Retorica del complotto
 9788842801177

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B I B L I O T E C A D E L L E S I L E R C H I E

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Zeffiro Ciuffoletti

RETORICA DEL COMPLOTTO

il Saggiatore

Non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare ... Ma la conoscenza non si ottiene se invece del teorico o uomo di buon senso la ricerca è affidata al dottrina­ rio. Costui è un personaggio che possiede una dottrina, ed ha fede in quella. Egli non ragiona sul fondamento dei dati da lui conosciuti e dalla tanta o poca capacità di raziocinio ricevuta alla nascita da madre natura e perfezionata collo studio e colla sapienza. No; il dottrinario ragiona «al punto di vista». Prima di studiare egli sa già quel che deve dire. Luigi Einaudi, Conoscere per deliberare, in Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1956.

© il Saggiatore, M ilano 1993 Realizzazione Edigeo srl, M ilano L a scheda bibliografica, a cura del Servizio Biblioteche Provincia di M ilano, è riportata nell’ultim a pagina del libro. 5

Indice

Introduzione

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1. Gli archetipi della teoria del complotto

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2. La rivoluzione e la sindrome del complotto

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3. Il complotto massonico nella cultura cattolica da Barruel a Cochin

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4. Il complotto del «terzo tipo» e le prime prove sulla psicologia delle folle

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5. La teoria del complotto e il suo uso nell’età dei totalitarismi

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6. L’uso pervasivo del complotto e la fine della dialettica politica: il caso italiano

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Introduzione

D a una ventina d’anni la lotta politica in Italia sembra preda di un meccanismo volto alla «organizzazione degli odi» (l’espressione è di George Halifax, autore delle cau­ stiche Maxims o f State, 1692). Il motore di questa mac­ china degli odi consiste nell’uso della teoria del complotto. Si badi: non la sindrome del complotto, come comune­ mente si dice, ma l’uso della sindrome del complotto, stru­ mento potente ed efficace, perché adatto alla politica di massa e alla «comunicazione emotiva» o «mitica», tipica dei mezzi di comunicazione odierni. L’uso esteso della teoria del complotto ha trasformato il confronto politico in una «retorica dell’intransigenza», una sorta di «guerra civile» che ha contribuito alla crisi e al discredito del sistema politico italiano, corrodendo la già esile trama della nostra democrazia. Nonostante che, dopo il crollo del comuniSmo, si assista un po’ dovunque a una crisi delle istituzioni classiche della democrazia, dai partiti ai parlamenti, dai governi ai sindacati, in nessun paese d’Europa si parla con tanta disinvoltura di «regime», «rivoluzione», «delegittimazione» e «sfascio» del sistema. In nessun paese si parla di «complotto», di «trame», di «go­ gna» con tanto autolesionistico compiacimento. In questo senso l’Italia potrebbe essere considerata un idea­ le campo di indagine per lo studio della retorica dell’in­ tolleranza e cioè di quel tipo perverso di lotta politica che Albert Hirschman ha definito un «dibattito politico senza comunicazione».1 Una sorta di «guerra civile condotta con

Introduzione

altri mezzi», aperta con il fascismo, continuata con la guer­ ra fredda e culminata negli anni di piombo e nel terrorismo mafioso ma prolungatasi fin dentro il dibattito sulla que­ stione morale. Un elemento costante è l’uso di argomenti {in prim is la teoria del complotto) atti a schiacciare l’av­ versario, a delegittimarlo, a infangarlo e infine ad annien­ tarlo. Tutto il contrario di quanto dovrebbe avvenire in una normale democrazia, in cui il funzionamento del si­ stema dipende proprio dall’accettazione di parti e schieramenti concorrenziali che si confrontano sui problemi (eco­ nomici, sociali, fiscali, giudiziari, ecc.) e sui modi di risol­ verli. In Italia una logica politica fortemente marcata di ideologia ha impedito di emancipare il discorso pubblico dalla distruttività e di rendere il confronto fra i partiti più congeniale al gioco democratico. Una democrazia, infatti, acquista legittimità e consenso nella misura in cui le de­ cisioni sono il frutto di un processo deliberativo aperto, pienamente dispiegato, e in grado di coinvolgere i suoi gruppi principali nell’accettazione dei valori e delle regole fondanti del sistema (liberaldemocratico) e con ciò di ren­ dere possibile il governo stesso del sistema. Le logiche manichee e neogiacobine, sintomi della debolezza e della vulnerabilità della cultura democratica italiana, non sono che il riflesso del deficit originario di un sistema in cui le patti politiche non si sono mai costituite in rapporto a valori fondanti e condivisi (lo stato di diritto, le istituzioni) ma solo attraverso identità di «parte», che presumevano di riflettere il «tutto» (o le logiche spartitorie del sistema par­ titocratico). Astrazioni mitiche come «volontà generale», «classe», «gente» hanno negato la pluralità, la differenza, la parzialità e hanno alimentato le logiche manichee, sempre incombenti nella lotta politica italiana. Il motore di queste logiche perverse della lotta politica è rappresentato dalla teoria del complotto, la più appropriata alla fabbricazione del «capro espiatorio» e alla messa in moto dei meccanismi

di colpevolizzazione. Sulle radici storiche e culturali dell’uso della teoria del complotto nella politica moderna in Italia si è scritto ben poco. Come se nel nostro paese avesse più senso formulare e diffondere la tesi del com­ plotto piuttosto che cercare di decodificarne i meccanismi.2 Indagare sulle matrici profonde dell’uso della teoria del complotto vuol dire penetrare in un meccanismo comples­ so e nello stesso tempo straordinariamente «abusato», che porta ad attribuire «ad altri» la responsabilità delle delu­ sioni delle aspettative politiche. L’ossessione del complotto ha trovato sempre un terreno favorevole nella subcultura di massa e nella oggettiva complessità dei fenomeni eco­ nomici, sociali e politici, che sfuggono all’immediata com­ prensione degli individui. La politica, il potere, sono stati sempre percepiti con un senso di estraneità e persino con ostilità dal popolo. Ed è relativamente fàcile, con i mezzi di comunicazione attuali, scagliare la «piazza» contro il «pa­ lazzo», agitando l’idea di trame oscure, di intrecci, di mi­ steri, in un paese carico di tragici delitti impuniti, di stragi senza nome, e in preda a una crisi tanto grave delle isti­ tuzioni e del sistema dei partiti. Ma, per i delicati mecca­ nismi che reggono le democrazie, questo gioco può diven­ tare estremamente pericoloso. Scopo di questo saggio è individuare le radici della sindro­ me del complotto e del suo uso nella lotta politica mo­ derna, nella consapevolezza che la politica, di destra come di sinistra, si nutre anche di miti e che l’irrazionalità, l’im­ maginario, le passioni costituiscono ingredienti importanti nella società di massa.3 Nello smontare le macchine mitologiche approntate dalle ideologie, la cultura di sinistra ha sempre avuto delle forti remore congenite, a causa del suo razionalismo illumini­ stico e del suo materialismo, che la inducevano a conside­ rare le mitologie manifestazioni dell’umanità allo «stadio infantile» e l’antirazionalismo reazionario. Negare la ragio-

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ne che tutti possiedono significa negare l’uguaglianza e pre­ tendere che solo pochi eletti detengano verità e poteri stra­ ordinari (poteri e pretese di verità che paradossalmente gli ideologi, di sinistra come di destra, hanno sempre utilizzato per colpire e mobilitare l’immaginario collettivo). La forma specifica di «irrazionalità» che caratterizza le teo­ rie cospiratorie è dotata di una peculiare logica altamente razionale e operativa. In effetti le teorie cospiratorie non possono venir confutate scientificamente.4 Esse non sol­ tanto sono coerenti dal punto di vista logico, ma possono anche essere dotate di tutti quegli attributi che caratteriz­ zano un paradigma scientifico. Pertanto o accettiamo la presenza di una mitologia, cioè di princìpi ultimi che diano conto delle cose secondo un loro ordine che precede l’em­ piria, oppure facciamo nostro il punto di vista puramente pragmatico, stando al quale non esiste alcuna verità tra­ scendente. La questione si riduce al «credere» o al «non credere». Forse l’unica prova incontestabile della non-esistenza o della assoluta insufficienza dei cospiratori nel senso delle teorie cospiratorie sta nel fatto che l’umanità è sempre sopravvissuta alle molte congiure che hanno contrassegnato la sua storia. Tuttavia l’uso politico delle teorie cospiratorie, al di là dell’esistenza di trame e cospirazioni reali, che ci sono state e sempre ci saranno, costituisce un dato corposo e tragico della politica moderna. Le ideologie di questo secolo nelle loro costellazioni mitiche hanno inglobato la teoria del complotto5 e il suo uso è divenuto una compo­ nente organica della storia politica del Novecento. Smontare le macchine mitologiche vuol dire, quindi, de­ codificare le ideologie nelle quali si «era creduto». Questo «smontaggio», che fra l’altro richiede l’abbandono dei «lidi sicuri» dello storicismo, è avvenuto solo per i totalitarismi di destra. La cultura di sinistra, nata dal dubbio, si è infilata nel tunnel delle certezze sacerdotali per «servire il popolo». Dopo duecento anni, dai philosophes fino agli intellettuali

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gauchistes, la ragione ha cessato, finalmente, di calare dall’alto; ma per scoprirla nell’«altro», come in noi stessi, è necessario operare questo «smontaggio» con un viaggio attraverso rimmaginario e l’uso dei miti nella politica mo­ derna. 1. A.O . Hirschman, Retoriche d ell’intransigenza. Perversità, fu tilità , m essa a repenta­ glio, II Mulino, Bologna 1991.

2. Z. Ciuffoletti, L a teorìa d el com plotto nell'econom ia dell'ideologia rivoluzion aria, in M odelli nella sto ria d el pensiero politico, a cura di V.I. Comparato, voi. II, Olschki, Firenze 1989. Per un approfondimento della riflessione sull’uso della teoria del com­ plotto durante la Rivoluzione francese cfr. F. Furet, C rìtica della R ivoluzione francese, Laterza, Bari 1980. 3. R. Girardet, M ythes et M ythologies politiques, Seuil, Parigi 1985; L. Kolakovski, L a presenza d el m ito, Il Mulino, Bologna 1992. 4. D . Groh, L a seduzione delle teorie cospiratorie. O vvero «W hy d id thìngs happen to goodpeople», in «Comunità», nn. 193-194, 1992, p. 5-

5. W! Minella, Totalitarism o n azista e totalitarism o com unista, in «Mondoperaio», nn. 1-2, 1989, p. 111.

Introduzione

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Gli archetipi della teoria del complotto

Le moderne teorie del complotto, che spiegano le vicende politiche come il frutto di congiure, fanno parte di quei grandi sistemi mitologici che accompagnano i grandi rivolgimenti politici e sociali degli ultimi due secoli della storia europea.1 Fra questi miti, oltre quello del complotto, si possono annoverare il mito dell’età dell’oro, il buon tem­ po antico, quando tutto era pace, ordine e abbondanza; quello di una rivoluzione redentrice che permetta all’uma­ nità di entrare nella fase ultima della sua storia e assicuri la realizzazione del regno della giustizia o il paradiso in terra; o il mito del capo salvatore, restauratore dell’ordine antico o costruttore di un ordine nuovo. Ciascuna di queste «costellazioni mitologiche» può sorgere nei punti più diversi dell’orizzonte politico e si può clas­ sificare «di destra» e «di sinistra» secondo il momento e il contesto. Si pensi soltanto all’ubiquità del tema della co­ spirazione ebraica, utilizzato ora dalla destra, ora dalla si­ nistra sia nel secolo scorso che in questo, in funzione delle vicende del dibattito ideologico o della lotta politica.

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Per profondità, persistenza, ambiguità, questi «miti» della politica moderna non si differenziano poi molto dai grandi miti sacri delle società tradizionali. E, come questi, anche i miti politici vanno trattati con la consapevolezza dei limiti che si incontrano nel tentativo di decodificare l’immagi­ nario. Il limite più grande sta nel fatto che i miti visti dall’esterno, esaminati dal punto di vista dell’indagine og­ gettiva, rischiano di apparire come dei «fossili». Fra coloro che vivono i miti nell’adesione della loro fede e coloro che pretendono di analizzarli criticamente sussisterà sempre uno iato irriducibile. M a è un rischio da correre. Decodificare il mito del complotto significa trovare alcune chiavi per la comprensione di uno dei più potend fattori di mobilitazione politica delle masse nella storia contem­ poranea, uno stimolatore di energie di eccezionale e a volte tragica potenza. Le forze in campo si servono continuamente delle cosid­ dette «politiche di allarme sociale» allo scopo di mobilitare le masse contro i loro avversari oppure allo scopo di sop­ perire al proprio deficit di legittimazione con uno sfrutta­ mento intensivo della «natura sentimentale delle masse». Di queste politiche di allarme sociale la teoria del com­ plotto è quella più largamente e intensamente impiegata. Secondo Karl Popper, che alla moderna teoria del com­ plotto ha dedicato pagine magistrali, essa deriverebbe dalla secolarizzazione delle superstizioni religiose. «Tale teoria — scrive Popper - più primitiva di molte forme di teismo, è simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dei in modo che tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate dall’Olimpo. La teoria so­ ciale della cospirazione è in effetti una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in una divinità i cui capricci e voleri reggono ogni cosa. Essa è una conseguenza del venir meno del riferimento a Dio e della conseguente do­

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manda: ‘Chi c’è al suo posto?’. Quest’ultimo è ora occu­ pato da diversi uomini o gruppi potenti, sinistri gruppi di persone cui si può imputare di aver organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo.»2 In base a questa teoria tutto ciò che accade di negativo nella società, crisi economiche, trasformazioni sociali, guer­ re, criminalità, disoccupazione, è il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui o gruppi organiz­ zati. Lo sgretolarsi del fondamento religioso del mondo, lungi dal significare l’avvento nell’ambito della politica di modi di pensiero e di comportamento effettivamente laici, e cioè spogli di qualsiasi valenza escatologica o mitica, ali­ menta una dimensione della politica attraversata da vibra­ zioni religiose. Le ideologie politiche si sono presentate, specialmente in questo secolo, con tutte le caratteristiche delle vecchie re­ ligioni. Hannah Arendt, studiando la propaganda dei si­ stemi totalitari, che, dal nazismo al fascismo e al comuni­ Smo, fecero un largo uso della teoria del complotto, ha messo in luce una caratteristica delle masse moderne che può essere utile ricordare. «Le masse moderne — scrive la Arendt —non credono alla realtà del mondo visibile, della propria esistenza; non si fidano dei propri occhi e orecchi, ma soltanto della propria immaginazione [...] si lasciano convincere non dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema [...] quel che le mas­ se si rifiutano di conoscere è la casualità che pervade tutta la realtà. Esse sono predisposte a tutte le ideologie perché spiegano i fatti come semplici esempi di determinate leggi ed eliminano le coincidenze, inventando una onnipotenza tutto comprendente che suppongono sia la radice di ogni caso. La propaganda totalitaria prospera su questa fuga dal­ la realtà nella finzione, dalla coincidenza nella coerenza.»3 La teoria del complotto costituisce il perno del razionali­ smo magico, lo stmmento ideologico tramite il quale si

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verifica la dicotomia fra Bene e Male. Essa ha stretti rap­ porti da un lato con la visione mitico-magica del mondo, e dall’altro con la nozione di «causalità forte», onnicom­ prensiva, distinta cioè dalla nozione moderna della proba­ bilità da formulare secondo lo stile di discorso delle con­ getture e delle confutazioni. Nello stesso tempo si pone all’incrocio con il processo di secolarizzazione e di perdita della dimensione mitica del mondo che è il risultato della modernizzazione occidentale.4 Nel Settecento questo lungo e complesso processo giunse a uno stadio avanzato, almeno a livello di élite, parallelamente al processo di diffusione dell’Illuminismo, degli ef­ fetti della rivoluzione industriale e degli sconvolgimenti po­ litici seguiti alla rivoluzione inglese del 1688 e poi a quella americana. Risale al XVIII secolo l’elaborazione del mito del complotto gesuitico, diffuso dalla cultura illuministica, e, parallelamente, l’elaborazione del mito del complotto massonico, da parte della cultura cattolica e reazionaria. Furono i giacobini a conferire una valenza politica moder­ na all’uso della teoria del complotto durante la rivoluzione francese, nelle fasi più acute dello scivolamento verso la politica del terrore, sperimentandone gli straordinari effetti di mobilitazione delle masse. Dietro a questo prototipo dell’uso politico del complotto stanno, tuttavia, il modello del sabba e i secoli della caccia alle streghe.5 Fu in quel contesto che fece la sua comparsa il complotto ai danni della cristianità, che tra il 1320 e il 1375 condusse al rogo prima i lebbrosi, poi gli ebrei, poi le streghe. Per gli inquisitori le streghe, come gli ebrei e come gli eretici, erano un’alterità da combattere, una ma­ nifestazione del diavolo, follia, ignoranza, superstizione, che impediva al mondo cristiano di vivere in pace e in armonia. Insomma fra il tardo medioevo e la prima età moderna, fece per la prima volta la sua comparsa nella storia europea una teoria cospiratoria come nucleo di un

complesso modello interpretativo. La bolla di Giovanni XXII, Super Illius del 1326, equiparava stregoneria ed eresia

e dava all’Inquisizione l’incarico di perseguirle. Uno dei primi best-seller della storia del libro fu un pro­ totipo della teoria cospirativa, il Malleus maleficarum, re­ datto nel 1487 da Jacob Sprenger e Heinrich Hinstitor, due domenicani mandati da papa Innocenzo V ili come inquisitori in Germania.6 Il libro rappresentò fino al 1600 l’interpretazione ufficiale dell’equazione: stregoneria = sabba = eresia

come causa degli sconvolgimenti dell’ordine armonico del­ la chiesa, della società e della natura. La combinazione del ricorso alle arti magiche, con l’apo­ stasia (deviazione della fede cristiana), con il patto con il diavolo, il culto satanico, e con la frequentazione del sabba, rivelava una concezione del mondo sempre più marcatamente dualistica, che in definitiva rimandava alla dottrina agostiniana delle due civitates. Il diavolo, che si può con­ siderare il prototipo, il modello originario del cospiratore, tentava con l’ausilio delle streghe di riconquistare il regno perduto. Giudici e inquisitori si ritenevano sulla più espo­ sta frontiera della lotta fra la luce e la tenebra, nella guerra contro la congiura satanica. Accademici, teologi, giuristi e medici, gli «intellettuali or- tt ganici» del tempo, consacrarono la loro cultura a comple­ tare quella fantastica Summa daemonologiae e tradurla nella prassi dei processi e delle persecuzioni. Il paradigma delle streghe, tanto profondamente radicato nei bisogni e negli orientamenti valutativi delle masse, restò tra il 1490 e il 1640, per ben due secoli e mezzo, praticamente immutato. Il colmo della persecuzione di massa fu raggiunto intorno al 1630. In questa fase persino giudici, magistrati civili e religiosi, intellettuali finirono insieme alle streghe sui roghi dell’Inquisizione. Milioni e milioni (6 o 9 a seconda degli

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storici) di donne e uomini furono sacrificati da quella mac­ china dell’intolleranza. La persecuzione dilagava e minac­ ciava di sfuggire al controllo. Fino a quando qualcuno, come Friedrich von Spee, non ebbe il coraggio di de­ nunciare quella mania persecutoria che sembrava inar­ restabile e incontrollabile. Tuttavia la sua opera, Cautio crìminalis, apparve nel 1631 prudentemente anonima. «Se i processi vengono intentati senza tregua e con zelo — scriveva il professore di Treviri —allora non vi è oggi più nessuno, qualunque sia il suo sesso, la sua situazione patrimoniale e sociale o il suo rango, che sia sufficien­ temente sicuro, perché basta un nemico calunniatore che getti su di lui il sospetto e sparga la voce che è dedito alla stregoneria.» Le guerre civili di religione, che costituirono il contesto della caccia alle streghe, si conclusero nel Seicento con il tentativo di separazione di religione, morale e politica. La religione e le convinzioni morali erano affare privato e per­ tanto andavano espulse dalla sfera pubblica e politica se si voleva mettere fine alle guerre e alla carica di intolleranza che aveva insanguinato la storia europea. Da questa sepa­ razione nacquero il pensiero liberale e lo stato di diritto, ma fu un parto travagliato e incompiuto, di cui resta un segno nella natura religiosa delle ideologie delle nuove fedi secolarizzate. La rivoluzione francese rimise in discussione quell’iniziale conato di separazione tra politica e morale che mirava a preservare la sfera profonda della coscienza individuale dall’ingerenza del trono e dell’altare. La stessa filosofia il­ luministica, del resto, mentre mirava a colpire la prassi politica dell'ancien régime e della chiesa, e mentre propu­ gnava il trionfo della tolleranza, tendeva a mettere in di­ scussione la separazione di politica e morale. Tuttavia entro il quadro dd i’ancien régime la critica politica era possibile solo nel segreto dei salotti e delle logge massoniche. La

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massoneria, in particolare, costituì un’importante agenzia occulta di socializzazione delle idee liberali ed egualitarie. Proprio per il loro carattere di organizzazione segreta, le logge massoniche a partire dalla seconda metà del Sette­ cento si videro attribuire nella nascente pubblicistica d’orientamento antilluministico i tratti di una cospirazione sempre più ampia e minacciosa diretta contro la religione e la monarchia. La paura di una cospirazione dei philosophes e dei protestanti raggiunse il suo acme, e anche la sua apparente conferma, prima con la soppressione della Com ­ pagnia di Gesù, poi con l’inizio della rivoluzione francese e infine con la costituzione civile del clero e con l’uccisione del re. Fu allora che prese forma la leggenda del complotto massonico-illuministico come causa della rivoluzione fran­ cese.7 Questa tesi fu avvalorata dalle confessioni estorte dal Sant’Uffizio all’avventuriero Giuseppe Balsamo (Caglio­ stro), finito proprio nell’89 nelle grinfie della chiesa. Le confessioni di Cagliostro furono immediatamente pubbli­ cate quale importante pezza d’appoggio al teorema del complotto. La tesi del complotto massonico-illuminista o illuministico-giacobino trovò una sistemazione definitiva nei Mémoires jfu r servir à l ’histoire du Jacobinisme dell’ex gesuita Augustin Barruel, pubblicate nel 1796-97. Il libro, tradotto in nove lingue e ristampato in molte edizioni, diventò il best-seller della controrivoluzione; anzi fu il tentativo ideo­ logico più riuscito di imbastire una strategia controrivolu­ zionaria internazionale. Meno noto ma altrettanto importante fu l’uso politico del­ la teoria del complotto fatto dai giacobini nel corso della rivoluzione e al culmine del terrore. Ed è proprio con i giacobini, con la loro ossessione della trasparenza o dei tradimenti, con il sospetto dilagante che alimenta il terrore, che si attua la saldatura tra virtù e politica, fra morale e politica.

