Riconoscimento. Storia di un’idea europea 9788858835623

Axel Honneth è uno dei maggiori filosofi europei e dirige l’Istituto per la ricerca sociale fondato da Max Horkheimer e

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Riconoscimento. Storia di un’idea europea
 9788858835623

Table of contents :
Indice......Page 4
Frontespizio......Page 2
Premessa......Page 6
1. Storia delle idee e storia dei concetti: una premessa metodologica......Page 8
2. Da Rousseau a Sartre: riconoscimento e perdita di sé......Page 14
3. Da Hume a Mill: riconoscimento e autocontrollo......Page 40
4. Da Kant a Hegel: riconoscimento e autodeterminazione......Page 64
5. Forme di riconoscimento a confronto: un tentativo di riassunto sistematico......Page 88
Note......Page 117

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Axel Honneth Riconoscimento Storia di un’idea europea Traduzione di Flavio Cuniberto

Titolo dell’opera originale ANERKENNUNG. EINE EUROPÄISCHE IDEENGESCHICHTE © Suhrkamp Verlag Berlin 2018 All rights reserved and controlled through Suhrkamp Verlag Berlin Traduzione dal tedesco di FLAVIO CUNIBERTO © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2019 da prima edizione in “Campi del Sapere” aprile 2019 Ebook ISBN: 9788858835623 In copertina: Alicja Kwade, “Light Transfer of Nature I, 2015”, mirror, copper, wood. Unique © Alicja Kwade, courtesy the artist Photo: Roman März. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Indice Premessa 1. Storia delle idee e storia dei concetti: una premessa metodologica 2. Da Rousseau a Sartre: riconoscimento e perdita di sé 3. Da Hume a Mill: riconoscimento e autocontrollo 4. Da Kant a Hegel: riconoscimento e autodeterminazione 5. Forme di riconoscimento a confronto: un tentativo di riassunto sistematico Note

A Jürgen Habermas, con gratitudine

Premessa

Questo studio nasce da un invito del Cambridge Centre for Political Thought, che mi propose di tenere le John Robert Seeley Lectures previste (con cadenza biennale) nel maggio 2017. Un po’ intimidito dalla grande fama che accompagna da tempo questo centro nel campo della storia delle idee politiche, decisi subito di adottare una misura prudenziale: le mie lezioni avrebbero affrontato un tema di “storia delle idee”, ma un tema nel quale potessi già vantare una qualche autorità. Da questo calcolo – avventurarmi sul terreno delle idee politiche trattando tuttavia una materia filosofica a me ben nota – è nato lo studio che segue: sulla linea della stessa Cambridge School e della nostra “storia dei concetti”, mirante a ricostruire una serie di categorie chiave del discorso politico allo scopo di chiarire la genesi – spesso complicata e conflittuale – dei concetti basilari della democrazia, l’obiettivo che mi propongo è di esaminare il concetto di “riconoscimento”, un concetto che negli ultimi tempi ha acquisito una certa rilevanza. Nei cinque capitoli del mio libro cercherò dunque di mettere a nudo le radici storiche di questo concetto, oggi per noi evidente, secondo cui il rapporto intersoggettivo è determinato dal reciproco riconoscimento – cioè dalla reciproca attribuzione di valore – da parte dei soggetti in gioco. Che il compito prefissato sia difficile risulta già dal fatto che l’idea di “riconoscimento” assume oggi significati assai diversi in contesti diversi. Se in certi casi la dipendenza del singolo dal riconoscimento sociale è vista come la sorgente prima della moderna morale egualitaria, in altri casi è visto come un puro strumento per avviare l’individuo sulla retta via di un comportamento socialmente positivo. In altri casi ancora questa stessa dipendenza è un motivo di sospetto, come fosse la radice di un fondamentale autoinganno dell’individuo circa la propria personalità “autentica”: il riconoscimento metterebbe insomma in pericolo la “vera” individualità. Questa diversa valutazione dipende in parte, come si vedrà, dalle diverse sfumature semantiche che il concetto assume nei vari ambiti linguistici. Mentre in francese lo si esprime con il termine “re-connaissance” e in inglese con il termine “re-cognition”, il tedesco “An-erkennung” non parla di un “riconoscere”, ma piuttosto di un “conoscere verso”.1 Altre differenze risultano

poi dalle catene associative che nel corso del suo utilizzo storico concreto si sono insinuate nelle varianti locali del concetto: intendere per “riconoscimento” la reputazione sociale di una persona o intendere invece qualcosa che non dipende dalla sua immagine pubblica perché riguarda un livello più profondo è una differenza non da poco nell’uso teoretico del concetto. Un’altra differenza rilevante nell’uso del concetto è se il “riconoscimento” viene inteso come un atto morale, come una attestazione di rispetto verso l’altro, o piuttosto, e più radicalmente, come un processo epistemico, che riguarda la nostra conoscenza dei fatti oggettivi. Tali questioni – le differenze semantiche di base, le diverse associazioni che accompagnano il concetto nei diversi contesti locali – hanno fatalmente un ruolo non secondario nel tentativo di ricostruire la storia moderna del “riconoscimento”. Prima però di affrontare il problema, vorrei esprimere la mia gratitudine a coloro che, con il loro lusinghiero invito, mi hanno suggerito l’idea stessa della ricerca. In primo luogo, vorrei ringraziare John Robertson, che in qualità di direttore del Cambridge Centre for Political Thought mi ha invitato a tenere le Seeley Lectures 2017: con la sua generosa ospitalità ha reso possibile e piacevole il mio soggiorno a Cambridge, ma ha anche contribuito, con le sue acute osservazioni fondate su una conoscenza profonda dell’Illuminismo europeo, ad affinare non poco il mio punto di vista sull’evoluzione del concetto. Allo stesso modo vorrei rivolgere un sentito ringraziamento a John Dunn, Christopher Meckstroth e Michael Sonenscher, i cui commenti e obiezioni mi hanno impedito di giungere a conclusioni affrettate e forse arbitrarie. Per quanto riguarda, infine, il quarto capitolo del lavoro, che si occupa del “riconoscimento” nel pensiero dell’idealismo tedesco, devo suggerimenti importanti a Michael Nance, che ha trascorso due semestri come borsista Humboldt all’Istituto di Filosofia della GoetheUniversität di Francoforte: anche a lui va il mio sentito ringraziamento per la sua collaborazione. La spinta decisiva a trasformare le mie lezioni in una vera e propria monografia è venuta da Elizabeth Friend-Smith della Cambridge University Press e da Eva Gilmer della Suhrkamp, che con garbata insistenza e amichevoli richiami mi hanno permesso di consegnare il manoscritto con relativa puntualità. Vorrei infine ringraziare Eva Gilmer per avere intrapreso anche questa volta quella che è ormai un’affettuosa consuetudine: l’accurata e meticolosa revisione del mio manoscritto.

1. Storia delle idee e storia dei concetti: una premessa metodologica

Come già accennavo nella Premessa, è importante, per la nostra cultura democratica, ripercorrere la genesi e lo sviluppo di quelle idee o concetti su cui si fonda tuttora la nostra convivenza politico-sociale: solo nello specchio di una riflessione storica possiamo infatti riconoscere collettivamente perché siamo diventati quello che siamo e quali istanze normative sono implicite in questa comprensione di ciò che siamo. Una riflessione storica di questo genere dovrà estendersi anche al concetto di “riconoscimento”: un concetto che da alcuni decenni è entrato a far parte del nostro repertorio politicoculturale di base, lo si intenda come la necessità di un rispetto reciproco tra i membri con pari diritti di una stessa comunità,1 o come l’esigenza insopprimibile di riconoscere la specificità dell’altro,2 o ancora come la necessaria legittimazione delle minoranze culturali nel senso di una “politica del riconoscimento”.3 Al proposito di ricostruire la storia moderna dell’idea di riconoscimento si accompagna pertanto l’auspicio di mettere ordine in questo campo semantico complesso, dando così un contributo al chiarimento della nostra attuale autocomprensione politico-culturale. Prima però di affrontare direttamente il tema, sarà opportuno spendere qualche parola sul metodo della ricerca e sui suoi obiettivi, poiché l’intento di mettere a nudo la genesi dell’idea attuale di riconoscimento può comportare esigenze e aspettative di natura e di complessità assai diversa. Il tentativo di ripercorrere storicamente il concetto di riconoscimento si muoverà, per varie ragioni, tra due confini ben precisi. Da una parte, sarebbe un grave equivoco pensare che si voglia inseguire qui un’unica, determinata, espressione linguistica. A differenza di altri concetti chiave dell’attuale discorso politico – per esempio “stato”, “libertà o “sovranità” – l’idea che ci aleggia nella mente quando parliamo di “riconoscimento” non corrisponde a un termine univoco, storicamente ben definito. L’idea che gli esseri sociali siano legati fra loro da varie forme di riconoscimento trova, nel pensiero moderno, formulazioni linguistiche diverse: richiamandosi ai moralisti francesi, Jean-Jacques Rousseau usava, a questo proposito, l’espressione “amour propre”, mentre Adam Smith parlava di un “osservatore esterno”

trasferito all’interno, e solo Johann Gottlieb Fichte e Georg Wilhelm Friedrich Hegel utilizzano finalmente la categoria oggi invalsa di “riconoscimento” [Anerkennung]. La genesi storica dell’idea attuale di riconoscimento non potrà dunque limitarsi all’esame di una singola espressione: se ci ostinassimo a ricostruire la storia di un singolo termine perderemmo di vista troppi contesti semantici collaterali e troppe indicazioni teoriche di grande rilievo. Non si tratterà dunque della storia di un concetto nel senso stretto del termine: sarà piuttosto una storia delle idee in cui si partirà da un nucleo concettuale di base, cercando di seguirne gli sviluppi e gli arricchimenti. E la prima questione – non facile – con cui dovrò confrontarmi è se vi sia in questa ricerca un solido punto di partenza. Certo, anche una storia dell’“idea” di riconoscimento può seguire i percorsi metodologici più vari: pensatori come Robin G. Collingwood e Quentin Skinner, Michel Foucault e Reinhart Koselleck – per citarne solo alcuni – hanno elaborato modelli assai diversi di cosa significhi ricostruire storicamente le origini e l’evoluzione di un certo pensiero. Ma se qui mi propongo di ripercorrere la genesi dell’idea di riconoscimento, non intendo per questo conformarmi alla storia delle idee in un senso strettamente disciplinare; e nemmeno intendo sollevare l’intricata questione dei rapporti causali che possono intercorrere, storicamente, tra le varie versioni di una medesima idea, dai contorni peraltro vaghi. Una “vera” indagine storica di questo genere richiederebbe, per parafrasare Michael Dummett, di dimostrare, documenti alla mano, gli influssi su un certo pensatore e, a tale scopo, sempre citando Dummett, sarebbe necessario “verificare le date di pubblicazione, decifrare diari ed epistolari e studiare interi cataloghi di biblioteche, in modo da stabilire che cosa il tale autore ha letto o potrebbe avere letto”.4 Ma la mia formazione accademica non mi permette di padroneggiare questo tipo di strumenti: non ho una particolare esperienza di ricerche bibliografico-filologiche, e non rientra nelle mie abitudini di studioso l’esame storicamente rigoroso degli influssi intellettuali. Dovrò accontentarmi di una “storia delle idee” assai meno esigente della disciplina che va comunemente sotto questo nome. Ciò che mi interessa è comprendere come un certo concetto che è, per così dire, “nell’aria” – quello di “riconoscimento” – si sia sviluppato in varie direzioni e come abbia assunto significati sempre nuovi e istruttivi. Se poi questi diversi discendenti di un’unica idea di partenza convergano alla fine in un significato unitario, o se invece rimangano blocchi semantici isolati, privi di una coerenza

complessiva, è una questione che affronterò al termine della mia ricostruzione storica. In ogni caso, quello che seguirò sarà lo sviluppo argomentativo di un’idea, e non la storia della sequenza causale degli influssi che un autore può avere esercitato su un altro. Non ci si aspetti dunque che la mia ricerca porti alla luce nuove costellazioni intellettuali o nessi storici insospettati: quello che è lecito aspettarsi sarà, nel migliore dei casi, un nuovo punto di vista su un materiale già ampiamente noto. C’è, però, un punto in cui credo che la mia ricerca possa andare oltre i risultati consueti della storia delle idee moderne. Una questione, infatti, a cui dedicherò una particolare attenzione è in quale misura le condizioni socioculturali di un certo paese abbiano potuto conferire all’idea di “riconoscimento” una sfumatura o una tonalità specifica, propria di quel contesto. Se l’idea che i soggetti sociali siano legati da un rapporto di riconoscimento ha assunto nel pensiero moderno molteplici significati, la mia ipotesi è che questa varietà abbia a che fare con le peculiarità nazionali delle rispettive culture. Questa ipotesi – che è, bisogna ammetterlo, rischiosa – non può non accordare alla mia ricerca un’impostazione particolare: non potrò orientarmi sui singoli autori per farne emergere i tratti individuali, ma dovrò considerare gli autori della stessa area linguistica come rappresentanti di un gruppo unitario accomunato da convinzioni teoretiche e da criteri di valore. Ciò significa che dovrò considerare le opere dei singoli autori come esempi di una cultura comune: non ci si dovrà dunque stupire se il fil rouge della mia ricerca saranno proprio le peculiarità nazionali che contraddistinguono i diversi approcci alla questione del “riconoscimento”. Naturalmente, sono consapevole del fatto che questo tipo di linguaggio potrebbe riecheggiare una tradizione pericolosa, in cui era consuetudine parlare dello “spirito del popolo” (Volksgeist) o dell’“anima” di una nazione. E dovremo guardarci – specialmente noi tedeschi – dal riesumare ingenuamente questa idea di un “sentimento” nazionale comune, attribuibile a un’intera collettività. Non si parlerà pertanto di “mentalità” collettive o simili: quando parlo delle peculiarità nazionali in rapporto alla semantica del “riconoscimento”, intendo piuttosto che le circostanze socioculturali di un certo paese possono avere indotto i pensatori di quell’area a condividere una determinata concezione del riconoscimento. L’ipotesi di cui sto parlando si potrebbe insomma riassumere così: se il prevalere di certi motivi, temi o stili di pensiero nella tradizione filosofica di un dato paese non sia da ricondurre ai presupposti istituzionali e sociali che lo distinguono dagli altri paesi.5 In

questo senso intendo sostenere che sono proprio le peculiarità nazionali a dare sfumature e tonalità diverse all’idea del “riconoscimento” nei vari paesi. Non sono certo il primo a notare che nel pensiero francese l’idea del riconoscimento reciproco come condizione dell’identità individuale è accompagnata spesso da un segno negativo: a partire, se non prima, da Rousseau, e poi fino a Jean-Paul Sartre o a Jacques Lacan, la tradizione filosofica francese sospetta che la nostra dipendenza dal giudizio e dall’approvazione sociale comporti un grave rischio per l’individualità nei suoi tratti più personali e insostituibili. Questa idea potrà essere articolata e fondata nei modi più diversi, ma il fatto che essa ritorni regolarmente in tutta una serie di autori francesi autorizza il sospetto che non si tratti di un caso, ma che intervengano alcune peculiarità del pensiero francese come tale. Sorge allora l’interrogativo di quali caratteri della storia sociale e culturale francese possano avere dato quella sfumatura negativa al concetto di “riconoscimento”. Una volta imboccata questa strada, sarà inevitabile estendere la ricerca ad altri paesi e domandarsi quali rapporti vi siano tra le circostanze socioculturali di quei paesi e la loro specifica idea di “riconoscimento”. Dopo aver compiuto questo passo, non ci vorrà molto a ipotizzare che siano gli orizzonti di esperienza propri delle diverse culture filosofiche ad attribuire un significato così diverso all’idea di “riconoscimento”, come è avvenuto negli ultimi tre secoli. Resta da chiarire per quale ragione intendo concentrarmi su tre paesi: la Francia, la Gran Bretagna e la Germania. Il motivo di questa scelta è anzitutto di natura pragmatica: gli sviluppi del pensiero politico nei tre paesi, a partire dagli inizi dell’età moderna, sono particolarmente conosciuti. Gli eventi che in questi tre paesi hanno caratterizzato il quadro politico-culturale negli ultimi quattro secoli ci sono di gran lunga più familiari di quanto non lo siano le vicende storico-politiche – pur non meno significative – di altri paesi e contesti culturali europei. Ma la posizione eminente che i tre paesi rivestono nella storia delle idee così come la intendiamo, dipende anche dal fatto che i “classici” del pensiero politico moderno provengono quasi esclusivamente da essi. Con pochissime eccezioni – vengono in mente Baruch Spinoza e forse Francisco Suárez – i filosofi politici che riempiono oggi i nostri manuali si muovono in uno spazio linguistico francese, inglese o tedesco. Se questa gerarchia rifletta soltanto l’imperialismo culturale di tre nazioni più potenti delle altre, o se abbia invece un valore oggettivo, è una questione collaterale non evitabile, e anzi delle più urgenti.

Il mero fatto di sollevare la questione dimostra che la mia scelta non può essere giustificata soltanto con motivi di ordine pragmatico. Se ci fermassimo alle cose dette, le mie riflessioni sarebbero insidiate dal fondato sospetto di rispecchiare la prospettiva filosofica delle potenze europee dominanti. Per dissipare tale sospetto occorrono argomenti ben diversi dallo stato attuale della ricerca e dalle consuetudini scientifiche di una disciplina. Può essere qui di aiuto una riflessione che ho trovato per la prima volta in un saggio di Reinhart Koselleck e che ho poi rintracciato in una serie di contributi ulteriori. Koselleck ritiene che, a partire dal Diciassettesimo secolo, le vicende politico-sociali dei tre paesi in questione rispecchino tre diversi modelli evolutivi della moderna società borghese. Non soltanto la borghesia ha inteso il proprio ruolo in forme diverse nei vari paesi, come risulta dalla diversa semantica dei termini “citoyen”, “Bürger” e “middle class”, ma queste differenze semantiche prefigurano le tre principali linee di sviluppo alternative che il moderno ordine sociale poteva imboccare.6 Non diversa è l’argomentazione seguita da Jerrold Seigel nel suo ricco studio Modernity and Bourgeois Life, dove, partendo dalla diversa immagine che la borghesia ha di se stessa nei tre paesi, prende in esame la Francia, la Gran Bretagna e la Germania come tre varianti sulla strada della modernizzazione. Come Koselleck, anche Seigel muove dall’assunto che questi tre casi esemplari siano ben più che semplici esempi: si tratterebbe piuttosto dei tre modelli evolutivi paradigmatici della moderna società borghese europea.7 Riprendendo e sviluppando l’idea sottesa a queste ricerche, se ne può ricavare un argomento che permette forse di giustificare in termini oggettivi la delimitazione geografica del mio lavoro, circoscritto non solo al continente europeo, ma a tre paesi specifici. Se infatti le cose stanno come Koselleck e Seigel sembrano suggerire, se è vero cioè che le vicende francesi, inglesi e tedesche degli ultimi secoli hanno avuto una funzione paradigmatica anche per il resto dell’Europa, il fatto di limitarmi ai tre paesi non avrebbe un significato puramente pragmatico e in fondo casuale: le diverse sfumature e tonalità semantiche che l’idea di “riconoscimento” assume nei tre paesi fornirebbero lo schema di base a cui il concetto si conforma nell’intero contesto europeo. Ma poiché anche questa riflessione rischia di apparire come una pura petizione di principio, la ripropongo in una forma più sfumata e più cauta: se fosse vero che Francia, Gran Bretagna e Germania mettono in scena, partendo da un’idea diversa di “borghesia”, le tre possibili varianti evolutive della società borghese, varianti che avrebbero un valore

paradigmatico per l’intera Europa, se ne potrebbe concludere che l’analisi storica delle variazioni semantiche del “riconoscimento” in questi tre paesi esaurisce lo spettro dei suoi significati possibili. È questa l’idea di fondo che mi induce a sperare di non proporre, nella mia ricerca, un punto di vista “particolare”. È certo possibile che in altre aree linguistiche del continente europeo si siano presentate varianti significative, illuminanti, del nostro concetto: ma queste varianti non hanno avuto la forza di fissarsi in forme abbastanza vitali da risultare attuali anche oggi. Per motivi che sarebbe facile riassumere, vorrei iniziare la mia analisi di storia delle idee nello spazio linguistico francese: è qui che l’idea del riconoscimento reciproco come base della vita associata ha trovato la prima solida formulazione, contribuendo a sviluppare una concezione dell’intersoggettività molto specifica, dalla spiccata fisionomia nazionale.

2. Da Rousseau a Sartre: riconoscimento e perdita di sé

Già da qualche tempo è in corso una discussione, sottotraccia ma fitta, su quale filosofo moderno abbia introdotto per primo l’idea di “riconoscimento”. Se fino a una trentina di anni fa era opinione comune che fossero Fichte e Hegel, oggi la situazione è assai mutata: non si esita, ora, ad avanzare proposte che farebbero arretrare la data di nascita dell’idea.1 In questo dibattito sulle origini intellettuali e filosofiche del concetto, il passo finora più audace è quello compiuto da István Hont, che nel suo libro Politics in Commercial Society attribuisce nientemeno che a Thomas Hobbes il merito di avere sottolineato per primo il significato decisivo del riconoscimento nella convivenza tra gli esseri umani. La novità pionieristica dell’opera di Hobbes starebbe infatti nell’affermare che non sono tanto i bisogni “fisici”, quanto l’esigenza “psicologica” di distinguersi e di primeggiare a spingere le persone verso forme di vita in società e comunità.2 Questo tentativo di vedere in Hobbes il grande precursore della teoria del riconoscimento è in parte giustificato dall’insistenza con cui l’autore del Leviatano ritorna, in molti scritti, sul tema dell’ambizione, della volontà di primeggiare, come movente essenziale dell’agire umano: assai più dei suoi predecessori e dei suoi contemporanei, nella sua antropologia politica, Hobbes è consapevole del fatto che è proprio il desiderio di distinguersi dalla massa, la smania di mettersi in luce, a indurre l’individuo a entrare in contatto con i propri simili.3 Ma per fare di Hobbes il padre fondatore della moderna teoria del riconoscimento sarebbe necessario ritrovare queste pulsioni “psicologiche” anche nel cuore della sua filosofia politica. E a mio parere non è questo il caso: il “contratto” che, secondo Hobbes, starebbe alla base della vita sociale, nasce dal fatto che nello stato di natura il singolo individuo è così assillato dalla preoccupazione per la propria sopravvivenza da accettare volentieri di sottomettersi, con gli altri individui, a un’unica autorità che garantisca la sicurezza. Ma il monarca che la massa dei singoli mette sul trono per un calcolo strategico dovrà preoccuparsi anzitutto, secondo Hobbes, di garantire la stabilità politica, e non di prendere misure volte a soddisfare il bisogno di riconoscimento sociale.4 Bastano a mio parere questi due elementi del

Leviatano a rendere poco plausibile l’idea di un Hobbes che avrebbe accreditato per primo il ruolo politico decisivo del nostro bisogno di riconoscimento. Mi sembra invece molto più convincente la tesi che riconosce nel filosofo inglese una vistosa frattura tra i suoi interessi psicologico-antropologici e la sua teoria politica, in cui, di quegli interessi, sembra non restare alcuna traccia. Batterò pertanto un’altra strada, e cercherò di rintracciare le origini della teoria del riconoscimento in Rousseau e nei suoi precursori seicenteschi: i moralisti francesi. Non senza aggiungere, fin da subito, che l’idea del riconoscimento sociale come movente costitutivo dell’essere umano era allora “nell’aria” in molti paesi europei. Nella misura in cui la spinta modernizzatrice comincia, dapprima debolmente, a incrinare il vecchio ordine sociale, anche i rapporti sociali tradizionali e le antiche appartenenze di classe cominciano, a partire dal Seicento, ad allentarsi. Se la gerarchia sociale non è più vista come l’effetto immutabile di una volontà divina, l’individuo comincia a domandarsi quale potrà essere, e per quali motivi, la sua posizione all’interno della società. In breve: il passaggio graduale dal vecchio ordine feudale – con i suoi ceti immutabili e le sue regole di condotta interne a ciascun ceto – alla società moderna articolata in classi portò in primo piano il problema del riconoscimento sociale in vaste regioni d’Europa. Il fatto che il rapporto intersoggettivo comporti varie forme di riconoscimento diventa in questa fase storica un tema filosofico e letterario, tanto più avvertito quanto più vaghe e fluttuanti si mostrano la condizione sociale dell’individuo e le relative regole di condotta. Nella Francia del Diciassettesimo e del Diciottesimo secolo, questa nuova problematica non solo emerge con forza, ma assume anche una specifica sfumatura: la questione di come possa legittimarsi la posizione del singolo nella società viene inquadrata in una sorta di “antropologia negativa”,5 che attribuisce al soggetto la volontà di apparire “migliore” o di condizione socialmente più elevata di quanto non corrisponda alla realtà. Con questi presupposti, l’atto del “riconoscere” diventa rischioso, non essendo mai chiaro se l’individuo che incontriamo ci si presenta nella sua “verità”. Secondo la mia tesi, il discorso francese sul riconoscimento sarà sempre accompagnato come da un’ombra maligna da questo sospetto non dichiarato. Il concetto che si fa portatore della nuova idea è il concetto di amour propre. Prima ancora che Rousseau ne desse un’interpretazione sistematica per fondare su di esso la propria teoria del riconoscimento, il concetto di

amour propre è utilizzato dai moralisti per mettere in discussione un’antica concezione della natura umana. Riflettendo sulla spiccata tendenza dei suoi contemporanei a presentarsi sotto una luce più vantaggiosa e artefatta, è soprattutto La Rochefoucauld a ricercare le cause di questa diffusa ipocrisia. L’operazione concettuale compiuta da La Rochefoucauld a tale scopo consiste nel riprendere in una prospettiva secolarizzata una coppia di concetti teorizzata da Agostino: mentre il teologo cristiano contrapponeva al vizio della superbia la virtù dell’amore di sé come virtù approvata da Dio e socialmente compatibile, nel moralista francese rimane soltanto il primo termine, la superbia o autocompiacimento, visto non più come una mancanza etica ma come una passione naturale dell’uomo.6 Questo istinto di base viene però designato da La Rochefoucauld come amour propre: un’espressione ripresa da una traduzione giovanile di Montaigne,7 e che non sarebbe del tutto esatto tradurre con “vanità” o “volontà di primeggiare”. In ogni caso, questo atteggiamento diventa il cardine delle celebri Réflexions ou Sentences et maximes morales di La Rochefoucauld. È qui che viene fissata la nuova semantica dell’espressione, nel senso che ogni comportamento che abbia un’apparenza di virtuosità, di nobiltà o di eccellenza morale suscita il sospetto di essere una pura simulazione di qualità fittizie; e ciò che spinge gli individui a simulare queste qualità socialmente apprezzate, il movente che li guida, è, secondo il duca appunto, l’amour propre, il “desiderio smodato” (désir impétueux) di mostrarsi ai propri simili sotto una luce esemplare.8 L’aspetto inquietante di questo atteggiamento, peraltro naturale – così inquietante che La Rochefoucauld gli dedica più di cinquecento aforismi –, non è solo l’incertezza cognitiva che ne consegue, ossia il fatto di non sapere mai con esattezza con chi abbiamo a che fare, ma anche il fatto non meno rilevante che l’amour propre può ingannare alla fine anche il soggetto stesso, il quale, abituandosi a simulare qualità che non possiede, finisce per perdere di vista la sua vera personalità. In questo senso, la celebre Massima 119 è lapidaria: “Siamo così abituati a fingere di fronte agli altri, che finiamo per fingere anche di fronte a noi stessi”.9 L’amour propre rappresenta dunque, per La Rochefoucauld, un istinto fondamentale con effetti all’esterno e all’interno, cioè sull’immagine che un individuo ha di se stesso: all’esterno, verso i nostri simili, ci spinge a simulare qualità ritenute socialmente esemplari, mentre all’interno l’abitudine alla simulazione produce alla lunga un’immagine deformata del nostro “vero” carattere. E il duplice inganno – verso l’esterno e verso l’interno – è considerato dal duca preoccupante e

pericoloso, perché in grado di nuocere gravemente alla nostra capacità di autonomia. Ma La Rochefoucauld non è abbastanza filosofo né abbastanza “scienziato” da mettere a frutto queste acute osservazioni: si limita a ricavarne massime in parte spiritose, in parte amare e pessimistiche. Non ha né l’ampiezza dello sguardo né la precisione concettuale che gli avrebbero permesso di ridefinire – partendo dal fenomeno dell’amour propre – la natura dei rapporti intersoggettivi. È vero che il duca non si proponeva di contribuire con le sue massime a un approfondimento teorico delle dinamiche conflittuali dei rapporti interumani: lo scopo delle sue osservazioni, scritte per una destinazione alla fine salottiera, non è la costruzione di una teoria o la conoscenza scientifica, ma lo smascheramento dei suoi contemporanei. Deluso dall’insuccesso della Fronda, alle cui battaglie contro la marginalizzazione della nobiltà da parte di Luigi XIV aveva preso parte in prima fila, La Rochefoucauld si riferisce ai suoi ex compagni di battaglia, impegnati nel vano tentativo di riguadagnare il favore del re con uno sfoggio di fedeltà simulata. La “teoria del riconoscimento” nasce, in terra francese, nel momento preciso in cui i membri della nobiltà, animati da reciproca diffidenza, cominciano a chiedersi quali siano gli strumenti interattivi più efficaci per recuperare il favore perduto e far salire le proprie quotazioni nell’ambiente di corte. Sugli sviluppi successivi della teoria del riconoscimento in Francia, l’indirizzo suggerito da La Rochefoucauld avrà un influsso enorme. Il concetto di amour propre, di cui si era servito per lo studio dei rapporti interumani, metteva l’accento su una dimensione del riconoscimento che non è né ovvia né assoluta. Come ho cercato di mostrare, la nuova categoria nasceva nella prospettiva di un soggetto la cui esigenza primaria è quella di apparire eccellente, superiore, aristocratico, agli occhi dei suoi pari. Allo scopo di ottenere il “riconoscimento”, o meglio un adeguato apprezzamento da parte dei suoi simili, il soggetto in questione è proteso a esibire il possesso di qualità che non ha, ma che godono di un’alta reputazione sociale. Questa tendenza naturale a mostrarsi sotto una luce migliore di quella reale genera su entrambi i versanti – nell’opinione pubblica che giudica e nel soggetto giudicato – un problema che già in La Rochefoucauld presenta una chiara fisionomia epistemologica: sia l’istanza giudicante, che accorda il riconoscimento, sia l’individuo che vi aspira finiscono per dubitare che le qualità esibite abbiano un corrispettivo reale. Con questa implicazione

epistemologica, il processo del riconoscimento assume in La Rochefoucauld un significato che viene incontro al nucleo cognitivo del francese reconnaissance: quando si tratta di riconoscere-apprezzare una certa persona, si tratta sempre, anche, di ri-conoscere qual è il suo valore effettivo. Ora però il duca di La Rochefoucauld non utilizza ancora nei suoi scritti il concetto di “riconoscimento”, ragion per cui l’ambiguità della parola francese non può essere responsabile della sua tendenza a descrivere il rapporto valutativo tra i soggetti come un problema anzitutto di “smascheramento” delle apparenze. Ha giocato invece un ruolo decisivo il fatto che La Rochefoucauld abbia sviluppato le sue idee sugli effetti patologici dell’amour propre a partire dagli intrighi di corte, in cui era fondamentale – per conseguire il successo – saper valutare se le virtù esibite dal rivale erano reali o fittizie. In nessun paese europeo del Seicento – La Rochefoucauld scrive le sue Massime alla metà del secolo –, la nobiltà feudale legava il suo prestigio alla vita di corte come in Francia.10 Avendo perduto gran parte del proprio potere politico-direttivo con il fallimento della rivolta della Fronda, l’aristocrazia francese, preoccupata di assicurarsi i privilegi rimasti, si raccoglie intorno al sovrano e ai suoi più stretti confidenti e tenta di guadagnare peso con gli intrighi o esibendo un comportamento esemplare, conforme alla più rigorosa etichetta. Se la prima strada – ossia le macchinazioni e i complotti di corridoio – non dava i frutti sperati, non restava che tentare l’altra strada: dimostrare, ostentando virtù esemplari, di meritarsi il favore del sovrano e della sua corte.11 Se allora intendiamo lo scritto di La Rochefoucauld come un tentativo di distinguere il “grano” dalla “pula”, il bluff dai meriti autentici, sullo sfondo della vita di corte, le implicazioni epistemiche del suo concetto di amour propre diventano chiare: benché destinata a caratterizzare un istinto naturale dell’essere umano, la categoria doveva servire a uno scopo molto più immediato, ossia a definire la possibilità di simulare qualità inesistenti. Come vedremo, il viraggio teorico che l’idea di riconoscimento subisce nell’autore delle Massime non si perderà mai del tutto nel pensiero francese. Già in Rousseau, che si tende oggi a considerare il padre di ogni moderna teoria del riconoscimento,12 l’idea della dipendenza del singolo dal giudizio esterno oscilla costantemente tra il piano epistemico e il piano morale. Che l’autore del Contratto sociale abbia subìto l’influsso dei moralisti francesi – in particolare di La Rochefoucauld e di Montaigne – e delle loro pungenti osservazioni risulta anche, non in ultimo, dalla posizione chiave che il concetto di amour propre assume nella sua opera. Il fatto che ogni

comportamento umano a cui si accompagni un giudizio di eccellenza morale o di superiorità cognitiva debba suscitare, per Rousseau, una reazione di sospetto, tradisce la sua dipendenza dall’antropologia scettica dei suoi predecessori. È vero che nei cento anni che separano gli scritti dei moralisti dalla produzione letteraria di Rousseau la situazione politica e socioculturale in Francia era sensibilmente mutata. Se l’Ancien Régime persisteva nelle sue strutture di fondo, la “gara” per ottenere il favore della corte si era estesa nel frattempo dalla vecchia aristocrazia ormai indebolita alla nuova borghesia in impetuosa avanzata. Anche la nuova classe nascente, arricchita dalla rapida crescita dei commerci, non aveva altra via, per acquistare peso politico, commesse redditizie e privilegi finanziari, se non quella di entrare nelle grazie della monarchia assoluta. Con la crescita della borghesia, d’altronde, anche le modalità della competizione erano mutate: il rispetto della vecchia, tradizionale etichetta di corte cedeva il passo a nuove risorse strategiche, come la piacevolezza dei modi, i consumi di lusso e la ricercatezza nel vestire, qualità sempre più apprezzate a corte come segni di distinzione, proprio nel momento in cui la moda faceva il suo ingresso in società con i primi, timidi inizi della pubblicità e della comunicazione di massa.13 Nel periodo in cui la “gara” tra nobiltà e borghesia per disputarsi il favore del sovrano a Parigi e a Versailles comincia a produrre i frutti più stravaganti, vedono la luce quegli scritti di Jean-Jacques Rousseau che siamo soliti etichettare come “critica della cultura”. Nell’anno 1755 pubblica il suo Secondo Discorso, in cui gli effetti perversi dell’amour propre hanno un ruolo centrale nella genesi della disuguaglianza tra gli uomini14; mentre risale al 1758 la celebre lettera a d’Alembert, in cui Rousseau accusa il teatro di minare la moralità politica dei suoi contemporanei: il gioco delle parti che avviene sulla scena diffonderebbe il virus della “pura apparenza”, incoraggiando il pubblico a simulare mimeticamente le qualità che non ha.15 Il nesso logico che lega i due scritti consiste in una tesi che Rousseau riprende da La Rochefoucauld, ma che supera di gran lunga, sul piano filosofico, gli intenti pedagogico-contemplativi del moralista: la rapida evoluzione dei termini di confronto sociali fa sì che l’amour propre, la smania di primeggiare, assuma forme sempre più esasperate, alla ricerca di status symbol sempre più prestigiosi. Allo sviluppo di questa dinamica il teatro offre uno spazio privilegiato, dove l’abilità mimetica dell’attore fornisce al pubblico precisi modelli da imitare, mentre la natura dinamica di questa smania imitativa fa sì che lo iato tra la classe dominante e le classi

inferiori continui a crescere. Quella che si delinea in questa diagnosi di Rousseau è una analisi dell’amour propre senza paragone più precisa e più profonda di quella avanzata da La Rochefoucauld: il carattere dinamico dell’amour propre, il suo continuo rinnovarsi, deriva dal fatto di dipendere dai criteri di valutazione sociale, criteri che a loro volta si consumano e si rinnovano per la possibilità di una crescente imitazione di massa. Rousseau perviene a questa diagnosi grazie a un passo concettuale che ai suoi precursori moralisti era rimasto precluso. Sia pure in forma indiretta – e non sappiamo fino a che punto consapevole – Rousseau si richiama infatti all’opposizione, teorizzata da Agostino, tra un amore di sé conforme alla volontà divina e una vanità peccaminosa: è proprio questa contrapposizione a rendere possibile un’analisi più precisa della vera natura dell’amour propre. Lo scritto in cui Rousseau intraprende questo passo è il già citato Secondo Discorso, il Sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza: è qui che prende forma quella che si potrebbe definire a buon diritto una teoria negativa del riconoscimento. Pur essendo dedicato, in apparenza, al tema della disuguaglianza sociale, il saggio ha il suo vero baricentro teorico nella nozione di amour propre. Nel tentativo di comprendere cosa abbia provocato una disuguaglianza sociale crescente, artificiale e non naturale, Rousseau pensa che la causa non sia da ricondurre agli impulsi, ai sentimenti e alle passioni naturali dell’uomo: impulsi e passioni che si riducono in sostanza all’istinto egoistico di sopravvivenza, all’intento di perfezionare le facoltà necessarie allo scopo, e infine, a un livello più profondo, al sentimento della compassione.16 Tutto ciò non è in grado di spiegare perché gli uomini dovrebbero mirare, nei rapporti con i propri simili, a una posizione di preminenza e di eccellenza. Nell’intento di colmare questa lacuna esplicativa, Rousseau introduce nel suo saggio la passione specifica dell’amour propre, ossia il bisogno, non naturale ma evolutosi storicamente, di imporsi come superiori agli occhi dei propri simili, aspirando così a un rango sociale più elevato. Diversamente da quanto ipotizzavano i moralisti, questo singolare bisogno non apparterrebbe dunque alla natura umana primitiva, ma a una sorta di seconda natura; è insomma un bisogno culturale, che solo col tempo, per effetto dell’abitudine, è entrato a far parte della nostra “dotazione di base”. Rousseau mette così a confronto questi caratteri acquisiti con l’interesse primario alla sopravvivenza, e per designare questa contrapposizione utilizza, seguendo evidentemente il lessico del suo contemporaneo marchese di Vauvenargues,17 i concetti di amour de

soi e di amour propre, che ripropongono in forma secolarizzata il vecchio dualismo di Agostino. Se consideriamo il significato pregnante che questa coppia concettuale riveste nel Secondo Discorso, è motivo di stupore il fatto che Rousseau gli dedichi nel testo solo poche righe18: tutto ciò che ritiene di dover dire al riguardo si trova relegato in una singola nota a piè di pagina, la nota XV, peraltro così ampia, densa e sostanziale da far capire benissimo come le due tendenze o i due bisogni corrispondano a due modi completamente diversi che ha l’uomo di rapportarsi a se stesso.19 Rousseau fa derivare qui la differenza tra l’amour de soi e l’amour propre dai due opposti criteri con cui l’uomo valuta l’adeguatezza del proprio agire: se seguiamo il nostro amour de soi, ossia il nostro istinto naturale, giudichiamo il nostro agire in base a criteri strettamente individuali e orientati su ciò che è buono e giusto per ciascuno di noi; se invece ci lasciamo guidare dall’amour propre, che è un bisogno acquisito culturalmente attraverso la vita in società, allora faremo dipendere il giudizio sul nostro agire da un punto di vista esterno, essendo tutti protesi a ottenere l’approvazione o il riconoscimento dei nostri simili. La formulazione più pregnante di questo contrasto si trova in un passo di quella nota dove Rousseau, ricorrendo all’immagine dell’“osservatore interno”, afferma che, per soddisfare il proprio amour de soi, il soggetto conosce “come spettatore soltanto se stesso”, mentre per soddisfare l’amour propre deve considerare i suoi simili come i veri “giudici” del suo comportamento.20 È assai probabile che questo gioco di parole derivi dalla lettura di David Hume e dei suoi scritti di filosofia morale: un autore con cui Rousseau ha un rapporto contraddittorio, di simpatia e al tempo stesso di diffidenza.21 Ma se dietro quella nota c’è proprio Hume, non è affatto ovvio che il giudizio degli altri sull’adeguatezza del nostro agire debba essere considerato come qualcosa di sospetto o di negativo, come fa appunto Rousseau quando parla di amour propre. Vedremo infatti come Hume, e poco dopo anche Adam Smith, siano entrambi fermamente convinti che un comportamento orientato sul giudizio collettivo sia senz’altro superiore – più lungimirante, più maturo, più adeguato – di un comportamento basato unicamente su criteri interni al soggetto.22 Rousseau deve avere dunque dei motivi precisi per supporre che questo adeguarsi del comportamento al giudizio interiorizzato di un osservatore esterno sia dannoso, in quanto favorirebbe la smania di primeggiare e la tendenza a distinguersi socialmente. Quell’osservatore esterno che diventa un

