del male. Si tratta di un’immagine edulcorata, non priva di un fondo di verità, ma al contempo distorta e fuorviante, legata alla raffigurazione assai

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diffusa del fascismo come regime «all’acqua di rose», retorico e velleitario. Vari i fattori alla sua origine: gli interessi di vasti settori militari e burocratici compromessi col fascismo e contrari ad una resa dei conti; la «rimozione terapeutica» (M. Franzinelli) operata da un paese che voleva lasciarsi rapidamente alle spalle l’esperienza della dittatura; infine, le responsabilità della stessa classe dirigente antifascista. Per legittimarsi sul piano interno, l’antifascismo evitò infatti di rimproverare agli italiani il loro passato e sostenne l’immagine del popolo italiano vittima del fascismo. Inoltre, per tutelare gli interessi nazionali messi a repentaglio dalla sconfitta, sottolineò i meriti dell’Italia cobelligerante e partigiana piuttosto che le colpe dell’Italia fascista, mettendo in risalto le differenze rispetto alla Germania, macchiatasi di crimini orrendi, incapace di sollevarsi contro il nazismo. I crimini tedeschi hanno fornito un comodo alibi alla coscienza degli italiani. Adesso sarebbe il momento di stringere un «patto con la verità» (B. Spinelli). I tedeschi, pur a fatica, hanno tentato di farlo. Noi non ancora. Il giusto richiamo ai valori della Resistenza si deve sposare con il riconoscimento delle colpe dell’Italia fascista. È la strada perseguita dal presidente Ciampi. Visitando Cefalonia, egli ha ricordato il gesto della guarnigione italiana sacrificatasi contro i nazisti ma al contempo ha condannato l’aggressione italiana della Grecia. È un primo passo importante.

STRADE INTITOLATE A MUSSOLINI? È ORA DI SMETTERLA [Dalla rubrica Lettere al Corriere di Paolo Mieli, «Corriere della Sera», 3 novembre 2001]

Ho letto sul Corriere che dappertutto, laddove esponenti di Alleanza Nazionale sono al governo negli enti locali si dedicano piazze e strade a Benito Mussolini e altri gerarchi fascisti. Ha fatto da battistrada un piccolo comune in provincia di Catania. Poi i casi si sono moltiplicati. L’Unità del 27 ottobre ne ha fatto un’ampia e dettagliata rassegna in un articolo dal titolo “Italia torna il fascismo”. Mi domando

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dove è andata a finire la svolta di Fiuggi? Non è che i dirigenti di quel partito sono rimasti missini? Francesco Ceccanti (Firenze) Caro Signor Ceccanti, effettivamente dopo che a Tremestieri Etneo – quel paesino in provincia di Catania di cui lei ha letto sul Corriere – il sindaco di An, Guido Costa, ha annunciato di voler intitolare una delle vie principali a «Benito Mussolini-statista», c’è stato un fiorire di iniziative analoghe in molti comuni italiani. Anzi, da qualche parte del paese, questa rivoluzione della toponomastica era già iniziata prima che a Costa venisse la brillante idea. A Trieste si è parlato di una strada col nome di Giorgio Almirante, a Ragusa di una statua per Filippo Pennevaria, a Cagliari di una via per Enrico Endrich, all’Aquila di una piscina per Adelchi Serena e via di questo passo. Tutti nomi come avrà capito di personalità piccole e grandi del ventennio. L’Unità ne ha fatto oggetto di denuncia. In prima pagina. Con quel titolo che lei ricordava a dire il vero un po’ enfatico. Ma le segnalazioni del giornalista Michele Sartori erano impeccabilmente precise. Tant’è che quando sul Secolo d’Italia, il giornale di An, gli ha risposto Annalisa Terranova, la giornalista non ha potuto negare l’evidenza. Ed è stata costretta a minimizzare dicendo che si trattava di casi di “folklore politico”, che molti di quei personaggi erano assai amati dalla gente del luogo, che altre vie erano state dedicate a Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci, che talvolta i DS locali avevano votato a favore della decisione. Negli stessi giorni, proprio quel giornale che fa capo ad Alleanza Nazionale ha denunciato con sdegno il caso del comune di Lana che ha intitolato una piazza a Jörg Pircher il terrorista altoatesino che fu protagonista della cosiddetta «notte dei fuochi» (una serie di esplosioni che avrebbero dovuto dare il la a una rivolta separatista del Tirolo) e che per quegli attentati pagò con otto anni di carcere. Anche lì c’è un sindaco, Christoph Gufler, che ritiene di poter spiegare la sua decisione dicendo che Pircher ha lasciato un ottimo ricordo di sé, che «le bombe che fece esplodere non dovevano uccidere nessuno, volevano solo testimoniare la

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sua aspirazione alla libertà del Tirolo» e che era un «uomo buono ricordato con affetto per la sua generosità». Più o meno le stesse cose che dicono i postmissini per le vie e le piazze che dedicano alle personalità del loro passato. Quanto a me, penso che questi siano brutti segnali. Molto brutti. Mi piacerebbe vivere in un Paese nel quale sindaci e assessori dedicano i nomi delle strade alle vittime provocate dai loro progenitori politici. Proprio per marcare la discontinuità con il passato e far capire che essa non si limita al cambiamento di intestazione del partito a cui appartengono. Perciò se fossi Gianfranco Fini, a questi esuberanti assessori direi una sola parola: «Smettetela». Paolo Mieli

W IL 25 APRILE, MA... [«Il Foglio», 25 aprile 2002; articolo non firmato]

La festa della Liberazione, nonostante rievochi un avvenimento di più di mezzo secolo fa, è a ragione particolarmente sentita. La sconfitta degli eserciti tedeschi invasori e del fascismo repubblichino che, al servizio dello straniero, aveva instaurato un regime di terrore: la partecipazione alla battaglia delle Forze armate ricostituite al Sud e dei partigiani del Nord, hanno dato un senso e una dignità alla difficile uscita dell’Italia da una guerra in cui era entrata in modo vigliacco aggredendo alle spalle una Francia già sconfitta. Il senso del riscatto nazionale e dell’alba della democrazia rimangono, con tutto il loro valore unitario sul quale finalmente sono concordi tutti gli italiani, anche quelli che a lungo sono stati legati alla «parte sbagliata». Il 25 aprile va celebrato nello spirito più volte rivendicato da Carlo Azeglio Ciampi di riconciliazione nazionale, che non ha nulla a che vedere con un’assurda equiparazione tra la Repubblica, che unisce, col fascismo, che ha distrutto l’unità della Nazione. È invece sbagliato dare alla celebrazione della Resistenza vittoriosa il senso di una nuova divisione, magari

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di una rivincita di piazza contro il verdetto elettorale. L’antifascismo è un dato acquisito nella Costituzione e nella coscienza popolare. Usarlo come arma di divisione e di nuovo conformismo ideologico rimanda a quello sciagurato antifascismo «militante» che finì nel terrorismo delle Brigate rosse. Si cominciò, già a metà degli anni ’60, a gridare «la Resistenza è rossa non è democristiana», e si sa com’è andata a finire. Trasformare il ricordo di un atto fondativo dello Stato democratico, su cui si è poi sviluppato un grande paese libero e occidentale, in un’operazione propagandistica avvilente e faziosa, come fa una parte della sinistra più o meno girotondina, è sbagliato e pericoloso. La mitologia della Resistenza tradita è stata, in questo Dopoguerra, la nutrice di quasi tutte le pulsioni estremistiche e antidemocratiche di sinistra, come quella della vittoria mutilata era stata, dopo la grande guerra, la base ideologica dell’eversione fascista. Il lascito della Liberazione è la libertà e la pace, non la guerra civile, che fu una tragica necessità, né la rivoluzione sociale che fortunatamente non c’è stata, evitando all’Italia la sorte tragica della Grecia e delle democrazie popolari. L’eredità del 25 aprile vive nelle istituzioni democratiche e nella sovranità popolare e in quanto tale non è il retaggio esclusivo di nessuno. Chi se ne vuole impossessare la tradisce.

8 SETTEMBRE 1943: LA PATRIA RITROVATA* [Dichiarazione della Fondazione Corpo Volontari della Libertà, Roma 3 settembre 2003]

Sessant’anni fa, mentre i responsabili politici e militari abbandonavano a se stessi esercito e popolo, migliaia di militari e di civili, uniti in un rinnovato amore per la patria che il fascismo aveva gettato nel baratro della disfatta e della vergogna, decidevano di opporsi all’occupante nazista, di combattere in patria e all’estero, di prendere la via della montagna. Città e borghi dell’Italia * Tratto dal sito www.anpi.it.

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meridionale insorgevano contro i tedeschi. Quelle popolazioni non facevano calcoli di convenienza, essendo ormai imminente la liberazione da parte delle forze alleate, ma ubbidivano all’esigenza morale di essere protagoniste ed artefici di una libertà che andava riconquistata anche con sacrifici propri. Era la stessa esigenza che avrebbe motivato i partigiani. Gli italiani ritrovavano se stessi, le proprie radici risorgimentali e si congiungevano alla tradizione di libertà che per un ventennio, in carcere, al confino, in esilio, nella clandestinità gli antifascisti avevano tenuto viva. Da Porta San Paolo alle giornate della Liberazione, la Resistenza è fatta di cento resistenze che hanno unito, da radici diverse che si riconoscevano in una speranza comune, le donne e gli uomini liberi d’Italia, con la lotta delle formazioni partigiane, la scelta dei 600 mila militari internati in Germania di continuare a sopportare il dramma della prigionia in condizioni inumane pur di non piegarsi alle minacce e alle lusinghe del dittatore nazista e dei suoi complici fascisti, la renitenza di tanti giovani ai minacciosi «bandi» del sedicente governo di Salò, la resistenza, nelle forme più diverse, degli operai delle fabbriche, delle donne, dei contadini. Da quelle lotte è nata la democrazia italiana, con la sua Costituzione che è e deve restare il punto di riferimento essenziale per ogni ulteriore conquista politica, civile e sociale. Quelle lotte, che ebbero dimensioni e respiro europei, espressero ideali di solidarietà su cui è nata l’unità dei popoli di un continente che nella storia si era distinto per guerre, destinate nel ventesimo secolo ad assumere dimensioni mondiali. La Fondazione C.V.L., che riunisce le Associazioni partigiane (A.N.P.I., F.I.V.L., F.I.A.P.) ricorda con commozione e gratitudine i tanti Caduti, con orgoglio le conquiste di progresso realizzate grazie al loro sacrificio. La memoria degli eventi di sessanta anni fa va conservata intatta come grande patrimonio unitario – la Repubblica democratica ha garantito libertà a tutti, anche a chi si era schierato dalla parte sbagliata – perché in quei valori c’è il nostro passato e il nostro futuro, c’è il significato della nostra convivenza civile, dell’essere popolo libero in un contesto di popoli liberi.

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QUEI FASCISTI UCCISI DOPO IL 25 APRILE [«la Repubblica», 10 ottobre 2003; intervista di Simonetta Fiori a Giampaolo Pansa] ROMA – È una pagina orrenda della storia italiana del Novecento. Storie di impiccati e traditori, di stupri e torture, di fucilazioni di massa ed efferatezze gratuite, di cadaveri irrisi e violati, della furia vendicativa che travolse il Nord d’Italia alla fine della guerra. Storie laceranti e dolorose, perché nelle vesti di aguzzini e seviziatori, tra il maggio del 1945 e la fine del 1946 (talvolta anche più in là), s’incontrano alcuni dei partigiani che avevano liberato il paese da nazisti e fascisti. E tra le vittime, ritratte nella luce livida della morte, uomini della Guardia Nazionale Repubblicana, brigatisti neri, federali di Salò, ma anche farmacisti, avvocati, artigiani, commercianti, operai, casalinghe, maestre elementari, affittacamere, talvolta condannati alla forca soltanto per una tessera del Partito fascista repubblicano. Per quasi sessant’anni questa vicenda è rimasta avvolta in un velo di reticenze e di silenzi imbarazzati. La racconta ora, con la passione storiografica degli esordi e la limpidezza del narratore sapiente, Giampaolo Pansa, in un libro – Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, pagg. 382, euro 17, dal 14 ottobre in libreria) – che susciterà polemiche non lievi. «Dopo tante pagine scritte, anche da me, sulla Resistenza e sulle atrocità compiute dai tedeschi e dai repubblichini, mi è sembrato giusto far vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale italiana». Il risultato è un viaggio attraverso l’orrore compiuto dall’autore insieme a Livia, una bibliotecaria quarantenne che è l’unico personaggio inventato del racconto. Meticolosa e sconvolgente è la mappa dei crimini. Scuole e ville trasformate in luoghi di tortura. Uomini gettati vivi nei forni delle acciaierie. Fiumi gonfi di cadaveri sfigurati. Un’intera colonna di soldati – la «Morsero» – esposta al linciaggio popolare, esecuzioni di massa sul Piave, assalti furibondi alle carceri, donne stuprate e poi finite con una pallottola. A Milano, Torino, in tanta parte della Liguria, nel Veneto, in Emilia. E tanto più feroce era stata l’occupazione nazifascista,

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quanto più furiosa esplode la vendetta. Soltanto alla fine di questo viaggio scopriremo che Livia è figlia d’un ex partigiano della Volante Rossa (la squadra che nel dopoguerra a Milano seminò terrore tra gli ex repubblichini) e con quel controverso passato vuol fare i conti. S.F. Lei, Pansa, perché ha voluto aprire una pagina così spinosa? G.P. «Avevo diciannove anni quando cominciai a studiare la storia della Resistenza. A quella straordinaria vicenda civile ho dedicato con slancio la mia tesi di laurea, avviata con Alessandro Galante Garrone e conclusa con Guido Quazza, i miei maestri. Da allora ho continuato a scriverne, con una curiosità mai soddisfatta: ma cosa è realmente accaduto alla fine della guerra? Nessuno mi ha mai dato una risposta. Non gli accademici, per cui la storia si concludeva con il 25 aprile. Né la storiografia di sinistra, che per opportunismo partitico o faziosità ideologica ha quasi sempre ignorato quegli avvenimenti. A sessantasette anni mi sono detto: ma perché non provare a raccontare il ‘dopo 25 aprile’?». S.F. Nessun disagio nel confrontarsi con una materia così incandescente? G.P. «No, perché dovrei? Sono un ex ragazzo di sinistra, ho un pedigree antifascista, l’eroe per antonomasia è il partigiano che liberò la mia città, Casale Monferrato. Ma ho sempre saputo che la guerra civile è una scuola terribile per tutti. Ti abitua alla violenza disumana. Chi sostiene che soltanto una parte s’è macchiata di pratiche bestiali sa di dichiarare il falso. Quello schifo l’abbiamo visto in entrambi i campi e io ho voluto raccontare quel che è accaduto nel mio campo». S.F. Claudio Pavone, che per primo ha sdoganato a sinistra il termine di «guerra civile», scrive che crudeli e sadici furono presenti nelle due parti in lotta (in numero senza confronti superiore tra i repubblichini) e tuttavia ciò che differenzia i due fronti è la diversa struttura culturale di fondo, più adatta nel caso dei fascisti a selezionare crudeltà e sadismo.