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La rivoluzione francese, dunque, fornì l’occasione al for­ marsi di due versioni della teoria cospiratoria che nella loro struttura non hanno perso la loro attualità: la «cospirazione rivoluzionaria» e la «cospirazione controrivoluzionaria». D a un lato, massoni, anarchici e giacobini cospiravano per di­ struggere, prima in Francia poi nel resto del mondo, lo stato e la chiesa, insomma l’ordine tradizionale. Dall’altro lato, aristocratici, preti, ricchi e stranieri complottavano per stroncare la rivoluzione e per impedire il trionfo della giustizia nel mondo. Nell’un caso come nell’altro, chi ri­ fiutasse di accettare le pretese totalizzanti dell’ideologia non poteva essere tollerato né trovare scampo. Per una ideologia era morale, virtuoso o santo ciò che serviva al successo della rivoluzione, cioè alla realizzazione della giustizia nel mondo, del «paradiso in terra»; per l’altra era demoniaco tutto ciò che non si opponeva allo sconvolgimento dell’or­ dine tradizionale. D a qui la divisione del mondo in due campi, buoni e cattivi, amici e nemici. Le numerose varianti di queste teorie della cospirazione rivoluzionaria e controrivoluzionaria derivano quasi tutte dai 'modelli scaturiti dalla rivoluzione francese. Il modello della «cospirazione rivoluzionaria» culminò alla fine nella credenza in una congiura universale massonico-ebraica, che nel nostro secolo è diventata la più nefanda componente dell’ideologia nazista e fascista. Il modello della «cospira­ zione controrivoluzionaria» culminò nella credenza che gruppi capitalistici e massonici internazionali si oppones­ sero con tutte le armi alla realizzazione delle «magnifiche sorti e progressive» della rivoluzione comunista. Entrambe le teorie sono diventate componenti organiche dell’ideolo­ gia totalitaria e sono state ampiamente utilizzate per legit­ timare il nuovo regime e per delegittimare, perseguitare e annientare gli avversari. Tutte e due hanno sfruttato pul­ sioni e paure delle masse per diffondere una sorta di delirio collettivo, spesso assecondato dalla paranoia di capi come

Hider e Stalin e delle loro macchine di repressione e di propaganda. Tutte e due, infine, hanno dato corpo all’odio contro la democrazia e contro il capitalismo, considerati ingredienti malefici, impedimenti nella realizzazione del sogno comunitario. La prima teoria è servita a giustificare i campi di sterminio nazisti e la seconda è culminata nei gulag staliniani. L’una e l’altra hanno impresso alla lotta politica uno sviluppo manicheo e sono sfociate nel terrore. Fra i due prototipi delle teorie del complotto, sopravvisse e riprese vigore a partire dall’inizio dell’Ottocento (1807) il «terzo tipo» della teoria del complotto, destinato a con­ fondersi di volta in volta con i primi due, e cioè quello della cospirazione ebraico-massonica.8 Il complotto del «terzo tipo» appariva il più insidioso e pervicace in quanto evocava in un unico stereotipo le due «causalità diaboliche» più forti nel contesto di una società, come quella europea dell’Ottocento, sottoposta allo sviluppo del capitalismo e dominata dall’idea dello stato-nazione: il denaro e l’alterità. Ebrei e massoni, i senza patria, erano i corruttori della tradizione, della cultura e dei valori (famiglia e religione, comunità, razza), su cui dovevano poggiare le nazioni. Nel­ lo stesso tempo prendeva forma la tesi, rilanciata dal gio­ vane Karl Marx, di una identità fra «capitalismo» ed «ebraismo»: una tesi destinata ad avere una straordinaria fortuna nel corso dell’Ottocento e del Novecento, sia nella cultura di destra sia in quella di sinistra.9 La Francia della rivoluzione e della controrivoluzione fu come ha scritto Leon Poliakov - la patria di quelle scuole di pensiero che videro nei complotti tramati dai nemici del genere umano la principale chiave interpretativa della storia universale. Queste scuole di pensiero si diffusero in tutto il continente fino a che si crearono vere e proprie agenzie specializzate nell’uso politico della teoria del com­ plotto.

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Tuttavia nel corso della prima metà dell’Ottocento la teoria del complotto fu contenuta in ambiti limitati, più letterari che politici, come limitata era, d’altra parte, la partecipa­ zione delle masse alla politica. Nella seconda metà dell’Ot­ tocento non mancarono prove generali dell’uso politico della teoria del complotto, come nel caso Dreyfus, ma solo nel dispiegarsi definitivo della società di massa nel nostro secolo la «causalità diabolica» prese il posto della casualità e fece corpo con le ideologie totalitarie, surrogati delle vec­ chie religioni, che arretravano insieme al disgregarsi della civiltà tradizionale. Le plot theories (comprendendo nel termine plot gli intrighi ma anche i progetti) hanno trovato in questo secolo un vasto campo di applicazione, dalla lotta politica a quella commerciale.10 Il loro successo è dovuto essenzialmente al fascino esercitato sulle masse da una causalità elementare ed esaustiva, equivalente a una sorta di «causa prima». Nel­ la forma moderna, nonostante la sua sostanziale primiti­ vità, la teoria del complotto è il risultato della laicizzazione delle superstizioni religiose, ma è anche il frutto di una specializzazione che attiene all’organizzazione della politica e alla machine dell’ideologia nella società di massa. Solo in questo secolo, a partire dall’Ochrana, la potente organiz­ zazione della polizia politica russa, nata nel 1881 al mo­ mento dell’assassinio dello Zar Alessandro I, si può parlare di vere e proprie agenzie della manipolazione della teoria del complotto a scopi politici. Affinché il meccanismo funzioni, l’opera delle agenzie deve aderire al modello interpretativo dominante e cioè al com­ plesso dell’ideologia nella sua dimensione razionale e ope­ rativa. Per questo non ha senso tacciare semplicemente di irrazionalità le teorie cospiratorie e di follia i loro sosteni­ tori, da Hider a Stalin. I cospiratori sono una costruzione della società, nel senso che il nucleo della teoria cospiratoria va sempre ricercato nell’ambito dell’immaginario sociale,

ma in sede politica e storica la funzione delle teorie cospi­ ratorie non sarebbe comprensibile se non contestualizzata e analizzata nel quadro del funzionamento della macchina delle ideologie. Gli elementi essenziali che accomunano le teorie cospiratorie in ambito sociale e politico alle grandi costruzioni ideologiche sono: la sottovalutazione della complessità e della dinamica dei processi storici; la con­ vinzione che le conseguenze dell’azione possano essere im­ putate in modo più o meno lineare a determinate inten­ zioni, assumendo che gli attori abbiano sulle loro azioni un controllo maggiore di quello che in realtà avviene (vo­ lere-potere); la connessione di due o più fatti mediante un rapporto causale forte che in definitiva non è dimostrabile con prove certe. Per poter confutare le teorie cospiratorie, bisogna quindi «uscire» dal loro meccanismo logico, e tentare di infrangere il dato storico-epistemologico del paradigma. Sul piano scientifico solo considerazioni di teoria dell’azio­ ne e di analisi politica del meccanismo dell’ideologia ci rendono consapevoli che siamo in presenza non solo di sistemi di immaginazione collettiva, ma anche di uso po­ litico della teoria del complotto nella politica di massa. L’irrazionalità sta solo nel fatto che la logica, la coerenza e la causalità della plot theory, è quasi sempre superiore alla realtà. La storia è un sistema complesso che sfugge all’in­ tenzione degli agenti e quindi non è pianificabile nel modo postulato dalle teorie cospiratorie. Queste presuppongono che le intenzioni dei soggetti agenti, immaginati come co­ spiratori, si siano realizzate o siano destinate a realizzarsi nel corso della storia in maniera quasi del tutto incontra­ stata, a meno che un gruppo, informato delle macchinaziotii dei cospiratori, intervenga per scongiurarne l’attua­ zione. Non si tratta, quindi, di immaginare il corso della storia come governato dai cospiratori, ma di capire il con­ testo che favorisce il paradigma della teoria cospirativa e

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quindi decodificare il meccanismo del suo uso da parte di specifiche agenzie. Nel caso delle teorie cospirative in voga negli anni Venti e Trenta di questo secolo, si tratta di costruzioni ideologi­ che che imputano le difficoltà delle rivoluzioni a realizzare i loro obiettivi - il «paradiso in terra», la comunità di razza o la comunità di eguali - alla congiura delle forze contro­ rivoluzionarie, quasi sempre collegate alle oscure forze «giudo-pluto-massoniche» o puramente capitalistiche. La funzione delle teorie cospiratorie è assai differenziata, ma esse riconducono a immagini del mondo di tipo dua­ listico e manicheo. Esse consentono di individuare inequi­ vocabilmente i responsabili di uno stato di fatto conside­ rato come fatalità, sventura, patologia, devianza rispetto alla via «giusta». Il vantaggio di uno schema interpretativo o di una immagine del mondo basati sull’idea di cospira­ zione consiste nel permettere a coloro che l’adottano di contenere la dissonanza e di ridurre drasticamente la com­ plessità. Gmppi politici, partiti, ideologie, apparati, cercano con l’ausilio delle teorie del complotto e dei connessi schemi interpretativi di dominare situazioni che sfuggono al loro controllo e di spiegare come mai non si sia raggiunto il paradiso in terra, e il miglioramento radicale dei rapporti economici e sociali o anche di spiegare le sconfitte e di individuare i cospiratori. Le forze oscure che impediscono l’instaurazione del paradiso in terra vengono, quindi, pre­ sentate come cospiratori. Queste «forze oscure», questi co­ spiratori giustificano a loro volta l’«ideologia giusta», (quel­ la che i cospiratori cercano di ostacolare) come rimedio contro il male prodotto dai cospiratori. La forza d’attrazione che scaturisce dalla funzione sempli­ ficatrice propria di una spiegazione dualistica della com­ plessità del mondo sembra essere tanto forte che talora si incontrano, come nel caso dei processi staliniani, gruppi

o persone che si autoconvincono di aver «causato» inten­ zionalmente determinati eventi e di aver tentato di mettere in moto dei veri e propri ostacoli alla rivoluzione. Le teorie cospiratorie arrivano al punto di produrre al tem­ po stesso gli attori necessari alla loro plausibilità oppure di fare riferimento alla presenza di tali soggetti antagonistici come prodotto inevitabile del processo storico. Si pensi alla meccanica dello storicismo, e alla pretesa di predire il corso storico razionalmente o «scientificamente».11 L’ado­ zione da parte della cultura marxista, o di buona parte di essa, della teoria della cospirazione, la quale, dietro ogni evento, specie se negativo, vede «oggettivamente» e sempre, quel funesto cospiratore che è il capitalista, spiega la facilità con cui hanno prevalso spiegazioni semplificate della storia, non molto diverse dalla logica binaria bene-male della teo­ dicea cristiana. Su questo terreno le ipotesi cospiratorie ri­ solvono il problema della giustificazione di Dio di fronte al male del mondo: non è D io colpevole se a uomini giusti accade del male. La colpa è dei cospiratori, in quanto alleati del diavolo. Che poi è il problema eterno del proiettare negli «altri» il «diavolo» che è in noi.

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Gli archetipi della teoria del complotto

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1. R Girardet, M ythes et M ytbologies politiques, c it, p. 11.

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2. K R Popper, Congetture e confiitazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna 1972, p. 213. 3. H . Arendt, L e orìgin i d el totalitarism o, Comunità, Milano 1967, p. 486. 4 . H . Kohn, L e ideologie politich e d el X X secolo, L a Nuova Italia, Firenze 1964. 5. C. Ginzburg, Storia notturna. U na decifrazione d el Sabba, Einaudi, Torino 1989; Id, M iti, em blem i, spie, Einaudi, Torino 1986; B.P. Levark, L a caccia alle streghe, Laterza, Bari 1988. 6. H . Hinstitor (von Kramer) e J. Sprenger, I l m artello delie streghe, Venezia 1977. 7. Z. Ciuffoletti, I l com plotto m assonico e la Rivoluzione francese, La Medicea, Fi­ renze 1989.

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8. J. Katz, Jew s an d Freem asons in Europe, 1 7 2 3 -1 9 3 9 , Cambridge (Mass.) 1970; L. Poliakov, S to ria dell'antisem itism o, La Nuova Italia, Firenze 1990, voi. Ili, p. 37. 9. L. Poliakov, op. cit., voi. IV, p. 12. Nell’articolo II problem a ebraico (1843), in polemica con B. Bauer, Marx affermava: «L’essenza reale dell’Ebreo si è universal­ mente realizzata e mondanizzata nella società borghese» (Cfr. K. Marx, S crìtti p o litici gio v an ili, Einaudi, Torino 1950. 10. J.N . Kapferer, Le voci che corrono. I p iù an tich i m edia d el mondo, Longanesi, M ilano 1988. 11. K.R. Popper, M iseria dello storicism o, Feltrinelli, Milano 1975.

L a teoria sociale del complotto Chi legga la stampa, i manifesti, i documenti, tutte le fonti possibili sulla rivoluzione francese non può non essere col­ pito dal grado di diffusione, a tutti i livelli, della retorica del complotto. L’idea del complotto domina fin dall’89 la scena politica e permea il discorso dei rivoluzionari come dei controrivoluzionari. Quasi contemporaneamente, insie­ me all’idea del «complotto aristocratico», appare quella del «complotto massonico» e ben presto la sindrome del com­ plotto si sviluppa fino a divenire un tema ossessivo. Entrambe le parti - rivoluzionari e antirivoluzionari —sono portate alla faziosità, alla semplificazione dello scontro politico e alla demonizzazione dell’avversario. M a quan­ do le masse entrano in campo il processo rivoluzionario va al di là delle prospettive dei philosophes. Nessuno dei leader di allora era preparato a cogliere e razionalizzare l’ingresso delle folle nella politica. L’ideologia rivoluzio­ naria deve ora fare i conti —per sfruttarli a suo favore —

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con due nuovi protagonisti: la folla e la paura. Per i filosofi della ragione (come per i seguaci dello stori­ cismo) fu una sorpresa scoprire che la vera spinta all’azione non nasceva dalla ragione o dalle pure idee dei philosophes, quanto dai sentimenti, dalla passione e dalla fantasia, in­ somma dalla psicologia collettiva. Le due divinità madri della rivoluzione, prima di essere strumentalizzate ai fini dell’ideologia giacobina, furono la paura e la speranza. E proprio dalla paura nasce l’idea ossessiva del complotto, da cui deriva quel meccanismo di mobilitazione e d’inti­ midazione che dirige le folle nelle grandi journées e che sfocerà nel terrore. Il collegamento della politica democratica con la sindrome del complotto, di cui parla Furet, non ha forse carattere di necessità, ma furono certamente la paura del complotto e l’ossessione della trasparenza a mettere in moto mecca­ nismi di epurazione che portarono a considerare cospira­ tori, in rapida successione, i monarchici liberali alla M ou­ nier, poi i fogliami, poi i girondini, fino ai dantonisti e agli hebertisti, pregiudicando il funzionamento della de­ mocrazia e del sistema rappresentativo. In questo senso il dualismo tra la democrazia, la volontà popolare, la rivolu­ zione da un lato, e dall’altro la sua negazione, cioè il com­ plotto aristocratico, costituiscono una semplificazione della lotta politica. La giustificazione del terrore, fatta propria dai rivoluzionari, e poi dalla storiografia filogiacobina, in quanto imposto dalle «circostanze» e dai complotti con­ trorivoluzionari (analoga alla tesi deU’«accerchiamento», brandita dal movimento comunista per giustificare i cri­ mini dello stalinismo) costituisce ormai una interpretazio­ ne semplicistica della rivoluzione. La dialettica delle in­ tenzioni antagonistiche «è conforme al vissuto dell’epoca rivoluzionaria, caratterizzato da una straordinaria soggettivizzazione dell’universo in cui ogni evento reca l’impronta di una volontà, sicché il conflitto è sentito come una lotta

fra i buoni e i cattivi, termini che si invertono secondo il campo in cui sono schierati gli attori e i loro storici».1 Tanto è vero che a fronte di una teoria del complotto massonico elaborata a caldo dalla cultura cattolica contro­ rivoluzionaria, si sviluppa una speculare teoria del com­ plotto aristocratico o antirivoluzionario che serve a giusti­ ficare e a legittimare tutti gli «eccessi» della rivoluzione. L’ideologia controrivoluzionaria, così come quella rivolu­ zionaria, sono spiegazioni fortemente semplificate delle complessità del reale. Luna e l’altra rispondono a conce­ zioni del mondo schematiche e binarie, basate sull’esistenza di un unico rapporto di amico-nemico. In tutte e due le versioni, per riprendere uno spunto di Karl Popper, la teo­ ria del complotto si fonda su di una visione razionalistica della società e della lotta politica, secondo la quale la ra­ gione avrebbe il potere di plasmare il mondo. Nella cultura cattolica c’è, in più, la coscienza del momento demoniaco costitutivo del fenomeno rivoluzionario. Sullo spirito di astrattezza della cultura francese del XVIII secolo, Tocqueville ha scritto alcune pagine illuminanti, le quali dimostrano come l’astrattezza derivasse dalla natura stessa del sistema politico dell’antico regime e della sepa­ razione fra la corte e il resto della società: «Per quanto le loro strade in tutto il resto divergano, —scrive a proposito degli intellettuali —essi muovono tutti da un unico punto di partenza: pensano che convenga sostituire con regole semplici ed elementari, attinte alla ragione e alla legge na­ turale, le consuetudini complesse e tradizionali che reggono la società del loro tempo [...] La condizione stessa di quegli scrittori [separati dalla politica dallo stato assoluto] li di­ sponeva a prediligere le teorie generali e astratte in materia di governo e ad abbandonarvisi ciecamente. Nel totale di­ stacco dalla vita politica in cui vivevano, nessuna esperienza veniva a temperare i loro ardori istintivi».2 Lo sforzo intellettuale dell’Illuminismo, naturalmente, era

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ben più complesso e articolato nella critica alla chiesa e al dispotismo, e nella tensione alla tolleranza, alla libertà, all’uguaglianza e ai diritti dell’uomo, ma i philosophes in­ taccano profondamente un rapporto fondamentale dell’an­ tica società: quello che legava il sacro al profano, compro­ mettendo, quindi, quel complesso sistema di legittimità e di gerarchie che regnava nell’ancien régime. Nel rapido tra­ passo dai grandi pensatori all’opinione pubblica, ormai in­ vestita dai processi di laicizzazione della vita sociale, queste idee e questo metodo si semplificarono e si cristallizzarono, creando una cultura politica fortemente schematica. In effetti i philosophes e i loro progetti di riforme traduce­ vano due convinzioni che l’Illuminismo aveva ampiamente accreditato e cioè che le istituzioni politiche e gli uomini fossero trasformabili all’infinito, e che il cambiamento po­ teva essere operato solo attraverso la politica le cui capacità d’azione trasformatrice erano considerate quasi illimitate. «Teorizzando la politica e investendola delle loro speranze, i philosophes creavano la rappresentazione di un potere in grado, tramite i propri atti, di dare a tutti i problemi sociali e persino morali, risposte sicure e razionali. Di qui l’attra­ zione verso la politica e soprattutto verso lo Stato. Non uno Stato qualsiasi, ma quello che potrebbe diventare lo strumento privilegiato del diffondersi dello spirito illumi­ nato.»3 Si immaginava un potere che grazie all’ideale dei philosophes poteva riformare la società. In questo senso il riformismo si conciliava perfettamente con il sogno uto­ pistico di «un’altra società, quella della felicità sociale in cui sfocierebbe la ridefinizione dell’ordine sociale».4 Grazie ai valori e ai concetti elaborati dalTIlluminismo, gli ideologi della rivoluzione danno un significato globale della crisi di governabilità dell’antico regime, opponendo il di­ ritto all’arbitrio, la libertà al dispotismo, la giustizia ai pri­ vilegi. Un significato che in virtù del carattere universale dei valori in gioco, compromette la possibilità di un ap­

proccio non astratto ma pragmatico ai problemi concreti, radicalizza le posizioni e riconduce tutti i problemi anche quelli pratici e di funzionalità del sistema, a uno solo e cioè a quello della trasformazione del potere politico con­ siderato come istanza decisiva per la riorganizzazione dell’ordine sociale. «Una simile definizione della posta in gioco significava pensare la violazione del diritto positivo in termini di ritorno a valori originali, anteriori alla sua comparsa, i soli capaci di dare una legittimità al potere.»5 Le idee illuministiche, una volta lievitate nella mente degli attori della rivoluzione, diffondono l’immagine che la ri­ voluzione, proprio in ragione dei principi che propugna e per le finalità che si prefigge di realizzare, sia profonda­ mente razionale e quindi in grado di risolvere i problemi che essa stessa fa sorgere e di sconfiggere le resistenze. Il «fatalismo della ragione» accelera e radicalizza nello stesso tempo il processo rivoluzionario. Naturalmente il tutto si mescola allo scatenarsi delle passioni e alla lotta per il po­ tere, e si nutre della crisi economica che affama le masse popolari e le rende disponibili e recettive all’idea del cam­ biamento, anche il più radicale. Del resto proprio fra le masse opera più visibilmente non tanto l’eredità ideologica e intellettuale dei philosophes nelle sue varie componenti, ma quello che è stato chiamato il «basso Illuminismo», diffuso da quella massa di libelli e di pamphlet scandalistici sulle amanti di Luigi X V o sulle depravazioni del clero, che nella seconda metà del Settecento inondarono il mercato clandestino del libro. La cultura rivoluzionaria non eredita solo la cultura politica «alta» dell’Illuminismo ma anche gli effetti della disinte­ grazione intellettuale prodotta dalfllluminismo stesso: idee, profezie, utopie che rappresentano l’altra faccia dell’Il­ luminismo e mescolano occultismo e parascienza. La cul­ tura politica del periodo rivoluzionario, come ha scritto Baczko, non riceve in eredità solo la cultura elitaria e ra-

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zionalista delTIlluminismo, ma riproduce anche secondo mo­ dalità proprie, le culture e le mentalità dellancieri régime,6 Con la rivoluzione si apre uno spazio politico moderno, quello della democrazia, ma il contesto culturale rimane largamente tradizionale. La buona novella della libertà dell’uguaglianza e della fraternità è spesso diffusa attraverso le forme e i canali della cultura popolare, e nella mentalità popolare gli sconvolgimenti e le convulsioni della rivolu­ zione «fanno risvegliare un panico antico, paure collettive, brusii e fantasmi». In questo contesto trova un terreno fertile sia l’idea della democrazia diretta, in antagonismo con il sistema di rap­ presentanza, sia l’idea del complotto. L’idea di democrazia ereditata da Rousseau viene a escludere ben presto, nelle sviluppo della rivoluzione, una politica di rappresentanza e di conciliazioni degli interessi, per privilegiare la forma astratta dell’uguaglianza, che se ha il merito di distruggere la struttura gerarchica e corporativa dell’ancien régime, ha pure, come contropartita, una difficoltà quasi congenita a riconoscere una qualsiasi legittimità al dissenso. Le mino­ ranze o i dissenzienti in generale vengono considerati osta­ coli che si interpongono al dispiegarsi della «volontà ge­ nerale». La politica rivoluzionaria sembra quindi autoriz­ zare, se non addirittura provocare, fin dall’inizio, la pro­ scrizione delle opposizioni, considerate come «fazioni», co­ me nemici, complottatoti contro la rivoluzione e contro la nazione. In questo senso i giacobini sono i portatori dell’ossessione dell’unanimità, della virtù, della trasparenza e della denuncia dei «traditori». Per questo i giacobini di­ vennero degli straordinari interpreti e manipolatori della teoria del complotto, con l’«angoscia persecutoria» tipica dei rivoluzionari fanatici. Data la rapidità della transizione dal ristretto sistema po­ litico dell 'ancien régime all’espansione (apparentemente il­ limitata) della partecipazione politica generata dalle aspet­

tative rivoluzionarie, e date le caratteristiche della cultura politica, in Francia mancava qualsiasi familiarità con i re­ troscena della politica corrente, con la pratica dei sistemi clientelari e con la funzione dei gruppi di interesse. L’at­ tività di fazioni o di gruppi divenne ben presto sinonimo di cospirazione. Gli «interessi» particolari apparvero come un attentato alla volontà generale e un tradimento dell’uni­ tà della nazione. Il discorso politico rivoluzionario e quindi l’ideologia si strutturarono intorno alle nozioni di traspa­ renza, pubblicità, vigilanza e infine terrore. Il vero patriota non poteva avere nulla da nascondere nel club come nelle assemblee. La pubblicità della politica rendeva fin dall’ini­ zio possibile e necessaria la vigilanza dei guardiani della rivoluzione. La vigilanza divenne un atto virtuoso, così co­ me la delazione e il sospetto. All’idea di complotto come strumento di mobilitazione politica ricorrono sia i girondini che i giacobini, trovando sempre larga disposizione d’animo nelle masse popolari. Saranno, però, i giacobini, sentinelle della democrazia di­ retta e dell’incorruttibilità della volontà generale, a provo­ care l’intervento del «popolo» contro i suoi rappresentanti e contro i «traditori» della rivoluzione. I giacobini rappre­ sentano la funzione rivoluzionaria del popolo e la virtù, da essi incarnata, autorizza la loro funzione epuratrice, mi­ rante a liberare il popolo sovrano dei suoi nemici nascosti e a ristabilire così l’unità minacciata. La democrazia gia­ cobina è unanimista e non pluralista. In essa si vota a voce o per alzata di mano, come nelle assemblee degli ateniesi. Il segreto si addice solo ai complottatori. L’unità esprime sempre la volontà del popolo e i rivoluzionari agiscono in nome del popolo contro i nemici della rivoluzione. La ri­ voluzione, a sua volta, è perennemente minacciata dal complotto aristocratico e dagli affamatori del popolo. Il clima di sospetto generale e sistematico va di pari passo con la costante sopravalutazione dei mezzi degli avversari

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della rivoluzione. Il umore del complotto è alimentato dall’idea della potenza del nemico che, tuttavia, il popolo deve tenere in scacco. «Un’idea - scrive Furet - che si ritrova allo stato grezzo nel popolino urbano, ma che non manca neppure in molti deputati, poiché affonda le sue radici nella nuova cultura politica: siccome la rivoluzione è quel rovesciamento grazie al quale il popolo si riappropria di un potere alienato al re e a Dio, l’Universo politico che essa inaugura è fatto unicamente di volontà, senza lasciar nulla fuori dal controllo degli uomini.» Lo spazio del nuo­ vo potere è interamente occupato dal popolo che con la rivoluzione ha riacquistato i suoi diritti imprescrittibili, la sua sovranità. Con questo e proprio per questo non cessa, tuttavia, di «essere minacciato da un antipotere astratto, onnipresente, fondamentale, come la nazione, ma nasco­ sto, mentre essa è pubblica, particolare, mentre essa è uni­ versale, nefasto, mentre essa è buona: il suo negativo, il suo inverso, la sua antitesi. Questo discorso immaginario della società sul potere fa del complotto aristocratico un elemento centrale della mentalità rivoluzionaria: è di una plasticità quasi infinita, può interpretare qualunque circo­ stanza e si nutre principalmente delle ambiguità e dell’at­ teggiamento del re».7 Furet coglie con acutezza le radici di quella che con Popper potremo definire la «teoria sociale del complotto» quando, appunto, parla del popolo che si riappropria del potere alie­ nato al re e a Dio. Per il filosofo austriaco —come si è visto — la teoria sociale della cospirazione nasce nella sua forma moderna dalla secolarizzazione delle superstizioni religiose.

