Responsa poetae. Corrispondenze poetiche esemplari dal Vannozzo a Della Casa
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DULCES MUSAE Collana diretta da Marco Ariani e Ornella Moroni

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Direttore Marco A Università degli Studi Roma Tre

Comitato scientifico Lucia B R Università di Pisa

Francesco B Università della Calabria

Mario C Università degli Studi di Torino

Simona C Università degli Studi Roma Tre

Anna D Università degli Studi di Firenze

Alfredo P Université de Franche–Comté

ITALO PANTANI

RESPONSA POETAE Corrispondenze poetiche esemplari dal Vannozzo a Della Casa

Copyright © MMXII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065

ISBN 978–88–548–5251–8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: ottobre 2012

A Raffaele, novello lettore, e, più che mai, ad Alessia

INDICE

Premessa i.

Le instabili relazioni di Francesco di Vannozzo

9 19

1.1. Tra Carraresi, Scaligeri e Visconti, 19 - 1.2. Petrarca e il « nato di Confortino », 25 - 1.3. Con notabili amici padovani: baldorie, amori e lezioni di morale, 30 - 1.4. La crisi: attacchi alla « ca’ del Lione » e al « laureato poeta antico », 38 - 1.5. Una insoddisfatta, ma ostinata fedeltà, 44 - 1.6. I « traditi enganni » di un « rettor sagio e potente », 49.

ii.

Sodalizi in cerca di una guida poetica

55

2.1. I corrispondenti padovani e urbinati di Malatesta da Pesaro, 55 2.2. Angelo Galli e Giusto de’ Conti, 62 - 2.3. Angelo Galli e Mariotto Davanzati, 68.

iii.

L’esordio di una tradizione

73

3.1. Una recensione in forma di epistola metrica , 73 - 3.2. Vita e opere di Ludovico Sardi, 78 - 3.3. Il carme oratorio a Niccolò III, 81 - 3.4. L’epistola metrica indirizzata a Guarino, 91 - 3.5. Da Guarino al Bruni, tra Amore e Diana, 100 - 3.6. Il Sardi corrispondente elegiaco, 106.

iv.

Poetiche in contrasto

113

4.1. Un anello scandaloso, 113 - 4.2. Il primo atto della tenzone, 118 - 4.3. Lo scioglimento del contrasto, 123 - 4.4. Interpretazioni della corrispondenza epigrammatica, 127.

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i. pantani – responsa poetae

v.

L’approdo al romanzo epistolare

133

5.1. Premesse filosofiche e artistiche, 133 - 5.2. Premesse letterarie, 137 - 5.3. L’invenzione del romanzo epistolare (elegiaco), 141 - 5.4. Contro l’angoscia della morte: risposte filosofiche, 154 - 5.5. Contro l’angoscia della morte: un mito letterario, 159 - 5.6. Implicazioni etiche e suggestioni volgari, 167.

vi.

Gli autoritratti di Giovanni Della Casa

173

6.1. Il rovesciamento di una pubblica immagine, in presa diretta, 173 6.2. Un giovane, dissoluto cultore di libri e di donne, 177 - 6.3. Nuovi amici e primi ammiratori: verso un classicismo più ambizioso, 183 6.4. Venezia: dall’apice del successo alle prime insoddisfazioni, 191 6.5. Tra Venezia e Nervesa: dall’autocritica stoica a una nuova religiosità, 199 - 6.6. Nervesa: attestazioni di raggiunta sapienza cristiana, 208 - 6.7. Il soggiorno romano e qualche contraddizione, 214.

Indice dei nomi

223

Indice dei manoscritti

233

8

Premessa

La grande duttilità del genere poetico costituito dai versi di corrispondenza, quale si manifestò tra xiv e xvi secolo, è il centro d’interesse dal quale hanno avuto origine gli studi che qui si raccolgono: studi già pubblicati in diverse sedi editoriali, e che ora, rielaborati e aggiornati, recuperano in questo volume la loro matrice unitaria.1 Non solo il tema portante, infatti, avvicina le sei ricerche che compongono il libro, ma anche l’impianto metodologico cui mi sono sempre attenuto per ricerche relative a questioni letterarie di pertinenza medievale e rinascimentale: a partire dall’attenzione rivolta a entrambi i versanti linguistici, volgare e latino, di cui si componeva l’orizzonte culturale, nella consapevolezza che gli intrecci tra le due tradizioni, per quanto sempre meglio studiati, devono ancora rivelare la massima parte delle loro fittissime trame, anche a causa della perdurante, difficile accessibilità di opere ai loro tempi, viceversa, molto diffuse.2 1. Tranne l’ultimo, tutti i saggi all’origine dei rispettivi capitoli sono stati (quale più, quale meno) rinnovati. Il cap. i ripropone lo studio Padova per Francesco di Vannozzo, in La cultura volgare padovana nell’età del Petrarca, a cura di F. Brugnolo–Z.L. Verlato, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 419–57; il cap. ii rielabora Le corrispondenze poetiche dell’avanguardia petrarchista di metà ’400, in Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa, vol. II, a cura di F. Calitti–R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 305–27; il cap. iii sintetizza l’ampio contributo Nascita della poesia latina ferrarese: il ruolo e i versi di Ludovico Sardi, in Filologia e interpretazione. Studi di letteratura italiana in onore di Mario Scotti, a cura di M. Mancini, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 81–125; il cap. iv, al contrario, approfondisce un tema accennato nel mio « La fonte d’ogni eloquenzia ». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 278–82; il cap.v fonde e amplia interventi diversi: I poeti del Tempio Malatestiano: amore, morte e neoplatonismo, « La cultura », 44 (2006), pp. 215–41, e Da “diva” a “dea”: trasfigurazioni poetiche nella corte malatestiana, in Annuario dell’Accademia d’Ungheria. 2007–2008 / 2008–2009, Roma, Aracne, 2010, pp. 310–25; il cap. vi apparve nel volume Giovanni Della Casa: un seminario per il centenario, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 241–87 (sotto il titolo: Le corrispondenze poetiche di Giovanni Della Casa). 2. L’esempio più eclatante che mi sia capitato di segnalare è illustrato in uno studio non compreso in questo volume: I. Pantani, Di un poemetto modenese ispiratore dell’Ariosto (Satire)

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i. pantani – responsa poetae

Su tale base, sebbene questo libro non possieda quel carattere di sistematica perlustrazione riscontrabile in importanti ricerche dedicate (entro più definiti margini temporali e linguistici) allo stesso genere poetico,3 nei sondaggi esemplari che esso propone si possono riscontrare altri aspetti metodologicamente omogenei: come lo scavo monografico volto a illustrare, tra filologia e intertestualità, differenti ma tutte significative fruizioni del genere; la possibilità di confrontare l’adattabilità di quest’ultimo ai due citati sistemi letterari, sviluppatisi (tra rapporti inevitabili e contrapposizioni anche ideologiche ) intorno alle reciproche basi linguistiche; l’opportunità infine di verificare come tale doppio registro potesse operare da sistema integrato tra le mani sapienti di un classicista del secolo xvi come Giovanni Della Casa. Le interpretazioni più originali, probabilmente, risulteranno proprio quelle dagli autori neolatini: e molte più ne evidenzierebbe uno studio anche solo specifico, se non sistematico. L’antichità aveva in effetti trasmesso modelli importanti di poesia indirizzata a destinatari, non coincidenti con la donna amata. Ma non tanto l’ispirazione intima e raccolta delle Epistulae oraziane (ancora riferimento primo di quelle petrarchesche) orienterà i poeti umanisti nel loro continuo dialogo testuale, tra polemiche d’argomento estetico, discussioni morali e politiche, confidenze sentimentali, lodi e ingiurie reciproche; quanto, come proverà anche il metro spesso adottato, l’attitudine sarcastica e giocosa dell’epigramma (appresa da Marziale), e quella comunque realistica e soggettiva dell’elegia. Quest’ultima peraltro, se non di rado in età romana prevedeva l’invio di un testo a un destinatario, non ne contemplava anche la risposta (trattandosi abitualmente di amici dell’autore, non a loro volta produttori di poesia); non a caso, le corrispondenze poetiche latine più famose sono le tre coppie di epistole che chiudono le Heroides ovidiane, vale a dire lettere immaginarie, invenzioni letterarie attribuite da un autore esterno a due personaggi. Assai diverso il panorama della poesia latina rinascimentale, che e del Tasso (Aminta), « Giornale storico della letteratura italiana », a. 125, vol. 185 (2008), pp. 161–85. 3. Penso innanzitutto agli studi di C. Giunta, dai Due saggi sulla tenzone, Antenore, Roma–Padova 2002, all’ampia sintesi Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, il Mulino, Bologna 2002. Per una prospettiva europea, cfr. almeno Il genere “tenzone” nelle letterature romanze delle Origini. Atti del convegno internazionale (Losanna, 13–15 novembre 1997), a cura di M. Pedroni–A. Stäuble, Ravenna, Longo, 1999.

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premessa

abbonda di scambi tra due e più interlocutori, questionanti tra loro, secondo una pratica certo influenzata dagli usi volgari, e spesso capace, in questa sperimentale tensione, di risultati particolarmente originali e creativi: come dimenticare ad esempio che Dante, sollecitato da una proposta di Giovanni del Virgilio, giunse a dare al proprio responsivo carme latino una veste bucolica, proprio attuando una trasposizione umanistica della « tenzone » in volgare?4 Pur forse distanti da un simile vertice, anche gli episodi che qui approfondiremo si riveleranno attuazioni tra le più interessanti del dialogo in versi. Esito tra i più originali e felici dello sperimentalismo neolatino è certo da considerarsi, in tal senso, il Liber Isottaeus di Basinio da Parma (su cui verterà il cap. v): un’opera in cui la corrispondenza non interviene più tra due poeti, ma si articola in ben trenta elegie composte da un unico autore (esterno), che le attribuisce a ben quattro personaggi interagenti in un’abile e sorprendente trama narrativa; a costituire, di fatto, il primo romanzo epistolare europeo. Più tradizionali, ma ugualmente esemplari dell’ampio spettro di possibilità d’utilizzo proprie della corrispondenza poetica, sono gli altri episodi proposti. Dando la precedenza, per motivi cronologici, all’uso che ne fece in volgare Francesco di Vannozzo (argomento di studio del primo capitolo), emerge subito qualche risultanza inattesa. Pur trattandosi infatti di un rimatore « cortigiano », produttore assai prolifico di corrispondenze poetiche, la sua gestione di queste ultime assume gli encomiastici caratteri che ci aspetteremmo solo nella produzione degli ultimi anni, veronesi e (forse) milanesi; laddove la lettura di quelle riconducibili al nativo ambiente padovano ci restituisce il profilo di un rimatore dilettante, ma capace, attraverso disinvolte conversazioni in rima con rappresentanti di prima grandezza di quel contesto, di avvalersi delle potenzialità relazionali di tale forma espressiva a beneficio della propria professione reale, quella di suonatore di liuto, cantore dalla voce rasserenante. Vedremo del resto che lo stesso Vannozzo, entrati in crisi quei rapporti, non esitò a servirsi del medesimo strumento 4. Cfr. G. Martellotti, Dalla tenzone al carme bucolico, « Italia medioevale e umanistica », 7 (1964), pp. 325–36. Se talvolta si è prestata attenzione anche a testi indirizzati a destinatari non dialoganti, in questo volume per « corrispondenza in versi » si è preferibilmente inteso un esercizio poetico che prevedesse la « proposta » di un mittente e la « risposta » del destinatario, senza approfondire (salvo rari accenni) se esso avesse carattere di « tenzone », o di « lettera in versi », sussunta nella lirica (per tali distinzioni, cfr. ancora Giunta, Versi, cit., pp. 167–266).

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i. pantani – responsa poetae

per difendere le proprie ragioni, e prendere sempre più le distanze da Padova; il cui « onore » comunque non mancherà di difendere e rivendicare ancora nei suoi ultimi versi, indirizzati al Visconti. La corrispondenza poetica, come mostrerà il secondo capitolo, seppe peraltro anche rivelarsi utile strumento per sodalizi letterari di primo Quattrocento, in cerca di una comune risposta alla necessità di dotare il volgare di un nuovo, non improvvisato codice lirico. Argomento di confronto dunque, come da illustri precedenti, la poesia stessa: attraverso i contatti tra numerosi rimatori (qui circa una dozzina), in una direttrice che da Padova, passando per Pesaro, Urbino, Bologna e Ferrara giunge a Firenze, prende forma un corpus di corrispondenze “didattiche”, divulgatrici di esperienze liriche d’avanguardia, in chiave petrarchesca. Tale magistero, condotto dal lirico più affermato a favore di meno esperti cultori, su diretta sollecitazione di questi ultimi, si attuò peraltro (ad esempio nel caso del Brocardo e del Conti) attraverso una drastica riduzione di corrispondenze (pur investite di importanti funzioni strutturali) da parte del caposcuola; sicché i seguaci che più invece ne scrissero, optarono per la loro collocazione non nei rispettivi “canzonieri”, ma in ben studiate raccolte di “rime sparse”. Discorsi metapoetici caratterizzano anche le corrispondenze analizzate nel terzo e nel quarto capitolo, questa volta intrattenute da autori in lingua latina. L’ambiente culturale estense rappresenta l’elemento di raccordo tra questi due episodi, sotto ogni altro aspetto completamente diversi tra loro. Nel primo, infatti, l’epistola metrica si rivela per mano di Guarino strumento funzionale ad una vera e propria “recensione”, dedicata a una novità letteraria tutt’altro che banale: dopo lunga attesa, infatti, finalmente un ferrarese (tal Ludovico Sardi) esordisce nella composizione di versi latini, dando così inizio alla tradizione poetica estense; e lo fa non solo attraverso ampi carmi indirizzati ai principi, d’intonazione epico–oratoria; ma a sua volta attraverso confidenziali corrispondenze inviate allo stesso Guarino e ad altri poeti, per esprimere, non senza rimpianti, le difficoltà incontrate per trovare, nella confusione di una professione giuridica relativamente gratificante, anche rari momenti di quella pace senza la quale le sue annose aspirazioni letterarie avevano dovuto a lungo tacere. Più vivace, e da subito al centro di grande attenzione, l’episodio analizzato nel quarto capitolo: una vera tenzone di poetica in versi latini, nel corso della quale il più grande autore elegiaco ferrarese, Tito 12

premessa

Vespasiano Strozzi, dovette difendere la propria ispirazione amorosa dagli attacchi del giovanissimo Giano Pannonio, nell’occasione portavoce dell’intera scuola guariniana (fautrice di una ben diversa poesia, espressione di valori morali e civili). Nell’arco di tre corrispondenze, l’iniziale contrapposizione si dissolse nell’amicizia e nell’ammirazione reciproca: sicché proprio l’incipit dell’ultimo intervento di Giano, Dicite quae sacro mittam responsa poetae (allocuzione rivolta alle Muse), mi è sembrato quanto mai adatto per trarne, necessariamente tagliato, il titolo da assegnare a questo volume.5 Né mancano, nel capitolo, esempi di altri usi neolatini della conversazione in versi, in questo caso di tono epigrammatico, più o meno giocoso. Sintesi metodologica di queste ricerche può infine ritenersi il capitolo vi, dedicato alle corrispondenze poetiche di Giovanni Della Casa. Senza più operare alcuna selezione, tale studio segue tutti i carteggi in versi intrattenuti dal poeta e dai suoi interlocutori, in lingua sia italiana che latina: un’operazione giustificata dall’assiduo lavoro condotto dal Casa sulla propria immagine pubblica, sulla quale (data anche l’uscita postuma del canzoniere) proprio gli scambi epistolari, in particolare quelli in versi, dovevano soprattutto influire. Le corrispondenze poetiche casiane esprimono in tal modo in presa diretta i vari mutamenti subiti dalla pubblica immagine dell’autore, da una fisionomia giovanile eclettica e spregiudicata a quella matura di colto e nobile cantore di sentimenti e stati d’animo, fino a quella senile di primo fustigatore di se stesso, votato all’autodenuncia delle proprie mire passate, bassamente mondane.6 Ora, questo percorso esemplare, che dal trecentesco Vannozzo si 5. Ovviamente, isolata dal resto del verso, la clausola esametrica lascia poco intuire del significato originario. Credo però che, anche così impoverita, l’espressione assolva bene il suo compito: della licenza citazionale chiedo venia al Pannonio. 6. Molti dei testi su cui mi soffermerò erano reperibili solo su manoscritto o stampa antica. Nel pubblicarli modernamente, privilegiando in questa sede la comodità del lettore, ho adottato criteri interpretativi: separando le parole e interpungendo secondo l’uso moderno, normalizzando l’uso di maiuscole, u e v, i e j, eliminando le h etimologiche, rendendo –tj– con –zi–, e uniformando con et davanti a vocale, e davanti a consonante, l’oscillante uso di &, et, e. Quando si incontreranno criteri diversi, li si dovrà attribuire alle varie edizioni moderne di riferimento. Riguardo alle quali, quando non altrimenti specificato, rimando agli strumenti da me prevalentemente utilizzati per l’analisi intertestuale, ossia: BTL. Bibliotheca Teubneriana latina, a cura di P. Tombeur, Leuven, Teubner-Brepols, 1999; ATL. Archivio della tradizione lirica. Da Petrarca a Marino, a cura di A. Quondam, Lexis, Roma 1997; LIZ. Letteratura italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli, IV ed., Zanichelli, Bologna 2001.

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spinge fino al Casa, nonostante il suo carattere non sistematico, esige comunque alcune coordinate introduttive due–trecentesche, necessarie a valutare pienamente la specificità degli autori che saranno approfonditi. Sarà opportuno allora ripartire dall’aspetto più evidente di tale panorama, vale a dire la gamma assai ampia di soluzioni tematiche e stilistiche praticabili, tutte autorizzate dai modelli più prestigiosi. Come non ricordare, ad esempio, che all’insegna della diffusissima pratica dell’arzigogolo amoroso si apriva nientemeno che la Vita nova di Dante? Tra le cui Rime del resto, accanto a serie dispute sulla natura d’Amore o ad amichevoli e leggeri scambi di saluti, non erano venuti a mancare omaggi a destinatari estranei all’arte della rima, e persino risposte “in nome di”, nella fattispecie l’amico marchese Moroello Malaspina. Anche sulla base di un simile esempio, tanto meno può sorprendere l’irrompere, nel panorama della lirica trecentesca, di una serie sterminata di testi siffatti, sia entro il circuito della rimeria gnomica (dove doppiamente trionfava), sia tra gli operatori più ambiziosi. Soprattutto nelle corti, ma anche in contesti cittadini, l’innata dialogicità del sonetto promosse gli usi più estremi, dall’encomio retoricamente più elaborato alla tenzone più triviale, dal più vuoto questioneggiare al confronto sui temi portanti della cultura medievale, dalla richiesta pratica allo sfogo psicologico, dalla sfida tra amici alla competizione tra rivali. Tutte prove in gran parte giocate innanzitutto sul piano linguistico, con radicali oscillazioni tra il tardostilnovismo delle questioni d’amore e il tecnicismo scolastico di quelle filosofiche, tra l’espressivismo di esercizi plurilingui o dialettali, magari rivendicanti materiali bisogni, e il tentativo, spesso fallace, di emulazione nei confronti del più nobile stile di destinatari ammirati. Una dimensione, quest’ultima, più che a chiunque altro presto riconosciuta, ovviamente, a Francesco Petrarca. Il quale non si tirò indietro, dimostrando anzi una spiccata propensione al genere, peraltro gestito con attenzione, seguendo criteri che andavano ben oltre la pur fondamentale diffusione della sua innovativa proposta linguistica; criteri che non mancarono di suscitare l’interesse dei suoi imitatori, e che dunque chiedono d’essere qui ricordati, per quanto rapidamente, a partire dalla testimonianza offerta dal canzoniere. Gioverà allora registrare che quest’ultimo, in sede d’esordio, comunica immediata la sensazione di una poesia ampiamente incline a un uso sociale, visto 14

premessa

che dei primi 120 Rerum vulgarium fragmenta (= Rvf ),7 in larga parte riconducibili al periodo avignonese, ben 22 hanno un destinatario diverso da Laura: dato doppiamente rilevante in quanto quasi sempre, con due sole eccezioni, è proprio Petrarca a prendere l’iniziativa del carteggio.8 D’altra parte, facilmente si rivela come tali corrispondenze in gran parte consistano in omaggi, perorazioni o confidenze indirizzate a protettori e conoscenti, senza dunque attesa di risposta; sostanziali monologhi, cui si sottraggono solo otto testi: cinque proposte a stimati colleghi ed amici (due forse a Cino da Pistoia, tre a Sennuccio del Bene) e due risposte a più modesti ammiratori, Andrea Stramazzo da Perugia e Antonio da Ferrara.9 La ragione di tanto rigore è evidente: nel canzoniere risultano accolte solo corrispondenze in qualche modo pertinenti alla trama morale e affettiva in esso tessuta, con conseguente rara fruibilità di testi condizionati da proposte altrui troppo occasionali; testi probabilmente in gran parte perduti nel generale naufragio della lirica giovanile del Petrarca. Con il dissolversi, spesso per prematuri e dolorosi decessi, delle relazioni intrecciate negli anni avignonesi, l’interesse per la corrispondenza poetica, secondo la testimonianza del canzoniere, sembra drasticamente ridimensionarsi: nei seguenti due terzi dell’opera (più di 240 testi), solo sei sonetti, di cui cinque responsivi, sono ascrivibili al nostro genere: due, forse, indirizzati a Geri de’ Gianfigliazzi, gli altri a Giovanni e Giacomo Colonna, a un anonimo e a Giovanni Dondi dall’Orologio.10 Nel complesso, l’iniziale impressione di una non esigua vena cortigiana e propositiva non viene annullata, ma di certo essa appare soggetta a un progressivo ridimensionamento; e continua a pesare il modesto rilievo assegnato alle corrispondenze con i colleghi, per quanto certo valorizzate dalla loro stessa rarità. Tuttavia, com’è noto, non era questo l’atteggiamento reale del 7. Per il Canzoniere del Petrarca, che citerò sempre con la sigla indicata, le edizioni di riferimento sono due: F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Mondadori, Milano 20042 ; e Id., Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a cura di R. Bettarini, Einaudi, Torino 2005. 8. Cfr. Rvf, 7, 8, 9, 10, 24 (risposta), 25, 26, 27, 28, 38, 53, 68, 91, 98, 99, 103, 104, 108, 112, 113, 114, 120 (risposta anomala). Per questo carattere del canzoniere petrarchesco, cfr. M. Santagata, I frammenti dell’anima, il Mulino, Bologna 1992, pp. 158–60. 9. Cfr., rispettivamente, Rvf, 25, 26; 108, 112, 113; 24, 120. 10. Cfr., rispettivamente, Rvf, 131, 179; 266 (proposta a Giovanni Colonna, a nome del quale rispose Sennuccio del Bene), 322 (risposta al già morto Giacomo Colonna); 166, 244.

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i. pantani – responsa poetae

Petrarca, rimasto sempre assai più disponibile e socievole di quanto documentato dal canzoniere; e tale era, e non quella attestata dal libro, la pubblica immagine del poeta presso i rimatori suoi contemporanei. Delle ventuno Rime estravaganti, non a caso, ben quattordici sono testi di corrispondenza, per lo più indirizzati a Sennuccio del Bene e Antonio da Ferrara, ma anche ad altri cinque o sei nuovi destinatari;11 e nel mare infido delle Disperse troviamo un’altra decina di risposte, inviate a cinque nuovi corrispondenti.12 Inoltre, al di là dell’incremento quantitativo, questi testi ci mostrano un Petrarca molto disponibile anche sul piano dei temi: persino disposto, come ad esempio in alcuni scambi con Antonio da Ferrara, a cimentarsi nelle trite e faticose “questioni d’amore” propostegli da tali ingegnosi mestieranti della rima.13 Il comportamento di Petrarca è insomma quello di un caposcuola che non si nega ai suoi ammiratori, e anzi pronto a concedere risposta a una quindicina di essi, pur se mosso a prendere l’iniziativa solo con Cino da Pistoia, Sennuccio del Bene e con lo stesso Beccari, nel celebre sonetto estravagante 15, dedicato all’amore ispiratogli da una donna ferrarese. Il fatto che, in tal modo, solo un terzo (dodici su trentasei) dei suoi testi pervenutici nati da scambi con altri rimatori trovassero posto nel canzoniere, deve essere allora interpretato come un elemento in più studiato dall’autore al fine di comunicare una suggestione di progressivo isolamento; una suggestione che, in quanto 11. L’edizione di riferimento è quella dei Frammenti e rime estravaganti, a cura di L. Paolino, in F. Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, Mondadori, Milano 1996, pp. 647–754. Cfr., nel dettaglio, 1: risposta a Iacopo da Imola; 2: risposta a Roberto de’ Bardi; 3: risposta a Pietro Dietisalvi; 6 e 7: risposta a Giovanni Colonna; 10, 11 e 12: proposte a Sennuccio del Bene; 13 e 14: risposte ad Antonio Beccari; 15: proposta ad Antonio Beccari; 16: risposta ad Antonio Beccari; 17: risposta a Ricciardo da Battifolle; 20: proposta a un signore potente. 12. Per questi testi bisogna ancora ricorrere alle Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, a cura di A. Solerti, Sansoni, Firenze 1909 (rist. con introduzione di V. Branca e postfazione di P. Vecchi Galli, Firenze, Le Lettere, 1997). Cfr., nel dettaglio, 25: risposta a Cecco di Meletto de’ Rossi; 27: risposta a Giacomo de’ Falconieri; 28: proposta a Menghino Mezzani; 33, 34, 35 e 36: risposte a Muzio Stramazzo da Perugia; 37: risposta a Tommaso da Messina; 39 e 40: risposte a ignoto. Al Petrarca scrissero inoltre, senza che ci sia nota l’eventuale risposta, Braccio Bracci (4), Matteo di Landozzo degli Albizzi (5), Francesco di Vannozzo (6). 13. Da questo punto di vista, l’esempio offerto da Petrarca differì molto da quello di Boccaccio, che con le sue sole tre corrispondenze (due risposte e una proposta), su 126 testi lirici, rivela un disinteresse insospettabile per un poeta di corte quale egli fu a lungo: cfr. 78 (risposta a Riccio barbiere), 79 (risposta a ser Cecco di Meletto de’ Rossi), 81 (proposta ad Antonio Pucci).

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premessa

ben poco conforme alla situazione reale, non lasciò nessun segno tra i rimatori coevi, neppure tra quelli che più da vicino seguivano il Petrarca (come Antonio da Ferrara, Giovanni Dondi e Francesco di Vannozzo), e che, in nessun modo badando ai criteri selettivi adottati dal maestro per il suo canzoniere, si adeguarono all’uso comune al punto da fare della corrispondenza il genere più praticato, nell’improvvisazione più completa sul piano sia stilistico che tematico.14

14. Il Beccari e il Dondi scrissero pochi sonetti che non fossero di corrispondenza; mentre nella raccolta delle rime del Vannozzo, comprendente 196 testi, oltre 70 appartengono a corrispondenze, di cui circa 40 al poeta e gli altri ai suoi interlocutori: con un’incidenza del 25 % nella produzione del padovano. Particolare la posizione del Serdini, che disdegna tenzoni con i colleghi, pratica con relativa moderazione lo stesso genere del sonetto, ma attribuisce a ben 23 dei suoi 108 componimenti un destinatario, o la voce di un committente.

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i Le instabili relazioni di Francesco di Vannozzo

1.1. Tra Carraresi, Scaligeri e Visconti Rimatore poliedrico fu Francesco di Vannozzo, per varietà di esperienze stilistiche e tematiche, non meno che per molteplicità di relazioni, letterarie e non; né molto di questa ricchezza è stato finora accuratamente esplorato.1 Tra i tanti percorsi di ricerca cui ancora si presta l’esperienza lirica vannozziana, come si vedrà, anche quello qui seguito farà emergere, oltre a suoi specifici motivi d’interesse, non trascurabili correttivi da apportare all’immagine vulgata di questo autore, generalmente considerato un tipico rimatore cortigiano di fine Trecento, vicino alla maniera di Antonio da Ferrara, con tratti comuni al Saviozzo. In sintesi: un professionista al servizio del committente di turno; propenso a giochi verbali e all’espressivismo, in quanto risorse che potevano incuriosire il pubblico di quelle corti; incline all’autocommiserazione, nei frequenti momenti di mancato sostegno da parte del signore; disposto infine a prestazioni di tipo giullaresco, destinate a un pubblico più popolare, di piazza.2 Aspetti certamente pertinenti alla 1. Una informatissima, ma anche imprecisa e divagante monografia realizzò E. Levi, Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde durante la seconda metà del secolo XIV, Firenze, Galletti e Cocci, 1908. In seguito il Vannozzo ha ricevuto rare attenzioni specifiche, che ricorderò nel corso dello studio. 2. Sono i tratti su cui generalmente concordano le sintesi storico–letterarie più attente, tra cui ricordo: F. Brugnolo, I toscani nel Veneto e le cerchie toscaneggianti, in Storia della cultura veneta, vol. II (Il Trecento), Neri Pozza, Vicenza 1976, pp. 369–87; L. Lazzarini, La cultura delle signorie venete nel Trecento e i poeti di corte, ivi, pp. 477–516; V. Dornetti, Aspetti e figure della poesia minore trecentesca, Padova, Piccin, 1984, pp. 117–26; C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, vol. II, Il Trecento, Salerno ed., Roma 1995, pp. 396–403.

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produzione vannozziana, quale ci è documentata dal suo pressoché esclusivo testimone manoscritto, il codice 59 del Seminario di Padova;3 ma accanto ai quali si devono anche evidenziare importanti elementi distintivi. Diversamente infatti sia dal Beccari che dal Serdini, Francesco di Vannozzo trascura troppi generi tra i più remunerativi: non si cimenta nella produzione devozionale; non privilegia i metri lunghi, adatti a temi politico–encomiastici e novellistici; pur mostrandosi spesso infelice e bestemmiatore nei sonetti, non compone vere e proprie “disperate” ad effetto; infine, percentualmente, riserva una quota più rilevante a testi di genere più propriamente “lirico”: su 158 componimenti, circa 40 sono a soggetto amoroso, una decina si possono dire autobiografici, circa 30 hanno carattere gnomico, una dozzina contenuto polemico; altrettanti sono i testi propriamente celebrativi, mentre la maggioranza relativa è detenuta dai quasi 50 sonetti di corrispondenza. La stessa rilevanza quantitativa assegnata dal Vannozzo a quest’ultimo genere poetico invita dunque a soffermare l’attenzione sull’interpretazione che egli ne diede; e di fronte all’ampiezza dello scenario, particolarmente interessante mi è parso guardare, al suo interno, a quei testi che egli dedicò alla propria città, Padova: quindi alla corte carrarese, ai colti personaggi che la frequentarono (primo fra tutti il Petrarca), alla stessa comunità cittadina.4 Una tale chiave di lettura, peraltro, deve fare i conti con una serie di difficoltà, meritevoli d’immediata rassegna. Innanzitutto, la spiccata e mal documentata mobilità dell’autore, che nei soli 18 anni di sicura attività letteraria (dal 1371 al 1389) fu attivo anche a Verona, Venezia e forse Milano, e che piuttosto a Verona trovò la propria più stabile e soddisfacente sistemazione, tra l’81 e l’87, alla corte di Antonio della Scala:5 dei 158 componimenti del Vannozzo pervenutici, infatti, solo 3. Sul quale cfr. F. Riva, Il Trecento volgare, in Verona e il suo territorio, vol. III, tomo 2, Istituto per gli Studi Storici Veronesi, Verona 1969, pp. 120–6; A. Rossi, Giovanni Dondi e Francesco di Vannozzo: prime pratiche per gli originali, in Id., Da Dante a Leonardo. Un percorso di originali, Bottai–Impruneta, Sismel–Edizioni del Galluzzo, 1999, pp. 74–84. 4. Ma molte altre prospettive si sarebbero potute adottare: la disponibilità vannozziana a discutere in versi temi di massimo impegno, come quello religioso, è stata ad es. illustrata da M. Marrocco, Implicazioni filosofiche nella corrispondenza poetica tra Francesco di Vannozzo e Gidino da Sommacampagna, « Filologia & critica », 35 (2010), pp. 44–72. Per un quadro complessivo del genere negli usi coevi, cfr. C. Giunta, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, il Mulino, Bologna 2002, in part. pp. 71–266. 5. Sulla vita del Vannozzo, oltre ai tanti dati acquisiti (ma spesso male interpretati) da

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una ventina sono certamente riconducibili all’ambiente padovano (sebbene su basi più aleatorie la cifra possa anche raddoppiare). In secondo luogo, la difficoltosa e spesso impossibile datazione e collocazione della maggior parte dei testi vannozziani: inconveniente accentuato dall’assenza di un disegno strutturale organico nel codice 59 del Seminario di Padova. Infine, la frequente oscurità di queste rime, dovuta ora alla nota predilezione dell’autore per un linguaggio poetico ellittico, arguto, formulare, ora al carattere strettamente contingente di molta sua produzione, in chiave confidenziale o polemica a seconda dei casi. Difficoltà a mio avviso superabili, anche se spesso su basi indiziarie e congetturali, già oggi peraltro in buona parte suffragate dalla preziosa edizione critica realizzata (benché in forma di tesi di dottorato) da Roberta Manetti.6 Di ciò tenuto conto, appare chiaro che il codice del Seminario, sin dal prospetto dei suoi contenuti sopra fornito, non ci offre l’immagine di un rimatore che intenda guadagnarsi da vivere mettendo il proprio ingegno poetico al servizio dei signori. O meglio, questa immagine si configura tardi, non prima del 1381, quando la dedizione del Vannozzo si orientò stabilmente su Antonio della Scala; e più ancora nei pochi testi che egli fece in tempo a intitolare a Gian Galeazzo Visconti, nel biennio 1388–89. Non a caso, la sola canzone a carattere schiettamente celebrativo (Pascolando mia mente al dolce prato) è indirizzata al signore E. Levi, cfr. G. Milan, Francesco di Vannozzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 50, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1998, pp. 35–7. Molte notizie, volte però a sostenere un’origine veneziana del poeta su cui (come si vedrà) non concordo, offre R. Manetti, Per una nuova edizione delle rime di Francesco di Vannozzo (ovvero: Perché una nuova edizione delle rime di Francesco di Vannozzo), in La cultura volgare padovana nell’età del Petrarca. Atti del Convegno (Monselice–Padova, 7–8 maggio 2004), a cura di F. Brugnolo–Z.L. Verlato, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 403–17. Sui contesti cittadini in cui il poeta si mosse, cfr. A. Simioni, Storia di Padova. Dalle origini alla fine del secolo XVIII, Padova, G. e P. Randi, 1968, pp. 481–745; E. Rossini, La signoria scaligera dopo Cangrande, in Verona e il suo territorio, vol. III, tomo I, Verona, Istituto per gli studi storici veronesi, 1975, pp. 453–725; F. Cognasso, L’unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, vol. V (La signoria dei Visconti, 1310–1392), Fondazione Treccani degli Alfieri per la Storia di Milano, Milano 1955, pp. 396–540. 6. L’edizione di riferimento è tuttora Francesco di Vannozzo, Rime, a cura di A. Medin, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1928 [= Medin]: assai valida, per i tempi in cui fu compiuta, ma rispetto alla quale progressi rilevanti ha conseguito R. Manetti, Le rime di Francesco di Vannozzo. Edizione critica, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 1994 [= Manetti]. Nelle pagine che seguono, i componimenti del Vannozzo saranno citati secondo la forma testuale fissata da Manetti; quanto alla loro numerazione, per comodità del lettore riporterò anche quella stabilita da Medin, sebbene essa risulti oggi inaccettabile, per la mancata distinzione tra le rime dell’autore e quelle dei suoi corrispondenti.

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di Milano, al quale è dedicata anche la corona di sonetti in cui le più importanti città d’Italia invocano la sua protezione; mentre per i signori di Verona, a parte qualche sonetto encomiastico e la frottola violentemente anticarrarese (Ciascun soffista) offerta loro in occasione della guerra del 1386–87, l’omaggio più rilevante resta l’elogio che chiude la canzone allegorica Era tramegio l’alba e ’l mattino.7 Che poi destinatari di tale elogio si debbano ritenere Antonio e Bartolomeo della Scala, e non il loro padre Cansignorio come prevede l’ipotesi ad oggi più seguita, è un dato a mio avviso sicuramente deducibile dalle informazioni in nostro possesso;8 sicché, nulla più comprovando una 7. I quattro testi citati sono, rispettivamente, i nn. 1, 189, 175 e 2 dell’ed. Medin; i nn. 1, 158, 145 e 2 nell’ed. Manetti. Le lodi cui mi riferisco risuonano soprattutto nel congedo della canzone 2: nel quale il poeta si dice convinto che la virtù « non è perduta » nel mondo, in quanto « del Can de la Scala – è nato un fructo / sì dolce e cordïale, / c’ogni veneno o male / dove costui s’apressa star non ponno, / et à zià tolto a le Virtute il sonno » (vv. 104–8). 8. La canzone Era tramegio l’alba presenta il poeta subito in ansia « per tema d’un serpente / ch’era sul monte dove mi trovai, / qual s’agrizzava con un fier mastino » (vv. 3–6): una scena che lo spinge a fuggire in pianura, ove trova un « chiaro fonte ». Qui lo raggiunge una donna, che gli si offre come guida; il poeta, incamminatosi con lei, le confida: « qui peregrino son di gente orphea, / che per un aspro bo ch’urtar mi volle / montai suso quel colle, / dove con l’orme vane / tema d’un cane – e d’un serpe ch’io viddi / m’à spinto in Silla per vittar Cariddi » (vv. 37–42). Ben presto la donna lo invita a sedere, « per ben che giovancello / et inesperto sì gran fatti assaggi » (vv. 49–50); quindi gli si rivela come la « Sollicitudo », e gli presenta la sorella « Constanza » e le figlie, le virtù, « che son dal mondo, misere, sbandite ». Desiderando che egli torni salvo al suo paese, le donne lo riconducono al fonte dove l’avevano trovato. Qui il poeta vede subito « el can del monte [. . . ] uscir di tana », al che Costanza gli dice, ridendo: « ora t’avanza / terreno e tempo col Mastin che vène! / Séguita l’orme e fa’ la via ch’el tene, / e perché talor urli e talor gema, / non aver de lui tema, / guardagli dritto en faccia, / che ·lla suo traccia, – bella e iusta scorta, / fie l’ultimo sperar che ne conforta ». Il continuo riferimento ad un « Cane », e soprattutto l’accenno alla “nascita” da lui di « un frutto / dolce e cordiale », ha indotto i primi esegeti del testo a risalire all’inizio degli anni ’60, quelli del dominio di Cansignorio (salito al potere nel 1359) e delle nascite di Bartolomeo (1361) e Antonio (1363). Cansignorio, però, a parte una fugace partecipazione alla lega antiviscontea del 1362–63, che gli costò nient’altro che qualche scorreria nei pressi del Garda, di fatto fu sempre un fedele alleato di Bernabò Visconti (cfr. Rossini, La signoria, cit., pp. 703–15); contestualmente, già Levi (Francesco di Vannozzo, cit., p. 31) osservò che il « cane » e il « mastino » furono in realtà emblemi di tutti gli Scaligeri, e anche che quella « nascita » poteva intendersi in senso non letterale, ma meglio come un « manifestarsi al potere »: ripiego obbligato, aggiungerei, perché non è facile pensare che il Vannozzo intendesse celebrare la nascita dell’illegittimo Antonio proprio nei mesi in cui Cansignorio sposava Agnese di Durazzo. In aggiunta, già Manetti (p. 10, nota 6) ha rilevato che « se la canzone è del 1362–63, fra questo documento dell’attività di Francesco di Vannozzo e il primo dei successivi databili c’è uno stacco di anni »; e ha suggerito che « questa difficoltà si eliminerebbe se la canzone alludesse a situazioni createsi negli anni ’70, dopo la guerra del 1372–73, quando lo Scaligero si alleò col Carrarese, mentre il Visconti finì con lo stringere lega con Venezia (1377) ». Di fatto, Bernabò assunse un atteggiamento veramente aggressivo nei confronti di Verona solo a partire dal 1375, quando con la morte di Cansignorio il potere fu preso dai giovanissimi Antonio e Bartolomeo; e si trattò di un’ostilità

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presunta produzione veronese risalente al 1363, s’impone di riconsiderare anche l’ipotetica data di nascita del poeta: sinora collocata intorno alla metà degli anni ’30 proprio sulla base di quella presunta attività, e invece verosimilmente da posticipare di circa un decennio, in assenza di testi databili in tempi anteriori ai primi anni ’70.9 A fronte dunque di una scarna e tardiva produzione encomiastica, i numerosi sonetti di corrispondenza, che impegnarono il Vannozzo per quasi un terzo di quanto ci è pervenuto della sua produzione, avvicinano la personalità del nostro autore, più che alla fisionomia del professionista di poesia, a quella del rimatore dilettante, interessato a tale genere letterario, dalla spendibilità quasi nulla presso qualsiasi signore, per le sue valenze relazionali, in quanto forma di piacevole comunicazione, o talvolta di sfida tra cortigiani. Non a caso, dunque, la stessa rappresentazione di Padova nelle sue rime, e in particolare nelle corrispondenze poetiche, si caratterizza per la totale assenza di testi encomiastici indirizzati a Francesco il Vecchio, signore della città: bersagliato piuttosto, come vedremo nel dettaglio tra breve, da continui lamenti circa la sua mancanza di generosità.10 L’anomalia può essere peraltro ricondotta a due possibili ragioni, forse concomitanti: da un lato, una eventuale incompletezza del repertorio trasmessoci dal codice del Seminario, esemplato negli anni ’90, e quindi inevitabilmente portato a privilegiare la produzione più tarda, quella della stagione veronese; dall’altro, il fatto che a lungo la professione del Vannozzo presso la corte carrarese non dovette essere quella del poeta, ma del musico, del suonatore di liuto, rimatore a tempo perso, all’occorrenza da adibire a servizi ancora più umili: come giullare, o corriere, o perfino soldato.11 concretizzatasi in varie incursioni nel territorio scaligero, condotte lungo tutto il 1378, fino a culminare in un breve assedio di Verona: un episodio che tuttavia, vista la mancata sollevazione popolare contro i due fratelli al potere, convinse il Visconti a rinunciare ad ogni rivendicazione, all’inizio del 1379. Questo è il contesto nel quale mi sembrerebbe assai più logico collocare la canzone 2 del Vannozzo; ma in tal caso, il più antico testo databile del nostro autore sarebbe il son. Quand’io mi volgo atorno e pongo mente (163 ed. Medin, 137 ed. Manetti), ascrivibile al 1371. 9. D’altro canto, neppure valore indiziario si può riconoscere a quanto il Vannozzo scrive nel son. Lïuto mio, dè, quanto pianger degio (29 ed. Medin, 23 ed. Manetti), e cioè di essere « da trent’anni » costretto a svolgere le umili e faticose mansioni del corriere: già Levi (Francesco di Vannozzo, cit., p. 28) interpretava quelle parole come generica ed enfatica allusione ad un ampio arco temporale. 10. Sul Carrarese, introduttivamente, cfr. B.G. Kohl, Carrara, Francesco da, il Vecchio, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 20, 1977, pp. 649–56. 11. Sulle spiccate competenze musicali del Vannozzo verte il contributo di R. Manetti,

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La prima sarebbe qualcosa più di una congettura, se autore del biglietto pervenuto al Vannozzo quando questi era a Bologna, nel quale si accenna a componimenti artistici vannozziani ricevuti spesso dal mittente, fosse davvero Francesco il Vecchio, e ci trovassimo veramente intorno al 1378, come volle il Levi;12 ma il tono del documento, non firmato, è talmente amichevole da far sospettare che ad inviarlo possa piuttosto essere stato Marsilio da Carrara, fratello del signore e amico provato (come vedremo) del poeta: il che ci porterebbe ad anni anteriori al ’73, e dunque ben più compatibili, per degli studi universitari, con la biografia del Vannozzo.13 Molto più convincente e interessante per noi la seconda ipotesi, in quanto le competenze musicali del nostro autore lasciarono tracce coerenti non tanto in documenti d’archivio, quanto in una serie di corrispondenze poetiche da collocarsi nel quinquennio 1368–73: anni in cui il Vannozzo produsse quasi tutte le poche rime attestanti, se non rapporti gratificanti col principe, almeno una serena integrazione nell’ambiente culturale di Padova.

Dell’edizione di Francesco di Vannozzo (con una postilla su “trenta” come numero indeterminato), « Studi di filologia italiana », 64 (2006), pp. 51–64. 12. Cfr. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., pp. 55–57. Riporto il messaggio, particolarmente interessante in questa sede, dalla trascrizione offerta a p. 492 (e non dall’ingannevole traduzione stampata a pp. 55–6): « Ingenuo viro Francisco Vanocij studenti in Bononia amico karissimo. Amice karissime. Sicuti tui recessus nescius timui, ita nuperrime conscius fui gavisus, animi tui laudabile propositum, si, uti voces sonant, facta erunt, recomendans; homines enim, qui naturale scientia ingenium adiuvant, sunt profecto aliis, non his insignitis dotibus, proponendi. Qua re hoc brevi tibi sermone suadeo, quo velis facta verbis annectere, mihi uti amico plurimum placiturus. Ceterum non immemor multorum que michi dixisti in arte tibi et michi nomine nota, te, amice, queso ut velis horum calamo veridico, quorum te experientia ditat, per hunc nuncium, qui fideliter datum referet, me participem reddere, quod miseris non ad parvam complacentiam habiturus ». 13. Marsilio lasciò per sempre Padova, da dove la lettera fu inviata, nell’agosto del 1373, a seguito della fallita congiura ordita ai danni del fratello; ed è chiaro che l’ipotesi di attribuirgli la missiva ci distanzia ulteriormente dal biennio 1382–84, al quale si riferiscono i documenti datati tra cui questa lettera è inserita. Ma dovendoci necessariamente allontanare da un tale periodo, in cui il Vannozzo era già alla corte di Verona, ogni interpretazione dovrà fondarsi solo su dati interni. Su Marsilio, cfr. M.C. Ganguzza Billanovich, Carrara, Marsilio da, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 20, cit., pp. 691–3; sui suoi rapporti col Vannozzo, cfr. F. Brambilla Ageno, Per un sonetto di Francesco di Vannozzo, « Studi e problemi di critica testuale », n. 12 (1976), pp. 46–9.

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1.2. Petrarca e il « nato di Confortino » Si trattava, come testimoniato tra gli altri da Francesco Petrarca in due celebri Senili (XIV 1 e 2), di un contesto in rapida ascesa sotto la guida dell’ambizioso carrarese, e da tempo avviatosi, grazie in particolare alle personalità legate allo Studio, lungo i prestigiosi sentieri dell’umanesimo latino.14 Nei confronti di questo ambiente il giovane Vannozzo ebbe modo di rendersi gradito puntando, con lodevole umiltà, assai più che su una vena briosa ma ancora grezza di rimatore, sulle sue apprezzate doti di musico e cantore: le quali, non a caso, assursero ad argomento centrale delle corrispondenze poetiche da lui avute con Giovanni Dondi dall’Orologio e con lo stesso Petrarca, e si trovano ricordate anche in quelle intrattenute con gli altri suoi più diretti referenti presso la corte, Marsilio da Carrara e Nicolò da Lion.15 In tal senso, varrà la pena rileggere rapidamente i documenti di questa condizione giovanile, a partire dal solo componimento inviato con certezza dal Vannozzo a Francesco Petrarca: Idem Francischus ad Petrarcham Poi ch’a l’ardita penna la man diedi, alzai le ciglia e viddi gente intorno che de l’impresa mia mi fer’ tal scorno, ch’ancor non so seder né star in piedi. Diceva un pensier: “Leva!” e l’altro: “Siedi!”, e ’l “sì” “non” “fa’” e ’l “non far” la notte e ’l giorno; tutti dicean: “Tu se’ sì poco adorno de facondar, che ’nvano scrivi e chiedi!”. 14. Le due Senili citate si possono leggere oggi in F. Petrarca, Le Senili, testo crit. di E. Nota, trad. e cura di U. Dotti, collab. di F. Audisio, vol. III, libri XIII–XVIII, Aragno, Torino 2010. Circa i rapporti tra Petrarca e Padova, cfr. almeno E.H. Wilkins, Petrarch’s later years, Cambridge (Mass.), Mediaeval Academy of America, 1959, pp. 1–38, 139–271; diversi studi compresi in Il Petrarca a Arquà. Atti del convegno di studi nel VI centenario (1370–1374), Padova, Antenore, 1975; G. Billanovich, Petrarca e Padova, Antenore, Padova 1976. Sul contesto culturale cittadino, Id., Il preumanesimo padovano, in Storia della cultura veneta, vol. II (Il Trecento), cit., pp. 19–110. 15. Dunque: la massima autorità culturale presente a Padova (il Petrarca); un prestigioso medico e rappresentante diplomatico di Francesco il Vecchio (Giovanni Dondi); il fratello del principe (Marsilio); e un componente di una delle più importanti famiglie di Padova, fornitrice ai Carraresi di vari stretti collaboratori.

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Ond’io, di ziò mellenconoso assai, nulla faccìa, per fin ch’un nato giunse di Confortino, e dixe: “Che pur fai? Io son quel suon che piugior fiate l’unse, e teco spesse volte il medecai, † ben che pur nudo mi congiunse †. Scrivigli e, se veder vuol mio vestito, pòrgate del bel stil dolce e polito”.16

Si è molto discusso su cosa il Vannozzo volesse dire al Petrarca con questi versi: ardui certo per stile e per guasti testuali, ma resi ancora più oscuri da pur illustri esegeti quali il Levi e il Medin, che si esercitarono in veri e propri contorsionismi interpretativi, pur di identificare col nostro poeta una figura quasi famosa di musico come Confortino, che è invece lo stesso Vannozzo, in questi versi, a distinguere nettamente da sé!17 Quasi famoso, ricordo, Confortino lo è in virtù delle note apposte da Petrarca sul proprio codice degli abbozzi, tra il dicembre 1349 e il gennaio 1350, con le quali il poeta appuntava che tre ballate lì trascritte erano state composte per quel musicista;18 il cui nome era peraltro già 16. Testo 9 ed. Medin, 7 ed. Manetti. In merito alla crux del v. 14, riporto le considerazioni di Manetti (p. 106): « Il verso è visibilmente mutilo; non parendo la zeppa di Medin 1928 (“ben che pur nudo [seco i’] mi congiunse”; [a lui i’] era invece quella proposta da Levi 1908, p. 406; da notare che, all’interno del ms. P, benché sarebbe seguito da indicativo solo qui e nel son. iv) senza dubbio convincente, opto per la più prudente crux. Forse il guasto si estende anche al v. 15, dove vuol potrebbe derivare da vuo’ (ma è più probabilmente connesso con il vb. del v. 16, e dunque di 3a p.) ». Da ricordare, comunque, è anche il restauro [teco i’], proposto da E. Proto (Sui nuovi abbozzi di rime edite ed inedite di Francesco Petrarca, « Studi di letteratura italiana », 7, 1907, pp. 1–50, a p. 26), e ripreso da N. Quarta (Chi era Confortino?, Viscatale, Napoli 1938, p. 19), « perché il copista avrà potuto più facilmente dimenticare di ripetere il ‘teco’, ch’era già nel verso precedente, che non saltare qualche altra parola »; e, aggiungo, perché questa integrazione meglio si presta a una lettura del testo che veda il « nato di Confortino » come entità ben distinta dal Vannozzo, benché con lui cooperante. Anche questa soluzione tuttavia, come mostrerò tra breve, non permette di superare del tutto la contraddizione di cui il verso, così come è stato trasmesso, pare portatore. 17. Cfr. Levi Francesco di Vannozzo, cit., pp. 405–13; e Medin, p. 30. 18. Cfr. introduttivamente F. Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, Mondadori, Milano 1996, pp. 669–70. Sull’identità del musico, dopo le intuizioni di Proto (Sui nuovi abbozzi, cit., pp. 26–8; Id., Per Confortino, « Giornale dantesco », 17, 1909, pp. 17–23), le considerazioni più lucide (benché non definitive, come vedremo) restano quelle di Quarta (Chi era Confortino?, cit.). Sui significati di questa collaborazione petrarchesca con un musicista, cfr. A. Pancheri, « Pro Confortino », in C. Segre, Le varianti e la storia: il Canzoniere di Francesco Petrarca, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 49–59.

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stato citato, in un sonetto composto intorno al 1325–26, dal trevigiano Niccolò de’ Rossi.19 Cronologia, come si vede, incompatibile con quella del Vannozzo, anche qualora si continuasse a collocarne la nascita verso la metà degli anni ’30 (e non del decennio successivo, come da me sopra proposto); né sarebbe d’aiuto l’ipotesi di considerare quel nome come un appellativo attribuito a svariati cantori, tra cui appunto il Vannozzo: da un lato, perché egli non sarebbe comunque il Confortino conosciuto da Petrarca venti anni prima; dall’altro, perché l’unico documento in cui le strade di Confortino e del Vannozzo s’incrociano è proprio il sonetto in esame, nel quale, ripeto, l’autore non dà il minimo indizio di voler attribuire quel nome (o soprannome) a se stesso. Ciò che infatti il Vannozzo volle dire al Petrarca, è che a liberarlo dall’impasse malinconica procuratagli dal contrasto tra il desiderio di rivolgersi in rima al grande poeta e un comprensibile senso d’inadeguatezza (vv. 1–10), era giunto il ricordo di un tema musicale opera di Confortino, cioè proprio il musicista circa vent’anni prima vicino all’illustre destinatario: un tema musicale che già in passato aveva rincuorato il Petrarca attraverso il liuto e il canto del Vannozzo (« teco spesse volte il medecai », v. 13), il quale ora può ben chiedere all’altro, in dono, uno dei suoi testi raffinati, da rivestire con quella musica cara ad entrambi.20 19. Nel son. 307, secondo l’ed. di F. Brugnolo, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, vol. I, Antenore, Padova 1974, p. 176. Il testo è così databile sulla base della cronologia interna al canzoniere (come spiegato ivi, vol. II, 1977, pp. 9–16); e, contenendo una rassegna dei più noti cantori del tempo, ha attirato l’interesse di N. Pirrotta, Due sonetti musicali del secolo XIV (1961), in Id., Musica tra Medioevo e Rinascimento, Einaudi, Torino 1984, pp. 52–62, a p. 59; e M. Salem Elsheikh, I musicisti di Dante (Casella, Lippo, Scochetto) in Niccolò de’ Rossi, « Studi danteschi », 48 (1971), pp. 153–66, a pp. 162–3. 20. Tale lettura segue sostanzialmente quella suggerita da Proto (Sui nuovi abbozzi, cit., pp. 26–8) e da Quarta (Chi era Confortino?, cit., pp. 14–9), che già consideravano il « suon » come una musica composta da Confortino e semplicemente cantata dal Vannozzo; un « suon » che, ricordando a quest’ultimo di essere riuscito, attraverso il suo canto, a confortare il Petrarca « benché pur nudo [teco i’] mi congiunse », intendeva dire che esso « non vestì dei versi degni di sé [. . . ]: perciò non vestì nulla, rimase nudo, solo. Il poeta potrà vedere un bel vestito, quando il suono avrà i suoi bei versi da vestire » (ivi, p. 19). Proprio quest’ultimo argomento, tuttavia, mi pare il più debole, in quanto vi resta insoluta la contraddizione tra l’uso ordinario, al v. 15, della metafora della musica come « vestito » di un testo letterario, e il suo anomalo rovesciamento al v. 14, dove invece il « suon » si dice « nudo » finché privo di quel testo. Né una via d’uscita si troverebbe chiamando in causa altri possibili scioglimenti dell’immagine della “veste”, che in Dante, Rime, 48, 16, è stata ad esempio interpretata come « un’addizione strofica alla stanza isolata Lo meo servente core » (G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d’amore, Olschki, Firenze 1981, p. 51). Va sottolineato, tuttavia, che ragione esclusiva della contraddizione è il contenuto attuale di un verso, il 14, evidentemente corrotto, nel

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Rilevato che da una tale interpretazione il Vannozzo emergerebbe nelle vesti di puro esecutore musicale (non creatore di melodie),21 in questa sede interessa soprattutto riflettere sulla strategia retorica e citazionale messa in atto dal nostro autore, nel rivolgersi alla massima autorità culturale presente a Padova in quegli anni. L’incipit è un vero e proprio omaggio: « ratto a questa penna la man porsi », aveva infatti scritto Petrarca stesso (Rvf, 120, 4), rispondendo ad Antonio da Ferrara; ed anche il successivo affollarsi e contraddirsi dei pensieri poteva ricordare al destinatario alcuni propri momenti lirici, come quello di Rvf, 68, 5–6: « ma con questo pensier un altro giostra / e dice a me ». La distanza tra il mondo poetico vannozziano e quello petrarchesco, tuttavia, emerge subito nella frenetica animazione conferita al motivo del dissidio interiore dalle successive personificazioni, in versi che opportunamente il Levi accostava a Purg., x 58–60: « dinanzi parea gente; e tutta quanta / [. . . ] a’ due mie’ sensi / faceva dir l’un “No”, l’altro “Sì, canta” ».22 In sostanza, l’esordio e il progetto petrarcheggiante cede subito il campo alle più icastiche forme dantesche e boccacciane, tra le quali si riverbera in particolare il ricordo di Inf. x, dall’immagine quale è perfino possibile che in origine l’aggettivo « nudo » non fosse presente, o si riferisse ad altro piuttosto che al « suon »; sicché il percorso più logico a mio avviso sarebbe prendere atto del chiaro significato complessivo del testo, e di lì partire per una congettura che elimini la contraddizione, comunque rifiutandosi di rassegnarsi a quest’ultima. Dissento inoltre dal Quarta riguardo alla sua idea che qui il Vannozzo stesse chiedendo quei versi proprio a nome di Confortino (cfr. p. 18): un’interpretazione minata da ragioni cronologiche (un musico ben noto nel ’26 doveva essere, se ancora vivo, ormai quasi settantenne), e legata alla fortunata (ma infondata, come mostrerò più avanti) esegesi secondo cui Confortino possa identificarsi con uno degli altri musici di cui Petrarca parla in Epyst., III 15 e 16 (cfr. F. Petrarca, Epistulae metricae, hrsg., übersetzt und erläutert von O. und E. Schönberger, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2004), Fam., XIX 11 (cfr. Le Familiari, testo crit. di V. Rossi e U. Bosco, trad. e cura di U. Dotti, collab. di F. Audisio, tomo IV, libri XVI–XX, Torino, Aragno 2008), e Sen., XI 5 (cfr. F. Petrarca, Le Senili, testo crit. di E. Nota, trad. e cura di U. Dotti, collab. di F. Audisio, tomo II, libri VII–XII, Torino, Aragno, 2007); mentre a me sembra chiaro che quel tema musicale faceva ormai parte del repertorio del Vannozzo, il quale dunque a proprio uso sperava di potervi abbinare un testo petrarchesco. 21. Non così se accettassimo una delle possibilità esegetiche registrate da Manetti (p. 105), e cioè che « l’espressione dei vv. 10–11 del son. di FdV sia una sorta di antonomasia (nato di Confortino = creazione musicale) che rispecchia una notorietà quanto mai solida e duratura, specie nella memoria del Petrarca che lo aveva evidentemente conosciuto e apprezzato »: in tal caso, autore di quella « creazione musicale » potrebbe essere lo stesso Vannozzo. Ma si tratta di ipotesi affine a quella di considerare « Confortino » come soprannome comune a più musici: una extrema ratio cui rassegnarsi solo di fronte all’impossibilità di una soluzione fedele alla lettera, che mi sembra invece in questo caso a portata di mano. 22. Cfr. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., p. 390.