movente interno appare al filosofo ginevrino sotto una luce del tutto diversa rispetto ai suoi due contemporanei scozzesi: l’altro che diventa “giudice” non è per lui un’istanza di controllo e di correzione dei propri giudizi, un principio di oggettivazione morale e cognitiva, ma un continuo incentivo a mostrarsi superiori ai propri simili. Da cosa nasce questa discrepanza sorprendente? Al soggetto che si sa osservato e giudicato Rousseau attribuisce un impulso di base che nelle analisi corrispondenti di Hume e di Smith appare, se mai appare, del tutto marginale: l’individuo che i tre filosofi hanno davanti agli occhi è un individuo che, appena avverte su di sé lo sguardo giudicante dell’altro, si sforza, secondo Rousseau, di apparire migliore o “più nobile” dei suoi simili. Si potrebbe a questo punto imboccare una scorciatoia e chiedersi se questa vistosa differenza di fondo non dipenda semplicemente dalla diversa situazione socioculturale della Francia e della Gran Bretagna di quegli anni: qui, nella Parigi di Jean-Jacques Rousseau, la vanitosa rincorsa del favore regale, lassù, nella Edimburgo di David Hume e di Adam Smith, la routine relativamente tranquilla di una monarchia abbastanza controllata dal Parlamento. Una tale spiegazione non sarebbe però soltanto eccessiva sul piano storico, ma non terrebbe conto nemmeno delle riflessioni svolte da Rousseau per giustificare il suo assunto. Intanto, la sua convinzione potrebbe nascere dal fatto che, a differenza di Hume e di Smith, la materia del giudizio non è per Rousseau la correttezza del comportamento individuale ma i meriti e le prerogative di ciascuno: a suo giudizio, ciò che i singoli devono dimostrare ai loro simili eretti a giudici sono le proprie “capacità”, e non il semplice fatto di rispettare le norme e le regole condivise. La differenza può apparire lieve a un primo sguardo, ma è in realtà determinante, perché solo nel primo caso – quindi che la materia del giudizio siano le “capacità” individuali – si può parlare di un più e di un meno, di “migliore” e “peggiore”. Se si trattasse solo di dimostrare al giudice esterno il rispetto delle norme condivise, basterebbe appunto “condividere” la buona condotta generale. Se invece si richiede di dimostrare una certa capacità, è necessario adottare un criterio comparativo: per giudicare se una certa prestazione corrisponda o meno a una capacità effettiva, bisogna ricorrere a un criterio. È esattamente questo lo scenario che sembra prospettarsi agli occhi di Rousseau quando fa coincidere l’adozione di una prospettiva esterna con la smania di primeggiare. Non appena il singolo orienta le sue azioni sul giudizio supposto dei suoi simili, si sente costretto a dimostrarsi superiore, perché solo così

ritiene di aver superato la prova di fronte al suo giudice interiore. Il riconoscimento sociale a cui mira la disposizione dell’amour propre è dunque, come ha mostrato ottimamente Frederick Neuhouser, due volte relazionale23: da un lato si vorrebbe prevalere nel confronto con gli altri soggetti, dall’altro ciò in cui si vorrebbe prevalere ha bisogno di criteri ben definiti su cui confrontarsi. Dovrebbe essere più chiaro a questo punto perché Rousseau, a differenza di molti altri pensatori del suo tempo, sia convinto che l’anticipazione del giudizio sociale contenga il germe di un male possibile. Il fatto è che il singolo, introiettando come criterio la prospettiva sociale, si trova esposto a un regime di concorrenza che lo spinge a mettere alla prova le sue capacità, confrontandole con gli standard di valore socialmente riconosciuti, fino al punto di simulare il possesso di quelle capacità o di quei talenti. La torsione negativa che assume così in Rousseau il bisogno di riconoscimento risulta perciò in sostanza da una sorta di postulato categoriale: che cioè il riconoscimento a cui mira l’amour propre consista quasi esclusivamente nel valutare quelle qualità che distinguono il soggetto dalla massa. Non bisogna tuttavia pensare che questa smania di ostentare qualità o capacità che non si hanno in vista di un riconoscimento sociale rappresenti per Rousseau il male assoluto. Certo, è un malcostume che il filosofo vede affermarsi ovunque nella Parigi del suo tempo, nella forma di una vuota ostentazione e di pose blasées.24 Ma l’aspetto davvero problematico di questo fenomeno sociale è per Rousseau un altro, ed è un effetto dell’amour propre la cui diagnosi coincide di nuovo, sorprendentemente, con quella di La Rochefoucauld: quanto più il singolo, in cerca di riconoscimento sociale, si sforza di ostentare attributi per lui vantaggiosi, tanto più viene trascinato in una spirale di autoinganno. Per l’individuo impegnato a soddisfare il suo amour propre non si tratta soltanto di convincere i suoi simili delle sue qualità eccellenti, perché il vero destinatario della sceneggiata è il suo giudice interiore, ossia una parte di se stesso. Ne risulta un’illusione ottica, per cui alla fine l’individuo in questione non sa più quale sia la sua vera personalità. A mio parere, è questo il senso della celebre formula in cui Rousseau tenta di riassumere, poco prima della conclusione, i risultati del suo saggio: “Il selvaggio vive in sé stesso; l’uomo socievole, sempre fuori di sé, non sa vivere che nella opinione altrui; e, per così dire, solo dal loro giudizio trae il sentimento dell’esistenza propria”.25 Tutte le patologie sociali esaminate da Rousseau nel Secondo Discorso

avrebbero le loro radici in questo rischio della perdita di sé generato dall’amour propre: nella società borghese gli uomini sono continuamente preoccupati di acquisire prerogative che conferiscano loro – dal punto di vista dell’osservatore esterno interiorizzato – una posizione sociale superiore a quella dei loro concittadini e concittadine. Una volta messa in moto, questa “smodata attività dell’amor proprio” – la “pétulante activité de notre amour propre”26 – non conosce più limiti, perché, non avendo un termine di confronto assoluto, finisce per consumare rapidamente ogni segno di distinzione sociale. Di qui la necessità di sempre nuovi sforzi per dimostrare credibilmente la propria superiorità: quello che ancora ieri poteva essere un requisito di eccellenza – sul piano della ricchezza, della bellezza, del potere – oggi dovrà essere superato a causa del suo diffondersi a strati sociali sempre più ampi. Viene così a crearsi un regime di concorrenza permanente, che spinge alla ricerca di sempre nuovi status symbol.27 In questo processo socioculturale il teatro svolge, come si è visto, un ruolo potenziante, come una vera palestra dell’amour propre: Rousseau lo detesta perché è il luogo dove il borghese apprende i trucchi necessari per ostentare in modo convincente requisiti e status symbol illusori, al punto da perdere di vista la propria vera natura. Se il filosofo non avesse proposto un’altra versione della sua teoria del riconoscimento, ci troveremmo di fronte a quella difficoltà che Ernst Cassirer, più di ottant’anni fa, chiamava il “problema-Rousseau”.28 Non sapremmo cioè come gettare un ponte tra la diagnosi pessimistica del Secondo Discorso e le premesse ottimistiche del Contratto sociale, in cui viene riconosciuta ai contemporanei la possibilità di autodeterminarsi individualmente. Molti autori, anche dopo Cassirer, si sono imbattuti in questa apparente contraddizione, e si sono accontentati spesso di sottolineare l’incompatibilità dei due punti di vista: nel Discorso, impostato come una “critica della cultura”, viene attribuita all’uomo moderno una dipendenza dall’opinione pubblica spinta fino alla perdita di sé, mentre nello schema del Contratto sociale lo stesso uomo moderno viene caratterizzato come un essere dotato di piena autonomia.29 Allo scopo di uscire dall’impasse, nel 1989 lo studioso inglese Nicholas Dent proponeva di considerare la possibilità che il filosofo francese distinguesse tra forme eccessive (inflamed) e forme moderate (ordinary) di amour propre: se nel Secondo Discorso si parla solo di un bisogno di riconoscimento deteriore, che cerca di soddisfarsi in una situazione sociale sfavorevole, il Contratto sociale mostra invece

come, in una situazione repubblicano-egualitaria, lo stesso bisogno abbia un carattere sano e positivo, come rispetto reciproco fra gli individui.30 Seguendo questo suggerimento di Dent, come hanno fatto numerosi autori da John Rawls a Joshua Cohen, a Frederick Neuhouser,31 ne risulterebbe un’interpretazione completamente diversa dal quadro che ho proposto: in questo caso l’amour propre avrebbe per Rousseau, a differenza dei suoi predecessori francesi, una capacità metamorfica, una plasticità psicologica che gli permetterebbe di modificare la propria natura nelle diverse situazioni socioculturali. La smania di eccellere, di primeggiare nello sguardo altrui, potrebbe trasformarsi in un bisogno, socialmente accettabile, di rispetto reciproco e del riconoscimento della propria autonomia: questo sarebbe possibile in una società fondata su basi egualitarie. In effetti, già nell’Émile, pubblicato da Rousseau sette anni dopo il Secondo Discorso, non mancano allusioni a misure pedagogiche che dovrebbero favorire questa metamorfosi dell’amour propre. Si potrebbe insegnare ai ragazzi e agli adolescenti a vedere nei loro coetanei lo stesso bisogno di riconoscimento sociale, in modo da soffocare sul nascere l’ambizione di eccellere e primeggiare.32 Ed è proprio il Contratto sociale, pubblicato anch’esso nel 1762, ad accreditare l’ipotesi che l’amour propre possa modificare la propria fisionomia col variare dell’ordine sociale e assumere, in certi casi, la forma di un vero e proprio rispetto tra uguali. Non è solo, infatti, la costruzione del “contratto sociale”, ma anche la connessa formazione della volonté générale a dipendere dalla disponibilità dei soggetti a riconoscersi reciprocamente come autonomi, al punto che il bisogno di distinguersi sembra, almeno a un primo sguardo, eliminato.33 In realtà, se cerchiamo di considerare i due scritti nel loro insieme, ne risulta un’immagine più complessa: Rousseau intende per amour propre l’esigenza di apparire, allo sguardo interiorizzato dell’altro, come un soggetto che merita rispetto e che ha perciò un diritto sociale all’esistenza. Questa esigenza, in origine incolpevole e innocua, può degenerare pericolosamente quando il soggetto, per le mutate condizioni sociali o per una cattiva educazione, perde di vista l’analogo bisogno di rispetto che è in ciascuno dei suoi simili. In questo caso, il normale desiderio di riconoscimento può trasformarsi nella smania, addirittura sfrenata, di apparire nella propria cerchia sociale come più dotati, come superiori. In breve: quanto Rousseau afferma sul pericolo della perdita di sé a causa della nostra dipendenza dal giudizio altrui riguarderebbe solo quelle società in cui

non è data la possibilità di soddisfare il bisogno elementare di partecipazione e di inclusione.34 Che le cose non stiano così, che Rousseau non abbia mai lasciato cadere le sue riserve nei confronti dell’amour propre, è quanto cercherò di mostrare in seguito. A tale scopo è necessario anzitutto dare un nuovo sguardo al Contratto sociale, da cui risulta che Rousseau non ha affatto superato il suo scetticismo verso un bisogno di riconoscimento ormai diventato una “seconda natura”. C’è, in primo luogo, la sconcertante tendenza di Rousseau a rappresentare il processo di convergenza in una volonté générale come un atto che ogni singolo membro della società compirebbe per conto suo nella forma di una conversione privata.35 Se è vero che il testo mette in guardia dall’intendere la volontà generale come una semplice somma di volontà individuali, è altrettanto vero che non indica affatto per quali vie – quali forme di consultazione e di progettualità collettiva – dovrebbe realizzarsi questa convergenza delle volontà individuali. Si trovano in compenso continui richiami e osservazioni di passaggio, da cui sembra che Rousseau voglia impedire che il singolo possa subire un influsso esterno nel processo di formazione delle opinioni. Il singolo individuo dovrebbe formare le proprie convinzioni, per quanto possibile, nella solitudine della sua cameretta, perché il contatto e lo scambio con i suoi simili potrebbe portarlo a ingannarsi sui suoi “veri” intenti e i suoi “veri” scopi.36 Non appena, poi, si viene a parlare di una sovranità collettiva, questa idea monologica del contratto viene trasposta appunto all’intera collettività: intesa, quest’ultima, come una sorta di Io unitario e collettivo,37 il cui pensiero unico e monolitico sembra escludere le opinioni discordanti. È significativo, a questo proposito, il fatto che Rousseau escluda la formazione di “correnti” nella genesi della volontà generale, considerandole un pericolo per l’unità della volontà popolare.38 In altre parole: esistono ben pochi elementi per sostenere che Rousseau sarebbe convinto della fecondità epistemica dello scambio di opinioni; si ha piuttosto l’impressione che il singolo soggetto – sia esso l’individuo singolo o la collettività – farebbe meglio a non dipendere dagli altri soggetti nell’interpellare la propria volontà. Questa impressione è destinata a rafforzarsi se si considera qual è il baricentro dei suoi interessi dopo la pubblicazione del Contratto sociale: è lecito affermare che, dopo il 1762, il vecchio tema della perdita di sé come effetto di una prassi orientata sul riconoscimento sociale ritorna in primo piano.39 Il filosofo ginevrino sembra ossessionato dal problema di come

l’individuo possa salvaguardare la propria genuina personalità, e l’ostacolo più grave su questa strada gli appare ancora e sempre l’abitudine di considerare il proprio Io dal punto di vista di un osservatore esterno: quell’osservatore a cui abbiamo già cercato di “vendere” l’eccellenza dei nostri requisiti. Insieme alla domanda su come sia possibile una vita autentica, ritorna così, negli scritti tardi di Rousseau – scritti dalla chiara intonazione autobiografica –, il problema che si era già presentato in altro contesto nel Secondo Discorso: in un’epoca in cui l’amour propre è diventato la nostra seconda natura, e in cui viviamo perciò costantemente “solo nell’opinione degli altri”, come sarà possibile ritrovare noi stessi, la nostra vera personalità? La novità sta nel fatto che il vecchio problema assume ora una chiara valenza epistemologica: se prima esso oscillava tra il piano morale e quello cognitivo, l’aspetto cognitivo – come sia possibile una conoscenza adeguata di noi stessi – prende ora un deciso sopravvento. Già il dialogo Rousseau jugé par Jean-Jacques, pubblicato per la prima volta nel 1782 nelle opere postume del filosofo (Rousseau era morto nel 1778),40 oltre a respingere con violenza le calunnie di cui si riteneva vittima, dedica ampio spazio e sottili riflessioni al problema di come si possa ancora individuare la propria vera personalità nello specchio deformante delle opinioni che si sono accumulate su di noi. L’abitudine, ormai consolidata, di giudicare il proprio comportamento nella prospettiva dell’opinione altrui rende arduo il compito di eliminare – con un colpo di spugna – questi giudizi esterni ormai interiorizzati, in modo da identificare adeguatamente il nostro vero Io. Il problema cognitivo che si presenta a Rousseau ha per lui due aspetti distinti: o abbiamo tentato di ingannare gli altri esibendo qualità inesistenti, e allora è facile autoingannarsi, prendendo per buona quell’immagine ideale che noi stessi abbiamo creato; oppure è l’opinione altrui a ingannarsi sui nostri requisiti personali, e allora è difficile liberarsi di questi falsi giudizi perché li abbiamo ormai assimilati e non possediamo altri punti d’appoggio cognitivi. In entrambi i casi, l’Io è così intrappolato nella rete dei giudizi esterni che non riesce più a trovare la strada verso di sé. Di qui la domanda disperata e patetica che Rousseau pone all’inizio del suo scritto: “Deve vantarsi delle qualità che sente in sé, e che gli altri rifiutano di vedere?”.41 Quello che si delinea qui chiaramente come un problema epistemico relativo alla conoscenza di se stessi permette di comprendere meglio, a uno sguardo retrospettivo, in cosa consistesse per Rousseau fin dall’inizio il male

originario dell’amour propre. Il fatto che gli uomini siano dominati dalla passione di presentarsi ai loro simili nella luce migliore, adottando i criteri di valore dominanti, contiene due pericoli di fondo: 1. da una parte, il rischio politico-morale che gli individui si vedano assegnare nella gerarchia sociale una posizione abusiva, ingiustificata; 2. dall’altra, il problema epistemico per cui diventa impossibile lacerare il velo delle opinioni consolidate sugli individui in concorrenza fra loro, e riconoscerne il “vero” essere. Ovviamente l’alternativa è astratta, perché nella concreta realtà sociale le due cose si tengono, e l’attribuzione di uno status ingiustificato deriva abitualmente da un’errata valutazione delle qualità dell’individuo; ma a seconda del punto di vista e degli interessi in gioco si potrà mettere l’accento sul primo o sul secondo punto. Rousseau, che in un primo tempo appare incerto nell’individuare il pericolo più grave, finisce per concludere – da una posizione intellettualmente più matura – che il problema epistemico rappresenta la sfida più grave e più drammatica: il rischio estremo della nostra dipendenza dal riconoscimento sociale, quello che merita la massima attenzione filosofica, è l’incertezza che ne deriva su ciò che realmente siamo come singoli individui. In questo modo Rousseau riprende, su un piano teoreticamente più sofisticato, l’antico sospetto dei moralisti francesi che la smania del riconoscimento possa tradursi in un sostanziale autoinganno. Anche se non usa espressamente – come del resto La Rochefoucauld e Montaigne – il concetto di “riconoscimento”, aleggia sempre nel suo discorso l’ambivalenza morale e cognitiva che il termine francese re-connaissance porta con sé. Quale sia il punto d’arrivo delle riflessioni di Rousseau sull’amour propre – riflessioni che lo accompagnano per tutta la vita – è presto detto. Nello stesso anno in cui viene pubblicato postumo il Rousseau jugé par JeanJacques, il 1782, escono a Losanna le Rêveries du promeneur solitaire.42 Quasi per ribadire, ancora una volta, la pericolosità del nostro bisogno di riconoscimento sociale, Rousseau rivolge qui al lettore un consiglio appassionato: la via che porta alla conoscenza di sé è la via del più totale isolamento da ogni consorzio umano. Soltanto se non ci curiamo dell’opinione altrui, se non ci domandiamo quali doti ci vengono riconosciute, potremo capire, senza elementi di disturbo, in cosa consistano le nostre vere qualità e quali siano i nostri veri problemi. Coerentemente con queste premesse, nella celebre quinta passeggiata delle sue Rêveries, Rousseau descrive come la tranquilla contemplazione dei fenomeni naturali

sia la forma ideale per raggiungere una conoscenza adeguata, non falsificata, del proprio Io: poiché la natura non è in grado di parlare, di formulare giudizi su di noi, di fronte a essa lo stimolo dell’amour propre non trova più alimento, e senza curarci della nostra “immagine” sociale potremo finalmente conoscere noi stessi.43 Prima di seguire il destino teoretico dell’idea di riconoscimento nel pensiero francese dopo Rousseau, vorrei riassumere brevemente, a scopo preparatorio, i risultati della mia ricostruzione. Già in La Rochefoucauld, e poi in Rousseau con più decisione, appare chiaro come la dipendenza dal giudizio sociale, che accompagna la passione dell’amour propre, costituisca un problema serio anzitutto dal punto di vista cognitivo; mentre il moralista francese ritiene che questa dipendenza produca un’inclinazione a simulare virtù inesistenti, al punto da non saper più distinguere con chiarezza tra il nostro Io fittizio e il nostro Io reale, Rousseau adotta un punto di vista più profondo, e si domanda che cosa significhi imparare a giudicare se stessi con gli occhi dei nostri simili. Per tutta la vita, Rousseau ha esitato a dare una risposta univoca a questa domanda: se da un lato egli vede nella prospettiva sociale il rischio di smarrire il vero criterio pratico individuale (l’amour de soi), dall’altro la considera come una chance per raggiungere una coscienza egualitaria delle dipendenze e degli obblighi reciproci. Nel Contratto sociale sembra approdare almeno temporaneamente alla convinzione che l’apertura al punto di vista degli altri soggetti – innescata dall’amour propre come impulso culturalmente acquisito – offra la possibilità, in un contesto educativo e sociale omogeneo, del rispetto reciproco, il rispetto del simile per il simile. Ma, come ho cercato di mostrare, alla fine del suo percorso prevale in Rousseau lo scetticismo: col passare degli anni cresce in lui la convinzione, già presente nel Secondo Discorso, che un comportamento orientato sul giudizio sociale precluda una conoscenza adeguata della nostra effettiva personalità individuale. I motivi addotti da Rousseau nella sua opera tarda per giustificare questo sospetto epistemologico sono complessi ed estremamente sottili: li riassumeremo ancora una volta, perché si trovano già espressi qui alcuni dei dubbi che, in altra forma e a partire da premesse completamente diverse ritorneranno più tardi in altri pensatori francesi. Come abbiamo visto, Rousseau descrive quale effetto dell’amour propre il fatto che esso ci obbliga, o addirittura ci costringe, a giudicare noi stessi non dalla prospettiva interna di un attore isolato ma sicuro di sé, bensì da quella dei nostri simili: non appena ci troviamo a vivere in una comunità

relativamente grande insieme ai nostri simili, ci sentiamo spinti ad apparire nella luce più vantaggiosa e dobbiamo perciò orientarci sui criteri che la società utilizza per giudicare il nostro agire. Questa prima affermazione è sufficiente a qualificare Rousseau come un teorico del riconoscimento, perché l’uomo in società viene caratterizzato qui come un essere, come un soggetto a cui spettano determinati attributi solo se trovano una conferma o un “riconoscimento” da parte degli altri attori sociali. Non è ancora chiaro, in questo modello di partenza, che cosa significhi qui parlare di “conferma” o di “riconoscimento”. Normalmente diremmo forse che una tale reazione di assenso o di conferma richiede che al soggetto in questione venga resa una qualche forma di omaggio ossequioso per le sue qualità “riconosciute”. Ma su questo punto Rousseau oscilla, a mio parere, perché non sa decidere se tale riconoscimento debba essere di natura morale (come una sorta di rispetto morale) o di natura cognitiva (come un “ritenere autentica” questa o quella qualità). Dal punto di vista del soggetto in questione, preoccupato del “riconoscimento”, Rousseau presenta le cose come se si trattasse anzitutto di far riconoscere adeguatamente in senso cognitivo le sue qualità, siano esse solo simulate o realmente esistenti. La lotta permanente per il riconoscimento – si potrebbe dire anche così –, che Rousseau vede divampare fin dalla comparsa dell’amour propre nella storia della civiltà umana, consiste per lui anzitutto e soprattutto negli sforzi compiuti dai soggetti per convincere i propri simili dell’esistenza reale di quegli attributi, reali o simulati che siano. Ciò per cui i singoli combattono non è dunque, per dirla in modo ancora più chiaro, un attestato di rispetto morale, l’ammissione di uno “status normativo”, ma l’accreditamento cognitivo dei loro requisiti per così dire “pubblici”. Sulla base di questa interpretazione cognitivista del giudizio sociale, Rousseau si considera legittimato a trarne le conclusioni che sono state già messe in evidenza: poiché i soggetti, in virtù del loro amour propre, sono spinti a mettere alla prova, di fronte ai loro simili, l’esistenza fattuale delle proprie qualità, finiscono prima o poi per trovarsi in un vicolo cieco: con il tentativo, sempre ripetuto, di vedere confermata la propria personalità, cresce l’incertezza su chi sia davvero autorizzato a soppesare i requisiti e le capacità in questione, se sia cioè la pubblica opinione oppure loro stessi, che pure nello stesso tempo si sentono sottoposti al suo giudizio. Da questo stato di confusione “epistemico” nasce il dramma che occupa tanto spazio negli ultimi scritti di Rousseau, di intonazione autobiografica: il soggetto,

sballottato tra il giudizio proprio e il giudizio sociale sulla sua identità, non sa più alla fine chi è veramente. Benché questo tema – l’ideale di una autenticità individuale che è però problematica e sfuggente – stia al centro degli ultimi scritti di Rousseau, esso non ha goduto, inizialmente, di una particolare attenzione.44 Alla fine del Diciottesimo secolo il concetto di amour propre ha ormai perduto in larga misura la propria funzione di categoria chiave della vita culturale e sociale. Anche se il significato negativo dell’espressione sarà destinato a rimanere ancora per qualche tempo, come risulta per esempio dalla ricorrenza frequente dei termini vanité45 e orgueuil in Stendhal, nella terminologia delle scienze sociali esso non ha più, in Francia, alcun ruolo. Ma il dibattito politico che precede la Rivoluzione francese porta in primo piano altri aspetti del pensiero di Rousseau: da questo momento e per almeno un secolo sarà il Contratto sociale a caratterizzare la fisionomia di Rousseau sul terreno delle scienze politiche. Lungo questo arco di tempo è proprio l’interesse per il riconoscimento interumano come situazione psicologica a conoscere, in Francia, un sensibile declino. L’imporsi della sfida democratica e della questione sociale orientano l’attenzione, piuttosto, verso i grandi temi della politica sociale, nella forma della teoria di Comte della gerarchia delle scienze o del primo socialismo o della sociologia fondata da Émile Durkheim.46 Per questo tipo di problematiche, la questione del riconoscimento sociale e dei suoi effetti sull’individuo sarebbe stata naturalmente di non poco rilievo: ma, con una sola eccezione, i pensatori francesi di questo periodo affrontano il tema dell’integrazione sociale o dal punto di vista dello stato o utilizzando l’idea della coscienza collettiva, ma senza prendere in considerazione il ruolo del riconoscimento reciproco nella prassi quotidiana. Solo Durkheim è consapevole del fatto che l’integrazione sociale richiede un’intera rete di rapporti di riconoscimento tra loro assai differenziati.47 Se il problema del rapporto intersoggettivo sollevato da Rousseau diventa a lungo marginale nel pensiero francese, esso ritorna però con vigore nel corso del Novecento, quando, dopo il declino delle correnti positivistiche e spiritualistiche, comincia a imporsi la fenomenologia. Più di altri paesi europei, la Francia si dimostra subito un terreno fertile per il metodo husserliano della descrizione fenomenologica, applicandolo a campi di ricerca che fino ad allora erano rimasti preclusi alla filosofia dominante.48 Di lì a poco, anche il rapporto tra il soggetto umano e i suoi simili, indagato da

Rousseau, diventa nuovamente oggetto, in Francia, della ricerca filosofica: accanto a Gabriel Marcel, molto vicino al cattolicesimo, sono soprattutto Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre a domandarsi, intorno alla metà del secolo, come possa essere inteso da un punto di vista fenomenologico il rapporto tra l’Io e gli altri soggetti.49 Ma Sartre è l’unico, dei tre, che sia riuscito a tradurre nella sua filosofia lo spirito di un’intera epoca, contribuendo, con l’esistenzialismo, a fissarne l’immagine. Considerando l’enorme influsso che il pensiero di Sartre avrebbe esercitato in quegli anni, non è irrilevante il fatto che anche lui, come Rousseau, abbia dipinto a tinte fosche la nostra dipendenza dagli altri soggetti: e, tuttavia, i presupposti teorici che lo portano a questa visione negativa del “riconoscimento” sono così diversi da quelli del filosofo ginevrino che si rende necessario un breve chiarimento preliminare. Nel suo ostinato tentativo di indagare i rischi e le chance della società borghese, Rousseau era partito dall’idea, ancora del tutto ingenua, che fosse possibile distinguere tra una natura umana originaria e un elemento affettivo subentrato solo in un secondo tempo: questo bisogno non originario, l’amour propre, che ci rende dipendenti dal riconoscimento degli altri soggetti sociali, dovrebbe essere al centro di una antropologia filosofica in grado di stabilire se esso sia più vantaggioso o più nocivo per la vita associata e per la stessa vita individuale. Ma Sartre, duecento anni più tardi, è lontanissimo dall’idea di studiare i bisogni umani da un punto di vista così oggettivistico: smaliziato dalla svolta critica della filosofia e cresciuto con la fenomenologia di Husserl, Sartre è convinto che di ogni esperienza umana sia possibile parlare solo nella prospettiva di un soggetto che riflette sui propri atti di coscienza. Nella sua opera fondamentale, L’essere e il nulla, non appena parla del rapporto con l’altro adotta perciò una strategia metodica completamente diversa da quella di Rousseau. La domanda qui non è quali conseguenze possa avere un certo bisogno per la nostra vita, ma si tratta piuttosto di indagare fenomenologicamente se e come si modifichi lo stato esistenziale del soggetto nel momento in cui incontra un altro soggetto. È però sorprendente, e decisivo per i nostri scopi, il fatto che l’analisi sartriana dell’intersoggettività, pur partendo da presupposti così diversi, giunga a un risultato che non è identico a quello di Rousseau e che tuttavia gli assomiglia non poco. Nell’esaminare la situazione in cui viene a trovarsi il soggetto, prima rapportato solo a se stesso, nel momento in cui incontra, nella sua esperienza,

un soggetto altro da sé, Sartre richiama brevemente i risultati dell’analisi che precede. Secondo questa analisi, un soggetto, prima di incontrare un soggetto-altro da sé, si trova in uno stato ontologico che Sartre ha chiamato “être pour soi”, l’“essere-per-sé”: intendendo con questa formula che tale soggetto, a differenza di un ente che si trova fissato alle sue proprietà e viene perciò caratterizzato come impenetrabile, opaco e chiuso in se stesso (“être en soi”),50 è sempre in rapporto, al di là del suo stato attuale, con un futuro aperto nelle sue possibilità, un futuro nei confronti del quale deve costantemente determinarsi nel modo della scelta.51 Questa descrizione della libertà specificamente umana, dell’“essere-per-sé” dei soggetti, deve non poco alla celebre analisi di Heidegger del Dasein in Essere e tempo,52 anche se Sartre cerca di mascherare questa dipendenza introducendo piccole varianti. In ogni caso, dopo che l’autore ha fatto compiere al soggetto l’esperienza sfaccettata della propria esistenza come un progetto di possibilità sempre nuove, all’inizio della Terza Parte questo soggetto finisce per incontrare un altro soggetto, che a sua volta, per le ragioni che abbiamo visto, avrà il carattere di un essere pour soi. È già possibile intuire in cosa sfocerà per Sartre questo incontro-scontro, ma prima che esso avvenga, e per una frazione di secondo, accade qualcosa per cui Sartre, ricollegandosi a Hegel, usa il concetto di riconoscimento: il primo soggetto, il cui stato esistenziale ci è ormai familiare, nel momento in cui si sente passivamente osservato da un altro soggetto, acquista di colpo la certezza incontestabile del proprio “esserecon-altri”, una certezza in cui nello stesso tempo si sa riconosciuto da quell’altro e lo riconosce come un essere che esiste individualmente, “per sé”.53 Beninteso, questa presa di coscienza ontologica del fatto che Io esisto insieme ad altri soggetti e che reciprocamente ci “riconosciamo” l’un l’altro come soggetti destinati alla libertà, deve prodursi nel breve momento che precede quella che sarà per il primo Io la conseguenza dell’incontro: non appena il soggetto si sente osservato da un altro soggetto, non importa in quale occasione – Sartre sceglie qui com’è noto l’esempio dello “spiare attraverso il buco della serratura” –,54 scopre una volta per tutte che il suo “essere-per-sé” gli viene sottratto perché lo sguardo esterno lo fissa inevitabilmente a determinate qualità e ne fa perciò un “in-sé”, un “être en soi”. Nella visione di Sartre, il dramma del soggetto che si esperisce come libero nelle possibilità che gli si aprono, sta nel fatto che può esperire l’Altro come libero, in-determinato e aperto al futuro solo nel momento stesso in cui si vede, reciprocamente e simultaneamente, ridotto a una pura “cosa”.

Non ci soffermeremo qui sul fatto che da questo primo incontro Sartre trae la conclusione di un conflitto permanente tra i soggetti, un conflitto che consisterebbe in una sequenza infinita di atti reificanti, in cui i soggetti si immobilizzano a vicenda, riducendo l’altro a uno schema fisso.55 L’immagine della società che si delinea a partire da questa analisi – e che Sartre riassume in uno dei suoi drammi nella nota metafora secondo cui “l’inferno sono gli altri” – 56 ha senza dubbio contribuito al rapido successo dell’Essere e il nulla, ma ai nostri scopi è sufficiente l’analisi del primo incontro-scontro fra i due oggetti. Né ci interesseremo al fatto che Sartre ritenga di aver risolto in modo definitivo, partendo da questa analisi, l’antico problema scettico relativo all’esistenza psichica dell’altro.57 Si tratta di un argomento notevole dal punto di vista storico-filosofico, e forse addirittura di una pietra miliare, ma non può essere di aiuto rispetto al problema specifico del riconoscimento. È invece decisivo il punto di partenza di Sartre: ossia il fatto che l’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro conterrebbe fin dall’inizio anche l’esperienza di un disconoscimento del proprio “essere-per-sé” e della sua costitutiva libertà. L’argomento che viene portato da Sartre a sostegno di questa tesi sorprendente ci è già noto, ma converrà riproporlo ancora una volta in termini un po’ diversi. Nel momento in cui un soggetto fa l’esperienza di essere guardato (o, come si dice più avanti, interpellato) da un altro soggetto,58 esso comprende di colpo di essere un “essere-per-sé” tra molti altri: non potrebbe infatti capire che quello sguardo è rivolto a lui se non percepisse simultaneamente se stesso e il soggetto che lo guarda (o che gli parla) come due soggettività che agiscono intenzionalmente e perciò liberamente. Ma nel momento stesso in cui accade ciò, il soggetto “guardato” sa di essere per l’altro solo un “in-sé”, un ente chiuso su se stesso, perché lo sguardo dell’altro lo fissa a determinate proprietà. Poiché le due esperienze sono simultanee, Sartre ne conclude che l’essere-guardati o l’essereinterpellati è sempre le due cose insieme: un atto di riconoscimento e di reificazione, che da un lato conferma il proprio “essere-per-sé” e dall’altro lo nega. A questo punto siamo in grado di individuare un primo tratto comune fra l’idea sartriana e quella rousseauiana di “riconoscimento”. Entrambi ritengono, sia pure partendo da presupposti diversi, che l’essere riconosciuti abbia una conseguenza negativa, indesiderabile: per Rousseau si tratta dell’incertezza riguardo al proprio Io, per Sartre, invece, della perdita dell’“essere-per-sé” e perciò della libertà individuale. Per il filosofo ginevrino

questa conseguenza negativa nasce dal fatto che la conferma pubblica di alcune delle nostre qualità, reali o presunte, non ci permette di capire se queste qualità ci appartengono davvero oppure no; per Sartre il problema è che lo sguardo (o la parola) dell’altro ci fissa inevitabilmente ad alcuni aspetti della nostra personalità, privandoci della possibilità di riprogettare di continuo il nostro essere. Ma se le conseguenze negative che entrambi attribuiscono all’essere-riconosciuti possono essere formulate così, risulta chiara una seconda affinità, più radicale della prima: sia Rousseau sia Sartre pensano il riconoscimento in termini teoretici o proposizionali piuttosto che nei termini di un riconoscimento morale, cioè come una attestazione di rispetto. Nel caso di Rousseau ho già accennato a questa riduzione cognitivistica del concetto, nel caso di Sartre si tratterebbe di dimostrarlo. Ma la cosa è più facile di quanto si possa immaginare, perché questa riduzione risulta già dalla sua descrizione dello “sguardo”: uno sguardo che non assume, come ci saremmo aspettati, una connotazione valutativa, nel senso di uno sguardo “cattivo” o “incoraggiante”, “indifferente” o “accusatore”, ma si limita alla pura e semplice presa d’atto dell’esistenza di un’altra persona, che viene così fatalmente negata nel suo “essere-per-sé”. Nell’atto del guardare o dell’interpellare, ciò che interessa Sartre è il semplice fatto che un individuo fino ad allora chiuso in se stesso deve riconoscersi improvvisamente come il termine di una relazione intenzionale instaurata da un altro soggetto, e perciò come un soggetto fra altri: non ha invece nessun interesse per Sartre il fatto che questo individuo, guardato o interpellato dall’esterno, sia oggetto di rispetto o di disprezzo, e possa sentirsi moralmente incoraggiato o ferito. Si conferma così ciò che alcuni commentatori hanno già osservato,59 ossia che Sartre riduce l’incontro intersoggettivo a un evento puramente ontologico, in cui un soggetto, nel suo rapporto con l’Altro, può essere soltanto un “per-sé” o un “in-sé”. Il riconoscimento che avviene in qualche modo tra i due soggetti-protagonisti deve perciò necessariamente limitarsi ad attribuire o “fissare” alcune proprietà ontologiche. Non diversamente da Rousseau – la cui posizione appare tuttavia più sfaccettata – anche per Sartre il riconoscimento è anzitutto una presa d’atto cognitiva di attributi personali e non possiede perciò alcuna connotazione morale. Certo, questi sorprendenti tratti comuni non devono far credere che la posizione di Rousseau e quella di Sartre sul fenomeno del riconoscimento siano la stessa. Tra le due teorie corrono duecento anni di sviluppi filosofici rivoluzionari, come risulta già dal loro opposto modo di procedere: Rousseau

descrive, come si diceva, il riconoscimento, dalla prospettiva antropologica di un osservatore, il quale creda di potervi individuare una certa fisionomia psicologica. Sartre invece adotta il punto di vista del soggetto riflettente, per indagare dalla sua prospettiva che cosa accade nel momento dell’incontro con un altro soggetto. Resta a ogni modo estremamente notevole la loro conclusione comune: che cioè l’incontro intersoggettivo comporti necessariamente una perdita – una “perdita del proprio Io” – da parte del soggetto “riconosciuto”. Anche aggiungendo a questo risultato quanto si diceva all’inizio a proposito di La Rochefoucauld, siamo naturalmente ancora molto lontani dal concludere che il pensiero francese avrebbe una visione negativa del riconoscimento. Fin qui abbiamo solo raccolto alcuni indicatori, dai quali risulta che, a partire dal Diciassettesimo secolo, importanti filosofi di area francese sollevano dubbi circa il valore etico dell’intersoggettività o della comunicazione interumana. Se però seguiamo gli sviluppi della filosofia francese dopo Sartre tenendo lo sguardo rivolto alla questione del riconoscimento, il nostro risultato provvisorio trova ulteriori conferme: la corrente filosofica che nella Francia degli anni sessanta avrebbe contrastato la fenomenologia di Sartre ponendo fine in breve tempo al suo predominio, ossia il post-strutturalismo, non fa che ribadire questo giudizio negativo sul riconoscimento. A prima vista, l’idea di associare a questo nuovo movimento filosofico una qualche teoria del riconoscimento può apparire curiosa, se è vero che il post-strutturalismo mira espressamente a “decostruire” l’idea – ancora dominante nella filosofia contemporanea – di un soggetto trasparente e centrale, per sostituirla con l’idea che questo ruolo costitutivo e fondativo spetti piuttosto a un complesso di strutture sociali o cognitive di natura anonima.60 Come sarà possibile, nel quadro di un paradigma così radicalmente mutato, attribuire ancora all’incontro interumano un ruolo essenziale o addirittura decisivo nel processo della riproduzione sociale? La questione è presto risolta se si considera che il riconoscimento non va inteso necessariamente come un’interazione concreta tra soggetti, ma può essere pensato come un meccanismo operativo che agisce a livello dell’intero sistema sociale. Parlare di “riconoscimento” significa allora avere in mente un complesso di pratiche sistemiche, per effetto delle quali, e con la mediazione più o meno attiva dei soggetti, un individuo o un gruppo si vedono assegnare certi attributi. Una tendenza a chiamare in causa strutture

anonime l’abbiamo già incontrata in Sartre, quando per esempio suggerisce che la lingua considerata come un tutto o lo sguardo perfettamente anonimo dell’“altro” possano interpellare il soggetto come un individuo dotato di determinate proprietà61; e autori post-strutturalisti come Louis Althusser o Jacques Lacan, che utilizzano entrambi l’idea del riconoscimento in passi centrali della loro opera, non fanno altro che radicalizzare sempre più l’idea già espressa da Sartre. A questa ultima svolta del tema del riconoscimento vorrei dedicare alcune riflessioni conclusive. Il passo radicale che separa Althusser e Lacan dal pensiero di Sartre fin dall’inizio delle loro riflessioni consiste – com’è naturale, date le premesse post-strutturaliste – nel negare decisamente l’esistenza “a priori” di un soggetto che si rapporti riflessivamente a se stesso. Mentre Sartre tentava di chiarire fenomenologicamente che cosa significhi, per un soggetto analizzato come un “essere-per-sé”, fare l’esperienza di un altro soggetto, Lacan e Althusser seguono in certo modo il cammino inverso, domandandosi come un individuo X qualsiasi, interpellato da un soggetto-altro, possa diventare un soggetto che crede in se stesso, convinto del proprio carattere autoriflessivo. È evidente che il “riconoscimento”, di cui Althusser e Lacan parlano in modo esplicito richiamandosi a Hegel, deve assumere una funzione del tutto diversa rispetto alle teorie di area francese che abbiamo conosciuto fin qui: esso non sarà più, come in Rousseau, il giudizio positivo che il soggetto cerca di ottenere da parte degli altri soggetti, e nemmeno, come in Sartre, l’esperienza del soggetto A che viene riconosciuto dal soggetto B, ma sarà un meccanismo sociale di identificazione attributiva che costituisce la soggettività come tale, ossia un soggetto dotato di autocoscienza. In Althusser questa ipotesi esplicativa della soggettività assume, come è noto, la forma di una teoria dell’ideologia, volta a spiegare per quale ragione gli esseri umani sono in generale disposti a svolgere quelle attività che l’ordine sociale dominante richiede loro allo scopo di conservarsi e di riprodursi. Secondo la diagnosi di Althusser, è una sorta di “schiavitù volontaria”: un meccanismo per cui le istituzioni, coadiuvate da opportune pratiche sociali, fanno sì che gli individui vengano “riconosciuti” precisamente come quei soggetti di cui l’ordine sociale ha bisogno.62 Che cosa significa, in questo caso, il “riconoscimento”? Significa che un complesso di rituali istituzionali si rivolge al soggetto interpellandolo, sollecitandolo, indirizzandolo in modo tale che il soggetto finisce per assimilare in qualche modo – non è chiaro come – le proprietà che gli vengono così assegnate: e avendole assimilate diventa un soggetto

socialmente omologato, convinto di eseguire volontariamente i compiti che gli sono richiesti. Non ci vuol molto per capire che il concetto di riconoscimento, sempre più svuotato e assottigliato, viene a perdere qui qualsiasi residua implicazione morale. Del suo significato complesso e sfaccettato non sembra rimanere in Althusser nemmeno la semplice registrazione cognitiva degli attributi personali: il riconoscimento non sarebbe altro che l’attribuzione impositiva di una fisionomia funzionale al mantenimento del potere. La situazione non appare diversa in Jacques Lacan, che in alcuni passi della sua teoria psicoanalitica si serve a sua volta del concetto di “riconoscimento”, riprendendolo dalle celebri lezioni hegeliane di Alexandre Kojève.63 Anche in Lacan il concetto si riferisce a una semplice attribuzione di proprietà individuali, con la differenza (rispetto ad Althusser) che la fonte di queste attribuzioni è ora l’ordine linguistico dominante. Lacan sviluppa il suo pensiero nel quadro di una teoria dei processi di socializzazione che integrano il neonato nell’ordine sociale dominante: al desiderio del neonato di essere “riconosciuto dall’altro”,64 la madre risponde con gesti e azioni che vorrebbero soddisfare i suoi bisogni vitali, e in cui si rispecchia inevitabilmente l’ordine simbolico della cultura di appartenenza. In questo modo, però, nella formazione pulsionale del bambino si introduce un elemento estraneo, che lo costringerà ad articolare il proprio desiderio nel linguaggio in cui la madre ha simbolizzato le sue richieste silenziose. La conseguenza di questa precoce “frattura” della psiche infantile tra una parte capace di comunicare e una parte che rimane muta è una sorta di alienazione originaria che colpisce fatalmente ogni essere umano.65 Dalle riflessioni di Lacan sulla socializzazione infantile risulta chiaro che il concetto di riconoscimento si riduce a designare, nel suo pensiero, quel processo per cui un soggetto assegna a un altro soggetto determinati attributi: gli atti con cui la madre tenta di soddisfare i bisogni del figlio sembrano privi, nelle descrizioni di Lacan, non solo di qualsiasi componente morale di riguardo affettuoso e simpatetico, ma anche di un vero interesse cognitivo per la fisionomia individuale del bambino. Quello che viene chiamato “riconoscimento”, e a cui Lacan si riferisce come all’operazione simbolica della madre, non è altro, alla fine, che la proiezione involontaria sul bambino inerme degli attributi prescritti dall’ordine simbolico dominante. Come già in Althusser, anche in Lacan “riconoscimento” non significa niente più che un

processo sociale, costantemente rinnovato: quel processo che attribuisce al soggetto qualità e caratteristiche funzionali al mantenimento dell’ordine dato. Se queste osservazioni conclusive sul post-strutturalismo forniscano elementi sufficienti per confermare l’ipotesi già avanzata all’inizio, ossia che il riconoscimento intersoggettivo presenta, nel pensiero francese, un carattere fortemente negativo, è una questione aperta. Gli indicatori che ho raccolto permettono in ogni caso di avanzare una tesi più sfumata: che nella filosofia francese, e fin dall’epoca dei moralisti, domina la tendenza a vedere nell’intersoggettività più un problema che una chance per il soggetto individuale. È vero che, a uno sguardo retrospettivo, troviamo qua e là anche in Francia, in posizione marginale, pensatori di opposto parere, che rappresentano un’eccezione alla regola – come i già citati Durkheim e Mauss, e bisognerebbe aggiungere anche Montesquieu –,66 ma è comunque possibile parlare, in generale, di un pregiudizio culturale di fondo. Nel tentativo di indagare le cause di questa valutazione negativa del riconoscimento ho richiamato un paio di circostanze che vanno comunque soppesate con prudenza: da una parte, c’è il dato linguistico per cui il francese reconnaissance non distingue con chiarezza tra il piano epistemico e il piano morale, anche se questa circostanza non vale né per La Rochefoucauld né per Rousseau, che non fanno ancora un uso sistematico del concetto. C’era poi, in secondo luogo, l’ipotesi storico-sociale secondo cui l’organizzazione centralistica dello stato francese conferisce un tale peso alla conquista degli status symbol più ambiti da spiegare in parte la sfumatura negativa che connota la dipendenza dall’altro. Quando il posto che si occupa nella gerarchia sociale viene deciso da “simboli di stato” come il modo di vestire, di atteggiarsi, o dalle proprie scelte di gusto, non sorprende che possano derivarne continue discussioni sul valore effettivo da attribuire a tali “simboli”, come anche una diffidenza di fondo verso la loro esibizione da parte dei propri simili e concorrenti. Queste cause possibili del verdetto negativo che accompagna l’intersoggettività nel pensiero francese dovrebbero trarre nuova luce dall’esempio di segno opposto che intendo trattare nel prossimo capitolo: il caso della monarchia britannica. Qui l’idea del riconoscimento assume fin dall’inizio una connotazione completamente diversa, e conosce sviluppi sostanzialmente differenti da quelli francesi.

