Rustico, Contro Gli Acefali 9782503551074, 2503551076

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Rustico, Contro Gli Acefali
 9782503551074, 2503551076

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Rustico Contro gli Acefali

CORPVS CHRISTIANORVM IN TRANSLATION

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CORPVS CHRISTIANORVM Series Latina C

Rvstici Diaconi Contra Acephalos

cVra et stVdio Sara Petri

TURNHOUT

FHG

Rustico Contro gli Acefali

Introduzione, traduzione e note a cura di Sara PETRI

H

F

Supervisione accademica

Claudio MORESCHINI

© 2013, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without the prior permission of the publisher.

D/2013/0095/241 ISBN 978–2–503–55107–4 Printed on acid-free paper.

Indice Generale

Introduzione Il diacono Rustico Il Contra Acephalos Rustico e i Tre Capitoli Lingua e stile Il pensiero teologico di Rustico La traduzione

7 7 19 24 30 36 48

Bibliografia Abbreviazioni Edizioni di riferimento Studi

50 50 50 54

Contro gli Acefali Prologo Disputa

61 63 68

Indici Indice scritturistico Indice delle opere non bibliche Indice delle cose notevoli Indice dei nomi

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239 241 243 245 250

Introduzione

Il Contra Acephalos è un’opera polemica antimonofisita, scritta in Oriente dal diacono romano Rustico durante la controversia dei Tre Capitoli, in una data compresa fra il 553 e il 564; si tratta di un dialogo fra l’autore stesso, portavoce di una cristologia strettamente calcedonese, ed un interlocutore, indicato come ‘eretico’, che professa sostanzialmente un monofisismo moderato di stampo severiano1; i sostenitori della dottrina dell’unica natura erano infatti correntemente indicati all’epoca con il termine ‘acefali’2. In questa introduzione si provvederà a tracciare un quadro d’insieme dell’autore e dell’opera, rimandando alla bibliografia specifica per una trattazione più dettagliata delle varie questioni.

Il diacono Rustico Non sappiamo molto della vita del diacono Rustico: dalle sue opere, infatti, non possiamo ottenere che poche e vaghe informazioni e le altre fonti forniscono notizie scarne o tendenziose. Dobbiamo basarci infatti principalmente sulla lettera di condanna di papa Vigilio, che espone con una certa ampiezza le circostanze relative alla rottura intercorsa fra il pontefice e il suo diacono, ma che naturalmente deve essere considerata con una certa cautela in 1  2 

Cf. 1171A e nota. Per l’origine e l’uso di questo nome cf. 1167D e nota.

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Introduzione

quanto è stata redatta con intenzioni evidentemente ostili3; un’altra lettera del pontefice mette poi in guardia il vescovo Valentiniano di Tomi contro la predicazione di Rustico e di altri che si fanno forti della loro appartenenza alla Chiesa di Roma, dalla quale in realtà sono stati condannati4; abbiamo infine una scarna notizia nel Chronicon di Vittore di Tunnuna a proposito del suo esilio in Egitto. A partire da questi elementi è possibile comunque ricostruire con un ragionevole grado di probabilità alcuni elementi della sua biografia, anche se restano inevitabilmente molti punti oscuri. Per quanto riguarda la provenienza familiare di Rustico, sappiamo che egli era nipote di papa Vigilio; proprio nel momento in cui lo condanna, Vigilio stesso menziona infatti il legame di parentela che lo lega al suo diacono: si tratta del figlio di un suo fratello, di cui egli parla al passato e che quindi all’epoca dei fatti doveva essere morto5. Ci è noto dalle fonti un solo fratello di papa Vigilio6, Reparato7, che ebbe una brillante carriera politica, cominciata sotto i goti (Atalarico gli conferì la prefettura urbana nonostante che fosse ancora piuttosto giovane per la carica) e proseguita sotto i bizantini (Belisario lo nominò prefetto del pretorio); morì nel 538 quando i goti riconquistarono Milano, che proprio 3  La lettera è conservata negli atti del concilio di Costantinopoli (ACO 4, 1, p. 188–194). 4  Anche questa lettera si legge negli atti del concilio di Costantinopoli (ACO 4, 1, p.  195–196). Entrambe le lettere, che costituiscono le fonti principali per la ricostruzione della biografia di Rustico, sono state tradotte ed ampiamente commentate da Spataro (R. Spataro, Il diacono Rustico e il suo contributo nel dibattito teologico postcalcedonese, Roma, 2007, p. 43–54 e p. 75–87). 5  Vigilio scrive infatti: «da un fratello che amavo» (par. 1, p. 188). 6  Il Liber pontificalis 61, 3 parla in effetti di una nipote di Vigilio, all’interno però di un racconto la cui veridicità è difficile da giudicare; in ogni caso non è possibile sapere niente di più di questa nipote e, poiché non si specifica il nome del padre, è impossibile dire se sia stata una sorella di Rustico e se sia stata figlia di un altro fratello o sorella di Vigilio di cui non abbiamo notizia. 7  La notizia che Reparato era fratello di Vigilio è riportata da Procopio, Bellum Goticum 1, 26, 2: «Reparato, fratello di Vigilio, il vescovo di Roma». Su questo personaggio cf. Spataro, Il diacono Rustico, p. 68–69 e Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, Pisa‑Roma, 2010, p. 10–11.

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una spedizione guidata da Reparato era riuscita momentaneamente a liberare8. È dunque possibile che Reparato sia stato il padre di Rustico, ma non possiamo averne la certezza; è comunque certo che Rustico nacque da una delle più importanti dell’aristocrazia romana9, che aveva collaborato con la monarchia gotica, ma che durante la guerra si schierò con l’impero, conservando il proprio prestigio e la propria posizione anche in quegli anni così difficili per l’Italia. Questa provenienza familiare doveva certamente aver garantito a Rustico la possibilità di avere una buona formazione culturale: Cassiodoro elogia la profonda cultura di Reparato e del resto, anche durante il regno dei goti, l’aristocrazia romana aveva fatto della cultura letteraria latina un elemento fondante della propria identità culturale. Dalle lettere di Ennodio e dalle Variae di Cassiodoro, infatti, emerge chiaramente che moltissimi senatori si dedicano ad attività culturali, come produzione letteraria e studi grammaticali, filosofia e teologia10. La provenienza familiare di Rustico e in particolare la parentela con il pontefice lasciavano probabilmente pensare che anch’egli avrebbe avuto una rapida e brillante carriera, all’interno della Chiesa; in effetti papa Vigilio lo nominò diacono11, una dignità La notizia si trova ancora in Procopio, Bellum Goticum 2, 21, 40; cf. G. Arnaldi, ‘Rinascita, fine, reincarnazione e successive metamorfosi del senato romano’, Archivio della Società Romana di Storia Patria 105 (1982), p. 5–56 e in particolare p. 10. 9  Così V. von Falkenhausen, I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costan‑ tinopoli dalla fine del V alla fine del VI secolo, in G. G. Archi (ed.), Il mondo del di‑ ritto nell’epoca Giustinianea. Caratteri e problematiche, Ravenna, 1985, p. 79; cf. anche Sotinel, ‘Autorité pontificale et pouvoir impérial: le pape Vigile’, Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 104/1 (1992), p. 441–442 e Sotinel, ‘Arator, un poète au service de pape Vigile?’, Mélanges de l’École française de Rome. Anti‑ quité 101/2 (1989), p. 817–818. 10  La cultura era probabilmente un elemento distintivo dell’aristocrazia latina rispetto ai Goti (cf. J. Moorhead, ‘Cassiodorus on the Goths in Ostrogothic Italy’, Romanobarbarica 16 (1999), p.  247), benché anche alcuni di loro avessero raggiunto un livello culturale di tutto rispetto (B. Luiselli, Storia culturale dei rapporti fra mondo romano e mondo germanico, Roma, 1992, p. 690–691). 11  Così scrive infatti Vigilio nella sua lettera del 550: «dal momento che ti avevo elevato al diaconato» (par. 1, p. 188); questa nomina si colloca quindi negli anni successivi al 537, data di inizio del suo pontificato. 8 

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piuttosto importante nella Chiesa di Roma12, per cui Rustico doveva essere una personalità di un certo rilievo e particolarmente vicina al pontefice. Si può pensare quindi che egli abbia vissuto da vicino, in prima persona, il clima di esaltazione del prestigio della sede romana che caratterizzò i primi anni del pontificato di Vigilio, improntati anche ad una certa indipendenza rispetto all’autorità imperiale; basti pensare alla pubblica lettura, tenuta nel 544, della parafrasi in versi degli Atti degli Apostoli composta da Aratore, nella quale si esaltava il primato di Pietro: qui, ad esempio, Pietro è chiamato princeps13 e la scelta di questo titolo di origine politica è finalizzata naturalmente a valorizzare la figura del vescovo di Roma, suo successore, pastore e guida della Chiesa14. Aratore esalta quindi Roma come dominatrice del mondo, con toni che non trovano giustificazione nel testo degli Atti, ma che sono affondano piuttosto le loro radici nella poesia classica, in particolare virgiliana15. 12  A Roma ai diaconi erano affidate funzioni di rilievo: ad esempio, era generalmente un diacono il rappresentante della sede romana a Costantinopoli (apocrisario); fra i diaconi veniva spesso scelto il nuovo pontefice, come avvenne per Vigilio stesso, per alcuni dei suoi predecessori (Simmaco, Ormisda, Bonifacio II e Agapito) e per il suo successore, Pelagio (cf. J. Moorhead, ‘On Becoming Pope in Late Antiquity’, Journal of Religious History 30 (2006), p. 284–286 e Spataro, Il diacono Rustico, p. 27). 13  Cf.  2, 1225. Su Aratore e sul suo poema cf.  Schwind, Arator‑Studien, Göttingen, 1990; Sotinel, ‘Arator’, p.  805–820; P.  A. Deproost, ‘Les images de l’héroïsme triomphal dans l’Historia apostolica d’Arator’, Studia Patristica 23 (1989), p. 111–118. 14  Nell’epistola dedicatoria Aratore scrive infatti: «Come la nostra comune libertà, santissimo papa Vigilio, / vieni a sciogliere le catene al gregge prigioniero. / Le pecore grazie al pastore sono strappate alle spade / e siamo riportati sulle tue pie spalle quando ci richiami». Già Leone Magno, del resto, nel sermone 82, aveva esaltato la grandezza di Roma, conciliando cristianesimo e cultura classica, a partire dalla celebrazione di Pietro e Paolo, i fondatori della sua Chiesa (cf. Schwind, Arator Studien, p. 230). Si deve ricordare però che il primato della Chiesa di Roma non trovava molti consensi al di fuori dell’Occidente; il concilio di Calcedonia aveva sancito del resto la parità di Roma e di Costantinopoli, in quanto questa città era capitale imperiale (cf. Actio XVII, in ACO 2, 3, p. 86–99). Questa decisione non fu accettata dai legati romani (Actio XVII, 45, p. 99) e papa Leone Magno in un primo momento rifiutò addirittura di ratificare le conclusioni del concilio; egli però fu poi costretto a cedere per evitare di fornire pretesti agli eutichiani per non considerarlo valido. 15  Cf. Deproost, ‘Les images de l’héroïsme triomphal’, p. 113.

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Per questi temi non c’è spazio in un’opera dottrinale come il Contra Acephalos, ma questo clima culturale sembra aver lasciato nondimeno qualche traccia in Rustico, perché nella sua opera, anche se l’argomento rimane sempre marginale, si trovano delle espressioni che fanno capire quanto fosse importante per lui appartenere alla Chiesa di Roma; nel prologo, infatti, si legge: «Ricorda che sei un cristiano e un diacono, e per giunta della Chiesa più grande di tutto il mondo» (1170A). Nello stesso anno in cui Aratore celebrava la grandezza della Roma cristiana, a Costantinopoli, però, Giustiniano promulgava un editto che condannava la persona e l’opera di Teodoro di Mopsuestia, alcuni scritti di Teodoreto di Cirro e l’Epistola a Mari di Ibas di Edessa. Si apriva così la questione dei Tre Capitoli16, destinata a influire profondamente sulla vita e sulla riflessione teologica di Rustico. L’intento di Giustiniano nel colpire con la condanna importanti esponenti della scuola antiochena già morti da tempo era probabilmente quello di liberare il concilio di Calcedonia da ogni sospetto di nestorianesimo; Teodoro di Mopsuestia era infatti considerato maestro di Nestorio e Teodoreto ed Ibas si erano espressi con durezza nei confronti di Cirillo di Alessandria, l’artefice della sua condanna. In Occidente però l’intervento di Giustiniano fu guardato con sospetto, perché poteva sembrare una concessione ai monofisiti e un modo indiretto di mettere in discussione il concilio di Calcedonia, dal quale Teodoreto e Ibas erano stati riabilitati dopo le condanne loro inflitte dal secondo concilio di Efeso, nel 449. Poiché papa Vigilio sembrava contrario a sottoscrivere l’editto, Giustiniano nel 545 lo fece portare via da Roma; egli giunse a Costantinopoli dopo un lungo viaggio durante il quale molti vescovi occidentali lo esortarono a mantenersi fermo sulla sua posizione; giunto nella capitale, in effetti, in un primo momento egli insistette nel rifiuto di condannare i Tre Capitoli e non entrò in comunione con il patriarca Menas, che aveva invece accettato di farlo. Il termine ‘capitoli’ si riferiva originariamente alle formule di condanna, ma si estese poi alle persone stesse colpite dalla condanna. 16 

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Le continue pressioni imperiali alla fine portarono però Vigilio a cedere e nel 548 egli promulgò il cosiddetto Iudicatum17, nel quale egli accettava la condanna dei Tre Capitoli, ma ribadiva l’inviolabilità delle conclusioni del concilio di Calcedonia18. Proprio questa presa di posizione del pontefice, criticata da gran parte del clero occidentale, condusse alla rottura con Rustico. Stando a quanto Vigilio stesso riferisce nella lettera di condanna, infatti, il diacono, che forse aveva precedenti cause di risentimento nei suoi confronti19, dopo un’iniziale approvazione dell’operato del papa20, sarebbe poi passato ad osteggiarlo di nascosto, fino a quando la sua condotta sleale non sarebbe stata scoperta21. Vigilio sostiene di essere stato clemente, in questo caso, accontentandosi di un giuramento nel quale Rustico gli ribadiva la sua fedeltà ed obbedienza. Poco tempo dopo, però era arrivata la rottura definitiva, quando, senza nessun preavviso, Rustico ed un altro diacono, Sebastiano, avevano evitato di intervenire ad una celebrazione liturgica alla quale il papa era stato invitato a partecipare 17  Questo documento non è giunto fino a noi, ma è possibile ricostruirne il contenuto a partire dalle citazioni riportate negli atti del concilio di Costantinopoli del 553 (ACO 4, 2, p. 11–12). 18  Su queste vicende cf. Sotinel, ‘Autorité pontificale’, p. 457–462. 19  Per Vigilio la questione dei Tre Capitoli sarebbe solo un pretesto; anche prima della promulgazione dello Iudicatum Rustico avrebbe infatti mostrato una condotta sleale nei confronti del papa (cf. p. 189). 20  Rustico avrebbe infatti commentato a proposito dello Iudicatum che non si sarebbe potuto fare di meglio e che non doveva essere revocato (ACO 4, 1, p. 189); di per sé comunque queste parole potrebbero anche non indicare un’approvazione incondizionata, ma potrebbero anche significare semplicemente che, date le circostanze, si trattava del massimo che si potesse ottenere. Rustico però si sarebbe espresso in termini così aspri a proposito di Teodoro di Mopsuestia da far pensare che ritenesse veramente giusta la condanna dei Tre Capitoli: «così che … andavi protestando che non solo avrei dovuto condannare la persona e le opere di Teodoro di Mopsuestia, ma anche la terra stessa dove era stato sepolto e avresti accolto la notizia con gioia se qualcuno avesse scavato e gettato via i suoi resti dalla tomba e li avesse bruciati con la tomba stessa» (ACO 4, 1, p. 189). 21  Rustico, contro il parere del papa, si sarebbe impegnato per diffondere il più possibile il contenuto dello Iudicatum, diffondendone copie in Italia e in Africa; il suo scopo dichiarato sarebbe stato quello di raccogliere consensi, ma le sue vere intenzioni sarebbero state piuttosto di evidenziare le pericolose concessioni fatte dal pontefice per sollevare contro di lui una vasta opposizione (Ibidem, p. 189).

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dall’imperatore22. Le successive iniziative di Rustico e Sebastiano non avevano permesso al pontefice di poter usare ancora clemenza: essi erano infatti entrati in comunione con persone già condannate, si erano arrogati il diritto di predicare, che non era prerogativa dei diaconi, e se ne erano serviti per cercare di sollevare una vasta opposizione contro di lui, provocando così disordini e violenze; avevano infine indirizzato uno scritto all’imperatore nel quale sostenevano l’ortodossia di Teodoro di Mopsuestia, scritto che Vigilio considera ingiurioso nei confronti di molti pontefici e di Giustiniano stesso23. Ci furono diversi tentativi di indurre Rustico e Sebastiano a tornare sui loro passi, con l’intermediazione sia di religiosi che di laici, fra i quali ci furono anche personaggi di primo piano dell’aristocrazia latina in esilio, come Cetego e Cassiodoro24, ma tutto fu inutile e nel 550 si giunse alla condanna definitiva da parte del pontefice. 22  Ibidem p.  192; Vigilio non fornisce alcuna motivazione per questo comportamento, presentandolo quindi come un tradimento gratuito e ingiustificato (Rustico e Sebastiano sono significativamente paragonati a Giuda), ma sembra che almeno in un primo momento i due diaconi abbiano cercato di evitare di schierarsi contro il pontefice, come dimostra l’iniziale rifiuto di ricevere due monaci africani che si erano opposti allo Iudicatum, con la motivazione: «Non vi possiamo ricevere, perché voi avete una causa e noi un’altra» (Ibidem). 23  Vigilio sostiene che Rustico e Sebastiano hanno cercato di dimostrare l’ortodossia di Teodoro di Mopsuestia confrontando la sua dottrina cristologica con quella di papa Leone Magno, confronto che il pontefice ritiene offensivo per la memoria del suo predecessore; è possibile quindi che quelli che Vigilio considera insulti all’imperatore siano da interpretare come tentativi di dimostrare che Teodoro non pensava sostanzialmente nulla di diverso dalla dottrina ortodossa che anche l’imperatore condivide. Una linea argomentativa del genere si trova in effetti in un’importante opera dello stesso periodo, la Defensio Trium Capitulorum dell’africano Facondo di Ermiane. 24  Ibidem, p. 193. Su Cetego, importante aristocratico della famiglia degli Anici, cf. A. Momigliano, ‘Gli Anici e la storiografia latina del VI sec. d. C.’, Atti del‑ la Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. Rendiconti 11 (1956), ora in Idem, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1960, p. 231–254, in particolare p. 234–235; L. Cracco Ruggini, ‘Gli Anici a Roma e in provincia’, Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge 100/1 (1988), p. 65–85, in particolare p. 70–71; per la presenza e l’attività di Cassiodoro a Costantinopoli cf. A. Amici, ‘Cassiodoro a Costantinopoli. Da magister officio‑ rum a religiosus vir’, Vetera Christianorum 42/2 (2005), p. 215–231.

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Naturalmente è difficile giudicare l’attendibilità di questo resoconto dei fatti, dal momento che la natura stessa del testo fa sì che le azioni di Rustico siano messe nella luce peggiore. Certo la lettera lascia intravedere un retroscena di intrighi e contrasti interni allo stesso gruppo dei collaboratori del pontefice, considerando che, ad esempio, fu proprio per iniziativa di un altro diacono romano, Paolo, che venne alla luce il fatto che Rustico osteggiava in realtà lo Iudicatum che ostentava di difendere; e fu ancora il diacono Paolo, come riferisce Vigilio stesso, ad insistere perché il pontefice prendesse provvedimenti contro Rustico25. È possibile che il papa voglia sottolineare che finché è stato possibile ha usato clemenza, nonostante fosse stato consigliato in senso contrario, ma è anche verosimile che alle questioni dottrinali si mescolassero in qualche modo anche lotte di potere, tanto più che spesso a Roma il successore del papa era scelto fra i diaconi e Rustico, diacono e nipote di Vigilio, poteva essere visto come un pericoloso concorrente che sarebbe stato vantaggioso far cadere in disgrazia. In seguito papa Vigilio scrisse una lettera al vescovo Valentiniano di Tomi per metterlo in guardia contro Rustico e Sebastiano che con la loro propaganda in difesa dei Tre Capitoli stavano provocando turbamento e disordini; evidentemente quindi Rustico stava assumendo un atteggiamento sempre più ostile alla politica di compromesso del papa. In effetti è probabile che la posizione di Rustico sia andata progressivamente radicalizzandosi, forse anche per l’influenza di quella parte del clero africano che più duramente contestava la debolezza del pontefice. In effetti la precedente lettera di Vigilio ricordava che, benché in un primo momento Rustico e Sebastiano avessero evitato di farlo, in seguito sarebbero entrati in comunione con personaggi già condannati per la loro posizione di intransigente difesa dei Tre Capitoli e di Calcedonia, menzionando anche degli africani26. ACO 4, 1, p. 190. Vigilio scrive infatti: «Poi invece la vostra malvagità è arrivata al punto di avere la presunzione di entrare in comunione con degli scomunicati, contro i canoni, con spirito superbo» (p. 192); più avanti sostiene che l’istigatore dei suoi due diaconi sarebbe stato l’africano Felice di Gilli, aspramente biasimato per la sua condotta anche precedentemente alla vicenda: «anche il monaco africano Felice, del 25 

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Si trattò molto probabilmente di una scelta molto difficile e sofferta anche sul piano personale, anche se naturalmente su questo punto non si può dire niente di sicuro; fra le annotazioni di Rustico alla sua traduzione degli atti del concilio di Calcedonia troviamo però un’osservazione di fronte alla quale è difficile non ravvisare uno spunto autobiografico. A proposito delle parole del vescovo Basilio di Seleucia che cercava di giustificarsi per aver sottoscritto le conclusioni del concilio di Efeso del 449, sostenendo di averlo fatto per obbedienza27, dicendo fra l’altro «il figlio, se parlerà contro il padre, anche giustamente, morirà», Rustico scrive, infatti, «non ha citato a proposito; infatti questo precetto non vale per le questioni che riguardano la fede. Infatti anche nel Deuteronomio a proposito dell’idolatria e nel Vangelo su ogni tipo di infedeltà ci sono precetti contrari»28. Sembra molto probabile, leggendo queste parole, che Rustico si sia posto questo stesso problema nel momento in cui si staccò da Vigilio, suo vescovo e suo zio, o che abbia dovuto rispondere a critiche di questo genere; la sua risposta al conflitto fra i suoi doveri nei confronti del papa e della fede è però ovviamente a vantaggio di quest’ultima. Non sappiamo se Rustico si sia riavvicinato a Vigilio dopo che il pontefice, cedendo all’insistenza dell’episcopato occidentale, ebbe revocato lo Iudicatum29 perché non abbiamo notizie quale si dice che sia stato a capo del monastero di Gilli e che, come è certo, per la sua leggerezza e incostanza abbia disperso in diversi luoghi la comunità di questo stesso monastero e che sia stato l’istigatore della vostra scelleratezza…» (p. 194). Felice di Gilli era probabilmente vicino ad un altro grande difensore dei Tre Capitoli, Facondo di Ermiane, che lo menziona in un suo scritto (Epistula ad Mocianum 6). 27  Egli spiegò infatti: «Perché, condotto in un giudizio di centoventi o trenta vescovi, mi fu necessario ubbidire a ciò che essi ordinavano» (ACO 2, 3, 1, p. 70, 26–28). 28  Cf. ACO 2, 3, 1, p. 71, 7. 29  È vero che sia nel Contra Acephalos sia nelle sue opere successive Rustico si qualifica come diacono della Chiesa di Roma, ma questo non è sufficiente per concludere che egli sia tornato in comunione con il papa e reintegrato nella sua carica, dal momento che questo comportamento potrebbe essere spiegato anche con il mancato riconoscimento della legittimità della condanna papale: cf. Ch. Pietri e L. Pietri, Prosopographie chrétienne du bas‑empire. 2. Prosopographie de l’Italie chrétienne (313–604), Rome, 2000, vol. 2, p. 1958.

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sul suo conto fino al concilio di Costantinopoli. In questa sede la deposizione di Rustico e Sebastiano fu usata contro il papa, che fu accusato dall’imperatore di incoerenza: Vigilio rifiutava ora di condannare i Tre Capitoli, ma solo tre anni prima, nel 550, aveva condiviso e sostenuto la posizione dell’imperatore a riguardo, al punto da condannare due suoi diaconi che li difendevano; e non si mancò di rilevare che uno di loro era anche suo parente30. Proprio per questo negli atti del concilio di Costantinopoli sono conservate le due lettere di Vigilio a proposito di Rustico, poiché erano considerate prove dell’inconsistenza della posizione del papa. Certo Rustico si oppose alle conclusioni del concilio di Costantinopoli, perché, proprio per la sua opposizione, fu condannato all’esilio in Egitto insieme all’africano Felice di Gilli31; Vittore di Tunnuna scrive infatti, dopo aver parlato del concilio di Costantinopoli: Rustico, diacono della Chiesa di Roma, e Felice, abate del monastero di Gilli nella provincia d’Africa, opponendosi per iscritto ai suoi decreti, vengono mandati in esilio in Tebaide con i loro compagni (Chronicon, ad a. 553).

Di questo scritto contro il concilio di Costantinopoli non sappiamo niente di più di quanto dice qui Vittore, ma non può essere identificato con il Contra Acephalos, composto certamente in seguito; anche se la collocazione cronologica del Contra Acepha‑ los non può essere determinata con esattezza, infatti, i pochi L’imperatore scrisse infatti al concilio: «pensiamo invece che non sia sfuggito alla religiosità vostra che egli ha deposto Rustico e Sebastiano, suoi diaconi, ed altri chierici che prima accolsero il suo Iudicatum, nel quale, come si è detto, ha anatematizzato questi empi capitoli, poi invece li sostennero e li difesero. E non fece solo questo, ma rese nota per iscritto la condanna di questi stessi capitoli a Valentiniano, vescovo di Scizia, e ad Aureliano, vescovo di Arles, che è la prima sede della Gallia, ordinando loro di non accogliere da parte dei diaconi condannati nessuno scritto contro il suddetto Iudicatum. E, in breve, perseverò sempre nello stesso proposito» (ACO 4, 1, 12, 8–16). In seguito il questore Costantino, riprendendo quasi alla lettera quanto scritto da Giustiniano, rilevò proprio la parentela fra Vigilio e Rustico: «la deposizione che inflisse a Rustico, suo parente, e Sebastiano, diaconi della santa Chiesa di Roma, e ad altri» (ACO 4, 1, p. 186, 5–11). 31  Il fatto che Felice di Gilli sia associato a Rustico nella condanna conferma i suoi legami con Rustico, già ricordati da Vigilio nella sua lettera di condanna. 30 

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riferimenti che si possono trovare al suo interno permettono di dire comunque che deve essere collocata durante o dopo l’esilio. Nel prologo Rustico scrive infatti: La mia intenzione è dunque di raccogliere tutto quello che spesso nei dibattiti sia a Costantinopoli sia ad Alessandria d’Egitto sia in Antinoopoli nella Tebaide e nei luoghi vicini è stato letto o anche detto da me o da altri difensori della definizione di fede del santo concilio di Calcedonia (1170B).

Rustico dunque nel prologo traccia rapidamente il suo itinerario: da Costantinopoli ad Alessandria e infine ad Antinoopoli, nella Tebaide; questa stessa città sembra essere stata un luogo non inconsueto di esilio per il clero filocalcedonese: secondo quanto riporta sempre Vittore di Tunnuna, infatti, nel 554 vi fu relegato anche il vescovo Frontino di Salona32. Sul periodo del suo esilio, però, non sappiamo nient’altro, perché nelle opere di Rustico non ci sono altri riferimenti biografici e nel Chronicon di Vittore non si fa più menzione di lui33. Nel Contra Acephalos Rustico fa riferimento ad una sua opera precedente scritta contro nestoriani e monofisiti, il De definitioni‑ bus34; il trattato non è giunto fino a noi, ma i contenuti, per quanto è possibile capire da questa allusione, sembrano dottrinali, trattati in modo molto tecnico e con un certo approfondimento filosofico. Sulla sua collocazione cronologica non possiamo dire molto, se non che, naturalmente, è precedente al Contra Acephalos, ma l’incertezza nella collocazione cronologica di questo testo fa sì che sia difficile dire se il De definitionibus sia stato scritto prima, durante o dopo l’esilio. Dato il suo argomento, comunque, non sembra che

32  Cf. Chronicon ad a. 554. Lo stesso Vittore fu esiliato in Egitto (cf. Chronicon ad a. 555 e 556). 33  Vittore dà invece notizia della morte in esilio di Felice di Gilli: «A quel tempo Felice, abate del monastero di Gilli, in esilio presso Sinope, passò da questa vita al Signore» (Chronicon ad a. 557). 34  Cf. 1238B: «Tuttavia, nel trattato Sulle definizioni, che ho scritto contro voi e insieme contro i nestoriani, è stato dimostrato che la natura rappresenta la specie comune, come si dice di solito, la persona, invece, è il concorrere di tutto quello che descrive la sostanza razionale».

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ci siano ragioni davvero stringenti per ritenere che sia questo il testo contro il concilio di Costantinopoli a cui allude Vittore35. Sappiamo che Rustico era a Costantinopoli negli ultimi anni dell’impero di Giustiniano, ma la data, i motivi e le circostanze di questo rientro restano ignoti36. È certa comunque la sua permanenza nel monastero degli Acemeti, dove si dedicò alla traduzione degli atti del concilio di Calcedonia e poi del concilio di Efeso37. Egli redasse qui anche il cosiddetto Synodicon, una raccolta di documenti volta a difendere i Tre Capitoli, cercando in particolare di dimostrare la loro estraneità agli errori di Nestorio38. Le 35  Questa identificazione è invece ipotizzata in Ch. Pietri e L. Pietri, Proso‑ pographie chrétienne, vol. 2, p. 1958. 36  Vittore di Tunnuna riferisce che in questo periodo diversi oppositori furono convocati a Costantinopoli e poi relegati in monasteri della capitale: «Musico, Brumasio, Donato e Crisonio, vescovi africani, e i vescovi Vittore e Teodoro sono analogamente chiamati dall’Egitto nella capitale per ordine dell’imperatore. Essi poi, dal momento che resistono alla nuova eresia alla presenza del principe Giustiniano e, in seguito, di Eutichio, vescovo della capitale, che la difende, separati l’uno dall’altro, vengono mandati in custodia in diversi monasteri della città» (Chroni‑ con ad a. 564/65). La legislazione di Giustiniano prevedeva esplicitamente l’uso di monasteri come luoghi di detenzione per i chierici, anche in sostituzione dell’esilio (cf. J. Hillner, ‘Monastic Imprisonment in Justinian’s Novels’, Journal of Early Christian Studies 15, 2 (2007), p. 208–225), per cui è possibile che il caso di Rustico sia stato analogo a quello dei personaggi citati da Vittore. Schwartz ipotizzava invece che Rustico fosse fuggito dal suo luogo d’esilio in Egitto e che si fosse rifugiato nel monastero filo‑calcedonese degli Acemeti (ACO 2, 3, 1, p. xi). In effetti, dal Synodi‑ con sembra che Rustico avesse una certa libertà di movimento; si parla ad esempio di contatti con un’aristocratica latina che gli avrebbe prestato un codice (ACO 2, 3, 3, p. 5, 18–19; sull’identificazione di questa nobildonna si veda la recensione di A. Cameron a R. Schieffer, Acta Conciliorum Oecumenicorum 4. 3. 2 [Index generalis tomo‑ rum I–IV], 1–2 [Index prosopographicus], Classical Philology 81, 1 [1986], p. 98–103, e in particolare p. 100–101); la stessa attività di traduzione e raccolta di documentazione a favore dei Tre Capitoli sembra incompatibile con una relegazione in monastero. 37  Sulla cronologia delle traduzioni di Rustico si veda quanto sostiene Schwartz in ACO 1, 3, p. xvi e, in modo più diffuso, in Aus den Akten des Concils von Chalke‑ don, Abhandlugen der Bayerischen Akademie der Wissenschaften 32, 2, München, 1925, p. 14–16. Queste traduzioni furono realizzate, come ha osservato Schwartz (cf. ACO 1, 3, 12–17; ACO 1, 4, p. x), per lo più correggendo, sulla base di esemplari greci, precedenti traduzioni, ma ciò non toglie che il lavoro di Rustico sia stato accurato ed originale. 38  Il Synodicum è stato pubblicato da Schwartz in ACO 1, 4. Schwartz, per la verità, considera le traduzioni di Rustico e questa sua raccolta di testi patristici come un progetto unitario: «dunque Rustico compose un Synodicum da una

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annotazioni di Rustico indicano che il suo lavoro di traduzione fu intrapreso nel 564 e concluso nel 56639; dopo questa data non abbiamo più alcuna notizia su Rustico, quindi l’ultimo periodo della sua vita ci è del tutto ignoto.

Il Contra Acephalos Il Contra Acephalos è un’opera abbastanza estesa (occupa circa 80 colonne della Patrologia Latina) che, secondo quanto afferma l’autore stesso, riproduce il contenuto di varie discussioni fra calcedonesi e monofisiti che egli stesso ha condotto o alle quali ha assistito, per cui nell’unico personaggio dell’avversario sono condensate diverse figure reali di monofisiti. La forma dialogica fa sì che i contenuti siano esposti con molta libertà: anche se si possono individuare grandi blocchi tematici, i diversi punti non sono sempre sviluppati organicamente nelle singole sezioni, ma sono piuttosto ripresi in diversi momenti con un crescente approfondimento o da un diverso punto di vista; ci sono infatti numerose interruzioni dell’asse principale dell’argomentazione, finalizzate alla spiegazione dei termini tecnici del linguaggio teologico o all’interpretazione di testimonianze patristiche e di testi scritturistici o di questioni variamente correlate alla discussione, come le pericolose implicazioni trinitarie della cristologia monofisita40 o le relazioni fra monofisismo e origenismo41. L’opera è di lettura piuttosto ardua, sia a causa della oggettiva difficoltà della materia, una disputa teologica condotta con un versione completata ed emendata degli atti di Calcedonia, da una versione degli atti di Efeso ugualmente corretto e infine da quelle lettere e quegli atti da lui stesso raccolti e tradotti che aggiunse agli atti di Efeso dopo la morte di Giustiniano» (ACO 1, 4, p. x); la traduzione degli atti di Efeso e i documenti raccolti da Rustico, quindi, nell’edizione di Schwartz sono indicati come prima e seconda parte del Synodicum (ACO 1, 3 e ACO 1, 4). 39  ACO 2, 3, 1, p. 27 e ACO 2, 3, 3, p. 122; cf. Pietri e Pietri, Prosopographie chrétienne, vol. 2, p. 1958–1959. 40  L’avversario di Rustico infatti, come si vedrà, considerando equivalenti natura e persona, ammette che si possa parlare di tre nature nella Trinità (1230A– 1232A). 41  Cf. 1188B–1189D e 1231D–1232B con le note corrispondenti.

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linguaggio tecnico talvolta molto artificioso, sia a causa dei numerosi problemi testuali presenti. In effetti già Schwartz aveva notato che il testo giunto fino a noi è sfigurato da numerosi errori42; nell’edizione del Corpus Christianorum43 il ricorso all’editio princeps ha permesso di correggere alcuni errori meccanici che si erano accumulati nelle edizioni successive; in diversi casi inoltre il testo tradito può essere corretto con ragionevole sicurezza, ma esso rimane nondimeno incerto in molti punti. Per tutte queste ragioni non sarà quindi inutile introdurre a questo punto una breve sintesi dei contenuti dell’opera, utile per guidare il lettore nella comprensione della struttura del testo. Dopo una breve introduzione che illustra le circostanze che lo hanno indotto ad intraprendere l’opera (1167D–1170C), Rustico entra nell’argomento enunciando la formula difisita calcedonese, alla quale l’avversario risponde professando una sola natura composta di Cristo ed accusando di nestorianesimo la dottrina delle due nature (1170C–1170D); la discussione dunque si concentra sul titolo di ‘Madre di Dio’ e sul problema della communicatio idio‑ matum, cioè sulla possibilità di attribuire le caratteristiche proprie dell’umanità anche alla divinità di Cristo e viceversa, a causa dell’unità di persona. Rustico, su richiesta dell’eretico, adduce a sostegno della sua posizione un passo cirilliano, tratto dall’epistola Laetentur44 (1170D–1174D). La discussione si sposta poi sulla questione della doppia consustanzialità di Cristo con Dio e con l’umanità (1174D–1176A). In un primo momento l’eretico cerca di respingere questo principio in quanto non sarebbe stato realmente condiviso da Cirillo; Rustico però risponde che nella Laetentur è esplicitamente sostenuta la dottrina della doppia consustanzialità, anche se l’av42  Cf. ACO 1, 3, p. xiv: «… non senza un codice, ma così danneggiato da lacune e corruttele che gran parte della disputa di Rustico si può a fatica comprendere». Simonetti ha comunque osservato a questo proposito che se è vero che il cattivo stato del testo impedisce di cogliere il senso di qualche passo, le argomentazioni di Rustico nel complesso sono chiare, anche grazie alle frequenti riprese dei medesimi argomenti che caratterizzano l’opera (cf. Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, Augustinianum 21 (1981), p. 260). 43  Rustici diaconi Contra Acephalos – ed. S. Petri (CC SL, 100), Turnhout, 2013. 44  Per questo testo, fondamentale per le dispute cristologiche, cf. 1176A e nota.

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versario è inizialmente riluttante ad ammettere che questa lettera rispecchi il vero pensiero cirilliano (1176A–1176D). L’eretico cerca allora di attaccare la dottrina della doppia consustanzialità sul piano logico, ma Rustico contesta la validità dei suoi ragionamenti (1176D–1178A). L’eretico allora osserva che, accettando la presenza di due nature, rimane comunque aperto il problema dell’unità di Cristo, per cui entra nella discussione il concetto di persona (1178A–1178C). Si apre quindi una discussione sulla terminologia cristologica, chiarita anche in rapporto al linguaggio usato in ambito trinitario (1178C–1180B). La discussione terminologica si sposta poi sul piano filosofico, introducendo nella discussione i termini ‘genere’ e ‘specie’ (1180B–1182A). Il discorso torna quindi sul problema della doppia consustanzialità, con un tentativo di confutazione per assurdo, respinto da Rustico (1182A–1183D). Piuttosto bruscamente (ma forse il testo è corrotto) l’eretico introduce il termine res (tradotto con “realtà”), sostenendo che se Cristo è una res è anche una sola sostanza; segue quindi una discussione su questo termine, a proposito del quale Rustico sostiene che non ha un significato univoco nel linguaggio teologico, perché res può essere sinonimo sia di natura sia di persona (1183D–1185A). L’eretico osserva poi che la natura non può avere nulla di meno rispetto alla persona, per cui parlare di due nature significa parlare di due persone. Segue quindi un’approfondita discussione, con chiare allusioni alla cristologia boeziana, a proposito dei rapporti fra natura e persona (1185A–1187C). La discussione si sposta poi sull’analogia antropologica; Rustico a questo proposito osserva che l’unione di anima e corpo non è confrontabile con quella di umanità e divinità in Cristo, ma il suo avversario può facilmente rispondere che il ricorso all’analogia antropologica è tradizionale. Rustico rifiuta però di ammettere che si possa parlare di una sola natura di Cristo composta da umanità e divinità come si parla di una sola natura dell’uomo composta da anima e corpo: mentre anima e corpo non esistono autonomamente, ma sono creati l’uno per l’altra, infatti, umanità e divinità sono nature complete; la discussione si protrae a lungo su questo punto, perché l’eretico non considera l’umanità di Cristo una

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natura autonoma, in quanto è stata creata in vista dell’incarnazione (1187C–1191C). L’eretico introduce quindi il termine subsistentia, chiedendo al suo avversario se professi una o due sussistenze di Cristo; si apre quindi una discussione su questo punto, nella quale Rustico ancora una volta evidenzia l’ambiguità del termine, che talvolta è considerato dai Padri (compreso Cirillo di Alessandria) come sinonimo di natura, a volte invece di persona; l’eretico cerca però di definire la sussistenza collegandola al concetto di natura, per cui la discussione si sposta sul concetto di natura individuale e sulla possibilità di applicarlo a Dio (1191D–1199B). Per decidere se vi siano una o due nature in Cristo viene citato ed ampiamente commentato un brano dell’epistola 101 di Gregorio di Nazianzo, considerato all’epoca un punto di riferimento fondamentale per la cristologia sia dai monofisiti che dai calcedonesi; in particolare si riflette sul modo corretto di interpretare il concetto di ‘mescolanza’ introdotto da Gregorio nella sua lettera, citando anche altre testimonianze patristiche, in particolare di Cirillo di Alessandria (1199B–1206A). Rustico cita un passo di Ambrogio dagli atti del concilio di Efeso del 431 per dimostrare che la formula “in due nature” è stata approvata in quella sede; l’eretico continua però a pensare che la formula calcedonese introduca una divisione in Cristo (1206A–1208A). Si torna quindi a parlare di Gregorio di Nazianzo e in particolare dell’espressione “congiunzione secondo la sostanza” (1208A–1209D). Sempre partendo dall’epistola di Gregorio, l’equivalenza stabilita dall’eretico fra natura e persona viene a questo punto analizzata nelle sue implicazioni trinitarie (1210A–1213C). La discussione si sposta poi sulle caratteristiche proprie di umanità e divinità: se queste si conservano, secondo l’avversario di Rustico, non è possibile fondare su basi ontologiche la communicatio idiomatum (1213C–1215C). Grande spazio viene dato all’analisi del termine ‘complasmato’, anch’esso presente nell’epistola 101 (1215C–1220B). L’eretico allora, sempre partendo dalla sua terminologia che considera equivalenti natura e persona, accusa la dottrina difisita di introdurre una quaternità al posto della Trinità, questione che viene lungamente dibattuta (1220B–1230A).

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Emerge a questo punto in tutta la sua gravità un problema al quale già si era fatto cenno durante la discussione, cioè il triteismo: l’interlocutore di Rustico, infatti, spinto dall’equivalenza da lui istituita fra natura e persona, non esita a sostenere la possibilità di parlare di tre nature nella Trinità, dottrina a suo avviso perfettamente ortodossa purché non si metta in discussione la loro consustanzialità45. Rustico lo accusa quindi di parlare di tre dèi (1230A–1232A). Si torna quindi a discutere sul problema dell’introduzione di una quaternità, che i due interlocutori a questo punto si rivolgono l’un l’altro (1232A–1237D). Esaurito questo argomento, si passa al problema cruciale della distinzione fra natura e persona, che Rustico affronta enunciando le sue definizioni di natura, persona e sussistenza (1237D–1244B). L’eretico chiede poi al suo interlocutore di spiegare su quali basi egli consideri inaccettabile la formula dell’unica natura di Cristo; Rustico a questo punto, dal momento che ritiene che per “natura” si debba intendere la natura comune, ha buon gioco nel sostenere che la formula monofisita attribuisce l’incarnazione a tutta la Trinità (1244B–1247B). L’eretico comincia quindi a muovere una serie di altre obiezioni: accusa una frase della definizione di Calcedonia di non 45  L’accusa di ‘triteismo’ nella storia fu spesso mossa alle dottrine che professano la presenza di tre nature (e non solo di tre persone, dunque) nella Trinità, accentuando la distinzione fra Padre, Figlio e Spirito Santo al punto di parlare di tre nature distinte invece che di un’unica natura divina. Nella seconda metà del sesto secolo si diffuse all’interno del movimento monofisita una corrente ‘triteita’, che avrebbe preso le mosse dalla predicazione del monaco di origine siriaca Giovanni Ascotzanghes; le sue idee sono però conosciute quasi esclusivamente attraverso la confutazione che fece del suo pensiro il patriarca Teodosio di Alessandria, capo riconosciuto dei monofisiti, intorno al 560–564. Sembra che Giovanni Ascotzanghes, dal modo di intendere il concetto di ipostasi nella dottrina cristologica monofisita avesse tratto la logica conseguenza di sostenere che per le tre ipostasi della Trinità si potesse parlare anche di tre nature. Sull’argomento cf.  A. Van Roey, ‘La controverse trithéite jusqu’à l’excommunication de Conon et d’Eugène (557– 469)’, Orientalia Lovaniensia Periodica 16 (1985), p. 141–165; per il triteismo nel Contra Acephalos cf. U. M. Lang, ‘Christological Themes in Rusticus Diaconus’ Contra Acephalos Disputatio’, Studia Patristica 38 (2001), p. 429–434 e Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 86–93.

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attribuire l’incarnazione al Figlio (1247B–D), accusa il Tomus ad Flavianum di papa Leone, accolto a Calcedonia, di dividere Cristo (1247D–1249B), sostiene che l’umanità non si debba considerare una sostanza, ma un accidente della divinità (1249B–D), si chiede perché anima e corpo formino una sola natura e umanità e divinità non lo facciano (1249D–1250C). Infine chiede a Rustico se ammette che la natura umana sia secondo natura il Figlio di Dio o che il Figlio di Dio sia figlio della Madre di Dio secondo natura; quando Rustico risponde il Figlio di Dio è figlio della Madre di Dio secondo la persona e la sussistenza, ma non secondo la natura e la sostanza, l’eretico chiede una sospensione del dialogo per riflettere meglio sulle questioni affrontate (1250D–1251A). Rustico interpreta queste parole come una resa ed esorta caldamente il suo avversario alla conversione (1251B–1252A). Segue poi una breve sezione in cui egli deve difendersi dall’accusa di introdurre due figli poiché parla di due nature dopo l’unione (1252A–D). Si affronta poi il problema della natura composta: i monofisiti infatti intendono l’unica natura del Verbo incarnato come una natura composta da divinità e umanità. Il testo però si interrompe bruscamente proprio durante la discussione di questo punto (1252D–1254A). Il Contra Acephalos è infatti da considerare probabilmente mutilo o incompiuto46, tanto più che nel corso della discussione si fa riferimento ad argomenti che saranno discussi in seguito, senza che questa promessa venga poi mantenuta47.

Rustico e i Tre Capitoli Il Contra Acephalos è un’opera in una certa misura anomala all’interno della produzione letteraria di lingua latina dedicata alla controversia sui Tre Capitoli; a differenza di molti altri scritti dell’epoca, infatti, parla più di questioni dottrinali che della Per un esame approfondito del problema cf. Rustici diaconi Contra Acephalos – ed. S. Petri (CC SL, 100), Turnhout, 2013, p. xi–xiii. 47  cf. 1232B e nota. 46 

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condanna di Teodoro, Teodoreto e Ibas. Gli altri testi dedicati alla controversia da autori di lingua latina sono invece per lo più incentrati sul concetto di eresia, sulla liceità di una condanna postuma e sulla ricostruzione del pensiero di Teodoro, Teodoreto e Ibas. A questi aspetti sono dedicate infatti in primo luogo la monumentale Defensio Trium Capitulorum di Facondo di Ermiane, ma anche l’opera del diacono romano Pelagio e probabilmente anche quella di Primasio di Adrumeto48. Quando Rustico parla dei Tre Capitoli, comunque, emerge l’influenza esercitata su di lui da questo tipo di letteratura, soprattutto da Facondo di Ermiane; del resto ci sono forti ragioni per ritenere che, almeno in una certa misura, anche la documentazione alla quale Rustico fa riferimento nel Contra Acephalos provenga dall’opera del vescovo africano49; nel Synodicon, poi, dove si dedica in modo più specifico alla discussione su questi tre personaggi50, vengono riproposte anche alcune delle argomentazioni di Facondo, anche se naturalmente, visto che l’opera è sostanzialmente una raccolta di documenti, arricchiti da commenti ed annotazioni di A Primasio di Adrumeto le fonti (Cassiodoro, Institutiones 1, 9, 4 e Isidoro di Siviglia, De viris illustribus 22, 28) attribuiscono un perduto De haeresibus in tre libri. Nel primo libro Primasio spiegava che cosa potesse portare un ortodosso all’eresia e negli altri due come distinguere un eretico da un ortodosso. È probabile che nel contesto della controversia questo argomento generale fosse usato per prendere posizione anche sui Tre Capitoli (basti pensare all’importanza centrale che la definizione del concetto di eresia ricopre nell’opera di Facondo). Si deve inoltre prendere in considerazione un riferimento a Primasio che si legge nelle annotazioni di Rustico alla sua traduzione degli atti del concilio di Calcedonia; durante l’actio V di Calcedonia, a proposito dell’esclamazione dei vescovi «Sisto ha rafforzato ciò che ha detto Cirillo» (ACO 2, 3, 2 p. 132, 14), egli infatti osserva: «Qui Primasio, poi morto di mala morte, commise un falso e dove c’è ‘Sisto’ scrisse ‘Cristo’, come volendo accrescere contro la lettera del confessore Ibas, con tale menzogna, l’autorità del beato Cirillo» (p. 132, in apparato). Naturalmente non è possibile dire con certezza che Primasio si sia espresso in questi termini proprio nel De haeresibus, ma, dato che non ci è nota alcuna altra opera di Primasio a parte il suo commento all’Apocalisse e, appunto, il perduto De haeresibus, non sembra un’ipotesi inverosimile. 49  Cf. 1206C e nota. 50  Per quanto riguarda lo spazio dedicato a ciascuno dei tre personaggi, come ha osservato Schwartz, Rustico fa una scelta diversa rispetto a Facondo, che si era concentrato soprattutto sulla figura di Teodoro di Mopsuestia, dedicando invece la sua attenzione soprattutto a Teodoreto: «sembra che, a differenza di Facondo, Teodoro gli stesse meno a cuore di Teodoreto» (ACO 1, 4, p. xv). 48 

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estensione piuttosto limitata, le differenze anche in questo caso rimangono notevoli. Questa raccolta è finalizzata a distinguere la posizione di Nestorio e dei nestoriani da quella degli antiocheni, difendendo quindi dall’accusa di eresia Teodoreto e Ibas e quindi, indirettamente, anche Teodoro, maestro riconosciuto della scuola antiochena51. A questo scopo Rustico raccoglie una documentazione ampia, precisa e di grande valore storico, con dei commenti che in molti casi sembrano riprendere le argomentazioni sostenute da Facondo di Ermiane. Si possono rintracciare diversi esempi di questa influenza; Rustico precisa ad esempio che le esitazioni degli orientali a condannare Nestorio non erano dovute a questioni dottrinali, ma al desiderio di condurre il giudizio in modo regolare, accertando con sicurezza le responsabilità del vescovo di Costantinopoli, che da parte sua continuava del resto a sostenere di non aver mai sostenuto molte delle proposizioni che gli erano attribuite; Rustico infatti scrive a questo proposito: Una cosa è avere opinioni scorrette su una persona, un’altra cosa averne sulla fede, come è diverso lodare la colpa stessa del furto dal difendere un ladro non ancora riconosciuto come tale come se fosse innocente, per il fatto che lo ritieni innocente (Synodicon 183a; ACO 1, 4, p. 132, 34–36);

Facondo, in Defensio 5, 3, 36, anche se in un diverso contesto52, si esprime in maniera del tutto analoga: Rustico nota ad esempio che Teodoreto ha preso apertamente le distanze dalla dottrina di Nestorio: «Qui si deve notare quanto sia diversa l’intenzione di Teodoreto da coloro i quali poi rimasero fino alla fine con Nestorio, cioè Alessandro, Euterio e altri come loro, e quanto sia vicina a quelli che vogliono la pace della Chiesa, cioè Giovanni, Acacio, Andrea ed altri come loro» (Synodicon 161a; ACO 1, 4, p.  109, 13–16). Inoltre, pur avendo criticato i dodici anatematismi di Cirillo, Teodoreto, a differenza di Nestorio, si è dimostrato pronto ad accogliere come ortodossa la sua cristologia, una volta liberata dalle formulazioni più estreme, approvando in particolare l’epistola Laetentur: «Infatti, mentre Nestorio si affretta in modo chiarissimo a dimostrare che la formulazione dell’epistola di unione di Cirillo a Giovanni è empia, Teodoreto con grande costanza insiste nel considerarla ortodossa» (Synodicon 249a; ACO 1, 4, p. 182, 11–12). 52  Facondo si riferisce infatti al vescovo di Costantinopoli Anatolio, che durante il concilio di Calcedonia sostenne l’ortodossia di Dioscoro di Alessandria. 51 

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E’ infatti diverso scusare un eretico perché lo si ritiene ortodosso dall’approvare e difendere l’eresia stessa; come è diverso accusare un ortodosso perché lo si ritiene eretico dal disapprovare e rimproverare la fede stessa della Grande Chiesa. Infatti, anche uno che approva e ama la castità può approvare un fornicatore senza approvare la fornicazione, se si sbaglia su una persona, e può disapprovare un uomo casto senza disapprovare la castità, se, allo stesso modo, si sbaglia su una persona.

Come Facondo, inoltre, anche Rustico denuncia la volontà di colpire il concilio di Calcedonia che si nasconde nella condanna dei Tre Capitoli; in particolare ricorda che gli eretici sostengono che la lettera a Mari attribuita a Ibas di Edessa non sarebbe in realtà autentica e quindi potrebbe essere condannata senza colpire un vescovo riabilitato a Calcedonia; la lettera a Mari è però certamente autentica, come emerge chiaramente dagli atti del concilio, per cui gli eretici evidentemente agiscono in modo sleale per colpire la dottrina calcedonese. Rustico scrive infatti: Quelli che infatti vogliono condannare la lettera del beato Ibas, dicono che non è sua, mentre è inserita in modo certissimo sotto il suo nome negli atti del concilio universale (Synodicon 249a; ACO 1, 4, p. 181, 19–20).

Egli osserva inoltre che altri testi di analogo contenuto non sono stati oggetto di biasimo da parte loro, evidentemente perché la loro condanna non sarebbe stata ugualmente efficace per giungere alla condanna del concilio53. Facondo da parte sua dedica buona parte del secondo libro della sua Defensio a dimostrare che la causa di Ibas non può essere separata da quella di Calcedonia, per cui condannare la sua lettera significa condannare il concilio; così infatti egli espone quanto si accinge a dimostrare in questa sezione della sua opera:

53  Cf. Synodicon 282a (ACO 1, 4, p. 205, 36–206, 2): «Perché tacquero del tutto su questa lettera di Elladio, se non perché non si legge che Elladio sia stato personalmente accolto nel concilio di Calcedonia e lì non si è fatto su di lui niente per cui, nel caso sia condannato, si possa sottrarre autorità al suddetto sinodo o per cui essere considerati complici dell’errore nestoriano?».

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Accingendomi a parlare di tutti costoro, ho stabilito di trattare tutta la causa in questo ordine: dimostrerò in primo luogo, producendo documenti inconfutabili, che i sostenitori degli eretici hanno agito così per annullare il grande concilio e i decreti del papa Leone; poi dimostrerò che invano fingono che la lettera del venerabile Ibas non sia stata accolta dal concilio di Calcedonia, ma, poiché questo non può essere dimostrato, ci hanno voluto indurre a condannarla con questa menzogna; e infine proverò che il santo sinodo non può essere ragionevolmente incolpato per averla giudicata ortodossa (De‑ fensio 2, 1, 11–12).

Rustico concorda con Facondo anche nel tentativo di impedire agli accusatori dei Tre Capitoli di rivendicare il sostegno di Cirillo; egli osserva infatti che, pur criticando certe sue proposizioni, Cirillo non ha mai condannato Teodoro: pur dicendo che Teodoro ha scritto cose peggiori di Nestorio, non si è tuttavia separato dalla comunione di coloro che lo difendevano (Synodicon 296a; ACO 1, 4, p. 227, 33–35).

Facondo, da parte sua, dedica all’argomento un’ampia sezione del terzo libro, sostenendo che il patriarca alessandrino si era espresso apertamente contro una condanna postuma di un vescovo morto in pace con la Chiesa54, tanto più che, nonostante alcune opinioni discutibili, a Teodoro va riconosciuto il merito di essere stato un grande esegeta. Rustico rileva, poi, anche l’assurdità della pretesa di colpire con l’anatema chiunque non anatematizzi gli scritti di Teodoro: ma costoro, che pure si vantano seguaci di Cirillo, si separarono dalla comunione di quelli che lo difendono fino al punto non solo di dichiarare anatema per iscritto la persona e le opere di Teodoro, ma anche quanti lo difendono e non lo anatematizzano (Synodicon 296a; ACO 1, 4, p. 227, 38–41). 54  Cf. Defensio 3, 6, 1–45; in particolare in 3, 6, 35 si riassume la posizione di Facondo in proposito: «Ecco, ho dimostrato che non qualcuno, ma tutti i passi che negli scritti di Teodoro di Mopsuestia vengono considerati colpevoli sono stati condannati contro il parere del beato Cirillo perché, non essendo disponibile la persona accusata, si riconosce che la confutazione dei capitoli è incerta».

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Nell’anatema per tutti coloro che non anatematizzano Teodoro anche Facondo vede non solo un provvedimento assurdo e senza precedenti nella storia della Chiesa, ma anche un modo per colpire il concilio di Calcedonia, che in effetti non ha anatematizzato Teodoro, menzionato con grandi lodi nella lettera a Mari di Ibas di Edessa: non ricordo che sia mai accaduto nella condanna di un eretico che fossero colpiti da anatema anche coloro che non lo anatematizzassero. Certamente molti ignorano i nomi e le dottrine di molti eretici e non devono essere anatematizzati perché non anatematizzano quelli che non conoscono. Ma, come ho detto, una tale formula di accusa, contraria alle consuetudini e all’umanità (come se uno non potesse dimostrare la sua ortodossia se non anatematizzando Teodoro di Mopsuestia e la sua dottrina!), fu predisposta per colpire il sinodo di Calcedonia che, quando furono lette le lodi di Teodoro nell’epistola del venerabile Ibas, non anatematizzò né lui né la sua dottrina (De‑ fensio 3, 1, 7–8).

Come si può vedere, dunque, la posizione di Rustico nei confronti dei Tre Capitoli, sulla base di quello che possiamo ricostruire dal Synodicon, era del tutto analoga a quella dell’episcopato occidentale che si oppose duramente all’editto di Giustiniano, allo Iudica‑ tum e poi al concilio di Costantinopoli, la cui voce più rappresentativa fu probabilmente quella di Facondo di Ermiane. Alla luce del confronto che abbiamo fatto fra Rustico e Facondo, si può anche pensare che l’autore del Contra Acephalos si sia reso conto di non poter aggiungere molto all’opera del vescovo africano sul piano storico‑giuridico, per cui, dopo essersi occupato della confutazione dell’eresia monofisita sul piano dottrinale, rinunciò a scrivere la seconda parte che aveva inizialmente pianificato; solo più tardi, con il Synodicon, tornò sull’argomento, ma non con un trattato, bensì con una raccolta di un’imponente mole di testimonianze patristiche che potevano aggiungere nuova forza e credibilità alla difesa dei Tre Capitoli55. 55  Il Synodicon si inserisce nella vasta produzione di florilegi patristici che domina il VI secolo. Il florilegio patristico è, in effetti, forse il genere più caratteristico della teologia di questo periodo: sia monofisiti che calcedonesi infatti si impegnarono nella raccolta di testimonianze patristiche per dimostrare che la loro dottrina

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Lingua e stile Per quanto riguarda il genere letterario, il Contra Acephalos si inserisce esplicitamente nella tradizione del dialogo filosofico56. Il testo è infatti costituito da un dialogo fra due interlocutori, collocato in una cornice di pacifica tranquillità e in un momento in cui i personaggi che vi partecipano possono disporre liberamente del loro tempo, per cui il tono è pacato e disteso; queste caratteristiche si trovano in molte opere filosofiche in forma dialogica come le Tusculanae disputationes di Cicerone, la cui struttura è stata ripresa in ambito cristiano, ad esempio nell’Octavius di Minucio Felice o nei dialoghi di Cassiciaco di Agostino57. Rustico fin dal prologo della sua opera fa riferimento alla cornice tipica di questo genere letterario, anche se in modo molto rapido e stilizzato: La pace di questo luogo, il momento opportuno, il nostro comune proposito e il fatto di essere liberi da altre occupazioni – potrei dire grazie a Dio – tutte queste circostanze fra noi per ora si sono verificate contemporaneamente: dunque, come hai promesso, chiedi, in debito modo, quello che vuoi a proposito di ciò su cui siamo in disaccordo, mentre io conserverò ogni pazienza e buona coscienza (1169D).

La discussione è condotta con un linguaggio molto tecnico e fortemente influenzato dal linguaggio filosofico, in particolare derivato dalla logica aristotelica, che fa sì che la lingua e lo stile siano piuttosto diversi dai trattati dei secoli precedenti; infatti il Contra Acephalos si può inserire a buon diritto a quella teologia ‘scolastica’ che caratterizza la produzione del VI secolo, sia in lingua e la loro terminologia erano quelle corrette e rispettose della tradizione (cf.  L. Perrone, L’impatto del dogma di Calcedonia sulla riflessione teologica fra IV e V concilio ecumenico, in A. Di Berardino e B. Studer (a cura di), Storia della teologia I, Casale Monferrato, 1993, p. 517–520 e 526–530). 56  Simonetti a questo proposito ha messo in evidenza le analogie fra questo passo del Contra Acephalos e la fine del primo libro delle Tusculanae disputationes, del secondo libro del De republica e a quelle dei libri I e II del De oratore (Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 260). 57  Cf. G. François, ‘Declamatio e Disputatio’, L’Antiquité Classique 32 (1963), p. 534–538 e Spataro, Il diacono Rustico, p. 97–98.

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greca che in lingua latina, sia fra i calcedonesi che i monofisiti58; pur non rinunciando completamente all’elaborazione retorica e letteraria, infatti, questi scritti teologici tendono ad assumere lo stile dimesso tipico dei testi di carattere tecnico59. Per questa ragione anche nel Contra Acephalos troviamo uno stile più elegante e curato, retoricamente molto elaborato, soltanto nel prologo e nella conclusione, mentre nel corso del dialogo Rustico, sebbene non appaia uno scrittore trascurato, sembra concentrare tutta la sua attenzione sulla scrupolosa precisione delle sue formulazioni, senza molte concessioni all’elaborazione letteraria. In effetti il Contra Acephalos è un’opera molto tecnica, per cui spesso presenta anche delle forzature sul piano linguistico, se questo è considerato necessario dall’autore per raggiungere una maggiore precisione terminologica. Infatti, se il Contra Acephalos è scritto in un latino tardo, generalmente corretto sul piano grammaticale, come molte opere teologiche coeve, il lessico usato nell’opera è invece molto spesso piuttosto inusuale: ci sono in particolare molti hapax, per lo più calchi dal greco, che dimostrano come l’ambiente orientale in cui è stato composto abbia influenzato profondamente il suo autore; in effetti, non solo molte delle sue letture, ma anche le discussioni di cui parla nel prologo del Contra Acephalos erano probabilmente in greco. Troviamo inoltre molti termini tecnici del linguaggio della dialettica e della teologia, nella scelta e nell’uso dei quali Rustico si attiene generalmente alla tradizione teologica latina, pur conducendo in merito una riflessione molto approfondita e spesso originale. Sono state forse tutte queste peculiarità e soprattutto i numerosi grecismi lessicali e sintattici che hanno fatto sì che 58  Cf. a questo proposito B. E. Daley, ‘Boethius’ Theological Tracts and Early Byzantine Scholasticism’, Mediaeval Studies 46 (1984), p.  158–191 e Perrone, L’impatto del dogma di Calcedonia, p. 534. 59  Cf. Daley, ‘Boethius’ Theological Tracts’, p. 168–176 e A. Cameron, Di‑ sputations, Polemical Literature and the Formation of Opinion in the Early Byzan‑ tine Period, in G. J. Reinink, H. L. J. Vanstiphout (edd.), Dispute Poems and Dia‑ logues in the Ancient and Mediaeval Near East, Leuven, 1991, p. 91–108; ora in A. Cameron, Changing Cultures in Byzantium, Aldershot, 1996, p. 91–108, in particolare p. 92.

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nell’edizione di Sichardus60 si formuli la convinzione che l’opera non fosse stata originariamente composta in latino: infatti, subito dopo il titolo si legge «incerto interprete»; i frequenti riferimenti linguistici e concettuali ad opere latine presenti nel testo hanno fatto sì che questa ipotesi non abbia avuto seguito fra gli studiosi, ma testimonia comunque quanto sia evidente la difficoltà di questo scritto. Oltre a fattori ambientali, comunque, i grecismi e certe durezze sintattiche tipiche del Contra Acephalos si possono probabilmente spiegare in buona parte anche con l’influenza del latino delle traduzioni dal greco realizzate in questo periodo. Esse erano infatti generalmente letterali al massimo grado, fino al punto di introdurre termini inusitati in latino e costruzioni sintattiche anche molto inusuali, purché il testo originale fosse riprodotto con la massima precisione possibile61. Si può fare a questo proposito l’esempio di Boezio: egli si proponeva di far conoscere anche a quanti non conoscevano il greco le opere di Aristotele, per favorire la diffusione della sua filosofia anche fra i lettori di lingua latina; si tratta di un progetto culturale ambizioso, ma questo non lo induce a cercare di dare alle sue traduzioni fluidità ed eleganza: Boezio si sforza infatti soltanto di riprodurre nel modo più esatto possibile il testo di partenza, perché la traduzione è considerata solo uno strumento per far conoscere l’originale e non un’opera letteraria essa stessa; per questa ragione lo stile delle sue traduzioni appare in molti casi piuttosto trascurato62. A maggior ragione questo criterio domina le traduzioni di testi di argomento teologico, dal momento che in 60  Cf. J. Sichardus, Antidotum contra diuersas omnium fere seculorum haere‑ ses, Basileae, 1528, 244r. Poiché il manoscritto utilizzato da Sichardus è perduto è impossibile dire se si tratti di una sua opinione o se questa indicazione si trovasse già nel manoscritto stesso. 61  Cf. P. Chiesa, ‘Ad verbum o ad sensum? Modelli e coscienza metodologica della traduzione tra tarda antichità e alto medioevo’, Medioevo e Rinascimento 1 (1987), p. 7–9 e 27–28. 62  Si veda a questo proposito il giudizio di Barnes sulle sue traduzioni dell’Or‑ ganon: «Boethius’ Latin is rough and rugged: syntax is strained; ugly technicalities are introduced; neologism and artifice are sometimes called upon. The result is not charming, but it is faithful» (J. Barnes, Boethius and the Study of Logic, in M. Gibson (ed.), Boethius. His Life, Thought and Influence, Oxford, 1981, p. 77).

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questo campo un’assoluta precisione era considerata necessaria a causa del rischio di incorrere, in un’epoca di accese controversie, in proposizioni erronee e quindi eretiche, usando una terminologia poco accurata63. Anche Rustico per questo motivo era animato nelle sue traduzioni da una ricerca quasi eccessiva di assoluta aderenza al testo originale, come osservava Schwartz a proposito della sua successiva attività di traduttore degli atti dei concili64. Le testimonianze patristiche citate nel testo, tradotte dal greco da Rustico stesso65, si conformano in tutto e per tutto a questi criteri e influenzano profondamente la lingua del Contra Acephalos, dal momento che questi passi sono discussi approfonditamente e a lungo, in tutte le loro sfumature. Questa influenza può essere rintracciata, ad esempio, nella correlazione quidem – vero o quidem – autem, calco semantico della tipica correlazione greca men – de, che si trova molto frequentemente nel Contra Acephalos. L’influenza del greco, infatti, porta alla perdita dell’originario significato sia di quidem che di autem, che prendono invece quello più generico di men e de. Questo Mario Mercatore, ad esempio, a proposito della sua traduzione di alcuni testi di Nestorio, sostiene che è estremamente letterale, anche se questo lo ha costretto a rinunciare ad ogni elaborazione formale, introducendo termini inusitati ai limiti della correttezza: «Perdona, pio lettore, se o il discorso è meno eloquente o se per caso ti offenderà l’orecchio la stranezza di una parola … So infatti che essi considerano da condannare alcune parole scorrette che mi ha costretto ad usare il bisogno di conservare la precisione del greco» (Patrologia Latina, 48, 473–476; cf. Chiesa, ‘Ad verbum o ad sensum?’, p. 26–28). È evidente l’intento di ribadire l’obiettività del proprio lavoro, anche se in effetti l’intento di Mario Mercatore era quello di dimostrare la colpevolezza di Nestorio. 64  Schwartz osserva che questa precisione appare anche a proposito di termini anche poco significativi: «anche qui c’è un’attenzione fin troppo scrupolosa per le minuzie; ad esempio non vuole rendere gli epiteti dei vescovi, eulabestatos e the‑ osebéstatos, in un solo modo, come ‘reverendissimo’ o, secondo l’uso occidentale, ‘beatissimo’ o ‘venerabile’, ma distingue puntigliosamente fra ‘reverendissimo’ e ‘religiosissimo’»; a maggior ragione Rustico presta una scrupolosa attenzione alla traduzione di quelle parole che possono avere importanti implicazioni teologiche, sforzandosi, ad esempio, di mantenere anche in latino la differenza fra henōsis, tradotto con unitionem (unione), e henōtēta, tradotto con unitatem (unità) (cf. ACO 1, 3, p. xiv); sul metodo di traduzione di Rustico cf. anche Petri, ‘Il diacono Rustico, traduttore e teologo’, ΚΟΙΝΩΝΙΑ 33 (2009), p. 178–200. 65  Tutti i passi patristici citati nel Contra Acephalos provengono dagli atti del concilio di Efeso e Rustico li ha quindi dovuti tradurre dal greco. 63 

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influsso della lingua greca è stato osservato anche a proposito della lingua di Boezio, nelle cui opere si trova frequentemente; quest’uso, infatti, dalle sue traduzioni, nelle quali entra come calco del greco, si diffonde anche alle altre sue opere66. Rustico, poi, distingue accuratamente termini di analogo significato, ma che non si possono considerare del tutto equivalenti a causa del contesto in cui sono stati utilizzati; egli quindi si sforza di trovare o addirittura coniare, ad esempio, espressioni non immediatamente ricollegabili alla definizione di Calcedonia per tradurre la formula cirilliana dell’indissolubilità dell’unione, che infatti nell’originale greco non coincide a livello lessicale con i termini usati dal concilio67. Dalle traduzioni dei passi patristici, poi, i frutti di questa ricerca linguistica vanno ad influenzare la lingua del Contra Acephalos nel suo complesso, conferendo maggiore precisione alla riflessione teologica di Rustico e dando un carattere molto tecnico al suo trattato, anche se talvolta il rischio è quello di renderne il testo meno facilmente comprensibile. In effetti, per quanto riguarda il lessico, lo scrupolo di rendere con assoluta precisione il testo originale lo porta a coniare parole nuove con dei calchi dal greco. Un esempio particolarmente evidente di questo modo di procedere si può trovare nella traduzione di un passo dell’epistola 101 di Gregorio di Nazianzo, un testo cruciale per le dispute cristologiche68. Qui a breve distanza troviamo molti termini particolarmente inusuali, come conreplasmatum69, Così G. Matino, ‘Nota alla traduzione dell’Organon aristotelico fatta da Severino Boezio’, Cuadernos de filología clásica. Estudios latinos 8 (1995), p. 174–175. 67  Cf. 1203D e nota. 68  Rustico cita e commenta più volte nel Contra Acephalos passi di questa lettera, che del resto era citata in tutti i florilegi patristici dell’epoca, sia di parte calcedonese che monofisita; cf. M. Simonetti, ‘Conservazione e innovazione nel dibattito trinitario e cristologico dal IV al VII secolo’, Orpheus n.s. 6 (1985), p. 367–368. 69  In Sichardus si legge in realtà conseplasmatum, come anche più avanti (conse‑ plasmatum in 1208B e conseplasmari in 1208C), ma la correzione conreplasmatum sembra necessaria per il senso (conseplasmatum non è attestato in latino e la sua formazione apparirebbe difficilmente comprensibile) e abbastanza economica: la confusione fra r e s infatti non fa difficoltà a la resa del preverbio greco ana con il latino re‑ appare del tutto usuale; si veda, ad esempio, la traduzione di anachysis con refusio in 1203D. Anche se il verbo conreplasmari non è attestato in latino, del resto, è presente comunque il verbo replasmari, che compare in una traduzione dal greco 66 

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una forma non altrimenti attestata che Rustico conia sul modello di synanapeplasthai; più avanti si può registrare il grecismo cata‑ modice70 che arriva al punto di traslitterare in latino la preposizione kata per l’esigenza di rendere fedelmente anche una espressione di scarsa importanza per il senso complessivo del brano come kata mikron71; un analogo atteggiamento si riscontra nella traduzione di uiothesias, per il quale, senza una vera necessità sul piano del significato, si sceglie di nuovo un calco, affiliatione72; analogamente, inoperatum73 è modellato sul greco enērgēkenai74. Talvolta l’influsso del greco porta Rustico ad inserire nel suo trattato grecismi generalmente non usati in latino, come acribia75 (1203A; 1204A; 1226B). Comunque Rustico talvolta sceglie di andare in direzione opposta, se ritiene che sia necessario, come accade nella traduzione del termine greco theologous in un passo di un anonimo scritto monofisita all’interno del Contro Eutiche di Vigilio di Tapso (Contra Eutychetem IV, XX, 1) ed in un passo di Ireneo di Lione (Contra haere‑ ses, 3, 18, 2). De la Bigne (Bibliothecae veterum patrum et auctorum ecclesiasticorum tomi nouem, per Margarinum de la Bigne … collecti, Tomus quartus. Quo multiplices tractatus contra haereses varias continentur, Parisiis, 1589) correggeva invece in com‑ plasmatum e complasmari, ma si tratta di correzioni che non spiegano l’errore e che sembrano banalizzare il testo. 70  Il termine è attestato soltanto in questo passo del Contra Acephalos (cf. ThLL III, 591, 8–11). 71  La preposizione cata, anche se inusuale, è tuttavia ben attestata in latino, soprattutto nelle traduzioni (cf. ThLL III, 585, 14–73); nel Contra Acephalos ci sono comunque significative variazioni nella traduzione di kata mikron; in una seconda citazione del passo, in 1216A, infatti, Rustico, rinunciando al calco dal greco, traduce: «propter crementum quod paulatim fit». 72  Cf. ThLL I, 1216, 29–31. 73  Inoperor viene usato spesso dagli autori tardoantichi e in particolare nelle traduzioni dal greco come sinonimo di operor (cf. ThLL VII, I, 1741, 80–81). Già nella Disputatio però Rustico sembra dubitare dell’opportunità di usare questo verbo, dal momento che quando egli riprende il passo per commentarlo usa invece operatum (1208C). Il verbo inoperor è usato anche nella traduzione di questo passo riportata nel Libellus fidei dei monaci sciti (Libellus fidei 8, 12, in Maxentii Opuscu‑ la – ed. Fr. Glorie (CC SL, 80A), Turnhout, 1978). 74  Nelle successive traduzioni degli atti conciliari Rustico sembra rinunciare a questi calchi, per scegliere invece dei termini più usati in latino, anche se comunque sempre vicini all’originale; cf.  Petri, ‘Il diacono Rustico, traduttore e teologo’, p. 186–187. 75  Si tratta di un grecismo così inusuale in latino che la parola non è neppure riportata nel Thesaurus linguae latinae.