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G.P. «Ma ciò che sconvolge, nei mesi successivi al 25 aprile, è l’indistinta caccia al fascista, che poteva essere un criminale di guerra, o soltanto un tesserato dei Pfr, oppure niente di niente. La morte come una falce impazzita, che non distingue l’erba buona da quella cattiva. Famiglie intere spedite sottoterra, per un semplice sospetto. Complessivamente furono oltre ventimila le persone, tra militari e civili, che rimasero travolte dalla resa dei conti e dagli omicidi politici. Desaparecidos d’una guerra brutale». S.F. Come spiega tanta violenza? G.P. «Intanto fu una reazione istintiva alla spietatezza degli occupatori nazisti e dei fascisti collaborazionisti. Non a caso tanto più feroce era stata l’azione di tedeschi e repubblichini, quanto più cruenta fu la ribellione. Senza contare le vendette personali: dietro molte esecuzioni, c’era una resa dei conti privata». S.F. Lei scrive che dietro questa furia violenta agiva anche un’illusione. G.P. «Era diffusa la convinzione che più fascisti venivano accoppati, minore sarebbe stata la possibilità di rinascita del fascismo. Un’illusione fallace». S.F. Oggi gli eredi di quella storia sono al governo. G.P. «Sì, è così. Anche se Fini non può essere inchiodato al suo passato fascista, così come Fassino non può essere impiccato alle sue radici comuniste». S.F. Furono numerosi allora i giustizieri improvvisati. G.P. «Spuntarono ovunque tantissimi partigiani finti. Ci sono le testimonianze di Italo Pietra e del socialista Gianni Baldi: scendevano in campo gli antifascisti dell’ultim’ora, decisi a mettersi in bella vista in soccorso del vincitore». S.F. Su quali fonti storiografiche ha lavorato?

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G.P. «Ho dovuto camminare sulle sabbie mobili di fatti lontani, che spesso hanno lasciato poche tracce. Mi ha soccorso una vasta memorialistica di parte – disseminata presso sigle editoriali minori, quasi invisibili – oltre che i censimenti dei caduti della Rsi, mentre nell’ambito della letteratura di segno opposto non c’è granché, tranne i preziosi contributi di Massimo Storchi, Gianni Oliva e Mirco Dondi. Gli istituti storici della Resistenza, su questo argomento, hanno prodotto molto poco». S.F. Ma le testimonianze di parte fascista non rischiano di essere faziose, devianti? G.P. «No, non c’è questo rischio. Tutte le storie che ho raccolto in questo libro sono assolutamente credibili. Il mio difetto è averne tralasciato un’enorme quantità». S.F. Tra tutte colpisce la pagina dedicata a un personaggio simbolo, Arrigo Boldrini, presidente dell’Anpi. Lei definisce i suoi uomini «eroici e spietati». Ne racconta la ferocia esercitata a Codevigo, in Veneto, contro i fascisti ravennati. G.P. «Boldrini è stato un grande comandante militare, intelligente e coraggioso. Nel febbraio del 1944 ottenne una medaglia d’oro dagli inglesi. Ma a Codevigo tutti ricordano ancora quel che accadde alla fine della guerra: gli uomini di Bulow era meglio non trovarseli davanti, né di giorno né di notte». S.F. Non teme di sfigurare un’icona? G.P. «Ma no, quella era una guerra spietata. Se avessi avuto dieci anni di più, mi sarei trovato al loro fianco». S.F. Lei Pansa affronta anche un altro argomento tabù, il cosiddetto triangolo della morte, i delitti commessi nel dopoguerra in Emilia da partigiani comunisti. G.P. «Sì, fu l’inizio d’una seconda guerra civile. Una guerra di classe che avrebbe potuto fare da innesco a una rivoluzione co-

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munista. Si cominciarono ad ammazzare i preti, gli agrari, i borghesi ricchi. Il vero drammatico problema era che nel partito di Togliatti, di Longo, di Secchia e di Amendola, l’intero gruppo dirigente, compresi i capi locali, non fece nulla per stroncare alla radice questa convinzione». S.F. Ma nel Pci, su queste violenze, ci fu uno scontro molto aspro. G.P. «Esisteva un partito deviato, all’interno del partito legale. Gruppi clandestini che godevano dell’appoggio di non pochi dirigenti del Pci reggiano. Finché Togliatti, nel settembre del 1946, disse basta. Di lì a poco il vertice della federazione reggiana venne silurato. Hanno ragione Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky quando sostengono che le vendette e poi l’epurazione miravano a indebolire un’intera classe, la borghesia, e a sostituire il vecchio ceto dirigente con una nuova leadership in cui il Pci fosse rappresentato». S.F. Pansa, mi viene in mente l’obiezione mossa da un dirigente cattolico del Cnl, Pasquale Marconi, a un bel personaggio del suo racconto, il Solitario, che pagò con la vita la sua ansia di verità. G.P. «Se è lecito che si faccia luce e giustizia, non è bene rimestare continuamente tutto quello che vi può essere stato di marcio nella causa partigiana: rischieremmo di essere ingiusti verso quello che c’è stato di bello». S.F. Lei non vede questo rischio, oggi? G.P. «No, affatto. Potrei rispondere con un motto di Giancarlo Pajetta: ‘La verità è sempre rivoluzionaria’. Il marcio che pure vi fu tra le file partigiane non cancella le pagine eroiche. E non azzera la distinzione tra le due parti in lotta: gli uni combattevano per la libertà, gli altri al fianco della dittatura nazifascista. Mi chiedo soltanto se i vincitori di quella guerra non sarebbero potuti essere più clementi con l’avversario». S.F. Un libro sui partigiani rossi lordi di sangue non rischia di esse-

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re inopportuno in un paese guidato da un premier che elogia la benevolenza di Mussolini? G.P. «Ma io non sono un uomo da opportunità! Io me ne infischio. Quel che dice il cavaliere sul regime fascista è un discorso da ubriaco. Penso che la partita con Silvio Berlusconi vada giocata su un altro terreno, spiegando che quella maggioranza porta il paese al disastro». S.F. Tra i valori oggi in gioco c’è anche l’antifascismo. G.P. «Ma il mio è un grande servizio reso all’antifascismo. Questa storia, di morte e vendetta, la raccontiamo fino in fondo noi che veniamo da quella parte. Gianfranco Fini non lo fa. Di Salò non vuole parlare». S.F. I vinti di allora sono i vincitori di oggi. G.P. «L’ho già detto, ammazzare i fascisti non è servito a niente. Anche se la destra di oggi, ripeto, è una cosa diversa». S.F. Pansa, non si sorprenderà se il suo libro susciterà discussione. G.P. «Quelli della mia parte s’arrabbieranno. Ma a me piacciono i dibattiti furibondi. Voglio continuare a scrivere libri ‘politicamente scorretti’, scuotere certezze acquisite. Saranno i lettori a giudicarmi. Il mio lavoro precedente, I figli dell’aquila, protagonista un ragazzo di Salò, ha venduto ottantamila copie, e vinto il premio Acqui Storia. Se qualcuno s’incavola, faccia pure: io vado avanti».

IL «GIORNO DEL RICORDO» [Testo della legge n. 92 del 30 marzo 2004]

«Istituzione del ‘Giorno del ricordo’ in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine

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orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati». Art. 1 1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. 2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero. 3. Il «Giorno del ricordo» di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi dell’articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Esso non determina riduzioni dell’orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54. 4. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Art. 2 1. Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l’Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004 all’Istituto regionale per la

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cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004 alla Società di studi fiumani. 2. All’onere derivante dall’attuazione del presente articolo, pari a 200.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero. 3. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Art. 3 1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati, nonché ai soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei limiti dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 7, comma l. 2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l’anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono morti in combattimento. 3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia. Art. 4 1. Le domande, su carta libera, dirette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, devono essere corredate da una dichiarazione

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sostitutiva di atto notorio con la descrizione del fatto, della località, della data in cui si sa o si ritiene sia avvenuta la soppressione o la scomparsa del congiunto, allegando ogni documento possibile, eventuali testimonianze, nonché riferimenti a studi, pubblicazioni e memorie sui fatti. 2. Le domande devono essere presentate entro il termine di dieci anni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Dopo il completamento dei lavori della commissione di cui all’articolo 5, tutta la documentazione raccolta viene devoluta all’Archivio centrale dello Stato. Art. 5 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è costituita una commissione di dieci membri, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o da persona da lui delegata, e composta dai capi servizio degli uffici storici degli stati maggiori dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e dell’Arma dei Carabinieri, da due rappresentanti del comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da un esperto designato dall’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste, da un esperto designato dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché da un funzionario del Ministero dell’interno. La partecipazione ai lavori della commissione avviene a titolo gratuito. La commissione esclude dal riconoscimento i congiunti delle vittime perite ai sensi dell’articolo 3 per le quali sia accertato, con sentenza, il compimento di delitti efferati contro la persona. 2. La commissione, nell’esame delle domande, può avvalersi delle testimonianze, scritte e orali, dei superstiti e dell’opera e del parere consultivo di esperti e studiosi, anche segnalati dalle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati, o scelti anche tra autori di pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Art. 6 1. L’insegna metallica e il diploma a firma del Presidente della Repubblica sono consegnati annualmente con cerimonia collettiva.

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2. La commissione di cui all’articolo 5 è insediata entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e procede immediatamente alla determinazione delle caratteristiche dell’insegna metallica in acciaio brunito e smalto, con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», nonché del diploma. 3. Al personale di segreteria della commissione provvede la Presidenza del Consiglio dei ministri. Art. 7 1. Per l’attuazione dell’articolo 3, comma 1, è autorizzata la spesa di 172.508 euro per l’anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero. 2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 3. Dall’attuazione degli articoli 4, 5 e 6 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

EUROPA UNITA, UN SOGNO RESISTENTE [Gaetano Arfè, «il manifesto», 25 aprile 2004]

Nel febbraio del 1945 – è un episodio che ho già ricordato, ma che non ha perso di attualità – arrivò alla mia formazione partigiana, con armi e bagaglio, un soldato tedesco. Ci mostrò una fotografia: era della sua famiglia, tutti morti, ci disse, sotto un bombardamento ad Amburgo. Suo padre era stato ucciso nella prima guerra mondiale. Straziato dal dolore quell’uomo si era posto (e ci poneva) il problema di come fare per evitare che bande di assassini portassero periodicamente i popoli a scannarsi tra loro. E la soluzione che aveva pensato era semplice: abolizione delle frontiere e dei passaporti, scioglimento degli eserciti nazionali, unificazione delle monete, elezione di un governo europeo. Ne discu-

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temmo nelle nostre lunghe serate con un polacco, tre francesi, alcuni paracadutisti italo-americani, che erano i soli ad aver diretta esperienza di un ordinamento statuale a carattere federale. Arrivò alcuni giorni dopo il commissario politico della divisione, Plinio Corti, del partito d’azione, il quale ci raccontò che due anni prima, nell’isola di deportazione di Ventotene, dei compagni avevano redatto e diffuso clandestinamente un manifesto per una «Europa libera e unita» e che nei primi giorni di settembre del ’43 era stato fondato a Milano un «movimento federalista europeo» il cui primo atto era stato un appello alla lotta armata col duplice obiettivo di sconfiggere il nazifascismo e di costruire sulle rovine della guerra la federazione degli stati europei. Ho appreso poi che i compagni di Ventotene erano Ernesto Rossi, allievo di Luigi Einaudi e fondatore con Carlo Rosselli del movimento di «Giustizia e Libertà», Eugenio Colorni, ebreo, animatore della Resistenza socialista a Roma, assassinato dai sicari della banda Koch alla vigilia della liberazione della città e Altiero Spinelli, finito in galera quale responsabile della organizzazione giovanile comunista, che aveva lasciato il partito per maturata avversione nei confronti dello stalinismo, senza per questo annacquare la sua vocazione rivoluzionaria. Spinelli, infatti, aveva eletto a suoi maestri Machiavelli e Lenin, e aveva interrogato appassionatamente la filosofia e la storia per scoprire quale fosse la via da battere per superare la crisi che aveva dato all’Europa la carneficina stolida, infame e inutile della guerra. La risposta che gli era parsa valida, la rivoluzione di ottobre, aveva definitivamente esaurito tutta la sua carica propulsiva originaria. La sola soluzione ipotizzabile per porre fine a guerre destinate ogni volta a divenire mondiali era quindi quella della rivoluzione federalista europea. Disegni istituzionali di questo tipo si erano susseguiti per decenni nella storia d’Europa e avevano avuto tra i protagonisti uomini autorevolissimi nella cultura e nella politica, da Victor Hugo a Aristide Briand, ma non si erano mai tradotti in iniziativa politica. L’internazionalismo socialista aveva avuto a culla l’Europa ma non era mai diventato «europeo» ed era stato battuto senza sparare un colpo dai governi che avevano precipitato il continente nella catastrofe. La seconda guerra mondiale ha introdotto nel gioco alcuni fattori destinati a rapida maturazione. Il dato certo da cui partire è

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che l’Europa post-bellica non potrà essere una restaurazione dell’Europa prenazista. Lo stato nazionale per Spinelli – è lo schema applicato da Lenin all’imperialismo – è giunto alla fase della sua degenerazione estrema, per cui esso non può essere più riformato, ma va abbattuto. Si è creata per questo una delle sue condizioni principali: nelle avanguardie politiche di ogni paese, il senso della fedeltà alla nazione di cui si è figli non coincide più con quello della fedeltà alle istituzioni che la rappresentano. È possibile perciò ipotizzare che in seno alle forze della Resistenza europea si formino dei gruppi fortemente coesi, armati di ferrea volontà, che, non appena il cannone abbia cessato di tuonare procedano alla conquista dei tanti «palazzi d’inverno» esistenti nelle vecchie capitali. Qualcosa di analogo a quanto si era verificato in Italia nel biennio 1859-60. L’ultimo anno e mezzo di guerra vede Spinelli impegnato fino allo spasimo nel tentativo di collegare secondo questo disegno le rappresentanze della Resistenza europea. In realtà l’idea dell’unità europea ha radici nel movimento resistenziale. Uno studioso tedesco, Walter Lipgens, ha proceduto a una raccolta imponente e affascinante dei testi che documentano l’estensione di questo fenomeno presente fin nella Germania nazista, coi giovani studenti della «Rosa Bianca», finiti sotto la scure del boia, col gruppo raccolto intorno al conte Moltke, sterminato dalla Gestapo. La saldatura tra europeismo e antifascismo combattente però non avviene. Vi si frappongono i vincitori che a Yalta dimostrano di avere del destino dell’Europa un’idea assai diversa da quella di Spinelli. Non vi si impegnano nell’Europa dissanguata, devastata e affamata, divisa tra vincitori e vinti, le disperse avanguardie della Resistenza: i comunisti che vi avevano avuto posizioni di punta in paesi come Francia e Italia, restano vincolati al principio dello stato-guida, fieramente avverso alla nascita di una Europa unita, i socialisti non escono dal torpore ideale e politico che aveva contrassegnato la loro azione negli anni seguiti all’avvento di Hitler al potere. Alla luce del senno di poi è facile scorgere quanto ci sia di utopistico in questo disegno. Ma non meno utopistico e per di più cinico e miope è il disegno di quei potenti della terra che dividono il mondo in sfere d’influenza, diffidenti e tendenzialmente ostili e

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che preparano all’umanità i decenni della guerra fredda e quello che ne è seguito. Ma le primavere della storia – e la Resistenza europea questo fu – non cessano mai di dare frutti. Per questo, in occasione di questo 25 aprile, mi è tornato alla memoria quel mio disertore: perché vi vedo un segno del primo timido nascere, sulle ceneri del nazionalismo, di un patriottismo europeo che cerca e trova nella Resistenza la fonte dei suoi valori etico-politici. È il patriottismo che Spinelli portò nella prima legislatura del Parlamento europeo eletto a suffragio universale e che lo indusse a ideare, a promuovere e a guidare l’operazione rivolta a fare dell’aula di Strasburgo la sede di elaborazione e di varo di una costituzione che sancisse l’unità politica dell’Europa e che le desse, come egli diceva, un’anima. Governi e parlamenti nazionali dell’Europa comunitaria persero l’occasione di esser all’altezza del loro compito storico. La costituzione europea sta per nascere ora, con un ritardo di venti anni, ed è la sconcia parodia di quella che fu votata allora dal Parlamento europeo. Va detto che la partecipazione della sinistra, socialista, laburista e comunista fu allora fiacca e deludente. Compatta al fianco di Spinelli fu solo la sinistra italiana, comunisti, socialisti e socialdemocratici e fu un socialdemocratico, Mauro Ferri, a presiedere magistralmente la commissione che redasse il testo approvato. Ma la morte di Berlinguer e poi quella di Spinelli estinsero la fiamma dell’europeismo nascente anche nella sinistra italiana. Io credo che questo 25 aprile segni l’ora in cui riaccenderla diventi un dovere morale e politico. L’europeismo della Resistenza fu espressione della volontà di opporsi alla guerra spegnendone i fremiti ideologici – il nazionalismo – e istituzionali – lo stato nazionale; fu affermazione di solidarietà tra i popoli nella libertà; fu conquistata consapevolezza che quella europea era la dimensione minima per concorrere alla costruzione di un nuovo ordine internazionale; fu amore per una patria comune che aveva partorito mostri, ma era stata anche matrice di valori e di principii universali; fu speranza che sulla distesa di macerie, una nuova Europa, autonoma, potesse sorgere dalla convergenza delle grandi componenti storiche della sua civiltà, quella cristiana, quella liberale, quella socialista, unite nel culto della pace, della libertà, della giustizia.