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« levò le ciglia » (per cui cfr. v. 45), alla domanda « che pur fai? » (v. 31), con il « nato di Confortino » eletto a novello Virgilio per l’intimidito Vannozzo.23 Più sfumata la connotazione stilistica degli ultimi versi del sonetto, in cui ricorrono formule introdotte sì dall’Alighieri, ma già transitate in testi petrarcheschi.24 Nel proporsi direttamente all’ammirato aretino, il Vannozzo poteva dunque esibire una padronanza del repertorio tematico e linguistico dei Rvf pressoché unica ai suoi tempi, per quanto marginalizzata da un gusto ancorato all’espressivismo del ’300 padano.25 Tuttavia, contrariamente a quanto accadde ad altri esponenti di questo mondo ancor meno esperti del linguaggio poetico petrarchesco, come Antonio da Ferrara e Giovanni Dondi, egli dal Petrarca non ottenne risposta. Un comportamento anomalo per il solitamente disponibile destinatario. Una possibile motivazione, oltre a più che probabile stanchezza senile, ci viene peraltro suggerita dallo stesso Vannozzo: il quale, ogni volta che tratteggia i propri rapporti con il Petrarca, li pone all’insegna della musica (sempre semplicemente eseguita), non della poesia. Così, circa vent’anni dopo l’invio del testo appena letto, nel quale appunto egli si proponeva come colui che più volte aveva medicato il grande poeta col suo canto, un ruolo praticamente identico si sarebbe attribuito nella pur ambiziosa canzone Pascolando mia mente al dolce prato (1), indirizzata 23. Ancora dalla Commedia, in cui ricorre più volte, dovrebbe derivare l’espressione « vidi gente », presente peraltro anche nei Trionfi; « malinconoso » è invece termine caro al solo Boccaccio, in particolare del Ninf. fiesol. (55, 4; 70, 1; 160, 2; 244, 2). Circa la formula dantesca « che pur fai? », da registrare anche il riuso che ne fece Petrarca per sintetizzare le proprie controversie interiori (« Che fai? che pensi? »: Rvf, 273, 1); essa ricorda invece a Manetti (p. 106) un passo di N. de’ Rossi: « ché nel punto ch’eo era più dolente, / voce mi scesse dicendo: Che fai? » (238, 13–14). 24. In particolare, se la formula conclusiva « stil dolce e polito » fa pensare subito a Purg., xxiv 57 (« dolce stil novo »), ben più rilevante appare il fatto che Petrarca stesso, in Rvf, 332, 3, rimpiange proprio il « dolce stile / che solea resonare in versi e ’n rime », le sue rime. E ancora, « unse » è in rima in Par., xxxii 4, ma Amore « unge e punge » Petrarca in Rvf, 221, 12; mentre termine ben petrarchesco (e non dantesco) è « polito » (Rvf, 201, 1; Tr. Cup., iii 54). Va tra parentesi ricordato che Rvf 221 e 332 entrarono nel Canzoniere solo negli ultimissimi anni ’60 (ossia nella terza forma pre–malatestiana, risalente al 1369): segno forse di un privilegiato accesso vannozziano alla produzione poetica del Petrarca. 25. Sul tema, cfr. P. Cudini, Appunti su un “petrarchismo” ante litteram: Petrarca e la lirica settentrionale tardo–trecentesca, « Giornale storico della letteratura italiana », a. 92, vol. 152 (1975), pp. 362–86, a pp. 375–85; G. Folena, Il Petrarca volgare e la sua « schola » padovana (1979), in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Editoriale Programma, Padova 1990, pp. 337–52, a pp. 186–9; e talune mie note in I. Pantani, « La fonte d’ogni eloquenzia ». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Bulzoni, Roma 2002, pp. 74–8.

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a Gian Galeazzo Visconti, in cui lo spirito del Petrarca (« l’ombra di gran fama / ch’oggi nel bel poetar tra noi s’adora », vv. 9–10) viene evocato ad illustrare la divisa del conte di Virtù: Surge, figliuol mio diletto, che da quel dì ch’ussisti de le fasse amore in un le nostre voglie serra, e da l’occiosa guerra già mi levasti con canto perfecto;

e più avanti: E tu, che tante volte recreasti la vita mia nel studio solitaro.

Dunque, nient’altro che un « canto perfecto », capace sia di sollevare l’animo dalle afflizioni amorose, sia di ricrearlo dalle fatiche degli studi; un ufficio musicale oltre al quale ancora negli ultimi anni ’80 il Vannozzo non rivendica se non un legame affettivo di antica data, probabilmente enfatizzato, e la propria accurata conoscenza delle rime petrarchesche, fatta emergere attraverso un’autocitazione pronunciata dall’ombra stessa del grande poeta: Tu déi saper ch’a zascun homo nato, el dì che nasce, è dato suo ventura, come la mia scriptura nel mondo canta et ài più volte inteso.26

1.3. Con notabili amici padovani: baldorie, amori e lezioni di morale Forse un altro omaggio ci è giunto, offerto dal Vannozzo al Petrarca nei comuni anni padovani: almeno, in tale chiave il Medin volle leggere il sonetto El vostro dolce aspecto e la gran fama, un testo in realtà estremamente povero di contenuti, nulla più che l’ossequioso annuncio di una 26. Cfr. Rvf, 303, 14: « sua ventura ha ciascun dal dì che nasce ». Della canzone 1 del Vannozzo ho citato i vv. 18–22, 43–44, 57–60.

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visita, rivolto a una personalità dai connotati alquanto sfumati.27 Più produttivo, allora, risulterà spostarsi sulle corrispondenze intrattenute col medico e rappresentante diplomatico Giovanni Dondi dall’Orologio, e col fratello del signore di Padova, Marsilio da Carrara: anche perché in esse la notorietà del Vannozzo nella Padova dei primi anni ’70, quale musico di professione, trova interessanti conferme. Se infatti Marsilio invitava Francesco a raggiungerlo chiamandolo « sopran maestro d’ogni melodia » (nel sonetto A voi, zentil Francesco di Vannozzo, v. 2), il Dondi giunse invece a fargli recapitare la propria ballata La sacrosanta carità d’amore, composta a Firenze nel ’68 e musicata da Bartolino da Padova intorno al ’71, perché la inserisse nel suo repertorio, ancora una volta di puro esecutore.28 Il testo, insolitamente per una ballata, comunicava un messaggio pessimistico, la scomparsa dell’amore caritatevole tra gli uomini; e proprio questa anomalia contenutistica fu all’origine della proposta vannozziana: Idem F. V. ad magistrum Iohannem Nuovamente una donna assai pietosa, con atti begli e d’angelica forma, per gratia sua dignata è de por l’orma nel mio piccol albergo, e lì riposa; 27. Questo è il testo del sonetto (115 ed. Medin, 92 ed. Manetti): « El vostro dolce aspecto e la gran fama, / che ’n l’universo tutti noi conforta, / la rude scrittarella qui transporta / a despianar la via ch’a voi mi chiama; / è il cor acceso tanto in vostra brama, / c’ogni erro de la penna or si comporta, / pur che costei topina non sia morta / prima che giunga a la vigente rama, / la qual, se tanto fie ch’ella l’acetti, / per tema non ob[l]isca sua proposta, / ma reverente ai piedi soi si getti, / di gratia dimandar nulla disposta, / se ·nnon saper ben dir de’ miei concetti / con qual voler a lei zascun s’acosta ». Nota opportunamente Manetti (p. 281) che nonostante l’accenno alla rama (non virente, come corregge Medin, ma vigente, come porta il codice), gli appigli per riconoscere il Petrarca nell’anonimo destinatario sono scivolosi. Certo, al poeta aretino sembrano condurre alcuni richiami lessicali: una « gran fama » (sintagma peraltro dantesco: cfr. Inf., xv 107) è attribuita proprio a Petrarca nella canz. 1 del Vannozzo (v. 8); e se ancora da locuzioni del Paradiso è spesso nobilitato il linguaggio (« dolce aspetto »: iii 3; « miei concetti »: xxiv 60), quella « rude scrittarella » fa pensare alla « poverella [. . . ] rozza » canz. 125 (v. 79) di Petrarca, così come « reverente ai piedi » di Laura era stata invitata a presentarsi la canz. 37 (v. 118). Tutte espressioni, comunque, che il Vannozzo poté rivolgere a qualsiasi letterato di successo, magari negli anni veronesi. 28. Il son. di Marsilio è il n. 13 ed. Medin, 10a ed. Manetti; la ballata del Dondi (sul quale cfr. T. Pesenti, Dondi dall’Orologio, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. 41, 1992, pp. 96–104) è la n. 40 nell’ed. G. Dondi dall’Orologio, Rime, a cura di A. Daniele, Vicenza, Neri Pozza, Vicenza 1990, pp. 93–4.

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ma duolmi che mi par mellenconosa, sì che talor nel viso si disforma, e parmi che piangendo se conforma con voler dir che carità è nascosa.29

L’apprezzamento per le qualità formali del testo dondiano è ben rimarcato, tramite le immagini dantesche della « donna pietosa » e dei « begli atti », e mediante l’« angelica forma » petrarchesca;30 ma nel contenuto la ballata appare « melanconosa » al Vannozzo, e ciò a suo parere la imbruttisce, la « disforma » nel « viso ». Una critica cui il Dondi rispose molto amichevolmente col sonetto La donna che ti sembra cordogliosa, difendendo quei contenuti in nome della loro verità, ricordando la grazia che alla ballata comunque proveniva dalla veste musicale donatale da Bartolino (« venuta è a te con vesta gratïosa », v. 5), e aggiungendo che, intonata dalla voce melodiosa del Vannozzo, e magari inserita da questi nel proprio repertorio (« se la torai per sposa », v. 8) essa sarebbe stata non solo pari alle altre ballate, ma avrebbe acquistato un ulteriore titolo di nobiltà (« avrà da te nuovo prenome », v. 14), e confortato l’autore stesso dalle sue fatiche (« porrò giù spesso le tediose some », v. 10).31 Le relazioni strette su tali basi con due personaggi così influenti nella corte padovana, come il fratello del signore e un suo medico e rappresentante diplomatico, non furono affatto episodiche, neppure poeticamente; esse guidarono anzi il Vannozzo a cimentarsi in esperienze letterarie tra loro del tutto antitetiche, tanto dal punto di vista stilistico quanto da quello etico e psicologico. Le corrispondenze con Marsilio infatti, scritte ora direttamente in dialetto pavano ora comunque in un linguaggio fortemente espressivistico d’impronta tipicamente veneta, ci rappresentano una condotta di vita scapigliata: sfoghi contro litigiose comari, a nome di altri amici della brigata di Marsilio (Bel me mesiere, e’ fiè quel che devea); delusione per aver seguito lo stesso giovane Carrarese ad Avignone (nel 1370), ed essersi ritrovato con null’altro che « le scarpe rotte » (Quand’io mi volgo atorno e pongo mente, v. 2); malumore per aver accettato di tornare a Padova, probabilmente 29. Vv. 1–8 del son. n. 68 ed. Medin, 54 ed. Manetti. 30. Riprese, rispettivamente, da Vita nova, xxiii 1; Rime, 30, 109; Rvf, 90, 10. 31. Il son. è il n. 30a del Dondi, ed cit., pp. 71–3, e s’incontra anche nelle edizioni vannozziane: n. 69 Medin, 54a Manetti.

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su invito di Marsilio, in compagnia di un corriere avvinazzato (Sacci, signor, che la sera e ’l maitino); asservimento al gioco e ai bordelli, di cui il poeta si dichiara stanco: Ben ch’io non sïa degno, i’ ve respondo come a signore e cavalier iocondo. Io ho sì scorticato oggi ’l berrozzo per mia sochezza e per altrui follia, signor, ch’io vi prometto in fede mia che ’l Castellecto non mi toca el gozzo, perché nel tempo ch’io fui suo figliozzo conobbi che zascun, qual vuol si sia, ivi consuma, struge e getta via, poi vien cacciato a la ca’ da Bigozzo.32

Completamente diverso, dicevo, il tenore delle corrispondenze con Giovanni Dondi: il quale, con la sua consueta attitudine moraleggiante, in altre due occasioni trovò qualcosa da insegnare al Vannozzo. Nel primo caso, dopo aver letto un sonetto amoroso del nostro autore, nel suo Io temo che tu non doventi cervo Giovanni invitò l’amico ad affidarsi alla guida della ragione, per non farsi ridurre, dalla passione per l’« eguana » (fata, incantatrice) da lui esaltata, alla condizione di « bruto animale »; ed è probabile che il testo all’origine di questa esortazione fosse il seguente: Leone isnello con le creni sparte, aquila magna, falcon pelegrino, color di perla netta [o]pur d’or fino, come potrà giamai morte desfarte? Ché i dei, natura, il cielo, ingegno et arte 32. I sonetti citati sono, rispettivamente, i nn. 20, 163, 38 e 14 ed. Medin; nn. 15, 137, 37 e 10 ed. Manetti. Il testo dell’ultimo, di cui ho trascritto i vv. 1–10, meglio si comprende se si tien conto che il « berrozzo » è il membro virile (secondo il glossario di Medin), o il “deretano” (secondo quello della Manetti); il « Castellecto » è un famoso bordello veneziano, con bisca annessa, situato nei pressi del ponte di Rialto; « a la ca’ da Bigozzo » pare equivalere a “come un miserabile” (cfr. Medin, p. 35). Si noti poi che, pur in un contesto linguistico così espressivistico, non mancano modi desunti da illustri modelli; cfr. per il v. 1: Rvf, 244, 9 (« bench’i’ non sia di quel grand’onor degno »), o meglio A. Beccari, 4, 68 (« bench’io non ne sia degno »). 5: Guittone, 71, 1; 127, 13; Dante da Maiano, 15, 4; 19, 7; Boccaccio, Tes., v 8, 4 (« in fede mia »). 6: Inf., ix 99 (« gozzo »); per il v. 9, Rvf, 72, 39 (« consuma et strugge »).

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non porrà mai con forza de destino formar quel chiaro tuo vis paladino, che tanto ben col busto si conparte; le chiare luci d’ogni bel pianeta di Iuppiter, di Febo e di Dïana lo scontro tuo per gran tema diveta, perché san ben che tu sei sola eguana, con quelle carni eburne over di setta che paron latte con color di grana. Or va’, che gli occhi tuoi, la fronte e ’l riso àn fatto en terra un altro paradiso.33

È un sonetto che merita attenzione, in quanto ci mostra il giovane Vannozzo cimentarsi, in questi primi anni padovani, nella lirica amorosa; e farlo, pur confermando ampia notizia dei modi petrarcheschi,34 tentando una strada da quelli assolutamente distante. Una strada in cui la donna appare davvero un essere dotato d’inquietante malia (« eguana »), se le immagini che dovrebbero comunicarne il fascino sono quelle potenti, ma per nulla leggiadre, del « leone », dell’« aquila » e del « falcone »; e infatti proprio sul potere della donna amata il testo indugia, dicendone le bellezze superiori a quelle dei pianeti (e delle rispettive divinità), e quindi tali da prevalere su qualsiasi forza, persino quelle della natura, del cielo, o del destino.35 Non aveva dunque tutti i torti il Dondi ad ammonire l’amico. 33. Il son. del Dondi è il n. 19; quello del Vannozzo che probabilmente lo ispirò è il n. 82 ed. Medin, 64 ed. Manetti. L’esistenza di un rapporto diretto tra i due testi può sollevare dei dubbi, così sintetizzati da Manetti (p. 224): « Medin dichiara responsivo a questo [sonetto del Vannozzo] il son. 19 del Dondi; i motivi (taciuti dal Medin) saranno ovviamente la rubrica preposta al son. del Dondi nel ms. Mc2, c. 31v (“Idem Francisco de Padua deviato de studio amore cuiusdam”) e l’accenno, al v. 7, alla donna come eguana. Tutto sommato un po’ poco per identificare con certezza, specie in assenza di rime o almeno di schema metrico in comune fra i due sonn. in questione (il son. del Dondi non è ritornellato), lo “studioso” Francesco della rubrica con FdV ». A mio avviso, tuttavia, se questi ultimi elementi impediscono di parlare di « corrispondenza poetica » in senso tecnico, i primi due argomenti non lasciano spazio a valide alternative circa il destinatario del sonetto del Dondi (che nulla può far pensare diretto a Francesco il Vecchio, come ipotizzava G. Corsi, Rimatori del Trecento, Utet, Torino 1969, p. 501). 34. Basti citare per il v. 5: Rvf, 193, 14 (« arte, ingegno et Natura e ’l Ciel »). 13: Rvf, 234, 7 (« con quelle mani eburne »). 15–16: Rvf, 292, 1, 6–7 (« Gli occhi [. . . ] / e ’l lampeggiar de l’angelico riso / che solean fare in terra un paradiso »). 35. Se la figura dell’« eguana », benché diffusa, proviene probabilmente da A. Beccari (che in 47, 3 definì « bella iguana » – propriamente una ninfa delle acque – la maga Circe), derivazione

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Così come non tutti i torti ebbe in altra occasione, quando, affrontando un tema su cui vertono molte lamentele del Vannozzo, ossia l’ostilità della fortuna nei suoi confronti, gli indirizzò un sonetto (Quando ’l ciel con suo’ stelle favoreza) in cui lo invitava, contestualmente, ad affidarsi allo studio degli influssi astrali, a sottomettere le passioni alla ragione, e infine a sperare in Dio.36 La risposta di Francesco rappresenta un esempio perfetto sia delle difficoltà del giovane Vannozzo a trovare un linguaggio stilisticamente coerente quando il tono dell’enunciato deve elevarsi come la materia richiede; sia dell’atteggiamento scettico con cui di solito egli reagisce alle ortodosse moralità dei corrispondenti: Responsio F. V. La vostra oppinïon, c’oggi verdeggia, nel verace giardin si chiude e serra per tal, c’ogn’altra dal mio cor diserra: io dico a rechiezar, non ch’io li creggia! Vero che ·llo aspectar molto daneggia, sì che per duol talor l’uom si soterra; non so se poi per la superna cerra colui che muor la vince o l’impareggia. E perché al descolar de questa lama non basta el fuoco de nostre camelle, io pongo fine al mio leve sermone. Quanto più puote ognun levi la pelle al bene sì, ch’al tocco de suo sprone sian adunate l’ossa e buona fama.37 dantesca hanno alcune delle bellezze attribuite alla donna (« chiare luci »: Par., xxii 126; « color di perla »: Vita nova, xix 47), così come da Dante proviene il sintagma « forza de destino » (Rime, 104, 77). 36. Il son., che in veste leggermente variata il Dondi inviò anche a un Guglielmo, è il n. 31 dell’ed. cit. (pp. 74–6). Nella forma indirizzata al Vannozzo, esso si legge anche tra le rime di quest’ultimo, al n. 83 ed. Medin, 65a ed. Manetti. 37. Il son. è il n. 85 ed. Medin, 65 ed. Manetti. Per favorire la comprensione delle ardue terzine, riporto la preziosa glossa di Manetti (p. 227): « Camelle. vocabolo assai mal spiegabile, che Medin corregge in candelle, ottenendo però un’immagine ben poco convincente, dal momento che descolar è un tecnicismo da fonderia, attestato anche in un son. di ser Mula a Cino, A tal vision risponder non savria, 9–10: “Quell’era l’alma tua ch’è fuor di gioco, / però che ’n forte flama si discola” (‘si affina’). Se non c’è un guasto nel ms., si può forse connettere col gamela ven. e piem. (rispettivam. ‘scodella di ferro verniciato’ e ‘teglione, tegamaccio’) [. . . ], pensando che qui significhi qualcosa come ‘braciere’ ».

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Nonostante la stima dichiarata per l’opinione del Dondi, dunque, il Vannozzo conserva dei dubbi circa il rapporto tra l’umano e il divino, sino a dirsi pessimista proprio su quelle risorse della ragione cui il medico padovano lo esortava tanto a ricorrere; anche l’esortazione conclusiva al bene è del tutto volontaristica, sganciata da motivazioni razionali. Come accennavo, inoltre, il messaggio è affidato a mezzi linguistici eterogenei, solo parzialmente diversi rispetto a quelli messi in campo con Marsilio da Carrara: qualche voce è mutuata da Petrarca, qualche immagine più realistica da Dante, e il tema frena riferimenti diretti a realtà degradate;38 ma assai numerose restano le formule desunte dal parlato, per quanto ora spesso elevate ad uso metaforico: « rechiezar », « la vince o l’impareggia », « descolar de questa lama », « levi la pelle / al bene », « sian adunate l’ossa ». Si tratta, com’è noto, della cifra stilistica prevalente tra le rime del nostro autore. Marsilio da Carrara, Petrarca, Dondi, ma non solo. Il Vannozzo nei primi anni ’70 era in ottimi rapporti anche con esponenti delle famiglie più influenti. Nel sonetto indirizzato a Nicolò da Lion (Io vegio ben che tu se’ gionto al passo), che sarà sul finire degli anni ’80 fattore di Francesco Novello, e per la sua fedeltà al Carrarese imprigionato dai rettori viscontei, troviamo il poeta condannare Amore, e tentare di alleviare le pene che affliggevano il cuore del destinatario;39 nell’ultimo verso giungendo ancora, se bene intendo, ad offrire il proprio canto, recapitato a domicilio, quale medicina del « dolore » sentimentale: Idem F. V. ad Nicolaum de Leone Io vegio ben che tu se’ gionto al passo dove zascun amante si dispoglia d’ogni alegrezza e vestesi di doglia, con dolce lagrimar piangendo lasso, perch’el mi par vederti al collo un sasso 38. « Verdeggia »: Rvf, 107, 12; 188, 3; « chiude e serra »: Rvf, 300, 5; « superna cerra »: cfr. « mondana cera » di Par., i 41; « al mio sermone »: Inf., xiii 31; « pelle »: Inf., i 42 (ecc.). 39. Su Nicolò da Lion non abbiamo notizie anteriori al biennio 1388–89: quando il Novello, già prossimo alla capitolazione di fronte allo strapotere visconteo, lo incaricò della vendita di sue proprietà e della custodia di altri suoi beni. Dopo la resa del signore, Niccolò fu inserito (con i fratelli) tra i proposti al bando da Padova, e registrato tra i cittadini imprigionati (cfr. G. e B. Gatari, Cronaca Carrarese, a cura di A. Medin e G. Tolomei, in Rerum Italicarum Scriptores, vol. XVII, parte i, Zanichelli, Bologna 1931, pp. 331–4, 336, 355, 403 [documenti], e p. 724 [sintesi]).

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che ti dà morte, vita, pianto e zoglia, e tanto più si sente pena e noglia, quanto più magno e nobil è ’l conpasso, però fra sé medesmo leggie e spone, sì che per forza convien che sia scarco enn–un sol corpo quel de due persone. Però, fratello, io maladico l’arco che di tal morte t’à dato casone; ma poi che tu se’ giunto a cotal varco, non ti nasconder più, mo fa’ che parte del tuo dolore io venga a mitigarte.40

Questo sonetto offre anche un valido esempio della lirica vannozziana di questi anni a soggetto amoroso, non importa se qui volta ad analizzare sentimenti altrui. Il linguaggio è come sempre composito, con un esordio nutrito da eterogenee memorie (da Dante, Cino da Pistoia e Antonio Beccari);41 tuttavia, pur in un libero riuso dagli effetti dissonanti, presto in questo caso il dettato si conforma in prevalenza alla caratteristica grammatica amorosa petrarchesca: l’amico porta al « collo » come un « sasso » (equivalente al « giogo » del modello), che gli procura sensazioni antitetiche; e soprattutto, l’intero testo sembra seguire con una certa approssimazione la trama lessicale di Rvf, 36.42 Ciò che qui più interessa, comunque, è che se l’interpretazione del distico finale proposta risulterà convincente, ci troviamo di fronte all’ennesima autopromozione del Vannozzo in qualità di cantore dalla voce rasserenante: attività rispetto alla quale quella poetica si presentava in questi anni padovani funzionale, in quanto strumento 40. Il son. è il n. 15 ed. Medin, 11 ed. Manetti. Riguardo all’arduo dettato dei vv. 7–11, così ancora Manetti (p. 115): « L’intervento sul ms. si evita [. . . ] intendendo: “e tanto più [l’amante, con ripresa del sogg. della prima quartina] sente pena e tormento (commisurati alla grandezza dell’oggetto che suscita il desiderio insoddisfatto), poiché rimugina tra sé e sé [leggie e spone si rifà al linguaggio scolastico], sicché finisce per scaricarsi addosso ad una persona sola quel peso che sarebbe proporzionato per due persone” ». 41. « Io vegio ben » ricorre infatti ben sette volte tra Purg. e Par., ma una volta pure nei Rvf (19, 68); e nella prima quartina c’è anche un ricordo di Cino da Pistoia (« d’ogni allegrezza e d’ogni ben mi spoglia », 107, 4), unito ad uno di A. Beccari (« piangendo lasso », 15, 4) 42. « S’io credesse per morte essere scarco / del pensiero amoroso che m’atterra [. . . ]; / ma perch’io temo che sarebbe un varco / di pianto in pianto [. . . ], / di qua dal passo ancor [. . . ] / mezzo rimango, lasso, e mezzo il varco. / Tempo ben fora omai d’avere spinto / l’ultimo stral la dispietata corda ». Per la metafora petrarchesca del « giogo » al « collo », cfr. Rvf, 28, 62 e 197, 3.

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di comunicazione finalizzato alla conquista di un credito da investire, professionalmente, appunto nei servizi musicali. Come conferma, in questa stagione, una produzione letteraria poco ambiziosa, limitata al sonetto di corrispondenza e d’amore, senza avventure (come notavo all’inizio) in generi ben più remunerativi, ma anche assai più impegnativi. In ogni caso, il binomio poesia–musica, così impostato, funzionava.

1.4. La crisi: attacchi alla « ca’ del Lione » e al « laureato poeta antico » La crisi giunse nel 1373, con il fallito attentato di Marsilio da Carrara ai danni del fratello, e la conseguente frattura tra i cortigiani dei Carraresi. Il Vannozzo, come visto, sino ad allora si poteva dire assai più familiare di Marsilio che non di Francesco il Vecchio: principe colto, quest’ultimo, che poteva dargli l’attenzione che si presta a un giullare, ma che tra una battaglia e l’altra preferiva di gran lunga intrattenersi col Petrarca, con Lombardo della Seta, col Dondi. Persa la protezione di Marsilio, costretto a rifugiarsi a Venezia, la situazione a Padova per il Vannozzo peggiorò visibilmente, costringendolo a continui spostamenti a Verona (già nel ’74–75) e a Venezia (nell’80–81), prima del definitivo trasferimento a Verona. Del resto, anche negli anni intermedi un saldo legame con gli Scaligeri è ben attestato: basterà qui ricordare la lettera che nel ’76, appena tornato da Ferrara (dove aveva accompagnato Francesco Novello da Carrara nell’occasione delle nozze con Taddea d’Este), egli indirizzò ad Antonio della Scala, per ringraziarlo del dono di un’arpa, e per scusarsi di non averlo potuto subito raggiungere, perché ammalato, appena liberatosi dall’impegno.43 Conferme della frattura causata dalla congiura di Marsilio negli ambienti padovani cui il Vannozzo era legato ci giungono da alcune sue interessanti corrispondenze poetiche, nelle quali il nostro musico cercò con toni esasperati di difendersi da maldicenze e da ogni sospetto di compromissione, ribadendo la propria fedeltà al suo signore. Il documento più esplicito in tal senso è il sonetto indirizzato contro Checco da Lion, collaboratore e consigliere di Francesco il Vecchio, nel 43. L’epistola si legge in Levi, Francesco di Vannozzo, cit., p. 493; sull’episodio, cfr. ivi, pp. 107–8, 138–9.

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1373 provvisoriamente rimosso dai suoi incarichi e imprigionato perché sospettato (ingiustamente, come si appurò ben presto) di complicità con i congiurati, e già nel 1374 reintegrato nel suo ufficio di gastaldo generale dei Carraresi:44 Perché tu sei de la ca’ del Lione, chiamar ti puoti Marco evangelista; ond’io, fratel de san Zanne Batista, sì te bategio con cotal sermone. Né de fratel né de buon conpagnone il mio sonetto già ti farà vista, anima zoppa, maculata e trista, vicioso corpo figlio de carbone, superbo, ingrato e natural villano, scarso di carta e de la lingua mutto, inherte de la penna e de la mano! Io vengo rico e te nulla riputto, e lodo Cristo e ’l mio signor vetrano che de provisïon t’à casso e sciutto. Molto m’agrada se mai non me scrivi, e non ti parlarò finché tu vivi.

Con un linguaggio qui ben poco letterario,45 il Vannozzo si dice deluso del silenzio che gli sta riservando il vecchio amico, a tal punto da essere contento che il signore di Padova lo abbia rimosso dai suoi incarichi: accompagnando il tutto con una ricca serie d’insulti, e con una dichiarazione di fedeltà a Francesco il Vecchio, il suo « signor vetrano ». Ma questa crisi nei rapporti con i da Lion era solo un aspetto di una frattura più ampia. Sarà utile ricordare che Checco da Lion era anche un ammiratore di Petrarca, le cui opere, alla morte dell’aretino, si preoccuperà di far copiare a sue spese;46 un dato che riesce difficile 44. Di Checco da Lion (solo omonimo di un Francesco da Lion che fu anch’egli familiare di Francesco il Vecchio) si hanno notizie dal 1372 al 1386, quando lo s’incontra accanto al Carrarese durante le ostilità contro Antonio della Scala; sul suo conto cfr. Gatari, Cronaca, cit., pp. 64, 130, 135, 156, 248, 250 (documenti), e p. 723 (sintesi). Il son. è il 32 ed. Medin, 26 ed. Manetti. 45. Anche se andrà rilevato che « anima maculata » è espressione boccacciana (El. di m. Fiam., vi 16), così come « inerte » (Ameto, xxxviii 14). 46. Cfr. G. Billanovich–E. Pellegrin, Una nuova lettera di Lombardo della Seta, in Classical,

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non associare all’improvviso e inatteso contrasto tra il nostro autore e lo stesso Petrarca, che sembrerebbe documentato dal sonetto in cui il Vannozzo lamenta all’uomo di legge Ilario Centoni (parmense, ma attivo a Padova almeno dal 1359 al ’92) l’opera diffamatoria condotta ai suoi danni da un « laureato poeta antico »: Con ciò sia cosa che quel laureato poeta antico, nell’arte gentile, abbia battuto tanto el suo fugile ch’el sïa per lo mondo publicato, e poi, per tema de cader di stato, c’altri non colga la rosa d’aprile, m’abbia dipinto con suo falso stile e la suo colpa sopra me voltato, pregar vi voi, missier Lario Centone, che ’l vostro amico voi facciate acorto de non usar col sordo buserone; non che del suo camin mai fosse torto, ma per lo rasonar de le persone, che de gran lunga fie meglio esser morto: io veggio e sento ’l fumo de le torte et odo raxonar dentro da corte.47

Per quanto possa lasciare perplessi riconoscere il Petrarca dietro quel « sordo buserone » intento a gettare discredito sul Vannozzo « per tema de cader di stato » e di perdere una misteriosa « rosa d’aprile »48 (soprattutto a chi ricordi l’immagine idillica dei suoi rapporti con il poeta aretino, dal nostro autore ancora quindici anni dopo vantata nella canzone al Visconti), ben poco economico mi risulterebbe ipotizzare un uso ironico, riferito a un qualunque presuntuoso poetastro, di Medieval and Renaissance Studies in honor of B.L. Ullman, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1964, vol. II, pp. 215–36, a pp. 222–4. 47. È il son. 141 ed. Medin, 116 ed. Manetti. Il nome di Ilario Centoni da Parma figura in un documento del 1359, e in altri sei redatti tra il 1384 e il 1392: cfr. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., p. 398, n. 2. 48. Immagine normalmente pertinente « all’ambito erotico » (Manetti, p. 313), ma anche semplicemente paragonata alla bellezza di un volto in Boccaccio: nel Tes., iii 50, 3 (« bianco e vermiglio com’ rosa d’aprile »), e nel Dec., ii concl., 2 (« nel viso divenne qual fresca rosa d’aprile o di maggio »).

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espressioni così precise come « laureato / poeta antico, nell’arte gentile / [. . . ] per lo mondo publicato »; e ancor meno saprei chi altri riconoscere dietro a tali definizioni, anche in chiave ironica, tra i letterati attivi a Padova in quegli anni (visto che l’identità del destinatario ci riporta comunque al contesto carrarese).49 Tanto più che, se l’esordio parodizza in chiave polemica locuzioni epiche, e se il linguaggio si basa sulla concretezza icastica del parlato popolare (battere il fugile, sordo buserone, fumo de le torte), mi sembra indubbio che dietro questo testo si avverte la presenza, sempre in chiave parodica, di due sonetti petrarcheschi, Rvf 185 per i comportamenti pregressi dell’avversario, e Rvf 1 per quelli attuali.50 Vero è, per contro, che la collocazione di questo contrasto col Petrarca nel quadro della crisi del 1373 manca di riscontri probanti; essa tuttavia pare senz’altro la soluzione più economica, una volta sgombrato il campo dal mosaico d’illazioni, sedimentatesi nel tempo, circa i rapporti tra Petrarca e la schiera dei musicisti e giullari che lo attorniavano: un tema che ha visto il Vannozzo chiamato in causa ben oltre la questione di Confortino, già prima in parte precisata.51 Per fare un po’ di ulteriore chiarezza, ripartiamo dai documenti. Fra il 1351 e il 1353 Petrarca indirizzò due Epystole (III 15 e 16) a un musicista suo amico, Floriano da Rimini, per esortarlo a lasciare la corrotta Avignone: il destinatario è lodato come « Orpheus alter », e non si accenna ad un suo figlio ricco di talento.52 Nel 1356, nella Familiare inviata da 49. L’identificazione col Petrarca fu proposta da Levi (Francesco di Vannozzo, cit., pp. 397– 9), mentre scettico al riguardo si disse Quarta (Chi era Confortino?, cit, pp. 19–20), e contraria si dichiara Manetti (p. 313): « l’identificazione col Petrarca pare altamente improbabile: il tono del componimento è ostile e irriverente, mentre in tutti gli altri luoghi del ms. P in cui Petrarca compare è idolatrato, fino all’ultimo (cfr. canz. i). Forse laureato è solo un aggettivo iperbolico ». 50. Cfr., rispettivamente: « Questa fenice de l’aurata piuma / al suo bel collo candido gentile / forma senz’arte un sì caro monile / [. . . ]; e ’l tacito focile / d’Amor tragge indi un liquido sottile / foco » (vv. 1–3, 6–8); e « del vario stile in ch’io piango e ragiono / [. . . ] al popol tutto / favola fui gran tempo » (vv. 5, 10). Ascendenze epiche hanno invece locuzioni come « con ciò sia cosa che » (frequente nella prosa, ma in poesia attestato solo in Boccaccio, Tes., v 88, 7), o come « poeta antico », appellativo di Virgilio in Inf., x 122. 51. Sulla consuetudine (talvolta insofferente) del Petrarca con giullari e cantori, cfr. Pancheri, « Pro Confortino », cit., pp. 51–3, e poi soprattutto F. Petrarca, Senile V 2, a cura di M. Berté, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 6–26, 79–84, 91–5. 52. Cfr. Petrarca, Epistulae metricae, cit., III 15, 4–6: « sed tempore nostro / Orpheus alter adest, si quid michi credere tutum est, / non minor antiquo » (Ad Florianum ariminensem musicum); e III 16, 2 « Orpheus hic presens, evo, non arte secundus » (Ad eundem).

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Milano a Benintendi dei Ravagnani (XIX 11), Petrarca tesse l’elogio del messo che consegnerà l’epistola e del figlio, entrambi musici: « qui vir musica suavitate mulcere aures et digito potens est ingenium excitare, cumque ipse sit magnus [. . . ] maiorem se genuit »; i due restano però non nominati.53 Infine, nel 1368, nella Senile inviata da Padova in risposta al cavaliere napoletano Guglielmo Maramauro (XI 5), Petrarca lamenta all’ammiratore che il latore della sua epistola, un musicista che egli chiama « Orpheus noster ausonius », gli ha lasciato il plico evitando d’incontrarlo, benché tra di loro sembrasse esservi amicizia da quando il Petrarca era giovane e il musico fanciullo, e sebbene una assai più solida familiarità intercorresse tra il padre del musico e lo stesso Petrarca, dai tempi in cui il primo era giovane e il poeta adolescente; di questo padre, peraltro, non si dice che fosse stato musicista a sua volta.54 Ora, è certo possibile, anche se non dimostrabile, che il musico superficiale di Sen., XI 5, figlio di un amico del Petrarca di antica data (ma dall’incerto mestiere), sia proprio il giovane musico che già dodici anni prima aveva superato l’arte del padre, come ricordato in Fam., XIX 11; ed è anche possibile, benché ancor meno dimostrabile, che questo padre due volte citato sia proprio l’« Orpheus alter » Floriano da Rimini, cui circa sedici anni prima erano state indirizzate le Epyst. XIII 15 e 16.55 Ciò che invece deve ritenersi sicuro è che, contrariamente a quanto generalmente si pensa, questi personaggi non hanno nulla a che fare, per evidenti ragioni cronologiche, con il Confortino di cui si è detto in precedenza;56 e soprattutto, per 53. Cfr. Petrarca, Le familiari, cit., XIX 11, 10. La datazione dell’epistola è quella suggerita da G. Billanovich, Petrarca letterato. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1947 (rist. anast. ivi, 1995), pp. 11–5; il Quarta (Chi era Confortino?, cit., p. 10) propendeva per il 1355; da queste due date non si sono mossi quanti sono intervenuti al riguardo. 54. Cfr. Petrarca, Le Senili, cit., XI 5, 1–5: « Ego autem extimabam amicitiam que inter me atque illum a iuventute mea pueritiaque sua, interque patrem eius ac me ab adolescentia mea atque illius iuventute contracta erat, in virtute fundatam, vereorque, pro virili huius parte, ne fallerer ». 55. È questa la ricostruzione del Quarta (Chi era Confortino?, cit., pp. 9–14), ripresa da E.H. Wilkins (Studies in the life and works of Petrarch, The mediaeval academy of America, Cambridge [Mass.] 1955, pp. 117–8; Id., Petrarch’s later years, cit., p. 158); e considerata probabile dai recenti commenti. 56. Anche l’identificazione di Confortino col figlio di Floriano da Rimini risale al Quarta (Chi era Confortino?, cit., pp. 9–14), e si ritrova ad esempio accettata da Salem Elsheikh, I musicisti, cit., pp. 162–3; al contrario, trattando di Confortino, Pirrotta (Due sonetti, cit., p. 659) ritiene che la cronologia renda « poco probabile che si tratti del figlio di Floriano da Rimini », senza però precisarne le ragioni. Le quali si ricavano soprattutto

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quanto più direttamente ci riguarda, che a tutto questo Francesco di Vannozzo deve considerarsi completamente estraneo.57 Le ragioni di tale conclusione sono evidenti. Il Vannozzo non può essere identificato nel figlio talentuoso di Fam., XIX 11, perché suo padre non era un musicista, ma un mercante di tessuti (nonché per ragioni cronologiche, se si accetta la mia ipotesi riguardo la data di nascita del nostro autore); e non può essere riconosciuto nel disattento musico di Sen., XI 5, perché Petrarca non giunse a Padova prima del 1349: una data forse compatibile con un’amicizia nata, come dice la lettera, tra un Petrarca ancora iuvenis e un fanciullo del luogo; ma non certo con l’amicizia tra il padre di quest’ultimo e un Petrarca ancora adolescente. Questa più salda amicizia, non c’è dubbio, risale alla giovinezza avignonese del poeta: un contesto che può in effetti aver coinvolto Floriano da Rimini, non certo Vannozzo di Bencivenne.58 L’estraneità del nostro autore all’episodio riportato nella Sen. XI 5, se lascia il sonetto Con ciò sia cosa che quel laureato quale unico documento di una crisi di rapporti tra Petrarca e il Vannozzo, ha comunque l’effetto positivo di liberarci da ogni tentazione di collegarlo cronologicamente a quella epistola, risalente come visto al 1368. E allora, se contrasto col Petrarca davvero vi fu, riesce difficile immaginarlo anteriore alle cordiali corrispondenze intrattenute, nei primissimi anni ’70, con un da quanto attestato nel son. 237 di Niccolò de’ Rossi: se infatti questi, nel 1325–26, può affiancare « Confortino » (v. 7) a « Floran » (v. 8), è ovvio che il primo non può identificarsi con quel figlio del secondo, che trent’anni dopo, ancora giovanissimo, avrebbe superato il talento del padre (Fam., XIX 11); né tanto meno con l’ancor giovane e superficiale musico che più di quarant’anni dopo avrebbe deluso l’amicizia del Petrarca (Sen., XI 5). 57. Con conseguente smentita di quanto immaginato da Levi, Francesco di Vannozzo, cit., pp. 394–413: pagine in cui non c’è quasi accenno di Petrarca ai musici di sua conoscenza che non sia ricondotto alla figura del Vannozzo. 58. Il tutto, ovviamente, tenendo conto dei criteri medievali di distinzione delle età umane, secondo cui l’adolescenza si protraeva dai 14 ai 25 anni, la gioventù fino ai 45 o 50. Nel ’49, il già quarantacinquenne Petrarca rientrerebbe di misura entro i limiti della iuventus; e se accettassimo per il Vannozzo di quel tempo un’età di 4–5 anni, troverebbe sostegno quanto il nostro autore si fa dire dal maestro nella sua canzone 1: « surge, figliuol mio diletto, / che da quel dì ch’ussisti de le fasse / amore in un le nostre voglie serra » (vv. 18–20). Ma se un contatto amichevole tra il Petrarca e la famiglia del Vannozzo al tempo del primo arrivo del poeta a Padova fu possibile, non è ad esso che può riferirsi l’ep. Sen., XI 5: perché, guardando alla sua seconda indicazione, bisogna dedurne che l’amicizia tra un Petrarca ancora adulescens e il padre del musico superficiale non può essere posteriore al 1330, dunque a un periodo non compatibile con un’amicizia tra il poeta e il padre del nostro Francesco (sul quale, registrato in documenti padovani come « Iohannis dictus Vanocius q. Bencivenne de Aricio », cfr. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., pp. 12–5, 461–3).

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fedelissimo del Petrarca come il Dondi, e scinderlo dallo scontro con un altro ammiratore del poeta, come Checco da Lion: il che ci porta, come inizialmente ipotizzato, proprio intorno a quel 1473 in cui avvenne la prima grave crisi dei rapporti tra il Vannozzo e la corte di Padova.

1.5. Una insoddisfatta, ma ostinata fedeltà Effetto di questa frattura, e della fuga a Venezia di un protettore come Marsilio da Carrara, non fu un distacco definitivo dalla corte di Francesco il Vecchio, ma un lungo periodo di crescente insoddisfazione, non a caso caratterizzato dai primi importanti, seppur saltuari contatti con i signori di Verona. Così, se esplicitamente ai « mille e trecento / anni settanta quatro » (vv. 1–2) si data l’amara « canzon sfacciata » (v. 8) contenente il biasimo di tutti gli “stati del mondo” (« tutta gente ingrata », v. 4), con al vertice « i tiranpni over signor moderni » (v. 54), già all’anno successivo dovrebbero risalire i primi sonetti dedicati ai giovanissimi Bartolomeo e Antonio della Scala.59 Tra le molte recriminazioni circa gli stenti patiti in questi anni a Padova, mi sembrano meritare particolare attenzione quelle espresse nel sonetto Io posso assai per l’aiere riguardare, indirizzato a Rubino, un fedelissimo di Francesco Novello: Verun piacer non è che mi diletti, manzar o ber, dormir non m’atalenta, sonar lïuto né cantar rispecti; come tu odi, el mio signor mi stenta, poi giunge povertade a ’sti dispetti, che mi fa voglia de gettarme in Brenta. 59. La canzone Correndo del Signor mille e trecento è la n. 3 sia nell’ed. Medin che nell’ed. Manetti; il motivo in essa trattato è ovviamente topico, ma non considererei casuale il fatto che proprio quell’anno il Vannozzo abbia voluto affrontarlo. I sonetti ai due figli illegittimi di Cansignorio, appena ascesi al potere (O de nobiltà colonne e ponti; L’animo altero col tuo magno core; E tu, perla zentil, che di falcone), sono i nn. 130–132 dell’ed. Medin, 105–107 dell’ed. Manetti; l’ultimo, indirizzato specificamente ad Antonio (v. 6: « Antonio, bel signor mio peregrino »), rivela che questi rapporti erano comunque intrattenuti a distanza, e che il Poeta non si era spostato a Verona con una qualche stabilità (vv. 13–14: « ché se ad altrui non fossi troppo offensa, / lassiere’ il monte e fugieri’ lo piano, / sol per veder la tua cera formosa »). Sui primi contatti del Vannozzo con l’ambiente veronese, cfr. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., pp. 131–9.

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E non fosse ch’io spero ancor di pace, m’ucciderei, ché ’l mondo mi dispiace.60

Uno dei motivi d’interesse di questi versi è ancora nell’allusione all’arte del suono e del canto, qui però priva d’ogni attrattiva per il poeta, con rovesciamento radicale della connotazione finora positiva del tema. Certo, anche questo testo è a suo modo topico, avvicinandosi alle note delle « disperate » di Antonio da Ferrara: di qui l’autoritratto in veste furfantesca del poeta, con un disgusto del mondo derivato peraltro da Cino da Pistoia.61 Ciò che più conta tuttavia è la causa di tanta disperazione: « el mio signor mi stenta ». È l’esperienza di un disinteresse e una freddezza crescenti, che raggiunse forse il suo culmine quando il Vannozzo si trovò a rappresentare, nel sonetto El poco amor che m’à el mio signor caro, il pericolo di morte corso per Padova, in un’impresa militare da collocarsi probabilmente nel 1378, nelle prime fasi della guerra detta di Chioggia, contro Venezia.62 Nell’intervallo cronologico trascorso fra i due ultimi testi citati, dunque, dovette avvenire anche quella caduta in disgrazia del Vannozzo presso il Carrarese che abbiamo visto esplicitamente lamentata nella canzone 2, e che lo indusse intorno al ’78 a rifugiarsi a Verona, proprio mentre Bernabò Visconti insidiava i giovani Antonio e Bartolomeo della Scala. Ed anche se si trattò di un episodio che non impedì al Vannozzo di tornare a Padova, e perfino di combattere inizialmente per la sua città, la sua insoddisfazione dovette in breve tempo ancor più accentuarsi, se nelle fasi più calde della guerra di Chioggia (1379–80) lo ritroviamo addirittura risiedere nella nemica Venezia. Il trasferimento, 60. Vv. 9–16 del son. 139 ed. Medin, 114 ed. Manetti. Rubino è l’equivalente italiano di Balasso, il nome con cui il Vannozzo chiama il suo destinatario; nel 1389, mentre il Novello si districava dal confino piemontese cui l’aveva costretto Gian Galeazzo Visconti, Rubino fuggiva da Asti assieme ai figli del Carrarese: catturato dai milanesi, ma poi liberato dal doge di Genova, riuscì a condurli in salvo sino a Firenze (cfr. Gatari, Cronaca, cit., p. 379 [documenti], e p. 790 [sintesi]). 61. Tramite il rovesciamento di un’espressione da Cino indirizzata a Dante (130, 14: « un piacer [. . . ] / conven che [. . . ] / mi diletti »); e la ripresa diretta di un altro verso ciniano (109, 2: « ed èmmi a noia e spiace tutto il mondo »). Nei versi omessi, del resto, il poeta si rappresenta in atto di bestemmiare la malasorte, con « ochi torti » (v. 6) degni di un conte Ugolino (Inf., xxxiii 76). 62. Si tratta del son. 136 ed. Medin, 111 ed. Manetti. Per una più dettagliata analisi di questo testo, e di altri sui quali darò solo rapidi cenni in quanto non pertinenti al genere della corrispondenza poetica, rimando alla versione originaria di questo studio, indicata nella Premessa.

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tuttavia, non comportò un passaggio di campo, se non graduale ed ambiguo. Nella frottola Perdonime ciascun s’io parlo troppo, composta nel momento militarmente più critico per Venezia (la caduta di Chioggia in mano a Genova e ai padovani), la figura di Francesco il Vecchio risalta infatti come modello di tolleranza e di giustizia. Dal quartiere di Ca’ Trevisan in cui dice di risiedere (v. 517), il poeta, rivolgendosi a un pubblico popolare, assume come obiettivo polemico le famiglie veneziane dominanti, denunciate come responsabili della catastrofe in corso, proprio per le prevaricazioni da loro compiute nei confronti del signore di Padova. Ne scaturisce un’immagine del Carrarese improntata alla mitezza, alla ricerca della pace, nonostante le mortificazioni, gli abusi, gli attentati inflittigli da Venezia, prima e dopo lo scontro del ’73: sicché l’attuale rivincita di Francesco il Vecchio è la giusta punizione stabilita per la città lagunare dall’« eterna clava ». Trovandosi a Venezia, comprensibilmente il Vannozzo si premura in conclusione di avvisare che a dettargli tanta indignazione sono i mali che la città soffre a causa dei suoi pessimi governanti, quindi l’amore stesso per la comunità che lo ospita.63 Tuttavia, non c’è dubbio che la veemente difesa dell’operato di Francesco il Vecchio sottintenda una perdurante speranza di poterne recuperare i favori. In tale condizione psicologica, troverebbe collocazione perfetta il solo testo dedicato dal Vannozzo alla propria città natale, un sonetto indirizzato ai suoi più malevoli concittadini (« voi, sfacciati putti », v. 8), e meritevole della massima attenzione, lungo il nostro percorso: Io me veggio mancare i sensi tutti, s’io non ritorno a la fontana viva che ’l cor mio lasso di piacer notriva e gli occhi or molli miei teneva asciutti; e farò stare i maldicenti mutti, che tanto sopra me lor bocca apriva, dicendo ch’io con frottole assentiva Venesia trista. E voi, sfacciati putti, 63. Cfr. i vv. 513–7 (frottola 102 ed. Medin, 79 ed. Manetti): « Pesami del tuo male: / perch’io non sia Nadale – o Loredano, / saper non te die strano, / ch’io son pur tuo cristiano, / benché ca’ Travisano – a popol sia ». Sulle frottole del Vannozzo, cfr. S. Verhulst, La frottola (XIV–XV s.): aspetti della codificazione e proposte esegetiche, Rijksuniversiteit Gent, Gent 1990, pp. 137–51.

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contra di voi non dixi mai né volli, né contra la città mai dir porria ch’à fatto oggi tacere e l’acque e i colli; ma di color mi par gran fantesia, rudi intellecti, mente frali e molli, che m’àn sospecto che ciò vero sia, però ch’io fui di quel bel sito nato, sì che l’onor suo bramo e ’l buono stato.64

In realtà, è doveroso premettere, non solo questo testo offre scarsissimi indizi circa la sua datazione, ma neppure vi risulta assolutamente indiscutibile l’identificazione con Padova della « fontana viva » che l’autore rimpiange: le difficoltà interpretative poste dai vv. 7–8, e la povertà di documenti disponibili circa la città di nascita del Vannozzo, hanno fatto nascere dubbi in merito, sino addirittura a far apparire più convincente l’ipotesi che la città natale rimpianta dal poeta fosse piuttosto Venezia. Ragioni testuali e documentarie, tuttavia, continuano a farmi preferire l’interpretazione tradizionale, con la collocazione cronologica qui suggerita.65 Se questa chiave interpretativa è corretta, nel sonetto di cui stiamo parlando Padova è colta al massimo del suo potere, a seguito di 64. Son. 26 ed. Medin, 20 ed. Manetti. 65. La nascita veneziana del poeta è stata sostenuta da Manetti, Per una nuova edizione, cit. In merito alla carenza di testimonianze, si consideri comunque che mentre quelle indiziarie disponibili conducono tutte a Padova, nulla abbiamo di analogo che ci porti a Venezia; ma, soprattutto, sufficientemente probante dovrebbe risultare il documento conservato presso l’Archivio notarile di Padova (con data 11.8.1418), in cui si parla dei casi di una « Trivixola dicta Airentina filia quondam Francisci de Vanotio de Padua » (cfr. A. Medin, Recensione a Levi, Francesco di Vannozzo, cit., « Giornale storico della letteratura italiana », a. 28, vol. 55, 1910, pp. 389–406, a p. 391). Quanto invece alle problematiche esegetiche sollevate dal testo in esame, non c’è dubbio che il nucleo della questione sia rappresentato dall’espressione con cui il poeta nega di aver mai « assentito / Venesia trista »; e dunque, dal significato con cui il Vannozzo intese utilizzare il verbo assentire, da lui certamente attinto dalla Commedia dantesca. Ora, dei vari significati di cui il verbo è portatore in Dante (come più in generale nella lingua italiana antica), nessuno mi sembra autorizzare una lettura dei vv. 5–8 del sonetto vannozziano col significato: « farò tacere chi dice che “definivo pessima Venezia” »; mentre più d’uno può autorizzare a leggerla intendendo, tradizionalmente: « farò tacere chi dice che “davo il mio assenso alla pessima Venezia” ». I significati registrati in S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. I (A–Balb), Torino, Utet, 1961, p. 758, tutti sulla base di esempi danteschi, sono infatti i seguenti: 1. dare la propria approvazione, consentire, accondiscendere; 2. permettere, concedere; 3. accettare una cosa, una situazione particolare; esserne soddisfatto. Il primo e il terzo mi sembrano avere l’accezione semantica da me seguita.