3. Da Hume a Mill: riconoscimento e autocontrollo

Nel domandarci quando nasce e come si sviluppa nel pensiero inglese l’idea del riconoscimento interumano, non solo apriamo un nuovo capitolo nella storia delle idee, ma mettiamo piede in uno spazio politico-culturale completamente diverso. Se per la Francia del Seicento e del primo Settecento si può dire che la filosofia sociale deve fare anzitutto i conti con il problema della gerarchia sociale e i relativi conflitti, non così è per la Gran Bretagna: la sfida con cui deve confrontarsi, in questo caso, la filosofia sociale, è il progressivo diffondersi di pratiche tecnico-economiche in uno spazio pubblico fino ad allora presidiato dai principi morali tradizionali. Fino a che punto l’evoluzione in senso mercantile della società rappresenti una minaccia e una sfida per la cultura anglofona dell’età moderna risulta chiaro dalla ricca e sfaccettata discussione che attraversa tre secoli di letteratura e di filosofia inglese circa il nuovo tipo umano rappresentato da un soggetto il cui movente esclusivo è l’egoismo economico personale.1 Dopo aver mosso i primi passi nell’età elisabettiana, il dibattito prende l’avvio quando il commercio esterno e quello interno cominciano a crescere in modo impetuoso per l’aumentato afflusso di capitali, diffondendo una mentalità capitalistica in tutto il paese. I sintomi del processo sono svariati: vanno dalla trasformazione della tradizionale economia agraria in un’economia orientata al mercato e a una accresciuta produttività, all’intensivo sfruttamento dei terreni a scopo industriale, fino alla concentrazione esplosiva del commercio mondiale nella metropoli londinese. Nei drammi di Christopher Marlowe, William Shakespeare e Ben Jonson, alcuni personaggi chiave presentano al pubblico per la prima volta, con i mezzi della simbolizzazione letteraria, quali conseguenze drammatiche poteva avere, per il paese e la sua popolazione, la rapida diffusione dell’economia capitalista.2 Il timore era che un tipo umano il cui unico movente è il vantaggio personale avrebbe finito per seppellire tutti i vincoli morali che avevano regolato fino ad allora la vita collettiva, sostituendoli con il puro e semplice calcolo dell’interesse. In breve tempo, le inquietudini iniziali divamparono in una accesa discussione sui vantaggi e gli svantaggi di

un comportamento egoistico per la vita sociale: se la citizen comedy di un Thomas Middleton o di un William Rowley metteva in caricatura il nuovo tipo orientato al profitto, fino a renderlo grottesco, il teatro borghese di Richard Steele o di Joseph Addison ne tenterà, circa un secolo più tardi, una cauta difesa.3 Ma la parte più vivace e storicamente più influente del dibattito è quella che si svolge nella filosofia inglese del Seicento e del Settecento, dominata dal problema delle radici della morale umana: se queste radici siano da ricercare nell’interesse egoistico o nel sentimento innato di simpatia per i nostri simili. Da una parte del vivace dibattito troviamo i seguaci di Thomas Hobbes, convinti come il loro grande capostipite che gli esseri umani agiscano sempre e solo per motivi egoistici e non abbiano perciò alcuna inclinazione naturale alla benevolenza sociale. Sull’altro versante troviamo i seguaci di Ugo Grozio, che attribuiva all’essere umano una facoltà sociale in grado di immedesimarsi nei bisogni e negli interessi dei propri simili.4 La controversia raggiunge il culmine nell’anno 1723, quando Bernard de Mandeville pubblica la terza edizione ampliata della sua Favola delle api, proponendo la celebre formula dei private vices e dei public benefits (“vizi privati e pubbliche virtù”).5 Il pamphlet di Mandeville costringeva a una decisa scelta di campo: senza risparmiare varie frecciate a lord Shaftesbury, l’autore afferma che l’incremento del bene comune può derivare solo da un’accorta gestione politica degli interessi privati, fondati sul calcolo dell’utile. Questo elogio delle proprietà benefiche dell’egoismo privato sfocerà, nel corso del Settecento, in una sorta di contromovimento filosofico, dove l’idea del riconoscimento assumerà un carattere contrario alla diffidenza francese verso l’intersoggettività umana. Il suo battistrada è David Hume, il suo rappresentante per eccellenza sarà Adam Smith, e in John Stuart Mill troverà infine la sua variante liberale. Mentre nella Francia del Seicento e del Settecento è il concetto di amour propre a catalizzare le riflessioni sull’intersoggettività umana, nell’Inghilterra della stessa epoca è anzitutto il concetto di sympathy a svolgere una funzione analoga. Il concetto ha però fin dall’inizio una connotazione talmente positiva, talmente priva di qualsiasi ambiguità, che già qui appare in tutta evidenza la diversità tra i due paesi sul tema “riconoscimento”. L’attribuzione di un valore positivo ai rapporti intersoggettivi ha inizio in Inghilterra con gli scritti di Anthony Ashley-Cooper, il terzo conte di Shaftesbury: alla fine del Seicento Shaftesbury si contrappone allo scetticismo dominante sostenendo

che l’uomo ha un carattere naturalmente sociale, e che questo carattere lo spinge a preoccuparsi costantemente del bene comune. Questo innato “sensus communis” – così la critica di Shaftesbury a Hobbes – procura all’uomo una sensibilità morale per il destino dei suoi simili, arginando la sua naturale inclinazione all’interesse egoistico.6 Volendo tentare un parallelo un po’ audace, si potrebbe dire che con questa antropologia ottimistica Shaftesbury apre la strada in Gran Bretagna alla valutazione positiva del riconoscimento, così come, all’inverso, l’antropologia scettica di La Rochefoucauld aveva aperto la strada, in Francia, alla sua valutazione negativa. La favola delle api di Mandeville aveva appena messo alla berlina il conte di Shaftesbury per il suo ingenuo ottimismo, quando l’illuminista scozzese Francis Hutcheson corre in sua difesa, fondando così quell’indirizzo filosofico che verrà poi definito come la filosofia scozzese del “senso comune”. Anziché proporre una vera e propria teoria antropologica, Hutcheson intende mostrare, nello stile del nascente empirismo, che le nostre reazioni al comportamento sociale degli altri soggetti sono guidate da criteri di giudizio da cui risulta una spiccata preferenza per sentimenti e atteggiamenti favorevoli al bene comune. Da un esame empirico di questi criteri raccolti “sul campo”, ossia dalla vita quotidiana, egli crede di poter concludere, induttivamente, che l’essere umano possiede un senso innato per il benessere dei suoi simili, un “senso” che dovrà essere il fondamento di tutti i nostri principi morali.7 Questa idea di un “senso morale”, preparata da Shaftesbury e sviluppata da Hutcheson, costituisce il terreno su cui maturerà, nello spazio di pochi decenni e con ulteriori precisazioni, quella che è la versione specificamente britannica del “riconoscimento”: è un’idea diametralmente opposta a quella tradizione hobbesiana che Crawford Brough Macpherson ha definito con qualche ragione come “individualistico-proprietaria”.8 Quando David Hume, nel 1739, lavora al terzo volume del suo Trattato sulla natura umana, dedicato alla “morale”,9 è pienamente consapevole della propria dipendenza teorica dagli scritti di Hutcheson: come lui, anche Hume intende non solo indagare il fenomeno della moralità verificando, a partire dai dati empirici, le reazioni valutative degli esseri umani al comportamento dei loro simili, ma ne condivide anche la premessa, secondo cui tali reazioni non nascono da una riflessione razionale ma sono di natura istintiva. Nello svolgere l’analisi dei dati empirici a partire da questi due punti fermi, Hume si vede però costretto a correggere la posizione di Hutcheson, avviando una revisione della sua teoria morale che lo porterà assai lontano.10 In questa

correzione o revisione operata da Hume ci sono due aspetti di particolare interesse per il nostro discorso, e sono quelli che riguardano direttamente la concezione humiana del riconoscimento interumano. Il primo intervento correttivo si riferisce alla tesi, sostenuta da Hutcheson, secondo cui noi giudichiamo le qualità degli altri individui in base al criterio del vantaggio o del danno che esse arrecano al bene di una comunità. Hume è d’accordo con questa tesi generale, ma ritiene che le reazioni corrispondenti di favore o di biasimo vadano ricondotte ai sentimenti naturali di piacere o dispiacere, e ritiene che Hutcheson non abbia chiarito adeguatamente il rapporto tra questi sentimenti reattivi e il giudizio morale che li accompagna. Non è infatti chiaro per quale ragione i comportamenti che ci procurano piacere o dispiacere ci debbano apparire anche moralmente lodevoli o riprovevoli. La soluzione del problema – in che modo cioè le nostre sensazioni di piacere e dispiacere assumano una connotazione morale – consisterebbe secondo Hume in una particolare disposizione dell’animo umano, che all’inizio della Terza Parte del Trattato viene designata con il termine sympathy, “simpatia”: termine con cui Hume intende la capacità, comune a tutti gli esseri umani, di intuire e al tempo stesso di rivivere in noi gli stati mentali dei nostri simili.11 Che questa sympathy non sia uno stato d’animo arbitrario e nemmeno un semplice bisogno umano, risulta dalla celebre immagine delle due corde che vibrano “per simpatia”: “Quando delle corde sono tese, il movimento di una si comunica a tutte le altre; allo stesso modo, tutte le affezioni passano prontamente da una persona a un’altra e generano movimenti corrispondenti in ogni creatura umana. Quando vedo gli effetti di una passione nella voce e nei gesti di una persona, la mia mente passa subito da questi effetti alle loro cause, e si forma della passione un’idea così viva da mutarsi subito nella passione stessa”.12 La domanda che ci siamo posti in precedenza circa il rapporto interno tra determinate qualità, le reazioni positive o negative che esse producono e il giudizio morale che le accompagna, può trovare una risposta nella teoria della simpatia solo nella misura in cui la nostra partecipazione emotiva agli stati d’animo altrui ci permette di decidere rapidamente se la persona in questione avverte un dato comportamento come utile o dannoso per lui: secondo Hume noi tendiamo ad approvare e lodare quelle qualità di cui sperimentiamo, grazie alla nostra capacità di “simpatia”, gli effetti positivi sulle altre persone. Riassumendo questa prima revisione humiana della concezione di Hutcheson, potremmo dire così: un legame invisibile di reciproca simpatia ci spinge a

reagire con sentimenti positivi a quelle qualità che avvertiamo come utili al loro “destinatario”. Affermare che Hume apra la strada, con queste tesi, a una qualche “teoria” del riconoscimento interumano, sarebbe naturalmente eccessivo: dopo questo primo passo sappiamo soltanto che il rapporto tra i soggetti è condizionato da una capacità pressoché istintiva di partecipazione emozionale, che ci permette di intuire e di condividere gli stati altrui, di benessere o di sofferenza. Per definire questo rapporto come un rapporto di riconoscimento manca almeno un aspetto essenziale: l’attribuzione al soggetto-altro di una certa autorità a cui ci si senta in qualche modo sottoposti. Nel senso per esempio inteso da Rousseau, quando descrive il soggetto-altro come un “giudice” delle nostre qualità, reali o presunte. Non è ancora possibile parlare di “riconoscimento” se il soggetto-altro si presenta solo come un soggetto di cui possiamo facilmente condividere, “simpaticamente”, gli stati emotivi. Certo, un tale “accordo affettivo” (Ernst Tugendhat) può essere un presupposto necessario del riconoscimento,13 in quanto ci mostra il soggetto-altro come un soggetto a pieno titolo14: ma prima che si possa parlare di un riconoscimento effettivo tra esseri umani deve intervenire un fattore ulteriore, ossia l’attribuzione al soggetto-altro di un ruolo normativo. Il passo necessario per arrivare a questo punto viene compiuto da Hume, che apporta una seconda correzione alla teoria del “senso morale” proposta da Hutcheson. Ed è proprio questa correzione che permette di vedere nella teoria morale di Hume il vero e proprio esordio di un’idea specificamente britannica di “riconoscimento”. Poche pagine dopo aver posto nella sympathy la base psichica dell’accordo intersoggettivo nel giudizio morale dei caratteri personali, Hume si imbatte in una difficoltà che rischia, a suo parere, di mettere in discussione le conclusioni raggiunte.15 Si accorge che la “simpatia” da cui dipendono la nostra lode o il nostro biasimo può essere più o meno accentuata a seconda della distanza sociale che ci separa dalla persona che ne è l’oggetto: quanto più la persona A ci è vicina e familiare, tanto più intensa sarà la condivisione degli effetti positivi o negativi che le azioni di un soggetto B possono avere sul suo stato di benessere. E la severità con cui giudicheremo il carattere del soggetto B dovrebbe essere di conseguenza tanto maggiore quanto più stretto è il rapporto che abbiamo con il soggetto A. In effetti – prosegue Hume – “noi simpatizziamo più con chi ci è vicino che con chi ci è lontano: con chi conosciamo più che con gli estranei, con i nostri concittadini più che con gli

stranieri. Ma nonostante questo mutare della nostra simpatia, si dà alle stesse qualità morali la medesima approvazione, tanto in Cina quanto in Inghilterra: esse appaiono egualmente virtuose e si raccomandano egualmente alla stima di un osservatore imparziale. La simpatia muta senza che muti la nostra stima: quindi, la nostra stima non deriverebbe dalla simpatia”.16 Allo scopo di indebolire questa obiezione – che rischierebbe di mandare a monte l’intero discorso – Hume tenta una riflessione al termine della quale si delinea un’idea originale di “riconoscimento” interumano. Hume esordisce con la tesi secondo cui gli esseri umani dispongono della capacità cognitiva e della volontà necessarie per compensare gli squilibri che possono alterare il nostro giudizio morale sulle qualità di un individuo: non appena ci viene il sospetto che nei nostri giudizi potremmo essere influenzati da considerazioni di parte – Hume ne è convinto – cercheremo di correggerli con uno sforzo di oggettività. Ma di quale mezzo ci serviremo abitualmente per neutralizzare i possibili pregiudizi? A suo avviso, questa operazione cognitiva deve consistere nel lasciarci guidare da un osservatore ideale o “imparziale”, capace di formulare un giudizio indipendente dal tempo e dallo spazio: “Ci sarebbe impossibile riuscire mai ragionevolmente a conversare insieme, se ognuno di noi dovesse considerare caratteri e persone unicamente da come ci appaiono dal nostro particolare punto di vista. Quindi, per prevenire queste continue contraddizioni e raggiungere una maggiore stabilità nei nostri giudizi sulle cose, fissiamo certi punti di vista fermi e generali”.17 Anche se qui non si parla espressamente di un osservatore “ideale”, è tuttavia proprio questa l’idea sottintesa da Hume nel suo tentativo di individuare il meccanismo che ci permetterebbe, a suo parere, di rendere oggettivi i nostri giudizi morali. E assai più che nel Trattato, questa idea di un osservatore neutrale emerge con chiarezza nella sua Ricerca sui principi della morale,18 che Hume pubblica dodici anni più tardi e che considererà per tutta la via la sua opera “senza paragone migliore”.19 Qui, nel secondo libro, si parla più volte del correttivo di uno “spettatore”, descritto ora come una persona reale ora come un’istanza interiore di controllo.20 L’idea è comunque la stessa, ed è che questo “osservatore”, con il suo sguardo rivolto costantemente su di noi, costringe ogni individuo a liberare i propri giudizi di valore da deformazioni preliminari, conferendo a essi una coerenza imparziale. Nel cuore dell’empirismo inglese troviamo così la stessa figura di un “arbitro”, di un osservatore esterno, che abbiamo già incontrato in JeanJacques Rousseau nella distinzione tra l’amour propre e l’amour de soi. Con

la differenza che ora, in Hume, a questo arbitro viene attribuita la funzione moralmente sana di liberare la nostra attività giudicante da incoerenze e pregiudizi. Per tutta la vita, Hume cercherà di precisare meglio l’identità di questo “osservatore” in rapporto alla formulazione dei giudizi individuali. Di una cosa è certo: che noi tendiamo a sottoporre quasi meccanicamente le nostre valutazioni morali all’approvazione di questo osservatore neutrale. Se però questo osservatore debba essere inteso come una comunità concreta di individui, come una sorta di arbitro collettivo, o come un principio che opera al nostro interno, ossia come un arbitro immaginario, è una questione che nell’opera di Hume non trova una risposta univoca. A volte sembra che gli individui tentino di correggere la parzialità del proprio punto di vista prendendo in considerazione la prospettiva concreta degli altri soggetti; a volte invece si parla di questa istanza correttiva come se fosse lo sguardo interiorizzato dell’altro tout court, o si arriva addirittura ad affermare che “la ragione richiede un tale comportamento imparziale”21: tesi che sembra contraddire la sua posizione empiristica, secondo la quale i nostri desideri e i nostri impulsi sono l’unico movente del nostro agire morale.22 Se perciò escludiamo quest’ultima ipotesi, che sarebbe tra l’altro incredibilmente vicina alla posizione razionalistica di Kant, rimangono le due prime alternative, e – a qualunque delle due si accordi la nostra preferenza – esse comportano entrambe, con sfumature diverse, il necessario riconoscimento dell’altro, di un soggetto-altro, come istanza di giudizio. Che l’“osservatore imparziale” venga inteso come un punto di vista concreto di soggetti concretamente esistenti o come un’istanza idealizzata, si tratta in entrambi i casi di una soggettività esterna al soggetto a cui viene attribuita un’autorità normativa: un’autorità che limita in modo determinante lo spazio dell’azione e del giudizio individuale. Affermando che un osservatore imparziale è indispensabile per la formulazione individuale del giudizio morale, Hume ammette nello stesso tempo che ogni soggetto assegna ad altri soggetti un ruolo di giudice sulle proprie intenzioni e preferenze. Nessuno decide da solo che cosa è opportuno fare o non fare, ma forma al contrario le sue convinzioni e i suoi desideri in una prospettiva nella quale altri soggetti sono coinvolti e determinanti, sia pure in gradi diversi. Ma un rapporto interumano caratterizzato dal fatto che l’Io attribuisce all’altro l’autorità normativa necessaria per giudicare il suo comportamento può essere concepito senz’altro come un rapporto di riconoscimento unilaterale. E poiché Hume

parte inoltre dal presupposto che ci troviamo tutti in questa situazione, è possibile parlare qui di un rapporto anche solo riflessivo di riconoscimento reciproco. Tutta una serie di elementi, nella teoria morale di Hume, conferma che le sue riflessioni sulla genesi di un giudizio morale imparziale costituiscono una prima incursione nel territorio del riconoscimento interumano. Così, nella Ricerca sui principi della morale egli afferma che la tendenza a farci “un nome e una reputazione nel mondo” ci spinge a verificare costantemente “come appariamo agli occhi degli altri, di coloro che ci rivolgono la parola e che ci osservano”.23 Se proseguiamo nella lettura, appare chiaro che questo desiderio di “reputazione” è un movente ulteriore che ci induce a sottoporre continuamente i nostri giudizi e le nostre “iniziative” alla verifica di una possibile approvazione sociale. Il disagio che proviamo nell’orientare i nostri giudizi morali sulle nostre preferenze private è certo un buon motivo per prendere in considerazione, anticipandoli, i giudizi altrui, ma oltre a questo movente c’è appunto il desiderio di una buona reputazione sociale. Troviamo una riflessione simile anche nel secondo libro del Trattato, dedicato alle “passioni”, là dove si dice che il “desiderio di essere rispettati” può essere soddisfatto al meglio verificando il proprio agire sulle aspettative dei nostri simili.24 I passi citati dei due libri confluiscono così in un’unica tesi, che permette di riprendere le cose dette fin qui sotto una luce leggermente diversa: ora infatti Hume sembra affermare che la tendenza a orientare giudizi e azioni sul verdetto di un osservatore imparziale nascerebbe principalmente dal nostro bisogno di ottenere una buona reputazione sociale. Questa congettura si accorda perfettamente con l’empirismo humiano, in quanto riconduce la prassi della verifica neutrale a quei desideri e impulsi che sono l’unico vero movente del nostro agire: non regole oggettive e tramandate, e soprattutto non la ragione, ma solo l’interesse “per il nostro buon nome”25 ci spinge a invocare un arbitrato imparziale. Se confrontiamo questa tesi conclusiva di Hume con ciò che Rousseau afferma dell’amour propre, ne risultano due concezioni pressoché opposte della funzione e degli effetti del riconoscimento interumano: se in Rousseau il desiderio di approvazione sociale trascina l’individuo in un vortice fatale in cui l’individuo finisce per smarrire se stesso, lo stesso desiderio è per Hume un movente salutare, che spinge l’individuo a sottoporre i propri intenti al giudizio di un osservatore imparziale, in vista del bene comune. Se in Rousseau la dipendenza dal “riconoscimento” significa sottomettersi

all’istanza dittatoriale dell’opinione pubblica, in Hume essa significa, al contrario, riconoscere alla collettività l’autorità normativa necessaria per codirigere il proprio comportamento. Per spiegare questa differenza profonda nella tematizzazione del riconoscimento, bisogna pensare anzitutto alle diverse tradizioni filosofiche a cui attingono e in cui si muovono i due pensatori: Rousseau, come si è visto, cresce intellettualmente all’ombra dello scetticismo antropologico diffuso in Francia, nel corso del Cinquecento, dai cosiddetti “moralisti” francesi, mentre Hume può richiamarsi all’antropologia ottimistica elaborata in Inghilterra un secolo più tardi da Shaftesbury e Hutcheson. Ma il fatto che Rousseau e Hume fossero così disposti ad accogliere gli stimoli teorici dei loro predecessori e a svilupparli nella stessa direzione è una circostanza che va a sua volta spiegata, e che va messa in relazione con il diverso clima socioculturale dei due paesi. Per quanto riguarda Rousseau, ho già accennato al fatto che la sua valutazione scettica del riconoscimento sociale è da ricondurre, verosimilmente, all’esperienza storica dell’Ancien Régime, dove la nobiltà e la nascente borghesia si combattono con tutti i mezzi possibili per ottenere, tramite l’ostentazione dei necessari status symbol, i privilegi accordati dalla monarchia: ancora oggi si parla di questo periodo della storia francese come di un’epoca in cui la competizione tra le classi dominanti per salire nella gerarchia sociale dominata dalla corte ha condizionato in larga misura la vita politica del paese.26 Quanto a Hume, ho già ricordato, analogamente, come la sua visione positiva di una convivenza fondata sul riconoscimento vada intesa nel senso di un tentativo di reagire con mezzi filosofici a quei processi di economizzazione della vita sociale che, a partire dal Diciassettesimo secolo, sono avvertiti come una grande sfida. I dibattiti, tipicamente inglesi e articolati, sul ruolo sociale dell’“homo oeconomicus” – dibattiti che risalgono addirittura al Rinascimento – sono già un indizio di quanto fosse elevata nella cultura inglese la percezione di quel pericolo.27 Tutti gli elementi che l’opera di Hume può fornire a sostegno della tesi sulle radici socioculturali della visione britannica del riconoscimento sono però messi decisamente in ombra dalla teoria morale del suo continuatore Adam Smith: solo negli scritti di quest’ultimo emerge infatti in piena luce come la connotazione positiva del riconoscimento, nella Gran Bretagna del Settecento, vada intesa come una reazione filosofica all’economizzazione strisciante dei costumi morali, avvertita in larga misura come un processo minaccioso. Lo stretto rapporto che esiste, nel pensiero di Smith, tra etica ed

economia è rimasto però a lungo poco visibile, per la vecchia abitudine di dividere la sua opera in due parti non comunicanti: da un lato, il suo libro sui moral sentiments sembrava uno studio di filosofia morale sul significato dell’umana benevolenza, dall’altro, The Wealth of Nations appariva come un trattato di teoria economica sui vantaggi dell’utile individuale, senza che vi fosse alcun rapporto apparente tra le due teorie, pubblicate a distanza di diciassette anni. Questa ricezione in qualche modo schizofrenica dell’opera di Adam Smith dura fino alla fine dell’Ottocento, quando il dibattito tedesco sul “problema Adam Smith” comincia a richiamare l’attenzione su questa anomala cesura tra lo Smith teorico dell’economia e lo Smith filosofo morale.28 In un saggio importante, l’economista August Oncken proponeva allora di individuare il trait d’union fra le due opere principali di Smith nella nozione di “benevolenza”: che è poi il concetto su cui Smith basava la sua proposta di limitare l’egoismo privato nella sfera del mercato.29 Da allora la nostra immagine del filosofo scozzese è profondamente cambiata: nessuno fra gli interpreti più autorevoli mette oggi in dubbio il fatto che l’opera di Smith sia un tutto coerente e che La ricchezza delle nazioni vada perciò interpretata alla luce della teoria dei sentimenti morali.30 Questa nuova immagine di Smith mi tornerà utile più avanti, quando tenterò di interpretare la teoria morale di Adam Smith come una versione notevolmente migliorata e più coerente della teoria del riconoscimento già delineata da David Hume. Percorrendo questa strada, spero poi di poter mostrare in cosa consista il “tono” specificamente britannico nel discorso sull’intersoggettività umana, fin dagli inizi dell’età moderna. Che la discussione sulle conseguenze della nostra dipendenza dal riconoscimento sociale abbia presto superato i confini nazionali risulta già con evidenza da un dettaglio illuminante che troviamo nell’opera di Smith. All’inizio della seconda parte del già citato saggio sul “problema Adam Smith”, August Oncken osserva di passaggio che nelle prime edizioni della sua Theory of Moral Sentiments Adam Smith cita, tra le opere di filosofia morale contro le quali è rivolta la sua teoria, non solo La favola delle api di Mandeville ma anche le Massime di La Rochefoucauld. Successivamente, dopo uno scambio epistolare con un discendente del duca, Smith lasciò cadere l’accenno negativo alle Massime come gesto di riguardo nei confronti di una famiglia con cui intratteneva rapporti amichevoli. Comunque si voglia interpretare questo gesto, dettato da ragioni personali, esso dimostra nel modo più chiaro che Adam Smith era del tutto consapevole di prendere parte

a una discussione di portata europea sul rapporto tra “egoismo” naturale e intersoggettività. Da una parte c’erano i pensatori che Smith ama definire “materialisti”, per il fatto di mettere l’accento sull’egoismo individuale, e tra questi egli annoverava anche i teorici francesi dell’amour propre; dall’altra c’erano invece quegli autori, soprattutto scozzesi, che mettono in primo piano – come lui – la dimensione dell’intersoggettività, fondata su una naturale inclinazione alla sympathy. Così, in un passaggio centrale della Theory of Moral Sentiments, egli riassume le sue critiche all’avversario “materialista” accusandolo di fraintendere in modo sostanziale la vera natura dei rapporti interumani: “Quella spiegazione della natura umana che fa derivare tutte le sensazioni e le inclinazioni dall’amore di sé – una spiegazione che ha fatto molto rumore in giro per il mondo ma che, per quanto ne so, non è ancora stata dimostrata in modo soddisfacente – mi sembra nascere da un grave fraintendimento del sistema della simpatia”.31 Se vogliamo comprendere l’apporto estremamente originale di Smith alla teoria del riconoscimento interumano, dovremo anzitutto chiarire che cosa significa per lui sgombrare il terreno dagli equivoci sul “sistema della simpatia”. Esaminando la teoria morale di David Hume, ho messo in luce soprattutto quegli elementi che mi sembrano caratterizzare l’approccio britannico all’idea del riconoscimento interumano a partire dalla fine del Seicento. Ho messo perciò in primo piano la riflessione di Hume secondo la quale noi cercheremmo di correggere le incoerenze e le incertezze dei nostri giudizi di valore, fondati sulla simpatia, adottando il punto di vista di un osservatore imparziale, che possa darci le coordinate necessarie per un giudizio il più possibile oggettivo. In questa osservazione di Hume ho visto l’indizio di una visione originale del riconoscimento interumano: in sostanza, Hume ammette qui che noi saremmo disposti a limitare le nostre convinzioni e i nostri propositi nella misura in cui lo ritenga opportuno un “osservatore imparziale” che possieda ai nostri occhi la necessaria autorità morale. Riconoscere significa qui – potremmo dire – attribuire a un soggetto-altro lo status normativo necessario per valutare, approvandolo o disapprovandolo, il nostro comportamento. Abbiamo anche visto che in Hume non è affatto chiaro per quali vie un tale arbitro imparziale possa imporsi alla mente o alla psiche del singolo. Hume ritiene che il desiderio di una buona reputazione pubblica ci spinga a soddisfare le attese normative dei nostri simili, ma ciò non spiega affatto perché dovremmo essere interessati a un giudizio imparziale, il più possibile oggettivo, sul nostro comportamento. Lasciarsi guidare, nel proprio

comportamento, dal punto di vista del nostro gruppo sociale di appartenenza, non significa adottare la prospettiva di un giudice “oggettivo”, imparziale. L’osservatore “ideale”, che Hume sembra avere qui davanti agli occhi, si materializza all’improvviso come un deus ex machina, senza alcuna dimostrazione empirica di come questa istanza giudicante possa acquistare una autorità morale su di noi. Questo evidente punto debole nella concezione di Hume ci dice che il suo tentativo di confutare, su basi intersoggettivistiche, l’individualismo allora dominante è rimasto a metà strada. Sarà appunto Adam Smith a completare con successo il suo progetto – sulla scia di Shaftesbury e di Hutcheson –, mostrando come l’individuo apprenda gradualmente a far dipendere il suo comportamento morale da forme sempre più comprensive di riconoscimento sociale. Il punto di partenza scelto da Smith per indagare il terreno della moralità è lo stesso di Hutcheson e di Hume: anch’egli si domanda, con fare tipicamente empiristico, in base a quale criterio formuliamo ogni giorno i nostri giudizi morali sui caratteri e sul comportamento sociale degli altri individui. Da Hume egli riprende anche l’assunto secondo cui un vincolo di “simpatia” emotiva ci lega agli individui interessati da questo comportamento, un vincolo che ci permette di rivivere in noi le loro reazioni emotive. Andando oltre Hume, Smith mette in guardia, in questo passo iniziale, dall’equivoco di ritenere che la nostra innata capacità di “simpatia” ci porrebbe in condizione di rivivere le emozioni altrui nel modo esatto in cui le persone in questione le hanno provate: noi non possediamo il dono dell’immedesimazione diretta, ma dobbiamo ricorrere, come via d’accesso al soggetto-altro, alle nostre esperienze personali, che con l’ausilio dell’immaginazione (imagination) potranno darci un’idea delle sue emozioni di fronte a un dato avvenimento: “Gli stati emotivi dell’osservatore corrispondono sempre all’immagine che questi si fa della persona osservata e delle sue emozioni, nella misura in cui cerca di immedesimarsi nel suo caso”.32 Il significato che Smith attribuisce al termine “simpatia” è dunque assai diverso da quello del suo amico Hume: mentre Hume vede nella simpatia la capacità puramente passiva di lasciarsi “contagiare” dagli stati emotivi altrui, Smith la intende piuttosto come la capacità “proiettiva” di condividere quegli stati mediante l’immaginazione.33 Inoltre, non c’è dubbio che per Smith la simpatia non si limita alla capacità di condividere gli stati negativi: in questo caso avremmo a che fare piuttosto con la “compassione” (compassion) e la “pietà” (pity), mentre la disposizione di cui si sta parlando

va intesa nel senso più lato, come la capacità di condividere “qualsiasi tipo di emozione”.34 Dopo questi chiarimenti preliminari, Smith si rivolge al tema che dovrà essere il fondamento della sua teoria morale: si chiede infatti quali atteggiamenti e quali virtù morali, sulla base della nostra naturale capacità di simpatia, possano essere considerati così universalmente validi da risultare desiderabili per qualunque soggetto umano.35 L’argomentazione sviluppata da Smith per rispondere a questa domanda nella sua Theory of Moral Sentiments è di gran lunga troppo complessa per poter essere riproposta qui anche solo per grandi linee; come già nel caso della teoria morale di Hume, preferisco limitarmi a presentare quegli elementi della sua teoria che contengono “in nuce” un’idea del riconoscimento interumano. Il primo passo che Smith compie in questa direzione consiste nel dato empirico che la nostra naturale inclinazione a condividere le emozioni altrui trova il suo corrispettivo speculare nel desiderio che le nostre emozioni siano a loro volta condivise. “Non c’è nulla,” leggiamo nel primo paragrafo del secondo capitolo, “che conquisti il nostro favore come un essere umano capace di condividere tutti i nostri stati d’animo, e non c’è nulla di più sgradevole della vista di un essere umano così gelido da essere incapace di ogni partecipazione emotiva.”36 Smith porta decine di esempi, che dovrebbero dimostrare come, indipendentemente dal grado di familiarità che abbiamo con una data persona, proviamo sempre una forte “simpatia” verso di lei se scopriamo di avere le stesse reazioni emotive. Al contrario, l’amico che non sorride quando gli raccontiamo un fatto che ci è capitato suscita diffidenza o disagio, esattamente come chi non partecipa al nostro dolore quando siamo colpiti da una disgrazia.37 Tutto ciò dovrebbe servire anzitutto a dimostrare quanto sia radicato nella natura umana il desiderio di sentirsi emotivamente uniti agli altri. Smith si rende conto che questa aspettativa di reciprocità emozionale non dice ancora nulla su quali regole dovremmo verosimilmente seguire nei nostri rapporti sociali. Per avvicinarsi di qualche passo a questo tema chiave di ogni teoria morale, Smith procede a esaminare alcune complicazioni che possono presentarsi nel rapporto interumano, complicazioni dalle quali spera di trarre utili insegnamenti. Anche in questo caso il suo modo di procedere ricorda quello di Hume, che aveva fatto a sua volta ricorso alle incoerenze delle nostre valutazioni morali per scoprirne la vera natura. Smith però parte da più lontano, e i risultati a cui perviene sono più articolati. Egli parte dalla

constatazione, a un primo sguardo sconcertante, che noi riusciamo a condividere il dolore di una persona colpita da una disgrazia anche nel caso in cui questa persona non lasci trapelare il suo stato; e viceversa – prosegue Smith – non riusciamo a condividere un dolore manifesto se la causa di quel dolore ci sembra frivola o insignificante.38 Considerando poi altri esempi analoghi, Smith ne conclude che non ci limitiamo in genere a condividere gli stati emotivi che una certa persona manifesta esternamente, ma siamo piuttosto portati a giudicare, grazie alla nostra capacità immaginativa, se quelle espressioni esterne siano adeguate o no al suo stato interiore. Per chiarirlo Smith introduce il concetto di propriety, “appropriatezza”39: con ciò intende dire che, nel condividere un’emozione, noi adottiamo spontaneamente un punto di vista normativo, per stabilire se l’espressione esterna di quell’emozione è “appropriata”, ossia adeguata alla sua causa. Smith non è però così ingenuo da pensare che questa analisi, per quanto approfondita, della condivisione degli stati emotivi risolva ogni problema. È chiaro che, nel condividere una certa emozione, non possiamo fare a meno di adottare implicitamente criteri normativi che si riferiscono alla maggiore o minore adeguatezza di quel comportamento esterno: ma da dove provengano questi criteri, e come possano essere spiegati, è ancora tutto da chiarire. Il tentativo di colmare questa lacuna costituisce il passo successivo – il terzo – dell’argomentazione di Smith: un passo che è a sua volta articolato e che si estende, in sostanza, all’intero libro. Il punto di partenza del discorso è l’osservazione seguente: noi giudichiamo adeguata o “appropriata” la nostra reazione emotiva a seconda che un ipotetico osservatore neutrale la approvi oppure no. In altre parole, per sapere quale dovrebbe essere la nostra reazione emotiva adeguata a un evento che ha colpito la persona X, dobbiamo chiamare in causa, come arbitro, un osservatore esterno Y, non coinvolto nella situazione. Ma secondo Smith questo vale anche per la persona X, quella colpita direttamente: anch’essa deve assumere il punto di vista di un osservatore esterno e non coinvolto, per sapere quale dovrà essere la sua reazione emotiva all’accaduto.40 Nello scenario che viene così a delinearsi abbiamo a che fare con una doppia reciprocità: non solo nel desiderare la condivisione emotiva, ma anche nel desiderare che un osservatore esterno approvi quella reazione. Entrambi i soggetti, sia quello che partecipa a una certa situazione emotiva, sia quello che ne è coinvolto in prima persona, non si augurano soltanto l’approvazione del loro “partner” emotivo diretto, ma anche quella di uno spettatore esterno e non coinvolto. Si potrebbe forse