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dell’epistola Laetentur di Cirillo di Alessandria (1174B): in latino il termine theologus aveva infatti una decisa connotazione filosofica e pagana, essendo stato introdotto in latino da Cicerone per indicare, in particolare nel De natura deorum, gli antichi poeti che costituivano la fonte privilegiata per la conoscenza delle divinità76; anche fra i cristiani, a partire dagli apologeti, il termine era usato per indicare i pensatori pagani che speculavano sulle divinità tradizionali77, Il termine è usato in senso positivo e applicato al cristianesimo solo, occasionalmente, nelle traduzioni dal greco78 e in Mario Vittorino79. Solo in epoca medievale i termini theologia e theologus perdono la loro connotazione pagana ed entrano nell’uso comune80. Rustico, quindi, consapevole dell’uso latino del termine, è evidentemente riluttante ad usare il grecismo theologos e conia dunque un inusitato deiloquos81.

Il pensiero teologico di Rustico Come concordano tutti gli studiosi che si sono occupati della sua opera, Rustico è un calcedonese di stretta osservanza, con una 76  De natura deorum 3, 21, 53: «In primo luogo coloro che sono chiamati ‘teologi’ enumerano tre Giovi»; cf. M. Tulli Ciceronis De natura deorum – ed. A. S. Pease, vol. II, New York, 1979, p. 1094. 77  Lattanzio, ad esempio, riprende il passo ciceroniano prima citato in Div. Inst. 1, 11, 48 e altrove usa il termine nello stesso senso; cf. De ira Dei 11, 8: «gli antichissimi autori greci che essi chiamano ‘teologi’». 78  Si trova ad esempio nella traduzione di Rufino della Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (a proposito delle differenze fra i sinottici e il vangelo di Giovanni): «Giovanni tacque tutto questo e cominciò dalla ‘teologia’ e dalla sua divinità stessa» (3, 24, 13); il latino theologia traduce appunto il theologias dell’originale greco. 79  Cf. ad esempio Commentarii in Epistulas Pauli, in Ep. ad Ephesios 1, praef.: «perché conoscano la ‘teologia’, cioè Cristo Dio». 80  Secondo Brown, proprio per le connotazioni pagane del termine, il primo autore cristiano ad usare theologia in senso positivo (cioè cristiano) fu Abelardo (S. F. Brown, Theology and Philosophy in F. A. C. Mantella, A. G. Rigg (edd.), Medieval Latin. An Introduction and Bibliographical Guide, Washington D.C., 1999, p. 269–270). 81  Questo termine, secondo il ThLL, è attestato solo nella Disputatio (qui e in 1193A, dove questo stesso passo è citato di nuovo) e in Liberato, Breviarium 8, p. 983C (cf. ThLL V, 1, 404, 13–14).

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formazione sostanzialmente latina, sia pure arricchita, durante il lungo soggiorno in Oriente, da suggestioni provenienti dal dibattito teologico in lingua greca. Egli rimane sostanzialmente estraneo al neocalcedonismo82 che si stava diffondendo in quegli anni; pur mostrandosi, infatti, rispettoso nei confronti del pensiero e della persona di Cirillo di Alessandria, non sembra considerare la sua riflessione come un punto di riferimento imprescindibile per l’ortodossia e, se la sua posizione è a lungo discussa nel Contra Acephalos, questo accade soprattutto con l’intento di impedire ai monofisiti di presentarsi come gli unici eredi della sua teologia. Rustico quindi, come altri autori difisiti, cerca di sostenere il pieno accordo di Cirillo con la dottrina calcedonese, interpretando le formulazioni più estreme della sua cristologia, che apparivano effettivamente molto vicine a quelle monofisite, alla luce di quelle più concilianti con la teologia degli antiocheni83; per questa ragione il principale punto di riferimento di Rustico per la ricostruzione del pensiero cristologico del patriarca di Alessandria è la cosiddetta Laetentur, la lettera ufficiale inviata a Giovanni di Antiochia nel 433 per ricomporre la rottura occorsa fra le due sedi dopo il concilio di Efeso 82  Sul neocalcedonismo cf. A. Grillmeier, Christ in Christian Tradition II, 2, London‑Louisville, 1995, p. 429–434; si tratta di un concetto variamente definito fra gli studiosi, ma Rustico in ogni caso rimane estraneo alla categoria: la discriminante sembra infatti essere la posizione nei confronti della cristologia e della terminologia cirilliana, alle quali l’autore del Contra Acephalos, fedele al difisismo tradizionale in Occidente, rimane sostanzialmente estraneo. 83  La linea di Rustico è quella di negare ogni sviluppo nella posizione cristologica di Cirillo: egli avrebbe sempre professato una cristologia difisita perfettamente in linea con quella poi sancita dal concilio di Calcedonia, come dimostra il fatto che si dimostrò pronto ad offrire spiegazioni perfettamente soddisfacenti per quei passi delle sue opere che avevano suscitato sospetti negli antiocheni, la polemica con i quali sarebbe stata dovuta solo a questioni terminologiche e non a differenze sostanziali (cf. ad esempio 1176A–C e 1195A–C). La stessa linea era stata sostenuta anche da Facondo di Ermiane che, nella sua opera, aveva conferito a questo aspetto una grande importanza; cf. Defensio 6, 4, 4–6, 4, 26. Facondo aveva comunque cercato anche di ridimensionare la figura di Cirillo, facendo notare che, pur essendo stato indubbiamente un grande personaggio, aveva commesso anche dei gravi errori, come quando aveva condiviso la condanna di Giovanni Crisostomo (cf.  Defensio 4, 1, 4–12); Rustico invece evita di criticare in alcun modo questo personaggio.

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del 43184. In questa lettera Cirillo, pur non sconfessandoli apertamente, di fatto lascia cadere i dodici anatematismi che sembravano colpire tutta la teologia antiochena e considerare come una divisione ogni distinzione fra umanità e divinità in Cristo, anche a livello intellettuale, un errore del tutto analogo, quindi, a quello imputato a Nestorio. L’autore del Contra Acephalos si sforza invece di sostenere che Cirillo ha sempre professato una cristologia difisita e che quindi i monofisiti, pur ostentando di venerare la sua memoria in modo quasi eccessivo85, di fatto finiscono per tradirla. Rustico, inoltre, si dimostra estraneo, se non ostile, anche alla formula teopaschita “uno della Trinità ha sofferto nella carne”, anch’essa di ascendenza cirilliana. Nel Contra Acephalos, infatti, si mantiene un singolare riserbo su questa espressione, che non viene mai discussa e neppure citata86. Questo atteggiamento è tanto più degno di nota in quanto la formula teopaschita costituiva il cardine della riflessione teologica e della politica religiosa di Giustiniano. Rustico probabilmente non considerava erronea questa espressione, dal momento che non ha alcuna esitazione nell’identificare il soggetto dell’incarnazione con la seconda persona della Trinità; evidentemente, però, egli non la considera importante per la difesa dell’ortodossia calcedonese e certo non è disposto a fare alcuna concessione alle idee religiose dell’imperatore. In questo Rustico rivela una posizione più radicale dello stesso Facondo di Ermiane che pure conduceva una opposizione molto dura alla politica imperiale; egli infatti, nella Defensio, mostra di condividere 84  Cf.  Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 266–267. Rustico giustifica l’importanza che egli conferisce alla Laetentur a preferenza di altri testi cirilliani proprio sulla base del suo carattere ufficiale, garantito dalla ratifica di papa Sisto richiesta e ottenuta da Cirillo (cf. 1176C). Il suo avversario sostiene invece che questa lettera fa sì delle concessioni alla teologia antiochena allo scopo di ricostituire l’unità della Chiesa, ma non rispecchia il più autentico pensiero cirilliano; Rustico osserva in proposito che questo equivale ad accusare il patriarca di Alessandria di ipocrisia (cf. 1176A). 85  Su questo punto cf. 1219A e nota. 86  Cf.  Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 288. Si potrebbe però forse vedere un’allusione a questa formula in un intervento dell’avversario di Rustico (1220C), che egli però nella sua risposta non riprende in alcun modo.

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pienamente la formula teopaschita e loda l’imperatore per averla adottata e sostenuta87; si tratta forse solo di una captatio benevolen‑ tiae, ma anche questo manca nel Contra Acephalos. Forse Facondo, che scriveva prima del concilio di Costantinopoli, sperava ancora che fosse possibile indurre l’imperatore a tornare sui suoi passi, mentre Rustico, che scrive dopo il 553, non sembra aspettarsi più niente dal potere politico, per cui non fa mai menzione dell’imperatore né mostra alcuna apertura nei confronti della sua teologia88. La cristologia di Rustico è quindi un difisismo calcedonese in linea con la tradizione occidentale, ma con un rigore logico ed un’attenzione per la terminologia che trova pochi paralleli nella letteratura teologica di lingua latina se non in Boezio. In effetti molti studiosi hanno notato le analogie fra il Contra Acephalos e il Contra Eutychen et Nestorium di Boezio, in particolare per quanto riguarda la riflessione sulla relazione fra natura e persona. L’idea che il nocciolo della controversia risiedesse nella convinzione dei monofisiti che non c’è natura senza persona era infatti all’epoca molto diffusa fra gli autori calcedonesi, ma un vero precedente del Contra Acephalos si può rintracciare solo in Boezio, con il suo impegno di rigorosa definizione e sistemazione dei concetti di natura, persona, sostanza e sussistenza, dei loro reciproci rapporti e dei problemi di traduzione dei termini tecnici dal greco al latino. Naturalmente questa analogia di metodo da sola non sarebbe sufficiente a dimostrare uno stretto legame fra Boezio e Rustico, dal momento che, come si è detto, all’epoca, soprattutto in Oriente, si assisteva alla fioritura di una teologia scolastica nella quale la logica aristotelica forniva gli strumenti per affrontare le questioni terminologiche sollevate dalla controversia; nel Contra Acephalos troviamo però dei riferimenti lessicali molto 87  Cf. Defensio 1, 1, 1: «Clementissimo imperatore, ho sempre approvato e sostenuto contro molte voci contrarie la tua professione di fede, concorde con la definizione del grande concilio di Calcedonia […] Ebbene, che cosa di più salutare e più chiaro si può dire contro entrambe le eresie di quello che tu stesso hai professato, cioè che uno della Trinità è stato crocifisso per noi?». 88  È possibile comunque che il silenzio di Rustico sulla formula teopaschita derivi dalla freddezza con cui i monaci sciti e la loro formula erano stati accolti dalla sede romana, mentre il clero africano si era mostrato più possibilista; cf. Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 288.

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precisi al Contra Eutychen di Boezio, riferimenti che hanno attirato l’attenzione degli studiosi anche perché gli intenti di Rustico sembrano piuttosto polemici nei confronti del modello. Si tratta per la verità di uno dei pochi aspetti del Contra Acephalos ad aver ricevuto notevole attenzione da parte della critica che, in particolare, ha rilevato la presenza di una definizione di persona molto simile a quella boeziana, ma attribuita all’eretico. A questo proposito è particolarmente dibattuta l’interpretazione dei due successivi interventi dell’avversario di Rustico: Ogni natura individuale è persona: se dunque la natura umana di Cristo è individuale, sarà persona; il Verbo non è privo di sussistenza; ma due sono le nature: dunque saranno due le persone di Cristo (1195D–1196A); ogni natura individuale e razionale è persona (1196A–B).

Questo ragionamento dell’avversario di Rustico sembra infatti riecheggiare da vicino Boezio, che in Contra Eutychen 4 scriveva: La natura è la proprietà specifica di qualunque sostanza, la persona invece è la sostanza individuale di una natura razionale. Nestorio ha sostenuto che questa in Cristo sia duplice, indotto in errore dal fatto che ha pensato che in tutte le nature si potesse parlare di persona.

La presenza di questo riferimento così preciso89 a Boezio messo in bocca ad un eretico ha suscitato un dibattito fra gli studiosi90 che si sono chiesti se in questo modo Rustico intendesse criticare la posizione boeziana in quanto insufficiente per contrastare l’errore dei monofisiti o addirittura erronea, probabilmente perché istituire un legame così stretto fra i concetti di natura e persona avrebbe finito per favorire i monofisiti, che, come si è detto, fondavano la loro dottrina sul principio che non ci fosse natura senza persona. Simonetti Schlapkohl osserva comunque che in realtà nella formula di Boezio naturae rationabilis è un genitivo retto da individua substantia, mentre in Rustico i due concetti sono coordinati fra loro; non c’è quindi piena coincidenza fra le due definizioni (C. Schlapkohl, Persona est naturae rationabilis individua substantia: Boethius und die Debatte über den Personbegriff, Marburg, 1999, p. 116) 90  Per un resoconto più dettagliato cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 128–130. 89 

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ha infatti interpretato questo passo come una critica alla definizione di Boezio91. Secondo Micaelli, invece, non è necessario pensare a dei veri e propri intenti polemici, ma piuttosto a una riflessione sulla sua sistemazione della terminologia; Rustico infatti nella sua opera riprende più volte argomentazioni antimonofisite del Contra Eutychen e proprio in 1196A Rustico aveva risposto al suo interlocutore con una argomentazione di derivazione boeziana92. Inoltre, sempre secondo Micaelli, il concetto espresso dall’eretico non coincide esattamente la posizione di Boezio, perché questa non prevede la sostituzione di natura con substantia; l’avversario di Rustico invece usa il primo termine, non il secondo, e questo scarto è sufficiente per ribaltare completamente il pensiero di Boezio; dunque, la definizione qui citata è effettivamente molto vicina a quella boeziana, ma il suo significato è opposto93. Micaelli riconosce che Rustico evidentemente, alludendo alla definizione boeziana in questo modo, la trova, se non altro, insufficiente per respingere gli attacchi dei monofisiti, ma, nonostante questo, ritiene difficile pensare ad una critica radicale al Contra Eutychen et Nestorium; la sostanziale modifica della formula boeziana deve comunque essere presa in considerazione per l’interpretazione complessiva del passo94. Milano95, da parte sua, riprendendo almeno in parte l’opinione di Simonetti, osserva che Rustico non condivide integralmente la Cf. Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 282. Rustico sostiene infatti: «Ci sono molte nature individuali che non sono persone, come quelle degli esseri inanimati e irragionevoli»; anche Boezio, in Contra Eutychen 2, aveva scritto: «E’ chiaro che per i corpi non viventi non si può parlare di persona (nessuno dice che c’è la persona di una pietra) e neppure per i corpi di quei viventi che mancano di sensibilità (non c’è infatti la persona di un albero) e neppure di quelli che mancano di ragione e intelletto (non c’è infatti la persona di un cavallo o di un bue e degli altri animali che, muti e privi di ragione, conducono una vita basata sui soli sensi), ma diciamo che c’è la persona di un uomo, di Dio o di un angelo». 93  Cf. Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, Napoli, 1988, p. 69–71. 94  In aggiunta alle considerazioni di Micaelli, si potrebbe considerare che Rustico altrove fa esprimere all’eretico un concetto che trova un preciso parallelo in Agostino, senza che naturalmente si possa pensare per questo ad una critica nei confronti del grande dottore africano (cf. 1198A e nota); probabilmente si deve pensare, piuttosto, che Rustico costruisca l’immagine del suo avversario a partire dai propri punti di riferimento culturali, oltre che dai suoi reali contatti con i monofisiti, per cui l’eretico del Contra Acephalos si esprime con lo stesso linguaggio dell’autore. 95  A. Milano, Persona in teologia, Napoli, 1984, p. 340–341. 91 

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definizione boeziana di persona; essa comunque è evidentemente per lui un punto di riferimento imprescindibile, come testimonia la stessa approfondita ed ampia discussione che le viene dedicata nel Contra Acephalos. Milano analizza questo passo cominciando con il rilevare che la principale differenza fra la definizione di persona data da Boezio e quella presente nell’opera di Rustico consiste nel fatto che Boezio applica a tutti gli esseri razionali (uomo, angeli, Dio) la stessa definizione di persona96, mentre Rustico sostiene che non si può usare questa definizione di persona per Dio e per Cristo, perché si tratta di qualcosa di unico, che non può essere accostato ad altre realtà: Per quanto riguarda Dio, però, non si definisce così la persona, infatti in questo caso la persona non è una natura individuale, né comune, ma è un’individualità della natura comune […] Anche se nelle altre creature razionali la sostanza individuale è persona, non è però così nel Signore Cristo (1196C).

In definitiva, dunque, la riflessione su questo passo cruciale del Contra Acephalos ha messo in luce l’importanza dell’esperienza boeziana per l’elaborazione teologica di Rustico; il giudizio di Simonetti è stato, almeno in parte, ridimensionato e si è parlato, più che di un rifiuto radicale della definizione di persona di Boezio, di una critica volta ad approfondire e ripensare questo aspetto97. La riflessione boeziana si dimostra comunque un punto di riferimento fondamentale per Rustico, anche se egli non esita a prendere le distanze da alcuni dei suoi risultati98. 96  Questa concezione è sostenuta nel Contra Acephalos dall’eretico, che, rispondendo all’obiezione di Rustico, limita la sua definizione di persona alle sole nature razionali: «Dal momento che, infatti, esistono tre nature razionali ammesse da tutti, cioè Dio, le milizie celesti e l’uomo, in esse ciascuna natura individuale è persona» (1196B). 97  Cf. Spataro, Il diacono Rustico, p. 228. 98  In questo dibattito può inserire, entro certi limiti, anche il contributo di Schlapkohl, che pure affronta la questione da un diverso punto di vista; la studiosa, infatti, che non fa riferimento alla bibliografia su questo problema, osserva che, anche se le formulazioni di Rustico sono effettivamente di sapore boeziano, ci sono delle differenze nell’uso della terminologia che portano ad una modifica significativa dei contenuti. Ella ritiene che il trattamento di Rustico della riflessione boeziana sulla persona non derivi da intenti critici, ma dalla difficoltà oggettiva del

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In effetti, come notava Grillmeier99, nel Contra Acephalos si possono trovare due diversi tentativi di definire la persona: il primo, come si è visto, è basato sul concetto di individualità e viene sostanzialmente lasciato cadere dopo averne esaminato i punti deboli, l’altro invece parte dal concetto di ‘esistere in sé’ e sembra portare a conclusioni più soddisfacenti100. Il punto di partenza è una discussione sulla dottrina trinitaria; Rustico, per difendersi dall’accusa di introdurre un quarto nella Trinità (cioè l’umanità di Cristo), sostiene che l’umanità di Cristo non è una persona, punto che il suo avversario gli chiede di approfondire101. Riprendendo un argomento che dice di aver trattato nel perduto De definitionibus, Rustico allora definisce la persona come l’insieme delle caratteristiche proprie di un certo soggetto (idiomata)102. Questa definizione potrebbe far pensare ad una definizione di persona come mera somma delle caratteristiche umane e divine di Cristo, ma l’unità di soggetto è comunque ben preservata dalla presenza del termine chiave subsistentia, così definito: La sussistenza è individuale riguardo alla proporzione, come fondamento sul quale poggia tutto ciò che la riguarda (lo stesso nome lo dimostra) e soprattutto come causa propria nella quale confluiscono tutti quelli che sono chiamati accidenti (1238B). Contra Eutychen, nel quale si danno quattro diverse definizioni di natura, e per il lettore non è sempre chiaro a quale definizione si fa riferimento durante lo sviluppo del concetto di persona e la riflessione cristologica (Schlapkohl, Persona est naturae rationabilis individua substantia, p. 115–119). 99  Cf.  A. Grillmeier, Vorbereitung des Mittelalters. Eine Studie über das Verhältnis von Chalkedonismus und Neu‑Chalkedonismus in der lateinischen The‑ ologie von Boethius bis zu Gregor dem Großen, in A. Grillmeier, H. Bacht (edd.), Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und Gegenwart, Band II, Würzburg, 1953, p. 819–821. 100  Cf. Grillmeier, Vorbereitung des Mittelalters, p. 820–822; Lang, ‘Christological Themes in Rusticus Diaconus’, p. 432–433; Spataro, Il diacono Rustico, p. 229–235. 101  Cf. 1238A. Lo stesso problema era già stato sollevato anche in precedenza, in 1185A e 1185D. 102  «La persona, invece, è il concorrere di tutto quello che descrive la sostanza razionale» (1238B).

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La subsistentia è dunque il fondamento degli idiomata e ne rende possibile l’esistenza: senza un soggetto, infatti, come spiega Rustico subito dopo, nient’altro può esistere in relazione ad esso. Il concetto di subsistentia e non più quello di natura, dunque, diventa il punto di partenza per la definizione di persona; la persona infatti non può essere separata dalla subsistentia, che ne costituisce il fondamento; l’umanità di Cristo, di conseguenza, non avendo un proprio fondamento in sé stessa, ma nel Verbo, non è evidentemente una persona (1238D). Del resto, osserva Rustico, anche i monofisiti possono condividere un ragionamento fondato su queste basi: essi, infatti, insistevano sull’iniziativa divina nell’incarnazione, mentre l’umanità nella loro ottica costituiva un elemento esclusivamente passivo103. Sia calcedonesi che monofisiti, dunque, secondo quanto emerge dal Contra Acephalos, possono concordare sul fatto che l’umanità non sia un soggetto autonomo, pur essendo senza dubbio integra e completa. Questo principio ha poi per Rustico l’importante funzione di separare il concetto di natura da quello di persona, permettendogli, di conseguenza, di poter parlare di due nature senza sollevare in alcun modo il sospetto di introdurre due persone e quindi di dividere Cristo104: l’umanità di Cristo non può essere infatti una persona, in quanto non è una subsistentia; è vero che, siccome non ha nulla di meno rispetto alle altre sussistenza razionali e individuali, potrebbe essere pensata sia come sussistenza sia come persona, ma solo a condizione che sia pensata al di fuori dell’unione: Una volta che, però, la mente si sia ricordata che ciò che è umano non è come se rimanesse in se stesso, ma è stato fatto proprio, tramite l’unione, della sussistenza di Dio il Verbo, non lo può prendere per 103  Si veda, ad esempio, quanto l’eretico aveva affermato in 1171B–C: «La causa della carne è Dio, che, volendo amministrare la nostra salvezza, prese, come volle, ciò di cui servirsi per compiere ciò che voleva. Dunque anche la nascita e gli altri miracoli, le parole, la passione e tutto, per farla breve, deve essere attribuito, attraverso la carne, a Dio il Verbo, che per questo si è incarnato». 104  Cf.  A. Grillmeier, Die Rezeption des Konzil von Chalkedon in der römisch‑katholischen Kirche, in Idem, Mit Ihm und in Ihm. Christologische For‑ schungen und Perspektiven, Freiburg im Bresgau, 1975, p. 356.

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persona, perché non viene chiamata in senso proprio ‘sussistenza’ quella del cui sussistere è causa, secondo l’intelletto, un’altra realtà, ed eterna, cioè il Verbo (1239A–B).

In altre parole, a livello intellettuale l’umanità potrebbe essere considerata una persona, ma a livello ontologico questo non è assolutamente possibile, perché essa non è una sussistenza: non ha infatti in se stessa la causa della sua esistenza, ma nel Verbo. La questione della persona viene affrontata in modo sistematico in relazione al concetto di ‘esistere in sé’ solo a questo punto del Contra Acephalos, ma che quello dell’esistere in sé fosse il criterio più affidabile era già emerso durante la precedente discussione sull’argomento; Rustico, infatti, aveva esplicitamente sostenuto che Cristo condivide la nostra natura, ma la sua umanità non è una persona perché non ha in sé il fondamento della sua esistenza, per cui la definizione in base alla quale ogni natura individuale è persona non è valida quando si parla di realtà destinate ad essere inseparabilmente unite: Cristo senza eccezione ha tutto della nostra natura, ma non tutto quello che è della persona umana. […] Dio non lascia mai, poi, la natura umana abbandonata dalla sua presenza e dal suo governo […], ma anche per questo la creò, non perché fosse di se stessa, ma di lui, e la fondò su se stesso come sopra una base o un fondamento, per dire il vero, per compiere per suo tramite il disegno della sua immensa generosità, la bellissima dispensazione. Dunque se è vero che ogni natura individuale è persona, questo vale però per ognuna di quelle che non sono create per rimanere inseparabilmente unite a un’altra (1198A–C).

Questa riflessione sul concetto di persona, dunque, ripresa più volte all’interno dell’opera in diversi contesti105, assume alla fine del trattato un’importanza decisiva e costituisce un aspetto fondamentale della riflessione di Rustico sull’unità della persona di Cristo106; e non si deve dimenticare che era fondamentale per i teAltre affermazioni simili a quella prima citata si trovano infatti anche altrove nell’opera; cf. 1234D: «Ma la nostra natura in Cristo non è anche persona: infatti non ha il suo essere in se stessa e secondo se stessa separatamente, ma sussiste nel Verbo». 106  Grillmeier ha sostenuto che questa definizione di persona può essere accostata al concetto di enhypostatos; Rustico, però, non avrebbe spinto la sua riflessione fino a questo punto (A. Grillmeier, Vorbereitung des Mittelalters, p. 821). 105 

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ologi calcedonesi formulare la dottrina delle due nature in modo tale da non compromettere l’unità di Cristo e fornire una risposta convincente alle accuse dei monofisiti di ricadere negli errori di Nestorio. Forse è proprio per questo che, rispetto all’attenzione dedicata a questo aspetto, la difesa della dottrina delle due nature in sé e per sé appare un tema relativamente poco sviluppato nel Contra Acephalos: nonostante che l’avversario di Rustico professi fin dalle prime battute del dialogo una sola natura composta di Cristo, Rustico, infatti, non tenta una confutazione di questa formula fino alla fine dell’opera (1252C–1254A) e, sfortunatamente, l’argomento è affrontato proprio nella sua parte più problematica dal punto di vista testuale; anche qui, del resto non troviamo una vera e propria discussione, ma piuttosto un tentativo di confutazione basato sulle conseguenze assurde e inaccettabili che si possono logicamente trarre a partire da questa formula; in particolare si cerca di dimostrare che anche parlare di una sola natura composta può portare a dividere Cristo introducendo due figli. Si deve dire comunque che, in realtà, almeno implicitamente, l’inadeguatezza della formula dell’unica natura composta viene rilevata da Rustico ogni volta che, a suo avviso, il suo interlocutore non distingue adeguatamente le caratteristiche proprie dell’umanità e della divinità107. L’avversario di Rustico, comunque, come si è detto, non appartiene alle frange più estremiste del movimento monofisita ed accetta senza esitazioni di ammettere la consustanzialità di Cristo con Dio e con l’uomo e quindi i due personaggi del dialogo concordano su un punto fondamentale. La differenza fra loro consiste piuttosto nel trarre o meno da questo principio la conseguenza che, se Cristo è consustanziale a due nature, allora deve essere in due nature. La discussione sembra vertere quindi su una questione molto sottile: ci si chiede cioè se permanga o meno una distinzione Cf. Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 270. Secondo Simonetti, Rustico sembra considerare conseguenza necessaria della formula dell’unica natura composta una confusione delle proprietà in Cristo, anche se la maggioranza dei monofisiti si riconosceva nella dottrina di Severo di Antiochia, che riconosceva una distinzione delle proprietà a livello intellettuale. Severo stesso comunque aveva polemizzato con frange estremiste che sembravano invece negarla. 107 

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numerica delle nature dopo l’unione. L’interlocutore di Rustico in 1175A sostiene infatti esplicitamente che ammettere la doppia consustanzialità non significa necessariamente parlare di una dualità numerica di nature in Cristo: Ma il fatto che Cristo sia consustanziale a due nature non fa sì che ci siano due nature: infatti non tutte le cose sono uguali, riguardo al numero, a quelle ad esse consustanziali.

Da qui si sviluppa una lunga discussione sulla pluralità numerica delle nature, che evidentemente Rustico doveva considerare un nodo cruciale della controversia. Egli in definitiva conclude che, se l’umanità è una sostanza completa, è impossibile che le manchi una caratteristica fondamentale come il fatto che di essa si possa predicare la quantità; la doppia consustanzialità, quindi, al contrario di quanto aveva cercato di dimostrare l’avversario, implica necessariamente la presenza di due nature108. Rendi il numero che è proprio alle loro realtà; non togliere la quantità, se non fingi soltanto di confessare una perfezione sostanziale: infatti dove c’è perfezione secondo la sostanza, lì c’è la quantità delle sostanze; dove l’unione inconfusa, lì anche il numero delle cose che sono unite (1187A–B).

Rustico osserva infine che gli stessi monofisiti, che pure rifiutano di professare Cristo in due nature, usano spesso il plurale a proposito delle nature di Cristo, soprattutto nella loro formula più caratteristica, “da due nature”109, ma non per questo ovviamente Cf.  Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 273. Rustico si esprime in modo analogo anche in 1220A: «come è empio dire che a lui manca qualcosa della nostra sostanza, così lo è anche della quantità; dunque la quantità ha anche la proprietà di compiere, concorrendo alla quantità della sostanza divina, una dualità»; con l’assunzione dell’umanità, dunque, il Verbo ha assunto tutte le sue caratteristiche, inclusa la quantità (cf. Simonetti, ‘La Dispu‑ tatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 285). 109  Già Eutiche, infatti, aveva accettato di professare Cristo “da due” nature, ma non “in due” (ACO 2, 1, 1, 143, 10–11); in seguito la formula “da due nature” divenne un segno distintivo dei monofisiti (Grillmeier, Vorbereitung des Mitte‑ lalters, p. 930). Sull’argomento cf. 1202B e nota. 108 

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intendono introdurre una divisione analoga a quella introdotta da Nestorio110. Infatti, se davvero non si potessero contare insieme umanità e divinità per parlare di due nature, lo stesso principio dovrebbe valere anche per questa formula: Ma dico anche che se la natura umana non si conta insieme a quella divina, necessariamente non si è realizzata, tramite l’unione, una sola natura del Signore Cristo da due nature, ma, esistendo questa sola eternamente, essa sola è, fino ad ora, così come era (1224B).

Per concludere, si può dire dunque che la difesa della dottrina calcedonese delle due nature viene condotta individuando con precisione gli elementi di disaccordo con i monofisiti e cercando di dimostrare l’inconsistenza dell’opposizione avversaria a partire dagli elementi in comune. Ciò che caratterizza la riflessione teologica di Rustico nel panorama della letteratura polemica antimonofisita di lingua latina è indubbiamente il rigore terminologico e l’uso di concetti e strumenti di derivazione filosofica, con un metodo che per molti aspetti può essere accostato a quello di Boezio.

La traduzione La presente traduzione è stata condotta sull’edizione critica, da me curata, pubblicata dal Corpus Christianorum e riprende, pur con diverse correzioni, quella che avevo già realizzato per la mia tesi di dottorato. Il titolo dell’opera è stato lievemente modificato rispetto a quello con il quale l’opera era indicata nella Patrologia Latina, quello cioè di Disputatio contra Acephalos; l’opera di Rustico era infatti probabilmente indicata come Contra Acephalos nell’unico Così si legge in 1246D–1247A: «Infatti, se del tutto giustamente odiate Nestorio, ritenendo che abbia introdotto con tali parole due figli, perché voi, dicendo lo stesso sulle due nature, non ammettete di predicare due nature? E certo voi non dite soltanto questo sulle due nature, ma anche le nominate al plurale piuttosto spesso»; cf.  Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 287. 110 

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manoscritto a noi noto; il manoscritto è purtroppo perduto, ma nel catalogo della biblioteca di Fulda nel quale è ricordato, l’opera è indicata in questo modo, come anche, del resto, nell’editio princeps. Lo scritto di Rustico, come si è detto, presenta una lingua ricca di tecnicismi ed una grandissima attenzione per la terminologia: nei limiti del possibile si è cercato di mantenere le distinzioni che l’autore ha osservato, anche se molte sfumature sono inevitabilmente perdute nella traduzione. Si è rinunciato anche a tentare di riprodurre in italiano le forzature introdotte da Rustico nel suo latino, per cui la traduzione utilizza parole di uso comune anche per rendere i numerosi hapax e termini inusitati disseminati nell’opera: si è preferito infatti piuttosto segnalare in nota gli aspetti linguistici più significativi, per evitare di appesantire un testo già piuttosto complesso; per lo stesso motivo, anche la sintassi è stata spesso semplificata rispetto al latino.

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Rustico CONTRO GLI ACEFALI

Contro gli Acefali

Prologo 1167D

Io certo, conoscendo i miei peccati, le mie condizioni difficili e i miei limiti, mi sono spesso proposto di preferire il silenzio alle dispute teologiche, soprattutto perché la situazione dei Cristiani non è mai stata così confusa come ai nostri tempi: in primo luogo perché nessuno imita lo zelo degli antichi, ma ne vanifica i successi; e non si considerano come figli di coloro che un tempo si addormentarono nel Signore, ma si ergono a loro giudicia, aggiungendo a questo tante calunnie che non è possibile contarle. E questo avviene – bisogna dirlo – presso tutti gli Acefalib; ma presso coloro a  Lo stesso concetto, espresso pressoché negli stessi termini, si trova in Facondo di Ermiane, Defensio 7, 5, 23: «Sono infatti giudici di giudici e giudici di morti». L’illegittimità di una condanna che colpiva persone morte in pace con la Chiesa era infatti un luogo comune della controversia, fra i difensori dei Tre Capitoli. b  Il termine ‘acefali’ era quello generalmente usato all’epoca per indicare i sostenitori della dottrina dell’unica natura. Con il termine ‘acefali’ Rustico intende la totalità dei suoi avversari, all’interno dei quali riconosce diversi gruppi, mai indicati, comunque, con dei nomi specifici. In una sua annotazione alla traduzione degli atti del concilio di Efeso, Rustico trova l’origine del nome in un’espressione contenuta nella relatio inviata all’imperatore (cf. Schwartz in ACO 1, 3, p. xvi) dove si legge: «tocchiamo le vostre pie ginocchia supplicando che tutto ciò che è stato fatto con l’inganno riguardo ai santissimi e devotissimi vescovi Cirillo e Memnone, e che non ha alcun valore sulla base delle regole, non abbia alcun effetto, affinché il nostro sinodo non sia acefalo, cioè senza un capo»; e Rustico annota: «da qui gli Acefali trassero il loro nome» (ACO 1, 3, p. 175 in apparato). Altri autori dell’epoca usavano il termine ‘acefali’ in modo diverso; Facondo di Ermiane, ad esempio, lo usa per indicare coloro che, pur non condividendo pienamente la

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Contro gli Acefali

che sorsero ultimamentea, i soli soprattutto i laicib, ai quali anche coloro che sono chiamati da loro vescovi e presbiteri e diaconi e il resto del clero e i monaci; alcuni per errore, non pochi per avidità, altri per ambizione, o piuttosto tutti per ogni genere di malvagità, rigettarono la libertà e la fiducia dei Cristiani e il santo zelo al punto che, per quanto li riguarda, non hanno lasciato più neppure la speranza della correzione; con loro poi è scomparsa tutta la virtù dei Cristiani, dal momento che nessuno si cura veramente di ciò che è comune e del Signore Cristo e non lo ritiene degno di farne parola; tutti invece si occupano di quello che è loro peculiarec più aspramente che mai e ripongono ogni speranza in coloro tramite i quali sperano che possa realizzarsi largamente. E dottrina calcedonese delle due nature, si sono distaccati in parte dalla posizione radicale di Eutiche e per questo sono chiamati anche ‘semieutichiani’ (cf. Defensio 1, 5, 4–6). Oggi molti studiosi moderni intendono invece con ‘acefali’ la fazione monofisita radicale che in Egitto rifiutò di sottoscrivere l’Editto di Unione promulgato dall’imperatore Zenone nel 482 e che per questo si staccò dalla comunione con il patriarca di Alessandria Pietro Mongo (cf. Frend, The Rise of the Monophysite Movement, Cambridge, 1972, p. 174–183). a  È impossibile dire con certezza a quale gruppo intendesse riferirsi Rustico, ma, dato che l’unica dottrina dissidente monofisita alla quale si fa esplicito riferimento nel Contra Acephalos è quella triteita (cfr Introduzione, p. 23), è ragionevole ipotizzare che anche qui si faccia riferimento a costoro. I triteiti, in effetti, furono condannati dal patriarca monofisita Teodosio di Alessandria fra il 560 e il 564, per cui si tratterebbe di un fatto grosso modo contemporaneo alla composizione dell’opera di Rustico, che potrebbe facilmente riferirsi a questo episodio con l’avverbio ‘ultimamente’ (noviter); si deve tenere presente comunque il fatto che, a causa della probabile presenza di una lacuna, il testo non è del tutto chiaro. b  Questa sezione è oscura ed il testo appare corrotto; Spataro interpreta: «Questa gravissima deviazione si verifica senza dubbio fra gli Acefali, perché così devono essere definiti tutti loro. Inoltre tra costoro che in tempi recenti spuntarono fuori, sono da annoverare principalmente semplici laici» (p. 283). Sembra però più opportuno ipotizzare una lacuna, poiché sembra che l’argomento del discorso cambi. Prima infatti Rustico sembra voler sostenere che tutti gli Acefali tramano contro i Padri, ma lo fanno soprattutto coloro che sono sorti da poco (forse, come si è detto, i triteiti). In seguito invece si afferma che anche coloro che fra gli eretici sono considerati membri del clero devono essere considerati alla stregua di laici. Si tratta di due considerazioni di tipo diverso che difficilmente potevano trovarsi originariamente fuse in un solo periodo, per cui sembra necessario ipotizzare la caduta di una parte del testo: del resto, dopo ‘ai quali’ (quibus) manca evidentemente un verbo, anche se è difficile dire quale possa essere stato. c  Cf. Phil. 2, 21.

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che questo sia vero lo attestano i fatti stessi, dal momento che ogni traccia di virtù è scomparsa, mentre ogni diluvio di malvagità ha sommerso lo stato romano. Presentando dunque tutto questo alla mia mentea, ho giudicato di dovermi astenere da abomini di questo genere e risparmiarmi solo per il pianto e di dover conservare instancabilmente la legge di Dio che già in precedenza ha fulminato molti dall’alto, frequentemente e duramente. Ma che dovrei dire io, certo assolutamente pronto, quanto alla volontà, ad abbandonare il mondo, ma debolissimo quanto a capacità? Mi è rimasto da sperare solo dalle tue preghiere. Tornerò dunque a ciò che mi sono proposto. Pensando ansiosamente queste e simili cose, lo zelo non si acquietava e la ragioneb poi al contrario suggeriva: «Perché ti angustii, o uomo, e pensi che ci sia solo da disperarec, guardando soltanto alle empietà umane e dimenticando la volontà divina? Guarda a colui che spesso risolleva ancora le situazioni disperate, che le cose morte tante volte ha vivificato, perché è Signore: colui che infatti è morto per gli empi (Rom. 5, 6) neppure ora può disprezzare tutta la creazione. E il mondo certo rivela ciò che gli è proprio e dove si volge, allontanandosi dal suo Creatore; ma il Signore misericordioso non si rifiuterà per questo di dimostrare tanto più ciò che è proprio a Lui. Tu intanto non occultare quello Troncarelli ravvisa in queste parole un’eco della Consolatio boeziana: «Mentre in silenzio riflettevo fra me su queste cose…»; (Cons. Phil., 1, 1, 1»); cf. F. Troncarelli, ‘Boezio a Costantinopoli: testi, contesti, edizioni’, Litterae Caelestes 3 (2010), p. 207. b  Questo intervento della ragione, quasi personificata, sembra riecheggiare la situazione iniziale del De consolatione philosophiae di Boezio: Rustico infatti è scoraggiato e pensa che si possa solo piangere sulla rovina della Chiesa, mentre la ragione lo esorta a superare i limiti di una visione del mondo esclusivamente umana e quindi a reagire in modo più attivo; analogamente nel capolavoro boeziano la Filosofia asciuga le lacrime del protagonista e lo rimprovera per essersi lasciato sopraffare dalla disperazione. Del resto, visto che le opere di Boezio influenzano profondamente il metodo e il linguaggio teologico di Rustico, non è improbabile che l’illustre modello lo abbia potuto influenzare anche sul piano letterario; per un’analisi più approfondita di questo punto e in particolare sul passaggio dalla Filosofia di Boezio alla Ragione di Rustico, cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 63–64. c  Anche in queste parole Troncarelli riconosce un riferimento a Boezio; cf. «Che cosa è dunque, o uomo, che ti ha precipitato nell’afflizione e nel pianto?» (Cons. Phil., 2, 1, 9); cf. Troncarelli, ‘Boezio a Costantinopoli’, p. 207. a 

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Contro gli Acefali

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che ti è stato affidato, siano dieci talentia o cinque o una sola piccolissima frazione, perché egli poi, venendo, non ti chieda l’interesse del suo denarob. Inoltre, come sai che né molti né pochi e neppure uno consentiranno a quello che dirai, in modo da non cadere o da ritornare alla fede del Signore Cristo? Nella peggiore delle ipotesi tu non ne hai alcun danno, anzi riceverai le corone come se tu avessi portato tutto a compimento: il giudice, perfettamente onesto e potente, ma soprattutto misericordiosissimo, non giudica le cause dal risultato, ma dalla volontà e dall’intenzione. Dal momento che, quindi, ti è preclusa da ogni parte ogni scusa per tacere e ti viene promessa una ricompensa incorruttibile per non tacere, evidentemente se tacerai ti condannerai da te stesso. Non si devono temere infatti le accuse degli operatori di iniquità, perché il Signore ha spiegato che procurano infinita beatitudinec, e neppure devi temere quello che ti mette davanti agli occhi chi ti vuole ostacolare, cioè esilio, prigione, vari dolori e diverse sofferenze: infatti non sono pari al terrore della geenna. Ricorda che sei un cristiano e un diaconod, e per giunta della Chiesa più grande di tutto il mondoe. Se l’ordine è un peso insopportabile, perché, in Cf. Matth. 25, 14–30; Luc. 19, 12–27. La parabola dei talenti era già stata utilizzata da Agostino nel prologo del suo De doctrina christiana (Proemio, 8) per presentare la sua opera come un dovere verso la comunità e non come un atto di superbia; è possibile che qui Rustico abbia tenuto presente il modello agostiniano, ma la stessa citazione evangelica si legge anche nella Sententia Synodica del concilio di Costantinopoli del 553 (ACO 4, 1, 208, 1–11): se il riferimento fosse a questo testo la valenza sarebbe evidentemente polemica, perché Rustico intenderebbe dire che quanti sono rimasti fedeli alla dottrina calcedonese, e non il concilio, sono quelli che fanno davvero il loro dovere di buoni cristiani e di degni membri del clero (cf.  Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 64–65). c  Cf. Matth. 5, 11–12. d  Rustico rivendica qui orgogliosamente la dignità del suo stato. In effetti la posizione di diacono a Roma era più importante che nelle altre Chiese (cf. Introduzione, p. 10). e  Rustico ribadisce qui all’inizio dell’opera l’importanza della Chiesa di Roma ed il suo prestigio, superiore a quello di ogni altra; sparse nell’opera si trovano altre allusioni del genere, anche se il tema non viene particolarmente sviluppato, dato l’argomento prevalentemente dottrinale del trattato; è interessante notare comunque a questo proposito che traducendo gli atti del concilio di Calcedonia Rustico stigmatizza quanto gli sembra ledere le prerogative di Roma: non manca di a 

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qualunque modo tu l’abbia fatto, ti sei avvicinato a questa dignità? Una volta divenuto suo diacono, sei vincolato dai tuoi voti a Dio: altrimenti avresti dovuto rifiutare prima e mantenere la pace con l’avversario, riguardo a questa dignità, chiedendoti se tu con diecimila avresti potuto vincere i ventimila dell’avversarioa». Queste e analoghe considerazioni mi spingono a portare a termine l’opera, come posso. Per il resto sarà merito della tua preghierab se sarà buona l’esposizione di un uomo che appena osa presumere la sola rettitudine della fede; non per cattiva intenzione, lungi da me, ma perché certo sono consapevole della mia debolezza. La mia intenzione è dunque di raccogliere tutto quello che spesso nei dibattiti sia a Costantinopoli sia ad Alessandria d’Egitto sia ad Antinoopoli nella Tebaide e nei luoghi vicini è stato letto o anche detto da me o da altri difensori della definizione di fede del santo sinodo di Calcedonia, applicare questo materiale ai problemi posti dagli avversari, che ho analogamente raccolto, e aggiungere quello che è necessario per la completezza, per quanto possibile, e per la solidità o anche l’eleganza del discorso. Perché ci sia distinzione fra i problemi e la loro soluzione è premesso di volta in volta a quanto viene detto il personaggio al quale si riferiscono: il personaggio dell’Ortodosso per quello che è nostro, quello dell’Eretico per quello che è loro; infatti è proprio così che stanno le cose, come sarà dimostrato nel corso del libro; rimane però, riguardo a questo, la consuetudine per cui non tutto quello che è detto dagli eretici è eretico: infatti molte volte cercano di dimostrare le loro dottrine anche prendendo l’avvio da quelle che rimarcare, ad esempio, che al concilio di Efeso del 449 un vescovo osò riferirsi al vescovo di Alessandria come «arcivescovo universale» (ACO 2, 3, 1, p. 187 in apparato). Per l’importanza che Rustico riconosce alla sede romana cf. anche 1176C, 1223D e 1251D con le note corrispondenti. a  Cf. Luc. 14, 31. b  Rustico introduce qui un rapido riferimento al dedicatario dell’opera, del quale però non si fa più menzione nel testo e sulla cui identità appare quindi difficile anche soltanto fare congetture. Baronio ipotizzò che il destinatario fosse il diacono Sebastiano; Spataro ritiene invece che questa richiesta di preghiera si rivolga in generale al lettore devoto o al copista, o più in particolare a quelli che forse furono i primi lettori e copisti dell’opera, i monaci Acemeti (Spataro, Il diacono Rustico, p. 107–109).

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Contro gli Acefali

professiamo entrambi in comune. Però, per non confondere nuovamente i discorsi con la distinzione stessa, ma perché la memoria dei lettori li scorra senza interruzioni, le opposte posizioni sono state distinte soltanto in due personaggi.

Disputa 6

Rustico: La pace di questo luogo, il momento opportuno, il nostro comune proposito e il fatto di essere liberi da altre occupazionia – potrei dire grazie a Dio – tutte queste circostanze fra noi per ora si sono verificate contemporaneamente: dunque, come hai promesso, chiedi, in debito modo, quello che vuoi riguardo ai punti su cui siamo in disaccordo, mentre io conserverò ogni pazienza e buona coscienza. Ricorda che in precedenza si è convenuto fra noi di comune accordo di astenerci da ogni cavillosità e, per quanto è possibile, di esprimere con le parole i puri concetti. Io sostengo che uno solo e il medesimo, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, il nostro Signore Gesù Cristo è riconosciuto in due nature; tu, poi, come ti piace. Eretico: Se dici che Cristo è due nature e non una sola composta, e Cristo poi è stato generato dalla Vergine beatissima, di conseguenza ella ha generato due nature. Dunque sarà chiamata, dalle due nature che ha generato, ‘madre di Dio e madre dell’uomo’, secondo l’empio Nestorio che, ritenendo corretto unire i due nomi, cioè madre di Dio e madre dell’uomo, preferì chiamare la Vergine con un solo nome, cioè ‘madre di Cristo’, non ‘madre di Dio’; in più, dividendo il nome, Nestorio disse anche ‘madre di Dio e madre dell’uomo’, ma da parte sua Cirillo di santa memoria usò solo il nome di ‘madre di Dio’. Dunque quelli che dicono che due sono le nature di Cristo sono a buon diritto chiamati nestorianib. Secondo Simonetti (Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 262) in questa disponibilità di tempo libero da altri impegni si può ravvisare un richiamo all’Octavius di Minucio Felice (cf. Octavius 2, 3). b  Fin dal suo primo intervento l’avversario di Rustico contrappone Cirillo di Alessandria, all’autorità del quale si rifarà costantemente in tutta l’opera, e Nestorio, della cui eresia egli ritiene i calcedonesi, almeno in una certa misura, para 

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Rustico: Ovviamente vi confondete in tutto, visto che non volete distinguere le nature di Cristo: è infatti più che mai necessario che tu dica ‘madre di Dio e madre dell’uomo’, anche a non voler dire niente, per ora, della proprietà delle parole. Se infatti Cristo è una sola natura e composta, questa natura è nata dalla Vergine e questa stessa natura è Dio e uomo, dunque la Vergine ha generato Dio e uomo ed è chiamata ‘madre di Dio e madre dell’uomo’. Se dunque ci chiamate per questo nestoriani, lo stesso titolo si potrà usare anche per voi: infatti non crediamo certo che voi chiamiate la natura composta – per usare le vostre parole – Dio solo o puro: infatti coloro che chiamano Cristo ‘Dio’ senza professarlo anche, egli stesso, uomo, non li ritenete della vostra fede. Ma non penso neppure che riteniate composta la natura di Dioa. Eretico: Noi diciamo solo ‘madre di Dio’; per questo infatti soprattutto il beatissimo Cirillo avversava Nestorio. Rustico: E allora? Si può dimostrare che il beato Cirillo abbia usato questa espressione per eliminare quella di ‘madre dell’uomo’, o per qualche altro motivo? Ammettilo dunque: lo ha fatto tecipi. Per questo egli introduce subito la questione dell’espressione ‘madre di Dio’, rifiutata da Nestorio e difesa invece da Cirillo al concilio di Efeso del 431. Si tratta di una linea argomentativa tradizionale per i monofisiti, alla quale Rustico cerca di rispondere sostenendo la piena consonanza della dottrina calcedonese delle due nature con la riflessione teologica di Cirillo e ribadendone al contrario la distanza dalla divisione che Nestorio avrebbe indebitamente introdotto in Cristo considerandolo in due persone e non solo in due nature. a  La maggioranza dei monofisiti, in effetti, seguendo la dottrina di Severo di Antiochia, ammetteva la piena umanità di Cristo e la sua doppia consustanzialità a Dio e all’uomo, non ritenendo però di doverne trarre la conseguenza che vi fossero in Cristo due nature; Eutiche però si era mostrato assai riluttante ad ammettere la consustanzialità di Cristo con l’uomo ed anche in seguito all’interno del movimento monofisita si svilupparono dottrine che in qualche modo sembravano negare la piena umanità di Cristo: Giuliano di Alicarnasso, con il quale fra il 518 e il 527 Severo di Antiochia ebbe un’aspra controversia, sosteneva l’incorruttibilità della carne di Cristo fin dal concepimento ed ammetteva la consustanzialità di Cristo con l’umanità solo intendendola come un’umanità nella condizione precedente alla caduta (cf. Frend, The Rise of the Monophysite Movement, p. 253–254). La dottrina di Giuliano di Alicarnasso trovò comunque molti seguaci e nel 535 uno di essi, Gaiano, arrivò ad occupare, anche se per breve tempo, la sede patriarcale di Alessandria in concorrenza con Teodosio, seguace di Severo (Frend, The Rise of the Monophysite Movement, p. 270).

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per dimostrare che il Figlio, il Signore, Cristo, è uno, una sola persona, una sola sussistenzaa. Eretico: Lo ha fatto per dimostrare che il Figlio, il Signore, Cristo, è uno, una sola persona, una sola sussistenza, una sola natura composta. Rustico: Dunque, secondo te, la natura a causa della quale Maria viene chiamata solo ‘madre di Dio’ è soltanto Dio? Eretico: Non soltanto Dio, ma Dio incarnato. Rustico: Perché anche la madre non ha preso di conseguenza il nome da Dio e dalla carne che ha generato? Eretico: Perché la causa della carne è Dio, che, per la nostra salvezza, prese, come volle, ciò di cui servirsi per compiere ciò che voleva. Dunque anche la nascita e gli altri miracoli, le parole, la passione e tutto, per farla breve, deve essere attribuito, attraverso la carne, a Dio il Verbo, che per questo si è incarnato. Rustico: Allora tutto questo deve essere attribuito a Dio in modo tale da rifiutare assolutamente che abbia a che fare con l’umanitàb, oppure può essere riferito anche all’uomo o alla carne? Eretico: Tutte questo è da attribuire al solo Dio, non perché si sia aggiunto a lui in quanto puro Dio, ma in quanto incarnato. Rustico: Ma molti santi Padri hanno professato che ciò che è dell’umanità o della carne non deve essere separato da essa; e così ha fatto anche il beatissimo Cirillo nelle sue lettere ufficialic che il a  Nell’editio princeps si legge «una sola persona, una sola sostanza», ma il fatto che l’eretico risponda «una sola persona, una sola sussistenza, una sola natura composta» lascia pensare che egli si limiti ad aggiungere il suo «una sola natura composta» alla formula di Rustico; per questa ragione è opportuno correggere ‘sostanza’ (substantia) in ‘sussistenza’ (subsistentia); si potrebbe infatti trattare di un errore meccanico facilmente comprensibile e piuttosto comune. Del resto, ritornando più avanti sull’argomento, Rustico parla di: «un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore, una sola persona e una sola sussistenza» (1199C); d’altra parte, in 1174D Rustico afferma esplicitamente, rispondendo alla domanda dell’eretico, che ci sono in Cristo due sostanze; è quindi improbabile che qui attribuisca la professione di ‘una sola sostanza’ a Cirillo, mostrando di approvare l’espressione. Per un caso analogo cf. 1195A e nota. b  Il passo è piuttosto oscuro e ci sono probabilmente problemi testuali; la traduzione qui proposta è quindi tutt’altro che sicura. c  Durante tutto il corso dell’opera sia Rustico che il suo avversario faranno costante riferimento alle testimonianze patristiche, mostrando però di considerare come imprescindibili punti di riferimento per l’ortodossia solo quelle provenienti

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santo concilio di Efeso ha inserito, fra le testimonianze dei Padri, negli atti stessi, a sostegno della sua retta fede, stabilendo che certe caratteristiche proprie della carne devono essere attribuite, a causa dell’unione, alla persona di Dio il Verbo, in modo tale, tuttavia, da professare che sono proprie della carne. Eretico: Mostrami, se puoi, testimonianze che si accordino con quello che hai detto, salva soltanto la mia facoltà di presentarne in favore della mia dottrina quando sarà il momento. Ma prima, se puoi, spiega le cause per cui non si dovrebbe attribuire soltanto a Dio tutto ciò che è stato fatto per la salvezza umana tramite la carne, come abbiamo spiegato prima. Rustico: Perché non è vero e non è neanche giusto, anzi addirittura nuoce. Non è vero, perché neppure voi osate dire che qualcuna di queste cose abbia toccato soltanto Dio non incarnato e neppure in quanto Dio. Non è giusto poi dire che Dio in quanto carne è inferiore al Padre, né che è mortale, né che non era prima di Maria, né che ha preso l’inizio dell’esistenza da essa, né che tramite la morte Dio è stato diviso in due parti, cioè con il corpo e con l’anima, separatamente. Se infatti tutto ciò che è della carne lo attribuiamo insieme a lui in quanto incarnato, sia quello che è da scritti ufficiali, cioè accolti dai concili (qui si ricorda il concilio di Efeso del 431 che si era concluso con la condanna di Nestorio e che era riconosciuto sia dai calcedonesi che dai monofisiti). L’autorità del concilio sembra essere quindi il punto di riferimento più importante per l’ortodossia per entrambi i contendenti. L’argomento era all’epoca di grande importanza ed era stato approfonditamente trattato pochi anni prima da un altro importante difensore della dottrina calcedonese, Facondo di Ermiane; a suo avviso il concilio è l’unica autorità legittima in materia di fede, per cui dopo che su una questione si è pronunciato un concilio non è lecito a nessuno rimetterla in discussione; l’autorità del concilio è superiore ad ogni altra, anche a quella dei più illustri padri della Chiesa (cfr R. B. Eno, ‘Doctrinal Authority in the African Ecclesiology of the Sixth Century: Ferrandus and Facundus’, Révue des études Augustiniennes 22 (1976), p. 95–113). I concili non costituiscono comunque, secondo Rustico, l’unica garanzia dell’ufficialità di un testo e a questo proposito egli conferisce molta importanza anche all’autorità del vescovo di Roma; è ad esempio l’approvazione di papa Sisto alla Laetentur di Cirillo di Alessandria che conferisce carattere di ufficialità a questo testo cruciale (cf. 1176C e nota). Questa distinzione fra documenti ufficiali e lettere private non solo ribadisce l’autorità dei concili, ma permette a Rustico anche di considerare come punti di riferimento solo alcuni dei testi di Cirillo di Alessandria, cioè quelli più compatibili con la dottrina difisita calcedonese; cf. 1176B e nota.

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presente in quanto presente sia quello che è assente in quanto assente, risulterà che Dio il Verbo non è né uguale né consustanziale né senza differenza né coeterno con il Padre, né immutabile prima della risurrezione, ma dalla sostanza e dalla sussistenza della Vergine, che è diversa da quella del Padrea. Risulterà poi che è predicato uomo e carne e, di conseguenza, che la carne si è incarnata e che l’uomo si è inumanato. Se invece diciamo che, a sua volta, è della carne anche ciò che è del Verbo, siamo costretti a dire che l’uomo è consustanziale ed uguale a Dio e al Padre; Dio invece sarebbe inferiore rispetto al Padre. E da qui, inoltre, deriverebbe che la carne è migliore del Verbo e il Verbo, confrontato con la propria carne, è inferiore; anzi, poiché il Padre è più grande della carne e il Verbo inferiore, il Padre dunque sarebbe molto più grande rispetto al Verbo, anzi lo sarebbero anche gli stessi angeli. Potrei trarre anche molte altre conseguenze del genere, ma lascio alla tua intelligenza raccogliere l’infinita abbondanza e l’ampiezza di queste evidentissime assurdità, o meglio empietà. Eretico: Dunque niente di quello che è della carne è di Dio e neppure quello che è di Dio è della carne! E dove se ne sono andate le Sacre Scritture? Dove il santo concilio di Efeso, o piuttosto quello di Nicea? Dove, ugualmente, tutti gli scritti dell’illustrissimo Cirillo? Rustico: Ricorda, carissimo, che non ho detto che non dobbiamo dire assolutamente niente di ciò che è del Verbo a proposito della carne e neppure il contrario, ma che non lo si deve fare su tutto: dunque non mi calunniare. Ma torniamo al nostro argomento. Se dunque, come appare chiaro da quanto si è detto, è inutile e Si pone ancora il problema della terminologia teologica. Rustico sostiene infatti che se non si distinguono i caratteri propri di umanità e divinità, ma si confondono insieme, il Verbo non sarà consustanziale al Padre, ma della sostanza della Vergine; le parole «dalla sostanza e dalla sussistenza della Vergine» non sono di immediata comprensione; il senso del discorso di Rustico può essere chiarito, però, considerando un’analoga espressione che si legge più avanti nel corso dell’opera, in 1212A, dove si sostiene che il Figlio non è generato dalla sostanza del Padre, perché questa sarebbe la natura comune della Trinità, ma dalla sola sussistenza del Padre. Qui dunque Rustico potrebbe voler distinguere fra la natura umana (sostanza) della quale partecipa il Cristo e la sussistenza della Vergine dalla quale propriamente è stato generato. a 

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colpevole quest’uso indistinto di tutti i nomi, esso tuttavia richiede anche una pagina propria. Se infatti ci salviamo non solo credendo ma anche professando la nostra fedea, la nostra fede deve procedere anche dalle labbra così come è nell’animo o nel cuore, contraddistinta non da parole ma da concetti e definizioni; infatti quando si fa diversamente si tratta di frode e simulazione: e queste sono inevitabilmente colpevoli. Se dunque assolutamente il Verbo è eterno così come il Padre e la medesima parola di Dio è impassibile e immutabile, non è simile soltanto a parole, ma queste caratteristiche devono essere considerate le medesime di nome e di fatto. Si dice infatti che è immutabile ciò che non può essere diversamente. Ma, poiché è impossibile che questo avvenga,non si è mutato né ha sofferto né ha avuto inizio; infatti è una conclusione necessaria che si mutino le realtà soggette a mutamento, soffrano quelle soggette a sofferenza; similmente quindi ciò che soffre, in qualunque modo, in questo è soggetto a sofferenza e ciò che si muta è soggetto a mutamento e ciò che muore è soggetto alla morte e quello che cresce è soggetto all’accrescimento e tutte queste cose per il resto non conservano né l’impassibilità né l’immutabilità. Eretico: Me lo puoi dimostrare sulla base delle dichiarazioni dei santi Padri e soprattutto dai santi sinodi, cioè quelli che si riunirono a Nicea e a Efeso, e degli scritti dell’illustrissimo Cirillo? Rustico: Ovviamente le dimostrazioni ci sono. Se vuoi, comunque, fra poco si arriverà anche a questo. Intanto si devono dire ancora poche parole sul primo problema. Se dunque Adamo, vinto dal diavolo, ha portato la corruzione nel genere umano, era necessario che tramite un uomo il diavolo fosse a sua volta vinto, perché potessimo aver parte dell’incorruttibilità. Ma la nostra natura, in quanto debole e soggetta alla schiavitù, da sola non poteva farlo ed era necessario che fosse assunta dal Signore; d’altra parte non era certo giusto che questo avvenisse senza la nostra natura, né Dio lo ha voluto. Infatti aveva stabilito di superare il diavolo non con la violenza (altrimenti avrebbe potuto far questo senza l’umanità in qualunque modo), ma volle dare la vittoria all’uomo che prima era stato sconfitto, cosa che non sarebbe potuta avvenire in modo più a 

Cf. Rom. 10, 10.

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adeguatoa che tramite questa bellissima unione, sempre a patto che crediamo che in tanto grande mistero si sia compiuto quello che o era l’unica cosa che poteva avvenire o che non poteva verificarsi in modo migliore. Quello che, dunque, non si sarebbe potuto compiere senza Dio, ugualmente non si sarebbe dovuto eseguire senza l’uomo; né Dio lo ha voluto: e Dio non vuole che sia se non quello che deve essere; e perciò tutto ciò che è di questo genere non è lecito che si dica del solo Dio, come se egli stesso non fosse stato anche uomo. Dunque tutto questo deve essere professato come di una sola e medesima persona, Dio e uomo, o almeno qualcosa deve essere detto di Dio in modo tale da non negare tuttavia che sia detto anche dell’uomo. Dunque la bestemmia di Nestorio non consiste nel dire ‘madre di Cristo’, poiché è lo stesso che dire ‘madre di Dio e madre dell’uomo’, ma è eretico negare il titolo di Theotokos, dal momento che la Scrittura divinamente ispirata dice, e piuttosto spesso, madre di Gesùb e dalla quale nacque Gesù che è chiamato il Cristo (Matth. 1, 16). Inoltre, se è Dio colui che ella ha generato, è chiamata a buon diritto Theotokos, e, poiché è Cristo colui che è nato, è chiamata a buon diritto Christotokos. Ritengo piuttosto che qualunque ragione si dia di questo nome o sarà anche la medesima dell’altro o sarà più forte di quella dell’altro. Inoltre, se, pur essendo madre di Dio, non è madre di Cristo, Cristo – lungi da noi! – non sarà Dio, invertendo i termini. Se infatti colui che professa il titolo Christotokos e nega il Theotokos non chiama Cristo ‘Dio’, colui che professa il ‘madre di Dio’ e rifiuta il ‘madre di Cristo’ similmente nega che Cristo sia Dio. Inoltre professare il ‘madre di Cristo’ in sé è buono, ma negare il ‘madre di Dio’ non è pio, tanto che anche lo stesso Nestorio, che diceva ‘madre di Cristo’ e negava invece il ‘madre di Dio’, fu condannato, non per aver usato il primo titolo, ma per aver condannato il secondo. Inoltre, non tutto quello che gli eretici dicono è errato; quali siano però le Queste parole corrispondono all’inusitato decibilius usato da Rustico (cf. ThLL V, 162, 10–19); lo stesso avverbio viene usato al grado positivo in 1174B, nella traduzione di un passo cirilliano, e in 1214B. Sembra che oltre a Rustico questo avverbio o il corrispondende aggettivo, decibilis, siano usati solo da papa Gelasio e da Liberato di Cartagine. b  Cf. Ioh. 2, 1 e 19, 25; Act. 1, 14. a 

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colpe di Nestorio appare chiaro dalle confutazioni del beato Cirillo, che si trovano nelle sue lettere dirette a lui, lettere che il santissimo Celestinoa, papa della grande Roma, ha accolto come proprie. Eretico: Pur avendo davvero molto da eccepire su ciò che è stato detto prima, non voglio allungare il discorso; forse, infatti, sarebbe anche inutile e faticoso; ma chiedo che mi sia dimostrato sulla base delle testimonianze canonicheb solo se quello che toccò alla carne di Dio il Verbo, come dici, debba essere detto della sua umanità, come una volta, anticipandolo, hai sostenuto. Rustico: Hai ragione a chiederlo: l’ordine del ragionamento, infatti, lo esige e perciò sarà subito spiegato. Dalla lettera del santissimo Cirillo arcivescovo di Alessandria a Giovanni di santa memoria, arcivescovo della grande Antiochia, tramite la quale fu raggiunta una pace universale fra le sante Chiese di Dio: «Professiamo dunque il nostro Signore Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio, Dio perfetto e uomo perfetto costituito di anima razionale e corpo, generato prima dei secoli dal Padre secondo la divinità e poi negli ultimi tempi generato per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine secondo l’umanità, consustanziale al Padre secondo la divinità e consustanziale a noi secondo l’umanità. Si è realizzata infatti l’unione delle due nature, per cui professiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Dio. Secondo questo concetto dell’unità inconfusa, professiamo la santa vergine ‘madre di Dio’, poiché Dio il Verbo si è incarnato e inumanatoc e dal momento Celestino I (422–432) fu vescovo di Roma ai tempi della controversia nestoriana, quando si schierò a favore di Cirillo contro Nestorio; i suoi delegati intervennero al concilio di Efeso del 431, pronunciandosi per la condanna del patriarca di Costantinopoli (cf.  L. Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, Milano, 1974, p. 201–205 e 225–230). b  L’avversario di Rustico mostra qui di condividere l’opinione del suo interlocutore che si debbano prendere in considerazione solo i testi ufficiali (cf. 1171C e nota); più avanti farà però appello a lettere private di Cirillo mostrando di prestare fede più a queste che ai documenti ufficiali (cf. 1176A). c  L’aggiunta di ‘inumanato’ a ‘incarnato’ chiarisce che l’umanità di Cristo è completa e non limitata alla sola carne, per escludere l’interpretazione apollinarista dell’incarnazione (cf. 1235C e nota). Il verbo inhumanor e il corrispondente sostantivo inhumanatio venivano sentiti come grecismi inconsueti in latino (anche se sono ben attestati: cf. rispettivamente ThLL VII, 1, 1604, 52–1605, 8 e VII, 1, 1603, 31–63), ma più precisi dei corrispondenti incarno e incarnatio, come dice a 

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stesso del concepimento ha unito a sé il tempio che ha preso da lei. Per quanto riguarda invece le parole dei Vangeli e degli apostoli riguardo al Signore, sappiamo che i teologia hanno unito alcune parole come in un’unica persona, altre le hanno ripartite come in due nature, tramandandone alcune come convenienti a Dio secondo la divinità di Cristo, altre invece umili secondo la sua umanità. Accostandocib alle vostre sante parole e trovando che anche noi pensiamo allo stesso modo (uno solo è infatti il Signore, una sola la fede, uno solo il battesimo (Eph. 4, 5), abbiamo glorificato Dio Salvatore di tutti, rallegrandoci reciprocamente perché le Chiese che sono presso di noi e quelle che sono presso di voi possiedono la fede in accordo con le Scritture divinamente ispirate e con la tradizione dei nostri santi Padri»c. Parole del tutto analoghe, poi, si trovano anche nella sua lettera a Nestorio, dalla quale trarremo più avanti come testimonianza quello che riguarda questo stesso punto, poiché è collegato ai concetti prima introdotti; ora invece concluderò il discorso. Poiché dunque ci calunniate come se, dicendo che sono due le nature del nostro Signore Gesù Cristo e, per necessaria conseguenza, introducendo il titolo di ‘madre di Dio e madre dell’uomo’, introducessimo una dottrina eretica, sono stato esplicitamente Facondo di Ermiane: «un libro sull’incarnazione – o, per essere più precisi, con un termine meno latino ma necessario, sull’inumanazione, come dicono i greci […] Infatti non evito una parola richiestami dalla regola e dall’utilità della fede contro coloro che dicono che il Figlio di Dio non ha assunto tutto l’uomo, cioè carne e anima razionale, ma solo la carne e l’anima senza ragione» (Defensio 9, 3, 41–42). a  In latino si legge deiloquos, con cui Rustico traduce il greco theologous (cf. Introduzione, p. 36). b  Adeuntes in latino; si tratta di un calco del greco entychontes; questa scelta nella traduzione non è esclusiva di Rustico (si trova, infatti, ad esempio, anche nella Vulgata; cf. ThLL 1, 621, 13), ma si tratta in qualche misura di una forzatura del latino dovuta alla volontà di realizzare una traduzione molto letterale; questo verbo infatti di solito non viene usato in latino in questo senso. In seguito, infatti, nella sua traduzione degli Atti di Efeso (ACO 2, 3, 1, 88, 13), Rustico preferì esprimersi in modo più piano; cf.  Petri, ‘Il diacono Rustico, traduttore e teologo’, p. 184. c  Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, 5–6 in ACO 1, 1, 4, p. 17, 9–25. La traduzione latina di Rustico si legge in ACO 1, 3, p. 188, 27–189, 13. Si tratta dell’epistola nota come Laetentur, che fu un punto di riferimento fondamentale per le controversie cristologiche (cf. 1176A e nota).