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un’importante vittoria (come efficacemente rappresentato dal v. 11): sebbene tra il ’72 e l’87 vari successi (seguiti peraltro da altrettante sconfitte) fossero stati conseguiti da Francesco il Vecchio, e già dal ’73 il Vannozzo potesse essere accusato di simpatia per ambienti veneziani, data la sua familiarità con Marsilio da Carrara, la collocazione ideale per questo testo, come dicevo, sembra proprio da ricondurre ai trionfi del ’79. Al Vannozzo, tuttavia, questa Padova vittoriosa, di cui egli brama l’onore e il buono stato, si presenta qui, innanzitutto, in una dimensione fantastica, più che concreta: la dimensione del ricordo e della nostalgia, propria di un emigrato ancora desideroso di tornare in patria ma da essa forzatamente lontano, e quindi incline a mitizzare, in apertura, il rapporto con la propria città nei termini di una rassicurante relazione familiare, da dipingersi col più eletto linguaggio disponibile. A tal fine, concorrono tutte le maggiori autorità poetiche. Il distacco dalla patria produce nell’autore un venir meno dei sensi, in modi già danteschi e petrarcheschi; ma dal Ninfale fiesolano del Boccaccio sembra piuttosto derivata l’immagine della « fontana viva » (quale lì era Mensola per Africo), sola in grado di nutrire di piacere il cuore del poeta.66 Dietro invece ai benefici effetti della materna città d’origine, c’è solo Petrarca: non solo nella ripresa d’inconfondibili locuzioni, ma anche attraverso un’abile sostituzione funzionale della città alla figura di Laura, la cui perdita aveva suscitato sentimenti analoghi nel poeta aretino.67 Materiali anche questi aggiornatissimi (entrati nel canzoniere 66. Per i ricordi delle prime due “corone”, basti il rinvio a « il mio [valor] sento mancare » (Dante, Rime, 91, 5); « i’ temo forte di mancar tra via » (Rvf, 81, 5), o « venieno i miei spirti mancando » (Rvf, 258, 7). « Tu se’ viva fontana di bellezza » (Ninf. fies., 275, 1) è invece il testo forse all’origine della seconda immagine, sempre che non si opti piuttosto per una derivazione da un verso del Dondi (« d’ogni altra vertù viva fontana », 33, 3): tematicamente assai più affine, essendo l’epiteto anche lì riferito a una città (in quel caso Roma), ma non con certezza anteriore al nostro sonetto (e si noti che, se lo fosse, ne trarrebbe anche conferma la datazione del sonetto vannozziano qui proposta, in quanto quello del Dondi pare databile al 1375: cfr. la cit. ed. Daniele, p. 78). L’immagine, peraltro, gode di una ricca tradizione: se « l’espressione fons acquae vive ricorre nelle Scritture » (Manetti, p. 132), ricordo che « di speranza fontana vivace » e « fontana viva de misericordia » era stata la Vergine Maria per Dante (Par., xxxiii 12) e A. Beccari (2, 137). D’altro canto, come detto, il contesto a suo modo sentimentale ci rimanda piuttosto al Ninfale fiesolano: tanto più che proprio da quest’opera (102, 6: « hai in balia tutti i sensi miei ») sembra provenire la clausola « i sensi tutti », meno probabilmente memore di Purg., xxxii 3 (« li altri sensi m’eran tutti spenti »). 67. Cfr. « quanto manca / agli occhi miei che mai non fien asciutti! » (Rvf, 299, 14); o più ancora, con ingegnosa inversione: « tenne gli occhi mei [. . . ] / bramosi e lieti, or li ten tristi e molli » (Rvf, 320, 4). Per la ripresa anche di semplici locuzioni, cfr. « il mio cor lasso » (Rvf, 260, 4).

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petrarchesco solo nelle sue ultimissime redazioni), e gestiti con tale padronanza da confermarci quanto studiata fosse nelle rime vannozziane l’incidenza tutt’altro che esorbitante del modello petrarchesco, rispetto a prediletti modi espressionistici, fondati ora su Dante e magari Antonio Beccari, ora piuttosto su un esuberante quanto localistico repertorio proverbiale e gergale. E infatti, sin dalla seconda quartina, a impedire uno sviluppo coerente con l’incipit nostalgico irrompe il carattere intimamente colloquiale e polemico dell’arte del Vannozzo: carattere che qui spinge l’autore a volgere rapidamente lo sguardo dal vagheggiamento della città alle maldicenze dei concittadini. E come spesso accade, dove il contenuto diviene aggressivo il linguaggio si fa in primo luogo dantesco; né i pur presenti ricordi petrarcheschi valgono a modificare l’impianto stilistico complessivo.68 Il ritorno infine, nel distico conclusivo, ad un tono posato atto a confermare il proprio attaccamento alla patria, non comporta il recupero del raffinato linguaggio d’esordio, ma l’acquietarsi del dettato in uno stile medio, cui di nuovo tornano utili Antonio Beccari e Boccaccio: fornitore quest’ultimo, sempre col Ninfale fiesolano, del sintagma di chiusura.69 Un sonetto fatto di luci e di ombre, e di oscillazioni tanto umorali quanto stilistiche: fotografia in tal senso perfetta del contraddittorio rapporto che intercorse tra il Vannozzo e la sua città, porto ambito, ma non abbastanza accogliente nei suoi confronti. E infatti, se la mia lettura è corretta, il suo auspicio non si realizzò.

1.6. I « traditi enganni » di un « rettor sagio e potente » Rimasto in laguna, di fronte al capovolgersi delle sorti del conflitto a favore di Venezia, il Vannozzo non produsse (si badi) un testo opposto e speculare alla frottola citata; ma nell’assai meno politica, e piuttosto 68. Per le memorie dantesche, cfr. « la bocca t’aperse » (Par., xxiv 119), « elli mi assentì » (Inf., xviii 45), « l’una mi fa tacer » (Purg., xxi 116), e « alta fantasia » (Par., xxxiii 142). Quanto a quelle petrarchesche (cfr. « putta sfacciata », Rvf, 138, 11, già segnalata da Manetti, p. 132; alma frale », Rvf, 365, 7; « tristi e molli », Rvf, 320, 4), si tratta di materiali che, liberamente ricombinati (e nonostante l’adozione di un tipico artificio quale la dittologia sinonimica), generano effetti alquanto dissonanti, come nell’esito allitterante menti molli. 69. Con « bel sito », il Beccari indicava Roma in 72, 42; per « buono stato », cfr. Ninf. fies., 245, 6.

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bozzettistica frottola “Se Die m’aide, ale vagniele, compar!, rappresentando in un mariazo la gioia del popolo veneziano alla notizia dell’evolversi positivo della guerra, egli si limitò, pur non perdendo l’occasione, a far pronunciare ad uno dei personaggi una fulminea condanna dei maneggi di Francesco il Vecchio: Sé l’arme del signor da Carrera che ’nd’ à fatto ’sta vèra con so’ traditi enganni.70

Il punto di vista è ora quello veneziano, e il Carrarese appare per quello che fu, un ambizioso aggressore senza scrupoli; ma in questo testo di 315 versi, in cui la dimensione politica rappresenta solo lo sfondo da cui ben risalta il gioioso evento privato, il suo rilievo è minimo, anche se indizio di un distacco in fase già avanzata. Quando però, sei anni dopo, passato il Vannozzo alla corte di Verona, Francesco il Vecchio si ripresentò a rovinargli anche l’appagante sistemazione nel frattempo conquistata presso Antonio della Scala (dal Carrarese come è noto attaccato nella primavera dell’86, e definitivamente sconfitto in quella dell’87), la reazione del nostro autore fu assai più esplicita e violenta. All’inizio delle ostilità, tale reazione si espresse nella frottola Ciascun soffista, in cui Padova è raffigurata come una « rantana – vechia marza » (v. 10), che spicca in un quintetto di donne disgustose rappresentanti, nell’ordine, Bologna, Ferrara, Pavia e Mantova, ossia le città alleate di Francesco il Vecchio contro lo scaligero. Quanto al Carrarese, viene deriso da più angolazioni: l’impresa bovina suggerisce al poeta l’immagine di un Minotauro prigioniero del suo labirinto; l’effigie del saraceno con le corna d’oro impressa sul suo scudo, non può che essere destinata ad avere le corna rotte; le battaglie per provvedere Padova di sale contro il monopolio veneziano, sono state tutte perdute: sicché piuttosto che « amirà » (comandante) o melèk (sovrano), meglio a questo nemico si addice in arabo l’appellativo di mamluk, « sciocco ». Sarcasmo condotto con scarsa serietà ideologica, se si eccettua l’attenzione per la questione del sale, ma con indubbia fantasia burlesca; un’inventiva che ritornerà dopo le prime sconfitte, e 70. Vv. 19–21 della frottola 78 ed. Medin, 60 ed. Manetti. « La lx è stata scritta evidentemente dopo la vittoria, o almeno dopo il luglio 1380 (cfr. vv. 46 sgg.) » (Manetti, p. 202).

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a ridosso di quella definitiva, nell’esasperato sonetto Et io son el Mastin che mi lamento, in cui direttamente si cede la parola al signore di Verona, in atto di attribuirsi, di fronte alle trame di Francesco il Vecchio, una tolleranza e un impegno per la pace infiniti, ma resi del tutto inutili dall’arrogante aggressività del nemico:71 Et io son el Mastin che mi lamento e per la gran viltade assai m’atristo de questo cararexe pronto e visto a darme guerra quando pace asento. D’ogni suo stato sempre fui contento, come si sa, però ch’a suo conquisto non ruppi tela mai né ruppi bisto, facendol da mie morsi tutto asento. Ora che del mio danno lui s’à riso, senza gran frutto suo per forza premor a ·ffar che nella fin lui sia deriso; né [a] lo ’ntento mio porà demor, però che la rason mi fa previso a darli per devisa il verbo chremor e ritornare il saso al buò topino, con un mugito de strano latino.72 71. Son. 169 ed. Medin, 141 ed. Manetti. « A detta di quanti l’hanno preso in considerazione, questo è l’ultimo dei componimenti scaligeri di FdV, scritto nella primavera del 1387, dopo che a marzo, fallite le trattative per la pace (in realtà non voluta da Antonio della Scala), divampò la guerra tra Verona e Padova » (ivi, p. 349). 72. I termini posti in corsivo sono il frutto di un antico restauro operato su precedente lacuna; una circostanza così sintetizzata da Manetti (pp. 29–30): « nel trascrivere il sonetto cxli [. . . ], il copista censurò i vv. 3, 10, 14 e 15, eliminando alcune parole al posto delle quali lasciò uno spazio vuoto; una mano posteriore, con grafia piuttosto malferma, scrisse in questi spazi, rispettivamente: carrarexe, premor, chremor, il saso al buo; è assai probabile che siano le parole originali, e che si tratti perciò di un ripristino, a faccenda sbollita ». A proposito di chremor, chiosa la studosa: « Medin 1928 restaura memor, effettivamente motto di Francesco il Vecchio da Carrara, ma quella che il “mastino” intende assegnare al “bue” è appunto una nuova divisa, di significato rovinosamente negativo (‘brucio’, ‘sono distrutto dal fuoco’) » (ivi, p. 350). Devo tuttavia confessare, per mio conto, di non trovare affatto soddisfacenti i restauri in rima, per ragioni metriche piuttosto vistose. Anche infatti con l’integrazione suggerita da Manetti, il v. 12 risulta essere un endecasillabo tronco, com’è del resto inevitabile che sia, in quanto chiuso da un termine tronco come demór; prèmor e chrèmor sono invece parole piane, che chiudono endecasillabi altrettanto piani: dunque, in nessun rapporto di rima con l’unico termine certo dei tre. Vannozzo è poeta incline agli ardui sperimentalismi, non alle facili licenze: a chiusura dei vv. 10 e 14 si richiederebbero sì parole con terminazione in –ór,

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Giochi verbali da smargiasso, in sintonia col carattere del committente, Antonio della Scala. In realtà, nel breve volgere di un anno, Verona fu occupata da milanesi e padovani alleati, e la signoria scaligera spenta per sempre. Ma, com’è noto, non molto meglio andò al Carrarese, che già all’inizio del 1388 si trovò nel mirino del Visconti; né gli giovò l’abdicazione a favore del figlio, Francesco Novello: stanca di guerre continue, fu Padova stessa a ribellarsi ai suoi signori e consegnarsi a Milano. E al Visconti, come sappiamo, sperò a quel punto di potersi affidare il nostro stesso Francesco di Vannozzo: invano, perché presto di lui si sarebbe persa ogni traccia. Egli fu comunque tra i primi a capire che con la caduta di Verona un mondo intero, quello delle piccole signorie provinciali, era finito; e lo dimostrò componendo, prima ancora che Padova si desse a Gian Galeazzo (dunque, già tra l’estate e l’autunno dell’88), la nota corona di otto sonetti nei quali prima l’Italia, poi sette sue grandi città, da Venezia a Roma, pregavano il conte di Virtù di accoglierle sotto la sua protezione pacificatrice. Tra queste città, ovviamente, non poteva mancare Padova, in quei mesi ancora controllata da Francesco Novello; e il nostro percorso non può che chiudersi con le parole direttamente rivolte al Visconti dalla città personificata: Padoa Corona santa, ch’èi da Dio mostrata per pace dar a l’ytalica gente, con dolce ciera e con allegra mente ti priego ch’io ti sia racomandata. Io son quella città che fui fondata per man del re Anthenor anticamente e, ben che ’l mio rettor sagio e potente m’abbia tra l’altre con honor tractata, la desïata tua dolce sembianza nel cor m’à rifermato ardire e forza; sotto la tuo baldeza è gran speranza, però tuo pensier buono in meglio sforza, né tardi a suo venir tua gran possanza per medicar ogni tarmata scorza, ma tali da non valicare la misura dell’endecasillabo tronco.

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ché l’aere e ’l fuoco e la terra ti chiama, e l’ampio mar la tua venuta brama.73

Il linguaggio è elevato, né potrebbe essere altrimenti. Per l’occasione, come in altre analoghe, il Vannozzo torna al suo consueto impasto di forme eterogenee, ove comunque, pur tra memorie di Dante, di Cino da Pistoia, nonché di Guittone e Fazio degli Uberti,74 si avverte particolarmente forte la presenza della lezione petrarchesca, tramite precisi ricordi, ma soprattutto con il frequente e nobilitante ricorso allo stilema della dittologia più o meno sinonimica (« sagio e potente », « ardire e forza »), che contribuisce non poco in questo caso ad un sostanziale superamento dell’« orditura contrappuntistica » (per usare una definizione di Folena) tanto abituale al Vannozzo, e lo avvicina alla parziale conquista di uno stile più fuso, cui anche concorre un più consapevole uso delle cesure e delle coppie nome–aggettivo.75 Il sonetto, in tal modo, può dirsi intonato alla caratteristica elegia petrarchesca, che ben si adatta alla sobrietà tonale del contenuto: e se Padova non rivendica altro, ormai, che la nobiltà delle proprie origini, anche il giudizio sul signore ritiratosi a Treviso e prossimo alla prigione, superata la necessità di compiacere a un suo nemico, torna ad esprimersi con parole di rispetto. Certo, queste possono essere state suggerite dal residuo potere (peraltro assai vacillante) ancora detenuto dai Carraresi, ma in un rimatore già compromessosi come il Vannozzo non saprei quanto una riscoperta cautela potesse operare: tanto più che l’accenno a delle « tarmate scorze » tuttora da « medicare » (v. 14) non ha certo carattere diplomatico. Molto più interessante, invece, 73. Testo 1892 ed. Medin, 1582 ed. Manetti. « La composizione della corona di sonetti risale al 1388, tra l’abdicazione di Francesco il Vecchio (29 giugno) e la cessione, da parte di Francesco Novello, a Giacomo del Verme, capitano generale delle truppe di Gian Galeazzo, del castello e della potestà di Padova (23 novembre) » (ivi, p. 410). 74. Per i ricordi danteschi, cfr. Inf., xv 119 (« ti sia racomandata »); Purg., xxviii 139 (« anticamente », presente anche in Cino, 160, 5); Par., xvi 17 e xxxii 109 (« baldezza », già ripreso da A. Beccari, 3, 138); Rime, 38, 1 (« gran possanza », per cui cfr. anche A. Beccari, 11, 10). Riguardo alle altre fonti citate: « dolce sembianza » è in Cino (46, 52); « dolce cera » in Guittone (3, 36) e Dante da Maiano (33, 1); « pensier buono » in Fazio degli Uberti (Rime, 3, 23). 75. La citazione di Folena da Il Petrarca volgare, cit., p. 182. Le memorie petrarchesche cui alludo provengono dalla canzone all’Italia (« italica gente »: Rvf, 128, 96) e da Rvf, 150, 15 (« gran speranza »); per l’uso di coppie aggettivo–nome, cfr. anche « dolce cera », « allegra mente », « dolce sembianza », « pensier buono », « gran possanza », « ampio mar », e, a suo modo, anche « tarmata scorza ».

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mi sembra rilevare come il riconoscimento nel vecchio signore di un « rettor sagio e potente », capace di trattare « con honor » la sua città, richiami da vicino i versi finali del sonetto Io me vegio mancare, in cui il poeta sosteneva di avere molto a cuore le sorti della sua città natale: « sì che l’onor suo bramo e ’l buono stato ». Dopo tante vicissitudini, pur nella sconfitta, al grande Carrarese il Vannozzo riconosceva proprio il merito di aver combattuto con ogni forza per quell’onore. E se il futuro era altrove, e il nostro autore lo capiva bene, questa estrema rivendicazione di un perduto, ma non lontano prestigio, si offre ai nostri occhi in tinte sì sobriamente elegiache, ma ravvivate da tenaci faville d’orgoglio.

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2.1. I corrispondenti padovani e urbinati di Malatesta da Pesaro Pur dimostrando una conoscenza dei testi petrarcheschi inconsueta tra i rimatori trecenteschi delle corti settentrionali, Francesco di Vannozzo, come visto, impronta prevalentemente la sua poesia a una ricerca di espressività (anche attraverso forme dialettali) e di immagini plastiche (« sottolineate fino ad assumere una grottesca evidenza »), che soprattutto domina nelle rime autobiografiche, morali e politiche; mentre secondaria resta la sua produzione amorosa, ancora segnata da una tendenza antilirica, fondamentalmente realistica, che portò l’autore a preferire l’oggetto concreto e a sottolineare il particolare, nonché a utilizzare un lessico eterogeneo, largamente influenzato, oltre che da elementi danteschi e tardostilnovistici, dalla tradizione comica toscana.1 Perché le cose cambiassero nel panorama lirico italiano (escludendo le dinamiche proprie dell’area toscana), era ovviamente necessaria l’affermazione dei Rvf come veicolo privilegiato, se non unico, della lezione poetica petrarchesca; ma perché l’attenzione verso quest’ultima si riverberasse fin su un genere così collettivamente gestito come la corrispondenza poetica, era anche necessario che l’ammirazione evolvesse in culto, l’emulazione in studiata pratica imitativa. Ebbene, due tappe di questa evoluzione, compiutesi entro la prima metà del Quattrocento, mi propongo ora di illustrare: analizzando i comporta1. I rilievi citati sono tratti da V. Dornetti, Aspetti e figure della poesia minore trecentesca, Piccin, Padova 1984, pp. 119–22.

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menti di due distinti e successivi sodalizi, solitamente associati sotto la comune bandiera di un petrarchismo d’avanguardia. Il primo fu rappresentato dalla cerchia ruotante, tra Pesaro, Rimini, Padova e Urbino, intorno alla figura di Malatesta Malatesti, signore di Pesaro.2 In generale, è noto come la produzione di questo principe poeta, sviluppatasi lungo i primi tre decenni del xv secolo, si distingua per la ricerca costante di un linguaggio illustre e coerente, in cui il contributo della lirica petrarchesca comincia ad essere consistente (e rilevante a tale altezza cronologica), pur se associato a quello della produzione più elevata di Dante e del Serdini, attivo quest’ultimo in ambito malatestiano nei primi anni del Quattrocento.3 Del resto, basterà ricordare come uno spazio solo minoritario fosse riservato al tema amoroso nella sua raccolta di 68 componimenti (tema superato in particolare da quello etico–religioso: ventinove esempi contro ventisei), per avere il senso di un’imitazione petrarchesca ancora ai suoi primi passi. Non sorprende, allora, se l’incidenza del genere della corrispondenza poetica risulti nella sua attività lirica piuttosto rilevante, con quindici componimenti (22 % dell’intera produzione) e una dozzina di destinatari tra i più diversi: dall’imperatore al papa, dalla nuora Battista di Montefeltro a rimatori minori e minimi. Rispetto al modello petrarchesco, dunque, Malatesta si discosta dal rigore dei Rvf per la maggiore disponibilità a dialogare con altri rimatori, soffermandosi anche su ovvie questioni d’amore, e sollecitando esercizi a lui dedicati.4 D’altro canto, tale varietà tematica nel suo caso non risulta del tutto dispersiva come in tanti suoi contemporanei, in quanto la costante 2. Le rime di questo notevole autore, nato intorno al 1366 e morto nel 1429, sono ben pubblicate: cfr. M. Malatesti, Rime, ed. critica a cura di D. Trolli, Parma, Studium parmense, 1981. Per informazioni biobibliografiche e rilievi critici, limitandoci ai contributi più recenti, da ricordare M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, in M. Santagata–S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 59–78; E. Angiolini–A. Falcioni, La signoria di Malatesta “dei sonetti” Malatesti (1391–1429), Rimini, Ghigi, 2002; A. Falcioni, Malatesta (de Malatestis), Malatesta detto Malatesta dei Sonetti o Senatore, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 68, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2007, pp. 77–81. 3. Sulla presenza del Serdini in Romagna, cfr. E. Pasquini, Il Saviozzo e la poesia cortigiana nel Quattrocento, in Dizionario critico della letteratura italiana, dir. da V. Branca, II ed., vol. IV, Utet, Torino 1986, pp. 102–8. 4. Per un quadro generale dell’interpretazione trecentesca del genere, e di quella petrarchesca in particolare, rimando ai dati forniti nella Premessa.

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dignità di temi e di stile fa sì che anche i testi occasionali cooperino alla definizione di una nobile e coerente fisionomia intellettuale. Ma il ruolo di Malatesta da Pesaro va misurato anche alla luce di un altro interessante contributo. Passando in rassegna le sue proposte poetiche, emerge una spiccata ricerca di contatti proprio con quei rimatori in cui egli potesse riconoscere una prima e chiara volontà di porsi sulla strada dell’imitazione petrarchesca. Vale la pena, al riguardo, leggere il sonetto da lui inviato a due anonimi ma agguerriti seguaci del Petrarca, così come la corrispondenza da lui cercata con un noto rappresentante di questa prima generazione di cultori del modello petrarchesco, il padovano Domizio Brocardo. Il primo testo, il n. 41 delle sue rime, rimasto a quanto sembra senza risposta, non si segnala peraltro per una ricerca stilistica coerente con i contenuti: Se voi sete que’ due che l’orme sante seguite del doctissimo Petrarca, che fu del dir in rima almo monarca, come provar si può per opre tante, piacciavi a me, che so’ rozo e ignorante respecto a voi, cui tanto senno carca, che in periglioso mar con debil barca navico fra le Sirthe in Athalante, risposta dare a le mie rime incompte d’un vostro dolce e amoroso detto per proprio verso in forma di sonetto, s’alcun di voi fu mai d’amor constretto, a ciò ch’io possa da la somma fonte gustar dell’acqua del parnaseo monte.

In effetti, di petrarchesco in questo testo non s’incontra se non l’accenno agli « amorosi detti » e alla « debil barca », mentre le formule « almo monarca » e « opre tante » sono variazioni di espressioni serdiniane.5 Piuttosto, il sonetto sembra colorarsi di una sfumatura ironica, offrendo, nella particolare insistenza sulla grandezza delle rime petrar5. Cfr., per 3 « almo monarca »: Serdini, 16, 16. 4 « opre tante »: Serdini, 42, 8. 10 « amoroso detto »: Rvf, 276, 16 (ma anche Purg., xxvi 112). Da rilevare l’attenzione che A. Galli (su cui cfr. più avanti) porrà su questo testo, riprendendone le tessere « orme sancte » (46, 8; 116 11; 153, 14) e « periglioso mar » (258, 2).

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chesche, nell’esasperata dichiarazione di modestia a fronte dell’altrui erudizione, e nei dubbi espressi nel finale sulla sensibilità amorosa dei destinatari, l’impressione di essere indirizzato a mo’ di sfida a due cultori della sola lezione umanistica latina del Petrarca. Certo è che rivolgendosi invece, nel sonetto 52a , a un cultore dei Rvf al di sopra di ogni sospetto come Domizio Brocardo,6 l’attenzione per l’intarsio stilistico si accentua notevolmente, in un sostanzialmente equilibrato convergere dei soliti apporti, provenienti da Dante, Petrarca e dal Serdini: Misser Domitio, poi che Appollo infonde nel petto tuo sì soave liquore, ch’avanzi in rima, merzé n’abbia Amore, ciascun che serra l’Alpe e le sals’onde, fammi sentir dell’acqua e de le fronde che bagna e cigne il tuo capo d’onore, fammi abondar di quel dolze sapore che, sol gustato alquanto, me confonde! Non ascondere el don celeste infuso per somma grazia in l’alma tua sì degna, perché sie certo ancor render ragione di quel talento che ’l Maestro insegna duplar quaggiù, a ciò che non sie excluso de la divina, eterna visïone.

Poco conta la povertà del messaggio (un semplice invito al Brocardo perché gli invii una prova della sua arte ), in questo testo che apostrofa l’ammirato destinatario attraverso un ben noto stilema dantesco, ne magnifica la fama poetica con un mosaico di tessere petrarchesche, e motiva la richiesta del dono mediante il riferimento ad un celebre 6. Su questo importante rimatore padovano (1390 ca.–1448 ca.), ingiustamente penalizzato dalla perdurante assenza di una qualsiasi edizione a stampa della massima parte dei suoi componimenti, cfr. al momento G. Ballistreri, Brocardo, Domizio, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 14, 1972, pp. 384–5; e A. Balduino, Le esperienze della poesia volgare, in Storia della cultura veneta, vol. III, tomo 1 (Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento), Neri Pozza, Vicenza 1980, pp. 295–8. Fortunatamente, dopo passate promesse non mantenute, lo studio di questo autore è stato ripreso da D. Esposito: il quale, mentre attende nella sua tesi di dottorato (presso l’Università degli Studi di Cagliari) all’edizione critica delle rime brocardiane (di cui ha già approntato un testo critico, di cui qui mi servo), ha diversi studi preparatori in corso di stampa.

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luogo evangelico richiamato in termini già danteschi e serdiniani.7 Conta appunto l’impegno citazionale, condotto peraltro attraverso una selettiva, ma comunque eclettica assunzione di modelli; un metodo che tradisce ancora un che di dilettantesco, soprattutto nelle terzine, e che il più consapevole Brocardo mostra nella misura del proprio stile di aver superato: Magnifico signor, se ’l ciel risponde meritamente al mio infiammato errore, io non son quello che ’l tuo sommo amore mi fa, per la tua gratia, esser altronde. Già foi misero amante; hor le triste onde per quella, ch’io gettai, che m’arse el core, m’han levato el pensier che ’l mio signore mi diede già per lei, che terra asconde. Quella opra del rimar ch’i’ ebbi già in uso per morte ha la mia lengua facta indegna, e attende mia vita altra passïone. Ma l’inclita virtù toa, che s’ingegna donarmi gloria del ben di là suso, faramme mutar nova oppinïone.8

Per rivolgersi all’illustre interlocutore, Domizio fa sottilmente propria l’allocuzione indirizzata dal Sacchetti ad un altro Malatesta, Pandolfo; sicché l’intera prima quartina, la più legata all’occasione con la canonica dichiarazione di modestia, risente di una molteplicità di suggestioni, cui memorie petrarchesche contribuiscono assieme ad altre di Dante e del Saviozzo. Quando però il Brocardo, ben petrarchescamente, motiva quella dichiarazione con la propria mutata condizione esistenziale, ormai estranea all’amore e alla poesia a causa della morte della donna amata, anche il suo linguaggio lirico, malgrado la durezza del v. 6, si assesta 7. Fonti: 1 « Misser » + destinatario: stilema guittoniano ripreso da Dante, Rime, 42, 1. 2 « nel petto tuo »: Serdini, 72, 110. 4 « che . . . onde »: Rvf, 146, 14. « sals’onde »: Rvf, 28, 32; Tr. Pud., 163. 5 « fammi sentir »: Rvf, 270, 31. « acqua . . . fronde »: Inf., xiv 98. 7–8 « dolze . . . gustato »: Par., III 38–39. 9 « don celeste »: A. Beccari, 72, 54; 77a , 97; Serdini, 27, 99. 9 « infuso »: Par., i 53; xiii 44. 10 « alma . . . degna »: Purg., xxii 126; Par., v 128. 12–13 « talento . . . quaggiù »: Mt, xxv 14–30. 14 « divina, eterna »: Serdini, 74, 261. 8. Cito il testo dall’edizione Malatesti, Rime, cit., n. 52b . Esso è il n. [57] nel ms. di riferimento delle rime brocardesche, il cod. di Milano, Bibl. Trivulziana, 1018, c. 17r–v.

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stabilmente su materiali estratti dai Rvf.9 E sebbene l’explicit, di nuovo allocutivo, si modelli nientemeno che su una clausola di Niccolò de’ Rossi, il passo in avanti compiuto, rispetto alla maniera del Malatesta, verso l’acquisizione della coerenza stilistica del Petrarca, appare evidente.10 Lo scambio nato dall’iniziativa malatestiana, in tal senso, chiede d’essere letto come un episodio esemplare di divulgazione tramite corrispondenza di forme liriche d’avanguardia, in chiave petrarchesca: divulgazione attuata dal lirico più esperto, nei limiti della sua tecnica, a favore del più dilettantesco, su diretta sollecitazione di quest’ultimo. L’episodio appare interessante anche perché tutt’altro che frequente nell’esperienza di Domizio Brocardo, che nella sua raccolta di circa 130 componimenti non andò oltre le cinque corrispondenze (con un’incidenza del 4 %): un secondo invio al Malatesta, una risposta al concittadino e collega di rima Reprandino Orsatto, e ben tre missive poetiche al conte di Urbino Guidantonio di Montefeltro, volte peraltro a declinarne l’invito di un prestigioso passaggio alla sua corte.11 Dirò tra breve come interpreto questa ridottissima dedizione al genere; ora preme invece notare, tornando a Malatesta Malatesti, come proprio da Urbino, tra il 1425 e il ’30, gli giungessero in successione ben tre proposte del giovane Angelo Galli, che nel signore di Pesaro riconosceva, come attestato da uno di questi sonetti, il primo erede del cantore di Laura: Quel glorioso libro, in cui mirai quanta elloquenza surge hoggi tra noi, m’acerta pur che inanze mai né poi de simil cosa amena io non gustai. 9. Del resto, Domizio si serve proprio di questa corrispondenza per annunciare la morte di Galatea, la protagonista del primo e più petrarcheggiante « canzoniere » compreso nella sua raccolta, chiuso dal son. [63]. Più realistica e influenzata da Boccaccio è la seconda sezione [64–106], dedicata a Lia, una donna che lo tradirà (cfr. D. Esposito, I tre canzonieri di Domizio Brocardo, « Studi e problemi di critica testuale », in corso di stampa). 10. Fonti: 1 « Magnifico signor »: Sacchetti, 254, 1. « ciel risponde »: Rvf, 333, 3. 3 « io non son quello »: Inf., xix 62. « sommo amore »: Tr. Cup., ii 98. 4 « per la tua grazia »: Sacchetti, 301, 317; Serdini, 11, 78. 5 « misero amante »: Rvf, 87, 10. « triste onde »: Rvf, 354, 14. 6 « m’arse el core »: Rvf, 315, 2. 8 « terra asconde »: Rvf, 279, 6; 333, 2. 14 « mutare oppinione »: N. de’ Rossi, 185, 9. 11. Mi riferisco ai sonetti Le sete luci errante, i moti e l’ore [58]; Reprandin mio, s’Amor fa di te stracio [74]; e di quelli inviati « ad comitem Urbini »: Io sento doglia de tormento amaro [84], Quando al principio non risponde el mezo [80], Principio excelso e glorioso fine [81]. Sul rapporto col signore di Urbino, cfr. Santagata, Fra Rimini e Urbino, cit, pp. 47–8.

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Et sì come se inveschia in occhi gai amante, che pur già saper lo pòi, cusì ni cari et dolci ditti toi per vera affection me inebriai. Che benedecto sia, signor gentile, el mirabile ingegno e ’l vago canto che m’empì di dolceza vene et polsi! Ma quel che Laura sua amò cotanto sì come a degno successor te volse lasciare herede del suo nobil stile.12

In realtà, nonostante la diretta citazione del Petrarca, riferimento sempre più obbligato per elogiativi confronti tra rimatori, il testo di Angelo rappresenta un passo indietro rispetto a quello del Brocardo, sul piano del linguaggio lirico: materiali tratti da Guinizelli, Boccaccio, Dante e dal Saviozzo, infatti, vi convivono con un misero paio di richiami petrarcheschi: pur esente da dissonanze eccessive, l’impasto che ne deriva non si distingue in modo significativo rispetto alla koinè caratterizzante la lirica volgare di questi anni.13 Ma l’interesse del sonetto sta altrove, e cioè nel suo costituire la prima di una lunga serie di proposte inviate dal Galli, certo non per casuale coincidenza, ai protagonisti della nostra avanguardia: un’inesausta ricerca relazionale, cui presto al Malatesta successero i rappresentanti del secondo, e più avanzato sodalizio (nella conquista del linguaggio petrarchesco), cui accennavo aprendo questo contributo.

12. A. Galli, Canzoniere, ed. critica a cura di G. Nonni, Urbino, Accademia Raffaello, 1987, son. 270. In uno dei suoi testimoni manoscritti, al componimento è associata la didascalia (pubblicata ivi, p. 378): « Al Signor Malatesta havendoli mostrato el libro de suoi sonetti, 1425 ian(uario) ». Per un accurato profilo biobibliografico dell’autore (1395 ca.–1459), cfr. G. Nonni, Galli, Angelo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 51, 1998, pp. 596–600. 13. Fonti: 5 « se inveschia »: Boccaccio, Rime, I 50, 11. « occhi gai »: Guinizelli, 7, 6. 7 « cari et dolci »: Rvf, 268, 77 e 366, 46. « dolci ditti »: Dante, Rime, 52, 14 e Purg., xxvi 112. 8 « me inebriai »: Par., xxvii 3. 9 « che benedetto sia »: Vita nova, xxvi 13 (ma cfr. anche Par., xv 47 e Rvf, 61, 1). « signor gentile »: Tr. Cup. iv 112; Boccaccio, Rime, II 23, 9. 10 « mirabile ingegno »: Serdini, 51, 4. 11 « m’empì di dolceza »: Rvf, 210, 10 e 311, 3; « vene et polsi »: Inf., i 90.

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2.2. Angelo Galli e Giusto de’ Conti Com’è noto, di tale avanguardia non si può dire che il Galli fosse membro a pieno titolo, giacché nelle sue rime l’esempio petrarchesco non s’impose mai del tutto su quello non solo di Dante, ma anche di Boccaccio e del Serdini: il suo approccio sensuale al tema amoroso lo tenne a grande distanza dai tormenti sentimentali di quella scuola, mentre, in continuità con la tradizione trecentesca, egli disperse la propria scrittura lirica in infinite corrispondenze, più di ottanta delle quali pervenuteci; e pur isolando queste ultime, all’altezza degli anni ’40, da una produzione specificamente destinata alla costituzione di un canzoniere di ben 258 testi, egli dedicò questa più unitaria raccolta a cantare non le proprie esperienze sentimentali, vere o immaginarie che fossero, ma quelle del suo signore Federico di Montefeltro.14 Fu del resto lo stesso Galli ad ammettere la propria difficoltà a una piena adesione alla lezione del Petrarca e dell’ineguagliabile amico Giusto de’ Conti: lo testimonia l’esordio dell’Operetta da lui composta nel 1453 per Ferrante d’Aragona, allora duca di Calabria, e incentrata sulla visione di una sfida tra Petrarca e Boccaccio, ambientata sul monte Parnaso; una sfida, in sostanza, tra la poesia e la prosa d’arte, prevedibilmente conclusasi senza vincitori né vinti. L’esordio sottolinea, in chiave allegorica (dietro l’immagine dell’ardua ascesa al monte, per la quale è preziosa la guida dell’ombra di Aloigi dei Bentivogli, altro amico scomparso, chiamato qui « Fitia »), la distanza incolmabile che separava l’arte del Conti rispetto all’intera generazione di rimatori successivi alle “tre corone”: Ed era la via sì poco usata, che senza guida de legero smarita se serebbe, che, non che ella fusse da’ viandanti calcitrata e trita, ma pochissime orme si videa de nuovi viatori. E per non essere quella troppo frequentata, nata e cresciuta v’era su l’erba, la quale tolleva la vista al deritto sentiero [. . . ]. Una pista fresca vi se scorgeva per la rechinata erba dove el nuovo piede premuto aveva, onde el mio vero Fitia [. . . ] me disse: « Questa novella pista che tu vedi, che sì bella te appare, sappe che desegnata fu dal piede del tuo caro meser Giusto da Valmontone [. . . ] ». E così lieto andando, resguardando ed ascoltando [. . . ], aderizai l’occhio nel viso del mio caro Giusto [. . . ], ed andai ad abraciarlo là 14. Sullo stile del Galli, cfr. Santagata, Fra Rimini e Urbino, cit., pp. 60–90; e il mio « La fonte d’ogni eloquenzia ». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 180–7, 223–33.

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dove el minore el suo magiore prendere sole [. . . ]. Ramaricandomi io seco de la sua festinata morte, non meno se dolse lui meco del mio tempo posto più ch’el suo in pegiore uso e vanamente mal speso.15

In cosa fu « vanamente speso » il tempo del Galli? Non certo nell’inattività poetica, ma esattamente nel suo contrario, in una scrittura lirica eterogenea e volta ad usi prettamente « sociali »: una dispersione incompatibile con gli equilibri della lirica di scuola petrarchesca. Il rigore del progetto contiano in tale direzione emerge invece fin dalle prime corrispondenze di Giusto, come già dimostra la missiva poetica (poi n. 30 del canzoniere) dal Conti indirizzata intorno alla metà degli anni ’30 a Rosello Roselli, in un periodo iniziale e felice del proprio amore per la bolognese Isabetta.16 Ne riporto almeno le quartine: Rosello, io fui dinanzi al bel sembiante e vidi in forma vera il paradiso, mirando l’eccellenze del bel viso e gli atti adorni di vaghezze tante. Io stava al suon delle parole sante, al bel tacere, al mover del bel riso qual insensato, e quasi ch’i’ diviso fusse de vita, colla morte avante.

In prima istanza, non si dovrà trascurare che, con questo sonetto, Giusto inviò all’amico una proposta tipologicamente senza precedenti in Petrarca, il quale mai si era rivolto a un destinatario per evocare un proprio momento di grazia. Tuttavia sotto il profilo stilistico l’aspetto più innovativo del testo consiste proprio nell’adesione pres15. Cito da A. Galli, Operetta, ed. critica a cura di E. Ardissino, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2006, pp. 16–21. Tale edizione, come spiego nella mia Recensione edita in « Studi e problemi di critica testuale », n. 76 (2008), pp. 252–65, non supera appieno la precedente: Operecta in laude de la belleza e detestatione de la crudelitade de la cara amorosa del Signor Duca Ferando, edita criticamente da B. Wiese nello studio Ein unbekanntes Werk Angelo Gallis, « Zeitschrift für romanische Philologie », 45 (1925), pp. 445–583 (il passo cit. si legge a pp. 470–3). 16. Poiché sulle corrispondenze poetiche di Giusto de’ Conti mi sono già soffermato in più sedi (e in particolare nel libro L’amoroso messer Giusto da Valmontone, Salerno ed., Roma 2006, pp. 41–3, 47–57, 63–78, 145–8), offrirò qui un quadro estremamente sintetico dei loro tratti più salienti, rinviando per ulteriore documentazione (e ogni altro rilievo critico) alla citata monografia; dalla quale traggo anche la numerazione dei testi che intendo dar loro nell’imminente ed. critica, con una modifica, dettata dalle esigenze di collana: per le rime estravaganti, in luogo dei numeri romani, ricorrerò a cifre arabe precedute da « E ».

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soché assoluta al modello petrarchesco, dal quale esso deriva la quasi totalità dei materiali utilizzati: anche i non pochi già d’uso comune nella poesia duecentesca, ma qui generalmente pervenuti attraverso il filtro dei Rvf.17 In tale quadro di conquista e riattualizzazione del linguaggio lirico petrarchesco, peraltro, si potrà meglio apprezzare come l’espressione del nucleo poetico del testo sia assegnato a un vocabolo estraneo a Petrarca, e anzi liricamente del tutto reinventato: mi riferisco all’« insensato » del v. 7, un termine in precedenza utilizzato dal Serdini e da Malatesta da Pesaro, ma con valenze moralmente negative, laddove Giusto ne fa la sintesi della propria estasi amorosa dinanzi all’amata.18 L’operazione contiana dovette apparire talmente nuova a Rosello, che questi, a quanto ci consta, non si sentì in grado di ricambiare l’invio se non a distanza di un lustro: a lamentare, in opposta e più canonica direzione, l’insensibilità della propria amata.19 Ma sull’impatto “didattico” esercitato dalle corrispondenze contiane mi soffermerò più avanti; per ora può più interessare, dopo averne riassaporata la novità sul piano dello stile, studiare la gestione di tale genere lirico nel quadro complessivo della produzione di Giusto. Partendo dalle cifre: secondo cui nel canzoniere originario, comprendente 144 componimenti, trovarono posto otto testi di corrispondenza; laddove nella forma ampliata alla misura di 150 componimenti se ne incontreranno altri due, per un totale di dieci. Tra le rime estravaganti, infine, non si registra che uno scambio, quello intrattenuto dal Conti col Galli nell’estate del 1449, poco prima della sua morte. Ora, otto corrispondenze su 144 testi, dieci su 150, e undici su 210 costituiscono una presenza del genere assai modesta, con un’incidenza oscillante tra il 5 e il 6,5 %: in proporzione, ampiamente inferiore a quella autorizzata dal Petrarca (pari al 7,5 %), tanto più se si com17. Cfr. in tal senso: 1 « bel sembiante »: Vita nova, xii 42 e Inf., xxxiv 18, ma anche Rvf, 170, 1. 2 « forma vera »: Vita nova, viii 10, ma anche Rvf, 16 14. 5 « suon de le parole »: Inf., viii 95 e xix 123, ma anche Rvf, 73, 14; 109, 10; 270, 52. « parole sante »: Inf., ix 105 e Par., xxxii 3, ma anche Rvf, 204, 4. 6 « bel tacere »: Cino da Pistoia, 138, 7, ma anche Rvf, 261, 10. Altra memoria petrarchesca, 5 « vaghezze »: Rvf, 214, 31. A questa si aggiungono locuzioni del Petrarca già entrate nel circuito dei primi imitatori, come 4 « atti adorni »: Rvf 62, 4, quindi Buonaccorso il Giovane, 18, 6; « diviso de vita »: Tr. Cup., i 33, quindi A. Beccari, 29, 53. Estranee al filtro petrarchesco sono solo le memorie « bel riso »: Cino da Pistoia, 154, 3, quindi Sacchetti, 83, 6 e Serdini, 64, 42; « morte avante »: Purg., vii 32. 18. Cfr. i precedenti di N. de’ Rossi, 358, 6; Serdini, 22, 10 e 24, 98; Malatesti, 57, 2. 19. Son. Or è tanto maggiore el mio dolore, n. 30 nell’ed. R. Roselli, Il Canzoniere Riccardiano, ed. critica a cura di G. Biancardi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005, p. 25.

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prendono nel calcolo anche le Rime estravaganti di quest’ultimo (che la innalzano all’11 %), e lontanissima dalle cifre abituali agli altri lirici trecenteschi. Ma il dato forse più eclatante è che tra le missive contiane, in gran parte destinate ad amici rimatori, non compare alcun esempio di sonetti inviati a personaggi di potere: un dato che segna una frattura radicale in relazione ai Rvf, e, di nuovo, ancor più nei confronti della lirica trecentesca e coeva.20 Tanta accorta riservatezza ben si concilia, del resto, con gli importanti compiti strutturali di cui le corrispondenze contiane furono spesso investite all’interno della Bella mano; compiti non di rado svolti (e qui torna a farsi valere l’attitudine imitativa) con aperto richiamo ad analoghi episodi rilevabili nel canzoniere petrarchesco. Il caso più vistoso in tal senso è rappresentato dal sonetto 32, unico deputato a ragguagliare il lettore circa la localizzazione bolognese della vicenda; presumibilmente coevo a quello inviato a Rosello, fu indirizzato a un « Orso »: forse un esponente dell’amica famiglia degli Orsini. In esso il poeta, mentre fugacemente comunica l’importante informazione strutturale, più distesamente si sofferma a trattare il tema dell’inestinguibilità della propria passione, e a tal fine si avvale della metafora di un fuoco resistente perfino alle acque dei fiumi più grandi:21 ebbene, come non notare che in sede quasi identica (Rvf, 38) Petrarca aveva posto un sonetto inviato a Orso dell’Anguillara, caratterizzato proprio dal tema delle acque (quelle di fiumi e mari percepiti come ostacoli), e chiuso dal motivo della propria gioia che si « spegne » quando Laura china gli occhi a terra? In chiave macrotestuale, comunque, ancor più interessante appare il sonetto 53, indirizzato a un Giorgio: forse identificabile con l’amico (offeso nei suoi riguardi) cui Giusto accenna in una lettera indirizzata 20. Il quadro completo delle corrispondenze di Giusto comprende i testi 28 e 29, che l’autorevole codice di Oxford, Bodleian Library, Canon. Ital. 50 dice indirizzati a un « Calimacum senensem virum clarum »; 30, a Rosello Roselli; 32, a un amico di nome Orso; 53, a un amico di nome Giorgio; 110, a un amico di nome Francesco; 111 e 112, ad Angelo Galli. Nella forma ampliata trovarono posto i sonetti 148, ancora ad Angelo Galli, e 149, a un interlocutore di nome Filippo; tra le estravaganti rimase il sonetto E 58, l’ultimo indirizzato al Galli. 21. Così recitano le quartine del sonetto contiano: « Orso, né l’Arno già, né ’l Tebro o Nile, / né ’l Ren, che bagna e riga il bel paese / dove tanto altamente Amor mi prese / de cosa tal, che ogne altra mi par vile, / spegner porrian, de quel foco gentile / che m’arde il cor, pur due faville accese, / sì mi fur dentro e con tal forza apprese, / mirando alta bellezza in atto umile ».

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al senese Andreoccio Gerardo Cinuzzi;22 o meglio, se non si tratta della stessa persona, al « Giorgio da Valmontone » che ritroveremo più volte tra i testimoni di ordinanze emanate dal Conti negli anni (1446–47) del suo servizio come Tesoriere pontificio nella Marca.23 Questo testo infatti svolgerà il fondamentale compito d’introdurre quel tema della gelosia, avvertita da entrambi i protagonisti, che dominerà la seconda parte del canzoniere: Giorgio, se amor altro non è che fede accesa in speme d’un disir perfetto, crescer de’ tanto l’amoroso affetto quanto l’un degli amanti a l’altro crede. Or dunque, se è così, donde procede che senza gelosia non c’è diletto? Come la fé s’accorda col sospetto ne l’aspettata spene di mercede? Come esser può che d’un sì fiero errore nasca sì dolce assenzio di martiri, di fede quinci e quindi di paura?24

Proprio l’ingiusta gelosia provata da Isabetta verso il poeta, costretto dai propri compiti di cubicolario pontificio ad allontanarsi da Bologna, sarà il motivo primo che la indurrà infine ad abbandonarlo: ma se 22. Nel mio libro L’amoroso messer, cit., pp. 34–6, 52–3, ho anche ipotizzato che il risentimento del Giorgio caro al Cinuzzi potesse motivarsi con un cambio di destinazione del son. 53, che sembra attestato da un paio di mss. miscellanei. In quella sede, data la localizzazione dell’episodio, ho anche ricordato che il senese Giorgio Musca, autore di un’egloga aperta ad apporti contiani ma non più tarda degli anni ’50, era un giurista come il Conti (cfr. G. Biancardi, Un inedito testo senese del Quattrocento: l’ecloga ‘Hor che gli uccelli fra l’ombrose fronde’, « Studi e problemi di critica testuale », n. 42, 1991, pp. 33–54). 23. Si tratta di documenti d’archivio ancora inediti, di cui do qui per la prima volta notizia, e alla cui pubblicazione sto attendendo. In particolare, un « Georgio de Valmontone » svolge il ruolo di testimone in ordinanze emanate dal Conti, a Macerata, il 23 agosto 1446 (cfr. Cingoli, Archivio storico, presso Archivio Storico di Macerata, pergamena 132/a); a Tolentino, il 12 novembre 1446 (cfr. ivi, pergamena 133); e ancora a Tolentino, nello stesso giorno (cfr. Civitanova Marche, Archivio storico, pergamena 29), e il 30 dicembre 1446 (cfr. Cingoli, Archivio storico, presso Archivio Storico di Macerata, pergamena 132/b). 24. Vv. 1–11. Non sorprende, se, dato il tema, in questo caso il Conti si sia ispirato più a Dante che a Petrarca, fino all’ampia (e del tutto rifunzionalizzata) ripresa del v. 10 (« dolce assenzio di martiri »: Purg., xxiii 86), passando per le più discrete « spene de mercede » (Par., xx 108) e « come esser può » (Inf., xxviii 126 e Par., viii 93, ma cfr. anche Buonaccorso il Giovane, 24, 12).

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di tale epilogo saremo informati solo nel polimetro 144, del pericolo rappresentato dalla gelosia dell’amata Giusto viene per la prima volta avvertito, di nuovo, nel corso di uno scambio intrattenuto con l’amico Angelo Galli (nn. 111–112), che nel canzoniere segue una terza corrispondenza coinvolgente un altro rimatore amico, Francesco Malecarni (n. 110); tutti testi ai quali, più in generale, è affidata l’esposizione del capitale snodo costituito dal distacco del poeta da Bologna, e dunque da Isabetta.25 Per lamentare la separazione dall’amata e immergersi nel ricordo agrodolce del passato, dunque, Giusto sceglie la soluzione lirica della confidenza a due amici: opzione non sorprendente, visto che proprio questo era il tema di un sonetto indirizzato da Petrarca a Sennuccio del Bene, e poi divenuto Rvf, 112. Ma ancor più rileveremo la cura estrema del lavoro di Giusto osservando che il v. 4 di quel testo petrarchesco (« l’aura mi volve, e son pur quel ch’i’ m’era ») viene distintamente richiamato nell’incipit del sonetto che nella Bella mano occupa la stessa posizione (Tal son ne’ mei pensier qual io già fui). Le missive di Petrarca a Sennuccio, in effetti, rappresentano in generale un costante punto di riferimento per le corrispondenze di Giusto de’ Conti, il quale, come accennato, escluse completamente dalla propria scrittura lirica quegli omaggi e quelle esortazioni ai potenti che trionfavano nella lirica trecentesca, e che ampio spazio avevano ricevuto anche nella parte iniziale del canzoniere petrarchesco. Non a caso anche dopo il passaggio al servizio di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1447), il Conti non corrisponderà se non con colleghi di rima; e anche in quel caso il carteggio poetico diverrà occasione per affrontare temi di particolare rilievo: dalle umiliazioni che l’Italia è costretta a subire (lamentata nel sonetto 148, ad Angelo Galli), ancora sconfitta da « barbari » certamente identificabili con gli Aragonesi di re Alfonso; alla persistenza dell’amore oltre la morte (sostenuta nel sonetto 149, a un « messer Filippo ») vero leit–motiv della cultura malatestiana. Accuratissima fu dunque la gestione contiana del genere della corrispondenza poetica: poche missive, ma quasi sempre inviate ad amici rimatori, e quasi tutte investite d’importanti funzioni, strutturali o tematiche. Un approccio pressoché isolato nella lirica coeva, e a mio 25. Per una più dettagliata analisi di questi testi rimando ancora al mio L’amoroso messer, cit., pp. 54–5, 63–78.

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avviso avvicinabile, su altri piani, alla rinuncia di Giusto al madrigale o alla sirma a rime alterne nel sonetto: scelte nelle quali è stata vista una reazione a forme ormai sentite come irrimediabilmente compromesse in funzione comica e giocosa.26 Altrettanto direi per il genere della corrispondenza: scaduto ormai, in massima parte, a veicolo del questioneggiare più vuoto o dell’adulazione più smaccata, esso esigeva una rifondazione, che anche in questo caso il Conti operò in senso ipercorrettistico. Si trattò di una svolta cui i più stretti sodali di Giusto aderirono subito. Rosello Roselli ad esempio, tentando a sua volta di allestire un canzoniere, non vi ammise che due proposte poetiche, una indirizzata all’Alberti e una allo stesso Conti.27 Più drastico ancora fu il Galli, che pure continuava a intrattenere corrispondenze senza requie: ma nel canzoniere da lui dedicato agli amori di Federico di Montefeltro (comprendente i testi 15–246 della propria raccolta di rime) coerentemente non ne ammise nessuna, raccogliendole tutte (circa ottanta) in un’apposita e successiva sezione; un espediente, quello della costituzione di due diversi corpora, di cui uno concepito come canzoniere unitario e l’altro destinato ad includere, tra le rime d’occasione, la massima parte delle corrispondenze, assai diversa rispetto a quella seguita dal Conti, ma più vicina (pur con diverse misure) al comportamento del Petrarca. 2.3. Angelo Galli e Mariotto Davanzati In tal senso, non a caso, si orientò anche un altro interlocutore di Angelo Galli, nonché ammiratore dell’Alberti e concorrente al Certame Coronario: quel Mariotto Davanzati (nato a Firenze nel 1408) cui proprio il Galli, appena dopo la morte di Giusto de’ Conti, si rivolse invitandolo a dimostrare di essere « fra noi, come se dice, el primo »: Facundissima lingua, ingegno opimo, 26. Cfr. Santagata, Fra Rimini e Urbino, cit., pp. 67–8, 70–6. 27. Della missiva inviata a Giusto ho già detto in precedenza; all’Alberti Rosello indirizzò il proprio son. 28. Sui difficoltosi processi di formazione del canzoniere di Rosello, cfr. Biancardi, Introduzione a Roselli, Il Canzoniere, cit., pp. xxxi–lii. Ben comprensibile, infine, la decisione dell’autore di escludere dalla sua raccolta la tenzone intrattenuta col Burchiello nel 1439, comprendente tre propri sonetti e nove del contendente, e pubblicata in Lirici toscani del ’400, a cura di A. Lanza, vol. II, Bulzoni, Roma 1975, pp. 450–6.

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ligiadra fantasia de spirto illustre, digno a cantare el mio foco trelustre, ch’a l’alta tema el dir mio è basso et imo, se sei fra noi, come se dice, el primo, ché tanta gratia el cielo in te relustre, fa’ che per tua resposta me ’l demustre, quantunqua a la gran fama me lo stimo. Se, Mariotto, el fonte de Pegaso inonde largamente el tuo bel stile, el qual già per dolceza el cor ci stirpe, dimme s’amor ci viene a voto o a caso; tu ’l sai, perch’el sta sempre in cor gentile: dimmelo, specchio et lum de la tua stirpe.28

Una simile proposta, in realtà vero atto di sfida che un ruolo solo strumentale lasciava al contenuto (un’ennesima questione sull’origine d’amore), per dare vita piuttosto a un arduo esercizio stilistico, era ovviamente quanto di più lontano potesse immaginarsi dalla lezione petrarchesca e contiana.29 Ne è prima, vistosa prova l’adozione di rime dure e difficili, di cui infatti il destinatario non mancò di lamentarsi: Fertil, sonora lingua, ingegno esimo, ornato e chiaro spirto che n’endustre a cerner rime qual fra fior ligustre, tal che difficilmente el verso limo, infimo fra voi, Muse, e non sublimo mi sento in versi e in sententie frustre. Pur per uscir di nuvole palustre 28. Si tratta del primo dei quattro sonetti intercorsi tra i due rimatori, e pubblicati da G. Nonni, Una tenzone poetica di Angelo Galli e Mariotto Davanzati, in Studi per Eliana Cardone, Università degli Studi, Urbino 1989, pp. 25–41; in precedenza, questo testo si leggeva in Lirici toscani, cit., vol. I, 1973, p. 429. Sul Davanzati, cfr. P. Procaccioli, Davanzati, Mariotto, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 33, 1987, pp. 112–3; De vera amicitia. I testi del Certame coronario, a cura di L. Bertolini, Franco Cosimo Panini, Modena 1993, pp. 247–79; A. Decaria, Le canzoni di Mariotto Davanzati nel codice Vat. Lat. 3212, « Studi di filologia italiana », 66 (2008), pp. 75–180. 29. Mancano del tutto memorie del Conti, mentre del Petrarca non compaiono che pochi termini, come « trelustre » (Rvf, 145, 14), « per dolceza » (Rvf, 119, 34 e 289, 13, ma cfr. anche Cino da Pistoia, 10, 11), « stirpe » (Rvf, 318, 2); e se l’esordio è all’insegna del dantesco « opimo » (Par., xxx 111), il testo si chiude con una formula del Saviozzo (« specchio e lum »: Serdini, 25, 87).

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del bel vostro doagio alcun pel cimo. Germina a caso amor nel nostro vaso per oggetto conforme e signorile, e più può sempre in cor di degna stirpe. Poi el voto l’aumenta, onde Parnaso s’invoca e, giunto l’esca col fucile, par che tardi o non mai indi si stirpe.30

Ma se a cimentarsi in questo astruso esercizio il Davanzati fu costretto dall’eccentricità del proponente, non si deve pensare che tra le altre sue rime “sparse”, ammontanti a una quarantina di componimenti, e in particolar modo nelle dieci corrispondenze tra loro comprese (per un’incidenza del 25 %), l’autore perseguisse un’ineccepibile disciplina stilistica. Basti leggere, in tal senso, il sonetto pur inviato a un misterioso « figlio adottivo del Petrarca »: Grazia somma dal ciel par che t’abbonde, o del Petrarca ver figlio adottivo: ché dal vulgo ti veggo isciolto e privo e da lor fantasia, ch’è volta altronde. Versi sonori e rime alte e gioconde in te conosco, e stil tanto giulivo che il degno ispirto tuo contemplativo ascende al terzo cielo, immenso fonde. Onde ’l tuo legno ha’ già volto a buon porto, seguendo ove natura e ’ngegno il tira; ne mostra frutto qual n’apparve il fiore, il qual fa viver l’uom poi che sie morto, e chi no ·ll’ha veduto ne sospira; ma radi vivi gustan tal sapore.31 30. Anche in questo testo (ed. sia in Lirici toscani, cit., vol. I, p. 430, che da G. Nonni, Una tenzone, cit., p. 39) rare ed eclettiche sono le memorie, non più che lessicali, da precedenti modelli: « doagio » risale a Folgore da S. Gimignano (Sonetti dei mesi, 2, 6), mentre « cimo » è termine angiolieresco (110a 5, indirizzato a Dante); « germina » è metafora dell’Alberti (1, 9) e soprattutto di Giusto de’ Conti (8, 11); « si stirpe », già nella proposta del Galli, ha un precedente in Rvf, 318, 2. 31. Si tratta del n. 12 dei componimenti del Davanzati pubblicati in Lirici toscani, cit., vol. I, p. 428.