anche dire che entrambi i soggetti devono sforzarsi di regolare il proprio accordo emotivo dal punto di vista di quell’osservatore neutrale. Prima che Smith possa ricavare da questo schema – lo schema della “reciprocità emotiva” – quelle virtù etiche che nel quadro della sua etica naturalistica possono essere considerate universali, mancano ancora un paio di elementi. Anzitutto non è ancora chiaro quale debba essere la fisionomia di quello spettatore neutrale di cui entrambi i soggetti coinvolti, ed emotivamente “sintonizzati” fra loro, si augurano l’approvazione. Nel corso di questa progressiva “sintonizzazione” emozionale, l’osservatore esterno non può che assumere, secondo Smith, forme sempre più astratte: allo scopo di valutare l’adeguatezza del proprio comportamento emotivo, i due soggetti coinvolti sono infatti costretti a chiamare in causa sempre nuovi spettatori neutrali in veste di “arbitri”41; e questa progressiva generalizzazione del soggetto-altro come istanza approvante o disapprovante arriva a un punto tale – se seguiamo Smith passo dopo passo – che questo “grande giudice e arbitro”,42 “onniveggente”,43 finisce per coincidere con la “ragione” stessa: una conclusione assai problematica nel contesto empiristico di Smith, ma di cui è facile immaginare quale importanza possa avere avuto per Kant.44 Lo stesso Smith non lascia adito a dubbi sul fatto che questo spettatore generalizzato vada inteso più nel senso di una voce interiore, come voce della coscienza, che nel senso di un giudice fisicamente esistente. Leggiamo così, in un passo che sembra di nuovo una anticipazione sorprendente delle tesi kantiane, che ogni individuo ha dentro di sé, “nel proprio petto”, come una sorta di “uomo interiore”, un “rappresentante” di quello “spettatore imparziale”.45 Ma se anche le argomentazioni di Smith ci portano a concludere, in modo inequivoco, che l’autocontrollo emotivo dei soggetti coinvolti deve orientarsi sul modello di un soggetto-altro, via via generalizzato e “introiettato”, un soggetto che finisce per abbracciare la totalità dei soggetti umani, resta aperta una seconda domanda: resta infatti da chiarire dove il singolo individuo attinga la motivazione che lo spinge a sottoporsi a questo processo di controllo del suo comportamento emotivo. Quando Smith sfiora la questione, di passaggio, è come se ripetesse la soluzione proposta da Hume: noi ci sentiamo indotti a verificare le nostre reazioni emotive alla luce di uno spettatore “generico” in veste di arbitro imparziale perché in questo modo speriamo di guadagnare una buona reputazione sociale.46 Che però Smith abbia un’idea più complessa di questo retroterra motivazionale appare chiaro

non appena affronta il tema in modo esplicito: in questi passi, come per esempio nel secondo capitolo della Parte Terza,47 si legge infatti che l’autocontrollo normativo del nostro comportamento emozionale non è finalizzato in primo luogo a guadagnarsi elogio e approvazione, ma a “meritarsi” l’elogio o l’approvazione. Ciò significa che il semplice elogio o la semplice approvazione non bastano a soddisfarci, perché noi vogliamo anche sapere se siamo realmente degni di questo elogio o di questa approvazione. Stando a questa formulazione, più volte ripetuta da Smith, il motivo che ci spinge a un autocontrollo normativo del nostro comportamento può essere qualificato come “morale”; e così la frase che riassume l’intero discorso sembra suggerire che la nostra felicità e la nostra soddisfazione dipendono dalla costante verifica del grado di merito che spetta al nostro controllo emotivo: “L’autorevolezza dell’‘uomo interiore’ [ossia dell’osservatore imparziale ‘introiettato’, N.d.A.] si fonda tutta sul desiderio di essere degni di lode, e sulla ripugnanza che si prova per l’idea di non esserlo. Questa autorevolezza si fonda sul desiderio di possedere quelle qualità e di compiere quelle azioni che amiamo e ammiriamo negli altri esseri umani, e sul timore di possedere quelle qualità e di compiere quelle azioni che detestiamo e disprezziamo negli altri”.48 Sarebbe troppo lungo discutere qui tutte le notevoli implicazioni di questo passo, in cui Smith si avventura in una terra sconosciuta, ma è comunque evidente qual è il nucleo del discorso: dobbiamo essere pronti a orientare i nostri sentimenti interpersonali sul giudizio di un soggetto-altro interiorizzato, perché siamo naturalmente interessati a una “giustificata approvazione” sociale.49 A seconda del punto di vista filosofico che vogliamo assumere, si potrà vedere in questa tesi un’anticipazione di Kant o una ricaduta su posizioni pre-empiristiche. Ci si può anche domandare se Smith non abbia scavato qui un solco così profondo, tra il desiderio di elogio sociale e l’interesse per una “giusta” approvazione, da rendere impossibile una conciliazione tra i due moventi: a tratti, si ha in effetti l’impressione che Smith parli di due distinte “nature”, quella “empirica” e quella “intelligibile”.50 Ma a prescindere da questo ordine di problemi, il passo che abbiamo citato ci permette una visione d’insieme, fornendo nello stesso tempo una risposta alla domanda iniziale: quale idea di “riconoscimento” si delinea propriamente nella teoria morale di Adam Smith. È ormai chiaro che, a differenza di Hume, il riconoscimento ha in Adam Smith un contenuto decisamente normativo, morale-regolativo. Se Hume

partiva dal fatto che gli esseri umani, spinti da un bisogno egoistico di reputazione sociale, sono disposti ad accordare un’autorità normativa e regolativa a un osservatore esterno, Smith non accetta il presupposto di un soggetto guidato essenzialmente da un interesse egoistico. Né potrebbe accettarlo, dal momento che il vincolo emotivo della “simpatia” è così radicato – per lui – nella nostra personalità individuale: quel vincolo gli impedisce di considerare gli esseri umani come individui isolati, che solo in un secondo tempo troverebbero un punto d’accordo regolandosi entrambi su un osservatore imparziale. “Riconoscimento” significa, per Smith, riconoscere il soggetto-altro come un essere al quale si vorrebbe essere uniti fin dall’inizio da un legame emotivo e vitale. È vero però che questa “comunicazione emotiva”51 tra gli esseri umani, in qualche modo originaria e naturale, non può essere affermata come un dato certo. Le nostre preferenze individuali, le nostre abitudini culturali e i nostri pregiudizi ci impediscono di stabilire un rapporto immediatamente empatico con l’altro, come le circostanze richiederebbero. Smith ritiene perciò necessario, per così dire, un riconoscimento di secondo grado, la cui funzione sarebbe quella di avvicinare ulteriormente i soggetti sul piano della sensibilità emotiva. Questa nuova forma di riconoscimento consiste nell’introiettare il maggior numero possibile di punti vista “altrui”, in modo da produrre in se stessi la voce di un giudice imparziale e bene informato, con l’incarico di armonizzare via via le proprie emozioni e quelle altrui approvandole o disapprovandole. Se la prima forma di riconoscimento è basata sul rapporto emotivo diretto con il soggettoaltro, a cui si attribuisce un bisogno speculare di condivisione comunicativa, la seconda forma di riconoscimento è indiretta, perché richiede la mediazione di un “altro” generalizzato. In questo caso il riconoscimento è rivolto in primo luogo alla “comunità ideale” formata dalla totalità dei soggetti sociali, comunità a cui si riconosce l’autorità morale di un giudice interiore, in grado di decidere sull’adeguatezza delle proprie emozioni e di formare così il carattere individuale. Se Smith abbia fatto bene o no a considerare anche questa seconda forma di riconoscimento come un dono di natura è una questione che lascio qui in sospeso.52 Quanto è stato detto sull’idea smithiana di riconoscimento non giustifica peraltro la tesi, già avanzata, secondo cui egli avrebbe inteso prevenire, come anche Hume, il crescente egocentrismo dei suoi connazionali, alimentato dal consolidarsi del mercato capitalistico. Questa tesi potrebbe suonare ancora in certo modo plausibile per Hume, in cui si trova una diffusa perplessità nei

confronti dell’idea che si possa incrementare il bene comune semplicemente coordinando gli interessi egoistici dei singoli. Hume era estremamente interessato alla neonata economia politica, e tentò di occuparsene in prima persona,53 ma fu sempre estremamente scettico verso l’idea – proclamata con enfasi – di un mercato che funzionerebbe tanto meglio quanto meno gli interessi egoistici fossero frenati dagli scrupoli morali. Contro Mandeville – come ha mostrato di recente Mikko Tolonen – sostiene che il mercato ha bisogno di una propria political sociability, ossia di un “galateo” comportamentale politicamente governato, per essere all’altezza dei propri compiti.54 Ma nel caso di Adam Smith la questione appare più complicata: non è evidente che la sua filosofia intenda anzitutto opporsi agli interessi egoistici dell’economia di mercato. A questa interpretazione si opporrebbe la vecchia idea, ancora oggi assai diffusa, secondo cui il filosofo scozzese sarebbe fermamente convinto dell’utilità sociale degli interessi privati, al punto da sostenere la massima de-regolamentazione del mercato. In altre parole, Smith sarebbe anzitutto un teorico del libero mercato. Per avallare questa tesi ci si appoggia tuttavia esclusivamente su La ricchezza delle nazioni, escludendo qualsiasi riferimento alla filosofia morale di Smith.55 Che questa immagine del filosofo sia fuorviante è già stato detto in precedenza in riferimento al “problema Adam Smith”: quanto più la conoscenza della sua opera progredisce, tanto più sembra imporsi l’idea contraria, che cioè la sua teoria economica vada interpretata a partire dalla sua filosofia morale e che non possa essere perciò considerata una semplice difesa del libero mercato. Questo mutamento di prospettiva ha portato a interpretare La ricchezza delle nazioni in modo completamente diverso da quello caro all’ideologia del “laissez-faire”. Seguendo, per esempio, l’interpretazione proposta da Samuel Fleischacker, l’intento di Smith ne La ricchezza delle nazioni era di mostrare che il mercato capitalistico è moralmente giustificabile solo nella misura in cui si conforma alla prospettiva idealizzata di un giudice imparziale e ben informato. Viceversa, sempre secondo Fleischacker, Smith riterrebbe riprovevole e inaccettabile tutto ciò che nel capitalismo contraddice questo criterio procedurale. Se La ricchezza delle nazioni viene letta alla luce di questa interpretazione, saltano subito all’occhio quegli elementi la cui unica funzione sembra essere quella di mettere un freno all’avanzata dell’egoismo economico di mercato. Così, per esempio, Smith mette in guardia dalle conseguenze distruttive che uno sfruttamento indiscriminato della forzalavoro potrebbe avere sulla psiche dell’operaio.56 Inoltre, egli raccomanda di

mirare sempre alla liberazione del lavoro salariato dalla schiavitù e dalla dipendenza personale,57 e compie sempre nuovi sforzi per valutare un certo ordine economico dalla prospettiva di tutti i soggetti coinvolti.58 Certo, queste limitazioni e raccomandazioni non erano sufficienti, già allora, per porre un freno efficace al mercato capitalistico, ma dimostrano in ogni caso con chiarezza che Smith non era affatto un fautore entusiasta dei vantaggi del libero mercato: l’economia di mercato non deve, a suo parere, lasciare fuori dalla porta il riconoscimento – quel riconoscimento che accordiamo ai nostri simili ascoltando la voce del nostro giudice interiore –, ma deve anzi includerlo al proprio interno sotto forma di regole procedurali e di vincoli morali.59 Pur ammettendo che non sia andato molto lontano in questa direzione, e che non si azzardasse a ipotizzare interventi diretti dello stato nell’economia di mercato, resta il fatto che La ricchezza delle nazioni mira a individuare strumenti adeguati per arginare i comportamenti egoistici nella sfera economica. In questo senso può essere legittimo attribuire a Smith l’intento filosofico di frenare l’avanzata della mentalità capitalistica, elaborando i rapporti di riconoscimento che intercorrono da sempre fra gli esseri umani. Come Hume, ma con molta più attenzione alla dimensione intersoggettiva, egli è convinto che l’uomo sia disposto per natura a farsi guidare dal “meccanismo” della lode e del biasimo da parte di un soggettoaltro idealizzato, così da promuovere in se stesso un comportamento orientato al bene comune. Che questa specifica concezione del valore del riconoscimento interumano non sia rimasta un fenomeno isolato sulle isole britanniche, quasi un fiore nel deserto, limitato alla filosofia morale della scuola scozzese, appare chiaro se, con un salto di ottant’anni, prendiamo in esame l’opera di John Stuart Mill. A un primo sguardo non si potrà dire che Mill attribuisca un peso centrale alla sfera intersoggettiva, essendo fermamente convinto che ciascun individuo sia l’artefice della propria fortuna: anche Mill crede tuttavia nel potere morale della lode e del biasimo, di praise e blame, la cui funzione va ricondotta anche per lui, come per Hume e Smith, al bisogno umano del riconoscimento sociale. È vero che questa idea, per quanto destinata a svolgere un ruolo decisivo nell’“agenda” liberale di Mill, compare piuttosto tardi nel suo pensiero se lo confrontiamo con il percorso dei due filosofi scozzesi. Per Hume, come si è visto, la ricerca di una buona reputazione sociale è il movente che ci induce ad accantonare i pregiudizi sociali per conferire ai nostri giudizi di valore una coerenza cognitiva; e per

Smith, lo abbiamo visto, era addirittura il bisogno di vivere in accordo emotivo con i nostri simili a rendere necessaria l’approvazione di un giudice imparziale. Per Mill queste riflessioni sul ruolo di un “altro generalizzato” nel nostro sistema motivazionale non hanno invece un ruolo primario: nel terzo capitolo del suo libro Utilitarismo Mill si domanda, nello stesso spirito di Smith, fino a che punto l’uomo possieda “sentimenti sociali”,60 ma il rapporto di riconoscimento gli interessa soprattutto nella sua funzione politico-sociale. Il luogo in cui Mill sviluppa con maggiore ampiezza le sue riflessioni in proposito è il suo pamphlet liberale Sulla libertà [On Liberty]. Il baricentro teorico del libro è, com’è noto, l’esigenza politico-sociale di mettere ogni singolo individuo in condizione di realizzare con la massima libertà quelle doti che la natura gli ha fornito fin dalla culla.61 A questo caposaldo etico del suo liberalismo Mill era giunto dopo essersi confrontato con la letteratura del Romanticismo inglese e tedesco, da cui aveva tratto una nuova visione delle peculiarità individuali: ogni individuo ha in sé, in potenza, un fascio di qualità e di attitudini originali, che deve sviluppare via via nel corso della sua vita sul modello di un processo organico.62 Sulla base di questo ideale, Mill ritiene sempre più che il primo compito di un ordinamento sociale liberale consista nel creare i presupposti giuridici, economici e culturali che possano permettere al singolo di realizzare con la massima libertà possibile le proprie personali attitudini. Nello scritto Sulla libertà, pubblicato nel 1859, si trova riassunto per la prima volta cosa ciò debba significare in concreto sul piano istituzionale: si parla qui di un diritto fondamentale alla libertà di opinione, di pensiero e di discussione, un diritto che potrà essere limitato solo in pochi casi eccezionali,63 si parla inoltre della responsabilità dello stato nel garantire una varietà culturale sufficientemente ampia,64 e infine di un sistema educativo che possa informare i giovani sull’intero “spettro” delle forme di vita e di pensiero.65 Se poi prendiamo in considerazione lo studio Chapters on Socialism, rimasto incompiuto e pubblicato postumo da Helen Taylor solo nel 1879,66 Mill sembra giunto alla convinzione, negli ultimi anni della sua vita, che a questo paniere di diritti fondamentali e di misure organizzative si debba aggiungere l’impegno, da parte dello stato, di sperimentare nuove forme economiche, decisamente più favorevoli alle esigenze della classe operaia. Ovviamente questo catalogo di istanze politico-sociali, presentate così, senza una precisa cornice metodica, solleva una serie di questioni che ci interessano solo marginalmente. In primo luogo, si tratterebbe di chiarire se Mill intendeva i suoi progetti di riforma in senso utilitaristico o

perfettibilistico: se cioè questi progetti andavano pensati come la somma del maggior benessere possibile per tutti o come l’incarnazione istituzionale di una concezione della vita buona svincolata da qualunque finalità utilitaria. La questione metaetica che viene così a profilarsi, e che Isaiah Berlin fu probabilmente il primo a sollevare, con l’intento di problematizzare il consueto reclutamento di Mill tra le file degli utilitaristi,67 è però irrilevante per il nostro tema del riconoscimento e del suo ruolo. È invece molto più importante, sotto questo aspetto, la questione anch’essa controversa circa le forme di controllo sociale previste da Mill nel caso in cui il processo di autorealizzazione individuale, promosso dalle istituzioni pubbliche, venga a collidere con gli interessi analoghi di un altro individuo. I conflitti di questo genere vanno regolati, com’è abbastanza noto, secondo il cosiddetto “harm principle”, il quale prevede che le esternazioni o gli stili di vita di un individuo o di un gruppo possano essere legittimamente censurati nel caso in cui possano danneggiare o limitare i tentativi di autorealizzazione di un altro individuo o di un altro gruppo.68 Mill si è molto impegnato nella sua opera per stabilire esattamente la soglia normativa oltre la quale un danno del genere può verificarsi: nel suo libro Utilitarismo, egli accarezza l’idea che ogni individuo, grazie al progresso della civiltà, disponga ormai di “diritti morali” intangibili: e anche nel saggio Sulla libertà il tema dei diritti ricompare, anche se la priorità di Mill è di spostare il più possibile quella soglia, in modo da garantire la massima libertà d’azione per l’individuo impegnato a sperimentare su se stesso, ivi compresa la possibilità di autodanneggiarsi.69 In entrambi i libri si trova però, in posizione centrale, l’osservazione che il mezzo più adeguato per evitare in anticipo o per comporre in seguito questi conflitti consista nell’indurre i soggetti, con la lode o il biasimo, a considerare gli interessi dei loro simili. Non è con le sanzioni legali, ma con la prassi pubblica dell’approvazione o disapprovazione, secondo Mill, che la società può fare in modo, efficacemente, di soffocare sul nascere i conflitti tra differenti percorsi di autorealizzazione. Naturalmente, nel raccomandare questo strumento sociale, Mill esprime anche, nello stesso tempo, la preoccupazione che ne possa nascere una “tirannia della maggioranza”, che minaccia di soffocare come una “polizia morale” ogni cambiamento delle nostre abitudini di vita.70 In un caso del genere l’approvazione o la disapprovazione sociale non funzionano come uno stimolo dell’autocontrollo morale, ma come uno strumento in grado di reprimere gli impulsi creativi e innovativi della società. Malgrado

queste riserve, Mill rimane però convinto che, a condizione di farne un uso prudente e liberale, la pubblica lode e il pubblico biasimo siano pur sempre i migliori strumenti di cui una società dispone per evitare i conflitti che possono manifestarsi tra i singoli. Il motivo per cui la disapprovazione morale appare a Mill uno strumento così efficace sta in un tratto profondo della nostra natura, su cui Mill ritorna svariate volte nei suoi scritti, ed è in questo punto delle sue riflessioni politico-sociali che incontriamo infine la sua personale versione del riconoscimento. Egli è infatti convinto che la pubblica disapprovazione ci predisponga ad accogliere le ragioni altrui, perché c’è in noi il bisogno profondo di essere socialmente apprezzati dai nostri simili. Il desiderio di essere un membro riconosciuto della propria comunità è, secondo Mill, la molla motivazionale che rende così efficace lo strumento del pubblico biasimo: chiunque si veda ammonire in questo modo di fronte agli occhi dei suoi concittadini rischia di essere prima o poi escluso dalla comunità, e sarà perciò tanto più disposto a seguire le norme che gli vengono raccomandate. Per Mill, il legame sociale che ci tiene insieme come comunità è perciò intrecciato ai fili del riconoscimento reciproco, e si legge pertanto, in Utilitarismo, che “la paura di dispiacere ai propri simili” ci “spinge” a seguire il volere della comunità “anche senza trarne un vantaggio egoistico”.71 Ritorna così nelle riflessioni politico-sociali di John Stuart Mill più o meno la stessa idea di riconoscimento che abbiamo già incontrato, in una forma psicologicamente più raffinata, in David Hume e in Adam Smith. Il teorico dell’utilitarismo – ammesso che Mill lo sia stato davvero – rinuncia del tutto alla costruzione di un osservatore imparziale o di un giudice interiore, ma crede, come i suoi due predecessori scozzesi, che per essere apprezzati dalla comunità gli uomini siano disposti a sottoporre a revisione i propri moventi e i propri scopi, in modo tale da accordarli con quelli dei loro simili. Anche se nessuno dei tre filosofi usa espressamente il concetto di “riconoscimento”, la cosa stessa a cui il concetto si riferisce è vista da tutti e tre come positiva: per Mill – non diversamente da Hume o da Smith – la dipendenza del singolo dal giudizio dei suoi simili significa anzitutto vedersi costretti a verificare il proprio comportamento, confrontandolo con le aspettative della comunità contemporanea, sia essa intesa come un soggetto ideale o come una comunità concreta.72 Sulle ragioni di questo accordo si possono fare soltanto delle ipotesi. Proprio all’inizio di questo capitolo suggerivo che il rapido estendersi della

mentalità capitalista – più rapido in Gran Bretagna che negli altri paesi europei – abbia potuto dare un contributo non irrilevante: la mia tesi è che, per contrastare questa tendenza con i mezzi della filosofia, i filosofi britannici del Seicento e del Settecento si siano visti costretti, a fronte dell’“individualismo proprietario” dominante a partire da Hobbes, a sottolineare la natura sociale dell’essere umano.73 L’esempio di John Stuart Mill mi sembra confermare questa ipotesi per quanto riguarda l’Ottocento: anche Mill vede nell’avidità di guadagno, nell’interesse privato e nella spregiudicatezza sociale i tratti distintivi della società inglese del suo tempo, e crede di poterli combattere ricorrendo a una teoria che sottolinei l’importanza della solidarietà sociale. Nasce indubbiamente da qui l’interesse e la simpatia che Mill, già in età avanzata, dimostra per il primo socialismo: nel suo scritto si parla continuamente dell’indebolirsi minaccioso della “solidarietà sociale” e della crescente “avidità di ricchezza personale”, fenomeni da contrastare individuando, insieme ai militanti socialisti, correttivi istituzionali adeguati.74 Appare chiaro anche a un primo sguardo che la tesi sopra accennata riguardo alla versione specificamente britannica del riconoscimento richiede di essere precisata prendendo in considerazione il neohegelismo: quel neohegelismo che nell’ultima parte dell’Ottocento mette fine al predominio di Mill nella filosofia di lingua inglese.75 In effetti, è facile supporre che il movimento socialista intenda approfondire con gli apporti dell’idealismo tedesco quegli elementi di intersoggettivismo già presenti in Hume, in Smith e nello stesso Mill. Ci si richiama alla filosofia di Kant e di Hegel perché il loro concetto di libertà positiva permette di dimostrare la dipendenza del singolo dalla comunità che lo sostiene, in contrasto con l’individualismo dominante in area britannica. Come affermano Thomas Hill Green e Francis Herbert Bradley, ogni essere umano diventa una persona morale solo nella misura in cui impara a comportarsi secondo le regole della comunità a cui appartiene, e impara a farle proprie.76 Il presupposto comune a tutti i sostenitori del nuovo movimento filosofico è che in questo modo il processo di autorealizzazione individuale viene a coincidere con il perfezionamento etico della società; di qui, sul piano politico, le proposte di riforma nel senso dello “stato sociale”, il cui fine è di favorire l’integrazione della classe operaia nello stato democratico di diritto.77 Se poi si aggiunge con quale veemenza il movimento socialista insorge contro le aberrazioni del “capitalismo di Manchester”, non sembrerà strano

che le cose dette fin qui sul riconoscimento in Hume, Smith e Mill possano applicarsi, in misura molto maggiore, al neohegelismo di scuola britannica. In realtà, questa tesi ha un punto debole: negli scritti di filosofia morale di Green, Bradley o Bosanquet, l’apporto dell’idealismo tedesco è così vistoso che risulta impossibile attribuire a quegli scritti uno stile di pensiero tipicamente britannico.78 Il neohegelismo inglese non sviluppa infatti gli spunti della filosofia morale scozzese sulla natura sociale dell’uomo, ma indaga piuttosto la natura dell’intersoggettività umana nell’orizzonte di una tradizione di pensiero opposta all’empirismo inglese.79 L’idea di riconoscimento che trova implicita applicazione nel neohegelismo britannico è perciò profondamente diversa da quella che ho descritto fin qui come un tipico esempio del discorso filosofico in Gran Bretagna agli inizi della modernità: se in questo caso si tratta di una “grandezza” empirica, ossia la nostra dipendenza motivazionale dall’approvazione e dalla stima altrui, nell’altro consiste invece in una condizione costitutiva della nostra soggettività morale. Quale distanza separi le due concezioni risulterà chiaro nel prossimo capitolo, in cui cercherò di illustrare la nascita e lo sviluppo dell’idea di riconoscimento in Germania nella prima modernità.

4. Da Kant a Hegel: riconoscimento e autodeterminazione

Abbiamo incontrato fin qui due modi assai diversi in cui la nascente modernità, nel suo corso storico, prende in considerazione la nostra dipendenza dal riconoscimento altrui. Mentre il pensiero francese dell’età moderna vede presto in questa dipendenza qualcosa di minaccioso, nel senso che le qualità attribuite a un individuo da un soggetto-altro rischiano di fargli perdere di vista il suo vero Io, il pensiero inglese dell’età illuministica la vede al contrario come qualcosa di sostanzialmente positivo, di socialmente valido. Per Hume, Smith e Mill, e malgrado le differenze tra l’uno e l’altro, riconoscere la propria dipendenza dal giudizio altrui significa vedersi costretti all’esercizio di un autocontrollo morale che giova alla crescita del bene comune. Nelle due tradizioni filosofiche, dunque, quello che oggi chiamiamo “riconoscimento” ha significati completamente diversi: nel contesto francese il riconoscimento è inteso perlopiù dal punto di vista dell’altro (in senso concreto o in senso generale), e significa assegnare o attribuire determinate qualità a un certo soggetto, mentre nel contesto anglosassone prevale il punto di vista del soggetto che aspira al riconoscimento stesso, e significa attribuire a un soggetto-altro o anche all’intera comunità l’autorità normativa necessaria per giudicare il nostro comportamento. È tuttavia molto raro, in questi due contesti, che il riconoscimento venga inteso come un atto simultaneo e reciproco tra due soggetti: ciò accade, salvo errore, per la prima volta, nel contesto tedesco, in cui vediamo comparire, insieme al concetto, anche una vera e propria “teoria” del riconoscimento. I presupposti socioculturali che rendono possibile questo processo filosofico nella Germania della prima modernità sono naturalmente assai diversi da quelli che troviamo nella Francia o nell’Inghilterra della stessa epoca. Nella Francia dell’Ancien Régime, una monarchia assoluta e altamente centralizzata, la dinamica sociale si riduce essenzialmente alla lotta tra le due classi dominanti – l’aristocrazia e la borghesia nascente – per disputarsi i privilegi concessi dal sovrano attraverso l’esibizione di opportuni status symbol: il tema chiave del dibattito filosofico-sociale riguardava dunque, come ho cercato di mostrare, le possibili conseguenze di questa lotta

per il primato. In Gran Bretagna, invece, la dinamica sociale del tempo non ha tanto a che fare con il conflitto sociale, quanto piuttosto con i pericoli morali connessi alle nuove forme di vita: il tema chiave del pensiero filosofico-sociale è qui, come si diceva, la questione se la nostra natura abbia in sé risorse sufficienti per fare fronte al dominio minaccioso della mentalità capitalistica, orientata al vantaggio e all’interesse individuale. Le idee che cominciano a circolare nei due paesi sul valore e la natura dei rapporti interumani rispecchiano con evidenza queste peculiarità socioculturali: in Francia, come si diceva, il riconoscimento viene ricondotto al concetto di amour propre, connotato in senso negativo, mentre in Gran Bretagna è il concetto positivo di “simpatia” a ricoprire questo ruolo. Ma nell’Impero romano-germanico agli inizi dell’età moderna la chiave del pensiero sociopolitico non può essere né l’una né l’altra: il paese, frammentato come un mosaico di piccoli principati e di alcune, poche, città “libere”, e privo perciò di qualunque coesione interna, non era abbastanza centralistico per conoscere le lotte intestine tra le élite a caccia di privilegi e di potere; e non era abbastanza evoluto sul piano economico da conoscere l’avanzata della mentalità capitalistica se non in forma del tutto embrionale. A causa della lunga sopravvivenza delle strutture feudali al di fuori delle città libere, la borghesia era rimasta priva di potere politico, pur godendo, a differenza di molti altri paesi europei, di un’alta considerazione sociale, dovuta al suo ruolo, ritenuto insostituibile, nell’amministrazione, nell’educazione e nella vita culturale.1 È perfettamente legittimo domandarsi se nei paesi tedeschi del Seicento e del Settecento, in questa situazione di frammentazione estrema e di arretratezza nazionale, potesse esistere una questione sociale capace di focalizzare in qualche modo l’attenzione dei pensatori locali: si potrebbe pensare che in buona parte della Germania il vecchio ordine corporativo dell’epoca feudale fosse ancora troppo intatto perché il valore sociale del riconoscimento potesse diventare un tema dibattuto. Ma che le cose non stiano così, che nella Germania politicamente frammentata esistesse un problema sociopolitico chiave, che nessun contemporaneo informato poteva ignorare, risulta già dalla frattura, tipicamente tedesca, tra l’irrilevanza politica della borghesia da un lato e il suo ruolo culturalmente di spicco dall’altro. A differenza soprattutto della Francia, gli studiosi, i filosofi e gli artisti più importanti nella Germania imperiale non provenivano dal ceto nobiliare ma, quasi senza eccezione, dalla media e talvolta anche dalla piccola borghesia. Il figlio di un artigiano, di un parroco, di un maestro o di

un professore poteva aspirare a un posto all’università, in una corte principesca o in una casa privata dell’aristocrazia, e poteva godervi di un’altissima reputazione culturale, senza esercitare però alcun influsso politico né lì né altrove. In questo senso Leibniz e Goethe, che pur essendo di estrazione borghese riescono a farsi ascoltare, per il loro talento diplomatico, dai rispettivi principi, sono in effetti delle eccezioni. Questa interazione tra livelli sociali diversi, che si riscontra nell’area di lingua tedesca, doveva sollevare presto il problema di una possibile emancipazione della borghesia grazie all’acquisizione di diritti politici paritari. E non deve dunque sorprendere che nella Germania della prima modernità l’idea del riconoscimento abbia svolto soprattutto la funzione di esprimere in una forma filosoficamente del tutto originale questa idea di un’emancipazione complessiva della classe borghese. Si può essere tentati di trovare le prime tracce di questa idea già nei due massimi filosofi ed eruditi tedeschi del Seicento: Samuel Pufendorf e Gottfried Wilhelm Leibniz. Se infatti il primo aveva preparato la strada al moderno giusnaturalismo ipotizzando la naturale socievolezza ed eguaglianza fra gli uomini,2 il secondo era non meno convinto della nostra inclinazione innata alla socialità: inserendola però nel progetto di un ordine sociale che dal nostro punto di vista odierno ha tratti senz’altro utilitaristici.3 Ma voler risalire a questi “precursori” significherebbe sottovalutare l’assoluta novità dei presupposti teorici a partire dai quali l’idea del riconoscimento si fa strada nella Germania del secondo Settecento. Nel corso delle tre generazioni che separano l’opera di Leibniz dalla fioritura dell’idealismo tedesco, nel pensiero tedesco si era compiuta una tale rivoluzione da far apparire invecchiata tutta la filosofia precedente. Con Kant era apparso un sistema di pensiero che tentava di abbracciare la totalità dell’esperienza entro le categorie della ragione: ed è appunto nel quadro di questo idealismo razionalistico che si sviluppa in Germania l’idea del riconoscimento. Il suo vero precursore è Immanuel Kant, il suo primo teorico sarà Johann Gottlieb Fichte, per trovare infine il suo compimento nell’opera di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Se l’idea del riconoscimento si era fatta strada in Francia con la categoria dell’amour propre, e in Gran Bretagna con quella di sympathy, lo stesso ruolo è svolto in Germania dalla categoria dell’Achtung, del “rispetto”. A questo concetto Kant aveva assegnato un ruolo molto preciso nella sua filosofia morale: un ruolo che è possibile capire solo prendendo in

considerazione l’architettura complessiva della sua critica della ragione. Nella sua Critica della ragion pura, pubblicata in prima edizione nel 1781, il filosofo di Königsberg era riuscito a dimostrare che tutta la nostra conoscenza teoretica è il prodotto della sintesi tra le categorie della ragione, intese come strutture trascendentali, e le impressioni sensibili. Della realtà – così si potrebbe formulare brevemente l’idea – noi possiamo conoscere solo ciò che ne possiamo “estrarre” grazie all’attività spontanea del nostro intelletto, con l’ausilio dei concetti invarianti che gli sono propri. Com’è noto, con questa teoria rivoluzionaria Kant intendeva non solo superare le pretese gnoseologiche dell’empirismo inglese, ma anche l’intera metafisica tradizionale: se infatti si riusciva a dimostrare che tutto ciò che possiamo dire del mondo è in sostanza un prodotto della nostra ragione umana, la fondazione del sapere non poteva più richiamarsi né all’esperienza sensibile né a qualche altra forma superiore di conoscenza. Questo primo passo gnoseologico di Kant mirava però a estendersi anche alle altre forme del sapere e dell’agire umano, dimostrando che esse risultano, alla fine, dall’attività costitutiva della nostra ragione: non solo per la conoscenza del mondo fisico, ma anche per l’ambito dell’agire morale e dell’esperienza estetica bisognava poter dimostrare che le loro leggi sono in qualche modo il prodotto dell’attività formatrice dello spirito umano. L’impresa alla quale Kant si accingeva con la sua critica della ragione dava inizio a una riforma sistematica senza precedenti del sapere filosofico: l’intera realtà, intesa come l’ambito della nostra conoscenza possibile, doveva risultare una trama coerente di operazioni razionali. L’esigenza di intendere la filosofia come un’impresa volta a spiegare sistematicamente la razionalità del reale doveva diventare il tratto caratteristico del pensiero tedesco alle soglie del Diciannovesimo secolo.4 Ma per Kant ciò significava anzitutto poter dimostrare che anche l’ambito della morale è sottoposto alle leggi della ragione. Sebbene la forma in cui Kant riuscirà a vincere alla fine la grande sfida sia assolutamente originale, nella prima parte del suo percorso Kant utilizza nondimeno una serie di spunti teorici ripresi dai suoi immediati predecessori. Così egli riprende da Rousseau la proposta pionieristica di intendere l’ambito morale come un ambito pienamente autonomo: in caso contrario, se cioè si potesse considerare “morale” anche un agire determinato dagli impulsi naturali, avremmo notevoli difficoltà nel distinguere l’ambito del bene morale dal puro soddisfacimento dei bisogni.5 Per quanto riguarda invece la domanda

“come dobbiamo rappresentarci questo processo di autodeterminazione individuale”, non è stato Rousseau ma Adam Smith colui che ha tenuto a battesimo la soluzione kantiana, anche se questa circostanza è poco nota. Il filosofo di Königsberg riprende dall’illuminista scozzese l’idea che l’autocontrollo morale significhi mettersi nella prospettiva di un osservatore per quanto possibile imparziale, e giudicare di qui il proprio agire. Tuttavia, non basta combinare gli spunti dei due filosofi per arrivare all’affermazione a cui si spinge Kant con la sua Critica della ragion pratica, pubblicata nel 1788: ossia che il nostro agire morale, esattamente come la nostra conoscenza teoretica, dipende in misura decisiva, se non esclusiva, dall’attività della ragione. A tale scopo occorreva un passo ulteriore, che porta Kant a superare di gran lunga le posizioni di Rousseau e di Smith: egli afferma infatti che assumere la prospettiva di un osservatore imparziale – come presupposto dell’autodeterminazione morale – è un atto adeguato e coerente solo se è inteso come un atto di sottomissione ai comandi della ragione.6 Senza citarlo esplicitamente, Kant fa sua una possibilità teorica a cui già Smith aveva alluso nelle sue riflessioni sul progressivo estendersi del punto di vista dell’osservatore imparziale: se questa prospettiva si allarga – secondo Smith – fino ad abbracciare i punti di vista di tutti gli esseri umani, allora non c’è motivo per non identificarla con la ragione tout court.7 Mentre però Smith, frenato dalla sue premesse empiristiche, esitava a compiere questa identificazione, Kant la afferma con assoluta decisione: la ragione morale coincide per lui con ciò che tutti gli esseri razionali possono ritenere moralmente giusto. Si arriva così alla chiave di volta di quella parte del sistema kantiano che sarà dedicata alla facoltà della ragione pratica: l’intervento della ragione nell’ambito dell’agire va pensato nel senso che essa ci detta le regole o le “massime” a cui dobbiamo attenerci se vogliamo comportarci in modo moralmente corretto di fronte ai nostri simili. Quest’ultimo periodo ipotetico allude però a un problema che Kant deve ancora risolvere nel quadro della sua filosofia morale: finora infatti egli ha potuto dimostrare che un soggetto deve obbedire alle leggi morali della ragione se è interiormente disposto a farlo; ma come il soggetto possa trovare in sé un tale movente è ancora poco chiaro. Ed è a questo punto che la filosofia morale di Kant chiama in causa la categoria già citata del “rispetto”: è proprio questa categoria, come dicevo, ad aprire la strada al contributo specificamente tedesco al discorso moderno del “riconoscimento”. Prima però di arrivare, nella Fondazione della metafisica dei costumi, al problema

sopra accennato dei moventi, egli introduce in un primo tempo la categoria del rispetto in una accezione che ha per noi un interesse solo marginale: dice infatti che il rapporto tra il soggetto moralmente motivato e la legge razionale che gli detta le norme dell’agire deve essere un rapporto di “rispetto” [Achtung],8 intendendo con ciò qualcosa di molto simile a quanto Hume o Smith presupponevano implicitamente, quando affermavano che il soggetto deve attribuire all’osservatore imparziale il riconoscimento necessario per essere disposti a limitare il proprio egoismo. Ma questa accezione del “rispetto” non risolve ancora il problema di come il singolo possa sviluppare in sé la disposizione a seguire la legge morale. E a questo punto, riferito al problema del movente morale, il rispetto assume un significato un po’ diverso, in cui entra in gioco anche il rapporto tra i soggetti. Qui Kant è costretto a “far saltare” il suo quadro sistematico, come lo ha finora delineato. Per dare un nome a questo movente deve infatti stabilire un legame tra la nostra natura empirica, legata ai bisogni, e quel principio “spirituale” che ha chiamato “ragione”. Fin qui sembrava che Kant intendesse il nostro agire morale come determinato o costituito dalla sola ragione: ma ora, dovendo pronunciarsi sui moventi morali, deve uscire dal quadro stabilito e mettere in qualche modo in relazione la causalità naturale e la legge razionale. Il compito che spetta alla categoria del “rispetto” nella sua accezione più estesa è precisamente questo: noi siamo “inclini” al “rispetto” verso gli altri perché non possiamo fare a meno di vedere in essi l’immagine fedele degli sforzi che la legge razionale come tale ci richiede. Kant svolge questo pensiero audace in una lunga nota della Fondazione della metafisica dei costumi, una nota che ha per il nostro tema un significato straordinario. Anzitutto si trova qui l’idea che il rispetto è sì un sentimento, ma un sentimento di natura assai particolare: a differenza, infatti, di tutti gli altri sentimenti, che ci sono imposti per così dire dalla nostra natura empirica, e nei confronti dei quali siamo passivi, il rispetto è un sentimento “prodotto”, così leggiamo, dalla ragione stessa: “Mi si potrebbe rimproverare di cercare, con la parola rispetto, una mera evasione in un sentimento oscuro, in luogo di informare con chiarezza sulla questione mediante un concetto razionale. Ma, sebbene il rispetto sia un sentimento, esso tuttavia non è punto l’effetto di un’azione esterna, ma è un prodotto da sé, mediante un concetto della ragione. Esso si distingue, perciò, specificamente, da tutti i sentimenti del primo tipo. […] Propriamente, il rispetto è la rappresentazione di un valore che abbatte il mio amor proprio”.9 Quest’ultima frase contiene, a mio parere,

la chiave per comprendere la formulazione un po’ enigmatica secondo cui un sentimento sarebbe “prodotto” dalla ragione: Kant vuol dire che, in questo caso, siamo così convinti del valore di un certo oggetto, che tale convinzione produce un effetto preciso sulla nostra economia emotiva, e questo effetto è una limitazione delle nostre inclinazioni egoistiche. “Rispetto” non vuole significare altro, in primo luogo, che attribuire a un oggetto un tale valore da essere costretti a sospendere i nostri interessi egoistici per essere all’altezza di quell’oggetto. Non è ancora chiaro tuttavia quale oggetto debba possedere un tale valore da produrre questa limitazione delle inclinazioni egoistiche della nostra natura. E qui il discorso kantiano sul “rispetto” chiama in causa un rapporto col soggetto-altro, che era rimasto fin qui tra le righe.10 È vero che nella stessa nota Kant ribadisce anzitutto che l’unico oggetto degno di un tale rispetto è la stessa legge morale, il comandamento della ragione: ma nello stesso tempo sembra ammettere che tale legge non può essere un oggetto in qualche modo percepibile, esperibile sensibilmente, mentre gli altri soggetti umani sono l’incarnazione di quella legge. La celebre frase in nota suona così: “Ogni rispetto verso una persona è, propriamente, solo rispetto verso la legge […], di cui essa [quella persona] ci offre l’esempio”.11 Questa breve frase contiene in sostanza l’idea che, nel soggetto-altro, ci appare in forma esemplare quale valore incondizionato possieda la legge morale, se è in grado di porre un limite al nostro interesse egoistico. Il rispetto che noi dobbiamo ai nostri simili nasce dal fatto che essi sono un esempio vivente degli sforzi necessari per seguire i comandamenti morali della ragione. Si potrebbe anche dire, in forma più netta, che noi esperiamo sensibilmente nei nostri simili il valore della legge morale perché ci rappresentiamo il loro impegno nel seguirla. E ci sentiamo spinti al rispetto verso i nostri simili perché fanno o tentano di fare il possibile per corrispondere ai comandamenti morali della ragione nel loro agire quotidiano. Ritornando al problema dei moventi, che ci ha portati a esaminare il concetto kantiano di rispetto, si può concludere dicendo: Kant ritiene che noi siamo motivati a sottometterci alla legge morale perché i nostri simili rappresentano per noi un oggetto sensibile, concreto, che ci costringe a “pensare un valore” che “abbatte l’amor proprio”.12 Se la legge morale, razionale e perfettamente astratta, può avvicinarsi all’“intuizione e perciò al sentimento”, come si legge in un bel passo della Fondazione della metafisica dei costumi,13 lo si deve al fatto che ogni essere umano incorpora

sensibilmente ed esemplarmente un valore che esige il nostro rispetto, e che ci induce a sospendere i nostri fini egoistici. Per l’idea di riconoscimento che si affermerà presto nell’idealismo tedesco, questa soluzione kantiana del problema dei moventi possiede un significato pionieristico. Il concetto di rispetto introdotto da Kant getta un duplice ponte tra parti del suo sistema che sembravano destinate a rimanere nettamente separate. Da un lato, il rispetto verso i propri simili costituisce un’operazione conoscitiva che non è né pura, cioè a priori, e nemmeno puramente sensibile: essa fornisce piuttosto la percezione di un sostituto empirico, sensibile, della razionalità, al punto che intuizione sensibile e conoscenza razionale finiscono qui per coincidere. Dall’altro, però, questa specie di intuizione intellettuale che il rispetto è, in certo modo, per Kant esercita un’azione sulla nostra dinamica motivazionale, un’azione che consiste nel farci abbandonare le nostre inclinazioni egoistiche. Il rispetto per l’altro opera insomma un cambiamento nella nostra natura empirica, perché ci costringe a dare la precedenza ai comandi morali della ragione sui nostri interessi egoistici. Si potrebbe dire, in questo senso, che il concetto di rispetto supera sia la netta delimitazione tra un mondo empirico e un mondo intelligibile, sia quella tra la percezione sensibile e la conoscenza teoretica, razionale. La ragione morale può acquistare per Kant la forza di un movente solo se c’è qualcosa, nell’ambito dell’esperienza, che getta un ponte fra i due mondi, natura e spirito: e questo è il compito del rispetto, che secondo Kant noi ci dobbiamo l’un l’altro, reciprocamente, perché ciascuno di noi riconosce nell’altro lo sforzo di realizzare la legge morale. Proprio in questa funzione di raccordo il concetto kantiano di rispetto ha aperto la strada all’idea di riconoscimento che in Germania è diventata prevalente. I due rappresentanti dell’idealismo tedesco che daranno forma e rilievo sistematico al concetto – Fichte e Hegel – si ricollegano infatti a Kant non solo per il fatto di identificare l’essenza del riconoscimento in quella limitazione dell’interesse egoistico che il loro predecessore considera caratteristica del rispetto interumano, ma riprendono da Kant anche l’idea che un tale riconoscimento o rispetto debba operare una mediazione tra la natura e lo spirito, in quanto rappresenta una sorta di “intuizione intellettuale” tale da produrre una metamorfosi nel nostro sistema naturale dei bisogni. Entrambi i filosofi “trapiantano” peraltro questa idea di riconoscimento nel quadro di un sistema razionalistico che differisce per molti aspetti in modo sostanziale da quello di Kant.