L’immaginario rivoluzionario fa sì che l’azione rispecchi certi conflitti di valori, come quelli, per esempio, che agi­ scono nelle guerre di religione. Solo che nell’ideologia ri­

voluzionaria, il processo in un certo senso si laicizza, in quanto il mondo dei valori si esaurisce nell’azione. L’ideo­ logia diviene la spiegazione semplificata dei moli e delle ingiustizie. I credenti nell’ideologia proiettano la loro ag­ gressività sul «nemico», l’alienano in lui e poi lo combat­ tono. L’ideologia è una concezione semplificata e binaria, basata sull’esistenza di un unico rapporto amico-nemico. In forza di questa trasposizione l’immaginario diventa il principio produttore e organizzazione della realtà. Per que­ sto nasce l’idea, semplice e terribile, che la rivoluzione non conosce ostacoli obiettivi, ma solo avversari. L’accettazione 0 il rifiuto del «credo», della «fede» rivoluzionaria, separa 1 buoni e i cattivi. L’idea centrale di questo credo — scrive Furet - è natural­ mente l’uguaglianza vissuta come l’opposto dell’antica so­ cietà e concepita come scopo e condizione del nuovo patto sociale. Quest’idea tuttavia non produce direttamente l’energia rivoluzionaria, che passa attraverso un relais ad essa strettamente abbinato, giacché è il principio contrario che dà origine al conflitto e giustifica la violenza: il com­ plotto aristocratico. L’idea del complotto è particolarmente adatta a sedurre una sensibilità morale a sfondo religioso come quella con­ tadina e popolare e una mentalità abituata a concepire il male come il prodotto di forze occulte. L’idea del com­ plotto, però, è anche funzionale ai ceti acculturati urbani, influenzati dalla nuova coscienza democratica secondo cui la volontà generale, o nazionale, non può essere contrastata che da interessi particolari e quindi illegittimi: «Il com­ plotto è, insomma, per la rivoluzione il solo avversario a sua esatta misura, perché è tagliato sul suo modello: è esat­ to, onnipresente, matricale com’essa, ma occulto, mentre essa è pubblica; perverso, mentre essa è buona; nefasto, mentre essa porta la felicità sociale; è il suo negativo, il suo opposto, il suo antiprincipio».8

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I contadini della grande paura corrono alle armi contro il complotto dei briganti, i parigini prendono la Bastiglia e successivamente il castello di Versailles per difendersi dal complotto di corte, i deputati legittimano le sollevazioni popolari e la caccia alle streghe invocando appunto la lun­ gimiranza del buon popolo che ha svelato i complotti. L’idea del complotto diventa essenziale nell’economia del processo rivoluzionario quando il vuoto di potere, con la crisi o il tracollo dal vecchio regime, viene colmato dall’ideologia dell’idea pura, il «popolo», la «nazione» di­ venuto potere, o il potere divenuto popolo. «Al pari della volontà del popolo — scrive Furet — il complotto è un delirio sul potere». Le due cose insieme costituiscono le due facce dell’immaginario democratico del potere. L’idea del complotto ha una funzione coagulante e mobilitante del processo rivoluzionario. Anche quando i suoi avversari sono molto deboli, poco organizzati e addirittura impo­ tenti, la rivoluzione s’inventa dei nemici formidabili che complottano contro di lei (preti, monache, detenuti co­ muni). Gli ostacoli, anche oggettivi, che impediscono il raggiun­ gimento dell’uguaglianza, non come valore, ma come con­ dizione della società, diventano incarnazioni sempre risor­ genti degli antivalori. In questo senso la dinamica creatasi nell’89 è la stessa che porta alla dittatura del Comitato di salute pubblica nel ’93 e fino alla caduta di Robespierre. Sia per i girondini, come, poi, per i giacobini la lotta con­ tro il complotto aristocratico diventa il mezzo per conqui­ stare e conservare il potere. La rivoluzione — ha scritto Furet —non sfugge alla strumentalizzazione del complotto aristocratico ogni volta che il potere rivoluzionario ha bi­ sogno di consolidare le proprie basi. «Questo slittamento dall’ideologia alla manipolazione è insito nella natura del potere rivoluzionario, costituito e legittimato dall’opinione, sebbene non esistano regole d’espressione di tale opinione.»

Il regno di Robespierre, cosi come il regno del terrore, si costituisce all’interno di questa ambiguità. L’avvocato di Arras, sempre presente nel punto strategico in cui la parola della piazza e dei club non coincide con quella dell’Assemblea, trasforma le inevitabili impasse della democrazia di­ retta nel predominio del suo gruppo. Al contrario di Danton, altro abile manipolatore del verbo rivoluzionario, Ro­ bespierre ignora l’uso del doppio registro della «politica». Danton è trasformista, mentre Robespierre è un profeta che crede in tutto quello che dice e che esprime tutto quello che dice nel linguaggio della rivoluzione: nessun altro ha interiorizzato come lui la codificazione ideologica del fenomeno rivoluzionario. Approvando la cacciata dei girondini dalla Convenzione del 31 maggio-2 giugno 1793, l’idolo dei giacobini fonda il suo regno sulla disfatta del principio rappresentativo. Il rapporto di Robespierre con il terrore non è di carattere psicologico. Ciò che ali­ menta la ghigliottina è la sua predicazione sui buoni e sui cattivi; è il tremendo potere d’incarnare il popolo confe­ ritogli da quella predicazione che riempie le prigioni di nemici del popolo. In questo senso la sua consacrazione, la festa dell’Essere supremo, non è solo il tentativo di dare una base ultraterrena e religiosa come fondamento per la pratica di quelle virtù che dovevano garantire la compat­ tezza e la coesione della compagine sociale, ma assolve le stesse funzioni della ghigliottina. Il discorso sull’uguaglian­ za e la virtù che dà senso all’azione della piazza, trova una sua conferma nella morte dei colpevoli. La «piazza» è a sua volta la destinataria e, nello stesso tempo, la propagatrice dell’idea del complotto ed è parte costitutiva e fon­ dante dello scatenamento e della giustificazione del terrore. Quella del complotto è un’idea inquietante e rassicurante nello stesso tempo. Inquietante perché diffonde uno stato di insicurezza che diviene collettivo e sconfina nel panico. Rassicurante perché spiega in modo semplice, anzi sempli­

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cistico, quel che invece può essere complesso, difficile o doloroso da capire. Per le élite rivoluzionarie la congiura cosutuisce l’elemento razionale per spiegare la crisi e per giustificare i mezzi eccezionali che intende impiegare, sia nella fase di mobilitazione prerivoluzionaria sia quando di­ ventano stato. Al mito del complotto si associano altre componenti mitiche nell’economia dell’ideologia rivoluzio­ naria e deU’immaginario collettivo: a) il mito del Salvatore che può essere un capo carismatico, un leader ma anche un’idea: l’idea stessa della rivoluzione; b) il mito della nuova età dell’oro, dischiusa dalla rivolu­ zione redentrice. I giacobini giunsero per primi a impiegare le «politiche di allarme sociale» allo scopo di sopperire al proprio deficit di legittimazione con uno sfruttamento intensivo della «na­ tura sentimentale delle masse». Naturalmente l’allarmismo aveva, come ha mostrato Lefebvre, dei notevoli precedenti.9 In Francia una delle spinte alla rivolta dei contadini fu proprio l’idea o la paura di un «complotto» aristocratico per affamarli. Poi la sindrome del complotto compare sem­ pre più spesso nelle fasi critiche della rivoluzione. Prende forma nell’inverno fra il 1788 e il 1789; con qualche va­ riante è alle origini delle reazioni popolari del giugno-ago­ sto 1789 sia nella città (joum ée du 14 ju illet), sia nelle campagne {la Grande Peur); si ripresenta nelle giornate del 5 e 6 ottobre, poi in quella del 1 luglio del 1791, dopo la fuga del re. Con la dichiarazione di guerra, la teoria del complot de l’étranger prende il posto del complot aristocratique e lo in­ globa. La teoria del complotto si lega sempre di più agli sviluppi politici della rivoluzione e si manifesta sempre più come parte organica delle agitazioni popolari urbane, anzi parigine. Con l’ascesa dei giacobini, viene impiegata a uso della politica del giacobinismo al potere. La teoria del complotto entra dunque in scena in diverse

fasi critiche del processo rivoluzionario: a) in funzione di legittimazione e di destabilizzazione dell’antico regime che si vuol rovesciare, ponendo progressivamente in discussione le sue istituzioni e i suoi simboli; b) in funzione di mo­ bilitazione collettiva in vista di una guerra di aggressione; c) una volta che i portatori dell’ideologia rivoluzionaria siano giunti al potere, per chiedere una legislazione ecce­ zionale e giustificare l’eliminazione su larga scala e con l’impiego di qualsiasi mezzo di tutte le opposizioni. Quan­ do ormai i giacobini sono al potere e le difficoltà di ge­ stione della guerra, della macchina statale e dell’economia si fanno sempre più evidenti, vengono gettati in ballo « tous les complots contre-révolutionnaire: fédéraliste, royalisme, moderatisme, indifférence». La volontà punitiva raggiunge il suo culmine con la famigerata legge sui sospetti (17 set­ tembre 1793) che spianerà la strada all’uso amministrativo del terrore. J.P. M arat: la teoria del complotto e le tecniche della politica moderna Tra i protagonisti della rivoluzione francese, quello che fe­ ce l’uso più spregiudicato e ossessivo — ma anche giorna­ listicamente e politicamente più efficace — della denuncia sistematica del complotto come elemento di mobilitazione fu Jean Paul Marat. Poco amato ma utile ai grandi mat­ tatori della rivoluzione, da Robespierre a Danton, con «L’Ami du Peuple» svolse un ruolo molto più determinante di quanto la storiografia filogiacobina abbia mai voluto ammettere. Tutte le svolte più cruente e politicamente trau­ matiche della rivoluzione lo videro come protagonista: dal­ la notte del 4 agosto 1789 alle giornate dell’ottobre dello stesso anno, a quelle del 10 agosto del 1792 e ai massacri del settembre dello stesso anno e poi alla offensiva contro i girondini culminata nella giornata del 31 maggio del

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1793. Intervenendo con opuscoli e con il suo giornale nelle vicende rivoluzionarie, impresse svolte decisive al loro corso proprio agitando come spauracchio minaccioso e ossessivo, ma anche altamente mobilitante, l’idea del complotto, raf­ figurato via via nella corte, nel re, in Necker, in Bailly, in La Fayette, in Mirabeau, in Barnave e sempre negli istituti rappresentativi legittimi, dall’Assemblea costituente alla le­ gislativa al comune, nell’esecutivo, e in tutte le forze e gli uomini che tentarono di assestare e frenare il processo ri­ voluzionario. Marat si considerava un genio incompreso poiché i suoi esperimenti di fisica non erano stati presi in considerazione dall’Accademia delle Scienze e vedeva nella politica un mezzo di riscatto: «Verso il periodo rivoluzionario - scrive nei suoi Mémoires - esasperato dalle persecuzioni che su­ bivo da tanto tempo dall’Accademia delle Scienze, afferrai con slancio l’occasione che mi si presentava di respingere i miei oppressori e di occupare il mio posto». Prima di trovare il suo molo nei giorni della rivoluzione Marat aveva atteso, ribollendo di odio contro tutti coloro che in qualche modo erano al potere e dominavano la società e la repubblica delle lettere. Per lui tutti i potenti erano corrotti e svelare i vizi dei grandi divenne uno dei cardini del suo modo di fere politica e di fare giornalismo. Marat, medico senza ammalati e scrittore senza successo, si riteneva superiore a Newton e a Lavoisier, e osò sostenere al momento dei suoi trionfi, nel gennaio 1793, che, prima della rivoluzione aveva «esaurito quasi tutte le combina­ zioni dello spirito umano nella morale, la filosofia e la politica per coglierne i migliori risultati». Nella sua mega­ lomania riassumeva bene le ambizioni di molti aspirano in­ tellettuali, che invano avevano bussato alla porta degli aristo­ cratici che dominavano la repubblica delle lettere e dei begli spiriti che monopolizzavano i salotti e le accademie. Tormentato da eczemi e da una eterna emicrania, scriveva

i suoi articoli a mollo in una tinozza piena d’acqua e d’ace­ to. Il suo bagaglio politico, prima di cristallizzarsi nella teoria del complotto, era quello tipico di derivazione rousseauiana. Rousseauiani erano i temi ricorrenti nelle sue opere politiche: la sovranità popolare, il carattere mera­ mente tecnico della delega ai rappresentanti, il mandato imperativo, il diritto di resistenza alle leggi ingiuste e ai mandatari infedeli, il tema della volontà generale e della virtù, chiave di volta e garanzia dell’intera struttura politica democratica per quanto categoria ineffabile e indefinita a volte venata di demagogia populistica e nazionalistica. Marat derivava da tutto questo la tesi della legittimità dell’azione diretta delle masse popolari sulle quali nessun potere dovevano avere i mandatari. Nello stesso tempo considerava le masse popolari apatiche, vili e cieche, e per­ ciò bisognose di sentinelle che vegliassero per loro sulla rivoluzione contro i traditori. Marat si considerava l’occhio e la voce del popolo. La sua convinzione fondamentale era quella dell’identità dell’azione e della parola, quando è la parola del giornalista che forma l’opinione e mobilita le masse apatiche e ignoranti. Per questo il ruolo di Marat — come ha scritto Mona Ozouf - si identifica totalmente con il suo giornale, al punto che la sua vita durante la rivoluzione si confonde con quella dell’«Ami du Peuple». Il suo era un giornale militante e di denuncia, pieno di «atroci misteri svelati», «di trame infernali scongiurate», «di complotti ai danni del popolo», di pronostici catastrofici e di violente accuse contro i detentori del potere, non im­ porta chi essi fossero. Attraverso queste «rivelazioni» sensazionali, Marat comu­ nicava con l’immaginazione popolare e attivava la comu­ nicazione emotiva. È Marat a predire la fuga del re, la diserzione di La Fayette, la corruzione di Mirabeau, il tra­ dimento di Dumouriez. Delle mille predizioni, alcune si avverano e Marat punta su quelle per rilanciare e denun-

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dare nuovi complotti contro la rivoluzione. I complottatori per Marat non sono uomini ma ombre di cui servirsi per sottolineare, per costrasto, la purezza e l’integrità del suo discorso. Il rimedio contro i complotti è la purga. Reclama ossessivamente «seicento teste», poche gocce di sangue per evitarne fiumi, oppure «duecentomila», diffondendo una logica sacrificale, che contrabbanda la violenza come ne­ cessità. Marat si offre come vittima predestinata, anzi va­ ticina a più riprese il suo stesso assassinio. In questo senso «L’Ami du Peuple» non diffonde solo la filosofìa del com­ plotto, inseparabile dal giacobinismo, ma inventa il lin­ guaggio del Terrore, con l’ossessione della trasparenza. Di Rousseau condivide il moralismo, l’idea della necessità dell’aggregazione etica dei cittadini, dei virtuosi e degli onesti in una sorta di stato etico e spartano, dove sarà impedito ai piccoli produttori, base della nuova società, di accumulare ricchezze, mantenendo la virtù anche con la forza. Marat fu uno dei primi a teorizzare la dittatura (luglio 1791) e a proporsi come dittatore. Lui che, come ebbe a scrivere nell'Autodifesa, si considerava «il solo scrittore dopo J.J. Rousseau al di sopra di ogni sospetto», non mostrò mai rispetto per la democrazia rappresentativa. Secondo lo storico Mathiez, Marat conosceva bene i vizi del sistema rappresentativo inglese, ma la questione è più profonda. Al di là dell’influenza del pensiero di Rousseau, il gior­ nalismo militante di Marat e la sua mania di persecuzione non potevano non correlarsi alla pratica della democrazia diretta, nella quale poteva svolgere un molo di protago­ nismo politico simile a quello che si praticava nei club rivoluzionari e nelle società popolari. Certo è che Marat, nella sua lucida paranoia, era abilissimo nell’uso politico dei mezzi di informazione e il suo successo andava ben oltre le 2000 copie di tiratura dell’«Ami du Peuple». L’in­ fluenza di Marat sul «popolo minuto» parigino e sui mi­

litanti rivoluzionari a tempo pieno è stata superiore a quella di qualsiasi altro leader rivoluzionario, persino di Robe­ spierre, che riconosceva apertamente la «prodigiosa influen­ za» del suo giornale. Troppo caro per le tasche del popo­ lino, «L’Ami du Peuple» aveva però un pubblico di massa grazie alle letture pubbliche nei club, nelle assemblee di sezione, nei caffè e nel giardino del Palais Royal, dove Marat godeva anche della protezione del duca d’Orléans. Il quotidiano si stampava vicino alla casa di Marat, in Cour du Commerce, e di fronte alla tipografia si apriva il Procope, il caffè di Danton, di Legendre, di Fabre d’Eglantine, di Hebert, altro predicatore di sangue dalle colonne del suo «Pére Duchesne», amico rivale di Marat. Un luogo strategico e un giornale chiave per capire i movimenti delle folle parigine. Con «L’Ami du Peuple» Marat realizzò la più compiuta e moderna concezione del giornale come strumento di azio­ ne e mobilitazione rivoluzionaria, pronto a individuare i soggetti sociali da mobilitare e da coinvolgere a seconda della contingenza politica e della congiuntura economica. Marat parla in nome degli esclusi, dei «cittadini passivi», del menu peuple, colpito dalla crisi economica e dalla di­ soccupazione ed escluso dal sistema elettorale censitario della costituzione del 1791, apre il suo giornale alle pro­ teste e alle denunce del popolo, incita i cittadini alla sor­ veglianza, alla ribellione, alla delazione. Non ci sono leggi da rispettare, rappresentanti che non siano corrotti, governi che non complottino contro il popolo. Marat era perfet­ tamente consapevole della funzione del giornale. «Vi sono stati ben pochi grandi avvenimenti dopo la presa della Ba­ stiglia — scrive nel maggio del 1791 — che io non abbia preparato, e quanti ne ho provocati da solo?» Il giornalismo come strumento di azione rivoluzionaria fu elaborato da Marat e da lui perfezionato in chiave tecnica ed espressiva. Egli comprese più di tutti l’efficacia simbolica

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del «discorso persuasivo» e della «comunicazione emotiva». Scelse consapevolmente un linguaggio triviale e a volte osceno per coinvolgere i militanti e colpire la sensibilità popolare. Così come scelse il tema del complotto perché funzionale al giornalismo di denuncia e alle paure più re­ condite della mentalità collettiva. Se Robespierre, per esempio, si mantenne sempre perso­ nalmente lontano dall’azione e dal contatto diretto con la folla, Marat fu spesso l’ispiratore e il provocatore, se non l’animatore, dell’azione diretta di massa, anche se poi a sfruttarla politicamente fu proprio Robespierre. Marat non era un capopopolo e il suo ruolo nelle giornate della presa della Bastiglia o in quelle dell’ottobre del 1789 fu assai più marginale di quanto lui stesso amasse far credere: era es­ senzialmente un giornalista convinto di dover usare la pen­ na come una spada, ma conosceva le aspirazioni e le pas­ sioni del popolo assai più di Robespierre. Sapeva che la gente era «disposta a credere a ciò che voleva credere», che le folle credevano per generosità, ma anche per convenienza, per stupidità ma anche per furbizia. Sa­ peva che la gente cercava certezze che potessero esaltare lo spirito e soddisfare le proprie tensioni religiose, ma anche riempire la pancia. Marat e Robespierre erano molto diversi, ma ci fu come una divisione dei moli nel loro impegno politico fra azione violenta e illegale e azione legale. Nel loro incontro tra la fine del 1791 e gli inizi del 1792 Robespierre e Marat compresero perfettamente le loro caratteristiche e le loro diversità. Marat dall’incontro trasse la convinzione che Robespierre era un «saggio legislatore» e non un uomo d’azione. Ro­ bespierre non aveva «l’audacia dello statista», che magari, invece, possedeva Danton. Tuttavia Marat non attaccò mai Robespierre e anzi tutta la sua azione di sobillazione di massa fu funzionale all’azione politica dell’«Incorruttibile»,

anche lui ossessionato dall’idea della trasparenza e convinto di poter incarnare la volontà generale e le virtù, e quindi di poter agire in nome del popolo contro i nemici della rivoluzione. Marat non aveva gli scrupoli giuridico-formali di Robespierre, ma la loro azione fu politicamente com­ plementare. Quando Marat disse al leader giacobino che, se dopo il massacro di Campo di Marte avesse potuto trovare duemila uomini armati della sua rabbia, avrebbe «scannato il generale» La Fayette in mezzo alla sua corte, bruciato «il despota nel suo palazzo» e inchiodato i depu­ tati dell’Assemblea legislativa nei loro seggi, Robespierre impallidì ma non osò dire nulla. Si trattava solo di coor­ dinare i diversi moli. Lo stesso Camille Desmoulins, grande amico di Marat, con il quale si era trovato fianco a fianco nelle battaglie politiche e giornalistiche contro i «traditori», si impressionò della disinvoltura con cui egli denunciava complotti e com­ plottatoti senza preoccuparsi di avere uno straccio di prova, ma alla fine abbracciò anche lui la stessa logica. «Per cre­ dere a un complotto - scrisse Marat a Desmoulins —voi avete bisogno di prove giuridiche: a me basta l’andamento della situazione generale, le relazioni dei nemici della li­ bertà, gli andirivieni di certi agenti del potere.» Per sma­ scherare i traditori e per giudicare gli uomini non c’era alcun bisogno «di fatti positivi, chiari, precisi», a Marat bastava «la loro inazione o il loro silenzio nelle grandi oc­ casioni».10 E Desmoulins comprese molto bene la lezione, tanto che il 19 maggio del 1793 nel famigerato pamphlet contro Brissot potè scrivere marattianamente che «in ma­ teria di cospirazione [era] assurdo chiedere fatti dimo­ strativi». Per questo Marat, per molti versi solitario nelle sue osses­ sioni, incarnò esemplarmente i momenti chiave dell’azione rivoluzionaria e fu anche la figura più emblematica di quel tipo di giornalismo al servizio del popolo, incarnazione del