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ii. sodalizi in cerca di una guida poetica

Sul piano dello stile, e tanto meno della memoria citazionale, questo testo di petrarchesco o contiano non ha altro che il gusto per la dittologia, più o meno sinonimica.32 Sotto un altro profilo, però, esso non può non attirare la nostra attenzione: accennando infatti a un’ascesa al terzo cielo compiuta dallo spirito « contemplativo » del destinatario, esso sembra proprio riferirsi al tema del ternario 150 di Giusto, interamente costruito sull’esperienza di un’estatica ascesa al cielo di Venere, di stampo platonico, culminante con la visione dell’“idea” di Isabetta e della sua « bella man »; come non pensare al Conti stesso, dunque, quale possibile destinatario di questa missiva?33 Né un contatto tra i due, da collocarsi verso la fine degli anni ’40 (appartenendo verosimilmente il ternario contiano agli anni riminesi dell’autore, 1447–49) dovrebbe stupire più di tanto, se si sposta lo sguardo dalle eterogenee “rime sparse” del Davanzati alla raccolta che rappresenta il suo canzoniere propriamente detto.34 Di questo, purtroppo, ci sono giunti soltanto i primi ventuno testi: sufficienti peraltro, con le due sole corrispondenze ammesse, ed entrambe indirizzate ad amici, a rivelare una gestione di questo genere nello stile, appunto, di Giusto de’ Conti. Del resto uno dei destinatari di quelle missive è un Francesco al quale, come nella Bella mano, viene inviato il ricordo del proprio innamoramento; ne deriva immediata l’ipotesi che anche questo testo veda coinvolto il Malecarni:35 Francesco, io vidi in que’ begli ochi Amore del suo crudo arco e de’ lor raggi armato, 32. Le rare riprese lessicali provengono infatti da tutt’altre fonti: « grazia somma » ha un precedente in Malatesta Malatesti (52a , 10); « figlio adottivo » nel Vannozzo (165, 10); « versi sonori » nel Rinuccini (3, 10); « contemplativo » è termine dantesco (Par., xxi 117) caro al Galli (255, 7; 258, 56, 500 e 546). 33. Ho criticamente pubblicato e diffusamente commentato il ternario contiano prima nel saggio I poeti del Tempio Malatestiano: amore, morte e neoplatonismo, « La cultura », 44 (2006), pp. 215–41, poi nel vol. L’amoroso messer, cit., pp. 150–74. Ne ricordo i vv. 13–18: « Già sentìa solevar sì dolcemente / l’anima grave e l’affannato velo, / che or mi fa lieto nel pensier sovente; / e carco d’un soave e caldo gelo, / non so se falso sonno o ver oblio / mi scorse e spinse infin al terzo cielo ». 34. La raccolta in esame, giuntaci adespota, fu attribuita al Davanzati da G. Gorni, di cui cfr. Un canzoniere adespoto di Mariotto Davanzati. Metrica e filologia attributiva, « Studi di filologia italiana », 33 (1975), pp. 189–219. 35. Anche perché rivolgendosi ad un altro Francesco, l’Accolti, in rime estranee al canzoniere (cfr. Lirici toscani, cit., pp. 438–9), Mariotto ricorre a toni assai più deferenti di quelli qui adottati.

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e s’i’ rimasi allor forte invischiato mostralo el vario stile, e ’l viso, e ’l core. Da indi in qua non fur giorni né ore, né loco ov’io non sia piangendo andato, cercando chi mi strugge, e che furato m’à l’alma e ’ sensi, e tolto ogni valore. Però s’advien ch’arrivi ove è quel viso, tutti i mia spirti a fruirlo sen vanno, ond’io freddo e dolente mi rimango. Fuggir non posso, ché ma’ poi diviso non fui da gli ochi che sforzato m’ànno: quest’è perch’io tanto sospiro e piango.

Il salto stilistico rispetto agli esempi precedenti appare evidente: laddove quelle corrispondenze si proponevano come ardui esercizi di tecnica, questa mira ad una compattezza linguistica visibilmente ottenuta, alla maniera del Conti, attraverso un fitto riuso di soluzioni petrarchesche nelle quartine, stilnovistiche nelle terzine.36 Certo, rispetto a quello di Giusto lo stile del Davanzati è assai più precario, meno fusi con la maniera petrarchesca risultando gli inconfondibili ricordi duecenteschi. Ma l’inconfutabile distanza stilistica riscontrabile tra le altre corrispondenze del Davanzati e quelle ammesse nel canzoniere conferma, comunque, la consapevolezza con cui l’avanguardia lirica di metà Quattrocento si avvicinò a questo genere testuale, e il ruolo strategico che volle assegnargli; seguendo, in tal modo, l’esempio di un caposcuola che, anche grazie all’oculata gestione di versi indirizzati a pochi destinatari, seppe comunicare la novità della sua proposta stilistica e conquistare i primi ammiratori e seguaci.

36. Cfr. 4 « vario stile »: Rvf, 1, 5. 5 « da indi in qua »: Rvf, 126, 63 e 144, 11 (ma cfr. anche Inf., xxv 4). « i giorni e l’ore »: Rvf, 12, 11. 7–8, 10 « furato [. . . ] valore », « i mia spirti [. . . ] sen vanno »: tipiche formule stilnovistiche. 12 « fuggir non posso »: Dante, Rime, 53, 16 e 69, 9; Sacchetti, 25, 56; Conti, 88, 1; Tinucci, 15, 1. 14 « sospiro e piango »: Notaro, 1, 6; A. Beccari, 41, 63.

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iii L’esordio di una tradizione

3.1. Una recensione in forma di epistola metrica Tra il 1440 e il ’41 Guarino Veronese, reduce da un anno trascorso a Rovigo per fuggire la pestilenza che nel ’39 aveva afflitto Ferrara, indirizzava un carme a Francesco Marescalchi (un canonico cui due anni prima anche l’Alberti aveva dedicato i suoi Apologi centum), nel quale esprimeva la propria gioia per poter finalmente lodare la città estense in virtù di un nuovo motivo di vanto, che si aggiungeva alla generosità del territorio e ai meriti degli Estensi: Cui, Francisce, novam potius reserare licebit laetitiam atque hilari nascentis pectore sensus quam tibi, qui solide semper mea gaudia gaudes et cui iam pridem secretas promere curas sum solitus? Cum praecipue communis honores Ferrariae invitant, patriam quam iure secundam, nutricem vero primam venerorque coloque.1 1. Vv. 1–7 del testo ed. in Guarino Veronese, Epistolario, a cura di R. Sabbadini, vol. II, Venezia, Deputazione veneta di storia patria, 1916 (rist. anast. Torino, Bottega d’Erasmo, 1967), pp. 392–9; e di lì semplicemente trascritta, con l’aggiunta di diversi refusi, in Guarini Veronensis Carmina, a cura di A. Manetti, Bergamo, Istituto universitario, 1985, n. 19, pp. 50–4. Sabbadini datava il carme al 1440, ma i termini post e ante quem da lui indicati (la permanenza di Guarino a Rovigo e la morte – avvenuta il 22 dicembre 1441 – di Niccolò III, in questo testo nominato come ancora ben vivo) comprendono anche quasi l’intero anno successivo; egli inoltre basò la sua edizione sul ms. di Ferrara, Bibl. Ariostea, II 151 (qui F2, a Sabbadini noto come 151 NA 5), c. 31v, ma il testo delle citazioni da me proposte tiene conto anche della lezione tràdita dai codici di Roma, Bibl. Casanatense, 1732, cc. 81v–83v (R), e di Venezia, Bibl. Nazionale Marciana, Lat. XII 135 (= 4100), cc. 25r–26v (V1). 6 invitant] F2 R V1 invitent Sabbadini

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Il prestigioso evento consisteva nella composizione di testi poetici, senza precedenti da parte di un cittadino di Ferrara, improvvisamente attuata da un illustre rappresentante di tale comunità, il giurista e funzionario Ludovico Sardi: Altera sed mulcent nostram nova gaudia mentem, seu speciosa magis vocitem miracula; nam res grandis et insolita, cygno quoque rarior atro, offertur, primos revocer quasi lactis ad annos. Ecce Lodovicus, cui sunt cognomina Sardo, Ferrariam illustrans matrem, nova germina spargit, quis laudem eximiam nostrae disseminet urbis.

Per Guarino la sorpresa è doppia: di quei versi nulla egli sapeva, nonostante il Sardi fosse proprio l’amico che lo aveva ospitato a Rovigo, dove operava come amministratore a nome degli Estensi. Nei versi successivi, egli offre ulteriori ragguagli su tali carmina: nam sua doctiloquis educta canoribus umbras carmina deseruere malasque exosa tenebras nobile lumen amant volitantque per ora, per aures qualia iam priscos legimus cecinisse poetas;

e si chiede dove mai l’autore li avesse celati durante la loro comune residenza: haec ubinam latuere, quibus velata latebris se implicuere prius? Curae, convivia, sermo, incessus, requies, votum communia nobis, dum nos Rodigium caeli melioris haberet et daret hospitium pestis terrore salubre, ne tantilla quidem perceptae signa poesis edidit aut Musarum ullum patefecit amorem.2

Dei componimenti interessati darò tra breve testo e notizie, così come offrirò un quadro completo della produzione sardiana pervenutaci. Innanzitutto però vorrei sottolineare come questo episodio, in apparenza marginale, manifesti il suo giusto rilievo quando vi si riconosca, 2. Vv. 28–34, 57–60, 68–74. 32 Lodovicus] R V1 Ludouicus F2 Sabbadini F2 V1 semina R 73 ne] R V1 nam F2 (num con. Sabbadini).

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33 germina]

iii. l’esordio di una tradizione

oltre che il primo frutto dell’impegno letterario di un personaggio immeritatamente dimenticato in rapporto al ruolo che seppe svolgere (e che tenterò di ricostruire), più in generale e più significativamente la prima espressione in versi latini di un autore propriamente ferrarese, e dunque l’evento che apre una delle più feconde tradizioni della nostra letteratura. Così come interessa che il mezzo che apparve più consono al maestro indiscusso di tale tradizione, per divulgare l’evento nella sua importanza, fu proprio la composizione di una corrispondenza poetica, di una epistola metrica. Non erano in precedenza mancati, naturalmente, poeti umanisti impegnatisi a inviare le proprie opere nella città estense (come il Panormita e il Porcelio), o giunti anche a sostarvi a lungo (dal precursore vicentino Matteo d’Orgiano al suo più tardo concittadino Niccolò Loschi, dal siciliano Marrasio al veronese Tobia Del Borgo, dal fiorentino Bartolomeo Casciotti sino allo stesso Guarino);3 ma nella scuola del Veronese (del resto operante a Ferrara da poco più di un decennio), e più in generale in area estense, nessuna voce poetica di nascita o educazione ferrarese si era ancora manifestata. Non a caso, per la scarsa attenzione rivolta all’epistola di Guarino al Marescalchi, ancor oggi di poesia estense latina si inizia generalmente a parlare con riferimento alla raccolta di epitaffi allestita per la morte di Niccolò III dallo stesso Guarino nel 1442; quando non alla prima apparizione (1443) dell’assai più noto libretto elegiaco (stesura iniziale dei successivi Eroticon libri) del diciannovenne Tito Vespasiano Strozzi.4 Viceversa, questo ruolo di attivazione di una grande tradizione letteraria (sul doppio versante della poesia politica e, almeno nelle intenzioni, di quella elegiaca) era ben chiaro ai contemporanei del Sardi, che numerosi riconoscimenti gli tributarono nei pochi anni che divisero la prova d’esordio (1439) dalla sua morte (1445). In merito vale la pena di ricordare, accanto agli elogi di Guarino, quelli di Leonardo Bruni, che in una lettera (su cui torneremo) fortemen3. Su tutti i nomi citati, e sul ruolo da essi svolto nell’ambito della tradizione letteraria d’area estense, cfr. il mio « La fonte d’ogni eloquenzia ». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Bulzoni, Roma 2002, pp. 144–54 (ove si troveranno anche i relativi riferimenti bibliografici). 4. Sulla silloge in morte di Niccolò III, cfr. L. Capra, Gli epitafi per Nicolò III d’Este, « Italia medioevale e umanistica », 16 (1973), pp. 197–226; su tutto ciò che concerne la poesia elegiaca strozziana, rinvio di nuovo al mio « La fonte d’ogni eloquenzia », cit., pp. 245–89, e alle indicazioni bibliografiche e critiche lì raccolte.

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te incoraggiò Ludovico a una concomitante dedizione alla poesia e alla scienza giuridica.5 Al nostro autore fu poi riconosciuto il ruolo di prestigioso interlocutore poetico da parte di vari letterati estensi di quegli anni, come Enrico Hylas da Prato (al quale è diretta una risposta del Sardi che ci è pervenuta) e Francesco Peregrino Ariosto (che Ad gravissimum iurisconsultum et poetam clarum Ludovicum Sardum inviò nel 1443 il compianto in morte di Giovanna Costabili, e tra il 1441 e il ’45 un encomio di Leonello d’Este).6 Importante è anche l’accenno che ad un testo di Ludovico (la consolatoria — anch’essa pervenutaci — indirizzata nel 1442 a Leonello per la morte del padre, Niccolò III) volle dedicare Angelo Decembrio, nella pars della sua Politia litteraria (la n. 69) più direttamente dedicata all’arte della scrittura in versi: accenno tanto più rilevante se si tien conto dell’estraneità del Sardi (per evidenti ragioni anagrafiche) alla scuola guariniana.7 Infine, 5. Tale epistola fu illustrata da F.P. Luiso in uno studio del 1904, giunto però alle stampe molti anni dopo (cfr. Id., Studi su l’epistolario di Leonardo Bruni, a cura di L. Gualdo Rosa, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1980, pp. 157–8); nel frattempo, dai suoi appunti H. Baron l’aveva tratta e pubblicata in L. Bruni Aretino, Humanistisch–philosophische schriften, Teubner, Leipzig 1928, pp. 144–5. 6. Di Enrico da Prato dirò in dettaglio più avanti: cfr. intanto R. Sabbadini, Henricus Hylas Pratensis, « Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere. Rendiconti », 43 (1910), pp. 256–62. Sull’Ariosto rimando a M. Quattrucci, Ariosto, Francesco Peregrino, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 4, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1962, pp. 169–71. Dei componimenti di quest’ultimo che ci interessano, il primo (Franciscus Ariostus Peregrinus urbem Ferrariam solatur, abscessum Joannae Costabilis moerentem, inc. « Constabilis nymphae defles, urbs nostra, recessus ») ci è trasmesso dal ms. di Modena, Bibl. Estense, α.J.5.15 (Lat. 1080), cc. 159v–160r (che lo data: Composita V. Idus Martias 1443), e dai suoi descripti settecenteschi di Ferrara, Bibl. Ariostea, I 70 (vol. I, cc. 98v–99v) e I 434 (cc. 8r–v); il secondo (Francisci Ariosti Peregrini carmen de sui ipsius taciturnitate, inc. « Sarde diu tacui, nullo succensus honore ») è tràdito dallo stesso codice modenese, cc. 10r–11r (dal quale di nuovo lo trascrissero i mss. ferraresi I 70, vol. I, cc. 102v–104r, e I 434, cc. 10r–11r), e da due della Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 8914 (cc. 124v–125v), e Barber. Lat. 42 (cc. 306r–307v). 7. Donde l’esclusione del Sardi dalla rassegna di allievi del Veronese inserita da L. Carbone nell’orazione in morte di Guarino (ed. in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Ricciardi, Milano–Napoli 1952, pp. 382–417). Così invece si era espresso il Decembrio, tra il 1443 e il ’47: « His finientem Leonellum omnes et admirati sunt, ut assolebant, et summis laudibus extulere, praecipue qui aderant versificandi periti. Inter quos Leonardus ex Sardiis, qui paulo ante ad eum principem de obitu Nicolai genitoris consolatoriam heroice scripserat orationem ». Non rappresenta ostacolo all’identificazione l’errata trascrizione del nome del Sardi nel testimone più attendibile dell’opera, il ms. autografo della Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1794 (c. 172r), redatto circa vent’anni dopo l’episodio ricordato (ancor più confusione fa l’ed. princeps, Augustae Vindelicorum, Henricus Steynetus, 1540, che attesta « Leonellus »). Il brano si legge oggi in A.C. Decembrio, De politia litteraria, ed. N. Witten, München–Leipzig, K.G. Saur, 2002, VI 69, 69, p. 444. Sull’autore, per un primo orientamento, cfr. P. Viti, Decembrio, Angelo Camillo in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 33, 1987, pp. 483–8;

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una particolare menzione meritano gli epitaffi dedicati alla morte del nostro poeta, sempre elogiativi della duplice attività del Sardi, giurista e letterato: quello in versi di Bartolomeo Casciotti (Defleat alma suum lacrimis Ferraria civem);8 quello in prosa di Guarino, concepito come iscrizione sepolcrale per la tomba dell’amico, che si trovava nella cappella capitolare (oggi basilica) di S. Francesco;9 e un terzo in versi (Qui patriae vivens famam super astra tulisti), in origine ugualmente inciso sulla tomba del Sardi, e comunemente attribuito allo stesso Guarino.10 Oggi, al contrario, senza uno studio inteso a riaffermarne i meriti letterari, la figura del Sardi risulterebbe a tal punto dimenticata da Pantani, « La fonte d’ogni eloquenzia », cit., pp. 115–33; V. Fera, Filologia in casa Decembrio, in I Decembrio e la tradizione della Repubblica di Platone tra Medioevo e Umanesimo, a cura di M. Vegetti e P. Pissavino, Napoli, Bibliopolis, 2005, pp. 145–76. 8. « Defleat alma suum lacrimis Ferraria civem; / Musarum regina fremat, sed frondea laurus / in gemitum prostrata ruat, comitesque bonorum, / eloquii genitrix et magni nata Tonantis, / fletibus accumulent laniatos undique crines: / cum Ludovicum mors abstulit invida Sardum / his studiis, legum nam clarum lumen ademit ». Epitaffio tràdito dai mss. di Berlino, Deutsche Staatsbibl., Hamilton 495, c. 156v, e di Modena, Bibl. Estense, α.J.5.15 (Lat. 1080), c. 170r; da quest’ultimo lo trascrissero i mss. ferraresi I 70 (vol. I, c. 131r) e I 434 (c. 118v), e lo pubblicò G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara (1429–1460), Ginevra, Olschki, 1921, p. 47. Sul Casciotti rimando a G. Schizzerotto, Casciotti, Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 21, 1978, pp. 287–91. 9. « Hic humatus est Ludovicus Sardus, iuris et iustitiae consultus optimus, philosophiae, Musarum et omnis humanitatis artibus insigniter eruditus. Patrie, amicis, bonis universis domi forisque lugendus, excessit e vita III Idus Julias, anno Christi mccccxlv ». Dall’incisione originaria (oggi perduta, come la tomba stessa del Sardi) lo trascrisse F. Borsetti, sia nella sua Historia almi Ferrariae Gymnasii, Ferrara, B. Pomatelli, 1735 (rist. anast. Bologna, Forni, 1970), vol. II, p. 15, sia nel ms. Ferrarese I 434 (c. 20r). L’epitaffio è tràdito anche dal ms. Estense α.J.5.15 (Lat. 1080), c. 170v, ma con data di morte fissata al « 1443 » (e di lì ripresa dal ms. di Ferrara I 70, c. 131v); nonché dai codici di Berlino, Hamilton 495, c. 156v (con data « 1449 »), e di Madrid, Bibl. Nacional, 3520 (M 15), con la data esatta « 1445 » (sul problema della data di morte del Sardi, vedi oltre). 10. « Qui patriae vivens famam super astra tulisti, / urbs orbata dolet tetro te occumbere saxo, / Sarde Ludovice, iuris patrone sacreque / iustitiae cultor, callens arcana sophiae / Musarumque decus, Phoebi dignate corona, / utraque Acteum sectans virtute Solonem ». Ugualmente inciso sulla sepoltura in S. Francesco, secondo la testimonianza di Borsetti, e tràdito dai mss. di Berlino, Hamilton 495, c. 157r, ed Estense α.J.5.15 (Lat. 1080), tra i due precedenti, cc. 170r–v, da cui lo trascrisse il Barotti nel ms. di Ferrara I 70 (vol. I, c. 131r–v), e lo pubblicò il Borsetti, Historia, cit., vol. II, p. 15 (edizione riproposta da S. Prete, Two humanistic anthologies, Biblioteca Apostolica, Città del Vaticano 1964, pp. 56 nota 131). La sua collocazione nel ms. Estense, immediatamente dopo l’epitaffio del Casciotti, sembra ricondurne a questi la paternità; tuttavia il Borsetti, nel ms. Ferrarese I 434, riporta questo epitaffio, lontano dall’altro e subito prima di quello guariniano (c. 20r), con puntuale intestazione: Per Guarinum Veronensem epitaphium positum. A Guarino, pur tra varie oscillazioni, attribuì questi versi S. Prete (cfr. Two humanistic, cit., pp. 56, 76–77, e Id. An unknown humanistic ‘Elogium Sancti Augustini’, « Revue des Études Augustiniennes », 11, 1965, p. 271 nota 19); e a Guarino lo assegna D. Manzoli, Nuovi carmi di Guarino Veronese, Biblioteca Civica, Verona 2000, p. 97.

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rendere perfino difficile, leggendo l’epistola metrica guariniana da cui siamo partiti, identificare il personaggio che vi è lodato.

3.2. Vita e opere di Ludovico Sardi Comunque, nonostante frequenti confusioni sul suo nome di battesimo,11 grazie al soliti benemeriti Sabbadini e Bertoni sappiamo che nel 1423 il Sardi era già legum doctor, e veniva inviato a Foligno da Niccolò III come suo vicario; tre anni dopo, Ludovico e suo fratello Niccolò « conducunt decimam ville Salvadonice districtus Ferrarie ab Episcopatu dicte civitatis ». Nel 1427, egli viene investito col fratello iure feudi di un’area di terreno in « villa Curli et Guardia Corrigie », mentre dal primo marzo 1429 al primo marzo 1430 è vicario generale di Reggio Emilia. Tra le sue proprietà una era in Salvadonica, della quale vendette nel 1432 l’usufrutto a Giovanni Romei. Nel 1435, assieme a Giovanni « De Forvicibus », fu inviato dal marchese come suo fiduciario a Padova. Negli anni 1434, 1440, 1444, 1445 svolse attività di promotore nello Studio di Ferrara, ma nel 1439, come già sappiamo, era a Rovigo ad amministrare terreni di proprietà del marchese. Nel 1443 sposò « Costanza di Francesco di Montecuccolo »; e in un atto del 1445 si trova ricordato un Francesco del « quondam Lodovico Sardi ». Proprio il 1445 fu infatti l’anno di morte del Sardi, in data 13 luglio: della data corretta dà sicura testimonianza il sopra citato epitaffio in prosa guariniano, inciso sulla tomba che si trovava a Ferrara nella cappella capitolare di S. Francesco.12 11. Ingannato dalla fuorviante testimonianza dell’ed. princeps della Politia litteraria (vedi sopra, nota 7), R. Sabbadini (Vita di Guarino Veronese, Tip. dell’Istituto Sordomuti, Genova 1891, p. 143) fu indotto a collocare un « Leonello Sardi » tra i « giovani » del circolo ferrarese; cinque anni dopo (Id., La scuola e gli studi di Guarino Veronese, Tip. F. Galati, Catania 1896), benché ora a conoscenza del carme di Guarino, che considerava in lode di un « Luigi Sardi » (p. 81), ripeteva l’errore del precedente studio a p. 153; giunse al definitivo « Ludovico » nel saggio su Enricus Hylas, cit., pp. 260–1, e in Guarino, Epistolario, cit., vol. III, 1919, pp. 371–2. Del resto, ancora peggio su questo versante fece G. Bertoni: che dopo aver collocato insieme « Leonello e Ludovico Sardi » nel circolo di Leonello d’Este in un suo studio del 1903 (La biblioteca estense e la coltura ferrarese ai tempi del duca Ercole I, Loescher, Torino 1903, p. 112), ancora nel 1921 (in Id., Guarino, cit., p. 77) conservava il fantasma di « Leonello Sardi » nel ricordare i personaggi nominati dal Decembrio nel suo dialogo. 12. La testimonianza del ms. Estense α.J.5.15 (Lat. 1080), che indicò il 1443 (ingannando il Bertoni) è chiaramente inattendibile: basti pensare che il copista del codice (il famoso ms. « Bevilacqua », sul quale cfr. D. De Robertis, Iohannes Carpensis / Giovanni da Carpi, in

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Dunque un’attività intensissima (che troverà conferma nei testi che leggeremo), lungo i soli ventidue anni di vita documentati. Sulla base dei dati cronologici disponibili, il Sardi si direbbe nato intorno al 1400, e morto prematuramente (non ancora cinquantenne) poco dopo un matrimonio alquanto tardivo.13 Né i suoi impegni si limitarono al quadro descritto: già il Borsetti infatti segnalava il suo insegnamento di materie giuridiche presso lo studio di Bologna, e due suoi trattati, dal titolo De legitimatione spuriorum e De concubinis.14 Era insomma un personaggio di notevole prestigio, il Ludovico Sardi cui Guarino dedicò l’epistola metrica al Marescalchi, per salutarne il memorabile (per tutta Ferrara) esordio poetico. A noi d’altra parte, in questa sede, interessa più ancora sottolineare come proprio da un’epistola metrica dello stesso Sardi quell’esordio fosse stato introdotto, seppur con lo scopo di presentare a Guarino un più impegnativo carme politico. Questi sono infatti i testi del Sardi da me rintracciati, posti secondo un presumibile ordine cronologico: 1) Lodovicus Sardus ferrariensis ad illustrem principem ac excellentissimum dominum, dominum Nicolaum Marchionem Estensem, pro vidua ac bellis afflicta Italia carmen oratorium dicit [inc.:] Aurea si magni totiens tibi munera reges;15 Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, vol. I, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 255–96, a pp. 279–85), il notaio Giovanni da Carpi, nel codice di Berlino, Hamilton. 495, anch’esso di sua mano, indicò invece il 1449; mentre il ms. di Madrid, Bibl. Nacional 3520, restituisce il corretto 1445. Per le informazioni offerte dal Bertoni, cfr. Id., Guarino, cit., pp. 45–47; per quelle del Sabbadini, cfr. Guarino, Epistolario, vol. III, cit., pp. 371–2. 13. Luiso (Studi, cit., p. 157) sostiene che il Sardi morì a 67 anni, ma senza addurre documentazione; e conferme alla notizia non si ritrovano neppure nei repertori citati dallo studioso: A. Superbi, Apparato degli huomini illustri della città di Ferrara, Suzzi, Ferrara 1620, p. 58; L. Ughi, Dizionario storico degli uomini illustri ferraresi, Eredi di G. Rinaldi, Ferrara 1804, vol. II, p. 158. 14. Cfr. Borsetti, Historia, cit., vol. II, p. 15, cui rinvio anche per bibliografia precedente; informazioni analoghe Borsetti offre nel ms. di Ferrara, Ariostea I 434, c. 20r. Riguardo al primo trattato, che cita col titolo De naturalibus liberis, de legitimatione et successione eorum, Ughi (Dizionario, cit. vol. II, p. 158) sostiene che esso fu in seguito stampato più volte: manca però qualsiasi riscontro. 15. « Carme oratorio » di 360 esametri, tràdito dal ms. di Padova, Bibl. Universitaria, Provvisorio 196 (= P), cc. 95r–102r. Cod. cart., sec. XV, cc. 106. Una mano fondamentale, semigotica posata, di copista influenzato dalla fonetica padana (frequenti le sue incertezze nell’uso di doppie e scempie, e delle consonanti palatali). Raccolta di carmi di G.L. Gonzaga, Guarino Veronese, L. Sardi (cc. 95r–102r), G. Correr, Pio II. Codice in più punti danneggiato da fori e macchie, che obbligano a un capillare esercizio integrativo. Ho trascritto il testo direttamente dal manoscritto, controllandolo poi sul microfilm.

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2) Lodovicus Sardus clarissimo viro Guarino Veronensi salutem dicit [inc.:] Somnia si simili mentis causata dolore;16 3) [Epitaffio in morte di Niccolò III] [inc.:] Qui per lustra fere iam dena hanc rexerat urbem;17 4) Ludovicus Sardus ferrariensis iurisconsultus in funere illustris principis et excellentissimi domini domini Nicolai marchionis Estensis. Ad illustrem principem eius natum dominum Leonellum marchionem Estensem, et aliorum flentium numerosum cetum, consolatorium carmen dicit [inc.:] Dive pii cordis qui tot Leonelle dolores;18 5) Ludovicus Sardus ferrariensis ad Musas [inc.:] Quis putat, o Musae, pugnam laudesque Dianae;19 6) Ludovicus Sardus ferrariensis ad Henricum Hylam [inc.:] Effodisse doles oculos, Henrice, puellam.20

La pubblicazione e l’analisi di tutti i 1184 versi sardiani recuperati sarebbe non solo dispersiva, ma neppure pertinente in questa sede. Scelta obbligata sarà invece concentrare la nostra attenzione su quelli più direttamente avvicinabili al genere della corrispondenza poetica, 16. Epistola metrica di 183 esametri, trasmessa dal ms. di Toledo, Archivo y Bibl. Capitolares, 100.42 (= T), cc. 269r–272v. Cod. cart., sec. XV, cc. 276. Mani diverse, umanistiche, dal ductus ora posato ora corsivo. Miscellanea umanistica, contenente versioni latine di orazioni greche; lettere e Dittonghi di Guarino; lettere di F. Barbaro, A. Panormita, G. Aurispa, P. Bracciolini, M. Savonarola; orazioni di F. Patrizi, L. Bruni, F. Filelfo, carmi di B. Casciotti, G. Guarini, Guarino Veronese, G. Marrasio, B. Borsa, A. Astesano, N. Loschi, T.V. Strozzi, L. Sardi (cc. 269r–272v) e altri. Trascrivo il testo da microfilm. 17. Epitaffio di 10 esametri, edito criticamente (sulla base di quattro testimoni manoscritti) da Capra, Gli epitafi, cit., pp. 219–20, e in precedenza da Borsetti, Historia, cit., p. 42; Bertoni, Guarino, cit., p. 46. 18. Carme di 519 esametri, tradito da T, cc. 253r–265v, e, parzialmente, dal ms. di Venezia, Bibl. Marciana, Lat. XIV 218 (= 4677), c. 49r (solo i vv. 1–19). Capra (Gli epitafi, cit., p. 198), nel presentare e pubblicare la raccolta in morte di Niccolò III, al Sardi dedica una rapida chiosa, nella quale per la prima volta questa consolatoria a Leonello viene messa in relazione con il passo della Politia litteraria (opportunamente emendato riguardo al nome del Sardi) che ne dava notizia. 19. Elegia in distici, di 68 vv., trasmessa dal ms. di Ferrara, Bibl. Ariostea, I 240, cc. 4v–5v, e pubblicata da S. Pasquazi, Poeti estensi del Rinascimento, Le Monnier, Firenze 1966, pp. 185–6 (purtroppo con modesto impegno filologico, come provano vari errori di trascrizione e la mancata segnalazione dei discorsi diretti). 20. Elegia in distici, di 44 vv., trasmessa dal ms. di Modena, Bibl. Estense, α.J.5.15 (Lat. 1080, = M), cc. 161r–162r; Sabbadini, Henricus Hylas, cit., pp. 260–1, ne pubblicò i vv. 1–4, 39–44. Descripti di M, come più volte ricordato, sono i mss. di Ferrara, Bibl. Ariostea, I 70 e I 434, testimoni dei nn. 3 e 6.

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vale a dire: le sezioni dell’ampio carme 1 esplicitamente indirizzate al destinatario, il marchese Niccolò III, e, per intero, l’epistola metrica 2 a Guarino da Verona e l’elegia 6 a Enrico Ila: cercando in primo luogo di riconoscere tra di essi il componimento che segnò l’avvio di questa significativa esperienza letteraria, e meritò gli elogi che Guarino volle non solo esprimere, ma anche rendere pubblici indirizzandoli a un terzo amico e uomo di cultura.21

3.3. Il carme oratorio a Niccolò III Non si tratta in realtà di un’identificazione priva d’incertezze, né essa deve portare necessariamente ad un unico testo (del resto il Veronese, come si è visto, parla di carmina del Sardi apparsi improvvisamente), in quanto sia il componimento a Niccolò III sia quello a Guarino esibiscono dati a proprio favore. Il primo, esortazione al marchese perché si attivi a pacificare l’Italia, offre maggiori garanzie sul piano cronologico, visto che fu certamente composto tra il 20 novembre 1439 (data della presa di Verona da parte dello Sforza citata al v. 206) e il 22 dicembre 1441 (data di morte di Niccolò III): dunque nello stesso arco di mesi entro cui si colloca anche l’elogiativo carme guariniano. Il secondo invece fu certamente composto dopo il 1439, ossia l’anno del comune soggiorno rodigino (cui anch’esso fa riferimento), e, accennando solo a Leonello e mai a Niccolò III, sembrerebbe da collocare dopo l’insediamento del nuovo marchese. Ma se da un lato questo argomento non può dirsi determinante (il ruolo di Leonello era molto importante già prima della morte del padre), dall’altro, come vedremo, il carme di Guarino sembra riferirsi in modo particolarmente diretto proprio ai contenuti di quello a lui indirizzato. Per giungere a una soluzione, non resta dunque che analizzare nel dettaglio i due testi. Questi ultimi hanno caratteristiche tra loro antitetiche, o se si vuole complementari: quello a Niccolò III consiste infatti nel ritratto in stile oratorio di un’Italia lacerata da guerre continue, in cui con forza si invita l’estense a un ruolo attivo in favore della pace, e per tal via a raggiungere una posizione centrale negli equilibri di potere della 21. Nella versione originaria di questo studio, indicata nella Premessa, ho pubblicato anche l’elegia 5, e integralmente il carme 1. Resta inedito il solo carme 4.

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penisola;22 quello a Guarino ricostruisce invece, in forma allegorica, la storia della vocazione poetica dell’autore: vocazione ostacolata dall’altra missione da cui Ludovico si sentiva investito, quella giuridica, tuttavia meno generosa di soddisfazioni del previsto, e assillante al punto da non permettere al Sardi di coltivare anche la prima inclinazione. Dei carmina venuti a sua conoscenza, Guarino sostiene nel suo saluto di apprezzare in particolare l’ardua inventio e il concinnus ordo (vv. 61–63): Ardua materiem profert inventio; divas, Castaliam totam, totum in praecordia Phoebum inspirasse putes; concinnus iungitur ordo.

Certo, il Veronese era un lettore inevitabilmente benevolo: sia perché, ben consapevole dei propri limiti nella scrittura poetica, era naturalmente incline ad ammirare prove in ogni caso così impegnative; ma soprattutto perché, per quanto nata al di fuori della sua scuola, la prima maniera del Sardi di fatto costituiva un’esemplare realizzazione della più autentica poetica guariniana, tutta volta ad esaltare un’arte che fosse innanzitutto portatrice di insegnamenti morali e civili: una poesia propriamente « antilirica », aderente alla vita reale e posta al servizio della comunità.23 In tal senso, le teorie letterarie del maestro veronese sono ben testimoniate dal suo epistolario e dagli scritti didattici; ma il loro documento più raffinato è da considerarsi il già citato dialogo De politia litteraria di Angelo Decembrio. Elegante rappresentazione del circolo guidato da Guarino e da Leonello d’Este, in cui tutti i partecipanti conversano sulle più varie questioni culturali, l’opera (intrapresa negli anni ’40 e conclusa intorno al 1463) affida le valutazioni di merito soprattutto al marchese–umanista, che sintetizza il pensiero estetico guariniano nella seguente regola aurea: 22. Disegno politico peraltro ampiamente condiviso dal destinatario, che proprio nel tentativo di favorire la pace tra Milano e Venezia (e forse di interferire nella prossima successione all’ammalato Filippo Maria Visconti) intraprese nel novembre 1441 quel viaggio a Milano, per svolgervi funzioni di governatore, destinato nel giro di un mese ad essergli letale, non senza sospetto di avvelenamento (su Niccolò III rimando a A. Menniti Ippolito, Este, Niccolò d’, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 43, 1993, pp. 396–403). 23. Anche questo tema ho sviluppato nel mio « La fonte d’ogni eloquenzia », cit., pp. 133–44, cui rinvio per tutta la documentazione relativa; tra gli studi precedenti, prezioso in materia A. Biondi, Angelo Decembrio e la cultura del Principe, in La corte e lo spazio: Ferrara estense, a cura di G. Papagno e A. Quondam, Bulzoni, Roma 1982, pp. 637–57.

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Decet enim in primis ea librorum volumina perquirere, quae hominem efficiant eloquentem et industrium, a naturali usu minime discedentem.24

Tale principio non comportava una svalutazione della poesia. Il rischio di desumerne criteri di giudizio angustamente utilitaristici era certo presente, e infatti nell’opera non manca chi ne deduce la superiorità di Tito Livio rispetto a Virgilio. Leonello risponde tuttavia non solo rivendicando la grande ricchezza informativa delle opere virgiliane, ma anche illustrando i superiori valori che pongono la poesia su un piano privilegiato rispetto alle altre scritture letterarie, sia quanto ad altezza d’ispirazione che per efficacia didattica: Nec enim a poetis primum incepisse pigebit. Quorum eo altiora vigent ingenia, quo magis animum delectare videntur musico quodam artificio, et, si dici fas est, harmoniae caelesti consimilia. Dicimus autem egregios non omnis generis poetas. Unde merito eruditissima carmina scribentibus poetae nomen inditum est [. . . ]. Huicque divino pioque hominum generi, non irreligioso, ut stultum vulgus existimat, laurea dicata aliaque ab imperatoribus munia donari solita. Ad hoc in lectione carminis iis, qui metricam et solutam tractant orationem, voluptas accedit maior, faciliusque carmen memoria retinetur et imbibitur, quo sensim animus praecipue iuvenilis cum delectatione simul in sermonum gravitate nutritur.25

Il circolo guariniano, dunque, assegnava ai poeti non solo il dono di esprimersi in forme didatticamente utili perché più facilmente memorizzabili, ma soprattutto un ingegno in possesso di una creatività a suo modo divina, in virtù della musicalità, simile all’armonia dei cieli, che ne pervade le opere. Tuttavia, proprio l’eccezionale natura e l’alta funzione educativa attribuite alla poesia non consentivano, nell’estetica guariniana, l’apprezzamento di un’arte letteraria che prescindesse da contenuti formativi, dall’aderenza alle esperienze concrete di una vita orientata da forti valori morali. L’impegno civile, tra i due testi del Sardi che stiamo analizzando, è ovviamente presente in modo particolare nel carmen oratorium indirizzato a Niccolò III Pro vidua ac bellis afflicta Italia; la cui intestazione già rivela due fondamenti strutturali del testo: il tono sostanzialmente epico–oratorio (con inevitabile attribuzione di un ruolo importante 24. Cfr. Decembrio, De politia litteraria, cit., I 3, 12, p. 152. 25. Ivi, I 3, 14, p. 153.

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a divinità mitologiche), e il sistematico ricorso a personificazioni, a partire da quella primaria di un’Italia rappresentata come una donna sventurata, abbandonata da tutti dopo la caduta di Roma, e soggetta a continui rovesci di fortuna. Più in dettaglio, il carme si apre con un prologo indirizzato a Niccolò III, al quale il poeta dice di rivolgersi con fiducia, anche se sa bene di farlo ad un principe cui grandi re indirizzano doni preziosi assieme alle loro preghiere, affidate in aggiunta a grandi oratori, in grado di commuoverlo con la cetra di Orfeo. Né il Sardi si fa scoraggiare dal fatto che a muoverlo è una donna un tempo regina (l’Italia, come si vedrà) non più in grado di presentare dei doni; la virtù dell’Estense non è oscura a tal punto che il poeta possa ignorare la sua attenzione per le giuste richieste (vv. 1–16): Aurea si magni totiens tibi munera reges iunxerunt precibus, summos discrimine summo ad te oratores cithara si thracis ut Orphaei mulcerent mis¯ere prius, michi magna referre queque rogem, illustris princeps, votisque potiri non minor est animus; nec sic fucia cessit me quamquam minimum sine munere regia quondam femina transmt; non sic incognita virtus est tua, non pietas, ut quid nisi iusta precantum vota putem placuisse tibi, iustissime regum; non sic, o Latii summum decus, alter Apollo, inclita gestorum belloque doque tuorum fama tulit nobis; sed nec cui iustior ulla causa fuit nullique magis miseranda roganti, nec tibi, si circumspectes, quid sistere gno firmius aut pacis pignus prestabit amate.26

Il marchese, prosegue il poeta, certamente ben ricorda di quale felice condizione godesse l’Italia quando suo sposo era Cesare Augusto: trionfante sul suo carro d’oro, ella era onorata come una dea da tutti i 26. Testo, come detto, tràdito dal ms. di Padova, Bibl. Universitaria, Provvisorio 196 (= P). 3 thracis] trhacis P 6 fucia] futia P. Fonti: 1 « munera reges »: Marziale, Epigr., V 19, 13. 2 « discrimine summo »: Lucano, Phars., X 532. 3–4 « cithara . . . mulcerent »: Seneca, Medea, 356–8. 4 « magna referre »: Ovidio, Fasti, VI 22. 6 « fiducia cessit »: Virgilio, Aen., VIII 395, IX 126, X 276; Stazio, Theb., VIII 529. 7 « regia quondam »: Silio Italico, Pun., V 262. 7–8 « regia . . . femina »: l’Italia. 11 « summum decus »: Culex, 317. 13 « fama tulit »: Silio Italico, Pun., XIII 387. 16 « pacis pignus »: Ovidio, Met., VIII 48, XII 365.

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popoli (vv. 17–32); ma ai suoi danni si manifestò il potere della Fortuna, della cui onnipotenza il Sardi offre un minuzioso ritratto (vv. 33–43). Da qui ha inizio un’ampia sintesi della storia d’Italia, condotta con sguardo esclusivamente rivolto ai contrasti politici e militari che dalla caduta di Roma l’hanno tormentata, e narrata con attiva presenza di divinità pagane, variamente schierate tra i contendenti. La Fortuna, dunque, stabilì la morte di Cesare (ovvero la fine dell’Impero), e la perdita dello sposo fu per l’Italia l’origine di una serie di sciagure: abbandonata dai servi, contesa a duello da pretendenti un tempo sottomessi, essa vide, piangendo, la sua Roma occupata da genti straniere (vv. 44–61). Quando piacque agli dei, l’Italia trovò la forza per rivolgere, prostrata a terra, la sua preghiera a Giove; questi, sollevandola, la rassicurò garantendole che avrebbe posto fine alle sue lacrime: i suoi oppressori sarebbero tornati nelle loro terre, ella sarebbe rimasta proprietà del padre degli dei;27 gli stranieri avrebbero mantenuto solo nei patti il potere imperiale, ma di fatto ella sarebbe rimasta libera (vv. 62–74). E così accadde: come protettore, Giove diede alla vedova il papa Martino V, il quale senza milizie riuscì a tenere lontani i re stranieri (vv. 75– 90).28 Ma la Fortuna non sopportò questa pace, e scatenò l’odio fra le stesse città italiane. Il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, diffuse il terrore; a lui si contrappose Firenze, presto sostenuta dal doge di Venezia: si combatté a lungo. Né queste guerre lasciarono indifferenti gli dei celesti: Giunone si schierò con Venezia, Ercole con Milano (vv. 91–105). Di nuovo l’Italia fu costretta a rivolgersi piangente a Giove, chiedendogli a cosa fosse servito allontanare le armi tedesche, se i suoi stessi prìncipi dovevano dilaniarle le viscere. A questo punto, conoscendo l’amore per la pace di Niccolò III, Giove inviò Mercurio presso il marchese di Ferrara per investirlo del compito di pacificatore: e l’Estense riuscì nell’impresa, per quanto solo in via provvisoria (vv. 106–126).29 In effetti, all’improvviso Firenze attaccò Lucca: Genova si schierò con questa, Venezia accanto a Firenze, la Toscana fu devastata; e contemporaneamente, Bologna si sollevò contro il papa. Ma Niccolò III, ancora una volta, riuscì a ricondurre 27. Chiara allusione alla presenza in Italia del potere temporale della Chiesa. 28. L’elezione di Martino V (Oddone Colonna) al soglio pontificio si verificò l’11 novembre 1417; il suo rientro a Roma nel settembre del 1420. 29. Riferimento alla pace di Ferrara del 1428, in cui, dopo la sconfitta di Maclodio (1427), Filippo Maria Visconti fu costretto a cedere a Venezia le province di Bergamo e Brescia.

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in pace l’Italia, inducendo all’accordo le città toscane, e riportando Bologna all’obbedienza nei confronti del papa:30 e tutto questo senza alcuna ricompensa, che certo non sarebbe mancata se la pace fosse durata più a lungo (vv. 127–153). Ma l’Italia aveva appena finito di versare lacrime, che le ostilità ricominciano. Genova si ribella al dominio di Filippo Maria Visconti, che le invia contro le truppe di Niccolò Piccinino;31 intanto Venezia prepara un grande esercito sotto la guida del marchese di Mantova Gianfrancesco Gonzaga, e attacca Milano: ma è bloccata dal Piccinino, il quale, accorso a difesa e sostenuto da Giunone,32 opera un contrattacco micidiale giungendo oltre l’Adige, proprio mentre il Gonzaga si spostava dalla parte del Visconti. Indignato, a favore di Venezia si muove Nettuno, che da Giove ottiene per i Veneti l’appoggio di Francesco Sforza;33 il quale, passando proprio per Ferrara, con una manovra aggirante riesce a bloccare il nemico presso le più vitali postazioni venete (vv. 154–210). Il poeta, a questo punto, offre un afflitto quadro generale della situazione italiana: da una parte le città liguri e venete, dall’altra quelle del Visconti e del Gonzaga; anche le regioni centrali soffrono per le continue operazioni militari, mentre il Regno di Napoli subisce la guerra portata da Alfonso d’Aragona; e la stessa Roma giace nell’abbandono, dopo l’ennesima fuga cui è costretta la corte papale (vv. 211–235). Di nuovo l’Italia rivolge le sue preghiere agli dèi, ma questa volta non è Giove ad ascoltarla, né tutti gli altri, se non Apollo; il quale appare all’infelice, e le fa notare come di tutte le sue regioni una sola sia rimasta in pace, il marchesato di Ferrara; e per quanto all’apparenza piccola, sarà questa città a restituirle la quiete. Essa è infatti governata da un signore amante della concordia; se c’è qualcuno in grado di placare l’ira di Giove, può trattarsi solo di Niccolò III, il quale ha sempre operato per la pace; non solo facendo da mediatore fra stati ostili tra loro, ma anche riconciliando due spagnoli decisi a sfidarsi in duello (vv. 236–303). Tornato Apollo in cielo, l’Italia si asciuga le guance; ma avendo le vesti in brandelli, e vergognandosi di presentarsi 30. Riferimento alla pace di Ferrara del 1433. 31. La ribellione di Genova avvenne il 13 dicembre 1435. 32. Sul cui sorprendente voltafaccia (da filoveneziana a protettrice del Piccinino, e quindi di Milano) l’autore non offre spiegazioni. 33. Un appoggio ottenuto da Venezia nel 1439; il 20 novembre, come detto, lo Sforza giunse alla riconquista di Verona ricordata al v. 206.

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a Niccolò III in tali condizioni, incarica il Sardi d’informare l’Estense sulla missione che lo attende (vv. 304–313): Dixit, et in celum levibus se sustulit alis. Illa sed hinc lacrimas surgens, ut iussit Apollo, deposuit tersitque genas. Iam prompta venire audebat, sed se laceram, cum membra paterent, servili coram puduit sub veste videri. Ad te igitur, regum splendor, cum nullus in orbe inter tot summos vates ad sidera notos auderet iam dicta loqui, me iussit adire illa oratorem, mens est mihi libera quando et magis ignotum minus omnia ferre pudebit.34

Sicché il poeta, in conclusione, ribadisce al marchese la preghiera di restituire pace all’Italia, lui che solo può farlo; senza bisogno di armi, se non quelle dell’intelligenza, ma anche senza indugi, perché è circondato egli stesso da pericolosi tiranni, cui si vanno aggiungendo Tedeschi, Francesi e Aragonesi (vv. 314–333): Iserare, precor, quam conspicis, armis oppressam propriis, tot sustinuisse labores totque malis lapsam; nec adhuc his fine reperto, da pacem quam solus habes, quam solus ab omni vel duce vel populo potes extorquere, vel ipso ab Iove, quem nosti numquam tua vota negasse. Non opus est armis, sed quo te vidimus arma sepius ingenio et mentem superare deorum. Nec longum differre licet: nam proxima morti, vix animam merens pallenti sustinet ore. Deficit; at medico, si sit mora nulla, resurget. Aspice quot ficta pro libertate tiranni in dominam posuere manus! Tu solus, inermis inter tot strictas in regum funera dextras, tutus eris? Non tela vides in te omnia verti, unica cum victrix dextra omnia tela tenebit? Finge geri dubio bella hec sub marte per annos: an latet Italiam defectis viribus arma 34. 304 sustulit] corr. ex substulit P 307 membra] menbra P. Fonti: 304 « se sustulit alis »: Virgilio, Aen., IX 14 (e cfr. V 657); Valerio Flacco, Argon., IV 49. 309 « nullus in orbe »: Orazio, Ep., I 1, 83; Ovidio, Fasti, IV 574. 310 « ad sidera notos »: Virgilio, Ecl., V 43. 311 « iussit adire »: Virgilio, Georg., IV 446.

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mox aliena pati? Simul hinc atque inde prementes Germani Gallique ruent et Aragone creti.35

All’Italia è necessario dare uno sposo: e chi più degno di Leonello, figlio ed erede di Niccolò III? Sulle virtù del giovane marchese il poeta ritiene inutile soffermarsi, ma la sua recente vedovanza ne fa ancor più l’ideale marito per l’Italia (vv. 334–360):36 Quod, si forte Iovem non speres flectere lesum, nec sinat impunes bellis exire superbos, deleat ipse quidem, tanti sit criminis ultor; sed vidue si qua statuat ratione quietem Italie, non insidias, non crebra pudico bella thoro et foribus rixas sub te pum effugiet: detur, tollens hec omnia, coniunx, detur in amplexus dignos; ea sola quietis est via, si nulli sit spes connubia ferre. Quis dabitur? Quis sponsus erit? Proceresque ducesque quos ingens nunc orbis habet, si mente revolvo, illorum cum pace loquar: tuus, inclite princeps, illustris Leonellus adest, virtute deorum iungendus numero, sponso quoque dignior omni. An tu illum aut is te exornet mihi dicere non est; sed satis a nato superari est dulce parenti. Mitto decus generis proavumque excelsa suorum nomina, nec formam memoro nec dona iuvente: quem mentis virtute parem nostra extulit etas? Aut inter regum pueros quis dignior illo te nasci genitore fuit? Me iudice nullus. Hunc igitur viduum, cum iam migraverit Hebe ad superos loca prima tenens, Ganimede remoto, Iupiter, o tandem, lapse succurre puelle, 35. 314 Iserare] suppl. Rizzo 315 oppressam] opressam P 322 differre] differe P 323 pallenti] palenti P 328 tela] corr. ex tella P. Fonti: 317 « solus ab omni »: Valerio Flacco, Argon., IV 203; Stazio, Theb., XI 107. 320 « opus est armis »: Ovidio, Rem. am., 675. 324 « mora nulla »: Ovidio, Met., I 167; Giovenale, Sat., XII 111. 326 « posuere manus »: Ovidio, Fasti, IV 72; Valerio Flacco, Argon., IV 699; Marziale, Epigr., IX 61, 22. 327 « funere dextras »: Silio Italico, Pun., V 258; Stazio, Theb., VIII 106. 328 « omnia verti »: Lucrezio, De rer. nat., V 499; Virgilio, Aen., VII 309; Silio Italico, Pun., XVI 651. 331 « defectis viribus »: Silio Italico, Pun., VI 301; Ilias latina, 967. « viribus arma »: Ilias latina, 898. 332 « aliena pati »: Virgilio, Aen., X 866 « inde prementes »: Ovidio, Fasti, IV 825; Valerio Flacco, Argon., V 73; Stazio, Theb., VI 890. 36. La prima sposa di Leonello, Margherita Gonzaga (figlia del marchese di Mantova, Gianfrancesco) morì nel 1439, un anno dopo aver dato alla luce il piccolo Niccolò.

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da sibi coniugio pacisque in federa iunge! Tu princeps, quisquis modus est, tu pacis amator Italiam et tete studeas summittere paci.37

Dopo questa lettura, direi che se l’ardua inventio segnalata da Guarino è difficilmente sottoscrivibile da parte nostra in questo carme (data la serie di luoghi comuni cui il Sardi si affida), sul concinnus ordo si può concordare. In effetti, Ludovico fa di tutto per dare movimento strutturale alla sua materia, variando il punto di vista espositivo in più casi. Dopo un esordio tutto inteso alla captatio benevolentiae del nobile destinatario (vv. 1–16), egli propone un rapido quadro della felice condizione d’Italia ai tempi dell’Impero romano (vv. 17–32). Per introdurre la successiva decadenza, il Sardi ricorre all’ovvio, ma sempre utile (a fare da cerniera) motivo dell’invidia della Fortuna (vv. 33–43); segue una sintesi sulle devastazioni subite dall’Italia durante le invasioni barbariche (vv. 44–61), dopodiché la prospettiva s’innalza improvvisamente su scenari celesti, in quanto l’intervento di Giove (ambiguamente identificato con il Dio cristiano, vista la permanenza di tutta la corte dell’Olimpo) promuove l’Italia a sede del Papato e fa di questo il protettore disarmato di quella, sino al ritorno di Martino V (vv. 62–90): e così il testo, nel corso di 90 versi (un quarto della sua estensione), ci proietta rapidamente al 1420, mentre ai successivi 19 anni saranno dedicati i seguenti 145 versi (più di un terzo del carme). Lo scenario storico da descrivere è ora completamente diverso, trovandosi il Sardi a dover rappresentare, molto nel dettaglio, guerre fratricide tra città italiane; ma disponendo, come detto, di non molte risorse inventive e retoriche (ancora personificazioni, interventi divini, pose scultoree con intenti epici), il poeta interviene di nuovo a variare il punto di vista introducendo una promessa di pace rivolta in discorso diretto all’Italia da Apollo (ora misteriosamente più sensibile di Giove alle sofferenze di quella), delle dimensioni di circa 70 versi; e piuttosto 37. 336 impunes] inpunes P 339 sub te pum] suppl. Rizzo 345 cum] c¯o P. Fonti: 339 « procorum »: Virgilio, Aen., XII 27. 340 « omnia coniunx »: Ovidio, Tristia, III 3, 15. 343 « proceresque ducesque »: Valerio Flacco, Argon., II 590. 344 « ingens orbis »: Ovidio, Ars am., I 174; Tristia, V 2a, 38. 345 « pace loquar »: Ovidio, Am., III 2, 60. 348 « dicere non est »: Orazio, Sat., I 5, 87. 349 « dulce parenti »: Stazio, Silvae, V 3, 232. 350 « generis proavumque »: Silio Italico, Pun., II 66. 353 « regum pueros »: Persio, Sat., III 17. 354 « iudice nullus »: Ausonio, Cup. cruc., 62. 356 « loca prima tenens »: Ovidio, Fasti, VI 304. 358 « pacisque in federa iunge »: Virgilio, Aen., XI 356. 359 « pacis amator »: Ovidio, Am., II 6, 26; Rem. am., 20.