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costretto a dimostrare che non è eretico neppure quello che ne consegue; e questo, per grazia di Dio, l’ho fatto come conviene. Eretico: Dunque quante sono le sostanze di Cristo uno? Rustico: Due. Eretico: Perché? Rustico: Perché Cristo è consustanziale a due nature integre, cioè perfette. Eretico: Dunque ci sono due o certo molti cristi, o molte persone, perché Cristo è consustanziale a molte persone. Rustico: Ma a ciò che è consustanziale deve sempre essere in rapporto o corrispondere o pareggiarsi il numero delle nature, ma non corrisponde anche in modo analogo il numero delle persone: infatti Dio Padre è consustanziale a due persone, ma le due persone non sono il Padre; e lo stesso vale anche per il Figlio e lo Spirito Santo. Ciascuno di noi, inoltre, è una sola persona, eppure è consustanziale a innumerevoli persone. Eretico: Ma il fatto che Cristo sia consustanziale a due nature non fa sì che ci siano due nature: infatti non tutte le cose sono uguali, riguardo al numero, a quelle ad esse consustanziali; altrimenti mostrami qualcosa che abbia tante nature quante ne hanno quelle che gli sono consustanziali, che è la cosa che si deve dimostrare. Rustico: Io e te, o qualunque uomo o qualunque angelo siamo sia di una sola natura sia consustanziali ad una sola natura; ed analogamente qualunque essere vivente individuale. Eretico: Ma tu devi portare il caso di uno solo consustanziale a molte nature. Rustico: Se ci fosse una qualunque realtà consustanziale a due nature perfette o a più, questa, in ogni modo, eguaglierebbe nel numero quelle consustanziali alle sue nature, perché non sarebbe una sola: molte realtà eguagliano il numero di molte cose. Da questo si dimostra chiaramente che anche Cristo eguaglia indubbiamente con il numero delle sue nature le nature consustanziali; se poi ogni altra cosa è consustanziale a ciascuna natura ed è di una sola natura, questo non inficia la spiegazione; nondimeno, infatti, ogni cosa eguaglia in numero (o meglio in quantità) ciò che è consustanziale alla sua natura: infatti non ha proprio nulla di meno rispetto alla quantità naturale delle cose che le sono

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consustanziali; e questo non accade perché non ci sia niente che sia minore di uno secondo la quantità. Poiché dunque Cristo è consustanziale a ciò che è nelle sue due nature, cioè è consustanziale sia al Padre che a noi, e tutto ciò che è consustanziale eguaglia la quantità naturale di quanto gli è consustanziale, Cristo eguaglia la quantità naturale delle cose che gli sono consustanziali; ma delle cose consustanziali a Cristo due sono le nature e dunque ci sono analogamente due nature o sostanze di Cristo. Questo, d’altra parte, è possibile dimostrarlo dal nome stesso di sostanza: si dice infatti che Cristo è consustanziale tanto al Padre quanto anche a noi, compersonale invece né a lui né a noi. Come, dunque, se fosse compersonale tanto al Padre e allo Spirito Santo quanto anche a noi non sarebbe certo una sola la sua persona ma di più, così, poiché è consustanziale sia a loro che a noi, la sua natura non è una sola, ma due, a meno che Cristo non sia piuttosto consustanziale alle persone e non alle nature; ma certamente non è compersonale ad essi, bensì consustanziale. Ma cosa significa consustanziale, se non ‘della medesima natura in tutto’? Dunque, chi insiste che ciò che è di nature diverse non è consustanziale alle nature ma alle persone, discute non con la ragione, ma con vuote parole. Dunque possiamo riassumere così il discorso: se Cristo è consustanziale alle persone delle due nature, o certo se Cristo è consustanziale alle persone che sono nelle due nature, se poi ogni consustanziale è in tante nature in quante è qualunque cosa sia a esso consustanziale, Cristo allora è in due nature: tante sono infatti quelle che gli sono consustanziali. Eretico: Il nostro santissimo e beatissimo padre Cirillo nell’epistola a Giovanni ha detto «consustanziale a noi secondo l’umanità» perché richiesto dalla situazione e per condiscendenza, per la pacea; altrimenti, se lo vuoi negare, mostra altre sue testimonianze La ricostruzione della vicenda qui fornita dall’avversario di Rustico è in effetti probabilmente quella più vicina alla realtà storica: questa lettera di Cirillo di Alessandria a Giovanni di Antiochia, comunemente indicata come Laetentur, dal versetto citato nell’apertura della lettera (Ps. 96, 11), fu scritta in occasione della riconciliazione fra i patriarcati di Alessandria e Antiochia, avvenuta nel 433, grazie anche alle pressioni esercitate dall’imperatore, dopo la violenta rottura seguita al concilio di Efeso del 431. Gli antiocheni accettarono la deposizione di Nestorio, a 

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dove dica che Cristo nella natura dell’umanità è del tutto simile a noi. Rustico: Dunque fra ciò che è richiesto dalla situazione e la doppiezza non c’è alcuna differenzaa; e una medesima cosa, in sé medesima, sarà insieme un bene e un male. Se invece sono diverse, dimostra questo: se esulta soltanto per condiscendenza, come avrebbe potuto esultare di più colui che non rinuncia a nulla e vince? Ti prego di leggere l’inizio stesso di quella stessa lettera e cessa di resistere alla verità; infatti distruggerà subito tutto il tuo sospetto. La condiscendenza infatti non porta una gioia perfetta, dal momento che non si verifica propriamente per quello che soprattutto è ricercato, ma per la fragilità dei deboli. Eretico: Abbiamo delle raccolte di lettere privateb di quel santissimo Padre nelle quali indica che ha scritto per condiscendenza agli orientali, per la pace. ma Cirillo dovette rinunciare alla formulazione più estrema della sua dottrina cristologica (Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, p.  246–262; Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, Brescia, 1982, p.  897–901). La Laetentur in seguito fu usata dai teologi calcedonesi per dimostrare l’accordo di Cirillo con la cristologia difisita (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 898–901); per i monofisiti, invece, questa lettera sarebbe da interpretare solo come una concessione agli antiocheni, un sacrificio necessario per ricostituire l’unità della Chiesa (cf. Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 266–267). La Laetentur si legge in ACO 1, 1, 4, p. 17–19. a  Rustico accusa il suo avversario di presentare una versione dei fatti dalla quale emergerebbe un comportamento moralmente discutibile da parte di Cirillo, per poter sostenere che nella Laetentur il patriarca alessandrino ha invece espresso il suo vero pensiero. La discussione sulla sincerità di Cirillo nelle formulazioni più moderate del suo pensiero ritornerà anche più avanti, in 1194D–1195A. b  In una sua annotazione agli atti del concilio di Calcedonia Rustico ricorda alcune lettere di Cirillo come frequentemente usate dagli Acefali a sostegno della loro posizione («nota le lettere di cui fino ad oggi abusano gli Acefali, cioè quelle ad Acacio, a Valeriano, a Succenso» ACO 2, 3, 1, p. 92 in apparato). È possibile che anche qui egli intenda fare riferimento proprio a questi testi. A questo proposito la prudenza con cui Rustico qui tratta la delicata questione di quei testi cirilliani che sembravano più vicini alla posizione dei monofisiti contrasta con l’atteggiamento più critico rivelato nel Synodicon, dove osserva che, se alcuni testi dei teologi antiocheni, anche successivi all’accordo del 433, potevano apparire sospetti di nestorianesimo, così in alcune lettere di Cirillo, anche successive alla Laetentur, si possono trovare proposizioni vicine a quelle di Eutiche: «Poiché poi alcuni degli orientali vengono ritenuti colpevoli di aver sospettato o di aver scritto apertamente riguardo a questa pace diversamente da come avrebbero dovuto, esaminiamo anche le lettere

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Rustico: In primo luogo è molto dubbio che si possa dimostrare che sono sue; perché, se anche sono sue, da dove si può avere la certezza che tali passi non siano dei falsi, quando certo, fin dal principio, essendo stati presentati da Eutiche, sono stati accusati da molti come falsi? O se anche non sono falsi, su che base si può avere la certezza che non sia piuttosto quello di cui tu parli ad essere stato detto soprattutto perché richiesto dalla situazione e per condiscendenza, dal momento che egli sapeva che la Chiesa di Dio non guarda ai testi non ufficiali, né agli scritti personali, né a quanto viene fatto per un singolo e privato, ma a quello che è scritto ai sinodi o dai sinodi in modo ufficiale, pubblico e definitivo riguardo a quello che viene messo in discussione? Ma è evidente che è così perché, trasmettendo alla Chiesa di Roma queste lettere, cioè le sue e quelle degli orientali sulla pace, si preoccupò che fossero confermate dal santissimo Sistoa; invece, di quelle di cui voi parlate non rese noto niente alla prima sede apostolicab. dell’arcivescovo Cirillo inviate a diversi corrispondenti dopo la pace […] e vedremo, penso, che nessuno potrebbe sospettare di posizioni filo-nestoriane una parte (quella, cioè, che condivideva la posizione di Teodoreto) senza accusare l’altra di simpatie per la dottrina di Eutiche» (Synodicon 171a; ACO 1, 4, p. 118, 9–14). Subito dopo Rustico cita la lettera di Cirillo ad Acacio di Melitene, per cui evidentemente è questo uno dei testi che gli appaiono più sospetti. Analoghe critiche sono avanzate anche a proposito della lettera a Succenso, a proposito della quale, sempre nel Synodicon, Rustico scrive: «tuttavia, di tutti gli scritti di questo genere dove si parla di una sola natura che verrebbe da due, dico in generale che ho potuto mostrare molte espressioni non formulate con assoluta precisione» (Synodicon 305a; ACO 1, 4, p. 236, 24–27). a  Si tratta di papa Sisto III (432–440); dopo l’accordo del 433 sia Giovanni di Antiochia che Cirillo di Alessandria gli scrissero per comunicargli che la pace era stata ricostituita e Sisto rispose esprimendo la sua gioia per l’avvenuta riconciliazione (cf. Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, p. 261–262). b  Per sostenere l’ufficialità dell’epistola di Cirillo a Giovanni di Antiochia Rustico non può far ricorso all’autorità di un concilio; per questo egli fa appello all’autorità del vescovo di Roma; il suo interlocutore non fa obiezioni, mostrando così di riconoscere la superiore autorità della sede romana. Ovviamente Rustico, diacono romano, ha un’alta considerazione dell’importanza della chiesa di Roma, anche se non insiste molto su questo punto nella sua opera; si veda però la sua orgogliosa affermazione nel prologo: «Ricorda che sei un cristiano e un diacono, e per giunta della Chiesa più grande di tutto il mondo» (1170A); inoltre, in 1223D Rustico sembra porre l’autorità del vescovo di Roma appena un gradino più in basso rispetto a quella del concilio.

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1176C

Disputa, 1176B–1177A

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Eretico: Dunque Sisto confermò le epistole di unione e la loro formula di fede? Rustico: Non solo le confermò per iscritto, e con molta gioia, ma oltre a questo aggiunse, rispondendo a Cirillo di santa memoria: «Non pensò mai in modo simile a Nestorio, ma fin dal principio il nostro santissimo fratello Giovanni è stato ortodosso, anche se in precedenza ha sospeso il suo giudizio tanto da non condannare con noi Nestorio». Ma aggiunse: «Abbiamo fatto bene a non definire niente prematuramente contro di lui: risplende infatti la vendemmia delle nostre gioie»a e moltissime espressioni del genere. Ma, se vuoi, citeremo anche le parole stesse. Eretico: Bisogna certo che si faccia anche questo; tuttavia se hai la dimostrazione che anche in altri discorsi abbia detto ufficialmente qualcosa del genere, mostralo; altrimenti è chiaro che lo ha detto per condiscendenza, per guadagnare gli orientali. Rustico: Purché rimanga salvo per me ciò che si è detto prima, si faccia anche questob. Dagli atti del concilio dei santi padri che si riunirono a Efeso, testimonianza del santo Atanasio: «Non è un’apparenza la nostra salvezza e non è stata realizzata la salvezza del solo corpo, ma veramente dell’uomo intero; ciò che, secondo le Scritture divine, è da Maria era dunque umano per natura e veramente del Salvatore»c. Testimonianza del santo Sisto di Roma, Ep. 5, A Cirillo di Alessandria, in ACO 1, 2, p. 107, 31–33; 108, 3–4. b  Rustico non può soddisfare la richiesta del suo interlocutore, perché in effetti non risulta che Cirillo si sia espresso altrove in questi termini; Rustico comunque può dimostrare che concetti e termini analoghi erano presenti in molte testimonianze patristiche citate dal concilio di Efeso, al quale Cirillo aveva partecipato. Dunque Rustico può dimostrare che, anche se Cirillo non ha presonalmente usato certe espressioni, non ha trovato in esse niente di erroneo, poiché non le ha biasimate nei testi di altri Padri. c  Atanasio di Alessandria, Ep. ad Epictetum 7, in ACO 1, 1, 2, p. 40, 28– 31; traduzione di Rustico in ACO 1, 3, p. 69, 17–20. La lettera ad Epitteto, vescovo di Corinto, fu scritta da Atanasio di Alessandria intorno al 371; in essa trovano ampio spazio temi relativi all’incarnazione. Epitteto infatti, strenuo avversario dell’arianesimo, aveva chiesto il parere del vescovo di Alessandria su alcune dottrine che si stavano propagando nella sua diocesi, dove c’erano sia gruppi che distinguevano in modo troppo netto divinità e umanità in Cristo, sia dei seguaci di Apollinare (cf.  1215B e nota) che sembravano giungere alla negazione della realtà dell’umanità del Verbo incarnato. Atanasio dunque confuta entrembe queste deviazioni a 

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Contro gli Acefali

Teofiloa, dal medesimo concilio: «Non venne a noi prendendo un corpo come di una preziosa materia celeste, ma nel fango mostrò la grandezza della sua arte, raddrizzando l’uomo plasmato dal fango, procedendo egli stesso dalla Vergine come uomo di straordinario onore e cambiando sì il modo della generazione, ma ritenendo che non dovesse essere fuggita la somiglianza con prendendo come punto di partenza la dottrina nicena e facendo notare tutte le possibili connessioni di queste interpretazioni erronee dell’incarnazione con l’arianesimo (cf. É. Moutsoulas, La lettre d’Athanase d’Alexandrie à Épictète, in Ch. Kannengiesser (ed.), Politique et Théologie chez Athanase d’Alexandrie, actes du colloque de Chantilly 23–25 septembre 1973, Paris, 1974, p. 313–333; Ch. Kannengiesser, ‘La date de l’Apologie d’Athanase “Contre les païens” et “Sur l’incarnation du Verbe”’, Recherches de Science Religieuse 58 (1970), p. 383–428, in particolare le p. 418–422). Proprio l’argomento della lettera spiega perché essa abbia acquisito una certa rilevanza nel nuovo contesto delle dispute cristologiche del V secolo; in effetti proprio questo testo fu usato come punto di partenza per costruire l’accordo fra Antiochia ed Alessandria dopo la rottura seguita al concilio di Efeso del 431. L’importanza di questo scritto e l’autorevolezza del suo autore fecero sì che il testo fosse però alterato per conciliarlo con le opposte interpretazioni della dottrina dell’incarnazione; nella Laetentur in particolare Cirillo lamenta che gli antiocheni abbiano una versione interpolata della lettera che sembrerebbe contrastare la sua cristologia (questo passo è citato più avanti da Rustico); ad Alessandria invece, a suo dire, si sarebbe conservata la versione autentica, perfettamente in accordo con la sua dottrina dell’incarnazione; è difficile però dire a quale forma del testo si riferisse Cirillo ed è probabile che la versione degli antiocheni fosse quella autentica anziché un falso filo-nestoriano, mentre egli forse disponeva di una versione falsificata di tendenza apollinarista; a questo proposito cf. Moutsoulas, La lettre d’Athanase d’Alexandrie à Épictète, p. 314–319. a  Si tratta di Teofilo di Alessandria (385–412), zio e predecessore di Cirillo; è noto soprattutto per la sua dura lotta contro gli origenisti e per aver fatto condannare ed esiliare Giovanni Crisostomo con l’accusa di aver loro offerto protezione. Anche Cirillo, allora giovane lettore, partecipò al sinodo della Quercia che nel 403 condannò il patriarca di Costantinopoli (cf. Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, p.  97–100). È interessante notare, a questo proposito, che Facondo di Ermiane, cercando di ridimensionare la figura di Cirillo, oggetto di venerazione quasi eccessiva da parte dei monofisiti, osserva che anch’egli ha commesso degli errori, sia pure in buona fede, come appunto la condanna di Giovanni Crisostomo (Defensio 4, 1, 4–13), e riporta passi di Gennadio di Costantinopoli e di Isidoro di Pelusio che stigmatizzano il comportamento di Cirillo e di Teofilo (Defensio 2, 4, 1–15). Rustico invece non accoglie questa linea argomentativa, ma cita Teofilo accanto ad Atanasio ed Ambrogio e nel corso dell’opera evita di muovere qualunque accusa a Cirillo, mostrando al contrario di considerare il rispetto per la figura e la dottrina del patriarca alessandrino un elemento comune a calcedonesi e monofisiti.

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noi in tutto tranne che nel peccato»a . Dal medesimo concilio, testimonianza del santo Ambrogio: «Tacciano dunque le vane questioni sulle parole, perché il regno di Dio, come è scritto, non è nella persuasione della parola umana, ma nella dimostrazione della potenza (I Cor. 2, 4). Conserviamo la differenza della divinità e della carne: uno solo in entrambe parla il Figlio di Dio, poiché nel medesimo è l’una e l’altra natura; è il medesimo che parla, ma non parla sempre in un solo modo. Osserva in lui ora la gloria di Dio, ora invece le passioni dell’uomo, poiché come Dio insegna ciò che è divino, perché è il Verbo, come uomo invece insegna ciò che è umano, perché parlava nella mia sostanza»b. Eretico: Se non è una sola e la medesima natura, Dio e carne, secondo l’unione, una natura di Cristo sarà Dio, l’altra invece uomo soltanto; ma quella natura una secondo la quale è Dio non è consustanziale a noi; Dio dunque non è consustanziale a noi. Se dunque Cristo è consustanziale a noi e Dio non è consustanziale a noi, allora (lungi da noi!) Cristo non è Dio. Rustico: E’ il suo stesso inganno che serra l’uomo in un baratro come questo, in modo che resti legato nei propri lacci. Se infatti è secondo l’umanità di Cristo che Cristo è uomo, ma essa non è consustanziale al Padre, l’uomo allora non è consustanziale al Padre. Se dunque Cristo è consustanziale al Padre, ma invece l’uomo non è consustanziale al Padre, Cristo allora non è uomo. In più, se questo sillogismo è veritiero, analogamente anche noi ne trarremo la stessa conclusione riguardo a Dio: se infatti la sostanza della divinità di Cristo, quella secondo la quale certamente è Dio, non è consustanziale a noi, Dio allora non è consustanziale a noi. Se dunque Cristo è consustanziale e Dio non è consustanziale a noi, ne conseguirà la stessa conclusione assurda di cui si è detto prima, secondo la quale si dice che Cristo non è Dio. Dunque secondo i vostri vani discorsi o la natura della divinità di Cristo sarà Teofilo di Alessandria, Ep. 6, in ACO 1, 1, 2, p. 41, 28–42, 3; traduzione di Rustico in ACO 1, 3, p. 70, 18–22. b  Ambrogio di Milano, De fide 2, 9, 77; il testo qui riportato non è però quello originale di Ambrogio, ma una retroversione dal testo greco riportato negli atti del concilio di Efeso. Cf. ACO 1, 1, 2, p. 42, 27–43, 4; traduzione di Rustico in ACO 1, 3, p. 71, 16–21. a 

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consustanziale a noi, o Cristo (lungi da noi!) non sarà Dio; o viceversa, l’umanità di Cristo sarà consustanziale al Padre o Cristo (lungi da noi!) non sarà uomo. In questo modo, quindi, non si è concluso nulla. Eretico: Se sono due le nature di Cristo, ciascuna di esse sarà quello che è e nient’altro; per questo l’umanità sarà solo umanità e non anche Dio, ma d’altra parte Dio sarà soltanto Dio e non uomo: Cristo sarà dunque puramente Dio, puramente uomo. Rustico: Non è lo stesso, o calunniatore, essere ‘soltanto’ qualcosa ed essere ‘puramente’ qualcosa. La tua anima, infatti, è soltanto anima e nient’altro, ma è tuttavia incarnata e non è nuda del corpo e il tuo corpo è soltanto corpo, ma tuttavia è anche dotato di anima. Se invece l’umanità non fosse solo umanità, ma anche divinità, e la divinità non solo divinità, ma anche umanità, allora questa divinità e umanità si sarebbe inumanata e questa divinità e umanità avrebbe unito a sé divinità e umanità; e in base a queste premesse l’umanità si sarebbe dunque inumanata e si sarebbe unita a Dio la divinità. Eretico: Se una natura di Cristo è Dio, l’altra invece uomo, ma l’una non è la medesima cosa dell’altra, dunque non è la medesima cosa neppure Dio e uomo: dunque, secondo voi, Cristo come può essere uno? Rustico: E’ stata smascherata la tua astuzia: «la medesima cosa» infatti o indica la persona o la natura. Dunque diciamo che Cristo è il medesimo, Dio e uomo, ma non la medesima cosa per natura: uno è dunque Cristo, non una sola cosa, come diciamo quando ci esprimiamo semplicemente; ma una sola cosa nella persona non significa semplicemente una sola cosa: dunque è certo uno solo, non una sola cosa; e una cosa e un’altra cosa, non uno e un altro, lungi da noi! Eretico: Io non vedo in alcun modo come questo possa darsi: infatti tutto quello che è altra cosa è anche un altro. Rustico: Io certo sono un altro rispetto a te, ma non un’altra cosa; secondo una sola cosa infatti tu sei uomo e io sono uomo; la mia anima invece rispetto al tuo corpo è altra cosa e così la tua anima rispetto al mio corpo; e si capisce che la mia anima nel mio corpo e la tua nel tuo sono una qualche altra cosa, in

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qualunque modo esse siano confrontate l’una con l’altra. ‘Altro’ infatti si accorda meglio alla differenza delle persone, ‘una cosa e un’altra cosa’a, invece, a quella delle nature; e infatti se la tua anima si confronta con il tuo corpo non è un altro uomo, ma un’altra cosa. Eretico: Tuttavia, si dice in modo assolutamente corretto anche che è ‘un altro’. Chi è infatti, presso l’Apostolo, l’uomo esteriore che si corrompe e l’interiore che si rinnova (II Cor. 4, 16)b? Dunque ogni ‘altra cosa’ è anche ‘altro’ e ugualmente ogni ‘altro’ è ‘altra cosa’c. Infatti anche io rispetto a un angelo sono un altro ma anche un’altra cosa, ed egli rispetto a me è insieme un altro e un’altra cosa; e chiunque troverà che è così, enumerando uno ad uno tutti i casi. Rustico: Ricerchiamo se sia vero quello che hai detto, se ti sembra opportuno, a partire da quanto si trova in rapporto reciproco, perché questo ‘uno’ si trova rispetto a questa ‘una cosa’ nello stesso rapporto in cui questo ‘un altro’ si trova rispetto a questa ‘altra cosa’ (fra due o più di due)d; e questo ‘uno’ è in rapporto con questo ‘un Si cerca di rendere così la distinzione che in latino è fra maschile e neutro. Nel linguaggio teologico dell’epoca infatti era ormai invalso l’uso del maschile in riferimento alla persona e del neutro in riferimento alla natura; questo tipo di terminologia fu estesa dall’ambito trinitario a quello cristologico da Gregorio di Nazianzo nella sua celebre epistola 101 a Cledonio, più volte citata anche da Rustico (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 697–698). b  Questo passo paolino è citato nell’epistola di Gregorio di Nazianzo a Cledonio che sarà oggetto di approfondita discussione più avanti (cf. 1199C–1202D). c  Alla base della dottrina monofisita c’era infatti la convinzione che non potesse darsi natura senza persona: si doveva professare quindi una sola natura se non si voleva dividere Cristo in due persone; questo punto fu messo in luce con grande precisione da Boezio: «Il suo (di Eutiche) errore deriva dalla medesima fonte di quello di Nestorio. Infatti, Nestorio ritiene che non ci possa essere una natura duplice senza che diventi duplice anche la persona e perciò ha creduto, professando una duplice natura in Cristo, che ci fossero due persone; allo stesso modo anche Eutiche ha pensato che la natura non potesse essere duplice senza raddoppiare la persona e, non volendo professare una duplice persona, ritenne di conseguenza che ci fosse una sola natura» (Contra Eutychen et Nestorium 5). Per i rapporti fra la teologia di Rustico e la riflessione boeziana cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 123–143. d  Rustico distingue fra alter che in latino significa ‘altro fra due’ e alius, che invece significa ‘altro fra molti’; la traduzione cerca di conservare in qualche modo questa precisazione, considerando che l’autore probabilmente qui intende a 

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altro’, come ‘una cosa’ a ‘un’altra cosa’. Se dunque ‘una cosa’ non sempre è lo stesso che ‘uno’, anche ‘altra cosa’ non sarà sempre ‘un altro’ e viceversa non ogni ‘uno’ è anche ‘una cosa’ e neppure ogni ‘una cosa’ è anche ‘uno’. La conclusione sarà la stessa anche partendo ciò che è ‘un altro’ e da ciò che è ‘altra cosa’. Del resto il Signore nel Vangelo ha fatto tutte queste distinzioni dicendo Io e il Padre siamo una cosa sola (Ioh. 10, 30), e non dicendo mai siamo «uno», ma piuttosto, al contrario, ha detto una sola cosaa. Se io rendo una testimonianza su me stesso, la mia testimonianza non è vera: è un altro che testimonia su di me e so che la testimonianza presentata su di me è vera (Ioh. 5, 31–32). E chi fosse costui lo ha aggiunto dopo dicendo: Il Padre che mi ha mandato, egli presenta testimonianza su di me (Ioh. 5, 37). E dello Spirito Santo dice: Se mi amate, osservate i miei precetti ed io chiederò a mio Padre e vi manderà un altro Paraclito, perché rimanga con voi in eterno, lo Spirito di verità (Ioh. 14, 15–17). Non disse: «un’altra cosa, lo Spirito di consolazione», ma un altro Paraclito. Eretico: Questo riguarda solo il fatto che Padre e Figlio sono una cosa sola e che uno è il Padre e un altro è il Figlio, non il fatto che non sia uno, né che non sia una cosa e un’altra. Mentre dunque ci sono quattro questioni, ne hai dimostrate solo due, cioè che Padre e Figlio sono una cosa sola e che il Padre è un altro rispetto semplicemente sostenere che il suo ragionamento resta valido sia se si parla di ‘un’altra cosa’ fra due che se si parla di ‘un’altra cosa’ all’interno di un insieme più vasto. a  Ioh. 10, 30 è un versetto molto importante per la teologia trinitaria: era infatti considerato un punto di riferimento fondamentale per l’individuazione dei livelli di unità e distinzione nella Trinità. Già Tertulliano, ad esempio, aveva citato il passo per confutare l’eresia sabelliana (cf. 1215A e nota): «sono davvero ciechi quelli che non vedono che all’inizio Io e il Padre indica che sono due e che poi alla fine siamo non si può riferire alla persona di uno solo, poiché è detto al plurale…» (Adv. Praxean 22); in seguito, a questa interpretazione si aggiunse la confutazione dell’arianesimo; così ad esempio commenta il passo Agostino: «ascolta il Figlio stesso: Io e il Padre siamo una sola cosa. Non ha detto: Io sono il Padre; o: Io e il padre siamo uno solo; ma quando ha detto Io e il Padre siamo una sola cosa … in codeste due parole, per il fatto di aver detto una sola cosa ti libera da Ario, per aver detto siamo ti libera da Sabellio» (In Ioh. Ev. tr. 36, 9). La caduta di una parte del testo non permette di stabilire se anche qui Rustico commentasse entrambi gli aspetti del versetto, cioè la presenza di unum e non unus e la presenza del plurale sumus, come fa quando più avanti, in 1221B–C, riprende il versetto: «Ha detto una sola cosa e siamo, perché una sola cosa si attribuisca alla natura, siamo invece alle persone».

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al Figlio e allo Spirito Santo. È rimasto dunque non dimostrato che non sia altra cosa il Padre e altra cosa il Figlio e che il Padre non sia lo stesso che il Figlio. Dunque devi dimostrare piuttosto questo con le testimonianze, soprattutto perché si dice che Padre e Figlio sono uno solo; uno solo infatti è Dio. Rustico: Anche se quanto detto prima ha già dimostrato quello che chiedi, perché ciò che è una cosa non è altra cosa e chi è un altro non è uno solo e il medesimo, tuttavia sarà dimostrato anche che lo stesso Dio è Padre e Figlio e Spirito Santo, ma con l’aggiunta del nome di Dio. Nel caso in cui invece venga eliminato da chi parla il nome ‘Dio’, non si può più dire semplicemente che lo stesso è Padre, Figlio e Spirito Santo. Disse infatti: Io non ho parlato da me stesso, ma colui che mi ha mandato, il Padre, mi ha comandato cosa dire e come parlare (Ioh. 12, 49). Ecco, il Padre non è lo stesso che il Figlio: se infatti lo fosse, parlerebbe, di conseguenza, da se stesso. Prima inoltre aveva detto: Chi crede in me non crede in me, ma in colui che mi ha mandato (Ioh. 12, 44); e ancora molto prima: Se io glorifico me stesso la mia gloria è nulla: il Padre mio è colui che mi glorifica, colui del quale voi dite " è il nostro Dio" e non lo avete conosciuto; io invece lo conosco e se dirò che non lo conosco sarò menzognero come voi, ma lo conosco e custodisco la sua parola (Ioh. 8, 54–55). Ed ancora ai Farisei che gli dicevano che la sua testimonianza non era vera, affermando che rendeva testimonianza a se stesso, rispose dicendo: Il mio giudizio è giusto, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. E nella vostra legge è scritto che la testimonianza di due uomini si deve tenere per vera. Sono io che rendo testimonianza su me stesso e mi rende testimonianza il Padre che mi ha mandato (Ioh. 8, 16–18). Dunque da ciò che si è detto è chiaro anche quello che è stato richiesto, cioè che Padre e Figlio non sono una cosa e un’altra cosa (anche se si dice ‘una cosa e un’altra cosa nella persona’); sono due infatti, ma non una cosa e un’altra cosa semplicemente e assolutamente. Se infatti è un altro, non è uno solo e il medesimo, come è stato dimostrato, e un’altra cosa non è una sola e la medesima; quindi, viceversa, anche ciò che è una cosa non è un’altra cosa. Poiché dunque Padre e Figlio sono una cosa sola, non sono un’altra cosa. Quindi Padre, Figlio e Spirito Santo sono, sì, una cosa sola, perché una sola è la loro natura, ma

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non sono uno, perché sono tre persone. Ma ancora, testimoniando con voce chiara, dico semplicemente ‘uno’ e semplicemente ‘una sola cosa’ e diciamo semplicemente ‘non uno solo ma un altro’ e semplicemente ‘non una cosa sola, ma un’altra cosa’, infatti, raccogliendo i termini, si dice sia ‘altra cosa nella persona’, sia ‘Dio Padre non è un altro rispetto al Figlio’. Vedi dunque che noi abbiamo detto che il Signore Cristo, che si è degnato di unire a sé un’altra natura rispetto a quella comune, è uno, perché è una sola la persona, ma non una sola cosa, perché non è una sola la natura. Intendi che noi, quindi, ogni volta che abbiamo detto ‘uno’ e ‘una sola cosa’ e ‘altra cosa’ e ‘un altro’, lo abbiamo detto in questo senso. Questo stesso modo di esprimersi è stato usato e confermato dal concilio di Efeso, anche con citazioni di santi Padri, a condanna delle bestemmie di Nestorio e a dimostrazione della propria fede. Anzi il concilio distrusse proprio tramite queste parole le opinioni teologiche contrarie e confermò le proprie, citando questo passo dagli scritti del beato Gregorio di Nazianzo: «Certo, una cosa e un’altra dalle quali il Salvatore, dal momento che ciò che è invisibile non è la medesima cosa di ciò che è visibile e ciò che è senza tempo di ciò che è nel tempo, ma non ‘uno e un altro’, lungi da noi; entrambe infatti sono una cosa sola per mescolanza, Dio fatto uomo e uomo fatto Dio, o comunque si voglia chiamarlo. Ma dico ‘una cosa e un’altra’, al contrario di quanto avviene nella Trinità: nella Trinità infatti ‘uno e un altro’ perché non confondiamo le sussistenze, ma non ‘una cosa e un’altra’. Le tre infatti sono una sola cosa, e la medesima per la divinità»a. Ma non pensate che noi abbondiamo solo di argomenti con cui riuscire a distruggere Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 28–33. La traduzione latina di Rustico si legge in ACO 1, 3, p. 72, 22–28. La lettera, composta nel 382, è indirizzata al presbitero Cledonio, che in quel periodo amministrava provvisoriamente la Chiesa di Nazianzo; contiene un’approfondita riflessione cristologica volta alla confutazione dell’interpretazione apollinarista dell’incarnazione (così Gallay nella sua introduzione in Grégoire de Nazianze, Lettres théologiques – ed. P. Gallay (SC, 208), Paris, 1974, p. 18–21 e 25–26; sulla cristologia apollinarista cf. 1215B e 1235C e note). La lettera costituì durante le controversie cristologiche un punto di riferimento fondamentale ed era citata sia dai calcedonesi che dai monofisiti a sostegno delle rispetive argomentazioni (cf. Simonetti, ‘Conservazione e innovazione’, p. 367–368). a 

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le vostre obiezioni, ma ascoltate piuttosto quelli tramite i quali la verità stessa, più solida di tutto, ha più volte confermato i nostri. Tutte le cose che hanno diverse quelle caratteristiche che sono comuni a loro e a molte altre (cioè i cosiddetti generi), hanno diverse anche quelle più particolari (le cosiddette specie): in questo caso sia le sostanze che le nature differiscono nel numero. Ma i generi e le specie di una cosa semplice e di una composta, di una eterna e di una nel tempo, di una mutevole e di una immutabile, di una passibile e una non passibile sono diversi; dunque sono diverse, secondo il numero, anche le sostanze o le nature. Eretico: Questo nel Signore Cristo non ha ragione d’essere a causa dell’unione: come infatti sono sì diversi i generi e le specie dell’anima razionale e del corpo, ma l’uomo è un solo essere vivente e una sola è la sua sostanza e una sola la sua naturaa, così anche nel Signore Cristo sono sì diversi i generi, ma non le nature. Rustico: Questo non è vero. Infatti l’anima e il corpo non sono diversi tanto secondo il genere quanto piuttosto secondo la specie. Il genere infatti tanto dell’anima che del corpo è una sostanza suscettibile di cose contrarie: infatti l’anima è suscettibile di virtù e vizio e il corpo di salute e malattia. Ma il corpo non differisce dall’anima semplicemente per la specie (una sola infatti è la specie dell’umanità), ma forse per ciò che è intermedio fra questi: l’uno infatti è mortale, l’altra è immortale e lo stesso vale per altre differenze analoghe; perciò la proposizione precedente è vera. Eretico: Ma ecco, concesso codesto principio, scendendo di conseguenza in conseguenza, giungete fino all’eresia di Nestorio. Infatti se sono diversi i generi e le specie e le sostanze e le nature non c’è un solo individuo e neppure una sola sussistenza e una sola persona, ma più di una. Se infatti le due cose di cui parli sono individui o sostanze o essenze o sussistenze razionali, certamente sono anche due persone. Rustico: La tua conclusione non è necessaria: infatti, anche se esistono diversi generi e specie e sostanze e nature del mondo, a  L’eretico comincia qui a far riferimento all’analogia antropologica a sostegno della sua interpretazione dell’incarnazione (cf. 1188B e note); data l’importanza di questo argomento nel dibattito cristologico, Rustico dedica alla discussione sull’uso legittimo dell’analogia antropologica un’ampia sezione (1180C–1191D). Riferimenti a questo argomento sono comunque diffusi in tutta l’opera.

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il mondo non è un diverso individuo. Uno solo è infatti il mondo, indivisibilea, anche se si dice che le epoche sono diverse; le epoche infatti sono costituite dai tempi, il mondo invece è delle sostanze. Ma non sono contrari a questa spiegazione neppure quelli che ipotizzano più mondi: infatti, anche se ce ne fosse un altro, analogamente ci sarebbero in esso più nature e sostanze, ma ognuno di loro nondimeno sarebbe uno. Così dunque noi, se dicessimo che in qualcun altro oltre al Cristo uno sussistono altre due sostanze individuali, allora certamente introdurremmo, inevitabilmente, due o più persone; se invece lo diciamo di uno e uno solo, come nessuno di quelli che hanno opinioni corrette considera la struttura di tutte le nature corporee come due o più mondi, così neppure noi sosteniamo che ci siano due o più cristi. Ma il paragone non è esatto, perché qui la condizione è molto migliore; tutte quelle cose infatti non sono unite secondo la sussistenzab, come le nature dell’unico Signore Cristo. Se invece i generi non sono diversi, non lo sono neppure le specie della divinità e dell’umanità, dunque Cristo non è da nature diverse e neppure da due; se poi è da due, mostra dunque le loro differenze relative alla sostanza: non vuoi infatti che queste siano differenti secondo ciò che è individuale. Inoltre, se veramente è uomo, Rustico usa il termine individuus che in latino significa ‘indivisibile’, ma anche ‘individuale’ (cf. ThLL VII, 1, 1208, 22–84); per questo più avanti, sulla base dell’analogia con il mondo, può sviluppare il suo ragionamento fino a parlare di individuas substantias; per motivi di chiarezza in italiano si è scelto di tradurre la parola in modo diverso, anche se questo fa sì che il rapporto istituito fra il mondo e le sostanze di Cristo appaia meno evidente. b  Rustico, pur essendo ben consapevole della possibile ambiguità del termine subsistentia (cf. 1191D), non rinuncia ad usarlo, anzi lo pone alla base della sua riflessione cristologica per individuare il livello dell’unità in Cristo (cf. 1238B–1239A); egli comunque si sente libero di utilizzarlo anche in questa parte iniziale della discussione, ancor prima di averne dato una definizione in quanto, comunque, era stato usato comunemente dai teologi di lingua latina come equivalente di persona; in questo senso si trova negli scritti di Mario Vittorino, Rufino, Fausto di Riez, Vigilio di Tapso e Fulgenzio di Ruspe (cf. Moreschini, Varia Boethiana, Napoli, 2003, p. 70–75). Inoltre anche Ilario di Poitiers usa frequentemente il verbo subsistere, nel suo significato di ‘esistere in sé’, insieme a persona o anche da solo, per indicare lo stesso concetto (cf. P. Smulders, La doctrine trinitaire de S. Hilaire de Poitiers, Roma, 1944, p. 288), con un uso che trova paralleli anche in Rustico (cf. 1193C). a 

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Disputa, 1181A–1181B

cioè un animale razionale terrenoa, e per nulla differisce da Dio, dunque (cosa che è assolutamente empia) neppure noi differiamo da lui, o certo egli non è consustanziale a noi. Inoltre, se è vero che quando sono diversi i generi non sono le stesse sia le cose a  L’uomo nel Contra Acephalos viene definito (sempre in interventi di Rustico) altre due volte in termini del tutto analoghi: «animale razionale proveniente dalla terra» (1239C) e «l’uomo è un animale razionale che si può toccare» (1223A). Si tratta di una variante della nota definizione di uomo come ‘animale razionale mortale’, di incerta paternità, la cui prima attestazione si trova in Cicerone, Acad. prior. 21: «se è uomo, è un animale mortale dotato di ragione» (cf. de Durand, ‘L’homme raisonnable mortel: pour l’histoire d’une définition’, Phoenix 27 (1973), p. 337–338). Fu usata per lo più nei trattati di dialettica per esemplificare i concetti di genere, specie e differenza (cf. de Durand, ‘L’homme raisonnable mortel’, p. 341); con questa funzione è ricordata anche nell’Isagoge di Porfirio, per cui Boezio nel suo commento la analizza con una certa ampiezza (cf. In Isag. ed. secunda, 3, 3–4); si trova però anche in Apuleio, De interpretatione 6 e in Marziano Capella, De nupt. 4, 349. Si trattava quindi, ai tempi di Rustico, di un luogo comune che poteva essere accettato da chiunque. Nel De consolatione philosophiae boeziano, del resto, Filosofia rileva l’insufficienza di questa definizione puramente dialettica, enunciata dal suo interlocutore proprio come un luogo comune: «“Puoi dire dunque che cosa sia l’uomo?”. “Mi chiedi se so di essere un animale razionale e mortale? Lo so e professo di esserlo”. Ed ella: “Non sai di essere nient’altro?”. “Nient’altro”. “Ora so”, disse, “quale sia un’altra e forse la più importante causa della tua malattia: non sai più che cosa sei”» (Cons. 1, 6, 15–17). Su questo punto cf. Courcelle, La consolation de Philosophie dans la tradition littéraire. Antécédents et posterité de Boèce, Paris, 1967, p. 26–27, Shanzer, ‘The Death of Boethius and the Consolation of Philosophy’, Hermes 112, 3 (1984), p. 361, K. S.-L. Twu, This Is Comforting? Boethius’s Consolation of Philosophy, Rhetoric, Dialectic, and “Unicum Illud Inter Homines Deumque Commercium”, in N. H. Kaylor, P. E. Phillips (edd.), New Directions in Boethian Studies, Kalamazoo (Michigan), 2007, p. 33–49, in particolare p. 37 e Gruber, Kommentar zu Boethius, De consolatione philosophiae, Berlin-New York, 20062, p. 161. a  L’autore del Contra Acephalos si distingue però all’interno di questa tradizione per la preferenza accordata a ‘terreno’ piuttostosto che a ‘mortale’. Le varianti «dalla terra» (1239C) e «che si può toccare» (1223A) fanno pensare che ‘terreno’ debba essere inteso come riferito all’aspetto materiale e corporeo dell’uomo, come anche in Agostino, Serm. 358, 3: «Che cos’è l’uomo se non un animale razionale fatto di terra?». È legittimo chiedersi per quale motivo Rustico abbia sentito il bisogno di sostituire all’interno di questa definizione il termine più diffuso, ‘mortale’, con altre espressioni quali «terreno», «dalla terra» o «che si può toccare». Si deve osservare in primo luogo che queste espressioni possono essere considerate equivalenti a ‘mortale’ al fine di distinguere l’uomo dalle altre creature razionali, cioè gli angeli; è possibile, però, che Rustico abbia trovato poco precisa la definizione dell’uomo come mortale, in quanto l’anima umana è immortale ed anche il corpo secondo la dottrina cristiana è destinato alla resurrezione.

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che sono distinte dal punto di vista dei generi sia, analogamente, anche le cose che sottostanno a essi (sia confrontate a generi fra loro diversi sia a quelli che sono al loro interno), molto più si dimostra che sono differenti se una cosa ha il genere e una non lo ha. Se dunque la divinità non ha né il genere né la specie che sottostà al genere, ma risulta che invece l’umanità li ha, molto più si dimostra che non possono essere unite in una sola natura. Siano dunque stabilite senza riserve le parole precedenti con le quali abbiamo sostenuto che sono diversi i generi e le specie della divinità e della carne. Eretico: Divinità e umanità hanno un solo genere supremo: la sostanza infatti è il genere generalissimo della divinità e dell’umanità, definibile come ‘sussistente di per sé’. Rustico: Sussistente di per sé, quando si dice di Dio, significa che non ha bisogno di nient’altro, per essere; quando invece si dice delle creature, niente affatto: dal Creatore infatti hanno preso l’essere e in lui viviamo e ci muoviamo e siamo (Act. 17, 28). La sostanza invece, cioè l’ousia, quando si dice di Dio prende il nome dal fatto che è sempre, anzi ousia significa ‘che è sempre’a; nelle creature invece non è così. Dunque, anche se uno solo è il nome della sostanza, non è tuttavia una sola realtà. La sostanza della divinità Per l’origine di questa etimologia, Moreschini ipotizza un legame con lo stoicismo, dal momento che un’osservazione analoga sull’eternità dell’ousia si trova in Stobeo: «l’ousia è la prima materia di tutti gli esseri; questa inoltre è tutta eterna e non si accresce, né diminuisce» (SVF I, 87; cf. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia, 2004, p.  338–339; Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, Napoli, 1995, p. 32). Questa etimologia di ousia era già stata usata, prima di Rustico, anche da altri teologi latini: si trova in Ambrogio, De incarnationis dominicae sacramento 9, 100: «Con ousia invece, quando si dice di Dio, che cos’altro si indica se non che Dio è sempre? E questo lo esprimono le lettere stesse, poiché la potenza divina ousa aei, cioè ‘essendo sempre’, si chiama ousia con il cambiamento di posizione di una sola lettera per motivi di suono, brevità e grazia dell’espressione. Quindi ousia significa che Dio è sempre» e in De Fide 3, 15, 127: «O che cosa è l’ousia o da cosa prende il nome se non da ousa aei, che rimane sempre? Infatti Colui che è, ed è sempre, è Dio e perciò, rimanendo sempre, la sostanza divina è detta ousia»; e in Ilario di Poitiers, De Synodis 12: «Essenza e natura e genere e sostanza si può dire d’altra parte di qualunque realtà; propriamente però l’essenza è stata chiamata così perché è sempre» (Patrologia Latina, 10, col. 490A). a 

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Disputa, 1181B–1182B

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e quella della carne non hanno dunque un genere comune, ma solo un nome comune: ma questo non è un generea. Eretico: Ma anche l’anima, pur non avendo lo stesso genere del corpo, costituisce con esso una sola specie. Rustico: Ma piuttosto appartengono a un solo grande genere: l’uno e l’altro infatti sono sostanza, per nome e definizione; e se ancora hai il dubbio che questo sia impossibile in Cristo a proposito di divinità e umanità, sarà dimostrato anche più avanti. Dunque l’anima razionale e il corpo dell’uomo assumono l’identità di natura secondo l’unione per il fatto che mantengono sia un solo genere che una medesima specie, ma sono anche nature diverse perché in alcuni casi si collocano sotto diversa specie e definizione. Divinità e umanità di Cristo invece non si collocano sotto una sola specie. Eretico: La dimostrazione di ciò che è incerto non avviene a partire da ciò che è incerto secondo ciò in cui è incerto. Se dunque dimostri che divinità e carne non stanno sotto una sola definizione e che in un solo e medesimo uomo differiscono la definizione e la natura e la specie del corpo e dell’anima, allora forse ne conseguirà quello che hai detto. Lasciando dunque questi discorsi ad un momento successivo, veniamo al resto, per non estendere ulteriormente un discorso già lungo. Rustico: Andate ripetendo che il Signore Cristo è consustanziale sia al Padre che a noi, secondo una sola e medesima sostanza tramite l’unione, senza che nessuna sia perduta o confusa, ma è impossibile che questa unica – dite voi – sostanza non abbia a  Più avanti Rustico si dimostrerà riluttante ad applicare il termine ‘sostanza’ a Dio (cf. 1184B e nota), mentre qui rifiuta di considerare la sostanza come un genere comune a divinità e umanità perché, se pure si può parlare di sostanza a proposito di Dio, si deve comunque ricordare che il termine deve essere inteso diversamente per Dio e per l’uomo. È possibile che per questo concetto Rustico si richiami anche a quanto sostenuto da Boezio nel suo commento all’Isagoge di Porfirio, nel quale aveva sostenuto che l’essere non può costituire un genere supremo: «così quello che è chiamato essere (ens), anche se si può dire di tutte le categorie, poiché tuttavia non si può trovare nessuna definizione di esso che si possa adattare a tutte le categorie, non si può dire quindi in modo univoco delle categorie, cioè come genere, ma in modo equivoco, come una parola che significa più cose» (In Porph. Is. ed. secunda 3, 7; cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 140–141).

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qualcosa che, se confrontato, debba essere chiamato giustamente una cosa e un’altra, come carne, anima e Verbo; assumono infatti molte differenze che io, come note, lascio alla tua intelligenza. Se con ‘una cosa e un’altra’ dunque si intende ‘sostanza e sostanza’, si predica giustamente che la sostanza è ‘altra e altra’: se invece qualcuna non è sostanza, come è possibile che qualcosa le sia consustanziale secondo questo, quando non sono consustanziali secondo la sostanza? Ma come potrà non essere sostanza la vera divinità o l’umanità perfetta e individuale? Se dunque altra e altra è la sostanza della divinità e quella della carne, perché non volete ammettere che sono due? Ma se confessate anche che sono due, perché vi staccate dalla nostra opinione e dalla nostra comunione? Eretico: Così potrai dimostrare che sono due le sostanze anche di un qualche semplice uomo, così che, di conseguenza, introduci evidentemente tre sostanze di Cristo: l’uomo infatti, secondo la sostanza della mente, è consustanziale agli angeli, secondo il corpo invece al bestiame e alle fiere. E ancora, secondo il corpo siamo consustanziali ai corpi dei morti, secondo l’anima invece alle loro anime, per non fare solo l’esempio degli angeli, riguardo ai quali ammetto che la questione è incerta anche per me. Rustico: Questo è completamente falso. Infatti la consustanzialità per una parte e non per la totalità della sostanza è imperfetta. Per questo i trecentodiciotto santi Padri hanno detto che il Figlio è consustanziale al Padrea, perché sapessimo che in lui non manca niente della sostanza paterna. Analogamente poi i santi Padri che vennero dopob lo predicarono consustanziale a noi, affinché credessimo che egli ha tutto della nostra sostanza; dunque usa Si tratta del concilio di Nicea del 325, che, contro la dottrina di Ario, stabilì l’identità della sostanza del Padre e del Figlio (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 1, p. 517–525). b  Questa espressione farebbe pensare al concilio di Costantinopoli del 381, quello immediatamente successivo a Nicea (cf.  Kelly, Early Christian Creeds, London, 1960, p. 300), ma in realtà ci si riferisce alla definizione di Calcedonia, nella quale fu infatti ripreso il termine ‘consustanziale’, introdotto dal concilio di Nicea, e fu applicato anche all’identità di sostanza fra Cristo e l’umanità (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 964). Rustico vuole evidentemente ribadire la continuità della dottrina calcedonese con la tradizione della Chiesa, rappresentata dal primo concilio ecumenico. a 

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Disputa, 1182B–1183A

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il termine ‘consustanzialità’ con frode eretica chi lo intende per una parte. Qualunque cosa sia dunque vera riguardo agli angeli, l’uomo non è consustanziale a loro e analogamente neppure alle fiere né al bestiame né ai cadaveri né alle anime. In più, l’uomo non si potrà neppure considerare semplicemente consustanziale alle creature non razionali, secondo qualche parte: infatti, anche se è una sola la materia della quale è il corpo, tuttavia la forma del corpo è di gran lunga più preziosaa, per cui non è vero neppure che una parte o la totalità sia consustanziale a una parte, come se per il fatto che una sola è la materia si dicesse che noi siamo consustanziali ai vermib e alle cimici e alle pulci e alle mosche e a tutte le cose insieme che nascono dalle secrezioni del corpo umanoc. Inoltre, se tutto ciò che secondo il corpo è consustanziale all’uomo è consustanziale, sempre riguardo al corpo, a tutto ciò a cui è consustanziale l’uomo secondo questo, anche Cristo (non sia mai!) sarà Si tratta dell’unico caso in cui Rustico usa l’opposizione aristotelica materiaforma (per il rapporto materia-forma in relazione all’anima e il corpo in Aristotele cf. De Anima II, 412a); tranne questo passo, infatti, forma nel Contra Acephalos è usato solo nell’espressione paolina forma di servo e non come termine tecnico filosofico. Anche materies si trova solo qui; in altri casi si usa materia, in senso generico. b  In latino si trova il termine serpentibus, qui inteso nel senso di ‘vermi’, in particolare quelli che si sviluppano all’interno del corpo umano (Plinio ad esempio usa il termine in questo senso in Nat. Hist. 7, 172: «C’è però una tanto infinita varietà di malattie che Ferecide Siro morì per una moltitudine di vermi [serpentium] che usciva dal suo corpo»); le fonti infatti concordano nel ritenere che la generazione dei serpenti avvenga per riproduzione (cf. ad esempio Aristotele, De generatione animalium 1, 7). La generazione spontanea dei vermi invece era citata anche nella letteratura cristiana, in particolare a proposito dell’esegesi di Ps. 21, 7: Ma io sono un verme e non uomo; era infatti comune l’interpretazione cristologica di questo salmo e queste parole venivano riferite a Cristo non solo in riferimento all’umiltà dell’umanità assunta, ma anche al concepimento verginale, proprio a causa del tipo di generazione attribuito a questi animali. Si veda ad esempio quanto scrive Agostino in Enarrationes in Psalmos 21, 2, 7: «Perché verme? Perché mortale, perché nato dalla carne, perché nato senza accoppiamento». c  Rustico mostra qui di credere che alcuni animali (come vermi, cimici e pidocchi) nascano per generazione spontanea; è un’opinione che risale ad Aristotele, che la sostenne, ad esempio, in De generatione animalium 1, 16, dove si parla di mosche, pulci e di altri insetti che non generano una prole simile a loro, ma solo larve, e non nascono da animali ma da putrescenze umide o, talvolta, asciutte. Le stesse notizie si trovano anche in Plinio, in Nat. Hist. 11, 37–41. a 

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consustanziale secondo il corpo a tutte le cose prima citate: Cristo infatti riguardo a questa parte è consustanziale a noia. Se poi qualcuno, trascurando tali bestemmie, ammetterà tutto questo come vero, tuttavia non si potrà evitare che una consustanzialità di questo genere non sia né integra né perfetta: l’uomo dunque non è consustanziale a due nature perfette come Cristo. In più, se propriamente la natura prende piuttosto il nome dal nascereb, la natura è più come nasce che come si corrompe; ma l’uomo nasce integro e perfetto, la corruzione invece separa vicendevolmente corpo e anima e ne fa due realtà separate, nessuna delle quali è una natura perfetta. Se infatti la corruzione costituisce le nature e l’effetto di quello che è contrario secondo se stesso è contrario, allora la generazione distrugge le nature, cosa che è fin troppo assurda. E certo la natura dell’umanità di Cristo al momento della morte si è separata in due e una sola natura si è fatta due qualcosa, La dimostrazione per assurdo di Rustico è espressa in modo piuttosto involuto; il ragionamento comunque si potrebbe spiegare in questo modo: ‘tutto ciò che è consustanziale all’uomo secondo il corpo è consustanziale secondo il corpo anche agli animali che nascono dalla corruzione del suo corpo; secondo il ragionamento dell’eretico, poi, ciò che è consustanziale all’uomo secondo il corpo gli è consustanziale in generale; dunque anche Cristo, consustanziale all’uomo secondo il corpo, sarebbe consustanziale alle cimici e ai pidocchi’. b  Il legame etimologico e concettuale fra natura e nascita è tradizionale nella teologia latina almeno a partire dalla controversia ariana: una delle argomentazioni più ricorrenti fra i niceni per sostenere la consustanzialità del Figlio con il Padre era infatti che la generazione implica un’identità di natura fra generante e generato. Questa idea è spesso enunciata da Ilario di Poitiers; una formulazione particolarmente chiara di questo concetto si trova in De Synodis 17, dove si contrappongono nascita e creazione: «ogni nascita, qualunque sia, implica una sua propria natura dalla natura generante: la creazione invece trae origine dalla potenza di chi crea, poiché cioè il Creatore può creare una creatura dal nulla»; cf.  Simonetti, La crisi ariana nel IV sec., Roma, 1975, p. 300. L’idea della nascita come garanzia di consustanzialità era già stata applicata in ambito cristologico proprio contro le formulazioni monofisite di Eutiche nel Tomus ad Flavianum di Leone Magno, dove la doppia natività garantisce proprio la presenza delle due nature: «Per questo la comunità dei fedeli professa di credere ‘in Dio Padre onnipotente e in Cristo Gesù, suo unico figlio, nostro Signore, che è nato dallo Spirito santo e da Maria vergine’. Da queste tre proposizioni vengono distrutte le macchinazioni di quasi tutti gli eretici. […] non differisce in nulla dal Padre poiché è Dio da Dio […] L’unigenito eterno, poi, uguale al Padre eterno ‘è nato dallo Spirito santo e da Maria vergine’ […] Non avremmo potuto infatti superare l’autore del peccato e della morte se Egli non avesse assunto la nostra natura e non l’avesse fatta sua» (14–27). a 

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Disputa, 1183A–1183D

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nessuno dei quali tuttavia fu una natura perfetta. Ma ancora, la resurrezione è da duea, ma non avviene allo stesso modo in lui l’unione delle nature perfettissime, giacché sussiste senza corruzione e senza diminuzione ciascuna delle nature unite nella perfezione della specie. Inoltre, se si può dimostrare, come dici, che le sostanze di qualunque semplice uomo sono due, benché nessuna delle loro nature sia perfetta e non per questo (cioè perché non sono perfette) non sono due, dal momento che le due nature di Cristo sono perfette perché non dovrebbero essere due tanto a maggior ragione? Se dunque anche per quelli che dicono che sono due le nature dell’uomo non consegue niente di sconveniente, che cosa di non giusto conseguirà per coloro che professano due nature del Signore Gesù Cristo? Ma chi parla di tre conta ciò che imperfettamente è perfetto insieme alla divinità: sarà allora superflua la voce unanime di tutti i Padri che dicono che Cristo è consustanziale a noi secondo l’umanità, a distruzione di quanti dicono che nell’economia è privo di anima o della menteb. Se poi presso gli uomini si dice in questo modo che le cose sono consustanziali, è stato inutile che i Padri abbiano detto che il Figlio è consustanziale al Padre: qualche empio infatti potrebbe sospettare che di quanto un essere razionale è superiore a uno inanimato, di tanto il Padre è in rapporto di superiorità rispetto al Figlio. Sarebbe possibile, penso, dire molte migliaia di cose anche più folli. Ma per ora intanto bastino queste. Eretico: Se Cristo è una sola realtà e sostanziale, e dunque un solo qualcosa sostanziale, Cristo è una sola sostanza tramite l’unione. Questa espressione, per la sua estrema sinteticità, risulta piuttosto oscura. Il contesto però lascia pensare che Rustico intendesse dire semplicemente che, poiché anima e corpo di Cristo si sono separati nella morte, la resurrezione avviene ‘da due nature’; questa formula poteva essere usata anche per l’incarnazione, ma doveva essere intesa in modo diverso, perché dopo la resurrezione l’umanità di Cristo, per quanto riguarda il suo corpo, che pure resta pienamente reale, non mantiene intatte tutte le caratteristiche umane; inoltre, l’incarnazione non può essere avvenuta a partire da due nature individuali separatamente preesistenti, mentre in effetti la resurrezione avviene a partire dalle due nature separate. Sul modo corretto di intendere la formula ‘da due nature’ cf. 1202C. b  Si allude all’eresia apollinarista; cf. 1235C e nota. a 

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Rustico: ‘Realtà’ significa sia natura che personaa; e dunque Cristo è sia una sola realtà che due; piuttosto però egli è una sola realtà in quanto è una sola persona, ma si riconosce in due nature. Eretico: Poiché intanto non hai negato che Cristo sia una sola realtà, come puoi non dire poi che Cristo è un solo qualcosa? Ma questa realtà è sostanziale: dunque, come abbiamo detto, Cristo è una sola sostanza e dunque una sola natura; che cosa mi importa, infatti, se sia o meno anche due realtà? Intanto, sul fatto che è una sola non puoi replicare. Rustico: Ma non consegue necessariamente che una sola realtà, anche sostanziale, sia anche una sola sostanza; infatti anche la Con ‘realtà’ si traduce il latino res. Rustico, pur ammettendo la possibile ambiguità di questo termine, lo considera sostanzialmente equivalente a ‘persona’, mentre l’eretico gioca proprio su questa ambiguità per cercare di confutare il difisismo dell’autore calcedonese. Nel linguaggio teologico latino, infatti, res aveva avuto una lunga storia ed era stato applicato sia in ambito trinitario che cristologico, ma non era un termine tecnico di significato univoco. Un uso cristologico di res si trova già in Ilario di Poitiers che lo usa per indicare il livello dell’unità in Cristo, per esprimere un concetto analogo a quello che nella cristologia latina successiva sarà espresso con ‘persona’. Un esempio particolarmente significativo è rappresentato da De Trinitate 9, 3, dove il termine res viene usato appunto per indicare il livello dell’unità di Cristo: «Egli dalle nature unite in lui stesso è una medesima realtà di entrambe le nature». Si tratta di un passo che ebbe una particolare fortuna in quanto è citato fra le testimonianze patristiche aggiunte da papa Leone al suo Tomus ad Flavianum [n. 2]; secondo Drobner quella presente in questo passo è una formula innovativa, usata dal vescovo di Poitiers solo in questa occasione, che testimonia la ricerca di un’espressione adeguata per indicare l’unità di Cristo in un momento in cui la terminologia cristologica era ancora estremamente fluida; e in effetti lo stesso Ilario usa res in campo trinitario per indicare invece la sostanza, non la persona; cf., ad esempio, De Trinitate 7, 13: «e ormai non sono due realtà, ma una realtà del medesimo genere» (Drobner, Person – Exegese und Christologie bei Augustinus. Zur Herkunft der Formel una persona, Leiden, 1986, p. 201–204). Anche Agostino aveva usato res in campo trinitario (dove poteva essere usato sia per le persone della Trinità che per la Trinità tutta; cf De doctrina christiana 1, 5, 5: «Le realtà di cui si deve godere sono Padre, Figlio e Spirito Santo, la medesima Trinità, una e somma realtà»; cf. Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, p. 162). A questo proposito è interessante notare che Boezio nella sua riflessione trinitaria preferisce evitare questa espressione, tradizionale, ma dall’uso non ben codificato e poco tecnico (così Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, p. 161–162). Rustico invece rimane più legato al linguaggio tradizionale pur nella sua attenzione per la precisione terminologica di derivazione logico-filosofica. a 

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Disputa, 1183D–1184B

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verga di Aronne che portò fruttoa era una sola realtà sostanziale con i suoi frutti, ma non era una sola sostanza con i suoi frutti. E diciamo che le tavole scritte dal dito di Diob sono una sola realtà, ma non anche una sola sostanza. Ma ritengo che in modo non errato si possa rispondere anche che Cristo non è né una realtà sostanziale né una realtà non sostanziale, ma è una realtà supersostanzialec, e senza dubbio di due perfettissime sostanze o nature; e infatti quel pane che chiediamo nel Padre Nostro è chiamato supersostanziale (Matth. 6, 11)d. E ritengo che lo chiediamo così per chiedere piuttosto Cristo, finché, come dice l’Apostolo, si formi Cristo in noi (Gal. 4, 19). E in più, se un melo che porta rami innestati di pero è un solo albero e una sola realtàe, ma, poiché ha Cf. Num. 17, 23. Cf. Ex. 31, 18. c  Rustico esprime qui i suoi dubbi a proposito dell’applicabilità del termine ‘sostanza’ a Dio; analoghe riserve erano state del resto espresse già da Boezio: «Infatti quando diciamo ‘Dio’ sembriamo indicare una sostanza, ma quella che è oltre la sostanza (De Trinitate 4; cf. Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, p. 32); il problema connesso con l’uso di questo termine per Dio è quello di intendere la sostanza come un genere comune che comprenda Dio e l’uomo: in questo modo infatti si dovrebbe pensare ad un livello superiore a Dio stesso (su questo argomento cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 140–141). Si deve notare che Rustico, pur svolgendo un ragionamento prettamente filosofico, cerca comunque nelle Scritture la legittimazione del suo linguaggio. d  Rustico accoglie questa traduzione del termine greco epiousios, invece del più comune ‘quotidiano’; il termine greco, poco attestato e di incerto significato, infatti, veniva interpretato diversamente dai Padri (cf. W. Foerster in Grande Lessico del Nuovo Testamento III, 709–720 [= II, 587–591]) e talvolta era messo in relazione con ousia e reso con ‘supersostanziale’. Girolamo, ad esempio, scrive: «Il termine che noi usiamo, ‘supersostanziale’, corrisponde al greco epiousios» (In Matth. 1, 6, 11). Ambrogio nel passo già citato a proposito dell’etimologia di ousia (1181D) sostiene il ‘consustanziale’ (homousios) di Nicea proprio in relazione al termine epiousios: «Diciamo quindi giustamente che il figlio è consustanziale (homousios) al Padre, perché con questa parola si indica sia la distinzione delle persone e l’unità della natura. O possono sostenere che il termine ousia non sia scritturistico, dal momento che il Signore ha detto anche ‘pane epiousios’ […] O che cosa è l’ousia o da cosa prende il nome se non da ousa aei, che rimane sempre? Infatti Colui che è, ed è sempre, è Dio e perciò, rimanendo sempre, la sostanza divina è detta ousia. E per questo il pane è epiousios, perché dalla sostanza del Verbo dà al corpo e all’anima la sostanza di una virtù che permane» (De Fide 3 15, 126–127). e  Il verbo insero è un termine tecnico del linguaggio dell’agricoltura, ma l’esempio di Rustico probabilmente è filtrato da fonti letterarie. Infatti, proprio in a 

b 

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anche i suoi rami, non è una sola sostanza né una sola natura, ma in quanto melo e pero insieme sono due e invece in quanto albero si dice che è una sola realtà, che cosa si oppone all’unità di persona, se diciamo che Cristo è due realtà? O cosa si oppone alla dualità delle nature, se professiamo che egli esiste come una sola realtà? Inoltre, anche se rispondiamo che Cristo è qualcosa di sostanziale, non sarà una sola sostanza per il fatto che diciamo che è una sola persona sostanziale; così se uno, per esempio, dicesse che questo mondo non è non-sostanziale, non per questo si sarebbe costretti ad affermare che una sola è la sua sostanza. E se uno del tutto pazzo e litigiosissimo dicesse che una sola è la sostanza del mondo, ne conseguirà che egli non potrà dire in alcun modo nient’altro di una qualunque altra realtà se non che è una sola sostanza. Se infatti tutte le differenze che sono nel mondo non fanno sì che le sostanze siano sottoposte al numero, ciascuna, confrontata con un’altra, sarà una sola con essa: dunque una sola sarà la sostanza dell’uomo, della pietra, dell’elefante, della formica, del cielo e del monte. relazione a questo stesso albero, è usato nelle Bucoliche (1, 73: «Innesta ora i peri, Melibeo»; IX, 50: «Innesta i peri, Dafni: / i nipoti coglieranno i tuoi frutti») e nelle Georgiche 2, 32–34: «e spesso vediamo che senza danno i rami di una pianta / si mutano in quelli si un’altra e il pero, mutato, / dà mele per innesto». Quest’ultimo passo probabilmente è alla base dell’esempio di Rustico, come indica la presenza del pero innestato e il fatto che sia sottolineata la duplice natura di queste piante. In ambito cristiano, la metafora dell’innesto è presente in Rom. 11, 16–24, dove i gentili sono paragonati a dei rami di oleastro innestati su un olivo buono, cioè Israele; già in questo passo si fa cenno alla diversa natura delle due piante, ma non risulta che sia stato interpretato in senso cristologico (cf. D. D’Elia, L’olivo e l’oleastro: una prospettiva ecclesiologica in Cirillo d’Alessandria, Roma, 2006, p. 19–57). Si può ricordare inoltre la presenza di un riferimento all’immagine dell’innesto in Gregorio di Nissa in Or. IV in Cant. 2, 3, dove si legge che il melo, simbolo di Cristo, porta innestati rami di altri alberi in modo che diano un frutto simile al suo; siamo però lontani dall’uso fatto da Rustico di questo esempio. Lo stesso si può dire di Ambrogio che in Exp. Ev. Sec. Luc. 9, 29 parla del popolo di Dio come innestato nel legno della croce (cf. F. Gasti, ‘Spunti in materia di naturalis historia nelle Variae di Cassiodoro’, Cassiodorus 6–7 (2000–2001), p.  133–150, in particolare p.  146). Si deve comunque osservare che quest’uso di lessico tecnico agricolo rappresenta una caratteristica comune per la letteratura dell’epoca di Rustico; deriva infatti da un’attitudine enciclopedica che si può rintracciare chiaramente, ad esempio, in Cassiodoro, ma che affonda le sue radici anche nella letteratura dei secoli precedenti (Gasti, Spunti in materia di naturalis historia, p. 133–135).

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1184C

Disputa, 1184B–1185A

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Eretico: In questo mondo non avviene una simile unione, poiché in questo mondo non c’è neppure un solo Figlio, un solo Cristo, un solo Signorea. E se uno solo è semplicemente il mondo, ma è possibile trovare migliaia di migliaia che sono chiamati figli e persone e sussistenzeb, in Cristo invece si è realizzata un’unione indissolubile. Rustico: Non ho forse premesso che l’esempio non è in tutto adeguato? Altrimenti non sarà un esempio, ma in tutto ugualec. Poiché dunque hai detto che Cristo è qualcosa di sostanziale, ho dimostrato che anche di qualcos’altro si dice che è sostanziale, ma non è di una sola sostanza, bensì di molte. E se volessi parlare di quello che si fa artificialmente, sarebbe possibile trovare migliaia di cose del genere, come una nave, una casa, una lucerna accesa e simili; tutte queste cose, infatti, sono sostanziali, ma non di una sola sostanza. Eretico: La natura non indica mai un insieme più ristretto rispetto alla persona, anzi di solito ne indica uno più esteso (parlo ora però delle nature razionali) e perciò rifuggiamo dal parlare di due nature, temendo di dover parlare di conseguenza di due persone. Questa osservazione dell’eretico, anche per la sua sinteticità, risulta piuttosto oscura e la traduzione qui proposta è tutt’altro che sicura. b  Il termine ‘sussistenza’ in questo contesto è piuttosto inaspettato, visto che la discussione verte piuttosto sulla sostanza. Probabilmente per questo motivo nell’edizione di De la Bigne il termine era stato corretto in ‘sostanza’, poi mantenuto in tutte le edizioni successive. Una corruzione di substantia in subsistentia però sembra poco verosimile, per cui, nonostante la difficoltà, si è scelto di mantenere il testo dell’editio princeps. Probabilmente l’eretico non intende riprendere in modo specifico la riflessione condotta da Rustico nel suo intervento precedente, ma fa un’obiezione generica contro l’esempio scelto dal suo avversario per illustrarla. c  Si tratta di un concetto ricorrente nell’opera; del resto l’idea che sia impossibile paragonare ciò che riguarda Dio alle realtà terrene è un topos della letteratura teologica: gli esempi sono però utili per rendere più chiari i concetti espressi. Questo concetto è formulato in modo particolarmente chiaro in Ilario di Poitiers, De Trinitate 1, 19: «Se poi trattando della natura di Dio e della nascita porteremo alcune immagini a titolo d’esempio, nessuno pensi che esse abbiano in sé la perfezione di un ragionamento compiuto. Non c’è infatti alcuna possibilità di confrontare le realtà terrene a Dio. Ma la debolezza della nostra intelligenza costringe a cercare delle immagini dalle realtà inferiori come indizi di quelle superiori, in modo che dal rapporto con le realtà familiari e a partire da ciò che è abituale per il nostro pensiero siamo condotti a contenuti non abituali per il nostro pensiero. Dunque ogni confronto sia considerato utile all’uomo piuttosto che adatto a Dio». a 

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Rustico: Timore del tutto assurdo; non ci sono infatti due nature razionali che non includano migliaia di persone, ma non ce n’è neppure una che non abbia più di due persone: se è per questo, dunque, non basta neppure che la natura di Cristo sia una sola per evitare che ci siano non solo due persone, ma anche di più. Ma allora, secondo voi, Cristo non deve essere neppure da due nature, per evitare che questo implichi che sia da due o più persone, ovvero figli, o cristi o signori; se poi non consegue necessariamente che coloro che dicono che Cristo è da due nature (o, come consegue necessariamente da ciò che dite voi, da due o più persone) dicano che Cristo è da due figli o cristi, e se le stesse conseguenze assurde non dovranno essere necessariamente tratte per quegli eretici che parlano anche di due persone di Cristo, ancor meno conseguirà che gli ortodossi che confessano il Signore Cristo in due nature parlino di due signori o cristi o figli. Inoltre, se temete di parlare di due nature per non rischiare di introdurre, secondo la consuetudine degli altri esseri, due persone – dite infatti che mai due nature sono meno di due persone – non dovete mai confessare neppure che il Signore Cristo è Dio perfetto e uomo perfetto, perché in tutti gli altri esseri razionali è impossibile che ci sia una sola persona che sia perfetto Dio e perfetto uomo. E se riguardo a questo singolarissimo miracolo è certo pericoloso dubitare, per noi che siamo cristiani, perché, dal momento che lo volle, il Dio perfetto poté essere con la perfetta umanità una sola persona (perché, secondo il Vangelo, a lui nulla è impossibile (Luc. 1, 37)), perché dubitare che questa stessa persona sia non da separare, ma piuttosto da riconoscere, in due nature perfette? Come, dunque, Dio perfetto e uomo perfetto è in modo incomprensibile una sola persona, così un solo Figlio è in modo mirabile due nature perfette. E questa, per così dire, è una regola fissa in tutto il resto e nel solo Cristo è stata infranta. Dunque per il fatto che Nestorio parla scorrettamente della dualità delle sostanze non si deve tacere che sono due sostanze, altrimenti, poiché parla scorrettamente del perfetto Dio e perfetto uomo, gli ortodossi non dovrebbero dire neppure questo. E, in breve, se dobbiamo tacere, o escludere completamente, tutto quello che gli eretici interpretano male non dovremmo professare nulla e prima di tutto saranno eliminate le Sacre Scritture.

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Disputa, 1185A–1186C

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Eretico: Mi costringi a ripetere la stessa domanda: quando la natura ha incluso meno dalla persona? O quando la sostanza meno dalla sussistenza? Ditelo. Rustico: Certo ho già risposto a sufficienza a questo, ma aggiungerò, come è opportuno, anche che neppure in questo caso due nature includono soltanto la persona di Cristo, anche se in lui solo sono unite secondo la sussistenza: la sua natura divina infatti include ugualmente anche il Padre e lo Spirito Santo e la sua sostanza umana gli altri uomini; ma, come sussistendo nella natura divina (come il Padre e lo Spirito Santo) tuttavia non è puramente Dio e come sussistendo nella nostra, poi, non è un semplice uomo, così, sussistendo in due, non è diviso e infatti non ha due persone. Ma ti chiedo: come hai definito la natura, universale o piuttosto individuale? Eretico: Io la intendo indifferentemente; che differenza c’è infatti, o cosa importa? Rustico: Certo c’è molta differenza: se infatti la definisci universale o comune, è vero che non include meno dalla persona, anzi anche di più; se invece particolare o individuale come la mia e la tua o di un altro individuo, non è comune a quella di nessun altro (infatti io non sono lo stesso che tu): è per questo che per Cristo non troviamo esempio, perché le sole nature razionali sono Dio, le milizie celesti e l’uomo e mai fra queste ci sono state due nature unite fra di loro in modo da costituire una e una sola persona, come nel Signore Cristo secondo l’unione di divinità e umanità. Questa è infatti una singolarissima proprietà di quell’unione della quale non si può trovare esempio: mai infatti due nature razionali sono state inseparabilmente unite in una sola persona. Inoltre, non c’è neppure una natura particolare di Dio, cioè di nessun altro se non di una e una sola persona, ma una e una sola divinità è senza alcun dubbio natura di tutte le tre persone, giacché secondo verità professiamo un solo Dio. Eretico: Se Cristo è uno solo e individuo, e la specie di ogni individuo è una sola, e una sola specie è una sola natura, dunque una sola è la natura di Cristo. Rustico: Ci sono molte migliaia di individui dei quali non è una sola né la specie né la natura, ma sono molte, come le città, le case, le navi, i fogli e le lettere che vi sono scritte.

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Eretico: Ma queste sono artificiali, non sono da Dio né dalla natura. Rustico: Intanto, se fosse conseguenza assolutamente necessaria che un solo individuo fosse anche una sola natura, anche in tutte queste cose ci sarebbe certo una sola natura; se poi dici che ogni individuo che è da Dio ha una sola specie e una sola natura, non è vero neppure questo: il mondo infatti è stato fatto da Dio e non ha una sola natura. Eretico: Ma voglio circoscrivere ancora il discorso con un’aggiunta e dico: ogni realtà sostanziale individuale che è da Dio ed è inseparabile è una sola specie e una sola natura. Rustico: Di nuovo in una cosa mirabile cerchi ciò che non è mirabile e in una cosa incomparabile una comparazione, e un esempio in ciò che non può accogliere esempio. E se pensi che far questo sia da persona ragionevolea, anche io ti esporrò molte regole di questo genere che non potrai spiegare nei secoli dei secoli. Dimmi infatti quando perfetta umanità e perfetta divinità si sia fatta una sola natura e non siano rimaste due, quando Creatore e creatura tramite Rustico nel Contra Acephalos distingue rationabilis (ragionevole) da rationalis (razionale), in quanto il secondo termine è usato in senso filosofico, mentre il primo ha un significato più ampio e generico: egli infatti attribuisce qui l’aggettivo rationabilis a ‘uomo’ per indicare che il ragionamento dell’eretico non è da persona ragionevole, mentre altrove definisce ‘razionale’ la natura dell’uomo (1181B, 1198A, 1223A, 1239C). La differenza di significato fra i due termini non era codificata in modo univoco in latino; Agostino, ad esempio, in De ordine 2, 11, 31 definiva così i due termini: «Razionale è ciò che usa, o può usare, la ragione; ragionevole, invece, ciò che è stato fatto o detto secondo ragione. Così possiamo chiamare ‘ragionevoli’ questi bagni e il nostro discorso; razionali, invece, colui che li ha costruiti o noi che parliamo» (cf. Ch. Mohrmann, Rationabilis-Logikos, in Eadem, Études sur le latin des Chrétiens I, Roma, 1958, p. 179–187 e in particolare p. 183). Nel Contra Acephalos il tecnico rationalis è molto più usato di rationabilis, che si trova soltanto qui (si trova però il contrario, irrationabilis, in 1196A; 1197B; 1238C, mentre irrationalis, pur essendo di uso abbastanza comune in latino [cf. ThLL VII. 2, coll. 390– 393] non è usato nel Contra Acephalos). Rustico in questo si distingue da Boezio che nel suo Contra Eutychen dimostra invece una notevole preferenza per rationabilis; rationalis infatti compare in un solo passo dell’opera: «Fra (le sostanze) sensibili alcune sono razionali, altre irrazionali. Ugualmente fra quelle incorporee alcune sono razionali, altre no» (Contra Eutychen 2). La differenza si nota in particolare a proposito della definizione di persona; Boezio parla infatti di «sostanza individuale di una natura rationabilis», mentre Rustico scrive: «ogni natura individuale e razionale (rationalis) è persona» (1196A–B). a 

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Disputa, 1186C–1187B

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l’unione si sia fatta una sola sostanza, quando due perfettissime nature abbiano prodotto un altro qualcosa perfetto. E non è comunque ancor più perfettoa e migliore dal momento che una sola specie è stata senza alcun dubbio consustanziale a due specie perfette? Eretico: Che non sia mai avvenuto niente del genere lo professiamo anche noi; tutte queste cose incomprensibili e mirabili, però, sono avvenute dal momento che è stata fatta una sola persona tramite l’unione: e tu accusi gli straordinari miracoli di Dio come assurdi. Se dunque ritieni che non sia stato fatto un solo Figlio, un solo Cristo, un solo Signore, dillo apertamente; se invece professi secondo verità una sola persona, concedi le conseguenze che derivano necessariamente dal termine ‘uno’. Rustico: Concedi anche tu ciò che è conseguente alla perfetta divinità e all’umanità perfetta; concedi ciò che è proprio alla Sapienza consustanziale a Dio Padre e alla carne, animata da un’anima razionale, consustanziale a noi. Rendi il numero che è proprio alle loro realtà; non togliere la quantità, se non fingi soltanto di confessare la perfezione della sostanza: infatti dove c’è perfezione secondo la sostanza, lì c’è la quantità delle sostanze; dove l’unione inconfusa, lì anche il numero degli elementi che sono uniti. Ogni sostanza poi riceve insieme l’essere e l’essere unab, ed è una in modo che, accostata a un’altra, l’unione aggiunta, non il numero distrutto, ne compia due; altrimenti mostrami, per dimostrare di esserti espresso in modo non irrazionale, un’unione inconfusa di realtà perfette che distrugga Il comparativo di questo aggettivo era considerato scorretto dai grammatici antichi, ma era in realtà di uso abbastanza comune (cf. ThLL X, 1, fasc. 9, col. 1373, 46–50); la stessa espressione è stata mantenuta anche in italiano, pur con un’analoga violazione delle regole grammaticali. b  La fonte di questa affermazione di Rustico è probabilmente da rintracciare in Boezio, Contra Eutychen 4: «Dunque, secondo Nestorio, Cristo non è per nulla uno solo e perciò egli non è assolutamente nulla; essere e unità infatti sono termini che possono essere scambiati e tutto ciò che è è uno. Anche quelle cose che sono costituite da molti elementi, come un mucchio o un coro, sono tuttavia un’unità. Ma noi diciamo chiaramente e giustamente che Cristo è, dunque diciamo senza alcun dubbio che Cristo è uno; ma se è così, è necessario senza alcun dubbio che sia anche una sola la persona di Cristo». Boezio si esprime comunque in modo analogo anche altrove a proposito del fatto che tutto ciò che esiste debba essere uno, in particolare in Cons. 3, 11, 36–37. Sull’argomento cf. Micaelli, Dio nel pensiaro di Boezio, p. 123–125 e Moreschini, Varia Boethiana, p. 56. a 

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soltanto il loro numero e di nessuna, secondo nessuna parte, distrugga il suo essere ciò che è. E aggiungerò anche questo: hai detto che ogni realtà individuale fatta da Dio, sostanziale e inseparabile, è una sola specie: se dunque l’inumanazione è avvenuta come altre cose create, che cosa puoi dire? Ma voglio che tu non esprima solo parole, ma le cose così come stanno. Indica dunque anche una sola realtà individuale sostanziale fatta da Dio che sia contemporaneamente inseparabile e una sola specie, perché da lì tu tragga la verità. Eretico: Vediamo che tutte sono tali, ma ne dirò una. Ecco, ciascuno di noi è un solo qualcosa, individuale e sostanziale, fatto da Dio e inseparabile; e tuttavia è una sola specie, una sola natura e una sola sostanza. Rustico: Come è tua abitudine, hai presentato tutto in modo ingannevole. Poiché dunque l’esempio ha reso più chiaro quanto detto, diremo anche noi che tutto questo non si può assumere in modo simile nel Signore Cristo; tu invece, hai preso come ammesso ciò su cui si indaga: Cristo infatti non è individuale allo stesso modo delle altre cose o come noi, giacché ciascuno di noi ha una persona individuale, cioè comune a nessun altro, e la sua sostanza individuale; invece in Cristo la persona è individuale (è infatti solo sua), mentre la natura non è allo stesso modo individuale, infatti è comune a tutte le tre persone e non è possibile trovarla se non comune. Ancora, di Cristo non si dice semplicemente ‘una sola cosa’ intendendo che sia un solo qualcosa, ma, più cautamente, ‘uno solo’, come si è dimostrato prima. Analogamente, poi, è stato dimostrato, riguardo a ciò che è sostanziale, che non è sostanziale solo quello che sussiste in una sola sostanza, ma anche quello che sussiste in più sostanze; e ciò che è da Dio non si dice che sia una sola cosa con Dio che lo crea, ma lo si dice di una creatura insieme con una creatura, come l’anima con il corpo. E professiamo indiviso il Figlio di Dio Signore nostro Gesù Cristo: la sua persona è inseparataa e le sue nature sono non ‘inseparata’ in quanto una ma ‘inseparate’ in quanto due unite. Dunque è chiaro che non si sono realizzate nel Signore a  L’aggettivo inseparatus entra nel linguaggio trinitario a partire da Tertulliano (cf. adv. Prax. 9, 1; 18, 3; 19, 8; 22, 2) e in ambito cristologico è comune negli atti dei concili come traduzione di achōristos o mē chōrizomenos (cf.  ThLL VII, 1, 1864, 34–54).