IL PRESIDENTE CIAMPI E LA «RIFONDAZIONE DELLA MEMORIA DELLA RESISTENZA»

DISCORSO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI A PIOMBINO, L’8 OTTOBRE 2000* Cari cittadini di Piombino, un saluto dopo aver appuntato la Medaglia d’oro al valor militare sul Gonfalone della vostra città. Ho voluto fortemente questo appuntamento con voi. Desidero conferire di persona la medaglia d’oro al valor militare a una città nella quale, dopo l’8 settembre 1943, soldati e marinai si unirono ai cittadini, operai e portuali, e impugnarono le armi a difesa della dignità della Patria. Piombino ha combattuto. Ha respinto i primi assalti delle truppe naziste. Ha dato un esempio di coraggio che tutti gli italiani non devono dimenticare. Che cosa fu l’8 settembre 1943, per noi, per la generazione che l’ha vissuto? L’8 settembre è stato la prova più dura della nostra vita. L’8 settembre non è stato, come qualcuno ha scritto, la morte della Patria. Certo, l’8 settembre ci fu la dissoluzione dello Stato. Vennero meno tutti i punti di riferimento ai quali eravamo stati educati. Ma fu in quelle drammatiche giornate che la Patria si è riaffermata nella coscienza di ciascuno di noi. Ciascuno di noi si interrogò, nel suo intimo, sul senso del proprio far parte di una collettività nazionale, su come tener fede al giuramento fatto alla Patria. * Tratto dal sito www.quirinale.it.

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Nelle scelte dei singoli italiani, in quei giorni, la Patria rinacque; rinacque nella nostra coscienza. E la rinascita, l’anelito di libertà e di giustizia, il sentimento di dignità nazionale si sono poi consolidati e hanno assunto espressione nella Costituzione repubblicana. Fu, quell’8 settembre, per noi giovani un momento drammatico, di turbamento, di riflessione, di scelta. La dissoluzione dello Stato, dei vertici civili e militari, fu un trauma spaventoso, al quale sentimmo di dover reagire. Anche chi non ha vissuto quei giorni, gli italiani di oggi, soprattutto i giovani devono qualcosa a tutti coloro che dopo l’8 settembre reagirono, perché è grazie a loro che l’Italia è rinata. Oggi sono a Piombino, e con gli eroi di Piombino, noi ricordiamo tutti coloro che in quei giorni non si arresero. E non furono pochi. Purtroppo, l’assenza di una «guida» rese frammentarie e quindi condannate all’insuccesso quelle pur nobili reazioni che videro uniti militari e civili. Oggi sono a Piombino. Pochi mesi fa ero a Sant’Anna di Stazzema. Nei prossimi mesi mi recherò a Cefalonia, per rendere onore ai caduti della Divisione «Acqui», ai caduti in combattimento, alle migliaia di fucilati a sangue freddo dopo la resa, ai deportati. In assenza di ordini, a quei soldati fu chiesto dal loro comandante se volevano arrendersi o combattere. I soldati dell’«Acqui» scelsero di resistere. Su gesti quali quel consapevole voto e la valorosa resistenza di Piombino fu riscattato l’onore dell’Italia, è risorta la nostra Patria. Nessuno oggi può dimenticarlo. Viva la Repubblica Italiana! Viva tutti i combattenti per la libertà e la pace!

DISCORSO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI A CEFALONIA, IL 1° MARZO 2001* Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento. Questa – Signor * Tratto dal sito www.quirinale.it.

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Presidente della Repubblica Ellenica – è l’essenza della vicenda di Cefalonia nel settembre del 1943. Noi ricordiamo oggi la tragedia e la gloria della Divisione «Acqui». Il cuore è gonfio di pena per la sorte di quelli che ci furono compagni della giovinezza; di orgoglio per la loro condotta. La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo. La Sua presenza, Signor Presidente, è per me, per tutti noi Italiani, motivo di gratitudine. È anche motivo di riflessione. Rappresentiamo due popoli uniti nella grande impresa di costruire un’Europa di pace, una nuova patria comune di nazioni sorelle, che si sono lasciate alle spalle secoli di barbari conflitti. La storia, con le sue tragedie, ci ha ammaestrato. Molti sentimenti si affiancano, nel nostro animo, al dolore per i tanti morti di Cefalonia: morti in combattimento, o trucidati, in violazione di tutte le leggi della guerra e dell’umanità. L’inaudito eccidio di massa, di cui furono vittime migliaia di soldati italiani, denota quanto profonda fosse la corruzione degli animi prodotta dall’ideologia nazista. Non dimentichiamo le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia, vittima di una guerra di aggressione. A voi, ufficiali, sottufficiali e soldati dell’«Acqui» qui presenti, sopravvissuti al tragico destino della vostra Divisione, mi rivolgo con animo fraterno. Noi, che portavamo allora la divisa, che avevamo giurato, e volevamo mantenere fede al nostro giuramento, ci trovammo d’improvviso allo sbaraglio, privi di ordini. La memoria di quei giorni è ancora ben viva in noi. Interrogammo la nostra coscienza. Avemmo, per guidarci, soltanto il senso dell’onore, l’amor di Patria, maturato nelle grandi gesta del Risorgimento. Voi, alla fine del lungo travaglio causato dal colpevole abbandono, foste posti, il 14 settembre 1943, dal vostro comandante, Generale Gandin, di fronte a tre alternative: combattere al fianco dei tedeschi; cedere loro le armi; tenere le armi e combattere. Schierati di fronte ai vostri comandanti di reparto, vi fu chiesto, in circostanze del tutto eccezionali, in cui mai un’unità militare dovrebbe trovarsi, di pronunciarvi.

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Con un orgoglioso passo avanti faceste la vostra scelta, «unanime, concorde, plebiscitaria»: «combattere, piuttosto di subire l’onta della cessione delle armi». Decideste così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia. Combatteste con coraggio, senza ricevere alcun aiuto, al di fuori di quello offerto dalla Resistenza greca. Poi andaste incontro a una sorte tragica, senza precedenti nella pur sanguinosa storia delle guerre europee. Si leggono, con orrore, i resoconti degli eccidi; con commozione, le testimonianze univoche sulla dignità, sulla compostezza, sulla fierezza di coloro che erano in procinto di essere giustiziati. Dove trovarono tanto coraggio ragazzi ventenni, soldati sottufficiali, ufficiali di complemento e di carriera? La fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali diede compattezza alla scelta di combattere. L’onore, i valori di una grande tradizione di civiltà, la forza di una Fede antica e viva, generarono l’eroismo di fronte al plotone d’esecuzione. Coloro che si salvarono, coloro che dovettero la vita ai coraggiosi aiuti degli abitanti dell’isola di Cefalonia, coloro che poi combatterono al fianco della Resistenza greca, non hanno dimenticato, non dimenticheranno. Questa terra, bagnata dal sangue di tanti loro compagni, è anche la loro terra. Divenne chiaro in noi, in quell’estate del 1943, che il conflitto non era più fra Stati, ma fra princìpi, fra valori. Un filo ideale, un uguale sentire, unirono ai militari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell’Egeo, in Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si ispirarono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle città. Ai giovani di oggi, educati nello spirito di libertà e di concordia fra le nazioni europee, eventi come quelli che commemoriamo sembrano appartenere a un passato remoto, difficilmente comprensibile. Possa rimanere vivo, nel loro animo, il ricordo dei loro padri che diedero la vita perché rinascesse l’Italia, perché nascesse un’Euro-

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pa di libertà e di pace. Ai giovani italiani, ai giovani greci e di tutte le nazioni sorelle dell’Unione Europea, dico: non dimenticate. Caro Presidente della Repubblica Ellenica, Le sono grato per avermi accolto nella Sua terra, e per aver voluto vivere con me questa giornata di memorie, di pietà, nell’isola di Cefalonia, ricordando insieme i Caduti greci e italiani. Oggi i nostri popoli condividono, con convinzione e con determinazione, la missione di fare dell’Europa un’area di stabilità, di progresso, di pace. La nuova Europa, un tempo origine di sanguinose guerre, ha già dato a tre generazioni dei suoi figli pace e benessere. Propone l’esempio della sua concordia a tutti i popoli. Uomini della Divisione «Acqui»: l’Italia è orgogliosa della pagina che voi avete scritto, fra le più gloriose della nostra millenaria storia. Soldati, Sottufficiali e Ufficiali delle Forze Armate Italiane: onore ai Caduti di Cefalonia; onore a tutti coloro che tennero alta la dignità della Patria. Il loro ricordo vi ispiri coraggio e fermezza, nell’affrontare i compiti che la Patria oggi vi affida, per missioni non più di guerra, ma di pace. Viva le Forze Armate d’Italia e di Grecia. Viva la Grecia. Viva l’Italia. Viva l’Unione Europea.

PRESIDENTE, PARLIAMO DELLA PATRIA [Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 4 marzo 2001]

Signor presidente, in una lunga intervista-conversazione pubblicata ieri su Repubblica, a commento del suo viaggio a Cefalonia per rendere omaggio ai caduti della «Acqui», ella esordisce con queste parole: «Non ho mai capito cosa intendano i teorici della «morte della Pa-

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tria» che indicano nell’8 settembre la data di questo lutto senza ritorno. A sentir loro la Patria, l’idea della Patria, che allora sarebbe stata travolta, non è mai risorta. E noi cosa saremmo dunque, oggi: italiani, cittadini senza Patria?». Ebbene, come forse ella sa, capita che proprio io sia uno di quei «teorici» di cui lei parla (in ottima compagnia peraltro, a cominciare da Renzo De Felice e Indro Montanelli), che proprio io abbia ripescato l’espressione «morte della Patria» da un vecchio testo di Salvatore Satta per farne il titolo prima di un mio saggio, poi di un libro. Le cui tesi ella ha più volte in questi ultimi tempi contestato, ma forse mai con la sommaria perentorietà che ha usato in questa occasione e che dunque sollecita una risposta. Come comprenderà, lo faccio con un certo disagio, infatti, io insegno da molti anni Storia contemporanea in una università della Repubblica, e non avrei mai immaginato, signor presidente, di essere costretto un giorno a dover discutere i risultati della mia ricerca con il capo dello Stato, di dover rendere conto a lui di quei medesimi risultati, di doverli difendere dalle critiche della più alta carica politica del mio Paese. Ho sempre pensato e continuo a pensare, all’opposto, che in una democrazia non è compito dei politici, in ispecie di chi vi copre importanti ruoli istituzionali, dire la propria nel merito di complessi problemi storiografici, né tanto meno esprimere le proprie personali preferenze per questa o per quella interpretazione del passato con l’eventuale, ma a quel punto logicamente inevitabile, conseguenza di censurare di fatto i libri e i manuali che le divulgano. Ma lei è evidentemente convinto del contrario, signor presidente, e lo ha più volte dimostrato nella maniera più altisonante, come appunto ha fatto ieri. Leggendo con attenzione le sue parole io non riesco a liberarmi dal sospetto, tuttavia, che ella abbia frainteso le tesi dei «teorici» che critica. Non le sarebbe sfuggito, altrimenti, signor presidente, quello che è l’aspetto centrale e decisivo della questione della «morte della Patria». Che non riguarda affatto l’8 settembre, se non come punto di partenza analitico, ma ha come oggetto vero e principale i molti decenni che seguirono quella data: cioè il clima politico, ideologico, culturale che ha caratterizzato almeno mezzo secolo di vita repubblicana. Mi spiegherò con un

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esempio: lo sa signor presidente che nel volume Una guerra civile di Claudio Pavone – il quale pure scrive oggi che Cefalonia fu «tra gli atti fondativi della Resistenza» – ebbene lo sa che in quel libro di 800 pagine, uscito nel 1991, della strage di Cefalonia, di come essa avvenne e perché non si dice nulla? Che il nome del generale Gandin e quello del capitano Pampaloni neppure vi sono ricordati di sfuggita? Ecco cosa è stata la «morte della Patria», signor presidente. Il fatto che ancora dieci anni fa, nel libro pur per molti versi ottimo di uno storico di valore, i morti dopo l’8 settembre del Regio Esercito, morti spesso in nome del Re, godevano di un’attenzione e considerazioni minori (molto, molto minori: fino al silenzio) di quelli dei partiti antifascisti, dei morti partigiani. Dunque, quando nell’intervista a Repubblica ella chiede ai teorici della «morte della Patria» in qual modo essi possano ignorare eventi come Cefalonia, lei, signor presidente, si rivolge alle persone sbagliate. Ad altri va rivolta quella domanda, o meglio andava rivolta, dal momento che oggi anche i dimentichi di ieri, anche loro hanno scoperto Cefalonia e la resistenza militare affrettandosi a dargli il rilievo che l’una e l’altra meritano. Oggi, però. Controlli, signor presidente: vada a vedere quante volte e come è ricordata la strage di Cefalonia nei libri sulla Resistenza che uscivano fino a qualche anno fa. Proprio ricordando la strage di Cefalonia e quella di Porzus, via Rasella e il dramma del confine orientale, l’assenza del Mezzogiorno e la presenza di una massiccia «zona grigia», proprio ricordando quanti fatti del 1943-45 siano stati poi dimenticati o «addomesticati» per anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra, proprio ricordando a quali e quante pochezze, divisioni e contraddizioni laceranti la Resistenza dovette in realtà assistere, proprio su tale base qualcuno è arrivato a concludere che essa, pur con tutto l’afflato patriottico di chi vi prese parte, non riuscì, né poteva riuscire a produrre il radicamento nell’Italia repubblicana di un forte sentimento nazionale in sostituzione di quello andato distrutto con il fascismo e la sconfitta bellica. È accaduto così che per cinquant’anni l’Italia sia stata una democrazia senza nazione, senza «patria» appunto. Un Paese in cui la patria era morta. Non lo crede anche lei, signor presidente? Davvero lei pensa che invece nel nostro Paese ci sia stato un vero