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nuovo e decisivo potere emerso dalla rivoluzione e cioè il potere dell’opinione pubblica e delle minoranze attive. Nel­ lo stesso tempo, si fece portavoce delle paure più profonde e ancestrali dell’immaginario collettivo: la carestia, il pane avvelenato e naturalmente, quale sintesi più espressiva ed emblematica, il complotto. In generale solo con il monopolio del controllo della stam­ pa e dei mezzi di informazione e di propaganda, la teoria del complotto può giovare a chi detiene il potere. I giron­ dini, che pure avevano la maggioranza nella Convenzione, tentarono di usare la teoria del complotto per delegittimare i loro avversari e per appagare il bisogno di capri espiatori delle masse, affamate e impaurite. In un clima di diffidenza e sospetto generale, l’accusa di tradimento e di complotto era diventata un potente mezzo di lotta politica. L’insur­ rezione della Vandea ffi considerata un grande complotto alimentato dagli inglesi, parte di quello ancora più grande degli austriaci e dei prussiani, che con le loro truppe ave­ vano occupato, fra la primavera e l’estate del ’93, Condé, Valenciennes e Magonza. Fu quello il periodo più critico della repubblica con una situazione interna catastrofica, perché, oltre la Vandea, gli insorti monarchici erano pa­ droni di Lione, Marsiglia e Tolone, e le sezioni parigine erano in rivolta contro la Convenzione. Crebbe, allora, quella sindrome dell’accerchiamento che aprì la via alla ulteriore radicalizzazione giacobina della rivoluzione. I montagnardi con la grande mediazione di Robespierre, che si poneva sempre nel punto strategico per l’utilizzo combinato della legalità e della violenza, capirono che per eliminare i girondini dovevano appoggiarsi alla piazza e agli attivisti delle sezioni parigine. Fu il tradimento di Dumouriez, considerato il generale dei girondini, a scatenare le lotte intestine e a spingere gli stessi girondini a usare in chiave difensiva l’arma del complotto, accusando Danton di aver complottato con il generale traditore per ristabilire

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la monarchia. Questa imprudenza portò a rinsaldare il triunvirato Robespierre-Danton-Marat e a conferire ai montagnardi il monopolio della piazza. Sotto la presidenza di Marat il club dei giacobini nell’aprile del 1793 lanciò ai militanti un ordine di mobilitazione contro Brissot e i girondini, accusati da Robespierre di essere complici, con il tradimento di Dumouriez, del com­ plotto monarchico. «Si, fratelli e amici, —disse Marat —la controrivoluzione è nel governo, nella Convenzione nazio­ nale! Sorgiamo! Sì, sorgiamo tutti quanti! Arrestiamo tutti i nemici della nostra Rivoluzione e tutte le persone sospet­ te. Sterminiamo senza pietà tutti i cospiratori se non vo­ gliamo essere sterminati noi stessi.» Ancora una volta Marat era l’interprete — come scrisse Thiers —di un pensiero atroce, «un pensiero che le rivoluzioni ripetono ogni giorno a se stesse, a mano a mano che i pericoli si accrescono, ma che non si confessano mai, la distruzione di tutti i loro avversari». Il 5 aprile del 1793 si creò il Comitato di Salute pubblica da cui partirono una serie di provvedimenti eccezionali: il disarmo dei sospetti; la legge che considerava civilmente morti gli emigrati; la fine della libertà di stampa (29 mar­ zo); la soppressione delle immunità dei deputati (1 aprile); l’ampliamento dei poteri del tribunale rivoluzionario per giudicare i crimini di cospirazione su semplice denuncia o sospetto dell’autorità costituita (5 aprile); la creazione dei commissari alle armate (9 aprile) muniti di poteri straor­ dinari; la pena di morte contro chiunque avesse proposto di negoziare o trattare con qualsiasi potenza che non avesse riconosciuto la repubblica (13 aprile). Quest’ultimo prov­ vedimento, come si accorgerà a sue spese Danton, rendeva di fatto impossibile praticare i canali diplomatici per fer­ mare la guerra. La politica liberista dei girondini alimentava l’aumento dei prezzi e questo bastava a fare di loro i colpevoli di tradì-

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mento di una rivoluzione che aveva promesso la felicità del popolo. I provvedimenti terroristici varati dalla Con­ venzione non potevano risolvere la questione del potere, dal momento che questo era espresso, ormai, da chi con­ trollava la piazza. La giornata del 2 giugno 1793, metodi­ camente preparata, fu la più imponente di tutte le giornate (80 mila persone) e fu un vero complotto organizzato da un «comitato dei sei» con l’appoggio di una parte delle sezioni. Dopo aver a lungo denunciato complotti, perlopiù inventati, i girondini, legittimi rappresentanti della mag­ gioranza parlamentare, furono decapitati da un complotto vero, i cui organizzatori, espressione del potere della piazza e dei sanculotti, si proclamarono salvatori della rivoluzione. La giornata del 2 giugno, quando l’assemblea fu circondata e passivamente assistette all’arresto dei suoi membri, segnò la fine del parlamentarismo e del sistema rappresentativo. Accettando che il potere rappresentativo fosse violato, la Convenzione rinnegava la propria legittimità e subiva il potere diretto del popolo, della piazza, spianando la strada alla dittatura di Robespierre e del Comitato di Salute pub­ blica. Il Comitato di Salute pubblica per mantenere il potere dovette cavalcare la piazza e gestire una politica combinata di terrore e di economia regolata fino alla giornata del 5 settembre, quando l’ossessione dell’epurazione e del com­ plotto giunse al suo culmine e i militanti delle sezioni co­ strinsero l’Assemblea a mettere «il terrore all’ordine del giorno». D a quel momento il terrore divenne un metodo di governo. La struttura amministrativa vedeva al vertice due comitati con compiti di sorveglianza e polizia e alla base una rete di comitati rivoluzionari locali, incaricati di scoprire e arrestare i «sospetti» e di rilasciare certificati di civismo. Dal vertice alla base di questa sorta di partito-stato partivano gli impulsi che producevano una marea di so­ spetti e di denunce. I sospetti erano giudicati da corti stra­

ordinarie. La principale, a Parigi, era il tribunale rivoluzio­ nario, naturalmente sottoposto al potere politico. I processi erano sommari, la difesa impedita e limitata. I giudici do­ vevano «esprimersi ad alta voce». D a Parigi il terrore faceva sentire il suo pugno di ferro nelle province e nell’esercito attraverso «l’armata rivoluzio­ naria», grande serbatoio di attivisti del terrore e del sospetto al comando di sanculotti e delle sezioni parigine. Ed anche in provincia sorsero le «commissioni straordinarie» che giu­ dicavano senza appello fino a quando, nell’aprile del 1794, il tribunale rivoluzionario di Parigi avocò a sé tutti i pro­ cessi. Con la terribile legge del 22 pratile 1794 (10 giugno) si giunse al culmine della macchina amministrativa del ter­ rore e all’istituzionalizzazione del terrore giudiziario con il compito deliberato di colpire «i nemici del popolo». Con questa legge si soppresse ristruttoria, si elevò a prova de­ finitiva il solo sospetto, e la sola denuncia; si negò all’ac­ cusato l’assitenza di un avvocato; si trasformò l’udienza in una pura formalità, sopprimendo anche l’escussione dei testimoni. Robespierre dichiarò che la severità della legge era «temibile solo per i cospiratori, per i nemici della li­ bertà». In questo clima il meccanismo del terrore giudiziario ri­ schiò di incepparsi per lo squilibrio fra il sovraffollamento delle prigioni, riempite fino all’impossibile di sospetti, e il ritmo dei processi e delle esecuzioni capitali; quasi sette­ cento processi in pratile, e quasi mille in messidoro, con decine e decine di esecuzioni ogni giorno. Nelle sole pri­ gioni parigine al principio di termidoro si contavano oltre ottomila «sospetti». Per far fronte alla situazione si arrivò all’invenzione diabolica delle supposte cospirazioni nelle carceri che consentivano di riunire un gran numero di pri­ gionieri sotto il medesimo falso capo d’accusa. Questo uso del supposto complotto delle carceri fu messo a punto nell’antico carcere parigino del Bicètre e quindi esteso a

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tutti gli altri luoghi di detenzione, il Luxe^bourg, il Plessis, il Saint-Lazare, i Carm é^, conventi o monasteri trasfor­ mati in prigioni. Barére sostenne che con questa tecnica in due mesi «le prigioni sarebbero state svuotate». Con questa procedura in soli tre giorni 146 prigionieri del Luxej4bourg, e fra questi intere famiglie, padri, madri e figli, finirono sul patibolo. Il terrore raggiunse il culmine quando ormai i nemici ester­ ni e interni erano battuti, a dimostrazione della valenza prevalentemente ideologica della sua funzione, legata all’ansia di rigenerazione di Robespierre e alle pulsioni re­ ligiose delle masse. L’ideologia apparentava la rivoluzione a una forma secolarizzata di religione, sottoposta però senza tregua alle resistenze della realtà, come una promessa reli­ giosa che avesse affidato la sua verità alla prova empirica dei fatti. D i qui l’idea di rigenerazione, necessaria per col­ mare lo scarto che continuava a separare la rivoluzione dalla sua promessa di emancipazione universale. Se la repubblica dei «liberi e uguali» non era ancora pos­ sibile, ciò era dovuto al fatto che gli uomini, pervertiti dalla storia passata e dai privilegi, erano malvagi e com­ plottavano incessantemente contro di essa. L’universo ri­ voluzionario, come ha scritto Furet, era un universo po­ polato di volontà, animato dal conflitto fra le buone in­ tenzioni e i disegni nefasti. Ogni individuo poteva fere proprio il compito di ricreare il mondo umano. Perciò, se la rivoluzione trovava ostacoli che impedivano il suo pro­ getto, li ascriveva alla perversità delle volontà ostili più che all’opacità delle cose. La potenza illimitata attribuita all’azione politica schiudeva un campo immenso alla radicalizzazione dei conflitti e al fanatismo militante. Il popolo, prendendo il posto del re, ne ereditava anche la visione assoluta del potere, senza preoccuparsi di regolare la «volontà generale» con meccanismi di neutralizzazione reciproca dei poteri. D ’altro canto, in un paese affetto da

una grave patologia inegualitaria come la Francia an­ cien régime, i rivoluzionari predicavano un egualitarismo fanatico. Dall’impasto perverso fra vecchio e nuovo, na­ scevano i dilemmi e le tragedie della politica democratica, quale la Francia avrebbe rimesso in eredità alla storia suc­ cessiva.

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1. F. Furet, C rìtica della Rivoluzione francese, cit., pp. 189-90, 2. A. de Tocqueville, LÌAntico Regim e e la rivoluzione, Einaudi, Torino 1989, pp. 230-3 T 3. F. Furet e M . Ozouf, D izio n ario critico della R ivoluzione francese, Bompiani, M i­ lano 1988, p. 703. 4. Ibidem . 5. Ibidem , p. 704. 6. B. Baczko, L ’U topia. Im m aginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’e tà delllllu m in ism o, Einaudi, Torino 1979. 7. H Furet e M . Ozouf, op. cit., p. 731. 8. F. Furet, C rìtica della R ivoluzione francese, cit., p. 53. 9. G . Lefbbvre, L a gran de p au ra d e l 1789, Einaudi, Torino 1989. 10. «LIAmi du Peuple», 5 maggio 1791.

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Il complotto massonico nella cultura cattolica da Barruel a Cochin

Il «mito del complotto» che, come si è visto, era stato una componente rilevante della mobilitazione rivoluzionaria di massa, sia dei contadini nell’estate dell’89, sia dei sanculotti parigini, venne catturato dalla destra e dalla cultura catto­ lica che tentava di organizzare una controffensiva ideolo­ gica. La rivoluzione, come opera diabolica e nello stesso tempo provvidenziale, volta a punire la Francia del suo disordine e del suo agnosticismo, fini per trovare la sua incarnazione nell’idea del «complotto massonico». La rivoluzione francese era apparsa subito come un evento inedito e sconvolgente. Nessuno dei conflitti e dei rivolgi­ menti precedenti, tranne le guerre di religione, aveva pre­ sentato il carattere di una lotta decisiva di un gruppo so­ ciale contro l’altro; nessuno aveva mirato a trasferire il peso del potere politico al popolo, nessuno aveva puntato a uno scardinamento completo delle basi del potere e della so­ cietà. Infine, nessuna rivoluzione, nemmeno quella ameri­ cana, sembrava mossa da una carica ideologica, da un prò-

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gramma di sovvertimento sociale apparentemente ispirato a un programma filosofico. D a qui l’idea semplice e vero­ simile che pochi uomini avessero tramato per il sovverti­ mento del trono e dell’altare. L’idea del complotto massonico giunse al grande pubblico con uno dei best-seller della pubblicistica reazionaria, i Mémoires pour servir à l ’historie du Jacobinisme dell’abate ed ex gesuita Augustin Barruel, pubblicati per la prima volta a Londra nel 1797. I Mémoires, tuttavia, non facevano che ordinare e amplificare la trama di un racconto che già prima di Barruel aveva avuto una sua specifica funzione nella cultura cattolica e nella lotta politica, e che si ricol­ legava all’accusa di cospirazione universale contro il trono e l’altare rivolta da taluni autori cattolici contro i paesi protestanti. Dopo il 14 luglio 1789 la polemica antimas­ sonica aveva assunto toni sempre più forti e la pubblicistica controrivoluzionaria aveva cominciato a insistere sul nesso causale tra philosophie, massoneria e rivoluzione. Contem­ poraneamente alla tesi del complotto aristocratico contro la rivoluzione, aveva preso corpo in Francia e nelle corti d’Europa dove si erano rifugiati gli emigrés, la tesi della cospirazione massonica e giacobina volta al sovvertimento politico e religioso. Gli scritti controrivoluzionari non mancavano mai di far riferimento alla cospirazione dei philosophes e dei massoni.1 Persino Edmund Burke, in un’opera destinata ad avere una grande eco in tutta Europa come le Reflections on thè Revolution in France (1790), aveva sostenuto che quello che era successo in un paese fra i più ricchi del continente non poteva che essere frutto di una macchinazione di gruppi socialmente irresponsabili come i letterati e i philosophes. La massoneria veniva sempre più additata come una società a scopo politico, tanto più pericolosa quanto più trovavano credito strane congetture, riguardanti la ripresa della leg­ genda dei Templari o le presunte collusioni fra i gesuiti e

gli alti gradi massonici. La polemica antimassonica degli ambienti clericali e degli emigrati assumeva sempre più il senso di una controffensiva ideologica contro i progressi della rivoluzione, specialmente sul terreno dell’abolizione dei diritti feudali e poi di quelli ecclesiastici. Non a caso una delle prime «prove» del complotto mas­ sonico alle origini della rivoluzione francese venne da Ro­ ma, con la decisione del Sant’Uffizio di rendere note le confessioni di Cagliostro, noto avventuriero, guaritore e alchimista, «Gran Coito» della massoneria di rito egizio. Cagliostro, alias Giuseppe Balsamo, nel suo girovagare per l’Europa, nel 1786 era stato implicato a Parigi nell’ affaire du collier, che aveva interrotto i suoi successi mondani e 10 aveva costretto a scappare a Londra. Qui aveva scritto una Lettre au peuple frangais, lettera aperta, divulgata con 11 sostegno della massoneria francese e della loggia parigina delle N euf Soeurs, che conteneva una vera e propria con­ danna dell’ ancien régime e della corte, e una sorta di inci­ tamento alla rivoluzione. Seguendo i desideri della moglie Lorenza e presumendo troppo nelle sue capacità mimetiche e nelle sue protezioni, nel maggio del 1789 Cagliostro si recò a Roma, vale a dire nella tana del lupo. Mentre gli eventi parigini scuotevano la chiesa, Cagliostro fu preso e incarcerato in Castel Sant’Angelo il 27 dicembre 1789. La deposizione e gli interrogatori deH’awenturiero siciliano davanti al delegato del tribunale del Sant’Uffizio durarono due mesi. Poi Cagliostro per evitare la pena di morte fu costretto ad abiurare e a confessare; fu quindi spedito nella terribile fortezza di San Leo, dove morì di un colpo apoplettico il 27 agosto 1795. Gli atti del pro­ cesso giacciono ancora nei recessi degli archivi vaticani, ma fin dal 1791, mentre in Francia esplodeva lo scisma a se­ guito della costituzione civile del clero, la Reverenda C a­ mera Apostolica diede alle stampe un Compendio della vita, e delle gesta di Giuseppe Balsamo, denominato Conte di Ca­

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gliostro che si è estratto dal processo contro di lui firm ato in Roma l’Anno 1790 e che può servire di scorta per conoscere l ’indole delia setta de’ liberi Muratori. Il punto chiave della confessione di Cagliostro consisteva nella rivelazione dei segreti dei maestri Templari. La massoneria della Stretta Osservanza, sotto lo specifico pretesto di vendicare la mor­ te del Gran maestro dei Templari, aveva come fine la di­ struzione totale della religione cattolica e della monarchia. Era la riprova che tutto quanto avveniva in Francia, dalla persecuzione dei preti più refrattari e dei sostenitori più fedeli della monarchia alla espropriazione dei beni eccle­ siastici e alla chiusura dei conventi nasceva dal complotto della massoneria ai danni del trono e dell’altare. Per valu­ tare pienamente l’importanza che il Sant’Uffizio conferiva alla testimonianza di Cagliostro occorre ricordare che con­ temporaneamente al Compendio, fu fatto pubblicare in francese il Testament de mori et declarations fiaites p ar Ca­ gliostro, de la secte des Illuminés, et se disant chef de la Loge Egyptienne, condamné a Rome, le 7 avrìl 1791, a urie prisonne perpetuelle cornute perturbateur du repos public (Parigi 1791, Bibliothèque Nationale, K 110192 bis). Nello stes­ so anno uscì a Parigi sempre a cura del Sant’Uffizio, una brochure dal titolo Jesuites, Francs-Macons, Cagliostro et les Illuminés dove si ripetevano le accuse alla massoneria e agli Illuminati già formulate da Cagliostro. La visione negativa che il papato da tempo coltivava nei riguardi della masso­ neria si trasformava così in un atto di accusa circostanziato e in un ottimo stmmento di propaganda. Dall’autorevole pulpito di Roma e grazie alle confessioni di un «pentito» conosciuto a livello internazionale per i suoi trascorsi massonici e per le sue condanne politiche dell’antico regime, veniva così confermata la voce del com­ plotto massonico, già diffusa in Francia e in Europa dal conte Ferrand {Les conspirateurs demasqués, 1790) e dall’abate Lefranc {Le voile levépour les curieux ou Les secrets

de la Revolution revelés avec l ’a ide de la Magonnerie, 1791), ma circolate, grazie agli articoli di Leopold Alois Hoffinan, anche alla corte di Vienna dove l’esperienza della setta paramassonica degli Illuminati di Baviera aveva costituito un precedente pericoloso e temibile. L’Ordine degli Illu­ minati di Baviera, a cui Barruel fece riferimento nei suoi Mémoires pour servir à l ’histoire du Jacobinisme, era stato fondato il primo maggio 1776 da Adam Weishaupt, un professore di diritto canonico dell’Università di Ingolstadt in Baviera. L’ordine era segreto e gerarchico sul modello dei gesuiti, e aveva per base una ideologia di ispirazione rousseauiana, mirante alla guida e al perfezionamento mo­ rale del genere umano contro ogni autorità religiosa e po­ litica. Nei Mémoires gli Illuminati, atei e comunisti, infiltrati nelle logge massoniche di mezza Europa per piegarle ai loro pia­ ni eversivi, diventavano gli ispiratori della rivoluzione. Abile polemista, Barruel praticava un modulo narrativo in­ centrato sulla mescolanza tra il gusto della rivelazione sen­ sazionale, lo sdegno pugnace del moralista e l’apparente serietà dello storico oggettivo, capace di allineare prove su prove, documenti su documenti. Un metodo da requisi­ toria basato su citazioni disinvolte e forzate tratte da libri e articoli che per Barruel diventavano prove di un com­ plotto premeditato. Questi caratteri decretarono la fortuna dell’opera, che divenne la bibbia della controrivoluzione, fu tradotta in nove lingue ed ebbe diverse edizioni. Un suo fortunato Abrégé ebbe ben cinque edizioni tra il 1799 e il 1801. Con l’atto di accusa dell’abate Barruel si creò il modello ideologico della teoria della cospirazione, costituito da schemi per lo più espliciti di teologia e filosofia della storia di taglio secolarizzato. La rivoluzione vi è presentata come una minaccia per la chiesa, per l’umanità, per la civiltà, per lo stato. La guerra civile di religione, lasciata alle spalle

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nell’età moderna, ritornava sulla scena della storia nella forma ideologizzata della «guerra civile mondiale». Contro le trame segrete, «sataniche», le potenze del bene erano impotenti fino al momento in cui le macchinazioni non venivano smascherate. La potenza del male cessava quando si veniva a conoscenza dei suoi piani e se ne svelavano le macchinazioni. Ignorando le molteplici cause dei processi di mutamento o minimizzandole, il pensiero reazionario, grazie alla teoria cospiratoria, riduceva le percezioni dissonanti per accor­ darle al modulo interpretativo tradizionale della lotta tra il bene e il male, e della contrapposizione fra «società na­ turale», fondata su princìpi eterni, e «società artificiale», fondata sui disegni astratti dei cospiratori. Uscita a Londra nel 1797, l’opera di Barruel non era altro che una fàcile «profezia del passato», utile in vista di quella restaurazione del cattolicesimo e dell’autorità monarchica che la cultura reazionaria si proponeva. Non a caso i Mémoires conobbero uno straordinario successo anche in Ger­ mania, fornendo un contributo di rilievo alla crescita di un romanticismo di stampo reazionario e divennero fonte di ispirazione per Karl Ludwig Haller che, nel 1816, con la sua Restauration der Stadts-Wissenshafi sarebbe diventato il maggior teorico della restaurazione. La cultura cattolica reazionaria dall’Ottocento fino ai nostri giorni ha continuato a ispirarsi a Barruel e alla sua teoria del complotto protestante-illuminista e massonico. Tutta­ via è a un autore cattolico francese, il sociologo-storico Augustin Cochin, influenzato da Durkheim e da Ostrogorski, che dobbiamo una penetrante analisi della teoria del complotto, inteso come machine e come apparato dell’ideologia giacobina.2 Cochin ritiene superficiale l’interpretazione storica della ri­ voluzione in termini di complotto. La sua attenzione si rivolge alla machine, cioè l’apparato dell’ideologia giacobi­

na. La teoria della manipolazione da parte della machine costituisce per Cochin il «secondo pilastro» della «socio­ logia del fenomeno democratico» che solo in termini vo­ lontaristici e rovesciando l’impostazione «antipsicologica» dell’autore potrebbe essere interpretato in termini di «com­ plotto» . Il «primo pilastro» della sua teoria, indispensabile per capire la machine, è la teoria della produzione del con­ senso attraverso un dibattito egualitario, che ignora le si­ tuazioni reali e tiene conto soltanto del rapporto degli in­ dividui col mondo dei fini.3 La chiave segreta del giaco­ binismo, che costituisce il culmine delle società di pensiero diventate partito, sta nella «macchina», celata all’ombra del «popolo». Per capire il giacobinismo bisogna entrare «nell’analisi del meccanismo mediante il quale alcune so­ cietà di eguali costruirono un’immaginaria realtà storica e la agirono, per così dire, attraverso piccoli gruppi di mili­ tanti specialisti di questa surrealtà». Attraversando le società e i loro mandatari ufficiali, la democrazia pura si estende dal potere intellettuale a quello politico, ed è appunto que­ sto movimento che, secondo Cochin, costituisce la rivolu­ zione francese. Nel 1793, al culmine del processo, sotto la funzione e in nome del popolo, il giacobinismo si sosti­ tuisce alla società civile e allo stato. «Attraverso la volontà generale, il popolo re coincide ormai sinteticamente col potere e questa convinzione è l’origine del totalitarismo.»4 Il giacobinismo per Cochin è la forma perfetta di un’or­ ganizzazione politica e sociale diffusasi in Francia nella se­ conda metà del X V I I I secolo, che egli chiama «società di pensiero» e di cui le società letterarie i circoli, le accademie, le logge massoniche, i club sono le espressioni storiche. Queste società di uomini uguali caratterizzate dal loro rap­ porto esclusivo con le idee sono la prefigurazione della democrazia e i laboratori dell’opinione filosofica. Ciò che caratterizza quest’ultima è il fatto di costituire un’organiz­ zazione e una forza in nome di valori e principi distruttivi