Prima però di esaminare questo contributo specificamente tedesco all’idea di riconoscimento, vorrei riprendere l’analisi del concetto kantiano di rispetto da un’angolazione ulteriore. Fin qui infatti non abbiamo ancora visto in che misura questo concetto giova a una considerazione egualitaria dei soggetti sociali. Questo tratto normativo del concetto kantiano di rispetto diventa manifesto se lo confrontiamo con le concezioni del riconoscimento che abbiamo incontrato in Francia e in Gran Bretagna nel contesto intellettuale della prima modernità. La prima cosa che salta all’occhio è la circostanza che per Kant, nella sua filosofia morale, il bisogno di apprezzamento o di riconoscimento sociale non gioca alcun ruolo: quando parla di “rispetto”, pensa sempre dal punto di vista di un soggetto che si vede obbligato nei confronti di un proprio simile, e non dal punto di vista di un soggetto che aspira al riconoscimento altrui. È vero che in alcuni passaggi della sua opera Kant prende in considerazione questo desiderio individuale di mettersi in mostra, di eccellere socialmente: nei suoi scritti di filosofia della storia affiora per esempio più volte l’idea, influenzata dal concetto rousseauiano di amour propre, che è lecito parlare di un progresso della cultura umana proprio perché la tendenza individuale a elevarsi socialmente produce continue innovazioni intellettuali e morali.14 Ma nella filosofia morale di Kant questo impulso “profano”, egoistico, non può svolgere alcun ruolo per motivi facilmente comprensibili, connessi all’impostazione generale del suo sistema: nella sua prospettiva sarebbe infatti privo di senso far derivare la validità dei precetti morali dalle inclinazioni empiriche, dai bisogni, quando al contrario la legge morale consiste proprio nell’imporre un limite a qualsivoglia interesse di tipo egoistico. Il motivo del riconoscimento, che è già presente, in forma embrionale, nel concetto kantiano di rispetto, differisce dunque alla radice da quello che abbiamo incontrato negli altri due contesti culturali: per Kant, almeno nel quadro della sua teoria morale, non si tratta di un riconoscimento a cui il soggetto ambisce, ma, al contrario, di un riconoscimento che il soggetto attribuisce o addirittura “deve” agli altri soggetti. Soltanto in Hegel ritroveremo qualcosa come un “bisogno” di riconoscimento, un bisogno che però, a differenza dalla tradizione dell’amour propre, va inteso – come si tratterà di chiarire – come un’esigenza non psichica ma “spirituale”.15 In ogni caso, Kant intende per “rispetto” una disposizione emotiva che gli sembra inevitabile ammettere non appena si applichi correttamente il giudizio morale ai nostri simili: se ci rapportiamo a un soggetto in questi termini, non

possiamo fare a meno di pensarlo come un’incarnazione esemplare della legge morale, cosa che ci induce, nei suoi confronti, a limitare i nostri interessi egoistici e ad assumere un atteggiamento di rispetto. Tutti i significati ulteriori che Kant associa, nel seguito, al suo concetto di rispetto, nascono in sostanza da questo punto fondamentale: in primo luogo, essendo questo rispetto dovuto a tutti i soggetti umani, ne deriva che il rispetto è reciproco e universale; non appena abbiamo imparato a riconoscere in un soggetto la presenza della legge morale, dobbiamo tributare lo stesso rispetto a ogni essere umano. In secondo luogo, questo tipo di rispetto non significa altro per Kant che accordare al soggetto-altro la libertà di porsi autonomamente degli scopi, ossia di autodeterminarsi: tale rispetto fa infatti tutt’uno con una limitazione “del mio amor proprio”, cosicché dovrò sospendere i miei interessi egoistici per fare spazio alla libera autodeterminazione del soggetto-altro. Da questa doppia considerazione deriva la tesi, centrale per la filosofia morale di Kant, secondo cui gli esseri umani in quanto esseri intelligibili sono obbligati a rispettarsi reciprocamente nella loro rispettiva autonomia. L’enorme effetto liberatorio che la morale kantiana era destinata a esercitare sull’ambiente tedesco, politicamente e socialmente ancora arretrato, risulta già dal fatto che tutti i giovani intellettuali ne furono profondamente influenzati: in tutti gli ambienti studenteschi, nelle università e nei circoli intellettuali, l’imperativo categorico della Critica della ragion pratica apparve subito come un’esortazione a emanciparsi finalmente dal primato dell’aristocrazia per affermare l’uguale dignità morale di tutti i cittadini.16 La celebre affermazione di Karl Marx, che cioè i tedeschi erano capaci di fare la rivoluzione solo sul piano delle idee, mentre i francesi l’avevano fatta, e vittoriosamente, per le strade,17 si attaglia molto meglio a Kant che a Hegel, a cui era indirizzata. Nello spazio di pochi anni, in effetti, il filosofo di Königsberg aveva messo in moto in Germania una rivoluzione di “mentalità”, che forniva ora una fondazione razionale all’istanza davvero rivoluzionaria di un rispetto universale per l’essere umano. Il concetto di rispetto che doveva costituire il lato esterno di questa morale razionale, quello rivolto al soggetto empirico, poggiava su piedi d’argilla; il sentimento in questione era infatti, con ogni evidenza, un ibrido: per metà un fatto empirico, per metà un’obbligazione razionale, senza un chiaro legame tra i due aspetti. Da un lato il rispetto dovrebbe manifestarsi spontaneamente in ogni essere umano nel momento in cui si rapporta a un soggetto-altro;

dall’altro sembra diventare efficace solo nel momento in cui il soggetto-altro viene pensato come un essere morale in virtù di una particolare forma di giudizio.18 I giovani filosofi, entusiasti della morale razionale di Kant, videro subito in questa singolare ambiguità un punto debole della costruzione kantiana: il tentativo compiuto dal loro idolo di ricorrere al concetto di rispetto come movente morale apparve a tutti come una imbarazzante indecisione tra il piano dell’accertamento empirico e la speculazione trascendentale.19 Il concetto di riconoscimento proposto per la prima volta da Fichte e poi, poco più tardi, da Hegel, ha non in ultimo la funzione di colmare questa grave lacuna. In questo senso, l’idea tedesca del riconoscimento affonda le sue radici filosofiche nel tentativo di fornire un’alternativa convincente alle tesi kantiane sui moventi dell’azione morale. In via di principio, a coloro che trovavano inadeguate le congetture di Kant sul ruolo del rispetto come movente si presentavano due strade possibili. L’ambiguità in cui Kant aveva lasciato il concetto di rispetto poteva essere risolta o a favore del lato empirico o a favore di quello intelligibile: o imboccando la strada della filosofia morale scozzese, oppure cercando una soluzione del tutto originale nello spirito del nuovo pensiero sistematico. Nel primo caso il rispetto avrebbe dovuto diventare anzitutto l’oggetto primario delle aspirazioni umane, per poi intendere questa aspirazione come la fonte fattuale del desiderio di un accordo morale con i propri simili. Nel secondo caso si sarebbe trattato invece di individuare una sorta di impulso razionale che indurrebbe necessariamente ogni individuo a rispettare certi principi morali. Che Fichte e Hegel escludessero ovviamente la prima strada e ritenessero percorribile soltanto la seconda risulta già dal loro accordo sostanziale con la premessa di base del sistema kantiano, secondo cui l’intera realtà deve essere fondata, in ultima analisi, sulla ragione. A differenza del loro predecessore, i due giovani filosofi miravano però a dimostrare – appena raggiunta la piena maturità intellettuale – che la razionalità del reale non è un puro prodotto delle nostre funzioni razionali ma una realtà a pieno titolo, che cioè la totalità dell’esistente può essere concepita come il risultato dell’attività della ragione.20 Per Fichte e Hegel era dunque del tutto impensabile battere la strada scozzese e cercare moventi sensibili, dal loro punto di vista in certo senso “profani”, per l’azione morale. Piuttosto, volendo fornire un’alternativa più coerente alla soluzione kantiana del problema dei moventi, essi dovevano indicare un movente che scaturisse dalla nostra stessa attività spirituale.21 Il concetto di riconoscimento

sviluppato da entrambi nei rispettivi sistemi ha il compito di risolvere questo intricato problema. Di otto anni maggiore di Hegel, Johann Gottlieb Fichte muove, come è noto, il suo attacco a Kant con la tesi audace secondo cui la “messa in forma” del mondo oggettivo non è una pura operazione teoretica, ma va pensata come un’operazione pratica di un Io eternamente attivo. Nella prima versione del suo sistema idealistico, la Dottrina della scienza pubblicata nel 1794, Fichte delinea il processo in virtù del quale l’“Io assoluto”, elaborando con le sue operazioni razionali la materia posta dallo stesso Io, tenta gradualmente di realizzare la propria autonomia. Non ci interessa qui la giustificazione metodica di tale programma, né la sua complessiva esecuzione: è invece rilevante per il nostro problema quel punto del sistema in cui Fichte si vede costretto a parlare di una pluralità di individui in modo che il loro rapporto reciproco diventi un tema di riflessione. Questo punto viene raggiunto, agli occhi del filosofo, quando l’Io attivo, nei suoi sforzi di ottenere l’autonomia, viene a trovarsi davanti al difficile compito di acquistare coscienza della propria “libera attività”, peraltro già effettuale. Fichte è convinto che il soggetto fin qui pensato come “assoluto”, non possa compiere questo passo da sé, poiché la materia, già elaborata e trasformata, non può fornirgli alcuna intuizione di cosa significhi disporre della facoltà di autodeterminarsi. A questo punto della sua elaborazione sistematica diventa necessario per Fichte parlare del soggetto e del suo impegno ad autorealizzarsi non più al singolare, ma riferendosi a una pluralità di soggetti: senza incontrare altri esseri a lui simili nella sua soggettività, sarebbe impossibile per il soggetto che si autorealizza acquistare coscienza della propria, libera, attività. E qui si pone con urgenza la domanda se Fichte, compiendo questo passo verso l’intersoggettività, verso una pluralità di individui, abbia inteso in effetti rivedere il suo punto di partenza, che postulava un unico soggetto trascendentale: ma lasceremo la domanda in sospeso. Nel tentativo di risolvere il problema gli studiosi sono tuttora divisi, senza però che l’esito della disputa possa modificare nella sostanza l’evento dell’interazione fra i soggetti esposto da Fichte.22 All’esposizione di questo evento, ossia delle esperienze che il soggetto necessariamente compie incontrando nella realtà esterna un altro soggetto, Fichte dedica in fondo un intero libro: è il Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza [Grundlage des Naturrechts nach Prinzipien der Wissenschaftslehre],

pubblicato nel 1796, e può essere considerato il documento base dell’idea specificamente tedesca di riconoscimento.23 Già il titolo di questo scritto, storicamente assai significativo, fa capire in certo modo che Fichte tende a interpretare i rapporti tra i soggetti nei termini di un rapporto giuridico. Prima però di arrivare a una conclusione del genere, Fichte deve mostrare che cosa avviene nella coscienza del soggetto, nel momento in cui incontra un soggetto-altro. Anche qui, come d’abitudine, Fichte utilizza il metodo kantiano della deduzione trascendentale, che dovrà permettere di esporre gradualmente le condizioni di possibilità dell’autocoscienza.24 Il primo passo – e per noi il più rilevante – di questa deduzione consiste nell’osservare che un soggetto, che voglia acquistare coscienza della propria “libera autodeterminazione all’agire”, non può compiere questo atto autoriflessivo finché si limita a contrapporsi alla materia inerte: di fronte alla natura materiale il soggetto può porsi degli scopi, che gli permettono di operare su di essa e di trasformarla secondo le proprie rappresentazioni, ma in questa decisione per un’azione libera, autodeterminata, non vi è nulla che permetta al soggetto di farsi un’idea adeguata della libertà messa in gioco in quell’operazione. Fichte ne conclude che il soggetto deve compiere un passo ulteriore per giungere a un’effettiva autocoscienza, nel senso di una percezione intellettuale della propria capacità di agire liberamente.25 A questo punto della sua deduzione Fichte modifica drasticamente il quadro del suo procedimento, immettendo di colpo il soggetto in una cerchia di soggetti-altri: in altre parole, egli si domanda che cosa cambierebbe nell’autopercezione di un soggetto, se questo si trovasse di colpo alla presenza di altri esseri a lui simili. L’incontro con un soggettoaltro, secondo Fichte, viene percepito dal soggetto nella forma di un “appello”: impegnato, fino ad allora, nel suo rapporto riflessivo con un oggetto materiale da trasformare, l’individuo scopre, immediatamente, di essere il destinatario di un messaggio, nella forma di un “appello” che lo invita ad agire. Il concetto di “appello” [Aufforderung, “esortazione”], utilizzato qui da Fichte per caratterizzare il primo apparire del soggetto-altro, non va inteso nel senso di una richiesta o di un comando: l’autore intende piuttosto – come Allen Wood ha mostrato di recente in modo assai convincente26 – l’invito generico da parte di un soggetto generico a intraprendere un’azione che siamo liberi di compiere o di non compiere. Quello che Fichte mette al centro della sua analisi di questa situazione comunicativa è il “lavoro ermeneutico”

richiesto al soggetto chiamato in causa per interpretare tale appello come un invito effettivo all’azione. Una prima condizione è che il soggetto in causa distingua il carattere necessario della causalità naturale dal tipo di causalità implicito nell’“appello”: questo secondo tipo di causalità, che non segue lo schema causa-effetto ma funziona come un appello all’“intelletto”, presuppone come propria origine un “essere capace di elaborare concetti”. La comprensione dell’“appello” presuppone insomma l’esistenza di un altro soggetto razionale, capace di agire intenzionalmente. Ma il soggetto di partenza non comprenderebbe appieno che cosa fa dell’appello un “appello”, se si limitasse a realizzare la natura razionale del soggetto da cui proviene l’appello stesso: esso deve poter pensare, come afferma Fichte, che il suo “partner” interattivo sia a sua volta consapevole di avere di fronte a sé un essere razionale, capace di discernimento e perciò di un agire libero. La seconda condizione per la comprensione dell’“appello” è dunque il fatto che il soggetto di partenza veda in esso un segnale che si aspetta a sua volta una reazione libera.27 Fino a questo punto della sua deduzione trascendentale Fichte non parla però in alcun modo di “riconoscimento”; e non si vede perciò per quale ragione dovrebbe trattarsi di una soluzione preferibile a quella proposta da Kant nel quadro della sua filosofia morale introducendo il sentimento del rispetto. Questo passo viene compiuto da Fichte quando, subito dopo, si domanda che cosa il soggetto interpellato debba sapere del soggetto interpellante, oltre al fatto, già noto, di riconoscerlo come un essere razionale. La risposta del filosofo suona concisa, ma contiene dal suo punto di vista tutto ciò che è necessario per motivare un’azione moralmente responsabile: il soggetto interpellato deve sapere, del soggetto interpellante, che esso ha dovuto spontaneamente limitare la propria libertà: poiché, infatti, il richiamo interpellante comporta l’attesa di una reazione libera da parte del soggetto interpellato, colui che interpella deve essere disposto a limitare i propri interessi egoistici in modo da fare spazio ai potenziali interessi del soggetto interpellato. Non a caso Fichte usa più volte in questo passo la formula della “autolimitazione volontaria” della propria libertà28: con evidente allusione a Kant, che parlava del rispetto come di un sentimento che “abbatte l’amor proprio”,29 l’“appello” va inteso qui come un segnale in cui è implicito il rispetto per la persona interpellata. Invitare qualcuno a compiere un’azione significa sempre – così intende Fichte – rispettare la persona interpellata, perché ciò presuppone la rinuncia, di fronte a essa, a imporre la propria

libertà privata. In realtà, non è ancora questo il punto in cui Fichte parla di “riconoscimento”: per arrivarci è necessario uno sviluppo ulteriore, che rivolga di nuovo lo sguardo al soggetto interpellato. Anche questo, secondo Fichte, deve infatti autolimitare la propria libertà, se vuole essere all’altezza dell’“appello”. Poiché il soggetto-altro, con il suo appello, intendeva indurre il soggetto interpellato ad agire spontaneamente, per dimostrare di aver compreso il segnale, questo deve a sua volta limitare spontaneamente la propria libertà. Ed è a questo punto che si trovano le celebri parole con cui Fichte introduce formalmente l’idea di “riconoscimento” in area tedesca: “Nessuno dei due può riconoscere l’altro, se tutti e due non si riconoscono reciprocamente, e nessuno dei due può trattare l’altro come un essere libero, se tutti e due non si trattano così reciprocamente”.30 Questa frase potrebbe accompagnare come un “motto” l’idea di riconoscimento che, a partire da Fichte e Hegel, diventa abituale in area tedesca: anche in futuro si moltiplicheranno i tentativi filosofici di pensare il rapporto tra i soggetti sul modello di questa reciprocità nel riconoscimento come “esseri liberi”. Per Fichte la frase citata rappresenta solo una sintesi provvisoria, in cui riassume i risultati raggiunti nella deduzione delle condizioni di possibilità dell’autocoscienza: la sua argomentazione proseguirà con l’obiettivo di mostrare perché siamo legittimati a vedere in questa reciprocità del riconoscimento la base di tutti i rapporti giuridici.31 Ma per i nostri fini le cose già dette bastano a dimostrare perché Fichte consideri la propria idea di riconoscimento una soluzione del problema dei moventi migliore dell’alternativa kantiana. Riassumendo: Fichte si vede costretto, nella sua analisi delle condizioni dell’autocoscienza, a chiamare in causa un secondo soggetto, perché senza la presenza di un altro essere razionale il soggetto considerato non sarebbe in grado di acquistare coscienza della propria attività spirituale. Quanto poi a stabilire in che modo un soggetto che tende all’autocoscienza viene indotto a prestare attenzione alla presenza di un soggetto-altro, Fichte risolve il problema postulando un “appello” intersoggettivo: appello che viene a coincidere, alla fine, con l’evento quotidiano di un qualunque atto linguistico mediante il quale un soggetto A invita o spinge un soggetto B a compiere una determinata azione. Tutta l’analisi di Fichte ruota ora intorno alle condizioni che rendono possibile una comprensione adeguata e reciproca dei due partner interattivi. Egli è convinto che un tale appello rivolto da un soggetto A a un soggetto B, proprio perché reciproco, comporti un mutamento nella disposizione interiore dei due

soggetti, e perciò un mutamento radicale nella loro comprensione di sé. Per quanto riguarda il soggetto “appellante”, Fichte sostiene che, nel momento in cui pronuncia il suo “appello”, deve “abbattere il suo amor proprio” di fronte al soggetto interpellato, perché non può fare a meno di accordargli la libertà di reagire come desidera. E per quanto riguarda il soggetto interpellato, vale anche qui lo stesso: deve “abbattere il suo amor proprio”, per segnalare al suo interlocutore che ha capito l’appello e, nello stesso tempo, gli accorda la libertà di reagire alla sua reazione. A proposito dell’operazione morale che secondo Fichte i due soggetti devono eseguire per poter comprendersi reciprocamente in modo adeguato, ho usato non a caso la formula kantiana del rispetto, secondo la quale si tratta di una autolimitazione dell’“amor proprio”: dovrebbe così risultare chiaro che Fichte vede in questo reciproco “rispetto” la condizione di possibilità di una comprensione bilaterale dell’atto linguistico dell’“appello”. Si può pertanto concludere che la “deduzione” di Fichte mira a dimostrare che il rispetto interpersonale addotto da Kant come movente dell’azione morale è il presupposto necessario della comprensione in ogni rapporto comunicativo. Ritornando alla questione che aveva indotto Fichte all’analisi del rapporto comunicativo, ne risulta che l’adozione del punto di vista del rispetto morale è per lui la condizione di possibilità dell’autocoscienza: solo se un soggetto entra in un rapporto comunicativo di riconoscimento reciproco, può esperire se stesso come un essere capace di agire razionalmente, poiché vede la propria attività riflessa nell’altro come in uno specchio.32 Prima di mettere a confronto questa idea di riconoscimento con le concezioni abituali dell’intersoggettività, vorrei chiarire in breve perché abbiamo qui a che fare con una seria alternativa alla soluzione kantiana del problema dei moventi. Fichte, come anche Hegel poco più tardi, era convinto – si diceva – che Kant non fosse riuscito a spiegare adeguatamente che cosa motiverebbe gli esseri umani a seguire dei precetti morali razionali. Ciò che appariva sospetto a entrambi era la proposta kantiana di ricorrere a un “sentimento” assai particolare, che nel quadro nel sistema kantiano occupava una posizione ambigua, indecisa, tra il piano della causalità naturale e il piano della razionalità pura. Fichte intende risolvere questa ambiguità nel senso della sua concezione sistematica, ossia riducendo anche il movente dell’agire morale agli sforzi compiuti dal soggetto per realizzarsi nella realtà da esso stesso prodotta, in virtù delle proprie operazioni razionali: a una tale automotivazione razionale il soggetto perviene, secondo Fichte, quando si

trova posto di colpo di fronte al compito di reagire in modo adeguato all’appello di un altro soggetto, ossia alla parola rivoltagli da un suo simile. Allora, infatti, il soggetto interpellato si vede costretto ad assumere, nei confronti del suo interlocutore, un atteggiamento di rispetto, perché solo così può dimostrare di aver compreso in modo adeguato la parola che gli è stata rivolta come un invito a reagire, e a reagire come un essere libero. Il rispetto, ossia il riconoscimento dell’altro come “essere libero”, è dunque implicito secondo Fichte in ogni interazione linguistica, nella misura in cui essa possiede il carattere di un incoraggiamento o di un invito a una reazione spontanea, autodeterminata. Perché il soggetto interpellato si senta motivato al rispetto morale non occorre chiamare in causa, qui, nessun “sentimento”: per indurlo a un tale rispetto è sufficiente lo sforzo di interpretare l’atto linguistico di colui che gli sta davanti. Un secolo e mezzo più tardi questa idea di Fichte troverà un seguito in area tedesca nei lavori di Karl-Otto Apel: anche l’etica del discorso elaborata in modo decisivo da Apel è fondata sull’idea che la comprensione intersoggettiva di un enunciato linguistico da parte degli interlocutori richiede, in ultima analisi, che i due soggetti si riconoscano reciprocamente come esseri liberi e “uguali”.33 Se grande era la distanza tra la concezione francese e quella britannica del significato dell’incontro interumano, almeno altrettanto grande è la distanza tra il concetto fichtiano di riconoscimento e quei due ambiti concettuali. Naturalmente questa profonda differenza nasce anzitutto dal fatto che Fichte, nello sforzo di superare Kant, tenta di elaborare un sistema in cui l’intera realtà è pensata come il prodotto delle attività razionali di un soggetto costituente. I tentativi compiuti in Francia (in chiave psicologica) e in Gran Bretagna (in chiave empiristica) per decifrare il significato dell’incontro intersoggettivo dovevano perciò apparirgli fin dall’inizio troppo superficiali, quasi inconsistenti: chiunque voglia comprendere seriamente il significato dell’incontro interumano deve assumere, secondo Fichte, una prospettiva che dia uno spazio adeguato al potere totalizzante della nostra ragione. Con questo intento Fichte perviene alla convinzione che gli esseri umani si riconoscono da sempre, reciprocamente, come “esseri liberi” perché la nostra “ragione” ci porta a comprendere correttamente l’appello del nostro interlocutore: e ciò è possibile solo se realizziamo che l’appello ad agire ci viene rivolto perché ci viene attribuita la capacità di reagire in modo libero, spontaneo. Con questo passo prettamente teoretico, Fichte mette al centro della riflessione sull’intersoggettività un elemento che nel dibattito

precedente non aveva svolto alcun ruolo: non il valore sociale del singolo nel suo incontro con il soggetto-altro, non la sua capacità di autocontrollo morale, quanto piuttosto la sua libertà, che il rapporto comunicativo porta per la prima volta alla luce. Fichte non misconosce ovviamente la libertà naturale degli esseri razionali: quella libertà che consiste nell’impulso, imperioso, a realizzare per quanto possibile le proprie capacità in una realtà prodotta dal soggetto stesso; ma questa libertà trova la sua piena legittimazione per la nostra coscienza solo quando, incontrando altri esseri razionali, siamo costretti a limitarla perché ci venga a sua volta riconosciuta. L’incontro intersoggettivo produce dunque, secondo Fichte, la trasformazione di una libertà semplicemente naturale, spontanea, nella legittima aspirazione, condivisa da tutti gli esseri razionali, ad autodeterminarsi. Il prezzo che Fichte deve pagare per questa interpretazione della comunicazione interumana è però piuttosto alto: a differenza delle tradizioni di pensiero incontrate in precedenza, Fichte non è in grado di applicare direttamente la sua idea di comunicazione alla realtà empirica. Se i suoi predecessori – da Rousseau a Hume e a Smith – partivano sempre dai dati concreti dell’esperienza quotidiana per appoggiare su di essi le proprie analisi, Fichte considera il rapporto comunicativo solo in quanto si riferisce alla coscienza del soggetto, o meglio dei soggetti coinvolti. È vero che, in un secondo tempo, egli tenta di riferire queste determinazioni idealizzanti del riconoscimento alla concreta prassi quotidiana: com’è noto, ogni processo educativo esemplifica secondo Fichte la forma astratta del riconoscimento reciproco, in quanto l’adulto non può fare a meno di rivolgersi al bambino come a un “essere libero”, malgrado la sua immaturità, e solo a questa condizione può svilupparne il potenziale di autodeterminazione.34 Inoltre, il tentativo di concepire il “contratto sociale” come il “precipitato” del riconoscimento reciproco tra i soggetti rappresenta uno sforzo ulteriore per agganciare l’evento trascendentale del riconoscimento alla realtà storica.35 Ma anche questi tentativi di concretizzazione empirica non attenuano il sospetto che il modello di riconoscimento elaborato da Fichte si riferisca, alla fine, soltanto a soggetti astratti, e non a soggetti “in carne e ossa”. Le sue argomentazioni sono ancora troppo prigioniere dell’universo kantiano, con i suoi soggetti intelligibili, per poter influenzare durevolmente la percezione del significato dei rapporti intersoggettivi.36 Forse anzi le poche osservazioni di Fichte sulla reciprocità del riconoscimento sarebbero rimaste senza alcun seguito nella stessa filosofia di lingua tedesca se non avessero indotto Hegel a

elaborare, qualche anno più tardi, un proprio concetto di riconoscimento, questa volta però molto più sostanziato di empiria. Il passaggio da Fichte a Hegel consiste, come ora vedremo, in una radicale detrascendentalizzazione dell’evento-riconoscimento, come era stato descritto e teorizzato dal suo predecessore. Gli stimoli che Hegel ricava dallo studio di Fichte sul diritto naturale vengono inseriti in un quadro metodico che gli permette subito di riempire lo schema astratto del riconoscimento reciproco di un concreto materiale intuitivo. Tentando di elaborare il proprio sistema nella forma di una fenomenologia dello spirito nel suo realizzarsi, Hegel si rifiuta infatti di riprendere la separazione, avviata da Kant e mantenuta da Fichte, tra un mondo “empirico” e un mondo “intelligibile”. Il suo obiettivo non è più quello di stabilire quali sarebbero le condizioni trascendentali necessarie per condurre la ragione umana ad autorealizzarsi, ma è quello di ripercorrere “fenomenologicamente” i passi compiuti dallo Spirito nel suo processo evolutivo per liberarsi da ogni condizionamento naturale e diventare pienamente autonomo. Pertanto, tutto ciò di cui tratta il sistema hegeliano deve trovare una corrispondenza, anzi una concreta manifestazione, nel mondo della storia reale, dove lo Spirito deve oggettivarsi per potersi realizzare. Sulla base di questo fondamentale cambiamento della prospettiva sistematica,37 già il giovane Hegel degli anni di Jena tenta di riprendere e assimilare il modello fichtiano del riconoscimento in modo tale da fornire una concreta fisionomia mondana a un evento comunque costitutivo per la genesi dello Spirito: ed è l’amore tra l’uomo e la donna a rispecchiare secondo Hegel, nel concreto rapporto interumano, che cosa significa riconoscersi reciprocamente come “esseri liberi”.38 Utilizzando un linguaggio per noi oggi più accessibile, in questo passaggio del suo sistema giovanile Hegel argomenta più o meno così: amare una persona significa vedere nei suoi desideri e nei suoi interessi una limitazione oggettiva del nostro agire, ma una limitazione positiva, perché quei desideri e quegli interessi meritano di essere favoriti e sostenuti. Se ora ci rappresentiamo questa forma di autolimitazione morale a favore di un soggetto-altro come un evento reciproco – qual è appunto il caso dell’amore –, vi ritroveremo, in una esperienza sociale concreta, quello schema del riconoscimento reciproco che Fichte aveva riferito in precedenza alle sue figure “trascendentali”: i due innamorati limitano reciprocamente l’uno di fronte all’altro i propri interessi egoistici per favorire in questo modo

nell’altro ciò che lo rende amabile ai suoi occhi. Si comprende allora perché il giovane Hegel ritenga che l’amore realizzi nella forma più immediata e rudimentale quel rispetto reciproco che aveva dato tanto “filo da torcere” a Kant. Ma per quale ragione questo riconoscimento reciproco che si attua nell’amore debba portare alla luce nello stesso tempo anche la libertà dell’altro, è una domanda che non ha ancora trovato fin qui una risposta. La risposta di Hegel a questa domanda si trova nella celebre tesi secondo cui queste forme di riconoscimento reciproco – di cui l’amore è l’esempio per eccellenza – suggeriscono un “ritrovare se stessi nell’altro”39: se il valore che un soggetto si vede riconoscere da un soggetto-altro è un elemento costitutivo della sua identità personale, il soggetto può vedere in questo riconoscimento una conferma pubblica della propria identità, che trova così una sorta di ratifica nel mondo oggettivo. “Essere riconosciuti” – qui in riferimento all’amore – significa dunque per Hegel potersi determinare “liberamente” e in modo “consapevole” in quegli aspetti della propria personalità a cui l’autolimitazione dell’interlocutore ha conferito un valore pubblico; e così viceversa “riconoscere” significa accordare espressamente alla persona amata, attraverso l’autolimitazione dei propri interessi egoistici, la libertà di esprimere i propri bisogni e desideri. Tre sono le condizioni che vanno soddisfatte secondo Hegel affinché il riconoscimento possa essere un fattore di libertà: deve essere reciproco, deve consistere in una autolimitazione complementare e deve possedere infine un carattere espressivo, ossia universalmente accessibile o percepibile. Certo, questo non è il linguaggio usato da Hegel quando, negli abbozzi sistematici del periodo jenese, tenta di interpretare l’amore come una forma già data di quel riconoscimento reciproco che Fichte aveva relegato in un primo tempo nel regno degli esseri intelligibili: nella prospettiva del giovane filosofo il suo distacco dal trascendentalismo di Fichte va piuttosto nel senso di interpretare il riconoscimento non più come un evento tra due soggetti coscienti, ma come il risultato della potenza unificante dello Spirito, che grazie alla forza dell’amore riesce a risolvere i contrasti e a generare così un tutto vivente.40 Ma indipendentemente dall’angolo visuale prescelto, sia esso interno oppure esterno, questi sviluppi teorici del giovane Hegel permettono di affermare che il filosofo utilizza ormai l’idea di riconoscimento in un senso assai diverso da quello dei pensatori fin qui considerati: mentre Rousseau e più tardi Sartre, Hume e Smith, e lo stesso Fichte alla sua maniera trascendentale tentano, in un modo o nell’altro, di fissare i tratti normativi che

devono contraddistinguere ogni comunicazione interumana, Hegel limita la sua analisi fin dall’inizio ad alcune figure particolari di questo rapporto comunicativo, nella convinzione che solo lì abbia luogo quello che egli chiama “riconoscimento”. Il concetto hegeliano di riconoscimento – si potrebbe dire – è integralmente normativo: non si tratta per lui di individuare le strutture universali, invarianti, dell’interazione sociale, non si tratta di chiedersi se ogni incontro fra esseri umani mobiliti l’amour propre o faccia entrare in azione l’“osservatore imparziale”. Ciò che Hegel intende con il termine “riconoscimento” sono quelle forme storiche dell’intersoggettività umana, prodotte dallo Spirito, che soddisfano le tre condizioni citate prima: deve trattarsi di forme della comunicazione umana che si concretizzano in istituzioni storiche “reali” o “oggettive”, e in cui i soggetti limitano a vicenda i propri interessi egoistici e nello stesso tempo manifestano anche all’esterno il proprio reciproco riconoscimento come esseri dotati di pari dignità nella loro fisionomia personale. Ove sussistano tali condizioni – così sembra ammettere Hegel –, i soggetti hanno la possibilità di sperimentare la propria libertà, prima puramente privata, come un’aspirazione “oggettiva”, universalmente accettata, all’autonomia. Se è vero che Hegel, in un primo tempo, credeva di scorgere soltanto nell’“amore” la realizzazione del riconoscimento, è però evidente che la sua evoluzione intellettuale lo porta presto a superare questa intuizione giovanile: quanto più Hegel procede nell’elaborazione del suo sistema, quanto più si rende conto che la realizzazione processuale dello Spirito deve includere ambiti di realtà sempre più estesi, tanto più l’esperienza dell’amore si relativizza.41 La svolta decisiva nell’elaborazione del sistema si ha con il passaggio alla “filosofia dello Spirito oggettivo”, il cui scopo è di illustrare il realizzarsi dello Spirito sul piano delle concrete istituzioni storico-sociali. Ma poiché tale sviluppo richiedeva un sostanziale rinnovamento delle categoriebase del sistema, Hegel si vede costretto a riformulare il ruolo del riconoscimento come fattore di libertà spostandolo decisamente in direzione della teoria sociale. Questa estensione “sociologica” della teoria hegeliana del riconoscimento comporta due novità fondamentali: la prima, sempre più evidente nel quadro del sistema, è che il valore riconosciuto da un soggetto A nella sua “controparte” B esprime non tanto un atto individuale quanto la gerarchia di valori nella quale i due soggetti coinvolti sono cresciuti. È lo “Spirito oggettivo”, il quadro istituzionale proprio di una certa epoca e diventato per così dire una “seconda natura”, a decidere secondo Hegel quali

saranno i desideri e gli interessi dei singoli, e quali aspetti della soggettività verranno apprezzati oppure no. Nei Lineamenti di filosofia del diritto, questa impostazione “sociologizzante” del problema lo porta a concludere che la società moderna alberga in sé tre sfere morali (la famiglia, la società borghese e lo stato), ciascuna delle quali impone specifiche condizioni al riconoscimento reciproco nel senso normativo di cui si è parlato.42 In secondo luogo, nel prendere in esame la mediazione istituzionale dei processi di riconoscimento Hegel finisce per vedere come questi atti di riconoscimento reciproco possano dare luogo a conflitti sociali, nel caso in cui l’ordine sociale dominante attribuisca a soggetti diversi un diverso peso valoriale. Quali siano infatti le competenze effettivamente riconosciute come un criterio valido di giudizio può essere oggetto di vere e proprie lotte sociali. Nel celebre capitolo su “servo e padrone”, che nella Fenomenologia dello Spirito (1806) viene subito dopo il primo accenno al riconoscimento reciproco come condizione necessaria di una coscienza libera e della sua legittimazione sociale, Hegel sviluppa per la prima volta in forma sistematica le implicazioni conflittuali della sua teoria. Il “servo” e il “padrone” non possono pervenire a un riconoscimento paritario della propria identità perché le norme sociali dominanti non permettono al soggetto di ritrovarsi nell’altro in un rapporto speculare.43 È probabilmente questo stato di cose a indurre Hegel ad ammettere un “bisogno” o un “desiderio” di riconoscimento, benché queste espressioni non si trovino alla lettera nei suoi testi. Fu Alexandre Kojève, nelle sue celebri lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito, il primo a promuovere l’uso di questa espressione, quando, nella sua interpretazione del capitolo su “servo e padrone”, interpreta il “desiderio” del “desiderio dell’altro” come un bisogno specificamente umano di riconoscimento.44 Rimane però poco chiaro in Kojève che cosa si dovrebbe intendere per “bisogno”45: e su questa linea di ambiguità lo seguono tuttora i molti esegeti che parlano di un tale “bisogno” senza domandarsi che significato avrebbe dato Hegel a questo termine, se mai lo avesse utilizzato.46 È chiaro che l’autore della Fenomenologia dello Spirito o dei Lineamenti di filosofia del diritto non può avere avuto in mente un’inclinazione empirica, un bisogno sensibile o un’esigenza naturale: anche se poi questi impulsi primari trovano spazio nella costruzione hegeliana dello Spirito oggettivo, essendo Hegel convinto che ogni ordinamento sociale debba essere in grado di soddisfare i bisogni dell’essere umano, bisogni naturali ma storicamente condizionati e sempre più urgenti. Ma per quanto

riguarda il riconoscimento, non può trattarsi dell’oggetto di un bisogno naturale, sensibile, poiché lo si desidera allo scopo di realizzare la nostra soggettività razionale. Ogni richiamo ai vari Rousseau, Hume e Smith, laddove parlano di un desiderio di riconoscimento sociale, sarebbe dunque fuorviante: quando Hegel accenna a un “bisogno” di riconoscimento, pensa piuttosto a un’esigenza molto più profonda, radicata nella costituzione più intima dell’umana soggettività, all’esigenza “razionale” di dare un’espressione oggettiva alla propria capacità di autodeterminarsi liberamente. Il soggetto umano non possiede solo inclinazioni sensibili, ma anche il desiderio più profondo di realizzare nel mondo esterno quella libertà che è l’esperienza più profonda della sua identità soggettiva. E per poter soddisfare questo desiderio – così ritiene Hegel – è necessario un riconoscimento pubblico, mediato dalle istituzioni, da parte degli altri soggetti, che limitando i propri interessi egoistici dichiarano pubblicamente di riconoscere e legittimare la piena autonomia della propria “controparte”. Proprio là, insomma, dove Hegel sembra avvicinarsi di più all’idea di riconoscimento elaborata dal pensiero settecentesco, appare in tutta chiarezza la distanza che lo separa dai suoi predecessori. Mentre Rousseau, Hume o Smith intendevano il bisogno di riconoscimento, sia pure con sfumature diverse, come un’esigenza sensibile, ossia come quella che Kant riportava al concetto di “inclinazione” naturale,47 Hegel, figlio esemplare dell’idealismo tedesco, tenta di pensarlo come un interesse razionale, come l’interesse della ragione per la propria realizzazione: il “bisogno” di riconoscimento è per lui l’esigenza di realizzare pienamente e liberamente la nostra costitutiva autonomia razionale. Naturalmente anche Hegel deve dimostrare che questa esigenza “spirituale” ha effetti sensibili concreti, che non si riduce a una semplice chimera, si trovano così svariati passi in cui Hegel rimanda alle manifestazioni sensibili concrete di questo bisogno nel mondo reale, e in tutti questi casi Hegel pensa a situazioni storiche in cui i soggetti mirano a estendere la sfera della propria autonomia o a farsi includere in strutture istituzionali già “riconosciute”. Qui però si intende con il termine “autonomia” qualcosa che va oltre il significato abituale dell’espressione: non si tratta semplicemente del bisogno di liberarsi da questo o quell’ostacolo, ma dell’esigenza, dettata dalla ragione, di praticare per quanto possibile senza limiti la propria capacità di autodeterminarsi. In questo modo Hegel, ispirandosi a Fichte, piega il concetto kantiano di rispetto in senso storico e sociologico: se due soggetti si incontrano in un

contesto di riconoscimento istituzionale, quale può essersi sviluppato nelle società moderne nel corso di un processo storico di “progresso nella coscienza della libertà”, essi si tributano l’un l’altro una forma particolare di riconoscimento già solo per il fatto di avere imparato ad attenersi alle norme su cui poggia la rispettiva sfera di esistenza. Se poi questi contesti di riconoscimento vengono percepiti da quei soggetti come troppo angusti, come vincolanti o troppo disuguali, sarà la nostra instancabile volontà di autonomia – Hegel ne è convinto – a fare in modo che nuovi conflitti preparino il terreno a nuove forme di riconoscimento. Sarebbe tuttavia un errore sostenere che le idee di Hegel abbiano contribuito a diffondere una concezione specificamente tedesca di riconoscimento, e tanto più in questa versione così ambiziosa. Al contrario, la torsione storico-sociologica che Hegel aveva dato al concetto di riconoscimento non fu intesa in modo adeguato nella filosofia di lingua tedesca, tanto che fino agli anni ottanta del Novecento ne resta appena una debole eco: l’affermazione di una generica esigenza umana di riconoscimento, e dei conflitti che derivano da un riconoscimento mancato. Ma anche in questa forma estremamente ridotta la teoria hegeliana del riconoscimento ha esercitato un influsso enorme sull’evoluzione della cultura tedesca, dall’opera di Bertolt Brecht alla filosofia dialogica, nata agli inizi del Ventesimo secolo.48 L’idea-guida è che ogni incontro intersoggettivo tra esseri umani sia condizionato dall’attesa reciproca di un trattamento “da pari a pari”, e che ogni violazione di questa auspicata parità debba generare conflitti. La stessa concezione della lotta di classe, come si è sviluppata in Germania, è dominata non di rado dall’idea che si tratti anche qui, come nel drammatico rapporto servo-padrone, di una forma alterata o disturbata di riconoscimento reciproco.49