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Disputa, 1187B–1188B

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Cristo le medesime condizioni che negli altri. È dunque folle che tu abbia sproloquiato ingannevolmente in questo modo, mentre sarebbe stato più opportuno dire che nelle creature le cose stanno così e nel Creatore che assume la creatura non stanno così. Infatti neppure in qualunque altro è mai avvenuto che due perfettissime nature preesistessero dal principio in altre loro realtà individuali e poi da queste si realizzasse una sola persona. Eretico: Che cosa? Dunque, per favore, dimmi: forse che tutti i dottori della Chiesa universale non hanno usato questo esempioa, dicendo che come uno solo è l’uomo, anima e corpo, così uno solo è Cristo, Dio perfetto e uomo perfetto? Così dunque anche Cristo è sia una realtà individuale che uno e sostanziale e tutto il resto, come ho detto. Rustico: Anche prima ho già detto che è regola comunissima di tutti i ragionamenti razionali che gli esempi si intendano secondo una parte, non secondo la totalità. Dunque i Padri hanno usato questo esempio non per dimostrare quello che hai detto, che già da prima abbiamo mostrato che è falso, ma per dimostrare che c’è un solo Figlio, un solo Cristo, un solo Signore e che una sola è la sua personab dotata di sussistenzac. E perché tu non pensi che questo a  In effetti l’analogia antropologica era un argomento che aveva una lunga storia in teologia; è presente, ad esempio, nell’Epistola a Cledonio di Gregorio di Nazianzo, in un passo più volte citato da Rustico (cf. 1198D). A questo proposito si veda l’ampia analisi di Gahbauer (Gahbauer, Das antropologische Modell, Würzburg, p. 96–100). b  L’analogia antropologica era un modello interpretativo utilizzabile (ed effettivamente utilizzato) sia dai monofisiti che dai calcedonesi: i primi sostenevano che, come anima e corpo formano una sola natura umana, così in Cristo umanità e divinità si uniscono in una sola natura; secondo la cristologia difisita, invece, come anima e corpo si uniscono in una sola persona umana, così in Cristo umanità e divinità si uniscono in una sola persona. Secondo Rustico la differenza fra l’unione di anima e corpo nell’uomo e quella di umanità e divinità in Cristo è da ricercare nel fatto che nel secondo caso si uniscono due nature integre e complete, mentre corpo e anima non lo sono, perché esistono solo in funzione della loro unione; due nature integre e complete, poi, continua Rustico, non possono costituire una sola natura; su questo punto cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 115–117. c  Traduco così subsistentialis; questo aggettivo non è mai usato altrove nel Contra Acephalos e non sembra altrimenti attestato in latino; le peculiarità della lingua di Rustico, però, sono tali da non far ritenere questa circostanza un motivo sufficiente per correggere il testo tradito. Probabilmente questo termine deve essere

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esempio si addica in tutto, ascolta da noi le ragioni irrefutabili che distruggono la vostra menzogna. Se infatti fino a questo punto resti legato alle favole dei gentili e pensi che le anime razionali siano preesistite ai loro corpi, nondimeno ci saranno due perfettissime sostanze e nature, Dio e la mente; in più, secondo te, preesistono dal principio le due persone di Dio il Verbo e dell’anima unita a lui; ma da due persone preesistenti è impossibile che si faccia una sola personaa. Infatti il santo Cirillo nella lettera che confermarono sia la sede apostolica che il concilio di Efeso dice: «…anche se alcuni sostengonob l’unione delle persone; la Scrittura non ha detto infatti che il Verbo ha unito a sé la persona dell’uomo, ma che si è fatto carne»c. Ecco, accusa coloro che dicono che in Cristo inteso come analogo a subsistens (dotato di sussistenza / sussistente) che invece è usato più volte da Rustico, anche in relazione alla persona, come si legge ad esempio in 1193C: «la sua persona infatti è dotata di sussistenza» (sul concetto di subsistentia e subsistere cf. anche 1181B e nota). a  Lo stesso principio è espresso da Giustiniano, nella sua Confessio rectae fidei: «è impossibile che si verifichi un’unione secondo l’ipostasi di due ipostasi o di due persone» (p. 146, 7 Schwartz). A differenza di Rustico, Giustiniano non presenta alcun passo a sostegno del suo assunto, ma anch’egli subito dopo fa riferimento a Ioh. 1, 14 (p. 146, 12–13 Schwartz). Rustico molto probabilmente conosceva il trattato di Giustiniano, ma non sembra esserne stato particolarmente influenzato e, con la possibile eccezione di questo passo, non sembrano esserci paralleli significativi fra le due opere. b  Diffament traduce il greco epifēmizōsi; sebbene in questo senso non sia attestato in latino (cf. ThLL V, 1062, 13–64), Rustico evidentemente usa questo verbo nel senso di ‘affermare’, ‘sostenere’ come il suo corrispondente greco. c  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 28, 12–14; trad. Rustico in ACO 1, 3, p.  22, 19–21. La seconda lettera di Cirillo a Nestorio, composta nel 430, costituisce una importante sintesi del pensiero cristologico del patriarca alessandrino, in particolare la sua difesa del titolo di Theotokos per la Vergine e l’esigenza di preservare l’unità di Cristo (cf. McGuckin, St Cyril of Alexandria: the Christological Controversy, Leiden, 1994, p. 38; p. 262–265). Si tratta di un documento particolarmente importante per l’importanza che gli fu conferita al concilio di Efeso del 431; in questa sede infatti fu data lettura della lettera di Cirillo, sulla quale fu poi chiesto il parere dei vescovi presenti, che la giudicarono conforme al credo di Nicea e quindi ortodossa; fu poi letta la risposta di Nestorio e i padri conciliari la giudicarono non conforme al credo di Nicea. Le opinioni di Cirillo e Nestorio furono dunque confrontate proprio a partire da questo testo, che quindi ebbe un ruolo determinante nella condanna di Nestorio e nell’elaborazione della dottrina dell’incarnazione emersa dal concilio (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2,

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sia stata fatta un’unione di persone a tal punto che contro questa proposizione cita la Scrittura, cioè il Verbo si è fatto carne (Ioh. 1, 14). Per il nostro discorso, poi, coloro che dicono che quest’uomo che è stato assunto preesiste all’unione non differiscono in niente da quelli che sostengono che preesiste la mente di Cristo; anch’essi infatti vogliono che quelle menti abbiano persone proprie e infatti sostengono che esse siano preesistite uguali e simili e indifferenziate in tutto secondo la natura e la sostanza, ma non indistinte riguardo al numero degli individui. Infatti se non è questo quel che dicono, dunque in precedenza c’era una sola mente per tutto e poi sulla base dei vari meriti si è distinta in menti diverse. Ma come poteva una sola mente non avere un unico merito, essendo in tutto e per tutto una e non differente da se stessa? Oppure, se per questo soltanto quella mente poté cominciare a differenziarsi, perché non dovrebbe essere lo stesso per le cose che sussistono per la sua distinzione? E per questo anche la mia mente dovrebbe essere distinta in tanti individui quanti sono i meriti. Ma lungi da ogni anima razionale la follia di bestemmiare che il numero del peccato è causa del moltiplicare le anime! Se dunque abbracci le dottrine di costoro, riconosci che neppure così l’esempio dell’anima e del corpo conviene in tutto: l’uomo, infatti, non è da due persone perfettissime e neppure da perfettissime nature preesistenti, anche se secondo il corpo è da una materia preesistente. Inoltre lo stesso corpo umano è stato fatto solo perché sia come lo strumento, se così si può dire, di quest’anima. La mente poi, rispetto ad esse, ha avuto una sussistenza separata: infatti l’unione che si è realizzata in Cristo non fu dal principio. Se fosse infatti dal principio, ciascuna mente (lungi da noi!) sarebbe stata Cristo (infatti non vogliono che siano state fatte diverse in nulla dal principio), infatti non è soltanto a causa del corpo che è Cristo, altrimenti non si sarebbe realizzata un’inumanazione, ma solo un’incarnazione. Analogamente se una sola mente è stata unita al Verbo, l’inumanazione non è dalla Vergine, perché non è da allora che la totalità della nostra natura è unita, p. 877–878). Questa lettera, proprio per questo, è citata molto spesso da Rustico; questa e l’epistola a Giovanni di Antiochia sono in effetti i testi di Cirillo più citati nell’opera.

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ma già prima sussisteva quello che è molto più importante, anzi ciò che l’uomo è più propriamente, cioè l’uomo interiore; e l’inumanazione sarà soltanto unione di quello esteriore. Ma non pensarono così i santi Padri, giacché insegnarono in assoluto accordo che la nostra natura perfetta è unita al Verbo, e non la sola carne, dal momento del concepimento che è avvenuto nella Vergine. L’epistola prima citata contiene infatti anche queste parole: «Diverse certamente sono le nature che concorsero alla vera unione, è uno solo però da entrambe Cristo e il Figlio, non come se la differenza delle nature fosse stata annullata a causa dell’unione, ma piuttosto poiché divinità e umanità attuarono per noi un solo Signore e Cristo e Figlio, tramite il loro ineffabile e inenarrabile concorso nell’unione»a. Ecco: disse che nature certo differenti si sono unite nel Signore, e questo è accaduto per fare il Cristo, perché tu non pensassi che sia avvenuto in un altro tempo rispetto a quello in cui è avvenuto il concepimento del corpo; e perché nessuno pensi che la sola carne allora si sia unita al Verbo, ha aggiunto che la divinità e l’umanità concorsero nell’unione. Eretico: Noi non veneriamo la dottrina che hai citato: si tratta infatti di quello che sulla preesistenza si attribuisce a Origeneb, dottrina che anche i santi padri nostri e gli arcivescovi di Alessandria anatematizzarono, soprattutto il santo Teofiloc, che il santissimo Cirillo ha seguito in ogni confessione ortodossa. È superfluo dunque che tu abbia confutato le dottrine che noi non veneriamo. Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 27, 1–5; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 21, 10–14. b  L’eretico identifica la dottrina citata da Rustico con quella di Origene (egli non ne aveva fatto il nome, riferendosi genericamente a dottrine paganeggianti in 1188B) e la condanna recisamente come eretica; a suo avviso quindi l’intervento dell’interlocutore non è affatto pertinente. c  Teofilo di Alessandria infatti nel 401 condannò la dottrina di Origene e perseguitò con grande durezza gli origenisti. L’avversario di Rustico mostra piena adesione alla lotta contro l’origenismo portata avanti da Teofilo, zio e predecessore di Cirillo. L’eretico rivendica orgogliosamente la lotta in difesa dell’ortodossia del patriarcato di Alessandria, al quale evidentemente si sente particolarmente legato. Alessandria aveva in effetti un ruolo centrale per la diffusione del monofisismo, ma forse il fatto che l’eretico del Contra Acephalos sia così legato all’Egitto è anche dovuto all’esperienza personale di Rustico che proprio durante il suo esilio in Egitto aveva avuto probabilmente modo di entrare in un contatto più stretto con i monofisiti. a 

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Bisogna invece, una volta che hai scelto di accusare la nostra dottrina e stare dalla parte contraria, che tu parli di aspetti pertinenti alla questione. Rustico: Poiché fra voi avete alcuni che pensano in questo modoa ed è conseguenza della vostra dottrina che sosteniate queste posizioni, come sarà dimostrato in seguitob, sono costretto a parlarne, ma poiché tu le non difendi mi volgerò ad altro. Poiché dunque le anime degli uomini non preesistono ai loro corpi, è chiaro che sono create da Dio le une per gli altri, l’anima come per Il collegamento fra origenismo e monofisismo è piuttosto diffuso nei testi dell’epoca, ma non tanto dal punto di vista dottrinale, come qui in Rustico, quanto dal punto di vista storico. Secondo una versione dei fatti allora assai diffusa, infatti, la condanna dei Tre Capitoli sarebbe stata dovuta ad una manovra del vescovo origenista Teodoro di Cesarea di Cappadocia per far cadere in disgrazia il diacono Pelagio, apocrisiario della sede romana a Costantinopoli, in risposta alla condanna di Origene che Pelagio stesso avrebbe fortemente voluto proprio per contrastare l’influenza di Teodoro; questa ricostruzione è sostenuta in particolare da Facondo di Ermiane in Defensio 1, 2, 2–8 (cf. A. Placanica, ‘Facondo Ermianense e la polemica per i Tre Capitoli’, Maia 43 (1991), p.  41–46). Secondo Liberato, lo stesso Teodoro avrebbe ammesso apertamente che l’origine della controversia fosse da ricercare nella rivalità personale fra lui e Pelagio: «Credo che sia chiaro a tutti che questo scandalo sia entrato nel mondo tramite il diacono Pelagio e Teodoro, vescovo di Cesarea di Cappadocia, dal momento che anche lo stesso Teodoro disse in pubblico che lui e Pelagio avrebbero meritato di essere bruciati vivi, poiché per loro tramite questo scandalo era entrato nel mondo» (Breviarium 23). A questo proposito Perrone osserva che, se sembra possibile trovare un legame storico fra la questione dei Tre Capitoli e la condanna dell’origenismo, sembra invece meno probabile che vi siano stati fra le due questioni degli elementi comuni anche dal punto di vista dottrinale; d’altra parte l’ambiente monastico palestinese, nel quale nella prima metà del VI secolo maturò la crisi origenista, era generalmente filo-calcedonese e questo atteggiamento sembrava accomunare senza significative distinzioni sia gli origenisti che gli anti-origenisti. Lo studioso osserva inoltre che il dibattito sull’origenismo non sembra essere nato come una conseguenza delle dispute cristologiche, ma piuttosto per reazione ad esse; in un momento in cui la discussione su Calcedonia sembrava in una fase di stallo, dunque, divenne possibile l’emergere di un’altra problematica, precedentemente soffocata dal predominio assoluto della cristologia; cf.  Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche. Dal concilio di Efeso (431) al secondo concilio di Constantinopoli (553), Brescia, 1980, p. 175–201 e 207–209. b  Rustico riprenderà infatti la questione più avanti, in 1231D–1232B, quando chiarirà meglio i motivi che lo hanno indotto a collegare monofisismo e origenismo: egli cercherà di dimostrare infatti che la dottrina monofisita presuppone la dottrina origeniana della preesistenza delle anime. a 

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governare il corpo secondo natura, il corpo poi come quello senza il quale è impossibile compiere queste sue operazioni. Per questo infatti l’anima individuale usa un corpo individuale e un’altra anima non governa naturalmente un altro corpo, ma ciascuna il suo (per questo infatti anche sussiste), ma Dio il Verbo non sussiste per incarnarsi e inumanarsi, ma è eterno, e neppure l’umanità sussiste per questo (parlo però ora non di quella individuale, che è stata unita al Verbo, ma di quella comune); quindi neppure l’umanità sussiste per unirsi così, ma ha un’altra causa del sussisterea. Vedi dunque che l’esempio dell’unione è di gran lunga diverso. Eretico: Anche se è discrepante l’esempio di Dio il Verbo e dell’anima (Dio infatti non preesiste soltanto all’anima, ma preesiste infinitamente anche all’uomo ed egli è Creatore sia di tutta la natura che della sua umanità e non solo muove la propria umanità, ma anche tutte le cose che vuole e come vuole), non lo è tuttavia quello dell’umanità rispetto alla carne: come infatti la carne umana è stata fatta perché, governata dall’anima razionale, cioè umana, fosse utile per compiere le operazioni dell’anima che altrimenti non potrebbero essere compiute, così l’umanità di Dio il Verbo è stata fatta per compiere le sue operazioni mentre è mossa da lui. Analogamente, dunque, una sola è la natura tramite l’unione del Verbo e della sua umanità. Rustico: Questo non è affatto vero, ma lo è piuttosto il contrario. Se infatti riguardo al Verbo e all’anima l’esempio è dissimile e inadeguato, mentre riguardo a umanità e carne è invece simile e non inadeguato, questo porta più a negare che ad affermare che sia una sola la natura di Dio il Verbo e dell’umanità. Dunque, dal momento che una sola natura non può insieme essere e non essere una sola, resta che, per la somiglianza dell’esempio, sia, certo, una sola persona, ma non sia una sola natura, a causa di quell’elemento che di gran lunga differisce di piùb. Se dunque non è stata fatta Un analogo ragionamento contro l’uso dell’analogia antropologica da parte dei monofisiti si legge anche in Massenzio: «In primo luogo ritengo che questo esempio non si addica affatto al Figlio di Dio, per il quale la causa del sussistere non fu la carne» (Resp. Contra Acephalos 6, 10). b  Rustico dopo la digressione sull’origenismo conclude il discorso sull’analogia antropologica spiegando che l’esempio è inappropriato se usato per sostenere che ci sia un’unica natura di Cristo, mentre è appropriato per dimostrarne l’unità di persona. a 

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una sola natura, risulta che ne rimangono due; dunque non avrai intenzione di dire, al contrario, che non sia una la natura di Dio rispetto all’umanità e invece che sia una la natura dell’umanità rispetto a Dio, non solo perché il senso non differisce in nulla, ma anche perché subito risponderò: quindi sono due le nature del Verbo e dell’umanità, anche se non sono due quelle dell’umanità e del Verbo, ma una; e l’assurdo non sorge dalla mia proposizione, ma dalla vostra. Eretico: Questo, penso, nessuno di quelli che hanno intelletto rifiuta di professarlo, poiché se una sola è la natura della carne e del Verbo, una sola è la natura del Verbo e della carne, e, se sono due, ugualmente sono duea: è infatti la stessa cosa, per quante volte uno convertab capziosamente le proposizioni. Ma io chiedo, piuttosto, a  Probabilmente l’eretico intende dire che l’ordine delle parole non ha alcuna importanza: chi parla di una sola natura lo fa a prescindere dall’ordine in cui si citano il Verbo e la carne e ugualmente si comportano coloro che professano le due nature. b  Questo uso del verbo converto è un un calco del greco antistrefo, usato come termine tecnico in riferimento alla convertibilità dei predicati. Nel Contra Acephalos il verbo comunque è usato in questo senso solo qui, dove l’eretico accusa Rustico per la capziosità del suo discorso, prendendo quindi le distanze da un certo modo di condurre la discussione troppo legato alla filosofia. Il verbo converto in questo senso è usato frequentemente da Boezio e la sua presenza indica appunto la presenza di un influsso aristotelico, forse mediato dai commentatori di Aristotele (cf. Micaelli, ‘Teologia e filosofia nel Contra Eutychen et Nestorium di Boezio’, Studi Classici e Orientali 31 (1981), p. 181). Si deve notare comunque che il termine nella letteratura filosofica doveva essere di uso piuttosto comune, tanto che si trova anche in una trattazione, per così dire, divulgativa come quella di Marziano Capella (cf. Nupt. IV, 397), dove si discutono con una certa ampiezza le regole della conversione dei predicati nelle proposizioni. Inoltre, se non il verbo, la tecnica almeno era piuttosto diffusa anche presso autori meno influenzati dalla logica aristotelica; in Facondo di Ermiane, ad esempio, non si trova questo uso tecnico del verbo converto, ma la tecnica della conversione dei predicati è esplicitamente ammessa nella dimostrazione e segnalata dal punto di vista lessicale dall’avverbio reciproce. Questa tecnica è utilizzata ad esempio in Defensio 1, 4, 23, dove si sostiene che, se è assurdo dire che Maria è in senso proprio madre di Dio, è assurdo anche dire che reciproce il Verbo è in senso proprio figlio dell’uomo; e se è assurdo dire che il Verbo è in senso proprio figlio dell’uomo, sarà assurdo dire che il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, è in senso proprio Figlio di Dio, come invece si legge in Rom. 8, 31–32. Lo stesso concetto viene ripetuto anche in 1, 4, 30: se Dio è in senso proprio figlio dell’uomo, è necessario che anche per l’uomo valga l’inverso, cioè che Maria sia in senso proprio madre di Dio.

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questo: se la tua spiegazione è vera, perché non ci dovrebbe essere una sola natura e magari non una sola persona di Cristo, piuttosto che una sola persona ma non una sola natura? In che modo invece Cristo è uno secondo l’esempio dell’uomo, dal momento che le differenze superano di gran lunga le concordanze? Tutto, infatti, lascerebbe pensare che non fosse uno, invece che un solo Cristo, Figlio e Signore. Rustico: Se davvero la natura divina, che è certo comune alla santa Trinità, si fosse inumanata principalmente secondo se stessa, l’incarnazione sarebbe stata di tutte e tre le personea; infatti quello che è della natura comune, principalmente e secondo sé, è comune alla santa Trinità. Poiché però non si è incarnata di per sé, ma tramite una sola persona (infatti solo Dio il Verbo, il Figlio di Dio, si è incarnato, colui che è una sola persona di quella natura), per questo si è unita a lui la carne razionale senza alcuna mediazione, una sola con lui è la persona e uno solo è il Figlio, uno solo è Cristo, uno solo il Signore. Essere una sola persona e un solo Figlio non è proprio di tutta la Trinità, ma di una e una sola persona; ma, perché incarnazione, nascita e passione non siano di tutta la Trinità, si dice che la natura del Verbo si sia incarnata tramite il Verbo e secondo ciò che è del Verbo, non che lo stesso Verbo si sia incarnato tramite la natura e secondo ciò che è la natura stessa. Dunque la somiglianza prima citata riguarda l’unico Figlio, l’unico Cristo, mentre la differenza riguarda non più cristi o figli, ma due nature. È per questo che ho sviluppato tutto il discorso che riguarda la differenza degli esempi della carne e dell’anima, e non in considerazione della domanda, cioè perché in Cristo siano diverse non le persone, ma le nature. Eretico: Non mi è sufficiente per credere che questa differenza dell’esempio basti a dimostrare che non una, ma due sono le Rustico sostiene quindi che Cristo non può essere di una sola natura perché in tal caso si tratterebbe della natura comune della divinità e quindi tutta la Trinità si sarebbe incarnata (e non la sola persona del Figlio). Si tratta di un concetto spesso ripetuto nell’opera (cf. 1208D, 1211C–D e 1213A), dal momento che per Rustico per ‘natura’ o ‘sostanza’ a meno di ulteriori precisazioni si intende la natura comune, non la natura individuale (cf. 1213B e nota). a 

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nature del Signore Cristo. Se dunque hai altre differenze, di’ quali sonoa. Rustico: Ce ne sono molte altre, la prima delle quali è che il Verbo è distinto da quanto gli è consustanziale non nella natura o nella sostanza, ma nella sola persona; ciascuno di noi invece, oltre a quella comune, ha anche la propria sostanza individuale e la propria natura, perciò infatti si parla anche di molti uomini. Inoltre l’anima è soggetta a passione insieme al corpo, invece Dio il Verbo assolutamente no; l’anima non ha in nessun modo il principio di operazione fuori dal suo corpo, invece Dio il Verbo, pur esistendo anche nell’umanità, compì in cielo e dovunque le operazioni consuete, sebbene alcune, e inestimabili, anche attraverso il corpo. Che differenza c’era infatti, rispetto alle operazioni che compie dall’inizio, se avesse o no l’umanità, dal momento che non era tramite l’umanità che mandava la pioggia, provocava i tuoni, muoveva gli astri? E, per parlare semplicemente, tramite essa non operò niente di più se non solo quello che alla fine fu fatto per la nostra salvezza, per la quale si è anche inumanato. Ereticob: Come se fossero cose da poco, queste, e il fatto di non aver unito anche a sé realtà più grandi o pari! Per questo a te sembrano meno adatte. Rustico: Non abbiamo citato per questo quanto detto prima, bensì perché una è la libertà della divinità, nella carne e fuori, e altra la necessità dell’anima che, vincolata nel corpo, secondo se stessa ha nello stesso modo il potere di muovere il corpo soltanto. Ma

a  Con questo intervento dell’eretico si chiude l’ampia sezione dedicata all’analogia antropologica: egli infatti non muove ulteriori obiezioni all’interpretazione di questo esempio data da Rustico, ma non ritiene che questo sia un motivo sufficiente per abbracciare la dottrina difisita. b  Nell’editio princeps e nelle successive edizioni manca una battuta dell’eretico (si segnala l’inizio della battuta di Rustico in 1191B e poi di nuovo in 1191C); però subito dopo «per la quale si è anche inumanato» si legge un inesplicabile Harum che non si lega a quanto segue. Si tratta evidentemente di una corruzione della sigla Haeret. che segnala l’inizio dell’intervento dell’eretico, come del resto ci si aspetterebbe dopo la domanda di Rustico. Le parole che seguono sarebbero dunque un commento dell’interlocutore. Il significato non è però del tutto chiaro e la traduzione proposta è tutt’altro che sicura.

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anche questo sia aggiunto per pura concessione, perché la spiegazione condotta sulla natura e le persone della Trinità è sufficiente. Eretico: Una sola è la sussistenza di Cristo, oppure non è una, ma piuttosto duea? Rustico: Anche questo lo chiedi con frode. ‘Sussistenza’ è infatti un solo nome, ma significa realtà diverse, alle quali non conviene una sola risposta. Talvolta infatti indica la persona, talvolta la sostanza. Del resto nel santo concilio di Efeso sono accettati entrambi i significatib. Si sostiene che il santo Gregorio di Nazianzo, infatti, fra gli altri passi inclusi negli atti conciliari a testimonianza della rettissima fede e a distruzione delle dottrine di Nestorio, abbia insegnato anche questo: «Altra cosa certo e altra cosa quelle dalle quali il Salvatore; l’invisibile non è infatti la stessa cosa del visibile e ciò che è senza tempo non è la stessa cosa di ciò che è nel tempo. Non invece uno e un altro, lungi da noi! Entrambe infatti sono una cosa sola per commistione, essendosi Dio inumanato e a  Con questa domanda dell’eretico si apre un’importante riflessione sul significato e sull’uso teologico del termine subsistentia, riflessione che verrà sviluppata in modo più approfondito più avanti, rivelandosi un elemento centrale della cristologia di Rustico (cf. 1238B–1239B). A questo punto della discussione, però, Rustico si preoccupa soprattutto di chiarire l’uso e il significato di questo termine nel linguaggio teologico, per sgombrare il campo da ogni ambiguità che potrebbe essere sfruttata dal suo avversario: anche se in 1238B egli darà una sua definizione di sussistenza, Rustico sa infatti che in teologia il termine può essere usato sia nel senso di ‘natura’ che di ‘persona’ (cf. Spataro, Il diacono Rustico, p. 119–120). b  Rustico cita a sostegno della sua precisazione riguardo all’uso di subsistentia alcune testimonianze patristiche greche tratte dagli atti del concilio di Efeso (questo le rende autorevoli in quanto testi fatti ufficialmente propri da un concilio; cf. 1176C). In tutti questi passi il termine subsistentia traduce il greco hypostasis; non è possibile in questa sede affrontare il problema del significato di questo termine, cruciale per la teologia greca; si deve però ricordare almeno che nel corso del IV secolo divenne abituale distinguere ousia, usato per indicare il livello nel quale si deve vedere l’unità della Trinità e hypostasis, con il quale si indicavano le singole persone della Trinità: il primo termine dunque venne ad indicare la sostanza comune, il secondo la sostanza individuale. In latino, però, la parola substantia, che corrisponde esattamente a hypostasis, in teologia era correntemente utilizzata come equivalente di natura. Per questa ragione probabilmente Rustico sceglie il termine subsistentia per tradurre il greco hypostasis; in questo modo infatti egli può evitare le ambiguità linguistiche del termine substantia ed esprimere in modo più chiaro e preciso il suo pensiero (cf. Petri, ‘Il diacono Rustico, traduttore e teologo’, p. 194–198).

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l’uomo divinizzato, o in qualunque modo lo si dica; dico poi ‘una cosa e un’altra’, al contrario di quanto avviene nella Trinità: nella Trinità infatti ‘uno e un altro’, perché non confondiamo le sussistenze, non invece ‘una cosa e un’altra’: le tre sono infatti una sola cosa, e la medesima per la divinità»a. Ecco, in modo chiarissimo l’autorità del concilio universale ha accolto e approvato la parola ‘sussistenze’ per le ‘persone’ della santa Trinità. Il santo Cirillo, arcivescovo di Alessandria, poi, nella terza lettera a Nestoriob, Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 28–33; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 72, 22–28. b  Questa lettera fu composta da Cirillo dopo la condanna di Nestorio da parte di un sinodo romano tenutosi nell’estate del 430 e proprio per questo è molto aspra nei confronti del patriarca di Costantinopoli. Papa Celestino aveva infatti chiesto che Nestorio rinunciasse ai suoi errori e si adeguasse alla dottrina ortodossa professata a Roma e ad Alessandria, senza fornire ulteriori precisazioni; ricevuta la notizia di questa condanna, Cirillo riunì un sinodo egiziano per ratificarla e, forte anche dell’appoggio di Roma, in questa occasione scrisse una lettera ufficiale a Nestorio nella quale esponeva la corretta dottrina dell’incarnazione; la lettera si concludeva con dodici proposizioni (anatematismi) che il patriarca di Costantinopoli avrebbe dovuto sottoscrivere per dimostrare la sua ortodossia. La loro formulazione era però così estrema da lasciare poche possibilità di composizione della controversia, perché accettare di sottoscriverle sarebbe stato impossibile non solo per Nestorio, ma anche per qualunque esponente della scuola teologica antiochena (cf. McGuckin, St Cyril of Alexandria, p. 43–45; 266–275); essi, ad esempio, sembravano infatti negare la possibilità di una distinzione di umanità e divinità in Cristo anche solo a livello intellettuale. Dopo il concilio di Efeso, il patriarca Giovanni di Antiochia incaricò Teodoreto di Ciro ed Andrea di Samosata di confutare i dodici anatematismi ed essi sollevarono dubbi sull’ortodossia di queste proposizioni, per cui Cirillo fu costretto a difendersi fornendo spiegazioni e chiarimenti (Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, 1, 2, p. 883–896). L’esito stesso della controversia dimostra che le proposizioni di Cirillo erano considerate dagli orientali un pericolo più grave della stessa condanna di Nestorio; nel 433, infatti, quando Cirillo rinunciò di fatto agli anatematismi, pur non ritirandoli ufficialmente, gli antiocheni accettarono la legittimità del titolo theotókos e la deposizione del patriarca di Costantinopoli (cf.  Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, 1, 2, p. 883–885). Dati i contenuti della lettera, non sorprende che Rustico preferisca fare riferimento ad altri testi cirilliani, come la seconda lettera a Nestorio (cf. 1188C e nota) e, soprattutto la Laetentur (cf. 1176A e nota), ma, citando e mostrando di approvare anche questa lettera e gli anatematismi stessi, intende dimostrare l’accordo della dottrina cristologica di Cirillo nella sua totalità con la formula calcedonese. Egli infatti cerca di interpretare anche i discussi anatematismi, che potevano sembrare effettivamente in contrasto con la definizione di Calcedonia, alla luce della cristologia della Laetentur. I monofisiti ritenevano invece che l’aua 

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sostenendo che in Cristo si è realizzata un’unione secondo la sussistenza, ammonì da parte sua che non si devono dividere in due sussistenze e neppure in due persone le parole che sono scritte su di lui, prima dicendo così: «Non dividiamo in due persone o sussistenze le parole del nostro Salvatore che sono nel Vangelo»a; poi: «Se qualcuno ripartisce in due persone o sussistenze le parole che sono scritte nei testi evangelici o apostolici o quelle che sono dette dai santi riguardo a Cristo, o da lui stesso su se stesso…»b e ciò che segue. In precedenza invece: «Se qualcuno riguardo al Cristo, che è uno, divide le sussistenze dopo l’unione, congiungendole con la sola congiunzione che è secondo la dignità o l’autorità o la potenza e non piuttosto con il concorrere secondo l’unione naturale, sia

tentico pensiero cirilliano fosse quello più radicale, espresso proprio negli anatematismi contenuti nella terza lettera a Nestorio, mentre la Laetentur sarebbe stata solo una concessione alla posizione avversaria, necessaria per porre fine alla rottura con Antiochia seguita al concilio di Efeso del 431; Cirillo infatti si sarebbe indotto a scrivere la Laetentur non per vera convinzione, ma solo per cercare di riportare la pace nella Chiesa (cf. 1176A, dove l’avversario di Rustico sostiene esplicitamente questa interpretazione dei fatti); essi dunque si presentavano come gli unici fedeli interpreti e veri eredi della più autentica dottrina cirilliana, mentre i calcedonesi si sforzavano, non senza difficoltà, di sottrarre loro la memoria del patriarca alessandrino (cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 102–104). a  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. tertia, in ACO 1, 1, 1, p. 38, 4–5; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 31, 12–13. b  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. tertia, anat. 4, in ACO 1, 1, 1, p. 41, 1–3; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 34, 4–6. Si tratta di uno degli anatematismi più discussi, perché attribuire alcuni passi della Scrittura all’umanità e altri invece alla divinità di Cristo era considerato l’unico modo per non incorrere nell’arianesimo; in effetti Cirillo fu costretto a difendersi dall’accusa di Teodoreto di riaprire con questa proposizione la strada a questa eresia (cf. ACO 1, 1, 6, 121, 1–125, 27). Rustico cita questo passo senza mostrare alcuna preoccupazione del genere; egli però traduce il greco hypostasis con subsistentia, considerato qui equivalente a persona (cf. 1191D, dove Rustico parla della potenziale ambiguità di questo termine, che talvolta equivale a natura, talvolta a persona), smorzando così di fatto la portata delle parole di Cirillo, che si opporrebbe ad una divisione in due persone di Cristo, non alla distinzione delle nature (cf. 1193B: «E ancora, quando proibisce di ripartire le parole che sono dette su Cristo in due persone o sussistenze, ha usato in modo simile e senza che facesse differenza il nome di ‘sussistenza’ e quello di ‘persona’, al punto che egli stesso in seguito ripartì le parole fra le due nature»). Il corretto modo di intendere il termine hypostasis sarà il centro della discussione sul terzo anatematismo che Rustico conduce nelle pagine seguenti (1192C–1194B).

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anatema»a. Dicendo dunque che è abominevole dividere le sussistenze riguardo al Cristo uno, dopo l’unione, e accusando analogamente quelli che le congiungono secondo dignità, autorità e potenza e non piuttosto secondo l’unione naturale, ha dimostrato che bisogna congiungerle così; quindi le sussistenze in Cristo non si devono congiungere secondo la sola dignità o simili, ma piuttosto le sussistenze si devono congiungere in Cristo secondo l’unione naturaleb. Eretico: Io credo che abbia detto che l’unione nel Signore Cristo è da due nature e insieme sussistenze, come da due persone; infatti non può aver inteso in modo così diverso questo nome della sua sussistenza in due passi così vicini, e soprattutto dicendo «dopo l’unione», come per dire che ci sono due nature prima dell’unione, mentre dopo l’unione ce n’è una. Rustico: Non è affatto vero; abbiamo infatti dimostrato in precedenzac che non dice che il Signore è da due persone. Se infatti avesse voluto dire questo, come non ricusa di professare che Dio il Verbo ha unito a sé la nostra natura quando dice che il Signore è da due nature, così non avrebbe dovuto ricusare di professare che ha unito a se stesso la persona dell’uomo. Ora, invece, approva proprio la prima formulazione, mentre condanna la seconda, dicendo nella seconda lettera a Nestorio: «Ma, se si pensa così, non giova in alcun modo alla giusta spiegazione della fede, anche se certo alcuni sostengonod l’unione delle persone: infatti la Scrittura non ha detto che il Verbo ha unito a se stesso la persona dell’uomo, ma che si è fatto carne»e. Ecco, dice chiaramente che è lo stesso o che è a  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. tertia, anat. 3, in ACO 1, 1, 1, p. 40, 28–30; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 34, 1–3. b  Secondo Rustico quindi in questo passo il termine subsistentia andrebbe inteso nel senso di natura: come spiega subito dopo, infatti, sono le nature, non le persone che si uniscono in Cristo e l’espressione ‘unione naturale’ deve essere intesa nel senso di ‘unione delle nature’ (1194B). c  Cf. 1188C: «da due persone preesistenti è impossibile che si faccia una sola persona»; Rustico aveva anche citato un passo cirilliano a sostegno della sua posizione. d  Per la traduzione di diffament si veda la nota a 1186C. e  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 28, 11–14; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 22, 18–21.

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se non altro logica conseguenza che chi dice ‘unione delle persone’ dica che il Verbo ha unito a sé la persona dell’uomo; e, stigmatizzandolo come contrario alla Scrittura divina, scrisse che invece si è fatto carne, quasi affermando che colui che in Cristo parla di unione di persone respinge quello che è stato detto dalla santa Scrittura, cioè che il Verbo si sia fatto carne (Ioh. 1, 14); ma poco prima questo è stato dimostrato, quando dice: «Si è realizzata infatti l’unione di due nature, per cui professiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore»a; in modo chiarissimo, dunque, il nome di ‘sussistenza’ significa spesso ‘persona’, ma talvolta ‘natura’; infatti non significa sempre sia persona che natura, come dici tu. E ancora, quando proibisce di ripartire le parole che sono dette su Cristo in due persone o sussistenzeb, ha usato in modo simile e senza che facesse differenza il nome di ‘sussistenza’ e quello di ‘persona’, al punto che egli stesso in seguito ripartì le parole fra le due nature dicendo: «Sappiamo che i teologi hanno considerato alcune parole dei Vangeli e degli apostoli sul Signore comuni come riguardo a una sola persona, altre invece le hanno divise come su due nature»c. E più avanti: «Abbiamo glorificato il Signore, Salvatore di tutti, perché le Chiese, tanto quelle che sono presso di voi che quelle presso di noi, hanno una fede in accordo con le Scritture divinamente ispirate e con la tradizione dei nostri santi Padri»d; d’altra parte queste cose, di seguito, per ordine, sono state ricordate soprae. Ecco, ha professato che le divine Scritture e i Padri si esprimono così perché bisogna che le parole siano ripartite fra le due nature. Poiché quindi non si contraddice, risulta che a  Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, in ACO 1, 1, 4, p. 17, 14–15; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 189, 2–3. b  Il riferimento è al quarto anatematismo; cf. 1192B. c  Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, in ACO 1, 1, 4, p. 17, 17–19; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 189, 6–9. d  Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, in ACO 1, 1, 4, p. 17, 22–25; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 189, 11–13. e  Questa frase nella Patrologia Latina è erronamente considerata parte della lettera di Cirillo, ma dal testo originale non risulta che appartenga alla lettera né è presente nella citazione di questo stesso brano che si legge in 1174C; queste parole devono essere dunque attribuite a Rustico, come già accadeva nell’editio princeps; potrebbero riferirsi a 1174A–C, dove è citato per esteso un ampio brano della lettera.

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le parole debbano essere ripartite fra le nature e, invece, assolutamente non fra le persone, cioè le sussistenze. Dunque questo è un nome comune di realtà diverse e talvolta significa ‘persona’, spesso invece ‘natura’. Diciamo dunque che è una sola la sussistenza del Signore Cristo (la sua persona infatti è dotata di sussistenza), ma non rifuggiamo dal dire anche ‘due’, quando qualcuno lo voglia intendere in accordo con la retta fede con ogni cautela anche nel senso di nature; sussistono infatti due nature. Eretico: Ma ecco, il concilio di Calcedonia, che venerate, dice che una sola è la sussistenza del Signore Cristo, mentre il beatissimo Cirillo dice ‘una sola da due sussistenze’; dicevi poi (anzi, piuttosto, lo hai voluto dimostrare prima) che non dice ‘da due persone’: dunque sostiene che il Signore Cristo è da due nature. Ma poiché subito questo Padre parla anche di ‘una sola sua sussistenza’, dunque ha riconosciuto una sola natura del Signore Cristo. Come infatti non rifiuti che sia stato detto ‘da due nature’ e ‘da due sussistenze’, così non potrai negare che dica ‘in una sola natura’, dal momento che predica che l’unione si è realizzata in una sola sussistenza. Infatti non presentiamo ora parole di un altro Padre o parole scritte in opere diverse riguardo a questo, ma anche nella stessa lettera (e in passi non distanti fra loro) si sostiene la stessa cosa, anche quando lo sentiamo dire che le nature concorsero secondo un’unione naturalea e non personale, poiché non solo è una sola la persona, ma anche la natura è una sola da due. Rustico: Certo quanto si è detto è una spiegazione sufficiente; come infatti abbiamo dimostrato che nel medesimo concilio è stato detto che la sussistenza significa talvolta ‘persona’, spesso invece ‘natura’, così in una sola e medesima lettera accade che siano a  Il riferimento è al terzo anatematismo, citato infatti sopra, in 1192B; più avanti del resto, in 1194C, Rustico per spiegare questa espressione si affida proprio ad un’analoga spiegazione data da Cirillo nella sua Explanatio XII anathematismorum, an. γ. L’avversario di Rustico continua ad insistere che Cirillo usa subsistentia nel senso di natura, poiché gli sembra inverosimile che abbia usato la stessa parola in modo diverso in una stessa lettera e in passi molto vicini; Rustico ribadisce però che oscillazioni nel significato di subsistentia si possono dare anche all’interno della stessa lettera; del resto si tratta di capitoli diversi.

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espresse realtà diverse con un solo nome, soprattutto perché, anche se in una sola lettera, tuttavia è stato detto in capitoli diversia. Inoltre, neppure tu potrai negare che abbia usato il nome di ‘sussistenza’ ora in un modo ora nell’altro: infatti una volta che ammetti che non ha detto ‘da due nature’ quando ha detto ‘da due sussistenze’ e dici poi che ha detto che tramite l’unione si è realizzata una sola persona e una sola sussistenza nel senso di una sola natura, risulta che ha usato questo nome ora in un modo ora nell’altro: qui ha detto che è da quelle sussistenze che non sono anche persone, ma solo nature, là poi ha parlato di quella sussistenza che è persona anche secondo te; ciò che, dunque, quando lo dicevo io, avevi ripreso come falso, lo hai confessato anche tu, anche se con un nome diverso. È chiaro dunque che, anche se a poca distanza, ha usato tuttavia il nome ora in un modo, ora nell’altro; che poi non abbia detto ‘una sola sussistenza’ nel senso di ‘una sola natura’, lo dimostreremo più oltre. Eretico: Se non ha inteso che tramite l’unione è stata fatta una natura da due, perché dice, come ho già detto prima, «secondo l’unione naturale»? Rustico: Per confutare coloro che dicono che la stessa natura divina del Verbo non si è unita alla nostra natura, ma è soltanto come un qualche accidente del Verbo, come dignità, autorità, potenzab. Premettendo, infatti, che le sussistenze non devono essere unite secondo la dignità o l’autorità o la potenza, solo allora ha inserito «ma secondo l’unione naturale», cioè l’unione delle nature stesse, come se si dicesse ‘coro angelico’, cioè ‘coro degli angeli’; e lo ha fatto nondimeno anche perché la persona non è unita alla persona, ma Dio il Verbo si è degnato di unire a se stesso la nostra natura e non la nostra persona, perché non si pensi che si sia realizzata un’unione non vera, né in una sola persona né in una sola cosa. Il santissimo Cirillo stesso, poi, nella prima spiegazione di questi capitoli, dice di aver parlato di un’unione naturale nel senso a  Rustico fa ancora riferimento agli anatematismi 3 e 4, che aveva commentato in 1192A–B. b  Il riferimento è naturalmente alla dottrina cristologica attribuita a Nestorio: Rustico intende dimostrare in questa sezione che Cirillo si è opposto alla cristologia divisiva del patriarca di Costantinopoli, non alla dottrina delle due nature in Cristo.

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di vera unione e produce la testimonianza dell’Apostolo per dimostrarlo, dicendo: Ed eravamo per natura figli dell’ira, come anche gli altri (Eph. 2, 3). E aggiunge: «Poiché egli ha detto per natura figli dell’ira nel senso di ‘veramente figli dell’ira’, così io ho scritto ‘unione naturale’ per ‘unione vera’»a. Se dunque intendiamo in questo passo l’unione naturale come quella che raccoglie in una sola natura le cose che sono unite, è necessario che anche in quel passo ci sia un’ira che sussiste secondo natura, la discendenza della quale è malvagia per natura, secondo la grandissima empietà di Manib. Inoltre, se Cirillo avesse voluto dimostrare che è stata fatta una sola natura, ovviamente nella spiegazione lo avrebbe detto in modo più chiaro e contro coloro che criticavano questa espressione avrebbe aggiunto: “E’ vero: ho detto questo e l’ho detto a ragione, infatti tramite l’unione è stata fatta una sola natura”. Perché dunque ha parafrasato «unione naturale» con ‘vera unione’? Nessuno, infatti, quando spiega la sua posizione e vuole chiarire ciò che ha detto, usa un nome di significato più incerto rispetto a quello che è assolutamente proprio. Infatti sia noi che voi diciamo che l’unione è vera, mentre ‘naturale’ lo pensate voi ed è un’idea a voi a  Cirillo di Alessandria, Explanatio XII anathematismorum, an. 3, in ACO 1, 1, 5, p. 19, 2–3. Si deve tenere presente che questa spiegazione degli anatematismi fu scritta da Cirillo di Alessandria in risposta alle critiche mosse da parte antiochena a questa formulazione della sua cristologia; in quest’opera quindi il patriarca alessandrino giustifica le sue affermazioni e smorza le sue posizioni più radicali, per cui Rustico può farne un uso non dissimile da quello dell’epistola Lae­ tentur. Come altri teologi di parte calcedonese prima di lui, egli infatti interpreta gli anatematismi alla luce della loro successiva Spiegazione, per cercare di renderne il contenuto compatibile con le conclusioni di Calcedonia, anche per quegli aspetti che sembravano vicini a quella monofisita ed in particolare per l’espressione ‘unione naturale’ che (non a torto) il suo avversario considera un autorevole precedente per la sua formula cristologica; per quest’opera di Cirillo cf. McGuckin, St Cyril of Alexandria, p. 95; 105–108. b  Si fa qui riferimento alla dottrina manichea dei due principi, secondo la quale il peccato sarebbe dovuto alla natura malvagia commista a quella buona; cf. Agostino, De haeresibus 46, 19: «Attribuiscono l’origine dei peccati non al libero arbitrio della volontà, ma alla sostanza della stirpe avversaria, che, come credono, si trova mescolata nell’uomo […] Dicono che la concupiscenza carnale, per la quale la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito, non è un’infermità che esiste in noi da quando la nostra natura si è corrotta nel primo uomo, ma insistono che sia una sostanza contraria».

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peculiare. Se dunque avesse voluto dire ciò che dite, egli lo avrebbe potuto dire molto più facilmente oppure non mutare affatto una parola che era più propria e insieme più chiara. Eretico: Erano piuttosto deboli nella fedea coloro per i quali si teneva il discorso, cioè gli Orientali, e perciò lo adattò così, in modo tale da introdurre tuttavia, anche se con un altro nome, lo stesso concetto, come se dicesse che chi dice ‘vera unione’ dice ‘unione naturale’ e chi dice che non è naturale respinge anche che sia vera. Ma cedette sulla proprietà del discorso a causa di coloro che non lo potevano ancora comprendere; se infatti l’unione è vera ma non è naturale, dimostralo. Rustico: Non c’è bisogno di esempio dal momento che la realtà stessa ci risolve il problema che stiamo affrontando; che infatti parlate diversamente di unione o di un’unione diversa rispetto a noi lo ammettete voi stessi; ed è evidente che diciamo che l’unione si è realizzata in una sola persona, in un solo Cristo, in un solo Figlio, in un solo Signore, in una sola sussistenzab, e che crediamo che essa sia vera. Il santo Cirillo, poi, usando il nome di ‘unione vera’ e cambiando quello di ‘unione naturale’, a causa dei deboli – dite voi – non sarebbe certo caduto per condiscendenza in un’empietà tanto grande al punto da tentare di dimostrare con una testimonianza apostolica che l’ira sussiste secondo la sostanza e che i suoi figli sarebbero quelli che non lo sono affatto, cosa che abbiamo dimostrato che è conseguente alla vostra proposizione. Se infatti qui avesse parlato di unità naturale in una sola natura, Cf.  I Cor. 3, 1–2. Il precedente paolino secondo l’interlocutore monofisita giustifica il comportamento di Cirillo nell’adattare il suo pensiero agli interlocutori e spiega quindi le oscillazioni nelle sue formulazioni cristologiche, mentre Rustico è evidentemente interessato a sostenere che il patriarca alessandrino abbia qui espresso la sua vera opinione e nelle righe che seguono accusa il suo interlocutore di calunniare Cirillo. Già in 1176A Rustico di fronte ad analoghe osservazioni del suo avversario aveva risposto che questa interpretazione del comportamento del patriarca alessandrino sarebbe stata equivalente ad un’accusa di simulazione. b  Nell’editio princeps si legge ‘sostanza’, conservato anche nelle successive edizioni, ma Rustico non usa questo termine come sinonimo di persona e si deve quindi correggere in ‘sussistenza’, come si legge più avanti, in 1199C, quando Rustico ripete questa stessa formula: «un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore, una sola persona e una sola sussistenza». La corruzione di ‘sussistenza’ in ‘sostanza’ è del resto molto comune; per un caso analogo cf. 1171B e nota. a 

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anche nel testo di Paolo si sarebbe parlato di figli dell’ira come ‘figli dell’ira secondo natura’, e ‘della medesima natura di cui è l’ira’. Dice infatti così il suddetto Padre nella spiegazione del terzo capitolo: «Se poi diciamo ‘unione naturale’, diciamo ‘vera’, dal momento che la Scrittura divinamente ispirata ha la consuetudine di usare così questo tipo di espressione; scrive infatti da qualche parte in una sua lettera il santissimo Paolo: Ed eravamo per natura figli dell’ira come anche gli altri (Eph. 2, 3). E nessuno dica che l’ira divina sussiste secondo natura, così che anche la sua discendenza si intenda come ‘coloro che peccano’, altrimenti consentiremo completamente con quanti sono affetti dalla follia di Mani; ma il termine che ho usato, ‘natura’, indica ciò che è secondo verità»a. Questo discorso rovescia dunque tutte le vostre calunnie contro di noi, o meglio contro il santo Cirillo. Eretico: Dite che le due nature di Cristo sono comuni o come individuali? Se dite che sono come individuali, ne consegue con ogni necessità che parliate anche di due sussistenzeb. Infatti ogni sostanza e natura individuale è sussistenzac; se poi parlate delle nature come generali o universali o comuni, le loro persone non sono mai in numero minore: ci saranno dunque due persone, se non di più, del Signore Cristo. Rustico: Anche qui sono stati posti elementi non necessari per la vostra domanda; nella conclusione poi c’è un’ambiguità, che già spesso è stata colta. Dicendo infatti ‘due nature del Signore Cristo’, non diciamo che siano comuni entrambe e neppure due individuali, ma che quella divina è comune, mentre quella umana è individuale; e non diciamo in modo assoluto, poi, ‘due sussistenze Cirillo di Alessandria, Apologia XII anathematismorum, an. 3, in ACO 1, 1, 7, p. 40, 20–25. b  Comincia qui una importante sezione destinata alla definizione di persona che si protrae fino a 1196D, con un tentativo di definire la persona a partire dal concetto di individualità che si rivelerà fallimentare; questa sezione è forse quella più ricca di riferimenti boeziani ed è quindi fondamentale per comprendere il complesso rapporto di Rustico con i trattati teologici di Boezio. Su questo argomento cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 128–130. c  Il passo successivo, che infatti l’eretico compie subito dopo, è di concludere che ogni natura individuale è persona: come si è già detto, si tratta, secondo Boezio, dell’errore fondamentale di Eutiche (e di Nestorio); cf. 1178C e nota. a 

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del Signore’, ma diciamo ‘una sola sussistenza’, come, effettivamente, diciamo ‘una sola persona veramente sussistente’. Non rifuggiamo poi dal dire che sono due, pur con qualche precisazione, ogni volta che questa espressione è usata nel senso di ‘natura’. Eretico: Ogni natura individuale è persona: se dunque la natura umana di Cristo è individuale, sarà persona; a il Verbo non è privo di sussistenzab; ma due sono le nature: dunque saranno due le persone di Cristo. Rustico: Ci sono molte nature individuali che non sono persone, come quelle degli esseri inanimati e irragionevoli. Infatti anche l’uomo risulta da anima e corpo, tuttavia non si dice che è da due persone per il fatto che si è ammesso che risulta da due nature individuali. Se infatti l’uomo è da due persone, Cristo sarà da tre e la Trinità da cinque persone. Del resto siamo solite chiamare gli alberi e i germogli e le erbe e le pietre e altre cose inanimate ‘nature individuali’, ma non anche ‘persone’. Eretico: Certo, ci sarebbero molte cose da dire su questo, anche se non in modo adatto all’argomento proposto. Io però, tralasciando il resto, definisco così la proposizione: ogni natura individuale e razionale è persona. Dal momento che, infatti, esistono indubbiamente tre nature razionali, cioè Dio, le milizie celesti e l’uomo, in esse ciascuna natura individuale è persona. Poiché dunque voi riguardo a Cristo parlate di due nature razionali, inevitabilmente inserite anche due persone; inutilmente dunque anatematizzate Questa frase dell’eretico, cruciale per l’interpretazione dei rapporti fra Boezio e il Contra Acephalos, presenta dei problemi testuali, come già notato da Grillmeier (cf. Grillmeier, Vorbereitung des Mittelalters, p. 819: «Der Text ist wohl verderbt»). Il senso del discorso dell’eretico comunque sembra abbastanza chiaro: se la natura umana di Cristo è individuale costituisce una persona e lo stesso vale per la divinità (il Verbo non è senza sussistenza, cioè non può non essere considerato una persona); quindi la dottrina delle due nature porta inevitabilmente a parlare anche di due persone. b  Il termine insubsistens, qui tradotto con ‘privo di sussistenza’, non sembra essere attestato prima di Rustico ed il suo significato in questo contesto non è del tutto chiaro, ma, anche se tutto il passo appare piuttosto problematico, non sembra che si debba pensare ad altri problemi testuali oltre alla lacuna. Nelle righe immediatamente precedenti, infatti, Rustico ha definito subsistens la persona di Cristo (1195D). Se ha definito la persona subsistens, è evidentemente possibile che egli abbia usato la doppia negazione «non insubsistens» per sostenere un analogo concetto. a 

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il nome di Nestorio, la cui dottrina difendete, o, per esprimersi in modo più blando, il cui errore è necessariamente collegato alla vostra dottrina. Rustico: Se sia corretto definire Dio razionale per ora non lo chiederòa; ma affermo piuttosto che in Dio non c’è nessuna natura individuale (voglio dire, però, ‘singolare’), cioè non comune, di una e una sola persona; in Dio infatti c’è la sola natura comune delle tre persone. Per quanto riguarda Dio, però, non si definisce così la persona, infatti in questo caso la persona non è una natura individuale, né comune, ma è un’individualità della natura comune. Eretico: Quindi, a quanto dici, ci sono piuttosto due persone nel Signore Cristo, giacché a ciascuna natura, secondo voi, conviene la condizione propria della persona: Dio il Verbo infatti è un’individualità della natura divina, l’umanità, invece, è natura individuale razionale; queste, però, sono due nature, dunque anche due persone. Non puoi dire, infatti, che si conta insieme ciò che si dice in modo univoco e non quello che si dice in modo equivocob, poiché tu, contando la natura comune della Trinità insieme all’umanità individuale, anche per questo professi due nature. Rustico: Anche se nelle altre creature razionali la sostanza individuale è persona, non è però così nel Signore Cristo: infatti, professate che è da due nature perfette, ma non per questo, secondo voi, sarà da due persone, altrimenti ormai non sarà assurdo dire che il Verbo ha unito a sé la persona dell’uomo, cosa che ad Efeso fu esclusa per giudizio di tutti. Poiché però è già stato dimostrato prima, aggiungerò anche quello che abbiamo ammesso insieme, Boezio sembra ammettere che di Dio si possa dire che è razionale: «Fra le sostanze razionali, poi, una è immutabile e impassibile per natura in quanto Dio…» (Contra Eutychen et Nestorium 2); cf. anche In Porphyrii Isagogen commentorum editio secunda 2, 5: «ma anche la differenza stessa si può dire di più specie, come ‘razionale’ dell’uomo, di dio e dei corpi celesti». Rustico invece non è certo che sia corretto esprimersi in questo modo e preferisce evitare di addentrarsi ulteriormente nella questione. Alla base di questi scrupoli ci sono probabilmente considerazioni analoghe a quelle che lo trattengono dal considerare la sostanza come un genere comune a umanità e divinità, perché si correrebbe il rischio di introdurre qualcosa di superiore a Dio stesso (cf. 1184B e nota). b  Per una definizione di questi termini cf. 1224A. a 

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cioè che sono sì diverse le nature che concorsero alla vera unità, ma non sono diverse anche le persone che concorsero alla vera unità. Se infatti anche voi accettate l’epistola del santo Cirillo, che il concilio di Efeso sottoscrisse, non potete rifiutare questo in alcun modo. Eretico: Ma dove mai quel sant’uomo lo abbia scritto, non lo potrai mai indicarea. Rustico: Le parole stesse di quell’uomo santissimo ti appagheranno. Testimonianza dalla seconda epistola a Nestorio del santo Cirillo: «Il Verbo, unendo a se stesso secondo la sussistenza la carne animata dall’anima razionale, si è fatto uomo in modo ineffabile e incomprensibile, ed è stato chiamato ‘figlio dell’uomo’, non secondo la sola volontà e benevolenza, ma neppure come per l’assunzione della sola persona; e sosteniamo che sono diverse le nature che sono state condotte alla vera unità, uno solo però da entrambe è Cristo e figlio, non come se fosse stata distrutta la differenza delle nature a causa dell’unione, ma poiché piuttosto divinità e umanità attuarono per noi un solo Signore e Cristo e Figlio, tramite il loro ineffabile e inenarrabile concorso nell’unione»b. Dunque anche se riguardo alle altre cose la natura razionale individuale è persona, in Cristo però questa regola non è affatto verac. Eretico: A me sembra troppo irragionevole che in tutti gli altri casi sia vero, mentre in Cristo questa regola non sarebbe affatto vera. Se infatti similmente a noi ha partecipato del sangue e della carne e si è fatto simile a noi in tutto tranne il peccato, perché a  Traduco così probare perché, mentre altrove nell’opera Rustico usa il verbo probo nel senso di ‘approvare’ o ‘dimostrare’, qui sembra impiegarlo in senso molto generico, secondo un uso meno comune ma comunque attestato (cf. ThLL X, 2, 10, col. 1461, 4). b  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 26, 27–27, 5; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 21, 7–14. c  Grillmeier vede in questa affermazione un grave punto debole dell’argomentazione di Rustico, tanto da commentare: «Rusticus vergißt aber, daß Metaphysik keine Ausnahme kennt» (Grillmeier, Vorbereitung des Mittelalters, p. 819–820). Anche l’eretico, del resto, nella sua risposta, esprime le sue riserve sulla ammissibilità di questo ragionamento; Rustico risponde però che in Cristo ci sono molti aspetti incomprensibili per la ragione umana che devono essere accettati per fede.

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in questo solo non dovrebbe essere vero ciò che è vero in tutto il resto? Rustico: Se davvero in Cristo soltanto questo fosse incomprensibile e inconsueto, nemmeno allora sarebbe stato giusto che tu dovessi dubitare dei suoi miracoli. Se invece le cose incomprensibili in lui sono molte, anzi tutte, ormai, anche se tardi, considera che è irrazionale piuttosto che, quando percepisci con la fede cose tanto mirabili e incomprensibili, dubiti riguardo ad una sola di esse. Chi infatti, dimmi, è come lui? Perciò egli non è stato fatto secondo la legge consueta, perché nessuno è stato fatto da se stesso come lui; egli è stato fatto in un modo nuovo, con una nuova unione, con una legge nuova e singolare e non regolare, giacché né uomo né angelo né qualcuna delle entità razionali superiori è mai stato Dio e non sarà mai unito in una sola persona a quel Dio che è consustanziale al Padre; nessuno da un’altra natura si è fatto un solo Cristo con il Verbo e Dio e nessuno un solo Signore né un solo unigenito di Dio, come crediamo che sia avvenuto in lui; infatti mai è stata fatta secondo verità una sola persona di due perfettissime nature razionali, come è stato fatto nel Signore Cristo. In più, poi, dirò ancora che neppure fra le sostanze stesse delle creature è mai stato fatto niente del genere, cioè che fossero unite le persone in unità; lo stesso Signore non sarà dunque sottoposto alla regola degli altri esseri razionali, infatti non è stato fatto con la legge degli altri. Come dunque aborriamo i sillogismi, anzi piuttosto i paralogismi, di Nestorio, cioè le sue false conclusionia, così aborriamo anche quelle degli altri che ricercano similmente cose consuete e comprensibili in quelle non comprensibili e mirabili e superiori alla mente: da tali premesse infatti non si può concludere Rustico sente il bisogno di spiegare il significato del termine ‘paralogismo’, con la cautela che anche altrove dimostra nei confronti dei termini tecnici della logica: egli infatti, pur usandoli, sembra considerarli in qualche modo estranei alla riflessione teologica. Il termine ‘paralogismo’ in questo stesso senso è usato più volte da Boezio nelle sue traduzioni di Aristotele (cf. ThLL X, 1, II, col. 307, 68–77); si veda ad esempio la spiegazione che si legge in De sophisticis elenchis: «Parleremo poi delle confutazioni sofistiche e di quelle che sembrano sì confutazioni, ma sono piuttosto paralogismi e non confutazioni, cominciando, secondo natura, dalle prime. È dunque chiaro che gli uni sono sillogismi, gli altri invece, pur apparendo tali, non lo sono» (164a20–164b25; Arist. lat. VI, 1). a 

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che il medesimo sia Dio perfetto e uomo perfetto. Così, credendo al Dio che regge tutto ed è onnipotente, resistiamo anche a voi che, mentre volete sottoporre a confronti ed esempi e leggi e regole l’unione che risplende sopra a tutto, ormai non la credete singolare. Eretico: Io sono uomo; desidero essere persuaso razionalmente, Dio mi ha creato razionalea. Rustico: Ricorda, ti prego, anche che tu sei partecipe del divino battesimo; ricorda che il discorso verte su quel mistero che non ha nulla di pari o di simile, poiché lo stesso Signore di tutto ha fatto questo in se stesso, come egli stesso aveva predetto tramite i profeti, dicendo: Farò una cosa nuova nella donna che tutti ammirerete (Ier. 31, 22)b. Ma poiché proprio mi costringi ad affrontare con la parola cose che oltrepassano l’anima, chiedendo prima venia a Dio, affronterò come posso la discussione di una realtà imperscrutabile. Dico però che se la fede deve essere regolata sugli esempi, Cristo senza eccezione ha tutto della nostra natura, ma non tutto quello che è della persona umana. Vediamo infatti che ciascuna delle sussistenze di questo genere è tale da avere in se stessa tutto ciò che è il suo proprio essere, preso separatamente rispetto alle altre. Infatti la mia anima non governa il corpo di un a  Questo intervento sembra improntato ad un forte razionalismo e per questo Rustico critica le parole del’avversario, ribadendo l’importanza della fede. Lo stesso concetto espresso dall’eretico si legge comunque anche nell’epistola 120 di Agostino, dedicata proprio al rapporto fra fede e ragione: Agostino sostiene infatti che applicare un ragionamento razionale ai contenuti della fede è perfettamente legittimo e in accordo con la volontà di Dio; infatti, se Dio ha creato l’uomo dotato di ragione, elevandolo così al di sopra degli animali, non può disapprovare che faccia uso di questo dono, anche se la fede deve in ogni caso precedere la ragione: «Lungi da noi pensare che Dio odi in noi ciò per cui ci ha creati migliori degli altri animali; […] non potremmo neppure credere se non avessimo delle anime razionali» (ep. 120, 1, 3). Per il ‘razionalismo’ dell’eretico cf. 1219B e nota. b  Pare che non ci siano paralleli per questa forma del versetto (ma si deve considerare che questo non è un passo molto frequentato nella letteratura patristica). Girolamo lo tradusse: «il Signore creò qualcosa di nuovo sulla terra: una donna circonderà un uomo» (In Hieremiam 6, 22, 1) e ne dette un’interpretazione cristologica: «Il Signore ha creato una cosa nuova sulla terra: e senza il seme di un uomo, senza alcun rapporto sessuale e nessun concepimento una donna circonderà un uomo nel suo grembo» (In Hier. 6, 22, 7). Rustico sembra dare al versetto la stessa interpretazione cristologica, mettendolo in relazione con l’incarnazione, anche se si limita ad un’allusione, senza sviluppare ulteriormente l’argomento.

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altro tramite se stessa o in modo immediato, anche se secondo l’accidente si dice che lo fa, come con i figli o i servi. Ma Dio non lascia mai, poi, la natura umana abbandonata dalla sua presenza e dal suo governo, come se qualcuno dicesse che abusa sfrenatamente del libero arbitrioa, ma anche per questo la creò, non perché fosse di se stessa, ma di lui, e la fondò su se stesso come sopra una base o un fondamento, per dire il vero, per compiere per suo tramite il disegno della sua immensa generosità, la bellissima dispensazione. Dunque se è vero che ogni natura individuale è persona, questo vale però per ognuna di quelle che non sono create per rimanere inseparabilmente unite a un’altra. Infatti anche il corpo umano non è di un’altra persona rispetto alla sua anima, altrimenti, come ho già detto, Cristo sarà da tre persone e la santa Trinità da cinque. Eretico: Bisogna prima che io accetti quello che hai detto prima, se pretendi di giungere al resto con sicurezza. Mi meraviglio infatti di come diciate che l’inumanazione del Signore manca di esempio, dal momento che molti dei Padri la confrontano con esempi e dal momento che anche lo stesso santo concilio di Efeso, per la spiegazione del mistero, usa l’esempio dell’uomob e lo a  Non è particolarmente chiaro il significato di questa espressione in questo contesto, proprio perché non sono immediatamente evidenti le ragioni che hanno indotto Rustico ad inserire questo rapido riferimento al libero arbitrio, di cui non parla in nessun altro passo dell’opera. Non è escluso del resto che ci siano dei problemi testuali; tutta questa sezione, come si può vedere, è particolarmente problematica da questo punto di vista. Con tutta probabilità l’autore del Contra Acephalos intende semplicemente dire che l’umanità di Cristo proprio per l’unione con la divinità non ha potuto abusare del proprio libero arbitrio, come accade invece per tutti gli altri uomini sottoposti al peccato; egli starebbe dunque ancora una volta sottolineando come la natura umana di Cristo non possa costituire un soggetto autonomo, dal momento che non ha in se stessa la causa del suo essere, ma, essendo stata creata al fine dell’unione, ha il fondamento del suo essere nel Verbo. b  L’eretico torna qui a parlare dell’analogia antropologica, di cui aveva già dibattuto con Rustico in 1180C–11191D; in quella sezione il punto di partenza era stata la discussione su genere e specie, mentre qui i due interlocutori dibattono in particolare su un passo patristico di fondamentale importanza, tratto dalla lettera a Cledonio di Gregorio di Nazianzo, già in precedenza citata a proposito della corretta terminologia da usare in ambito trinitario e cristologico (cf. 1180A–B). In 1188B, del resto, l’eretico, osservando che i Padri avevano usato l’esempio dell’uomo a proposito della dottrina dell’incarnazione, aveva probabilmente inteso riferirsi

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espone a partire dagli insegnamenti dei più antichi, perché come dall’anima e dal corpo una sola natura dell’uomo, una sola è la natura del Signore Cristoa, dicendo così a un certo punto: «Le nature sono due, Dio e uomo, poiché è così anche per anima e corpo; non due figli, però, né due dèi; non ci sono neppure due uomini, infatti, anche se Paolo ha chiamato così quello interiore e quello esterioreb; e, per dirla in breve, altra cosa certo e altra cosa quelle dalle quali è Cristo»c. Se dunque i santissimi Padri accolgono questo esempio dell’anima razionale e del corpo per l’incarnazione del Signore, dicendo che le nature sono unite in Cristo così come l’anima e il corpo insieme in una sola natura dell’uomo, come potete proibirci di pensare questo riguardo all’incarnazione, dicendo che l’unione, per la quale tanti e tali Padri presentano questa analogia, è priva di esempio? Rustico: Quindi dite che l’unione che è stata realizzata in Cristo non differisce in niente dall’unione che avviene incessantemente in tutto il mondo, ogni volta che si compone un uomo. Eretico: Come non differisce, dal momento che una volta e una soltanto è stata fatta riguardo alla divinità e alla carne? Rustico: Questo ha costituito una differenza non nell’unione stessa, ma solo in ciò che si unisce. Se infatti, dico così per esempio, capitasse che si unissero o uomo e angelo, o Dio e forse una qualche potenza razionale fra quelle celesti, sarebbero distanti non per quanto riguarda l’unione ma per quanto riguarda ciò che si unisce. Perciò è diverso il differire degli elementi dai quali deriva qualcosa e diverso il modo stesso della loro unione. Eretico: Anche se l’unione dista in qualcosa, non lo fa invece l’effetto, giacché concorsero in una sola persona. principalmente a questo passo, considerato sia dai calcedonesi che dai monofisiti un imprescindibile punto di riferimento per la cristologia (cf. Simonetti, ‘Conservazione e innovazione’, p. 350–369 ed in particolare p. 368). a  Il testo è evidentemente corrotto e lacunoso, ma almeno il senso generale del discorso non è comunque difficile da ricostruire. b  Cf. II Cor. 4, 16. c  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 26–29; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 72, 19–21.