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ampia è anche la perorazione finale, nella quale il poeta si fa portavoce di un’Italia troppo male in arnese per potersi rivolgere di persona a Niccolò III: circa 60 versi, un sesto dell’intero corpo testuale. Oltre a questa cura della dispositio, direi da manuale d’oratoria, meritano di essere segnalati alcuni passi apprezzabili sotto diversi punti di vista: interessante mi appare ad esempio l’allusione (nelle parole di Giove) al ruolo svolto dalla Chiesa nella liberazione della penisola da egemonie esterne, e al valore solo nominale del potere rimasto all’Impero;38 efficace si rivela la rappresentazione della fulminea azione dello Sforza in difesa di Venezia,39 o anche l’accorata descrizione della condizione attuale di Roma;40 notevole, infine, appare anche la consapevolezza dei pericoli che all’Italia divisa si preparavano al di là delle Alpi.41 Del carme, inoltre, non andrà trascurata la solidità del linguaggio, fittamente tramato di reminiscenze classiche. In effetti, sebbene quasi mai il Sardi attinga dai suoi autori passi di estensione superiore alle coppie sintagmatiche, queste ricorrono numerose, come prevedibile, soprattutto in sede di clausola esametrica; né sorprende che, nella sua costante ricerca di un’espressione sostenuta, Ludovico tenda a far proprie formule che, ben oltre ovvie ascendenze virgiliane e ovidiane, in prevalenza provengono dai più cupi e concettosi poeti epici (Lucano, Stazio, Silio Italico, Valerio Flacco) e tragici (Seneca) dell’età argentea: autori talvolta di recentissima riscoperta, eppure 38. « “Surge, age; et externos, extincto Cesare, reges / ne timeas. Ego sum lacrimis qui ponere finem / adveni, tantos gemitus miseratus ab alto. / Hi proprias redeant urbes, tu nostra manebis; / Romanum imperium teneant sub federe, solo / nomine contenti; maneas tu libera iussu” » (vv. 69–74). 39. « It Patavum, iungit Venetum fugientia primum / arma armis hostique ferox incursibus obstat; / nec mora transiliens Athesim montana pererrat / ad Penedum; hinc rediens, miro iuga celsa labore / nocte volans superat; subreptam sevus ab hoste / post triduum eripiens Veronam milite firmat. / Inde furens longo Benaci littora tractu / conciliat, Mincique senis dum negligit iras, / irruit: hunc populi nullo adversante trementes /excipiunt venetasque iterum videt Abdua turmas » (vv. 201–10). 40. « Roma tibi est: cernis tua rura inculta per agros, / abduci agricolas manibus post terga revinctis, / nunc stabulis armenta trahi captosque iuvencos / nunc gemere insontes quod aratra in morte relinquant; / nunc urbes nunc tecta vides prostrata ruinis. / Heu referam quodcumque nephas? Incendia dicam, / et cedes camposque virum fluitare cruore? / Quotque nurus, quot virginee per templa caterve, / dum fugerent, passe stuprum veneremque nephandam? » (vv. 224–32). 41. « Finge geri dubio bella hec sub marte per annos: / an latet Italiam defectis viribus arma / mox aliena pati? Simul hinc atque inde prementes / Germani Gallique ruent et Aragone creti. / Quod, si forte Iovem non speres flectere lesum, / nec sinat impunes bellis exire superbos, / deleat ipse quidem, tanti sit criminis ultor » (vv. 330–36).

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(per probabile mediazione guariniana) già integralmente assimilati nel patrimonio culturale e linguistico di questo giurista amante delle letture più impegnative (e poco incline, per ora, alle seduzioni della lirica).

3.4. L’epistola metrica indirizzata a Guarino Nella lucidità dello sguardo, nella cura del dettaglio, nella competenza letteraria, insomma, non fu interprete scadente dei suoi giorni Ludovico Sardi;42 non sorprende che il suo carme a Niccolò III facesse una buona impressione, probabilmente sotto tutti questi aspetti, a Guarino. Il quale però, come dicevo, sembra aver scritto il suo elogio dell’esordio poetico dell’amico guardando in primo luogo all’epistola in versi da quello indirizzatagli dopo la fine del comune soggiorno a Rovigo. In questa sorta di autobiografia in forma allegorica, il Sardi esordisce chiedendo al Veronese (retoricamente) chi mai avrebbe potuto strappargli dall’animo l’amore per la poesia appreso nell’infanzia. Tuttavia, pur cresciuto tra i canti dei poeti, affrontando la vita adulta egli aveva dovuto assistere spaventato a scontri di serpenti minacciosi (vv. 1–14): Somnia si simili mentis causata dolore exagitant quoscumque viros, si corde novatur cura gravis longumque odium turpisque libido, quis me posse putat dulces, Guarine, movere ex animo gratasque diu nunc pellere Musas? Vis ea nature est facilisque ad prima recursus est studia et primos mores; sic quemque voluptas prima trahit retrahitque potens ad leta gementem. Musarum me primus amor puerilibus annis impulit aonios inter pubescere cantus. Post, patrio iussu, certantes ore colubros sibilaque enixos linguis celerare trisulcis spectatum progressus eo. Primum ipse, fatebor, 42. Meno soddisfacente appare invece l’aspetto propriamente linguistico e stilistico dei testi sardiani, non di rado penalizzati da una sintassi dura e precaria, e da oscurità non si sa fino a qual punto volute. A bilanciare tali limiti, peraltro, va segnalata l’attenzione riservata dal nostro autore alle più varie risorse della retorica, con abbondante ricorso a poliptoti (cfr. ad es. testo 1, vv. 111, 141–42, 172–73, 202; testo 5, vv. 27, 45–46), paronomasie (testo 1, vv. 22–23; testo 2, v. 8; testo 5, vv. 51–52), figure etimologiche (testo 1, vv. 32, 248; testo 2, vv. 171, 180–81; testo 5, vv. 25), anadiplosi (testo 5, vv. 30–31), allitterazioni (un po’ dovunque: cfr. testo 1, vv. 4, 16, 31, 60, 91, 203, 253; testo 2, vv. 1, 22, 31, 94).

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extimui mediusque diu sine mente resedi.43

A confortarlo era allora scesa dal cielo una fanciulla divina, che allontanati i serpenti si era intrattenuta con lui, insegnandogli tutti i segreti dell’universo;44 poi aveva intrecciato una corona di fiori e l’aveva imposta sul suo capo, ma subito dopo se ne era tornata in cielo, lasciando Ludovico ancora bisognoso di guida (vv. 15–34): Sed demissa polo divum de gente puella, in terris vix nota, meum miserata timorem, adfuit et, roseo referens solamina vultu, me docuit tantos verbis mulcere furores pacatosque simul tacitos procul expulit angues. Hic mecum tum diva sedens post multa iocosos inter sermones, « satis hec sint hactenus » inquit, « divinum ingenium mihi sit divina docere ». Incipit et reserat quicquid natura potenti est operata manu, quo celi atque astra moventur cardine, quas formas generent elementa vicissim dum coeunt, moveat que cuncta animalia virtus. His dictis surgens viridi qua sederat herba, delegit varios flores capitique coronam texuit imposuitque meo; mox astra petivit. « O dea », suspiciens inquam « quid mente relinquis que dicturus eram cantu tibi carmina rauco? » Evasit, fugiens oculos et verba tacendo; tum me consilii cupidum et rationis egentem deserui, quod stravit iter fortuna sequutus.45

Mentre egli s’inoltrava solitario in una selva, gli giunse in soccorso 43. Il testo, ricordo, è tràdito dal ms. di Toledo, Archivo y Bibl. Capitolares, 100.42 (= T). 2 quoscumque] quoscunque T. Fonti: 7 « quemque voluptas »: Lucrezio, De rer. nat., II 258; Virgilio, Ecl., II 65. 9 « puerilibus annis »: Ovidio, Met., II 55; Fasti, VI 417; Her., V 157, ecc. 11 « patrio iussu »: Silio Italico, Pun., I 99; « ore colubros »: Ovidio, Met., IV 475. 12 « linguis trisulcis »: Virgilio, Georg., III 439; Aen., II 475. 44. L’identità del personaggio non è specificata, ma i suoi caratteri sono quelli di una Musa. 45. Fonti: 15 « demissa puella »: Properzio, IV 8, 9. 16 « in terra vix nota »: Silio Italico, Pun., I 330. 17 « roseo vultu »: Stazio, Achill., I 297; Silvae, III 4, 51. 20 « multa iocosos »: Ovidio, Tristia, II 422. 23 « natura potenti »: Marziale, Epigr., IX 79, 7. 23–24 « potenti manu »: Ovidio, Met., I 671–72. 26 « cuncta animalia »: Giovenale, Sat., XV 99. 27 « viridi herba »: Ovidio, Met., II 864. 29 « astra petivit »: Ovidio, Fasti, II 496. 33 « rationis egentem »: Lucrezio, De rer. nat., IV 502; Virgilio, Aen., VIII 299.

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un’altra vergine divina, che con la mano destra teneva alta una spada, con la sinistra un libro. Questa seconda dea gli chiese come mai si aggirasse solitario in un bosco così pericoloso (popolato da leoni feroci, lupi e cinghiali), e lo invitò a seguirla sotto l’ombra di una quercia. Qui ella si presentò: era Astrea, la dea custode dei regni, venuta sulla terra a sottomettere il mondo alla giustizia (vv. 35–55):46 Ecce autem, silve medio dum solus abirem, occurrit veneranda Iovi disque altera virgo, ense levans dextram nudo librumque sinistra, et properans in me gressu haud mortalibus apto: « O iuvenis, quo tendis? » ait, « non solus adire per nemus hoc metuis, quo maxima turba leonum insequitur miseros lacerans crudo ore iuvencos, quove agnos mactare lupi per ovilia gaudent pastoresque ovium vario creduntur amictu, quo terras vastans infectumque aera linquens arduus ursit aper, spumanti fervidus ore, sacra dee Veneri populos celebrare feroces? I mecum; recto redigam te calle sub umbra Cesaree quercus, sacram quam Iupiter olim esse sibi instituit ramisque et frondibus auxit ». Tendimus huc; tunc illa subit responsa roganti: « Sum dea regnorum custos; mihi paret Apollo, Mars mihi, Iuno mihi, paret mihi Iupiter ipse; me sine non crescit, non ulla potentia longa est; Astream me quisque vocat; delapsa per auras has venio iussu atque armis summittere terras ».47 46. Astrea nel mito greco era figlia di Zeus e di Temi, dea della Giustizia; e il suo compito, durante l’età dell’oro, era quello di diffondere fra gli uomini i sentimenti di giustizia e di virtù. Quando la malvagità si impadronì del mondo, Astrea risalì al cielo, dove divenne la costellazione della Vergine. Nel mito romano talvolta essa si identifica con la Giustizia in senso stretto; ne danno notizie Ovidio (Met., I 149) e Giovenale (Sat., VI 19 ss.). Qui ella viene ad assegnare al Sardi il suo destino di uomo di legge. 47. 36 disque] dijsque T. Fonti: 36 « altera virgo »: Virgilio, Georg., IV 339; Ovidio, Met., IX 764. 37 « ense nudo »: Virgilio, Aen., IX 548, XI 711, XII 305. 40 « maxima turba »: Virgilio, Aen., VI 611; Properzio, III 3, 24; IV 1, 34. 41 « ore iuvencos »: Virgilio, Aen., V 477. 43 « pastoresque ovium »: Virgilio, Ecl., I 21. « vario amictu »: Lucano, Phars., VI 654. 44 « infectumque aera »: Lucano, Phars., VII 769. 45 « aper spumanti ore »: Seneca, Phaedra, 347. 46 « populos feroces »: Virgilio, Aen., I 263, VII 384. 47–48 « sub umbra quercus »: Virgilio, Georg., IV 510–11. 50 « tendimus huc »: Ovidio, Met., X 34. 52 « Iupiter ipse »: Catullo, 54, 26; 70, 2. 53 « non ulla . . . est »: Ovidio, Met., II 416. 54 « delapsa per auras »: Virgilio, Aen., XI 595; Ovidio, Am., III 5, 21; Ars am., I 43; Met., III 101.

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Poi ella aprì il suo libro, introdotto dalle immagini di Roma, dei suoi magistrati e dei suoi imperatori; a queste veniva dietro la figura del papa, pastore che difende il suo gregge. La dea spiegò a Ludovico quale significato avesse ogni immagine; quindi formò a sua volta una corona con un ramo di quercia e dei fiori, e lo impose sul capo del Sardi. Questi (così eletto alla scienza giuridica) non sapeva come ringraziarla, ma la dea lo rimproverò del facile entusiasmo; lo attendevano infatti anni di duro lavoro al servizio della patria (vv. 56–85): Interea quercus ramos umbramque subimus ingentem et pariter saxo tumuloque sedemus. Illa aperit librum, cuius sub margine Roma picta sedet primoque patet sub limine custos; hincque magistratus populi regesque sequuntur, hinc Cesar subeuntque simul qui a Cesare nomen traxerunt variaque omnes sub imagine picti; at parte ex alia sacrato pectore pastor emicat, aurata compressus tempora mitra compescensque feras, baculo conservat ovile, claviger, et tutos ovibus per pascua somnos. Quid signent post ipsa docet quecumque figure, que dederint precepta duces dum vita manebat, quid vetuere geri vel consuluere gerendum. Continuo, viridis carpens ramum dea quercus, in circum flectit, primis quoque floribus addens, hos tegit et capiti super hec insignia nectit. Surrexi tum letus ovans genibusque subactis ante pedes dive, manibusque ad sidera iunctis: « O dea, quas laudes », inquam, « que digna merenti premia, quas tali referam pro munere grates? Errantem silvis et singula monstra timentem iam tuto me stare loco, iam membra quieti reddere, iam curas animo secernere donas ». Illa autem: « O demens, que nunc tibi vita supersit ignoras? Si carus amor, si cara parentum gloria, si patrie cura est regumque tuorum, hinc tibi durus erit labor atque exercita virtus. I modo, ne tardes; certa est hec semita, recte si teneas nulloque velis divertere clivo ».48 48. 60 hincque] que add. in interl. T 68 precepta] add. in marg. T. Fonti: 59 « limine custos: Virgilio, Aen., IX 648. 61 « a Cesare nomen »: Ausonio, Ecl., X 15. 63 « sacrato pectore »: Silio Italico, Pun., XV 121. 64 « tempora mitra »: Ovidio, Met., XIV 654. 66 « claviger et »:

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E così Ludovico cominciò ad affrontare la vita: venne inviato presso importanti città d’Italia, e ovunque trovò incarichi impegnivi ma anche attenzioni alla sua corona (ossia alle sue competenze giuridiche). Poi tornò in patria, confidando in Leonello: qui condusse battaglie a favore della sua città e dei concittadini, e celebrò pubblicamente le lodi della dea del diritto (probabile allusione al proprio insegnamento), ma in cambio non ottenne né premi né onori; famoso in Italia, si ritrovò sconosciuto a Ferrara (vv. 86–103): Tunc abii. Primum egregias dimittor ad urbes, per Latium me quisque cupit sertumque videre tale meo impositum capiti; labor urget anhelum extremus subeuntque graves mea pectora cure. Imperio parent omnes et honore verentur ut regem, dive fuerim quod iussa sequutus. Hinc iter ad patriam letusque huc deferor, unum te, Leonelle, petens, quo spes mihi summa reposta est; hic varios audens actus pro principe primum, pro patria victor pugnas, pro civibus egi. Ha, quotiens dive laudes, que iussa per orbem instituit, cecini populo spectante theatro! Sed vanus fuit iste labor, mihi nulla fuere premia, nullus honor nullique a principe fasces; in ubi per Latium primum notissimus ibam, ignotus patria nunc demoror; omnia late externa ingenti studio queruntur, at omnis vilescit patria nulli bene credita virtus.49 Ovidio, Fasti, IV 68. « tutos somnos »: Giovenale, Sat., XV 154. 68 « dum vita manebat »: Virgilio, Aen., V 724, VI 608, VI 660; Stazio, Theb., VI 166. 70 « viridis quercus »: Catalepton, 9, 17. 73 « letus ovans »: Orazio, Sat., II 3, 146; Silio Italico, Pun., XV 271, XVI 521. 74 « manibusque iunctis »: Seneca, Thyestes, 558. 75 « digna merenti »: Properzio, El., IV 11, 101. 76 « pro munere grates »: Marziale, Epigr., XII 9, 3. 77 « errantem silvis »: Ausonio, Cup. cruc., 5. « monstra timentem »: Lucano, Phars., IX 645. 78 « membra quieti »: Virgilio, Aen., V 836; Silio Italico, Pun., III 637. 79 « curas animo »: Virgilio, Aen., V 720. 80 « vita supersit »: Virgilio, Georg., III 10; Silio Italico, Pun., IX 124, XV 607. 81 « cara parentum »: Ovidio, Met., XIV 112. 82 « patrie cura »: Ovidio, Tristia, II 574. 83 « exercita virtus »: Stazio, Achill., I 793. 49. 88 anhelum] anhellum T. Fonti: 86 « dimittor ad urbes »: Livio, Ab urbe con., XLII 40, 1. 87 « per Latium »: Virgilio, Aen., VII 709 (e VIII 18). 88 « impositum capiti »: Seneca, Thystes, 544; Giovenale, Sat., III 252. 88–89 « labor extremus »: Virgilio, Aen., III 714. 89 « pectora cure »: Stazio, Theb., VIII 606; Silvae, IV 6, 89. 91 « iussa sequutus »: Virgilio, Aen., III 114; Stazio, Silvae, V 2, 112. 94 « audens actus »: Stazio, Theb., II 175. 95 « victor pugnas »: Properzio, III 14, 18. 97 « populo spectante »: Orazio, Ep., I 6, 60; Marziale, Epigr., VII 82, 5. « spectante theatro »: Orazio, Sat., I 10, 39; Marziale, Epigr., Spect. lib., XXIV 1. 98 « iste

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Passarono dieci anni: il Sardi fu inviato ad amministrare terreni posti presso l’Adige; e Guarino ne fu testimone, quando la necessità di fuggire la peste lo spinse a Rovigo, e con Ludovico convisse per un intero anno. In una notte di quel periodo, nella parte terminale del sonno, al Sardi apparve Apollo, che lo rimproverò di essersi immerso così a fondo nelle pubbliche cariche, lui che era stato educato alla poesia: nessuno lo avrebbe ricompensato di questa dedizione, neppure Leonello, che lo avrebbe invece notato se egli ne avesse cantato le imprese; così facendo, Ludovico avrebbe trovato la pace e ricevuto anche la corona poetica (vv. 104–120): Iamque decem exierant anni; tum missus ad arva iuxta Athesim curanda fui, dominoque vetusto reddita me primum grana inspexere serentem. Testis eras, cum Rodigium te pessima pestis transtulit, atque simul dulci cum viximus anno. Tum mihi, dum somnos curis ex mille fugaces exciperem, ante oculos medio sub noctis Apollo adfuit estque simul somno fugiente loquutus: « O noster quondam, quid tot sub pectore nectis curarum ambages? Longo hec tibi cura labore forte animi capitisque tui morte addet honores? Nec quemquam sperare licet tibi ferre quod optas, ni condigna tuo reddat Leonellus amori; illius interea laudes et gesta canendo ignotum te nosce, doce quid pectore versat: tum tibi summa quies et si mea iussa sequeris digna tuos quondam cinget mea laurea crines ».50

Il Sardi rispose, attonito ed esultante, che avrebbe realizzato volentieri gli ordini del dio, sempre che ne fosse all’altezza; allora Apollo prese per mano Ludovico e, innalzandolo in volo, lo portò sino al monte Parnaso, presso la fonte Castalia, dove lo invitò a bere di quell’acqua labor »: Virgilio, Aen., IV 115; Stazio, Achill., I 539. 99 « nullus honor »: Lucano, Phars., III 137. 101 « omnia late »: Virgilio, Aen., XII 454; Lucano, Phars., III 394. 103 « bene credita »: Ovidio, Ars am., II 351; Stazio, Theb., X 592. 50. Fonti: 110 « noctis Apollo »: Ovidio, Met., XI 301. 114 « addet honores »: Virgilio, Aen., V 249. 115 « quod optas »: Virgilio, Aen., VII 260; Ovidio, Am., I 6, 23; Her., XVII 99, ecc. 118 « te nosce »: Cicerone, Tusc., I 22, 52. « pectore versat »: Virgilio, Aen., I 657, IV 563. 120 « laurea crines »: Stazio, Theb., XII 65.

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concessa a pochi. Il Sardi ne bevve tre, quattro volte a piena bocca; e proprio in quel momento dall’Elicona giunsero le Muse (vv. 121–138): Hunc, licet attonitus, supremaque verba loquentem agnovi et strato surgens mox pectore pronus ante pedes iacui, clamans: « O Phebe, meorum solator graviumque potens medicina dolorum, queque iubes ea letus agam, modo viribus impar non sit onus vocique adsis adiutor inepte! » Me levat ille manu (mirum est, sed summa potestas dis concessa homines monet hec miranda referre); me rapit atque aquile similis volat aere portans. Nunc mare, nunc terras superat, Parnasia tandem arva videns, me Castalio sub fonte timentem collocat; hunc clausum reserans, dum nullus adesset, « Has » inquit « bibe fontis aquas, sitibunde, reclusi, quas pauci, mihi crede, bibunt, quas claudere nulli Pierides nullique solent aperire roganti; iuris id est nostri ». Plenis tum faucibus hausi terque quaterque, sitim relevans animumque timentem; interea veniunt gelido ex Elicone sorores.51

Ludovico le guardò ammirato, ricordando l’incontro avuto con loro durante l’infanzia; insolitamente le guidava Cupido, e prima tra loro era Polimnia.52 Cupido lanciò la sua freccia al cuore del Sardi, che subito s’innamorò di Polimnia; questa però rimase sorda alle sue preghiere, fino a quando Amore decise di colpire anche lei. Allora Ludovico e Polimnia si sedettero lieti sull’erba, cantando le lodi di Leonello come indicato da Apollo; il quale, infine, lo ricondusse a 51. 128 dis] dijs T. Fonti: 121 « suprema verba »: Valerio Flacco, Argon., I 635–36; Silio Italico, Pun., XV 802–03. « verba loquentem »: Ovidio, Ars am., II 705; Met., IV 587. 122 « strato surgens »: Virgilio, Aen., III 513. « pectore pronus »: Ovidio, Met., IX 44. 125 « viribus impar »: Lucano, Phars., II 607. 127 « summa potestas »: Lucano, Phars., VIII 494; Silio Italico, Pun., II 270; Stazio, Silvae, I 2, 137. 129 « aere portans »: Lucrezio, De rer. nat., VI 304. 131 « arva videns »: Virgilio, Georg., II 438; Silio Italico, Pun., III 664. 132 « nullus adesset »: Ovidio, Tristia, I 9b, 2. 136 « Plenis tum faucibus »: Plauto, Stichus, 468; Rhet. ad Her., III 14, 24. « faucibus hausi »: Ovidio, Met., XV 320. 52. Nella variabile attribuzione di ruoli presentati dagli autori classici, Polimnia era ora la Musa della pantomima, ora quella della geometria, ora quella della storia; ma Orazio (Carm., I 1, 32) la presenta come Musa della poesia lirica, e di qui ha di certo attinto ispirazione il Sardi. A Polimnia si attribuivano varie invenzioni, dalla lira all’agricoltura; una tradizione la diceva madre di Orfeo (di solito identificata in Calliope); e Platone (Conv., 187b) cita una leggenda che la dice madre di Cupido. Di lei parla anche Esiodo (Teog., 78).

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Rovigo (vv. 139–158): Lux quoque prima polo fugientibus adfuit astris: admiror divas cernens dudum ante revisas, dum mihi prima parens dulci lac ab ubere ferret, quas licet ignotas puero placuisse recordor. Ductor erat veniens roseus per prata Cupido, illarum comes insolitus, dum lumine fixo intueor, cunctasque preire Polymnia visa est. Is celerem levo fixit sub corde sagittam. « Hey mihi » mox clamans, sequor hanc; fugit illa precantem, nec valuere preces, donec pius, omnia cernens, exaudivit Amor similique hanc vulnere fixit. Tum leti unanimesque ambo consedimus herba, et laudes, Leonelle, tuas, quas iussit Apollo, cantantes, pueri divinos diximus actus. Finieram; super his satis hec sint carmina. « Surge » Phebus ait, « serves iterum que gesta supersunt sublimi cantare lyra, cum sparsa per auras vox erit et sacro Minci resonancior haustu ». His dictis me surripiens loca prima reduxit et letum magno plausu me liquit Apollo.53

Trascorso un altro anno e passato il pericolo della peste, il Sardi rientra a Ferrara, riprendendo a difendere la patria e gli amici, e ricadendo nel duro lavoro e nello strepito senza pace dei tribunali. Ed ora si chiede: sarà sempre così la sua vita? Non gli sarà possibile risollevare neppure provvisoriamente la mente stanca, dedicandosi alla cura delle Muse? Chi potrebbe incolparlo, se dopo aver così a lungo rispettato la missione affidatagli da Astrea ora volesse tornare all’arte di Apollo, senza peraltro sprezzare gli incarichi di quella dea? Con quest’animo Ludovico si rivolge a Guarino, pregandolo di consolare gli amici dispiaciuti per i propri dispersivi impegni di lavoro, e anche di smentire le malignità degli invidiosi (vv. 159–183): Exactus post annus erat, cum peste subacta 53. Fonti: 139 « fugientibus astris »: Stazio, Theb., III 350. 140 « dudum ante »: Plauto, Amph., 602 e 697; Poen., 317. 143 « Ductor erat »: Lucano, Phars., V 478. « veniens per prata »: Virgilio, Ecl., VII 11. 144 « lumine fixo »: Ovidio, Her., VI 26, XXI 242; Met., VI 87. 147 « illa precantem »: Stazio, Theb., I 189. 148 « valuere preces »: Ovidio, Met., XIII 89; Stazio, Theb., XII 403. 150 « consedimus herba »: Virgilio, Ecl., III 55. 157 « loca prima »: Ovidio, Fasti, VI 304.

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ad patriam et caros veni defensor amicos. Me mox ipsa fori rabies et iurgia, cure pervigiles, labor extremus strepitusque clientum insultant nullamque sinunt in mente quietem. Hactenus hec patiens vixi: num serva laboris semper erit tanti mens hec mea, libera quondam? Non semel ex anno spaciatum exire licebit? Non lasse virtutis onus relevare per horam? Nec mihi libertas petitur qua mente libido crassetur subeantque leves sine nomine cure; sed liceat refovere animum post iurgia cantu iamque senem iuvenes inter iuvenescere Musas. Quis modo me culpet, si post severa puelle ensigere mandata, diu servata, revertor ad Phebum placitasque mihi dudum ante sorores, virginis haud spernens iterum mandata subire? Nunc animi, Guarine, mei pars optima, cause, te precor, huic adsis: si qui pietate moventur me flentes quod vana sequar, soleris amicos. At si quos in me rabies parat invida morsus, ora malignantum solito clamore refellas; clamantem fugient, metuent tua sibila longe. Aurata exultans cytara, te noster Apollo hoc rogat, ut Musis stet gloria digna latinis.54

Si tratta di un carme perfino sorprendente (nel panorama ferrarese coevo) per il carattere autobiografico della materia, la sincerità con cui l’autore esprime l’orgoglio per la propria missione di uomo di legge (vv. 51–85), la delusione per il mancato riconoscimento dei propri meriti civili (vv. 98–103), il bisogno di fuga da una quotidianità ormai assillante (vv. 161–163): versi che sembrano davvero testimoniare un momento di svolta, la nascita presso i funzionari estensi di un’esigenza di espressione poetica (per quanto dilettantesca) retoricamente tutt’altro che sprovveduta, anche se incerta nelle vie da seguire, tra influssi classici e medievale gusto per immagini allegoriche, tra la comune ricerca di contenuti morali e civili e l’aspirazione individuale ad esprimere in 54. Fonti: 161 « fori rabies et iurgia »: Seneca, Herc. fur., 172–73. 162 « labor extremus »: Virgilio, Aen., III 714. 164 « serva laboris »: Catullo, 64, 161. 165 « semper erit tanti »: Lucano, Phars., VIII 111. 166 « exire licebit »: Virgilio, Ecl., I 40. 172–73 « severa mandata »: Cicerone, Philip. V, 25. 174 « dudum ante »: Plauto, Amph., 602 e 697; Poen., 317. 177 « pietate moventur »: Claudiano, In Eutr., 18 lib. p. I, 187. 181 « sibila longe »: Stazio, Silvae, III 3, 26. 182 « noster Apollo »: Ovidio, Rem. am., 251; Stazio, Theb., III 628.

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versi la propria personalissima vicenda umana. Contraddizioni del resto che trovano conferma nella trama linguistica del carme, che non rinuncia a una struttura esametrica poco consona al tema, e sostanzialmente non guarda a nuovi modelli (nonostante la prospettiva autobiografica) rispetto al precedente: limitandosi a compensare la minore, ma sempre importante incidenza degli epici tardi con un più massiccio ricorso a materiali ovidiani (oltre che virgiliani), non sdegnando apporti dell’Orazio più colloquiale, e presentando solo marginali aperture a Catullo, a Marziale, al Properzio delle ultime elegie. Sotto ogni punto di vista, quella del Sardi era effettivamente la fisionomia di un uomo diviso, incerto tra Astrea e Polimnia, tra la legge applicata e l’amore per la poesia, e infine tra una poesia d’impianto compiutamente civile e una dai più compromettenti contorni autobiografici; una poesia che, ad ogni modo, nella Ferrara di Leonello risultava attività capace di elargire soddisfazioni assai maggiori rispetto a quelle di pur importanti incarichi amministrativi, ma alla quale neppure allora era possibile dedicarsi a tempo pieno, sicché essa rischiava di rimanere soffocata dall’assillo di più urgenti incombenze professionali.

3.5. Da Guarino al Bruni, tra Amore e Diana Ebbene, il carme di Guarino al Marescalchi soprattutto questi aspetti si preoccupa di sottolineare. Dopo aver annunciato la grande novità dell’esordio poetico sardiano, il Veronese infatti dedica ampio spazio prima all’elogio della sapienza legale dell’amico (vv. 35–42), poi a quello della scienza giuridica in generale (vv. 43–54), in termini non molto diversi da quelli sacrali utilizzati dal Sardi;55 e dopo aver introdotto la notizia dell’inattesa pubblicazione dei carmina di quest’ultimo (ispirati anche per lui da Febo e dalle Muse), egli da un lato segue l’amico nel 55. Cfr. ad esempio i vv. 35–45: « Constabat leges sanctas romanaque iura / huic infusa viro, quis nosset civibus atras / sopire et lites durosque resolvere nodos, / ad cuius voces populus concurrere, quisque / ambiguos sensus certatim ponere, dicta / certa referre, velut vatis “folia ipsa Sibyllae” / mortales petere aut oracola Delia quondam / rebus in incertis cupiens audiverat orbis. / Hanc equidem nobis dimissam caelitus artem / crediderim, qua se quaque oppida quaque penates / et pretii stimulis regerent poenaque pavore ». Se i primi otto versi non fanno che celebrare l’attività che il Sardi riconduce a pur onorevole quotidianità, gli ultimi tre sembrano richiamare da vicino la raffigurazione sardiana di Astrea.

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ricondurre alla formazione infantile, su suggestione enniana, l’origine di questa tarda dedizione alla poesia (vv. 75–81): Unde repente tamen tam tersi pectore cantus tamque pedes puri, numeri sine corde canori? Vis memoris divina animi, puerilibus annis qui concepta tenet studiisque assumpta tenellis dedidicit nusquam; sic quosdam somnia vates antexpectatum memorat peperisse vetustas, sic primo lauri gustu eluxisse poetas;56

dall’altro incoraggia ripetutamente il Sardi a proseguire nell’esercizio di entrambe le arti, sorelle disperse che solo intelligenze rare come quella di Ludovico sono in grado di ricongiungere, non curandosi di quella invidia del volgo su cui (forse non a caso) anche il carme dell’amico si era chiuso (vv. 84–97): Perge modo et quantum leges tua nomina tollunt, per quas antistes iuris vocitaberis usque, tantum iura simul legesque ornare Camenis adiunctis studeas [. . . ]. Sed tu, Sarde, rudes vulgi contemnito morsus et tua iam reduces firment exempla Camenas, teque auctore ausint profugas iunxisse sorores.

Sulla base di tali dati, l’ipotesi che a me appare più economica circa i carmina salutati così entusiasticamente dal maestro di Verona dovrebbe portare alla loro identificazione con entrambi i testi sardiani sin qui analizzati. I versi di Guarino al Marescalchi sembrano senz’altro rispondere indirettamente alle accorate incertezze espresse da Ludovico nella sua epistola metrica; la quale può ben essere stata concepita come testo di accompagnamento, nella copia indirizzata a Guarino, del più impegnativo carme al marchese. D’altra parte, il componimento sardiano (come in esso testimoniato) nasce da una condizione d’animo 56. 79 Dedidicit] Redidicit F2. Su somnia Sabbadini chiosava « non capisco », ma un senso è ricostruibile: « l’antichità narra che così i sogni produssero inaspettatamente alcuni poeti, così apparvero in luce poeti al primo assaggio dell’alloro ». Mi fa notare Silvia Rizzo come qui Guarino, sintetizzando il racconto sardiano, intenda alludere al celebre sogno con cui Ennio, all’inizio degli Annales, rappresentò la propria consacrazione poetica facendosi rivelare da Omero di essere la sua reincarnazione.

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posteriore di un anno rispetto al rientro a Ferrara dal ritiro di Rovigo, quel ritiro durante il quale, a detta di Guarino, Ludovico aveva tenuto nascosta un’attività letteraria che, sulla base dei dati cronologici e degli interessi del Veronese, proprio nella stesura del carme a Niccolò III è più plausibile riconoscere. In ogni caso, il problema della compatibilità tra arte giuridica e poesia non fu sottoposto dal Sardi solo a Guarino: proprio su questa difficile convivenza di vocazioni infatti, e in termini se possibile ancor più incoraggianti, si soffermò Leonardo Bruni in una lettera dei suoi ultimi anni indirizzata al giurista ferrarese, in risposta a una missiva di quest’ultimo che doveva ancora vertere sulla propria contrastata dedizione alle Muse. Scusandosi per il ritardo con cui rispondeva, dovuto alla complessità dell’argomento propostogli (« cum de Musis scribendum foret, quietem et otium expectabam. Nam [. . . ] de Musis [. . . ] nemo recte scribit, nisi sit animo tranquillo et molestiis vacuo »), Bruni incitò fortemente il nostro autore ad esercitare entrambe le arti (senza fare alcun conto delle malignità degli ignoranti), in quanto di un uomo che come Ludovico fosse così abile al tempo stesso nella scrittura poetica come nella professione giuridica egli non aveva notizia dai tempi di Solone: Carmina igitur a te composita inspiciens, admiratus sum ingenium tui, ut ita dixerim, non minus ocio quam negociis congruentem. Nam in iure quidem civili ac ceteris negotiosis studiis valere te plurimum sciebamus; Musis vero et otio et hoc altero genere quod tantum excelleres, erat mihi incognitum. Itaque illud dicere licebit, quod alibi scriptum est: « seu linguam causis acuis, seu publica iura / respondere paras, seu condis amabile carmen »,57 et quae sequuntur. Has ego simul dotes in nullo modernorum cognovi, ut utroque in genere valeret. Ex antiquis autem Solonem atheniensem accepimus et legislatorem fuisse optimum (quod sine prudentia experientiaque rerum agendarum maxima fieri non potuit), et carmina Musarum scripsisse elegantissima ac pulcherrima, ex quibus et hodie non pauca extant. Tu ergo cum habeas auctorem locupletissimum ac sapientissimum, qui idem fecerit, contemne queso voces indoctorum hominum, atque eo incumbas quo te natura optima ac laude dignissima fert, et Musas cum legibus et leges cum Musis, ut Solon fecit, admisce. Hoc est enim consilium meum, ut utrumque prosequare, nec alterum relinquas; nam si alterum deseras, alteri incumbas, vel inutilem rem facies vel flagitiosam: inutilem si studium iuris abicias, flagitiosam si Musas contemnes. In utroque autem simul coniuncto et suavitas vitae inest et non 57. Orazio, Ep. I 3, 23–24.

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aliena ab utilitate tua amicorumque exditatione opera. Vale. Florentiae, nonis septembris, praestantissimo viro domino Lu. Sardo ferrariensi tanquam fratri carissimo.58

Il contrasto tra diritto e poesia si risolse ovviamente nei modi indicati da Guarino e dal Bruni: sicché, dopo aver messo a disposizione del Veronese (come vari altri letterati estensi) un epitaffio in morte di Niccolò III (testo 3, primi mesi del 1442), tutto ancora fondato sui meriti di pacificatore guadagnati in vita dal marchese,59 sempre entro il 1442 il Sardi giunse a realizzare il suo componimento più impegnativo e ambizioso, una imponente (519 esametri) e tesa consolatoria a Leonello in morte del defunto marchese (n. 4): più precisamente, una rievocazione in tono drammatico delle molte imprese compiute da Niccolò III per la sua città e per la pace in Italia (dall’infanzia sino al fatale viaggio a Milano, alla coraggiosa e cristiana accettazione della morte, al sicuro ruolo di protettore della sua città svolto ora in cielo), e un lucido sguardo sulla situazione politica ormai stabilizzatasi per i meriti del defunto, la cui morte, dolorosa e gloriosa al tempo stesso, appare dunque giungere nel momento in cui nessun pericolo poteva derivarne alla pacifica successione di Leonello e alla stabilità sociale di Ferrara. Non è questa la sede per fornire ragguagli più approfonditi su tale componimento, la cui maniera del resto non si discosta di molto da quella del carme Pro vidua ac bellis afflicta Italia a Niccolò III. Interessa invece sottolineare che il Sardi, confermando in tal modo la sua complessa fisionomia di letterato, non si appiattì nella ripetitiva adozione delle lunghe serie esametriche, preferibilmente a sfondo storico–civile, 58. Come già detto, la lettera è tràdita dal ms. di Ferrara, Ariostea II 135 (= F1), c. 67r, e di lì fu pubblicata da Luiso (Studi, cit., pp. 157–8), e da H. Baron (in Bruni, Humanistisch, cit., pp. 144–5). Nel riportarla (rivista sul codice), ne ometto la sezione introduttiva. Ingenium . . . congruentem] ingenuj . . . congruentem F1 ingenii . . . congruentiam Luiso Baron sine prudentia] sin(e) prudentia F1 singulari prudentia Luiso, Baron cum habeas] cum cum habeas F1 auctorem] victorem Luiso Baron flagitiosam si] flagiciosum si F1 flagiciosam si Luiso Baron suavitas] suavitatis F1 exditatione] con. Rizzo exditatio F1 exultatione Luiso Baron ferrariensi] ferriensis F1. 59. « Prodiit hic iuvenis si quando invitus ad arma, / bella gerens dux acer erat, sed victor in omnes / mitis et oppressos populos de nectare pascens. / Iamque senex, tota bellis armisque fremente / Italia, fuit et pacis servator et auctor » (vv. 6–10, che riporto da Capra, Gli epitafi, cit., pp. 219–20).

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conformi alle indicazioni guariniane;60 ma fu anche tra i primi a Ferrara a tentare il metro elegiaco e la materia amorosa, anche se, bisogna ammettere, più sul piano delle intenzioni che di una canonica espressione lirica. Ciò che vince, nei suoi versi, è infatti quasi sempre un’attitudine meditativa che si concretizza nella rappresentazione, attraverso dialoghi con divinità, delle proprie oscillazioni e intenzioni poetiche, ma quasi mai dei propri sentimenti (come proprio in quegli anni cominciava a fare con grande finezza il suo concittadino Tito Strozzi): e la conferma di quanto appena detto è offerta proprio dall’elegia su cui doveva essersi incentrato il carteggio col Bruni (prima dunque dell’8 marzo 1444, data di morte dell’umanista aretino), intitolata Ad Musas (n. 5); un testo di cui non si può omettere una pur rapida lettura, se si vuole comprendere il versante elegiaco delle corrispondenze poetiche sardiane.61 Esprimendosi dunque ora in distici, Ludovico introduce il suo componimento con un’allocuzione alle Muse, in cui sostiene che Amore, pur vinto, fa sempre pressione su chi intende cantare le lodi di Diana. In passato egli si era stupito di quale eccezionale fanciulla gli avesse destinato Amore: con tali meriti il dio lo aveva vinto, anche se intenzione del Sardi restava quella di scrivere versi per Diana con stile elevato. Allora Amore, insofferente al fatto che il poeta aveva iniziato a comporre versi di pari misura, tagliò una corda alla sua lira: quel tipo di carme, gli disse, non gli si addiceva, ed ora egli era un suo poeta. Ludovico rispose di dover cantare le materie richiestegli, ma Amore, piangendo e abbracciandolo al collo, lo rimproverò di averlo tradito, dopo essergli stato a lungo fedele (vv. 1–18). Il poeta non sapeva bene come comportarsi: gli sembrava di aver composto sufficienti elegie in precedenza, rispondendo ai desideri di Amore; né questi, vinto da Diana, poteva ancora esigere da lui fedeltà. Finché gli era stato lecito seguire i comandi del dio, Ludovico non si era 60. Non a caso Guarino utilizzò raramente il distico elegiaco (8 casi superstiti), e solo per epitaffi o epistole metriche; e a parte un paio di carmi in dimetri anapestici, tutti gli altri suoi pervenutici (59) sono in esametri (più approfonditi ragguagli nel mio « La fonte d’ogni eloquenzia », cit., pp. 144–8). 61. Come sopra accennato, questa elegia (trasmessa dal ms. di Ferrara, Bibl. Ariostea, I 240, cc. 4v–5v), si può leggere a stampa sia in Pasquazi, Poeti estensi, cit., pp. 185–6, sia (con apparato di fonti) in I. Pantani, Nascita della poesia latina ferrarese: il ruolo e i versi di Ludovico Sardi, in Filologia e interpretazione. Studi di letteratura italiana in onore di Mario Scotti, a cura di M. Mancini, Bulzoni, Roma 2006, pp. 81–125, a pp. 120–2.

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sottratto; Amore una volta gli aveva offerto persino le Muse, e tra queste il Sardi aveva subito preferito Polimnia, per la quale si era sciolto ogni ghiaccio del suo cuore (vv. 19–32). Subito però egli l’aveva amata troppo fiducioso, ritenendo di poterla conquistare con la dolcezza; ma ella lo aveva fuggito, sino a fargli desiderare la morte. Con i suoi continui pianti e le invocazioni agli dei, i suoi lamenti e le dolci poesie, egli avrebbe potuto intenerire il cuore di una dura fiera: ma nulla valeva a impietosire Polimnia. Di Ludovico ebbe tuttavia pietà Amore, il quale con una sua freccia trafisse anche il petto di lei: da quel momento i due ebbero un solo animo, e insieme componevano carmi in distici. Sedettero insieme: Polimnia per prima innalzò la sua splendida voce accompagnandola con la cetra, il poeta molto più in basso la seguiva, ed insieme cantavano i trionfi di Amore (vv. 33–50). Il quale, sconfitto poi da Diana, non può ascoltare le lodi della dea, che quest’ultima vuole pronunciate con voce altisonante; commiserando il proprio destino, Amore avverte allora il poeta che non è opportuno con versi come i precedenti cantare guerre ed eroi, che richedono uno stile alto; e tuttavia, per non sembrare irriconoscente dei doni in passato offertigli, il dio gli promette di realizzare ogni suo desiderio, mentre il poeta a sua volta assicura che si dedicherà alla nuova poesia solo se le Muse lo sosterranno nell’audacia dell’impresa (vv. 53–62).62 Tali parole fanno tornare il sorriso sul volto di Amore; ora il Sardi si rivolge alle Muse, sola fonte di speranza per la sua poesia, perché gli rivelino infine quale genere di poesia gli si addica; nell’attesa che giunga la risposta, il poeta e Amore tacciono, restando in un’attesa piena di speranza (vv. 63–68). In quanto elegia, non c’è dubbio che questo testo sardiano si riveli decisamente atipico. L’esperienza sentimentale che motiverebbe la dedizione del poeta ad Amore, in effetti, ancora una volta veste i panni dell’allegoria; e di nuovo, come già nel carme a Guarino (vv. 143–152), la passione del Sardi s’indirizza non verso una donna, ma verso la musa Polimnia: una figura femminile che, seguendo recenti canoni volgari, si mostra di suo inflessibilmente ritrosa, ma che, al contrario di quegli stessi canoni, è presto fatta bersaglio ella stessa da Amore di una delle sue frecce micidiali. Ne consegue che il Sardi accenna soltanto a periodi di dolente servizio amoroso, perché questo è presto seguito 62. Questo passaggio testuale è talmente poco coerente da sembrare viziato dalla caduta di alcuni versi.

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da un’intesa con l’amata che non apre la strada a un’esperienza erotica (come accadeva nei poeti latini, e in quegli stessi anni nelle elegie di Tito Strozzi), ma ad un canto concordemente intonato, e volto qui a celebrare i trionfi di Cupido, come nel carme a Guarino le lodi di Leonello: a conferma che in Polimnia non si può cercare alcuna figura di donna, ma solo il simbolo dell’ispirazione ricevuta da Amore. O forse, meglio, un’ispirazione cercata ora nella tradizione amorosa, ma con modesta lucidità: se è vero che il linguaggio ancora non trova che sporadici apporti elegiaci, se non ovidiani; che numerose formule provengono ancora dalla tradizione epica; e infine, che la fenomenologia amorosa (pur con i limiti indicati) appare sostanzialmente desunta da coevi usi romanzi, certo all’origine di immagini come « glacies cordis liquefacta » (v. 32), « durum cor » (v. 34), « cor rigidae mollificare ferae » (v. 40). Non va trascurato, al contempo, che l’elegia Ad Musas sembra voler indicare una contemporanea dedizione del Sardi alla poesia amorosa e a quella epico–oratoria; e la resistenza della prima ispirazione alla sopravvenuta esigenza di una poesia di più alte ambizioni. Non credo, tuttavia, che a questa ricostruzione si debba riconoscere attendibilità cronologica: come già accennato, basti notare che, se al primo incontro con Polimnia in questo testo è ricondotta un’iniziale dedizione alla poesia amorosa, nel carme a Guarino dallo stesso incontro è fatta derivare un’ispirazione oratoria e celebrativa (in onore di Leonello). Del resto, è assai poco probabile che le parole d’elogio indirizzate dallo stesso Guarino al Marescalchi potessero riferirsi ad un carme come quello appena riassunto, così lontano dalle certezze del Veronese su quale genere di poesia fosse da preferire; di fatto, mentre nessun testo a me noto può testimoniare una presunta iniziale produzione amorosa del Sardi, anche questa elegia Ad Musas, con il suo riferimento ai tradimenti già operati nei confronti di Amore, va a collocarsi successivamente ai grandi testi indirizzati a Niccolò III e Leonello, identificabili appunto con quei tradimenti. 3.6. Il Sardi corrispondente elegiaco A conferma di quanto ipotizzato, suona del resto l’altra elegia sardiana, quella indirizzata (nello stile dell’epistola metrica) Ad Henricum Hylam 106

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(n. 6): nella quale, di nuovo, non di una vicenda amorosa in atto parla il poeta, ma sempre di un’esperienza lontana, vissuta con la solita Polimnia, e conclusasi felicemente contro ogni canone lirico.63 Del resto, nonostante sia stato in passato presentato come poeta elegiaco, lo stesso interlocutore del Sardi, Enrico da Prato, è tuttora un letterato dall’assai incerta fisionomia, date anche le poche informazioni reperite (sempre da Sabbadini e Bertoni) sul suo conto. Sappiamo comunque che da giovinetto era stato molto « caro » all’Aurispa (informazione contenuta in una lettera del Filelfo datata 1428, e non certo smentita dal suo nome d’arte, ripreso dal fanciullo notoriamente amato da Ercole); che fu giustiziato a Milano, non oltre il 1447, a seguito di un fallito tentativo di avvelenare Filippo Maria Visconti; che durante la carcerazione compose un epigramma a Francesco Filelfo e un’elegia a Leonello (contenente una velata richiesta di aiuto); e che un’altra elegia indirizzò a una tal Orsa, amata dal modenese Niccolò Quattrofrati.64 In effetti, la Phanetis che gli si attribuiva come raccolta elegiaca (perduta), in onore di una Fanetide, non sembra avere tali caratteristiche nel solo (parzialissimo) testimone che io abbia rintracciato, il ms. 1714 della Biblioteca Casanatense di Roma: nel quale (a c. 77r) si leggono venti esametri intitolati Henrici Hylae de Prato Phanetis incipit ad illustrissimum principem Leonellum, e raffiguranti la Notte, scesa sulla terra per prestare conforto ai giganti, suoi fratelli, appena sconfitti da Giove; introduzione epica ad un’opera dunque di dubbia tipologia, cui si aggiungono nello stesso codice un’epistola a Leonello contenente (assieme ad un altro accenno alla Fanetide) la richiesta di conservare il proprio ufficio a Modena (cc. 77v–78r), nonché un carme di Girolamo Guarini In scabiem ad Hylam de Prato (cc. 58r–59r).65 Certo anche Ila 63. Il testo, ricordo, è tràdito dal ms. di Modena, Biblioteca Estense, α.J.5.15 (Lat. 1080: M). 64. Tali sono le informazioni offerte da G. Bertoni–E.P. Vicini, Poeti modenesi dei secoli XIV e XV, Tipo–litografia L. Rossi, Modena 1906, p. 177, e Sabbadini, Henricus Hylas, cit., p. 259 (dove si trovano anche pubblicati i testi citati); su Enrico da Prato, cfr. anche G. Aurispa, Carteggio, a cura di R. Sabbadini, Tipografia del Senato, Roma 1931, pp. 56–7; sul Quattrofrati rimando al mio «La fonte», cit., pp. 238–41. 65. Dell’epistola a Leonello da me rintracciata cito le frasi conclusive: « Tu igitur pro officio iam tandem aliquando nostris flectere precibus, et mihi, quamquam immerito, veniam tribue, et me ad pristinam dignitatem restitue: quod si, ut confido, feceris, et dicatam tibi Phanetidem ad finem redigam, et meam adeo vitam inviolatam ducam, ut nostrorum morum integritas bonorum virorum votis facillime respondeat. Vale, et me commendatum habe. Ex agro minutario XV° Kalendas sextiles [s. a.] ». Ai nuovi testi offerti dal ms. Casanatense 1714

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scrisse versi d’amore, ed in particolare in una sua elegia (non pervenutaci) indirizzata al Sardi dovette metaforicamente lamentare che la sua amata gli aveva strappato gli occhi, chiedendo consiglio; ma nella risposta del nostro giurista nulla prova che quella fanciulla si chiamasse Fanetide. In ogni caso, Ludovico risponde che anch’egli in passato era stato ridotto in cecità dall’amore per una donna, ma aveva continuato a comportarsi come quando aveva la vista: ne cantava i capelli d’oro, il volto purpureo, la bellezza superiore a quella di Venere; però non aveva seguito davanti ad altri, confuso com’era, lei che fuggiva: se lo avesse fatto essi avrebbero riso, quando egli colpiva col piede le pietre, o sbatteva col capo contro larghe travi alla luce del giorno. Infine, questa dedizione era stata premiata: la fanciulla gli aveva riposto in fronte gli occhi che prima gli aveva strappato (vv. 1–16): Effodisse doles oculos, Henrice, puellam fronte tuos, a me consiliumque rogas. Accipe quod quondam cecus, cui lumen ademptum sic fuerit, feci, quom mihi lumen adest: multa diu merum solus gemitusque frequentes [..................................................]; nunc crines auro nexos, nunc ora canebam, purpuream et formam qua caret ipsa Venus. Non vagus erravi, fugientem forte sequutus, devia perquirens ductus in ora virum: me pede risissent nunc offendisse lapillos, nunc patulam vultu sole micante trabem. Ergo manens nulli notus, sibi carmina panxi, profuit et tacita plus rogitare prece. Affuit haec tandem miserans et fronte remisit caeca oculos, quali vulserat ante manu.66 è probabile se ne possano aggiungere altri (ma di non grande estensione), sulla base delle numerose segnalazioni di P.O. Kristeller, Iter italicum, London–Leiden, Brill, tra le quali mi limito a riportare le più promettenti: vol. II, 1967, p. 45–6 (Parma, Bibl. Palatina, Parmense 283, cc. 35r–v); vol. III, 1983, p. 293 (Parigi, Bibl. Nationale, Nouv. acq. lat. 1882, cc. 58r–59v). Su Girolamo Guarini cfr. M.A. Passarelli, Guarini, Girolamo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit. vol. 60, 2003, pp. 355–7. 66. 4 quom] con. Sabbadini, quon corr. in quo M. Fonti: 1 « Effodisse oculos »: Lucano, Phars., VI 541–42. 3 « Accipe quod »: Catullo, 64, 326. « cui lumen ademptum »: Virgilio, Aen., III 658 (e cfr. Catullo, 68, 93; Ovidio, Tristia, IV 4a, 45). 8 « ipsa Venus »: Properzio, III 6, 34; III 16, 17; Tibullo, I 2, 16; Marziale, Epigr., VI 13, 7. 9 « fugientem sequutus »: Ovidio, Am., II 9, 9. 10 « in ora virum »: Properzio, III 9, 32. 13 « carmina panxi »: Lucrezio,

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A quel punto però il Sardi s’illuse, credendo di vedere tutto: in realtà egli era più cieco di un cieco, e anche quando apriva gli occhi si vedeva circondato da tenebre. Raddoppiò le sue preghiere e le sue poesie alla dea, la quale di nuovo intervenne: allora una grande luce apparve nelle tenebre, ma una forza inattesa chiuse gli occhi del poeta; il quale tre volte cercò di vedere la luce del sole, e tre volte dovette arrendersi (vv. 17–30): O nimium de se fidens ignara suique mens hominum et divos semper adesse putans! O voti spes vana mei! Iam cuncta videre credideram atque astra dinumerare polo; sed caeco plus caecus eram, nec laetior unquam hac mihi nec fuerat tristior ulla dies; mox oculos reserans tenebras superesse videbam, in tenebris flenti nil mihi lucis erat. Tum coepi geminare preces et carmina dive, quae dignata fuit mox adhibere manum; continuo oblata est laeto lux magna per umbras, ast oculos clausit vis inopina meos. Ter mihi conanti radiantem cernere solem, ter caput oppressit umbra reducta prior.67

Infine la sua dea gli insegnò a mantenersi entro i giusti limiti del vedere, finché, abituatisi gradualmente, i suoi occhi fossero in grado di sostenere la luce solare. Egli rispettò queste indicazioni, ed ora è in grado di tollerare il sole e di aggirarsi da solo per qualsiasi città; ora la bella Polimnia lo conforta col suo dolce canto, ed egli gode più copiosi i frutti d’amore. Anche Enrico, dunque, non smetta di scrivere versi per la sua dea; prima o poi, impietosita dai travagli di lui, ella gli si presenterà offrendogli premi degni delle sue attese; e innanzitutto gli restituirà gli occhi, e la gente invidiosa lo vedrà aggirarsi felice attraverso la città (vv. 31–44): De rer. nat., I 933–34; IV 8–9; Marziale, Epigr., III 38, 7 67. 26 quae] quo M. Fonti: 18 « mens hominum »: Virgilio, Aen., X 501; Lucano, Phars, VII 203; Stazio, Theb., V 719. 19 « Iam cuncta videre »: Silio Italico, Pun., XIII 438. 21 « laetior unquam »: Lucano, Phars., VIII 322. 22 « ulla dies »: Properzio, II 15, 26; Ovidio, Am., III 6, 18. 23 « superesse videbam »: Ovidio, Fasti, V 695. 26 « adhibere manum »: Virgilio, Georg., III 455; Stazio, Theb., III 386. 27 « oblata lux »: Cicerone, Philip. I, 4. « magna per umbras »: Lucano, Phars., III 31. 28 « oculos clausit »: Lucano, Phars., VII 156. 29 « mihi conanti »: Ovidio, Ep. ex Pon., III 9, 29.

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Sed docuit me diva modum servare videndi, ut mihi tum lumen parva fenestra daret, donec ab assueto paulatim lumine sole sustineam et quavis solus in urbe vagor. Sic feci servansque diu precepta puellae: nunc patior solem solus et urbe vagor; nunc refovet dulci me pulchra Polymnia cantu, uberiorque mei fructus amoris inest. Ergo age, nec cessa, divae cane carmina solus: sit tibi sat voces quod notet illa tuas. Adveniet quandoque, tuos miserata labores, ante expectatum praemia digna ferens; tunc oculos lumenque dabit, tunc urbe vagantem te laetum aspiciet invida turba dolens.68

Nonostante l’asserita dedizione all’ispirazione di Amore, questa corrispondenza in versi conferma che mai il Sardi seppe appieno convertirsi, da cantore delle virtù civili e delle glorie estensi, a vero poeta elegiaco. Del tutto alieno dal sentimento amoroso quale era stato cantato dai classici, egli si attenne a talune convenzioni della lirica medievale di stampo cortese, ma senza andar oltre un riuso di tipo allegorico, sulla scia di talune figurazioni del giovane Boccaccio (penso in particolare all’Amorosa visione): un modello dal quale egli forse riprese anche la costante fiducia nel buon esito dei rapporti sentimentali, spesso peraltro consistenti in pure rappresentazioni simboliche del proprio amore per la poesia. Frutto di analoghi e persistenti compromessi, del resto, continuò ad essere anche il tessuto linguistico qui proposto dal Sardi, che neppure in relazione ad argomenti così spiccatamente lirici si liberò della sua fondamentale opzione epica, a partire dall’incipit così cupamente marcato da Lucano (« effodisse oculos »: cfr. Pharsalia, VI 541–42); e tuttavia, per quanto proprio Lucano sia forse ancora la fonte più presente ai ricordi dell’autore (né mancano materiali di Stazio e Silio Italico, accanto a quelli più prevedibili di Ovidio e Virgilio), per la prima volta in questa elegia si rinviene qualche traccia di una più 68. 37 Polymnia] Polymia M. 32 « parva fenestra daret »: Ovidio, Fasti, VI 166. 35 « precepta puellae »: Ovidio, Ars am., II 745 e III 57. 36 « urbe vagor »: Tibullo, I 2, 25. 37 « dulci cantu »: Tibullo, I 7, 47. 38 « fructus amoris »: Catullo, 55, 18; Lucano, Phars., V 7, 94. 39 « Ergo age nec »: Ovidio, Ars am., I 343. 41 « miserata labores »: Virgilio, Aen., I 597; Ovidio, Met., IV 531. 42 « ante expectatum »: Virgilio, Georg., III 348. « praemia digna ferens »: Virgilio, Aen., I 605; Ovidio, Ars am., II 702. 44 « invida turba »: Properzio, III 1, 21.