5. Forme di riconoscimento a confronto: un tentativo di riassunto sistematico

Nelle tre culture nazionali che ho preso specificatamente in esame, la dipendenza del soggetto dal riconoscimento dei suoi simili viene intesa in forme assai diverse: nella Francia della prima età moderna, da La Rochefoucauld a Rousseau e poi fino a Sartre e Althusser, questa dipendenza costitutiva è vista anzitutto come un pericolo per un accesso “autentico” al proprio vero Io; in Gran Bretagna, da Shaftesbury e Hume fino a Smith e John Stuart Mill, questa dipendenza è vista perlopiù come un’occasione di autocontrollo morale da parte del soggetto; mentre nella Germania di fine Settecento e di inizio Ottocento la stessa dipendenza viene intesa da Kant e poi da Fichte, e infine da Hegel, come la condizione di possibilità dell’autonomia individuale. Prima di affrontare l’ardua questione se queste diversità semantiche siano da intendere come reciprocamente esclusive o come complementari, se cioè si escludano a vicenda o se possano invece contribuire a una visione unitaria e più profonda dello stesso fenomeno, vorrei tentare di riassumere ancora una volta le differenze già ricordate, ma da un punto di vista più generale, senza riferirmi ai singoli autori. Il fil rouge che intendo adottare è la domanda su come venga inteso il “riconoscimento” nei tre diversi contesti, e come venga interpretato il suo effetto sui soggetti coinvolti, il soggetto “riconoscente” e il soggetto “riconosciuto”. Già la prima delle due questioni comporta notevoli difficoltà, perché sembra partire dal presupposto che nei tre contesti il “riconoscimento” assuma significati del tutto diversi. Nel primo caso, quello del pensiero di area francofona, il riconoscimento è qualcosa a cui i soggetti aspirano, mossi da un bisogno di legittimazione o almeno di un ruolo consolidato nel quadro della società di appartenenza: un’aspirazione mirante a conseguire uno status di eccellenza rispetto ai propri concorrenti, o anche solo a essere accolti come membri legittimi di quella società. Rimane così in sospeso la questione se il riconoscimento a cui si aspira possieda un carattere cognitivo o normativo: spesso infatti si tratta del semplice desiderio di far notare le proprie (presunte) qualità, anche se in altri casi sembra trattarsi piuttosto di un vero e proprio accreditamento morale di quelle qualità. Quale sia il significato corretto può

risultare solo dal contesto, anche se in questa tradizione, come abbiamo visto, prevalgono chiaramente le connotazioni epistemiche; e da questo dipende anche il fatto che non è sempre chiaro se il riconoscimento ammetta o no gradi diversi. Se prevale l’aspetto epistemico, non sembra possibile ammettere gradi diversi, perché si tratterà semplicemente di distinguere la sussistenza o la non sussistenza di determinate qualità “oggettive”, mentre nel caso di un significato normativo si dovrà ammettere senz’altro una varietà di gradazioni, come risulta nel caso di Rousseau dal fatto di distinguere il “pari rispetto” dal giudizio di valore (che ammette gradi diversi). Il secondo caso, quello del pensiero di area anglofona, appare del tutto diverso: qui “riconoscimento” significa, sì, qualcosa a cui gli esseri umani sono indotti ad aspirare per natura, non tanto, però, allo scopo di acquisire un rango sociale più elevato, quanto piuttosto al fine di essere accolti come membri legittimi della propria comunità: il riconoscimento a cui si aspira possiede dunque anche qui un indubbio carattere normativo, poiché l’approvazione sociale dipende dal proprio comportamento sociale, ossia dal fatto di padroneggiare adeguatamente le norme condivise e di tradurle con coerenza nelle proprie azioni. In questa tradizione, il riconoscimento ammette gradi diversi già per il fatto che l’ambito sociale di cui si cerca l’approvazione o la lode può essere più o meno esteso: quanto più ampio è il gruppo di coloro che accordano il riconoscimento o l’elogio a un dato soggetto, tanto maggiore è la legittimazione etico-sociale che il soggetto ne ricava. Ancora diversa è infine la situazione nel caso della “teoria del riconoscimento” di ambito tedesco. Qui non si tratta di qualcosa a cui i soggetti aspirino a partire dai propri bisogni naturali, ma rappresenta la condizione stessa alla quale il soggetto si costituisce come essere razionale e autonomo. Il motivo di questa dipendenza dell’essere umano dal riconoscimento dei propri simili è visto qui nel fatto che solo il rapporto intersoggettivo può accreditarci come soggetti capaci di agire in base a norme razionali e non a moventi empirici. Il riconoscimento reciproco significa infatti, in questo ambito, rinunciare a imporre i propri impulsi naturali nel rapporto con l’altro, dimostrando così la nostra capacità di orientarci sulle norme della ragione. Solo con Hegel questo evento viene spogliato del suo carattere trascendentale e storicizzato, al punto da assumere una fisionomia graduale. Questo riconoscimento reciproco si realizza infatti, nel pensiero di Hegel, in forme storicamente diverse, che permettono un grado crescente di autonomia in quanto richiedono una sempre maggiore

considerazione del soggetto-altro, riducendo così lo spazio degli impulsi naturali. Queste formulazioni riassuntive sono però ancora troppo condizionate dalle singole teorie e dai singoli autori chiamati in causa perché si possa ricavarne senz’altro tre distinti “paradigmi” del riconoscimento. A tale scopo è necessario perciò un passo ulteriore in direzione dei rispettivi “idealtipi”. È dunque possibile affermare che nel primo paradigma il singolo soggetto viene pensato come un individuo che, spinto dal suo desiderio di riconoscimento sociale, si abbandona totalmente al giudizio della società: il bisogno di trovare una conferma sociale generalizzata induce il singolo a comportarsi secondo gli standard socialmente stabiliti, o per suscitare ammirazione, esibendo qualità fuori dell’ordinario, o semplicemente per essere approvato nel suo comportamento corretto. Questo bisogno è soddisfatto quando l’individuo si vede attribuire pubblicamente quelle doti che dovrebbero procurargli l’ambita legittimazione o distinzione sociale. “Riconoscimento” significa qui quell’atto sociale che consiste nell’attribuire a un soggetto le qualità che possono garantirgli l’accettazione o addirittura l’ammirazione sociale. Nel secondo paradigma l’individuo non è pensato come un ostaggio dei giudizi sociali sul suo comportamento, ma come l’attore di un gioco sociale condiviso: spinto dal desiderio di essere accettato socialmente, l’individuo si sforza di controllare il proprio comportamento morale in modo da trovare approvazione alla luce delle norme dominanti. Il suo bisogno è soddisfatto quando le reazioni positive dei soggetti-altri lo convincono di essere accettato come un membro legittimo della società a cui fa appello. “Riconoscimento” significa qui quell’atto sociale di approvazione etica che il soggetto deve poter immaginare per convincersi di appartenere a buon diritto alla propria comunità. Ancora diverso è il terzo paradigma, in cui l’individuo non è certo ostaggio del giudizio sociale sul suo comportamento, ma non è nemmeno semplicemente l’attore di un gioco sociale condiviso. In questo caso ciò che sta al centro è il soggetto che lotta per la propria autonomia all’interno della comunità sociale: l’attore individuale, spinto dalla preoccupazione di realizzarsi come soggetto razionale, di essere effettivamente in grado di agire per un movente razionale; ma ciò è possibile se, a sua volta, nel suo rapporto con questo soggetto-altro, rinuncia a far valere i suoi impulsi naturali, riconoscendo a quel soggetto un’autonomia morale speculare alla sua. Il “riconoscimento” diventa qui un atto diadico di autolimitazione morale, un atto che coinvolge almeno due soggetti, impegnati

a riconoscere l’un l’altro la rispettiva autonomia razionale e la rispettiva appartenenza a una comunità di esseri razionali. Naturalmente, nel descrivere in questo modo i tre paradigmi vengono meno le diverse sfumature che i singoli autori conferiscono all’atto del riconoscimento: non ritroviamo le sostanziali differenze tra la concezione rousseauiana dell’amour propre e la teoria sartriana dell’intersoggettività, né le molte divergenze che separano la versione humiana da quella smithiana dell’osservatore interno, né il passaggio dal concetto trascendentale di riconoscimento, come lo troviamo in Fichte, alla concezione hegeliana di un riconoscimento storicizzato. Ma questo risultato è in parte intenzionale, poiché si tratta ora di prescindere dalle peculiarità e dalle sfumature interne alle diverse tradizioni per estrarne quei tratti generali che permettano di distinguere tre diverse interpretazioni del riconoscimento, tuttora attuali e utilizzabili. Tali paradigmi offrono altrettante possibilità di pensare la dipendenza reciproca dei soggetti umani nel suo carattere universale, ossia indipendentemente dai concreti contenuti di esperienza. Se poi, sempre procedendo per astrazione, vogliamo rispondere alla seconda parte della nostra domanda, ossia quali effetti possano avere sui soggetti coinvolti le diverse interpretazioni del riconoscimento, ci imbattiamo di nuovo in tre scenari assai differenti. Nel primo paradigma, di area francese, l’effetto del riconoscimento, inteso come attribuzione di qualità personali, sul soggetto in causa, è descritto in generale come negativo o addirittura distruttivo: un individuo il cui desiderio di distinzione sociale, o di un’esistenza socialmente accreditata, è soddisfatto nel momento in cui gli vengono assegnate pubblicamente determinate qualità rischia di perdere, a causa di questo verdetto sociale, la capacità di autodeterminarsi o di comprendere la propria stessa identità, reale o possibile. L’incontro intersoggettivo tra individui viene perciò quasi automaticamente associato, in questa tradizione, al pericolo della perdita di sé o della scissione del soggetto. Il riconoscimento, che in questo caso viene interpretato come attribuzione sociale, comporta, per il soggetto “riconosciuto”, il rischio di non disporre più di una vera identità personale. Del tutto diversi sono gli effetti del riconoscimento nel secondo paradigma, le cui origini risalgono alla filosofia morale di scuola scozzese. Qui l’effetto del riconoscimento, inteso come legittimazione o approvazione, sul soggetto chiamato in causa, è descritto in generale come positivo o socialmente vantaggioso: un individuo, il cui desiderio di appartenenza sociale può essere soddisfatto solo a condizione di

approvare, egli stesso, il proprio comportamento e giudizio morale alla luce delle norme interiorizzate della sua comunità di riferimento, si vede indotto a un costante controllo normativo delle proprie pratiche sociali. In questa tradizione, pertanto, l’incontro intersoggettivo è associato quasi automaticamente a un effetto sociale positivo, per cui l’individuo apprende ad adattarsi alle regole della sua comunità. Il riconoscimento che il soggetto, comportandosi in modo socialmente adeguato, riceve dal proprio osservatore “interno”, in rappresentanza dell’intera società, rafforza la sua disposizione all’autocontrollo morale. E ancora diversi, infine, sono questi effetti del riconoscimento nel terzo paradigma, scaturito dalla filosofia pratica dell’idealismo tedesco. In questo caso la distinzione tra il soggetto che riconosce e il soggetto riconosciuto viene in certo modo a cadere, poiché, in virtù della presupposta reciprocità del riconoscimento, il soggetto deve poter ricoprire contemporaneamente entrambi i ruoli. Gli effetti di un tale riconoscimento reciproco, pensato come una sorta di autorizzazione normativa ad autodeterminarsi o a co-determinarsi, consistono in una simultanea limitazione ed estensione della libertà da entrambe le parti: l’individuo, il cui bisogno di realizzare la propria razionalità viene soddisfatto nel momento in cui si dimostra razionale di fronte ai propri simili, si vede obbligato, a tale scopo, a rinunciare ai propri impulsi egoistici nei suoi rapporti con gli altri soggetti, accordando loro in questo modo una libertà che limita il suo campo d’azione. Ma poiché gli altri soggetti, per dimostrarsi a loro volta razionali nei confronti del soggetto di partenza, devono compiere anch’essi questa autolimitazione della propria libertà, al soggetto di partenza viene accordato uno status normativo che ha per conseguenza un accrescimento della sua libertà personale. In questo terzo ambito, perciò, l’evento del riconoscimento reciproco tra soggetti viene inteso sempre come condizione di possibilità dell’autonomia individuale: il riconoscimento che gli individui si tributano l’un l’altro come attestazione della propria soggettività razionale permette loro di esercitare la propria libertà in una forma approvata dalla comunità sociale. È facile vedere, in questo tentativo di ridurre le varie teorie del riconoscimento a tre forme “idealtipiche”, come l’idea dell’incontro interumano e delle sue implicazioni differisca enormemente nei tre ambiti considerati: la cultura francese, quella britannica e quella tedesca. I tre paradigmi differiscono in modo evidente non solo dal punto di vista delle aspettative e degli atteggiamenti assunti dai soggetti, ma anche dal punto di

vista degli effetti che l’incontro intersoggettivo produce sui soggetti interessati: se nel contesto francese l’aspirazione del singolo a uno status sociale elevato o a un’esistenza integrata nella società comporta il rischio della perdita di sé, nel contesto britannico il bisogno individuale di approvazione sociale predispone l’individuo all’autocontrollo morale, mentre nel contesto germanofono il riconoscimento reciproco fonda la possibilità stessa dell’autonomia individuale. Nel considerare queste differenze sostanziali tra le varie interpretazioni dell’evento intersoggettivo, sorge però la domanda su quale rapporto sussista fra le tre prospettive teoriche: si tratta solo di angolazioni diverse da cui esaminare lo stesso fenomeno, ossia il rapporto di riconoscimento tra soggetti, oppure riguardano aspetti tra loro complementari, che potrebbero comporsi in un quadro sostanzialmente unitario ma più complesso? La stessa domanda si potrebbe formulare anche diversamente, spostando l’attenzione sulle conseguenze deducibili dalla ricostruzione storica di questi paradigmi per il dibattito contemporaneo sull’idea di riconoscimento. È mia intenzione accostarmi a questa non facile questione sgombrando anzitutto il terreno da alcuni equivoci che affliggono la discussione attuale, per tentare quindi una possibile mediazione teorica fra i tre modelli. Di fronte alle vistose differenze che ho tentato ancora una volta di riassumere nella loro forma “idealtipica”, in rapporto sia al metodo sia ai risultati, si potrebbe senz’altro ipotizzare una sostanziale incompatibilità fra i tre modelli del riconoscimento. Contro l’opinione oggi assai diffusa secondo la quale le teorie del riconoscimento si contrapporrebbero sullo stesso terreno, mettendo l’accento su aspetti diversi, più “positivi” o più “negativi”,1 è necessario anzitutto sottolineare le difficoltà apparentemente insormontabili che sembrano impedire un approccio comparativo: quello che viene chiamato “riconoscimento” sulla linea, definita “positiva”, di Fichte e di Hegel, è così lontano da ciò che si intende con lo stesso termine sulla linea “negativa” (oggi associata principalmente a Louis Althusser o Judith Butler, relegando nel dimenticatoio l’eredità di Rousseau e dello stesso Sartre) che le due “linee” non sembrano parlare dello stesso fenomeno. Mentre nel secondo caso il concetto designa anzitutto l’attribuzione sociale di determinate qualità (convenzionali), ossia un’operazione sociale che non comporta alcuna “autolimitazione” del soggetto (del soggetto “attributore”), nel primo caso il concetto designa quell’atto per cui un soggetto conferisce un’autorità morale a un soggetto-altro, un atto che comporta necessariamente l’obbligo di

autolimitare il proprio campo d’azione. Per Fichte, Hegel e la tradizione che a essi si richiama, il riconoscimento – sempre a partire da una sostanziale eredità kantiana – è un atteggiamento e un modo di agire nei confronti degli altri soggetti che li “autorizza” (anche solo in forma graduale) a esercitare la propria autonomia o la propria “volontà libera”, rinunciando (anche qui per gradi) a esercitare il proprio “amore di sé” (Kant), ossia rinunciando a un agire puramente autoreferenziale. Ove manchi questo elemento, ossia l’autolimitazione morale da parte del soggetto che attribuisce il riconoscimento, sarà difficile chiamarlo “riconoscimento” nella prospettiva della tradizione fichtiana e hegeliana: bisognerà ricorrere piuttosto ad altri concetti, come quello di “attribuzione” sociale o di “classificazione” sociale. E sostenere che anche la linea “negativa”, associata alla tradizione del pensiero francese, vede come risultato del cosiddetto “riconoscimento” la produzione sociale di una “volontà libera” o di un soggetto autocosciente non modifica questo stato di cose. Perché le due tradizioni intendono, con la stessa espressione, cose molto diverse: da una parte la sanzione sociale dell’autonomia morale del singolo, dall’altra la pura finzione dell’autonomia, sempre ostacolata dai ruoli socialmente imposti.2 Se per gli sviluppi della discussione attuale questa sovrapposizione di concetti fra loro eterogenei risulta fatale, non è meno dannoso perdere di vista l’idea di riconoscimento coniata dalla filosofia morale scozzese: un’idea che, se non m’inganno, ha influenzato il nostro linguaggio quotidiano assai più profondamente dei due altri paradigmi teorici. Che nel linguaggio comune il “riconoscimento” sia anzitutto un sinonimo di “distinzione” sociale e un attestato di buona condotta, che poi, continuamente ripetuto e interiorizzato, può diventare un’istanza psichica di controllo del proprio agire, è un dato della psicologia popolare da cui non è più possibile prescindere, e che ha lasciato le sue tracce anche nella filosofia morale contemporanea. Con un richiamo implicito alla tradizione empiristica, la “lode” e il “biasimo” valgono qui come le pubbliche sanzioni che possono assicurare la validità sociale delle norme etiche nell’economia dei moventi individuali.3 Considerando la sua ampia diffusione, tanto più sorprende il fatto che questa idea comune del valore sociale della conferma e dell’approvazione interumana non svolga, si può dire, alcun ruolo nel dibattito attuale sul significato e sugli effetti del riconoscimento sociale. A parte poche eccezioni, si dimentica che queste forme quotidiane di riconoscimento incoraggiante stanno alla base dell’educazione infantile, permettono di sviluppare negli

adolescenti la propria identità personale e motivano gli adulti al perseguimento di obiettivi ambiziosi. Ma in rapporto a questo significato del concetto bisogna sempre tener presente che esso designa un atto sociale diverso da quello tematizzato nelle altre due tradizioni interpretative: se è vero che qui, a differenza dell’impostazione “negativa” e in accordo con la linea scaturita dall’idealismo tedesco, nel concetto di riconoscimento viene sottolineato il momento normativo dell’approvazione sociale, è altrettanto vero che manca, qui, la seconda componente dell’autolimitazione morale. La lode e il premio sono reazioni di “riconoscimento” che però non esigono quella simultanea limitazione del proprio “egoismo” implicita nell’idea di riconoscimento originata dal concetto kantiano di “rispetto”. Salta così all’occhio il fatto che la discussione attuale è condizionata da prospettive unilaterali e da una mancata analisi comparativa delle differenze concettuali: ne deriva una notevole confusione di spunti eterogenei, di cui ci si domanda come potrebbero mai confluire in un insieme ordinato. Come sarà possibile conciliare i tre paradigmi divergenti, in modo che non si escludano più a vicenda ma si integrino in un tutto unitario? Ci sarà un modo – in altre parole – per leggere questi diversi paradigmi, nati da esperienze storiche diverse, come il precipitato storico locale di aspetti o forme differenti di un unico processo, in modo tale che le tre impostazioni, prese insieme, possano contribuire a una comprensione più complessa di cosa significa per noi esseri umani dipendere dal riconoscimento dei soggetti-altri? Nel concludere il mio studio storico-teorico vorrei tratteggiare, almeno per grandi linee, una possibile integrazione dei tre modelli, e scongiurare così l’impressione che mi sia qui limitato a constatare una divergenza insuperabile: come se nel contesto europeo la dipendenza del soggetto dal soggetto-altro venisse tematizzata filosoficamente in forme tanto diverse nei vari paesi e nelle varie culture da rendere impossibile una teoria generale. Una cosa, però, è prendere atto, storicamente, delle diverse linee evolutive di una certa idea, e un’altra tentare di giustificarle in un unico quadro sistematico. A tale scopo non sarà inutile, in un primo tempo, riprendere ancora per un tratto le tre generalizzazioni che precedono, elevate al rango di “paradigmi” delle rispettive tradizioni culturali. Si vedrà, infatti, che alcuni elementi delle tradizioni di pensiero fin qui esaminate si prestano più di altri a integrarsi con il restante panorama teorico, confluendo in un quadro coerente della nostra dipendenza dal riconoscimento sociale. Si dovrà anzitutto constatare, per

esempio, come l’analisi ontologica di Sartre, secondo la quale ogni esperienza di riconoscimento si ribalta di necessità in uno stato di fissazione reificante, non si presta affatto a una fruttuosa collaborazione con le analisi positive degli effetti dell’appello interpersonale: in questo caso, le peculiari implicazioni – spesso criticate – del concetto sartriano di soggettività, non permettono di conciliare la sua impostazione con le altre “fenomenologie” del riconoscimento.4 L’esempio di Sartre non fa che mettere in ulteriore evidenza quanto sia difficile cercare la strada di una conciliazione teorica delle tre diverse idee di riconoscimento: non si tratta infatti, soltanto, di un’apparente incompatibilità nel definire il significato e gli effetti del riconoscimento, ma anche di vistose differenze nell’approccio metodologico. A un primo sguardo non si vede come sia possibile mettere d’accordo impostazioni che adottano metodologie tanto differenti: la descrizione psicologico-fenomenologica, il procedimento induttivo a partire dai dati empirici, l’analisi trascendentale o le argomentazioni di filosofia della storia. In vista di una possibile soluzione del problema mi sembra necessario anzitutto prescindere da queste differenze metodologiche e domandarsi quale dei tre modelli appare più promettente nel tentativo di spiegare la struttura della società intesa come un tutto. Partendo da questa teoria fondamentale, in certo modo costitutiva, del riconoscimento, bisognerà poi domandarsi quali modifiche, correzioni o ampliamenti andrebbero apportati a questa immagine teorica della vita sociale, se venissero presi in considerazione i due paradigmi in precedenza esclusi. Se questo modo di procedere – dall’apparenza, lo ammettiamo, un po’ arbitraria – porterà a una comprensione più articolata della nostra reciproca dipendenza dal riconoscimento sociale, allora si potrà parlare di una possibile integrazione fra i tre modelli. Solo successivamente si potrà decidere se, per questa via, anche le differenze metodologiche fra i tre modelli potranno essere superate, o comunque relativizzate, ai fini di una integrazione teorica: in tutto ciò che seguirà, non bisogna infatti dimenticare che a ostacolare l’“incastro” dei tre modelli non contribuiscono solo le differenze concettuali relative alla comprensione del riconoscimento ma anche le vistose differenze metodologiche alla base di essi. Dopo l’excursus storico presentato, non dovrebbe essere una sorpresa se proporrò, come piattaforma teorica della possibile integrazione dei tre modelli, l’idea di riconoscimento elaborata sulla linea dell’idealismo tedesco. I motivi di questa scelta appaiono evidenti, se si considera quali obiettivi si prefiggevano Fichte e Hegel con le rispettive teorie del riconoscimento:

malgrado le differenze, si tratta per entrambi di rendere plausibile che cosa significa per noi esseri umani vivere in un “mondo spirituale” caratterizzato innanzitutto dal fatto di orientarci su norme condivise. Ciò significa infatti, per entrambi, che i soggetti si attribuiscono reciprocamente lo status normativo necessario per decidere sull’adeguatezza e sulla corretta applicazione di queste norme.5 Noi possiamo – per Fichte come per Hegel – rendere comprensibile la convivenza dei soggetti umani solo se supponiamo che essi si riconoscano reciprocamente come esseri che dispongono dell’autorità necessaria per giudicare se le norme comuni sono da approvare oppure no. Questa idea di riconoscimento, che nasce da una trasposizione sul piano intersoggettivo del concetto kantiano di rispetto, può essere considerata più basilare delle altre due versioni perché descrive le condizioni comunicative alle quali in generale può avere luogo ciò che negli altri casi viene descritto ancora come una forma di riconoscimento sociale: sia che io, come nella tradizione inglese, percepisca l’altro quale istanza il cui giudizio sul mio comportamento esercita una funzione di controllo, oppure, come nella tradizione risalente a Rousseau, veda nell’altro quell’istanza il cui giudizio sulle mie qualità suscita il mio interesse più acceso, in entrambi i casi il rapporto intersoggettivo presuppone il riconoscimento dell’altro come una persona autorizzata a esprimersi nel dare forma alla nostra prassi di vita comunitaria. In questo senso, l’idea di riconoscimento introdotta da Fichte e da Hegel – idea la cui intuizione di fondo si ritrova oggi in svariate versioni6 – può essere considerata il fondamento degli altri due modelli. Ciò che in questi viene descritto in positivo o in negativo presuppone già che i soggetti si siano reciprocamente riconosciuti come coautori delle norme da essi stessi praticate. È vero che Hegel, come si è visto, non intendeva accontentarsi della scoperta “trascendentale” che per la vita morale dell’uomo questa attribuzione reciproca di una autorità normativa è essenziale: proponendosi di interpretare il “mondo spirituale” come un sistema che si sviluppa storicamente e che libera il suo intimo potenziale solo per gradi, Hegel si vedeva piuttosto autorizzato a partire da una sequenza storica di forme di riconoscimento sedimentate nelle istituzioni umane e fondate su norme via via differenti. In questo modo la prassi sociale per cui ci vincoliamo a determinate norme, attribuendoci reciprocamente il diritto di intervenire nella loro verifica e nella loro interpretazione, viene a perdere il suo carattere astorico e invariante per incarnarsi in una molteplicità di forme, che si

distinguono sulla base degli spazi di libertà a cui danno accesso.7 Per gli scopi che qui mi prefiggo non ha molta importanza il fatto che Hegel voglia intendere queste distinzioni tra diverse forme di riconoscimento in un quadro sistematico-normativo: quanto meno i soggetti sono limitati dalle costrizioni esterne e dai bisogni primari, e sono perciò in grado di verificare in proprio l’adeguatezza e l’applicazione delle norme autorizzate dalla comunità, tanto più progredito è ai suoi occhi lo scenario del riconoscimento. La prima osservazione che si impone a questo punto è che Hegel, storicizzando il “mondo spirituale”, conferisce alle pratiche fondanti del riconoscimento reciproco una fisionomia empirica, che riduce di molto la distanza dalle altre concezioni del riconoscimento. Sebbene anche per Hegel, come per Fichte, l’origine di queste pratiche sia da cercare nel desiderio individuale di realizzare la propria libera soggettività, queste stesse pratiche vengono poi a tal punto detrascendentalizzate e “riempite” di un concreto materiale empirico, da diventare – come nella tradizione britannica e in quella francese – eventi della vita storica concreta. In riferimento alla concezione hegeliana – non fichtiana – del riconoscimento sociale, ha dunque senso domandarsi se e in quale misura gli altri due modelli non possano contribuire a correggere e a perfezionare la teoria proposta da Hegel. Se infatti la reciprocità del riconoscimento fosse ambientata in uno spazio astratto, senza legami con la realtà delle pratiche e delle istituzioni sociali, in questo caso le osservazioni empiriche di un Rousseau, di uno Hume o di uno Smith non potrebbero dare alcun contributo a un approfondimento dell’analisi hegeliana. Dal mio punto di vista, non dovrebbe essere troppo difficile gettare un ponte tra la teoria hegeliana del riconoscimento e l’idea – tipicamente anglosassone – di una funzione di controllo dell’“osservatore interno”. Per vedere come ciò sia possibile, è necessario tenere ben presente che cosa si proponeva Hegel con la sua idea di riconoscimento: si trattava, per il filosofo di Stoccarda, di chiarire che cosa significa per noi uomini vivere in un “mondo spirituale”, ossia in un mondo non determinato dai condizionamenti naturali. Ciò significa, come per Kant e Fichte, che nel suo pensare e nel suo agire l’essere umano non è determinato necessariamente dagli impulsi naturali, ma può lasciarsi determinare da norme razionali, autonome. Hegel però intende questa autonomia delle norme razionali in modo diverso da Kant: in accordo con Fichte, la intende non come un atto individuale di sottomissione a una legge morale già data e immutabile, ma come un’impresa cooperativa nella quale sono i soggetti stessi a produrre queste norme,

riconoscendo l’un l’altro il diritto di vigilare sulla adeguatezza e sulla corretta applicazione dei precetti e delle regole sociali.8 In questo senso, ciò che fa delle società umane dei “mondi spirituali” è una prassi in cui i soggetti si riconoscono reciprocamente il ruolo di co-autori (e coautrici) delle norme da essi stessi osservate nella vita sociale. A differenza di Fichte, Hegel è però convinto che tale prassi non esista da sempre nella sua forma ideale: per creare le condizioni sociali necessarie al riconoscimento reciproco di tutti i soggetti nella propria autorità normativa, occorre dal suo punto di vista un lungo processo storico, in cui le forme del riconoscimento sedimentate nelle istituzioni, ma ancora imperfette, vengono via via sostituite da altre forme più progredite, ossia più libere e più giuste. Come intendevo mostrare, Hegel ha dunque inteso la reciprocità della autorizzazione normativa non solo come una condizione sine qua non dell’esistenza di norme sociali e perciò come presupposto di ogni vita sociale: ma storicizzando questo contesto “basico” di riconoscimento Hegel ha aperto la possibilità di vedere in esso una prassi radicata nel mondo della vita e in istituzioni storiche concrete, una prassi esercitata da soggetti in carne e ossa, mossi da preoccupazioni ed esigenze morali concrete. Malgrado la sorprendente concretezza dell’impostazione hegeliana, rimane tuttavia aperta la questione di come possano, quei soggetti socialmente situati, seguire con facilità e di comune accordo le norme create dalla comunità stessa. È proprio su questo punto, in cui si tratta di spiegare il passaggio dalla creazione di norme comuni a un vero e proprio accordo sociale, che la “teoria” del riconoscimento inaugurata dalla filosofia morale scozzese mi sembra in grado di completare e integrare la teoria hegeliana. Per spiegare come sia possibile che i membri di una certa società seguano poi, concordemente, quelle norme che essi stessi hanno stabilito in comune, Hegel ricorre, com’è noto, al concetto di “abitudine”, elaborato da Aristotele nel quadro della sua teoria delle virtù. In questa prospettiva, la nostra “bontà caratteriale” è il risultato di un’azione pedagogica che, riproponendo di continuo modelli di virtù, ci “abitua” a provare piacere nelle pratiche virtuose, fino ad acquisire una disposizione duratura per un comportamento eticamente adeguato.9 Tuttavia, per quanto fruttuosa si sia dimostrata nel tempo questa concezione teorica, e per quanto positivo si possa giudicare oggi il suo influsso, in particolare sulla sociologia,10 essa non chiarisce, curiosamente, il processo psicologico che accompagna e promuove la formazione degli abiti morali. E anche per Hegel, che ha fatto propria la teoria aristotelica del comportamento morale come “seconda natura”,11 si può

dire che il processo dell’apprendimento e dell’interiorizzazione delle norme sociali rimane, qui, non chiarito. Le cose sarebbero andate diversamente, a mio parere, se non si fosse limitato a seguire gli spunti teorici di Aristotele e avesse accolto nelle proprie riflessioni anche quelli dell’Illuminismo scozzese. Se Hegel fosse stato abbastanza accorto da prendere in esame anche le riflessioni di Hume e Smith sulla formazione degli abiti morali, ne avrebbe tratto un doppio e considerevole vantaggio: gli sarebbe stato più facile spiegare non solo quali moventi ma anche quali processi psicologici portano gli individui a interiorizzare le norme ufficialmente sanzionate dalla comunità. Per quanto riguarda il primo punto, i moventi, Hegel ripropone la tesi classica, condivisa con Fichte, secondo cui sarebbe il desiderio di affermarsi come esseri razionali anche in campo pratico a spingere gli individui a rispettare le norme che la società ritiene razionali. Ma se pensiamo alla concretezza storica che Hegel intendeva dare alla sua teoria del riconoscimento, questa soluzione è insufficiente, perché dice troppo poco sui moventi empirici effettivi del comportamento individuale. Hegel avrebbe fatto meglio a seguire non tanto David Hume, quanto la tesi di Adam Smith: la molla che spinge l’individuo a seguire le norme sociali è l’aspirazione a essere accolto nella comunità sociale. Hegel avrebbe potuto concepire senza difficoltà questo desiderio o bisogno come il lato storico-concreto dell’impulso “spirituale” che spinge il soggetto a realizzare la propria razionalità. Ciò che spinge gli individui, nella concretezza della loro vita quotidiana, a fare proprie, come moventi, le norme morali della comunità sociale, sarebbe, in altre parole, l’aspirazione soggettiva a ottenere in cambio l’approvazione degli altri soggetti sociali, e quindi la possibilità di sentirsi parte di quella comunità. Ma ancora più importante di questo primo punto è il secondo, dove ci si domanda come avvenga di fatto questo processo di appropriazione motivazionale. Mentre nella tradizione aristotelica dell’habitus il versante psicologico del processo non viene preso in considerazione – partendo dall’idea, tutto sommato “meccanicistica”, che gli stimoli esterni si traducano in automatismi quasi corporei –, l’immagine dell’“osservatore interno”, introdotta da Hume e da Smith, offre una spiegazione più complessa: in questo caso il processo dell’appropriazione motivazionale delle norme morali consiste nel fatto che il soggetto impara a riprodurre al proprio interno le aspettative dell’ambiente sociale, fino al punto che tali aspettative riescono a controllare “dall’interno” il nostro comportamento, come voce della

coscienza. Naturalmente il discorso dell’“osservatore interno” può sembrare una metafora un po’ infelice, perché invita a immaginare una sorta di Io interno all’Io. Ma proprio per questo motivo l’immagine può gettare un ponte concettuale verso le riflessioni teorico-sociali di Sigmund Freud, che interpreta la formazione del Super-Io come il sedimentarsi, nell’apparato psichico, delle reazioni positive dei genitori alla buona condotta del bambino. Anche in Freud, come in Adam Smith, il riconoscimento da parte dei soggetti-altri viene interiorizzato e continua ad agire nell’adulto come una voce interna, che gli ricorda costantemente i propri obblighi morali.12 D’altra parte, per asserire l’importanza della teoria di Smith nella spiegazione della genesi degli abiti morali, non è affatto necessario ricorrere alla “stampella” della teoria freudiana: non solo la teoria di Smith sta in piedi da sola, ma ha una portata interpretativa perfino superiore alla sua erede, in quanto contempla la possibilità di una progressiva generalizzazione dell’istanza interna di controllo, una generalizzazione che può arrivare fino a un quasi completo superamento delle preferenze individuali. In ogni caso, questo breve richiamo alla Teoria dei sentimenti morali dovrebbe essere sufficiente per giustificare la proposta di vedere, nella teoria del riconoscimento di ambito britannico, una significativa integrazione della teoria hegeliana del riconoscimento reciproco. L’idea di un “giudice interiore” spiega meglio di Hegel in che modo i soggetti, riconoscendo reciprocamente la propria autorità normativa, possano tradurre le norme approvate e stabilite in comune in abiti di comportamento quotidiani. Ciò risulta possibile, secondo Smith, per effetto del graduale spostamento della prospettiva della “seconda persona” nel proprio Io, dove la “seconda persona”, interiorizzata come voce della coscienza, verifica se il comportamento individuale è compatibile con le aspettative sociali di una comunità sempre più estesa. Anche in Hegel c’è indubbiamente l’idea di una “coscienza” individuale: questa però viene intesa da lui come la rigida portavoce dei principi universalistici di Kant, nei confronti dei quali non nasconde la sua diffidenza,13 e non come la rappresentanza psicologica delle reazioni di un “altro” via via generalizzato. La lacuna che viene così a crearsi nella sua filosofia pratica – morale astratta da una parte, coscienza morale dall’altra, senza un “ponte” che le colleghi –, Hegel tenta di colmarla postulando, nella formazione dei costumi o degli abiti morali, un processo di metamorfosi che trasforma le routine comportamentali imposte dall’esterno per via educativa in automatismi relativamente stabili. Se avesse integrato o