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sentimento patriottico, un vero e diffuso sentimento nazionale? Ma – mi chiedo e rispettosamente le chiedo – da quale singolare spirito nazional-patriottico era animato un Paese in cui metà dei cittadini ha temuto per anni di essere arrestata, deportata e magari fatta fuori dall’altra metà? In cui nessuna scelta di politica estera è stata fatta con il consenso di tutti? Che «patria» era quella in cui influenze straniere hanno potuto fare quasi tutto ciò che volevano? Dove l’esercito e le forze di polizia sono stati considerati per decenni da molti, da moltissimi, non simbolo di unità bensì di divisione e di pericolo per la democrazia? Dove dalla memoria della Resistenza erano virtualmente espulsi i morti politicamente sgraditi o indifferenti al Cln, ma caduti anch’essi in nome dell’Italia? E del resto, signor presidente, se per mezzo secolo avessimo davvero avuto una patria, se per tutto questo tempo ci fossimo tutti davvero riconosciuti in un inno e in una bandiera, animati da un vero spirito di solidarietà nazionale, se tutto ciò – come bisognerebbe desumere dalle sue parole – fosse stato vero, a che pro allora il suo lodevole sforzo, dal momento in cui è entrato in carica, per riaccreditare bandiera e inno, monumenti e sentimenti della patria? A che pro questo continuo parlare che lei fa di nazione e di Italia? E che senso avrebbero mai la novità e il merito che per tutto ciò l’opinione pubblica volentieri le riconosce, se da sempre avessimo dimestichezza con gesti come quelli che lei compie, con parole come quelle che lei pronuncia? Come italiano penso che sia una fortuna che lei oggi possa compiere quei gesti e pronunciare quelle parole. È il segno che forse è finalmente finito il lungo dopoguerra ed è iniziata un’altra e nuova stagione; che, caduto il comunismo, tutti i muri sono caduti, anche quelli che così a lungo ci hanno separati dalla nostra Patria. Ma tra i doveri degli storici non c’è quello di essere patriottici. Gli storici hanno semplicemente il dovere di studiare il passato, di salvarlo alla memoria ricostruendolo secondo la loro capacità e la loro coscienza, senza farsi influenzare dalle mode e dalle necessità dell’oggi, senza prestare ascolto alle suggestioni dell’ora. E naturalmente hanno il dovere di non farsi condizionare dalle polemiche aggressive di chicchessia, fossero anche le sue, signor presidente. Con il massimo rispetto. Ernesto Galli della Loggia

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IO, LA PATRIA E I DOVERI DI TESTIMONE [Carlo Azeglio Ciampi, «Corriere della Sera», 5 marzo 2001]

Chiarissimo Professore, non sono uno storico, non intendo sostituirmi agli storici. Ho vissuto, come giovane ufficiale di complemento, le drammatiche vicende del 1943: sono quindi, e so di essere, soltanto un testimone. Ho vissuto il collasso dello Stato; ho vissuto lo smarrimento dell’assenza di «ordini» in un momento, credo, il più tragico nella storia della nostra Italia. Come tanti altri nelle mie condizioni, trovammo nelle nostre coscienze l’orientamento: in quelle coscienze vibrava profondo il senso della Patria. Questo intendo dire con la mia testimonianza di cittadino. La mia successiva esperienza al servizio dello Stato per oltre cinquant’anni non mi consente di condividere l’opinione che per tutto quel periodo, pur così travagliato, l’Italia sia stata «una democrazia senza Patria». Come Presidente della Repubblica Italiana, sin dal primo giorno del mandato, ho ritenuto di dover esprimere con immediatezza il mio animo. Ho avvertito come spontanea risposta degli italiani un forte desiderio di riconoscersi nell’affermazione di valori condivisi. Di qui il consenso e la partecipazione a ogni iniziativa che li attesti pubblicamente, senza retorica ma con puntuali richiami a istituzioni, fatti, episodi. Amo la lettura dei libri di storia. Ho grande rispetto per il lavoro, documentario e interpretativo, degli storici. So quanto siano essenziali, nell’uno e nell’altro aspetto, l’autonomia di ricerca e di giudizio, la ripulsa di ogni condizionamento. Sono valori che fanno parte costitutiva dell’etica civile, sulla cui solidità si fonda la stessa unità nazionale. Non ritengo però che sia di esclusiva competenza degli storici di professione il riflettere sul passato. È da questa riflessione che ogni cittadino, e ancor più chi ha responsabilità politiche o istituzionali, deve trarre ispirazione per il proprio impegno civile, per il proprio operare. Rendere poi note queste riflessioni e valutazioni non è un atto dovuto. Vuole contribuire a tener vivo nei cittadini un forte senso della Patria. Sono lieto che Lei esprima in proposito un giudizio positivo. Con viva cordialità. Carlo Azeglio Ciampi

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L’OSSESSIONE DELLA PATRIA NEGATA [Eugenio Scalfari, «la Repubblica», 5 marzo 2001]

Il professor Ernesto Galli della Loggia, che insegna storia contemporanea all’università non so se di Macerata o di Urbino e soprattutto è articolista del «Corriere della Sera» e fertile scrittore di libri e pamphlet, ha pubblicato ieri sul predetto quotidiano milanese una lettera aperta al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. L’argomento è quello della «morte della Patria», tesi della quale il della Loggia è il più convinto e forse più noto sostenitore. La Patria, secondo lui, cioè il sentimento patriottico, la sua percezione, la sua manifestazione da parte dei cittadini con parole e comportamenti concreti sarebbe morta con il «tutti a casa» dell’8 settembre 1943. Ma questa, come lo stesso della Loggia spiega nella lettera a Ciampi, è soltanto una data di comodo, il punto di partenza della sua analisi che in realtà ha la sua compiuta dimostrazione nel cinquantennio repubblicano che ne è seguito. Che cosa è accaduto in quel cinquantennio che arriva fino ai giorni nostri? Molto semplice e molto chiaro per della Loggia: c’è stata in Italia un’egemonia culturale comunista, anzi della sinistra perché ai comunisti vanno affiancati i membri del Partito socialista, del Partito d’azione e quant’altri pur non comunisti o addirittura anticomunisti si riconobbero nella Resistenza e in essa videro il momento ri-fondativo della patria dopo il fascismo e la sconfitta. Quell’egemonia culturale impedì che il radicamento popolare dell’idea di patria avesse luogo. La prova di quest’assunto sta per della Loggia nel fatto che la pubblicistica repubblicana abbia ignorato, anzi sottaciuto fatti come la strage nazista dei soldati della divisione Acqui a Cefalonia perché «quei morti erano sgraditi o indifferenti» ai propalatori dell’egemonia resistenziale. Ma l’omissione di Cefalonia è soltanto un sintomo. C’è stato ben altro: «Mi chiedo – scrive il Nostro – da quale sentimento nazional-patriottico era animato un paese in cui metà dei cittadini ha temuto per anni di essere arrestata, deportata e magari fatta fuori dall’altra metà? In cui nessuna scelta di politica estera è stata fatta col consenso di tutti?». La lettera termina bacchettando «rispettosamente» il Capo dello Stato per essersi permesso di metter bocca in un problema

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eminentemente storiografico e insomma d’aver criticato e «intimidito» uno storico insigne come il firmatario di quella pubblica missiva. Mi sono fatto alcune domande sul cinquantennio repubblicano configurato così sinistramente dal della Loggia. Non avendo io cariche pubbliche penso che l’autore di quella lettera mi permetterà di porle senza per questo sentirsi censurato nella sua attività storiografica. La prima domanda è proprio su quella presunta attività. C’è modo, storiograficamente intendo, di accertare scientificamente e quantificare un sentimento? Nella fattispecie il sentimento nazional-patriottico degli italiani? Ebbene questo modo non esiste perché i sentimenti sono fatti individuali che ciascuno esprime come può e come vuole e mal si prestano ad essere scientificamente registrati sia per negarne sia per affermarne l’esistenza. La storia è sempre interpretazione dei fatti e come tale contestabile; figurarsi poi quando non si tratta di fatti ma di sentimenti. Della Loggia pensa che quel sentimento non ci sia stato, altri può pensare l’opposto. La storiografia non c’entra nulla e nulla, salvo il suo personale modo di sentire, può portare lo storico a conferma di ciò che egli, con molta presunzione, attribuisce ad una collettività di cinquanta milioni di persone. Seconda domanda. Metà degli italiani temeva d’esser fatta fuori dall’altra metà durante tutto il cinquantennio di cui si discute. Ne è sicuro il mittente della lettera? Quale metà aveva questo timore? O erano tutte e due le metà che temevano per la propria sorte fisica e per la propria libertà? Secondo le fantasie – oniriche direi – di chi pensa in questo modo cinquanta milioni di persone per mezzo secolo ha vissuto in un paese da incubo, attanagliati dalla paura di essere arrestati, deportati, scannati. Il vero lager da far invidia a quelli nazisti o sovietici sarebbe dunque stato l’Italia: un paese terrorizzato, nevrotizzato, con porte e finestre sbarrate contro gli sgherri addestrati a uccidere gli avversari. Questo è il paese in cui abbiamo vissuto dal 1945 ad oggi? A chi venisse a raccontarci fandonie di questo tipo si risponderebbe che la sua è una fantasia malata. Tale mi sembra l’immagine che della Loggia fornisce d’un paese-ghetto di terrorizzati.

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C’è di vero che subito dopo il 25 aprile e per alcuni mesi, specie in certe zone dell’Emilia Romagna, ci furono molte vendette politiche e talune perfino private come seguiti della guerra partigiana. Furono seguiti terribili, per fortuna di breve durata. Successivamente venne il periodo dello stragismo e poi ancora quello delle Br, ma si trattò di fenomeni di natura diversa anche se drammatica. Il terrorismo, quale che ne sia il colore, è infatti cosa diversa dalla descrizione d’un paese in stato permanente di guerra civile; ce lo prova l’Inghilterra da decenni alle prese con l’Ira e la Spagna da decenni alle prese con l’Eta. Aggiungo che sia lo stragismo che le Br contribuirono semmai a cementare la comunità nazionale e le forze politiche in una difesa comune delle istituzioni democratiche che hanno retto ad una prova durissima e l’hanno superata. Potrei infine ricordare l’atteggiamento di responsabilità del Pci nel momento dell’attentato a Togliatti e la simmetrica posizione della dirigenza democristiana che seppe contrastare ogni suggestione interna ed estera a metter fuori legge i suoi avversari politici, suggestione più volte riaffiorata nel corso degli anni e più volte battuta. Fin qui le mie domande e, per quel che valgono, le mie risposte anche se non vanto i titoli accademici dell’egregio autore della lettera al Presidente. Ma voglio aggiungere ancora una considerazione. L’amor di Patria non riguarda o non riguarda soltanto il territorio o l’etnia, ammesso che esista un’etnia italiana. L’amor di Patria deriva da un’idea di paese. Gli ufficiali tedeschi che attentarono alla vita di Hitler avevano un’altra idea di paese; gli antifascisti italiani che condussero azioni clandestine durante il ventennio avevano un’altra idea di paese. Tutti coloro – e furono moltissimi – che tra il ’40 e il ’43 auspicarono la vittoria degli anglo-americani avevano un’altra idea di paese e un’altra idea di paese avevano le popolazioni italiane di tutte le regioni quando solidarizzarono concretamente con gli ufficiali e i soldati sbandati, i prigionieri alleati evasi dai carceri fascisti, i partigiani combattenti sui monti. La nostra repubblica, per fortuna e malgrado le tante insufficienze e traversie, è stata fin dall’inizio una realtà democratica do-

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ve le libertà fondamentali sono state garantite a tutti. Certo, un paese segnato dalla guerra e a sovranità limitata; il che non gli ha impedito di crescere fino ad assumere un ruolo ed un peso economico e politico. Questo ruolo e questo «status» risultano purtroppo indifferenti oggi ad una larga parte di cittadini «impolitici», giovani per lo più. Ma questa situazione, del resto diffusa in gran parte dell’Occidente e del pianeta, non ha a che fare con i risultati storiografici realizzati dal professor della Loggia. L’egemonia culturale della sinistra non c’entra. Le radici di quell’indifferenza sono ben altre e varrebbe la pena di applicarsi al loro studio, egregio professore. Ma ognuno, si sa, è vittima delle proprie ossessioni dalle quali è molto difficile uscire.

CEFALONIA E LA STORIA [Brunello Mantelli, «l’Unità», 17 aprile 2001]

«I soldati che combattevano nella divisa, con le stellette, e sotto la bandiera del Regio Esercito, per fedeltà a un giuramento e alla Patria, non avevano i requisiti del Partigiano che si batteva contro questi valori, e magari per altri non meno nobili, ma “di parte”, come del resto diceva la sua qualifica, non di Patria. Ecco perché i caduti di Cefalonia non potevano entrare nel sacrario della Resistenza. Ne avrebbero inquinato il Dna e il blasone». Così, sul «Corriere della Sera» del 1° marzo scorso Indro Montanelli commenta la visita di Ciampi a Cefalonia, sostenendo che «in Italia se n’era ogni tanto – ma ogni tanto tanto – parlato come di cosa imbarazzante, perché politically uncorrect». La tesi montanelliana viene ribadita il giorno successivo, sempre sul «Corriere», da Marzio Breda, secondo il quale il presidente avrebbe «corretto la storiografia antifascista», espressione di una «sinistra che pretese subito di egemonizzare la Resistenza, escludendo i militari». Il 4 marzo Ernesto Galli della Loggia, noto commentatore del quotidiano milanese nonché professore di Storia Contemporanea all’Università di Perugia, rincara la dose sostenendo che eventi come Cefalonia sarebbero «stati dimenticati o “addomesticati” per

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anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra». Si innesca così un dibattito che coinvolge anche altri quotidiani e che, quasi sempre, non contesta l’assunto di partenza: la resistenza della divisione Acqui a Cefalonia come episodio ignorato dalla storiografia e assente dai libri di scuola. Tale «rimozione» sarebbe da ricondursi all’egemonia della storiografia antifascista, tesa a privilegiare la resistenza dei partigiani rispetto a quella dei militari. Ma chiediamoci: il punto di partenza dei Montanelli, dei Breda e dei Galli della Loggia è vero? Facciamo qualche controllo. Quasi mezzo secolo fa, nel 1953, esce la Storia della Resistenza italiana, da Einaudi. La scrive Roberto Battaglia, storico dell’arte, partigiano, comunista. All’eroica resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia che rifiuta, con un «tumultuoso plebiscito in cui tutta la divisione si pronuncia per la lotta contro il tedesco», di arrendersi alla Wehrmacht sono dedicate due fitte pagine, in cui le coordinate essenziali dell’evento vengono lucidamente tratteggiate: la pressione esercitata dagli ufficiali inferiori e dai soldati sul generale Gandin, comandante dell’unità, perché venisse respinto l’ultimatum tedesco; il già ricordato «plebiscito», che porta alla stesura di un comunicato in cui si risponde ai tedeschi che: «per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione Acqui non cede le armi»; il successivo attacco della Wehrmacht che, vinta la resistenza degli italiani, sfocia in un massacro indiscriminato dei prigionieri. La ricostruzione, sintetica ma esaustiva, di Battaglia influenza non pochi libri di testo: «i reparti dell’esercito all’estero lottano eroicamente ma sfortunatamente contro i tedeschi, come a Cefalonia e a Lero». Così il Corso di storia per i Licei e gli Istituti magistrali pubblicato nel 1973 da Petrini, di cui è autore Guido Quazza. Come Battaglia, Quazza è personaggio emblematico: storico, antifascista e partigiano, negli anni Settanta succede a Ferruccio Parri nella carica di Presidente dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Rappresenta perciò autorevolmente la storiografia antifascista. «L’esercito si disgregò immediatamente e solo pochi reparti non si sbandarono: a Cefalonia, dopo alcuni giorni di combattimento, la guarnigione italiana fu costretta alla resa e poi completamente massacrata». È la sintesi di altro manuale largamente diffuso negli anni Settanta: il Corso di Storia per le scuole medie superiori steso da Franco Gaeta e Pasquale Villani e pub-

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blicato nel 1974 da Principato. Paradossalmente, a non far cenno al rifiuto opposto da migliaia di soldati ed ufficiali alle profferte di resa della Wehrmacht sono invece i libri di testo di orientamento moderato (se non francamente conservatore). Se dai manuali passiamo alle sintesi, lo spazio dedicato a Cefalonia aumenta: «A Corfù e Cefalonia gli episodi più tragici e gloriosi: i reparti italiani si rifiutarono e ingaggiarono battaglia [...]. I nazisti, sopraffatte le truppe italiane in durissimi scontri [...] procedettero alla fucilazione della maggior parte dei superstiti. [...] A Cefalonia la decisione di resistere con le armi [fu] assunta con un plebiscito tra ufficiali e soldati», così la Storia d’Italia 1860-1995 pubblicata nel 1996 da Bruno Mondadori e scritta da Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini, entrambi esponenti autorevoli degli Istituti storici della Resistenza. Per quanto riguarda gli studi specialistici, mi limito a citare il fondamentale La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi e pubblicato da Mursia nel 1993. Frutto di un convegno promosso dalla città di Acqui, che – retta allora da una giunta di sinistra – aveva istituito in ricordo della divisione martirizzata a Cefalonia un premio di storia, il volume raccoglie in 349 pagine nove saggi di studiosi italiani e tedeschi (tra cui Mario Montinari, dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, e Gerhard Schreiber, dell’omologo Ufficio Storico della Bundeswehr). Mi pare basti a dimostrare che raffigurarsi una Cefalonia dimenticata dalla storiografia antifascista è una menzogna detta per ignoranza o per malafede. In entrambi i casi con lo stesso risultato: diffondere un senso comune che, attribuendo alla sinistra ed alla storiografia ad essa vicina rimozioni, censure, e distorsioni della verità storica (non importa se del tutto inventate, come in questo caso) punta a sminuirne il ruolo nella lotta di Liberazione e nella costruzione della Repubblica democratica. Un ultimo appunto: forse è fatica sprecata indignarsi perché giornalisti, anche autorevoli, scrivono senza documentarsi, è purtroppo costume diffuso nella categoria, ma da personaggi come Ernesto Galli della Loggia, da anni nei ruoli del Ministero dell’Università, si deve pretendere che – prima di impugnare la penna – vadano a controllare le fonti; in questo caso bastava dare un’occhiata al vecchio e ben noto Battaglia.