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approfondita lettura di Catullo, Tibullo, Properzio, Marziale: segno di una curiosità letteraria mai interrottasi, anche se non pervenuta, nei testi rimastici, ad una piena comprensione e adozione del registro lirico ed elegiaco, in grado di subentrare a quello più sicuro dell’oratoria in versi, epicamente atteggiata. Resta, naturalmente, l’importanza dell’esperimento, nel quadro di un centro culturale, come quello ferrarese, appena agli inizi della sua gloriosa tradizione poetica; e il ruolo strategico che, in sua funzione, i protagonisti di questo evento assegnarono al genere poetico della corrispondenza, mediante il quale la novità letteraria fu da un lato promossa da voci tra le più autorevoli, dall’altro motivata e illustrata sia dall’autore che dai suoi illustri estimatori. Peraltro, la ricerca sardiana di un compromesso tra le suggestioni della poesia amorosa e la persistente adesione alla poetica ufficiale della corte estense (guarinianamente intesa a una poesia nutrita di valori civili), proprio perché condotta da una personalità intellettuale di tale rilievo, varrà anche a meglio comprendere quale strappo seppe compiere in quegli stessi anni (primo lustro del quinto decennio) il giovane Tito Strozzi, con le prime brevi redazioni del suo Eroticon: sul piano, prima ancora che della sua peculiare attitudine alla contaminazione di temi classici e romanzi, di una tenace affermazione della dignità culturale dell’elegia d’amore, che, non a caso, troveremo difesa con forza in una ben più famosa corrispondenza poetica, che di lì a pochi anni lo vedrà protagonista.

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iv Poetiche in contrasto

4.1. Un anello scandaloso Come visto nell’entusiastica accoglienza riservata da Guarino ai carmina di Ludovico Sardi, e confermato da tutti i documenti e le testimonianze delle sue teorie letterarie, nella sua scuola il maestro veronese promuoveva una poesia attenta alle esperienze concrete della vita, e pronta a farsi veicolo di irrinunciabili valori morali e civili. Proprio l’eccezionale natura e l’alta funzione educativa attribuite alla poesia non consentivano, nell’estetica guariniana, un apprezzamento che prescindesse da contenuti razionali e formativi; e tale esigenza, compiutamente soddisfatta dalla lettura di Virgilio, Terenzio e Giovenale, non trovava riscontro (in assenza di una visione della passione amorosa in chiave platonica) nella frivola poesia lirica ed elegiaca. I maggiori esponenti di questa erano perciò frettolosamente citati nel circolo estense di Guarino e Leonello solo per l’attenzione dovuta ad ogni autore considerato dagli antichi degno di lode.1 Tuttavia, come ho altrove ampiamente trattato, proprio uno dei più talentuosi allievi di Guarino, Tito Vespasiano Strozzi (1425–1505), si mostrò per circa un ventennio decisamente riluttante ai principi estetici del maestro: dedicandosi lungo tutti gli anni ’40 e ’50 a una produzione elegiaca (raccolta nei suoi Eroticon libri) capace di ridare freschezza alle topiche situazioni della poesia elegiaca latina, contaminandole con stilemi romanzi, in particolare attinti dai petrarcheschi Rvf ; e solo in seguito finalmente volgendosi, con il poema Borsias, a quella poesia 1. Cfr. A.C. Decembrio, De politia litteraria, ed. N. Witten, München–Leipzig, K.G. Saur 2002, I 3, 25–28, pp. 157–9.

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d’impronta civile (celebrante la sua città e i suoi signori), alla quale era stato sempre sollecitato.2 Nulla di sorprendente, dunque, se l’elegante disimpegno strozziano suscitò ben presto, e a lungo, critiche manifeste nell’ambito della scuola guariniana. Vivace, in particolare, fu la reazione di un altro geniale allievo di Guarino, Giano Pannonio (János Csemiczei), giunto tredicenne a Ferrara nel 1447 (su invito dello zio, il cancelliere ungherese János Vitéz), e destinato a diventare il più grande poeta dell’umanesimo magiaro, in quanto acuto cultore del genere epigrammatico e, soprattutto, intenso autore di elegie dedicate a profondi temi esistenziali.3 Giano sarebbe rimasto sette anni nella città estense, entro i quali ebbe luogo l’intera corrispondenza poetica di cui ci occuperemo: a partire da un testo che, appartenendo all’età di Leonello, deve dunque ritenersi opera di un autore non più che sedicenne. L’opzione per la poesia epigrammatica, nello stile di Marziale, guidò la sua produzione giovanile sui temi di un erotismo chiuso ai sentimenti, e spesso mercenario (« nos in amore rudes » si confessa nell’epigramma I 339), ma soprattutto nei toni di un acuto sarcasmo, spesso rivolto contro colleghi (o meglio rivali) nell’espressione poetica. In modi irridenti, in particolare, egli affrontò due letterati di cui ci occuperemo tra breve, Basinio da Parma e Ludovico Carbone;4 e pur con toni di maggior rispetto, non esitò 2. Per tutti i dati biografici e filologici che supportano le considerazioni qui talvolta sintetizzate, cfr. ancora il mio « La fonte d’ogni eloquenzia ». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 245–89. In tale sede, tra l’altro, evidenziavo tutti i limiti dell’unica e parziale edizione moderna della produzione elegiaca di Tito Strozzi (cui comunque, fatti salvi i correttivi indicati, si farà riferimento): T.V. Strozzi, Poesie latine tratte dall’Aldina e confrontate coi codici, a cura di A. Della Guardia, Modena, Blondi e Parmeggiani, 1916. In merito è intervenuta anche, successivamente, A. Tissoni Benvenuti, Prime indagini sulla tradizione degli “Eroticon libri” di Tito Vespasiano Strozzi, « Filologia italiana », 1 (2004), pp. 89–112. 3. Per un primo orientamento su questo grande poeta, ma anche (dopo il rientro in Ungheria) eminente vescovo di Pécs, cfr. R. Gerézdi, Janus Pannonius, in Italia ed Ungheria. Dieci secoli di rapporti letterari, a cura di M. Horányi e T. Klaniczay, Akadémiai Kiadó, Budapest 1967, pp. 91–112; altra bibliografia in Pantani, « La fonte d’ogni eloquenzia », cit., pp. 278–81, 294–5. La difficile reperibilità e la modesta affidabilità di stampe più recenti inducono ancora al ricorso, per la lettura dei carmi di questo autore, alla lontana edizione I. Pannonius, Poemata quae uspiam reperiri potuerunt omnia, ed. S. Teleki, 2 voll. Traiecti ad Rhenum (Utrecht), apud Barthol. Wild, 1784 (rist. anast.: Balassi Kiadó,Budapest 2002). 4. « In Basinum. / Cum sis Basinus, cur esse Basinius optas? / Aptius ut fiat, litera prima cadat » (ivi, vol. I, p. 549: epigr. I 205). Contro il Carbone: « In Carbonem poëtam. / Orator simul et poëtam Carbo est, / non est hoc aliud profecto, quam si / mas et femina Carbo diceretur. / Sic plane Hermaphroditus ergo Carbo est »; e ancora: « Ad Carbonem poëtam. / Qui nunc es Carbo, nempe olim pruna fuisti; / pone animos, fies mox, Ludovice, cinis » (ivi,

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a servirsi di corrispondenze in versi per porsi in competizione con prestigiosi destinatari, come nel caso degli epigrammi scambiati con Enea Silvio Piccolomini, o addirittura per indirizzare espliciti attacchi al valore della loro poesia, come nelle critiche rivolte all’ispirazione amorosa del nostro Tito Vespasiano. Sulla corrispondenza col Piccolomini, tra le due seconda cronologicamente, torneremo più avanti. Per una corretta contestualizzazione di quella tra Giano e lo Strozzi, invece, bisogna preliminarmente rilevare che l’attuale situazione editoriale dell’Eroticon può dirsi perfino fuorviante. La redazione attestata dalla postuma princeps aldina del 1514, di cui l’unica edizione novecentesca offre oltretutto una solo parziale ristampa, presenta infatti rispetto alla tradizione manoscritta, oltre a continue varianti testuali, un ordinamento dei componimenti assai diverso; e molto difficile è stabilire se questi cambiamenti si possano ricondurre alla volontà di un autore morto nove anni prima.5 Tale difficoltà comunque poco vale in questa sede, in quanto non l’ultima intenzione d’autore qui ci interessa, quanto la configurazione dell’opera al momento in cui ebbe luogo la corrispondenza col Pannonio; e in questo senso la tradizione manoscritta ci viene ampiamente in soccorso, attestando che i componimenti strozziani coinvolti nello scambio epistolare figuravano già tutti nell’assetto con cui l’opera ebbe la sua prima cospicua circolazione. Una diffusione non casuale, visto che tale allestimento, risalente al 1455, documentato da almeno nove codici, e consistente in tre libri completi (comprendenti 16 carmi il primo, 17 gli altri due), più un quarto appena avviato (costituito ancora, generalmente, di tre soli testi), era soprattutto ben caratterizzato dal punto di vista dei contenuti, in virtù della sua perfetta coincidenza con pp. 500–1, epigr. I 90 e I 91). 5. Il fondamentale ms. Vaticano Ottoboniano Latino 1661, il più ricco e più tardo (1496), articola l’opera in nove libri. Ebbene, tali contenuti risultano nella princeps radicalmente ridistribuiti: in quattro cosiddetti Aeolostichon libri furono raccolti quasi tutti i testi (non più amorosi) degli anni di Ercole, e in sezioni autonome gli Epitaphia e gli Epigrammata, cui si aggiunse anche un Sermonum liber; il che portò ad una configurazione in soli sei libri della raccolta che conservava il titolo originale. Tale ristrutturazione (introdotta dall’ed. Strozii poetae pater et filius, Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae Asulani soceri, 1513 [ma 1514], e poi trasmessa alle sue ristampe cinquecentesche) fu attribuita dalla Della Guardia (Strozzi, Poesie latine, cit., pp. lviii–lx) al letterato ferrarese Daniele Fini, sulla base di una lettera indirizzatagli da Manuzio con la preghiera di « coniungere ac utrum malis praeponere tuo arbitratu » i due Strozzi (« illos »), Tito ed Ercole, da lui mandatigli « disiunctos ».

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la vicenda d’amore per Anzia, troncata dal tradimento dell’amata.6 Se, come detto, tutti i testi strozziani indirizzati al Pannonio figurano in questa antica redazione dell’Eroticon, ne consegue che la corrispondenza poetica tra i due giovani autori si concluse anch’essa entro il 1455; più precisamente, essa può essere collocata nel primo periodo di permanenza di Giano a Ferrara, tra il 1447 e il 1454. Tuttavia, suo presupposto scatenante è da considerarsi la pubblicazione, nel 1443, del primo libretto elegiaco strozziano: in larga misura riconoscibile (in mancanza di testimoni diretti) col primo libro dell’Eroticon, quale esso appare, naturalmente, non nella sua attuale fisionomia a stampa, ma nella più antica e citata configurazione manoscritta. Si trattava di circa quattordici testi,7 i cui contenuti appaiono d’inequivocabile derivazione: l’amante segue, senza significative differenze, gli schemi comportamentali degli elegiaci latini (con qualche spunto catulliano e virgiliano); mentre Anzia, l’amata, è una delle loro donne raggiungibili e infedeli. Come prima accennato, tuttavia, l’autore seppe conquistare, soprattutto nella raccolta d’esordio, una sensibilità e doti espressive sue proprie, avvalendosi anche di suggestioni romanze, e in particolare della lezione petrarchesca. Rispetto agli elegiaci latini si trova nel poeta ferrarese una rappresentazione più incantata della donna amata: pur sempre destinataria di richieste amorose piuttosto concrete (e non sempre negate), ma comunque ritratta come creatura perfetta e immacolata, irreprensibile e dolce in ogni suo gesto, immagine terrena di una natura propriamente celeste. Tra i tanti esempi che si possono addurre in tal senso, una particolare attenzione dobbiamo qui richiamare sull’elegia I 7: 6. L’Eroticon si presenta in tre libri in un ms. della Bibl. Apost. Vaticana, S. Maria Magg. 45 (ma con la medesima consistenza: gli ultimi tre testi vi figurano infatti inseriti nel terzo libro); in quattro, nella forma indicata, nei mss. di Berlino, Deutsche Staatsbibl., Hamilton 614; Berlino, Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz, Latina 447 (datato Napoli 1459); Firenze, Bibl. Nazionale Centrale, Nuovi Acquisti 692 (Phillips 8333); Londra, British Library, Additional 17421; Padova, Bibl. del Museo Civico, C.M. 422 (datato Padova 1466); Bibl. Apost. Vaticana, Vat. Lat. 3271; e ancora in quattro, ma con la posposizione nel quarto libro di tre testi precedentemente omessi, e l’aggiunta di tre nuovi componimenti, in due mss. di Venezia, Bibl. Marciana, Lat. XII 70 (datato 1459) e Lat. XII 71. La cronologia di questa più antica redazione documentata si basa, oltre che sui pochi mss. datati, sui riferimenti temporali forniti dal più tardo dei testi in essa compreso (cfr. R.J. Albrecht, Die Dresdener Handschrift der Erotica des Tito Vespasiano Strozza, « Romanische forschungen », 7, 1892, pp. 231–92, a p. 254). 7. Gli attuali I 2, I 3, I 4, I 5, I 6, I 7, II 2, II 4, II 5, II 6, II 8, più tre assenti in Strozzi, Poesie latine, cit., e successivamente editi in sedi diverse.

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Annule dulce mihi dilectae munus amicae, annule delicias inter habende meas; tu licet excellas auro pretiosus et apte gemma sit artifici clausa magisterio; est aliquid, mihi quo meruisti gratior esse, scilicet in nivea tulit illa manu. Illa etiam dono cum te mihi tradere vellet, in primis monuit quod sibi carus eras. Mecum igitur semper noctesque diesque manebis, mille tibi amplexus, oscula mille feram.8

La felicità feticistica con cui Tito volle rappresentarsi nell’atto di ricevere l’anello donatogli da Anzia, com’è evidente, rivela un atteggiamento ben lontano dalla malizia con cui Ovidio aveva inviato un anello in dono alla sua Corinna: fantasticando poi (in Amores, II 15), di potersi egli stesso trasformare in anello, e giungere così a contatto con le labbra e il seno di lei. Assai più evidente è invece la prossimità dell’animo strozziano alla struggente devozione con cui Petrarca si era provvisoriamente impadronito del guanto di Laura (Rvf, 199–201).9 Ebbene, questo componimento è seguito, sia nei codici più antichi dell’Eroticon (n. I 7), sia nelle stampe (n. I 8), da una Apologia pro amore ad Janum Pannonium poetam (« Quis novus ille sacri vates Heliconis in antro? »). Si tratta di una risposta a un’epistola metrica di Giano, del tutto trascurata, come le seguenti, dalla tradizione testuale della raccolta strozziana, ma ben attestata nelle stampe delle poesie del Pannonio: dalle quali, pur in una errata successione dei componimenti, la corrispondenza ci è stata interamente trasmessa.10 Il testo di Giano che diede il via alla tenzone, chiamando particolarmente in causa proprio 8. Strozzi, Poesie latine, cit., p. 18: I 7, 1–10 (nei mss. testo I 6). 9. Dei tre sonetti petrarcheschi che compongono il cosiddetto « ciclo del guanto », mi limito a citare i vv. 9–11 di Rvf, 199: « Candido leggiadretto e caro guanto, / che copria netto avorio et fresche rose, / chi vide al mondo mai sì dolci spoglie? ». Tale sensibilità è la stessa di Tito, ben distante in questo dal modello ovidiano: « Anule, formonsae digitum vincture puellae [. . . ], / o utinam fieri subito mea munera possem [. . . ]! / Tunc ego te cupiam dominae tetigisse papillas / et laevam tunicis inseruisse manum, / elabar digito quamvis angustus et haerens / inque sinum mira laxus ab arte cadam » (II 15, 1–14). Naturalmente, nella costruzione dei suoi versi Tito Strozzi non mancò di attingere ad altri modelli classici: in particolare, egli tende a rapportarsi all’anello come Catullo al passero di Lesbia (2, 1–2 e 3, 4). 10. Cfr. Pannonius, Poemata, cit., vol. II, pp. 373–414, El. p. II, nn. 5–10; ma la successione cronologicamente esatta dei testi, dall’elegia strozziana Ad annulum al finale omaggio di Giano, richiede la loro ridisposizione nell’ordine: 7, 8, 9, 10, 5 e 6.

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la citata elegia strozziana Ad annulum (assunta ad emblema dei frivoli temi amorosi su cui Tito sperperava le sue doti poetiche), si può così facilmente riconoscere nel carme Ianus Pannonius de eodem annulo, ad Titum Vespasianum Strozzam (« Legimus, o vates, tua carmina, carmina Phoebo », II 8): un componimento ovviamente posteriore al 1447, ma anche verosimilmente anteriore al 1450 (morte di Leonello), visto che tale termine ante quem i codici assegnano alla risposta strozziana.11 La vicenda, comunque, si protrasse ulteriormente: alle ragioni espresse da Tito nella sua Apologia, infatti, Giano replicò con l’epistola elegiaca « Quae lento partu genitrix Natura profudit » (II 10). Un testo col quale la conversazione prese un indirizzo molto più amichevole; sicché a sua volta lo Strozzi volle elogiare il nuovo ammiratore con il carme « Arbiter Idaeus, quamvis sua praemia nondum »: altro componimento a cui egli attribuì grande importanza, facendone il testo conclusivo (IV 3) della citata prima redazione dell’Eroticon pervenutaci.12 Infine, considerando che il Pannonio lasciò Ferrara nel 1454, è probabile che entro tale data vedessero la luce non solo questa elegia strozziana, ma anche i conclusivi ringraziamenti di Giano: « Dicite, quae sacro mittam responsa poetae » (II 6).

4.2. Il primo atto della tenzone Torniamo dunque all’elegia Ad annulum strozziana. Alla lettura di quei delicatissimi versi di Tito, l’adolescente Giano reagì con argomenti che, alla luce di quanto sappiamo sull’insegnamento di Guarino, suonano come puntuale espressione di un giudizio che doveva essere ben diffuso, nella scuola e nella corte, di fronte alle scelte poetiche del più talentuoso 11. La collocazione dell’Apologia tra i componimenti del primo libro potrebbe addirittura far pensare a una stesura anteriore al 1443: ipotesi in realtà poi confutata dalla necessità di assumere come termine post quem il 1447, anno dell’arrivo di Giano a Ferrara. L’attuale posizione del testo fu allora evidentemente deciso in un momento successivo, quando i primi due libri furono assemblati in una redazione unitaria dedicata a Leonello (negli ultimi anni di vita del marchese), e si ritenne opportuno che l’Apologia pro Amore seguisse immediatamente quella Elegia ad annulum di cui rappresentava, di fatto, l’analitica motivazione estetica. In tal senso, peraltro, solo probabile per l’Apologia è il termine ante quem del 1450, in quanto tale operazione può anche essere avvenuta quando fu allestito non il secondo assetto per Leonello, ma il primo attestatoci dai codici (dunque entro il 1455). 12. Vedi sopra, nota 6. Fu poi l’aldina (seguita dalle stampe successive) a spostare questa elegia al n. II 10.

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poeta ferrarese. Nell’elegia II 8 (di 230 vv.), rivendicando, in quanto libero da vincoli sentimentali, una più oggettiva capacità di giudizio in materia amorosa, rispetto al destinatario che ne è schiavo, Giano esorta quest’ultimo a sfilare dalle proprie dita quell’anello, un dono in realtà pericoloso: Cernere amor rectum te non sinit, ast ego cerno plurima, quem vinctum nulla puella tenet. Censeo ut hoc dubium suspectae munus amicae a digitis iubeas eminus esse tuis.

Se infatti Tito non saprà liberarsi di quella passione, resterà prigioniero del proprio amore vizioso, e incapace di accedere all’onesto vincolo matrimoniale: Infelix, cura torquebere semper eadem, et nulla aeternum finiet hora malum. Cantatas alio transferre vetabere flammas, sic semper turpis te retinebit amor. Et cum legitimas poscent tua corpora taedas, tardabit iustas, fax inhonesta, faces.

Come prevedibile, peraltro, il discorso etico si converte immediatamente in valutazioni poetiche. Se Tito saprà liberarsi dal giogo di Cupido, potrà dedicarsi ad Apollo e alle Muse; divinità in nessun modo compromesse con la poesia amorosa, ma sicure ispiratrici di un grave carmen: Quo magis ingenuas animum debemus ad artes flectere, quas nobis magnus Apollo dedit, quas bona Melpomene, quas cetera turba sororum, pectore quas gestat Calliopea suo [...]. Excute damnosas captivo e pectore curas, deme Cupidineis et tua colla iugis; prorsus et ingenuas convertere totus ad artes, et grave neglecto carmen amore cane.

Riguardo poi ai temi degni di una poesia seria e impegnata, Giano non manca di esporne ampia rassegna, offrendone inizialmente una schematica sintesi: 119

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Scribere quae valeas sunt plurima praeter amorem, sive nova arrident, sive vetusta placent; bellica sive iuvat clarorum gesta virorum carmine materiae conveniente suae, sive referre togam: per quas tua naviget undas cymba dabit Latium, terra Pelasga dabit;

per poi dispiegare una lunga serie di esempi pertinenti tanto alla storia antica, quanto a quella contemporanea.13 Alle critiche (certamente diffuse, come detto, entro tutta la scuola ferrarese) di cui si fece in tal modo portavoce il Pannonio, lo Strozzi rispose non solo, nei fatti, con un altro decennio di produzione quasi esclusivamente elegiaca, ma anche, esplicitamente, con l’appassionata autodifesa che ispira la citata Apologia pro amore.14 Nella quale peraltro, prima degli argomenti prodotti, vale la pena notare quelli trascurati. In effetti la poesia d’amore, tanto sminuita da Giano come dal maestro Guarino, aveva già da tempo ricevuto un’autorevole rivalutazione, su base platonica, da un umanista assai vicino a Tito e alla famiglia Strozzi in generale, nonché recente traduttore di vari dialoghi platonici (del Fedro in particolare), ossia l’aretino Leonardo Bruni.15 Il quale, rispondendo a Giovanni Marrasio (un siciliano che dopo una sosta a Siena, dove aveva composto le elegie del suo Angelinetum, dal 1432 al 1442 visse proprio a Ferrara), esplicitamente sostenne la superiorità di una poesia generata da sacro furore, anche qualora limitata ad apparentemente futili temi amorosi, rispetto ad un’altra magari dai contenuti più alti, ma dettati dalla ragione. Riprendendo infatti un 13. Tutti i vv. citati appartengono all’elegia II 8: 11–4, 77–82, 123–6, 135–8, 163–8 (Pannonius, Poemata, cit., vol. II, pp. 378–87). 14. Solo intorno al 1460, dopo oltre quindici anni di sollecitazioni diffuse e autorevoli, Tito Vespasiano avrebbe dato inizio al canto epico della Borsias, l’opera che inaugurò la grande tradizione di poemi fioriti in area estense. Si può dunque parzialmente concordare con L. Szörényi, secondo cui, attraverso questa corrispondenza, « fu proprio il nostro Giano Pannonio che aveva spinto lo Strozzi su questa strada » (Giano Pannonio e le sue poesie sul re Mattia Corvino, in Accademia d’Ungheria in Roma. Annuario 2007–2008 / 2008–2009, Aracne, Roma 2010, pp. 352–62, a p. 357). 15. Del Bruni è famosa l’Oratio in funere Iohannis Strozze, padre di Tito, morto nel giugno 1427 mentre era comandante delle forze antiviscontee: in essa non solo il personaggio, ma l’intera casa Strozzi era celebrata come motivo d’orgoglio per la città di Firenze, nonostante il volontario trasferimento di alcuni suoi esponenti a Ferrara, e anche altrove. La continuità dei rapporti tra Bruni e gli Strozzi è poi documentata da un’elegia (Torpuerant nostrae dudum, Leonarde, Camenae) che lo stesso Tito indirizzò al Bruni proprio all’altezza dei suoi esordi letterari, e comunque non oltre l’8 marzo 1444, data di morte del destinatario.

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accenno compreso nell’elegia introduttiva dell’Angelinetum, a lui indirizzata (« Indulgere velis nostro, Arretine, furori, / sive sit ille furor, sive sit ille dolor », vv. 21–22), il Bruni ne approfondì in questi termini le implicazioni filosofiche: non enim omne opus poema est, ne si versibus quidem constet, sed illud praestans, illud hac honorata nuncupatione dignum quod afflatu quodam divino emittitur. Itaque quanto vaticinium coniectationi dignitati praestat, tanto poema, quod ex furore fit, sanorum hominum artificio est anteponendum.

Non solo. Sempre su basi platoniche (ma non senza apporti già stilnovistici), il Bruni aggiungeva come tale furor fosse precisamente da identificarsi con l’ispirazione d’amore: Haec igitur vehemens occupatio animi atque correptio amor vocatur [...]. Sed unum scias volo, me non tam tibi eximiam hanc palmam esse tribuendam existimare quam Amori. Ille est enim qui verba tibi dictat, qui sententias ostendit, qui varietatem et copiam et elegantiam subministrat.16

Ebbene, sorprendentemente, nessuno di questi argomenti figura nell’Apologia pro Amore di Tito Strozzi (un ampio carme di 374 vv.). Questi, pur replicando a Giano che la sua impermeabilità al sentimento amoroso è da considerarsi il solo dono negatogli dagli dèi, non ricorre a suggestioni filosofiche a difesa della propria ispirazione, ma petrarchescamente (fin nelle immagini) si dichiara incapace di governare razionalmente la propria esistenza: Omnia praesentes Superi tibi Iane dedissent, ni vacuum dulci pectus amore foret. Immeritas nec iam satis est odisse puellas, tristia sed tetrico carmine bella paras. At mihi servitium capto dominamque ferenti, obiciis extremae crimina desidiae: quodque diu fuerim mordaci fabula vulgo, nec patriis humilis tollar imaginibus [...]. Sed tamen aut fatis aut longo impellor ab usu: optima cum videam, deteriora sequar. Non secus assiduis confectus febribus aeger 16. Traggo questo e i precedenti brani da J. Marrasii, Angelinetum et carmina varia, a cura di G. Resta, Centro di studi filologici e linguistici italiani, Palermo 1976, pp. 144–8.

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invisam medicae despicit artis opem. Tunc succos omneis, medicamina cuncta perosus, negligit infirmi corporis auxilia [. . . ]. Non ita praecipites agitantur in aequore cymbae, cum Notus Ioniis fluctibus insonuit, ut me versat Amor pectus populatus et omne ius animi atque suo me regit arbitrio.17

Un simile autoritratto, impostato sulla debolezza e contraddittorietà del soggetto poetico, nonostante già rilevate memorie classiche è, nel complesso, intimamente petrarchesco: non la Medea ovidiana (Met., VII 21–22) sta parlando al v. 56, ma un letterato che si vede e si presenta come favola « al popol tutto » (Rvf, 1, 9–10), in quanto preda di contraddizioni (v. 56) non pienamente rinnegate (sulla scia di Rvf, 264, 136: « et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio »). Certo, importante è anche l’affinità con situazioni properziane analogamente associate (come quelle del servizio d’amore e delle chiacchiere del volgo nell’elegia I 5, o quelle del malato inguaribile e della vita come navigatio nella II 24).18 Inoltre, questi argomenti tendono ben presto a diluirsi in lunghe e più canoniche argomentazioni (esemplificate con frequente ricorso al mito), a suo tempo già care ai poeti d’età augustea meno propensi ad affrontare temi solenni e celebrativi: le diverse vocazioni cui gli uomini sono chiamati; la forza che l’amore infonde in chi lo accoglie, rendendolo capace di grandi imprese; l’inaffidabilità complessiva della condizione e delle risorse umane; l’irresistibile bellezza di Anzia, la cui perfezione non può assolutamente celare pericoli né malefici; la considerazione che principale causa di sciagure non è il genere femminile ma la brama di potere; l’attenzione ai meriti di molte grandi donne; il conforto donato da Amore a dèi e mortali; la condivisione della sottomissione ad Amore con eroi e 17. Strozzi, Poesie latine, cit., pp. 19–21: el. I 8, 25–32, 55–60, 65–68. Fonti: 29 « servitium ferenti »: Tibullo, II 4, 1–3, ma anche Properzio, I 4, 4 e I 5, 19, e poi quasi tutta la lirica romanza. 31 « mordaci fabula vulgo »: Properzio, I 5, 26 e II 24, 1–2, e naturalmente Rvf, 1, 10. 56 « Optima cum videam, deteriora sequar »: Ovidio, Met., VII 20–1, s. Paolo, Rom, 7, 19, e Rvf, 264, 136. 57–58 « aeger / invisam medicae despicit artis opem »: Properzio, II 4, 13, ma anche Rvf, 75, 1–3. 65–66 « agitantur in aequore cymbae »: cfr. Properzio, II 4, 19–20 (in senso antifrastico), e Ovidio, Trist., I 1, 85, ma soprattutto Rvf, 132, 10–12; 189; 235 e 272. 67 « me versat Amor, pectus populatus »: Ovidio, Am., I 2, 8. 18. In particolare, l’elegia è stata letta in chiave properziana da F. Tateo, Properzio nella poesia latina del Quattrocento, in Properzio nella letteratura italiana, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 41–64, a pp. 46–7.

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grandi poeti. Cosa c’è dunque di straordinario se anche Tito ama, e canta l’amore? Piuttosto, visto che Giano può presentarsi ad Apollo libero da passioni, si dedichi lui al nobile genere epico: Omnia cum nullo superet discrimine, quidnam mirum est, in tanto si grege Titus amat? Nam mea Nestoreos aetas nondum attigit annos, nec me Tithoni longa senecta premit. Nunc Venerem tractare decet, nunc dicere cantus, nunc dare flaventi mollia serta comae [. . . ]. Desine velle meos abrumpere durus amores, et sine me placido vivere servitio [. . . ]. Ast ego quem certo iamdudum perculit arcu, aligeri semper miles Amoris ero; et tibi quem curis vacuum respexit Apollo, grandisona linquam bella canenda tuba.19

4.3. Lo scioglimento del contrasto La risposta strozziana non risultò priva di effetti. Nella replica affidata all’elegia II 10 (di 46 vv.), tutta tramata di garbata ironia, di fatto Giano giunse ad accettare e apprezzare, seppur non a condividere, l’ispirazione amorosa su cui si fondava la lirica strozziana. L’inconfondibile umorismo del Pannonio si manifesta fin dai primi versi, destinati a un elegante paragone tra i lunghi periodi necessari alla natura per realizzare le creature più complesse e longeve, e il gran tempo impiegato da Tito per elaborare il proprio carme responsivo, non a caso, però, degno di giungere ai posteri (vv. 1–12). L’intreccio di complimenti e fine ironia prosegue ancora per vari distici, nei quali, di fronte alla forza attribuita da Tito ai poeti, pur tra obiezioni diverse, Giano si confessa sconfitto dagli argomenti strozziani; non al punto da abbandonarsi alle stesse passioni, ma sì da recedere da ogni forma d’invidia (di cui l’altro l’aveva accusato): Ah! nimis argute blandum defendis amorem, dispeream si iam crimen amare puto [. . . ]. Iam video, nil est sermone potentius ipso, 19. Strozzi, Poesie latine, cit., pp. 32–3: I 8, 351–6, 363–4, 371–4.

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iam video, nimium lingua diserta valet. En! Ego qui fuerim Veneris durissimus hostis, cedo, relanguescit spiritus ille meus. Haud tamen idcirco similes delabar in ignes: invidiam fuerit deposuisse satis.20

Gradualmente, peraltro, le parole di Giano appaiono sempre più spontanee: davvero è stato Amore a ispirare il nobile carme dell’interlocutore? In tal caso, anch’egli è disposto a diventarne discepolo. Se questi sono i frutti, è stato ben opportuno dibattere in versi elegiaci; ora però Giano intende presentarsi con un carme apportatore di pace. Soprattutto, ora gli sta a cuore che Tito abbia chiaro in quale considerazione egli tenga la sua arte; e a tal scopo confessa di trattenere la propria voce, per evitare che l’amico possa pensare che egli intenda blandirlo: Sed te, quis divum docuit tam nobile carmen? Qui tibi dictavit, Phoebus Amorne fuit? Discipulum teneri iam me profitebor Amoris, si tam facundus efficit ille sonos. Hactenus alterno decuit contendere versu; certandi hic fiat, dulcis amice, modus. Exin pacifero placido me carmine visas, et crebro a nobis te patiare legi. Quippe tuas quanti faciam, doctissime, Musas, alterius fias certior ore volo. Ipse ego contineo conantem erumpere vocem, ne qua blandiri me tibi parte putes.

Ma su una cosa egli non cederà: Venere, Amore e lo Strozzi non potranno esibirlo come conquista di guerra; essi, che già lo videro nemico, hanno ora la sua amicizia, ma non riusciranno a farlo prigioniero: At tu, cum molli velox genitrice Cupido, figite de nostra nulla tropaea fuga. Quod cessi, haud ideo laetos agitate triumphos, nec vestros currus florea serta tegant. Non me captivum, sed amicum ex hoste parastis, pacem vobiscum conciliatus ago.21 20. Pannonius, Poemata, cit., vol. II, p. 412: el. II 10, 13–4, 23–8. 21. Ivi, pp. 413–4: el. II 10, 29–36, 41–46.

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Propriamente, la tenzone poetica si conclude qui. La nuova posizione assunta dal Pannonio gli permetteva, senza cadere in contraddizione, di apprezzare l’arte di Tito, non più rivale ma amico, pur nella perdurante rinuncia ad ogni esercizio nella poesia d’amore. Proprio la rigorosa distinzione dei due piani rappresenta il più specifico motivo di interesse di questa epistola metrica. Essa, tuttavia, non era destinata a chiudere la corrispondenza. Probabilmente sentendosi obbligato, dopo i tanti complimenti qui ricevuti, lo Strozzi non perse occasione di ricambiarli con l’elegia « Arbiter Idaeus, quamvis sua praemia nondum » (II 10 nelle stampe dell’Eroticon, di 34 vv.): sostanzialmente, una celebrativa recensione di alcuni carmi di Giano. Applicando una consueta tecnica umanistica, Tito esordisce paragonando la propria condizione nei confronti del Pannonio a quella sperimentata da Paride, che, ben prima di vedere Elena, si innamorò di lei immaginandone la bellezza. Ugualmente, se le testimonianze altrui avevano già fatto sorgere in Tito una grande stima per Giano, e le conversazioni successive avevano dato inizio alla loro amicizia, le lettura dei carmi per le nozze di Paola Barbara, e di quelli su Tomiri e Costanza Trotta, ha determinato in lui un ammirato stupore: Sic ego te dudum mirabar Jane priusquam Phoebeis legerem carmina digna sonis [. . . ] Nunc ubi se virgo cognomine Barbara non re obtulit adriacis consociata choris, et lecta est Tomyris nec non Constantia Trottae, quas immortaleis, dive poeta, facis, obstupui longeque ipsam tua gloria phamam vicit, iudicio nec minor illa meo est.22

Segue un elogio che dovette essere assai caro al Pannonio, visto che Tito gli riconosce l’ispirazione di Apollo (e mai di Amore), sia quando egli si esprime in esametri, sia quando ricorre al metro elegiaco. Ne deriva un grido di felicità per la terra natale di Giano, tanto onorata da 22. Strozzi, Poesie latine, cit., p. 52: II 10, 9–10, 13–18. Cito dalle lezioni riportate dalla Della Guardia in apparato, tratte dai codici della prima redazione. Non a caso, nel testo della princeps i vv. 17–18 sono sostituiti con un esplicito riferimento ad un nuovo impegno, la stesura di un ampio poema, avendo Tito finalmente abbandonato il tema amoroso, proprio come l’aveva invitato a fare l’amico (« Vidimus et postquam tua carmina amore relicto / grande quibus suades aggrediamur opus »): ma in realtà, al momento della prima stesura di questo testo, lo Strozzi era ancora ben lontano da tali intenzioni.

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un simile figlio, ma anche per il ritorno delle Muse in Italia, sempre grazie al Pannonio; e infine una esortazione alla gioia rivolta a Guarino, fonte da cui deriva per tutta l’Italia questo fiume di poesia: O dilecta deis, o felicissima tellus, in qua tu fausto sidere progenitus. Nos quoque felices, ad quorum limina sacros Pieridum cantus ex Helicone refers. Tu tamen in primis nova concipe gaudia, nostri temporis egregium, clare Guarine, decus; nam liquor ille tuo manans de fonte per omnem Hesperiam latum iam sibi quaerit iter.23

Apparentemente solo occasionale, il carme rivela tutta la sua importanza in chiave macrotestuale, data la sua collocazione al termine della raccolta (IV 3) nei più antichi manoscritti di questa: una celebrazione della poesia, chiusa nel nome di Guarino, era il perfetto punto d’arrivo della prima redazione dell’Eroticon destinata ad ampia circolazione. Ma non meno importante è la scelta di mirare a questo scopo ricorrendo a una epistola metrica, e al Pannonio quale destinatario: a documentare sia il prestigio nel frattempo conseguito da Giano, sia la volontà di chiudere la raccolta sotto l’insegna di una stima e di un’amicizia reciprocamente acquisite, e tali da compensare sul piano letterario l’irreparabile frattura che troncava la vicenda sentimentale. Il ringraziamento finale del Pannonio è affidato all’elegia II 6 (« Dicite, quae sacro mittam responsa poetae »): di 34 vv., esattamente come la proposta strozziana. Definitivamente conquistato, Giano rinuncia anche ad ogni forma di ironia, rivolgendo verso se stesso le consuete note umoristiche. In effetti, osservando come Tito lo innalzi con le sue lodi fino in cielo, per un attimo è sfiorato dal dubbio di uno scherzo; ma tale accenno gli vale solo per sottolineare che l’animo schietto e serio dell’amico non ne sarebbe capace: Irrisitne meas, simulans extollere, nugas? An potius nostri falsus amore fuit? Non est tanta eius levitas in pectore, non est, ut soleat similes ille referre iocos [. . . ]. Hoc sancti mores, probitas hoc insita linguae, 23. Ivi, pp. 52–3, n. II 10, vv. 25–32.

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hoc mens invidiae clausa putare iubet.24

E allora, come può Giano restare insensibile a tali lodi? Egli non può che inorgoglirsi come un pavone: An, si pavo suas spectari viderit alas, expandet caudae sidera picta suae, nos nihil his stimulis, nihil hoc animabimur oestro? Haud adeo nobis ferrea corda rigent.25

Dunque ringraziamenti particolari sente di dovere allo Strozzi, che col suo carme gli ha fatto un duplice dono: offrendogli un modello da studiare e imitare, e stimolandolo a meritarsi le lodi ricevute. Se poi ciò non accadrà, ormai comunque, grazie ai versi dell’amico, il nome di Giano ha raggiunto una fama perenne: Nam semper cura nitar studiosius omni, laudibus inveniar ne minor esse tuis. Aut si dabitur proprio clarescere versu, nostra satis per te fama perennis erit.26

4.4. Interpretazioni della corrispondenza epigrammatica Questa conclusione della vivace corrispondenza con Tito Strozzi non deve far comunque pensare che, a soli vent’anni, l’impertinenza del Pannonio fosse venuta già meno.27 La sincera accettazione della poesia strozziana meglio si comprende, ad esempio, se si tien conto della già ricordata, e immediatamente successiva corrispondenza con Enea Silvio Piccolomini; un carteggio in versi (che Scevola Mariotti datò al 1455), costituito da quattro epigrammi, contenenti: una richiesta del Pannonio al Piccolomini di prestargli un codice di Marziale; una risposta di Enea Silvio in cui questi, dopo aver lodato il giovane allievo di 24. Pannonius, Poemata, cit., vol. II, pp. 375–6; el. II 6, vv. 9–12, 17–8. 25. Ivi, p. 376, vv. 23–6. 26. Ibid., vv. 29–32. 27. Naturalmente, sua sede d’espressione elettiva era l’epigramma, genere sul quale cfr. D. Coppini, La scimmia di Marziale. “Veteres” e “novi” nella poesia di Giano Pannonio, in Italia e Ungheria all’epoca dell’Umanesimo corviniano, a cura di S. Graciotti e C. Vasoli. Atti del Convegno (Venezia, 19–23 novembre 1990), Olschki, Firenze 1994, pp. 71–88.

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Guarino e dichiarato di non voler entrare in gara con lui, dice di mandargli il codice richiesto ma insieme lo esorta a leggere, piuttosto che lo sfrontato Marziale, il Vangelo; l’ulteriore replica del Pannonio, che ricambia le lodi del suo interlocutore e si giustifica per la propria richiesta; infine un epigramma in cui Giano risponde negativamente a una richiesta del Piccolomini d’inviargli i propri versi e chiede invece a lui i suoi libelli.28

Una apparentemente neutra richiesta di prestito librario si traduce in realtà fin dall’inizio, già nella prima proposta di Giano, in una riflessione sull’opportunità di reagire alla tristezza dei tempi sollevando l’animo con letture giocose, segnatamente i versi di Marziale: Tempore sollicito tragicos deponere luctus convenit et levibus pellere maesta iocis.29

Proprio con questa deduzione non concorda Enea Silvio: il quale molto volentieri invia il codice a un giovane, ma già così mirabile autore, visto che ormai la poesia non rientra più nei suoi interessi; ma soprattutto ritiene che in tempi in cui vengono meno le speranze, non è opportuno scherzare, ma piangere: nunc oblita mihi sunt carmina, friguit aetas atque sepulcralis unica cura mihi est [. . . ]. At si quae currant nunc tempora conspicis et spes afflictas, non nunc ludere, flere licet.30

In questa obiezione, e nel successivo invito a leggere, « sacrata nocte », le parole di Cristo, il Pannonio coglie una preoccupazione etica da parte del corrispondente, sicché prova a rassicurarlo sul buon uso che farà di quel libro: Quod Bilbitani rogitavi epigrammata vatis, suspecta est, video, nostra iuventa tibi. Crede, precor, melius! Relegi non improba possunt, lascivos oculo praetereunte modos.31 28. S. Mariotti, La corrispondenza poetica fra Giano Pannonio ed Enea Silvio Piccolomini, in Umanesimo e Rinascimento. Studi offerti a P.O. Kristeller, Olschki, Firenze 1980, pp. 45–56, a p. 46. Lo studio, oltre che presentare e commentare i testi, li pubblica anche criticamente. 29. Ivi, p. 49, epigr. 2 (= Pannonius, Poemata, cit., vol. I 381), 5–6. 30. Ivi, p. 50, epigr. 3 (= Pannonius, Poemata, cit., vol. I 382), 9–10, 17–18. 31. Ibid., epigr. 4 (= Pannonius, Poemata, cit., vol. I 383), 11–14.

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Contenuti e toni improntati alla massima cortesia; e tuttavia non manca un certo antagonismo tra i due interlocutori, esponenti di due diverse generazioni poetiche. Questo peraltro, più ancora che sul piano della teoria letteraria (circa il ruolo di Marziale e della sua poesia epigrammatica), si manifesta tra le pieghe della morfologia: C’è la prospettiva (e quasi l’atmosfera) di una gara poetica, che il Piccolomini rifiuta (3, 5 sgg.) pur intendendo certo mostrare con l’impegnata risposta la sua perizia di verseggiatore; c’è, più ancora, l’esplicito rimprovero per la lettura di Marziale (3, 17 sgg.), da cui Giano si difende con evidente difficoltà [. . . ]. Ma probabilmente una rivincita sottile il Pannonio se l’è presa tecte facendo valere, sul piano della gara letteraria la sua miglior conoscenza delle regole del latino classico [. . . ]. Si osservi infatti che, replicando al Piccolomini, il Pannonio riprende direttamente per ben tre volte sue parole modificandone, o meglio correggendone, la prosodia o la morfologia secondo l’uso classico.32

Completamente diversa, ma proprio per questo degna qui di menzione, fu l’interpretazione della corrispondenza giocosa da parte di Ludovico Carbone (1430–1485): altro noto allievo di Guarino, dal 1456 docente di retorica presso lo Studio di Ferrara, nonché oratore ufficiale di Borso d’Este. Pur continuando umanisticamente ad esprimersi in lingua latina, non sdegnò di predisporre anche qualche volgarizzamento di storici antichi (Sallustio) o persino di proprie orazioni, né di diffondere una raccolta di Facezie in lingua materna, che è anche, per ironia della sorte, una delle sue poche composizioni che godano di un’edizione moderna.33 Perché questo è il tasto dolente per chiunque si proponga, oggi, un’analisi delle sue opere, e in particolare della sua produzione poetica; se infatti nel 1469, salutando l’imperatore Federico III in visita a Ferrara, Ludovico poteva già vantare: « ducentas prope orationes edidimus, versus ad decem milia, et omnia ore nostro pronunciavimus », di quei diecimila versi non se ne leggono a stampa che poche decine, tra cui spicca la breve collana (di quattro testi) con cui il Carbone cercò invano, nella prima metà degli anni ’60, di conquistare 32. Ivi, pp. 53–4. 33. Per un profilo del Carbone cfr. L. Paoletti, Carbone, Ludovico, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 19, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1976, pp. 699–703. Cfr. inoltre L. Carbone, Facezie e Dialogo de la partita soa, ed. critica a cura di G. Ruozzi, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1989; G. Antonioli, Il “De felicitate Ferrarie” di Ludovico Carbone, « Schifanoia », n. 24–25 (2003), pp. 7–27.

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la mano di Francesca Fontana34 . Tutti gli altri, che sappiamo spesso musicati e persino personalmente cantati dall’autore, giacciono inediti nelle raccolte manoscritte, la più ricca delle quali oggi nota è nel codice Vaticano Ottoboniano Latino 1153 (V). L’analisi dei circa duemila versi carboniani qui raccolti (sotto il titolo Haec sunt quae primis lusit Lodovicus in annis, c. 99r) non può che confermare, in prima istanza, quanto già aveva colpito il Carducci, ovvero l’esistenza in Ludovico di una giocosa vena ispiratrice, suggeritagli innanzitutto dal suo esibito amore per il denaro35 . A noi, in questa sede, interessa rilevare come tale passione fu soprattutto espressa in epigrammi indirizzati a facoltosi destinatari: a partire dagli allievi (paganti), fino ai più influenti personaggi della Ferrara dei suoi anni, dai funzionari estensi Ludovico Casella e Prisciano Prisciani, al ricco Paolo Costabili, «nobilissimo cavaliere e giurista gravissimo [. . . ], accuratissimo tribuno, prefetto della città, patrono e custode del popolo». Proprio a quest’ultimo sono forse diretti i componimenti più arguti: Lo. Car. ad clarissimum virum d. Paulum Costabilem Paule, meum numen, mea spes, mea magna voluptas, Paule, decus nostrum delitiaeque meae; Paule, pater patriae, miserorum dulce levamen, quid tibi vis dicam? Quid tibi vis faciam? Si mihi des numos, toto cantaberis orbe; si mihi des numos, carmine divus eris. Idem ad d. Paulum Constabilem. Fac mihi sint numi, faciam tibi carmina mille, carmina mille cito, carmina mille libens. Mens auro erigitur, confirmant pectora numi, ex auri vena nascitur ingenium. [Idem ad eundem]. 34. I quattro carmi sono stati pubblicati da S. Pasquazi, Poeti estensi del Rinascimento, Le Monnier, Firenze 1966, pp. 164–9; a pp. xiv–xvii una lettura storico–estetica dell’episodio. 35. Cfr. G. Carducci, Delle poesie latine edite ed inedite di Ludovico Ariosto, Zanichelli, Bologna 1875 (rist. col titolo La gioventù di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara in Id., Opere, ediz. nazionale, xiii, La coltura estense e la gioventù dell’Ariosto, Bologna, Zanichelli, 1944, pp. 115–374, a pp. 225–6). Nel quadro di un primo regesto degli scritti carboniani, una tavola del ms. V fu pubblicata da L. Frati, Di Ludovico Carbone e delle sue opere, in «Atti e memorie della Deputazione ferrarese di storia patria», XX (1910), pp. 53-80, a pp. 67–78.

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Oblitus nostri, clarissime Paule, videris nec Lodovici curam oratoris habere, illustrat qui facta ducis celeberrima Borsi teque tuamque domum divinis laudibus ornat. Spem mihi saepe bonam, Paule, et bona verba dedisti; non opus est verbis, sed factis atque ducatis: rumpe moras omnes et pignora nostra remitte, si cupis ut laeti felicia cepta sequamur.

Ma anche agli allievi Ludovico seppe esprimere con arguzia la propria avidità: Idem ad discipulos Nunc ego venalis, nunc nostras vendere merces, nunc statui nostras vendere litterulas; nunc quaerenda mihi divina pecunia primum: qui mihi plus dederit, me prior accipiet.36

Nell’epigramma Si tibi cura mei quae quondam magna solebat, ancora indirizzato a Paolo Costabili, il denaro è invece implorato come mezzo per l’acquisto dei libri del defunto Aurispa, altro oggetto del desiderio che ossessionava il Carbone: Te rogo, per divos et per mea numina Musas, scribere quae nunc me qualiacumque iubent, ne nunc sollicitum Lodovicum, Paule, relinquas affusumque tuis suppliciter pedibus. Vellem Aurispinos ad me traducere libros, praesertim graecos, qui rapuere animum: fac mihi sint numi, nec multa pecunia desit, qua sine nil fieri, maxime Paule, potest; hoc mihi non faciet res publica gratius unquam, 36. Trascrivo i testi da V, rispettivamente cc. 199v, 200r, 193v, e di nuovo c. 200r. Quest’ultimo epigramma era già stato èdito, sulla base del ms. di Venezia, Bibl. Nazionale Marciana, Lat. XII 137, da C. Cessi, Ricordi polesani nelle opere di Ludovico Carbone, in « L’Ateneo Veneto », 24 (1901), 2, pp. 131–52, 286–302, a p. 143; ivi, a p. 146, notizie biografiche su Paolo Costabili, sul quale si veda anche G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara (1429–1460), Olschki, Ginevra 1921, p. 116. Le qualifiche sopra riferite a questo rappresentante di una delle più illustri famiglie ferraresi sono tratte dall’Oratio habita in funere Guarini Versonensis, dello stesso Carbone: cfr. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Ricciardi, Milano–Napoli 1952, pp. 394–5.

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at mihi, ni potiar, vita futura brevis.37

Ma il capolavoro di questa ispirazione è certamente rappresentato dall’eccezionale Carmen in honorem magnifici viri Prisciani quaestoris illustrissimi ducis Borsii propter inauditam solutionem pecuniarum facta omnibus creditoribus camerae illustrissimi principis: un vero inno, in 212 versi elegiaci, innalzato ad un episodio di retribuzione di massa percepita dagli infiniti, umili creditori della corte estense.38 Davvero memorabile appare al poeta il pagamento di tutti i debiti contratti dalla corte di Borso, stabilito e attuato dal tesoriere ducale Pellegrino Prisciani. Il profilo di quest’ultimo ritratto tra cumuli di monete; la serie dei suoi ragionieri intenti a registrare i pagamenti; la sfilata di creditori, rappresentanti delle arti più diverse, ritratti in climax incalzante dai cuoiai ai poeti, naturalmente posti al vertice della serie; l’inno corale innalzato da tutti alla grandezza e nobiltà del denaro, gioiosamente cantato quale unico motore della storia e dei suoi eventi più illustri, dal passato remoto all’attualità; la gloria di portata europea conseguita (con la sua encomiabile attività retributiva) dal Prisciani, ben meritevole dunque della fama immortale donatagli da Ludovico coi suoi versi: una simile successione di temi trova mirabile culmine, prima dei saluti finali, nel grido entusiasta del v. 203: et fac ut nostri versus vertantur in aurum!

37. V, c. 199r, vv. 11–20. 38. V, cc. 203r–205v. Anche questo carme si può già leggere a stampa grazie all’edizione fornitane , sempre sulla base del ms. Marc. Lat. XII 137, da C. Cessi (che lo datò al gennaio 1460) in Ricordi polesani, cit., pp. 292-8. Sul Prisciani cfr. ivi, p. 146.

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v L’approdo al romanzo epistolare

5.1. Premesse filosofiche e artistiche È noto come il Tempio Malatestiano di Rimini, capolavoro di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417–68), che per vent’anni (dal ’47 alla morte) v’investì ogni sua risorsa, testimoni in primo luogo l’inquieta, ambiziosa, complessa ricerca intellettuale dell’esuberante signore.1 E sappiamo, pur tra mille orientamenti interpretativi, come ogni suo dettaglio intendesse disegnare un percorso sulla natura e sul destino dell’anima umana, sull’azione degli astri e sui misteri del divino; un percorso tradotto in arte dallo scultore Agostino di Duccio e dagli architetti Matteo de’ Pasti e Leon Battista Alberti, ma elaborato dal principe stesso e dagli intellettuali a lui più vicini (Basinio da Parma e Roberto Valturio), particolarmente attenti alle soluzioni più estreme del neoplatonismo contemporaneo: quelle portate in Italia, tra 1438 e ’39, dal filosofo greco Gemisto Pletone.2 1. Sul quale, per un primo orientamento, cfr. A. Falcioni, Malatesta (de Malatestis), Sigismondo Pandolfo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 68, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2007, pp. 107–14. Della sterminata bibliografia, ricordo almeno Ch. Yriarte, Rimini, un condottiero del XV secolo: studi sulle lettere e le arti alla corte dei Malatesta, Rimini, Raffaelli, 2003 (ed. or. Rothschild, Parigi 1882); Ph.J. Jones, The Malatesta of Rimini and the papal state. A political history, Cambridge University Press, London 1974. Sul celebre monumento, preziosa l’ampia sintesi di A. Turchini, Il Tempio malatestiano, Sigismondo Pandolfo Malatesta e Leon Battista Alberti, Il ponte vecchio, Cesena 2000 (cui rinvio in particolar modo per il ricco apparato bibliografico, pp. 959–1019). 2. Sul pensiero di Gemisto, cfr. F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris, Les Belles Lettres, 1956; G.M. Woodhouse, George Gemistos Plethon. The last of Hellenes, Oxford, Clarendon press, 1986. Riguardo al suo influsso sulle simboliche decorazioni del Tempio, cfr. almeno Templum mirabile. Atti del Convegno sul Tempio Malatestiano (Rimini, 21–22 settembre 2001), a cura di M. Musmeci, Fondazione Cariri, Rimini 2003 (in particolare P.

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A conferma di questa collettiva ricerca di significati e valori, proiettata alla riscoperta di una religiosità primigenia (antistante gli insegnamenti delle religioni rivelate), sono certo eloquenti i riscontri segnalati da vari storici dell’arte tra il sistema decorativo del Tempio e i poemi di Basinio da Parma.3 Ma poiché, com’è noto, soprattutto il mistero della morte, e la ricerca di una possibile difesa dalla sua azione distruttiva (anche attraverso l’amore e la gloria), furono per Sigismondo motivo di ossessiva meditazione, fino al punto di essere scomunicato da papa Pio II e arso in effigie, qui resurrectionem mortuorum inficietur, et animas hominum mortales fore testetur, nec de futuro regno quicquam speret;4

il nostro interesse deve in particolar modo rivolgersi al complesso programma sepolcrale che caratterizzò la ristrutturazione dell’antica chiesa di San Francesco. Al centro di tale piano, naturalmente, si collocano i sepolcri posti all’interno dell’edificio, riservati allo stesso Malatesta, ai suoi antenati e discendenti, e alla sua amante e poi moglie Isotta degli Atti; ma analoghi significati dovevano rivestire quelli collocati nell’involucro esterno, progettato dall’Alberti secondo un susseguirsi di archi sovrastanti altrettanti sarcofaghi. Sigismondo ebbe infatti modo di destinare di sua iniziativa questi ultimi a poche figure, assai selettivamente prescelte: il rimatore e giurista Giusto de’ Conti; il maggior poeta di corte, Basinio da Parma; l’umanista Roberto Valturio; e nel 1466, con mossa mirabile, in grado di chiudere il cerchio a circa vent’anni dall’inizio del progetto, proprio l’ammirato filosofo Gemisto Gilbert, L’alba incompiuta. I significati filosofico–teologici del Tempio Malatestiano, pp. 139–49; e M. Bertozzi, Segni, simboli, visioni: il Tempio Malatestiano e i suoi enigmi, pp. 151–65). 3. Per prime notizie su quest’ultimo, cfr. A. Campana, Basinio da Parma, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 7, 1965, pp. 89–98. Un esempio delle analogie accennate è offerto dai noti rapporti tra la posizione dominante del sole nella cappella dei Pianeti del Tempio, e l’inno al sole che il poeta parmense innalzò alla fine del suo Astronomicon, e che si può leggere in Basini Parmensis, Astronomicon libri II, trad. it. di M. De Luca, Fondazione Cariri, Rimini 1994, II 406–37, nonché in Id., Opera praestantiora, ex typ. Albertiniana, Rimini 1794, vol. I, pp. 338–9. Sul tema, cfr. B. Soldati, La poesia astrologica nel ’400, Sansoni, Firenze 1902, rist. anast. ivi, Le Lettere, 1986, pp. 74–104. Sulla cappella interessata, cfr. almeno P. Meldini – P.G. Pasini, La cappella dei Pianeti del Tempio malatestiano, Cinisello Balsamo, Comune di Rimini – Pizzi 1983. 4. « Poiché nega la resurrezione dei morti, sostiene che l’anima degli uomini è mortale e non crede nel regno dei cieli » (E.S. Piccolomini / Pio II, I commentarii, a cura di L. Totaro, Adelphi, Milano 1984, pp. 1448–49).