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della vecchia società. «Come ogni potere questa società non può essere del tutto pubblica e tanto meno può esserlo in quanto non si dichiara tale. Essa ha, pertanto, una forca occulta e i suoi circoli interni, e soprattutto ha le sue so­ cietà segrete come la massoneria, espressione tipica e ine­ vitabile di un potere che non si assume le sue coercizioni, e il cui ruolo consiste nel tessere le solidarietà e la disciplina di una gerarchia attraverso un reclutamento fondato suH’opinione.»5 In questo senso la massoneria riveste un’importanza centrale sul mondo storico e concettuale di Cochin, ma non in quanto è lo strumento di un complotto contro Xancien régime, come nella teoria dell’abate Barruel, bensì in quanto esprime efficacemente l’alchimia del nuovo potere che trasforma il sociale in politico e l’opinione in azione. La logica della loggia e i moduli organizzativi della massoneria costituiscono le premesse del giacobinismo. Partendo dalla massoneria, quello che Cochin chiama lo «spirito di società», si sostituisce allo spirito di corpo, in­ vadendo la nobiltà, i parlamenti, le corporazioni e tutte le istanze della società. In luogo degli interessi sostenuti dallo spirito di corpo, vi diffonde i suoi principi astratti, l’ideo­ logia della volontà del popolo, e vi instaura la religione del consenso, il culto di un sociale liberato da ogni remora, la fede in un potere che sia tutt’uno con la società.6 La democrazia diretta, senza delega, alla quale tendono i gia­ cobini, riesce a farsi strada fino al potere attraverso tre fasi successive, tre incarnazioni diverse, prima nel segreto delle logge e delle società di pensiero, al riparo del quale inventa i suoi metodi; poi nella pressione dei club sul vuoto di potere che genera la rivoluzione, e infine nel governo uf­ ficiale della società popolare mediante il terrore sulle per­ sone, ridotte a simboli negativi e nemici della rivoluzione, prefigurazione del male. Nel quadro della ideologia giacobina della democrazia di­ retta, la teoria del complotto serve a muovere la logica

perversa sulla base della quale «il diritto di voto è sospeso in quanto il popolo stesso governa; il diritto di difesa è sospeso, in quanto il popolo stesso giudica; la libertà di opinione è sospesa, in quanto il popolo stesso parla». Come si vede, da Barruel a Cochin la teoria del complotto ha percorso un lungo cammino fino a trasformare il com­ plotto, volontà cosciente degli uomini, in machine o ap­ parato di propaganda e manipolazione, uno dei pilastri esplicativi della «sociologia del pensiero democratico». 1. J. Lemaire, L es origines fiun gaises de lan ùm agon ism e (1 7 4 4 -1 7 9 7 ), Ed. de fU niversité, Bruxelles 1985; Z. Ciuffoletti, I l com plotto m assonico e la R ivoluzione fiancese, cit., pp. 7 e sgg. 2. A. Cochin, M eccanica d ella rivoluzione, Rusconi, Milano 1971. 3. E Furet, C ritica della Rivoluzione fian cese, cit., p. 199. 4. Ibidem , p. 200. 5. Ibidem , p. 207. 6. Ibidem , p. 208.

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Verso la fine del XIX secolo, con l’avvento delle masse sulla scena politica dei paesi europei più sviluppati, il meccani­ smo della rappresentanza e della democrazia parlamentare entrò in crisi. Dove più, dove meno, il processo di lunga durata che aveva portato la «democrazia dei moderni» a privilegiare la rappresentanza regolata dagli interessi e la discussione pubblica rispetto all’assolutismo e alla sottra­ zione delle decisioni alla visibilità e al controllo generale subi una battuta d’arresto. Nello stesso tempo sembrò of­ fuscarsi anche quella tradizione liberale che assegnava all’individuo razionale gli attributi di soggetto politicamen­ te attivo, libero da legami di dipendenza personale, in gra­ do di partecipare a pieno titolo alla vita pubblica. Con l’avvento delle masse si aprì l’epoca della manipola­ zione consapevole e della rivendicazione da parte delle élite, del diritto di governare indipendentemente da ogni effet­ tivo mandato della maggioranza e di ogni razionalità con­ divisa.1 L’autonomia individuale doveva essere riservata a

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pochi. Ciascuno doveva livellare la propria coscienza se­ condo gli standard della classe di origine oppure risolversi a essere gregario o capo, strumento o creatore di miti po­ litici. Nella scena politica e sociale dell’avvento delle masse si aprì un grande spazio per i meneurs des foules e per i creatori di miti. Per Sorel, come per Le Bon, le masse non domandavano altro che di poter credere in qualcosa di elementare, in racconti adeguati al livello di primitività di quella coscienza collettiva e «gregaria» che si formava dall’incontro di molti individui in una massa. Solo le immagini, e i miti in quan­ to sistemi di immagini, erano in grado di agire nelle folle e di orientarne il comportamento. Nella crisi di fine secolo fu preparato il terreno per la messa in opera del complotto del «terzo tipo». Partiti di massa o «agenzie» di manipola­ zione dell’informazione divennero i nuovi agenti della teo­ ria del complotto. I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il libro che più di ogni altro è servito ad alimentare uno dei più consolidati paradigmi della teoria del complotto,2 quello ebraico-mas­ sonico, furono confezionati a Parigi, intorno al 1897, da agenti dell’Ochrana, il servizio segreto zarista, per descri­ vere nei dettagli un presunto complotto ebraico diretto alla conquista del mondo. In Russia l’antisemitismo era molto diffuso e i progrom incoraggiati dallo stato. Le leggi limi­ tative dei diritti civili e altre forme di discriminazione pro­ vocarono in quegli anni l’esodo di milioni di ebrei russi. II regime zarista vide negli ebrei un comodo capro espia­ torio su cui far convergere il malcontento del popolo. L’espulsione da Mosca di circa trentamila ebrei nel giorno della Pasqua ebraica del 1891 fu un segnale per i progrom. Komissarov, funzionario dell’Ochrana, ricevette una lauta ricompensa per aver fomentato disordini contro gli ebrei con la diffusione di libelli infamanti stampati nella tipo­ grafia del dipartimento di polizia. Con l’Ochrana l’uso po­

litico della teoria del complotto divenne appannaggio di una «agenzia specializzata», destinata a fare scuola e a in­ fluenzare i metodi di lavoro dei servizi segreti di tutto il mondo. Si sa che i falsari dell’Ochrana copiarono interi brani da un libro dedicato alle malvagità di Machiavelli (M. Joly, Dialogue aux Enferientre M achiavel et Montesquieu, Bruxel­ les, 1865) e che trassero ispirazione anche da un romanzo, Biarritz, pubblicato a Berlino nel 1868 da Hermann Goedsche, un funzionario delle poste prussiane, sotto lo pseu­ donimo di sir John Retcliffe. Nel racconto si fantasticava di tenebrosi complotti ebraici, orchestrati nel cimitero ebraico di Praga. Un numero della rivista parigina «Contemporain» del giu­ gno 1881 estrapolò dal romanzo la scena di una riunione nel cimitero ebraico di Praga dove si orchestra il complotto, presentandola come un fatto vero, conosciuto grazie alla testimonianza di un autentico diplomatico inglese il cui nome (leggermente deformato rispetto allo pseudonimo) era sir John Readcliff. Nella stessa forma l’idea del com­ plotto fu di nuovo ripresa in Francia nell’opera di Frangois Bournand, Les Ju ifi nos contemporains, pubblicata nel 1896 e poi sempre ristampata fino al 1933. Nella scena della riunione del cimitero di Praga veniva ordito un piano per la conquista del mondo intero, attra­ verso l’asservimento del potere politico e il dominio sui mezzi di informazione e sulla scuola. L’evoluzione stessa delle istituzioni politiche, il movimento di concentrazione dei capitali così come lo sviluppo della stampa, avrebbero facilitato il compito. I Protocolli furono fabbricati a Parigi sulla base di questi precedenti, ma in una situazione politica in cui si era già fatta la prova generale della funzionalità della teoria del complotto giudaico-massonico. Lo sfondo era la Francia dell'affaire Dreyfùs e, prima ancora, del cosiddetto com­

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plotto boulangista. Intrighi e scandali, come, per esempio, quello che coinvolse molti parlamentari accusati di essersi lasciati corrompere dalla compagnia incaricata di scavare il canale di Panama, minavano la già instabile repubblica parlamentare, nata dalle ceneri dell’impero di Napoleone III. Georges Boulanger, un brillante generale nominato nel 1887 ministro della guerra, si era acquistato una vasta po­ polarità con i suoi atteggiamenti antitedeschi, che gli ave­ vano guadagnato il soprannome di général Revanche. Estromesso dal governo e collocato a riposo, Boulanger iniziò una campagna contro il parlamentarismo e per l’in­ staurazione di una «repubblica nazionale» fondata sul pre­ stigio di un capo circondato da un consenso plebiscitario. Una ricetta che trovava conferme nella perenne instabilità del sistema parlamentare, che minava la nuova repubblica. Intorno a Boulanger si raggrupparono, così, tutti gli scon­ tenti ai quali una stampa vivace e aggressiva batteva la grancassa: radicali sostenitori di una repubblica forte, mo­ narchici desiderosi di rovesciare la repubblica, nazionalisti ansiosi di rivincita contro i tedeschi, organizzati nella «Lega dei patrioti» del poeta Paul Déroulède, infine, le incerte masse operaie insoddisfatte della politica sociale del gover­ no ed esasperate dalla recessione economica che aveva in­ vestito la Francia negli anni Ottanta. Eletto deputato con un gran numero di voti in numerosi collegi nel 1889, Boulanger parve per un momento in gra­ do di prendere il potere con un colpo di stato, ma le sue esitazioni favorirono la reazione del governo, che lo accusò di complotto contro le istituzioni. Il generale fuggì in Bel­ gio, dove poco dopo morì suicida, m a la crisi politica non si risolse. L’elettorato popolare abbandonò i repubblicani moderati e si orientò verso i socialisti, al cui interno una consistente corrente, guidata da Alexandre Millerand e Jean Jaurès, era favorevole a una linea riformistico-parlamentare. All’estrema destra, invece, si rafforzò un forte movimento

nazionalista, che si appoggiava a un’ideologia xenofoba, razzista e antidemocratica, che trovò in Barrès e Maurras i suoi teorici. Un’ondata di attentati anarchici, che dall’Ita­ lia si sviluppò in tutta l’Europa, investì anche la Francia dove il presidente della repubblica Sadi Carnot, nel 1894, fu ucciso dall’anarchico italiano Sante Caserio. In conse­ guenza di questi avvenimenti furono varate le cosiddette «leggi scellerate», così come in Italia il presidente del con­ siglio Crispi, sfuggito a un attentato compiuto a Napoli dall’anarchico Paolo Lega, aveva varato le leggi eccezionali anche per colpire le nascenti forze socialiste. E come in Francia, anche in Italia, la situazione politica era esasperata dagli scandali, come quello della Banca Romana e dalle campagne morali dell’opposizione radicale. La crisi della fine dell’Ottocento si sviluppò in tutti i paesi dell’Europa continentale, dalla Francia alla Russia, e coin­ cise con la recessione economica che iniziò nell’ultimo ter­ zo di secolo con l’accentuazione dei conflitti interimperia­ listici e con l’inasprirsi della lotta di classe. L’antisemitismo divenne virulento in Francia e in Germa­ nia, ma anche in Russia. In Germania i cattolici, che co­ stituivano una forte minoranza, furono i primi ad attaccare gli ebrei, accusati di aver spinto il governo alla lotta contro l’influenza della chiesa (Kulturkampf). Durante il dibattito sul problema ebraico, conosciuto come il Judendebat del 1880, un portavoce del Zentrum cattolico al Parlamento identificò gli ebrei con la Borsa valori. In Francia esistevano tra i cattolici due correnti antagoni­ stiche, quella dei «tradizionalisti» e quella dei «democri­ stiani», ma unite nell’odio contro gli ebrei. Per i cattolici francesi il cattolicesimo coincideva con la patria, con la Francia, e gli ebrei erano antinazionali. In Europa si co­ stituirono partiti dichiaratamente antisemiti come l’Antisemitzsche Volkspartei (300 mila voti nel 1898) e la Lega nazionale antisemita, creata nell’89. In Germania il movi-

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mento era legale e voleva lottare contro «il denaro ebreo, contro i soldi, contro il capitalismo ebreo». In Francia il movimento era veramente sovversivo e suscitò manifesta­ zioni di piazza. Nella Francia degli ultimi decenni del XIX secolo, come del resto in altri paesi europei, i processi di modernizza­ zione e di secolarizzazione, l’azione dirompente dello svi­ luppo del capitalismo, che investiva tradizioni culturali e sociali plurisecolari, gli stessi processi di politicizzazione di massa, produssero un clima sociale di incertezza e di an­ goscia collettiva che investì larghe fasce sociali. Intanto, in Francia come in altri paesi europei, nel corso del secolo la comunità israelitica si era emancipata e numerosi ebrei ave­ vano conquistato posizioni elevate nella finanza, ma anche della vita intellettuale e mondana e, soprattutto, nella stam­ pa. Nello stesso tempo, le prime misure governative di stampo anticlericale e repubblicano vennero a sottolineare un momento generale di laicizzazione della società. La vec­ chia Francia cristiana si sentiva attaccata nel profondo della sua fede e dei suoi valori (patria, famiglia, religione). Tutto ciò provocò lacerazioni e disagi sociali estesi. «Quando la società soffre - ha scritto Durkheim - sente il bisogno di trovare qualcuno a cui possa imputare il suo male, su cui possa vendicarsi delle sue décepttons.» Le inquietudini, i disagi, i rancori vennero a cristallizzarsi attorno aU’immagine maledetta del giudeo, o del massone, o meglio ancora del giudeo-massone, senza patria, ma onnipresente e ma­ nipolatore del denaro, della stampa e del potere politico. Il clima arroventato della lotta politica moderna, Γ instabi­ lità del sistema parlamentare, l’inevitabile mescolanza di affarismo e politica nella gestione dello stato moderno, predisposero il terreno per individuare e denunciare il ne­ mico della società e della nazione. La semplicità e la linea­ rità delle spiegazioni legate al complotto e alla logica sog­ giacente della contrapposizione elementare bene-male (una

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logica che poteva affascinare il prete di campagna e il vec­ chio comunardo, come scrisse Edouard Drumont3) fecero il resto. In un clima di esasperazione della lotta politica e di panico per il terrorismo anarchico, scoppiò in Francia l’afìàre Dreyfus. Il capitano di origine ebrea Alfred Dreyfiis, ac­ cusato nel 1894, sulla base di prove false, di spionaggio a favore della Germania, fu processato, degradato e depor­ tato in Guyana. Il caso suscitò una violenta campagna an­ tisemita, appoggiata anche da una parte consistente della stampa cattolica, diretta non solo contro il «traditore ebreo» ma contro tutti i suoi correligionari, accusati di complottare contro gli interessi nazionali della Francia. V.affaire scatenò le passioni politiche e divise il paese in due campi contrapposti: la sinistra radicale e socialista e la destra nazionalista e conservatrice, affiancata da molti cat­ tolici, che attraverso le loro congregazioni e attraverso la stampa condussero una violenta campagna contro gli ebrei e lo stato repubblicano, sostenuto dai radicali e dai mas­ soni. Antiebraismo e antimassonismo nella cultura cattolica di destra andavano a braccetto, ma trovavano ascolto anche nella estrema sinistra. Era il quadro ideale per far agire la teoria del complotto che si presta alla mobilitazione delle folle, delle loro paure e delle loro passioni. La destra cavalcò ampiamente in Francia come in Europa, l’idea del com­ plotto giudaico, ma anche quella del complotto anarchico e si arrivò persino alla convocazione a Roma nel 1898 di un congresso fra i governi europei per fronteggiare la si­ tuazione e concertare delle comuni politiche di repressione, che potevano servire contro gli anarchici, ma anche contro le nascenti organizzazioni operaie e socialiste. In Francia la destra utilizzò anche l’idea del complotto ebraico contro l’«arca santa» della nazione per battere il «governo di difesa repubblicana», formato da repubblicani, radicali e socialisti (Millerand).

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I falsari dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, che certo conoscevano anche il volume di Gustav Le Bon sulla Psi­ cologia delle folle, dove si sottolineava il ruolo delle passioni nella formazione del comportamento delle masse e la ca­ pacità di manipolazione del loro comportamento, volevano far credere che il diabolico documento, lungo una cin­ quantina di pagine, contenesse un progetto segreto per la conquista del pianeta, concepito da un ipotetico e miste­ rioso capo del mondo ebraico. I Protocolli raffiguravano gli ebrei come «padroni del mondo, attraverso l’oro e la stam­ pa» e li rappresentavano come una gigantesca «quinta co­ lonna», che avrebbe ineluttabilmente conquistato la società cristiana corrompendone la fibra morale, distruggendone l’economia e sovvertendone le istituzioni. Erano motivi ab­ bastanza diffusi nella cultura europea del tempo, come ha dimostrato Sergio Romano nel saggio introduttivo alla nuova edizione dei Protocolli, sotto il titolo di I Falsi Pro­ tocolli (Corbaccio Editore, 1992). Romano non solo esa­ mina con attenzione la genesi del testo, la sua diffusione, l’accoglienza ad esso riservata in vari paesi, ma dedica at­ tenzione ai motivi ispiratori dell’opera e alla sua ideologia. Fra le varie componenti - politiche, culturali o razziali deH’antisemitismo ce ne una che negli anni tumultuosi dello sviluppo del capitalismo ebbe una particolare presa sull’animo delle masse. Il motivo di fondo dei Protocolli, come in genere dell’antisemitismo, era il denaro e gli ebrei detentori del capitale erano l’incarnazione di una paura atavica e oscura: lo spavento millenario di fronte al denaro, manipolato da forze tenebrose, avide di speculazione, che non conoscono né patria, né famiglia, né felicità, né onore, ma solo concupiscenza e volontà di potenza. Nei Protocolli si legge: «Determineremo una crisi economica universale con tutti i mezzi clandestini possibili e con l’aiuto dell’oro, che è tutto nelle nostre mani. In pari tempo getteremo sul lastrico folle enormi di operai in tutta Europa... I governi

li abbiamo trasformati in arene dove si combattono le guer­ re di partito... Dobbiamo fondare il commercio sulla spe­ culazione. Il risultato di ciò sarà che le ricchezze della Terra non rimarranno nelle mani dei Gentili, m a passeranno, attraverso la speculazione nelle nostre casseforti». Il senso del torbido progetto attribuito all’internazionale cospirativa ebraica era quanto mai ambizioso ma, nello stesso tempo, suggestivo e ideologicamente calzante. Il pro­ getto, contemplato nei Protocolli, mirava all’abolizione dell’antica società elitaria e poneva come obiettivo finale l’affermazione del dispotismo assoluto degli ebrei sul mon­ do intero. L’obiettivo dei falsari era duplice: da un lato scaricare sugli ebrei la responsabilità dei disagi e delle la­ cerazioni sociali e culturali prodotte dalla modernizzazione; dall’altro lato incitare i conservatori e le forze tradizionali (e cristiane) a disfarsi della democrazia prima che lo faces­ sero i socialisti o gli anarchici. L’uso della teoria del com­ plotto ebraico nascondeva, insomma, il più drastico rifiuto del mondo moderno e delle sue istituzioni, e racchiudeva fin dall’origine una forte carica razzista. L’ebreo rappresenta Γ «Altro», apolide come il capitale che maneggia. L’Altro che aggredisce e non conosce le frontiere, che minaccia la tradizione, la famiglia e la nazione. L’antisemitismo che sarebbe poi servito all’estrema destra razzista, ma anche alla sinistra rivoluzionaria, nasce da questa esplosiva personifi­ cazione pagana del feticcio-denaro. Il denaro, realtà neutra, malvagia non in se stessa, ma a seconda di come si usa, mero strumento di scambio, una delle «attività più civili dell’uomo», come lo definì George Simmel in Filosofia del denaro, capace di far superare all’uomo le forme primitive della rapina e del dono, diviene il demone delle ideologie del Novecento. I Protocolli furono pubblicati per la prima volta nel 1903 in una rivista di Pietroburgo dal giornalista antisemita Kruscevan, e servirono a giustificare i programmi antisemiti