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DISCORSO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI A LIZZANO IN BELVEDERE, IL 14 OTTOBRE 2001* Non era previsto che prendessi la parola, ma in una giornata come questa – con questo magnifico cielo, in mezzo a queste montagne, che anche a me pur nato sulla costa, sono familiari – di fronte a questo cippo sento di non potere andar via senza rivolgervi il mio saluto. In una giornata che, come già è stato detto, è una giornata di rievocazione del passato, ma non fine a se stessa, per cercare di operare bene nel presente, guardando innanzi a noi, guardando al futuro. Questo cippo è dedicato ad Antonio Giuriolo, nato ad Arzignano, classe 1912, uomo di lettere che diventa uomo d’arme. Perché diventa uomo d’arme? Diventa uomo d’arme perché vi è in lui, come accadde a tanti, a molti italiani, una rivolta nella propria coscienza; una rivolta morale dopo quella giornata orribile che fu l’8 settembre del 1943. Ciascuno di noi, militari – e Antonio Giuriolo era ufficiale degli Alpini – s’interrogò sul da farsi; e la risposta la trovò, ripeto, nella propria coscienza. Fu una risposta di dignità personale e nazionale che ci vide, all’inizio, silenziosamente accomunati. Certo la sua rivolta morale fu decisa e forte, anche perché ebbe la fortuna di avere avuto nei suoi studi all’Università di Padova, così come accadde in tante altre Università italiane, una grande scuola; una scuola di uomini liberi. Egli era diventato un uomo che credeva nella religione della libertà. E fu questo che permise a lui di fare quella scelta. Ma quella scelta, ripeto, si consumò contemporaneamente nell’animo della maggior parte degli italiani; e da questa rivolta morale nasce la Resistenza. Perché la Resistenza ebbe tante forme, tante manifestazioni diverse; dipese oltre che dal sentimento di ciascuno di noi, dalle circostanze in cui ciascuno di noi si trovò ad operare. E certo fu Resistenza la risposta armata di tanti nostri commi-

* Tratto dal sito www.quirinale.it.

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litoni, che reagirono con le armi a Cefalonia, in Corsica, in tante isole del Mediterraneo, a Piombino, a Napoli; che dettero luogo a una reazione forte anche se, nella maggior parte dei casi, sfortunata. Fu Resistenza ugualmente la scelta di tanti prigionieri dei campi di concentramento, che preferirono il rigore di quei campi all’accettazione di forme di collaborazione con chi condivideva valori diversi – perché allora, come ha detto Enzo Biagi, fu una scelta di campo, fu dovuta a una scelta di valori – e quindi preferirono i rigori dei campi di concentramento, per numerosi anni, alla collaborazione. Fu Resistenza l’aiuto che tanta parte della popolazione italiana dette nelle montagne, nei villaggi, nelle città a chiunque fosse fuggiasco in cerca della libertà. Certo di quella Resistenza la punta più avanzata fu rappresentata da coloro che presero le armi, che dettero luogo alle formazioni partigiane, che combatterono in queste montagne, come in tante altre parti del nostro Paese per la liberazione dell’Italia. E appunto siamo qui a ricordare uno dei più eroici comandanti di quelle formazioni: Antonio Giuriolo, «Capitan Toni». Egli è morto qui a Monte Belvedere il 12 dicembre 1944, compiendo un atto di eroismo nel tentativo di sottrarre alla morte o alla cattura alcuni uomini della sua formazione. Giustamente gli è stata conferita la Medaglia d’oro al Valor Militare, ma credo che ancor più di questa altissima onorificenza, sia importante il fatto che coloro che erano con lui, da quel giorno, ogni 12 dicembre sono venuti in questi luoghi per ricordarlo. Con lui ricordiamo qui anche tutti coloro che caddero, sia quelli della stessa Brigata «Matteotti», comandata da «Capitan Toni», sia delle tante altre brigate che combatterono su queste montagne e in tante altre parti d’Italia. Nel rendere loro onore noi non manteniamo solamente un doveroso impegno che abbiamo, ma compiamo un dovere un obbligo che abbiamo nei loro confronti: e mantenere la memoria di quelle vicende non è solo un fatto di nostalgia. Come ho detto all’inizio è un fatto che ci deve servire a operare bene nel presente guardando al futuro, ma avendo in mente che quegli ideali, per i quali qui questi uomini morirono, erano gli ideali per i quali si era avuto il Risorgimento italiano, in una con-

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tinuità della nostra storia, che dobbiamo sempre più sentire dentro di noi. Perché solamente così i nostri comportamenti saranno coerenti con noi stessi, con la storia del nostro popolo, nell’interesse dei nostri figli e dei nostri nipoti. Ricordo sempre che alla sommità del monumento del Vittoriano, che celebra la memoria del nostro Risorgimento e dell’Italia unita, vi sono le due scritte: «Alla libertà dei cittadini, all’unità della Patria». Ecco libertà, giustizia, unità. Abbiamo sempre presente, nel nostro operare quotidiano, l’importanza del valore dell’unità dell’Italia. Questa unità che sentiamo essenziale per noi, quell’unità che, in fondo oggi, a mezzo secolo di distanza, dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse; che le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria. Questa unità preserviamola e in ogni nostra azione essa sia il punto e il riferimento insieme con la difesa dei valori di democrazia, di libertà e di pace. Con questi sentimenti sono qui con voi, con tutti i compagni di «Capitan Toni» per rendere omaggio alla sua figura. Ricordiamo: uomo di lettere che diventa uomo d’arme. Lo diventa per servire la Patria. Grazie.

L’ITALIA, UN PAESE ALLA DERIVA [Antonio Tabucchi, «l’Unità», 21 ottobre 2001]

Ho l’impressione che l’Italia sia alla deriva. E alla deriva politica, rappresentata da un governo con una forte percentuale di exfascisti e da un primo ministro con un impero economico di provenienza mai rivelata e proprietario di quasi tutta l’informazione italiana, si aggiunge (da tempo) una deriva ideologica che oggi trova il suo culmine in una dichiarazione del Presidente della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi, domenica 14 ottobre, durante una cerimonia sulla Resistenza, in un paese vicino a Bologna, ha pronunciato parole che ritengo improponibili per una Repubblica nata dall’antifascismo come l’Italia.

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Forse ritenendosi indifeso dal fatto di aver partecipato alla resistenza, ha affermato: «Abbiamo sempre presente, nel nostro operare quotidiano, l’importanza del valore dell’unità d’Italia. Questa unità che sentiamo essenziale per noi, quell’unità che oggi, a mezzo secolo di distanza, dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse e che le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria». Con l’eufemistica circonlocuzione «giovani che fecero scelte diverse», il presidente italiano non può che riferirsi ai nazi-fascisti di Salò, cioè a quelle persone che si schierarono militarmente con Mussolini e Hitler dopo la resa dell’Italia. Non so in quale misura Ciampi abbia partecipato alla Resistenza: se vorrà scrivere le sue memorie gli storici le prenderanno in considerazione per valutarne l’effettiva importanza. Ma ciò ha un interesse del tutto secondario. Il punto non è questo. Il punto è che Ciampi non si può permettere di dire ciò che vuole, perché dall’alto della sua carica, fornendo informazioni errate ai giovani e ai cittadini e in particolare a coloro che non hanno accesso allo studio della Storia, egli disorienta gravemente l’opinione pubblica italiana già fortemente disorientata. Che coloro che avevano scelto il nazi-fascismo fossero animati da un sentimento di unità d’Italia è una falsità storica grossolana. La repubblica di Salò, nata dopo l’8 settembre 1943 (data dell’armistizio chiesto dall’Italia agli Alleati) fu uno stato fantoccio creato dai nazisti nel nord d’Italia, più o meno nelle stesse zone che oggi sono in mano al partito separatista della Lega; e l’idea che questo staterello artificiale, roccaforte del nazi-fascismo, tendesse all’unità d’Italia corrisponde al dire che la repubblica di Vichy aspirava all’unità di Francia. Che poi i repubblichini, scherani e servi dei nazisti, autori di massacri, torturatori e aguzzini, con simboli di morte ben espliciti sull’uniforme, credessero di avere servito «l’onore della Patria», è una dichiarazione che involgarisce l’idea di patria e il concetto di onore. Ciampi si appella alla presunta buonafede, specificando che certi giovani fecero «scelte sbagliate», e lasciando intendere che queste scelte sono da assolversi perché furono fatte in buonafede. Con lo stesso ragionamento qualcuno potrebbe arrivare ad

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assolvere i terroristi di Bin Laden, che sono senz’altro animati dalla «buona fede», anzi da troppa buona fede. Lunedì 15 ottobre, quando a Parigi è arrivata la notizia del discorso di Ciampi, in un’aula della Sorbona, il giurista Antonio Cassese chiudeva il corso della cattedra Blaise Pascal con un dibattito sulla giustizia penale internazionale insieme a Robert Badinter, Philippe Kirsch, «padre» dello statuto della Corte penale internazionale, e il Presidente del tribunale internazionale dell’Aja Claude Jorda. Nell’intervallo dei lavori, chiacchierando nel cortile con i numerosi studenti presenti, ho letto loro le parole del presidente della repubblica italiana. Mi hanno guardato con stupore. Uno di loro mi ha condotto davanti alla lapide della «Cour d’Honneur» dove sotto un lungo elenco di nomi c’è scritto: «Ai professori e agli studenti caduti per la Francia, 1939-1945». L’unità della Francia è lì, nei nomi delle persone di quella lapide, non in coloro che furono i loro assassini. Se il presidente Chirac venisse a raccontare a questi studenti che i collaborazionisti o i poliziotti di Vichy avevano comunque agito per l’onore della patria lo prenderebbero a fischi. In Italia non fischia nessuno. Il «blanchissage» di Salò è cominciato da tempo. Del suo iniziatore, il deputato ex-comunista Violante, si dice avesse ambizioni di capo dello Stato e dunque dovesse conquistarsi le simpatie della destra in Parlamento. Ma Ciampi è già presidente della Repubblica, le simpatie della destra se le è già conquistate, infatti è stato eletto all’unanimità, e la destra, compresi gli ex-fascisti, sono entusiasti di lui (il primo a esultare alle sue parole è stato il ministro Mirko Tremaglia, ex-repubblichino). Nelle sue incaute parole il presidente della Repubblica dimentica che i nazi-fascisti non sono gli Assiro-babilonesi, scomparsi da quattromila anni: essi sono ancora presenti in Europa in varie forme di neo-nazismo, e fra l’altro il parlamento italiano trabocca di ex-fascisti. Mi rendo conto che l’Italia è fatta di «ex»: expartigiani, ex-fascisti, ex-comunisti. Comunque sarebbe bene che il presidente della Repubblica ricordasse che egli non è ancora un ex-presidente, e dunque facesse bene il suo mestiere di presidente, che è quello di garantire le istituzioni italiane. Finora è stato molto solerte a firmare le leggi «sudamericane» di Silvio Berlusconi (soprattutto la legge sulle rogatorie internazionali, che ha destato scandalo in Europa) e altre sono in arrivo all’orizzonte,

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leggi che a mio avviso prima o poi faranno dell’Italia un caso anomalo nell’Europa unita. Quanto all’unità del paese, a cui Ciampi sembra tenere tanto, non mi spiego perché, quando Berlusconi gli ha presentato il suo governo, non abbia fatto obiezioni su Umberto Bossi come ministro delle Riforme Istituzionali. L’Italia oggi ha un presidente della Repubblica che per difendere l’unità del paese va a riesumare coloro che nel 43-45 fecero le scelte peggiori, e un ministro delle Riforme Istituzionali che vorrebbe fare la repubblica della Padania indipendente. Che l’Europa aiuti l’Italia.

IL CAPO DELLO STATO TRA SALÒ E RESISTENZA [Mario Pirani, «la Repubblica», 5 novembre 2001]

Vale la pena di tornare sul giudizio che Ciampi ha dato sui cosiddetti «ragazzi di Salò», di cui si è fatto un gran parlare, spesso a sproposito. Nella semplificazione giornalistica e nella foga polemica di alcuni è parso, infatti, che il presidente della Repubblica avesse voluto parificare, in un unico empito unificante, i combattenti della Resistenza e quelli della Repubblica sociale. Nulla di più errato. Abbiamo preso visione di alcuni documenti integrali, compreso il testo del discorso del capo dello Stato, che ricollocano la questione nel suo esatto contesto. Credo sia di qualche interesse farne partecipi i lettori. Tra l’altro i più recenti episodi traggono spunto da una richiesta avanzata su queste colonne fin da quando, in appoggio all’azione tenace di Ciampi per affermare l’idea di Patria, riesumammo la strage di Cefalonia e tanti altri eventi coinvolgenti le Forze armate dopo l’8 settembre ’43. In quella occasione, sulla base d’innumerevoli testimonianze ricevute, suggerimmo che, così come si era fatto per i sopravvissuti della Prima guerra mondiale, istituendo l’Ordine dei Cavalieri di Vittorio Veneto, si trovasse ora il modo per dimostrare il riconoscimento dell’Italia verso quei soldati che erano rimasti fedeli al giuramento, dando vita per primi alla Resistenza, dallo Jonio alla Corsica, da Barletta ai lager dove furono internati.