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Pletone, le cui spoglie egli seppe recuperare durante la spedizione condotta contro i Turchi, in Grecia, al soldo di Venezia. Una rosa accuratamente vagliata, ma proprio per questo densa di significati: tra cui, a mio avviso, non doveva mancare l’intenzione di affermare la saldezza, oltre la morte, di questa platonizzante famiglia.5 Questa geniale architettura ruotava peraltro intorno a un cardine fondamentale, rappresentato dall’artistico sepolcro allestito in una delle cappelle interne, fin dal 1449, per l’ancor giovanissima Isotta degli Atti (1432/3–74), l’adorata compagna che il Malatesta si risolse a sposare intorno al 1456, dopo un decennio di esibito ma non regolarizzato rapporto amoroso. Due elementi resero infatti particolarmente significativo questo monumento funebre. In primo luogo, la data della sua edificazione coincise, nella letteratura che presto sorse in onore di Isotta, con quella di una sua morte del tutto immaginaria, che l’avrebbe colpita non più che diciassettenne (ossia appunto nel 1449), laddove l’Isotta storica, valicati i quaranta, morì il 9 luglio 1474, sei tumultuosi anni dopo lo sposo.6 Spesso fraintesa, in quanto semplicisticamente ricondotta a esasperato e dilettantesco petrarchismo, questa morte letteraria, che Sigismondo stesso probabilmente ideò, cantò (nelle proprie rime) e fece rappresentare (nel Liber Isottaeus di Basinio e non solo), deve leggersi in realtà come un mito straordinario, accorgimento simbolico ben funzionale alla complessa meditazione malatestiana sul mistero della morte.7 In secondo luogo, questo bellissimo sepolcro, per 5. Da ricondurre a volontà del signore deve ritenersi la tumulazione qui del Valturio, sebbene quest’ultimo morisse nel 1484, sedici anni dopo lo stesso Malatesta. I principali contributi su tale circolo culturale restano quelli di A. Battaglini, Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, in Basini Parmensis Opera praestantiora, cit., vol. II, pp. 43–255; di A.F. Massèra, I poeti isottei, « Giornale storico della letteratura italiana », a. 29, vol. 57 (1911), pp. 1–32, e a. 46, vol. 92 (1928), pp. 1–55; ma cfr. anche A. Piromalli, La poesia isottea nel Quattrocento (1956), e Id., Gli intellettuali presso la corte malatestiana di Rimini (1980), in La cultura letteraria nelle corti dei Malatesti, a cura di A. Piromalli, Ghigi, Rimini 2002; E. Rossi Finamore, La letteratura isottea nell’editio princeps parigina del 1539. Appunti per un’analisi testuale, in Le donne di casa Malatesti, a cura di A. Falcioni, Ghigi, Rimini 2005, pp. 605–45. Su Giusto de’ Conti, cfr. I. Pantani, L’amoroso messer Giusto da Vamontone, Salerno ed., Roma 2006, pp. 148–74. Sull’attività dell’Alberti a Rimini, ricordo almeno F. Borsi, Leon Battista Alberti, Electa, Milano 1973, pp. 127–91. 6. Cfr. A. Campana, Atti, Isotta degli, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 4, 1962, pp. 547–56. 7. A tale assunto non contraddicono le suggestioni petrarchesche che troveremo effettivamente presenti nel Liber Isottaeus: esse cooperano infatti alla creazione di caratteri e di precise situazioni narrative, attraverso l’applicazione di criteri imitativi estremamente consapevoli.

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i motivi che vedremo, rappresentò subito la testimonianza più sfrontata della presto topica divinità di Isotta: qualifica da non intendersi come semplice manifestazione di encomio cortigiano, o espediente celebrativo finalizzato al consolidamento del potere, o magari espressione di un’attitudine estetizzante; bensì anch’essa espediente simbolico, concepito in funzione dei medesimi temi esistenziali. Che il sepolcro di Isotta rappresentasse una sintesi molto impegnativa delle ambizioni filosofiche malatestiane, fu subito ben chiaro, ad esempio, ad un papa umanista come Pio II, che non ebbe dubbi a interpretare secondo questa prospettiva, con comprensibile ribrezzo, l’iscrizione posta su quella tomba nei primi anni ’50 del ’400: « d. isottae ariminensi b.m. sacrum mccccl ». Nonostante infatti la possibilità di un più innocente scioglimento in dominae della d puntata iniziale, anche oggi (forse per la conferma suggerita dal successivo sacrum) l’interpretazione comune è proprio quella datane da papa Piccolomini: concubinae suae tumulum erexit [. . . ], adiecto titulo gentili more in hunc modum: « Divae Isottae sacrum ».8

In effetti, pur senza trascurare le ragioni politiche dell’ostilità del papa verso il Malatesta, il disgusto suscitato da questa epigrafe in Pio II non era affatto immotivato. Inopportuno sarebbe infatti minimizzare la pregnanza ideologica dell’epiteto diva, magari ricordando che già Petrarca, su precedenti guittoniani e cavalcantiani, aveva spesso definito diva, o anche dea la sua Laura, e divine le bellezze di lei;9 e che il suo esempio era stato seguito da molti, in particolar modo dal più affermato rimatore di quegli anni, il già ricordato Giusto de’ Conti.10 Quest’uso poetico infatti, volto ad esprimere l’eccezionalità dell’amata, o talvolta, dopo la morte, la sua assunzione tra i beati del Paradiso, non 8. E.S. Piccolomini / Papa Pio II, I commentarii, cit., pp. 366–7 (« Eresse una tomba per la sua amante [. . . ], cui appose un’iscrizione secondo l’uso pagano di questo tenore: “consacrato alla divina Isotta” »). 9. Cfr. Guittone, 9, 12 (« poi lei, che ’n terra è dea / de beltade e d’onore »); Cavalcanti, 1, 27 (« fra lor le donne dea / vi chiaman »); 4, 11 (« e la beltate per sua dea la mostra »); Petrarca, Rvf, 157, 7–8 (« facean dubbiar, se mortal donna o diva / fosse che ’l ciel rasserenava intorno »); 281, 9 (« et ella è diva »); 337, 8 (« il mio signor sedersi et la mia dea »); Triunphus mortis, I 124 (« Vattene in pace, o vera mortal dea »). Per divina/e, cfr. Rvf, 71, 62; 167, 4; 213, 4; 217, 12; 72, 11; 207, 15. 10. Cfr. Conti, 13, 64 (« tua forma è umana, ma l’essenza è diva »); 134, 3 (« la mia diva »); 6, 4 (« fra noi mortali come dea soggiorna »). Per divina/e, cfr. 16, 9; 36, 7; 142, 77; 23, 9.

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poteva non risultare trasgressivo su un vero tumulo, per di più di una donna tutt’altro che morta, e non certo in odore di santità, vista non solo la sua decennale condizione di « concubina », ma, per tre anni, perfino di adultera (fino al primo giugno 1449, quando morì Polissena Sforza, sposata dal Malatesta nel 1442). Inoltre, anche in poesia non era consueto vedere quegli attributi direttamente accostati al nome da celebrare: secondo un uso che, rispetto all’adulazione cortese, più marcatamente suggeriva una divinizzazione d’ascendenza pagana, e che presso la corte malatestiana fu ampiamente ripreso dai poeti (tra cui Basinio) non solo per Isotta, quanto per lo stesso Sigismondo. È del resto ben noto che l’iscrizione in esame andò a coprirne un’altra, coeva al completamento del monumento (primavera del 1449), forse un po’ frivola per un’epigrafe sepolcrale, ma certo assai meno provocatoria in chiave religiosa: « isote ariminensi forma et virtute italie decori mccccxlvi »: la stessa incisa sulle medaglie, opera di Matteo de’ Pasti, contenenti il ritratto di Isotta.11 Ebbene, a me sembra che pur a tener conto di ogni altro possibile motivo ispiratore, tra cui quello celebrativo, tale sostituzione s’intende veramente solo se posta in rapporto col progressivo accentuarsi delle implicazioni idealizzanti attribuite da alcuni poeti alla figura di Isotta e all’amore che la legava a Sigismondo. La divinità di Isotta, vedremo infatti, doveva rappresentare nelle loro intenzioni garanzia d’immortalità per lo stesso Malatesta: per suo conto, come accennato, tormentato invece da un sempre più acuto pessimismo circa il destino dell’anima umana.

5.2. Premesse letterarie La distanza culturale che separa la prima epigrafe sepolcrale di Isotta, del 1449, dalla seconda, di qualche anno successiva al 1450, trova non a caso una sostanziale corrispondenza negli sviluppi della letteratura nata in suo onore. La quale, fino al 1449 (finché dunque visse Polissena 11. « A Isotta da Rimini, per bellezza e virtù vanto d’Italia, 1446 ». Sulle questioni legate a queste iscrizioni, si dispone naturalmente di un’immensa bibliografia: dal classico e imprescindibile studio di C. Ricci (Il Tempio malatestiano, Bestetti & Tumminelli, Milano–Roma 1925, rist. anast. Ghigi, Rimini 1974, pp. 433–50), alle sintesi di A. Turchini (Il Tempio malatestiano, cit., pp. 437–51) e P.G. Pasini (Il Tempio malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Skira, Milano 2000, pp. 128–41).

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Sforza), si riduce ad alcuni sonetti dello stesso Sigismondo, forse a un serventese di Carlo Valturio (cancelliere del Malatesta), e a pochi sonetti di Angelo Galli, funzionario presso la non ancora nemica corte di Urbino.12 In queste rime Isotta appare appunto « vanto d’Italia per bellezza e virtù », ma nulla più: celebrata per tali convenzionali qualità, inizialmente ella si mostra, come da copione, altera e sdegnosa verso l’amante, poi però ricambiato; e se talvolta in questi versi compare la connotazione divina, questa non si discosta dall’uso già petrarchesco. Il Galli, poi, si rapporta alla figura di Isotta alla sua maniera, vivacemente carnale, inconciliabile con qualsiasi implicazione idealizzante: le più grandi doti della fanciulla sono, ai suoi occhi, « la gola che come ambra il bascio piglia » (265, 9), o « l’amor che » ella « porta a meraviglia » al suo signore (265, 13).13 Assai presto, però, tutto cambia: in luogo dell’amore, la morte diviene il tema dominante tra i poeti isottei. Né mancano ragioni biografiche, particolarmente dolorose proprio per Isotta: la quale, dalla nascita orfana di madre, e già gravata dal peso del suo pubblico adulterio, neppure quindicenne, il 22 maggio 1447 perdeva appena nato il suo primo bambino; e altrettanto dolore avrebbe sofferto, l’anno dopo, per la morte del Padre. Da un lato, dunque, dovette emergere in Isotta un crescente bisogno di garanzie per la vita terrena, e di speranze che l’aiutassero a esorcizzare la morte, come testimoniano ad esempio tanti passi del Liber Isottaeus, il capolavoro di Basinio da Parma a lei dedicato; dall’altro invece, in Sigismondo, un pessimistico scetticismo. Da questo incontro, io credo, nacque il mito geniale della morte giovanile di Isotta: a quanto pare da attribuirsi allo stesso Malatesta, 12. Le rime di Sigismondo, trasmesse dal ms. di Firenze, Bibl. Riccardiana, 1154, e pubblicate già nel 1860 da P. Bilancioni (Sonetti riferiti al nome di Sigismondo de’ Malatesti da un codice della Riccardiana, per nozze Fantuzzi – Spina, Tip. G. Angeletti, Ravenna 1860), si leggono oggi in Isotta bella sola ai nostri giorni. Sonetti di Sigismondo Pandolfo Malatesti, a cura di A. Turchini, per nozze Ciccagnone–Marciano, Luisè, Rimini 1983. Il componimento di Carlo Valturio è compreso tra Le rime del codice Isoldiano, a cura di L. Frati, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1913, vol. I, pp. 136–41; i sonetti del Galli in A. Galli, Canzoniere, ed. critica a cura di G. Nonni, Accademia Raffaello, Urbino 1987, pp. 360–3 (nn. 265–7). A questi autori dedicò particolare attenzione Massèra nel suo I poeti isottèi (cit., vol. 57, pp. 2–21; vol. 92, pp. 1–15), cui va il merito di aver datato i testi, ma anche la responsabilità dell’inadeguata etichetta petrarchistica. 13. Sulla poetica del Galli, e i suoi rapporti col Malatesta, devo rimandare ancora al mio « La fonte d’ogni eloquenzia ». Il Canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Bulzoni, Roma 2002, pp. 180–6, 224–33.

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già nel 1448 autore di rime dedicate all’amata (e di cui questa appare infatti orgogliosa nell’Isottaeus),14 e contestualmente committente del magnifico sepolcro a lei destinato. Un mito forse funzionale, nelle sue rime, solo a rassicurare la fanciulla circa la solidità del suo amore, che neppure la morte di lei avrebbe mai spento; ma poi ripreso dai poeti come soluzione preziosa a contrastare il pessimismo del signore, per prospettare a lui e a Isotta un felice e glorioso destino ultraterreno. Che da una radice scettica nascesse l’invenzione di quel mito, è provato proprio dalle rime di Sigismondo: uno dei pochi cantori della fanciulla a non chiamarla mai né diva, né divina, né dea. Anzi, mentre l’amata è ancora in vita (in testi composti dunque prima del 1449, anno, si è detto, della morte immaginaria di Isotta), egli già teme di perderla in una dimensione oltremondana quanto mai oscura (6, 10–13): [se] sazïar non possa del bel volto e senza lui el viver me sia male, ahi!, quanto adunque me sarebbe grave, di là staendo, e che ’l me fosse tolto!

Quando poi lamenta la morte di lei, il suo dolore è inconsolabile, irreparabile (8, 7–8): Destin crudel et angoscioso e forte, ch’hai fatto l’alma al tutto disperata!

Davvero minimi i motivi di speranza (6, 14 e 7, 14): Ma pur io spero in Quel che tutto vale; Qualche conforto tu che ’l ciel adorni;

tanto più che di Dio l’autore non percepisce che un’incomprensibile ostilità (9, 9–11): Perché fortuna rea o destin forte m’ha giudicato e privo de la Grazia ch’ognun possede dal divin Motore? 14. Il Liber Isottaeus si legge tra Le poesie liriche di Basinio (Isottaeus, Cyris, Carmina varia), a cura di F. Ferri, Chiantore–Loescher, Torino 1925, pp. 1–74; l’episodio s’incontra nell’ep. I 6, 46 (« factaque sum celebris carmine sola suo », p. 11).

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Anche la visione di lei in sogno non è che fonte di angoscia (10, 1–2): Datime posso o mei pensier amari, dogliosi sogni, o visïon fallace;

e persino il grandioso sepolcro allestitole in San Francesco non gli appare che una rozza prigione (7, 9–10): Splendido lume et o mia donna cara, renchiusa fra questi aspri e marmi duri.15

Tali sentimenti furono certo lusinghieri per Isotta, ma non direi propriamente consolanti; d’altra parte, a rincuorarla in modi più ordinari si mossero presto in molti, a partire da Tito Strozzi, autore di un’epistola elegiaca in cui la voce dello stesso Malatesta la confortava della morte del padre: proprio l’intuizione che Basinio da Parma avrebbe genialmente sviluppato nel Liber Isottaeus. Nell’epistola strozziana, Sigismondo assicura la fanciulla (cui era rimasto ormai solo un fratello) che in lui avrebbe trovato per sempre la sua nuova famiglia; e con argomenti anche filosofici, citando Pitagora e Anassagora, cerca di trasmettere a Isotta non solo una dignitosa rassegnazione di fronte al destino mortale degli uomini, ma anche (piuttosto rapidamente) la speranza in una vita ultraterrena del padre.16 In quello stesso 1448, e nella stessa direzione, un contributo non meno significativo giungeva dal maggior poeta al momento presente a corte, il già citato Giusto da Valmontone. Pur senza rivolgersi né al signore né alla sua amata, ma riferendosi alla propria passata esperienza sentimentale, il Conti da una parte, con un pregevole ternario (Se con l’ale amorose del pensero), introdusse a Rimini i concetti platonici del potere conoscitivo dell’amore, e della sua azione propulsiva nell’ascesa di un’anima che aspiri alla mistica visione dell’iperurania realtà delle idee; dall’altra, affermò apertamente in un sonetto la tesi della continuità dell’amore oltre la morte, prospettiva che il Liber Isottaeus ben attesta quanto importante per Isotta (II, 1–2): 15. Nell’edizione Isotta bella (cit.) i testi non sono numerati; i passi citati figurano, rispettivamente, alle pp. 14, 18, 14, 15, 19, 20, 15. 16. Cfr. T.V. Strozzi, Poesie latine tratte dall’Aldina e confrontate coi codici, a cura di A. Della Guardia, Modena, Blondi e Parmeggiani, 1916, el. III 4, pp. 69–74. Basinio avrebbe in seguito inserito nel Liber Isottaeus, II 9, una puntuale riscrittura di questa epistola strozziana.

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Io dico che, congiunti al Summo Amore, amar l’un l’altro poi non sol ne lice, anzi è necessità che a quel ne accende: ché l’alma, sciolta da l’uman errore, tanto più sente quanto è più felice, e tanto ha più d’amor quanto più incende.17

Tanto meno ci stupiremo allora di ritrovare questi stessi interrogativi, associati ad analoghe risposte, a costituire il nucleo ispiratore del capolavoro che più apertamente, e poeticamente, seppe interpretare i tormenti intellettuali del circolo malatestiano: il Liber Isottaeus di quel Basinio da Parma che, giunto a Rimini sullo scorcio del 1449, esordì nella sua nuova patria proprio componendo un epitaffio in morte del Conti, appena venuto a mancare.18

5.3. L’invenzione del romanzo epistolare (elegiaco) Considero l’Isottaeus, composto da Basinio da Parma tra il 1449 e il ’51, ma narrante avvenimenti riferiti agli anni 1445–49, un capolavoro letterario tra i maggiori del Rinascimento italiano.19 La grandezza di questo testo, il primo romanzo epistolare (in versi) d’Europa, risiede non solo nella sensibilità con cui i drammatici momenti della vicenda narrata sono ordinati e intrecciati, ma, soprattutto, nell’autenticità psicologica con cui i protagonisti si confrontano con le difficoltà dell’amore e col mistero della morte: di fronte ai quali, rifuggendo ogni cortigiana idealizzazione, il testo li presenta assolutamente disarmati. Strutturalmente, il Liber Isottaeus non ha precedenti: ben poco rilievo ha il rapporto di dipendenza dalle Eroidi ovidiane, tanto spesso affermato. Il più forte punto in comune è certo rappresentato dalla fin17. Sia il ternario (150) che il sonetto (149, di cui ho riportato i vv. 9–14) si trovano ampiamente analizzati nel mio L’amoroso messer, cit., pp. 150–74: a tali studi rimando per la collocazione dei due testi negli anni riminesi dell’autore, nonché per la loro numerazione. 18. L’Epitaphium d. Justi de Valmontone de Comitibus utriusque iuris doctoris si legge in Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 106. 19. Al punto da aver già iniziato a lavorare a una edizione tradotta e commentata dell’opera; sulla quale, da ricordare D. Coppini, Basinio e Sigismondo: committenza collaborativa e snaturamento epico dell’elegia, in Città e corte nell’Italia di Piero della Francesca. Atti del Convegno internazionale di studi (Urbino, 4–7 ottobre 1992), a cura di C. Cieri Via, Marsilio, Venezia 1996, pp. 449–67.

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zione della corrispondenza poetica, in realtà opera di un unico autore, che si fa però portavoce in questo caso di ben quattro personaggi, e dei loro diversi punti di vista: anche se, come vedremo, nell’Isottaeus il poeta ha un proprio alter ego, alle cui epistole affida la propria visione ideologica. L’importanza che in quest’opera assume l’aspetto strutturale, rigorosamente organizzato in tre libri di dieci lettere ciascuno (con parallelismo degno di un Boiardo), esige in questa sede la presentazione di un suo riassuntivo prospetto. Libro I 1 Sigismondo P. Malatesta saluta la divina Isotta « Inter abenda deas » è la tredicenne Isotta per Sigismondo, che sul finire del 1445 così la saluta da Roma, dove è venuto per conferire con papa Eugenio IV intorno alle operazioni contro lo Sforza nella Marca. Tuttavia, la sua mente è sempre vicina all’amata, che egli vede dovunque. Roma è una città straordinaria, ma né le sue rovine, né le sue donne possono distrarlo dal ricordo di Isotta. Perfino il ruolo di condottiero egli può affrontarlo volentieri, solo se vale a farlo apprezzare da lei, da cui spera « longos amores » e « perpetuam fidem ». 2 Isotta da Rimini saluta il suo re e dio Sigismondo P. Malatesta La lettera di Isotta porta i segni del suo pianto continuo, che cesserà solo col rientro del principe. Il loro amore era appena nato, quando la sua partenza improvvisa le ha perfino impedito di salutarlo. Vedendola sconvolta, suo padre le ha chiesto cosa avesse, ed ella, arrossendo, ha accusato un male del corpo per nascondere quello dell’animo. Ora non sta curando la propria bellezza: come potrebbe farlo, mentre l’amato è lontano, e rischia ogni giorno la vita in battaglia? Isotta lo prega di non continuare a sacrificarsi per glorie altrui; o almeno di guidare le milizie stando lontano dal campo di guerra. 3 Il Poeta alla divina Isotta da Rimini Il Poeta di corte sostiene che se Isotta soffre per amore, si deve al fatto che Amore si insedia solo in animi nobili. Del resto, 142

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dono della natura benigna è stato per lei l’incontro col glorioso Sigismondo, senza il quale non avrebbe trovato amante degno di lei. Egli le è congiunto di identico amore; il Poeta la esorta perciò a restargli fedele, nessuno in Italia ne è più meritevole: serio e dolce d’aspetto, di famiglia gloriosa, valoroso in battaglia. Trascorrano i due, tra lunghi amori, anni felici. 4 Isotta da Rimini saluta Sigismondo P. Malatesta Ancora ragioni di pianto per Isotta: di nuovo l’Italia è sconvolta dalla guerra. È il dicembre del 1446, e Sigismondo è inviato in Lombardia ad aiutare il Visconti in guerra contro Venezia. Egli andrà dunque senza di lei in lontane città? Isotta vorrebbe essere presente ai suoi trionfi; ma se ciò fosse impossibile, ella raccomanda almeno all’amato di restarle fedele. Isotta è ben certa che, in quelle terre, molte belle donne saranno attratte da Sigismondo, che però avvisa: se si vedesse sostituita da un’altra, ella certamente morirebbe. 5 Il Poeta saluta i principi Sigismondo P. Malatesta e la divina Isotta Il Poeta si rivolge con una sola lettera a entrambi i signori, in quanto ormai essi devono intendersi congiunti da amore fedele sotto ogni riguardo. Egli sostiene che non desidera investigare le nascoste cause della natura, né sapere quale speranza di vita vi sia dopo la morte, quanto conoscere come ebbe inizio il loro reciproco amore. 6 Isotta da Rimini saluta il Poeta Isotta riceve la lettera del Poeta mentre passeggia nei nuovi giardini realizzati da Sigismondo, e risponde per prima. Fin da bambina, già orfana di madre, aveva il principe nel suo cuore; ben presto cominciò ad ornarsi col solo fine di piacergli. Il fiero aspetto di Sigismondo mentre cavalcava o giostrava la traviò, e attrasse più del giusto i suoi occhi; ma di lui la seducevano anche il valore e la gloria. Accortosene, egli, maligno, favorì il propagarsi della peste amorosa, che ormai li lega per sempre. Certo, da lui ella ha molto ricevuto: il principe l’ha eternata 143

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nei suoi versi, ha fatto ritrarre in medaglie il suo volto, le ha perfino già eretto un vuoto sepolcro, per tramandarne la fama. 7 Sigismondo P. Malatesta al Poeta Ciò che Sigismondo sta per dire è noto a tutti, comunque lo ripete volentieri. Isotta lo indusse ad amarla con i suoi costumi divini, fin da quando era bambina, e mostrava occhi dolci ma casti. Già allora egli stabilì di voler vivere con lei; e la sua speranza si realizzò quando ella, cresciuta, accettò il suo amore. Ora è il principe in debito con lei: da un lato, perché mentre numerosi sono i potenti suoi pari, la bellezza di Isotta è unica, in Italia; dall’altro, perché l’amore per lei l’ha spinto a dedicarsi non più solo alla guerra, ma anche alla poesia e alle arti. 8 Il Poeta saluta la divina Isotta da Rimini Rivolgendosi all’illustre dea, gloria d’Italia, unica delizia del suo principe, il Poeta le promette che non sopporterà che la gloria di Isotta resti limitata ai confini di Rimini, ma farà in modo di equipararla a quella delle antiche eroine elegiache. Le medaglie a lei dedicate sono splendide, certo, ma un’immagine non può trasmettere ai posteri animo e costumi di lei; a questo provvederà il suo Poeta. Così raffigurata e cantata, Isotta deve dunque vivere sicura del proprio destino. 9 Sigismondo P. Malatesta saluta la divina Isotta da Rimini Sigismondo è di nuovo sul campo di battaglia, all’inizio del 1447, al servizio di re Alfonso d’Aragona. Egli apre la sua lettera riferendo un proprio incubo, nel quale Isotta gli era apparsa sofferente e malata, in atto di chiedergli aiuto. Svegliatosi di soprassalto, sul far dell’alba riceve da un messo la notizia che l’amata è in pericolo di vita, preda di febbri violente. Angosciato, impossibilitato a tornare in patria, Sigismondo non può che inviare la lettera a farle visita, per esserle vicina ed esortarla a recuperare in ogni modo la salute perduta. 144

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10 Isotta da Rimini saluta il suo re e dio Sigismondo P. Malatesta Isotta narra che la lettera dell’amato le era giunta dopo una giornata di febbre violenta. Appena capito da chi le giungeva quella carta, l’aveva coperta di baci, le era parso di udire la sua voce, vedere il suo volto, ricevere il suo abbraccio. L’effetto fu immediato, e Isotta si levò dal letto. Il maggior motivo di sofferenza per lei, infatti, non è il timore della propria morte, ma di perdere l’amore di Sigismondo, la cui presenza le manca. Isotta tornerà dunque a curarsi, ma recupererà la salute solo al ritorno dell’amato. Libro II 1 Isotta da Rimini saluta il Poeta Isotta confida al Poeta di veder scorrere la propria giovinezza, senza essere capace di mutare i suoi costumi; evidentemente, soggiacere ad Amore è il suo destino, stabilito dallo stesso Padre celeste, e non se ne duole. Altro ha da chiedere al Poeta, ispirato (in quanto tale) da una mente divina: c’è vita o solo buio oltre la morte? E se una vita persiste, si conserva anche la ragione? Nel suo caso, potrà restare congiunta al suo principe? Altrimenti, non resta che trascorrere tra lunghi amori anni felici, fino al termine del tempo concesso. 2 Il Poeta saluta la divina Isotta da Rimini Pur dicendosi inadeguato a trattare i temi sottopostigli da Isotta, il Poeta non si sottrarrà alla sua richiesta. In primo luogo, egli ritiene che l’anima non si identifichi con alcun organo del corpo, sicché non è materiale; e poiché essa è origine del proprio movimento, non può avere né inizio né fine. Virgilio poi ci dimostra, contro Pitagora, che essa conserva il ricordo della vita terrena. Dunque, l’amore tra Isotta e Sigismondo si protrarrà anche oltre la morte. 3 Isotta da Rimini saluta suo Padre 145

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Isotta si rivolge con affetto al Padre, ma anche con speranza e timore, visto ciò che deve confessargli. Sì, ella è stata l’ennesima conquista di Amore, che, apparsole, le ha elencato molte sue mitiche vittime, e poi l’ha trafitta. Come avrebbe potuto difendersi? Isotta giura di aver tentato in ogni modo di liberarsi dal giogo amoroso, ma invano. Il suo principe regna nel profondo del suo animo, e condivide il suo amore. Perciò, se il Padre accetterà questo rapporto, Isotta sarà la fanciulla più felice d’Italia; se invece continuerà ad opporsi, non riuscirà ad infrangere il loro amore, ma solo a turbare il suo animo. 4 Dissuasione da Amore del Padre di Isotta, alla figlia Il Padre di Isotta rimprovera la figlia adorata di averlo ingiustamente sollecitato a compiacerla nei suoi comportamenti colpevoli; e la invita a correggere il suo errore, invece che giustificare costumi perversi. Né ella deve credere che ciò che considera amore le sia stato imposto dal fato o dagli astri: si tratta sempre di scelte condotte con libero arbitrio. L’Amore che Isotta descrive è un dio inventato, allo scopo di mascherare l’oscena libidine e giustificare il peccato. Isotta lasci questi affanni: la via ai buoni costumi non è mai tardiva. Se poi ne è a tal punto schiava da non saper più riconoscere la propria colpa, tenga presente che mille occhi e mille lingue la indagano. Almeno, resti fedele al suo principe, se desidera conservarne l’amore. 5 Isotta da Rimini saluta il re e divino Sigismondo P. Malatesta Isotta deve ormai ritenere felice ogni donna capace di evitare le seduzioni di Amore. Se anch’ella lo fosse stata, non subirebbe ora le chiacchiere del volgo, né rimpiangerebbe il pudore e l’onore perduti. Oltre che da tante eroine del mito, anche da lei le fanciulle impareranno a non fidarsi degli amanti. Quante volte Sigismondo le ha giurato fedeltà eterna! E invece ora i suoi abbracci li riceve Alba, un’altra ragazza di Rimini, che lo accompagna dovunque. Isotta ammette, certo, di non essere degna del principe; ma rivendica di non essere in nulla inferiore ad Alba. Intanto, però, ella morirà di dolore, ma ciò che più le dispiace è che con lei morirà anche il figlio di Sigismondo 146

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che porta nel grembo: povero bimbo, perché deve pagare le colpe della madre? Alla quale non resta che chiedere pietà al suo signore. 6 Il Poeta al divino Sigismondo P. Malatesta Il Poeta, mosso da pietà, partecipa al dolore di Sigismondo. Certo, il figlio di Isotta (il piccolo Giovanni, nato il 22 maggio 1447) era prole ben degna della madre, e lo sarebbe stato anche del padre; è giusto piangerne la morte. Ma ormai, il Poeta prega il suo principe di non bagnare più di lacrime il sepolcro. Se infatti (come egli crede) il piccolo conserva una qualche sensibilità nell’oltretomba, i gemiti del padre lo addolorano. La sua vita, sciolta dal carcere corporeo, è stata accolta dagli dèi celesti; lì essa gioisce di una pace eterna, assistita dal fratello di Sigismondo, Galeotto Roberto. 7 Sigismondo P. Malatesta ad Amore Sigismondo lamenta il rinnovato dominio esercitato su di lui da Amore crudele. Tutte le creature, per quanto spossate, trovano poi il momento del riposo: quando mai l’improbo Amore lo lascerà libero? Egli si era diretto a Cesena, sperando col distacco di liberarsi dal giogo amoroso: tutto inutile, Amore anche lì lo aveva trafitto. A Cesena, il 13 giugno 1447, si celebrava il matrimonio tra suo fratello Malatesta Novello e Violante di Montefeltro. Erano presenti centinaia di fanciulle, e la sua mente tornò all’improvviso alla sua cara Isotta, in Italia ineguagliabile per bellezza e onestà; al suo ricordo, Sigismondo si accinge volentieri a tornare al servizio di Amore. 8 Sigismondo P. Malatesta saluta la divina Isotta Sigismondo si rivolge commosso a uno smeraldo, donatogli da Isotta. Quella pietra aveva avuto il privilegio di ondeggiare sul suo seno, e di cadere sulle mammelle di neve: quale orgoglio averlo ricevuto in dono! Peccato che essa non possa parlare, gli riferirebbe ciò che ora fa la sua vita. Sta forse leggendo? O desidera forse, proprio ora, vederlo? Perché neppure quella 147

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pietra stupenda può competere con la bellezza di Isotta, il cui dono Sigismondo saprà ben ricambiare, dedicandole animo, mente, corpo. 9 Sigismondo P. Malatesta saluta la divina Isotta Sigismondo, non trovando parole adatte di persona, scrive ora all’amata per consolarla della morte del Padre. Isotta smetta, egli la prega, di piangere e graffiarsi il volto, disperata. Segua l’esempio di tutte le eroine del mito che riconobbero nell’amato la loro nuova famiglia. Il Padre di Isotta ha avuto una vita non breve, evitando solo i patimenti della vecchiaia. Ora egli, dalla sua nuova sede celeste, certo si vanta della figlia divina. Perciò ella rinunci al suo continuo dolore, si volga con affetto all’amante, che farà di lei la più illustre tra le donne. 10 Isotta da Rimini al divino Sigismondo P. Malatesta Isotta ha ricevuto conforto dalla lettera di Sigismondo, ma ai suoi esempi può contrapporne molti altri di mitiche donne che ritrovarono la pace tornando in famiglia. Ella, oltretutto, non ha neppure accanto Sigismondo, che non la vuole vicina nel campo militare: eppure, tante celebri mogli seguirono in guerra i mariti, ed Isotta saprebbe ben confortare l’amato alla fine degli scontri: questo sì potrebbe farle dimenticare il dolore per la morte del Padre. Ma poiché egli è lontano, questa le è sempre davanti, e ad Isotta non resta che lamentarsi con gli dèi, che le negano entrambi. Se nulla cambierà, ella presto seguirà suo Padre; solo Sigismondo può evitarlo. Libro III 1 Isotta da Rimini saluta il divino Sigismondo P. Malatesta È tornata la primavera (del 1448), e con lei il risveglio della natura: solo Isotta ne resta estranea, a causa del suo pianto continuo. Di nuovo, infatti, Sigismondo è dovuto partire in battaglia, questa volta al servizio di Firenze, contro Alfonso d’Aragona; non lo hanno commosso, mentre allestiva l’esercito, 148

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né l’amore né l’aspetto distrutto di Isotta. Forse egli sperava ch’ella si fosse abituata a questi distacchi, frequenti fin dal ’42, per le missioni nella Marca contro lo Sforza e il Piccinino, poi a difesa di F.M. Visconti contro Venezia. Pare che nessuna guerra si possa tenere senza il Malatesta, e Isotta gli ripete il suo desiderio di potergli stare vicino, sul fronte militare, e comunque gli rinnova l’invito a non esporsi a eccessivi pericoli. 2 Il Poeta scrive al divino Sigismondo P. Malatesta Il Poeta chiede a Calliope perché mai ancora taccia le imprese militari di Sigismondo, che nel settembre 1448 ha respinto dai confini d’Italia barbari nemici (gli Aragonesi di Alfonso). Tutti i grandi guerrieri hanno avuto i loro cantori: il Poeta celebrerà la difesa di Firenze compiuta dal Malatesta. Prima della battaglia gli sarà certo tornata in mente l’amata, e avrà combattuto anche per lei. Memore dell’italica gloria, già vincitrice dei Galli e di Annibale, sferra il suo attacco, uccidendo subito diversi nemici; intanto Venere e Marte lo incitano, la prima ricordandogli Isotta, il secondo la gloria paterna. Turbato, il re nemico si rifugia sulla flotta e si ritira, lasciando molti prigionieri. 3 Sigismondo P. saluta il suo Poeta Le lodi del Poeta sono giunte gradite a Sigismondo, che però lo rimprovera di inviargli raramente suoi scritti, di cui invece ha bisogno per combattere il tedio. Scriva dunque il Poeta: la sua arte ha sempre avuto (come nel mito) effetti miracolosi, ed egli la ritiene dono divino. Ha scritto il vero il Poeta, rappresentando i suoi pensieri sulla patria e sull’amata: egli non avrebbe conseguito la vittoria senza la sua luce. Quando pensa ad Isotta, mentre combatte, è come se fosse richiamato dagli inferi. Perciò scriva il Poeta, gli invii dolci canti che gli sollevino l’animo; e lo distraggano dal timore di poterla perdere. 4 Sigismondo P. Malatesta saluta la divina Isotta Sigismondo narra ad Isotta che gli era sembrato, tornato vittorioso a Firenze, di vedere proprio lei, affacciata a una finestra, 149

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bellissima. Subito egli si era rattristato, perché quell’equivoco gli aveva mostrato quanto desiderasse che Isotta assistesse al suo trionfo. In tal modo, di fronte ai tanti onori ricevuti rimase distratto, perché voleva esser certo che quella fanciulla non fosse lei. Considerò allora che a nulla valgono i trionfi, se si rischia di perdere l’amata: la gloria giova forse alle ossa, dopo la morte? L’unica origine del sommo bene è l’amore. Solo uno stolto può ritenere glorioso morire in battaglia: Sigismondo esorta ora a vivere intensamente ogni istante della vita che fugge. Non c’è nessun piacere nelle sedi infernali, nel corpo defunto cessa ogni amore; ricongiungersi con Isotta è, ora, il suo primo pensiero. 5 Isotta a Sigismondo P. Malatesta La lettera di Sigismondo ha molto confortato Isotta. Naturalmente, anch’ella avrebbe voluto essere presente al suo trionfo, che le è stato descritto davvero grandioso. Nel frattempo, a Rimini è stato eretto in onore del signore un tempio di marmo (il Tempio Malatestiano), che trasmetterà ai posteri la sua immagine. La sola cosa temuta da Isotta è che un’altra fanciulla le sottragga l’amato: ella preferirebbe le pene dell’inferno. Certo, ha fiducia nella sua fedeltà, ma lo esorta a tornare in patria, se ha un po’ cura di lei disperata. 6 Isotta da Rimini saluta il divino Sigismondo P. Malatesta Isotta esorta la sua lettera, annunciatrice di morte, a raggiungere il suo re, impegnato in cruente battaglie; per riferirgli ch’ella è gravemente malata. Sigismondo piangerà, sapendo che le restano pochi giorni: ma lo invita ad affrettarsi a raggiungerla prima che muoia, chissà che la sola sua vista non la guarisca. Una preghiera deve comunque rivolgergli: dopo la morte di lei, non si volga Sigismondo all’amore di un’altra; al contrario, adorni e visiti spesso il sepolcro di marmo che le ha già edificato: se una qualche sensibilità il corpo conserva oltre la morte, e se lui continuerà ad amarla, ella diverrà una dèa, onorata da tutti i popoli. Ma ecco, non può più parlare: le tenebre velano il misero capo nel buio mortale. 150

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7 Sigismondo P. saluta il Poeta Sigismondo afferma di non avere più interesse per la vita, se viene privato della persona più amata; perciò incita il Poeta ad affrettarsi a raggiungere Isotta, per esortarla a resistere contro la morte, come può colei che vince tutte le dèe. Egli può solo pregare perché il viaggio del Poeta sia veloce: forse Isotta guarirà, se lui giunge in tempo. Purtroppo, in quei primi mesi del 1449, impegnato nell’assedio di Crema per conto di Venezia, Sigismondo non può muoversi, costretto a una guerra resa più dura dal freddo e dalle piogge invernali. Ma se Isotta dovesse morire, egli non sarebbe in grado di continuare la lotta; il Poeta eviti di riferirgli una tale sventura a parole, che egli non potrebbe leggere: si limiti a inviargli una lettera fissata con cera nera. 8 Il Poeta scrive al divino e suo re Sigismondo P. Malatesta Il Poeta annuncia a Sigismondo, con la nera lettera, la morte di Isotta: in tal modo, se preferisce, il principe non ha bisogno di leggerla. Comunque, il Poeta era riuscito a giungere prima che Isotta morisse; e le parole dell’amato sembrarono confortarla. Poi però, dopo un breve silenzio, ella innalzò un lamento contro la crudeltà degli dèi, che troppo giovane la toglievano all’amore del principe. Tutti i presenti piangevano: quando spirò, non sembrava né morta né viva. Ora ella riposa tra i nivei marmi del suo sepolcro all’interno del Tempio. Ogni via di Rimini risuona di pianti, anche gli animali gemono; si scatenarono forti temporali, quando ella fu portata alla tomba. 9 Sigismondo P. Malatesta saluta il divino Poeta Sigismondo non si esprimerà con arte: il dolore emette tristi parole; egli non avrà più giorni lieti, cerca luoghi selvaggi e inospitali, evita la presenza umana. Spesso si volge al marmoreo sepolcro di Isotta, sperando di poterne carpire la voce; ma il silenzio assoluto lo spinge lontano. Egli prega Venere e Amore di liberarlo da quel dolore, ma così grande è il suo bisogno d’incontrare l’ombra di Isotta, che ha deciso di ricorrere a formule magiche; e continuerà per tutta la vita, finché la ritroverà. 151

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Intanto, monti e sassi risuonano dei suoi lamenti, e quando egli avrà pietre ed erbe magiche, aprirà il sepolcro di Isotta, per evocarne lo spettro. Ma infine, egli rinuncia a credere nelle arti magiche; preferisce far rivivere il ricordo di Isotta, non pallida ma nella sua piena bellezza, ammirandone il ritratto di bronzo. 10 Il Poeta scrive a Sigismondo P. Malatesta Il Poeta è rimasto allibito, leggendo l’epistola di Sigismondo. Proprio il suo principe, capace di imprese gloriose e di scrivere versi di grande eleganza, come può sentire il disgusto della vita civile? Egli intanto spesso chiede al poeta se, e come, potrà ritrovare la sua Isotta. Il Poeta risponderà ricorrendo al pensiero di Platone, per il quale le anime si reincarnano in nuovi corpi mortali; ma anche all’autorità di Omero: se Patroclo è apparso ad Achille, vuol dire che l’incontro tra vivi e defunti è possibile. Lo conferma Virgilio: se Creusa apparve ad Enea, anche Isotta potrà apparire all’amato. Sia adesso ella dea, o anima santa del cielo, certamente lo verrà a consolare, e a guidarlo tra i nemici. Perciò non servono lacrime, ma preghiere: invocata, ella gli concederà grandi doni. Intanto, Sigismondo continui a proteggere l’Italia dai suoi barbari nemici; e quando anch’egli salirà in cielo, una nuova età dell’oro fiorirà sulla terra. Credo che l’ampio riassunto abbia evidenziato come, con Basinio da Parma, il genere della corrispondenza poetica raggiungesse una straordinaria capacità di rappresentare caratteri complessi, e la loro umanissima sensibilità. Ciò che infatti rende affascinante quest’opera è il fatto che i due protagonisti, Sigismondo e Isotta, non condividono affatto l’ottimismo esistenziale del loro Poeta. Letto nella loro prospettiva, l’Isottaeus appare certo una vicenda d’amore, ma soprattutto di solitudine e morte.20 Sigismondo soffre i continui distacchi dall’amata, dicendosi condottiero non per scelta ma per destino familiare (I 1); è presto afflitto da incubi e presentimenti angosciosi della malattia e 20. Già E. Garin citava i versi esemplari: « Corpore frigida mors moribunda per ossa soluto / regnat, at in gelido pectore fervet amor » (III 6, 69–70), per rilevare che in essi « amore e morte si intrecciano in immagini ricercate, di un’insistenza voluta » (La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. III, Il Quattrocento e l’Ariosto, Garzanti,Milano 1966, p. 288).

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morte di Isotta (I 9); deve piangere la morte del primo bambino avuto dall’amata, il piccolo Giovanni (II 6); subisce impotente la morte di Isotta, consumatasi in sua assenza per i soliti impegni militari (III 7); non trovando alcun conforto nel mirabile sepolcro che pure le aveva allestito, fugge dagli uomini e si abbandona ad arti magiche, pur di ritrovare lo spettro di Isotta (III 9); né sappiamo se la citata consolatio del Poeta lo abbia sollevato davvero. Ancora più infelice Isotta: spesso sola, e angosciata dai pericoli cui l’amato va incontro (I 2), è presto soggetta a malattie (I 10); sente sfiorire la sua giovinezza in una condizione socialmente imbarazzante, ma non ha una fede che la conforti, e cerca una speranza d’eterno nelle parole del Poeta (II 1); preoccupata del giudizio di suo padre, gli chiede comprensione e perdono (II 3): ma il Padre, demistificando il tentativo della figlia di assegnare a disegni fatali e divini la propria passione amorosa, si limita ad accettare, senza approvarlo, il fatto compiuto (II 4); Isotta poi deve subire i tradimenti di Sigismondo, e nella sua disperazione avverte che perderà il bambino che ha in grembo, vittima innocente delle colpe materne (II 5); e in effetti lo perderà (nella trama dell’opera come nella realtà), dopo pochi giorni di vita (II 6); deve inoltre piangere la morte del Padre (II 9); e ben poco confortata dal sepolcro allestitole (III 6), muore assolutamente disperata, imprecando contro gli dèi crudeli che giovanissima la strappano all’amore del principe (III 8). Uno scenario tristissimo, cui solo il Poeta cerca di dare, con ogni argomento, prospettive e significati positivi; uno scenario, si noti, dovuto essenzialmente a ragioni interne alla logica del racconto, in quanto spesso privo di riscontri reali, biografici. L’autore, infatti, oltre a far culminare la narrazione in un evento tanto drammatico quanto fantastico, ossia la giovanile morte di Isotta, si guarda bene anche dal riferire la documentata disponibilità del Malatesta ad accogliere la fanciulla al suo seguito, in alcune spedizioni militari, per limitare i frequenti distacchi; interviene liberamente sulla cronologia degli eventi, anticipandoli o posticipandoli secondo utilità narrativa; gestisce con grande abilità lo sviluppo degli episodi, introducendo ma lasciando senza risposta le lettere più spinose (come quella in cui Isotta deplora il tradimento dell’amato), e assegnando alla voce del Poeta non solo considerazioni celebrative o ideologiche, ma anche delicati passaggi narrativi, quale il compito di consolare Sigismondo della morte del piccolo Giovanni (II 6), o di descrivere gli ultimi istanti di vita di Isotta (III 8). 153

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5.4. Contro l’angoscia della morte: risposte filosofiche Un’opera come il Liber Isottaeus si apre a molte prospettive di lettura. Ricollegandomi al tema che fin dall’inizio ho presentato come il nodo centrale della cultura malatestiana, ossia la riflessione sul destino dell’anima umana, e sul valore che si può riconoscere all’amore e alla gloria di fronte alla morte, mi sembra imprescindibile, come primo approfondimento, ripartire dal pessimismo esistenziale esibito nell’Isottaeus dai due protagonisti, che il Poeta è ripetutamente chiamato a smentire con argomenti filosofici. Argomenti che nel racconto non appaiono pienamente convincere né Sigismondo né Isotta, ma in cui certo è da riconoscere il pensiero di Basinio, nonché, dati i riscontri già offerti, l’orientamento generale della cultura riminese. In tal senso, particolarmente eloquente si presenta lo scambio epistolare che apre il II libro. Il bisogno di indicazioni convincenti è espresso con chiarezza, da Isotta: Dimmi, suvvìa, della nostra morte che pensi? Dal corpo liberi, dopo le tristi esequie viviamo? O privi di luce tra tenebre opache siamo gettati, e, ormai nulla, del tutto tacciono l’ombra ed il corpo? E se in un altro mondo mandati viviamo di nuovo, la mente stessa ci resta che prima avemmo?21

E il Poeta non si sottrae: In primo luogo, dissento da quanti pensano il cuore sia l’anima, o che nel cervello essa si trovi; o da quanti ritennero fosse la massa di sangue cosparsa intorno al cuore, o che non esista per nulla. Se infatti corporea è l’anima, o sangue nei pressi del cuore, versatosi il sangue, essa sarebbe annientata. Se nulla essa fosse, perché ogni anno incensi sì tanti ai sepolti? Perché tante illustri esequie vediamo? Se quanti usciron di vita fossero morti del tutto, 21. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 19, II 1, 41–6, (solo di quest’opera propongo direttamente la traduzione, in versione provvisoria, che sto approntando per l’accennata edizione in corso d’opera): « Dic age, de nostra quid sentis morte? Soluti / corpore post tristes vivimus exequias? / Lumine vel cassi tenebris iactamur opacis / iam nihil et penitus corpus et umbra tacent? / Atque alium missi rursus si vivimus orbem, / mensne eadem nobis quae fuit ante manet? ».

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si farebbero invano grazie e preghiere; mai si sarebbero dati alla morte, spontaneamente, i valorosi che caddero per la loro patria.22

Di fatto, questi versi riproducono in poesia alcuni dei concetti enunciati da Cicerone nel primo libro delle Tusculanae disputationes: ove la teoria secondo cui la sede del sangue e della vita (cioè il cuore) sarebbe anche la sede del pensare e del volere (cioè l’anima), sicché lo spargimento del sangue con la morte comporterebbe anche la fine del pensiero e quindi dell’anima, è puntualmente assegnata ad Empedocle; mentre, tra coloro che indicano come sede di quest’ultima (o della sua « parte direttiva ») il cervello, viene in particolar modo ricordato Platone, che nel Timeo aveva posto appunto nella mente la parte razionale dell’anima, relegando quella irascibile e concupiscibile, rispettivamente, al di sopra e al di sotto del diaframma.23 Influenzato probabilmente dalla speculazione cristiana, Basinio solo sotto tale aspetto (v. 20) si discosta dalla dottrina platonica, laddove certamente sulla sua scia si pone nel difendere con forza la tesi dell’incorporeità dell’anima. Quando poi il Poeta s’impegnerà anche a dimostrarne l’immortalità, l’opzione platonica e la mediazione ciceroniana risulteranno ulteriormente confermate: Ciò che si muove da sé, mai ne perde la forza: ugualmente esso mai prima conoscerà il suo principio. L’animo da solo si muove, e senza che nulla lo spinga; 22. Cfr. ivi, p. 20, II 2, 19–30: « In primis igitur non his assentio, qui cor / esse animum, cerebro qui vel inesse putant; / sanguinis aut fusam circa praecordia massam, / aut animum penitus qui statuere nihil. / Nam si corporeus, penes aut praecordia sanguis / est animus, fuso sanguine nullus erit. / Si nihil, unde igitur tot humatis thura quotannis? / Unde tot illustres cernimus exequias? / Si penitus qui iam vita excessere perissent, / incassumne preces et benefacta forent; / magnanimi nunquam morti se sponte dedissent / hi qui pro patria iam cecidere sua ». Fonti: 20 « inesse putant »: Ovidio, Ep. ex Pon., IV 1, 20. 23 « praecordia sanguis »: Virgilio, Aen., X 452; Georg., II 484; Lucano, II 557; Stazio, Theb., II 669. 24 « fuso sanguine »: Virgilio, Aen., XII 690–91. 27 « qui . . . excessere »: Cicerone, Tusc., I 13, 29; I 41, 98; Brutus, 262. 30 « qui pro . . . cecidere »: Quintiliano, Inst. or., II 15, 29. 23. « Quid sit porro ipse animus aut ubi aut unde, magna dissensio est. Aliis cor ipsum animus videtur [. . . ]. Empedocles animum esse censet cordi suffusum sanguinem; aliis pars quaedam cerebri visa est animi principatum tenere; aliis nec cor ipsum placet nec cerebri quandam partem esse animum, sed alii in corde, alii in cerebro dixerunt animi esse sedem et locum [. . . ]. Eius doctor Plato triplicem finxit animum, cuius principatum, id est rationem, in capite sicut in arce posuit, et duas partes parere voluit, iram et cupiditatem, quas locis disclusis, iram in pectore, cupiditatem supter praecordia, locavit » (Cicerone, Tusc., I 9, 18–19; X 20).

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e come mai ebbe inizio, così sarà eterno. Appena la mole del corpo agli animi è tutta levata, senza fine a mio avviso vivono questi. Se poi la ragione agli animi sciolti rimanga in mesto legame, sì com’io credo, a pochi fu dato spiegare. Nel carme suo aonio, canta Virgilio come Sicheo della sposa gli affanni ricambi e pareggi. Dunque dopo la morte siamo qualcosa, e viviamo della prima vita memori sempre, ovunque saremo. Che l’anime bevan gli oblii della fonte Letea ch’entrino in nuove apparenze, chi crederebbe? Mai di questo il maestro Pitagora può persuadermi, sebbene il suo nome nel mondo sia tra gli esimi. Non volle Dio che essenze divine, dalla sede celeste discese, relegate fossero tra esseri bruti. Sia dunque che tardi, sia che prima la morte funesta ti afferri, per sempre il tuo re adorerai.24

La prova dell’immortalità dell’anima basata sul suo essere principio di movimento, così come il motivo della discesa delle anime dalla sede celeste (evidente riferimento al mito della biga alata), risale notoriamente all’ormai diffuso Fedro platonico (245 c–e, 246 a–d); a Basinio peraltro, come provano i riscontri lessicali, tali argomenti giunsero 24. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., pp. 20–1, II 2, 35–54: « Quodque agitur per se, se nunquam deserit; ut quod / principium nunquam noverit ante suum. / Se movet hic per se nulloque agitante movetur; / coepit et ut nunquam sicque perennis erit. / Corporis ut moles animis est omnis adempta, / iuditio vivunt hi sine fine meo. / Mensne eadem maneat tristi compage solutis, / ut reor, est paucis explicuisse datum. / Respondere canit curasque aequare Sichaeum / coniugis Aonio carmine Virgilius. / Ergo aliquid post fata sumus, vitaeque prioris, / quisquis habet, memores vivimus usque, locus. / Nam potare animas Lethaei oblivia fontis, / in formas demum quis putet ire novas? / Non mihi Pythagoras hoc unquam suaserit auctor, / sit licet in raris nomen in orbe suum. / Divinos animos caelesti ab sede profectos / communes brutis no luit esse Deus. / Sive igitur sero, seu te prius atra capessant / fata, coles regem tempus in omne tuum ». Fonti: 35 « Quodque agitur . . . deserit »: Cicerone, Tusc., I 23, 53; De re pub., VI 27; Macrobio, Comm. in Somn. Scip., II 13, 1; II 15, 18. 37 « se movet hic per se »: Macrobio, Comm. in Somn. Scip., II 14, 10; II 15, 1 – 16, 26. « nulloque agitante movetur »: Ovidio, Met., XV 552. 38 « perennis erit »: Ovidio, Am., I 10, 61; Her., XIV 67. 39. « corporis moles »: Silio Italico, V 436; XIV 529. « omnis adempta »: Valerio Flacco, VI 282; Tito Livio, XXXVIII 30, 6; XXXIX 2, 4. 41 « compage solutis »: Lucano, I 72; Persio, III 58. 43–44. « respondere . . . coniugis »: Virgilio, Aen., VI 473–4. 47 « potare animas oblivia »: Silio Italico, XIII 851. « Lethaei oblivia fontis »: Silio Italico, XIII 554–5. 49 « Pythagoras auctor »: Cicerone, Tusc., IV 1, 2. 50. « nomen in orbe »: Ovidio, Ars am., II 739; Her., XV 25. 51 « caelesti sede »: Ovidio, Met., IV 447. « ab sede profectos »: Virgilio, Aen., VII 209 e 251. 52 « esse Deus »: Ovidio, Am., III 3, 42. 53–54 « capessant fata »: Valerio Flacco, I 768. 54 « tempus . . . tuum »: Ovidio, Her., XII 77.