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Rustico: Ma noi ora ragioniamo sull’effetto a partire dall’unione e, poiché siamo d’accordo nel professare una e una sola persona di Cristo, indaghiamo se sia una anche la natura. Ma poiché è necessario che ogni confronto o esempio non sia in tutto simile o completamente dissimile, quando consideriamo l’esempio dell’uomo sotto molti aspetti (da due nature, infatti, non soltanto è un solo uomo, una sola persona, una sola sussistenza, ma anche una sola specie, un solo essere vivente, e una sola sostanza o natura), proprio da tutto questo appare che non è necessariamente inteso dai santi Padri riguardo al Signore come indicativo di una sola natura o sostanzaa, per il fatto che lo accolgono come esempio. Se poi non è solo una sola persona e una sola sussistenza e uno solo e il medesimo, ma anche una sola specie, sostanza, natura e, semplicemente, in nessun modo è salvo il numero delle cose unite, non sarà più un esempio. Ma questo non è vero né è stato detto con questa intenzione dallo scrittore, ma soltanto per dimostrare che come lì le cose che si sono unite attuarono un solo e medesimo uomo, così anche qui un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore, una sola persona e una sola sussistenza, cosa che è possibile osservare anche dalle sue stesse parole. Infatti non è stato detto: “da due nature, Dio e uomo, poiché lo sono anche anima e corpo, ma invece ormai non ci sono più due nature, ma una sola tramite l’unione”; piuttosto, dopo aver detto «due nature, Dio e uomo», aggiunse «ma non due figli». Perché dunque alteri il senso delle parole che, come emerge chiaramente da questo, sono state dette per indicare un solo Figlio e non due dèi e perché nessuno pensasse che l’interiore e l’esteriore fossero due cristi come uno e un altro, ma perché si pensasse che, anche se in Cristo c’è qualcosa di esteriore e interiore secondo l’esempio proposto, come dice l’Apostolo dell’uomo, tuttavia non esistono due cristi come l’uomo interiore e esterioreb? Secondo l’uso latino, come si è già avuto modo di osservare (cf. 1181B e 1191D con le note corrispondenti) anche qui Rustico, pur consapevole dei problemi terminologici che questo implica, usa come equivalenti persona e subsistentia per indicare il livello dell’unità in Cristo e substantia e natura per la distinzione di umanità e divinità. b  L’argomentazione di Rustico si basa su due punti fondamentali: in primo luogo un esempio non può coincidere in tutto con la realtà con cui è messo in a 

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Eretico: Io sospetto un’altra interpretazione di ciò che è stato detto: poiché infatti ha detto «due nature, Dio e uomo, poiché lo sono anche anima e corpo, ma non due figli né dèi; qui infatti non ci sono due uomini, anche se Paolo ha chiamato così ciò che è interiore dell’uomo e ciò che è esteriore»a, è come se avesse detto: “Non ci sono due cristi, Dio e uomo, anche se l’Apostolo ha chiamato così, come due uomini, l’uomo interiore e quello esteriore, cioè l’anima e il corpo”. Dunque l’uomo che l’Apostolo ha come ripartito in due, Gregorio di santa memoria lo chiama assolutamente uno solo, perché mettendolo in relazione con Cristo non sembri sostenere due cristi. Poiché dunque riguardo ad uno ed un solo uomo secondo l’Apostolo è lecito parlare di ‘uomo interiore e uomo esteriore’, e riguardo a Cristo invece non è lecito dire ‘colui che dentro è Cristo e colui che fuori è Cristo’, secondo i santi Padri che concorsero a Efeso, perché non facciamo due cristi, è chiaro che in Cristo si è realizzata un’unione più grande di quella dell’uomo; a maggior ragione, dunque, tramite l’unione una sola è la natura di Cristo. Rustico: Desidero sentire più chiaramente quello che hai detto prima: infatti è oscurissimo. Eretico: Lo ripeterò brevemente e chiaramente. In un passo l’Apostolo ha detto: Poiché di quanto questo nostro uomo che è fuori si corrompe, di tanto quello che è dentro si rinnova (II Cor. 4, 16); come parlando di uno e un altro, quindi, ha separato quello che è dentro e quello che è fuori, così che si pensasse come a due uomini, uno interiore, l’altro esteriore. Dice quindi Gregorio: «Così relazione; l’intenzione di Gregorio, inoltre, era quella di evitare di introdurre una divisione che facesse intendere la presenza di due cristi: poiché si tratta della dottrina comunemente attribuita a Nestorio, Rustico evidentemente intende ribadire la distinzione fra la cristologia divisiva del vescovo di Costantinopoli e la dottrina calcedonese delle due nature, sostenendo che le parole di Gregorio possono essere usate contro Nestorio, ma non contro Calcedonia. L’avversario da parte sua risponderà a Rustico che se nell’uomo si può parlare di ‘uomo interiore e uomo esteriore’, mentre lo stesso non è possibile in cristologia, se ne deve dedurre che l’unione che si è realizzata in Cristo è più profonda di quella che si realizza nell’uomo, quindi la natura deve essere una sola. a  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 26–28; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 72, 19–21.

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Cristo è da due nature, come da anima e corpo è l’uomo». Non è lecito tuttavia parlare di Cristo come di un uomo fino al punto che, come l’uomo che è dentro e quello che è fuori in qualche modo sono due uomini, così ci siano due figli: infatti non usiamo questo esempio per il fatto che, per così dire, uno sia il Figlio interiore e un altro l’esteriore, ma soltanto intendendo che da entrambi è un solo Figlio; perciò ha usato questo esempio in una parte, non in tutto. Inoltre l’Apostolo sembra come contare non due uomini soltanto, ma anche tre; dice infatti nostro uomo interiore e nostro uomo esteriore: dicendo nostro fa intendere come un altro uomo del quale questi sono duea; io infatti sono un altro rispetto a colui che è mio. Rustico: Parli in modo assolutamente falso e ingannevole; l’Apostolo infatti non ha scritto in modo così assurdo, né quel concilio universale vaneggiò al punto da esporre questa assurdità come per bocca del santo Gregorio per dimostrare la propria fede; uomo interiore e esteriore non è infatti la stessa cosa che semplicemente uomo, ma ciò che non è uomo intero: l’anima o il corpo non è infatti l’uomo intero. Giacché tutto ciò che è negato si può enunciare, una volta aggiunta una particella negativa, come ad esempio ‘L’anima razionale non è l’uomo’, si enuncia ‘l’uomo’ e si dice che non è questo. Paolo circoscrive quindi una parte dell’uomo dicendo uomo esteriore, cioè non anche interiore, e per questo non è tutto l’uomo; ancora, l’uomo che è dentro: dunque non anche quello che è fuori, quindi non l’uomo, ma qualcosa dell’uomo e neppure perfetto. Che poi quel padre abbia inteso così, è possibile dimostrarlo non solo dal fatto che negandolo si cade nelll’assurdo, ma anche dalle conseguenze che se ne possono trarre. Ha detto infatti: «Se qualcuno introduce due figli, uno da Dio Padre, il a  Probabilmente con questa osservazione l’eretico intende portare un nuovo elemento a favore della sua formula cristologica: intendendo ‘uomo’ nel senso di ‘natura’, infatti, uomo interiore ed esteriore corrisponderebbero alle due nature dalle quali è Cristo e Paolo poi, parlando di un ‘terzo uomo’, intenderebbe che esse formano una sola natura. Si spiega così la vivace reazione di Rustico nel suo successivo intervento, nel quale egli sostiene l’ambiguità del termine ‘uomo’ nel discorso dell’avversario: egli infatti ha messo sullo stesso piano uomo interiore e uomo esteriore, che sono due realtà incomplete, e l’uomo che risulta dalla loro unione, che costituisce invece una realtà integra e completa.

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secondo invece da Maria, e non uno solo e il medesimo, si separi anche dall’adozione che è stata promessa a coloro che hanno la retta fede. Le nature sono due, Dio e uomo, poiché anche anima e corpo, non invece due figli né due dèi: qui non ci sono infatti due uomini, anche se Paolo ha chiamato così quello dell’uomo che è dentro e quello che è fuori; e, per dirla in breve, una cosa e un’altra sono quelle dalle quali è il Salvatore, giacché ciò che è visibile non è la medesima cosa di ciò che è invisibile e ciò che è senza tempo di ciò che è sottoposto al tempo; non uno e un altro, lungi da noi: entrambe le cose infatti sono una sola per mescolanza, essendosi Dio inumanato e l’uomo deificato, o in qualunque altro modo si dica. Dico, poi, ‘una cosa e un’altra’, al contrario di quanto avviene per la Trinità: nella Trinità infatti ‘uno e un altro’, perché non confondiamo le sussistenze, non ‘una cosa e un’altra’: una sola cosa sono infatti le tre, e la medesima per la divinità»a. Per prima cosa non ha detto ‘Cristo da due nature’, ma piuttosto «due nature, Dio e uomo», cioè Cristo; se infatti parlasse di un altro, non avrebbe aggiunto «ma non due figli»: nessuno infatti, Dio e uomo insieme, è un solo Figlio, se non Cristo. Non ha detto poi che erano, ma che sono due nature, infatti ciò che è stato aggiunto subito dopo non era, ma è: ha detto infatti «poiché anche anima e corpo»b e ha aggiunto «ma non due figli né due dèi» senza inserire ‘sono’; e perciò il fatto che ci sia il verbo nell’espressione ‘ed è la medesima cosa’c non significa che non ci siano due nature; e neppure qui infatti la sua assenza significa che ci siano come due figli – lungi da noi! – piuttosto, è proprietà della lingua lasciare questa piccola parte del discorso alla comprensione dell’ascoltatore. Se dunque ci sono due Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 24–33; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 72, 17–28. b  Il discorso è un po’ involuto, ma quello che Rustico intende dire è evidentemente che siccome anima e corpo si conservano nell’unione, lo fanno anche le due nature, che quindi non esistevano solo prima dell’unione (e quindi nel passato), come sostiene l’avversario di Rustico, ma continuano ad esistere anche nel presente. c  Questa osservazione rivela un problema testuale. Rustico infatti fa riferimento alla presenza di un «è» che in realtà non è presente nel testo di Gregorio prima citato. Nel testo greco tutti i verbi sono sottintesi; è quindi difficile dire in quale punto esattamente si debba integrare un est, anche se 1202C farebbe pensare alla collocazione di questo verbo subito prima di ‘Salvatore’. a 

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nature, Dio e uomo, e ha affermato chiaramente che è la stessa cosa che il Salvatore, come puoi tu pervertire il senso delle sue parole in senso contrario tramite delle astuzie diabolichea? Dimmelo. Eretico: Intanto bisogna che per ordine tu obietti a quello che è stato detto, se pure hai qualcosa da dire, e solo dopo mi chiederai se ho delle giustificazioni su questo punto. Quindi che cosa vuole significare presso di lui «anche se Paolo ha chiamato così quello che dell’uomo è dentro e quello che è fuori»? Rustico: Abbi pazienza: infatti sto per fare anche questo. Dunque, dopo che ha detto «due nature, Dio e uomo, poiché anche anima e corpo, ma non due figli né due dèi», ha aggiunto «neppure qui infatti due uomini». Non si deve dunque parlare di due uomini riguardo a uno solo e il medesimo; nuocerà infatti (e non poco) al mistero della devozione anche dire che Cristo è Dio e due uomini o che il Verbo non si è fatto uomo, ma che si sono fatti uomini; e in questo modo sarebbe possibile trarre diecimila conclusioni assurde e insieme blasfeme, ma prima di tutto che tu, pur non ammettendo che ci siano due nature del Signore Cristo, ammetti che ci siano due uomini in lui e, negando che siano due le nature di Dio e dell’uomo, insisti ancora nel sostenere, per l’autorità dell’Apostolo, anche che un uomo solo sia due uomini e che Gregorio si sia espresso in modo contrario all’Apostolo. L’Apostolo e i Padri poi hanno detto quello che abbiamo affermato prima, poiché ci sono certamente delle cose che si dicono di uno solo e uno soltanto, ma non anche di due o più, altre, invece, analogamente, di uno solo, ma non di uno soltanto, come avviene quando il Signore parla del suo corpo come del Tempio, quando predisse che doveva essere distrutto dai giudei ma risuscitato da lui; e si dice poi che anche noi siamo tempio del Figlio o dello Spirito Santob. Vedi dunque che questa medesima cosa si usa dire sia del medesimo sia di coloro che non sono i medesimi, ma sono altri? Così dunque una cosa è parlare di due o più, altra cosa invece di uno solo, ma tuttavia lo si fa in modo simile, e così come di due: lì a  L’accusa di stravolgere il senso delle Scritture e dei passi dei Padri per usarli in difesa dei propri errori è rivolta tradizionalmente agli eretici (cf. 1226B e nota). b  Cf. I Cor. 3, 16.

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infatti c’è somiglianza di parole, non identità di realtà; infatti non è senza differenze la spiegazione che è su uno solo e quella che è su piùa. Quindi Gregorio ha detto che anche se l’Apostolo ha usato un’espressione comune e simile su un solo uomo come se fossero due, tuttavia quello interiore e quello esteriore non sono due uomini. Ma ha usato questa medesima espressione non senza dubbio, ma come con un discorso sospeso: non ha detto proprio infatti che l’Apostolo dice così, ma piuttosto: «se l’Apostolo chiamò così quello che dell’uomo è dentro e quello che è fuori». Si deve interpretare però la parola che ha scelto, cioè «chiamò»: infatti non ha detto «confermò», né «stabilì», né «definì», ma «chiamò». Il chiamare, poi, indica somiglianza di espressioni, non completamente e necessariamente e inevitabilmente identità di realtà. Non intese dunque come ‘da due uomini’, anche se li «chiamò» come da due. Eretico: Perché vogliamo allungare il discorso? Il passo intanto non dice ‘in due nature’, ma ‘da due nature’ b; Gregorio ha aggiunto infatti: «altra cosa certo e altra cosa, dalle quali il Salvatore». Il passo è un po’ involuto (lo stile di Rustico del resto è spesso arduo), ma il contesto permette comunque di comprenderne abbastanza chiaramente il significato. Il punto di partenza di Rustico è sempre l’uso ambiguo del termine ‘uomo’ fatto dal suo avversario nell’esegesi del passo prima citato. In definitiva il diacono romano sostiene che nei Padri e nelle Scritture certe espressioni possono essere usate in senso generico e non tecnico (alla fine del suo intervento infatti fa notare che Gregorio usa il verbo ‘chiamare’ e non ‘definire’ quando riferisce le parole di Paolo): a questo proposito cita la parola ‘tempio’ che può essere usata per indicare realtà diverse in passi diversi delle Scritture; ci sono infatti espressioni che possono essere usate solo ed esclusivamente per certe realtà, mentre altre ammettono un uso più ampio. Si tratta di un tema ricorrente nel testo di Rustico, che sembra ricondurre molti errori del suo avversario ad una scarsa precisione terminologica; si veda a questo proposito 1181D, dove l’autore stigmatizza la confusione nata dal considerare un genere comune quello che è solo un nome comune e 1191D, dove si chiarisce la potenziale ambiguità del termine subsistentia. b  All’epoca la formula ‘da due nature’, pur non considerata di per sé eretica dai calcedonesi, contraddistingueva i monofisiti; durante il processo di Eutiche, infatti, Flaviano di Costantinopoli presentò una formula cristologica secondo la quale Cristo è da due nature dopo l’incarnazione: «e infatti professiamo che Cristo è da due nature dopo l’incarnazione, professando un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore, in una sola ipostasi e in una sola persona» (ACO 2, 1, 1, p. 114); Eutiche riprese la stessa espressione, ma formulandola in modo da sostenere che Cristo è da due nature prima dell’unione, ma che dopo l’unione si può parlare solo di una a 

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Rustico: Intanto permettimi di sciogliere per ordine quel che prima si richiedeva e di questo tratteremo dopo. A quanto detto prima, dunque, aggiunse anche questo: «E per dirla in breve, altra cosa certo e altra cosa dalle quali il Salvatore, giacché ciò che è visibile non è la medesima cosa di ciò che è invisibile e ciò che è senza tempo di ciò che è sottoposto al tempo; ma non uno e un altro, lungi da noi». Anche qui ripresenta quello che era stato detto, cioè che Cristo è da due sostanze, non da due persone; l’espressione «una cosa e un’altra» è propria piuttosto delle nature, «uno e un altro», invece, delle personea. Si deve rimarcare che non ha detto «da altro e altro è il Salvatore», ma «una cosa e un’altra» dalle quali il Salvatore, perché nessuno di voi sospetti che è sì da due, ma non da due nature; disse infatti al plurale: «dalle quali il Salvatore». Se dunque il Salvatore è da due nature e sono poi queste stesse dalle quali è il Salvatore, sono dunque due nature; non si può dire infatti qui che abbia detto che il Salvatore sia da altre cose, se non dalle due nature. Non è infatti possibile che si dica che Cristo è da altre cose se non dalle due nature esistenti: dico poi esistenti, non preesistenti all’unione, lungi da noi, ma permanenti fino ad orab. Ripeterò dunque ancora il discorso. Questa espressione sola natura: «Professo che il nostro Signore prima dell’incarnazione è stato da due nature, dopo l’incarnazione invece professo una sola natura» (ACO 2, 1, 1, 143, 10–11). La formula usata da Flaviano, secondo Grillmeier, probabilmente derivava dalla Laetentur caeli di Cirillo di Alessandria e poteva essere quindi essere considerata autorevole, ma Eutiche, modificandola, la usò in un senso completamente diverso (Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, 1, 2, p. 930). In tempi più vicini a Rustico, Boezio nel prologo del Contra Eutychen testimonia appunto che le differenze fra eretici ed ortodossi potevano essere individuate proprio nell’uso di queste due formule: «Ricordi infatti che, quando nel concilio veniva letta la lettera, è stato detto che gli eutichiani professano che Cristo è da due nature e negano che sia in due; gli ortodossi invece riconoscono la correttezza di entrambe le espressioni, infatti presso i seguaci della vera fede si crede ugualmente che Egli sia da due e in due nature». Per questo l’avversario di Rustico, pur rinunciando ad insistere nel suo tentativo di trovare nel testo di Gregorio un sostegno alla formula dell’unica natura, considera la presenza di questa espressione sufficiente per annoverare questo passo dell’epistola a Cledonio fra le testimonianze a favore della sua posizione cristologica. a  Di nuovo Rustico torna sull’uso tradizionale del neutro per la natura e del maschile per la persona (cf. 1178B–C e nota). b  Si deve notare come Rustico accetti la formula ‘da due nature’, ma solo con la precisazione che questa espressione non deve essere usata nel senso datole da

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«due, dalle quali il Salvatore» fin qui indica chiaramente le nature: come dunque, se non per le astuzie di Satana, puoi tu cercare di volgere al contrario quel che è stato detto correttamente? Dici che ormai non sono due le nature dalle quali è il Salvatore, delle quali i Padri dissero che sono due nature e ‘una cosa e un’altra’. Ma come ha detto qui «una cosa e un’altra dalle quali il Salvatore», come a dire ‘dalle quali è il Salvatore’, così ha detto anche sopra «due nature, Dio e uomo», come se avesse detto ‘due sono le nature, Dio e uomo’. Intendi poi anche da tutto il contesto della sua affermazione che procede in modo analogo attraverso i singoli nomi. Eretico: E che m’importa? Si dica che sono due nature, purché soltanto nel senso che Cristo è ‘da’ esse, ma non invece ‘in’ esse, perché uno non sia spezzato in due. Rustico: Per quante volte tu cambi le tue espressioni, non ci stancheremo di opporre la verità alle tue falsità: sarebbe veramente vergognoso e disdicevole che contro chi sostiene idee perverse noi fossimo trovati più freddi in difesa della verità. Ascolta dunque intanto e persuaditi ancora di più a partire da quello che segue: «Entrambe sono una sola cosa per commistione, essendosi Dio inumanato e l’uomo deificato, o in qualunque modo si dica»a. Vedi dunque l’espressione «entrambe» che nomina quello che tu non vuoi sia indicato con ‘due qualcosa’? Chi potrebbe essere stolto fino a questo punto, anzi chi potrebbe essere così pazzo, così empio e senza Dio da non dire che «entrambe» indica due qualcosa? Analogamente osserva anche che, come si è detto prima, l’espressione «una sola cosa», intesa semplicemente, è propria della natura piuttosto che della persona, come «uno» della persona piuttosto che della natura; tuttavia, talvolta si usano tali espressioni anche senza accuratezzab Eutiche, perché non si tratta di nature preesistenti all’unione: in questo caso infatti, come sostiene in 1232A, si ricadrebbe nell’errore di Origene. a  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 30–31; trad. Rustico in ACO 1, 3 p. 72, 24–25. b  Acribia nel testo; si tratta di un grecismo così inusuale in latino che la parola non è neppure riportata nel Thesaurus linguae latinae; questo termine è usato nel Contra Acephalos anche in altri due passi (1204A e 1226B), sempre con l’accezione di ‘precisione’, ma con una sfumatura negativa di eccesso di puntigliosità (cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 68–69). Rustico ritiene che l’eccessiva sottigliezza degli eretici sia in contrasto con la semplicità delle Scritture, dove

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e l’una al posto dell’altra, salvo l’intenderle devotamente: dunque, come l’Apostolo ha parlato di un solo uomo come se si trattasse di due, l’uomo che è dentro e quello che è fuori, così costui, parlando di due nature come se si trattasse di una sola, non dice che Cristo è uno né una sola persona, ma «un solo qualcosa», inteso semplicemente; dice infatti che entrambe queste cose sono una sola per commistionea. Ma non lusingarti come se pensasse di parlare proprio di una sola natura, altrimenti anch’io dirò che anche qui non si legge «una sola cosa» senza precisazione, ma si dice «una sola cosa per commistione», cioè per l’unione, non una sola cosa per natura. Eretico: Non dilungarti di più; ecco ti potrei superare con un solo discorso: dove mi sfuggirai per il resto? Dove ti potrai volgere? Non ha detto infatti soltanto che entrambe sono ‘un solo qualcosa’, ma ha aggiunto anche «per commistione»; dove c’è talvolta si leggono espressioni che nel linguaggio teologico potrebbero essere considerate imprecise, proprio perché usate in modo non tecnico ma generico (cf. 1226B e nota). a  Rustico, anticipando una probabile obiezione dell’avversario, riconosce che Gregorio ha parlato di «una sola cosa» dopo l’unione, espressione che in base al ragionamento fin qui condotto dovrebbe corrispondere alla formula «una sola natura»; ritiene però che la precisazione «per commistione» escluda questa possibilità. Rustico non ha difficoltà ad ammettere che Gregorio si sia espresso in modo poco preciso, ma non per questo la sua autorità può essere invocata dai monofisiti a favore della loro formula cristologica, perché al di là delle singole espressioni si deve considerare il significato complessivo del brano, che Rustico cosidera perfettamente in linea con il difisismo calcedonese. Argomentazioni di questo genere negli stessi anni erano state avanzate da Facondo di Ermiane nella sua Difesa dei Tre Capitoli per respingere le accuse di eresia mosse a Teodoro, Teodoreto e Ibas; alcune loro espressioni potevano infatti apparire effettivamente discutibili o addirittura erronee, ma l’analisi del loro contesto consentiva di spiegare in senso compatibile con l’ortodossia, se non le loro precise parole, almeno i concetti che avevano inteso esprimere. Per questo Facondo ribadisce più volte che non è intellettualmente onesto estrapolare solo alcuni passi dalle opere di un autore e su questi formulare un giudizio, senza tener conto del loro contesto o di altri testi simili ma più chiari (questi principi sono espressi ripetutamente nell’opera; si possono citare Defensio 7, 2, 1–2 o 9, 2, 15, dove la loro formulazione è particolarmente chiara. Sulla linea argomentativa di Facondo cf. Simonetti, ‘Haereticum non facit ignorantia. Una nota su Facondo di Ermiane e la sua difesa dei Tre Capitoli’, Orpheus n.s. 1 (1980), p. 100–105). Rustico sembra far qui proprio questo principio nell’analisi del testo di Gregorio, che insiste infatti per citare per esteso, in modo da impedire al suo avversario di poterne estrapolare formule di sapore monofisita.

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commistione, lì certo c’è una sola natura da nature diverse: dunque si è realizzata una sola natura del Signore Cristo da due. Rustico: Glorifico Dio perché, come trovata l’occasione, hai vomitato tutto il tuo veleno proprio apertamente. Ma chiedo e spero che nel momento in cui la tua ferita è stata resa più evidente, tanto più rapidamente sarà curata. La dottrina dei santi infatti non ha detto ‘commistione delle nature’, non ha detto ‘fermentazione’a, non ha detto ‘confusione’; tutte queste infatti non conservano più gli elementi che si sono uniti. Dunque se si fosse realizzata una confusione, lungi da noi, Cristo non sarebbe più Dio. Ma egli stesso ha spiegato perché ha detto «commistione», dal momento che ha aggiunto: «essendosi Dio inumanato e l’uomo deificato»; non ha detto ‘essendosi Dio confuso e l’uomo fermentato insieme’; lo è infatti, è davvero una qualche commistione, che custodisce salva la differenza delle cose commisteb. E questo già lo spiegò a sufficienza Cirillo di Alessandria nell’epistola Laetentur nega con decisione di aver mai usato questo termine a proposito dell’incarnazione (cf. 1204C). b  L’analisi del testo di Gregorio conduce Rustico ad una riflessione ricca di riferimenti filosofici sul modo di intendere la ‘commistione’ delle due nature in Cristo. Si deve ricordare che gli stoici, in particolare, sviluppando la precedente classificazione aristotelica, distinguevano infatti parathēsis, semplice giustapposizione di due elementi, synchysis, nella quale non si mantengono le caratteristiche originarie dei singoli elementi che non possono più essere separati e che vanno a costituire un tertium quid ed infine krasis, nella quale i singoli elementi, che possono essere nuovamente separati, mantengono senza alcuna alterazione le loro qualità, che però vengono estese anche agli altri (cf. McKinion, Words, Imagery and the Mistery of Christ. A Reconstruction of Cyril of Alexandria’s Christology, p. 50–67). I Cappadoci, influenzati dallo stoicismo, usarono talvolta la loro riflessione sulla mescolanza per spiegare l’incarnazione, introducendo questo argomento nella riflessione cristologica (si veda a questo proposito il giudizio di Grillmeier che lo considera un difetto della cristologia dei Cappadoci, soprattutto di Gregorio di Nissa; cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 696). Severo di Antiochia poi interpretò l’incarnazione come krasis, cioè una compenetrazione totale di umanità e divinità, tale però che le caratteristiche proprie di entrambe restassero inalterate; e a sostegno della sua interpretazione, per dimostrare che parlare di mescolanza fra divinità e umanità è ortodosso e in accordo con la tradizione, anche Severo citò questo passo di Gregorio di Nazianzo, intendendo il termine mixis usato da Gregorio nel senso di una mescolanza intesa nei termini stoici di krasis, dalla quale risulterebbe necessariamente un’unica nuova sostanza, anche se le sue componenti resterebbero comunque inalterate (cf. Chesnut, Three Monophysite Christologies, Oxford, 1976, p. 17–20). Rustico da parte sua mostra di intendere il ‘commistione’ di Gregorio semplicemente come un sinonimo di ‘unione’, insistendo molto, a 

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il santo Cirillo nel primo tomo contro le bestemmie di Nestorio, dove si legge: «Anche alcuni dei santi Padri usarono il nome di commistione. Ma poiché dici di temere che forse si pensi che sia avvenuto un confluirea, come nei liquidi che si mescolano fra loro, ti libererò da questo genere di timore. Non hanno mai pensato così, infatti, ma hanno usato la parola in senso non proprio sforzandosi di indicare in generale l’unione che si è realizzata dalle cose che concorsero l’una nell’altra. Ma diciamo che Dio il Verbo concorse secondo un’unione indivisibile e che conserva immutabilmente le proprietà della carne; troveremo poi che anche la stessa Scrittura divinamente ispirata non elimina davvero questa parola, ma piuttosto la usa in senso non proprio e semplicemente. Scrisse del resto a qualche proposito il santissimo Paolo: Ma non giovò loro il discorso che avevano sentito, non essendo mescolati nella fede a coloro che lo avevano sentito (Hebr. 4, 2). Forse quindi si sarebbero commisti a vicenda allo stesso modo in cui certo si mescola il vino all’acqua e coloro dei quali parla il discorso avrebbero sofferto una qualche mescolanza delle sussistenze, che è vicendevole? O non si dunque, sull’uso non tecnico del termine in questo passo. Comunque, anch’egli distingue fra una mescolanza nella quale si conservano integre le proprietà delle due componenti, che può anche essere riferita in modo ortodosso all’incarnazione, e una mescolanza di cui sarebbe erroneo parlare per l’incarnazione, nella quale le proprietà delle componenti non si mantengono inalterate (cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 113–115). a  Il termine refusio (qui tradotto con ‘confluire’), usato per tradurre il greco anachysis, è poco usato in latino. Significa ‘riflusso’ o ‘ritorno’. Macrobio in Saturnalia 1, 21, 27 lo usa in riferimento al ciclo dell’acqua; Ambrogio, invece, in De Apologia David 8, 42, lo usa per indicare il ritorno delle proprietà ai precedenti proprietari nell’anno del giubileo. In ambito teologico fu usato da Ambrogio per confutare un errore che egli attribuisce a Sabelliani e Marcioniti in De Fide 5, 13, 162: «Sabelliani e Marcioniti sostengono che questa sottomissione di Cristo a Dio Padre si verificherà in modo tale che il Figlio confluisca nel Padre» (il termine torna ancora nei paragrafi seguenti nel corso della stessa discussione). In senso analogo, sempre per confutare opinioni erronee circa i rapporti fra Padre e Figlio, sembra usarlo anche Ilario di Poitiers in De Trinitate 7, 31: «Il Figlio è nel Padre e il Padre nel Figlio, non per una mescolanza o un confluire vicendevole, ma per la nascita perfetta di una natura vivente». La scelta di questo termine da parte di Rustico dipende comunque probabilmente, più che dalla tradizione teologica, dalla sua abitudine di portare la traduzione letterale fino alla costruzione di neologismi ricalcati sui termini greci; refusio, in effetti, dal punto di vista linguistico corrisponde esattamente al greco anachysis.

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sarebbero piuttosto uniti per quel che riguarda l’anima, secondo ciò che è scritto negli Atti dei santi apostoli: la moltitudine di coloro che credevano era un cuore solo e un’anima sola (Act. 4, 32)? Ma penso che sia vera questa seconda possibilità piuttosto che la prima. Non aver timore riguardo a questo; infatti è troppo prudente la mente dei santi»a. Ecco, il problema posto a buon diritto a Nestorio, il santo Cirillo lo risolveb. Eretico: Mostra qualcosa del genere dai suoi scritti conciliari, se pure puoi davvero farlo; infatti, quel che è stato detto nella lotta e nella contesa e nella disputa non è stato detto certo con accuratezza: penso infatti che molte parole siano state usate soprattutto per condiscendenzac, in tali situazioni, mentre quelle del concilio universale sono le più salde fra tutte, soprattutto perché bisogna che prima sia osservato ciò che è stato scritto in comune e poi quello che è dei singoli. Ho infatti anch’io non pochi passi da presentare da tali scritti. Rustico: Se l’autorità di questo Padre non basta a soddisfarti riguardo a questo, pensa che sia stato io a dirlo: forse potrai non approvare le parole dell’Apostolo che lo dimostrano o una così sana spiegazione? Tuttavia anche in questo ti obbedirò; spero infatti nel nome del Signore che, se sarai soddisfatto in tutto ciò che chiederai, sarai certo anche corretto. Dall’epistola ufficiale di unione di Cirillo di santa memoria a Giovanni di santo ricordo, arcivescovo di Antiochia, e al concilio che dipende da lui: «La tua religiosità si degni di condannare coloro che dicono che si è a 

7–21.

Cirillo di Alessandria, Libri V contra Nestorium, in ACO 1, 1, 6, p. 22,

b  Rustico usa questo passo di Cirillo per spiegare quale sia a suo avviso il modo corretto di intendere i termini relativi alla mescolanza usati da alcuni padri e in particolare da Gregorio di Nazianzo nella sua lettera a Cledonio (per il pensiero di Cirillo in proposito cf. McKinion, Words, Imagery and the Mistery of Christ, p.  76–79); egli ritiene dunque che la terminologia della mescolanza possa essere usata in teologia, ma solo a patto di intenderla come un’immagine, senza pretendere di poter spiegare in alcun modo in termini fisici l’incarnazione; quindi questo, come altri esempi frequentemente usati in teologia, deve deve essere visto esclusivamente come un modo per spiegare in modo più chiaro l’argomento. c  Cf.  1176A dove l’eretico aveva cercato in modo analogo di ridimensionare l’importanza delle formulazioni più moderate usate da Cirillo nell’epistola Laetentur.

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1204B

1204C

Disputa, 1204A–1205A

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1205A

realizzata una confusione o una fermentazione di Dio il Verbo con la carne: c’è da credere infatti che alcuni vadano dicendo queste cose su di me, come se io avessi pensato o detto così. Io invece sono tanto estraneo a questa idea che penso che siano impazziti coloro che hanno sospettato in qualunque modo che l’ombra del mutamento potesse sfiorare la natura divina del Verbo. Rimane infatti ciò che è sempre e non è mutata, ma neppure sarà mai mutata e neppure sarà suscettibile di cambiamento; tutti professiamo, poi, Dio il Verbo impassibile per quanto riguarda questo»a. Eretico: Anche noi non ci riferiamo all’empia mescolanza che qui quel dottore accusa, ma a quella devota che nelle parole del santo Gregorio lo stesso santissimo Cirillo ha accettato, con tutto il concilio universale di Efeso. Questa devota mescolanza, poi, ha realizzato una sola natura di Cristo. Rustico: Anche se quel che è stato detto sarebbe sufficiente, tuttavia, per la tua ostinazione, perché tu sappia che non è tale l’intenzione di questa espressione, osserviamo il resto, che è tale: «Entrambe infatti sono una cosa sola per commistione, essendosi Dio inumanato e l’uomo divinizzato, o in qualunque modo lo si chiami; dico poi una cosa e un’altra, al contrario di quanto avviene nella Trinità: nella Trinità infatti uno e un altro, perché non confondiamo le sussistenze, non invece una cosa e un’altra: queste tre infatti sono una cosa sola, e la medesima per la divinità»b. Chiaramente con tali parole ha spezzato ogni vostra eresia, dimostrando che in Cristo si conviene dire ‘una cosa e un’altra’, mentre nella Trinità nella sua interezza non è così, ma piuttosto ‘uno e un altro’. Vedi dunque che del Signore Cristo, uno solo e il medesimo, si dice sia ‘due nature’ che ‘una cosa e un’altra’; ‘uno e un altro’, invece, dove ci sono tre persone, non perché Cristo sia una quarta persona (infatti senza di lui non sarebbero già tre, ma due persone o sussistenze)c, ma perché, come sono in comune la differenza Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, in ACO 1, 1, 4, p. 19, 1–8; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 190, 12–18. b  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 30–33; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. p. 72, 22–28. c  Si tratta di un primo cenno all’accusa mossa ai calcedonesi di introdurre un quarto nella Trinità professando due nature in Cristo; questo punto sarà trattato a 

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della santa Trinità ed il numero delle sussistenze (e non delle nature), così anche in Cristo, che completa la Trinità, la differenza delle nature (non delle persone) corrisponde al numero. Se infatti qui è al contrario che nella Trinità, che cosa significa questo «al contrario» se non che, come lì non c’è una sola persona per non confondere le sostanze, così qui non c’è una sola natura per non confondere le nature? Dunque, in base al giudizio del santo e universale concilio, coloro che parlano di una sola natura del Signore Cristo realizzata da divinità e umanità introducono certamente una confusione. Eretico: Ha detto «due nature» e «una cosa e un’altra, dalle quali il Salvatore», non ‘nelle quali il Salvatore’; voi invece, come il concilio di Calcedonia, non dite che è da due, ma in due. Rustico: Non ha detto ‘c’erano’, ma «ci sono» due nature, non soltanto per quanto detto primaa, ma anche per quello che si è detto ora: non ha detto infatti che era così in Cristo, ma che è così fino ad ora. Ha detto infatti: «al contrario di quanto avviene nella Trinità», cioè fino al presente; e non ha detto: ‘lì certo avvenne così al contrario; nella Trinità, poi, avviene così’, ma aggiunge in comune «avviene», dopo aver detto «al contrario». Come dunque fino ad ora lì c’è distinzione delle sussistenze, così anche qui delle nature. Delle cose infatti che sono state e non sono più, ampiamente più avanti (1200B–1238A). Si trattava di una critica ormai tradizionale; prima ancora delle dispute cristologiche del V secolo, il problema infatti era stato sollevato dagli apollinaristi (cf. 1215B e nota) che ritenevano appunto che non ammettendo una sola natura in Cristo si sarebbe aggiunto un quarto alla Trinità; per questa ragione nella letteratura teologica latina il tema si trova già in Ambrogio, De incarnationis dominicae sacramento 7, 77–78 e ricorre spesso negli scritti di Agostino (cf. Drobner, Person – Exegese und Christologie bei Augustinus, p. 261–262). Fra i monofisiti, con argomentazioni analoghe, la stessa critica alla dottrina calcedonese fu sollevata, fra gli altri, da Severo di Antiochia (cf. Simonetti, ‘La Disputatio contra Acephalos del diacono Rustico’, p. 264). Anche Boezio deve rispondere a questa accusa: «e non si aggiunge un quarto alla Trinità quando si aggiunge l’uomo al perfetto Dio, ma una sola e medesima persona compie il numero della Trinità, così che, poiché l’umanità ha sofferto, si può dire Dio ha sofferto, non perché la divinità stessa sia diventata umanità, ma perché è stata assunta dalla divinità» (Contra Eutychen 7). a  Rustico si riferisce probabilmente a quanto aveva sostenuto in 1201A: «Non ha detto poi che erano, ma che sono due nature».

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1205B

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Disputa, 1205A–1205D

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rispetto alle cose che sono sempre cosìa in che modo ‘secondo una cosa e un’altra’ e ‘uno e un altro’ potrà essere diverso, al contrariob? Se poi anche questo ti risulta difficile, è già stato dimostrato da quanto precede che ha scritto «due nature, Dio e uomo» come se dicesse ‘sono due nature, Dio e uomo’. Eretico: E fino ad ora abbiamo detto che ci sono due nature, ma in modo che sia da esse, non in modo che sia in esse: dire questo, infatti, è dividere in due. Rustico: Di’ dunque, quali sono queste due? Certo è chiaro che sono la sua divinità e l’umanità di lui medesimo. Se quindi Cristo è nella divinità e nell’umanità, Cristo è dunque in due nature; infatti, se non è così, non è dunque da due nature (lungi da noi!), lui che è dalla divinità e dall’umanità, o (lungi da noi) da un’altra divinità e umanità oltre alle due nature, o non dalla divinità e dall’umanità. Eretico: E sulla base di che cosa mi puoi dimostrare che Cristo sia nella divinità e nell’umanità? Rustico: Intanto, la frase «entrambe infatti sono una cosa sola per mescolanza» dimostra che non intendeva che le nature ci sono state solamente un tempo, ma che ci sono anche orac. È la a  Qui si deve probabilmente ipotizzare una lacuna perché le due parti non sembrano poter essere collegate fra loro; ricostruire il senso del discorso rimane comunque molto difficile. È infatti caduto tutto il ragionamento con cui, a partire dal permanere della distinzione delle nature, Rustico dimostrava che Cristo è da riconoscere in due nature. Forse egli introduceva l’argomento osservando che le realtà caduche («che sono state e non sono più») sono di diversa natura rispetto alle realtà eterne («che sono sempre così»), quindi umanità e divinità sono due nature diverse. Un ragionamento in qualche misura analogo, infatti, si trova in 1216A. b  A causa della lacuna, queste parole sono difficili da interpretare e la traduzione qui offerta è puramente ipotetica. c  Rustico, evidentemente in difficoltà di fronte all’espressione di Gregorio che sembra sostenere la presenza di una sola natura in Cristo, fa leva sulla presenza di un verbo al presente nella frase per sostenere che le due nature permangono anche dopo l’unione, ma il suo avversario obietta che il permanere di una distinzione fra umanità e divinità non autorizza a sostenere che Cristo sia in due nature, perché dopo l’unione la distinzione delle due nature è solo a livello speculativo, mentre a livello ontologico c’è una sola natura del Verbo incarnato; egli infatti in 1235A sosterrà: «Non neghiamo che ci siano due nature, ma neppure che sia una sola a causa dell’unione: la prima formulazione infatti riguarda la natura, mentre la seconda riguarda l’unione. Perciò sono due a livello logico, non nella realtà».

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stessa cosa infatti dire ‘entrambe queste cose’ e ‘queste due cose’. Come dunque quando dice «una sola cosa» non intendiamo che è stata soltanto, ma che anche è, così anche quando dice «entrambe queste cose» intendiamo che non sono state soltanto, ma che anche sono; se infatti non ci sono più queste due, dunque non c’è più neppure questa cosa sola; perciò, secondo te, non si dirà ormai che Cristo è uno solo (lungi da noi) e neppure che è una sola la sua persona. E anche questa parola, cioè «queste», detta al plurale, indica che non c’è una natura, ma delle nature; la parola «entrambe», poi, indica che sono due; è stato detto tutto però insieme, come dimostra l’espressione delle parole. Eretico: Non mi dimostrare molte cose, ma, come ho detto, che Cristo sia in queste. Rustico: Ti proverò anche questo, analogamente in base a espressioni del concilio. Eretico: Prima esaminiamo quel che resta della testimonianza del santo Gregorio, che mostra chiaramente, penso, che una sola è la sostanza del Signore Cristo. Rustico: Rimandiamo pure, come vuoi, purché senza pregiudizio, questo discorso; ora invece intanto, mentre conserviamo ancora nella memoria quel che si è detto, ascolta le parole del concilio secondo le quali Cristo è nella divinità e nell’umanitàa. Testimonianza conciliare di Ambrogiob, santissimo vescovo di Milano: «Tacciano quindi le vane questioni sulle parole, poiché il regno di Dio, come è scritto, non è nella persuasione della parola umana, ma nella dimostrazione della potenza (I Cor. 2, 4). Conserviamo la differenza della divinità e della carne. Il Figlio di Dio, uno solo, parla in entrambe, poiché nel medesimo sono entrambe le nature; e se parla come il medesimo, non lo fa sempre in un solo modo. Osserva in lui ora la gloria del Signore, ora invece Rustico a questo punto cerca fornire un’interpretazione del passo di Gregorio compatibile con la dottrina calcedonese e per far questo cerca di metterlo in relazione con altre testimonianze patristiche, come quella qui citata di Ambrogio, che mostrino di considerare equivalenti la semplice affermazione della presenza di due nature in Cristo e la formula cristologica ‘in due nature’. b  Questo passo era già stato citato in 1177A–B insieme ad altri testi citati dagli atti di Efeso del 431 (cf. nota corrispondente). a 

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Disputa, 1205D–1206D

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1206D

le passioni dell’uomo; infatti come Dio insegna ciò che è divino, poiché è il Verbo, come uomo invece dice ciò che è umano, poiché parlava nella mia sostanza»a. Hai sentitob: «Custodiamo la differenza della divinità e della carne. Il Figlio di Dio, uno solo, parla in entrambe, poiché nel medesimo sono entrambe le nature»c. Capisci, ti prego, che il Signore Cristo è in entrambe le cose che si sono dette, cioè nella divinità e nell’umanità, delle quali disse anche che bisogna conservare la differenza. E aggiunse: «poiché nel medesimo sono entrambe le nature». Che cosa vuol dire dunque ciò che dice, «poiché», se non come dire ‘per questo è in esse, perché esse sono in lui’? Se infatti ci sono due nature in Cristo, anche Cristo è in due nature. Per questo non parla sempre nello stesso modo, pur essendo egli il medesimo, perché non è una sola la natura, ma talvolta come Dio, talvolta poi come uomo, «poiché parlava nella mia sostanza», cioè ‘poiché parlava colui che era nella mia sostanza’; e la stessa differenza dei tempi, poi, rappresenta sia la gloria di Dio che le passioni dell’uomo, e parimenti la distinzione delle nature, dal momento che dice «ora» questo, «ora invece» quello. Eretico: Sei tu che lo dici; infatti il concilio non dice che Cristo è in entrambe le nature, ma «egli stesso parla in entrambe»; in lui invece «sono entrambe le nature»; e non disse ‘due’, ma «entrambe», perché d’altra parte ‘entrambe’ non equivale esattamente a ‘due’. Ambrogio di Milano, De fide 2, 9, 77; cf. ACO 1, 1, 2, p. 42, 27–43, 4; trad. Rustico 1, 3, p. 72, 16–21. b  Il commento di Rustico a questo passo di Ambrogio presenta delle precise analogie con quello di Facondo di Ermiane, in Defensio 1, 5, 13: «Ascoltano queste parole di Ambrogio, che sono state lette al concilio di Efeso; riconoscono che da esse Nestorio è stato condannato, quando si dice: “Conserviamo la distinzione della divinità e della carne e il fatto che, pur essendo uno solo, il Figlio di Dio parla in entrambe”, cioè in entrambe le nature della divinità e della carne, per cui, proseguendo, aggiunge: “poiché nel medesimo sono entrambe le nature”». Non solo le osservazioni di Rustico sono analoghe a quelle di Facondo, ma il verbo ‘hai sentito’ con cui è introdotto il commento richiama chiaramente ‘ascoltano’ del vescovo di Ermiane. Che Rustico conoscesse la Defensio del resto appare del tutto naturale dato che l’opera, composta a Costantinopoli solo pochi anni prima, fu probabilmente lo scritto più importante dedicato alla controversia dei Tre Capitoli in ambiente latino. c  Ambrogio di Milano, De fide 2, 9, 77. a 

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Rustico: Fino a che punto, o tu, uomo, rifiuti di credere a Dio, che ha parlato tramite i santi Padri! E, da sfacciato, invece di tacere, con la cecità della disperazione sconvolgi anche le nozioni più comuni! Chi fra gli uomini ha mai detto, chi ha mai sentito che ‘entrambe’ non significhi ‘due’? Ma ti convinco di errore a partire dalla tua stessa coscienza: dichiara dunque anatema chi non crede che Cristo sia in entrambe le nature e che in Cristo siano entrambe le nature, perché possiamo riconoscerti almeno la buona fede! E allora? Perché cerchi pretesti e sfumature di parole? Dichiara anatema e allora ti persuaderemo razionalmente come uno che ignoraa . Poi ha detto «parla in entrambe» e «poiché parlava nella mia sostanza», ma questo non significa che è in questo o in quello, bensì che «parla in entrambe»; ma ha detto ‘poiché’ nel senso di ‘colui il quale’ è nella mia essenza e nel senso di ‘parla uno solo che è in entrambe’; questo è stato enunciato così in modo da aggiungere dopo anche ‘il Figlio di Dio’. Ripristinato poi l’ordine delle parole, l’interpretazione è facile; è come se dicesse: ‘colui che è in entrambe le nature, il Figlio di Dio’; e ha aggiunto «parla». Ma poi egli stesso denuncia l’assurdo che deriva dalle tue parole: se infatti non è in entrambe ma parla in entrambe, parla dunque dove non è; e anzi, se egli non è in entrambe le nature, e sono poi in lui entrambe le nature, egli, il Figlio di Dio, non è nelle nature che sono in lui. E davvero un ragionamento simile per certe cose è veritiero: io infatti sono in questo mondo e in questo luogo, ma questo mondo o questo luogo non sono in me, ma per quello che riguarda la a  Mostrandosi ancora una volta vicino al pensiero di Facondo di Ermiane, Rustico sostiene che gli eretici non siano tali per la loro ignoranza della verità o per i loro errori dottrinali, ma per il loro atteggiamento intellettuale improntato alla presunzione; cf. Defensio 12, 1, 6: «Si deve dunque capire che non è l’ignoranza che non è ribelle alla dottrina della verità che rende tale l’eretico, ma piuttosto l’ostinata difesa della menzogna. Possiamo affermare che riguardano questa ostinazione, anzi sosteniamo fermamente che hanno in essa il loro principio dominante, anche quelle dottrine che alcuni stabilirono per la sola presunzione del loro spirito, non perché comprendevano in modo insufficiente le scritture divine, ma perché resistevano apertamente ad esse» (cf. Simonetti, ‘Haereticum non facit ignorantia’, p. 100–105). Per questo Rustico stigmatizza qui le eccessive sottigliezze del suo avversario, al quale non è dunque disposto a riconoscere neppure la buona fede.

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Disputa, 1206D–1208A

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sostanza la conversione dei predicatia avviene necessariamente; e infatti, se il Figlio è nella sostanza divina, anche la sostanza divina è nel Figlio; e se la natura dell’umanità è in lui, anche lui è nella natura stessa; e se ci sono in lui due nature, anche lui è in due nature. Eretico: Io temo di dire quasi con una professione di fede quello che chiunque potrebbe dire dividendo e separando: si dice che si verifica una divisione, infatti, in due o in tre o certo in più ancora; e perciò non dico ‘in due’. Rustico: La somiglianza delle espressioni non fa esistere la medesima cosa nella realtà; altrimenti in tal modo sarebbe possibile che sostenesse la menzogna opposta anche colui che dice che nel medesimo sono entrambe le nature; quello che si confonde, infatti, si confonde in un solo qualcosa. Del resto, anche la più grande diversità dei discorsi, o meglio la contrarietà, consiste nel dire che uno solo e il medesimo è in due nature e nel dire che si divide in due nature o in due qualcosa; colui, infatti, che è diviso o ripartito, oppure separato, non è uno solo in quelle cose in cui è separato (non può infatti essere uno solo e essere diviso), ma dopo essere stato in precedenza uno solo, ora non è più uno, dopo che è stato separato. Significa questo, infatti, un’empia divisione o separazione. Ma poi, essere uno solo e il medesimo in qualcosa tanto più significa essere inseparabilmente una cosa sola in modo più prudente e tenace: infatti colui che è in due e rimane egli stesso il medesimo non solo non può essere distinto, ma basta anche a custodire unite in se stesso le cose in cui è secondo la sussistenza, cioè sostanzialmente, quelle delle quali partecipa senza alcuna mediazione. Perciò, molto più diffusamente e cautamente noi diciamo che il Figlio è uno solo, dal momento che, sapendo che egli esiste in due nature, lo riconosciamo fermamente e immutabilmente uno solo, tale da non dover essere vincolato, per così dire, alla dualità delle nature nelle quali è (in questo caso sarebbe diviso in due), ma anche tale da essere in grado di conservare nella sua propria unione indissolubile quelle stesse nature nelle quali è. a 

Per la convertibilità dei predicati cf. 1190C e nota.

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Eretico: A me queste parole sembrano ingannia e sottigliezza di ingegnob, per così dire. Io invece mi volgerò alla santissima autorità dei santi Padri ed esigerò poi da te, secondo le tue promesse, di lasciarmi prendere ora, infine, in esame il resto del passo del santo Gregorio, che dice così: «Se uno afferma che ha operato come in un profeta secondo la grazia e non è stato riplasmato insiemec e congiunto secondo la sostanza, sia privo dell’operazione migliore e piuttosto pieno di quella contrariad. Se uno non lo adora crocifisso, sia anatema e sia annoverato fra i deicidi. Se uno dice che egli è stato reso perfetto per le opere o fatto degno dell’adozione a figlio dopo il battesimo o dopo la risurrezione dai morti, come i gentili presentano coloro che sono accolti fra gli dèi, sia anatema: infatti ciò che comincia, o progredisce, o giunge a compimento, non è a  Traduco così il latino argumentatio, anche se questa connotazione fortemente dispregiativa del termine non ha paralleli nel Contra Acephalos; in 1210C–D infatti è usato per un discorso dell’eretico e si riferisce effettivamente ad un ragionamento erroneo, ma non sembra così chiaramente connotato in senso ostile. D’altra parte non ha certo accezione negativa il termine argumentum, usato in 1247A: «questo argomento contro di voi risulta insuperabile»; e lo stesso vale anche per il verbo argumentor, usato in 1199B: «Ma noi ora ragioniamo (argumentamur) sull’effetto a partire dall’unione». La diffidenza nei confronti dell’eccessivo intellettualismo è un luogo comune della latteratura patristica, ma quest’uso assoluto del termine in senso negativo non sembra avere molti paralleli (cf. ThLL II, 540, 61–66); sembra presente infatti solo in Ambrogio, De Officiis 1, 29, 140: «avendo compreso che era Eliseo che si opponeva a tutti i suoi propositi e macchinazioni». b  L’eretico rimprovera a Rustico un eccesso di intellettualismo e per combatterlo decide di ricorrere all’autorità dei Padri. Le accuse di eccessiva sottigliezza e cavillosità sono ricorrenti nel Contra Acephalos, sia da parte di Rustico che dell’eretico, senza che questo indichi una precisa presa di posizione contro un tecnicismo che, del resto, pervade l’opera. Il termine subtilitas (sottigliezza) in questa accezione negativa era già stato usato da Agostino, proprio in relazione ad un eccesso nell’uso della dialettica (De doctrina christiana 3, 34, 47: «E qui non si deve usare quella sottigliezza nel distinguere che è insegnata dai cultori della dialettica che disputano con grande acutezza sulla differenza fra parte e specie»). Nel Contra Acephalos questo termine non è usato altrove, ma ricorrono le corrispondenti forme dell’aggettivo e dell’avverbio per indicare la precisione del ragionamento; cf. 1209B («Ti prego di ascoltare più attentamente di prima. Il discorso è infatti troppo sottile per poter essere compreso altrimenti»), 1224C («Intendi, ti prego, la verità in modo preciso [subtiliter]») e 1252A («Se vorrai osservare più attentamente [subtilius] quello che ho detto…»). c  Per questo termine cf. Introduzione, p. 33. d  Per questa espressione cf. 1246B e nota.

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Dio, anche se si dice così a causa dell’accrescimento gradualea»b. Ecco, senza dubbio sono stati anatematizzati coloro che dicono che Dio non è congiunto alla carne secondo la sostanza e non è stato riplasmato insieme ad essa. Se dunque si è realizzata in Cristo l’unione secondo la sostanza, risulta che ha costituito una sola sostanza: la testimonianza non ha detto infatti ‘congiunto secondo le sostanze’, ma «secondo la sostanza»; la sostanza, poi, certamente è una sola e non sono due sostanze, come dite voi. Mi ricordo poi anche che dove si diceva ‘unione naturale’ hai detto che intanto non ha detto ‘unione secondo la natura’, ma ‘naturale’. Ecco, dunque, qui non ha detto ‘congiunzione sostanziale’, ma specificamente secondo la sostanza, cioè unione; ha aggiunto poi anche che Dio è stato riplasmato insieme con la carne e che i Giudei non sono omicidi ma deicidi. Rustico: Non dice ora come le due nature siano convenute vicendevolmente, ma in che modo l’unica e sola natura divina sia convenuta con l’umanità, e non anche il contrario. Se poi non lo ritieni da approvare, cerchiamo di capire il principio di questa proposizione; dice infatti: «Se uno afferma che ha operato secondo la grazia come in un profeta…». Vedi dunque come Dio si è unito alla carne, non come divinità e umanità senza unità, cioè da una sola parte dell’unione, per così direc. Questo impedisce dunque che si dica semplicemente che Dio è congiunto secondo la grazia, secondo quella misura della grazia con la quale ha operato nei profeti; approva invece ‘congiunto secondo la sostanza’, e non ha detto unito, ma ‘congiunto’: la congiunzione del resto è di quelle cose che non sono unite senza mediazione. Mi sforzerò di dire più chiaramente quel che voglio dire: non si dice che Dio il Verbo si è unito In latino catamodice; cf. Introduzione, p. 35. Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 44, 1–8; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 73, 1–8. c  Rustico stesso si accorge che l’espressione è audace ed in effetti questa frase non risulta del tutto chiara. Il senso del suo discorso comunque sembra che quella di divinità e umanità in Cristo è una vera unione, non un’unione parziale come quella che si verifica nei profeti. È una sola delle due parti in causa nell’unione ad avere un ruolo attivo nell’incarnazione, per cui il Figlio assume la carne nell’unità della sua persona; nei profeti invece i due elementi, quello umano e quello divino, rimangono sostanzialmente separati e sono congiunti solo per grazia. a 

b 

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alla carne tramite la natura divina, ma la natura divina tramite la persona di Dio il Verbo. Se infatti tutta la Trinità avesse voluto incarnarsi, allora forse giustamente la natura stessa tramite se stessa si sarebbe incarnata; infatti tutto quello che appartiene a quella natura secondo sé e per sé è comune alla Trinità e non proprio di una e sola persona. Ma l’inumanazione non è comune alla Trinità, ma propria della sola sussistenza del Verbo; si è incarnato dunque sia Dio il Verbo sia la sua natura, ma certo tramite se stesso e secondo ciò che egli è; quella invece non così, ma tramite la persona. Quindi Dio il Verbo secondo se stesso si è unito alla carne, infatti si è realizzata una sola persona e una sola sussistenza con la carne; secondo la natura, però, si è congiunto, più che unito: rimasero infatti due nature; e se si devono confrontare le due cose, è il Verbo che si è unito alla carne piuttosto che la sua natura; e per questo la prima cosa piuttosto che l’altra è unione. L’altra dunque è più una congiunzione, pur essendo anche unione; la prima invece è più unione che congiunzione; infatti, assolutamente, qualunque cosa sia chiamata congiunzione, lì pressoché sempre si conserva anche il numero delle cose congiunte, o anche la quantità. Eretico: A me questo discorso sembra pieno di grandi assurdità, perché non è diverso dire in che modo le due nature siano vicendevolmente convenute e in che modo la divinità si sia congiunta all’umanità. Infatti l’unione, se è una, non differisce affatto da se stessa; dunque il Verbo si è unito alla carne così come la carne al Verbo. Poi quale è la differenza fra il Verbo e la sua natura, perché egli si dica unito tramite se stesso e quella invece non unita tramite se stessa, ma piuttosto congiunta? Rustico: Ti prego di ascoltare più attentamente di prima. Il discorso è infatti troppo sottile per poter essere compreso altrimenti. Noi diciamo che Dio inabita nella carne, ma non che la carne inabita Dio; e si dice che la carne è ‘tempio di Dio’, ma non si dice affatto che Dio è ‘tempio della carne’; ed è Dio che ha fatto un’unione di questo genere, e non la carne, ma è la carne che ha patito, e non ha agito. Ma ‘passione’ si dice non solo di ciò che è corporeo, doloroso e malvagio, ma anche di ciò che è spirituale, soave e buono, così che anche la stessa felicità delle creature si chiama ‘passione’. Ed è una sola e medesima unione, ma non è

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una sola la definizione o il modo dell’unione. Se dunque bisogna rappresentare con un’immagine la differenza della divinità unita alla carne e della carne unita alla divinità, diciamo così: capita che le percezioni di una sola e medesima via siano contrarie fra loro, perché è la medesima in salita e in discesa: da questo punto di partenza a quello è salita, da quello a questo discesa, ma il soggetto è il medesimo; il luogo del percorso infatti è il medesimo, anche se uno lo percorre più, anzi, infinite voltea. Così dunque (diciamo per esempio e per chiarire), quello che si distingue fra la divinità Lo stesso concetto si legge in Ferrando, Ep. 5, Ad Severum scholasticum constantinopolitanum, 5: «Del resto nessuno davvero ascende al cielo se non colui che è disceso dal cielo, perché una sola è la persona di chi scende e di chi sale, una persona che scende secondo la natura della divinità, indotta dalla pietà, e che sale secondo la natura dell’umanità con il trofeo dell’immortalità». È interessante notare che il ragionamento di Ferrando, a differenza di quello di Rustico, è strettamente basato su passi biblici, come Ioh. 3, 13 e Eph. 4, 16, sui quali egli basa l’unità di persona di Cristo. Il ragionamento di Rustico è invece più filosofico ed è significativo che egli non senta il bisogno di citare dei passi che sembrerebbero un ovvio punto di riferimento per un discorso del genere. È probabile, infatti, che egli sia stato influenzato piuttosto dalla riflessione filosofica sul linguaggio: classificando i vari casi di corrispondenza fra nome, definizione e realtà, infatti, si parlava di ‘eteronimi’ quando una stessa realtà era designata da due nomi diversi e l’esempio più comune era quello dei termini ‘salita’ e ‘discesa’ che indicano una medesima realtà da due punti di vista diversi. Questa classificazione risale nelle sue linee generali a Aristotele, Categoriae 1, 1a 1–15 (dove però si parla solo di omonimi, sinonimi e paronimi e non di eteronimi), ed era poi stata approfondita dagli stoici; poi il frutto delle loro riflessioni era confluito nei commenti alle Categorie. Troviamo dunque una trattazione dell’argomento ad esempio nei commenti di Porfirio (In Arist. Categ. Expos., prooem., ed. Brusse, p. 60–61) e di Ammonio (In Arist. Categ. Comment. I, 1 a 1, ed. Brusse, p. 15–16). In ambiente latino questi concetti erano stati spiegati nella Paraphrasis Themistiana 10–25 (ed. Minio-Paluello, p. 135). Questa riflessione sui nomi era quindi abbastanza conosciuta e se ne trova traccia anche in opere cristiane: di omonimi, sinonimi, polionimi e paronimi parla anche, ad esempio, Clemente Alessandrino in Stromata 8, 8, 24, 1–9. Si è osservato però che l’esempio della salita e della discesa era applicato generalmente alla scala e non alla strada; questa seconda variante sembra essere infatti una peculiarità di Clemente di Alessandria, che direttamente o indirettamente dovrebbe quindi costituire la fonte di Rustico; Clemente a sua volta faceva riferimento a questo proposito al frammento 60 di Eraclito che afferma appunto che la strada è la stessa in salita ed in discesa: «una strada in salita o in discesa è una sola e la medesima» (frg. B 60 Diels-Kranz). Sull’argomento cf.  J. Pépin, Clément d’Alexandrie, les Catégories d’Aristote et le fragment 60 d’Héraclite, in P. Aubenque (ed.), Concepts et catégories dans la pensée antique, Paris, 1980, p. 271–284. a 

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e l’umanità non è l’unione stessa, ma il modo dell’unione, modo che è diverso, benché qui la differenza stia anche nel fatto che l’unione delle due nature non la fecero entrambe le nature, ma la sola divinità. Come avrebbe potuto infatti cooperare all’unione quella nostra natura che è in Cristo, che ebbe inizio dall’unione stessa? Forse poi anche per questo le due sostanze furono congiunte non secondo le sostanze, ma secondo la sostanza, perché l’unione stessa fu il miracolo non di due sostanze ma di una soltanto. Infatti non avviene come nei profeti o in altri, quando noi siamo uniti a Dio perché la grazia divina porge la mano e noi tuttavia ci impegniamo e in qualche modo collaboriamo; lì è in modo analogo, ma di gran lunga e ineffabilmente diverso. Eretico: Di nuovo sono costretto, dubitando, a obiettare: qual è la differenza o che cosa c’è di intermedio fra il Verbo e la sua natura o sostanza perché egli si unisca alla carne tramite se stesso e la sua natura invece non tramite se stessa, ma secondo la persona? Rustico: Quella che secondo voi è la causa per cui non si è inumanato il Padre e lo Spirito Santo, mentre si è incarnata l’unica natura di Dio il Verbo, che è la natura comune della Trinità, noi la riteniamo la causa per cui Dio il Verbo si è inumanato tramite se stesso, ma la sua natura secondo la persona. Anzi, poi, quello che diciamo noi sembra essere molto più facile di quello che dite voi; se infatti umanità e divinità si sono unite così che ci fosse una sola natura e assolutamente non si è incarnato il Padre né lo Spirito Santo, che sono della stessa natura e non di un’altra, come può essere impossibile che il Verbo si sia incarnato in modo tale che la sua natura non si sia incarnata tramite se stessa? Eretico: Ma certo tutto quello che ha la persona, lo ha senza mediazione anche la natura; ma non è necessario che quello che è della natura sia anche della persona. Rustico: Certo codesto discorso anche prima della dimostrazione appare del tutto assurdo a tutti, ma rispondo per necessità a causa degli insensati. Come se, come dici, non ci fosse alcuna differenza né niente di intermedio fra la persona del Verbo e la sua natura! Quello che non è niente, niente proibisce di dirlo al contrario: dunque non c’è alcuna differenza né niente di intermedio fra la natura del Verbo e la sua persona. Poiché, poi, stanno

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Disputa, 1209D–1211A

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indifferentemente secondo la medesima natura non solo il Padre ma anche lo Spirito Santo, essendosi inumanato il Verbo e la sua natura, secondo te si sono inumanati dunque anche il Padre e lo Spirito Santo. È dunque necessario secondo le vostre bestemmie che tutta la santa Trinità sia stata generata e abbia subito la passione. Ma inoltre anche la carne secondo te sarà delle tre persone a causa della Trinità: o la Trinità è una sola persona a causa della carne o è necessario che la carne abbia una natura, ma non abbia una persona. Dunque secondo te non sarà da due nature un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore: queste espressioni infatti presso di voi indicano una e una sola persona composta; ma, come dite, è stata fatta una sola natura; dunque dalla vostra argomentazione deriva la necessità che ci sia o un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore, e non una sola sua natura da due, o che sia una sola la sua natura e non ci sia un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore. Perché dunque attribuite ad altri la vostra colpa, sostenendo, cioè, che quelli che dicono ‘due nature’ negano un solo Signore, un solo Cristo, un solo Figlio? Ma questo, mentre noi lo professiamo incessantemente con le parole e con le azioni, voi soli incessantemente lo negate, parlando di ‘una sola natura’. Ma si deve notare anche questo, che tu, che prima avevi negato che ci fosse differenza fra il Verbo e la sua naturaa, ora hai detto che tutto ciò che ha la persona lo ha senza mediazione anche la natura, ma non che è necessario che siano anche della persona le cose che sono della natura. Eretico: Ammetto che ci sia qualche differenza: ma questo impedisce sì che qualcosa della natura e anche delle persone sia comune, ma non impedisce tuttavia che quello che è della persona sia anche della natura. E perciò una sola persona incarnata si è fatta una sola natura, ma questa che si è fatta una sola natura non è la Trinità incarnata: ciò che è della persona, infatti, subito è anche della natura; quello che invece è della natura non è immediatamente anche delle persone. Rustico: Dunque se quello che è della persona, come dici, è immediatamente anche della natura, poiché ci sono due persone (cioè quella del Padre e dello Spirito Santo), che sono altre rispetto a 

Cf. 1210A.

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all’umanità del Figlio, altra sarà anche la natura, secondo te, del Padre e dello Spirito, rispetto alla natura dell’umanità che è in Cristo. La natura del Padre e la natura della carne dunque sono due. Poiché dunque una e sola e semplice è la natura del Padre e dello Spirito Santo ed è anche la stessa del Figlio, in quanto Dio, le nature del Figlio dunque sono due. Eretico: Ma solo nel Figlio è stata fatta una con l’umanità; nelle altre persone invece sono ‘una e un’altra’, e sono due nature. Rustico: Quindi riguardo a qualcosa di suo è stata fatta una, ma secondo qualcosa no. E se questo qualcosa è lo stesso della persona del Figlio, chiaramente tu confessi insieme con noi che il Figlio è stato fatto uno solo, non una sola natura, e professi una sola persona di lui; se poi non è la medesima cosa della persona, la sostanza divina non sarà semplice, come pensi tu, ma composta; e qualcosa di essa è stato fatto una sola natura con la carne, qualcosa invece non è stato per niente fatto una sola natura con la carne. Dunque, non accettando di fare distinzioni fra divinità e umanità, tu ne fai nella stessa divinità, che è semplice, e questo lo fai secondo essa stessa. Che poi sia empio attribuire tutte le caratteristiche del Figlio di Dio alla sua natura divina, se ne dubiti, sarà dimostrato: infatti le passioni della sua carne non è lecito attribuirle alla natura divina del Figlio e neppure ciò che è proprio del Verbo o delle altre sussistenze, come penso. E la causa è che le proprietà che costituiscono le persone sono vicendevolmente distanti, ma il semplice, per il fatto che è semplice, non ha niente di differente. Il Padre infatti ha generato, ma non è anche stato generato, il Figlio invece è stato generato, ma non ha generato e lo Spirito Santo procede, ma non anche il contrario. Ma la natura divina, cioè quella della santa Trinità, che è comune alle tre sussistenze, né ha generato né è stata generata né procede: infatti, se è vera una di queste cose, di conseguenza lo sono anche le altre, cioè se ha generato è stata anche generata ed è proceduta. E così è empio anche attribuire tutto quello che è del Figlio di Dio alla sua natura divina; infatti, poiché non è proprio del Figlio di Dio né generare né procedere, queste cose quindi non sono riferite alla natura di colui che genera e procede; anzi, piuttosto, poiché per il Padre

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Disputa, 1211A–1211D

generare è lo stesso che non essere generato e non procedere, anche per il Figlio questoa […] Eretico: Se la natura divina non ha generato, perché nella formula di Nicea i santissimi Padri dicono che il Figlio è nato dalla sostanza del Padreb, sostenendo che «l’Unigenito è stato generato dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre»c? Rustico: Non sono queste le parole del simbolo, per cui neppure i centocinquanta santi Padri le usarono a Costantinopolid. Alla fine dell’intervento di Rustico, l’editio princeps segnala la caduta di una riga: «Deerat versus in exemplari». Probabilmente Rustico ripeteva anche per il Figlio lo stesso ragionamento fatto per il Padre e ne concludeva che il generare e l’essere generato sono proprietà della persona del Padre e del Figlio e non della natura divina. b  L’eretico cita a sostegno della sua argomentazione un passo del simbolo niceno. Il concilio di Nicea costituiva un punto di riferimento fondamentale per l’ortodossia, per cui è naturale che l’interlocutore di Rustico si richiami alla sua autorità. Si deve comunque tener presente che la formula nicena, pur autorevole per la sua stessa antichità, non teneva conto dei successivi sviluppi del pensiero teologico e quindi la scelta di citare questo credo poteva derivare sì dal desiderio di salvaguardare la dottrina originaria della Chiesa, ma anche dal tentativo di evitare un’esplicita presa di posizione su questioni più attuali. A testimonianza della sua ortodossia, infatti, lo stesso Eutiche citò la formula nicena, ma, quando la sua dichiarazione fu letta a Calcedonia, uno dei vescovi presenti, Diogene di Cizico, osservò che egli non aveva agito in buona fede, ma aveva volutamente ignorato l’ampliamento relativo alla nascita di Cristo «dallo Spirito Santo e da Maria Vergine» che era stata inserito in seguito dal concilio di Costantinopoli del 381 in funzione antiapollinarista (su Apollinare di Laodicea cf. 1215B e nota); i vescovi egiziani espressero però il loro dissenso sostenendo che ci si dovesse attenere strettamente a quanto stabilito a Nicea, senza introdurre aggiunte (ACO 2, 1, 1, p. 91). Qualche decennio dopo, inoltre, l’Enkyklion dell’usurpatore Basilisco poneva come punto di riferimento per la fede solo la formula nicena, mentre l’Henotikon di Zenone aggiungeva la formula di Costantinopoli a quella di Nicea (cf. Kelly, Early Christian Creeds, p. 299–300). Dalla risposta che segue si può vedere come Rustico accolga con sospetto questa citazione del suo interlocutore, tanto che risponde facendo riferimento alla formula di Costantinopoli, vista come una integrazione necessaria di quella del 325. c  Cf. ACO 1, 1, 1, p. 12, 33–34; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 60, 33–34. d  La reazione di Rustico di fronte al riferimento a Nicea del suo avversario è piuttosto singolare, perché egli, chiaramente a torto, nega l’autenticità della citazione (anche se con qualche dubbio, come dimostrano le parole che seguono). L’origine di questo errore risiede nel fatto che la pericope non è presente nel simbolo costantinopolitano, che era considerato generalmente all’epoca di Rustico un ampliamento di quello niceno; per questo motivo, quindi, l’autore della Contra a 

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Tuttavia, anche se qualcuno lo riporta in questa forma, si deve intendere nel senso che l’Unigenito è stato generato dal Padre, essendo della stessa sostanza di cui è anche il Padre, non come se fosse stato generato dalla sostanza stessa: Dio il Verbo infatti è Figlio non della sostanza ma della sussistenza del Padre; infatti è Padre del Verbo non la natura comune delle tre sussistenze, ma la sola sussistenza del Padre. Eretico: Quindi, secondo te, il santo e grande e universale concilio che fu fatto a Efeso ha corrotto il vero: ha citato infatti il simbolo dicendo a quel punto così: «E in un solo Signore Gesù Acephalos ritiene che il testo citato dall’eretico non sia autentico, perché in caso contrario sarebbe stato conservato nella formula di Costantinopoli. In realtà gli studiosi moderni, proprio a partire da questa ed altre discrepanze fra le formule di Nicea e Costantinopoli, che non possono essere spiegate sulla base di diverse impostazioni dottrinali, negano l’idea tradizionale che la seconda sia nata come semplice ampliamento della prima (cf. Kelly, Early Christian Creeds, p. 301–305). L’ignoranza di Rustico riguardo al testo preciso del simbolo niceno può sembrare incredibile, ma si può forse spiegare tenendo conto del fatto che negli atti del concilio di Calcedonia alla formula di fede elaborata dal concilio sono premessi i simboli niceno e costantinopolitano (cf. ACO 2, 1, 2, p. 127–128), ma il simbolo niceno è citato in una forma che nella parte iniziale ricalca quello costantinopolitano ed è priva in particolare della pericope qui citata dall’eretico (per il problema, cf. Kelly, Early Christian Creeds, p.  297–298). Evidentemente quindi Rustico riteneva che la forma autentica del simbolo niceno fosse quella citata nell’Actio V del concilio di Calcedonia. In realtà negli atti dell’Actio III dello stesso concilio è presente la citazione del simbolo niceno nella sua forma genuina (cf. ACO 2, 1, 2, p. 79); si deve quindi dedurre che Rustico al momento della composizione della Contra Acephalos non avesse a disposizione gli atti completi di Calcedonia e non ne avesse ancora acquisito una conoscenza veramente approfondita. La sua attività di traduttore degli atti, infatti, fu evidentemente intrapresa successivamente alla composizione del Contra Acephalos. Si deve notare, comunque, che Rustico lascia aperta la possibilità che le parole citate dall’eretico si trovino effettivamente nel simbolo niceno: egli evidentemente non doveva essere assolutamente certo della solidità della sua posizione. L’eretico del resto risponde alla sua obiezione ricordando che il testo che sta citando è quello citato al concilio di Efeso, che dunque garantisce la sua autenticità. Rustico si dimostra prudente (non vuole certo sostenere che i Padri di Efeso abbiano corrotto il credo di Nicea), riconoscendo che il simbolo niceno può essere tramandato in forme leggermente diverse fra loro, ma, se non si possono muovere accuse al concilio di Efeso, tanto meno lo si può fare per il più antico concilio di Costantinopoli. In ogni caso, a suo avviso, se anche le parole citate dall’avversario fossero quelle autentiche, si dovrebbero interpretare semplicemente come equivalenti al termine ‘consustanziale’ senza cercare, con un eccesso di puntigliosità, di trarre indebite conseguenze da questa espressione.