ampliato la sua fondamentale teoria del riconoscimento con il modello di socializzazione teorizzato da Smith – nella forma che tento qui di tratteggiare – Hegel non avrebbe dovuto ricorrere a questa soluzione frammentaria. Pensata in termini più flessibili e plurali che nella morale kantiana, ossia come il concerto delle molte voci che rappresentano sul piano psicologico le reazioni morali dei diversi gruppi e dei diversi ambiti istituzionali, la coscienza provvederebbe, in ogni fase della vita del soggetto, a rendere efficaci, come moventi, le norme accreditate sul piano comunitario. Una soluzione del genere, qui soltanto accennata, presuppone però che i concetti di “riconoscimento” dell’idealismo tedesco e della tradizione empiristica inglese, assai lontani tra loro, possano incontrarsi, per così dire, in un punto di giunzione. Secondo il quadro che abbiamo tratteggiato, il rapporto tra le due prospettive si potrebbe configurare così: mentre la concezione hegeliana definisce le forme del riconoscimento reciproco come le condizioni alle quali il mondo storico concreto può essere pensato come un sistema di regole normative in continua evoluzione, la teoria del riconoscimento che risale a Hume e a Smith analizza le pratiche di approvazione e affermazione sociale che consentono alle norme prodotte dal tessuto comunitario di ancorarsi di volta in volta nel sistema motivazionale dei singoli individui. Nel primo caso il termine “riconoscimento” indica la prassi di un reciproco accreditamento nella produzione e nella verifica delle norme sociali, nel secondo caso, invece, esso indica la reazione positiva di una comunità, già costituita sul piano normativo, al comportamento morale di un singolo membro di quella comunità. Tra questi due usi del concetto di riconoscimento la distanza è enorme, ma il fatto che entrambe le accezioni siano nel frattempo entrate nella nostra lingua ordinaria è già un motivo sufficiente per dar conto del loro rapporto. Ben diverso è il caso della tradizione francese e del suo modo di concepire il valore e gli effetti del riconoscimento interumano: non si può certo affermare, infatti, che nel nostro linguaggio quotidiano l’idea del riconoscimento sociale in generale sia associata a un giudizio negativo, come avviene costantemente nella tradizione intellettuale francese, da Rousseau fino a Sartre e Althusser. Le cause socioculturali di questo stato di cose sono, come si è visto, molto specifiche, e hanno a che fare, a mio parere, con l’alto significato che gli status symbol assumono qui nella vita sociale, anche a motivo del carattere spiccatamente centralistico dello stato francese. Nondimeno, bisognerà domandarsi se anche questa idea negativa del

riconoscimento non possa sottolineare un aspetto nel riconoscimento interumano degno di essere integrato nel quadro della teoria hegeliana. Un tale proposito incontra però, nel caso della tradizione francese, difficoltà incomparabilmente maggiori che nel caso della tradizione britannica: non appena infatti lasciamo cadere lo schema artificiale dei tre paradigmi contrapposti, vengono alla luce, nel primo caso, intuizioni assai differenti tra loro. Non è certo sbagliato affermare che l’idea di società alla base del concetto rousseauiano, negativo, di riconoscimento, è notevolmente lontana dalla critica sociale che permea l’idea di riconoscimento in Judith Butler o in Louis Althusser. Fin qui ho inserito le due concezioni in un’unica corrente di pensiero, poiché è comune a entrambe la tendenza a vedere nel riconoscimento un atto di attribuzione di qualità morali e sociali, come anche la valutazione negativa dei suoi effetti sull’identità individuale. Ora però conviene sottolineare di nuovo le differenze tra le due impostazioni, allo scopo di misurare il loro specifico rapporto con la posizione hegeliana sul riconoscimento. Comincerò dall’intuizione che si nasconde dietro la concezione negativa di Rousseau, per dedicarmi poi in un secondo tempo alla visione di Judith Butler e di Louis Althusser. La comprensione negativa del riconoscimento in Rousseau partiva, come ricorderemo, dall’osservazione che la comparsa dell’amour propre avrebbe generato nell’uomo una malsana aspirazione a primeggiare di fronte ai propri simili. Per analizzare più da vicino questa nuova esigenza, il filosofo ginevrino aveva trasformato la figura del “giudice interiore”, a lui nota dagli scritti di Hume, in quella di un osservatore severo, ai cui occhi il singolo doveva impegnarsi con tutte le sue forze, di fronte a se stesso e ai propri simili, per dimostrarsi in possesso di quei talenti personali che potevano legittimare la sua ambizione sociale. Quello che in Rousseau si potrebbe chiamare “riconoscimento” è dunque l’attribuzione – ottenuta ostentandole – delle qualità necessarie per accrescere la propria reputazione sociale. Ma l’esito di questa messinscena – Rousseau ne è convinto – non può essere altro che una drammatica incertezza, per cui il soggetto non è più in grado di comprendere adeguatamente la propria vera natura, la propria identità profonda. Di qui la mia proposta di vedere in Rousseau il filosofo a cui si deve l’idea, tipicamente francese, secondo la quale il lato oscuro, l’effetto indesiderato, di ogni riconoscimento sociale sarebbe la perdita dell’Io. Ora però si trovano anche in Rousseau, come ho accennato rimandando all’Émile e al Contratto sociale,14 numerosi passi che suggeriscono una lettura meno

negativa del riconoscimento. In questi passi si legge che l’amour propre può essere soddisfatto anche nella forma sana, socialmente produttiva, del rispetto reciproco fra gli esseri umani: si ha perciò l’impressione che i fenomeni dell’ostentazione e della vanagloria, descritti nel Secondo Discorso, siano soltanto forme deviate, patologiche, di un’aspirazione in sé innocua all’accettazione sociale. Quanto più si insiste su questa interpretazione della teoria rousseauiana del riconoscimento, mettendo nello stesso tempo tra parentesi il fatto che i suoi scritti tardi vanno di nuovo nella direzione opposta, tanto più facile sarà, a mio parere, istituire un rapporto fruttuoso tra la posizione di Rousseau e la teoria hegeliana. Perché anche l’autore dei Lineamenti di filosofia del diritto conosce casi in cui il riconoscimento reciproco può deragliare, casi che, non diversamente dal suo precursore francese, anche Hegel mette in relazione con fenomeni sociali quali l’ambizione e l’affettazione. Per comprendere fino a che punto le due teorie si intrecciano e si completano produttivamente, dovremo però soffermarci ancora sulla posizione hegeliana un po’ più ampiamente di quanto fatto finora. Come ho già mostrato, Hegel non intendeva la reciprocità dell’autorizzazione normativa come un puro evento “spirituale”, collocato in uno spazio astratto, ma come una prassi storica che si sviluppa gradualmente nel rapporto fra soggetti in carne e ossa. Di qui la necessità di individuare i contesti istituzionali in cui questa prassi si era già allignata, realizzandosi per gradi successivi. Ma questa “ricostruzione normativa”15 dei contesti di riconoscimento, nella loro evoluzione storica, aveva come sfondo la società del suo tempo, della modernità ai suoi albori: il risultato della sua impresa è infatti proprio la sua filosofia del diritto, dove individua nella famiglia moderna, nell’economia capitalistica di mercato e nella monarchia costituzionale tre sfere istituzionali in cui i soggetti, nella diversità dei loro ruoli, si autorizzano reciprocamente a verificare le norme in vigore, certificando così la rispettiva autonomia radicata nel mondo storico concreto. Di immediata rilevanza per la questione che mi interessa qui è però il fatto che Hegel non manca mai di gettare uno sguardo sui fenomeni psicologici derivanti dall’esclusione di determinati individui o gruppi dalle pratiche istituzionalizzate del riconoscimento reciproco. Come esempi di questa fenomenologia, ricorderemo qui la “perdita del pudore e dell’onore” nel ceto sociale della “plebe”, cronicamente senza lavoro,16 e la tendenza a “pure dimostrazioni esterne” delle proprie capacità professionali da parte dei

“lavoratori che non sono diventati membri di una corporazione”.17 Questi fenomeni psicologici, di cui Hegel parla come se fosse ovvio citarli in un trattato dedicato al diritto, alla morale e all’eticità, hanno per lui evidentemente un carattere tutt’altro che casuale: Hegel li intende piuttosto come patologie socialmente indotte del comportamento individuale, patologie che non possono fare a meno di manifestarsi quando un membro della società non è abbastanza inserito in una sfera istituzionale di riconoscimento reciproco. Non solo ciò sottolinea con forza come Hegel, a differenza di Fichte, intendesse i soggetti o i portatori dei processi di riconoscimento come persone in carne e ossa: in effetti, la separazione tra il piano fisico, il piano psichico e quello spirituale gli era del tutto estranea. Ma per la questione che stiamo affrontando, l’importanza di queste osservazioni sta soprattutto nel fatto di mostrare come Hegel intendesse combinare le sue analisi della realtà istituzionale dei processi sociali di riconoscimento con osservazioni psicologiche che presentano una sorprendente affinità con quelle rousseauiane. È la seconda tra le patologie comportamentali indicate da Hegel – non dunque la patologia della “plebe” disoccupata ma quella dei lavoratori non inseriti in una corporazione – a far emergere in tutta evidenza la sorprendente affinità tra Hegel e Rousseau. Le espressioni usate da Hegel per descrivere le reazioni psicologiche di coloro che sono esclusi dall’evento del riconoscimento all’interno delle corporazioni sembrano riprese direttamente dal Secondo Discorso di Rousseau. Leggiamo infatti che questi membri della società sarebbero così sbilanciati sul “lato egoistico” della loro attività lavorativa che non potrebbero fare altro che dar prova della propria onorabilità con pretenziose ostentazioni dei propri talenti, e insomma, per dirla con Rousseau, sarebbero spinti da una “smodata” inclinazione alla vanteria e all’esibizionismo. Se mettiamo insieme questi tratti caratteriali, è facile ipotizzare che Hegel abbia inteso le forme dell’amour propre del suo precursore Rousseau – forme eccessive, incontrollate – come l’effetto di una compensazione psichica del mancato riconoscimento. Hegel sembra convinto del fatto che chi rimane escluso dai contesti di riconoscimento istituzionali e non è investito dell’autorità normativa derivante dall’appartenenza a quei contesti non può fare a meno di sviluppare comportamenti affettati e ostentati, estremamente simili a quelli descritti nel Secondo Discorso. Se questa interpretazione è corretta, se dunque Hegel, nel quadro della sua teoria, intende le forme più “accese” (Neuhouser) dell’amour propre

rousseauiano come sintomi compensativi, allora il ponte fra le teorie del riconoscimento dei due filosofi è già trovato: sia per il francese sia per il tedesco, l’egoismo, la vanità e l’ambizione sono fenomeni reattivi all’esperienza di non essere inseriti in una comunità fondata sul riconoscimento reciproco o sul rispetto tra pari. Nonostante questa possibilità di “incastrare” le due teorie del riconoscimento, resta il fatto che sono qui in gioco terminologie assai diverse, le cui differenze non possono essere dimenticate. Rousseau intende l’amour propre esclusivamente come il desiderio empirico dell’uomo di ottenere considerazione sociale, e le cose non cambierebbero affatto se egli avesse tentato effettivamente di distinguere tra forme sane e forme malsane, socialmente compatibili o nocive di questo desiderio di base. Per Hegel invece il “bisogno” di riconoscimento sociale ha anzitutto, come ho mostrato, un movente “spirituale”: esso nasce dall’impulso a realizzarsi come un essere razionale, impulso che viene poi tradotto nell’aspirazione storico-concreta a diventare membro di una comunità di soggetti orientata su norme condivise. Non meno grandi sono le differenze tra i rispettivi concetti di riconoscimento: secondo Rousseau, il desiderio empirico dell’amour propre può essere soddisfatto dall’attribuzione sociale di qualità specifiche, sia di quelle che sono condivise da tutti, sia di quelle che ci distinguono dai nostri simili e possono farci sentire superiori nei loro confronti; per Hegel, invece, la reazione sociale che può soddisfare il nostro desiderio di essere considerati soggetti razionali consiste sempre in un atto di riconoscimento che ci autorizza a prendere parte all’elaborazione delle norme comuni, e che limita perciò lo spazio di libertà di chi partecipa a questa prassi. Nonostante le vistose differenze tra le rispettive premesse sistematiche, nella loro diagnosi delle patologie sociali vi è nondimeno un punto in cui le prospettive di Rousseau e di Hegel si incontrano: entrambi sembrano condividere l’idea che gli esseri umani in generale, ove manchino le condizioni del rispetto tra pari e del riconoscimento reciproco, siano inclini a reagire con atteggiamenti velleitari e ostentando meriti presunti e fittizi. Su questo punto, che riguarda la psicologia del riconoscimento sociale, le idee di Rousseau possono integrare la teoria hegeliana. La domanda che si pone ora è se si possa dire la stessa cosa anche per l’altro ramo della tradizione francese, culminante negli scritti di Louis Althusser. L’intuizione da cui parte questa seconda linea di quella che abbiamo chiamato “una teoria negativa del riconoscimento” è assai lontana

da quella di Rousseau, anche se poi convergono entrambe nella stessa diagnosi, che vede nel riconoscimento la minaccia di una perdita di sé: diagnosi motivata in Rousseau dal timore di una possibile alterazione della personalità, e in Althusser (come in Judith Butler), dalla visione del riconoscimento sociale come un meccanismo che consolida i rapporti di potere. Nel trattare questo secondo ramo del “negativismo” francese è apparsa chiara la profonda frattura che separa il suo concetto di riconoscimento da quello che risale a Fichte e a Hegel: nel primo caso il “riconoscimento” non è altro che il meccanismo per cui le istituzioni politiche attribuiscono agli attori individuali o collettivi qualità sociali stereotipate, che li inducono a svolgere spontaneamente i ruoli loro assegnati. Nella tradizione che risale a Kant, e che entra con Fichte e Hegel nella sua fase matura, il “riconoscimento” designa – lo ripetiamo ancora una volta – una sorta di rispetto reciproco tra i soggetti, che li “autorizza” vicendevolmente a verificare e interpretare le norme comuni. La differenza che sussiste tra queste due varianti del concetto non potrebbe essere più grande. Non vi sarà tuttavia, in questo uso “ideologico” del concetto, evocato da Althusser e da Butler, una scintilla in grado di stuzzicare o addirittura di innescare un processo di ripensamento interno alla teoria edificata, nei suoi capisaldi, da Hegel? È la stessa Filosofia del diritto di Hegel a suggerire questa possibile scintilla. In uno dei paragrafi sulla “famiglia”, oggetto negli ultimi anni di numerosi commenti, Hegel afferma che la donna, nel rapporto coniugale, sarebbe “chiamata” al ruolo della “sensibilità sentimentale”, che le imporrebbe di sottomettersi al marito e di cercare il proprio compito nella “casa”.18 Hegel prosegue poi, di male in peggio, sostenendo che la “donna”, nella sua incapacità di pervenire all’“universale” e all’“ideale”, assomiglierebbe alla “pianta”, mentre l’uomo, per la sua indole “combattiva” e per il suo “lavoro con la natura”, sarebbe paragonabile all’animale.19 L’aspetto più sconcertante di questi passi hegeliani non è tanto l’orribile misoginia che, dal nostro attuale punto di vista, sembrano esprimere, quanto il fatto che poche righe più avanti Hegel afferma con decisione che l’uomo “non ha più valore della donna”, e che nel matrimonio moderno spetterebbe a entrambi una “parità di diritti e di doveri”.20 Per Hegel non sembra esserci alcuna contraddizione tra la sottomissione della donna nel matrimonio, presentata come ovvia, e il suo rapporto con il marito, basato su un riconoscimento paritario. Come se le due affermazioni fossero perfettamente

compatibili, quella che si prospetta è una sfera di riconoscimento istituzionalizzata, in cui l’uomo e la donna si rispettano reciprocamente nella propria specifica destinazione, e nello stesso tempo la donna, essendo sottomessa alle direttive del marito, viene a trovarsi sul gradino più basso. Questa evidente incongruenza nell’argomentazione hegeliana può essere sanata solo a condizione di spiegare per quale motivo Hegel ritiene che la donna debba accettare la propria sottomissione nel rapporto coniugale e possa farlo liberamente, ossia in virtù dell’autorità normativa che le viene riconosciuta. Proprio questo nodo teorico permetterà di mostrare, a mio parere, come anche un modello di riconoscimento lontano da Hegel quale quello di Althusser possa contribuire ad ampliare e a perfezionare la prospettiva hegeliana. Per comprendere meglio come ciò sia possibile, bisognerà anzitutto esaminare più da vicino il contesto di riconoscimento in cui Hegel vede confrontarsi l’uomo e la donna nel matrimonio moderno, fondato non più su un accordo tra le famiglie degli sposi, ma sull’“inclinazione” reciproca. La norma di cui entrambi i partner devono poter verificare l’applicazione, ed eventualmente discuterla, perché ne sono autorizzati dal loro reciproco riconoscimento, è quella dell’“amore e dell’aiuto vicendevole”,21 come anche il “soddisfacimento dell’istinto naturale”, cioè dei bisogni sessuali, sia pure moralmente disciplinato.22 Nella prospettiva di Hegel, come abbiamo imparato a conoscerla, ciò significa che uomo e donna, nel matrimonio, sono entrambi legittimati a mettere in discussione la messa in pratica di questa norma e a proporne nuove forme di applicazione, e possono avanzare obiezioni o proposte ricorrendo a tutti gli argomenti che possono risultare legittimi nell’orizzonte di quella norma comune: nel caso dell’“amore e dell’aiuto vicendevole” potrà trattarsi di desideri personali, situazioni emotive o più ampi obiettivi esistenziali. È dunque un contesto di riconoscimento estremamente mutevole nelle sue regole e nei suoi processi interni, perché suscettibile di essere messo costantemente in discussione. Hegel sembra però escludere in via di principio che la moglie, insoddisfatta di un ruolo puramente subordinato, possa sollevare obiezioni contro questa interpretazione corrente della norma. Il fatto che ciò non avvenga, e che anzi, nella sua prospettiva, non lo si consideri possibile, deve dipendere da qualcosa che si trova al di fuori della norma stessa e delle sue possibili interpretazioni, qualcosa che limita “a monte” la comprensione e l’interpretazione della norma, al punto da rendere impensabile, anche in un

lontano futuro, un’obiezione della donna al riguardo. Questo qualcosa di “esterno” è per Hegel, come risultava già dall’impostazione del discorso, nient’altro che la “natura”. Contraddicendo la sua convinzione di fondo, che cioè le forme del riconoscimento si evolvano storicamente nel senso di una graduale liberazione dai condizionamenti naturali, in questo punto del sistema, che riguarda il matrimonio moderno, Hegel fa intervenire all’improvviso e senza alcuna mediazione l’elemento-natura in quello che dovrebbe essere un contesto prettamente storico-progressivo: sia nel presente sia nel futuro la donna non potrà che approvare un’interpretazione del rapporto coniugale che la subordina in tutto e per tutto al marito, e non può farlo perché Hegel è convinto che questa sia per la donna una vocazione naturale. Qui dunque la teoria hegeliana del matrimonio spaccia come dato naturale uno schema di cui oggi sappiamo che è pura apparenza, priva di qualunque scientificità. Alcuni degli argomenti a cui le donne ricorrono a buon diritto per ridefinire la propria posizione nel matrimonio a Hegel non verrebbero neppure in mente, perché confliggerebbero con la natura del rapporto fra i sessi e sarebbero perciò del tutto inadeguati come argomenti morali. La cosa notevole di questo passaggio della filosofia hegeliana del diritto non è però certo il fatto di dimostrare quanto Hegel sia conservatore, anzi inguaribilmente passatista nella sua concezione del matrimonio e della famiglia: con molti filosofi a lui contemporanei, anche se non con tutti, Hegel condivide l’idea che la donna sia naturalmente destinata alla culla e al focolare, e non alla sfera pubblica del lavoro produttivo e dell’attività politica. Quel che davvero interessa, per i nostri scopi, è il fatto che la reciproca “autorizzazione” a verificare l’uso di una norma condivisa non dice ancora nulla su quale sia l’effettivo spazio di discussione: quale possa essere, in questo contesto di riconoscimento, un motivo legittimo di protesta dipende evidentemente da ciò che le parti in causa ritengono modificabile o immodificabile nel loro rapporto, ossia da cosa si debba considerare naturale o socialmente condizionato. L’ampiezza effettiva dello spazio di discussione, dove possono essere revocate in dubbio determinate interpretazioni della norma condivisa, non è fissata una volta per tutte dal semplice fatto che le parti in causa si riconoscono l’un l’altra lo stesso diritto alla discussione e alla critica. In quale misura si possa criticare, obiettare, discutere dipende sempre dalle visioni del mondo e dai sistemi interpretativi che intervengono dall’esterno in un certo contesto di riconoscimento, distinguendo ciò che è

immodificabile da ciò che può essere modificato, la natura dalla cultura. E quanto più numerosi sono gli aspetti del loro rapporto che le parti interessate considerano naturali e perciò immutabili per effetto dei loro presupposti culturali impliciti, tanto più ristretto sarà lo spazio di manovra. In questo senso, ogni sfera di riconoscimento – come mostra già l’esempio hegeliano del matrimonio – può ammettere in sé elementi che vengono considerati erroneamente naturali, mentre a un esame più attento sono cultura e non natura. Ma una volta scoperto il carattere culturale di un dato ritenuto naturale, e posto che almeno alcuni dei soggetti coinvolti ne siano consapevoli, lo spazio della discussione si allarga di colpo, offrendo nuove materie di possibile verifica. A questo punto debole nella teoria hegeliana del riconoscimento si può rimediare, mi sembra, con l’arsenale concettuale della teoria del riconoscimento elaborata da Althusser: è qui infatti che si spiega come un individuo possa considerare, dopo un certo tempo, come naturali, e perciò immutabili e indiscutibili, attributi personali che in origine non gli appartenevano, o gli appartenevano solo casualmente. Questi processi di “naturalizzazione” di tratti comportamentali in sé contingenti non vanno pensati qui a partire dalle loro manifestazioni storiche più vistose: ad esempio la legittimazione ideologica dell’esclusione di interi gruppi sociali dai contesti di riconoscimento costitutivi della società. Naturalmente Hegel conosce anche questo genere di casi, e ne tratta per esempio a proposito della schiavitù, ma anche dello “scarso rispetto” per la donna presente in alcuni “popoli”.23 Ma gli esempi citati non riguardano quei casi in cui, a trovarsi in pericolo, è una condizione di uguaglianza già acquisita, in contesti di riconoscimento storicamente progrediti, come appunto quelli che si tratta di spiegare. Se teniamo ferma questa distinzione e collochiamo il baricentro della teoria del riconoscimento che si ispira ad Althusser su questo secondo versante, dove la “naturalizzazione” di alcune qualità limita lo spazio di discussione potenziale in un contesto di riconoscimento reciproco, allora la spiegazione fornita da Althusser e dai suoi continuatori si può riassumere così: se nei processi scolastico-educativi, nelle procedure burocratiche, nelle funzioni religiose o negli ambienti di lavoro, i membri di una certa comunità sociale si vedono attribuire di continuo e quasi ritualmente sempre le stesse qualità stereotipate, finiranno prima o poi per concepire quelle qualità di cui sono investiti come aspetti costitutivi della propria natura. Promosso o favorito dalle istituzioni pubbliche, questo processo di riconoscimento, che

conferisce un carattere apparentemente naturale e immutabile a determinate forme comportamentali, determina – nel contesto descritto da Hegel – l’esclusione dal repertorio dei temi negoziabili di uno “zoccolo duro”, che si sottrarrebbe all’ambito negoziale perché si presume appartenere alla “natura” stessa dei soggetti interessati. In questo caso, il rapporto di riconoscimento, che dovrebbe garantire in teoria la libertà dal dominio, diventa uno strumento di dominio in quanto viene “risucchiato” dall’alto da una forma affatto diversa di riconoscimento, che costringe i soggetti interessati a considerarsi portatori di proprietà immutabili perché ritenute naturali. È vero che questo tentativo di conciliare in qualche modo la teoria hegeliana del riconoscimento con quella di Althusser può apparire un po’ artificioso, perché il concetto stesso di “riconoscimento” non sembra indispensabile ai suoi scopi. I fenomeni a cui si riferiscono Althusser o Judith Butler potrebbero essere descritti con l’ausilio di uno strumentario concettuale assai diverso e forse addirittura più adeguato. Così, per esempio, l’autoiscrizione di un soggetto in un gruppo definito da determinati caratteri “naturali”, di “razza” o di “genere” potrebbe essere vista come l’effetto looping di una prassi di classificazione sociale orchestrata a livello politico ed esercitata per un certo periodo di tempo.24 Oppure, in alternativa allo statocentrismo di Althusser, si potrebbero concepire questi processi di “naturalizzazione” degli attributi sociali come l’effetto soggettivo di una prassi linguistica egemonica per cui, ai fini di conservare determinati privilegi economici o sociali, a certi caratteri fisici esterni (colore della pelle, genere) vengono associate disposizioni comportamentali destinate a perpetuare la condizione sociale subalterna dei gruppi più svantaggiati.25 Entrambe le prospettive – non è difficile ammetterlo – presentano un potenziale esplicativo del fenomeno in questione che è superiore a quello offerto dalle teorie del riconoscimento di Althusser o di Judith Butler. Qualificare come “riconoscimento” l’attribuzione di qualità stereotipate da parte di organi statali può presentare qualche vantaggio, perché consente di rivolgere lo sguardo alla continua oscillazione tra politiche più rigide e meno rigide, tra politiche di accoglienza e di esclusione, ma per una comprensione più profonda dei processi in questione tale soluzione concettuale non appare decisiva: in questo caso le proposte di Ian Hacking o Sally Haslanger forniscono un punto d’appoggio senza dubbio più fecondo. Il motivo per cui, nel mio tentativo di integrare prospettive storiche eterogenee, ho adottato l’impostazione di Althusser, non era però l’intento di

utilizzarla in vista di una analisi convincente del dominio maschile nel matrimonio e nella famiglia. Il mio intento era piuttosto quello di mostrare come la teoria hegeliana del riconoscimento presenti un vistoso punto debole, e come un’idea del tutto diversa di riconoscimento sociale possa consentire di metterlo in luce. Su questo tema specifico – il perpetuarsi dei rapporti di dominio in contesti di riconoscimento già collaudati – succede allora che le due tradizioni, per il resto assai divergenti, finiscano per toccarsi, nel senso che la seconda tradizione – quella “negativa” di scuola francese – richiama l’attenzione su una debolezza della prima, quella hegeliana. Non sempre ciò che il filosofo di Stoccarda ritiene di poter identificare come un rapporto di riconoscimento reciproco è, solo per questo fatto, un rapporto emancipato dal dominio, dalla dipendenza e dalla repressione. Le condizioni della struttura sociale che stanno “a monte” del rapporto di riconoscimento e che lo influenzano possono essere tali che non tutti i soggetti interessati possono fare uso nella stessa misura della libertà loro accordata in via di principio. Due casi di questo tipo, dove le circostanze sociostrutturali impediscono la realizzazione del potenziale normativo dei rapporti di riconoscimento, li abbiamo incontrati nel tentativo di fare un bilancio del discorso europeo sulla dipendenza umana dall’altro. Nel domandarci se fosse possibile stabilire un collegamento tra l’amour propre di Rousseau e l’idea hegeliana del riconoscimento reciproco, si diceva che il filosofo tedesco sembra conoscere bene le patologie psichiche descritte dal suo precursore francese nel Secondo Discorso: ogniqualvolta l’individuo non trova accesso a un contesto di riconoscimento che in teoria dovrebbe essergli aperto, questo individuo tenderà ad assumere comportamenti che assomigliano come una goccia d’acqua a quelli dettati dall’amour propre rousseauiano. In questo primo caso di “blocco” del potenziale di riconoscimento si potrebbe parlare, con Max Weber, di “chiusura sociale” o di “esclusione”,26 intendendo con ciò il fenomeno, frequente e già descritto da Hegel, per cui a singoli individui o a interi gruppi, per questo o quel motivo, viene impedito di partecipare a contesti di riconoscimento già collaudati. Ricorderemo a questo proposito che Hegel cita anche l’origine della “plebe” come caso esemplare di esclusione, anche se in questo caso le reazioni psicologiche all’ingiustizia subìta non vanno nel senso di avanzare pretese o di ostentare prerogative di eccellenza. Il secondo caso in cui un certo contesto socioculturale impedisce ai rapporti di riconoscimento di sviluppare tutte le proprie possibilità normative, lo abbiamo incontrato poco fa richiamandoci alla peculiare idea di

riconoscimento elaborata da Althusser, anche questa sulla linea del “negativismo” francese. Se riportiamo questa idea al contesto hegeliano di partenza, diremo: se soggetti di “pari dignità”, legati da un rapporto di riconoscimento reciproco, non dispongono tuttavia della stessa autorità nel definire il proprio rapporto, la responsabilità sarà da attribuire alla costruzione “ideologica” delle (presunte) qualità “naturali” di una certa categoria sociale. Un soggetto a cui vengano attribuite, per così dire ritualmente, qualità naturali che promettono una maggiore competenza tecnica, una maggiore autorità nelle situazioni pubbliche e insomma una maggiore attitudine al comando, sarà portato a usare questi presunti argomenti per bloccare la discussione in partenza e reclamare per sé una posizione dominante all’interno del rapporto. In questo secondo caso, ciò che svuota il potenziale normativo del riconoscimento reciproco è dunque il restringersi dello spazio di discussione: quelle interpretazioni della norma condivisa che potrebbero essere, in teoria, revocate in dubbio, appaiono infatti come “naturali” e come tali vengono presentate. Anziché di una “chiusura sociale”, sarebbe più giusto, in questo caso, parlare di una “chiusura argomentativa” del contesto di riconoscimento. Potrebbero esservi, tuttavia, anche altre circostanze socioculturali che in un rapporto istituzionalizzato di riconoscimento reciproco contribuiscono a limitare l’autorità normativa dei soggetti coinvolti: non solo le qualità attribuite ai soggetti, ma anche la loro codificazione istituzionale può essere percepita dai soggetti coinvolti come qualcosa di naturale o, perlomeno, come qualcosa di relativamente immodificabile: e anche in questo caso parleremmo di una “chiusura argomentativa”.27 Bisogna però tener presente che questi impedimenti non si riducono al fatto che uno dei soggetti coinvolti possa impedire all’altro di prendere posizione, perché il rapporto di riconoscimento presuppone questa possibilità, e in caso contrario non si potrebbe nemmeno parlare di un rapporto istituzionalizzato di riconoscimento. Il tentativo di portare qui alcuni esempi di riduzione o inibizione di questo libero spazio normativo aveva del resto il solo scopo di richiamare l’attenzione sulla sorprendente possibilità di far coesistere le teorie circolanti nel pensiero europeo sul valore e gli effetti del riconoscimento interumano. Anche un concetto di riconoscimento assai lontano dal mondo concettuale di Hegel come quello di Althusser – prodotto, anche questo, dello scetticismo di marca francese – può svolgere un ruolo nella sua teoria sociale del riconoscimento nel senso di metterne in luce una grave lacuna.

Se teniamo presente quale profilo abbia assunto nel frattempo la teoria hegeliana sulla via del confronto con le altre tradizioni, non sorprenderà il fatto che i rapporti di riconoscimento da lui descritti possiedano un tratto ulteriore, sul cui significato costitutivo ci sono pochi dubbi. Questi rapporti di reciproco riconoscimento non vanno solo pensati come rapporti sempre già istituzionalizzati, perché solo così possono aspirare a una validità sociale normativa: i loro contenuti normativi vanno intesi, certo, come routine comportamentali diventate abitudini, quasi incorporate nei soggetti coinvolti, ma devono essere interpretati anche come forme concrete perennemente in discussione, in se stesse conflittuali. Accanto a Sartre, la cui idea di un eterno gioco di maschere tra i soggetti impegnati a oggettivarsi l’un l’altro è assai fuorviante, per i motivi già citati, Hegel è l’unico pensatore, nel discorso europeo del riconoscimento, che abbia visto nella nostra costitutiva dipendenza dall’altro anche l’esca di conflitti non risolubili. È vero che questo tratto costitutivo dei rapporti di riconoscimento non viene sempre sottolineato con chiarezza, e che, anzi, nella Filosofia del diritto, Hegel tende addirittura a minimizzarlo, relegandolo ai margini del discorso. Ma nel complesso si può dire senz’altro che ne è perfettamente consapevole.28 Il motivo per cui i rapporti di riconoscimento possono suscitare con facilità conflitti di ogni genere è facile da comprendere, e risulta dalla fragilità del materiale con cui questi rapporti sono “fabbricati”: se ciò che li tiene insieme sono soltanto norme sociali istituzionalizzate, rispetto alle quali i soggetti si attribuiscono reciprocamente il diritto di discuterne l’interpretazione e l’applicazione, allora possono scaturire sempre nuovi conflitti sia sull’ampiezza del loro campo di applicazione, sia sull’ambito dei soggetti che dovranno appartenervi. Beninteso: non stiamo parlando qui delle liti che possono accendersi intorno alle diverse interpretazioni di una norma comune e condivisa. Questo genere di contrasti rientra nella normalità quotidiana di ogni contesto di riconoscimento, sono la forma concreta in cui le norme agiscono sul piano sociale, e non possono essere perciò definiti come dei conflitti veri e propri. Di conflitti nel vero senso della parola si può parlare piuttosto là dove non è in questione l’interpretazione della norma in un ambito di applicazione ben delimitato, e gestito dalle parti in causa, ma dove sono in questione i confini stessi di questo ambito e il numero dei soggetti che ne fanno parte. Per restare all’esempio di prima, fa molta differenza se i genitori, alla luce delle norme della loro convivenza, discutono sulle rispettive responsabilità nell’amministrazione della casa, o se il motivo della

divergenza è invece il diritto dei figli a intervenire nelle discussioni domestiche, e a essere così cooptati nella gestione della famiglia. Quel che appare chiaro, in questo caso, nel microcosmo famigliare – ossia la differenza tra un disaccordo di routine sull’applicazione concreta di una certa norma e un conflitto che riguardi l’ambito stesso di questa norma – assume, nel macrocosmo storico-sociale, un significato assai diverso, e tale da modificare il corso stesso della storia. Anche ammesso che Hegel non avesse davanti agli occhi lo “spirito del mondo”, è probabile che egli abbia dipinto questi conflitti su grande scala come la forza propulsiva dello sviluppo morale dei nostri rapporti di riconoscimento. Con questo sguardo d’insieme alla teoria hegeliana del riconoscimento, una teoria che sarà necessario indagare in modo più approfondito,29 sono giunto al termine del mio percorso: del tentativo, in altre parole, di fare un po’ di ordine nella varietà delle teorie sul significato del riconoscimento sociale che compaiono, a partire dagli inizi della modernità, in alcuni paesi europei. La scelta di utilizzare la concezione hegeliana come chiave teorica del discorso, allo scopo di mostrare come le diverse teorie, malgrado tutte le differenze di metodo e di contenuto, possano in qualche modo convergere in un quadro unitario, è una scelta che ho già cercato di giustificare fin dall’inizio del mio tentativo di sintesi. Ma potrebbe nondimeno rimanere il sospetto che tale scelta derivi da premesse filosofiche implicite o, peggio ancora, da un legame privilegiato con la mia cultura di provenienza: vorrei perciò riprendere ancora una volta, brevemente, i motivi già accennati in quell’occasione. La prima riflessione era che Hegel e Fichte, con i loro rispettivi concetti di riconoscimento, non intendevano semplicemente indicare un fenomeno rilevante per la vita sociale ma la sua stessa condizione costitutiva: noi creiamo le condizioni per una coesistenza normativamente regolata tra gli esseri umani solo riconoscendoci reciprocamente come persone a cui spetta l’autorità di giudicare, ciascuno per sé, la legittimità delle norme condivise. Una prima sottolineatura del ruolo sociale costitutivo del riconoscimento reciproco si trova anche nella filosofia morale scozzese, e in particolare in Adam Smith, nella figura dell’“osservatore interno”: ma questi spunti non sono sufficienti per spiegare nello stesso tempo la genesi e la natura delle norme che regolano la società. Una volta ammessa, sotto questo profilo, l’importanza decisiva della tradizione dell’idealismo tedesco, influenzata da Kant, è necessario fare però un passo ulteriore per mostrare come soltanto Hegel – e non Fichte – abbia in mano la chiave per una

comprensione integrale del riconoscimento sociale. Ciò si deve al fatto che il ruolo costitutivo del riconoscimento, affermato da Hegel come da Fichte, viene “estratto” dal regno delle idee trascendentali e “calato” nella concreta realtà sociale di uno “spirito” divenuto oggettivo: uno “spirito oggettivo” di cui fanno parte le forme istituzionali, gli abiti morali, e gli uomini in carne e ossa alle prese con le prime e con i secondi. Questo deciso passo avanti rispetto a Fichte e la sensibilità di Hegel per la realtà storico-concreta del riconoscimento mi hanno indotto a utilizzare la teoria hegeliana come fil rouge capace di collegare fra loro gli ulteriori aspetti della dipendenza dall’altro che le tradizioni filosofiche qui esaminate mettono al centro del proprio interesse. E se non tutte queste sfumature hanno ricevuto un’attenzione adeguata, se non tutti gli aspetti del riconoscimento messi in luce nelle varie scuole hanno potuto essere integrati fra loro, ciò si deve in parte alla distanza, alla fine troppo grande, che ci separa da Hegel, in parte al carattere idiosincratico delle osservazioni da cui quelle teorie traggono origine. Penso tuttavia che il tentativo di sintetizzare le diverse linee tradizionali del pensiero europeo abbia notevolmente ampliato la nostra immagine del ruolo costitutivo del riconoscimento per la vita sociale. Ora sappiamo che una teoria del riconoscimento ispirata a Hegel non può fare a meno di implicare anche una diagnosi delle patologie possibili, un esame dei “blocchi” sempre in agguato, un’analisi del carattere conflittuale del riconoscimento reciproco.

Note

Premessa 1 Cfr. su questo punto P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, trad. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005 (in particolare, pp. 29-34); H. Ikäheimo, Anerkennung, W. de Gruyter, Berlin-Boston 2014, cap. 2.1.

1. Storia delle idee e storia dei concetti: una premessa metodologica 1 J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it. di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1993, in particolare il par. 2. 2 J. Butler, Critica della violenza etica, trad. it. di F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2006. 3 C. Taylor, Multiculturalismo: la politica del riconoscimento, trad. it. di G. Rigamonti, Anabasi, Milano 1993. 4 M. Dummett, Origini della filosofia analitica, trad. it. di E. Picardi, Einaudi, Torino 2001, p. 10. 5 Cfr. A. Honneth, Zwischen den Generationen, in “Merkur”, n. 610 (2000), pp. 147-152. 6 R. Koselleck, Drei bürgerliche Welten? Zur vergleichenden Semantik der bürgerlichen Gesellschaft in Deutschland, England und Frankreich, in Id., Begriffsgeschichten. Studien zur Semantik und Pragmatik der politischen und sozialen Sprache, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2006, pp. 401-461. 7 J. Seigel, Modernity and Bourgeois Life. Society, Politics and Culture in England, France and Germany since 1750, Cambridge University Press, Cambridge 2012.

2. Da Rousseau a Sartre: riconoscimento e perdita di sé 1 Gli autori più citati sono Hobbes, Rousseau e Smith. Si vedano in proposito: I. Hont, Politics in Commercial Society. JeanJacques Rousseau and Adam Smith, Cambridge University Press, Cambridge 2015 (Hobbes); F. Neuhouser, Pathologien der Selbstliebe, Freiheit und Anerkennung bei Rousseau, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2012 (Rousseau); S. Darwall, Smith über die Gleichheit der Würde und den Standpunkt der 2. Person, in C. Fricke, H.-P. Schütt (a cura di), Adam Smith als Moralphilosoph, Walter de Gruyter, Berlin-New York 2005, pp. 178-189 (Smith). Si veda anche l’interessante volume collettivo: F. Toto, T. Pénigaud de Mourgues, E. Renault (a cura di), La reconnaissance avant la reconnaissance. Archéologie d’une problématique moderne, Ens Éditions, Lyon 2017. 2 I. Hont, Politics, cit., pp. 10 sgg. 3 Cfr. ad esempio T. Hobbes, De homine, a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1970 e Id., De cive, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005; Id., Leviatano, a cura di D. Santi, Bompiani, Milano 2001. 4 T. Hobbes, Leviatano, cap. 30, pp. 543 sgg. 5 La proposta di interpretare l’antropologia dei moralisti francesi come una antropologia “negativa” è di Karlheinz Stierle: vedi Id., Montaigne und die Moralisten, Fink, Paderborn 2016. 6 P. Geyer, Die Entdeckung des modernen Subjekts. Anthropologie von Descartes bis Rousseau, Niemeyer Verlag, Tübingen 1997, pp. 64-68. 7 Cfr. H.-J. Fuchs, Entfremdung und Narzissmus. Semantische Untersuchungen zur Geschichte der „Selbstbezogenheit“ als Vorgeschichte von französisch “amour propre”, Metzler, Stuttgart 1977, pp. 167-172. 8 F. de La Rochefoucauld, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1962, p. 485. 9 Ivi, p. 419. 10 Sul rapporto tra la nobiltà feudale e la vita di corte cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 45-46. 11 Si veda soprattutto N. Elias, La società di corte, il Mulino, Bologna 1967; cfr. anche H.-J. Fuchs, Entfremdung, cit., pp. 259 sgg. 12 Cfr. F. Neuhouser, Pathologien, cit. 13 Cfr. J. Siegel, Modernity, cit., pp. 85-91. 14 J.-J. Rousseau, Discorso sulla disuguaglianza [1755], trad. it. di R. Mondolfo, in Id., Discorsi e contratto sociale, Cappelli, Bologna 1972. 15 J.-J. Rousseau, Lettera a d’Alembert sugli spettacoli [1758], trad. it. di D. Balestra, La Nuova Italia, Firenze 1987, pp. 31 sgg. Si veda anche in proposito l’interpretazione illuminante di J. Rebentisch, Die Kunst der Freiheit. Zur Dialektik demokratischer Existenze, Suhrkamp, Berlin 2012, cap. V. 16 J.-J. Rousseau, Discorso, cit., pp. 86 sgg. 17 Cfr. H.-J. Fuchs, Entfremdung, cit., p. 287. 18 J.-J. Rousseau, Discorso, cit., pp. 75, 78, 97.