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Sulla questione ero tornato altre volte, auspicando che una decisione venisse presa prima che gli ultimi reduci passassero, come si dice, a miglior vita. Venni poi a sapere che l’iter era stato avviato con un disegno di legge, presentato in Parlamento, per la concessione dell’Ordine del Tricolore ai combattenti della seconda guerra mondiale. L’iniziativa, però, si era insabbiata. Ora capisco il perché. In una lettera al Quirinale il capogruppo di An alla Commissione Difesa del Senato, Piero Pellicini, spiega che a nome del suo gruppo aveva ritirato l’assenso a concedere la sede deliberante (che permette di sveltire la procedura) al disegno di legge, preannunciando, comunque, il voto contrario, visto che dall’onorificenza risultavano esclusi i combattenti della Repubblica sociale, anch’essi, come gli altri, «spinti dal concetto di Patria e onore». La lettera si conclude chiedendo al Presidente «una parola pubblica e di rispetto anche per coloro che ritennero di fare il proprio dovere, combattendo dall’altra parte... i tempi sono finalmente maturi per attuare il sogno della pacificazione nazionale». Pur apprezzando l’intento e lo spirito di sincerità della lettera, Ciampi rispose con una missiva che chiarisce uno spartiacque storico che non può essere rimesso in discussione. Ricordato che l’integrazione europea è stata attuata da nazioni che sostengono l’assoluto rifiuto delle ideologie totalitarie e dei nazionalismi, il Presidente così precisa il suo pensiero: «Il giudizio storico sulla Repubblica di Salò – creata in antitesi allo Stato legittimo, il Regno d’Italia che non cessò di esistere fino al referendum del 2 giugno 1946 – non può dimenticare che essa appoggiò con la sua azione, la causa del nazismo, anche se scelte individuali di adesione furono ispirate al convincimento di fare in tal modo il proprio dovere. Contro quella causa combatterono le Forze Armate Italiane, restate fedeli al giuramento prestato in consonanza di intenti con la risorgente Italia democratica. Questa ha le sue radici in una Resistenza che ha avuto una pluralità di manifestazioni: dal comportamento della maggior parte dei nostri militari (prima nei giorni successivi all’8 settembre, poi nei campi di internamento) all’azione delle formazioni partigiane, alle battaglie combattute dal Corpo Italiano di Liberazione». Messo questo punto fermo, in occasione della concessione della medaglia d’oro a un caduto della Resistenza, in un discorso di 5 pagine tutte dedicate a rammentare i valori che furono alla ba-

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se della lotta di Liberazione, il Presidente ha sottolineato come fra questi fosse presente il valore dell’unità d’Italia, e ha aggiunto: «Quell’unità, che oggi a mezzo secolo dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse, e le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria». Nulla di più. Nulla di nuovo, rispetto a precedenti riconoscimenti. Nulla di cui scandalizzarsi. Resta, invece, da chiedersi se il partito del vicepresidente del Consiglio ha compiuto davvero la revisione che proclama, o se si considera ancora l’erede diretto della repubblica nazi-fascista.

DISCORSO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI AD ASCOLI, IL 25 APRILE 2002* Onorevole Ministro della Difesa, Autorità civili, militari, religiose, Cittadini di Ascoli Piceno, sono particolarmente lieto di essere oggi con voi in questa piazza, che ricordavo straordinariamente bella; ma riviverla con voi la rende ancora più bella. Ho appena decorato il gonfalone della vostra città con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Ciò che avvenne in quei mesi del 1943 e del 1944 in queste terre è la sintesi di quello che oggi, dopo decenni di sedimentazione e di dibattito, sappiamo essere stata la Resistenza: una reazione delle coscienze alla sfida contro i valori e la dignità dell’uomo. Fu una reazione che si affermò in modi diversi a seconda delle circostanze, ma fu una reazione largamente diffusa, spontanea. Dopo l’8 settembre, ci fu la Resistenza attiva di chi prese le armi in pugno, partigiani, soldati, militari che seguirono l’impulso della propria coscienza; ci fu la Resistenza silenziosa della gente, dei cittadini che aiutarono, soccorsero, feriti, fuggiaschi, combattenti, esponendosi a rischi elevati. Ci fu la Resistenza dolorosa dei prigionieri nei campi di concentramento, di chi si rifiutò di collaborare.

* Tratto dal sito www.quirinale.it.

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Questi diversi modi di vivere la Resistenza sono presenti, tutti, in questa città. Colpisce il coraggio dei giovani avieri, appena arruolati, che non si rassegnarono dopo l’8 settembre e respinsero per alcuni giorni, con gravi perdite, le truppe germaniche; dei capitani Bianco e Canger dell’Arma dei Carabinieri che diedero vita a uno dei primi raggruppamenti partigiani, già nell’autunno del 1943. Poi, tanti civili, studenti, come Adriano Cinelli, il primo caduto della Guerra di Liberazione, professionisti e lavoratori animarono le brigate partigiane che combatterono fino all’arrivo degli alleati. Questa medaglia oggi ricorda ai nostri giovani il desiderio di riscossa che animò gli italiani in quella tragedia e che trovò conclusione con la nascita della Repubblica, con la promulgazione della Costituzione. Il 25 aprile di quest’anno è segnato da un’immagine che rimarrà per sempre nei nostri cuori: il Presidente della Repubblica Federale di Germania e il Presidente della Repubblica Italiana tra le querce del Monte Sole, a Marzabotto, tra le rovine della chiesa di San Martino dove, nel settembre del 1944, vennero trucidate decine di persone inermi con una ferocia inaudita. Abbiamo sostato insieme, fianco a fianco, per onorare, in silenzio, le vittime; per incontrare i superstiti di quello scempio, i parenti dei Caduti; per meditare e ricordare. Gli italiani si sono commossi per quel gesto del Presidente Rau, per quelle sue parole. Non le dimenticheremo. A Marzabotto abbiamo sentito dentro di noi che stavamo vivendo qualcosa di importante e nobile, nel percorso di una memoria vissuta come forza viva della nostra democrazia, una democrazia forte, intrecciata indissolubilmente con gli altri popoli d’Europa, legati nella comune cittadinanza dell’Unione Europea. Dalla tragedia della guerra la mia generazione uscì con una idea chiara: costruire un’Europa sorretta da istituzioni fondate sui principi della democrazia, un’Europa generatrice di pace, l’Europa dei valori, della libertà, della giustizia, del rispetto della dignità umana, della solidarietà, della forza serena di Stati democratici, che oggi si riconoscono in una comune cittadinanza; domani in una comune Costituzione. Questa Europa, la nostra Europa ha garantito sessant’anni di pace e, in tempi recenti, ha saputo portare la pace al di fuori dei

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confini dell’Unione, con l’impegno delle sue Forze armate. Il consenso dei cittadini europei verso questo comune destino è forte e crescente. È la base democratica sulla quale proseguire. Questo consenso si fonda non sull’oblio, ma sulla consapevolezza del passato. Il lavoro della memoria è difficile, complesso, ma è indispensabile per capire il senso del cammino percorso dal 1945 a oggi, dell’immenso valore delle istituzioni che abbiamo costruito per noi e per le generazioni future: la Costituzione Repubblicana, i Trattati dell’Unione Europea. Certo, il lavoro della memoria presuppone la giustizia, non per spirito di vendetta, ma per riaffermare i fondamenti dei nostri ordinamenti, della nostra civiltà; il lavoro della memoria impone soprattutto che nessuna delle vicende di quegli anni venga dimenticata. E in questo senso, il lavoro fatto negli anni Novanta dalla Magistratura militare e dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati è prezioso e va proseguito. La storia è un’azione di ricostruzione lenta e paziente, va arricchita ogni giorno di nuovi approfondimenti, di nuove testimonianze; ciò non ha nulla a che fare con un improponibile revisionismo. Per questo è importante celebrare – con solennità e in spirito di riconciliazione – il 25 aprile, anniversario della Liberazione. Oggi gli italiani hanno riscoperto l’inno di Mameli, lo hanno riscoperto nella sua musica e nelle sue parole; esse ci fanno rivivere il risveglio di un popolo che cercava unità e libertà, che si sentiva partecipe della lotta per gli stessi valori degli altri popoli europei. Non è un caso che proprio nei mesi che seguirono la caduta del fascismo e l’8 settembre, patrioti e cittadini cantavano nelle strade l’inno di Mameli. Esso rappresenta quel filo rosso tra i sentimenti delle generazioni del Risorgimento e di quelle della Repubblica, quegli ideali che ancora oggi hanno la loro sintesi migliore nelle due scritte del Vittoriano: «l’unità della Patria», «la libertà dei cittadini». Sono valori conquistati dal nostro popolo e che il popolo italiano custodisce e garantisce con le sue Istituzioni. Viva la Repubblica! Viva l’Italia!

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IL VALORE DEL 25 APRILE [Giorgio Bocca, «la Repubblica», 5 maggio 2002]

Credo che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi non avesse previsto, salendo al Colle, di dover assumere anche la parte di custode della storia patria. Ma ancora una volta, in visita a Trieste, ha dovuto correggere il revisionismo neofascista che equipara la risiera di San Saba, luogo delle atrocità naziste, alle foibe carsiche di Basovizza, luogo della reazione slovena alla lunga ostilità etnica. Anche essa atroce ma diversa. Il sindaco di Trieste che ai tempi di Salò era podestà, ha della storia l’idea a senso unico del revisionismo in voga nella nostra destra: ricorda molto bene le colpe altrui ma dimentica le nostre. La tensione fra l’Italia fascista e la popolazione slovena della Venezia Giulia risale ai primi anni del regime e alla italianizzazione forzata della minoranza contadina, della quale in Italia si avevano poche e vaghe notizie. Chi scrive ne ebbe conoscenza nel 1942 al corso allievi ufficiali degli alpini dal quale, una notte, scomparvero gli allievi provenienti da Gorizia e dall’Istria di etnia slovena. L’Italia fascista non se ne fidava e a ragione, anche perché era già in corso la nostra occupazione della Jugoslavia. La italianizzazione degli sloveni istriani non fu particolarmente dura ma comunque vessatoria: venne cancellato ogni bilinguismo, imposte alcune discriminazioni umilianti, resi più profondi il sospetto e le diffidenze che separavano la popolazione slovena dell’interno da quella italiana della costa, per cui gli slavi restavano gli «sciavi» dal tempo di Venezia. Seguì alla italianizzazione delle «terre redente» l’occupazione militare della Seconda guerra mondiale e qui dal rapporto vessatorio si passò a una guerra di atrocità inaudite che a guerra finita l’Italia democratica non ha mai avuto il coraggio di confessare. Abbiamo sì pagato il prezzo durissimo della cacciata degli italiani da tutta l’Istria e dai centri dalmati, ma abbiamo allontanato il calice amaro delle responsabilità come se la guerra partigiana ce ne esentasse. La guerra fredda, il comunismo alle porte, il revanscismo titino ci liberarono troppo facilmente da quella pesante eredità, non accettammo mai di consegnare i criminali di guerra che Belgrado

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ci richiedeva, fra cui i generali che avevano comandato i rastrellamenti, non dissimili da quelli tedeschi. I partigiani sloveni autori delle foibe, i burroni e le grotte carsiche in cui furono gettati migliaia di italiani, avevano ragioni storiche per considerarci nemici. Del loro ci misero la ferocia balcanica di cui si occupa in questi giorni il Tribunale dell’Aja, la millenaria abitudine alle stragi indifferenziate in cui si inserivano il comunismo staliniano delle misure drastiche. Vennero uccisi italiani colpevoli delle vessazioni fasciste come italiani che avevano coltivato la convivenza. Anche perché il governo di Tito mirava all’occupazione definitiva di Trieste, il grande porto che assicurava le comunicazioni e i commerci con il centro Europa e non faceva distinzioni. Ma ha ragione Ciampi: la risiera di San Saba e le foibe non sono la stessa cosa. La prima fu il luogo della Resistenza al nazismo, le seconde il simbolo di una ostilità etnica che risaliva alla Repubblica di San Marco e alla sua colonizzazione marinara. Una peculiarità del revisionismo è di coltivare confusioni che cancellano le colpe. Invece di ricordare gli errori e di accettare le responsabilità ci si rifugia nel culto dei morti che sono tutti eguali sotto la nera terra. Il becchino sostituisce il giudizio di Dio e degli uomini.

INDICI

INDICE DEI NOMI Aga Rossi, E., 4n, 22n, 309. Agosti, A., 288. Albergo, D., 18n. Alessandrini, L., 28n. Algardi, Z.O., 29n. Allegra, L., 288. Almirante, G., 39n, 69-70, 164, 210, 252, 301. Alvesi, F., 39n. Amato, G., 290. Ambrosio, P., 288. Amendola, G., 13, 29-30, 31n, 150, 196, 257, 259, 309. Andrae, F., 85n. Andreotti, G., 209. Andreucci, F., 8n. Anfuso, F., 29. Angiolillo, R., 21. Aniasi, A., 79, 270. Arfè, G., 114n, 314. Aristarco, G., 35, 36 e n. Audisio, W., 165-67. Bachelet, V., 31n. Badinter, R., 337. Badoglio, P., 5 e n, 15 e n, 16, 96n, 117, 176, 260, 264, 275, 299. Baget Bozzo, G., 75 e n, 266. Baghino, G.C., 62. Balbis, F., 234. Baldassarre, A., 57n. Baldi, G., 307. Baldissara, L., VII, 63n, 66n, 69n, 79n, 85n, 89n. Ballone, A., 23n, 38n.

Bandiera, fratelli, 235. Barale, S., 234. Barbagallo, C., 7n. Barbagallo, F., 288. Barberis, W., 12n, 114n. Baris, T., 85n. Bassi, U., 235. Basso, L., 260. Battaglia, A., 28n. Battaglia, R., 331-32. Battini, M., 83n, 84n, 85n. Battistini, G., 103n. Bauer, R., 29. Belardelli, G., 79n, 102n, 103 e n. Belligni, S., 288. Bencivenga, R., 22. Bendotti, A., 288. Benigni, R., 91 e n. Benini, L., 102n. Bentivegna, R., 29n, 77n. Berlinguer, E., 46n, 50, 53, 184, 24748, 317. Berlusconi, S., 72, 73 e n, 75, 93, 102, 107n, 110, 310, 337-38. Bermani, C., 288. Bernardelli, G., 288. Bernardi, G., 233-34. Bernardini, 235. Bevilacqua, Q., 234. Biagi, E., 334. Biagi, M., 73. Bianco, E., 341. Biasion, R., 36n. Bidussa, D., 91n. Bigazzi, D., 288.

348 Bin Laden, Osama, 337. Biotti, A., 69n. Bobbio, G.B., 235. Bobbio, N., 64 e n, 256, 270. Bocca, G., 78n, 103 e n, 343. Boldrini, A., detto Bulow, 24 e n, 39, 44, 50n, 52n, 77n, 79, 94-95, 97n, 110n, 308. Bondi, S., 74 e n. Bonerandi, E., 101n. Bonomi, I., 259, 274. Borghese, J.V., 29 e n, 167. Borlandi, B., 67n. Borrelli, S., 73. Borsa, M., 121. Borsani, C., 69. Borsari, U., 295. Boschi, R., 49n, 207. Bossi, U., 80, 338. Bottai, G., 77. Bottoni, R., 288. Bovero, M., 288. Bozza, T., 26n. Bozzi, A., 260. Brambilla, C., 74n. Breda, M., 100n, 103n, 106n, 33031. Brenno, L., 39n. Briand, A., 315. Bucalossi, P., 237-38. Buozzi, B., 13, 197. Burgio, A., 288. Buscaroli, P., 68 e n, 274. Buttiglione, R., 274. Buzzanca, S., 93n. Cadorna, R., 7n, 39, 276-77. Cafagna, L., 79n. Cairoli, fratelli, 235. Cajani, L., 288. Calamandrei, F., 29. Calamandrei, P., 36 e n, 132, 136. Calogero, G., 102n. Canfora, L., 58n, 288. Canger, C., 341.