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Disputa, 1211D–1212B

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Cristo, Figlio di Dio, generato dal Padre, Unigenito, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce»a e quanto segue. Rustico: Quando il discorso è sui Padri non bisogna parlare così audacemente: altrimenti anche io forse avrei potuto dire che, quindi, secondo te, il santo e universale concilio di Costantinopoli ha corrotto il simbolo dei Padri. Ma bisogna che noi, rispettando i santi Padri, tralasciamo questa parte e diciamo solo che, anche se l’esposizione è diversa nelle parole, non lo è tuttavia nei significati. Dunque, quando diciamo «generato dalla sostanza del Padre» si intende così: o come abbiamo detto prima, cioè che è della medesima sostanza, o si deve distinguere così ‘dalla sostanza del Padre’, ‘Dio da Dio’ e ‘luce da luce’ b. E del resto lo dico perché nell’unico e medesimo concilio di Efeso, quando Carisioc fece la propria professione di fede, che pure fu approvata da quel concilio, ACO 1, 1, 1, p. 12, 33–34; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 60, 31–34. Il passo è piuttosto oscuro e non è escluso che vi siano problemi testuali; il problema fondamentale sembra in realtà quello di capire che cosa Rustico voglia dire esattamente quando scrive: «o si deve distinguere così ‘dalla sostanza del Padre’, ‘Dio da Dio’ e ‘luce da luce’». Probabilmente queste parole si devono intendere nel senso che, se per assurdo si negasse che l’espressione ‘dalla sostanza del Padre’ sia da intendere come ‘della stessa sostanza del Padre’, questo significherebbe che questa espressione, come anche le formule ‘Dio da Dio, luce da luce’, non dovrebbe essere considerata equivalente ad una professione della consustanzialità del Figlio con il Padre. In questo modo si minerebbe dunque la retta comprensione delle parole del simbolo. In effetti la formula ‘Dio da Dio’ è abbastanza generica, tanto che anche gli ariani potevano accettarla, intendendola nel senso che tutto deriva da Dio; Ario accettava anche di chiamare Cristo ‘Dio’, ma non ‘vero Dio’ (cf. Kelly, Early Christian Creeds, p. 236–237). c  Rustico non espone tutta la vicenda, che invece aveva acquistato una certa importanza nella questione dei Tre Capitoli. Facondo di Ermiane, in Defensio 3, 2, 22–24 e 3, 5, 4–7, spiega invece che Carisio, sacerdote ed economo di Filadelfia, al concilio di Efeso accusò due sacerdoti non solo di condividere l’eresia di Nestorio, ma anche di usare per il battesimo un simbolo diverso da quello niceno (cf. ACO 1, 1, 7, p. 95–106). Circolava l’opinione, suggerita, se pure non sostenuta con certezza, da Cirillo, che il simbolo stigmatizzato a Efeso da Carisio fosse da attribuire a Teodoro di Mopsuestia. Il patriarca alessandrino infatti fa cenno a questo scritto come ad un’opera del vescovo di Mopsuestia in una lettera al patriarca Proclo (Ep. 72, Patrologia Graeca, 77, 345A) e nel dialogo Quod unus sit Christus 728c–729b (si veda a questo proposito l’introduzione di G. M. Durand in Cyrille d’Alexandrie, Deux dialogues cristologiques (SC, 97), Paris, 1964, p. 60–63). Infine, al concilio di Costantinopoli del 553, il simbolo fu attribuito a Teodoro e condannato (cf. ACO 4, 1, 70, 16–72, 22). Sulla questione cf. S. Gerber, Theodor von Mopsuestia und das a 

b 

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Contro gli Acefali

non citò così questo passo del simbolo, ma piuttosto: «E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, unigenito, Dio da Dio ecc.»a. Ritengo poi che la causa della discrepanza sia il fatto che molti lo ricordano a memoria e, poiché dimenticano delle parole, cambiano il discorso da un modo all’altrob. Eretico: Vorrei sentire qualcosa di più sicuro in proposito; tutto questo infatti è dubbio. Rustico: Ti basterebbe, per la ricostruzione della mia esposizione, il buon senso del tuo raziocinio, ma ancor più che venisse meno il sospetto o la follia: se infatti bisogna che noi attribuiamo alla sostanza comune della Trinità tutto ciò che è di ciascuna persona, e soprattutto del Figlio, di conseguenza anche la passione del Figlio sarà la passione della natura divina. Se poi questo riguarda solo le caratteristiche della divinità, di conseguenza allora non c’è una sola natura, come non c’è una sola persona di Dio e dell’uomo. Se, infatti, la natura divina non diventa una sola persona con il Verbo anche quando si attribuiscano, come ti ostini a fare, tutte le caratteristiche della persona di Dio il Verbo alla natura divina, come potrebbe allora l’umanità del medesimo Verbo, le cui proprietà non sono attribuite alla natura divina, essere una sola natura con lei? E anche se concediamo che si debba attribuire tutto ciò che è della persona alla sostanza comune delle persone, questo non sarebbe dovuto al fatto che queste proprietà sono della sua sostanza primariamente e secondo loro stesse, altrimenti, secondo se stessa, avrebbe generato e non avrebbe generato; sarebbe stata generata e non sarebbe stata generata; procederebbe e non procederebbe; e si nicänum, Studien zu dem katechetischen Homilien, Leiden-Boston-Köln, 2000, p. 273–274. a  Cf. ACO 1, 1, 7, p. 97, 17; traduzione di Rustico in ACO 1, 3, p. 129, 25. b  Rustico evidentemente non intende impegnarsi in una discussione sul testo del simbolo e sembra ritenere che eventuali discrepanze non siano dovute a vere differenze dottrinali; in effetti anche lo stesso Carisio, che pure sosteneva di utilizzare il simbolo niceno, ne cita una versione che presenta alcune discrepanze rispetto al testo originale; queste differenze, significativamente, non furono rilevate dal concilio che approvò il simbolo di Carisio. Secondo Kelly, infatti, nel V secolo per il battesimo non si usava esclusivamente il simbolo niceno, ma si ricorreva piuttosto ai simboli tradizionali delle singole Chiese locali integrati con gli elementi più significativi del credo di Nicea (Kelly, Early Christian Creeds, p. 324–325).

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Disputa, 1212B–1213B

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sarebbe incarnata e non si sarebbe incarnata. Il Padre infatti ha generato e non è stato generato, il Figlio invece è stato generato e non ha generato, lo Spirito Santo, poi, niente di tutto questo, ma procede soltanto e non viceversa. Non c’è infatti ragione che, se ciò che è presente in ciascuna persona è presente anche nella sua natura, non manchi alla natura stessa ciò che manca a ciascuna persona. E così si dirà che sono vere le affermazioni e le negazioni riguardo alla medesima cosa, su una sola e medesima e semplice sostanza, cosa che è fin troppo assurda, così che in questo modo si dimostra, piuttosto, che le proprietà di ciascuna persona sono sue secondo sé e per sé, perché non sono opposte, quando si dicono del medesimo; invece per ciò che si dice che è della natura comune non è così. Poiché dunque anche l’inumanazione è proprietà della persona (ma dico del Figlio), la natura stessa dunque si è incarnata non per se stessa e primariamente; e restano ferme per noi tutte le dimostrazioni elaborate in precedenza. Dico poi anche che, quando dirò semplicemente ‘Dio’, intendo tutta la Trinità; quando a ‘Dio’ invece sarà aggiunto ‘Padre’, non intenderò più la Trinità, ma una sola persona. Così, dunque, quando dico ‘sostanza’ voglio significare quello che è comune alla Trinità, quando invece dirò, con un’aggiunta, ‘sostanza del Padre’, la sola persona della sua sostanzaa. Eretico: E perché allora il santo concilio ha detto che Dio è plasmato insieme alla carne e che i Giudei sono deicidi, in quanto non è stato ucciso un uomo ma Diob? Come si può dire che Dio sia Come osserva Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, p. 121, qui il problema del significato di substantia si lega all’interpretazione del simbolo niceno; la risposta di Rustico è quella di sostenere che il termine substantia può indicare sia la persona che la natura a seconda del contesto. Mentre l’eretico attribuisce però questa doppia valenza all’equivalenza di natura e persona che è alla base della sua formula cristologica, Rustico sente la necessità di contrastare quella che considera una imprecisione e spiega che per interpretare correttamente il termine ci si deve attenere ad un criterio preciso: se si dice genericamente ‘Dio’, infatti, si parla di tutta la Trinità e quindi della natura divina, se invece si dice ‘Dio Padre’, si indica una delle persone della Trinità; così se si parla di ‘sostanza’ si intende la natura comune, se si specifica ‘sostanza del Padre’, ci si riferisce invece alla sostanza individuale. b  Il riferimento è ancora all’epistola 101 di Gregorio di Nazianzo più volte citata (cf. 1208A); poiché questo testo era stato letto al concilio di Efeso del 431 ed inserito negli atti conciliari, l’avversario di Rustico può attribuire tout court all’assemblea dei vescovi delle espressioni che essa ha evidentemente approvato e fatto proprie. a 

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stato plasmato e sia stato ucciso, se non perché è una sola natura? Se infatti le nature fossero due, rimanendo salvo il numero rimarrebbero salve in ogni modo anche le differenze e le proprietà. Ma, poiché esse restano, bisognerebbe dire che l’uomo è stato ucciso e Dio non è stato distrutto insieme e che è stato plasmato l’uomo e Dio non è stato plasmato insieme, ma ha plasmato e ha ricostruito il tempioa, cioè l’uomo. Rustico: Piuttosto, non capisci cosa è stato detto. Quello di cui diciamo ‘insieme’, infatti, indica sempre due o più di numero. Se dunque Dio è stato plasmato insieme alla carne, Dio e l’umanità sono due qualcosa. Testimone per me di questo è il santissimo Cirillo che, nella seconda lettera a Nestorio, dice così: «Professeremo Cristo, uno solo e Signore, non come adorando un uomo insieme al Verbo, perché non sia insinuata una fantasia di divisione per il fatto che si dice ‘insieme’, ma adorandolo come uno solo e il medesimo, poiché al Verbo non è estraneo il suo corpo, con il quale siede anche insieme al Padre stesso»b. Nella terza poi: «Se qualcuno osa dire che bisogna adorare l’uomo assunto insieme a Dio il Verbo e glorificarlo insieme e chiamarlo insieme Dio come uno insieme a un altro (infatti ‘insieme’ costringe sempre a intendere proprio questo, ogni volta che si aggiunge) e non onora piuttosto l’Emanuele con una sola adorazione e non attribuisce a lui una sola glorificazione secondo il fatto che il Verbo si è fatto carne, sia anatema»c. Eretico: Sono costretto a ripetere le stesse cose: come può Dio essere stato plasmato insieme? Come ucciso? In che modo invece può non cadere in contraddizione con se stesso Cirillo di santa memoria, che privatamente respinge con calore il termine ‘insieme’ e questo stesso ‘insieme’ lo approva viceversa nel concilio? Questo è ciò che prima di tutto mi colpisce e fortemente mi turba. Rustico: Penso che ammettiamo entrambi che il Figlio di Dio, Dio il Verbo, essendo consustanziale e non differente secondo naCf. Ioh. 2, 19. Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 28, 3–6; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 22, 9–12. c  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. tertia, anat. 8, in ACO 1, 1, 1, p. 41, 13–16; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 34, 18–22. a 

b 

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Disputa, 1213B–1214C

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tura dal proprio Padre, è impassibile esattamente come lui; non per questo tuttavia gli è estraneo ciò che accadde alla sua propria carne (dico questo, però, a causa dell’unione). Poiché la carne dunque è stata plasmata (non la divinità del Verbo, che esiste eternamente), ma il Verbo di Dio era inseparabilmente unito alla carne, facendo proprio ciò che è della propria carne, si dice secondo l’economia che è plasmato insieme alla carne, come facendo propria, senza passione, la plasmazione della propria carne. Come infatti, poiché è stata generata dalla Vergine la sua santissima carne, si dice che egli è stato generato, lui che a tutte le cose fornisce la generazione perché siano, così, poiché è stata plasmata la sua carne, si dice che egli è stato plasmato insieme; in questo modo per il fatto che è ‘insieme’ si salva il computo delle nature e per il fatto che è stato plasmato (cosa che, anche se in primo luogo è propria dell’umanità, si dice tuttavia anche di Dio il Verbo) si custodisce in tutto l’inseparabile unità dell’unione. Se dunque ci avesse voluto mostrare la sola unione, certo avrebbe detto, senza colpa, che ‘l’Unigenito è stato plasmato secondo la carne’ o ‘nella carne’, cioè secondo la nostra natura; se invece avesse voluto mostrare la sola differenza, avrebbe detto, senza macchia, che la Sapienza si è edificata una casa (Prou. 9, 1), cioè il Verbo ha edificato la sua carne; ora invece, mostrando bene e brevemente entrambe le cose ha introdotto non che è stato plasmato primariamente e senza mediazione, ma, giustamente, che è stato plasmato insieme. Eretico: Ecco, su questo hai trovato cosa dire, non so in che modo; ma che cosa dirai dei deicidi, cioè dei Giudei? Rustico: Ti dirò di nuovo la stessa cosa: una volta che, infatti, Dio riferisce le caratteristiche proprie della carne a se stesso per la nostra salvezza, come non illogicamente si dice che colui che plasmò la propria carne come Dio è plasmato insieme alla carne, così quelli che uccisero la sua carne sono chiamati deicidi non illogicamente, come penso, non perché abbiano ucciso Dio, che è puro e senza carne, ma perché l’uomo che uccisero era Dio; non era infatti un puro uomo, ma egli stesso il medesimo perfetto tanto nella divinità che nell’umanità. Se poi, per te, questo non è da approvare, ascolta anche un’altra spiegazione. Presso un giudice giusto la colpa è attribuita non sulla base della sofferenza di chi

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la subisce, ma dell’intenzione di chi la commette; poiché dunque Dio è impassibile per la sua natura, per quanto riguarda i Giudei che, secondo il Vangelo, dicono Questi è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità (Matth. 21, 38; Marc. 12, 7; Luc. 20, 14) essi vollero uccidere il Figlio di Dio così che non risorgesse più e non ci fosse affatto la sua divinità, anche se nessuno lo avrebbe potuto uccidere. Ed essi, che tuttavia con la loro intenzione decisero di fare proprio questo, che è impossibile, giustamente sono chiamati deicidi, non in base all’esito dell’evento (in che modo infatti potrebbe accadere questo, dal momento che ciò che si cerca di fare è impossibile?), ma in base alla colpa stessa dell’attacco e del tentativo. Ma forse non è assurdo dire che per se stesso uccide Dio chi non pensa che Dio esista o che dispone la propria vita come se non esistesse; infatti non fa fruttare dalla sua bontà nessuna utilità nella vita futura, come se non ci fosse, per quanto lo riguarda, secondo ciò che è stato detto: Disse lo sciocco nel suo cuore: Non c’è Dio (Ps. 13, 1). Così infatti disse l’Apostolo a proposito di quelli che dopo il battesimo erano tornati a seguire le usanze giudaiche come prima, cioè che crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio (Hebr. 6, 6) non in quanto Figlio di Dio, ma per se stessi. E diciamo anche che Sabellioa e Paolo di Samosatab uccidono, cioè negano, le sussistenze della Su Sabellio non si hanno molte notizie: l’unico dato certo pare la sua condanna nel 220 ad opera di papa Callisto; probabilmente egli era giunto pochi anni prima a Roma, dove si era messo a capo di un gruppo di tendenze monarchiane già esistente. Il suo pensiero, partendo dalla volontà di difendere un assoluto monoteismo, arrivava alla negazione della Trinità, eliminando la distinzione delle persone divine; anche l’incarnazione, dunque, riguarderebbe il Padre, per cui questa dottrina fu detta anche ‘patripassiana’ (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 1, p. 366–367 e Simonetti, La crisi ariana nel IV sec., p. 7–8). b  Paolo di Samosata fu un discusso vescovo di Antiochia, più volte accusato sia di errori dottrinali che di condotta non consona alla sua carica; fu infine condannato per eresia nel 268. Dal punto di vista teologico, egli sottolineò fortemente l’unità di Dio, identificato con il Padre, mentre tendeva a mettere in secondo piano la divinità di Cristo, presentandolo come un uomo che sarebbe diventato Figlio di Dio per ‘adozione’; queste accuse tradizionali sono riproposte anche da Rustico in 1216B. L’adozionismo di Paolo (il tratto più conosciuto della sua dottrina), dunque, sarebbe una conseguenza delle sue tendenze monarchiane, della tendenza, cioè, a portare il monoteismo fino al punto di negare l’articolazione di Dio nelle singole persone e quindi la Trinità stessa. Le notizie sul suo pensiero sono però incerte, come accade per molti autori dell’epoca considerati eretici, perché i suoi scritti sono a 

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Disputa, 1214C–1215C

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santa Trinità e Ario la consustanzialità e Nestorio l’unione e voi la differenza: lo si potrebbe forse dire anche in un certo modo analogo, non perché soppressero o uccisero, ma perché rifiutarono Dio. Eretico: Se si intende così, perché questa espressione è stata adottata contro Nestorio, dal momento che certamente Nestorio non respinge quello che hai detto poco fa? Rustico: Ho già detto prima, all’inizio del discorso precedente, che cosa è che egli del tutto non accoglie, cioè che si dica tramite l’unione di Dio il Verbo ciò che è proprio della carne; secondo, poi, quanto detto dopo, il discorso sembra in qualche modo non inutile per la confutazione delle dottrine di Nestorio; mostra infatti la maledizione di coloro che non credono che si debba adorare colui che è stato crocifisso: infatti non è un semplice uomo, ma insieme Dio e uomo, e non deve essere adorato come l’uno insieme all’altro, ma come uno solo, perché deve essere adorato come è, cioè come uno. Ma forse, anche, come quelli che dicono che Dio è passibile sono chiamati teopaschiti, non perché abbia sofferto l’impassibile sostanza della divinità, ma a causa della bestemmia di coloro che così pensano, così gli apollinaristi non dovrebbero essere chiamati deicidi, loro che ritengono che Dio stesso si sia cambiato in carne e così sia mortoa? E se le cose stanno così, ciò perduti e le testimonianze su di lui derivano soprattutto da avversari (cf.  Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 1, p. 413–414). Nestorio, poiché sembrava negare la divinità di Cristo negando a Maria il titolo di ‘madre di Dio’, fu accusato apertamente di riproporre gli errori di Paolo di Samosata (cf. Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, p. 90–93), per cui l’accostamento fra questi due personaggi, anche se storicamente inappropriato, divenne tradizionale nella letteratura polemica; anche Rustico considera la dottrina di Nestorio in qualche misura assimilabile all’eresia di Paolo di Samosata (cf. 1216C). a  Apollinare di Laodicea, vissuto nel IV secolo, fu un vescovo di fede nicena e per questo inizialmente in buoni rapporti con Atanasio di Alessandria e con altri illustri esponenti del fronte antiariano; la sua dottrina cristologica destò però sospetti e fu più volte condannata, in particolare al concilio di Costantinopoli del 381. Apollinare rifiutava infatti di parlare dell’assunzione dell’umanità da parte del Verbo, in quanto questo avrebbe significato introdurre un’umanità di Cristo preesistente all’unione e quindi in qualche modo autonoma; egli sosteneva che si poteva dire correttamente solo che il Verbo si è fatto carne (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 1, p. 611) e per questo gli si attribuiva frequentemente un’interpretazione scorretta di Ioh. 1, 14, secondo la quale il Verbo si sarebbe trasformato in carne; così scrive ad esempio Agostino: «sostenendo che il Verbo

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che è stato detto significa: ‘Se qualcuno non adora colui che è stato crocifisso, sia anatema e sia annoverato fra quei bestemmiatori che dicono che Dio è stato ucciso nella sua natura’. Si deve evidenziare anche che dove ha detto «essere congiunto» e «essere complasmato» non dice né Dio né Verbo né Cristo né Signore: ma penso che sia per far capire a chi legge che è stato plasmato come uno secondo la persona, ma secondo la natura è stato plasmato insieme, come se avesse un’altra natura insieme con la quale fu plasmato. Eretico: Condotto da questa ricapitolazione del discorso ad un’altra interpretazione, io intendo nel modo seguente l’essere plasmato insieme: quello che prima non esiste se non soltanto secondo la materia si dice che è plasmato, come Adamo fu plasmato dal fango; ma ciò che è già da prima ed è in modo perfetto, quando non diviene ma è unito, si dice che è plasmato insieme, come in una casa quello che è già da prima e quello che si fa sul momento, o come in un codice, quando vengono cuciti insieme i quaternioni che già prima c’erano (se si può dire ‘essere cucito insieme’a), fatto salvo tuttavia il puro significato di questo concetto, che, come accade abitualmente, non trova corrispondenza perfetta in un esempio, come anche prima abbiamo stabilito fra noi.

si è fatto carne nel senso che qualcosa del Verbo si fosse cambiato e trasformato in carne» (De haeresibus 55). Per questa ragione, secondo Rustico, si può trarre la conseguenza che se il Verbo è diventato carne è anche diventato mortale, per cui la crocifissione non ha causato la morte di Cristo in quanto uomo, ma la morte di Dio stesso. a  Rustico sembra considerare il verbo inusitato, ma è in realtà ben attestato in latino (cf. ThLL IV, 619, 28–620, 6). Forse non era però usato abitualmente per i codici; a questo proposito cf. Isidoro di Siviglia, De differentiis verborum 102: «il verbo consuere si usa per le vesti, suere per i codici». Si deve notare, comunque, che il verbo consuo non vuol dire in realtà ‘cucire insieme’ con l’enfasi che Rustico pone sul preverbio ‘con’: il preverbio ha infatti valore perfettivo e, del resto, nel latino tardo il composto aveva ormai soppiantato la forma semplice, assumendo sostanzialmente lo stesso significato (cf. Leumann, Hofmann, Szantyr, Lateinische Grammatik II, 167, München, 19772, p. 301). La forzatura ammessa da Rustico potrebbe quindi essere relativa alla restituzione di un significato forte al preverbio ‘con’, che aveva in realtà un valore molto diverso.

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Disputa, 1215C–1216B

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Rustico: Mi giova anche codesto: dove infatti c’è ‘insieme’, lì non c’è un solo qualcosa, ma di più; ed è così anche nel nostro caso. Eretico: Da che cosa risulta che le cose stiano così? Me lo puoi dimostrare a sufficienza a partire dalle parole stesse? O da cosa me lo fai derivare? Rustico: Anche se bisognerebbe che quanto è stato detto risultasse per te soddisfacente, tuttavia fa’ attenzione almeno a quello che è aggiunto, alla fine, al passo prima citato: «Ciò che infatti è cominciato o progredisce o giunge a compimento non è Dio, anche se si dice così a causa dell’aumento che avviene a poco a poco»a. E dunque? Dimmi: non è forse chiara la differenza delle nature? Infatti ciò che è cominciato ed è progredito ed è giunto alla perfezione è la carne, invece è Dio ciò che è sempre e che secondo la natura non ammette aumento, per il fatto di essere al di sopra di tutto e perfettissimo. Dunque quelli che condividono la follia di Ario dicono del Signore crocifisso che la sua divinità non è perfettissima secondo la natura e la sostanza, ma che ha ricevuto l’onore dal Padre per dono o ricompensa, per il fatto che è variabile e mutevole; per questo il santissimo Gregorio disse contro di loro: «Se uno dice che egli è stato reso perfetto per le opere…»b. Riguardo a questo, poi, i seguaci di Paolo di Samosata dicevano che dopo la nascita dalla Vergine e anche dopo il battesimo e ancora dopo la resurrezione dai morti progredì fino all’adozione; gli apollinaristi immaginavano la divinità del Figlio spezzata e mutevole, quelli invece un semplice uomo onorato da Dio e divinizzato a causa del merito delle opere, così da essere chiamato anche ‘Dio’ per questo, non perché era prima di Maria e si è incarnato. Gregorio con una sola frase distrusse l’errore di entrambi, aggiungendo questo: «Ciò che infatti comincia o progredisce o giunge a compimento non è Dio, anche se si dice così a causa dell’aumento che avviene a poco a poco»c, cioè: ciò che ha un principio nel momento in cui a  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 44, 7–8; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 73, 7–8. b  Cf. 1208A–B. c  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 44, 7–8; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 73, 7–8.

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è e ciò che non è perfetto per natura, ma lo diventa a causa delle opere, non è proprio del tutto Dio, anche se assume questa qualità non appena viene creato da Dio artefice, o se progredisce a poco a poco come alcuni degli uomini. Eretico: Quindi, a quanto dici, queste parole non sono state dette contro Nestorio, ma contro Apollinare e Ario e Paolo di Samosata. Rustico: Ma, poiché la dottrina di Nestorio ha una qualche parentela con la dottrina di Paolo di Samosata, le medesime considerazioni vanno bene contro entrambi. Si trova infatti nel codice sinodico, fra le altre bestemmie di Nestorio, anche questo passo: «Ma come chiamavamo Dio il creatore di tutte le cose, e chiamavamo dio anche Mosè (disse infatti: Ti ho posto come dio del Faraone) (Ex. 7, 1) e Israele figlio di Dio (disse infatti: Mio figlio primogenito è Israele) (Ex. 4, 22), e come chiamavamo ‘cristo’ Saul (infatti: Non muoverò la mia mano contro di lui, poiché è il consacrato del Signore) (I Reg. 24, 7) e ugualmente Ciro (disse: Il Signore dice queste cose al mio consacrato, Ciro) (Is. 45, 1) e ‘santo’ il babilonese (disse infatti: Io darò loro ordini, sono stati santificati e io li condurrò) (Is. 13, 3), così diciamo anche che il Signore Cristo è sia Dio che Figlio e santo e Cristo; ma certo la comunanza dei nomi è simile, la dignità invece non è la medesima»a. Ecco, qui apertamente l’empio dice che, come Mosè dio, come Israele figlio, come Saul e Ciro cristo e il babilonese santo, così anche lo stesso Signore non è Dio secondo natura, ma solo di nome, non santo e unigenito secondo la sostanza, ma come i Babilonesi e Israele: la sua differenza dagli altri poi non vuole che sia secondo la sostanza, ma riguardo alla dignità, come ignorando che è Dio per natura. Eretico: Se non è stata fatta una sola natura, come si può dire che Dio è plasmato insieme, come se non ci fosse differenza? Se poi, come dici tu, è per il fatto che si dicono di Dio le cose che capitarono secondo la carne, dimmi: si dicono secondo verità o con una menzogna? Rustico: Che sia salva la differenza delle nature lo abbiamo già sentito, quando Cirillo di santa memoria dice a Nestorio: «Poiché Nestorio di Costantinopoli, Serm. 15 (frg. 9, 47 Loofs), in ACO, 1, 1, 2, p. 47, 8–15; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 76, 27–77. a 

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Disputa, 1216B–1217C

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sono sì diverse le nature che concorsero alla vera unione, ma uno solo è da entrambe Cristo e Figlio, non come se la differenza delle nature fosse stata annullata a causa dell’unione, ma piuttosto perché divinità e umanità attuarono per noi un solo Signore e Cristo e Figlio»a. Ecco, chiaramente fino a qui non è stata distrutta la differenza delle nature a causa dell’unione, tanto che Cirillo non dice al singolare ‘ma piuttosto perché divinità e umanità attuò per noi un solo Signore e Cristo e Figlio’, ma dice al plurale «perché attuarono». Se dunque non si conservasse la differenza o il numero di divinità e umanitàb, non ci sarebbe stato il bisogno di dire ‘perché questa e quella attuarono’; ma esse non sono prive dell’unione e la loro differenza è salva. Quando dunque guardiamo alla loro differenza, allora ciò che è proprio della divinità non lo attribuiremo alla carne; non diciamo infatti che è coeterna a Dio, né che è discesa dal cielo, né, al contrario, riferiamo a Dio ciò che è proprio della carne. Quando invece guardiamo alla loro unione, diciamo che il figlio dell’uomo è disceso dal cielo e che il sempiterno ed unigenito Dio è stato visto sulla terra ed ha abitato con gli uomini (Bar. 3, 38) secondo le Scritture. E nessuno ascende al cielo se non il figlio dell’uomo che è disceso dal cielo (Ioh. 3, 13). Infatti Dio il Verbo che è disceso dal cielo è figlio dell’uomo a causa dell’unione con ciò che è nostroc. Altrimenti come si potrebbe dire: ‘ed è uno solo Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 27, 1–5; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 21, 10–14. b  Differenza e numero nell’ottica di Rustico sono strettamente collegati: si può parlare infatti di due nature proprio perché esse sono diverse e distinte, e viceversa. Questo principio era stato più volte enunciato a partire dalla controversia ariana; in ambito trinitario, infatti, la mancanza di differenze fra le persone della Trinità che fa sì che si debba parlare di un solo Dio e non di tre dèi (si veda, ad esempio, Gregorio di Nazianzo, Or. 31, 13–14); lo stesso Rustico si esprimerà in questi termini più avanti, in 1237B–C. Il legame fra differenza e numero è chiaramente espresso anche nel De Trinitate boeziano, sempre in riferimento alla controversia ariana: «Dove poi non c’è nessuna differenza, non c’è assolutamente alcuna pluralità e perciò non c’è neppure numero; dunque c’è solo unità. Infatti quando si ripete tre volte ‘Dio’, quando si nomina Padre, Figlio e Spirito Santo, le tre unità non fanno una pluralità di numero, nelle loro proprie essenze, se guardiamo a ciò che si conta e non al numero in sé» (De Trinitate 3; cf. Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, p. 100–101). c  L’esegesi di Ioh. 3, 13 ha avuto una certa importanza nella riflessione sull’incarnazione (cf. Micaelli, ‘Teologia e filosofia nel Contra Eutychen et Nestorium a 

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il Figlio’, se non così? Ancora, colui che ascende dalla terra al cielo e ha cambiato posto (almeno secondo il corpo), l’unigenito del Padre, è la Parola stessa che si è incarnata, eterna; infatti non è un semplice uomo che è stato assunto. Dunque l’unione non distrugge la differenza e la differenza non disperde l’unione. Se dunque Dio fosse stato plasmato secondo la sua sostanza, certo non avrebbe potuto essere plasmato insieme con la carne, ma avrebbe potuto essere plasmato soltanto; poiché però si dice questo di Dio non per la sua natura eterna, ma a causa dell’unione, si dice che è plasmato insieme, e lo diciamo secondo realtà: infatti l’unione è reale. Eretico: Non significa questo, ma significa che è stato plasmato insieme come l’anima con il corpo, perché non sia lasciata nessuna differenza provocata dal numero o dalla divisione della dualità. Rustico: Anche se ho premesso che il discorso non era su Dio in senso proprio, ma in modo generico (fin dall’inizio infatti Gregorio ha parlato di colui che è stato crocifisso e ha aggiunto più sottoa ‘è plasmato insieme’), tuttavia, perché tu non dicessi “Che cosa e con chi è stato plasmato insieme?”, io ho aggiunto questa precisazione, cioè il Verbo alla carne. Se poi secondo te divinità e umanità sono state plasmate in una sola natura, dunque ‘è plasmata insieme’ non è un’espressione corretta; infatti ciò che è ‘insieme’ o indica due plasmazioni o due cose che sono state plasmate insieme. di Boezio’, p. 186), tanto che anche Boezio, che pure nei suoi trattati teologici non dedica molto spazio all’esegesi della Scrittura, attribuisce l’errore di Eutiche, che era stato condannato proprio per aver negato la consustanzialità di Cristo con gli uomini, ad una sua scorretta interpretazione di questo passo: «Sembra che sia stato di questo parere, se pure commise l’errore di credere che il corpo di Cristo non sia stato preso veramente dall’uomo, ma altrove, e formato in cielo, sulla base del fatto che si crede che con lui sia salito in cielo; e questo è il significato della frase: non sale in cielo se non colui che è sceso dal cielo» (Contra Eutychen 5). Già Gregorio di Nazianzo, comunque, richiamava ad una corretta interpretazione di questo passo, da condursi alla luce della communicatio idiomatum, per evitare che portasse a negare la realtà della carne di Cristo (Ep. 101, 30). Anche Rustico qui, come Gregorio, si richiama al principio della communicatio idiomatum, spiegando che proprio a causa dell’unione di divinità e divinità il Vangelo dice che il figlio dell’uomo è disceso dal cielo, anche se propriamente a discendere dal cielo è stato il Verbo; l’argomento comunque non viene particolarmente sviluppato, probabilmente perché, come si è visto in 1171A, Rustico ritiene che il suo avversario, contrariamente a Eutiche, riconosca la piena realtà dell’umanità di Cristo. a  Cf. 1208A–B.

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Disputa, 1217C–1218C

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Eretico: Ma io ti dirò di nuovo: quindi, ammettendo prima questa parola (cioè ‘insieme’) e poi accusandola, Cirillo è in contraddizione con se stesso. Rustico: Quel maestro non è in contraddizione con se stesso, ma ‘con-’ e ‘con’ e ‘insieme’, quando si usano soltanto per le nature, significano devotamente la differenza delle due nature e, per lo stesso motivo, è empio quando si usano per Cristo come per le persone o le sussistenze: subito infatti significa due persone e figli e signori e cristi. Che poi abbia proibito di dire in questo senso ‘con-’ è stato dimostrato chiaramente in precedenza. Sul fatto che poi dice di nuovo che il Verbo siede presso il Padre con la carne, ascolta, dalla seconda lettera del medesimo santissimo Cirillo a Nestorio nella quale in una sola formula riunisce entrambi gli aspetti: «Così professiamo Cristo uno solo e Signore, non come coadorando un uomo con il Verbo, perché non sia insinuata una fantasia di divisione per il fatto che si dice ‘co-’, ma adorandolo come uno solo e il medesimo, poiché non è estraneo al Verbo il suo corpo, con il quale siede anche insieme al Padre stesso; non è però come se sedessero due figli, ma come uno solo con la propria carne a causa dell’unione»a. Ecco, anche parlando del corpo dice «con il quale siede insieme al Padre». Comprendi cosa significa «con il quale» e ancora «con la propria carne»! Inoltre, ciò che ha detto prima (‘con’) e ciò che ha detto dopo (‘insieme’ e ‘co-’) sono espressioni equivalenti. Ma ogni volta che, come ho detto, il discorso verte sulle nature si dice ‘divinità con l’umanità’ e viceversa; quando poi verte sul Figlio non è lecito dire ‘il figlio dell’uomo è adorato con il Figlio di Dio’, infatti non è coadorato nella santa Trinità, se non soltanto con la persona; la divinità, piuttosto, come ha operato i miracoli tramite la carne, così è adorata tramite la carne; e tutti a  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 28, 3–7; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 22, 9–13. In greco Cirillo usa il preverbio syn, nei verbi qui tradotti con ‘coadorando’ (symproskynountes) o ‘siede insieme’ (synedreuei), e la preposizione meta, nell’espressione qui tradotta con ‘con il quale’. Rustico non può conservare in latino la distinzione fra syn e meta, ma commentando il passo osserva che lo stesso concetto può essere espresso in latino con i preverbi con- o co- o con la preposizione cum, ma tutte queste espressioni sono da considerare equivalenti e teologicamente corrette.

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adoriamo la croce e tramite essa colui del quale è la croce, tuttavia non si dice che adoriamo la croce con Cristo e non per questo, poi, è una sola la natura di Cristo e della croce. Analogamente, quando adoriamo l’altare, non si dice che adoriamo la Trinità con l’altare, ma piuttosto tramite l’altare. Né tuttavia, poi, come adoriamo il Padre attraverso il Figlio, così il Verbo tramite la carne, lungi da noi: infatti non ci sono due persone di Cristo; lo adoriamo ‘con la carne’, piuttosto, cioè, come si è detto, tramite la carne con la quale siede insieme al Padre ed è coadorato. Eretico: Il santissimo Cirillo ha dunque detto che si adora un solo Cristo e che siede con il Padre con la propria carne; ma da dove risulta che in greco syn e metá siano la stessa cosa che ‘con’ e ‘co-’a? Rustico: Che il santissimo Cirillo abbia approvato anche lo stesso syn, cioè ‘con’, risulta chiaro anche per un altro motivo: infatti non solo nel concilio ecumenico, ma anche altrove, dovunque, ha approvato in tutto l’epistola del santissimo Atanasio ad Epitteto, scritta contro vari avversarib, nella quale fra l’altro si trovano anche queste parole: «Ha detto: Ho offerto la mia schiena alle percosse e non ho distolto il mio volto dalla vergogna degli sputi (Is. 50, 6); infatti, quello che ha sofferto quanto è umano del Verbo il Verbo stesso che era con lui lo riferiva a se stesso, così che noi possiamo essere resi partecipi della divinità del Verbo»c. Ecco, hai sentito che il Verbo era compresente a ciò che egli aveva di umano e riferiva a se stesso quelle che sono passioni dell’umanità; ma dove ci sono ‘essere presenti insieme’ e ‘riferire’ lì c’è indiscutibilmente una quantità secondo natura. L’obiezione dell’avversario di Rustico non è del tutto chiara: la possibilità di tradurre con cum le preposizioni syn e meta è infatti difficile da contestare; dalla risposta di Rustico sembra piuttosto di capire che i dubbi riguardino l’equivalenza di syn e meta in greco; il passo di Cirillo prima citato, con syn e meta usati a poca distanza, per Rustico era già sufficiente per sostenere la correttezza di entrambe le espressioni; egli qui comunque precisa che se anche Cirillo ha usato meta («con il quale») ha approvato nondimeno l’uso di syn, usato in un contesto del tutto analogo da Atanasio di Alessandria (synōn autō, «che era con lui»). b  Cf. 1177A e nota. c  Atanasio di Alessandria, Ep. ad Epictetum, cf. ACO 1, 5, p. 327, 12–14; il testo greco si legge in Patrologia Graeca 26, 1060C. a 

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Disputa, 1218C–1219B

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Eretico: E dove il santissimo Cirillo ha approvato questa lettera di papa Atanasioa? Rustico: Non soltanto nel concilio citò testimonianze da essa, ma lo fece anche nella lettera che scrisse al beato Giovanni, nella quale dice anche questo: «Che poi seguiamo dovunque le dottrine dei santi Padri e soprattutto del nostro padre Atanasio, beato e degno di ogni lode, evitando del tutto riguardo a qualunque cosa di deviare da essi, la santità tua lo creda e non ne dubiti nessuno degli altri»b; e ancora: «Abbiamo poi appreso che alcuni hanno diffuso una versione corrotta della lettera al beato Epitteto del nostro padre Atanasio, degno di ogni lode, lettera che invece è di contenuto ortodosso, e moltissimi da questo sono stati danneggiati; per questo motivo, cercando di fare qualcosa di utile e necessario per i fratelli, abbiamo inviato alla tua santità copie realizzate a partire da quelle che abbiamo presso di noi e che sono esenti da errore; e noi dunque avendo copie di questa edizione, abbiamo tratto da questa le citazioni»c. Vedi dunque che ha definito di contenuto a  La domanda potrebbe sembrare sconcertante perché un passo di uno scritto di un personaggio illustre come Atanasio di Alessandria non dovrebbe aver bisogno dell’approvazione di Cirillo. È possibile che Rustico fosse a conoscenza delle discussioni fra Antiochia ed Alessandria anche a proposito del testo autentico della lettera e per questo volesse ribadire che Cirillo condivideva pienamente la dottrina di Atanasio, beninteso quella esposta nella versione autentica del testo. In ogni caso, non si deve dimenticare che i monofisiti erano spesso accusati dai calcedonesi di provare un’ammirazione eccessiva e troppo esclusiva per Cirillo di Alessandria e in questo senso Rustico potrebbe aver inserito questa domanda per evidenziare questa caratteristica dei monofisiti (in effetti, l’interlocutore di Rustico si riferisce ad Atanasio solo con il titolo di papa, abitualmente attribuito ai vescovi di Alessandria, mentre Cirillo viene qualificato come ‘santissimo’). Negli stessi anni Facondo di Ermiane aveva mosso delle critiche per questo ai fautori della condanna dei Tre Capitoli, cercando di dimostrare che nessuno, neppure Cirillo, è esente da errori (cf. Defensio 2, 4, 12–17 e 4, 1, 4–12). Rustico qui invece non biasima apertamente questo atteggiamento dei suoi avversari, pur sottolineandolo, ma anche in questo caso cerca di dare una risposta che possa fugare ogni dubbio nel suo interlocutore, citando un passo di Cirillo in cui questi loda proprio questo scritto atanasiano (cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 101–102). b  Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, in ACO 1, 1, 4, p. 19, 15–18; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 190, 27–29. c  Cirillo di Alessandria, Ep. ad Iohannem Antiochenum de pace, in ACO 1, 1, 4, p. 20, 9–13; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 191, 16–20. Le ultime parole («e noi dunque avendo copie di questa edizione, abbiamo tratto da questa le citazioni»),

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ortodosso l’epistola a Epitteto e che, cercando di fare qualcosa di utile e necessario per i fratelli, ha inviato copia di essa, lodando il suo autore, come è degno. Eretico: Anche se non è stata fatta una sola natura della divinità e dell’umanità, come ha potuto essere fatta una sola personaa, dal momento che certamente, ogni volta che una sola persona sussiste da due nature, è fatta parimenti anche una sola natura? Rustico: E’ troppo da insensati e ignoranti a proposito dell’Onnipotente chiedere come abbia potuto! A questo basta che si risponda ‘come ha voluto’, poiché è impossibile per Dio che non sia ciò che vuole. Eretico: E da dove trai la certezza che Dio abbia voluto essere una sola persona con la carne e che non abbia voluto farsi una sola natura con essa? Infatti è certo che l’Apostolo dice: Chi ha conosciuto il pensiero del Signore o chi fu suo consigliere? (Rom. 11, 34) Inoltre è coerente che sia fatta una sola natura ogni volta che è fatta una sola persona. E inoltre, anche se guardiamo all’onnipotenza divina, Dio avrebbe potuto, volendo, farsi una sola natura però, in realtà non fanno parte della Laetentur. Il loro inserimento nel testo cirilliano induce a pensare che la citazione di Rustico sia di seconda mano. a  Rustico interpreta il ‘come ha potuto’ dell’eretico come una limitazione all’onnipotenza divina e per questo ribadisce nella sua risposta che è sufficiente rispondere che tale è stata la sua volontà. L’eretico protesta però che fare appello all’imperscrutabile volontà divina e alla sua assoluta onnipotenza significa negare ogni possibilità di discussione teologica su basi razionali; in questo modo infatti – egli argomenta – si potrebbe sostenere sia la dottrina delle due nature che quella dell’unica natura, poiché niente è impossibile a Dio. A proposito di questo scambio di battute Micaelli ha osservato che l’eretico nell’opera di Rustico sembra rappresentare «la tentazione del razionalismo» (Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, p. 30–31; cf. anche Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 136–143); in effetti si trovano anche altrove delle espressioni che sembrano caratterizzarlo in questo modo (cf.  1198A e nota). Si tratta del resto di un tratto ricorrente della caratterizzazione dell’eresia nella letteratura polemica nella quale molto spesso la superbia, contrapposta alla fedeltà alle Scritture e alla tradizione della Chiesa che contraddistingue i veri credenti, è la principale caratteristica degli eretici, che confidano eccessivamente nella propria ragione; Rustico in realtà non sembra dare particolare risalto a questo tema, ma non mancano passi in cui rimprovera al suo avversario un’eccessiva sottigliezza (cf. 1226B e nota) o gli ricorda che la divinità resta sempre in una certa misura incomprensibile per la mente umana, per cui si deve credere per fede ciò che non si può comprendere con la ragione (cf. 1198A).

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Disputa, 1219B–1220B

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con la carne e, poiché per miracolo di Dio onnipotente si è fatta una sola persona, perché con un altro miracolo non potrebbe essere stata fatta una sola natura? O perché non realizzare con lo stesso miracolo entrambe le cose, o meglio la stessa cosa? Oppure dovremmo ritenere facile per Dio fare quello che sembra impossibile alla ragione umana, cioè una sola persona dalla divinità e dall’umanità, e difficile per Dio ciò che è conseguente anche per le ragioni umane, cioè che sia una sola la natura di colui di cui è una sola la persona? Rustico: Grande è la clemenza di Dio che, perché non erriamo, non si è degnato solo di inumanarsi, ma anche di mostrarci la causa principale della sua inumanazione, per cui prima si è dimostrato che ha assunto tutto ciò che è nostro tranne il peccato. Ha assunto dunque con la sostanza della nostra natura perfetta anche la quantità, per la quale l’Apostolo lo chiama ‘un solo uomo’, e lo fa spessoa. Dunque questa integra unità della nostra natura perfetta, concorrendo all’integra unità della divinità, compie, secondo ragione, la dualità delle nature. Inoltre Dio non fa oziosamente i miracoli, così solo per farli, ma commisurando accuratamente alla nostra salvezza la sua intenzione; non lo fa per generare stupore o per vanagloria, infatti, ma l’intenzione della sua benignità è la nostra utilità. Così era necessario che egli assumesse della nostra natura, come tutte le altre cose tranne il peccato, anche la quantità, o piuttosto l’unità, come prima abbiamo dimostrato. Infatti, se la natura che è stata assunta non è una sola, di conseguenza non è neppure una, e per questo nulla. Se invece è una, come è empio dire che a lui manca qualcosa della nostra sostanza, così lo è anche della quantità; dunque la quantità ha anche la proprietà di compiere, concorrendo alla quantità della sostanza divina, una dualità. Inoltre, anche per quanto riguarda il miracolo, la nostra confessione risulta superiore; una volta, infatti, che la Parola di Dio si è degnata di essere una sola persona con la carne, per il resto non sarebbe stato mirabile dire (poiché è anche consueto, come sostieni) che si fosse fatto una sola natura; ma non c’è niente di più mirabile e di gran lunga superiore alla comprensione e più a 

Cf. I Cor. 15, 21; I Tim. 2, 5.

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divino di ciò che è inconsueto e incomparabile: e che cosa c’è di più grande del fatto che sussiste una sola persona della quale non è una sola la natura? È chiaro dunque che risultiamo superiori a voi confrontando ragione, miracolo e causa. Eretico: Se è possibile esprimere a parole la quantità senza i nomi di quelle realtà di cui essa è quantità, come, ad esempio, se ciascuno degli uomini che è chiamato ‘un solo uomo’ – dunque ci è lecito dire che egli è una sola cosa anche una volta sottratto il nome di ‘uomo’? Se infatti lo possiamo dire correttamente anche a proposito della santa Trinità, sarà due qualcosa, Padre e Spirito Santo: infatti sono due persone; ma anche il Figlio sarà due qualcosa: infatti secondo voi sono due le nature; dunque Padre e Figlio e Spirito Santo sono quattro qualcosa. Così infatti anche tu poco prima ci hai obiettato che l’unità della natura divina con l’unità della natura umana compie la dualità delle nature; anche noi dunque secondo il vostro calcolo vi mettiamo alle strettea, perché due e due sono quattro, per cui invece della Trinità venerate una quaternità, dunque non siete ortodossib. Ma non avrete la forza di affermare che senza nome delle realtà non si proferisce il nome del loro numero, poiché professando che Cristo è uno della Trinità non potete negare che sia anche uno dei tre. Se poi vi si chiederà di quali tre sia uno, non troverete un solo nome comune da poter predicare al plurale dei tre, infatti non è uno dei tre Padri, non dei tre Figli, non dei tre Spiriti Santi o paracliti. Rustico: Con il consueto inganno hai usato nomi ambigui e al posto delle realtà hai parlato di un nudo numero. Ma quando dici a  L’uso del verbo concludo in questo senso non è usuale in latino, ma si trova (con un ordine delle parole molto simile) anche in Cassiano, Contra Nestorium 3, 15, 3: «ora ti mette alle strette con una breve risposta». b  Comincia così una lunga sezione (1220B–1238A) dedicata alle implicazioni trinitarie del dibattito cristologico (cf.  1205A e nota); in particolare l’avversario di Rustico sostiene che la dottrina delle due nature in Cristo avrebbe come conseguenza che l’umanità, essendo in qualche modo autonoma, andrebbe a sommarsi alle tre persone divine, così da formare una quaternità; naturalmente questo sarebbe possibile solo se queste entità fossero sommate come quattro ‘qualcosa’, perché non sono omogenee fra loro; proprio su questo punto insiste Rustico per confutare questa accusa del suo avversario: non si possono infatti sommare due nature (divinità e umanità di Cristo) a due persone (Padre e Spirito Santo).

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Disputa, 1220B–1221C

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«Padre e Spirito Santo sono due qualcosa», di’ quali due e, senza che io parli, sarai costretto a riconoscere il tuo errore da te stesso. Così, ancora, quando dirai del Figlio «due qualcosa», precisa quali siano e tu stesso dovrai riconoscere la falsità della tua connessione, mentre io tacerò. Le due cose che infatti hai detto prima, le hai poste per le due persone, le due successive invece per le nature, ma la Trinità è Trinità di persone, non di nature. E ancora, si dice dualità non di persone, ma di nature, riguardo al Signore Gesù Cristo. Se dunque, dicendo che sono due persone il Padre e lo Spirito Santo, analogamente dicessimo che due sono le persone del Figlio (cosa blasfema) o, al contrario, dicendo che due sono le nature del Figlio dicessimo analogamente (lungi da noi!) che due sono le nature del Padre e dello Spirito Santo, allora daremmo non senza verosimiglianza occasione alle vostre calunnie, come se due nature e poi altre due (o due persone ed altre due) si computassero come fossero omogenee in una quaternità. Ma ora, come due e una persona contate come omogenee fanno tre, così è necessario che una sola natura comune della santa Trinità ed un’altra sola del solo Figlio, cioè di colui che è stato assunto, siano due e non possano essere una sola. Dunque, anche se crediamo che ci siano due nature nel Figlio, tuttavia dalla nostra professione non consegue una quaternità: infatti non veneriamo la sola quantità al di là delle realtà sussistenti, anche se fosse lecito ricordare quella sola. Inoltre se, quando noi diciamo che ci sono due nature, per questo stesso ne consegue che veneriamo una quaternità invece che la Trinità, ne conseguirà che anche voi veneriate la Trinità da una quaternità, perché dite che Cristo è da due nature. Eretico: Ma noi diciamo che la Trinità è tre persone, non da tre persone; diciamo poi anche che c’è unità di tre persone o in tre persone. Rustico: Ma perché non si dovrebbe credere che le due nature siano un solo Cristo, se tre persone secondo verità sono un solo Dio, come ha detto anche lo stesso Signore nel Vangelo: Io e il Padre siamo una cosa sola (Ioh. 10, 30)a? Ha detto una sola cosa e siamo, perché una sola cosa si attribuisca alla natura, siamo invece alle a 

Rustico aveva già esposto questa interpretazione del versetto in 1178D.

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persone. Se infatti la Trinità delle persone non divide la natura, che è semplice, come può la dualità delle nature lacerare la persona che, come dite, non è affatto semplice, ma composta? Inoltre si può dire di certe cose che sono due e tre e quattro, non ciascuna sussistente in se stessa, ma raccolte e accostate e confrontate, per così dire, o piuttosto considerate insieme; la natura, però, nella Trinità non è contata insieme alle persone, altrimenti anche prima dell’incarnazione (lungi da noi!) ci fu una quaternità; infatti sono tre persone e una sola natura, ma il numero non arriva a quattro. Eretico: Ma lì accade per il fatto che l’unità e la Trinità non sono staccate, ma la Trinità è dell’unità e l’unità è della Trinità. Rustico: Se la natura divina non si conta insieme alle tre persone solo perché è Trinità dell’unità e unità della Trinità, in ogni modo, una seconda unità oltre all’unità comune sarà contata insieme alla Trinità; e la carne di uno dei tre, cioè del Signore Cristo, non è di tutta la Trinità, infatti non si è incarnata la Trinità tutta intera, secondo te, e dunque sarà una quaternità, Trinità e carne. Dunque, o dimostra che la nostra natura non è un’unità, cioè che la carne non è una, o accetta che non per questo la natura divina si conta insieme alle persone, cioè perché è unità della Trinità e Trinità dell’unità; e non ti resta che dire con noi che la natura non si conta con le persone. Eretico: E perché la natura non si conta con le persone? Di’ dunque la causa! Rustico: Non incombe su di me alcuna necessità di dimostrare perché non si conti insieme alle persone, dal momento che ho dimostrato la mia perfetta vittoria, cioè che è vero quello che ho sostenuto; ma se vuoi indagare con noi la causa, cerchiamola senza pregiudizio. Ma ritengo che le cose che non sono affatto comprese sotto una sola definizione neppure siano contate insieme, come se per esempio uno dicesse: “Io e te siamo una sola cosa per il fatto che sono uomo sia io sia tu, e siamo due uomini e, rispetto agli angeli, siamo una sola cosa, per il fatto che siamo anche noi razionali. E ancora, siamo due nature a causa della differenza e, viceversa, siamo questa medesima cosa con il cielo: anch’esso è infatti una creatura; e altra cosa rispetto a quello, a causa della differenza di sostanza”. Ritengo dunque che le cose che sono contate insieme

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debbano avere anche una sola definizione comune e un’altra che non sia comune, ma sia propria di ciascuna; così anche le due nature del Signore Cristo hanno in comune il fatto di essere nature, di proprio invece il fatto che l’una è divinità, l’altra invece umanità. Eretico: Se c’è una sua definizione, la divinità non è incomprensibile. Poi mi turba anche questo: come possono avere una sola definizione comune la sostanza divina delle tre persone e la natura individuale di una e una sola persona o certo la sostanza della carne di Cristo? Tutto questo infatti mi sembra impossibile. Rustico: Non senza motivo, come è evidente, rifiutavamo già prima di cercare la causa che ci porta a discorsi così lunghi e difficili. Perciò non bisogna che io aggiunga più oltre qualcosa del genere, perché non siamo trascinati in modo superfluo ad un parlare eccessivo. Eretico: Con pazienza, per favore, e senza pregiudizio: voglio essere soddisfatto riguardo a questo; forse infatti, in ogni modo, dalla soddisfazione conseguirà un’utilità. Rustico: Quel che a me sembra, lo dirò, forse in modo non irragionevole, fatto salvo tuttavia e senza pregiudizio quanto ho già detto; infatti non aggiungerei niente del genere, se non premettendo questa condizione. La divinità si definisce dunque non secondo la divinità, ma secondo la natura. Che cosa voglio dire con ‘non in quanto è divinità, ma in quanto natura’? Una cosa è ricercare cosa sia la divinità di per sé, un’altra in che relazione la divinità stessa stia con le tre persone, come, per fare un esempio, una cosa è ricercare ‘che cosa’ sia l’uomo, un’altra ‘come’a, cioè se tutti ugualmente partecipiamo ad una sostanza comune o no; e ancora, secondo la proporzione, se noi siamo rispetto all’umanità comune come La posizione qui espressa da Rustico potrebbe avere un precedente in Basilio di Cesarea; a Eunomio che sosteneva che i nomi divini si riferiscono alla ousia, Basilio ribatteva infatti che non esprimevano il ‘che cosa’ della divinità, ma il ‘come’, scusandosi di dover utilizzare una distinzione aristotelica; di Dio infatti non si conosce la sostanza, ma la qualità: «Scopriamo dunque ragionando che la nozione di ingenerato non proviene per noi dall’esame del ‘che cosa è’, ma – come mi trovo costretto a dire – dall’esame del ‘come è’» (Contra Eunomium 1, 15; cf. M. V. Anastos, Basil’s Κατα Ευνομιου. A critical analysis, in P. J. Fedwick (ed.), Basil of Caesarea. Christian, Humanist, Ascetic. A sixteen-hundredth anniversary symposium i, Toronto, 1981, p. 67–136, in particolare p. 84–85). a 

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Padre e Figlio e Spirito Santo sono rispetto alla divinità, una sola e comune. Dunque, ciò che ora cerchiamo riguarda la proporzione: ma una sola è la definizione delle due nature, in quanto nature, perché è sostanza ciò di cui ugualmente e similmente e in modo compiuto partecipano le persone, perché ciascuna cosa sia; le cose che poi partecipano di questo sono le persone, che vicendevolmente differiscono nelle proprietà. La sostanza comune della stessa divinità, però, che contempliamo nel Verbo come individuo, è la natura; analogamente anche la natura della carne non è individuale, anche se la contempliamo in un individuoa. La natura infatti non è mai individuale, perché non è una definizione individuale quella riguardo alla quale diciamo che l’uomo è un animale razionale che si può toccare. Ma i medici dicono che gli uomini differiscono per natura in base al temperamento, come, per esempio, più caldo e più freddob. Ma noi non intendiamo in questo senso la natura perché, secondo questo, non differisce la definizione comune delle due nature del Signore Cristo. Quindi, poiché entrambe sono chiamate in modo analogo ‘natura’ e, ancora, l’una e l’altra non sono la medesima, ma la definizione di ciascuna differisce, due sono dunque le nature del Signore Cristo e nessuna di esse si conta con la Trinità per fare una quaternità, lungi da noi! Eretico: Io penso che quella natura che viene detta comune, o certo la specie dell’umanità, non sia altro che un nome; l’esserec di ciascuno di noi, invece, è nelle sussistenze individuali. La natura, Rustico chiama invece ‘individuale’ la natura umana assunta dal Figlio in 1233D. Fra i due passi comunque non c’è vera contraddizione: se infatti la natura umana assunta non fosse individuale si potrebbe dire che è stata assunta la natura comune dell’umanità, cioè l’umanità intera; qui, probabilmente, come si può capire alla luce di quanto segue, Rustico intende dire piuttosto che l’umanità di Cristo è una natura comune in quanto natura, cioè come lo è ogni natura, dal momento che ad ogni natura corrisponde una definizione comune. b  Cf. Celso, De Medicina 1, 3, 13: «prima di tutto ciascuno dovrà conoscere la natura del suo corpo, perché alcuni sono gracili, altri pingui, altri caldi, altri freddi», citato in C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna, 1983, p. 232. c  L’uso di ‘essere’ (esse) sostantivato in funzione di soggetto si trova anche in Mario Vittorino e in Boezio (cf. Moreschini, Varia Boethiana, p. 63–65). Nel Contra Acephalos si trovano altri esempi di uso non verbale di esse in 1234D («non ha il suo essere in se stessa») e in 1239D («si affretta immediatamente al non essere»). a 

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invece, è nei soli ragionamenti e nelle interpretazioni e nelle sottilissime speculazioni o piuttosto nell’immaginazione della mentea; per il resto, di per sé non esiste: ma in Dio bisogna che tutto esista ed esista primariamente, cioè sia la natura che le persone, perciò neppure secondo la definizione comune sono due nature. Rustico: Contro questo non ho niente da dire; mi basta infatti che la sostanza dell’umanità assunta non si conti insieme alla Trinità delle sussistenze in modo che si realizzi da esse una quaternità. Per quanto riguarda il perché, poi, non so la causa e confesso di ignorarla. Eretico: Ma perché la carne si dovrebbe contare insieme alla natura della Trinità in modo che, come dici, ne siano fatte due, mentre non si conta insieme alle persone della Trinità? Quindi non si conta neppure con essa; e allora non sono due le nature di Cristo, ma una. Si fa riferimento in questo passo al problema degli universali e alle sue implicazioni teologiche. Come è noto, la questione deriva dalla distinzione aristotelica tra le sostanze prime, individuali, e le sostanze seconde, cioè i generi e le specie; Porfirio, poi, nell’Isagoge aveva posto il problema dell’esistenza dei generi e delle specie, dando inizio ad un dibattito che avrà una lunga storia in filosofia. L’avversario di Rustico esprime qui una posizione molto netta riguardo agli universali, che a suo avviso non esistono nella realtà, ma solo a livello di astrazione, e inoltre si collocano più nella facoltà immaginativa che nell’intelletto. La facoltà immaginativa era considerata ad un livello inferiore di attendibilità rispetto all’intelletto, per cui gli universali sarebbero, nell’ottica dell’eretico, frutto di immaginazione più che di riflessione razionale, tanto da poter essere considerati soltanto un nome; cf. Boezio, In librum Aristotelis ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ commentarii, secunda editio 1, 1, p. 27, 10–29, 12. Si deve considerare poi che una posizione del genere riguardo agli universali in teologia potrebbe portare alla negazione dell’esistenza della Trinità e quindi al triteismo (cf. 1230A–B e nota), perché soltanto le tre persone, in quanto individuali, avrebbero un’esistena reale, mentre la comune natura divina costituirebbe solo un’astrazione. In effetti, la dottrina dei monofisiti accusati di triteismo potrebbe essere in qualche modo legata a posizioni nominaliste sugli universali, ma le poche ed incerte notizie di cui disponiamo su Giovanni Ascotzanghes, l’iniziatore di questo movimento, rendono impossibile dire quale fosse la sua posizione in merito, anche se è possibile che si sia pronuciato sull’argomento, dal momento che le fonti concordano nel riconoscergli una buona preparazione filosofica. La connessione fra questione degli universali, cristologia monofisita e ‘triteismo’ è invece accertata nelle opere di Giovanni Filopono, che però, per motivi conologici, non possono aver costituito la fonte di Rustico (cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 89–93). Per la posizione di Rustico sugli universali cf. 1233D–1234A e nota. a 

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Rustico: Penso che tu non voglia neppure che ci sia la carne; infatti è necessario che questa sia o una sola o non una sola; ma se non è una sola, è niente; se è niente, non è: infatti, se non vogliamo che sia contata insieme alle tre persone, siamo di nuovo respinti a questo punto, perché non diventi una quaternità. Ancora: la negazione della carne sembra essere stata enunciata perché la natura della Trinità, che è unica, non sia raddoppiata: se infatti è una, è contata insieme all’altra una. Ma io affermo che neppure qui è necessario che da me si esiga la causa: infatti tutti i santi Padri, e anche voi, contate la carne insieme alla natura della divinità; dite infatti che Cristo è da due nature; e se l’umanità non si conta con la divinità, non dobbiamo dire non solo ‘essere in esse’ ma neppure ‘essere da esse’. Dunque Cristo non è da due nature. Ma anche Ambrogio secondo voi si è espresso in modo scorretto: «Il Figlio di Dio, uno solo, parla in entrambe, perché in lui sono entrambe le nature»a; e Gregorio, dicendo: «Due nature, Dio e uomo, poiché anche anima e corpo»b; e Cirillo, dicendo: «Si è infatti realizzata l’unione di due nature»c e «Poiché sono diverse certamente le nature che concorsero alla vera unione, uno solo però è da entrambe Cristo e Figlio, non come se la differenza delle nature fosse stata annullata a causa dell’unione, ma piuttosto poiché attuarono per noi…»d. E il concilio universale di Efeso confermò queste parole e Celestino e Sisto, papi romanie, le approvarono; e analogamente poi alcune delle parole che sono state dette sul Signore possono essere sia considerate comuni, in quanto dette di una sola persona, sia divise in quanto dette di due nature. Eretico: Lo sappiamo, le nature si contano insieme in modo che Cristo sia da esse, non in modo che sia in esse; infatti anche le cose che sono chiamate equivoche, per il fatto che partecipano dello stesso nome e non anche della stessa definizione, si contano Ambrogio di Milano, De fide; cf. 1177A–B. Gregorio di Nazianzo, Ep. 101; cf. 1198D. c  Cirillo di Alessandria, Ep.  ad Iohannem Antiochenum de pace; cf. 1174A–C. d  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, in ACO 1, 1, 1, p. 27, 1–4; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 21, 10–14. e  Per questi due personaggi cf. 1173D e 1176D con le note corrispondenti. a 

b 

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Disputa, 1223C–1224C

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insieme fra loro, come un cane dipinto e uno veroa: nessuno infatti dice che questo e quello sono uno, ma sono assolutamente due. Rustico: Gloria al Signore Cristo, perché intanto hai confessato che, in qualunque modo si contino, tuttavia le nature si contano insieme, punto da cui era partito il discorso! Concesso questo, tuttavia, non è più necessario trovare le dimostrazioni di ciò che resta. Infatti, ormai è stato dimostrato che l’unione è di due nature e che le nature sono diverse e che non è stata distrutta la differenza delle nature e che esse costituirono uno solo in entrambe, perché nel medesimo sono entrambe, e che ci sono due nature, Dio e uomo. Ma dico anche che se la natura umana non si conta insieme a quella divina, necessariamente non si è realizzata, tramite l’unione, una sola natura del Signore Cristo da due nature, ma, esistendo questa sola eternamente, essa sola è, fino ad ora, così come era. Se poi si è realizzata una composizione o una aggregazione o un concorrere, ugualmente l’umanità è stata fatta come un completamento di quella natura che, come dite, è stata realizzata dalla composizione, perciò, ugualmente, come quella divina, è partecipe della quantità. Se dunque una sola è la natura divina, è una sola anche quella della carne; se poi questa è intermedia, è intermedia anche quella; e se non c’è questa, non c’è quella. Perciò, anche quello che secondo voi è stato fatto da ciò che è niente, aggiunto a ciò che è niente, non può essere qualcosa. Eretico: Puoi dimostrare che non soltanto la natura comune della Trinità differisce dalla natura della carne che è unita al Verbo, ma anche che il Verbo stesso si distingue in qualcosa dalla forma di servo, oppure no? Rustico: Anche questo è dimostrato dal discorso precedente, poiché certo la nostra natura che è unita al Verbo non è un’altra a  Questa definizione, anche nell’esempio scelto per illustrarla, deriva da Aristotele, che probabilmente Rustico leggeva nella traduzione di Boezio; nelle Categorie si legge infatti: «Si chiamano equivoche quelle realtà che hanno in comune solo il nome, mentre è diversa la definizione della sostanza in relazione a quel nome, come ad esempio si può usare il nome ‘animale’ per un uomo e per qualcosa che è solo dipinto» (Cat. 1, ed. L. Minio-Paluello, Aristoteles Latinus I, 1, Brugge-Paris, 1961). Una definizione del tutto analoga è riproposta più avanti, sempre dall’eretico, in 1228A; entrambi gli interlocutori, dunque, condividono la stessa terminologia di derivazione filosofica.

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persona né è di un’altra persona, ma tuttavia la carne è altra dal Verbo, altra però per natura, non altra per persona. In Cristo, infatti, i Padri dicono comunemente ‘una cosa e un’altra’, non soltanto a proposito della natura comune nei confronti delle altre persone della divinità e della sua propria carne, ma anche propriamente di Dio il Verbo e della carne assunta, che sono una cosa e un’altra. Intendi, ti prego, la verità in modo preciso, e non ti atterrisca con la fatica della difficoltà l’angustia della via che conduce alla vita: non abbiamo detto, infatti, che una sia la persona di Dio il Verbo e un’altra la persona della carne (infatti sono entrambe di una e una sola persona), ma che anche rispetto a Dio il Verbo, che è una sola di quelle ineffabili persone, la natura umana è altra, così che Dio il Verbo è davvero persona perfetta dall’eternità, mentre la carne, benché natura perfetta, non è affatto persona. Ripeto: non ho detto ‘altra persona e poi altra persona’, ma ‘altra sostanza e natura’. Una cosa infatti si definisce evidentemente il Verbo di Dio e un’altra la sua umanità, non uno e un altro, ma egli è un altro rispetto alla carne, invece l’umanità è altra cosa e non un altro. Abbiamo dimostrato infatti sulla base del passo sinodico che Gregorio dice: «Due nature, Dio e uomo, perché anche anima e corpo»a. Vedi dunque che parla di questa stessa persona del Signore Cristo: quando infatti ha detto «due nature Dio e uomo», ha aggiunto «perché anima e corpo»; e queste sono di una sola persona; e ancora «Ma non sono due figli». Vedi che ha detto «Dio» non dell’intera Trinità, ma del solo Verbo. E ancora dopo poco: «una cosa e un’altra, dalle quali il Salvatore». Capisci che lo ha detto del solo Salvatore? E ancora: «Entrambe infatti sono una cosa sola»; e sull’uno: «essendosi Dio incarnato»; ma non si è incarnata l’intera Trinità. Poi ha aggiunto anche: «Ma dico una cosa e un’altra, al contrario di come avviene nella Trinità: infatti lì ‘uno e un altro’ perché non confondiamo le sussistenze, ma non ‘una cosa e un’altra’». Non vedi che il discorso non è comune, sull’intera Trinità, ma è propriamente del solo Figlio? Infatti, parlando della Trinità ha detto «lì», riguardo al Figlio solo invece ha detto «al contrario», cioè che Dio il Verbo è altra cosa rispetto a 

Cf. 1200D–1201A.

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alla sua propria carne. Si citi poi la suddetta testimonianza e il nostro ragionamento sarà chiaro. Eretico: Se anche la natura non si conta con le persone, ma tuttavia il puro numero è contato insieme al puro numero, perché le due persone e le due nature non sono quattro? Infatti, altrimenti come si può dire che Cristo sia uno della Trinità, dal momento che non esiste semplice e senza la carne, ma composto in una sola persona, mentre certo ci sono due persone, semplici e senza carne e non composte? Rustico: Il nome di numero senza il nome delle realtà si proferisce quando una somiglianza comune della cosa si aggiunge ad un qualche numero, come il fatto che la persona è per ciascuno dei tre, anche se non è la medesima persona; come potrebbe essere pio, infatti, non distinguere le sussistenze nella Trinità? Ma abbiamo detto questo perché, come il Padre è persona, così anche lo sono il Figlio e lo Spirito Santo; questi tre infatti sono tre persone. Quindi quando diciamo ‘queste tre’, se qualcuno ci chiedesse ‘quali?’, possiamo rispondere ‘persone’; ma quando diciamo ‘questi tre’, interrogati su ‘quali tre?’, esitiamo a rispondere ‘persone’ a causa della composizione non adeguata dei discorsi, perché non sembriamo dire ‘questi persone’ o ‘questi tre persone’. Poiché dunque le realtà concordano, mentre fino ad ora non è stato stabilito un nome che sia tale da essere comune a questi tre, certo è lecito chiamarli tre, anche se, interrogati su ‘quali tre’, non troviamo immediatamente un’espressione conveniente. Ma quando, dicendo semplicemente prima ‘queste tre’, siamo interrogati su ‘quali tre?’, aggiungiamo subito coerentemente ‘persone’a. Ma in quella vostra quaternità non Si parla qui del problema dell’assenza un nome maschile sinonimo di persona in modo molto simile a Facondo di Ermiane, che dedica all’argomento una sezione piuttosto ampia del suo trattato (Defensio 1, 3, 4–20); si veda in particolare 1, 3, 12: «Chi sono i tre dei quali si dice che rendono testimonianza in terra e che sono una cosa sola? Sono forse dèi? O padri? O figli o spiriti santi? No di certo; questi tre sono però Padre, Figlio e Spirito Santo, anche se non c’è un solo nome di genere maschile che si possa predicare in comune di tutti, come si predicano in comune le loro persone, con un termine femminile». La questione sembra derivare da un problema posto dallo scritto perduto di Giustiniano citato da Facondo in 1, 3, 4 ed era finalizzata a sostenere la correttezza e l’utilità della formula teopaschita: «Se infatti professiamo – dice – che uno della Trinità è stato crocifisso per noi, se ci a 

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si trova alcuna realtà comune e adeguatamente adattabile al numero quattro e ne consegue un assurdo, non solo nelle parole ma anche nelle realtà; perciò non è possibile che sia un numero, perché ad esso non soggiace alcuna realtà comune. Lo dimostra anche il fatto che presso i latini ci si riferisce alle persone con hae e non haec, cioè con quello che presso i grammatici si chiama genere femminile, non con il neutro. E il Paraclito similmente si dice al maschile sia in latino che in greco. Ma sul Figlio e sullo Spirito Santo troviamo che si dice in modo che possiamo dire ‘due’ e, interrogati su quali due, possiamo rispondere ‘Paracliti’. Ma sul Padre questo ancora non oso dirlo per il fatto che questo modo di esprimersi non è stato scritto e da nessuno dei quattro sinodi è stato detto esplicitamente che anche il Padre si possa chiamare Paraclito. Se poi si concedesse questo, interrogati su ‘quali tre?’, certo potremmo rispondere ‘tre Paracliti’, come tre persone e tre sussistenze. Eretico: Se a causa della consolazione è stato chiamato Paraclito, anche il Padre è paraclito; consola infatti e placa l’anima dei giusti, come è scritto: Dio fu memore e sono stato consolato (Ps. 118, 52); ma anche la stessa cosa che il Signore ha detto: E io pregherò mio Padre e vi darà un altroa (alius) Paraclito, lo Spirito di verità (Ioh. 14, 16–17), dimostra che i paracliti non sono due soltanto ma tre; altro (alius) infatti non si dice di due ma di tre, altro (alter) invece di due, perciò nella Trinità si parla anche di tre Paracliti. Rustico: Questa accuratezza delle espressioni non è osservata presso le Sacre Scritture e neppure dai santi Padri, perché non lo merita: sono infatti invenzioni degli uominib; infatti anche nel viene chiesto chi sia l’uno di cui parliamo, non possiamo rispondere che è Dio o il Figlio, perché non ci sono nella Trinità tre dèi o tre figli, di uno dei quali si dice che è stato crocifisso; per questo possiamo dire correttamente che è stata crocifissa una persona della Trinità, perché nella Trinità ci sono tre persone, di una delle quali si può dire che è stata crocifissa». a  In italiano non è possibile mantenere la differenza fra il latino alter (altro fra due) e alius (altro fra più di due) che invece qui ha un’importanza fondamentale per l’esegesi proposta dall’eretico; Rustico comunque risponderà che la trova troppo sottile. b  L’accusa di eccessiva sottigliezza nei confronti degli eretici, spesso contrapposta alla semplicità delle Scritture era un motivo tradizionale (Ilario di Poitiers, ad esempio, si esprime in termini del tutto analoghi in De Trinitate 6, 12); in quegli anni questo aspetto era stato approfondito in modo particolare da Facondo di Er-

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concilio si può dimostrare che si trova «una cosa e un’altra (aliud et aliud) dalle quali il Salvatore»; pur parlando quindi di due cose ha detto «una cosa e un’altra». E inoltre anche la testimonianza di Atanasio di santa memoria, che lì fu approvata così dice: «O come è possibile che vogliano essere chiamati cristiani coloro che dicono che il Verbo è venuto in un uomo santo quasi come su uno dei profeti e non che egli stesso si è fatto uomo, prendendo il corpo da Maria, ma dicono che venne un altro (alterum) Verbo di Dio prima di Maria ed esistente prima dei secoli, il Figlio del Padre? O come possono essere cristiani coloro che dicono che un altro (alium) è il Figlio e un altro (alium) il Verbo di Dio?»a. Ecco, senza fare differenza, prima ha scritto rimproverando quelli che dicono alterum, più avanti poi quelli che dicono alium et alium. Soprattutto poi la testimonianza di Gregorio ripete frequentemente l’espressione dicendo: «Ma non altro ed altro (alius), lungi da noi! Entrambe infatti sono una cosa sola per la mescolanza»b. Ecco, ha detto «entrambe», cioè non tre, perché forse tu non sospettassi che parlasse di tre, cioè di Dio, dell’anima e del corpo, soprattutto per il fatto che aggiunge: «Al contrario di come avviene nella Trinità, nella Trinità infatti vi sono ‘uno e un altro’ (alius) perché non confondiamo le sussistenze, ma non una cosa e un’altra»c. Ecco, sia della Trinità ha detto ‘un altro’ (alius) sia di Cristo ‘non uno e un altro’, e non ha detto ‘non uno e un altro’ (alter); tuttavia si trova il passo di Felice di santa memoriad che dice così: «E non miane (cf. Simonetti, ‘Haereticum non facit ignorantia’, p. 100–105), la cui opera costituì certamente un modello per il Contra Acephalos. Facondo sostiene infatti che proprio la ricerca di un’eccessiva accuratezza induce all’errore gli eretici, che, nella loro superbia, ritengono le loro formulazioni più precise delle Scritture stesse, sostituendo quindi le loro dottrine alla tradizione della Chiesa (cf. Defensio 12, 1, 6–7). a  Atanasio di Alessandria, Ep. ad Epictetum, ACO 1, 1, 2, p. 40, 19–23; trad. Rustico ACO 1, 3, p. 69, 7–11. b  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101; cf. 1180A–B. c  Ibidem. d  Felice I fu vescovo di Roma fra il 268/9 e il 273/4 (cf. O. Kampert in Lexicon der antiken christlichen Literatur, p. 234). Questo testo, però, entrato anche negli atti del concilio di Efeso del 431 e quindi in quelli di Calcedonia, è in realtà un falso di origine apollinarista (cf. 1215B e nota); sotto il nome di papi romani come Giulio o Felice circolavano infatti scritti di Apollinare di Laodicea o di suoi seguaci che non mancarono di esercitare una profonda influenza sulla teologia successiva, in

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uomo assunto da Dio, in modo che sia un altro (alter) rispetto a quello: infatti il Figlio di Dio non ha assunto un uomo in modo da essere un altro (alter) rispetto a quello»a. Ecco, è stato dimostrato che nel santo e universale concilio di Efeso sono stati usati senza distinzione aliud e alterum, o piuttosto alius e alter. Eretico: Ecco, intanto anche tu hai confessato che, se dimostreremo che ci sono tre nature della Trinitàb, chiaramente quelli particolare Cirillo di Alessandria, entrando, per suo tramite, anche nelle controversie cristologiche successive (cf. Mühlenberg, Apollinaris von Laodicea, Göttingen, 1969, p. 97–105; Lietzmann, Apollinaris von Laodicea und seine Schule, Tübingen, 1904, p. 162–163); furono proprio questi scritti, infatti, a far apparire a Cirillo la formula mia physis ormai tradizionale nel linguaggio teologico della Chiesa ed errata solo nell’interpretazione datane da Apollinare, che era arrivato a parlare dell’assenza di un’anima umana in Cristo in quanto il suo posto sarebbe stato preso dal Verbo, per cui l’umanità di Cristo si sarebbe ridotta al suo solo corpo (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa II, 2, p. 860–867). L’autorità di Cirillo di Alessandria era stata poi alla base del netto rifiuto opposto da Eutiche nel processo del 448 alla richiesta di riconoscere due nature di Cristo dopo l’unione (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa II, 2, p. 929–932). Secondo Grillmeier, infatti Eutiche fu «vittima di una formula di Cirillo difficile da comprendere e storicamente sospetta» (Ibidem, p. 944). a  Ps. Felice di Roma, ex epistula ad Maximum, Excerpta Ephesena 8 (= frg. 186 Lietzmann; cf. Lietzmann, Apollinaris von Laodicea und seine Schule, p. 318), ACO 1, 1, 2, p. 41, 11–12; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 69, 30–70, 1. Rustico non sembra aver mai dubitato dell’autenticità di questo testo, mentre sollevò in seguito dubbi su un altro falso apollinarista, l’epistola a Prosdocio attribuita a Giulio di Roma; in un’annotazione alla sua traduzione degli atti del concilio di Calcedonia scrive infatti: «Gli eretici hanno corrotto questa lettera» (ACO 2, 3, 1, p. 205 in apparato). b  Comincia qui una breve sezione (1226D–1231D) dedicata ad una possibile conseguenza della cristologia monofisita, cioè una formulazione della dottrina trinitaria secondo la quale per Padre, Figlio e Spirito santo si potrebbe parlare di tre nature; in altre parole si potrebbero usare i termini ousia e physis per le tre persone divine, invece della definizione tradizionale di una sola ousia e tre ipostasi. Si tratta di una conseguenza dell’uso di physis e ousia nel senso di natura individuale, che caratterizzava la cristologia monofisita, dal momento che solo intendendo physis nel senso di natura individuale si poteva parlare di una sola natura del Verbo incarnato (per il rapporto fra physis e ipostasi a partire dalla cristologia cirilliana cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 871–875); dunque la possibilità di associare i termini physis e ipostasi in cristologia poté portare ad estendere questo uso anche in ambito trinitario, per cui, come si poteva parlare di una sola physis o ipostasi per il Verbo incarnato, così si poteva parlare, secondo alcuni monofisiti, di physis/ipostasi anche per il Padre e lo Spirito santo. Per l’accusa di triteismo mossa da Rustico a questa dottrina cf. 1230B e nota.