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nella Russia dello zar Nicola II. Furono ristampati a Parigi nel 1905 e riscossero, infine, un grande successo a partire dalla Grande Guerra. In Russia ebbero vasta diffusione tra le armate bianche antibolsceviche. Nella Germania scon­ fitta e alla ricerca di un capro espiatorio per spiegare il disastro, i Protocolli entrarono subito nella Schuldfrage. Hi­ tler li citò nel Mein K am pf e li fece pubblicare in ben ventidue edizioni. Persino Henry Ford, nel 1920, li fece pubblicare negli Stati Uniti, e poi se ne pentì. In Italia comparvero nel 1921 e nel 1937: due momenti chiave della storia dell’affermazione del fascismo e del con­ solidamento del regime mussoliniano. Fu un fascista ete­ rodosso come Julius Evola a tradurre e curare i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Evola, che ebbe un molo di as­ soluta preminenza ideologica nella destra estrema anche dopo la caduta del fascismo, respingeva la concezione pu­ ramente biologica della razza, ma approvò la legislazione antisemita del fascismo come «naturale contromisura» pro­ vocata dall’«atteggiamento antifascista dell’ebraismo inter­ nazionale». Per questo fascista anticonformista e pagano, il mito della razza doveva essere un’arma importante del fascismo nella battaglia contro i mali della società moder­ na: universalismo, individualismo, razionalismo, egualita­ rismo. Nel contesto dell’ideologia di Evola lo spirito giu­ daico era sempre presentato come il polo negativo, la forza disgregante, eversiva, e distruttiva di tutto ciò che era po­ sitivo, solare, virile, incarnato nell’Ariano. Anche in Evola giudaismo e massoneria si incontrano, anzi «il giudaismo [era] riuscito a dominare il mondo con la massoneria».4 Evola sintetizzava, così, le due componenti della teoria del complotto agitate dal fascismo: quella ebraica e quella mas­ sonica. Secondo Gaetano Salvemini l’equivalente italiano dell’antisemitismo fu l’antimassonismo: «Tutte le disgrazie dell’Italia sono attribuite, dai dottori del fascismo, alla de­ mocrazia, al socialismo, alla massoneria, laddove invece i

nazisti tedeschi attribuiscono tutte le sfortune della Ger­ mania alla democrazia, al socialismo e ai bruni non ariani, che hanno contaminato la bionda razza germanica».5 Fin dall’inizio della campagna razzista anche il fascismo riprese la teoria del complotto ebraico, che soppiantò la teoria del complotto demo-pluto-massonico. La rivista «Vi­ ta italiana», diretta dall’ex-sacerdote Giovanni Preziosi, col­ legata all’oltranzismo di Farinacci e finanziata dal governo fascista, tempestò in continuazione contro le trame dell’in­ ternazionale ebraica. M a fin dal tempo del conflitto tra Italia e Turchia ^eb rai­ smo internazionale» era stato chiamato in causa con l’ac­ cusa di contrastare le aspirazioni italiane nel Nord-Africa e, con la guerra di Libia, la tesi che l’ebraismo intemazio­ nale fosse nemico dell’Italia era diventato un motivo ricor­ rente. La comunità ebraica e la massoneria furono accusate di aver alimentato il movimento dei «Giovani Turchi». Si parlò di una congiura ebraica antitaliana alimentata dalla stampa internazionale in mano agli ebrei. Allo scoppio del­ la prima guerra mondiale vi fu chi denunciò il controllo del capitale ebraico-tedesco sull’industria italiana (si parlò di ricatti «barbaro-giudaici»), e autorevoli economisti come Maffeo Pantaleoni avvalorarono queste ipotesi («La Vita italiana» del 15 dicembre 1916). Nel 1921, come si è detto, furono pubblicate ben due versioni dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Si credette di trovare in quest’opera la spiegazione della rivoluzione mssa, sottolineando la pre­ minenza degli ebrei nei quadri del partito bolscevico. Da allora si ebbe una crescente tendenza ad attribuire i mali del mondo uscito dalla guerra all’internazionale ebraica. La diffusa tendenza ad associare ebrei e bolscevismo non fu la sola ragione per la quale gli ebrei, in Italia, divennero segno di sospetti durante la crisi postbellica che culminò con la Marcia su Roma. L’altra fu la «questione sionista», che era entrata in una nuova fase con l’istituzione di un

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regime mandatario inglese in Palestina. La Palestina fu con­ siderata uno strumento della politica imperiale inglese e gli ebrei italiani, nel sostenere il «focolare nazionale ebrai­ co», non solo erano «sleali» con l’Italia ma ne indebolivano la posizione nel Mediterraneo. Vi fu anche chi (nel 1926), durante una fase di possibile riavvicinamento tra Mussolini e le organizzazioni ebraiche, soffiò di nuovo sul fuoco delle «trame oscure» ordite dal complotto giudaico-massone. Fu questo il caso di Ardengo Soffici con un «noterella» sul numero del 31 dicembre 1926 de «Il Selvaggio». In essa Soffici ammoniva: «C ’è ancora della gente tra noi (riferito a certi giornalisti fasci­ sti), la quale ignora così innocentemente che non solo gli ebrei sono prima di tutto ebrei, che la ‘nazione’ ebraica è sempre esistita ed esiste, ma che questa nazione è la nazione imperialista per eccellenza poiché lavora da secoli al fine di un Impero universale. E sono fascisti che ignorano questo, e che, dunque, ignorano anche come la massoneria, il pro­ testantesimo, la democrazia, l’anarchia, il rivoluzionarismo di ogni genere da quello politico a quello filosofico, letterario, artistico, non siano altro che pedine mosse abilissimamente dalla nazione ebraica per raggiungere lo scopo suddetto? Il quale scopo è in gran parte raggiunto del resto, come potrebbe dimostrare anche il fatto che nel Congresso sio­ nista di Milano e altrove si ha ormai poco più paura di buttar giù buffa, come suol dirsi, e di giuocar a carte ab­ bastanza scoperte. L’alta banca e la finanza internazionale sono infatti in mano degli ebrei, o dei massoni loro lunga mano, che è tutt’uno; lo stesso si dica della stampa di quasi tutta l’Europa e d’America, nonché di più di un governo, dove bolscevichi, massoni, socialisti, radicali, repubblicani, democratici, liberali ecc., fanno la pioggia e il bel tempo o si danno la mano per servire il Re d’Israele. Con queste po’ di leve nelle mani è facile figurarsi quante belle cose si possono fare: e noi stiamo vedendolo.»

In realtà con lo scoppio della prima guerra mondiale e con la rivoluzione russa, proprio nel momento di massima for­ tuna dei Protocolli, si era realizzato uno straordinario feno­ meno di eterogenesi dei fini, rispetto agli scopi di coloro che li avevano confezionati. Il falso documento dell’Ochrana sulla congiura universale ebraica mirava a dirottare la pressione delle masse contadine russe contro gli ebrei, ma i progrom diedero l’avvio a ondate migratorie verso occi­ dente degli ebrei orientali, quegli stessi che molti secoli prima erano emigrati verso est con le persecuzioni al tempo della peste nera. Queste ondate migratorie finirono da un lato per scatenare, in un periodo cruciale della storia eu­ ropea, il moderno antisemitismo razzista e dall’altro a spin­ gere gli ebrei russi verso posizioni sempre più rivoluziona­ rie. Tra i «vecchi bolscevichi», uniti a Lenin nella fase ri­ voluzionaria, oltre il 16% erano ebrei e aH’indomani della rivoluzione d’ottobre migliaia di ebrei si unirono ai bol­ scevichi, in cui scorgevano i più strenui paladini della ri­ voluzione e i più sinceri internazionalisti.6

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1. R. Bodei, D a l parlam en to a lla p ia z z a . R appresentanza em otiva e m iti p o litici nei teorici della sociologia delle folle, in «Rivista di Storia contemporanea», 1986/3, p. 314.

5

2. N . Cohn, L icen za p e r un genocidio. I «Protocolli degli A n zian i d i S io n »: storia d i un falso , Einaudi, Torino 1969. 3. É. Drum ont, L a Fran ce ju iv e, Parigi 1883. 4. D opo la seconda guerra mondiale i Protocolli sono sari più volte pubblicati nel m ondo mussulmano, quando l’antisemitismo tornò utile ai nemici di Israele. E per questa via hanno influenzato anche la sinistra europea filopalestinese. Nasser e Gheddafì consigliavano la lettura dei Protocolli ai loro ospiti occidentali, mentre re Feisal d ’Arabia ne fece dono nel 1974 ad Aldo Moro. Nello scontro fra arabi e israeliani, una parte della sinistra ha contratto il virus latente dell’idea della «cospi­ razione sionista». Lo stesso errore che ha fatto da lubrificante al nuovo antisemitismo dei naziskin, che a Evola sembrano richiamarsi, dato che il suo pensiero è stato tradotto in francese, in tedesco e in inglese, ed è circolato nei gruppi estremisti di tutti questi paesi.

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5. G . Salvemini, W ill thè ligh t hiningfoU ow ? in E Keene, N eith er Liberty nofi Bread, N ew York - Londra 1940 6. L. Poliakov, op. cit., pp. 199-200.

Se il concetto di «guerra civile» elaborato dalla storiografia revisionista tedesca1 continua a incontrare serie riserve, esso può comunque servire per caratterizzare il Novecento co­ me il «secolo delle ideologie» che di questa «guerra civile» hanno rappresentato l’aspetto più pervasivo e duraturo. Nel libro II Novecento, secolo delle ideologie, Karl D . Bracher2, uno dei migliori storici tedeschi contemporanei e il maggior studioso del nazionalsocialismo, dimostra quanta parte della cultura europea di questo secolo sia stata inti­ mamente permeata da forze ideologiche dirompenti e con­ trapposte, portatrici, da destra e da sinistra, di una critica violenta alla democrazia industriale moderna: la «critica ro­ mantica» che guardava all’indietro e la critica marxista, nel­ la quale, invece, la «comunità organica di vita» (il comu­ niSmo) appariva proiettata nel futuro. Entrambe le ideo­ logie respingevano sia il modello della civil society dell’economia di mercato, in cui l’equilibrio è affidato

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libero gioco di soggetti in concorrenza tra loro, sia il mo­ dello dello stato liberaldemocratico e la scienza moderna che gli era dietro. Queste ideologie, nate dall’avversione nutrita da gran parte della cultura tedesca per l’individualismo contrattualistico che contrassegnava le nuove istitu­ zioni economiche e politiche sviluppatesi nell’Occidente industriale, presero il sopravvento nel periodo che inter­ corre fra la prima e la seconda guerra mondiale in coin­ cidenza con gli sviluppi totalitari della rivoluzione bolsce­ vica. La progressiva ideologizzazione della cultura europea nel corso del nostro secolo, oltre che spiegare l’adesione di molti intellettuali ai totalitarismi, spiega anche l’incapacità di molte correnti culturali e filosofiche, attratte da queste ideologie, di avere una percezione adeguata dei grandi mu­ tamenti indotti dall’evoluzione della moderna società in­ dustriale. Queste ideologie, ponendosi come ricerca della «società perfetta» e dell’assoluto in terra, hanno guardato alle tensioni e alle trasformazioni della democrazia moder­ na, alla sua perfettibilità di principio e alla sua imperfe­ zione permanente, come al demone che andava schiacciato. Esse vagheggiavano il ritorno ai valori e alle gerarchie della società preindustriale, che lo sviluppo capitalistico aveva sconvolto; oppure prefiguravano «il sole dell’avvenire», cioè l’armonia edenica della società del futuro, come comunità senza conflitti e senza classi. Queste due ideologie sono diventate dominanti quando il trionfo della rivoluzione sovietica e dell’ideologia marxistaleninista ha comportato l’esigenza di un’ideologia antimar­ xista e anticomunista dotata a sua volta di tale forza da opporre, al formalismo e, quindi all’imperfezione, dello sta­ to liberaldemocratico, la compattezza di «una comunità organica» in cui l’individuo fosse integrato nella sua natu­ ralità elementare di unità di stirpe e di sangue. La ripresa della teoria del complotto ebraico da parte del

nazismo trovò ascolto anche in settori dell’opinione colta in quanto gli ebrei erano ritenuti gli artefici del marxismo e del bolscevismo. Secondo Ernst Nolte, lo sterminio degli ebrei non fu che la versione etnica e biologica dello ster­ minio di classe praticato dai bolscevichi.3 Certo è che il nazionalsocialismo si presentò come baluardo contro la ri­ voluzione mondiale, quella rivoluzione in cui i teorici na­ zisti vedevano la trama degli ebrei. Gli ebrei erano consi­ derati responsabili della sconfitta della Germania e delle minacce bolsceviche e americane che impedivano l’avvento di un naturale dominio tedesco sull’Europa. Con la guerra l’antislavismo, tipico della civiltà romano-germanica, di­ venta antisemitismo in quanto, per Alfred Rosenberg come per Adolf Hitler, gli slavi erano caduti nelle mani dei «ti­ ranni ebrei», «forze motrici della rivoluzione». Da qui di­ scendeva anche il credito che Hitler accordava alla tesi del «complotto ebraico» contenuta nei Protocolli dei Savi An­ ziani di Sion. La peculiarità della teoria del complotto ebraico nell’ideologia nazista consiste nell’attribuire all’an­ tisemitismo un valore esplicativo storico-teoretico, imma­ gine rovesciata della teoria storica marxista-leninista, e co­ me questa in grado di generare una concezione del mondo agitatoria e capace di influire sulle masse. Durante i decenni fra le due guerre, insomma, si è svolto uno scontro tra due ideologie che —come ha scritto Popper - erano «entrambe, in un certo senso, folli»4. Eppure, pro­ prio in questa fase, gli intellettuali caddero nella trappola dell’ideologia. I «chierici», secondo l’espressione di Julien Benda, tradirono la loro missione. Fiduciosi che, alla fine, i valori umani si sarebbero ricomposti in un tutto armo­ nico, si sentirono legittimati a fornire i loro servigi, e cioè gli stmmenti di riflessione, comunicazione e persuasione, alle ideologie e all’uso spietato del potere che da queste discendeva. La storiografia in generale ha prestato poca attenzione

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all’uso sistematico della teoria del complotto e al suo in­ timo legame con le ideologie totalitarie. Uno degli aspetti trascurati è stato il molo delle antiche concezioni religiose nell’alimentare gli istinti punitivi e di vendetta di cui si nutre la lotta politica moderna prima, e attraverso, le ideo­ logie totalitarie. I regimi totalitari di questo secolo presentano accanto a variabili ideologiche specifiche, caratteri culturali comuni, che si possono comprendere sotto la categoria del razio­ nalismo magico. «Rendiamoci conto - ha scritto Max We­ ber - di che cosa propriamente significa dal punto di vista pratico, la razionalizzazione intellettualistica per opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente [...]. La progressiva intellettualizzazione o razionalizzazione [...] si­ gnifica [...] la coscienza o la fede che basta soltanto volere per potere.»5 Tutte le ideologie che si richiamano all’ideo­ logia giacobina e che hanno influenzato il pensiero mar­ xista hanno in comune l’idea di una società basata sulla volontà e sulla ragione come reazione alla crisi indotta dai processi di modernizzazione e dallo sviluppo del capitali­ smo. Per contro, la modernizzazione (autonomia della scienza, certezza del diritto, società civile, mercato, libertà di pensiero e di ricerca, ecc.) ha avuto come risultato lo smarrimento della dimensione mitico-magica, il disincan­ tamento del mondo, mirabilmente descritto da Max We­ ber. In reazione ad esso, in Europa e fuori, si sono mani­ festate una sorta di rimitizzazione e una risposta oscurantistica a quegli effetti della modernizzazione che disgregano le comunità tradizionali, disperdono i loro valori e ato­ mizzano il tessuto sociale. In un mondo privo delle antiche certezze religiose e come svuotato di senso, si è ingigantito il ruolo di intellettualiideologi capaci di dare coerenza e omogeneità al mondo e alla società con il loro razionalismo magico e i loro sogni comunitari. Il «disincantamento del mondo», introdotto

dalla rivoluzione scientifica e da quella industriale, e la democrazia politica delle nazioni più progredite furono in­ dicate come le cause dei mali della società moderna. Al carattere «atomistico» e «meccanicistico» delle nuove isti­ tuzioni, si contrappose l’ideale di una società «organica», solidale e compatta, stabile nelle gerarchie e nei suoi valori. D a queste concezioni organicistiche sorse la duplice e op­ posta critica della democrazia industriale di cui abbiamo parlato all’inizio di questo capitolo. La crisi precipitò con la grande carneficina della prima guerra mondiale, nella quale agli occhi delle masse si con­ sumò la disgregazione della civiltà tradizionale. D a questa situazione di anomia le ideologie totalitarie emersero come surrogato delle vecchie religioni. «Di fronte all’alternativa di vegetare in mezzo all’anarchia e all’arbitrarietà delle de­ cadenze o di inchinarsi alla fittizia compattezza di un’ideo­ logia - ha scritto la Arendt - le masse sceglieranno sempre probabilmente la seconda soluzione.» In questo contesto si verificarono alcuni processi culturali già presenti nel corso del secolo precedente come la riattualizzazione lai­ cizzata di vecchie modalità del pensiero magico: la rinascita del sapere misteriosofico e la teoria del complotto. «Al pari dei vecchi capi della plebe - è sempre la Arendt - i capi dei movimenti totalitari possedevano un infallibile istinto per tutto ciò che la normale propaganda di partito e l’opi­ nione pubblica passavano sotto silenzio. Ogni cosa nasco­ sta o ignorata acquistava rilievo, a prescindere dalla sua importanza intrinseca. La plebe credeva realmente che la verità fosse quella che la società rispettabile le aveva ipo­ critamente taciuto o dissimulato con la cormzione. La mi­ steriosità in quanto tale diviene il primo criterio per la scelta degli argomenti [...] I nazisti furono indubbiamente superiori nella scelta degli argomenti per la propaganda di massa, ma i bolscevichi impararono un po’ alla volta il mestiere, benché ai misteri tradizionalmente accettati pre­

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ferissero le proprie invenzioni: dalla metà degli anni Trenta in poi le congiure mondiali si sono succedute senza inter­ ruzione, dai trockisti alle trecento famiglie, ai cosmopoliti’, a Wall Street, alle sinistre macchinazioni dei servizi segreti imperialistici.»7 Il ricorso alla ideologia del complotto era, per la verità, già presente nella propaganda leninista e nel suo specifico ri­ chiamo al modello giacobino della dittatura e del terrore. Lenin non solo credeva nella teoria del complotto per con­ vinzioni ideologiche, ma anche perché i rivoluzionari russi in esilio, assillati dalla polizia zarista, si sentivano una élite cospiratrice costretta a tattiche clandestine e a una diffi­ denza e sospettosità sistematica. Lenin conosceva l’uso della teoria cospirativa nel terrore giacobino, da lui considerato indispensabile per la vittoria della rivoluzione. Anche pri­ ma della fondazione della CEKA, la teoria del complotto era stata ampiamente utilizzata dal Consiglio dei commis­ sari del popolo per alimentare il terrore, e per incoraggiare la collera di massa contro i partiti borghesi. Alle elezioni per l’assemblea costituente che si svolsero su­ bito dopo la rivoluzione d’ottobre, i socialrivoluzionari di destra avevano raggiunto una maggioranza considerevole e persino il partito dei cadetti aveva ottenuto una percentuale elevata di suffragi, non spiegabile con il solo voto dei ceti più ricchi. Lenin, il cui partito aveva ottenuto meno di un quarto dei voti, decise di bandire il partito dei cadetti come nemico del popolo accusandolo di essere coinvolto nei complotti controrivoluzionari e di appoggiare i cosac­ chi insorti. L’assemblea costituente si riunì per la prima volta nel gen­ naio del 1918, ma i bolscevichi la sciolsero dopo averla delegittimata grazie all’uso della teoria del complotto. Quando gli ex-prigionieri cecoslovacchi tentarono, passan­ do per Vladivostok, di raggiungere il fronte in Francia e in breve tempo si impadronirono di quasi tutta la Siberia,

Lenin, parlò di un complotto della «borghesia mondiale». Quando poi, al culmine del terrore rosso, le legioni cecoslovacche avanzarono dalla Siberia verso Ekaterinburg, do­ ve lo zar era isolato e tenuto prigioniero, il Soviet degli Urali fece fucilare Nicola II e con lui la moglie, il figlio, la figlia, il medico personale, il cuoco, i servi e le donne di compagnia, sotto l’accusa di complottare con i soldati cecoslovacchi. Gli appelli al terrore di massa contro la borghesia furono sempre accompagnati dalla rivelazione e dalla denuncia si­ stematica di complotti contro la rivoluzione. Nel dicembre del 1917 Lenin incoraggiò la gente a farsi giustizia da sé contro gli «speculatori» e per terrorizzare i nemici di classe. I leader bolscevichi furono inclini sin dall’inizio a classifi­ care ogni forma di opposizione come «controrivoluzione», e per lottare contro di essa. Il 20 dicembre 1917 si dota­ rono di un apparato speciale, la CEKA, Comitato straordi­ nario di tutte le Russie, per combattere la controrivoluzio­ ne e il sabotaggio, diretta da Felikò Dzerzinskij, un nobile di origine polacca passato dalla vocazione religiosa a quella rivoluzionaria. «Vorrei abbracciare tutta l’umanità con il mio amore —aveva detto —, scaldarla e ripulirla dalla spor­ cizia della vita moderna.» Una delle attribuzioni fondamentali della CEKA era quella della pubblicazione delle liste dei nemici del popolo. Uno dei collaboratori di Dzerzinskij scrisse sul periodico della CEKA «Krénij Terror»: «Noi non stiamo combattendo una guerra contro gli individui. Stia­ mo sterminando la borghesia come classe. Nel corso delle indagini non cercate di dimostrare che il soggetto ha detto o fatto qualcosa contro il potere sovietico. Le prime do­ mande che dovete porvi sono a quale classe appartiene, qual è la sua origine. Le risposte a queste domande devono determinare il destino dell’accusato. In ciò risiedono il si­ gnificato e l’essenza del terrore rosso».8 Fin dall’inizio i bolscevichi videro la guerra civile come

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parte di un grande complotto alleato e la CEKA si fregiò di aver svolto un ruolo epico nella difesa della rivoluzione contro un gigantesco complotto promosso dal capitalismo occidentale e dai suoi servizi segreti. La mania della CEKA per la teoria dei complotti la portò, per esempio, a indi­ viduare dietro la rivolta di Kronstadt, la longa manus dell’imperialismo occidentale. In seguito anche la GPU, il servizio di sicurezza che assorbì la CEKA nel 1 9 2 2 , fu im­ pegnata a pianificare complotti per eliminare qualsiasi sac­ ca di opposizione e per tonificare le masse, oppresse dalle gravi difficoltà materiali imposte dalla costruzione del nuo­ vo sistema. Ogni volta che scarseggiavano i generi di prima necessità o si verificavano difficoltà nella vita sociale e nell’interno stesso del partito la GPU fu pronta a scoprire vili complotti. Il caos della collettivizzazione, i bassi redditi agricoli, la rapacità degli approvvigionamenti statali e la catdva sta­ gione provocarono tra il 1932 e il 1933 la carestia più terribile nella storia europea di questo secolo con la morte per fame di circa sette milioni di persone. Per tutta la durata della carestia in Ucraina, la GPU continuò a scoprire casi di sabotaggio dei nemici di classe e complotti «con­ trorivoluzionari». Per quanto fosse assurdo accusare di complotto coloro che morivano di fame, sarebbe impossibile accantonare la que­ stione come l’ennesimo cinico tentativo di trovare capri espiatori per distogliere l’attenzione del popolo dai crimini e dagli errori della direzione del partito. Oltre a snidare sabotatori e complottatori, la GPU mirava a isolare l’Ucrai­ na dal mondo esterno e a impedire che le notizie della gravissima carestia arrivassero alla frontiera. Si voleva far credere ai visitatori e ai giornalisti occidentali che la tragica carestia che spinse gli ucraini fino al cannibalismo era solo una invenzione della propaganda antisovietica. La propa­ ganda fu così efficace che Édouard Herriot, leader radicale

francese, arrivò a smentire le menzogne della stampa bor­ ghese sulla presunta carestia in Unione Sovietica. Lo stesso fecero Bernard Shaw e i coniugi Webb, dopo le visite in Russia nel 1932-33. La gravità della situazione suscitò critiche dentro il partito, specialmente da parte di Bucharin e degli ultimi seguaci di Trockij, che era stato espulso dal paese nel 1929. Bu­ charin scrisse che da allora «il terrore fu un normale me­ todo di amministrazione.» Vittime di questa macchina del terrore furono contadini, tecnici e dirigenti del partito. E dal terrore amministrativo si passò alle grandi purghe con le quali si colpirono i quadri del partito e l’intero gruppo dirigente del bolscevismo storico. Tutto il potere si con­ centrò nella persona di Stalin e nel N KV D (Commissariato del popolo per gli affari interni), che incorporò la GPU e controllò la polizia politica e quella ordinaria. Questa im­ mensa macchina di sospetti, di informazioni e di repres­ sione rispondeva personalmente a Stalin. Le grandi purghe cominciarono nel 1934, dopo l’assassinio di Sergej Kirov (organizzato probabilmente dallo stesso Stalin), ma impu­ tato all’ennesimo complotto dei cospiratori zinovievisti e trockisti. Tutto il partito fu impegnato nella campagna re­ pressiva e le sezioni del partito furono invitate a scovare i sospetti e a favorire le confessioni. Una gigantesca campa­ gna di stampa accompagnò il grande terrore. Le confessioni pubbliche dei presunti traditori segnarono una fase impor­ tante nell’elaborazione di una estesa teoria del complotto che, nella forma finale, comprese tutti i presunti nemici dello stalinismo, in patria e fuori, in un’unica gigantesca congiura che colpì persino i vertici del NKVD. Il successivo grande complotto immaginario fu scoperto da Ezov, segretario del comitato centrale, capo della com­ missione di controllo del partito, e successore di Jagoda alla guida del NKVD. Stalin ed Ezov denunciarono un com­ plotto dei vertici dell’Armata Rossa, compreso il marescial­