19 Ivi, pp. 154-155. 20 Ivi, p. 154. 21 Sul rapporto tra Rousseau e Hume si veda l’affascinante saggio di R. Zaretzky e J.T. Scott, The Philosophers’ Quarrel, Rousseau, Hume and the Limits of Human Understanding, Yale University Press, New Haven 2009: cfr. anche D.C. Rasmussen, The Infidel and the Professor. David Hume, Adam Smith, and the Friendship that Shaped Modern Thought, Princeton University Press, Princeton 2017, cap. 7. 22 Si veda al riguardo H. Nazar, The Eyes of Others: Rousseau and Adam Smith on Judgment and Autonomy, in T. Pfau, V. Soni (a cura di), Judgment and Action. Fragments Towards a History, Northwestern University Press, Chicago 2017, pp. 113141. Sul rapporto tra Rousseau e Smith cfr. anche D.C. Rasmussen, The Problems and Promise of Commercial Society. Adam Smith’s Response to Rousseau, Pennsylvania University Press, University Park 2018. 23 F. Neuhouser, Pathologien, cit., pp. 50-57. Si vedano anche le considerazioni sui “positional goods” a cui mira l’amour propre “infiammato”, in N.J.H. Dent, Rousseau. An Introduction to his Psychological, Social and Political Theory, Basil Blackwell, Oxford 1988, pp. 62 sgg. Sul carattere “comparativo” dell’amour propre si veda anche l’interpretazione, estremamente interessante, di B. Carnevali, Romanticism et Reconnaissance. Figures de la conscience chez Rousseau, Droz, Genève 2012, pp. 28-37. 24 Nelle sue Confessioni Rousseau racconta diffusamente le sofferenze del “povero Jean-Jacques”, che nei circoli alla moda dell’aristocrazia e della borghesia in ascesa si vede obbligato a “brillare” con le sue doti per strappare l’attenzione del pubblico. Vedi J.-J. Rousseau, Le confessioni, in Id., Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 901-1122. 25 J.-J. Rousseau, Discorso, cit., p. 118 (“Le sauvage vit en lui-meme; l’homme sociable toujours hors de lui; il ne sait vivre que dans l’opinion des autres, et c’est, pour ainsi dire, de leur seul jugement qu’il tire le sentiment de sa propre existence”). 26 Ivi, pp. 192-193. 27 Cfr. F. Neuhouser, Pathologien, cit., pp. 109-110. 28 E. Cassirer, Il problema Gian Giacomo Rousseau [1933], in Id., J. Starobinski, R. Darnton, Tre letture di Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 3-91. 29 Su queste difficoltà interpretative cfr. anche J. Starobinski, U. Raulff Rousseau. Eine Welt von Widerständen, C. Hauser, München-Wien 1988, in particolare il cap. 2. 30 N.J.H. Dent, Rousseau, cit. 31 J. Cohen, Rousseau. A Free Community of Equals, Oxford University Press, New York 2010; F. Neuhouser, Pathologien, cit. Su queste interpretazioni recenti di Rousseau si veda anche la mia rassegna: A. Honneth, Die Entgiftung des Jean-Jacques Rousseau. Neuere Literatur zum Werk des Philosophen, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 4 (2012), pp. 611-632. 32 J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione [1762], in Id., Opere, cit., p. 511. Cfr. su questo punto F. Neuhouser, Pathologien, cit., pp. 233-249. 33 J.-J. Rousseau, Discorsi e contratto sociale [1762], cit. Cfr. su questo punto J. Cohen, Rousseau, cit., pp. 32-39; F. Neuhouser, Pathologien, cit., pp. 272-293. 34 Così per esempio argomentano Joshua Cohen e Frederick Neuhouser. 35 J.-J. Rousseau, Discorsi e contratto sociale, cit., libro primo, cap. 8 (par. 22). Cfr. anche J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1992, pp. 131-139. 36 Da qui anche l’idea che nel momento del contratto sociale ognuno debba stipulare “per così dire un contratto con se stesso” (par. 19). 37 Rousseau parla di un “Io comunitario” (par. 18). 38 Ivi, par. 31. 39 Cfr. J. Starobinski, Rousseau, in E. Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Tre letture, cit., pp. 200 sgg. 40 J.-J. Rousseau, Rousseau giudice di Jean-Jacques, trad. it. di E. Melon Cantoni, in Id., Opere, cit., pp. 1123-1317. 41 Ivi, p. 1127. 42 J.-J. Rousseau, Le passeggiate solitarie, trad. it. di B. Dal Fabbro, in Id., Opere, cit., pp. 1320-1378. 43 Ivi, pp. 1346 sgg. Una brillante interpretazione di questo capitolo centrale si trova in H. Meier, Über das Glück des philosophischen Lebens. Reflexionen zu Rousseaus „Rêveries“ in zwei Büchern, C.H. Beck, München 2011, I, IV. Sull’intera questione del ritiro “stoico” di Rousseau dalla società, vista come il bacino di coltura dell’amour propre, si veda anche J. Starobinski, Rousseau, cit. Una posizione analoga a quella di Rousseau (senza però richiami espliciti al filosofo ginevrino), circa i vantaggi di una vita socialmente isolata in vista di una fruttuosa autoindagine, è quella di E. Tugendhat (cfr. Id., Egozentrizität und Mystik. Eine anthropologische Studie, C.H. Beck, München 2003). 44 Si veda su questo A. Ferrara, Modernity and Authenticity. A Study of the Social and Ethical Thought of Jean-Jacques Rousseau, Suny Press, New York 1992. 45 Cfr. ancora H.-J. Fuchs, Entfremdung, cit., p. 293. Sul finire del Diciottesimo secolo il concetto di amour propre conosce ancora una breve fortuna negli scritti kantiani di filosofia della storia, anche se non nella sua forma francese originaria. Sul significato dell’idea di amour propre nella filosofia kantiana della storia si veda Y. Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton University Press, Princeton 1989, Parte II. Oltre a Stendhal bisognerebbe ricordare anche Balzac, che nella prima parte della Fille aux yeux d’or – racconto peraltro non poco farraginoso – svolge un’analisi sociologica quasi geniale della lotta per il “denaro, la fama e il piacere” in tutti gli strati sociali della Parigi degli anni trenta: una lotta alimentata dall’“amore di sé”. Cfr.

Balzac, La fille aux yeux d’or, in Id., La Comédie humaine, vol. 5, Gallimard, Paris 1977, pp. 1040 sgg. Non mancano del resto anche richiami diretti a La Rochefoucauld e a Rousseau, che erano per Balzac autori familiari. 46 Su questi sviluppi di ampio respiro si vedano le interessanti riflessioni di R. Aron, I sociologi e la rivoluzione del 1848, in Id., Le tappe del pensiero sociologico, trad. it. di A. Devizzi, Mondadori, Milano 1981, pp. 255-277. 47 É. Durkheim, Lezioni di sociologia. Fisica dei costumi e del diritto, Etas Kompass, Milano 1973. Va da sé che lo studio pionieristico di Marcel Mauss sulla reciprocità sociale del dono (cfr. Id., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche [1950], trad. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 2002) avvia una riflessione nel corso della quale anche il riconoscimento verrà messo a tema: cfr. su questo punto M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, trad. it. di R. Cincotta e M. Baccianini, Città Aperta, Troina 2006, cap. 4. Si veda anche il mio contributo: A. Honneth, Vom Gabentausch zur sozialen Anerkennung. Unstimmigkeiten in der Sozialtheorie von Marcel Hénaff, in “WestEnd”, 1 (2010), pp. 99-101. 48 Sulla storia della filosofia francese nel Ventesimo secolo cfr. G. Gutting, French Philosophy in the Twentieth Century, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 49 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano 1972, cap. 4; J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, trad. it. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1980, parte terza. 50 Ivi, pp. 29-34. 51 Ivi, Parte seconda, cap. I, pp. 117-153. 52 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo [1927], trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970. 53 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., Parte terza, cap. I, Sez. IV (“Lo sguardo”), in particolare pp. 330-335. 54 Ivi, pp. 328 sgg. 55 Ivi, Parte terza, cap. III, pp. 444-521. 56 J.-P. Sartre, Porta chiusa, in Id., Le mosche. Porta chiusa, trad. it. di G. Lanza, M. Bontempelli, Bompiani, Milano 1984. 57 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., pp. 298-321. 58 Ivi, pp. 447 sgg. 59 I primi accenni a questo stato di cose si trovano già in M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 482 sgg. Ma si veda anche M. Theunissen, Der Andere. Studie zur Sozialontologie der Gegenwart, W. de Gruyter, Berlin-New York 1977, Parte prima, cap. VI, pp. 187-240. 60 Cfr. il già citato G. Gutting, French Philosophy in the Twentieth Century, Parte terza; si veda anche V. Descombes, Le même et l’autre: quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Les Éditions de Minuit, Paris 1979. 61 Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 458 (“L’Altro è sempre presente, e lo esperiamo come ciò che dà senso al linguaggio”). 62 L. Althusser, Sull’ideologia, trad. it. di M. Gallesani, Dedalo, Bari 1976. Cfr. inoltre la brillante interpretazione di Kristina Leopold, a cui devo molto, ma di cui non posso condividere le conclusioni: K. Leopold, Ambivalente Anerkennung. Immanente Kritik und die Herausforderung ideologischer Anerkennungsverhältnisse (dissertazione presentata alla Goethe Universität, Frankfurt a.M. 2016), cap. 4. 63 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel: lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito [1947], trad. it. di G. Frigo, Adelphi, Milano 1996. Sull’importanza della teoria hegeliana del riconoscimento nella psicoanalisi di Lacan cfr. H. Lang, Die Sprache und das Unbewusste. Jacques Lacans Grundlegung der Psychoanalyse, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, capp. 1 e 4, sez. 3. 64 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi [1953], trad. it. di G. Contri, in Id., Scritti, vol. 1, Einaudi, Torino 1974, pp. 230-316 (qui p. 261). Per esemplificare questa “perdita di sé” del soggetto nell’Altro, dal cui riconoscimento tuttavia dipende, Lacan ricorre all’esperienza del neonato di fronte alla propria immagine allo specchio, dove appare a se stesso nella sua “immaginaria” unità o totalità. Cfr. Id., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io [1949], trad. it. di G. Contri. Su questo tema si veda anche il saggio giovanile di L. Althusser, Freud et Lacan (trad. it. di G. Piana, Sulla psicoanalisi. Freud e Lacan, Raffaello Cortina, Milano 1994). 65 Cfr. ancora H. Lang, Die Sprache und das Unbewusste, cit., cap. V, sez. 2. 66 Montesquieu sembra quasi rovesciare la posizione di Rousseau nel Secondo Discorso: “Più i popoli sono in contatto reciproco, più facilmente mutano usanze, per la curiosità con cui si guardano l’un l’altro: si vedono allora meglio le singolarità di ciascuno” (C.L. de Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, trad. it. di S. Cotta, Utet, Torino 1973, p. 494). Sulla complicata posizione di Montaigne in tema di “riconoscimento” – una posizione non del tutto dissimile da quella di La Rochefoucauld – si veda l’utile studio di O. Guerrier, Rencontre et reconnaissance. Les “Essais” ou le jeu du hasard et de la vérité, Classiques Garnier, Paris 2016, in particolare pp. 213-260.

3. Da Hume a Mill: riconoscimento e autocontrollo 1 L. Volkmann, Homo oeconomicus. Studien zur Modellierung eines neuen Menschenbildes in der englischen Literatur vom Mittelalter bis zum 18. Jahrhundert, Winter, Heidelberg 2003. 2 Cfr. R. Weimann, Drama und Wirklichkeit in der Shakespearezeit. Ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte des elisabethanischen Theaters, Niemeyer, Halle 1958. 3 Cfr. su questo L. Volkmann, Homo oeconomicus, cit., cap. 3.6 e 5.2. 4 Per questo dibattito cfr. D. Fate Norton, “Hume, Human Nature, and the Foundation of Morality”, in Id., J. Taylor, The

Cambridge Companion to Hume, Cambridge University Press, Cambridge 1993, pp. 148-181 (in particolare pp. 149-155). 5 B. de Mandeville, La favola delle api, a cura di T. Magri, trad. it. di M.E. Scribano, Laterza, Roma-Bari 1987. 6 A. Shaftesbury, Sensus communis. Saggio sulla libertà di spirito e di umorismo [1709], a cura di G. Bruni Roccia, Bulzoni, Roma 2006. 7 F. Hutcheson, An Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue [1725], cfr. W.H. Schrader, Ethik und Anthropologie in der englischen Aufklärung. Der Wandel der Moral-Sense-Theorie von Shaftesbury bis Hume, Meiner, Hamburg 1984 (in particolare il cap. III). 8 C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism Oxford University Press, Oxford 1962. 9 D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Id., Opere filosofiche, vol. 1, Laterza, Bari 1971 (Libro terzo, “Sulla morale”). 10 Si veda su questo punto D. Fate Norton, Hume, Human Nature and the Foundation of Morality, cit. pp. 155 sgg.; ma soprattutto S. Darwell, The British Moralists and the Internal ‘Ought’: 1640-1740, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 284-288. 11 D. Hume, Trattato, cit., Libro terzo, Parte terza, sez. I, pp. 609 sgg. 12 Ivi, p. 609. 13 E. Tugendhat, Vorlesungen über Ethik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, p. 308. 14 Cfr. a questo riguardo le mie riflessioni in A. Honneth, Reificazione: uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, trad. it. di C. Sandrelli, Meltemi, Roma 2007. 15 D. Hume, Trattato, cit., pp. 614 sgg. 16 Ivi, p. 614. 17 Ivi, p. 615. 18 D. Hume, Ricerca sui principi della morale [1751], a cura di M. Dal Pra, Laterza, Bari 1957. 19 D. Hume, My Own Life, in J.Y.T. Greig (a cura di), The Letters of David Hume, 2 voll., Oxford University Press, Oxford 1932, col. 1, p. 3. 20 D. Hume, Ricerca, cit. 21 D. Hume, Trattato, cit., vol. II, Libro terzo, “Sulla morale”. 22 Su questa oscillazione interna alla teoria morale di Hume si veda il commentario di H. Pauer-Studer in D. Hume, Über Moral, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007, pp. 213-373 (e qui pp. 281-282). 23 D. Hume, Ricerca, cit., p. 294. 24 D. Hume, Trattato, cit., libro secondo, “Sulle passioni”. Risulta chiaro, in questo contesto, che secondo Hume, a differenza di Rousseau, anche una valutazione fortemente positiva da parte dei nostri simili non può farci perdere la lucidità mentale necessaria per sapere quali sono le nostre qualità “reali”: “L’elogio altrui non può essere motivo di gioia se esso non è in accordo con la nostra autostima e se non apprezza le qualità in cui davvero eccelliamo” (ivi, p. 53). 25 D. Hume, Trattato, cit., Libro terzo, “Sulla morale”. 26 Cfr. F. Consandy e Consandey, Le rang. Préséances et hiérarchies dans la France d’Ancien Régime, Gallimard, Paris 2016. 27 Cfr. ancora L. Volkmann, Homo oeconomicus, cit. 28 Cfr. su questo dibattito K. Tribe, “Das Adam Smith Problem” and the Origins of Modern Smith Scholarship, in “History of European Ideas”, 4 (2008), pp. 514-525. 29 A. Oncken, Das Adam Smith Problem, in “Zeitschrift für Sozialwissenschaft”, 1 (1898), pp. 25-33; 2 (1898), pp. 191-208; e anche 4 (1898), pp. 276-287. 30 Cfr. per es. S. Fleischacker, On Adam Smith’s “Wealth of Nations”. A Philosophical Companion, Princeton University Press, Princeton 2004; C. Griswold, Adam Smith and the Virtues of Enlightenment, Cambridge University Press, Cambridge 1999. 31 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, a cura di A. Zanini, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, p. 5. 32 Ivi, pp. 5-6. 33 Ivi, p. 4. 34 Di qui l’interpretazione oggi corrente secondo cui Hume avrebbe una visione “contagiosa” della simpatia, e Smith invece una visione “proiettiva” della stessa. Cfr. D.C. Rasmussen, The Infidel and the Professor. David Hume, Adam Smith and the Friendship that Shaped Modern Thought, cit., cap. 5, in part. p. 92; S. Fleischacker, Sympathy in Hume and Smith: A Contrast, Critique and Reconstruction, in C. Fricke e D. Follesdal, Intersubjectivity and Objectivity in Adam Smith and Edmund Husserl. A Collection of Essays, De Gruyter, Frankfurt a.M. 2012, pp. 273-311. 35 Si veda per questo programma la ricostruzione di Ernst Tugendhat, in Id., Vorlesungen über Ethik, cit., pp. 282-309. 36 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., p. 9. 37 Ivi, pp. 9-14. 38 Ivi, p. 15. 39 Ivi, p. 16. 40 Ivi, p. 25. 41 Su questo graduale allargamento dei circles of sympathy, cfr. F. Forman-Barzilai, Adam Smith and the Circles of Sympathy. Cosmopolitanism and Moral Theory, Cambridge University Press, Cambridge 2010, cap. 5. 42 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., p. 181. 43 Ivi, p. 183.

44 Cfr. su questo punto il volume di C. Fricke, H.-P. Schütt (a cura di), Adam Smith als Moralphilosoph, W. de Gruyter, Berlin-New York 2005. Cfr. anche S. Fleischacker, Philosophy and Moral Practice: Kant and Adam Smith, in “Kant-Studien”, 3 (1991), pp. 249-269. 45 Cfr. ivi, p. 365. 46 Cfr., per es., ivi, pp. 71-72. 47 Ivi, pp. 171-199. 48 Ivi, p. 194. 49 Cfr. E. Tugendhat, Vorlesungen über Ethik, cit., p. 311. 50 Si vedano, per esempio, quei passaggi, nella pagina citata, in cui Smith parla di “due nature umane” coesistenti nello stesso individuo (cfr. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., p. 194). 51 Devo questa espressione a Ernst Tugendhat (cfr. Id., Vorlesungen über Ethik, cit., p. 295). 52 Su questo complesso problematico cfr. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., pp. 211 sgg. 53 D. Hume, Sul commercio, in Id., Saggi e trattati morali politici ed economici, a cura di M. Dal Pra, E. Ronchetti, Utet, Torino 1974. 54 M. Tolonen, Mandeville and Hume: Anatomists of Civil Society, Voltaire Foundation, Oxford 2013, cap. 4. 55 Per uno sguardo d’insieme si veda E. Rothschild, A. Sen, Adam Smith’s Economics, in K. Haakonssen (a cura di), The Cambridge Companion to Adam Smith, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 319-365. 56 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. Biagiotti, T. Biagiotti, Utet, Torino 1996. 57 Ivi, pp. 140-159 e pp. 753-758. 58 Cfr. ancora S. Fleischacker, On Adam Smith’s “Wealth of Nations”, cit., pp. 49 sgg. 59 Cfr. S. Pack, Capitalism as a Moral System, Edward Elgar Publishing, Cheltenham 2010. 60 J.S. Mill, Utilitarismo [1863], trad. it. di E. Musacchio, Cappelli, Bologna 1981. Si veda a questo proposito il passo seguente, molto vicino a Smith: “La comprensione che ogni individuo ha di sé come essere sociale determina in lui il bisogno naturale di armonizzare i suoi sentimenti e i suoi scopi con quelli dei suoi simili” (p. 86). 61 J.S. Mill, Sulla libertà [1859], SugarCo, Milano 1990, cap. 3. 62 J.S. Mill, Autobiografia [1873], a cura di F. Restaino, Laterza, Bari 1973, pp. 198-199. L’idea si trova già sviluppata in Id., Sulla libertà, cit., cap. 2. Si veda anche J. Skorupski, Why Reading Mill Today, Routledge, London 2006, pp. 24-31. 63 J.S. Mill, Sulla libertà, cit., cap. 2 (pp. 40-73); cfr. anche J. Skorupski, Why Reading Mill Today, cit., pp. 41-51. 64 J.S. Mill, Sulla libertà, cit., pp. 52-73. 65 Ivi, pp. 174 sgg. 66 J.S. Mill, Considerazioni sul socialismo, trad. it. di E. Marino, Aracne, Roma 2012. Sul rapporto tra Mill e il socialismo si veda C.L. Ten, Democracy, Socialism and the Working Classes, in J. Skorupski (a cura di), The Cambridge Companion to Mill, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 372-395. 67 I. Berlin, John Stuart Mill e gli scopi dell’esistenza, in Id., Quattro saggi sulla libertà, trad. it. di M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 242-278. 68 Questo principio si trova formulato nel cap. 4 del saggio Sulla libertà: cfr. J.S. Mill, Sulla libertà, cit., pp. 126-153. Sulle difficoltà di applicazione di tale principio cfr. J. Skorupski, John Stuart Mill, Routledge, London 1989, pp. 340-343. 69 J.S. Mill, Sulla libertà, cit., cap. IV. 70 L’espressione “polizia morale” si trova ivi, pp. 141 e 146. 71 J.S. Mill, Utilitarismo, cit., p. 80. 72 È questo concetto tipicamente inglese di riconoscimento – non quello proveniente dalla tradizione tedesca – a orientare Peter Stemmer nella sua fondazione ontologica della “normatività”. Cfr. P. Stemmer, Normativität. Eine ontologische Untersuchung, W. de Gruyter, Berlin 2008, soprattutto il par. 8. 73 C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism, cit. 74 J.S. Mill, Considerazioni sul socialismo, cit., pp. 91-92. 75 Cfr. P. Nicholson, The Political Philosophy of the British Idealists, Cambridge University Press, Cambridge 1990. 76 T.H. Green, Prolegomena to Ethics [1883], Clarendon Press, Oxford 2003; F.H. Bradley, Ethical Studies, Clarendon Press, Oxford 1876. 77 M. Richter, The Politics of Conscience. T.H. Green and His Age, Weinfeld and Nicolson, London 1964. 78 È illuminante al riguardo l’Introduzione di D.O. Brink in T.H. Green, Prolegomena to Ethics, cit., pp. XIII-CX. 79 Cfr. J. Skorupski, English-Language Philosophy 1750-1945, OUP, Oxford 1993, cap. 3.

4. Da Kant a Hegel: riconoscimento e autodeterminazione 1 J. Seigel, Modernity and Bourgeois Life, cit., pp. 114 sgg. Sul ruolo della borghesia in un paese frammentato come la Germania cfr. anche H. Plessner, Die verspätete Nation. Über die politische Verführbarkeit bürgerlichen Geistes [1935], Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, in particolare i capp. 4, 5 e 6. 2 Sul ruolo di Pufendorf nella preparazione dell’idea moderna di autodeterminazione individuale cfr. J.B. Schneewind, The Invention of Autonomy. A History of Modern Moral Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1998, cap. 7. 3 G.W. Leibniz, Sulla pubblica felicità [1677-1678], in Id., Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino 1965.

4 Cfr. tra gli altri E. Förster, Die 25 Jahre der Philosophie. Eine systematische Rekonstruktion, Klostermann, Frankfurt a.M. 2011 (in particolare la Parte prima); cfr. anche M. Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit, Niemeyer, Tübingen 1995, pp. 27-51. 5 J.-J. Rousseau, Discorsi e contratto sociale, cit., p. 22; cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994, p. 45, dove si legge che “una prescrizione che si fondi su principi della mera esperienza, foss’anche una prescrizione in certo senso universale, se si appoggia anche per una minima parte – ad esempio per un suo movente – su basi empiriche, può dirsi bensì una ‘regola’ pratica, ma mai una legge morale”. 6 Si vedano le celebri formulazioni di Kant in Id., Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 73 sgg. 7 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., p. 532. 8 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 73. 9 Ivi, p. 75 (trad. lievemente modificata). 10 A rigore, nelle formulazioni kantiane sul concetto di rispetto, nella nota della Fondazione, si dovrebbero distinguere due problemi diversi: in primo luogo la questione epistemologica “come sia possibile intuire, nel mondo empiricamente dato, un oggetto che incorpori la legge morale”, e in secondo luogo la questione pratica “come il sentimento di rispetto che accompagna l’intuizione di un tale oggetto possa toccare la nostra ragione in modo tale da ‘costringerci’ ad agire moralmente”. Alla prima questione ha tentato di rispondere Fichte nella sua teoria del diritto naturale, affermando di vedere nel “volto” umano civilizzato la fisionomia di un “oggetto” sensibile capace di suscitare il “rispetto” (J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, a cura di L. Fonnesu, Laterza, Bari 1994, pp. 71-75). Alcuni autori – con più o meno successo – hanno tentato di vedere in questo passo un’anticipazione delle tesi di Emmanuel Lévinas: cfr. ad esempio S. Lumsden, Absolute Difference and Social Ontology: Levinas Face to Face with Buber and Fichte, in “Human Studies”, 3 (2000), pp. 227241. Devo queste osservazioni a un’ampia conversazione con Michael Nance. 11 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 75, nota. 12 Questa interpretazione del problema kantiano dei moventi ha una piega intersoggettivistica che nella bibliografia è decisamente controversa: in generale, si ritiene che per Kant sia il rispetto per la propria costituzione finalistica, ossia il rispetto per se stessi, a motivare adeguatamente l’azione morale. Ma se, come sto tentando di mostrare in queste pagine, vogliamo vedere nel concetto kantiano di “rispetto” il precedente immediato del concetto fichtiano e hegeliano di riconoscimento, allora è necessario sottolineare con forza, nella sua soluzione del problema dei moventi, l’aspetto intersoggettivo, che implica un incontro con altri soggetti, e alcune decise formulazioni di Kant sembrano darci ragione. 13 Ivi, p. 161. 14 Cfr. A. Honneth, Die Unhintergehbarkeit des Fortschritts. Kants Bestimmung des Verhältnisses von Moral und Geschichte, in Id., Patologie della ragione: storia e attualità della teoria critica, a cura di A. Carnevale, Pensa Multimedia, Lecce 2012. 15 Vedi infra. 16 Malgrado lo stile oggi antiquato, enfatico, l’opera monumentale di H.A. Korff, Geist der Goethezeit, 4 voll., Kohler & Amelang, Leipzig 1927-1930, ci dà un’immagine “plastica”, tuttora efficace, di questo effetto liberatorio dell’etica kantiana (si veda in particolare il vol. 2, pp. 202 sgg.). Per una elaborazione critica più recente, cfr. F.C. Beiser, Enlightenment, Revolution, and Romanticism. The Genesis of Modern German Political Thought 1790-1800, Cambridge University Press, Cambridge 1992, cap. 2. 17 K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, a cura di M. Prospero, Editori Riuniti, Roma 2016. 18 Sui problemi connessi con il concetto kantiano di rispetto si veda lo studio illuminante di S. Schadow, Achtung für das Gesetz. Moral und Motivation bei Kant, W. de Gruyter, Berlin-Boston 2013. 19 Sul significato strategico del problema dei moventi nel pensiero di Kant cfr. anche A. Wildt, Autonomie und Anerkennung. Hegels Moralitätskritik im Lichte seiner Fichte-Rezeption, Klett-Cotta, Stuttgart 1982, pp. 165-172; D. Henrich, Die Deduktion des Sittengesetzes. Über die Gründe der Dunkelheit des letzten Abschnitts von Kants „Grundlegung zur Metaphysik der Sitten“, in A. Schwan (a cura di), Denken im Schatten des Nihilismus. Festschrift für W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, pp. 55-112. 20 Per una breve panoramica sul problema cfr. P. Guyer, Absolute Idealism and the Rejection of Kantian Dualism, in K. Americks (a cura di), The Cambridge Companion to German Idealism, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 37-56. 21 Un tentativo originale di risolvere il problema kantiano dei moventi è intrapreso anche da Schiller in Über Anmut und Würde, in Id., Sämtliche Werke, vol. 5, pp. 433-488; in Id., Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, Utet, Torino 1968, pp. 137-202. Cfr. A. Wildt, Autonomie und Anerkennung, cit., pp. 157-162. 22 Sulla portata di questo problema cfr. A. Honneth, Die transzendentale Notwendigkeit von Intersubjektivität. Zum zweiten Lehrsatz in Fichtes Naturrechtsabhandlung, in Id., Unsichtbarkeit. Stationen einer Theorie der Intersubjektivität, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003, pp. 28-48 (in particolare pp. 47 sgg.). 23 J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale, cit. 24 Cfr. al riguardo ancora F. Neuhouser, Fichte’s Theory of Subjectivity, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 93-102. 25 J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale, cit., p. 39. 26 A. Wood, The Free Development of Each. Studies on Freedom, Right, and Ethics in Classical German Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2014, p. 207. 27 J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale, cit., p. 39.

28 Ivi, p. 47. 29 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 75. 30 J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale, cit., p. 40. È da notare peraltro che, in questo passo, Fichte non parla del “riconoscimento” come di un “sentimento” (come Kant nel caso del “rispetto”): per Fichte, ciò che conta in questa “limitazione” dell’interesse egoistico è solo il lato “esterno”. Se poi a questa autolimitazione sia connesso anche un determinato stato d’animo, è una questione che rimane non chiarita (devo anche questa osservazione a Michael Nance). 31 Ivi, pp. 37-50 (par. 4, Terzo teorema). 32 Per un’analisi ancora più puntuale di questa genesi dell’autocoscienza cfr. A. Honneth, Die transzendentale Notwendigkeit von Intersubjektivität, cit.; vedi anche A. Wildt, Autonomie und Anerkennung, cit., cap. II, par. 4. 33 K.O. Apel, Diskurs und Verantwortung. Das Problem des Übergangs zur postkonventionellen Moral, Suhrkamp, Frankfurt a.M.1988 (su Fichte cfr. pp. 445 sgg,). Circa il rapporto tra Apel e Fichte è di particolare interesse il lavoro di V. Hösle, Die Krise der Gegenwart und die Verantwortung der Philosophie, C.H. Beck, München 1977, in part. pp. 220 sgg. Si veda inoltre W. Kuhlmann, Reflexive Letztbegründung. Untersuchungen zur Transzendentalpragmatik, Karl Alber, Freiburg-München 1985. 34 J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale, cit., p. 39: “Quella che viene chiamata educazione è un’esortazione ad agire liberamente”. 35 Ivi, pp. 191-209 (Parte seconda, par. 17). 36 Se si considera il peso notevole che i bisogni umani e più in generale la natura corporea dell’essere umano come essere finito assumono per Fichte nel suo trattato sul diritto naturale, queste affermazioni possono sembrare ingiuste: va tenuto conto che si riferiscono solo al modello fichtiano del riconoscimento. 37 Sulla prospettiva sistematica di Hegel cfr. D. Emundts, R.-P. Horstmann, G.W.F. Hegel. Eine Einführung, Reclam, Stuttgart 2002 (in particolare le pp. 32 sgg.). 38 Sul ruolo sistematico dell’“amore” nel primo Hegel cfr. D. Henrich, Hegel und Hölderlin, in Id., Hegel im Kontext, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1971, pp. 9-40. 39 Nella “Logica” dell’Enciclopedia si dice com’è noto che la “libertà” è “il ritrovarsi nel proprio altro”: cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, vol. 1, Frankfurt a.M. 1970, p. 84. Questa formula si trova, leggermente variata, in molte altre opere di Hegel, spesso anche riferita al riconoscimento reciproco. 40 Cfr. D. Henrich, Hegel und Hölderlin, cit. 41 Cfr. A. Honneth, La lotta per il riconoscimento, trad. it. di C. Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002, pp. 63-64. 42 È una grave lacuna della storiografia sociologica il fatto di non riconoscere adeguatamente il ruolo di Hegel nella genesi ottocentesca della nuova disciplina. Tra i “precursori filosofici” della sociologia vengono citati in genere soltanto Montesquieu, Rousseau e Condorcet, Ferguson e Adam Smith, e in qualche caso anche Herder: cfr. R. Bierstedt, Sociological Thought in the Eighteenth Century, in T. Bottomore, R. Nisbet (a cura di), A History of Sociological Analysis, Cambridge University Press, London 1979, pp. 3-38. 43 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. it. di Enrico de Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 160-161. 44 A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi, Torino 1948, p. 7. 45 Cfr. A. Wildt, Autonomie und Anerkennung, cit., p. 354. 46 Judith Butler, che riprende chiaramente Kojève (vedi il suo libro Soggetti di desiderio, Laterza, Roma-Bari 2009, in particolare il cap. 2), ricorre in questo passo a Spinoza, indicando come fonte del “bisogno” di riconoscimento l’impulso (conatus) all’autoconservazione sociale. Cfr. J. Butler, La vita psichica del potere: teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, a cura di C. Weber, Meltemi, Roma 2005. Questa equiparazione problematica tra il “bisogno” hegeliano di riconoscimento e l’impulso spinoziano all’autoconservazione ritorna ancora più evidente nel saggio Fuori di sé, in Id., Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Feltrinelli, Milano 1996. 47 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit.: “La dipendenza dalle sensazioni della facoltà di desiderare si chiama inclinazione, e questa è sempre l’espressione di un bisogno”. 48 Un caso esemplare è il Puntila e il suo servo Matti di Bertolt Brecht, in Id., Teatro, a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975. Cfr. in proposito H. Mayer, Hegels „Herr und Knecht“ in der modernen Literatur (Hofmannsthal – Brecht – Beckett), in H.-G. Gadamer (a cura di), Stuttgarter Hegel-Tage 1970. Vorträge und Kolloquien des Internationalen Hegel-Kongresses, Bouvier, Bonn 1974, pp. 53-78. Sulla filosofia dialogica cfr. M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, W. de Gruyter, Berlin-New York 1972, Parte seconda, in particolare pp. 473-474. 49 Cfr., per es., H.H. Holz, Herr und Knecht bei Leibniz und Hegel. Zur Interpretation der Klassengesellschaft, Luchterhand, Neuwied-Berlin 1968.

5. Forme di riconoscimento a confronto: un tentativo di riassunto sistematico 1 Cfr. il lavoro recente di R. Jaeggi, R. Celikates, Sozialphilosophie. Eine Einführung, C.H. Beck, München 2017, cap. 5, in particolare pp. 69 sgg. Come esempi di questa tradizione “negativa”, vengono qui citati, accanto ai testi di Jean-Paul Sartre, Louis Althusser e Judith Butler (tra i quali esistono peraltro notevoli differenze metodologiche), anche P. Markell, Bound by Recognition, Princeton University Press, Princeton 2003, e T. Bedorf, Verkennende Anerkennung. Über Identität und Politik, Suhrkamp, Berlin 2010. 2 Cfr. ad esempio L. Althusser, Sull’ideologia, cit. e più ancora J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie della

soggettivazione e dell’assoggettamento, cit., p. 26. 3 Cfr. al riguardo, per l’utilizzo del concetto di riconoscimento, P. Stemmer, Normativität. Eine ontologische Untersuchung, cit. Quale confusione regni nella filosofia morale contemporanea intorno al discorso sul riconoscimento appare subito chiaro se si considera che, per esempio, David Wiggins, nel suo progetto di un’etica neohumiana, e Philippa Foot nel suo discorso sul “riconoscimento reciproco” – caratteristico della nostra forma di vita – non si preoccupano di citare la provenienza del concetto da Fichte e da Hegel. Cfr. D. Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, Harvard University Press, Cambridge 2008, pp. 243 sgg. 4 Cfr. supra, pp. 52-53. 5 Cfr. su questo punto e su quanto segue le riflessioni di H. Ikäheimo sul cosiddetto “neohegelismo deontologico” (R. Brandom, T. Pinkard, R. Pippin): H. Ikäheimo, Anerkennung, cit., pp. 168-171. Cfr. inoltre T. Stahl, Immanente Kritik. Elemente einer Theorie sozialer Praktiken, Campus, Frankfurt a.M. 2013, capp. 4-7. 6 Oltre al già citato “neohegelismo deontologico”, ci limitiamo qui a ricordare i lavori di Karl-Otto Apel (vedi sopra) e di Jürgen Habermas (cfr. il saggio Vie della detrascendentelizzazione. Da Kant a Hegel, in Id., Verità e giustificazione, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 181-222). Benché non faccia riferimento alla tradizione di Fichte e di Hegel, bisognerebbe anche ricordare il lavoro di S. Darwall, The Second-Person Standpoint. Morality, Respect and Accountability, Harvard University Press, Cambridge 2009. 7 C’è qui uno stretto parallelismo con quelli che Jürgen Habermas ha chiamato, nel suo percorso teorico, “contesti comunicativi” o “contesti informativi”: anche questi sono suscettibili di mutare storicamente, tendendo a una crescente razionalizzazione. Sull’importanza di questa idea chiave nell’opera di Habermas cfr. D. Heinrich, Kritik der Verständigungsverhältnisse, in Id., J. Habermas, Zwei Reden. Aus Anlass des Hegel-Preises, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, pp. 9-22. Proprio su questo punto non concordo tuttavia con la pur ottima introduzione di Heikki Ikäheimo al tema del riconoscimento (cfr. Id., Anerkennung, cit.): egli sostiene infatti la tesi secondo cui le diverse forme del riconoscimento sarebbero “tipi” indipendenti, riconducibili ai diversi contesti morali che si presentano nella nostra forma di vita (vedi ivi, cap. 7.2). Credo invece, con Hegel, di poter difendere la tesi secondo cui il differenziarsi dell’unico evento del riconoscimento si deve alla varietà delle situazioni storiche in cui si manifesta la reciproca attribuzione di uno “status normativo”, e da cui dipende nello stesso tempo la natura dei criteri accettati e l’ambito più o meno ampio del coinvolgimento personale. 8 Si veda su questo il lavoro estremamente lucido di R.B. Brandom, Wiedererinnerter Idealismus, Suhrkamp, Berlin 2015, capp. 2-4. 9 Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. di A. Plebe, Laterza, Roma-Bari 1988 (libro II, pp. 39-49). Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1973 (Parte terza, par. 409410 [pp. 382-387]). 10 Sulla ripresa del concetto di “abitudine” in sociologia, cfr. P. Bourdieu, Per una teoria della pratica [1972], Raffaello Cortina, Milano 2003. 11 Cfr. A. Honneth, Zweite Natur. Untiefen eines philosophischen Schlüsselbegriffs, in J. Christ, A. Honneth (a cura di), Zweite Natur. Internationaler Hegelkongress 2017, Frankfurt a.M. (in corso di pubblicazione). 12 È questa, almeno, una delle due versioni elaborate da Freud per spiegare l’origine della coscienza cioè del Super-Io: cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1978, pp. 557-630. In particolare, la p. 611 (“Questo stato viene chiamato ‘cattiva coscienza’, ma non merita in realtà questo nome perché a questo livello il senso di colpa non è altro che la paura di perdere l’amore, ‘angoscia sociale’.”). Sulle due versioni alternative cfr. J. Deigh, Remarks on Some Difficulties in Freud’s Theory of Moral Development, in Id., The Sources of Moral Agency Essays in Moral Psychology and Freudian Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 65-93. Sul “ponte” gettato tra la filosofia di Smith e la teoria freudiana cfr. D.D. Raphael, The Impartial Spectator. Adam Smith’s Moral Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 48-49. 13 È per questo che, in Hegel, la trattazione della coscienza viene a cadere nella parte della “filosofia del diritto” dedicata alla “moralità”: cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1974 (par. 136137). 14 Cfr. supra, pp. 37-44. 15 Sulla proposta, da me avanzata, di intendere in questi termini il processo che Hegel pensava come puramente “descrittivo” o “contemplativo”, cfr. A. Honneth, Il diritto della libertà: lineamenti per una eticità democratica, trad. it. di C. Sandrelli, Codice, Torino 2015, pp. XXXIII-XLVI. 16 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 245 (p. 231). 17 Ivi, par. 253 (p. 235). 18 Ivi, par. 166-167 (pp. 176-178). 19 Ivi, par. 166 (p. 177). 20 Ivi, par. 167 (aggiunta). 21 Ivi, par. 164. 22 Ivi, par. 163 (pp. 173-174; vedi anche l’aggiunta [p. 404]). 23 Ivi, par. 162 (aggiunta [p. 403]). 24 Sull’“effetto looping” cfr. I. Hacking, The Social Construction of “What”, Harvard University Press, Cambridge 1999. 25 Cfr. S. Haslanger, Resisting Reality Social Construction and Social Critique, Oxford University Press, Oxford 2012. 26 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie [1922], Mohr Siebeck, Tübingen 1976, pp.

23 sgg. 27 Sulla costruzione culturale dell’“inevitabile”, cfr. B. Moore, Injustice: the Social Basis of Obedience and Revolt, Palgrave, Basingstoke 1978. 28 Per le interpretazioni che vanno in questa direzione cfr. A. Honneth, La lotta per il riconoscimento, cit.; G.W. Bertram, R. Celikates, Towards a Conflict Theory of Recognition, in “European Journal of Philosohy”, 4 (2015), pp. 838-861. 29 Anche gli studi più recenti sulla filosofia hegeliana della storia non mi sembrano fornire un’idea abbastanza chiara dei processi sociali a cui si deve, secondo Hegel, il progresso morale sotto la guida del Weltgeist, ossia nel concreto rapporto storico fra i soggetti. Cfr. T. Pinkard, Does History Make Sense? Hegel on the Historical Shapes of Justice, Harvard University Press, Cambridge 2017; J. MacCarney, Hegel on History, Routledge, London 2000.