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che dicono ‘due nature in Cristo’ di conseguenza introdurranno una quaternità di nature; se dunque dimostreremo che ci sono tre nature nella santa Trinità, poiché sono evidentemente due le nature del Padre e dello Spirito Santo, contate insieme per aggiunta le due nature (secondo quello che voi credete) del Figlio, secondo l’inconfutabile somma del numero abbiamo dimostrato che la vostra confessione ha come conseguenza il culto di una quaternità. Rustico: Nemmeno questo è necessario (sia detto senza pregiudizio), a meno che per caso le nature della Trinità non siano tre in modo tale che non ce ne sia una sola comune. Infatti se ce n’è una sola comune, tre invece proprie, allora la natura è chiamata con un nome equivoco: in un modo infatti si intende quella che in particolare coincide con ciascuna persona e in un altro quella che non è di nessuna in particolare, ma è comune alle tre; l’una sarà vista come una in tre, le altre invece come tre in una. Se, dunque, dicendo che due sono le nature di Cristo, contiamo quella comune della Trinità insieme alla nostra, cioè a quella che è della sostanza umana in Cristo, in nessun modo introduciamo una quaternità; infatti non ne facciamo quattro accumulando quelle tre, ma, aggiungendo una e sola a una e sola, ne facciamo soltanto due. Inoltre, se la natura fosse propria del Verbo così da coincidere con la medesima persona e se prendendola insieme con la natura umana dicessimo che sono due, tuttavia non ne conseguirebbe una quaternità, perché in un modo si dovrà parlare della natura che è anche persona (poiché anche in tutto coincide con essa) e in un altro della carne, che sarebbe solo natura e non, questa medesima, parimenti persona e natura. Ma neppure aggiungeremmo (se pure così fosse) una natura che è anche persona a un’altra natura che è anche persona; e non per questo diciamo ‘due’, ma accosteremo una natura che è anche persona a un’altra, invece, che non è anche persona ma natura soltanto, cioè prendiamo insieme la natura divina, che è essa stessa anche persona, e la natura umana, che è solo natura e non anche persona, e così facciamo risultare una dualità di nature. Eretico: Quindi, a quanto dici, a maggior ragione saranno secondo te quattro le nature della Trinità, anzi piuttosto, come dite,

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della quaternità: se sono quattro le sue nature, cosa che infatti hai ammesso, la differenza delle nature è costituita tanto più da questo: non soltanto, infatti, altra e altra sono la natura del Verbo e quella dell’uomo, ma è altra anche la definizione di natura; e non sarà un solo qualcosa neppure secondo la specie, come qualcuno potrebbe dire, oppure secondo un solo genere. Perciò, è molto più lontano dal costituire un quarto ciò che differisce in tutto, se pure, secondo voi, la quantità consegue alla differenza anche secondo il numero; dunque, quanto più le nature differiscono, tanto più costituiscono un numero ed è tanto più chiaro che si introduce una quaternitàa. È dunque assolutamente necessario che o la natura dell’umanità non costituisca una dualità quando si unisce alla natura di Dio il Verbo, o che compia una quaternità, se è aggiunta alle nature della Trinità. Rustico: Ma fa’ attenzione che, per quante siano le nature, rimane Trinità: prende il nome infatti da tre persone e non da tre nature. Eretico: Non prende il nome soltanto dalle nature, e non soltanto dalle persone, ma piuttosto dal numero. Rustico: Ma il numero non esiste se ad esso non soggiace alcuna realtà. Eretico: Ma gli soggiace anche una realtà, infatti sono quattro nature e dal numero delle nature la vostra deve essere chiamata quaternità; comunque, anche nel caso in cui non soggiaccia alcuna realtà comune alle quattro nature, per me lo stesso nome di natura sarà sufficiente: infatti ciò che è equivoco si conta insieme, benché sia diverso contare insieme le cose equivoche ovvero quelle che hanno lo stesso nome, altra cosa le realtà stesse, come il cane marino e terrestreb non sono contati insieme come due cani, ma come due cose equivoche.

Questo ragionamento dell’eretico è piuttosto involuto e l’interpretazione che qui se ne è data è tutt’altro che sicura. b  Cf.  1224A per una definizione di termini equivoci. L’esempio del cane marino e terrestre a proposito degli omonimi era piuttosto comune anche nella letteratura teologica; ad esempio, Gregorio di Nazianzo, in Or. 31, 19, lo cita proprio a proposito della possibilità (qui negata dall’eretico) di contare insieme realtà non consustanziali. a 

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Rustico: Ammettiamo tutto, in via di concessione. Sia quindi come tu dici e la Trinità prenda il nome così, allo stesso modo, dal numero delle nature e delle persone. Come dunque non si dice Trinità, se non sussistono tre persone e le medesime nature, così non si dice mai quaternità se non esistono quattro, non soltanto nature, ma anche persone. Noi invece, anche se sosteniamo che ci sono, come vuoi tu, quattro nature, non sosteniamo tuttavia che ci sono quattro persone, ma tre soltanto: non introduciamo dunque il culto di una quaternità. Eretico: A maggior ragione, anche in contraddizione con voi stessi, venerate allo stesso modo la Trinità e una quaternità, una Trinità delle persone, una quaternità, invece, delle nature. Come infatti, se ci fossero le sole tre persone, o anche le sole tre nature, nondimeno sarebbe Trinità, e sarebbe quaternità se ci fossero quattro persone o nature, così, anche se c’è Trinità delle persone e quaternità delle nature, è insieme Trinità e quaternità. Rustico: Ma noi, anche se confessassimo, lungi da noi, che ci sono tre nature dall’eternità, tuttavia non le adoriamo e veneriamo in quanto nature, ma in quanto persone. Eretico: Se tre sono le nature della Trinità e un’altra quella della carne, fanno quattro; e se anche non veneri una quaternità, ma, secondo la tua confessione, c’è una quaternità, a te questo non potrebbe giovare in niente. Anzi, scegli quello che vuoi: o c’è una quaternità, e fai male a non venerare e adorare nella divinità ciò che è e che professi che è, o non è una quaternità, e tu agisci empiamente professando e sostenendo che è ciò che non è; poi, se dici che ci sono due nature, così da contare quella comune della Trinità insieme con quella propria della carne o questa con quella, veneri dunque una dualità. Rustico: E’ chiaro che ciò che è stato assunto è stato fatto proprio da chi assume, tramite l’economia, tuttavia non è comune ai tre. E anche se c’è un qualcosa che è quarto, tuttavia non è eterno né senza inizio né increato né è di per sé né è della sua sostanza, ma tramite l’unione è ciò per cui è glorificato; quelle tre nature invece, coeterne e consustanziali e senza inizio, proprio per questo sono increate; anche se, perché esista un quarto, qualcuno potrebbe dire che ciò che è umano è qualcosa, tuttavia non sarà analo-

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gamente un quarto né per essere adorato né per essere venerato né per essere glorificato: una cosa infatti è ciò che, come un altro qualcosa (per il fatto che è una creatura), fu aggiunto a queste che sono increate secondo la quantità, perché non è questa medesima cosa ma un altro qualcosa; altra cosa è che quel qualcosa sia adorato come consustanziale e coeterno e sia glorificato e sia venerato alla pari. Inoltre, adorazione e culto non si offrono, per così dire, sotto un numero; non ci sono infatti tre culti o tre adorazioni della Trinità, perciò neppure quattro né due, anche se, come ho detto, qualcos’altro è proprio di uno solo o anche di tre. Né infatti il tabernacolo nel deserto né l’arca né il tempio né gli altari erano adorati e venerati dagli antichi insieme a Dio; e neppure è stata fatta una la natura loro e quella di Dio; e neppure ha aggiunto il numero alla Trinità da venerare e adorare per il fatto che la Trinità è adorata insieme a loro: del resto le creature non sono adorate insieme alla Trinità, ma tramite esse la Trinità è adorata. E allora? Dimmi, non è forse scritto: E adorate lo sgabello dei suoi piedi (Ps. 98, 5)? Ma questo è la terraa; infatti il corpo che è dalla terra non si adora in modo tale da essere adorato come Dio per se stesso e a causa di se stesso, ma in modo tale che tramite il corpo e la carne o l’umanità sia adorato Dio con il Verbo che si è incarnato. Certo, infatti, ha operato anche tramite le frangia delle vesti in colei che soffriva del flusso di sangue e tuttavia nessuno dice che è una sola la natura delle vesti e quella del Verbo; con il gesto salvò molti e emettendo la voce dalla propria bocca risuscitò Lazzaro morto da L’interpretazione cristologica di Ps. 98, 5 si trova, in termini molto simili a quelli usati da Rustico, in Agostino, Enarrationes in Psalmos 98, 9: «Chiedo che cosa sia lo sgabello dei suoi piedi; e la Scrittura mi dice: La terra, sgabello dei miei piedi (Is. 66, 1). Dubbioso, mi rivolgo a Cristo, perché è Lui che cerco qui; e trovo come si possa adorare la terra senza empietà, come senza empietà si possa adorare lo sgabello dei suoi piedi. Ha assunto infatti della terra dalla terra, poiché la carne è dalla terra, e dalla carne di Maria ci ha dato la carne che noi dobbiamo mangiare per la salvezza»; l’unico modo per spiegare come si possa adorare la terra senza cadere nell’empietà è dunque interpretare queste parole in relazione al corpo di Cristo, che naturalmente viene adorato non in quanto corpo, ma in quanto assunto dal Verbo: «per questo infatti la adori; perciò ha aggiunto anche qui: Adorate lo sgabello dei suoi piedi perché è santo. Chi è santo? Colui in cui onore adori lo sgabello dei suoi piedi» (Ibidem). L’interpretazione di Rustico potrebbe quindi derivare da quella agostiniana. a 

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quattro giorni. Tramite ciò che opera, dunque, dal momento che tramite questo e in questo è adorato e venerato, esaudisce quelli che lo venerano. E tutta la Chiesa, per tutto il mondo, senza alcuna opposizione, venera i chiodi con cui è stato crocifisso e il legno della venerabile croce; e non soltanto Dio e la croce sono due nature, ma anche quel santo ferro rispetto a quel venerabile legno è altra natura e altra, a sua volta, la carne stessa del Signore. E se, come tu dici, sono tre le nature della Trinità, anche queste poi hanno il proprio numero e tutte queste cose le adoriamo tutti e  mai nessun cristiano ha detto che veneriamo una quaternità o una quinarietà o una senarietà; infatti queste cose che sono separabili e diventano proprie di Dio, che anche tramite esse è venerato e adorato, ormai sono strumenti e aiuti per la nostra debolezza nell’avvicinarsi a Dio e, per quanto riguarda il loro essere, certo non perdono la proprietà della quantità, ma, per quanto riguarda la venerazione e l’adorazione e l’onore, le creature non sono contate insieme al Creatore; una cosa è infatti che quello sia venerato tramite questo e un’altra è che quel qualcosa debba essere adorato eternamente e, soprattutto, propriamente secondo natura. Eretico: Quindi tutto ciò che deve essere professato non deve essere in alcun modo anche adorato e celebrato e venerato nella santa Trinità? Rustico: Ho già detto che non è tutto allo stesso modo per tutte le cose e in tutti i modi. Ma aggiungerò anche che non professiamo o veneriamo neppure una dualità di nature nella Trinità; infatti la natura della carne, che è una, non è di tutta la Trinità, ma della sola persona di Dio il Verbo. Nella Trinità, poi, si conta insieme quello che o in modo simile o uguale appartiene alle tre persone. E se noi veneriamo una dualità, anche voi quindi venerate una Trinità composta, o composta e insieme semplice: infatti dite che sono semplici le nature o le persone del Padre e dello Spirito Santo, composta invece quella di Cristo. In più, un solo Dio è venerato nella Trinità ed è venerato un solo Cristo. Tre persone è un solo Dio, due nature sono di un solo Cristo; ma quattro nature, dal momento che non sono né Dio né Cristo, come potrebbero essere venerate dal momento che o in tre o in due non si venera altro se non una sola cosa o uno solo? Ma, per

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non allungare troppo i discorsi, dimostriamo che è una sola e non sono tre le nature della santa Trinità, ma soltanto tre persone o sussistenze. Se infatti le nature sono sia tre che una sola, e la natura e la persona sono la medesima cosa, sarà anche una sola (lungi da me!) la persona della Trinità. Se poi le nature sono sia una che tre, e la persona non è una, ma soltanto tre, Dio non sarà uno solo né secondo la natura o la sostanza, né secondo la persona o la sussistenzaa. Secondo che cosa dunque la Trinità è un solo Dio? Eretico: Noi parliamo di tre sostanze o nature della Trinità nel senso che, tuttavia, sia salva la loro consustanzialità; e dunque sono una sola sostanza e natura e tre sostanze e nature; e un solo Dio è glorificato non secondo tre sostanze e nature, ma secondo una sola sostanza e naturab.

Già Giovanni Massenzio ai tempi della controversia dei monaci sciti aveva tratto questa conseguenza dal principio che non c’è natura senza persona, accusando per questo i monofisiti di ricadere nell’arianesimo: «Se quindi non c’è natura senza persona e non c’è persona senza natura, sono dunque tre le nature della divinità, non una sola, perché senza dubbio ci sono tre sussistenze o persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Ma quelli che dicono questo sono da ricollegare certamente agli Ariani e ci si deve guardare da loro con pari prudenza» (Responsio Contra Acephalos 3, 5). b  Per questa proposizione Rustico, nelle righe immediatamente successive, accusa il suo interlocutore di professare tre dèi, ricadendo nel politeismo. In realtà egli non intende professare tre dèi, dal momento che questa posizione sarebbe incompatibile con il cristianesimo stesso; parlando di tre nature individuali, però, egli accentua la distinzione fra Padre, Figlio e Spirito santo, anche se ammette l’esistenza di una comune natura divina per cui esse sono nondimeno cosustanziali. Si tratta di un chiaro riferimento alla questione triteita che era dibattuta in quegli anni: intorno al 560–564, infatti, il patriarca Teodosio di Alessandria, che all’epoca si trovava in esilio a Costantinopoli ed era considerato il capo del movimento monofisita, scrisse un trattato nel quale confutava il triteismo di un monaco monofisita di origine siriaca, Giovanni, soprannominato Ascotzanghes; il movimento comunque sopravvisse alla condanna ed alla morte dell’iniziatore e si diffuse fra i monofisiti determinando contrasti e divisioni, che emersero particolarmente al colloquio di Callinico del 567. È certamente possibile che Rustico sia venuto a conoscenza della predicazione di Giovanni Ascotzanghes e dei suoi seguaci. Sul triteismo nell’opera di Rustico cf. Lang, ‘Christological Themes in Rusticus Diaconus’, p.  433–434 e Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p.  86–93. Per i presupposti filosofici del triteismo cf. 1223A–B e nota. a 

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Rustico: Quindi, secondo te, c’è sia un solo Dio sia tre dèi. Se infatti a causa dell’unica sostanza e natura è uno, a causa delle tre sostanze o nature, secondo te, sono tre dèi. Ma anche a maggior ragione saranno tre piuttosto che un solo Dio e davvero in senso proprio (lungi da noi!) saranno tre dèi, mentre, secondo l’errore dei pagani, la Trinità sarà un solo Dio impropriamente; infatti tutti i Padri e i dottori scrissero che c’è un solo Dio perché una e una sola è la sua sostanza o natura. Se dunque è una sola soltanto la sostanza e la natura della Trinità, ma sono tre non soltanto le persone ma anche le nature e sostanze, tanto più, esistendo tre interi divisi e nessuno comune, saranno anche tre dèi. Eretico: Tre sono le nature della Trinità solo per dimostrare che ciascuna persona ha dall’eternità la propria natura, che non è comune ad un’altra; e questo sarà dimostrato chiaramente se lo si dimostrerà anche di una sola persona di esse. Se infatti sono tre uguali e simili in tutto, qualunque cosa abbia una persona la avrà anche l’altra. Se dunque dimostreremo che ciascuna di esse ha la propria natura in modo che non sia comune a nessun’altra, allo stesso modo sarete colti in errore anche sulle altre, senza alcuna contestazione. Ma i Padri affermano che la natura è propria di Dio il Verbo, dicendo: «Professiamo una sola natura incarnata di Dio il Verbo»a. Se dunque crediamo piuttosto che quell’unica natura sia comune, se si è incarnata quella comune a tutta la Trinità necessariamente si introdurrà che la Trinità si è incarnata; che poi questo sia empio, anzi contrario alle Sacre Scritture e alla dottrina dei Padri, è chiaro, perché l’unica natura che si è incarnata è solo quella del Figlio. Le parole dei Padri prima citate neppure voi le potete rifiutare: Flaviano, infatti, che fu un tempo vescovo di CoFlaviano di Costantinopoli era un personaggio che non poteva suscitare sospetti nei sostenitori di una cristologia difisita: egli aveva infatti presieduto il processo che aveva portato alla condanna di Eutiche (cf. 1202B e nota), ruolo per il quale fu condannato nel concilio di Efeso del 449 ed esiliato, ed era stato inoltre il destinatario del Tomus di Leone Magno (cf. 1247D e nota). In effetti ammise la liceità di parlare di una sola natura incarnata del Verbo in un testo riportato anche negli atti del concilio di Calcedonia: «E non ricusiamo di dire che una sola è la natura incarnata e inumanata di Dio il Verbo, per il fatto che il Signore Gesù Cristo è uno solo e il medesimo da due» (Ep. confessionis fidei ad Theodosium imp. aug.; ACO 2, 1, 1, p. 35, 20–22). a 

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stantinopoli e che accogliete, lo ha scritto in quella lettera sulla propria fede che ha indirizzato all’imperatore Teodosio e che fu accolta anche al concilio di Calcedonia. Rustico: Non è affatto necessario che quelli che professano una sola natura incarnata di Dio il Verbo, se questo si dice della natura comune della santa Trinità, introducano l’inumanazione della santa Trinità, soprattutto quando per spiegare la loro affermazione aggiungono significativamente il nome di Dio il Verbo. Infatti, quando i Padri dicono che Dio il Verbo si è incarnato e inumanato, anche se predicano il nome comune di Dio indifferentemente per le tre persone, tuttavia non per questo ne consegue che essi dicano che si sia incarnata la Trinità, sebbene Padre e Figlio e Spirito Santo siano un solo Dio e benché per questo si dica che colui che si è incarnato è Dio e un solo Dio, e solo Dio, e Dio il Verbo; dunque, benché sia comune a ciascuna persona essere Dio o essere un solo Dio, non ne consegue tuttavia che, quando professiamo Dio incarnato o la Vergine Madre di Dio, noi diciamo (lungi da noi!) che la Trinità si è incarnata, ma lo ha fatto una sola fra quelle persone, cioè fra le persone di quella Trinità che è Dio; così, quando diciamo che una sola natura di Dio il Verbo si è incarnata, non ne consegue che diciamo che la Trinità stessa si è incarnata con la propria natura, ma piuttosto che si è incarnata una sola di quelle persone che dobbiamo professare che sono in quella natura. E come non diciamo ‘tre dèi’ per una qualche cautela, perché non sembri che diciamo che la Trinità si è incarnata, dal momento che diciamo che Dio si è incarnato, così non diciamo neppure per una qualche cautela che ci sono tre nature nella Trinità, perché non sembri forse che, dicendo che una sola è la natura incarnata di Dio il Verbo, diciamo che la Trinità si è incarnata. Se infatti si dice che Dio si è incarnato e, viceversa, che non si è incarnato, quando la prima cosa si dice del Figlio, la seconda invece del Padre e dello Spirito Santo, e non si separa né si divide né si distingue l’unico Dio in due dèi, che cosa ne consegue di incongruo, se del medesimo Dio, cioè della natura una e medesima, diciamo che si è incarnata nel Figlio e non si è incarnata nel Padre e nello Spirito Santo? Anche voi, infatti, in quanto dite che qualsivoglia natura o sostanza è comune, non potrete rifiutare questa conse-

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guenza: infatti non potrete negare neppure che quella sostanza si sia incarnata nel Figlio né affermare che si sia inumanata nel Padre e nello Spirito Santo. Ci sarà dunque una sola e medesima e semplice sostanza, sia incarnata, come quella del Figlio, che non incarnata, come quella del Padre e dello Spirito Santo. Perciò non è necessario che la natura sia propria del Figlio perché si parla di una sola natura incarnata del Verbo; anzi, anche se ne avesse una non comune, la stessa cosa potrebbe essere detta del tutto giustamente su quella natura comune. Dunque non per questo è stato dimostrato che la natura è propria del solo Figlio, e quindi neanche di qualunque altra persona della Trinità. Inoltre, abbiamo dimostrato che siete voi piuttosto che introducete una quaternità, voi che non potete negare il cosiddetto secondo concilio di Efeso, poiché non volete condannare Dioscoroa. Egli infatti con tutto quel nefasto concilio ha approvato quell’espressione dell’eretico Eutiche che fra quei documenti dichiarava: «Professo che c’erano due nature prima dell’unione, dopo l’unione invece professo una sola natura»b. Se dunque prima dell’inumanazione c’erano due nature, cioè una del Padre, un’altra dello Spirito Santo (altrimenti infatti non avrebbero potuto esserci tre nature), e c’erano allora anche due nature di Cristo prima dell’unione, voi, secondo i vostri ragionamenti, introducete quattro nature che erano prima dell’unione, anche se non fino ad ora; e introducete l’idea che da una quaternità preesistente sia stata fatta poi la santa Trinitàc. Inoltre, Il patriarca alessandrino Dioscoro, successore di Cirillo, fu artefice della riabilitazione di Eutiche al secondo concilio di Efeso, nel 449, e per questo fu condannato al concilio di Calcedonia. Il secco richiamo dell’eretico riporta però immediatamente la discussione sulle questioni più strettamente dottrinali e l’annunciata sezione sulla discussione sui Tre Capitoli, come si è detto nell’introduzione, non si trova nel Contra Acephalos quale noi lo conosciamo. b  Cf. ACO 2, 1, 1, 143, 10–11. c  La formula eutichiana delle due nature prima dell’unione è dunque probabilmente alla base della convinzione di Rustico che alcune posizioni dei monofisiti siano assimilabili alla dottrina origeniana della preesistenza delle anime (cf. 1188B–1190A e note); secondo Rustico, i monofisiti, infatti, parlando di Cristo ‘da due nature’ e lasciando quindi pensare ad una preesistenza di queste due nature prima dell’unione, si esprimevano in modo analogo ad Origene, che aveva parlato della preesistenza delle anime. Il legame fra le due dottrine non sembra però così profondo ed evidente da giustificare le accuse di Rustico; del resto egli stesso non a 

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Contro gli Acefali

poiché sostenete che queste nature preesistenti all’unione, come dite, rimangono fino ad ora, siete piuttosto voi che venerate veramente in modo empio una quaternità, come rimproverate a noi, perché voi stessi non potete negare ciò che consegue da quanto sostenetea. Se poi non ci sono fino ad oggi due nature distinte, a un certo momento la vostra quaternità avrà cessato di essere; e noi certo abbiamo dimostrato che non ci sono tre nature della Trinità nasconde che i monofisiti, almeno per la maggior parte, condannano la dottrina di Origene; è evidentemente Rustico stesso a vedere nelle due eresie degli elementi di contatto, al fine di screditare ulteriormente gli avversari. In effetti, procedimenti di questo genere si trovano in tutta la letteratura polemica antiereticale; uno dei procedimenti più efficaci per confutare dei nuovi eretici consisteva infatti nell’accusarli di professare, in qualche modo, dottrine riconducibili ad errori già condannati dalla Chiesa, con il risultato di metterli immediatamente in cattiva luce. In effetti la stessa operazione fu portata avanti anche del secondo concilio di Costantinopoli: nei quindici anatematismi (ACO 4, 1, 248–249; cf. Perrone, La Chiesa di Palestina, p. 215–218) con i quali il concilio condannò l’origenismo i temi cristologici hanno un peso considerevole, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare se si considera che l’aspetto caratterizzante dell’origenismo non era certo la cristologia. Evidentemente il concilio intendeva in questo modo collegare anche sul piano dottrinale la condanna dell’origenismo con la questione dei Tre Capitoli, leggendo quindi la crisi origenista alla luce delle ben più gravi ed estese controversie cristologiche. In particolare questi quindici capitoli accusano gli origenisti palestinesi di introdurre una netta distinzione fra il Logos e Cristo, che poteva apparire in qualche modo vicina alla cristologia difisita di tipo antiocheno, anche se naturalmente una lettura di questo tipo presuppone molte forzature: secondo questa distinzione, il Logos sarebbe Dio, mentre Cristo sarebbe identificato con l’intelletto preesistente, rimasto legato al Logos dopo la caduta degli altri intelletti (anatematismo 8). Secondo Perrone l’istituzione di questo nesso non è del tutto ingiustificata ed è attestata nelle fonti contemporanee anche prima del concilio di Costantinopoli; in particolare egli osserva che agli origenisti veniva mossa l’accusa di negare la formula teopaschita (cf. Cirillo di Scitopoli, Vita Cyriaci 230, 3–4: «Dicono che Cristo non è uno della Trinità», citato in Perrone, La Chiesa di Palestina, p.  193); si deve notare che il problema era anche di natura terminologica: intendendo Cristo come l’intelletto preesistente era evidentemente difficile considerarlo «uno della Trinità» (cf. Perrone, La Chiesa di Palestina, p. 216–217). Dunque da parte di Rustico l’inserimento di questa condanna dell’origenismo denota la disponibilità ad allinearsi almeno in questo alla politica imperiale e alle conclusioni del concilio del 553. a  Rustico cerca di dimostrare che la dottrina origeniana della preesistenza porta a professare due nature prima dell’unione, cioè una cristologia divisiva con gravi ripercussioni sul piano trinitario; egli usa quindi questo elemento per ritorcere contro i monofisiti, paradossalmente, le accuse di dividere Cristo e di venerare una quaternità che essi rivolgevano abitualmente ai calcedonesi.

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né, se ci fossero, ne conseguirebbe che noi crediamo in una quaternità. Voi invece, che adducete questo come una conseguenza, sarete vinti dalla vostra follia; e se questa vi dispiace, allora prima di tutto anatematizzate Dioscoro. Eretico: Noi per ora non dibattiamo sulle singole persone, ma discutiamo in modo generale della fede. Questo affare lo riserveremo però al tempo in cui disputeremo su Diodoro e Teodoro e Ibas e Teodoreto, mescolando il dibattito sulle persone alla questione sulla fedea. Dunque, anche se parliamo di tre nature nella santissima Trinità sulla base della distinzione delle persone, professiamo tuttavia una sola sostanza comune, secondo la quale diciamo che la Trinità è consustanziale, e non accettiamo di sentire ‘quaternità’. Rustico: Ma questa sostanza comune, che è comune alle sole tre persone, è chiamata senza distinzione dai Padri anche natura e in questo caso, in quanto propria a ciascuna persona, non ce n’è altra tranne questa; o, se confrontata soltanto alla natura delle creature, si dice che è propria di ciascuna persona, come quando diciamo, come i santi Padri, che Dio il Verbo, Figlio di Dio, non ha sofferto nella propria natura. Inoltre, se la natura è la medesima cosa che la sostanza, introducete quattro nature e quattro sostanze; se poi è un’altra cosa, come appare sia dal concetto che dal nome, quanto più differisce, tanto più, contata insieme al numero delle persone, sovrabbonda fino a raggiungere il quattro (a meno che tu non ceda forse alle nostre argomentazioni), perché potrebbe essere una quaternità solo quando questa natura della carne non fosse soltanto sostanza, ma anche persona. Ora invece, quella che, all’esame della mente, è diversa in quanto non è anche persona, non è contata insieme a quella Trinità che è delimitata da un ragionamento simile, poiché nella Trinità le persone sono tre, ma questa non è persona, bensì soltanto natura o sostanza. Eretico: Ma questa natura della Trinità è in quelle tre nature e quindi, anche se ce n’è un’altra oltre ad esse, tuttavia non può essea  Questa annunciata sezione in realtà non è presente nel Contra Acephalos quale è giunto fino a noi; per questo l’opera è da considerare mutila o incompiuta; cf. Rustici diaconi Contra Acephalos – ed. S. Petri (CC SL, 100), Turnhout, 2013, p. xi–xiii.

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re contata insieme a tutte quelle singolarmente, poiché, esistendo in esse e avendo queste in se stessa, non è altro che quelle; la Trinità infatti è unità e l’unità è Trinità. Rustico: Come potete dire quindi che ci sono due nature del Figlio di Dio prima dell’unione, se la natura comune è contata insieme a quella propria del Figlio? Quale altra natura in ogni modo ha il Signore prima dell’inumanazione, se non questa che è prima dei secoli, cioè la sua essenza? Eretico: Sulla divinità di Cristo e sulla carne diciamo questo, ma dico ‘due prima dell’unione’ non in quanto congiungo a Dio la natura comune degli uomini; infatti, se così fosse, come potrebbero non essere due anche ora, dal momento che, nondimeno, ciascuno degli uomini è evidentemente soltanto uomo con la sola eccezione di colui che si è incarnato? E neppure si può intendere che prima ci sia stata la carne pura e semplice e dopo la carne si sia unita al Verbo: chi lo dice infatti è eretico. Ma poiché, concependo preliminarmente due nature nell’intelletto e applicando poi l’unione, diciamo immediatamente che si fanno una sola, le nostre parole (cioè ‘prima dell’unione’ o ‘dopo l’unione’), quindi, non significano una distinzione di tempo, ma un ordine logico, per il fatto che non possiamo raggiungere la comprensione di queste cose allo stesso modo, e ciò che è semplice, in ordine logico, viene prima di ciò che è compostoa. E infatti è possibile che uno sia l’ordine della natura delle cose e un altro l’ordine logico, come nel discorso le lettere, benché siano precedenti per natura, tuttavia sono state elaborate molto dopo. Rustico: Se questo ragionamento logico secondo il quale voi dite che si intendono due nature fino ad ora è vero, nel senso che avrebbe un corrispettivo nella realtà, quelle che contempliamo con il vero intelletto sono dunque veramente due nature; ma, se è sempre falso, non dovete professare due nature nemmeno prima dell’unione. Se In questo modo l’avversario di Rustico si oppone all’accostamento della sua posizione cristologica alla dottrina origeniana della preesistenza delle anime: la preesistenza delle due nature viene infatti intesa dai monofisiti in senso logico e non cronologico; Rustico però non sembra persuaso e ribatte in 1233B che livello logico e ontologico devono coincidere perché una proposizione sia vera. a 

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un tempo, poi, prima dell’unione, erano vere, ma ora per il resto sono false, la carne del Signore esisteva dunque prima dell’unione: lungi da noi! E se si crede che essa sia stata anche animata dall’anima razionale, è preesistito dunque secondo voi un semplice uomo e in seguito è stato unito al Verbo: quindi bestemmiate che esiste un solo Cristo da due persone, da due cristi, da due figli, da due signori. Ma queste affermazioni devono essere assolutamente respinte: infatti da persone preesistenti di per sé non può realizzarsi un’unione secondo la sussistenza. Se poi in qualche momento esistettero due nature anche dopo l’inumanazione, di quale altra unione potreste parlare, quindi, fatta la quale non siano ormai due? Ma anche tutte le accuse che ci muovete, cioè che diciamo che fino ad ora ci sono due nature, rivolgetele contro voi stessi; infatti voi dite che fino ad allora sono esistite le medesime nature che noi diciamo che permangono per sempre. Eretico: Ritengo che alcuni dei nostri dicano meglio, poiché non è preesistita all’unione l’umanità individuale di Cristo, ma la comune natura umana dalla quale è quella carne. Rustico: Ma questo discorso vi conduce ad altre conclusioni assurde. Neppure dopo l’unione, infatti, la nostra natura comune è stata fatta un solo qualcosa con Dio tramite l’unione, ma lo è stata fatta quella individuale che è stata assuntaa; infatti i Padri non dicono questo della prima, ma della seconda, e non è possibile che una natura comune costituisca mai una persona di per se stessa. Inoltre, la natura comune non sussiste neppure in se stessa, ma soltanto dalla comprensione degli esseri razionali che si realizza a partire dagli individui di ciò da cui ricevette anche l’essere, come anche quelli che presso i sapienti del secolo sono detti essere generi o specie di tutteb; se infatti l’anima esistesse sì, ma tuttavia non fosse razionale, non ci sarebbe una natura comune delle creature, Per il modo in cui si deve intendere questo concetto cf. 1222D–1223A e nota. Secondo Rustico generi e specie non esistono nella realtà come le sostanze individuali, ma hanno origine dalla capacità dell’intelletto umano di operare collegamenti e distinzioni, fino ad arrivare a concepire, per astrazione, dei concetti universali a partire dall’esperienza di molteplici realtà individuali; si ricorderà (cf. 1223A–B e nota) che anche il suo avversario negava l’esistenza degli universali, ma li considerava frutto più della facoltà immaginativa che dell’intelletto, con una posizione molto più radicale. a 

b 

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sia che si voglia definire genere che specie. Ma, nondimeno, colui che dice ‘due’ prima dell’unione, ma non più dopo l’unione, ma piuttosto ‘una sola’, vuole che si compia un solo qualcosa, in modo del tutto indipendente dalle stesse realtà che erano due, altrimenti quello che si dice non avrebbe più luogo. Ma ora non dite che la natura comune a tutti gli uomini si è fatta una sola con la natura del Verbo, perché non sembri forse che tutti gli uomini, nella natura comune, coincidano con Cristo o perché non sembri che si sia incarnata tutta la Trinità, lungi da noi! Ma un solo qualcosa di individuale (cioè una e una sola carne e una e una sola anima) si è unito a Dio il Verbo in una sola persona e in una e una sola sussistenza. Eretico: Ma prima si devono intendere due nature unite e subito dopo si deve applicare l’unione; e perciò non si deve dire che Cristo è in due, ma da due nature. Rustico: Quindi, secondo te, l’unione di due nature unite è la loro distruzione. Eretico: L’unione non è la distruzione delle nature, ma della dualità, così che ormai due non sono due, ma un solo qualcosa, secondo l’unione. Rustico: Se, come dici, è stata distrutta la dualità, allora prima della distruzione e prima dell’unione c’era; e inoltre, se vorrò fare le medesime conclusionia sulla dualità e sulle due nature stesse, ne conseguiranno gli assurdi prima citati: niente infatti si distrugge, se non quello che prima c’era. Perciò, se la dualità è stata distrutta, c’era, e riemergono tutte quelle conseguenze assurde prima indicate. Eretico: Prima, l’unione ha impedito alla dualità di esistere; e su questo dico ‘distrusse’ in potenza, non in atto; infatti non era ancora perfettamente una dualità. Rustico: Quindi non ha distrutto qualcosa di esistente, ma di ancora futuro. Di’ quindi che cosa di imperfetto di ciascuna natura ha fatto sì che non fosse una dualità. Io infatti sospetto che voi non parliate di una diminuzione della natura divina e di a  Come termine tecnico del linguaggio filosofico, complexio è usato per indicare la conclusione di un sillogismo da Cicerone e Quintiliano. In questo senso è usato nel Contra Acephalos solo qui; altrove Rustico usa, nello stesso senso, conclusio (1195D), anch’esso usato già da Quintiliano (cf. Conso, ‘Remarques sur la terminologie du «Liber Peri Hermeneias»’, Latomus 60, 4 (2001) p. 949–950).

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Disputa, 1234A–1235A

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un progresso inestimabile ed ineffabile di quella umana; in che modo quindi, ora, è stata diminuita la dualità, dal momento che c’è un’aggiunta? In che modo è stata preclusa la quantità delle sostanze, dal momento che non si è verificata alcuna perdita nelle sostanze? Se poi, come dici, le cose ambigue si contano insieme, in che modo le due nature del Figlio, in potenza, contate insieme alle due in atto (cioè quella del Padre e quella dello Spirito Santo), non saranno quattro? Se poi la divinità e l’umanità di Cristo non sono mai state due nature, come si può dire che è ‘da due nature’ colui che, secondo la professione di fede, deriva da esse? Eretico: Ebbene, dimmi, forse il Signore non ha tutto ciò che è delle due persone perfette? Dunque come l’unione ha impedito che ci fosse una dualità delle persone, così anche delle sostanze. Rustico: Ma la nostra natura in Cristo non è anche persona: infatti non ha il suo essere in se stessa e secondo se stessa separatamente, ma sussiste nel Verbo; e perciò non si dice ‘da due persone’ come ‘da due nature’ e neppure si dice che il Verbo ha unito a se stesso la persona dell’uomo; ma sia quelli riunitisi a Efeso sia gli altri santi Padri insegnano che ha unito a se stesso la natura umana, e tutto questo lo abbiamo dimostrato a sufficienza primaa. Eretico: Non neghiamo che ci siano due natureb, ma neppure che sia una sola a causa dell’unione: la prima formulazione infatti L’argomento è in effetti ricorrente nell’opera; cf. 1188C, 1192D e 1196D. L’avversario di Rustico quindi riconosce la presenza di due nature di Cristo, ma, come precisa immediatamente, ritiene che la distinzione sia solo a livello intellettuale; la stessa posizione era stata espressa anche da Cirillo di Alessandria, soprattutto negli scritti posteriori all’accordo del 433, mentre negli anatematismi egli sembrava rifiutare qualunque tipo di distinzione delle nature; nella lettera ad Eulogio, ad esempio, Cirillo scrisse che Nestorio non era stato condannato per aver parlato di due nature, dato che evidentemente una è la natura della divinità e un’altra la naura dell’umanità, ma il suo errore consisteva piuttosto nel suo rifiuto dell’unione (ep. 44 Ad Eulogium, ACO 1, 1, 4, p. 35, 10–13; cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 869–870). Questo passo sembra far pensare che la distanza fra difisiti e monofisiti non fosse così profonda, dal momento che Rustico non può negare che la formula mia physis sia stata usata anche da autori sicuramente ortodossi (cf. 1230C–D e nota) e che il suo interlocutore si dichiari qui disposto a distinguere le due nature di Cristo; in realtà però nelle righe successive (1235C–D) l’avversario di Rustico sostiene che non si deve parlare di due nature dopo l’unione, come aveva sostenuto Eutiche durante il suo processo (cf. 1202B e nota). a 

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riguarda la natura, mentre la seconda riguarda l’unione. Perciò sono due a livello logico, non nella realtà. Rustico: Se questo ragionamento logico è vero, sono due nature anche riguardo alla realtà stessa; se poi dici che non è vero, ecco che hai negato che sono due le nature. Eretico: Che differenza c’è dunque fra chi adduce delle empietà e chi invece dottrine pie riguardo alla presenza di due nature? Infatti se ci sono due nature (per esempio un qualunque uomo in quanto tale e Dio Padre), che differenza c’è fra dire ‘due nature’ in questo modo o in un altro, dal momento che, come noi parliamo del semplice Dio e del nudo uomo, così voi parlate di Cristo, dicendo ‘due nature’? Rustico: Ci sono molte dottrine che in un primo momento sembriamo professare insieme agli empi, ma che con un’aggiunta diventano precise e, se anche sono sospette di per sé, non sono tuttavia ancora empie, né tali, poi, al contrario, da non poter essere criticate in tutto. Dice quindi Apollinare ‘un solo Cristo, un solo Figlio, una sola persona e una sola sussistenza di lui’; e anche Nestorio dice ‘due nature’. E queste formulazioni non spiegano ancora quali essi siano, ma nello sviluppo dei discorsi riconosciamo chi sono. Infatti Apollinare dice che è uno solo come se fosse mutevole nella divinità e imperfetto nell’umanitàa, Nestorio, d’altra parte, lo dice congiungendo male le due, l’umanità e la divinità (per l’uso di termini equivocib, infatti, o Ad Apollinare di Laodicea si attribuiva la negazione della presenza di un’anima umana (o almeno dell’anima razionale) in Cristo, per cui egli non sarebbe stato un uomo perfetto; egli riteneva infatti che in Cristo ci fosse un solo principio vitale e spirituale, cioè la natura divina, mentre il corpo sarebbe stato solo uno strumento del Logos (cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 1, p. 614–620); sull’accusa di intendere l’incarnazione come una trasformazione del Verbo in carne cf. 1215B e nota. Sui rapporti fra apollinarismo e monofisismo cf. 1226C–D e nota. b  Come si è ripetuto spesso nel Contra Acephalos, equivoci sono quei termini che si riferiscono a realtà diverse (cf. 1224A e 1228A); qui Rustico si riferisce molto probabilmente all’osservazione di Nestorio che il titolo di ‘cristo’ nella Scrittura è in realtà attribuito a molti personaggi (si veda il passo riportato in 1216C–D). Il tema però non è molto sviluppato nel trattato di Rustico, a differenza di quanto avviene in altre opere coeve. Il problema del nome di Cristo è piuttosto importante in senso antinestoriano, ad esempio, in Boezio; egli infatti a 

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Disputa, 1235A–1235C

per l’autorità, per un accostamento, per l’aspetto), e poi anche dividendo e separando in modo errato le nature in due sostanze e due persone e figli e due signori. Quindi, quando diciamo ‘due nature’, se non precede né segue niente che basti a indicare l’unione, il vostro sospetto sarà giustificato; se invece, sia prima di dire ‘due nature’ sia dopo, noi diciamo che una sola è la persona delle due nature, una sola sussistenza inseparabilmente, senza divisione, senza mutamentoa, quale sospetto rimane oltre a chi desidera calunniare?

in Contra Eutychen 4 rimprovera a Nestorio di professare una dottrina che implica l’equivocità del nome di Cristo: «Se infatti la sostanza di Dio e la sostanza dell’uomo sono diverse e solo il nome di Cristo si applica ad entrambe e non si crede che la congiunzione di diverse sostanze abbia costituito una sola persona, il nome di Cristo è equivoco e non può essere compreso in nessuna definizione». Boezio quindi sostiene che Cristo è una sola persona e proprio per questo il suo nome non è equivoco; Nestorio, invece, lo applica indifferentemente alla divinità e all’umanità senza sostenere l’unità di persona. La presenza di un solo nome implica però che ci sia una sola realtà: «Ma se l’umanità si è congiunta alla divinità in questo modo, da queste due cose non si è formato niente e di conseguenza Cristo è niente. Il nome stesso, invece, per l’uso di un solo vocabolo, indica che è un solo qualcosa» (Contra Eutychen 4). La strettissima corrispondenza fra persona e nomen era già presente nella tradizione retorica classica; cf. Cicerone, De Inventione I, 24, 34: «Il nome è ciò che viene dato a ciascuna persona» (cf. Micaelli, ‘Teologia e filosofia nel Contra Eutychen et Nestorium di Boezio’, p. 178–181; Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, p. 82–83). In ambito teologico, questo principio fu spesso invocato durante la controversia ariana per difendere la piena divinità del Figlio e la sua consustanzialità con il Padre a partire dai titoli che gli vengono attribuiti nelle Scritture, ad esempio ‘Figlio di Dio’; cf. Simonetti, La crisi ariana nel IV sec., p. 300. a  Rustico allude qui alla definizione di Calcedonia, secondo la quale Cristo deve essere appunto riconosciuto come una sola persona e una sola ipostasi (cioè, secondo la terminologia di Rustico, una sola sussistenza; cf. 1119D e nota), in due nature, senza mutamento, senza divisione, senza separazione (cf. ACO 2, 2, p. 129, 30–33). È interessante notare che nella definizione del concilio di Calcedonia la retta fede è presentata come il giusto mezzo fra le opposte eresie di Eutiche e Nestorio (cf. ACO 2, 2, p. 129, 6–16), mentre qui Rustico preferisce contrapporre Nestorio ad Apollinare; si è già parlato dei legami fra Apollinare e la dottrina monofisita (cf. 1226C–D e nota); l’autore evidentemente qui evita di criticare i suoi diretti avversari, visto che sta cercando di convincere il suo interlocutore ad ammettere la correttezza della definizione calcedonese, incoraggiato dal fatto che egli ha appena ammesso che si può parlare di due nature di Cristo.

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Eretico: Critico questo, perché parlate di due nature dopo l’unione, non di un’unione dopo le due nature, mentre dovreste prima professare due nature, poi invece l’unione e una sola natura per il resto. Certo, ‘da due’ significa che l’unione è dopo queste; ‘in due’, invece, significa che sono due dopo l’unione. Rustico: Se anche si devono professare due nature e si deve eliminare l’unione, non vedo perché non si possa dire giustamente ‘da due’ e ‘in due’: se infatti approvi ciò che è stato detto fino a questo punto, allora dite non ‘un solo Cristo in due nature’, ma ‘in due nature un solo Cristo’, così che, nominando prima Cristo, non lo ripartiate in due nature dopo queste cose, come dite, ma, dicendo prima ‘due nature’, nominiate allora il Cristo uno; e poi fate attenzione analogamente anche a non dire ‘un solo Cristo da due nature’, ma a dire piuttosto ‘da due nature un solo Cristo’. Ma la Chiesa di Cristo non ha mai ascoltato sciocchezze simili. E infatti la divinità del Figlio è infinitamente preesistita, ma talvolta è nominata dopo la carne, senza che la verità delle parole subisca alcun danno dall’ordine, soprattutto qui, dove ci sono, insieme, le due nature e l’unione. Infatti, nel santo concilio di Efeso, fra le altre testimonianze (o meglio, prima delle altre), si trova quella del santo Pietro, che suona così: «A partire da quando anche l’evangelista dice veracemente: Il Verbo si è fatto carne e ha abitato in noi (Ioh. 1, 14)? Certo, dal momento in cui l’angelo ha detto salutando la Vergine: Ave, piena di grazia, il Signore è con te (Luc. 1, 28)»a. Ecco: dal momento in cui c’è il saluto dell’angelo, da allora è celebrata l’unione. Ma che talvolta sia nominata prima la carne e dopo la divinità lo dimostra, da questo punto, il passo del santissimo Gregorio, che dice così: «Perché non ingannino gli uomini e non siano ingannati neppure loro stessi, ritenendo a  Pietro di Alessandria, Liber de deitate frg. 2, in ACO 1, 1, 2, p.  39, 15–17; trad Rustico in ACO 1, 3, p. 68. Pietro I di Alessandria, vescovo dal 300 ca., dopo aver diretto la scuola catechetica della città, subì il martirio nel 311 ca.; delle sue opere, alcune delle quali erano dedicate alla confutazione della dottrina di Origene sulla preesistenza delle anime, ci sono giunti solo pochi frammenti (cf. M. Simonetti in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, ed. A. Di Berardino, Casale Monferrato, 1983, col. 2782). È in effetti il primo autore ad essere citato nel florilegio riportato negli atti di Efeso, ma questa è la seconda testimonianza.

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privo di anima razionale l’uomo del Signore, anzi piuttosto il nostro Signore e Dio; e infatti noi non separiamo l’uomo dalla divinità»a. Ecco, all’inizio del discorso si nomina chiaramente prima l’uomo e poi il Signore e Dio e infine l’uomo e la divinità. E poco dopo si trova ancora: «Passibile nella carne, impassibile nella divinità; circoscritto nel corpo, non circoscritto nello spirito; il medesimo terreno e celeste, visibile e intelligibile, comprensibile e incomprensibile, così che l’uomo intero, che era caduto sotto il peccato, sia riformato nello stesso uomo intero e, il medesimo, anche Dio»b. Ecco, quante volte, cambiato l’ordine, lo ha chiamato prima passibile e poi impassibile, quindi, circoscritto e poi non circoscritto, e dopo numerose affermazioni di questo genere ha aggiunto: «nello stesso uomo intero, il medesimo anche Dio». Il concilio di Calcedonia invece, dopo aver detto ‘in due nature’ ha aggiunto: «deve essere riconosciuto senza divisione, inseparabilmente e senza mutamento»c. E non dice che ‘devono essere riconosciuti’, come due, ma che uno solo deve essere riconosciuto. E ancora: «Come il nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato e il simbolo dei Padri ci ha trasmesso»d. Se poi, come dici, è stata fatta una sola natura, allora dovevate dire non ‘da due’, ma ‘da tre’ nature, dal momento che dite che anche l’unione del Verbo con l’umanità è come quella che la carne ha con l’anima. In che cosa infatti, per vostra ammissione, l’anima è più vicina alla carne di quanto la carne lo sia alla divinità, perché il Signore sia da due e non da tre?

a  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 10–12; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 72, 1–3. b  Gregorio di Nazianzo, Ep. 101, in ACO 1, 1, 2, p. 43, 15–17; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 72, 6–11. c  Cf. ACO 2, 1, 2, p. 129, 31; la traduzione di Rustico si legge in ACO 2, 3, 2, p.  137, 31. La citazione in realtà non è del tutto precisa, perché contiene solo tre dei quattro avverbi presenti nella definizione del concilio (Rustico non traduce asynchytōs, ‘senza confusione’) e in un ordine diverso dall’originale; non sembra comunque necessario pensare ad una corruzione del testo tradito: forse Rustico stava citando a memoria questo celebre passo. d  Cf. ACO, 2, 1, 2, p. 130, 2–3; la traduzione di Rustico si legge in ACO 2, 3, 2, p. 138, 4–5.

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Eretico: Rispondeteci semplicemente: voi dite che sussistevano due nature perché attuassero un solo Cristo oppure sussisteva un solo Cristo perché sussistessero due nature? Ma due nature sono sussistite anche in altre sussistenze, prima? Se infatti c’erano due nature non perché esse sussistessero, ma perché Cristo fosse, ora però non continuano ad esserci due nature, ma soltanto quello a causa del quale sussistettero e furono unite le due nature. Dunque deve essere professato un solo Cristo, non due nature. Rustico: Incredibile follia ritenere che sia per questo che le nature non sussistono, cioè per il fatto che sussistettero per concorrere in Cristo! Invece niente sussistette più necessariamente di queste, che sussistettero perché Cristo esistesse, e si deve dire piuttosto che sussistono unite quelle cose che erano venute ad essere perché fossero unite. Anzi, piuttosto, la divinità non esistette nemmeno per essere unita, infatti è dall’eternità, ma è l’umanità quella che è stata subito unita appena ha cominciato ad esistere; quindi, secondo te, l’umanità di Cristo ormai non è quella che venne ad esistere per essere unita. Perciò è chiaro che esistono due nature unite. Chi dunque, se non un folle, ormai potrebbe dire che le cose che esistettero a causa di qualcosa o non ci sono più esse stesse o non sono di quel numero, ma c’è quella sola cosa a causa della quale sono sussistite? L’unione infatti non ha distrutto niente di entrambe, benché ne abbia esaltata immensamente una sola, e questo mentre sono entrambe perfettissime secondo la definizione della propria natura. Ma è come se uno dicesse che queste lettere sono state fatte perché ci fosse questo discorso e perciò ora non ci sono queste lettere, ma solo questo discorso! Ma che cosa ci sarà di più folle di questo? Eretico: Qualunque cosa tu voglia dire, per tornare al nostro proposito, noi non possiamo introdurre una quadruplicità e venerare una quaternità. Rustico: Ma anzi, ho dimostrato inconfutabilmente che in base ai vostri ragionamenti siete voi a sostenere che ci sia stata una quaternità e davvero non ti avrei dovuto dare risposta, quando parlavi a questo proposito in modo assurdo. Ma, perché quelli che sono pazzi come te non dicano: “Non siamo stati soddisfatti in tutto”, aggiungerò anche altro, dato che dite che sono tre le nature della santa Trinità. Se non si differenziano proprio in niente,

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Disputa, 1236C–1238A

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come sapete che esse sono tre, se respingete che siano due quelle della divinità e dell’umanità, che sono tanto distanti? Noi infatti professiamo che ci sono tre sostanze perché ciascuna si distingue in base alle proprietà, non in quanto è qualcosa secondo natura, ma in quanto è in qualche modo secondo la sua qualità. Infatti il Padre ha generato e non è stato generato e non è da qualcos’altro come gli altri sono da lui; il Figlio invece è stato generato e non ha generato niente di coeterno; e lo Spirito Santo procede dal Padre e niente di coeterno procede o è stato generato da lui. Ma alcuni degli antichi aggiunsero alle proprietà anche che, come lo Spirito non ha generato dall’eternità il Figlio con il Padre, così lo Spirito non procede dal Figlio eternamente come dal Padre; io da parte mia professo che lo Spirito non ha generato il Figlio dall’eternità (non diciamo infatti che ci sono due Padri); se poi proceda dal Figlio eternamente non mi è ancora perfettamente chiaro; ma poiché questo aspetto non tocca affatto ciò che ora si ricerca, si deve sì segnalare, ma non è necessario trattarlo. Eretico: Anche io ora, per il momento, non ritengo utile parlarne, ma risponderò brevemente alla tua obiezione contro di noi; anzi, ti farò piuttosto rispondere da te stesso. Noi diciamo che, per le stesse differenze in base alle quali voi dite che ci sono e che si crede che ci siano tre persone, ci sono e si crede che ci siano tre nature. Rustico: Ma le nature di Cristo, che non volete che siano due, differiscono molto più che le tre persone, che volete che siano anche tre nature. Eretico: Perché dunque non sono quattro anche le persone, se possono essere proprio due secondo voi le persone del Figlio? Rustico: Perché l’umanità del Signore Cristo non è una persona, benché differisca per definizione, ma per quanto riguarda Dio il Verbo è solo natura: infatti quella carne non è ‘sua di lui’, come qualcuno potrebbe dire, ma di Dio il Verbo, come ho spesso detto. Eretico: Dunque l’umanità che cosa ha di meno rispetto alla persona? Qualcosa dell’anima razionale o della carne o della quantità? Rustico: Questa non è la questione che muovete contro di noi, ma quella di altri contro di noi e insieme contro di voi. Non abbiamo dunque la necessità di confutarla parlando contro di voi, soprattutto perché prima è già stato dimostrato che Dio il

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Verbo non ha unito a se stesso la nostra persona, ma la natura. Tuttavia, nel trattato Sulle definizioni, che ho scritto contro di voi e insieme contro i nestoriania, è stato dimostrato che la natura rappresenta la specie comune, come si dice di solito; la persona, invece, è il concorrere di tutto quello che descrive la sostanza razionale. La sussistenza è individuale riguardo alla proporzione, come fondamento sul quale poggia tutto ciò che la riguarda (lo stesso nome lo dimostra) e soprattutto come causa propria nella quale confluiscono tutti quelli che sono chiamati accidenti, come il colore o i costumi o l’aspetto e le disposizioni e le cose analoghe, e le proprietà stesse; distrutto infatti il primo soggetto di ciò che lo riguarda, non è possibile che ci sia più alcun individuo. Ogni cosa, poi, prende il nome dalla causa maggiore per la quale è, cioè da quello su cui poggia la totalità stessa: vale a dire, tutto l’insieme è chiamato ‘sussistenza’ dal soggetto, che è come fondamento per tutto quello che lo riguarda; ma poiché, secondo la spiegazione fornita, si parla abitualmente di sussistenze anche per gli esseri irrazionali, anzi anche insensibili ed inanimati, mentre tutte queste non sono chiamate propriamente ‘persone’ da tuttib, ho aggiunto dunque che questa sussistenza è razionale. Poiché poi alcuni vogliono a loro volta chiamare ‘sussistenze’ sia le specie che i generi delle cose che vengono chiamate ‘sostanziali’c, per questo è stato aggiunto che questa sussistenza è razionale e individuale.

a  Questo testo è perduto e le uniche informazioni che abbiamo su di esso sono quelle qui fornite da Rustico (cf. Spataro, Il diacono Rustico, p. 104–106). Si può notare che, come altri testi dedicati alla difesa del concilio di Calcedonia, anche questo era dedicato alla confutazione delle eresie di Eutiche e Nestorio; anche se il vero obiettivo polemico era infatti la dottrina monofisita, una netta presa di posizione contro Nestorio era necessaria per evitare le accuse di nestorianesimo frequentemente mosse ai calcedonesi dai loro avversari. Questa fu anche la scelta, ad esempio, del Contra Eutychen et Nestorium di Boezio. b  Cf. 1196A e nota. c  E’ probabile che Rustico stia facendo riferimento a Boezio: «Così generi e specie costituiscono soltanto delle sussistenze; infatti a generi e specie non si riferiscono accidenti» (Contra Eutychen et Nestorium 3); cf.  Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, p. 71.

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Disputa, 1238B–1239B

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Eretico: E cosa c’entra con la questione proposta? Ho chiesto, infatti, perché un uomo perfetto non abbia una persona perfetta, ed è questo che desidero sentire. Rustico: Infatti l’ho detto; ma poiché non hai capito, ascolta perché l’umanità del Signore sia natura perfetta, ma tale da non avere anche la persona di per se stessa, e perché non ci siano due persone di Cristo, ma ce ne sia una e una sola; infatti, come hai detto anche tu all’inizio del discorso, benché con un altro scopo, la causa della carne assunta è Dio il Verboa; quella natura assunta che è la forma di servo poggia su questo, per così dire, fondamento; ed è stata assunta perché il Figlio di Dio, che è Dio sempiterno, negli ultimi giorni si facesse anche uomo per la nostra salvezza. Neppure come uomo, infatti, avrebbe potuto avere origine dalla Vergine, se Dio non si fosse compiaciuto di redimerci secondo la sussistenza unita ineffabilmente a sé; è unito poi dal momento in cui ogni cosa di lui ha cominciato a sussistere in una sola persona e una sola sussistenza, come abbiamo detto molto spesso. Dunque, anche se, intesa nell’immaginazione della mente o in una speculazione sottilissima, l’umanità del Signore Cristo sembra essere anche sia sussistenza sia persona (infatti non ha niente di meno rispetto alle altre sussistenze razionali e individuali), tuttavia sembra essere questo, se pensata di per se stessa, ma non già come unita alla Parola; dunque si è costretti a ritenere che questa non sia la verità della realtà, ma un difetto della mente, come se ci fosse una dimenticanza dell’unione. Una volta che, però, la mente si sia ricordata che ciò che è umano non è come se rimanesse in se stesso, ma è stato fatto proprio, tramite l’unione, della sussistenza di Dio il Verbo, non lo può prendere per persona, perché non viene chiamata in senso proprio ‘sussistenza’ quella del cui sussistere è causa, secondo l’intelletto, un’altra realtà, ed eterna, cioè il Verbo. Rustico fa riferimento a 1171B: «Perché la causa della carne è Dio, che, volendo amministrare la nostra salvezza, prese, come volle, ciò di cui servirsi per compiere ciò che voleva»; infatti queste parole implicano che la carne non è un soggetto autonomo e dunque non può essere una persona. L’eretico aveva enunciato questo principio durante la discussione sul titolo di ‘Madre di Dio’, per cui la precisazione di Rustico che queste parole erano state dette «con un altro scopo» appare pienamente giustificata. a 

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Infatti, se l’uomo fosse sussistenza, non sarebbe stato necessario che il solo Dio il Verbo lo assumesse in se stesso e fondasse in se stesso, per così dire, ciò che è nostro, ma piuttosto che l’uomo preesistente facesse proprio Dio il Verbo e stabilisse e fondasse per se stesso ciò che è di Dio, o piuttosto che l’uno e l’altro, preesistendo, si incontrassero fra loro, e non divenisse un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore e una sola persona e sussistenza, preesistendo anche ciascuno, puro, presso di sé. Ma ora è avvenuto in modo diverso: ciò che è nostro non ha quindi persona. Eretico: Dunque, se queste cose non fossero unite, in ogni modo potrebbero esserci due persone, poiché anche Dio il Verbo non ha niente di meno rispetto alla persona (come infatti Dio Padre, così anche Dio il Verbo è una persona) e a sua volta non ha niente di meno rispetto a tutta la persona l’uomo perfetto che consta di una carne consustanziale a noi e di un’anima razionale come la nostra e che sussiste dall’unione di queste. Rustico: Anche se ogni uomo individuale è una persona, tuttavia la causa per cui è persona non è la stessa di quella per cui è uomo: perché sia uomo, infatti, la causa è il fatto di essere un animale razionale proveniente dalla terra, perché sia persona, invece, la causa è il fatto di essere sussistenza razionale individuale. Ma, come abbiamo detto, l’umanità di Cristo ha la sua effettiva sussistenza non in se stessa, ma nel Verbo; infatti è stata creata per la nostra salvezza, non per essere sua di lui separatamente, come noi, ma perché si unisse al Verbo e fosse suo proprio indumento e inestimabile strumento, come si potrebbe dire, e perché Dio fosse uomo; quella causa, dunque, è più ‘nel’ soggetto che ‘il’ soggetto. Allo stesso modo dunque, per esempio, in un semplice uomo la causa della sussistenza della carne è l’anima immortale e, una volta che questa si è staccata, la carne non rimane nella sua essenza, ma si affretta immediatamente al non esserea, perché è anzi necessario che sia del tutto distrutta, in qualunque modo si corrompa; tuttavia ora le anime degli uomini defunti sono senza corpo eppure sono persone perfette, come dice il Signore ai Sadducei: Il Dio di L’idea che sia l’anima a tenere insieme il corpo, che, senza di essa, cade subito nel disfacimento, risale ad Aristotele (De anima 1, 5, 411b). a 

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Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe non è Dio dei morti, ma dei viventi: tutti infatti vivono per lui (Luc. 20, 37–38). E non dice ‘il Dio dell’anima di questo e di quello’, ma che è Dio di quello; e non ha detto ‘non è Dio delle anime morte ma di quelle viventi’, ma ha detto semplicemente che è Dio dei viventi e che Abramo e Isacco e Giacobbe esistono perfettamente. E ha aggiunto: Tutti infatti vivono per lui; e non ha detto: ‘infatti vivono per lui le anime di tutti’. Eretico: Dice questo non perché l’anima sia persona perfetta, come se per questo solo motivo fossero integri Abramo e Isacco e Giacobbe, ma perché Dio chiama le cose che non sono come quelle che sono (Rom. 4, 17), come è scritto. Rustico: Non interrompere inopportunamente il discorso: dove, infatti, si fa menzione della risurrezione, lì necessariamente si presenta l’immortalità delle anime, non come di cose che non sono e che da Dio sono chiamate come se fossero, per il fatto che le cose che non sono ancora Dio sa in precedenza che sarannoa, ma come di cose che effettivamente sono; nessuna persona assennata infatti oserà dire che le anime muoiano insieme ai corpi, così che neppure Abramo e neppure gli altri esistano se non nella prescienza di Dio. Questo, quindi, ho voluto dire: come al di fuori del corpo, anche se non è un animale perfetto secondo natura, tuttavia la persona dell’anima razionale è perfetta e ancora, dopo che avrà ripreso il corpo con la risurrezione, nondimeno è perfetta la persona dell’uomo, così, in qualche modo, in Cristo prima dell’inumanazione la persona di Dio il Verbo era perfetta e dopo di questa è perfetta la persona di Cristo e una e una sola persona è insieme Dio e uomo; ed è Dio il Verbo la causa per cui quell’umanità sia, ed essa, in confronto con il Verbo, non è come un soggetto, ma a  Proprio in questo modo veniva comunemente interpretato il versetto prima citato dall’eretico; cf. Agostino, Enarrationes in Psalmos 104, 11 (a proposito di Ps. 104, 16: E chiamò la fame sulla terra): «Infatti chiamò la fame colui che chiama le cose che non sono come quelle che sono. E l’Apostolo non ha detto ‘colui che chiama le cose che non sono perché siano’, ma ‘come se fossero’. Presso Dio infatti è già stato fatto ciò che sarà per sua disposizione». Rustico però qui nega che Rom. 4, 17 possa essere invocato a sostegno dell’argomentazione del suo avversario: il principio enunciato dal versetto infatti a suo avviso non si può applicare alle anime degli uomini.

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come un accidente; è infatti come lo strumento tramite il quale bisognava che si realizzasse la nostra salvezza e in un certo senso si fonda su ciò che lo usa, come abbiamo detto. Dunque, quando diciamo, seguendo l’Apostolo, Capo della donna è l’uomo, e capo dell’uomo è Cristo, e capo di Cristo Dio (I Cor. 11, 3), non diciamo che l’uomo abbia due capi né due o tre capi la donna (cioè l’uomo e Cristo o l’uomo e Cristo e Dio), perché l’uomo confrontato alla donna è capo, confrontato a Cristo invece non è più capo, ma qualcosa d’altro; e ancora, Cristo, confrontato all’uomo, è certo capo, confrontato a Dio invece non lo è (il Verbo infatti non è il capo del Padre e non lo è neppure la natura che proviene da noi); analogamente, in qualche modo, per quanto è possibile spiegare con similitudini qualcosa che non ammette paragoni, il soggetto umano, confrontato con i suoi accidenti secondo la specie, dimostra la proporzione della sussistenza, invece, comparato a Dio il Verbo, risulta come una di quelle cose che sono insite nella sussistenza, non secondo la sussistenza personale. E come lì, mentre l’uomo è capo della donna e Cristo è capo dell’uomo, tuttavia, nella successione dell’ordine, l’uomo è il solo capo di lei, mentre certo per l’eccellenza della gloria, riguardo a quello che propriamente è sommo, lo è solo Cristo in quanto Dio, così anche qui sembra che accada lo stesso per gli accidenti della nostra natura: quella umanità sembra essere sussistenza, ma, secondo la somma proprietà della sussistenza, il solo Verbo (a causa del quale, del resto, è una e una sola sussistenza) veramente è tutto il Cristo; o certo prende il suo nome tutto ciò che è in Cristo. Se tuttavia uno legge questo, si ricordi che confrontiamo la proporzione alla proporzione, per quanto è possibile, non la persona di Cristo, che è una e sola, a molte persone: altrimenti perché sarebbero state dette tante parole? Eretico: Sicuramente, perché in ciò che non ammette paragoni anche fare una piccola similitudine è difficile. Rustico: Ma ora esporrò il punto più importante; infatti, forse uno, confidando nella sua sfacciataggine, potrebbe dire, penso, in quel caso, che due o tre sono i capi della donna (e forse non a torto, anche se non in modo conveniente), ma qui è impossibile trovare due persone: infatti, se in quel caso si può pensare che ci sono due

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Disputa, 1240C–1241D

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capi, mettendo in rapporto con una sola e medesima cosa o con due (ciascuna è infatti capo di ciascuna), qui non accadrà niente di simile: gli accidenti riguardo alla carne non si confrontano con la carne come con il Verbo, ma con la carne senza mediazione, mentre con Dio non è così: non si può fare, infatti, come se non fosse incarnato. Tuttavia capo della donna, anche senza mediazione, è Dio, infatti capo della Chiesa è Cristo (Eph. 5, 23). Ma, secondo la figura, la Chiesa è sposa e, secondo la figura, capo della donna è l’uomo. E, per dirla in modo semplice e breve (anche io ammetto che l’esempio non è del tutto pertinente, del resto l’ho preso non per dimostrare ma per spiegare; se poi qualcuno troverà una similitudine migliore, lo dica, sicuro del mio consenso, facilmente concesso, e volontariamente e di buon grado), vediamo se questo esempio può essere più efficace: come la totalità dell’universo (parlo della sfera terrestre), benché per lo più anche da sola, si dice tuttavia nella sua totalità ‘mondo’ e inoltre si dice che è uno e un solo mondo con tutto il cielo e tutti gli elementi, così si dice anche di quella e sola persona. Se poi voi credete che alcuni parlino di due sussistenze di Cristo (ma voglio dire, non come nature, ma come persone), perché, contemplata di per se stessa, in sottili speculazioni e pure attività intellettuali, sembra loro che l’umanità di Cristo possa essere pensata in relazione ai suoi accidenti anche come persona e come sussistenza, voi stessi come potete negare che siano due le nature del Signore Cristo, se non potete negare che la natura umana in Cristo non soltanto sia compresa con sottili speculazioni o immaginazioni della mente, ma che sussista anche nella realtà stessa? Non solo il nostro concilio di Efeso, ma anche il vostroa attesta la natura umana tramite le testimonianze dei santi Rustico distingue fra il concilio di Efeso del 431, riconosciuto sia da monofisiti che calcedonesi, e quello del 449 che portò alla riabilitazione di Eutiche e alla condanna, fra gli altri, di Flaviano di Costantinopoli (cf. 1230C e nota); il concilio fu presieduto da Dioscoro di Alessandria, in seguito condannato a Calcedonia (cf. 1231D e nota) e non fu mai riconosciuto dalla sede romana (cf. 1247D e nota). Leone Magno lo definì ‘brigantaggio’, espressione usata anche da Rustico nelle sue annotazioni alla traduzione degli atti del concilio di Calcedonia (ACO 2, 3, 1, p. 196 in apparato), dove si rileva in particolare il mancato rispetto dimostrato nei confronti della sede romana: «è una prevaricazione da parte di Dioscoro che sia stata ricevuta una lettera del papa e che non sia stata letta dal concilio» (ACO 2, a 

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Padri e soprattutto la predicano le epistole del beatissimo Cirillo vescovo di Alessandria. Infatti quello che noi diciamo della persona, voi non ce lo potrete rivolgere contro sulla natura, la cui definizione è di gran lunga diversa da quella di persona. Ci sono infatti le nature di Cristo, come è stato detto prima, e la divinità comune della santa Trinità e l’umanità comune a tutti noi, osservata in un individuo, ma c’è la persona e la sussistenza del Signore Cristo, la quale è stata realizzata per la loro unione. In queste sostanze, poi, diciamo che è tutto intero, uno e solo, il Figlio di Dio, Signore nostro Cristo, che confessiamo in due nature. È possibile tuttavia raccogliere non meno chiaramente dalle dottrine sinodiche dei santi Padri che non sono tre le nature della santa Trinità, ma una e una sola. Se infatti fossero tre la nature della santa Trinità, sarebbe veramente, come hai detto anche tu, una sola e individuale anche la natura divina del Figlio; questa però sarebbe la medesima in tutto e non sarebbe distinta in alcun modo dalla persona sempiterna di Dio il Verbo; non conterrebbe infatti niente di più o di meno, o in qualche altro modo, o fino a un certo punto diversamente. Perciò, qualunque cosa diciamo giustamente sul Figlio, cioè su Dio il Verbo (ma questo significa dirlo, tuttavia, della persona dello stesso Cristo), sia prima dell’inumanazione sia dopo di essa, sarebbe detto in modo ortodosso anche della sua natura; e tutto ciò che si deve evitare di dire della persona del Figlio, i Padri proibirebbero di dirlo della sua natura. Come dunque nessuno dei Padri ha mai detto da qualche parte, in qualche momento, che il Figlio non ha patito nella propria persona, così nessuno di loro ammetterebbe di dire che il Figlio non ha patito nella propria natura. Ma ora avviene il contrario: predicano infatti che il Figlio di Dio ha patito nella propria persona, mentre i medesimi santi Padri negano che egli abbia sofferto nella propria natura. Da questo dunque consegue necessariamente che la natura del Figlio non coincide con 3, 1, p. 58 in apparato); Rustico deplora anche il clima di violenza ed intimidazione in cui si svolse il concilio e che a suo avviso rispecchia un atteggiamento tipico dei monofisiti: «si deve notare a proposito della sedizione e della violenza quello che hanno sempre fatto e continuano a fare» (ACO 2, 3, 1, p. 51 in apparato). Nel Contra Acephalos invece i toni di Rustico sono molto moderati, a testimonianza dell’andamento pacato e rispettoso della discussione.