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lo Michail Tuchacevskij, accusati di essere in combutta con Trockij e con la Germania nazista. La polizia segreta liqui­ dò molte migliaia di ufficiali. Dei cinque marescialli deU’Armata Rossa, solo due si salvarono; dei quattordici comandanti dell’esercito ne sopravvissero due; dei sessantasette comandanti di corpo d’armata, sessanta vennero fu­ cilati e dei centonovantanove comandanti di divisione ben centotrentasei furono passati per le armi.9 Nessun esercito subì tante perdite davanti al nemico nei suoi alti comandi, quanto l’Armata Rossa sotto i colpi di Stalin fra il 1937 e il 1938. Di certo la Gestapo aveva tentato di sfruttare la psicosi paranoica di Stalin diffondendo documenti falsi che accreditavano un progetto di colpo di stato da parte di Tuchacevskij con l’aiuto della Germania. La grande pur­ ga culminò con il processo contro i destri e trockisti nel marzo del 1938, quando furono portati sul banco degli imputati tre vecchi membri del politburo leninista, Bucharin, Rykov e Krestinskji. Il procuratore di stato Vysinskij paragonò gli accusati a cani rognosi. Se i grandi processi mettevano in luce gli eccessi della ezovcina (il terrore applicato da Ezov ai vertici del partito e dello stato), nel paese si consumavano gli effetti di massa del terrore diffuso. Ovunque dominava una vera isteria di sospetti e di autodenunce. Moltissimi membri del partito di provata fede comunista vennero smascherati come figli e figlie di kulaki o di mercanti. In altri casi bastava aver avuto rapporti con elementi trockisti o essere indicate co­ me «moglie di un nemico del popolo». Questa macchina del terrore produsse dal 1935 al 1940, secondo la cifra fornita dal KGB al politburo nel 1956, ben diciannove mi­ lioni di arrestati. Tra questi almeno sette milioni finirono sotto il fuoco dei plotoni di esecuzione o perirono nei gulag. Il maggior numero di nemici del popolo fu scoperto nelle istituzioni che avevano il compito di difendere lo stato sovietico dai suoi nemici: il partito, l’Armata Rossa

e l’N KVD. Ben 110 dei 139 membri del Comitato centrale eletti al Congresso nel 1934 furono uccisi o messi in car­ cere. Solo 59 dei 1966 delegati si presentarono al Con­ gresso del 1939, non meno di 1108 erano morti o scom­ parsi. Fino ad allora nessun partito comunista europeo era stato sottoposto a un simile massacro, neppure sotto Mus­ solini o Hitler. La gerarchia del NKVD fu purgata due volte. Tra le vittime delle purghe c’erano anche i comunisti stranieri. Gran parte dei funzionari del Comintern, dei comunisti stra­ nieri e dei rifugiati politici residenti a Mosca furono sma­ scherati come «agenti nemici» o «spie straniere» e fucilati. La maggior parte del popolo sovietico accettava la dottrina ufficiale sull’incombere delle grandi congiure di traditori, spie e sabotatori al soldo dei servizi segreti stranieri. In ogni fabbrica i funzionari del NKVD tenevano conferenze agli operai sul pericolo degli agenti imperialisti. L’universo cospirativo di Stalin era insieme espressione e motore di una complessa machine ideologica, secondo cui la Russia sovietica era minacciata da un complotto permanente del capitalismo mondiale, i cui agenti stavano tentando di sov­ vertire con ogni mezzo il regime comunista. In realtà le uniche congiure pericolose organizzate dai ser­ vizi segreti stranieri, negli anni ’30, furono i tentativi della Germania e del Giappone di sfruttare la paranoia di Stalin e dell’NKVD, spingendoli a esasperare la sindrome del com­ plotto fino al parossismo. Un’ulteriore dimensione politica del complotto è data dalla interpretazione staliniana dello schieramento antifascista a livello internazionale. Dopo l’ascesa al potere di Hitler l’an­ tifascismo —mito staliniano per eccellenza, secondo le pa­ role di Annie Kriegel10 —venne usato come unica discri­ minante politica in modo da schiacciare tutte le posizioni intermedie: tutto ciò che non era comunista faceva parte consapevolmente o meno di un grande complotto fascista contro il comuniSmo.

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In questo modo, fra due mondi, capitalismo e comuniSmo, che si fronteggiavano senza esclusione di colpi e senza ap­ parenti possibilità d’intesa, il concetto di antifascismo ven­ ne — come ha scritto Francois Furet — confiscato dal co­ muniSmo, e trasformato in un divieto di essere anticomu­ nisti.11 In questa brutale visione dualistica del mondo molti intellettuali europei dimenticarono che fascismo e comu­ niSmo erano ideologie che consideravano la democrazia un nemico comune, ma volevano batterlo ciascuno a proprio vantaggio (il patto tedesco-sovietico del 1939 dimostrò che anche nazismo e comuniSmo potevano essere alleati o av­ versari, a seconda delle circostanze). Accettare la visione dualistica e manichea dell’ideologia totalitaria portava a una drammatica torsione della storia in cui non c’era più posto per atteggiamenti di autonomia del pensiero.

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1. E- Nolte, D opo il comuniSmo. C on tribu ti a ll’interpretazione d ella storia d el X X secolo, Sansoni, Firenze 1992, pp. 2 7 e sgg. 2. K .D . Bracher, I l Novecento, secolo delle ideologie, Laterza, Bari 1990. 3. E. Nolte, D opo il comuniSmo, cit., p. 24. 4. K. Popper, L a lezione d i questo secolo, Marsilio, Venezia 1992, p. XII. 5. M . Weber, I l lavoro intellettuale, Einaudi, Torino 1976, pp. 19-20. 6. H . Arendt, L e orìgin i d e l totalitarism o, cit., 1967, p. 433. 7. Ibidem, p. 484. 8. C . Andres e O . Gordiwskij, L a sto ria segreta d e l K G B , Rizzoli, Milano 1991, p. 58. 9. R. Conquest, The G reat Terror: Stalirìs p u rge o f thè Thirties, McMillan, Londra 1968; E. Nolte, N azion alsocialism o e bolscevismo, d t., p. 213, e C . Andres e O . Gordiwskij, L a sto ria segreta d el K G B , cit., p. 157. 10. A.K. Kriegel, L e mythe stalin ien p a r excellence: lan tifascism e, in A A W , I l m ito delTU R SS. L a cu ltu ra occidentale e l ’U nione Sovietica, a cura di M . Flores e F. Gori, Angeli, Milano 1990, pp. 217-23. 11. R. Dahrendorf, E Furet e B. Geremek, L a dem ocrazia in Europa, a cura di L. Caracciolo, Laterza, Bari 1992, p.145.

A un osservatore esterno l’Italia potrebbe sembrare la patria del complottismo come interpretazione delle vicende uma­ ne. Nella cultura politica italiana sembra sopravvivere più che altrove la tentazione di concepire l’universo come una scrittura segreta di cui si cerca ostinatamente di trovare la chiave. E, siccome in Italia tutto è politica, tutto — dal calcio alla cultura, dall’economia allo sport — è complotto, e la dietrologia riempie le pagine dei giornali e delle riviste. M a se il gioco funziona nei mass media e nei salotti, nella politica vera e propria può avere effetti perversi, specialmente in un paese di deboli tradizioni democratiche. Per l’Italia si può rovesciare la proposizione di Clausewitz: non è la guerra che continua la politica con altri mezzi, ma la politica che continua la guerra. La democrazia in Italia sorse da tre guerre: la guerra fra eserciti, la guerra fra classi, la guerra civile, e ne porta le stigmate. Inoltre, in nessun posto come in Italia la politica è stata sospesa nell’empireo del dover essere, che naturalmente è troppo

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lontano dai problemi quotidiani. Tutto questo ha generato una spirale che porta ad attribuire sempre «ad altri» la re­ sponsabilità delle delusioni e dei risultati, spesso negativi e sempre insoddisfacenti, dell’attività politica. Uno degli effetti di lunga durata del clima di scontro che accompagnò i primi passi di vita della democrazia italiana, fu il forte senso di «appartenenze separate» piuttosto che di un’appartenenza comune, che minò sin dalle origini il sentimento di una cittadinanza e impedì la condivisione delle regole del gioco democratico e nello stesso tempo l’accettazione della politica come molteplicità di parti, di interessi, e non solo di ideologie. Le contrapposizioni ideo­ logiche del secondo dopoguerra si innestavano su un ter­ reno di «subculture politiche» già predisposte all’espres­ sione di «appartenenze separate». Il clima della «guerra fredda» non fece che aggravare ed esasperare il senso della reciproca opposizione fra le diverse «chiese», sfruttando il basso grado di «nazionalizzazione delle masse» e la frantu­ mazione di quel tipo di nazionalizzazione burocratica e mitica tentata dal fascismo. Sia le tradizioni politiche cattoliche sia quelle socialiste e comuniste, le principali sul piano della diffusione di massa, non solo avevano mantenuto un senso di estraneità allo stato, ma presentavano aspirazioni alla globalità e propo­ nevano visioni compiute della vita, progetu integrali entro i quali non c’era posto per la diversità di cui si sostanzia la democrazia moderna. Il Partito comunista (ma anche il Partito socialista nella concezione morandiana) aveva isti­ tuzionalizzato nel partito-organizzazione la sua immagine di comunità chiusa, permeata dai valori dell’ideologia. Per i cattolici il concetto di partito cattolico costituiva una contraddizione in termini tra il carattere di rappresentanza parziale, che fonda il partito e il valore universale del cat­ tolicesimo. L’accettazione dell’idea di partito presupponeva lo scioglimento del nodo ideologico di fondo, costituito

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dalla natura laica dello stato e dal pluralismo ideologico come suo connotato dominante.1 Da qui discendeva anche un sentimento diffuso di «dop­ piezza» che alimentava livelli diversi della politica, colloca­ bili oltre la scena visibile della lotta democratica e dei mec­ canismi istituzionali. Il problema della «doppiezza comu­ nista» stava nel legame profondo con la tradizione lenini­ sta, che alimentava l’idea di una conquista violenta del potere e che portava a considerare l’uso del metodo de­ mocratico come un fatto, tattico e contingente, di oppor­ tunità politica. Su fronte opposto, la consapevolezza di tale minaccia alimentava una volontà repressiva e una rivalsa anticomunista destinata a influenzare profondamente non solo le masse cattoliche e la borghesia nelle loro espressioni politiche, ma l’azione stessa dello stato e lo sviluppo della democrazia. Tutto ciò rendeva impossibile ogni leale forma di collaborazione democratica (quando poi la collaborazione avvenne, questa, fu giocata a livelli spesso «sotter­ ranei»). Questi atteggiamenti si manifestarono pienamente nelle elezioni del 1948 e poi con l’attentato a Togliatti, quando la «doppiezza» sembrò dispiegarsi in modo aperto con l’accusa reciproca di attentati alla democrazia. Si parlò, allora, di un «piano Kappa» di carattere internazionale e, nel clima incipiente della guerra fredda, con le tragiche notizie che giungevano dall’Europa orientale, le antiche paure si rinnovarono in uno scontro di ideologie che minò quell’unità grazie alla quale era potuta nascere la costitu­ zione repubblicana. L’«antifascismo» simbolo dell’alleanza ambigua fra le democrazie occidentali e la Russia totalitaria e delle campagne resistenziali durante la guerra civile, as­ surto a metro di misura della legittimazione democratica del nuovo sistema politico, si era ormai infranto. I comu­ nisti si appropriarono deU’antifascismo (la «confisca» di cui si è già parlato) per cui non si poteva essere antifascisti se si era anticomunisti.

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Se da un lato il fascismo, per i comunisti e in generale le sinistre, divenne una sorta di categoria eterna, un male radicale, coerentemente con quella che Augusto Del Noce definì «la sostituzione dell’interpretazione demonologica all’interpretazione storica», dall’altro lato l’anticomunismo si nutrì dell’antica paura dell’«Anticristo». Il Partito comunista aveva bisogno del fascismo e del com­ plotto reazionario sempre imminente per non smarrire quell’identità ideologica rivoluzionaria che gli derivava dai suoi «caratteri genetici». Nel luglio del 1945, mentre era in corso la collaborazione di tutti i partiti del C LN , Longo dichiarò che era preoccupato perché «non si [vedeva] bene il nemico». Secchia in una riunione della direzione del Par­ tito comunista del luglio ’45 affermò che bisognava «in­ dicare, rendere visibile alla massa i nemici che si [oppone­ vano] alla ricostruzione e alla Costituente». E questi nemici erano indicati nei «fascisti», nei «filofascisti», negli «specu­ latori», negli «affamatoti del popolo», nei «ricchi».2 Paradossalmente, ma non troppo, Γantifascismo, su cui si dovevano fondare e legittimare le forze politiche del nuovo stato democratico, divenne una sorta di «vaso di Pandora» che sprigionava divisioni, doppiezze, insidie. Una frase di Medardo nel Visconte dimezzato di Calvino esprime bene questo clima: «Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se son proprio come ci s’immaginava». La durezza dello scontro comportò una presenza sempre più massiccia dell’ideologia, della mistificazione, della mi­ tologia, a scapito delle idee, dei valori e dei progetti. La modernizzazione del paese fu percepita più come «mira­ colo» che come progetto, e non riuscì a ridurre il gap fra la realtà e la cultura politica, persino delle élite, che con­ tinuarono a interpretare il mondo in chiave mitologica. L’universo delle subculture politiche italiane, mentre il pae­ se subiva una traumatica e rapida mutazione da prevalen­ temente agricolo a industriale, era popolato di visioni ma­

nichee, di oscure trame, nere e rosse, e di pulsioni di an­ nientamento, coltivate sotto la coltre delle regole demo­ cratiche. L’immaginario sociale delle grandi masse di con­ tadini spostati dal sud al nord, dalle campagne alle città, in un gigantesco e rapido processo di secolarizzazione, era già predisposto ad accogliere le mitologie presenti nelle ideologie che si fronteggiavano e che alimentavano speran­ ze e paure, illusioni e timori. Il culto di Stalin («Baffone») reincarnò l’idea del «Salvato­ re», in un mito della speranza e dell’utopia, ma anche della rivincita e della vendetta, in cui paure e sentimenti difen­ sivi si intrecciavano a pulsioni di potenza. La logica della «guerra fredda», di cui l’Italia uno dei punti critici, congelò il sistema politico fino agli anni Sessanta, quando il processo di modernizzazione e secolarizzazione raggiunse dimensioni ragguardevoli, provocando un secon­ do stress sociale con epicentro nella classe intellettuale. Si evidenziò allora l’incapacità degli intellettuali che si erano pensati come avanguardia ed élite, di adattarsi alle regole della democrazia liberale e della società di massa, che equi­ parava gli intellettuali ai cittadini comuni. C ’era anche la dolorosa perdita di status che il ceto intellettuale andava subendo in quegli stessi anni a causa dell’espansione della scolarizzazione di massa. Prese forma allora quell’epifenomeno rivoluzionario che fu il ’68, un periodo che in effetti si estende per un decennio dal 1968 al 1978. L’anticapitalismo del marxismo rivoluzionario si miscelò con fanticapitalismo cattolico. Fu una reazione che si nutriva di orrore per il mercato nel quale molti intellettuali si senti­ vano insicuri e potenzialmente perdenti. Una parte consi­ stente della intellighenzia italiana si riconobbe nella rivo­ luzione, fece propria la fraseologia marxista e si dotò di nuove costellazioni mitologiche. Accanto alla lotta contro lo stato della borghesia e delle multinazionali di derivazione leninista con il tragico esito

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della lotta armata e terrorisdca, vi fvx nel ’68 un filone più creativo, che produsse nuove tecniche di organizzazione sociale, civettando con l’idea della rivoluzione e di fatto svuotandola. Fra le tecniche di «controinformazione» fece ampio uso della teoria del complotto, sempre e inevitabil­ mente fascista, per generare l’allarme sociale funzionale alla mobilitazione di massa. Si trattasse di smascherare le trame dell’imperialismo o quelle collegate, delle forze reazionarie e dei «finti» antifascisti, la teoria del complotto assolveva a una funzione taumaturgica, in quanto dimostrava la ca­ pacità di penetrazione dell’analisi rivoluzionaria nei conge­ gni del potere e nello stesso tempo —svelandone le trame e le strategie - riusciva a paralizzarli e a «denudarli». I cospiratori, siano essi stati i gruppi fascisti o le potenze imperialiste, le centrali del capitalismo nazionale o inter­ nazionale oppure i loro «lacchè» al potere, erano potenti e al tempo stesso deboli («tigri di carta»). Erano immagi­ nati potenti al punto di essere in grado di governare il corso della storia, ma anche deboli perché incapaci di do­ minare le masse, quando le loro trame fossero state sma­ scherate dalle avanguardie e le masse fossero state armate della potenza dell’ideologia rivoluzionaria. Un esempio si­ gnificativo è costituito dalla campagna per l’assassinio del commissario Calabresi, interpretato da tutta la stampa di sinistra, seguita da buona pare di quella indipendente, co­ me un «nuovo episodio del complotto reazionario» («Ma­ nifesto», 18 maggio 1972). Dal delitto Calabresi alla Rosa dei Venti, tutto indicava la presenza di un’«unica strategia nera» («Paese Sera», 5 marzo 1974). Il terrorismo rosso o la teoria degli opposti estremismi non erano altro che co­ perture di un’unica strategia, orchestrata da un’internazio­ nale nera che guidava ogni mossa e che comandava le azio­ ni disperate in Italia e altrove al fine di bloccare l’avanzata della sinistra. L’«Espresso» e «Panorama» si fecero paladini di tutte le teorie complottarde basate sulle trame nere. La

logica dell’antifascismo in base alla quale il pericolo viene sempre da destra dispiegava tutti i suoi effetti, sfruttando ogni residuo riflesso dell’immaginario sociale. Persino i ten­ tativi riformistici compiuti in quegli anni, dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, furono visti come disegni di ra­ zionalizzazione capitalistica, diretti a bloccare la rivoluzione e distogliere «la classe» dai suoi compiti rivoluzionari. Gli sconvolgimenti sociali e politici di quegli anni avevano sicuramente mobilitato anche gruppi e forze intenzionate a ostacolare la «rivoluzione», ma soprattutto avevano dele­ gittimato i pilastri tradizionali del sistema politico, sotto­ posti a una contestazione aggressiva e culturalmente sofi­ sticata, per di più favorita dagli scandali che avevano in­ vestito i partiti di governo e dalla grave crisi economica. La situazione internazionale, con l’avanzata delle sinistre in Europa, la grave crisi del petrolio, lo scontro acuto fra i due blocchi, faceva dell’Italia il «ventre molle» della Nato, esposto all’intervento dei servizi segreti delle potenze in conflitto. La «lotta armata» dei gruppi di estrema sinistra e lo stragismo popolarono il quadro politico di oscure tra­ me e alimentarono una tragica spirale della violenza. Fra le masse giovanili si formarono gruppi omogenei inclini a un attivismo aggressivo e insofferente dei limiti, poco pro­ penso a cogliere la differenza tra libertà e arbitrio. In questa Italia insanguinata da stragi e attentati, percorsa da misteri inquietanti, funestata da forme di lotta politica perverse e manichee, si fece strada l’uso drammatizzato del­ la teoria del complotto. I complotti e le trame, da quelle fasciste a quelle della CIA, avrebbero avuto lo scopo di contenere l’avanzata del PCI. Nello stesso tempo, la dop­ piezza di fondo del sistema politico spingeva, da un lato, alla contrapposizione frontale e alla polarizzazione, e dall’altro alla consociazione, indotta dalla logica stessa del sistema proporzionale-parlamentare e dal disperato bisogno di legittimazione delle forze politiche tradizionali (in par­

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ticolare, del Partito comunista, che si proponeva, ora, come garante dell’ordine democratico). L’uso politico della teoria del complotto serviva al PCI in vista di due scopi essenziali: riaffermare la propria diversità ai fini del controllo del partito e dei suoi militanti; legit­ timare se stesso come campione della democrazia, delegit­ timando nel contempo le forze che si opponevano al suo ingresso nel governo. Dalla bomba di piazza Fontana (dicembre 1969) all’omi­ cidio di Aldo Moro (maggio 1978), la repubblica attraversò una buia stagione di attentati e di stragi: l’assassinio del commissario Calabresi (1972), il rapimento del giudice Mario Sossi, la strage di Brescia, l’eccidio del treno Italicus (1974). Tuttavia il PCI, vittima designata e autodesignata, non solo non perse voti, ma progredì costantemente, fino a raggiungere il proprio massimo storico nelle elezioni po­ litiche del 1976, fino al suo ingresso nell’area di governo (1978) e alla conquista delle amministrazioni di quasi tutte le principali città italiane. In modo analogo, la Democrazia cristiana, fra il 1971 e il 1972 (a cavallo di due tornate elettorali cruciali e delle elezioni presidenziali), cominciò a lanciare allarmi contro l’eversione di destra e di sinistra. La scoperta del «golpe Borghese», un mini-putsch, così piccolo da sfiorare il ridi­ colo, arrivò alla fine del marzo del 1971, ad appena tre mesi dalle elezioni amministrative parziali che coinvolsero otto milioni di elettori e su cui il Movimento sociale di Almirante puntava tutte le sue carte. Poco prima dell’ele­ zione di Leone al Quirinale saltò fuori la notizia del com­ plotto «5 per 5»: un tessuto di vaghi indizi su un complotto che puntava a instaurare nel paese una repubblica presi­ denziale di tipo gollista per riportare l’ordine nell’Italia sconvolta del dopo ’68. La campagna elettorale delle politiche del 7 maggio 1972 fo preparata dall’attentato al traliccio in cui morì l’editore

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Gian Giacomo Feltrinelli. Si vide anche una foto dell’ono­ revole missino Caradonna che apponeva freccette e ban­ diere su una carta geografica del Lazio. Più tardi si scoprì che Caradonna non manovrava gruppi d’attacco, ma or­ ganizzava la sua campagna elettorale. Ancora una volta la democrazia era in pericolo, ma ancora una volta la D C si confermò il perno del blocco d’ordine, garante della sta­ bilità. In quell’occasione, il 5 novembre 1972, Forlani ri­ lanciò l’allarme: «Non possiamo dimenticare - disse - che nel corso della consultazione del 7 maggio, mentre noi ci contrapponevamo radicalmente, ideologicamente e politi­ camente al PCI, è stato operato il tentativo più pericoloso che la destra reazionaria abbia portato avanti in Italia dai giorni della Liberazione ad oggi [...] Noi abbiamo respinto il tentativo disgregante portato avanti con una trama che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti, che ha trovato solidarietà non solo di ordine interno, ma interna­ zionale.» Naturalmente si trattava del paradigma classico del com­ plotto dalla destra fascista e di quello altrettanto classico delle non meglio identificate forze internazionali. Un pa­ radigma caro a PCI e D C , da tutti e due ambiguamente giocato in funzione della polarizzazione e insieme della sta­ bilizzazione consociativa durante tutta la metà degli anni Settanta. Dopo lo «strappo» dall’URSS, per il PCI fu di nuovo urgente riaffermare la propria diversità. La teoria del complotto diventava uno strumento fondamentale di comunicazione politica e di conferma dell’identità del gruppo e nello stesso tempo di delegittimazione del gruppo avversario, trasfor­ mando in motivo di orgoglio le stesse definizioni denigra­ torie usate dagli avversari. Queste accuse —le denunce dei ricorrenti fallimenti del «socialismo reale» e dell’archetipo comunista dell’ideologia delle Brigate Rosse - vengono vissute dai militanti come conferma della «diversità», come