Indice dei nomi

Canosa, R., 20n. Capogreco, C.S., 10n, 88n, 89n. Capponi, C., 29n, 77n. Caracciolo, L., 61n. Carboni, G., 264. Carioti, A., 71n. Carli, C., 86n. Carpi, D., 9n. Carrillo, S., 248. Casalegno, C., 239. Casali, A., 55n, 233n. Casini, P.F., 74, 108, 109n. Cassese, A., 337. Castellano, G., 264. Catone, A., 288. Cattaneo, C., 134. Cavalera, C., 234. Cavallo, P., 12n. Cavazza, S., 10n. Caviglia, E., 176. Cavour, C. Benso conte di, 276. Cazzaniga, G.M., 288. Cazzullo, A., 73n, 99n. Ceccanti, F., 301. Cenci, C., 14n, 23n, 33 e n, 38n, 40n, 46n, 47n, 54n, 79n, 110n. Cervi, fratelli, 13, 235. Chabod, F., 178. Chessa, P., 65n. Chianese, G., 85n. Chiarini, R., 67n. Chirac, J., 337. Ciafaloni, F., 288. Ciampi, C.A., VI, 64, 72, 86 e n, 94 e n, 95, 96 e n, 97 e n, 98 e n, 99 e n, 100 e n, 101-105, 106 e n, 107, 110-11, 112 e n, 114, 290, 296-97, 300, 302, 326-27, 330, 335-39, 343-44. Cianca, A., 117. Cinelli, A., 341. Cofferati, S., 101. Cofrancesco, D., 65n. Colarizi, S., 12n, 31n. Colletti, L., 57n, 246. Collotti, E., 7n, 10n, 13n, 14n, 20n,

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Indice dei nomi

38n, 42n, 43n, 58n, 59n, 65n, 76n, 79n, 85n, 87n, 88n, 91n, 288. Colombo, F., 111n, 280. Colorni, E., 315. Conti, F.G., 21n. Contini, G., 85n. Cornelissen, C., Vn. Cortesi, L., 288. Corti, P., 315. Costa, G., 70, 301. Costantini, C., 288. Covelli, A., 230. Crainz, G., 38n, 41n, 42n, 46n, 58n. Craveri, P., 41n, 48n, 53n, 57n. Craxi, B., 57, 60-61, 108, 252, 258. Credazzi, G., 64n. Criscione, A., 288. Croce, B., 5 e n, 188, 259, 277. Crollalanza, A. di, 69. D’Acquisto, S., 236. D’Alessandro, S., 110n. Dal Maso, C., 83n. D’Angelo, A., 32n. D’Asaro, F.M., 56n, 229. Deaglio, E., 92 e n. De Bernardi, A., 46n, 57n, 332. De Felice, F., 85n. De Felice, R., 59 e n, 65 e n, 67 e n, 68n, 81, 108 e n, 252, 258-59, 262, 268, 277, 323. De Feo, F., 72n, 73n. De Feo, I., 45n, 186n. De Gasperi, A., 23, 25, 26 e n, 27 e n, 32 e n, 33n, 34 e n, 35n, 144-46, 148, 165-66, 196, 226, 229-30, 246, 259, 265, 274. De Giovannangeli, U., 70n. De Grazia, V., 11n. Del Boca, A., 88 e n, 89. De Luna, G., 12n, 27n, 38n, 41n, 47 e n, 48n, 65n, 281. De Martino, F., 50n, 51 e n, 60 e n, 61, 212. De Rosa, G., 48n.

Di Dio, fratelli, 235. Di Gregorio, P., 288. Di Lello, A., 74n. Di Michele, A., 88n. Di Nucci, L., 32n, 78n. Di Piazza, R., 74. Dipper, C., 10n, 88n. Dogliani, P., 24n. Dondi, M., 28n, 29n, 58n, 308. D’Onofrio, F., 66. Donosti, M. (M. Luciolli), 9n. d’Orsi, A., 288. Einaudi, L., 203, 315. Eisenhower, D., 176, 260. Elia, L., 64. Endrich, E., 301. Engel, F.S., 84 e n. Errera, G., 55n, 233n. Espinosa, A. degli, 5n. Fanfani, A., 42, 51, 208, 210-11, 225. Farina, R., 71n. Fasce, F., 288. Fassino, P., 100 e n, 290, 307. Feltri, V., 68. Feltrinelli, G., 257. Ferenc, T., 10n. Ferrara, G., 59n, 73, 108n, 252. Ferrari, P., 57n, 288. Ferratini Tosi, F., 288. Ferri, M., 317. Fertilio, D., 97n, 106n. Fini, G., 62 e n, 63-64, 66, 69, 70 e n, 71 e n, 75, 77, 78 e n, 80, 252, 254, 265-66, 302, 307, 310. Fiori, S., 305. Flores, M., 38n, 46n, 60n. Foa, V., 80, 81 e n, 277, 281. Focardi, F., Vn, 6n, 8n, 9n, 16n, 17n, 18n, 83n, 84n, 87n, 88n, 89n, 91n, 288, 298. Fogar, G., 58n, 59n. Follini, M., 74. Forcella, E., 60 e n.

350 Formentini, M., 80. Formigoni, G., 25n. Franchi, P., 63n, 107n, 265. Francioni, G., 288. Franco, F., 142, 275. Franzina, E., 288. Franzinelli, M., 13n, 14n, 20n, 83n, 84n, 89n, 288, 300. Franzolin, U., 35, 36n. Fucilieri, P., 73n. Fusani, C., 74n. Gaeta, F., 331. Gagliani, D., 20n, 89n. Gagliardi, R., 77n. Galante Garrone, A., 306. Galante Garrone, C., 83n. Galimberti, D., 13, 234-35, 268. Gallerano, N., 4n, 21n, 40n, 56n, 59n. Galleri, M., 49n. Galli della Loggia, E., 32n, 65 e n, 78n, 79n, 80n, 87 e n, 90n, 97 e n, 98n, 281, 322, 325, 327-28, 33032. Gallitto, B., 66. Galluzzo, M., 70n. Ganapini, L., 20n, 49n, 332. Gandin, A., 14n, 86, 95, 149, 320, 324, 331. Garibaldi, G., 236. Gentile, C., 85n. Gentile, E., 113 e n. Gentile, G., 58 e n, 71 e n. Gentili, S., 77n. Geppert, D., VIn. Germinario, F., 19n, 288. Ghirlandini, L., 39n. Giamboni, E., 234. Giannini, G., 21, 230. Ginsborg, P., 48n, 57n. Giorgi, C., 288. Giorleo, A., 66n. Giovannetti, P., 288. Giovannini, A., 67n.

Indice dei nomi

Giuriolo, A., 98, 333-34. Giusti, C., 93n, 290. Giusti, M.T., 21n, 22n. Giustolisi, F., 83n, 90n. Gobetti, E., 88n. Gobetti, P., 13. Gonella, G., 120. Goretti, S., VII. Gorodiski, D., 79n. Gorrieri, D., 166. Gramsci, A., 13, 235, 301. Grandi, A., 259-60. Granelli, L., 60 e n. Grassi, G., 288. Grassi, R., 79n. Gravagnuolo, B., 81n, 258, 277. Graziani, A., 288. Graziani, R., 20 e n, 21, 29, 290, 299. Greene, J., 12n. Greppi, A., 139. Gribaudi, G., 85n. Gronchi, G., 37 e n, 38, 40 e n, 41, 156 e n. Gruppi, L., 5n, 125. Guareschi, G., 34 e n, 35n. Guarini, R., 61 e n, 249. Guerci, L., 288. Guerri, G.B., 73n. Gufler, C., 301. Guiglia, F., 62n, 63n, 64n. Guzzanti, P., 71n. Heidegger, M., 251. Hitler, A., 5, 9, 45, 68, 120, 147, 177, 246, 251, 268, 275, 288, 316, 329, 336. Hugo, V., 315. Hussein, S., 93. Ignazi, P., 31n, 48n, 63n, 69n. Illy, R., 77 e n. Imbriani, A.M., 21n. Iotti, N., 60. Isnenghi, M., 3n, 5n, 7n, 13n, 14n, 23n, 27n, 38n, 41n, 65n. Isola, G., 288.

Indice dei nomi

Iuso, P., 88n. Jacobelli, J., 59n, 108n. Jappelli, F., 101n. Jedlowski, P., 4n. Jerkov, B., 73n. Johnson, B.L., 200. Jorda, C., 337. Katz, R., 28n, 58n, 83n. Kesselring, A., 152, 177, 275. Kirsch, P., 337. Klinkhammer, L., V e n, VII, 10n, 18n, 20n, 85n, 87n, 88n. Kocbek, E., 299. Kruscev, N.S., 173. Labanca, N., 88n, 288. Lai, A., 288. Lama, L., 54 e n, 231. La Malfa, U., 44, 246, 268. Lamberti, M.C., 288. Lanaro, S., 41n. La Piana, G., 9n. La Pira, G., 44. La Rochelle, D., 251, 254. Lastrucci, E., 288. Legnani, M., 17n. Lenin, N., pseud. di V.I. Ul’janov, 248, 268, 315-16. Leone, G., 43, 52, 53 e n, 215. Lepre, A., 41n, 53n. Leszl, W., 83n. Li Causi, G., 22. Lipgens, W., 316. Liuzzi, G., 107n. Lombardi, R., 24, 25 e n, 141. Longanesi, L., 68n. Longo, L., 7 e n, 23-24, 44, 46n, 50n, 89n, 139-41, 276, 309. Losurdo, D., 288. Loy, R., 91. Lupo, S., 57n, 288. Lussana, F., 4n. Luzi, F., 74n. Luzzatto, S., 11n, 72n, 90, 101n.

351 Machiavelli, N., 315. Mafai, M., 72n. Magris, C., 81 e n, 114n. Maida, B., 288. Maier, C., 17n, 34n. Malgeri, F., 32n. Malgeri, G., 77n. Malraux, A., 251, 254. Mameli, G., 342. Mangiameli, S., 288. Mantelli, B., 10n, 87n, 88n, 89n, 288, 330. Mao Tse-tung, 200. Maraffi, M., 67n. Marazza, A., 39n. Marchais, G., 248. Marchesi, C., 191, 259. Marchisio, G., 234. Marconi, P., 309. Margheri, P., 288. Martini Mauri, E., 146. Marx, K., 268. Massignani, A., 12n. Massobrio, F., 56n, 67n. Mastropaolo, A., 288. Matta, T., 58n, 76n, 85n. Mattei, E., 39n, 226. Matteotti, G., 13, 190. Mattina, L., 78n. Mazzantini, C., 62n, 66. Mazzini, G., 142. Mei, A., 234. Mele, G., 77n. Menia, R., 75. Mercuri, L., 8n, 16n. Merzagora, C., 36 e n. Messe, G., 15 e n. Miccichè, T., 49n. Miccoli, G., 10n, 24n, 25n. Micheletti, B., 10n. Micheli, S., 83n. Mieli, P., 70n, 300, 302. Milan, M., 5n. Minzoni, G., 13, 235. Mirabella, A., 295.

352 Missiroli, M., 83n. Moltke, H.J. von, 316. Monina, G., 14n, 48n. Montagna, R., 153. Montanelli, I., 67 e n, 83n, 87 e n, 88-89, 263, 323, 330-31. Monteleone, R., 288. Montinari, M., 332. Moranino, F., 166. Moro, A., 43-44, 53-54, 178, 231, 239. Morosini, G., 13, 226, 235. Morozzo della Rocca, R., 22n. Moscatelli, V., 166. Mussolini, A., 71. Mussolini, B., 5, 8-9, 11-12, 15, 20n, 30, 37, 39n, 45, 59n, 62, 68 e n, 6970, 76, 87, 110, 112, 120-24, 17677, 230, 251, 256, 264, 267-68, 274-75, 283, 299-301, 310, 336. Muzzupappa, S., 7n. Natoli, C., 288. Natta, A., 249. Nenni, P., 43 e n, 44-45, 176, 189, 260. Neppi Modona, G., 10n, 24n, 25n. Neri Serneri, S., 55n, 233n. Novelli, C., VII, 81n. Nuti, L., 41n. Nützenadel, A., 10n, 88n. Nuzzi, G., 80n. Ocamp, C., 254. Oliva, G., 13n, 288, 308. Operti, P., 230. Orlando, T., 15, 16n, 166, 259. Ortona, S., 166. Pacciardi, R., 34, 277. Paggi, L., 10n, 14n, 23n, 33n, 46n, 76n, 85 e n, 88n, 110n. Pajetta, G., 309. Palermo, M., 18n. Palla, M., 85n. Palmer Domenico, R., 16n.

Indice dei nomi

Palumbo, M., 299. Pampaloni, G., 284, 324. Pannunzio, M., 36. Pansa, G., 72, 305-306, 308-10. Papuzzi, A., 89n. Parri, F., detto Maurizio, 35 e n, 36 e n, 39, 40 e n, 42 e n, 44, 174, 205, 331. Patrissi, E., 21-22. Pavone, C., VII, 7n, 12n, 21n, 79n, 80, 81 e n, 82, 83n, 87n, 198, 25859, 283-84, 288, 306, 324. Pecchioli, U., 242. Peiper, J., 233. Peli, S., 13n. Pella, G., 34n. Pellicini, P., 100 e n, 339. Pellico, S., 235. Pennevaria, F., 301. Pera, M., 73. Perfetti, F., 71n. Perlasca, G., 92 e n. Perona, G., 288. Pertini, S., 28-29, 54-55, 60-61, 233. Pesce, G., 77n. Pétain, P., 251, 275. Pezzino, P., 84n, 85n, 89n. Piccialuti Caprioli, M., 8n. Piccioni, A., 30-31. Pietra, I., 307. Pio XII (E. Pacelli), papa, 31. Pirani, M., 86 e n, 96n, 97n, 100n, 338. Pircher, J., 301. Piretti, M.S., 33n. Pisacane, C., 236. Pisenti, P., 275. Pizarroso Quintero, A., 8n. Pizzoni, A., 39. Poggio, P.P., 5n, 10n, 20n, 288. Polese Remaggi, L., 35n. Poli, L., 62. Poliakov, L., 9n. Politi, A.M., 28n. Polo, G., 75n, 105n.

353

Indice dei nomi

Pombeni, P., 10n, 24n, 25n. Porta, G., 288. Portelli, A., 28n, 58n, 83n, 85n. Prauser, S., 14n. Preti, L., 45n, 186n. Previti, C., 66. Priebke, E., 82 e n. Priori, S., VII. Pupo, R., 76n, 88n. Quagliarello, G., 33n. Quazza, G., 47n, 60 e n, 198, 306, 331. Quesito, F., 288. Radetzki, J.-J.-F.-K., 234. Ragghianti, C.L., 268. Rainero, R.H., 21n. Rapone, L., 57n. Rau, J., 98, 105, 107, 341. Reder, W., 242. Renzi, R., 35, 36 e n. Revelli, M., 38n, 47n, 65n. Riccardi, A., 31n, 32n. Ricci, A.G., 15n. Ricci, R., 29, 167. Ridolfi, M., 14n. Rivello, P.P., 84n. Roatta, M., 15, 16n, 17 e n, 260, 264. Rochat, G., 87n, 88, 332. Rodogno, D., 9n, 10n, 88n. Romanelli, R., 78n. Romano, C., 94n. Romano, S., 259, 262. Romero, F., 112 e n. Roosevelt, F.D., 167. Rosselli, fratelli, 13. Rosselli, C., 315. Rossi, E., 268, 315. Rossi-Doria, A., 83n. Rousseau, J.-J., 251. Roveda, G., 260. Rumor, M., 38n, 46n. Rusconi, G.E., 3n, 65n, 78, 87n, 106, 107n, 259, 262.