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Disputa, 1241D–1243A

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la persona del medesimo Figlio; ed è dimostrato, perché se la natura fosse propria del solo Figlio di Dio, in modo tale che questa stessa non fosse per lui comune con il Padre e lo Spirito Santo, ne conseguirebbe per necessità la coincidenza della sua natura con la sua persona, cosa che invece è chiaro che non ne consegue affatto, perché la natura non è propria del solo Figlio, come se non fosse comune anche al Padre e allo Spirito Santo; dunque non sono tre le nature della Trinità. Eretico: E da dove addurrai la dimostrazione che il Figlio di Dio, Dio il Verbo, ha patito nella propria persona, o che ha assunto qualcuna delle cose che toccarono alla carne, ma non ha sofferto nella propria natura? Rustico: Ascolta pazientemente e sarà subito chiaro, solo che io concluda il discorso. Questa dimostrazione dunque giova alla dottrina della verità non solo perché sostiene che è una e una sola la natura della santa Trinità, ma è anche di per se stessa causa della vittoria, dal momento che conclude che non si deve credere che ci sia una sola natura di Cristo, come sarà chiarito più avanti. Ma ora siano presentate le testimonianze dal codice conciliare dei santi Padri e sia riconosciuta la precisa intenzione della nostra discussione. Testimonianza dall’epistola di Cirillo di santa memoria a Nestorio, che anche il santo e universale concilio di Efeso confermò con le approvazioni di tutti i vescovia. «Bisogna che noi seguiamo queste parole e dottrine, comprendendo che essere incarnato ed essere inumanato si intende del Verbo che è da Dio. Non diciamo infatti che la natura del Verbo, trasformata, si sia fatta carne, ma neppure che abbia subito un mutamento per costituire tutto l’uomo, che è formato da anima e corpo, ma piuttosto che il Verbo, unendo a se stesso, secondo la sussistenza, la carne animata dall’anima razionale, si è fatto uomo, ineffabilmente e inspiegabilmente, ed è stato chiamato ‘figlio dell’uomo’, non secondo la sola volontà o benevolenza, ma neppure come nella sola assunzione della persona. E poiché le due nature Per l’importanza conferita a questo testo dal concilio di Efeso del 431 cf. 1188C e nota. a 

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sono state condotte alla vera unione, ma uno da entrambe è Cristo e Figlio (non come se fosse stata distrutta la differenza delle nature a causa dell’unione, anzi piuttosto perché divinità e umanità attuarono per noi un solo Signore e Cristo e Figlio, tramite il loro ineffabile e inenarrabile concorso all’unione), così si dice che, sebbene abbia senza dubbio la sussistenza prima dei secoli e sia nato dal Padre, nasce secondo la carne da donna, non come se la sua propria natura avesse avuto il principio dell’esistenza nella santa Vergine, né come se avesse avuto bisogno necessariamente, per sé, di una seconda nascita dopo quella dal Padre. È infatti vano e sciocco dire che colui che esiste prima di ogni secolo ed è coeterno al Padre ha bisogno di un secondo principio per essere. Poiché però per noi e per la nostra salvezza, unendo a se stesso secondo la sussistenza ciò che è umano, procedette da una donna, si dice per questo che è stato generato secondo la carne: infatti non è nato prima come un uomo comune dalla santa Vergine e quindi il Verbo è disceso in lui in seguito, ma, unito fin dallo stesso grembo, si dice che ha subito una generazione carnale, come facendo propria la generazione della sua carne. Così diciamo che egli soffre e risorge, non come se Dio il Verbo avesse sostenuto nella propria natura anche le trafitture dei chiodi e le altre ferite; ciò che è divino è impassibile, infatti, poiché è anche incorporeo. Poiché però lo ha sopportato un corpo che è stato fatto suo proprio, si dice che egli stesso a sua volta ha sofferto tutto questo per noi; era infatti impassibile nel corpo che pativa. Allo stesso modo, poi, lo vediamo anche nella morte; infatti il Verbo di Dio è immortale secondo natura e incorruttibile e vita e vivificante, ma siccome il corpo proprio di lui, per grazia di Dio, come ha detto Paolo, ha assaggiato la morte per tutti, si dice che egli stesso subisce la morte per noi, non perché sia giunto a provare la morte per ciò che riguarda la sua natura (follia infatti sarebbe dire e pensare questo), ma poiché, come ho detto prima, la sua carne ha assaggiato la morte; così, resuscitata la sua carne, si dice anche che è sua la resurrezione, non come se fosse caduto in qualche corruzione, lungi da noi!»a. E poco più avanti: «QueCirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, ACO 1, 1, 1, p. 26, 23– 28, 2; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 21, 4–22, 8. a 

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Disputa, 1243A–1244B

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sto sostiene dovunque la spiegazione della fede integerrima, così troviamo che hanno pensato i santi Padri, così hanno stabilito di definire ‘Madre di Dio’ la santa Vergine, non perché la natura del Verbo o la sua divinità abbia preso dalla santa Vergine il principio del suo sussistere, ma perché è stato generato da essa come un santo corpo animato dalla ragione, per cui si dice che la Parola, unita ad esso secondo la sussistenza, è stata generata secondo la carne»a. Eretico: Se, oltre alle tante cose che hai detto prima, porti inoltre testimonianze che giovino alla vostra dottrina, anche noi siamo pronti a riversare qui le testimonianze dei gloriosi maestri già prima scelte, dal momento che dobbiamo seguire queste, piuttosto che sostenere le nostre personali conclusioni. Rustico: Noi intanto al presente non abbiamo ancora prodotto alcuna testimonianza da altri codici tramite la quale si dimostri in modo del tutto evidente che Cristo è in due nature, ma dai soli documenti sinodici, che non puoi confutare, al fine di dimostrare che c’è soltanto una e una sola natura o sostanza della santa Trinità (e, anche se i Padri dicono che è propria del Figlio di Dio, non lo dicono tuttavia escludendo il Padre e lo Spirito Santo, ma escludendo tutte le creature o fatture e ugualmente anche quella sostanza dell’uomo che ha creato e insieme ha assunto). Inoltre vogliono dimostrare che non si dice che nella sua propria natura il Verbo è stato generato nel tempo né che ha sofferto né che ha subito o i colpi o le trafitture dei chiodi o altre ferite, né che è morto, per quanto riguarda la sua natura, né che è risorto. Si dice, però, che il Verbo, unito dal grembo stesso, ha sostenuto la generazione carnale, come facendo propria la generazione della propria carne e analogamente anche le altre cose che sono umane, perché il corpo che è stato fatto proprio del Verbo ha sostenuto tutto questo. Ancora, si dice che egli ha sofferto per noi: era infatti impassibile in un corpo passibileb. Dunque ora intanto, cominciando dai documenti dei sinodi universali e accettati da tutti, abbiamo risposto alle obiezioni che hai sollevato e abbiamo confermato ciò che si a  Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, ACO 1, 1, 1, p. 28, 17– 22; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 22, 24–28. b  Queste parole sono una parafrasi di Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera, passo citato in 1243B–C.

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doveva; le altre questioni, invece, non le abbiamo toccate affatto, per il momento, per non far confusione mescolandovi quello che riguarda un’altra opera. Tuttavia anche la discussione di quei passi può essere riservata senza problemi ad un altro colloquio. Eretico: Vorrei capire anche come pensi che questa dimostrazione offra la vittoria a coloro che condividono la vostra dottrina per il fatto che dimostra che non si deve credere che vi sia una sola natura del Signore Cristo tramite l’unione. Infatti, prima hai promesso che avresti detto questo. Rustico: Hai fatto bene a riportarlo alla memoria: dirò anche questo. Se tramite l’unione è stata fatta una sola natura del Signore Cristo, qualunque cosa si dica del Verbo, del Figlio, di Cristo, la si dirà anche di questa natura; e, ancora, qualunque cosa si dirà di quella natura, come dite, certo sarà predicata anche per questi nomi, e non in un altro modo. Come dunque è abominevole dire che Dio il Verbo ha sofferto nella propria natura, così, se lo credete, rifuggite dal dire che ha sofferto in se stesso o nella sua persona o sussistenza! Oppure, quando dite: «non venendo a provare la morte per ciò che riguarda la sua natura»a, traducetelo in: “per quanto riguarda la sua persona e se stesso come Figlio, non è morto”. Poiché poi a tutto questo consegue il dire che la natura del Verbo e la sostanza ha sofferto, così dovreste dire che non ha sofferto la sussistenza del Verbo, né la persona né lo stesso Figlio, né questo unigenito, né il medesimo Signore o Cristo stesso; ma non potete negare che quelli che dicono questo introducono due figli, voi che sapete che Nestorio è stato accusato di predicare due figli proprio perché diceva cose del genere; dice infatti così (e proprio per questa ragione è stato anche condannato): «Io non chiamo Dio questo bambino di due o tre mesi»b; e ancora: «Non conviene parlare di nutrimento di latte a proposito di Dio»c. E nella sua Cirillo di Alessandria, Ad Nestorium ep. altera; cf. 1243C. Relatio ad piissimos imperatores a sancta synodo de damnatione Nestorii, in ACO 1, 1, 3, p. 4, 32–33; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 86, 26–27. c  Questa frase non si trova negli Atti di Efeso così come è qui citata da Rustico; probabilmente è stata desunta dal passo della lettera di Nestorio a Cirillo citato in 1245B («partecipe del nutrimento del latte»); si fa riferimento a questa proposizione anche nella lettera inviata dal concilio al clero di Costantinopoli (ACO 1, 1, 3, p. 13, 21). a 

b 

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Disputa, 1244B–1245B

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lettera al santissimo Cirillo disse che la santa Vergine è madre di Cristo, non di Dio: «E’ chiaro poi che il figlio di Davide non era Dio il Verbo»a; e, ancora, disse che il corpo è tempio della divinità del Figlio: «Ed è cosa buona da professare e degna delle tradizioni evangeliche che il tempio sia stato unito secondo una somma e divina congiunzione, così che di ciò che era suo si sia appropriata la natura divina»b. E ancora, nelle parole che seguono subito dopo, il medesimo Nestorio nega quello che ha professato qui; aggiunse infatti immediatamente anche questo: «Ma attribuire al termine ‘appropriazione’ anche i caratteri propri della carne (parlo della generazione, della passione e della morte) è di una mente, fratello, che o vaga fra i pagani e i gentili o che è affetta dalle idee del folle Apollinare o di Arioc o di altre eresie, anzi è anche qualcosa di più grave persino rispetto a loro: è necessario infatti che coloro che sono trascinati dal termine ‘appropriazione’ considerino Dio il Verbo, tramite l’appropriazione, partecipe del nutrimento del latte e della crescita che si verificò a poco a poco e, nel tempo della passione, partecipe del terrore che ne derivavad e bisognoso di un aiuto angelico»e. Eretico: E che cosa in particolare accusate in queste parole, voi che fino ad ora avete sostenuto che si mantengono i caratteri propri delle due nature e la dualità stessa? Se infatti questo è stato detto secondo verità, non si deve dire di Dio che ha tre mesi, né che a  Nestorio di Costantinopoli, Ep. ad Cyrillum Alexandrinum ACO 1, 1, 1, p. 31, 4–5; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 25, 3. b  Nestorio di Costantinopoli, Ep. ad Cyrillum Alexandrinum, in ACO 1, 1, 1, p. 31, 26–28; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 25, 24–26. c  Nestorio riteneva che non distinguere adeguatamente fra umanità e divinità portasse ad attribuire le sofferenze fisiche e morali di Cristo alla sua divinità; considerare la divinità del Figlio soggetta a sofferenza significherebbe poi ricadere nell’arianesimo. La stessa discussione sul titolo theotokos prese probabilmente l’avvio dall’impegno di Nestorio contro dottrine riconducibili all’apollinarismo e all’arianesimo: cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 828– 830; Scipioni, Nestorio e il concilio di Efeso, p. 48–62 e 67–68. d  Traduco così il latino facti; questa parola però non ha corrispondenza nel testo greco; anche nella traduzione di Rustico degli Atti si legge solo ‘terrore’ (cf. ACO 1, 3, p. 25, 32). e  Nestorio di Costantinopoli, Ep. ad Cyrillum Alexandrinum, in ACO 1, 1, 1, p. 31, 28–32, 1; trad. Rustico in ACO 1, 3, p. 25, 26–33.

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si è nutrito di latte, né che è nato negli ultimi tempi dalla Vergine, né che è figlio di lei, o di Davide, né che ha sofferto, né che è stato ucciso nella carne, né che è cresciuto a poco a poco, né che ha preso in se stesso i caratteri propri della carne tramite l’appropriazione dell’economia. Rustico: Ecco che cosa critichiamo, non noi per primi, ma con i santi Padri. In primo luogo (e vi accennerò soltanto) Nestorio ha fatto malissimo a dire che la natura della divinità si appropria di ciò che è del tempio: infatti, non è la natura della Trinità, ma una sola persona di quella natura che fa sue le proprietà della sua carne. In secondo luogo, poi, pur lasciando intendere in qualche modo che Dio il Verbo fa suo proprio ciò che è proprio della carne, con ciò che ha detto dopo, mentre avrebbe dovuto spiegarlo, lo ha piuttosto negato. Se, infatti, come dice, Dio fa suo proprio ciò che è proprio della carne tramite l’appropriazione dell’economia, bisogna piuttosto attribuire al termine ‘appropriazione’ anche i caratteri propri della carne (cioè la generazione e la passione e la morte e altre cose). Egli, invece, questo non lo approva affatto, ma lo critica, in contraddizione con se stesso, anche come cosa eretica e pagana e come qualcosa di ancora peggiore. Perché, infatti, colui che è Dio incarnato ha fatto sue le proprietà del proprio tempio, se non devono anche essere dette di lui, per ammirare la sua carità verso di noi? Che cosa è infatti più grande: che quelle cose siano fatte proprie del Verbo o che lo siano dette? Affermando poi che sono salvi i caratteri propri delle nature, noi nondimeno sosteniamo in modo simile la loro dualità, perché, come è salva la distinzione delle nature, così è salva anche l’unione; perciò, le cose che non sono proprie del Verbo secondo la natura sono sue riguardo all’unione, anche se l’empio lo rifiuterà anche molto più di mille volte. I caratteri propri, infatti, sono salvi, ma concorrono in una sola persona e sussistenzaa. Perciò Valeriano nel concilio accusa Nestorio non soltanto come empio, ma come in contraddizione con se stesso, dicendo: «E’ evidente per tutti la contraddizione a  Queste parole di Rustico riprendono da vicino la definizione di Calcedonia: «senza che sia eliminata la differenza delle nature per l’unione, salve invece piuttosto le caratteristiche proprie di entrambe le nature, che confluiscono in una sola persona e una sola ipostasi» (ACO 2, 1, 2, p. 129, 31–33).

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Disputa, 1245B–1246B

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del reverendo Nestorio, che non solo è in contrasto con la fede dei santi Padri che si riunirono a Nicea e con l’epistola dell’arcivescovo Cirillo, graditissimo a Dio e santissimo, ma non è in accordo neppure con se stesso»a. Analogamente poi al medesimo Nestorio scrisse il santissimo papa Celestino, dicendo: «Abbiamo letto quindi il contenuto delle lettere e i libri che abbiamo ricevuto per mano del mio figlio, l’illustre Antioco; in essi da parte nostra sei stato fatto oggetto di indagine, colto e confermato in fallo: scivolavi in una cavillosità, mentre avvolgevi cose vere in cose oscure, confondendole fra loro, o mentre professavi quello che hai negato o ti sforzi di negare di averlo professato»b. Eretico: Quello che hai detto riguardo all’appropriazione e all’unione è davvero ortodosso e, al contrario, per così dire, direttamente oppostoc alle vuote parole di Nestorio; per il resto, invece, ritengo che tu esponga le medesime idee che in lui hai duramente accusato. Rustico: Lungi da noi, o tu abile nella calunnia! Appoggiandoci infatti al precedente ragionamento, ancora più ampiamente distruggeremo le vostre dottrine e chiariremo la nostra retta fede, provandola. Se infatti uno dice che lo stesso Dio il Verbo, che è a  Concilio di Efeso, Collectio Vaticana 47, ACO 1, 1, 2, p. 32, 1–4; traduzione latina in ACO 1, 3, p. 63, 32–34. b  Celestino di Roma, Ep. ad Nestorium, ACO 1, 2, p. 8, 5–8. c  L’espressione «e regione contraria» (qui tradotto con «direttamente opposte») è di ascendenza ciceroniana; a proposito dei contrari, infatti, Cicerone in Topica 47 scrive: «Ci sono d’altra parte più generi di contrari: uno di questi riguarda le cose che differiscono il più possibile nel medesimo genere, come sapienza e stoltezza; e si dice che sono dello stesso genere quelle realtà alle quali, appena prese in considerazione, si contrappongono dei contrari come qualcosa di direttamente opposto, come alla rapidità la lentezza, non la debolezza» (cf. Cicero, Topica, edited with an Introduction, translation and commentary by T. Reinhardt, Oxford, 2003, p. 297). Il fatto che un eretico monofisita citi come un termine tecnico un’espressione ciceroniana potrebbe sorprendere, ma si è già avuto modo di osservare che Rustico presta spesso al suo interlocutore il proprio linguaggio ed i propri riferimenti culturali. Una conferma dell’attenzione che egli riserva alla precisione del linguaggio e in particolare alla classificazione ciceroniana dei contrari emerge anche a proposito delle correzioni apportate alle sue traduzioni degli atti dei concili di Efeso e Calcedonia rispetto a quelle realizzate per il Contra Acephalos; le modifiche infatti sembrano indicare che Rustico si sarebbe sempre più avvicinato all’uso codificato da Cicerone; cf. Petri, ‘Il diacono Rustico, traduttore e teologo’, p. 187–188.

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consustanziale al Padre, che è unigenito e che non può essere confrontato con le cose che sono state fatte per mezzo di lui, generato secondo la carne, inumanatosi dalla Vergine, non si sia nutrito di latte, non sia cresciuto, non sia stato fatto bambino di due o tre mesi, non abbia sofferto, non sia morto, non sia risorto, se quindi, come dico, chi dice così fa comparire due figli e due cristi, allora, chi dice che il medesimo Signore non ha avuto principio dalla Vergine secondo la divinità, né è stato allattato secondo la sua natura, né è cresciuto, né si è fatto bambino di due o tre mesi, né ha sofferto, è morto, è risorto eccetera, aggiungendo comunque sempre ‘secondo la propria natura’, introduce in tutti i modi due nature. Come dunque si aborre giustamente ciò che ho detto prima, così abbracciamo a buon diritto ciò che ora si è detto, poiché, come i confini stabiliti dai Padri respingono quello, così accolgono questo, per cui siete condannati dal vostro stesso giudizio. Infatti, voi aborrite e sottoponete a persecuzione quelli che dicono (o quelli che si ritiene che dicano) che uno è Dio il Verbo e un altro l’uomo assunto da lui, che è nato dalla Vergine, che è stato plasmato nella Vergine, che è uno di noi, che è stato unito a Dio il Verbo fin dal momento stesso del concepimento in una somma e ineffabile congiunzione; dunque vi scagliate assolutamente con fervore contro coloro che dicono tali cose e li anatematizzate come latrando senza posa, così che se uno desse l’impressione di sostenerlo volontariamente voi non riterreste alcuna pena troppo severa per lui, come se dicesse che Cristo è un semplice uomo o come se introducesse chiaramente due figli; tuttavia voi stessi, insieme a quelli che sono in comunione con voi, pur dicendo che una è la natura umana di Cristo e un’altra quella divina e pur sentendo che questo è stato professato dai Padri che pretendete di seguire, tuttavia aborrite la professione delle due nature del Signore Cristo dopo l’unione. Mi sembra quindi che voi nel giorno del giudizio sarete condannati secondo la stessa condanna di Nestorio. Infatti, se del tutto giustamente odiate Nestorio, ritenendo che abbia introdotto con tali parole due figli, perché voi, dicendo lo stesso sulle due nature, non ammettete di predicare due nature? E certo voi non dite soltanto questo sulle due nature, ma anche le nominate al plurale piuttosto spesso o anche professate Padri coloro che ne hanno parlato così,

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cosa che non è scritto che Nestorio abbia fatto riguardo al nome di Cristo o di Figlio o di Signore. Come è possibile dunque che voi che ammettete questo a proposito delle nature siate così accecati da non dire ciò che professate? Come, poi, potete anche maledire Nestorio, ritenendo che abbia introdotto due cristi quando ha predicato tali cose di Dio il Verbo e dell’uomo? E, per dirla in breve, questo argomento contro di voi risulta insuperabile, qualunque sua parte vogliamo osservare. Da noi infatti Nestorio viene condannato giustamente, ma da voi, invece, ingiustamente; e insieme con lui è stata condannata la vostra opinione. Perciò anche noi, quando condanniamo Nestorio, scagliamo l’anatema contro di voi; e voi stessi, per quante volte lo condanniate, ritorcerete la condanna su di voi, anche quando ce la scagliate contro quasi come se fossimo dei nestoriani e come se vi calunniassimo e vi odiassimo; e dal momento che da parte nostra viene presentata contro i vostri eresiarchi (parlo di Apollinare, Eutiche e Dioscoro) una condanna del genere, al contrario voi soccombete alla medesima sentenza, inconfutabilmente e ripetutamente. Eretico: Io non posso essere in comunione con quel concilio che dice che l’inumanazione del Signore porta un’aggiunta alla Trinità. Infatti dice, in quella che è chiamata ‘definizione’, a proposito del simbolo dei 150 Padri: «Infatti riguardo al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo insegna in modo perfetto e mostra fedelmente a coloro che lo accolgono l’inumanazione del Signore»a; certo, infatti, colui che insegna in modo perfetto riguardo al Figlio non rappresenta la sua inumanazione al di fuori e in aggiunta alla Trinità, come riguardo a un quarto, ma all’interno della Trinità; costoro invece, dopo aver parlato del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, allora introdussero furtivamente un qualche altro Signore e la sua inumanazione. Rustico: Già è stato dimostrato che non è possibile introdurre in qualche modo un quarto come estraneo e fare un discorso anche sulla inumanazione del Verbo di Dio al di fuori della consustanConcilio di Calcedonia, Actio V, cf.  ACO, 2, 1, 2, p.  128, 16–18. Si fa riferimento al concilio di Costantinopoli del 381, il cui simbolo è premesso alla definizione del concilio di Calcedonia; cf. anche 1211D e nota. a 

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zialità della santa Trinità; ma evidentemente non hai affatto ascoltato quanto si è dimostrato in precedenza. Disse infatti il concilio di Efeso che nel Salvatore le cose stanno al contrario rispetto alla Trinità; nella Trinità infatti «‘uno e un altro’, perché non confondiamo le sussistenze, non invece ‘una cosa e un’altra’, lungi da noi! Una sola cosa infatti sono i tre e la medesima cosa quanto alla divinità»; nel Signore poi «‘una cosa e un’altra’, dalle quali Cristo», giacché le due cose non coincidonoa. Quindi siete molto accecati davanti alla verità, poiché non volete accogliere neppure quello che il concilio di Efeso ha approvato più chiaramente di quello di Calcedonia. Una cosa è infatti parlare della comune sostanza della Trinità e un’altra parlare delle proprietà di una sola persona, e per giunta della forma di servo, che nella Trinità è non-consustanziale. Eretico: Chi può accettare un concilio che approva il tomo di Leoneb, che dice del Verbo e della carne, oltre al resto, anche questo: «Una di queste cose risplende nei miracoli, l’altra è soprafa  Si tratta di una parafrasi del passo dell’epistola 101 di Gregorio di Nazianzo più volte citato; cf. 1180A–B. b  Questo testo, indirizzato a Flaviano di Costantinopoli, fu scritto da papa Leone nel 449, in occasione del secondo concilio di Efeso. Leone si era opposto alla convocazione di un nuovo sinodo, ritenendolo inutile, ma quando questo fu alla fine convocato egli mandò dei delegati affidando loro appunto il Tomus ad Flavianum, una lettera dogmatica nella quale egli esponeva la propria dottrina dell’incarnazione e stigmatizzava gli errori di Eutiche. I delegati romani però non riuscirono neppure a leggere il testo loro affidato e il concilio si concluse con la riabilitazione di Eutiche ed la deposizione e l’esilio dei principali esponenti del clero antiocheno, soprattutto ad opera del patriarca alessandrino Dioscoro, sostenuto dall’imperatore Teodosio II. Leone non riconobbe l’operato di questo concilio e protestò vivamente, adoperandosi perché le sue conclusioni fossero vanificate. A questo scopo egli inviò una nuova delegazione in Oriente nel 450, affidandole di nuovo il Tomus ad Flavianum, corredato da una raccolta di passi patristici volti a dimostrarne il perfetto accordo con la tradizione della Chiesa; la morte di Teodosio II creò una situazione più favorevole a Leone ed il suo scritto ebbe un’accoglienza migliore, diventando un punto di riferimento per l’ortodossia in ambito cristologico e dunque una delle basi della definizione del concilio di Calcedonia del 451. Il Tomus ad Flavianum sul piano dottrinale proponeva un difisismo che agli occhi della cristologia alessandrina minacciava di mettere in discussione l’unità di Cristo; per questa ragione esso era aspramente criticato dai monofisiti, che lo accusavano di essere pericolosamente vicino alle proposizioni di Nestorio (per un’approfondita analisi di questo testo e delle circostanze in cui fu scritto cf. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa I, 2, p. 933–952).

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fatta dalle offese»a. Ebbene? Dimmi, Dio non è stato offeso nella carne? Non è il Verbo che ha operato i miracoli tramite la carne? Ma a che cosa mira questa separazione per dire ‘questa cosa fa questo, quella quest’altro? Rustico: Certo, non neghiamo affatto che Dio il Verbo sia stato offeso nella carne, ma non diciamo che è stato sopraffatto dalle offese, cioè non è stato inferiore alle offese e alle passioni, ma più forte. La sua carne però non è stata soltanto offesa, ma è stata sopraffatta dagli oltraggi ed ha sofferto; poiché la natura della carne è passibile, infatti, è morta ed ha dominato su di essa la morte che serve Dio. Ma invece si dice che Dio il Verbo, inumanato, ha sofferto a causa dell’unione, facendo suo proprio tutto ciò che è della natura passibile mediante l’appropriazione dell’economia, come ho già detto prima, ma non ha sofferto come la carne. Infatti, se colui che è impassibile ha sofferto semplicemente, inutilmente è impassibile: a che cos’altro giova infatti l’impassibilità, se non al fatto che ciò che è passibile non soffra affatto? Se dunque in Dio non c’è niente di superfluo e inutile, ma tutto è perfetto e nobile e adeguato, è del tutto chiaro che anche la sua impassibilità non è superflua né inutile: dunque non ha sofferto. Eretico: Ma ha sofferto per misericordia colui che non ha sofferto nella propria natura: perciò, riguardo a questo, è stato sopraffatto dalle offese secondo ciò che ha sofferto: come potete dire dunque con Leone che «questa cosa risplende nei miracoli, quella invece è sopraffatta dalle offese»b? Rustico: Anche il santissimo Leone, riguardo alla natura propria dello stesso Dio il Verbo, dice che risplende nei miracoli, a proposito della carne, invece, quel che segue; anche tu ora hai professato che Dio il Verbo non ha sofferto nella propria natura; perché dunque professi e accusi allo stesso tempo? Infatti non ha detto: ‘Questi risplende nei miracoli, quegli invece soccombe alle ingiurie’, in modo da dare adito a sospetti, come se parlasse di due persone, ma ha detto «questa cosa – quella, invece» come delle a  b 

Leone Magno, Tomus ad Flavianum 95. Leone Magno, Tomus ad Flavianum 95.

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due nature: «una cosa», infatti, «e un’altra dalle quali è il Salvatore», poiché «ciò che è senza tempo non è la medesima cosa di ciò che è sottoposto al tempo». Eretico: Non dice che non ha sofferto soltanto riguardo alla natura propria di Dio il Verbo, ma anche riguardo al Verbo stesso, e lo fa frequentemente; tuttavia, anche dire che la natura del Verbo non ha sofferto è lo stesso che dire che il Verbo non ha affatto sofferto; infatti la natura del Verbo non è più impassibile, per così dire, di colui di cui è la naturaa. La medesima natura dunque, pur rimanendo impassibile, ha sofferto per pietà di noi. Rustico: Nella bontà di Dio non c’è niente di contraddittorio, perciò la sua misericordia non distrugge la sua impassibilità. Se poi Dio il Verbo è eternamente impassibile, non ha mai sopportato quello che nella pienezza dei tempi ha patito a causa della misericordia, come voi dite: in modo maggiore, e infinitamente maggiore, ha avuto un danno piuttosto che un guadagno: avrebbe infatti guadagnato noi, la sua creatura, e perso l’impassibilità della propria sostanza. Voi dunque errate davvero, lodando qualcosa in Dio in modo tale da bestemmiare poi qualcos’altro. Dio non ha bisogno della vostra lode, perché esaltiate subdolamente la sua misericordia a pregiudizio della sua impassibilità; siamo noi che esaltiamo giustamente ancor di più la sua misericordia, ferma restando la sua immutabilità. Ma coloro che dicono che il Figlio di Dio è sottoposto a cambiamento e mutazione sono anatematizzati dalla Chiesa cattolica ed apostolica, come ha definito il concilio di Niceab. Anzi, sarebbe una condanna non solo dell’immutabilità, ma anche della sua potenza (lungi da noi!), se non avesse potuto salvare la sua creazione senza che il Creatore perdesse la sua proA proposito di questa frase cf.  Spataro, Il diacono Rustico, p.  172, dove si ipotizza una possibile corruzione del testo. In realtà nonostante che lo stile, secondo l’abitudine di Rustico, sia decisamente arduo, non sembra impossibile dare un’interpretazione soddisfacente del testo alla luce del contesto generale; in definitiva l’eretico vorrebbe semplicemente dire che sostenere che la natura del Verbo è impassibile è come sostenere che il Verbo è impassibile, dato che evidentemente la natura del Verbo non può essere ‘più impassibile’ rispetto a colui di cui è la natura (sembra preferibile dare questa interpretazione piuttosto che «a colui della cui natura è», come traduce Spataro), cioè il Verbo stesso. b  Cf. ACO 2, 1, 2, p. 79, 25–26. a 

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prietà, oppure sarebbe un’offesa al suo consiglio, se avesse potuto sia non perdere questo sia salvare quello, ma, potendo fare qualcosa di meglio, avesse scelto qualcosa di peggio. Lodiamo in Dio dunque ciò che ci giova in modo da non sottrarre ciò che è degno! Ma questo discende a voi dalla parentela con i Manichei: è tipico loro, infatti, credere che Dio sia passibile e che ogni natura buona sia l’unica natura del solo Dio buono e che Dio, prevedendo che il suo regno sarebbe stato in pericolo se il principe delle tenebre gli avesse mosso battaglia per primo, anche per questo mandò una parte della sua sostanza, per mescolare con quella la sostanza inferiore, al fine di preparare la difesa del proprio regno; e sostengono, bestemmiando, che dalla commistione di potenze buone e potenze cattive sia stato fatto il mondo. Così anche voi dite che Dio non ci avrebbe potuto salvare se non si fosse fatto passibile per noi. Eretico: Mi ricordo che hai dettoa che quell’umanità confrontata a Dio è più come un accidente che una sostanza che ne costituisce il soggetto: come possono dunque essere due, ora, le sostanze di Cristo, dal momento che l’accidente non costituisce un’aggiunta alla sostanza ma alla quantitàb? Rustico: Ho detto questo non della sostanza, ma della sussistenza. Confrontata però con la natura o la sostanza divina, la carne è nondimeno natura e sostanza. È stato infatti dimostrato che anche i Padri che dicono ‘due nature, Dio e uomo’ e ‘entrambe le nature’ e ‘ambedue’, non lo avrebbero detto, se non le avessero vicendevolmente confrontate; ed anche voi del resto fate lo stesso, dicendo che Cristo è da due nature e sostanze e inoltre che è anche da due sussistenze. Ma per quanto riguarda quello di cui avete voluto accusare il santissimo Leone quando dice: ‘questa cosa così, quella invece altrimenti’, accogli la testimonianza del concilio di Efeso, quella che aggiunsero i vicari del santissimo Celestino, papa romano, dopo essere giunti, dimostrando con queste parole come debba essere inteso il simbolo dei 318 Padric. Secondo la testimonianza a  L’eretico fa riferimento a quanto Rustico aveva affermato in 1240C a proposito dell’umanità di Cristo; questo argomento era stato poi discusso in 1240C– 1241C. b  La stessa distinzione era già stata proposta in 1228D. c  Cioè il simbolo di Nicea.

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di Attico di santa memoria: «E subì tutte queste cose non nella natura della divinità, ma nella carne assunta: quanto a quella, rimanendo nella inviolabilità della propria impassibilità, quanto a questa, invece, soffrendo e sopportando tutto»a. Ecco, dicendo «quanto a quella» parla della natura divina, dicendo «quanto a questa invece» parla del corpo assunto nel quale il Figlio di Dio ha sofferto, come ha detto lo stesso Signore: Non temete quelli che uccidono il corpo ma non possono uccidere l’anima (Matth. 10, 28); e ancora: Lo spirito è pronto, ma la carne è debole (Matth. 26, 41). Eretico: Che cosa potrai dire sul fatto che è stata fatta un’unione più grande, quella di Dio con l’umanità, rispetto a quella della carne con l’anima che avviene in un qualunque uomo comune? Tramite la morte infatti l’anima è separata dal corpo, Dio invece è inseparabile per sempre da quell’anima e da quel corpo incontaminato: se dunque da un’unione minore si realizza una sola natura, molto più da una maggiore; ma una sola è la natura dell’uomo: tanto più dunque è una sola la natura della divinità e dell’umanità. Rustico: Prima della dimostrazione, devi stupirti. Con stupore infatti io professo con te che l’unione del Signore Cristo è ancora più grande e che ha prodotto qualcosa di molto più grande: infatti l’unione della divinità e dell’umanità che è stata fatta nel Signore Cristo tanto sovrasta quella che si realizza nell’uomo – e così lo stesso effetto dell’unione – quanto ha unito cose fra loro di gran lunga più differenti. Sì, perché il fatto che della divinità e dell’umanità possa essere una sola anche soltanto la persona è molto più grande (e non si può dire di quanto), rispetto al fatto che dall’anima e dalla carne non soltanto provenga una sola persona, ma che si realizzi anche una sola natura. Dio infatti supera Attico di Costantinopoli, Exc. Eph. 20, in ACO 1, 1, 7, p. 95; traduzione latina in ACO 1, 3, p. 74 in apparato. Attico fu patriarca di Costantinopoli dal 406 al 425. Durante il suo episcopato riabilitò la memoria di Giovanni Crisostomo, che era stato condannato ed esiliato nel 403, riallacciando così i legami con la sede romana che ne aveva preso le difese. Questo provvedimento mise Attico in contrasto con Cirillo di Alessandria: artefice della condanna di Giovanni era stato infatti Teofilo di Alessandria, zio e predecessore di Cirillo, e Cirillo stesso aveva partecipato al sinodo dal quale era stata emessa. Rustico non fa cenno a queste vicende, che invece sono trattate con una certa ampiezza da Facondo di Ermiane in Defensio 4, 1, 4–11 (per questa scelta di Rustico cf. anche 1177A e nota). a 

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infinitamente (e non si può dire di quanto) la creatura; e l’unione ineffabile che conduce in una sola persona ciò che è tanto separato dai limiti o dalle leggi della natura ha vinto di tanto quanta è la distanza. L’anima, invece, supera la carne di poco: entrambe infatti sono compagne di schiavitù e creature e sono state fatte dal nulla dal Creatore. Ma se la potenza di Dio non fosse infinita, non avrebbe fatto esistere tante cose dal nulla: infatti distano tutte infinitamente da ciò che non è affatto. Se dunque la potenza di Dio è infinita, ma quella della nostra sostanza è finita, è grande e ancora più splendente quell’unione che ha potuto realizzare una sola persona fra cose tanto differenti. Come infatti è infinitamente superiore la potenza di colui che sospende il monte al cielo e lo congiunge ad esso (ammesso che questo sia possibile o che si dia che accada) rispetto a quella di colui che congiunge una zolla al monte, così l’unione che si è realizzata in Cristo supera quella che si verifica negli uomini comuni nei singoli aspetti. Tuttavia voglio dire anche questo: non è necessario che da un’unione più grande si realizzi qualcosa di più grande, altrimenti quanto più strettamente le cose si uniscono, tanto più l’unione sarebbe potente: ma le cose che si confondono, come quelle umide, si uniscono più che le cose che non si confondono affatto; l’anima non si confonde affatto con il corpo, tuttavia l’unione delle cose che si confondono non è più grande dell’unione delle anime razionali con i propri corpi: solo Dio infatti opera questa, quelle invece sono soggette anche a noi; ma ne è stata presa una infinitamente superiore a queste. La risposta tuttavia sarà sufficiente, anche se si dice in modo preciso, come se uno dicesse è più gloriosaa se più incredibile; è più mirabile infatti che si realizzi così una sola persona, e non una sola natura, di quanto, nell’altro modo, una sola persona e una sola natura. Eretico: Dimmi brevemente: in Cristo la natura umana è il Figlio di Dio secondo la sostanza o no? E Dio il Verbo è figlio della Madre di Dio secondo la natura o no? Se è secondo la natura è chiaro che entrambi sono una sola natura; se poi non è secondo la natura, Il testo è evidentemente corrotto e molto probabilmente lacunoso. Forse «più gloriosa» e «più incredibile» si riferiscono ad un sottinteso ‘unione’. a 

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Contro gli Acefali

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allora è assolutamente per grazia, e ci saranno due figli, dal momento che Dio il Verbo secondo la natura è certamente Figlio del Padre e secondo la grazia figlio della madre; come uomo, invece, secondo la natura figlio della madre, ma invece per grazia figlio del Padre; e l’uno non è figlio di lui in questo modo, né l’altro è figlio di lei nell’altro. Rustico: Se fossero due sole le tue proposizioni, neppure così avrei accettato semplicemente il discorso che hai sviluppato. Tuttavia dico che, secondo la persona e la sussistenza, il Figlio di Dio, Dio il Verbo, è figlio della Madre di Dio e, analogamente (anzi, è la stessa cosa), dico che nella forma di servo è Figlio di Dio secondo la sussistenza e non secondo la sostanza e la natura; e dico che ora c’è una sola sussistenza ed il Figlio è uno e uno solo, esattamente come accadrebbe se ci fosse una sola natura, come hai detto prima. Eretico: Il lungo discorso ci ha causato non solo fatica e stanchezza ma anche fastidio, poiché confonde davvero l’intelletto; quindi, se ti sembra opportuno, a Dio piacendo, riserveremo il resto ad un altro giorno. Tuttavia meditiamo nella nostra mente anche su quello che è stato detto: infatti la silenziosa discussione interiore offrirà sia memoria che intelletto, sia dottrina che progresso. Rustico: Non rimandare, ti prego, il tempo della conversione a Dioa; è incerto infatti il termine della vita umana, e soprattutto ai nostri giorni, quando implacabile dovunque imperversa la morte; e il fuoco della geenna non si può attraversareb. Non temere le amicizie degli uomini, per non incorrerec nell’inimicizia delle potenze celestid; non la moltitudine dei tuoi affini, perché tu sia aggiunto a tutti i santi usciti da questo secolo; non questa veste, per rivestire Cristo; non questi fiori delle cose temporalie, perché tu risplenda come il sole nel regno di Dio; non le ricchezze di questo mondo, Comincia qui un’esortazione alla conversione che riecheggia Cipriano, Ad Demetrianum 25; cf. Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 62–63. b  Cf. Luc. 16, 26. c  Il verbo incurro è spesso usato come termine tecnico del linguaggio giuridico per introdurre la pena che consegue ad un certo reato; cf. A. J. Fridh, Terminologie et formules dans les Variae de Cassiodore, Stockholm, 1956, p. 153–154. d  Cf. Iac. 4, 4. e  Questa espressione si può accostare a quanto Agostino scrive in Enarrationes in Psalmos 53, 3: «Si lasciarono incantare dal fiore dei malvagi; dissero fra sé: ‘Ecco i malvagi fioriscono; Dio, penso, ama i malvagi’; ed essendosi rallegrati del fiore tema 

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1251A

1251B

Disputa, 1250D–1251D

1251C

1251D

perché tu erediti una vita infinita, in perpetuo e ineffabile gaudio; non i beni del secolo, e sarà tuo nutrimento la manna dello Spirito Santo; non gli onori passeggeri, perché tu possa regnare con Cristo. Renditi partecipe di ciò che è eccelso, elevando il tuo intelletto; allontanati dalle cure secolari, e allora comprenderai il loro scarso valore; gusta della dolcezza di Dioa, e avrai il senso dell’amarezza del mondo; avvicinatib e guarda alla luce spirituale, e sarai strappato dalle tenebre della confusione carnale; sollevati e slanciati verso la purezza delle cose più alte, e distinguerai gli abomini della sporcizia umana; spezza le catene della prigionia a Satana per non perdere la libertà acquistata con il battesimo; fuggi dalla compagnia del sordido demonio, per rinnovare in te stesso l’adozione di Dio; respingi il diavolo che ti vuole perdere e cedi a Dio che ti vuole salvarec. Pensa all’amore di Dio, pensa al godimento del regno dei cieli, pensa a quel giorno davvero terribile del giudizio futuro, pensa a quello stesso giudizio del Signore Cristo che non può esser distolto dalla giustizia, pensa ai tormenti insopportabili della geenna, pensa ai vermi insonnid, pensa alla fiamma infinita che non si può oltrepassare; pensa che lì è inutile la penitenza, infruttuosi i lamenti, sordi gli ululati, e vane le piogge di lacrime. Finché puoi, senza addurre scuse, senza pigrizia, volgiti alla verità. Per te non ci sarà né scusa né giustificazione per tutto questo presso Dio, se persisti nel male, soprattutto quando sono state vinte tutte le vostre obiezioni, anche se dovrebbe bastarti la sola autorità di un concilio universale che per numero supera tutti gli altri, che è stato confermato dall’unanime giudizio di tutte le Chiesee, tanto tramite le lettere encicliche, durante il regno di porale degli iniqui si volsero all’iniquità, ma per perire, e non per un certo tempo, come fioriscono quelli, ma per l’eternità». a  Cf. Ps. 34, 9; 27, 4. b  Cf. Eccli. 51, 23. c  Cf. Iac. 4, 7. d  Cf. Is. 66, 24. e  Rustico non dà molto spazio alla questione del principio dell’autorità del concilio, che è invece centrale, ad esempio, in Facondo (cf. 1176C e 1223D). Egli comunque ritiene che l’autorità del sinodo dovrebbe bastare alla fede e che il sinodo non debba essere messo in discussione, tanto più che è stato confermato da un unanime consenso all’interno della Chiesa. È interessante notare che nel momento in cui af-

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Contro gli Acefali

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Leonea, quanto tramite i libelli di circa duemilacinquecento sacerdoti, sotto l’impero di Giustino, dopo lo scisma di Pietro di Alessandria e di Acacio di Costantinopolib. Non ti turbi quello sconvolgimento della Chiesa universale, che è sorto da poco, ma ti confermi piuttosto nella fede: se infatti la nostra fede non fosse retta, in questi tempi avrebbe potuto progredire piuttosto che essere minacciata. Leggi le Sacre Scritture, e troverai che il temfronta il problema della legittimità del concilio, Rustico non fa parola dell’autorità della sede romana, mentre in precedenza aveva loro riconosciuto la prerogativa di rendere ufficiali i testi da essa riconosciuti, con un ruolo analogo, quindi, a quello di un concilio (cf. 1176C). Qui invece Rustico considera l’autorità del concilio garantita dal consenso di tutta la Chiesa, mentre l’approvazione del vescovo di Roma non sembra avere alcuna importanza: nelle righe immediatamente seguenti, del resto, egli cita sì i libelli inviati a papa Ormisda, ma quello che conta è il numero di sacerdoti che si espressero a favore di Calcedonia, non la volontà della sede romana. Dopo il riconoscimento del concilio di Costantinopoli del 553 da parte di papa Vigilio probabilmente anche agli occhi di un diacono romano l’approvazione del vescovo di Roma poteva sembrare un elemento insufficiente ai fini della validità di un concilio (cf. anche Petri, La Disputatio contra Acephalos di Rustico, p. 98–100). a  Nel 457, alla morte dell’imperatore Marciano, l’artefice del concilio di Calcedonia, ad Alessandria il patriarca filo-calcedonese Proterio fu linciato e al suo posto fu eletto Timoteo, un oppositore del concilio. Il nuovo imperatore, Leone (457–474), chiese il parere del clero orientale a proposito dei fatti di Alessandria e la maggior parte dei vescovi in questa circostanza condannò l’assassinio di Proterio, denunciò l’irregolarità dell’elezione di Timoteo e rinnovò il suo sostegno alle conclusioni di Calcedonia (cf. Frend, The Rise of the Monophysite Movement, p. 154–163). b  Rustico fa riferimento agli eventi che posero fine allo scisma acaciano ed in particolare alla dichiarazione che papa Ormisda pretese dal patriarca di Costantinopoli e dal suo clero. Lo scisma aveva avuto inizio nel 482 quando il patriarca di Costantinopoli Acacio si riconciliò con il patriarca di Alessandria, Pietro Mongo, non appena questi ebbe sottoscritto l’Editto di Unione, un documento promulgato dall’imperatore Zenone che agli occhi della sede romana sembrava mettere in discussione le conclusioni del concilio di Calcedonia (cf. Frend, The Rise of the Monophysite Movement, p. 181–183). Lo scisma ebbe fine con l’abrogazione dell’Editto di Unione da parte dell’imperatore Giustino nel 518 (cf. Frend, The Rise of the Monophysite Movement, p. 236–238). Il libello di Ormisda (che si legge in Collectio Avellana ap. IV, p. 800–801 ed. Guenther in CSEL 35, 2, Prag, Wien, Leipzig, 1898) fu firmato non solo dai vescovi, ma anche dagli archimandriti di Costantinopoli, come scrive il diacono Dioscoro nella sua relazione a Ormisda (Collectio Avellana, ep. 167, 12). Non sembra che le fonti riportino il numero dei libelli che giunsero effettivamente a Roma; comunque Rustico, data la sua posizione, poteva evidentemente avere informazioni più dettagliate di quelle in nostro possesso a questo proposito.

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1252A

Disputa, 1251D–1252C

po presente è quello dell’incredulità e dell’allontanamento dalla fedea, per cui piuttosto ti devi affrettare alla conversione e alla correzione, perché tu, reso degno di essere strappato dai mali presenti e futuri, goda degli infiniti beni di Dio nel regno dei cieli; e questo ci sia concesso di ottenerlo per grazia e dono del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. 1252B

1252C

Eretico: Se vorrai osservare più attentamente quello che ho detto, troverai subito che io ho dimostrato che voi introducete due figli non perché parlate di una sola persona e sussistenza, ma perché parlate di due nature di Cristo anche dopo l’unione; e quindi, se non scioglierai le mie questioni, per quanto tu predichi un solo Figlio, tuttavia ne introduci due. Rustico: Se il padre carnale di qualcuno è anche suo vescovo e dottore, è suo padre non solo secondo la carne, ma anche secondo lo spirito e, benché sia padre riguardo cose diverse e in due modi diversi, tuttavia non si dice che è padre di due figli quando si parla di uno solo. Infatti anche voi, benché diciate che una sola è la natura della divinità e della carne tramite l’unione, tuttavia non dite che concorrono riguardo alla medesima cosa o riguardo al medesimo Padre di lui, in modo che sia Figlio di Dio in quella natura riguardo alla quale è per natura figlio dell’uomo; infatti non potrete dire che la natura del Cristo intero, che dite che esiste da due nature inconfuse, è semplice ora come lo era prima dell’incarnazione, se non secondo la sola divinità. O quindi la tua obiezione si opporrà insieme a noi e a voi e non può portarvi la vittoria contro di noi, poiché non giova neppure contro coloro che introducono due figli; o, se vuoi sconfiggerli insieme con noi, rispondi loro quello che senti da noi. Sii vinto, quindi, per vincere due volte, sia sull’errore che è in te sia su quello che è in loro. Altrimenti, se è conseguenza della nostra posizione che noi introduciamo due figli, sarà anche conseguenza della vostra che voi da due figli ne introduciate uno solo: ma è impossibile che da due figli se ne faccia uno solo. Eretico: Desidero che tu chiarisca quanto dici.

a 

Cf. I Tim. 3, 1–5.

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116

Contro gli Acefali

Rustico: Rispondi, se puoi: secondo cosa Dio il Verbo è Figlio di Dio, secondo la semplice sostanza della divinità che preesiste infinitamente all’incarnazione o, come dite, secondo la natura composta dalla divinità e dalla umanità? Eretico: Secondo la semplice sostanza della divinità. Rustico: Ma l’uomo o l’umanità, ossia la carne, è suo figlio secondo la semplice natura della divinità o, come dite, secondo quella composta? Eretico: Non secondo quella semplice, ma secondo quella composta. Rustico: Come possono dunque non essere due i figli, secondo i vostri deliri, Dio e uomo, se il Figlio di Dio è Dio non secondo la natura composta, ma secondo quella semplice, e invece il Figlio di Dio è uomo non secondo la natura semplice, ma secondo quella composta? Ecco, sei rimasto preso nei tuoi nodi. Eretico: Ma la sola e la medesima natura è semplice e composta. Rusticoa: Ma, anche se fosse così, ci sarebbe ancora differenza, perché la natura non si trova ad essere semplicemente semplice e composta e ciò che è da una sola natura perfetta non è semplicemente la medesima cosa di quello che è da due nature e perfette.

a  Nell’editio princeps queste parole sono attribuite all’eretico, per cui verrebbe a mancare in mezzo un intervento di Rustico; l’indicazione sembra però erronea, come dimostra il fatto che viene attaccato il concetto di natura composta caro ai monofisiti. Tutta quest’ultima sezione, comunque, è piuttosto problematica.

238

1252D

1253A 1254A

Indici

INDICE SCRITTURISTICO

Esodo 4, 22 7, 1

170 170

1 Re 24, 7

Proverbi 9, 1

166 194 188

Geremia 31, 22

170 170 174

130

Baruc 3, 38 Vangelo secondo Matteo 1, 16 6, 11 10, 28

Vangelo secondo Marco 12, 7

166

Vangelo secondo Luca 1, 28 1, 37 20, 14 20, 37–38

208 102 166 215

Vangelo secondo Giovanni 1, 14 109, 120, 208 3, 13 171 5, 31–32 86 5, 37 86 8, 16–18 87 8, 54–55 87 10, 30 86, 179 12, 44 87 12, 49 87 14, 15–17 86 14, 16–17 188

165

Isaia 13, 3 45, 1 50, 6

166 232

170

Salmi 13, 1 98, 5 118, 52

21, 38 26, 41

171 Atti degli Apostoli 4, 32 17, 28

74 99 232

241

144 92

INDICE SCRITTURISTICO

Lettera ai Romani 4, 17 5, 6 11, 34 Prima lettera ai Corinzi 2, 4 11, 3 Seconda lettera ai Corinzi 4, 16

Lettera ai Galati 4, 19

215 65 176

Lettera agli Efesini 2, 3 4, 5 5, 23

83, 148 216

Lettera agli Ebrei 4, 2 6, 6

85, 134

242

99

123, 125 76 217

143 166

INDICE DELLE OPERE NON BIBLICHE

Ambrogio di Milano De Fide 2, 9, 77 83, 148–149, 184

Concilio di Calcedonia Actio I Actio V

Atanasio di Alessandria Ep. ad Epictetum 81, 174, 189

Concilio di Efeso Collectio Vaticana 47 225 Relatio ad piissimos imperatores a sancta synodo de damnatione Nestorii 222

Attico di Costantinopoli Excerpta Ephesena 20 232 Celestino di Roma Ep. ad Nestorium

199 227

Flaviano di Costantinopoli Ep. confessionis fidei ad Theodosium imp. aug. 197

225

Cirillo di Alessandria Ad Nestorium ep. altera 108, 110,  119, 128, 164, 170–171, 173,  184, 219–220, 221, 222 Ad Nestorium ep. tertia 118 an. 3 118–119 an. 4 118 an. 8 164 Apologia XII anathematismorum, an. 3 125 Ep. Ad Iohannem Antiochenum de pace 75–76, 120, 145, 175, 184 Explanatio XII anathematismorum an. 3 123 Libri V contra Nestorium 143–144

Gregorio di Nazianzo Ep. 101 88, 116–117, 132, 134,  135–136, 140, 145, 152–153,  169, 184, 186, 189, 209 Leone Magno Tomus ad Flavianum 95

228–229

Nestorio di Costantinopoli Ep. ad Cyrillum Alexandrinum 223

243

INDICE DELLE OPERE NON BIBLICHE

Nestorio di Costantinopoli Sermo 15 (frg. 9, 47 Loofs) 170

Sisto di Roma Ep. 5

Pietro di Alessandria Liber de deitate frg. 2

208

Teofilo di Alessandria Ep. 6 82–83

Ps. Felice di Roma Excerpta Ephesena 8 (frg. 186 Lietzmann)

190

244

81

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

213–214, 217, 219–221, 223–224, 226, 228–229, 231–233, 237–238 christotokos 74 compersonale 78 comune 17 n., 23, 42, 72 n., 88, 93, 99 n., 103, 106, 112, 114–115, 116 n., 121, 125, 127, 138 n., 154, 156–158, 160, 162–163, 178–183, 185–188, 191–193, 196 n., 197–199, 201–204, 212, 218–220, 228, 232 Concilio di Calcedonia 66 n., 67, 79 n., 94 n., 121, 146, 160 n., 198, 207 n., 217 n., 224 n., 225 n., 227 n., 228, 236 n. Concilio di Costantinopoli (381) 94 n., 159, 160 n., 161, 167 n., 227 n. Concilio di Costantinopoli (553) 66 n., 200 n., 236 n. Concilio di Efeso (431) 127, 128, 131, 134, 108, 116, 118 n., 69 n., 71, 72, 73, 75 n., 78 n., 81 n., 82 n., 83 n., 88, 145, 148 n., 160–161, 163 n., 184, 190, 205, 208, 212 n., 217, 219, 225 n., 228, 231 Concilio di Efeso (449) 67 n., 197 n., 199, 217, 228 n. Concilio di Nicea 72, 73, 94 n., 99 n., 108 n, 159, 160 n., 162, 225, 230, 231 n.

adozione 136, 152, 166 n., 169, 235 adozionismo 166 n. ambiguo / ambiguità 22, 90 n., 98 n., 116 n., 118 n., 125, 135 n., 138 n., 178, 205 analogia antropologica 21, 89 n., 107 n., 112 n., 115 n., 131 n., 132 anima 21, 24, 75, 76 n., 84–85, 94–97, 107–109, 111–112, 126, 130–137, 184, 186, 199 n., 202, 204, 208–209, 214–215, 219, 233 animale 41 n., 91, 95 n., 96 n., 130 n., 182, 185 n., 214–215 apollinarismo 206 n., 223 n. arianesimo 81 n., 82 n., 86 n., 118 n., 196 n., 223 n. arcivescovo 67 n., 75, 80 n., 110, 117, 144, 225 assunzione 47 n., 128, 167 n., 219 battesimo 76, 130, 152, 161 n., 162 n., 166, 169, 235 carne 38, 44 n., 69 n., 70–72, 75, 76 n., 83, 92–95, 105, 108–110, 112–115, 119–120, 123 n., 128, 132, 143, 145, 148–149, 153–158, 163–165, 167, 168 n., 169–174, 176–177, 180–187, 191, 193–195, 201–204, 206 n., 208–209, 211,

245

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

divisione 22, 38, 48, 69 n., 118 n., 134 n., 151, 164, 172–173, 196 n., 207, 209 dualità 47, 100, 102, 151, 172, 177–180, 191–193, 195, 204–205, 223–224

congiunzione 22, 118, 153, 154, 207 n., 223, 226 consustanziale 46, 72, 75, 77–78, 83–84, 91, 93–94, 96–97, 99 n., 105, 115, 129, 160 n., 164, 192 n., 193–194, 201, 214, 226 consustanzialità 20–21, 23, 46–47, 69 n., 95–96, 161 n., 167, 172 n., 196, 207 n. corpo 21, 24, 41 n., 71, 75, 81–82, 84–85, 89, 91 n., 93–96, 97 n., 99 n., 106–110, 111–112, 115, 126, 127 n., 130–137, 164, 172–173, 182 n., 184, 186, 189, 190 n., 194, 206 n., 209, 214–215, 219–221, 223, 232–233 creazione 65, 96 n., 230

economia 97, 165, 193, 224, 229 equivoco 93 n., 127, 184, 185 n., 191–192, 206, 207 n. esistenza 44–45, 71, 183 n., 196 n., 203 n. essenza 89, 92 n., 150, 171 n. , 202, 214 fede 15, 17, 26, 27, 39 n., 66–67, 69, 71, 73, 76, 81, 88, 116, 119–121, 128 n., 129–130, 135–136, 139 n., 143, 150–151, 159–160 n., 161, 176 n., 198, 201, 205, 207 n., 221, 225, 235 n., 236 filosofia 9, 32, 65 n., 91 n., 113 n., 183 n. forma 95, 160, 185, 213, 228, 234

definizione 17, 23, 25 n., 34, 39–45, 67, 73, 90 n., 91 n., 93, 94 n., 104 n., 116 n., 117 n., 125 n., 127 n., 115, 155 n., 180–184, 185 n., 190 n., 192, 207 n., 209 n., 210–212, 218, 224 n., 227, 228 n. diacono 7–9, 10 n., 11–14, 15 n., 16, 20 n., 25, 64, 66–67, 80 n., 111 n., 138 n., 236 n. dialettica 31, 91 n., 152 n. diavolo 73, 235 dispensazione 45, 131 divinità 20–22, 24, 36, 38, 46, 48, 72 n., 75–76, 81 n., 83–84, 88, 90, 92–94, 97, 103–105, 107 n., 110, 114 n., 115, 117, 118 n., 126 n., 127 n., 128, 131 n., 132, 133 n., 136, 142 n., 145–149, 153–156, 158, 162, 165–167, 169, 171–174, 176–177, 178 n., 181–182, 184, 186, 193, 196 n., 202, 205–206, 207 n., 208–211, 218, 220–221, 223–224, 226, 228, 232, 237–238

geenna 66, 234–235 generale 92, 125 generazione 82, 95 n., 96, 165, 220–221, 223–224 genere 21, 73, 89–93, 99 n., 127 n., 131 n., 138 n., 183 n., 187 n., 188, 192, 203–204, 212 grazia 77, 152–153, 156, 208, 220, 234, 237 hypostasis 116 n., 118 n. immutabile / immutabilmente 72, 73, 89, 127 n., 143, 151 immutabilità 73, 230 impassibile / impassibilità 73, 127 n., 145, 165–167, 209, 220–221, 229–230, 232

246

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

mondo 10, 11, 65, 80 n., 89, 90, 100–101, 104, 111 n., 132, 150, 195, 217, 231, 234, 235 monofisismo 7, 19, 110 n., 111 n., 206 n. morte 17 n., 19 n., 25 n., 71, 73, 96, 97 n., 168 n., 196 n., 220, 222–224, 228 n., 229, 232, 234, 236 n. mutamento 73, 145, 207, 209, 219

incarnato 24, 70–71, 75 n., 81 n., 84, 147 n., 157, 190 n., 197–199, 217, 219, 224 incarnazione 22–24, 38, 44, 75–76, 81 n., 82 n., 88 n., 89 n., 97 n., 108 n., 109, 114, 117 n., 130 n., 131 n., 132, 138 n., 139 n., 142 n., 143 n., 144 n., 153 n., 166 n., 171 n., 180, 206 n., 228 n., 237–238 inconfuso 47, 75, 105, 237 incorruttibile / incorruttibilità 66, 69 n., 73, 220 individuale 22, 40, 41 n., 42–45, 77, 90, 94, 97 n., 103–104, 106–107, 112, 114 n., 115, 116 n., 125–128, 131, 163 n., 181–182, 183 n., 190 n., 196 n., 203–204, 212–214, 218 individualità 42–43, 125 n., 127 individuo 89–90, 103–104, 109, 182, 203, 212, 218 indivisibile/indivisibimente 88, 90 n., 143 inseparabile/inseparabilmente 45, 103, 104, 106, 131, 151, 165, 207, 209, 232 intelletto 41 n., 45, 113, 183 n., 200 n., 202, 203 n., 213, 234, 235 inumanato 75 n., 197 n., 219, 229 inumanazione 76 n., 106, 109–110, 131, 154, 163, 177, 198–199, 202–203, 215, 218, 227 irragionevole 41 n., 126, 128, 181 irrazionale 104 n., 105, 129, 212

nascita 44 n., 70, 96 n., 101 n., 114, 143 n., 159 n., 169, 220 natura 19, 20–24, 39–42, 43 n., 44–48, 63 n., 64, 68–70, 72 n., 73, 75–79, 80 n., 81, 83–85, 86 n., 87–90, 92–93, 96–110, 112–116, 118 n., 119–142, 143 n., 145–154, 155 n., 156–160, 162–166, 168– 174, 176–187, 190–213, 215–224, 226–227, 229–234, 237–238 numero 47, 77, 89, 100, 105–106, 109, 125, 133, 146, 154, 164, 171–172, 178, 180, 187–188, 191–195, 201, 210, 235, 236 n. omonimo 155 n., 192 n. origenismo 19, 110 n., 111 n., 112 n., 200 n. origenista 82, 110 n., 111 n., 200 n. ousia 92, 99 n., 116 n., 181 n., 190 n. pace 26 n., 28, 30, 63 n., 67, 68, 75, 79–80, 118 papa 7, 8, 9, 10 n., 11, 12, 13 n., 14–16, 24, 28, 38 n., 71 n., 74 n., 75, 80 n., 98 n., 117 n., 166 n., 175, 184, 189 n., 217 n., 225, 228 n., 231, 236 n. paralogismo 129 passione 44 n., 70, 83, 114, 115, 149, 154, 157–158, 162, 165, 174, 223, 224, 229

libero arbitrio 123 n., 131 libertà 10 n., 18 n., 64, 115, 235 materia 82, 92 n., 95, 109, 168 mescolanza 22, 88, 136, 142 n., 143, 144 n., 145, 147, 189 miracolo 44 n., 70, 102, 105, 129, 156, 173, 177–178, 228–229

247

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

178–179, 183 n., 185 n., 187–188, 192, 202, 203 n., 204, 206, 207 n., 213, 217, 225 n. resurrezione 91 n., 97, 169, 220

patriarca 11, 23 n., 28, 37, 38 n., 64 n., 75 n., 79 n., 82 n., 108 n., 117–118 n., 122 n., 123 n., 124 n., 161 n., 196 n., 199 n., 228 n., 232 n., 236 n. peccato 63, 83, 96 n., 109, 123 n., 128, 131 n., 177, 209 persona 17 n., 19 n., 20–24, 26–28, 38–45, 69 n., 70–71, 74, 76–78, 84–85, 86 n., 87–90, 98, 99 n., 100–103, 104 n., 105–109, 112, 114–122, 124–133, 138 n., 139– 141, 146, 148, 153 n., 154, 155 n., 156–158, 159 n., 162–163, 166 n., 168, 171 n., 173–174, 176–184, 186–188, 190, 191–193, 195–199, 201, 203–207, 211–219, 222, 224, 228–229, 232–234, 237. physis 190 n., 205 n. pontefice 7–10, 12–15 preesistenza 110, 111 n., 199 n., 200 n., 202 n., 208 n.

salvezza 44 n., 70–71, 75, 81, 115, 165, 177, 194 n., 213–214, 216, 220 sangue 128, 194 sillogismo 83, 129 simbolo 100 n., 159–162, 163 n., 209, 227, 231 sinodo 26 n., 28, 29, 63 n., 67, 73, 80, 82 n., 117 n., 188, 221, 228 n., 232 n., 235 n. sostanza 17 n., 21, 22, 24, 39, 40, 42, 43 n., 47, 70 n., 72, 77, 78, 83, 89, 90, 92, 93, 94, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104 n., 105, 106, 108, 109, 114 n., 116, 123 n., 124, 125, 127, 129, 133, 139, 142 n., 146, 148, 149, 150–153, 156, 158, 159, 160–163, 167, 169, 170, 172, 177, 180, 181, 182, 183, 185 n., 186, 191, 193, 196–199, 201, 103, 205, 207, 211–212, 218, 221–222, 228, 230–231, 233–234, 238 sostanziale 47, 97–101, 104, 106–107, 153, 212 specie 17 n., 21, 89–90, 91 n., 92–93, 97, 103–106, 127 n., 131 n., 133, 152 n., 182, 183 n., 192, 203–204, 212, 216 superbia 66 n., 176 n., 189 n. supersostanziale 99 sussistenza 22–24, 39–40, 43–45, 70, 72, 88–90, 101, 103, 107, 108 n., 109, 116–122, 124–126, 128, 130, 133, 136, 143, 145–146, 151, 154, 158, 160, 166, 173, 182–183, 186– 189, 196, 203–204, 206–207, 210, 212–214, 216–222, 224, 228, 231, 234, 237

qualità 142 n., 170, 181 n., 211 quantità 47, 77–78, 105, 154, 174, 177–179, 185, 192, 194–195, 205, 211, 231 quaternità 22–23, 178–180, 182–184, 187, 191–193, 195, 199–201, 210 ragionevole 104 razionale 17, 40, 42, 43 n., 44, 75, 76 n., 89, 91, 93, 95, 97, 101–103, 104 n., 105, 107–109, 112, 114, 126–130, 132, 135, 176 n., 180, 182, 183 n., 203, 206 n., 209, 212–215, 219, 233 razionalismo 130 n., 176 n. razionalmente 130, 150 realtà 21, 42, 45, 47, 73, 77, 81 n., 92, 96–100, 101 n., 104–107, 115–116, 121–122, 124, 130, 133 n., 135 n., 136 n., 138, 147 n., 151, 155 n., 172,

248

INDICE DELLE COSE NOTEVOLI

theotokos 74, 108 n., 117 n., 223 n. triteismo 23, 183 n., 190 n., 196 n. triteita 23 n., 64 n., 196 n.

universale 27, 67 n., 75, 103, 107, 117, 125, 135, 144–146, 160–161, 183 n., 184, 190, 203 n., 219, 221, 235–236

umanità 20–22, 24, 29, 38, 43–48, 69–70, 72 n., 73, 75–76, 78–79, 81 n., 83–84, 89–90, 92–97, 102–105, 107 n., 110, 112–113, 115, 117 n., 118 n., 127–128, 131 n., 132, 133 n., 142 n., 146–149, 151, 153–156, 158, 162, 164–165, 167 n., 171–174, 176–177, 178 n., 181–186, 190 n., 192, 194, 203, 205–206, 207 n., 209–211, 213–218, 220, 223 n., 231–232, 238

verità 79, 86, 89, 103, 105, 106, 125, 129, 140, 150 n., 152 n., 170, 179, 186, 188, 208, 213, 219, 223, 228, 235 vescovo 8, 10, 11, 14–15, 16 n., 17, 18 n., 25–29, 33 n., 63 n., 64, 67 n., 71 n., 75 n., 81 n., 98 n., 108 n., 111 n., 134 n., 148, 149 n., 159 n., 161 n., 163 n., 166 n., 167 n., 175 n., 189 n., 197, 208 n., 218–219, 236 n., 237

249

INDICE DEI NOMI

Atanasio di Alessandria 81 n., 82 n., 167 n., 174–175 Attico di Costantinopoli 232 n. Aureliano di Arles 16 n.

Abelardo 36 n. Acacio di Costantinopoli 236 Acacio di Melitene 80 n. Acefali 7, 63, 64 n., 79 n. Acemeti 18, 67 n. Adamo 73, 168 Agapito 10 n. Agostino 30, 41 n., 66 n., 86 n., 91 n., 95 n., 98 n., 104 n., 123 n., 130 n., 146 n., 152 n., 167 n., 194 n., 215 n., 234 n. Alessandria d’Egitto 17, 67 Ambrogio 22, 82 n., 83, 92 n., 99 n., 100 n., 143 n., 146 n. 149 n., 152 n. Ammonio 155 n. Anatolio di Costantinopoli 26 n. Andrea di Samosata 117 n. Antinoopoli 17, 67 Antioco 225 Apollinare di Laodicea 81 n., 159 n., 167 n., 170, 189 n., 190 n., 206, 207 n., 223, 227 Apuleio 91 n. Aratore 10, 11 Ario 86 n., 94 n., 161 n., 167, 169–170, 223 Aristotele 32, 95 n., 113 n., 129 n., 155 n., 185 n., 214 n. Aronne 99 Atalarico 8

Basilio di Cesarea 181 n. Belisario 8 Boezio 32, 34, 39–42, 48, 65, 85 n., 91 n., 93 n., 98 n., 99 n., 104 n., 105 n., 113 n., 125 n., 126 n., 127 n., 129 n., 171 n., 172 n., 182 n., 185 n., 206–207 n., 212 n. Bonifacio II 10 n. Callinico 196 n. Callisto 166 n. Carisio 161, 162 n. Cassiano 178 n. Cassiodoro 9, 13, 25 n., 100 n. Celestino 75, 117 n., 184, 225, 231 Celso 182 n. Cetego 13 Cicerone 30, 36, 91 n., 202, 225 n. Cipriano di Cartagine 234 n. Cirillo di Alessandria 11, 20, 22, 25 n., 26 n., 28, 36–38, 63 n., 68–70, 71 n., 75, 78, 79 n., 80 n., 81, 82 n., 108, 109 n., 100 n., 110, 117, 118 n., 121 n., 122–125, 128, 139 n., 142 n., 143–145, 164,

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INDICE DEI NOMI

Gaiano 69 n. Gelasio di Roma 74 n. Giovanni Ascotzanghes 23 n., 183 n., 196 n. Giovanni Crisostomo 37 n., 82 n., 232 n. Giovanni di Antiochia 37, 75, 78 n., 80 n., 81, 109 n., 117 n. Giovanni Filopono 183 n. Giovanni Massenzio 112 n., 196 n. Girolamo 99 n., 130 n. Giuda 13 n. Giuliano di Alicarnasso 69 n. Giulio di Roma 189–190 n. Giustiniano 11, 13, 16 n., 18, 19 n., 29, 38, 108 n., 187 n. Giustino 236 Gregorio di Nazianzo 22, 34, 85 n., 88, 107 n., 116, 131 n., 134–139, 141 n., 142 n., 144 n., 145, 147 n., 148, 163 n., 169, 171 n., 172 n., 184, 192 n., 228 n. Gregorio di Nissa 100 n., 142 n.

173–175, 184, 190 n., 199 n., 205 n., 218, 221 n., 225, 232 n. Cirillo di Scitopoli 200 n. Ciro 170 Clemente di Alessandria 155 n. Costantinopoli 10 n., 11, 16–18, 67, 111n., 149 n., 196 n., 222 n., 236 n. Davide 224 Diodoro 201 Diogene di Cizico 159 n. Dioscoro di Alessandria 26 n., 199, 201, 217 n., 227, 228 n., 236 n. Egitto 8, 16, 17 n., 18 n., 64 n., 110 n. Elladio 27 n. Ennodio 9 Epitteto di Corinto 81 n., 176 Eraclito 155 n. Eulogio 205 n. Eunomio 181 n. Eusebio di Cesarea 36 n. Eutiche 47 n., 64 n., 79 n., 80, 85 n., 96 n., 125 n., 138–139 n., 140 n., 159 n., 172 n., 190 n., 197 n., 199, 205 n., 207 n., 212 n., 217 n., 227 Eutichio di Costantinopoli 18 n.

Ibas di Edessa 11, 25–29, 141 n., 201 Ilario di Poitiers 90 n., 92 n., 96 n., 98 n., 101 n., 188 n., 143 n. Ireneo di Lione 35 n. Isidoro di Pelusio 82 n. Isidoro di Siviglia 25 n., 168 n.

Facondo di Ermiane 13 n., 15 n., 25–29, 37 n., 38–39, 63 n., 71 n., 76 n., 82 n., 111 n., 113 n., 149 n., 150 n., 161 n., 175 n., 187–189 n., 141 n., 232 n., 235 n. Fausto di Riez 90 n. Felice di Gilli 14 n., 15 n., 16, 17 n., Felice di Roma 189 n. Ferecide Siro 95 n. Ferrando 155 n. Flaviano di Costantinopoli 138–139 n., 197 n., 217 n., 228 n. Frontino di Salona 17 Fulda 49 Fulgenzio di Ruspe 90 n.

Lattanzio 36 n. Lazzaro 194 Leone imperatore 236 Leone Magno 10 n., 13 n., 24, 28, 96 n., 98 n., 197 n., 217 n., 228–229, 231 Liberato di Cartagine 36 n., 74 n., 111 n. Macrobio 143 n. Mani 123, 125 Marciano 236 n.

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INDICE DEI NOMI

Reparato 8–9 Roma 8, 10, 11, 14, 15 n., 16, 66 n., 71 n., 75, 80, 117 n., 166 n., 189 n., 236 n. Rufino 36 n., 90 n.

Mario Mercatore 33 n. Mario Vittorino 36, 90 n., 182 n. Marziano Capella 91 n., 113 n. Memnone di Efeso 63 n. Menas di Costantinopoli 11 Milano 8 Minucio Felice 30, 68 n. Mosè 170

Sabellio 86 n., 166 Saul 170 Sebastiano, diacono di Roma 12–14, 16, 67 n. Severo di Antiochia 46 n., 69 n., 142 n., 146 n. Simmaco 10 n. Sinope 17 n. Sisto III 25 n., 38 n., 71 n., 80, 81, 184 Stobeo 92 n. Succenso 79 n., 80 n.

Nestorio 11, 18, 26, 28, 33 n., 38, 40, 46, 48, 68–69, 71 n., 74–76, 78 n., 81, 85 n., 88, 89, 102, 108 n., 116–117, 118 n., 122 n., 125 n., 127, 129, 134 n., 144, 167, 169–170, 205 n., 206, 207 n., 207 n., 212 n., 222, 223 n., 225, 227, 228 n. Origene 110, 111 n., 140 n., 199, 200 n., 208 n. Ormisda 10 n., 236 n.

Tebaide 16, 17, 67 Teodoreto di Cirro 11, 25–26, 80 n., 117 n., 118 n., 141 n., 201 Teodoro di Cesarea 111 n. Teodoro di Mopsuestia 11, 12 n., 13, 25–26, 28–29, 141 n., 161 n., 201 Teodosio di Alessandria 23 n., 64 n., 196 n. Teodosio II 198, 228 n. Teofilo di Alessandria 82, 110, 232 n. Tertulliano 86 n., 106 n. Timoteo Eluro 236 n.

Paolo 10 n., 125, 132, 134, 135–137, 138 n. Paolo di Samosata 166–167, 169–170 Paolo, diacono di Roma 14 Pelagio 10 n., 25, 111 n. Pietro 10 Pietro I di Alessandria 208 n. Pietro Mongo 64 n., 236 Plinio il Vecchio 95 n. Porfirio 91 n., 93 n., 155 n., 183 n. Primasio di Adrumeto 25 Procopio 8 n., 9 n. Proterio 236 n.

Valentiniano di Tomi 8, 14, 16 n. Valeriano 224 Vigilio di Tapso 35 n., 90 n. Vigilio 7–16, 236 n. Virgilio 100 n. Vittore di Tunnuna 8, 16–18

Quintiliano 204 n.

Zenone 64 n., 159 n., 236 n.

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