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esaltazione di quel complesso di persecuzione che rafforza le motivazioni e mobilita le passioni. Agitare la minaccia del complotto delle forze antidemocratiche serve a presen­ tare il PCI come forza egemone all’interno del fronte an­ tifascista e nel contempo gli permette di conservare com­ portamenti da setta combattente, come era nelle origini. Dopo la fine dei governi di unità nazionale si sviluppò una nuova fase dell’uso della teoria del complotto, ormai privo dell’idea del Salvatore e di un qualsiasi modello di riferimento. In connessione con lo schieramento dei missili americani in Europa e con la campagna brezneviana per la pace, si sviluppò in forme nuove la vecchia tesi del com­ plotto imperialista contro la pace mondiale, a cui anche la cultura cattolica diede un suo rilevante contributo. Le tragiche vicende interne e l’emergere della losca vicenda della loggia P2 non fecero che dare esca alla teoria del complotto, arricchendolo e popolandolo di antichi e in­ quietanti fantasmi: i servizi segreti, la massoneria, le lobbies. La P2, le propensioni lobbistiche e i legami massonici in­ ternazionali di Licio Gelli, divennero l’incarnazione storica del male, la fonte inesauribile di indizi per ogni trama e per ogni complotto. Nel clima arroventato dallo scontro sui massimi sistemi, sulla pace e sulla guerra, l’idea del «complotto Amerikano» dai salotti scese nelle piazze televisive. Le Brigate Rosse, il delitto Moro e poi l’attentato al Papa, tutto era imputabile all’eterno complotto della CIA (o, all’opposto, al KGB). In quell’ultima tragica stagione della guerra fredda il complot­ to ritrovava i suoi mitici contorni internazionali e l’Italia si divideva senza interrogarsi sui propri mali e infine si ripiegava in una rassegnata assuefazione. Partitocrazia e corruzione politica si erano rivelate indivi­ sibili ed erano progredite in simbiosi, ma fino agli anni Cinquanta la corruzione era rimasta contenuta nel quadro di una società agraria legata a meccanismi clientelati. La

crescita dell’economia, la diffusione della ricchezza e del consumismo, l’abbandono dei valori tipici di una società patriarcale facevano da terreno di coltura a un capitalismo aggressivo e privo di scrupoli fino a rendere lecita ogni operazione finalizzata alla lotta di potere. La presenza estesa e massiccia dello stato nell’economia alimentava la voracità dei partiti e la simbiosi tra affarismo e politica, svuotando lo stato e le istituzioni e, infine, minando lo stato di diritto. Accanto alla attività politica ufficiale, nel corso degli anni Settanta, specialmente di fronte alla minaccia terroristica, se ne svolse un’altra coperta e segreta nelle forme e negli obiettivi (ne fu espressione la P2), condotta da gruppi e individui che operavano in privato o all’interno di orga­ nismi politici e istituzionali e che agivano spesso nella il­ legalità, mescolando obiettivi politici ed economici fino a creare un intreccio aberrante. La lotta contro il terrorismo divenne spesso un paravento e un pretesto per nascondere o giustificare altri scopi, come la lotta per il potere, i con­ flitti di gruppo, le vendette o più semplicemente le carriere e le ambizioni personali. In questo senso le teorie del complotto giocate da destra e da sinistra potevano trovare agganci nella realtà, ma tutte servirono a creare grandi «polveroni» o a innescare quella sindrome RIP (Revelation, Investigation, Prosecution), che, come hanno scritto i politologi americani, porta all’avvento della «politica con altri mezzi»:3 alla battaglia dei partiti, decisa nelle competizioni elettorali e nelle aule parlamen­ tari, si sostituisce la battaglia condotta tramite i media, nella quale gli avversari politici tendono a neutralizzarsi con rivelazioni scandalistiche, inchieste parlamentari, cam­ pagne di stampa. La gravità dei fatti che avevano sconvolto la vita della re­ pubblica negli anni Settanta e nei primi Ottanta, gli in­ trecci perversi, i troppi misteri, che nonostante le nume­ rosissime indagini e inchieste, persistevano su molti di essi,

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erano tali da sfidare ogni interpretazione univoca e da giu­ stificare, nel contempo, ogni fantasticheria, come in una «leggenda metropolitana». Per dare spiegazione logica a quei drammatici fatti si ricorse una volta di più alla teoria del complotto. La reazione popolare, neutralizzata da spiegazioni contra­ stanti e dalla stessa base di consenso e complicità creata, ormai, dal sistema consociativo, fu sostanzialmente debole. Tuttavia, negli anni Ottanta, la crescita della criminalità organizzata e la progressiva inefficienza del sistema provo­ carono un ulteriore moto di reazione e di sfiducia verso le istituzioni e il sistema politico. La mafia era entrata nel gioco della destabilizzazione già prima dell’uccisione del generale Dalla Chiesa, con lo «stragismo politico» che ave­ va assorbito l’apparato investigativo e repressivo dello stato, distogliendolo dalla lotta alla criminalità organizzata. Gra­ zie al controllo del traffico degli stupefacenti, la mafia fra gli anni Settanta e Ottanta aveva raggiunto una straordi­ naria potenza finanziaria e «politica», disponeva di reti in­ ternazionali di coperture e di alleanze e controllava intere regioni nel Mezzogiorno. Essa compì, allora, un salto di qualità. H suo legame con la politica, basato sullo scambio di voti con appalti, permessi e favori di ogni genere, si con­ fermò e consolidò, ma capovolgendo i rapporti di forza: da subordinata all’establishment politico, la mafia arrivò a con­ dizionarlo, fornendo voti e mezzi finanziari necessari alle cam­ pagne elettorali e alle elezioni dei suoi fiduciari. L’organizza­ zione mafiosa mirava ormai alla diretta conquista di posi­ zioni di potere politico oltreché economico, al fine di con­ seguire maggiori profitti, a loro volta fonte di ulteriore potere e di altre attività illecite. E ciò mentre lo stato si rivelava incapace di contrapporle la propria legittima au­ torità, irretito nella generale ragnatela di inefficienza, col­ lusione e corruzione prodotta dalla democrazia consocia­ tiva e dai patti di scambio fra partiti di governo e imprese.

Alla fine degli anni Ottanta, con il crollo del comuniSmo e con la fine della guerra fredda (ma non dei veleni che essa aveva prodotto) il sistema politico italiano subì un ulteriore trauma. Tutti e tre i maggiori partiti di massa si trovarono spiazzati, privi di strategia e profondamente de­ legittimati. La risposta a questa grave crisi di sistema fu miope e disperata nello stesso tempo, tipica di una classe politica che aveva la sua forza nei difetti del sistema, nella logica della spartizione e nell’indebitamento illimitato, gra­ zie al quale maggioranza e opposizione, fra loro complici, si erano garantite il consenso degli italiani. Davanti alla mancanza di soluzioni istituzionali e politiche di ricambio e allo svelamento della anacronistica e tragica crisi del si­ stema, ribadita nelle esternazioni del presidente Cossiga, si tentò per l’ennesima volta la strada della contrapposizione manichea. Scoppiò lo strano caso «Stay Behind», carico di sospetti gravissimi, di paure, di complotti. Un esercito di vecchietti, smobilitati dopo mezzo secolo di attesa di un’in­ vasione dell’Armata Rossa, fu presentato come un’arma di­ struttiva nelle mani di supposti centri di destabilizzazione del sistema. Per quasi due anni, mentre il comuniSmo era crollato e l’anticomunismo era meno di una foglia di fico, privo di ragioni politiche intemazionali, prese il via una campagna politica dai moduli arcaici: da «Gladio» ai servizi segreti, su un filo che andava a generali e colonnelli, per passare a de­ putati e senatori, fino al presidente della repubblica. Si trac­ ciavano le connessioni con le stragi e con organizzazioni neo­ fasciste e naturalmente con la P2. I «si dice» di protagonisti più o meno autorevoli, rilanciati da giornali e televisione in una rincorsa alla comunicazione emotiva e sensazionale, contribuirono a creare un allarme diffuso. Alla fine il golpe di «Gladio» sembrava in atto e, naturalmente, i «buoni» erano pronti a lottare per la difesa della democrazia e a scendere, come fecero, nelle piazze, chiedendo la messa in stato d’accusa del presidente della repubblica.

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I fantasmi del passato riafferravano il presente e inghiotti­ vano la più grave crisi del sistema dal dopoguerra a oggi. Nel clima di rapido collasso del sistema politico, culminato nelle elezioni del 5 aprile 1992 e nell’uccisione di Salvo Lima, ma anche con le prime rivelazioni su «Tangentopo­ li», l’uso pervasivo della teoria del complotto occupò tutta la scena politica. Prima delle elezioni scoppiò il caso del «golpe patacca» con la circolare del ministero degli interni sul piano di destabilizzazione, divulgato dall’Ansa il 18-19 marzo 1992. In perfetta sincronia democristiani e pidiessini parlarono di piani destabilizzanti, di attentati contro la democrazia, ritrovando, cosi, un terreno comune con la Rete e gli ex-comunisti di Rifondazione. Dalle «esterna­ zioni» di Sbardella sul piano massonico-statunitense per colpire la DC a quelle di Cicchetto sul complotto massonico-mafìoso di destra, si ridava corpo a un nuovo e te­ nebroso piano Kappa contro la democrazia italiana. Le uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino e persino la tempesta valutaria che si abbatté sulla lira nell’estate del ’92, furono lette e interpretate come complotti. Secondo Leoluca Orlando, il giudice Falcone aveva voluto «coprire i politici» e per questo era entrato nel «palazzo», collaborando col ministro della giustizia, sospettabile - con i ver­ tici del governo - di essere parte della «cupola» che pro­ prio per questo non si era voluto scoperchiare. Il «man­ dante del delitto Falcone andava ricercato nel palazzo». Il delitto aveva, secondo Orlando, «tutti i tratti caratteristici di un delitto di regime [...] Craxi, o per suo conto Vassalli, dovevano approdare ai vertici dello stato per garantire l’im­ punità a tutta una parte del paese che in questo momento, davanti a una crisi di regime, ha molto da temere». Or­ lando rappresenta un mix fra gesuitismo e giacobinismo e conosce l’arte del «farsi usare dai media per usarli». La teoria del complotto, nella sua specifica e intensa vocazione mediatica, costituisce il principale ingrediente della retorica

politica e Orlando, sfruttando una crisi reale e pezzi di «verità», costruisce la sua «verità virtuale». Davanti alla clas­ sica domanda: «quali prove?» Orlando risponde: «Io sono un uomo politico e svolgo un ragionamento. Le prove le cerchino i magistrati».4 Questa risposta, che innesta la mac­ china del sospetto, senza tener conto del lecito e dell’illecito nella lotta politica, assomiglia a quella di Marat (cfr. C a­ pitolo 2) o a quella che Paimiro Togliatti diede nel 1931 ai compagni italiani sul caso dell’anarchico Francesco Ghezzi, finito, come altri innocenti, vittima della teoria staliniana del complotto: «La questione che viene posta in discussione da chi solleva il ‘caso Ghezzi’ è, in sostanza, la questione della dittatura proletaria, della sua necessità, della sua legittimità, e dell’appoggio incondizionato che gli ope­ rai devono dare alla dittatura che esiste in Russia. Su questo terreno non possiamo che avere ragione [...]. Per noi co­ munisti, la questione delle ‘prove’, è una questione che non si pone, è anzi una questione sciocca».5 Persino la Banca d’Italia è stata coinvolta nel gioco perverso del complotto massonico, tanto che, tirati in ballo da au­ torevoli esponenti del mondo cattolico, i vertici dell’istituto sono stati costretti a difendersi e a dichiarare di non essere massoni. L’ex Gran Maestro della Gran Loggia di Palazzo Giustiniani ha risposto, accusando di complotto la «gran­ de, compatta e potentissima organizzazione» dell’Opus Dei («La Stampa», 10 febbraio 1993). Il gioco del complotto, sfuggito agli attori politici, è stato inglobato dal sistema dei media, diventandone lo strumento più espressivo e sen­ sazionale in una mescolanza di realtà e immaginazione. La comunicazione politica è stata svuotata di senso e i partiti, sopravvissuti alla catastrofe del loro stesso sistema, si tro­ vano assediati dalla massa dei fedeli di un tempo, mobili­ tati dai nuovi «rabdomanti di massa». La crisi della partitocrazia, lo stragismo mafioso e Tangen­ topoli - i veri problemi del paese — vengono mescolati

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all’uso indiscriminato della teoria del complotto attraverso connessioni sensazionalistiche, fondate su congetture e ri­ velazioni uscite da agenzie di stampa, riviste, servizi (poco) segreti, magistrati trascinati nel gioco dal vuoto politico. In questo vuoto, la reale drammaticità della crisi non fa che alimentare rimmaginario e gli «imprenditori dell’in­ tolleranza» possono sviluppare tutta la potenza della teoria del complotto. Tangentopoli viene usata per alimentare la sindrome RIP. L’immaginario collettivo viene dominato da un’ossessione di «violenza purificatrice» e di «virtù giacobine» di epurazione. Un clima eccellente per la semplificazione della complessità e per la lotta politica «senza comunicazione». Per­ sino Bossi, capo della Lega, vede in ogni azione altrui un complotto per fermare la rivoluzione leghista.6 Dal canto suo, la rivista «Avvenimenti» ha attaccato le «riforme istituzionali» come la reincarnazione del «piano» di «Rinascita della demo­ crazia», cioè il progetto politico della P2. «Era —anno 1976 —il progetto della cupola degli eversori ... Oggi, a sedici anni di distanza, è impressionante rilevare come molti degli obiettivi piduista - riguardanti la RAI TV, i sindacati, i regolamenti delle camere, i codici, la respon­ sabilità dei magistrati, ecc. - si sono realizzate; altri — le leggi elettorali, le modifiche costituzionali, e soprattutto una nuova organizzazione della magistratura, con le sepa­ razioni dei pubblici ministeri dai giudici - sono rispecchiati nei progetti in discussione».7 L’ombra del Grande Vecchio, che ha sempre aleggiato so­ pra lo scontro tra il blocco delle società capitalistico-democratiche e il socialismo reale con il proliferare di com­ portamenti «illegali», si è rovesciata nelle trame del cosid­ detto complotto anticomunista (Gladio, P2, servizi segreti, mafia), culminato nell’intreccio politica-affari degli ultimi venti anni. Da questo intreccio nascerebbe, secondo Al­ fredo Galasso,8 la «madre» di tutti i complotti, che abita le stanze alte del «palazzo».

«Sono tasselli di un mosaico che non è ancora ricostruito. Non conosciamo tutti i fatti e tutti i collegamenti. Il di­ segno però si intrawede chiaramente. La trama massoneria-P2-servizi-mafia è parte integrante di ogni vicenda che si conclude con gli omicidi politici della mafia, con le stra­ gi, con i tentativi di eversione.» Galasso sintetizza cosi tutti i teoremi formulati in un ventennio di vita politica italiana. In un paese a sovranità limitata nel quale il «palazzo» è abitato da fantasmi mentre il potere reale è disperso e po­ licentrico (le famiglie, le imprese, le parrocchie, i partiti, i media, le cosche mafiose, le leghe, ecc.), il Grande Vec­ chio dovrebbe essere in grado di riportare tutto questo a uniformità di comportamento e di gestione con una stra­ tegia diabolica e cinica allo stesso tempo, ma anche capace di sintetizzare milioni di informazioni al secondo. Gli ultimi lunghi, tormentosi, tempi della crisi finale della «repubblica dei partiti» si consumano in quello che Angelo Panebianco ha definito «il ballo dei due complotti».9 Il primo, denunciato da coloro che hanno governato negli ultimi decenni — le «vittime» di Tangentopoli - è rappre­ sentato come un complotto ordito da potenti lobbies fi­ nanziarie e giornalistiche per liquidare i partiti popolari. L’altro, secondo gli allarmi dei movimenti antipartitocra­ tici, è ordito dall’arrogante oligarchia partitica, che ha espropriato i poteri democratici ai danni del paese. «La caduta di legittimità di questi partiti - scrive Panebianco - è l’inevitabile portato di un radicale cambiamento dello scenario storico. Ma anche l’argomento opposto, quello dell’esproprio partitocratico, l’idea di una partitocrazia cor­ rotta piovuta dal cielo per sfruttare un paese e un popolo ‘innocente’, è una leggenda metropolitana.» In realtà, la crisi è di così vaste proporzioni e così complessa da sfuggire alla cultura tradizionale dei partiti, e quindi il ricorso alla spiegazione complottarda, alle «trame oscure», o ai piani Kappa, è spiegabile come un estremo tentativo

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di salvare se stessi con la pretesa di salvare la democrazia. Ma è anche un segno drammatico di una cultura politica prigioniera degli idolo, tribus a cui si era affidata e da cui traeva tutti i vantaggi. Un segno, tutto italiano, di una crisi più generale della democrazia, in cui alla battaglia dei partiti, decisa nelle competizioni elettorali e nelle aule par­ lamentari, si va sostituendo la battaglia condotta tramite i mass media, in cui gli avversari politici tendono a neutra­ lizzarsi con rivelazioni scandalistiche, inchieste a effetto, accuse infamanti in una spirale perversa in cui la lotta politica perde ogni parvenza di razionalità. La «teocrazia deU’informazione» segue logiche interne a quel grande «superpotere» rappresentato dal sistema dei mass media. Più che della verità, i media vanno alla ricerca della sensazione: ciò che conta è stabilire una comunica­ zione emotiva con la «gente», interpretandone gli istinti, le paure e le passioni all’interno della collaudata logica bi­ naria amico-nemico, buono-cattivo. Si diffonde così un clima tra l’inquisitorio e il giustizialista che consente al teorico della Lega, il professor Miglio, di invitare tranquil­ lamente al linciaggio politico e di contrapporre alla «giu­ stizia dei legulei» quella del popolo che si esprime «nei moti rivoluzionari» («Corriere della Sera», 11 marzo 1993). L’uso del complotto e dei capri espiatori è funzionale a questa logica. Le coppie peccato-redenzione, sacrificio-pu­ rificazione costituiscono il linguaggio della comunicazione emotiva e del suo rituale purificatorio. Le storture del si­ stema non contano, come non conta la realtà della crisi del sistema e la difficoltà di rappresentarla nella sua com­ plessità. La sindrome RIP porta diritto verso il vuoto del «dibattito politico senza comunicazione», annullando la re­ altà dei problemi ma anche le più elementari regole della democrazia, il cui scopo, come ha scritto Norberto Bobbio, «è rendere possibile un dialogo razionale». Come ha scritto Bertrand Russell, «l’eccitazione collettiva

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è una deliziosa ebbrezza che ci fa facilmente dimenticare saggezza, umanità e persino lo spirito di conservazione, e che rende ugualmente facili i più atroci massacri e i più eroici martiri».10 È difficile resistere a questo tipo di eb­ brezza, ma è un’ebbrezza, che prima o poi, conduce all’apa­ tia e alla stanchezza e quindi alla necessità di stimoli sem­ pre più forti. Come, per esempio, quelli che sono pun­ tualmente arrivati con le accuse ad Andreotti. Grazie a queste accuse molti misteri sembrano ormai svelati e la teoria del complotto, frutto residuale del secolo delle ideo­ logie, sembra lasciare il posto al «paradigma indiziario», che rappresenta un’evoluzione «scientifica» della dietrolo­ gia. L’ossequio per i «fatti», la credibilità accordata ai «pen­ titi di mafia» si presentano ormai uniti alla sopravvaluta­ zione del potere esplicativo delle procedure giudiziarie. L’idolatria della procedura giudiziaria sembra l’ultima rein­ carnazione della teoria del complotto dopo il crollo delle ideologie. Ma il superamento della funzione ideologica del­ la teoria del complotto, che pure rappresenta un’indubbia evoluzione, non lascia libero uno spazio da riempire sol­ tanto con la chiarificazione giudiziaria di eventi o addirit­ tura della storia di un popolo. Esistono realtà e menzogne che non potranno mai essere provate, all’interno di un processo, né mediante un’esibizione di «fatti» né tantome­ no di «rivelazioni» o di «teoremi indiziari». Si tratta di una prescrizione che rim an d ai una delle più acute pagine di Luigi Einaudi, contenuta nelle sue Prediche inutili: «Non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare ... M a la co­ noscenza non si ottiene se invece del teorico o uomo di buon senso la ricerca è affidata al dottrinario. Costui è un personaggio che possiede una dottrina, ed ha fede in quel­ la. Egli non ragiona sul fondamento dei dati da lui cono­ sciuti e dalla tanta o poca capacità di raziocinio ricevuta alla nascita da madre natura e perfezionata collo studio e colla sapienza. No; il dottrinario ragiona ‘al punto di vista’.

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Prima di studiare egli sa già quel che deve dire».11 L’«ebbrezza collettiva» di cui parlava Russell sta in questa cor­ rispondenza della teoria del complotto con il paradigma indiziario. Sta in questo autorevole e diffuso «inveramento» del punto di vista ancora prima della celebrazione dei pro­ cessi e delle sentenze, che i media esercitano tutta la loro funzione ammaliatrice. Coloro che non vogliono abbandonarsi a questa «deliziosa ebbrezza», che sembra non risparmiare nessuno e spingere tutti verso l’eterno trasformismo italiano, dovrebbero fare come Ulisse, che si fece legare all’albero della nave per potere udire il magico canto delle Sirene senza restare vit­ tima di quella pericolosa seduzione. Ciò può tradursi, più modernamente, nell’attrezzarsi per vagliare criticamente dati e procedure, decodificare imma­ gini e informazioni, mantenere vigile la coscienza morale e il senso della responsabilità, per prendere le distanze dalla miope tirannia del presente. 1. R Scoppola» L a repubblica d ei p a rtiti. P rofilo stonco d ella dem ocrazia in Italia, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 157 e sgg. 2. A. Ventrone, L a litu rgia p o litica com unista d a l '4 4 a l 4 5 , in «Storia contempo­ ranea», a. X X III, 1992, pp. 80-81. 3. B. Ginsberg e M . Shefter, P olitics by O ther M eans. The D eclin in g Im portance o f Elections in A m edeo, Base Book, New York 1990. 4. «La Stampa», 27 maggio 1992. 5. G. Lehner, Paim iro Togliatti, Sugare», M ilano 1991, p. 81. 6. D. Vimercati e U. Bossi, Vento d a l N ord, Sperling & Kupfer, Milano 1992. 7. «Avvenimenti», 18 novembre 1992, p. 17. 8.

A. Galasso, L a m afia p o litica, Baldini e Castoldi, M ilano 1993.

9. «Corriere della Sera», 25 settembre 1992. 10. L Einaudi, Conoscere p e r deliberare, in Prediche in u tili, Einaudi, Torino 1956, pp. 10-11. 11. B. Russell, I l potere, Feltrinelli, Milano 1967, p. 24.

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C IU FFO LE T T I, Zeffiro Retorica del complotto / Zeffiro Ciuffoletti. — Milano : il Saggiatore, 1993. — 110 p. ; 19 cm. - (Biblioteca delle Silerchie ; 136). - ISB N 8 8 - 4 2 8 - 0 1 1 7 - 0 1. Complotto 2. Complotto — Italia — 1970-1992 3. Italia - 1970-1992 I. Tit. 945.092 (Storia d ’Italia. Repubblica, 1946- ) 322.42 (Relazioni dello Stato coi gruppi sociali organiz­ zati e i loro membri. Gruppi di azione politica)

Finito di stampare nel settembre 1993 da CPM, Ponte Sesto di Rozzano (Milano)