Russo, C.F., 288. Rutelli, F., 62n, 77. Sabbatucci, G., 61n, 79n, 106. Sabille, J., 9n. Saevecke, T., 84 e n. Sala, R., 288. Sala, T., 10n. Salinari, C., 29n. Salsano, A., 288. Salvadori, M.L., 71n. Salvati, M., 288. Salvatorelli, L., 132. Salvemini, G., 9 e n. Sandri, R., 13n, 14n, 20n, 58n, 59n, 76n, 85n, 288. Santacroce, E., 295. Santarelli, E., 288. Santarelli, L., 88n. Santomassimo, G., 11n, 38n, 40 e n, 41n, 46n, 71n, 87n, 102 e n. Saragat, G., 45 e n, 104n, 186 e n, 246. Sarfatti, M., 90 e n. Sartori, M., 70n, 301. Satta, S., 323. Savioli, A., 89n. Savoia, famiglia, 14, 96n. Scalfari, E., 71n, 327. Scalfaro, O.L., 62-64, 66, 99. Scarrone, G., 60, 61n. Scavino, M., 288. Scelba, M., 34n, 166. Schreiber, G., 14n, 85n, 332. Schwarz, G., 30n, 91n. Schwentker, W., Vn. Scipione Rossi, G., 70n. Scoccimarro, M., 44. Scognamiglio, C., 86 e n. Scoppola, P., 41n, 53n, 65n, 104 e n. Secchia, P., 257, 309. Segni, A., 44. Seifert, M., 84 e n. Serena, A., 69, 301. Sereni, E., 167.

354 Servello, F.M., 35, 36n. Sessi, F., 13n, 14n, 20n, 58n, 59n, 76n, 85n, 288. Setta, S., 21n. Settembrini, L., 235. Settimelli, W., 83n, 89n. Sgarioto, S., 288. Shelah, M., 9n. Sichirollo, L., 288. Silva, P., 15n. Soddu, P., 288. Sogno, E., 22, 66, 73 e n, 102, 277. Solaro, P., 288. Sossi, M., 52. Spadolini, G., 65n. Spampanato, B., 153. Spinelli, A., 315-17. Spinelli, B., 83n, 271, 300. Spriano, P., 8n. Stajano, C., 288. Stalin, I.V. Dzˇugasˇvili, detto, 33, 147, 200, 251, 268, 276. Stammati, G., 238. Statera, A., 69n. Steinberg, J., 9n. Stella, G.A., 74n, 110n. Storchi, M., 58n, 308. Storti, B., 102n. Sturzo, L., 31, 166, 230, 260. Tabucchi, A., 99 e n, 100, 335. Tambroni, F., 42, 50, 173-74, 205. Tamburrano, G., 41n. Tarchi, M., 61n. Tassoni, 235. Taviani, P.E., 30-31, 38, 79, 153. Taylor, M., 260. Tempesta, B., 69. Teodori, M., 109n. Terracini, U., 44. Terranova, A., 301. Tiberga, G., 109n. Tito, pseud. di J. Broz, 58, 67, 68, 76 e n, 277, 290. Togliatti, P., 5 e n, 8n, 14, 27, 71n,

Indice dei nomi

125, 130, 151, 165, 210, 230, 243, 247-48, 266, 271, 301, 309, 329, 344. Tognarini, I., VII, 85n. Tolloy, G., 18. Tranfaglia, N., 59n, 71n. Tremaglia, M., 63, 99, 337. Trentin, S., 268. Trizzino, A., 34 e n, 35n. Trombadori, A., 52. Turchi, F., 39n. Turi, G., 58n, 288. Umberto II di Savoia, re d’Italia, 15n, 284. Vacante, C., 288. Vacca, G., 85n. Valdevit, G., 76n. Valiani, L., 7n, 80, 82 e n, 268. Varalli, C., 49n, 206. Varsori, A., 20n. Vasile, V., 72n. Vassallo, A., 233-34. Vegetti, M., 288. Veltroni, W., 265. Veneziani, M., 267. Ventrone, A., 6n. Venturi, M., 87n, 332. Vespa, B., 111n. Vidotto, V., 61n. Vighi, F., 5n. Villani, P., 331. Villari, G., 88n. Violante, L., 77, 78 e n, 83, 99, 102 e n, 285-87, 337. Viroli, M., 114n. Vittoria, A., 288. Vittorio Emanuele II di Savoia, re di Sardegna, poi d’Italia, 235-36. Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia, 4, 96. Vivarelli, R., 62n. Volpe, G., 27n, 131. Voltaire, pseud. di F.-M. Arouet, 237.

355

Indice dei nomi

Woller, H., 16n, 29n. Woolf, S., 17n. Zagari, M., 52. Zanaboni, M.G., 288. Zangheri, R., 254.

Zaniboni, T., 230. Zaslavsky, V., 22n, 309. Zibecchi, G., 49n, 207, 211. Zilli, V., 22n. Zincone, G., 77n. Zunino, P.G., 11n.

INDICE DEL VOLUME

Premessa I. II.

Le origini della narrazione antifascista della guerra. 1943-1947

V

3

Crisi della «narrazione egemonica» antifascista. 1948-1953

19

III. Tenuta e rilancio della «narrazione egemonica» antifascista. 1953-1960

33

IV. L’affermazione del «paradigma antifascista» e il confronto fra «Resistenza rossa» e «Resistenza tricolore». 1960-1978

41

V.

La sfida alla memoria pubblica della Resistenza. Dalla «grande riforma» di Craxi alla proposta di «riconciliazione» di Fini

VI. Il presidente Ciampi e la «rifondazione della memoria della Resistenza» Conclusioni

56 94 108

DOCUMENTI Le origini della narrazione antifascista della guerra Si compie il nostro secondo Risorgimento. Guerra di popolo [Alberto Cianca, «L’Italia Libera», 27 aprile 1945]

117 117

358

Indice del volume

Giustizia

120

[Guido Gonella, «Il Popolo», 30 aprile 1945]

Due anni fa: l’8 settembre

121

[Mario Borsa, Due anni fa, «Corriere d’Informazione», 8 settembre 1945]

I novemila di Cefalonia

124

[«Risorgimento Liberale», 14 settembre 1945; articolo non firmato]

Rapporto di Palmiro Togliatti al V Congresso del Partito comunista italiano (29 dicembre 1945)

125

[P. Togliatti, Opere, a cura di L. Gruppi, vol. V, 1944-1955, Editori Riuniti, Roma 1984]

Crisi, tenuta e rilancio della «narrazione egemonica» antifascista L’amnistia della pacificazione approvata dal Consiglio dei Ministri

130 130

[Generosità e forza, «l’Unità», 22 giugno 1946; articolo non firmato]

Per la pacificazione di tutti gli italiani

131

[Gioacchino Volpe, «Meridiano d’Italia», I, n. 31, 6 ottobre 1946]

Desistenza

136

[Piero Calamandrei, «Il Ponte», II, n. 10, ottobre 1946]

Uniti contro il fascismo

138

[«Avanti!», 25 aprile 1948]

Discorso di Luigi Longo a Milano per la Liberazione

139

[Il governo ha tentato d’impedire a Milano l’omaggio dei partigiani alle tombe dei caduti, «l’Unità», 27 aprile 1948; articolo non firmato]

25 Aprile

141

[Riccardo Lombardi, «Avanti!», 24 aprile 1949]

Il modo migliore di servire il paese

144

[«Il Popolo», 24 aprile 1949; discorso di Alcide De Gasperi a Milano il 23 aprile 1949]

Per la difesa delle libere istituzioni [«Il Popolo», 31 ottobre 1950; discorso di Alcide De Gasperi a Roma il 28 ottobre 1950 in occasione del congresso dei Partigiani cristiani]

146

Indice del volume

Per il secondo Risorgimento d’Italia

359 148

[«Il Popolo», 26 aprile 1951; discorso di Alcide De Gasperi a Trento il 25 aprile 1951]

Cefalonia

149

[«Avanti!», 8 settembre 1953; articolo non firmato]

Onore agli eroi della Resistenza romana!

150

[Giorgio Amendola, «l’Unità», 24 marzo 1954]

Nel decennale del glorioso sacrificio dei 335 Caduti alle Ardeatine l’Italia ha esaltato i valori della libertà e della rinascita nazionale

153

[«Il Popolo», 25 marzo 1954; discorso del ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani]

Celebrazione del decennale della Resistenza

156

[Discorso di Giovanni Gronchi alla Camera dei Deputati, seduta pomeridiana del 22 aprile 1955]

Non è festa

164

[Giorgio Almirante, «Il Secolo d’Italia», 24 aprile 1955]

L’Italia ha detto no alla festa del «decennale»

167

[Comunicato della Presidenza Nazionale Federazione Combattenti Repubblicani, «Il Secolo d’Italia», 27 aprile 1955]

L’affermazione del «paradigma antifascista» e il confronto fra «Resistenza rossa» e «Resistenza tricolore» I fatti di Genova e la protesta contro il governo Tambroni

169 169

[La legalità repubblicana, «La Voce Repubblicana», 2-3 luglio 1960; articolo non firmato]

I fatti di Genova: il MSI denuncia alla Nazione la grave minaccia comunista

171

[L’ultimo quarto d’ora, «Il Secolo d’Italia», 3 luglio 1960; articolo non firmato]

Carte in tavola

174

[Ferruccio Parri, «Il Ponte», XV, n. 7, luglio 1960]

Il battesimo della Resistenza

176

[Pietro Nenni, «Avanti!», 8 settembre 1963]

Il sacrificio dei martiri delle Fosse Ardeatine [«Il Popolo», 25 marzo 1964; discorso di Aldo Moro il 24 marzo 1964]

178

360

Indice del volume

L’Italia celebra il XXV aprile

183

[«Il Popolo», 25 aprile 1965; messaggio alla nazione del Comitato nazionale per la celebrazione del ventennale della Resistenza]

La Resistenza oggi

184

[Enrico Berlinguer, «l’Unità», 25 aprile 1965]

Il ventennale della Resistenza

186

[Discorso del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat il 9 maggio 1965]

Nella protesta dei giovani lo spirito della Resistenza

198

[Guido Quazza, «Resistenza», XXI, n. 9, settembre 1968]

Perché i partigiani

205

[«Lotta Continua», 25 aprile 1972; articolo non firmato]

Debellare il terrorismo e la violenza fascista

206

[«l’Unità», 24 aprile 1975; risoluzione della Direzione del PCI]

Trent’anni dopo: basta con la Dc!

209

[«Lotta Continua», 25 aprile 1975]

Tutta la forza dell’antifascismo

212

[Francesco De Martino, «Avanti!», 25 aprile 1975]

Gli ideali della Resistenza per una società più giusta

215

[«Il Popolo», 25 aprile 1975; discorso del Presidente della Repubblica Giovanni Leone a Montecitorio il 24 aprile 1975]

Fanfani: la vera libertà presuppone la distinzione tra forze politiche

225

[«Il Popolo», 26 aprile 1975; discorso del segretario della Dc Amintore Fanfani a Cassino il 25 aprile 1975]

Venticinque aprile

229

[Franz Maria D’Asaro, «Il Secolo d’Italia», 25 aprile 1975]

L’assassinio di Aldo Moro

231

[Luciano Lama, Una minaccia che rimane grave, «Rinascita», 12 maggio 1978]

Nel 35° anniversario dell’eccidio di Boves [Discorso del Presidente della Repubblica Sandro Pertini a Boves il 12 novembre 1978]

233

Indice del volume

361

La sfida alla memoria pubblica della Resistenza. Dalla «grande riforma» di Craxi alla proposta di «riconciliazione» di Fini

242

Perché si è riaperto il dibattito su fascismo e antifascismo

242

[Ugo Pecchioli, «Rinascita», 9 marzo 1985]

L’alibi dell’antifascismo

246

[Lucio Colletti, «Corriere della Sera», 24 marzo 1985]

Per un antifascismo conseguente

249

[Ruggero Guarini, «Mondoperaio», 38, n. 5, maggio 1985]

De Felice e il superamento dell’antifascismo

252

[«Corriere della Sera», 27 dicembre 1987 e 8 gennaio 1988; interviste di Giuliano Ferrara a Renzo De Felice]

Il trauma che creò l’Italia

258

[Bruno Gravagnuolo, «l’Unità», 25 luglio 1993; intervista a Claudio Pavone]

La disfatta continua

263

[Indro Montanelli, «Il Giornale», 8 settembre 1993]

Fini: il mio 25 aprile? Antitotalitario

265

[Paolo Franchi, «Corriere della Sera», 23 aprile 1994; intervista a Gianfranco Fini]

Le verità scomode della storia

267

[Marcello Veneziani, «Il Giornale», 24 aprile 1994]

Festa di concordia

268

[Leo Valiani, «Corriere della Sera», 25 aprile 1994]

Democratici e no

270

[Norberto Bobbio, «La Stampa», 25 aprile 1994]

«Sciogliere tutti i fasci»

272

[Tesi politiche approvate al XVII Congresso del MSI-AN, Fiuggi 25-29 gennaio 1995]

Il 25 aprile, un giorno come un altro

274

[Piero Buscaroli, «Il Giornale», 25 aprile 1995]

«Tutti eredi della lotta partigiana»

277

[Bruno Gravagnuolo, «l’Unità», 25 aprile 1995; intervista a Vittorio Foa]

Resistenza, così è morta la Patria [Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 9 marzo 1996]

281

362

Indice del volume

Sui ragazzi di Salò

285

[Discorso d’insediamento di Luciano Violante alla Presidenza della Camera, 9 maggio 1996]

Foibe: contro Violante un appello per la verità

286

[«il manifesto», 15 marzo 1998]

Il «Giorno della memoria»

289

[Testo della legge n. 211 del 20 luglio 2000]

Il giorno della memoria e i crimini dell’Italia

290

[«la Repubblica», 12 gennaio 2003, Lettere]

Messaggio del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel «giorno della memoria», 27 gennaio 2003 Indagine conoscitiva sul rinvenimento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, 6 marzo 2001

291 292

[Documento conclusivo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati]

Le guerre crudeli di Mussolini. Cade il mito del bravo italiano

298

[Filippo Focardi, «l’Unità», 25 aprile 2001]

Strade intitolate a Mussolini? È ora di smetterla

300

[Dalla rubrica Lettere al Corriere di Paolo Mieli, «Corriere della Sera», 3 novembre 2001]

W il 25 aprile, ma…

302

[«Il Foglio», 25 aprile 2002; articolo non firmato]

8 settembre 1943: la patria ritrovata

303

[Dichiarazione della Fondazione Corpo Volontari della Libertà, Roma 3 settembre 2003]

Quei fascisti uccisi dopo il 25 aprile

305

[«la Repubblica», 10 ottobre 2003; intervista di Simonetta Fiori a Giampaolo Pansa]

Il «giorno del ricordo»

310

[Testo della legge n. 92 del 30 marzo 2004]

Europa unita, un sogno resistente

314

[Gaetano Arfè, «il manifesto», 25 aprile 2004]

Il presidente Ciampi e la «rifondazione della memoria della Resistenza» Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a Piombino, l’8 ottobre 2000

318 318

Indice del volume

363

Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a Cefalonia, il 1° marzo 2001

319

Presidente, parliamo della Patria

322

[Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 4 marzo 2001]

Io, la Patria e i doveri di testimone

326

[Carlo Azeglio Ciampi, «Corriere della Sera», 5 marzo 2001]

L’ossessione della Patria negata

327

[Eugenio Scalfari, «la Repubblica», 5 marzo 2001]

Cefalonia e la storia

330

[Brunello Mantelli, «l’Unità», 17 aprile 2001]

Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a Lizzano in Belvedere, il 14 ottobre 2001

333

L’Italia, un paese alla deriva

335

[Antonio Tabucchi, «l’Unità», 21 ottobre 2001]

Il Capo dello Stato tra Salò e Resistenza

338

[Mario Pirani, «la Repubblica», 5 novembre 2001]

Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ad Ascoli, il 25 aprile 2002 Il valore del 25 aprile

340 343

[Giorgio Bocca, «la Repubblica», 5 maggio 2002]

Indice dei nomi

347