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anch’essi attraverso la mediazione di Cicerone (e del suo commentatore Macrobio), le cui citazioni e traduzioni delle teorie platoniche contenute nel De re publica e nelle Tusculanae disputationes sono quasi letteralmente trasposte in versi dal parmense.25 Si tratta, com’è chiaro, di posizioni seguite con riserva, con il rifiuto di quella metempsicosi ad oltranza che Basinio giustamente fa risalire a Pitagora, ma che sappiamo essere stata recepita da Platone, e rigorosamente ribadita da Gemisto Pletone (in chiave anticristiana).26 Il dato potrà intendersi come segno di un approccio indipendente alle sollecitazioni ellenizzanti di quest’ultimo, con una maggiore attenzione conciliativa nei confronti della religione; ma bisognerà anche tener conto del fatto che al personaggio del Poeta, nella situazione data, sta a cuore provare a Isotta non solo che l’anima è immortale, ma anche che essa conserva un legame con la « ragione », in modo che il vincolo sentimentale con Sigismondo resti vivo oltre la morte; e, di fronte a un tale obiettivo, l’autorità di un grande poeta (Virgilio) può ben prevalere su quella del più stimato tra i filosofi, tanto più se si terrà conto dell’ispirazione divina che la stessa tradizione platonica riconosceva ai poeti.27 25. Cfr. Tusc., I 22, 53; 23, 53–55, ove è tradotto il passo del Fedro che qui ci interessa (245 c–e: cfr. Platone, Dialoghi politici. Lettere, vol. I, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1988, pp. 176–7), già inserito in De re publica, VI 27–28 (Somnium Scipionis, 8–9): « sed si qualis sit animus ipse animus nesciet, dic quaeso: ne esse quidem se sciet, ne moveri quidem se? Ex quo illa ratio nata est Platonis, quae a Socrate est in Phaedro explicata, a me autem posita est in sexto libro de re publica. “Quod semper movetur, aeternum est; quod autem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliunde, quando finem habet motus, vivendi finem habeat necesse est. Solum igitur quod se ipsum movet, quia numquam deseritur a se, numquam ne moveri quidem desinit; quin etiam ceteris quae meventur hic fons, hoc principium est movendi. Principi autem nulla est origo; nam e principio oriuntur omnia, ipsum autem nulla ex re alia nasci posset; nec enim esset id principium, quod gigneretur aliunde. Quod si numquam oritur, ne occidit quidem umquam [. . . ]. Cum pateat igitur aeternum id esse quod se ipsum moveat, quis est qui hanc naturam animis esse tributam neget?” ». 26. L’idea che le anime bevano alla fonte Letea per dimenticare la vita precedente prima di trasmigrare in un nuovo corpo è uno dei contenuti del mito di Er, narrato nella Repubblica di Platone (X 621a: cfr. Platone, Dialoghi politici, cit., p. 716). Per la fedeltà di Gemisto a questa prospettiva di infinite reincarnazioni, cfr. Masai, Pléthon, cit., pp. 263–9. Non si dovrà comunque trascurare che, nella stessa tradizione neoplatonica, ampio credito aveva riscosso una interpretazione allegorica della teoria della metempsicosi; sicché quando Platone, ad esempio, parla della migrazione dell’anima di un uomo in un asino, egli intenderebbe semplicemente alludere a un peggioramento etico dell’uomo, e non all’ingresso vero e proprio della sua anima in un corpo bestiale (così Porfirio e Giamblico, III–IV sec. d.C.). 27. Inutile ricordare che, se nella Repubblica Platone condanna l’arte come allontanamento dal vero, sia nel Fedro che nello Ione ne sostiene l’ispirazione divina, ancorché comunicata in forme intuitive e non razionali. In tal senso, la sacralità profetica della poesia sarebbe stata affermata da Cicerone (Pro Archia, VIII 18–19), e ribadita da Leonardo Bruni, proprio sulla

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Platone, del resto, viene esplicitamente citato dal Poeta anche nell’epistola conclusiva dell’Isottaeus (III 10), in cui egli dimostra a Sigismondo, disperato per la morte di Isotta, che non ha perduto la sua amata per sempre: Spesso mi chiedi persino se penso possa accadere che tu sia in grado di ritrovar la tua Isotta. Su grandi argomenti t’interroghi, non però da tacersi, ma degni, principe, d’un socratico ingegno. Io esporrò le grandi dottrine del sacro Platone, che con greche parole mi hanno insegnato. Egli ritiene che andranno di nuovo in corpo mortale le anime, del loro tempo compiutosi il giro; e ugualmente i campi Elisi rivedono dopo la morte, e da un facimento eterno sono trainate.28

Non sarà un caso che in questi versi, concentrandosi l’attenzione sulla possibilità di ritrovare un caro defunto (e non anche di figurarsi un’eterna stabilità di rapporti), la teoria pitagorica e platonica della metempsicosi sia ricordata senza obiezioni. Anche qui, tuttavia, le prove di una concreta attuazione di quella possibilità vengono esclusivamente dedotte da opere poetiche, di cui le più grandi (Iliade ed Eneide) di nuovo evidentemente interpretate come frutto d’ispirazione divina: Il Menetiade stesso, se al grande Omero tu credi, già morto giunse davanti ai piedi di Achille, e al fedele Eacide chiese che l’ossa sue candide a Ftìa portasse, quindi si allontanò. Ugualmente se la tua cara fanciulla parlarti desidera, forse può presentarsi davanti al tuo volto. E fu davanti agli occhi di Enea lo spirito triste di Creusa, finché fuggì dalle mani agitate. base del Fedro platonico, in una già ricordata lettera del 1429 (vedi cap. iv) al poeta Giovanni Marrasio (edita in J. Marrasii Angelinetum et carmina varia, a cura di G. Resta, Centro di studi filologici e linguistici italiani, Palermo 1976, pp. 144–8). 28. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., pp. 72–3, III 10, 27–36: « Quin etiam rogitas, fieri si posse putemus, / Isottam valeas ut reperire tuam. / Magna quidem, princeps, sed non reticenda requiris, / digna sed ingenio talia Socratico. / Ipse tamen referam sacri divina Platonis / plurima, quae Graiis me docuere sonis. / Ille putat rursus mortale in corpus ituras / esse animas pleno temporis orbe sui. / Nec minus Elysios post fata revisere campos / rursus et aeterna conditione trahi ». Fonti: 27 « posse putemus »: Catullo, 97, 11. 29 « magna quidem sed non »: Ovidio, Her., XVI 19. 34 « temporis orbe »: Virgilio, Aen., VI 745.

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Non dubitare perciò che a te possa ella tornare, e con la sua dolce voce lenire i tuoi affanni.29

Sulla futura epifania di Isotta, lasciata aperta a tutte le soluzioni (positive) prospettate dai filosofi e dalle religioni, tornerò tra breve. Per ora mi permetto di ribadire l’importanza dei versi appena letti: i quali, se del capolavoro basiniano non sono i più belli, ne rappresentano comunque, almeno nelle intenzioni, il cuore ideologico. 5.5. Contro l’angoscia della morte: un mito letterario Nonostante la drammaticità della vicenda e la fragilità dei due protagonisti, l’Isottaeus è contestualmente anche l’opera che inaugura l’uso sistematico dell’appellativo divus per Sigismondo e diva per Isotta, la quale è infinite volte anche paragonata alle altre deae; perfino il Poeta è chiamato da Isotta divus (I 6, 6), anche perché, platonicamente, ella gli attribuisce l’ispirazione divina propria dei vati.30 Ebbene, al di là della funzione encomiastica e cortese dell’uso, la trama stessa dell’Isottaeus ci suggerisce come anche tale apparente contraddizione fosse effetto dell’impegno degli intellettuali di corte di offrire ai prìncipi le ragioni e la percezione della superiorità dell’uomo sulla morte; e questo non solo sul piano della fama che eternerà le imprese di Sigismondo e 29. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 73, III 10, 27-36: « Ipse Menoetiades, magno si crederis Homero, / venit Achilleos mortuus ante pedes / candidaque ossa sui Phtiae portaret ad urbem / fidus ut Aeacides iussit et inde fugit. / Sic te si affari cupiat tua cara puella, / forte potest vultus ante venire tuos. / Aeneaeque fuit simulacrum triste Creusae / ante oculos, trepidas dum fugit illa manus. / Quare ne dubites illam tibi posse reverti / et curas dulci voce levare tuas » (III 10, 27–36). Fonti: 43–6: Omero, Il., XXIII 65–92. 43 « Ipse Menoetiades »: Ovidio, Her., III 23. « si crederis Homero »: Cicerone, De divin., II 63. 45 « candidaque ossa »: Ligdamo in Tibullo. III 2, 9. 47 « cara puella »: Properzio, II 8, 1. 48 « vultus ante tuos »: Ovidio, Her., XVI 31; XX 71. 49 « simulacrum . . . Creusae »: Virgilio, Aen., II 772. 50 « trepidas illa manus »: Ovidio, Am., II 2, 6. 51 « posse reverti »: Ovidio, Met., X 452. 30. Escludendo le formulari occorrenze nei titoli delle epistole, riguardo ad Isotta cfr., ad es.: « purpureas inter habenda deas » (I 1, 2); « ausa es te tanto credere, diva, duci » (I 3, 34); « inclyta diva, Italis decus et nova gloria rebus » (I 8, 1); « at quoniam sic, diva, iubes » (II 2, 15); « aeternas vincat ut illa deas » (II 8, 12); « fidus ero, mihi fida precor sis, diva » (II 8, 47); « te divam terris liquit pater optimus » (II 9, 91); « perlege, diva, novis irrita vota iocis » (III 4, 2); « respondere iocis incipe, diva, meis » (III 4, 94). Riguardo a Sigismondo: « desine, dive, tuis aliena reposcere sceptra » (I 2, 71); « tu iuditium de me tam, dive, benignum » (I 10, 29); « quove iram merui crimine, dive, tuam? » (II 5, 76); « quamquam, dive, tuas cupio qui demere curas » (II 6, 1); « hoc demum tantis restabat, dive, periclis » (III 1, 105); « triumphales, dive benigne, novas » (III 5, 38). Riguardo infine al Poeta: « dive poeta » (I 6, 6).

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la bellezza di Isotta, quanto soprattutto su quello della natura divina dell’anima umana: in particolare dell’anima capace, nella vita terrena, di promuovere il bene di una collettività. Dimostrare infatti filosoficamente ai signori la natura spirituale e immortale dell’anima umana, non faceva ancora di loro degli esseri eccezionali, in un rapporto privilegiato con la divinità, e in qualche modo partecipi di essa. Il Poeta, soprattutto interessato all’essenza divina di Isotta, compie tale passo in due fondamentali momenti. In primo luogo nell’epistola III 8, quando ne descrive la morte, seguita, come già quella della Beatrice dantesca (e di Cristo), da eventi apocalittici: Ogni via è piena di pianti e di tristi ululati, e n’echeggia la terra e il suolo di marmo [. . . ]; e gli uccelli coi becchi battono i petti dolenti, e in acque gelide, pesci, vi siete nascosti. Che dirò di animali provvisti di sentimenti più fini? Gli elementi esprimono il duolo in modi inauditi. Quando per esser portata alla tomba fu la fanciulla levata, tuonò, e il grande Giove gemette; temporali impetuosi accorrono con nubi infrante, e la nera terra si colma d’acque nerastre. Il sole afflitto oscurano in tenebre nuvole vuote, versò il niveo avorio lacrime a gocce.31

Quindi nell’epistola III 10, quando ne prefigura un ruolo protettivo, dai cieli, nei confronti di Sigismondo, lasciando nel dubbio se in qualità di dea, o di anima beata secondo la dottrina cristiana: E verrà Isotta, adorna dei suoi raffinati capelli, fanciulla elegante qual era nel tuo principato; o resa già dea, ti guiderà tra nemici sconvolti, e, a un fulmine pari, terrà cavalli focosi [. . . ]. Qualunque cosa sarà (né certo all’ombre infernali s’unirà), sia dea o del cielo anima santa, ella non ti soffrirà piangente e gemente; inviata 31. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 68, III 8, 81–2, 85–94: « Omnis plena via est planctu miseroque ululatu, / consonat et tellus marmoreumque solum [. . . ]; / et volucres rostris moerentia pectora tundunt / et gelidis, pisces, delituistis aquis. / Quid referam sensus animalia nacta sagaces? / Moerorem miris dant elementa modis. / Nanque ubi sublata est portanda ad busta puella, / intonat et magnus Iupiter ingemuit; / praecipitesque ruunt elisis nubibus imbres / atraque ceruleis terra repletur aquis. / In tenebras solem afflictum cava nubila condunt / et niveum guttis collacrymavit ebur ».

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da luoghi celesti verrà la fanciulla. Non servono lacrime; incalza gli dèi pietosi con giuste preghiere, piega con doni le potenze divine [. . . ]. Invocala, si piegherà volentieri a preghiere affettuose: ti concederà, implorata, grandi richieste.32

Il destino di Isotta, del resto, non è che prefigurazione di quello di Sigismondo, la cui morte e ascesa al cielo coinciderà addirittura con l’avvento di una nuova età dell’oro: Quando poi agli assi stellati del cielo t’innalzerai, e ti chiamerà la gran corte del firmamento, nascerà in tutto il mondo un secondo popolo d’oro, e i fiumi saranno ancora di candido latte.33

Non dovrebbero esserci più dubbi, a questo punto, sull’inadeguatezza della categoria di un esasperato petrarchismo a spiegare l’invenzione della morte giovanile di Isotta, da considerarsi al contrario come la condizione narrativa necessaria per sviluppare una seria e profonda riflessione sulla morte, analoga a quella che il Tempio malatestiano, in quegli stessi anni, andava progressivamente simboleggiando in architetture ed immagini. E si trattava di una riflessione aspra, difficile, come prova l’incapacità dei protagonisti dell’Isottaeus di vivere pienamente i rassicuranti insegnamenti del Poeta. In effetti, non sappiamo in che misura l’azione degli intellettuali di corte abbia avuto successo, nel vincere le paure di Isotta e lo scetticismo del Malatesta: per certi versi ne ebbe sin troppo, avvicinando il signore, 32. Cfr. ivi, pp. 73–4, III 10, 57–60, 62–8, 69–70: « Et veniet cultos Isotta ornata capillos, / qualis erat regno culta puella tuo. / Aut te turbatos ducet dea facta per hostes / et reget ardentes fulminis instar equos [. . . ]. / Quicquid erit (neque enim Stygiis miscebitur umbris), / seu dea, seu caeli spiritus almus erit, / non te plorantem, non te feret illa gementem; / sed veniet superis missa puella locis. / Non lacrymis opus est; precibus pia numina iustis / prosequere et magnos munere vince deos [. . . ]. / Illam posce, libens precibus flectetur amicis: / exorata dabit magna petita tibi ». Fonti: 57 « cultos ornata capillos »: Ovidio, Fasti, IV 309; Met., XI 382. 58 « culta puella »: Properzio, I 2, 25; Tibullo, I 9, 73; Ovidio, Am., III 7, 1. 59 « dea facta »: Ovidio, Fasti, III 677. 60 « fulminis instar »: Ovidio, Ars am., III 481. 61 « miscebitur umbris »: Properzio, III 5, 15. 66 « superis locis »: Properzio, II 28, 50. « puella locis »: Ovidio, Ars am., I 50–1, 142. 33. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 74, III 10, 83-6: « Post ubi sidereos caeli conscenderis axes / teque vocet lati regia magna poli, / aurea nascetur toto gens altera mundo / atque iterum nivei flumina lactis erunt ». Fonti: 83 « sidereos caeli axes »: Claudiano, De raptu Pros., II pref., 35. 85 « aurea . . . mundo »: Virgilio, Buc., IV 9. 86 « flumina lactis »: Ovidio, Met., I 111.

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anche oltre le loro intenzioni, a prospettive filosofiche piuttosto che religiose. Certo è che la letteratura isottea più encomiastica, quella in cui la giovane assurge a figura mitica, dea in terra attesa da un futuro immortale, è tutta posteriore non tanto alla morte di Polissena Sforza (1449), quanto proprio alla prima diffusione del Liber di Basinio (1451); ed è in questa fase che sul sepolcro (vuoto) di Isotta fu apposta la seconda, più audace iscrizione. Di quella vasta produzione, per il suo carattere epistolare, non si può qui trascurare (benché assai mediocre) la sola altra opera costruita mediante assemblaggio di corrispondenze elegiache, ossia il De amore Iovis in Isottam del napoletano Porcelio Pandoni, attivo a Rimini tra il 1453 e il ’55. Il curioso intreccio di questa sorta di “catena” di lettere, messa in moto dall’infatuazione di Giove per Isotta e dal conseguente proposito del dio di sedurla prima e poi di rapirla, si chiude (al termine di un succedersi di corrispondenze tra le maggiori divinità dell’Olimpo), grazie alla mediazione degli altri dèi, con la salvezza dell’amore tra Sigismondo e Isotta, la quale sarà di Giove solo dopo la morte.34 Proprio la celebrazione di questo amore, appassionato e fedele, è infatti uno dei due nuclei tematici del testo; l’altro è la metodica deificazione dei due personaggi, operata non solo facendoli interagire direttamente con le divinità pagane, ma anche mediante un’ossessiva aggettivazione, e la prefigurazione di un glorioso destino ultraterreno. Per Isotta, nella soluzione escogitata da Mercurio, si profila infatti una metamorfosi in astro: Integra fatales dum tendunt stamina Parcae, diva Sigismundo vivat Isotta duce [. . . ]. Atropos at postquam truncarit fila puellae, sit Iovis, ut voto gaudeat ille suo; et quoniam vixit servata lege pudica cum duce magnanimo, sit nova stella poli: et parte in quavis flectat vestigia magnus Iuppiter, ante oculos fulgeat illa suos.35 34. L’operetta, trasmessa da vari manoscritti, fu èdita insieme al Liber Isottaeus nella rara raccolta Trium poetarum elegantissimorum Porcelii, Basinii et Trebanii opuscula, Parigi, Simon de Colines, 1539; una guida alla lettura in Rossi Finamore, La letteratura isottea, cit., pp. 609–18. Sull’autore cfr. almeno F. Marletta, Per la biografia di Porcelio Pandoni (note e documenti), « La Rinascita », 3 (1940), pp. 842–81. 35. Epist. VIII, 121–2, 125–32 (trascrivo dal ms. della Bibl. Apostolica, Vaticano Latino

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Sigismondo invece sarà fatto dio, al seguito di Marte. Ma è sul destino di Isotta che il Pandoni costruisce un sistema, replicando le sue fantasie in vari altri testi: tutti inneggianti a questa « dea » superiore a Diana e Minerva in bellezza e pudore, capace di far rifiorire i prati col suo sorriso, e degna di affiancarsi al suo condottiero sul carro trionfale. Particolarmente eloquenti i finti epitaffi, in cui torna il motivo della metamorfosi astrale, ed Isotta assurge a benevola divinità (se non addirittura, dietro la maschera classica, a santa), dispensatrice di grazie: Quae fuit Ausonias inter celleberrima nymphas frigida sub gelido marmore Isotta iacet [. . . ]. Hanc complexa sinu superum regina deorum et sedet ante Iovem, sidere clara suo. Vos igitur, nymphae faciles matresque pudicae, spargite humum foliis et sacra tura date; et quoniam facilis audit pia vota precesque ponite natali munera larga die.36

Tale estrema divinizzazione di Isotta operata dal Porcelio, ovviamente, non rappresentava che un gioco encomiastico, privo di qualsiasi implicazione allegorico–speculativa. Probabilmente però essa seppe sollecitare a un analogo sviluppo del tema, ma con ben altra coscienza delle sue simboliche potenzialità, il solito Basinio da Parma, che ad esso tornò nell’Hesperis, il poema dei suoi due ultimi anni di vita (1455–57): opera rimasta incompiuta, con ricadute proprio nella contraddittoria gestione del personaggio di Isotta; ma che qui non si può trascurare, portando essa a compimento la trama simbolica della divinità isottea.37 1672, c. 18r): « Finché le Parche tendono intatti i fili fatali, / la divina Isotta viva sotto la guida di Sigismondo. / Ma dopo che Atropo avrà troncato i suoi fili, / sia di Giove, perché egli appaghi il suo desiderio; / e poiché ella visse pudica, rispettando l’impegno / col capitano glorioso, sia nuova stella del cielo: / e in qualsiasi parte volga i passi il grande / Giove, essa risplenda davanti ai suoi occhi ». 36. Ms. Vat. Lat. 1672, c. 30r: « Colei che fu la più celebre tra le ninfe d’Italia, / Isotta, giace fredda sotto il gelido marmo. / La regina degli dei celesti la stringe al suo seno; / siede davanti a Giove, splendente nel suo astro. / Voi dunque, ninfe arrendevoli e madri pudiche, / spargete la terra di foglie e sacri incensi offrite; / e poiché ella ascolta benevola pii voti e preghiere, / offrite doni generosi nel suo giorno natale ». 37. L’Hesperis si legge a stampa in Basini Parmensis, Opera praestantiora, cit., vol. I, pp. 1–288; ma cfr. soprattutto l. VIII 1–300, pp. 165–77. Sull’opera cfr. almeno V. Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano, vol. I, Zanichelli, Bologna 1921, pp. 287–93, 312–25; e G.

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I primi sei libri dell’Hesperis, ricordo, narrano le battaglie condotte nel 1448 dal Malatesta, stipendiato da Firenze, contro Alfonso d’Aragona: una vicenda che qui, come nell’Isottaeus, si trasforma nell’eroica difesa d’Italia compiuta da Sigismondo contro l’invasione dei « barbari » Aragonesi. In questa prima sezione l’unico accenno ad Isotta s’incontra nel sesto libro, durante il trionfo tributato da Firenze al condottiero: occasione in cui l’eroe indossa un mantello preziosamente intessuto dall’amata (VI 221–34). Tale digressione consente al poeta sia di accennare all’amore che già univa Isotta a Sigismondo, sia di includere nella trama dell’Hesperis (con una rapida retrospezione) il mito inventato dal Porcelio, dall’innamoramento di Giove fino alla decisione degli altri dèi di permettergli di avere per sé la fanciulla solo dopo la sua morte (VI 235–41). Tuttavia, nei libri successivi, non si darà più alcun cenno né dell’Isotta vivente, né della sua fine, e tantomeno della sua metamorfosi astrale. Al contrario, essa riappare in vesti divine tra il settimo e il nono libro, e sul piano cronologico il dato è abbastanza coerente: riferendosi infatti i libri dal decimo al tredicesimo a vicende degli anni 1452–53 (nuove vittorie contro gli Aragonesi, guidati ora da Ferrante), è chiaro che anche gli eventi narrati nei tre libri che ci interessano si collocano idealmente dopo quel 1449 che segnava per Basinio, sul piano letterario, la fine dell’esistenza terrena di Isotta. D’altra parte, questa figura divina che dice di aver ricevuto anche il nome di Isotta non fa altro cenno a una sua vita precedente o diversa, sicché non è dato comprendere che rapporto Basinio intendesse stabilire nel poema tra le due rappresentazioni, umana e divina, del suo personaggio. Non per questo la nuova apparizione di Isotta è meno interessante. Essa è preannunciata all’inizio del libro settimo, quando l’ombra di Pandolfo, il padre di Sigismondo, appare al figlio per esortarlo a raggiungere le Isole Fortunate (o Isole dei Beati, il Paradiso dell’orfismo e del neopitagorismo), la cui regina Psichèia, figlia di Zefiro, gli avrebbe indicato la via per sconfiggere definitivamente gli Aragonesi, e lo avrebbe anche accolto come amante (VII 12–24). Sigismondo allestisce subito una flotta, ma una tempesta la distrugge completamente, ed egli giunge sì a destinazione, ma solo, da naufrago. Egli tuttavia incontra sulla spiaggia una ninfa che così si presenta: Bottari, L’Ulisse di casa Malatesta. A proposito dell’“Hesperis”di Basinio Basini, in Ulisse da Omero a Pascal Quignard, a cura di A. Babbi e F. Zardini, Fiorini, Verona 2000, pp. 253–73.

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Venisti, mea lux, mea spes, mea sola voluptas, expectate animo iuvenum pulcherrime nostro, magnanime, heroum fortissime! Namque Deum te esse genus fateor [. . . ]. Non sum mortalis ego ipsa; vera fatebor enim, Zephyri Psycheia nymphe, quamque peti genitor mediis tibi iussit in umbris: Isotheam superi dixerunt nomine divam.38

Dunque, Basinio segue ora il Pandoni nel rappresentare direttamente Isotta come dea, ma su ben altro livello intellettuale: tutto, nella nuova Isotta, allegorizza la vita. Così il nome, tratto da un termine (psychèion) che Luciano, nella sua Vendita di vite all’incanto, attribuisce a Pitagora ad indicare gli esseri dotati di anima (quindi tutti gli animali, secondo la dottrina della metempsicosi).39 Psichèia è dunque per antonomasia colei che ha l’anima, il principio stesso della vita, e non a caso è figlia di Zefiro, il fecondatore vento primaverile. Tale connotazione, del resto, rappresenta un elemento di continuità con la protagonista dell’Isottaeus, in cui Isotta era colei che, col suo amore e il suo decesso, doveva provare allo scettico Sigismondo che la morte poteva essere vinta. Nell’Isottaeus, tuttavia, l’obiettivo era raggiunto solo nelle assicurazioni del Poeta; ora invece Psichèia incarna direttamente questa vittoria della vita. Una vita tutt’altro che puramente spirituale, anche nella nuova dimensione divina, visto che, attratta dall’eroe, ella non esita a donarglisi fisicamente (VIII 80–5). Analogamente, è Psichèia che ispira il processo di perpetue rinascite che rende eterna la famiglia di Zefiro (VIII 60–5); nella sua isola non esiste la morte (VIII 129–41); e quando Sigismondo le chiede cosa attenda lo spirito degli eroi dopo il distacco dal corpo, lei stessa, dopo avergli mostrato nel Tempio della Fama la rappresentazione delle sue gloriose imprese future (VIII 190–255), gli si offre come guida attraverso il regno dei morti. Vorrei sottolineare la serietà con cui Basinio tratta questo tema. 38. Basini Parmensis, Opera praestantiora, cit., p. 166, vol. I, l. VIII 27-30, 33-36: « Sei giunto, mia luce, mia speranza, mio solo piacere, / tu, il più bello dei giovani, dal mio animo atteso, / valoroso, tra gli eroi il più forte! In verità, ti confido / che sei stirpe di dèi [. . . ]. / Anch’io non sono mortale; / il vero ti confiderò infatti io, Psichèia, di Zefiro ninfa, / ossia colei che tuo padre tra le ombre ti ordinò di cercare: / i celesti mi chiamarono col nome d’Isotta divina ». 39. Cfr. Luciano, Dialoghi, a cura di V. Longo, Utet, Torino 1976: « Non mangio carne di animali [psychèion], ma tutto il resto, tranne le fave » (XIV [27] 6, pp. 504–5).

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Psichèia guida Sigismondo solo nelle sedi oltremondane poste sulla Terra, e raggiungibili dalla sua isola: un antinferno (assai simile al Limbo dantesco), quindi la sede che accoglie vittime di amori tragici, e infine i campi Elisi, in cui si premiano i poeti, i martiri della patria, i filosofi, gli esperti della vera religione, i condottieri (IX 1–175). Tra questi ultimi il Malatesta incontra il padre, il quale, oltre a ricostruirgli la storia di famiglia, gli mostra (a distanza) il Caos infernale, dove sono punite le anime dei dannati (IX 176–393); quindi Psichèia riconduce Sigismondo nella sua isola. Ella invece non lo guida nel Paradiso celeste, descritto in sogno al condottiero dal fratello Galeotto Roberto, già morto, e venerato a Rimini come un santo. Galeotto spiega infatti di non trovarsi col padre nei campi Elisi, ma nella via Lattea, dove sono premiati con una più immediata visione di Dio quanti si sono distinti per l’amore verso il Creatore e i poveri, o per aver coltivato la fede, la pietà, la misericordia: insomma, le virtù propriamente cristiane; e infatti Galeotto esorta Sigismondo a liberarsi dall’inganno delle caduche seduzioni terrene (VIII 299–355). Il dato sorprendente è che Psichèia ridimensiona molto le indicazioni di Galeotto: Ille Deum sedes habitat fruiturque Deorum concilio, et summis sese miratur in astris. Tu vero Italiam defendis, et hoste repulso pro patria cecidisse tua, si fata vocarint, non dubitas [. . . ]. Post, ubi sidereos caeli conscenderis orbes [. . . ], tum nosse licebit distent humanis quantum divina [. . . ]. Hic mortale nihil, nihil hic sua deterit aetas, immutatve situs, manet hic aeterna iuventus, omnibus unus amor magnum spectare Tonantem.40

In sostanza, Basinio approda al mito di una duplice forma di beatitudine eterna: una, superiore, cui solo le virtù cristiane possono 40. Basini Parmensis, Opera praestantiora, cit., p. 180, vol. I, l. VIII 367-83: « Egli abita le sedi degli dèi e gode della compagnia / degli dèi, e ammira se stesso sugli astri eccelsi. / Ma tu difendi l’Italia, e, respinto il nemico / non esiti a morire per la tua patria, se i fati / chiamassero [. . . ]. / Poi, quando sarai salito ai cerchi / stellati dei cieli [. . . ] / allora ti sarà dato conoscere / quanto le realtà divine distino dalle umane [. . . ]. / Qui nulla è mortale, qui per nulla la vita si consuma / o la corruzione la trasforma, qui una gioventù eterna permane, / in tutti è il solo desiderio di contemplare il Tonante ».

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condurre; l’altra conseguibile mediante meriti prettamente umani e terreni. Isotta, pur ricordando per taluni aspetti la Beatrice dantesca,41 non ne emula mai l’altezza spirituale, neppure nella nuova veste di dea: piuttosto, proprio alle dee pagane ella si assimila, per valori e desideri amorosi. Del resto, neppure il suo amato è paragonabile al pellegrino dantesco: il santo fratello Galeotto, perciò, non sarà il suo modello. Tale ruolo spettava ad Isotta, la quale però, donna divina (nell’Isottaeus) o dea della vita (nell’Hesperis), doveva agire sì come guida di perfezionamento morale nei confronti del signore di Rimini, ma lungo un percorso pienamente immerso nelle passioni terrene: un percorso che tuttavia, se orientato e votato alla strenua difesa della patria, era destinato, per la cultura malatestiana, a ricevere i meritati riconoscimenti anche oltre la morte.

5.6. Implicazioni etiche e suggestioni volgari I quattro personaggi del Liber Isottaeus, corrispondendo epistolarmente tra loro, costruiscono una vicenda sentimentale e drammatica, ma anche ricca di implicazioni etiche, in misura certamente sorprendente di fronte alla posizione pubblica e al potere dei due protagonisti; evidentemente, la trasfigurazione letteraria di cui essi sono oggetto consentì un ritratto autentico, non puramente celebrativo del colpevole rapporto d’amore. In tal senso, mentre (come detto) l’invenzione della morte giovanile di Isotta nacque certo con ben più ambiziosi obiettivi di una passiva adozione di suggestioni petrarchesche, queste ultime, come altre di provenienza volgare, non mancarono comunque di offrire importanti contributi all’universo morale dei personaggi. Torniamo ad esempio al passaggio (II 3) in cui Isotta chiede al Padre un assenso alla sua colpevole condizione, che le viene negato (II 4). Si potrà notare come, mentre il Poeta affronta i dubbi metafisici dei suoi signori con metodo conciliante, ricorrendo esclusivamente a teorie 41. Alla già indicata somiglianza degli effetti sulla natura prodotti dalla morte di entrambe, altre affinità si potrebbero aggiungere. Come infatti la morte di Beatrice è presentita, pianta (nella Vita nova) e poi superata (nella Commedia) dal ritorno della donna in veste di guida ultraterrena, così la morte di Isotta è presentita, pianta (nell’Isottaeus) e poi superata (nell’Hesperis) dal suo ritorno in vesti non più mortali, ma di ninfa, ugualmente coinvolta col ruolo di guida del protagonista, di lei innamorato, in un viaggio nel regno dei morti.

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filosofiche greco–latine (mai a testi sacri e religiosi), la lettera del Padre abbia tutt’altro tenore, sorprendentemente demistificante: Quell’Amore che armato di frecce descrivi, e che lodi artefice della tua rovina, e che stimi già vincitore di uomini e dei, credimi, è un dio per turpe interesse inventato: giacché l’oscena libidine, coi suoi misfatti indulgente, impose di avere il titolo falso di dio. La facoltà di peccare libera ai miseri apparve, se con un dio falso l’amore velava la colpa.42

Di fatto, a questo Padre sembra attribuito il ruolo dell’Agostino petrarchesco, mentre Isotta pare assumere su di sé tutte le contraddizioni di Francesco. Ella si dichiara vittima di un sentimento cui ha invano tentato di opporsi (II 3, 19–22); e rimpiange questa debolezza, che la rende « favola al popol tutto »: Non tormenterei, triste, coi versi le Muse, né sì loquace saresti su me, popolino. La mia vita non sarebbe esposta al termine estremo, né piangerei i danni del pudore perduto.43

Anche perché la ferita d’amore non si può nascondere (II 5, 45: « Hei mihi quam caecos male quis celaverit ignes! »). Perciò ad essa Isotta si abbandona, e ne soffre le pene, nel suo caso in primo luogo dovute ai frequenti distacchi dall’amato: sicché anch’ella sente di essere l’unica creatura a non gioire del ritorno della primavera: Tornano di primavera fiorita ormai i dolci tempi, con la liquida neve il candido inverno si scioglie. I campi germogliano tutti, gareggiano in getti le viti, ogni albero effonde le sue ricchezze [. . . ]. 42. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 27, II 4, 43–50: « Nam tu quem pharetris armatum scribis Amorem / cladis et auctorem quem canis esse tuae, / quem tu victorem iam rere hominumque deumque, / hunc turpi fictum crede favore deum. / Namque suo sceleri indulgens obscena libido / hunc falsi titulum iussit habere dei; / libera peccandi miseris sic visa potestas, / si falso tegeret numine crimen Amor ». 43. Cfr. ivi, p. 29, II 5, 7–10: « Non ego nunc tristis agitarem carmine Musas, / nec de me posses esse, popelle, loquax; / non mea vita foret supremo prodita fine, / nec quererer stratae damna pudicitiae ».

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Già delicati giacinti ogni fanciulla intrecciando a viole primaverili, ne dona al suo amante. Io sola gli uccelli e i tiepidi zefiri non ho avvertito, né la piacevole attesa di primavera.44

Moralmente vicina a Francesco in vita, Isotta assume invece qualche carattere di Laura (oltre che, come visto, di Beatrice) nella morte; una scomparsa prematura, come voleva in generale la tradizione romanza, che nonostante il suo livido colore non toglie bellezza al volto della fanciulla: così nel sogno premonitore di Sigismondo: ecco, mi sei sembrata star ritta, sciolti i capelli, triste, a stento levare i lividi occhi da terra, diversa, irriconoscibile Isotta; sebbene malata e pallida fossi, però, bella comunque;45

così nella testimonianza del Poeta a morte avvenuta: sebbene giungesse all’ora estrema, lo spirito emise suoni divini. Allora in tutto davvero il volto illividì poco a poco, sì come suole apparire il candido giorno se una nube lo vela.46 44. Cfr. ivi, p. 44, III 1, 1–4, 11–14: « Mollia floriferi redeunt iam tempora veris / solvitur et liquida candida bruma nive. / Pullulat omnis ager, certant in germina vites / effunditque suas quaelibet arbor opes [. . . ]. / Mollia iam violis nectens vaccinia vernes / donat amatori quaeque puella suo. / Sola ego non volucres sensi zephyrosque tepentes, / non gratam verni temporis ipsa moram ». Il concetto dell’inutilità di ogni difesa da Amore è diffusissimo; ad avvicinare in particolare il primo brano alle numerose occorrenze petrarchesche (cfr. Rvf, 23, 36–7; 65, 9; 179, 13–4; 241, 1–2) si aggiunge la connotazione negativa di tale azione, che si conferma nel secondo passo, chiaramente memore di Rvf, 1. Anche l’impossibilità di nascondere il fuoco d’amore è un luogo comune (cfr. Ovidio, Her., XVI 7; Met., IV 64), ma petrarchesca è la percezione sofferta di tale condizione (Rvf, 207, 66–7: « Chiusa fiamma è più ardente; et se pur cresce, / in alcun modo più non po’ celarsi »; e cfr. anche 195, 8). Il passo di Basinio, del resto, prosegue con il paragone tra la sofferenza di chi ama e quella della cerva che invano cerca di liberarsi della freccia del cacciatore: immagine virgiliana (Aen., IV 69–73), ma già introdotta in contesto lirico, come riferita all’io amante, proprio da Petrarca (Rvf, 209, 9). Quanto alla contrapposizione tra la gioia primaverile (ritratta soprattutto con le parole di Virgilio, Georg., II 328–31, oltre che di Lucrezio, Rer. nat., V 737–40) e lo stato d’animo di Isotta, proprio il contrasto è eminentemente petrarchesco (ovvio il rinvio a Rvf, 310). 45. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 15, I 9, 9–12: « ecce mihi visa es fusis astare capillis / livida vix tollens lumina tristis humo, / discolor et nulli credenda Isotta; sed aegra / et, quanvis esses pallida, pulchra tamen ». 46. Cfr. ivi, p. 29, III 8, 65–69: « Usque adeo extremam quamvis venisset ad horam / spiritus, ambrosios reddidit ille sonos. / Tum vero toto paulatim expalluit ore, / ut solet

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Ma l’apporto della tradizione volgare investe anche altri campi. A detta del Poeta, l’amore di Isotta è nato (stilnovisticamente) in virtù della nobiltà del suo animo: Se per caso da nuovi affanni è arso il tuo petto, così avviene per la natura del tuo animo. Infatti gli animi pigri ed inerti Amore malvagio rifiuta, e si congiunge a nobili menti;47

e immagini ormai tradizionali soccorrono l’autore nella descrizione degli effetti di Amore (« flammae », « ignes », « faces », « mollia vincula » che opprimono il collo, invocazioni di riposo dalla passione), al quale spesso i due amanti rivolgono lamenti e preghiere; contestualmente, l’immagine della nave in tempesta torna utile a Sigismondo per ritrarre la propria condizione (III 7, 11–12: « vade age, quandoquidem pelago iactamur amaro / velaque ceruleis sunt mea mersa vadis »), così come quella del rifugio in luoghi solitari (III 9, 15–16: « Ipse humana libens vito vestigia, quando / ipse velim vitae nescius esse meae »): situazioni come detto già classiche, ma che visibilmente si colorano della malinconia sentimentale del più recente modello.48 inducta candida nube dies, / mortua nec poterat, poterat nec viva videri ». L’apparizione in sogno ha un carattere lugubre derivato dalle ombre della classicità, ma la contrapposizione tra bellezza (perdurante in entrambe) e pallore (che colpisce l’immagine di Isotta, non quella di Laura) reca con sé l’allusione a Tr. mortis, I 165–72. Nella rievocazione del Poeta, parimenti, il carattere celestiale del distacco dello spirito di Isotta dal corpo richiama da vicino Tr. mortis I, 151–3 (« Lo spirto per partir di quel bel seno / con tutte sue virtuti in sé romito / fatto avea in quella parte il ciel sereno »); ed anche se « expalluit ore » e « inducta nube » sono sintagmi ovidiani (Met., IV 106, VI 602, I 263), ancora petrarchesco è il paragone tra l’impallidire del volto e l’azione di una nube, o della nebbia: « Quel vago impallidir che ’l dolce riso / d’un’amorosa nebbia ricoperse » (Rvf, 123, 1–2). 47. Cfr. Le poesie liriche di Basinio, cit., p. 5, I 3, 3-6: « Si tua forte novis uruntur pectora curis, / sic animi efficitur conditione tui. / Ignavos namque ille animos residesque repellit / improbus et claris mentibus haeret amor ». 48. Nel primo passo, se « haeret amor » è sintagma ovidiano (Met., III 395), il concetto è chiaramente guinizelliano e dantesco. Per le metafore amorose elencate, basti ricordare « collo adiecit vincula durus amor » (I 3, 2), memore di Rvf, 197, 3 (« et a me pose un dolce giogo al collo »), soprattutto se si ritrova la dolcezza di quel giogo nell’ep. II 1, 18 dell’Isottaeus (« Me piget aeternum mollia vincla pati »); e Sigismondo sembra ben ricordare Rvf, 73, 16–18 (« Nel cominciar credia / trovar parlando al mio ardente desire / qualche breve riposo et qualche triegua »), quando grida ad Amore: « At mihi quem fesso finem dabis, improbe, amandi, / quodve quiescendi, perfide, principium? » (II 7, 9–10). Nei due ultimi passi citati, infine, non può non aver agito la suggestione di Rvf, 189 e 35, anche se è stato notato come nel ricorso a temi classici rielaborati da Petrarca (in questo caso il « motivo di Bellerofonte »), Basinio tenda sempre a risalire alla fonte antica, esplicitamente citandola (« vito vestigia » viene infatti

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Tali elementi, naturalmente, andranno sempre interpretati all’interno di un sistema d’impianto classicistico neolatino: così, oltre ad assumere poeti e filosofi antichi come fonte di sapienza, l’opera nulla conserva, ad esempio, del problematico rapporto petrarchesco con l’aspirazione alla gloria, qui indiscussa dominatrice nell’agire di Sigismondo. Ciononostante, il Liber Isottaeus resta un ottimo esempio di come l’incontro tra l’universo morale della classicità e quello della poesia volgare aprisse vie preziose alla creazione di caratteri, e alla loro rappresentazione, di grande originalità e interesse.

direttamente dalla traduzione ciceroniana del passo omerico): al riguardo, cfr. R. Scarcia, “Bellerophonteo more”: una variazione poetica di Basinio Parmense, « Res publica litterarum », 6 (1983), pp. 319–35, a pp. 323–5.

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vi Gli autoritratti di Giovanni Della Casa

6.1. Il rovesciamento di una pubblica immagine, in presa diretta Nell’estate del 1532, quando il ventinovenne Della Casa ancora si disperdeva tra mille interessi (più o meno nobili), il suo compagno d’accademia Giovanni Mauro, dopo avergli burlescamente descritto le donne delle montagne sabine (suo soggiorno forzato per quella stagione), così contrapponeva la condizione dell’amico alla propria: ma voi vi trastullate in Roma giuso, con quei volti lucenti e rossi e bianchi che ’l mascararsi han tutto l’anno in uso, e vi diletta quel andar in Banchi, e mirar dal balcon quella Spagnola, la qual v’ha a noia più che ’l mal de’ fianchi. E spesso a voi medesmo Amor v’invola, benché voi lo negate, e non mi curo se dite che ne mento per la gola [. . . ]. Con questo io vo’ finire il mio lavoro, perché voi mi diceste l’altra volta che in quella cosa troppi versi foro; e questa temo non vi paia molta.1 1. Vv. 103–11 e 130–3 del Capitolo delle donne di montagna, ed. da S. Longhi in Poeti del Cinquecento (a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi), tomo I, Ricciardi, Milano–Napoli 2001, pp. 908–9; volume cui rinvio anche per la datazione dei testi (pp. 893–7, 1165). Prime indicazioni biobibliografiche sull’autore in L. Di Lenardo, Mauro (Giovanni Mauro) d’Arcano, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 72, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2008, pp. 390–2.

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Lo stesso Mauro, pochi mesi dopo, rappresentava con questi versi alcuni altri tratti della pubblica fisionomia del Casa, assieme a quella dell’inseparabile amico Gian Agostino Fanti: Vera coppia d’amici ai tempi nostri, messer Giovanni e messer Agostino, che fate ragionar dei fatti vostri, e consumate più olio che vino, come prudenti, per immortalarvi, come il gran Mantovano e quel d’Arpino, io quanto si convien vorrei lodarvi, ma più lode di quella che voi stessi vi date, non cred’io ch’uom possa darvi [. . . ]; mentre di legïoni e d’ali equestre, ch’empion tutta la Magna e l’Ongaria, parlate, e d’archi turchi e di balestre. E forse che la vostra fantasia col fresco si è rivolta a cose gravi, e in questo non s’accorda con la mia: ch’io fo pur col cervel cavalli e navi, il qual mi mena per lo mondo a spasso, come colui che non ha freno o chiavi; il vostro è saldo, e non farebbe un passo che la ragion non lo portasse in groppa, e pesa più che della Guglia il sasso.2

Il Casa ritratto dal Mauro è quindi, come ci dice il primo testo, un assiduo frequentatore di donnine (restio peraltro ad ammettere coinvolgimenti sentimentali), ma anche un lettore attento e severo, infastidito dalla prolissità; e ancora, come aggiunge il secondo, uno studioso ricco di ambizioni, incline all’autoincensamento, attento alla politica internazionale, razionalista in ogni sua valutazione. Circa venti anni dopo, pur nella mancanza d’ogni possibile secondo fine, vista l’ormai avvenuta emarginazione politica del nostro autore, così invece si rivolgerà al Casa Francesco Bolognetti (ma con accenti ancor più spirituali, come vedremo, Giacomo Marmitta, Anton Francesco Raineri e altri) in una sua satira: Casa di cortesia verace nido, 2. Poeti del Cinquecento, cit., pp. 911–3: cap. 7 del Mauro, spesso erroneamente intitolato Capitolo ii delle donne di montagna, vv. 1–9, 46–57.

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vi. gli autoritratti di giovanni della casa

o di prudentia, e di dottrina albergo, e d’ogni altra virtù ricetto fido, mentre con l’ali de la mente io m’ergo al vostro alto valor, qual è più saggio veggio venirvi a questa età da tergo, e voi nel corso aver sì gran vantaggio che a la perfettion già sète appresso, restando a gli altri ancor lungo viaggio. Quanto esser può di bene a l’uom concesso o di fortuna o d’animo, in voi, come eletto vaso a ciò, da Dio fu messo [. . . ]. E fate sì che il secol nostro oscuro chiaro per voi risplende, e da la frode e da l’invidia altrui gite sicuro. E quella ambition, che punge e rode gli umani cori, e i più feroci doma, e che sol di martir s’appaga e gode, fuggite voi, mentre lontan da Roma con riposo vi state, e con quiete, cinto di lauro e d’edera la chioma.3

L’arcivescovo fiorentino, in coincidenza con il suo ritiro a Nervesa, diventa dunque per i suoi ammiratori un modello di virtù, estraneo alle seduzioni del mondo e libero da ogni tormentosa ambizione: un uomo, sul piano etico (oltre che culturale), vicino alla perfezione. Il Casa non rispose a questi tre testi: probabilmente perché al loro contenuto non aveva nulla da replicare, ed anzi doveva guardare ad essi con compiacimento, nei rispettivi momenti. Tuttavia, nella trasformazione radicale del suo personaggio in sede letteraria (e in qualche misura nell’opinione dei suoi lettori), un ruolo fondamentale svolsero certamente le numerose missive poetiche da lui ricevute e inviate in 3. Sono i vv. 1–12, 43–51 della Satira 12, pubblicata da A. Corsaro in appendice a Giovanni Della Casa poeta comico. Intorno al testo e all’interpretazione dei “Capitoli”, in Per Giovanni Della Casa. Ricerche e contributi, a cura di G. Barbarisi e C. Berra, Cisalpino Ist. Editoriale, Milano 1997, pp. 123–78, a pp. 174–8. Sul Bolognetti (1510 ca.–1574), di cui ricordo le cariche amministrative ricoperte nella sua città (Bologna) e al tempo stesso la copiosa e dilettantesca attività letteraria (il cui frutto più noto fu il poema Costante), cfr. almeno: R. Ceserani, Bolognetti, Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 11, 1969, pp. 320–3; e A.N. Mancini, Politica e letteratura nelle “Filippiche” sul pericolo turco di Francesco Bolognetti, « Esperienze letterarie », 3–4 (2005), pp. 107–37. L’assenza di secondi fini negli omaggi ricevuti dal Casa nei suoi ultimi anni è aspetto rilevato a proposito di A.F. Raineri da G. Gorni: cfr. Un’ecatombe di rime. I « cento sonetti » di Antonfrancesco Raineri, « Versants. Revue suisse des littératures romanes », 15 (1989), pp. 135–52, a p. 141.

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quel volger di anni, data anche l’assenza di un’edizione a stampa, in vita, tanto delle sue liriche latine quanto di quelle volgari.4 Per questo, sebbene il percorso politico, esistenziale e lirico del Casa (dalla giovanile dissipazione all’ambiziosa attività pubblica, e poi al ritiro deluso degli ultimi anni, con il dichiarato stoico distacco da ogni onore e ricchezza) rappresenti materia notissima, mi è sembrato utile verificare quale rappresentazione abbiano trovato i mutevoli aspetti della personalità casiana proprio nei componimenti poetici, latini e volgari, suoi e dei suoi interlocutori, che per il loro carattere di corrispondenza dovettero confrontarsi col tema in presa diretta: prima, cioè, del loro inserimento in raccolte a stampa, ossia, almeno per quanto concerne le Rime, in una struttura macrotestuale che ne condizionasse la lettura secondo il percorso etico e psicologico ridefinito a posteriori dall’autore.5 4. Né un ruolo poté svolgere, in tal senso, la presenza di dieci suoi testi nel Libro quarto delle rime di diversi eccellentiss. autori nella lingua volgare, edito a Bologna da Anselmo Giaccarello nel 1551, a cura di E. Bottrigari: una raccolta comprendente sì la penitenziale canzone 47, ma incardinata sui galanti testi del periodo veneziano, e, come ha mostrato G. Tanturli (Una raccolta di rime di Giovanni Della Casa, « Studi di filologia italiana », 39, 1981, pp. 159–83), sul tema della capacità della poesia, nel confronto con la pittura, di « “trovare” e ritrarre il volto (vero e interiore) della donna » (p. 169). 5. L’esistenza di tale volontà macrostrutturale anche nella prima raccolta a stampa dei Carmina casiani (comprendente sedici testi dei trentadue oggi noti), ovvero l’edizione postuma Ioannis Casae Latina monimenta (Florentiae, in officina Iuntarum Bernardi filiorum, 1564), è stata sostenuta (non senza forzature, ma con spunti interessanti) da J. Van Sickle, Riscoprendo una sequenza poetica del cinquecento: Joannis Casae Carminum liber, « Res publica litterarum », 12 (1989), pp. 223–7 (ma cfr. le obiezioni di G. Parenti, I carmi latini, in Per Giovanni Della Casa, cit., pp. 207–40, a p. 232, nota 47). Per quanto concerne la raccolta delle Rime volgari, essa mostra invece tracce evidenti di una ricerca di collegamenti intertestuali e diegetici, che tuttavia non si direbbe giunta a totale compimento; il che, assieme ai dubbi lasciati aperti dall’uscita anche in tal caso postuma della princeps (Rime et prose, in Vinegia, per Nicolò Bevilacqua, 1558), ha dato origine a un consistente dibattito critico sul tema, per il quale cfr. almeno A. Sole, La lirica di Giovanni Della Casa (1977), in Id., Cognizione del reale e letteratura in Giovanni Della Casa, Bulzoni, Roma 1981, pp. 17–73; R. Fedi, I due canzonieri di G. Della Casa (1978), in Id., La memoria della poesia, Salerno, Roma 1990, pp. 201–49; S. Longhi, Il tutto e le parti nel sistema di un canzoniere (Giovanni Della Casa), « Strumenti critici », 13 (1979), pp. 265–300; G. Tanturli, Le ragioni del libro. Le rime di Giovanni Della Casa, « Studi di filologia italiana », 48 (1990), pp. 15–41, a pp. 26–32; S. Carrai, Il canzoniere di Giovanni Della Casa dal progetto dell’autore al rimaneggiamento dell’edizione postuma, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1996, pp. 471–98; G. Tanturli, Dai « Fragmenta » al Libro: il testo di inizio nelle rime del Casa e nella tradizione petrarchesca, in Per Giovanni Della Casa, cit., pp. 61–89, a pp. 79–89; S. Carrai, Ancora sull’edizione delle rime di Giovanni Della Casa, « Studi e problemi di critica testuale », n. 56 (1998), pp. 5–30; G. Tanturli, Testimonianze elaborative e stampa postuma delle rime di Giovanni Della Casa, « Studi di filologia italiana », 57 (1999), pp. 295–313; e infine, le Introduzioni e le Note al testo delle edizioni G. Della Casa, Le rime, ed. critica a cura di R. Fedi, Salerno, Roma 1978, t. I, pp. ix–xl; Id., Rime, a cura di G. Tanturli, Fondazione Bembo – Guanda, Parma 2001,

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6.2. Un giovane, dissoluto cultore di libri e di donne Ho detto che i ritratti offerti dal Mauro e dal Bolognetti, per le relative stagioni di vita, probabilmente non trovarono in disaccordo il diretto interessato: e le conferme non mancano, a partire dalla prima (e non breve) fase “scapigliata” del Casa, quella a cui si riferiscono i capitoli del Mauro, e che si può far concludere nel 1537, con l’assunzione dell’importante ufficio di Chierico della Camera apostolica.6 Questo periodo, com’è noto, è caratterizzato da intensi studi umanistici, condotti con inseparabili amici a Bologna, nel Mugello, a Padova; ma anche dalla dissoluta indolenza in cui il Casa cadde dopo il suo arrivo a Roma (a partire dal 1530) e l’adesione alla giocosa accademia dei Vignaioli. Una dissipazione che non gli impediva, peraltro, di conservare a distanza (in particolare tramite l’amico Cosimo Gheri, giovane vescovo di Fano e già suo compagno di studi a Padova) preziosi contatti con l’ammiratissimo Bembo: dalle cui lettere a Carlo Gualteruzzi si viene informati non solo sulla stima che il veneziano già nutriva nei suoi confronti, ma anche su aspetti dimenticati della sua biografia, come l’acquisizione della carica di « Maestro del piombo » nel 1530, e quella del titolo di « monsignore » (se l’edizione non erra) sin dal 1534.7 Anni pp. ix–l, 205–13; Id., Rime, a cura di S. Carrai, Einaudi, Torino 2003, pp. xi–xxxvii. 6. Seguirò una periodizzazione della vicenda umana e lirica del Casa più articolata di quella, impostata su tre fondamentali momenti (1530–45, 1545–49, 1549–56), che accomuna le precedenti, complessive letture delle Rime, come quelle di L. Caretti, Della Casa, uomo pubblico e scrittore (1953), in Id., Antichi e moderni, Einaudi, Torino 1976, pp. 135–50; di R. Fedi, Sul della Casa lirico, « Studi e problemi di critica testuale », n. 6 (1973), pp. 72–114; e di G. Stella Galbiati, L’esperienza lirica di Giovanni Della Casa, Università degli Studi, Urbino 1978, cap. I, pp. 1–58. 7. Riguardo a questa stagione della biografia casiana, cfr. L. Campana, Monsignor Giovanni della Casa e i suoi tempi, « Studi storici », 16 (1907), pp. 1–84, 247–69, 349–580; 17 (1908), pp. 145–282, 381–606; 18 (1909), pp. 325–513; e A. Santosuosso, Vita di Giovanni Della Casa, Bulzoni, Roma 1979, pp. 13–61. I rapporti tra il Casa e il Bembo sono documentati nella corrispondenza tenuta dal primo con il Gheri (edita in G. Della Casa, Opere, Napoli, [s.t.], 1732, tomo IV, pp. 6–20) e con il Gualteruzzi (pubblicata da O. Moroni, Corrispondenza G. Della Casa – C. Gualteruzzi, Bibl. Apostolica, Città del Vaticano 1986), dal secondo con lo stesso Gualteruzzi (per la quale cfr. P. Bembo, Lettere, ed. critica a cura di E. Travi, 4 voll., Commissione per i testi di lingua, Bologna 1987–93, ad indicem). Le notizie riportate si ricavano dalle lettere del Bembo n. 1155, del 1530 (« Ho inteso con molto piacer mio M. Giovanni della Casa esser divenuto Maestro del piombo. Sarete contento rallegrarvene con lui da mia parte »: vol. III, p. 187), e dalle nn. 1547, 1557, 1588 del 1534 (in cui il titolo « Mons.r » è esplicitato: cfr. vol. III, pp. 480, 488, 512). Sulla figura di C. Gheri (1513–37), cfr. A. Giusti, Gheri, Cosimo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 53, 1999, pp. 645–9; su quella di C. Gualteruzzi, cfr. l’aggiornato profilo di M. Cerroni, Gualteruzzi, Carlo, ivi, vol. 60, 2003, pp. 193–9.

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ricchi di esperienze, dunque; e dal punto di vista letterario, di sperimentazioni ad ampio spettro, dall’epigramma osceno (xxii) all’epistola metrica latina (iii), dal trattatello misogino al capitolo bernesco, dai primi sonetti amorosi e classicheggianti (come la famosa apostrofe alla gelosia, 8) a quelli in morte dell’amico Marcantonio Soranzo (12–13).8 Molti di questi testi hanno carattere epistolare e autobiografico, e nessuno, pur da diverse angolazioni, contraddice il ritratto offerto dal Mauro nel ’32. Nel giro di un paio di anni, a primo riscontro, giunse il Capitolo del martello, una condanna dell’amore sentimentale indirizzata, certo non a caso, al più “romantico” degli amici del nostro autore, quel Gandolfo Porrino di cui era nota la dedizione amorosa (oltre che poetica) alla sua inarrivabile Giulia Gonzaga;9 e di lì a breve, oltre al capitolo contro la banalità del proprio nome, indirizzato ancora al Porrino (che certo non aveva questo problema), apparve anche quel Capitolo del forno che non solo confermava la disponibilità del Casa trentenne a dipingersi intensamente impegnato in spassi erotici, ma giungeva perfino a ragguagliare sulla modesta dotazione virile dell’autore: un testo che non altro destinatario poteva trovare se non 8. Per i carmi latini del Casa adotto la numerazione e il testo offerti dall’edizione F. Berni – B. Castiglione – G. Della Casa, Carmina, a cura di M. Scorsone, Res, San Mauro (Torino) 1995, pp. 61–119 (nella quale peraltro non è compreso il più osceno dei carmi casiani di questi anni, l’epigramma di Venere e della formica, pubblicato da Campana, Monsignor Giovanni, cit., 18, pp. 344–5). Il trattatello cui mi riferisco è ovviamente la Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda. Per i cinque capitoli casiani (del Forno, del Bacio, Sopra il suo nome, del Martello, della Stizza), usciti a stampa a Venezia, presso il Navò, tra il ’37 e il ’38, mi servo dell’edizione Tutte le opere del Bernia in terza rima, [Venezia], s.n., 1540, cc. 136r–145v. Quanto alle rime, non senza avvalermi del commento di G. Tanturli, adotto come edizione di riferimento la più recente, a cura di S. Carrai (Della Casa, Rime); in nota, peraltro, cercherò ove possibile di indicare la forma in cui ciascun testo dovette effettivamente pervenire ai destinatari: ora sul fondamento della citata ed. critica curata da R. Fedi (Della Casa, Le rime), ora ricorrendo alle copiose indicazioni dello stesso Carrai, ora anche direttamente consultando le raccolte a stampa degli interlocutori. 9. Per la datazione dei capitoli, cfr. Corsaro, Giovanni Della Casa, cit., pp. 126–9. Sul contesto in cui questi componimenti nacquero, cfr. D. Romei, Berni e berneschi del Cinquecento, Edizioni Centro 2P, Firenze 1984, pp. 49–84, 108–26; e S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Antenore, Padova 1983. La condanna dell’amore sentimentale che troviamo nel Capitolo del martello concorda con uno dei tratti attribuiti al Casa, come abbiamo visto, dallo stesso Mauro. Sul modenese Gandolfo Porrino, che nelle sue Rime (pubblicate a Venezia nel 1551, per Michele Tramezzino, un anno prima che l’autore morisse) celebrò peraltro anche Livia Colonna e la bella amante Susanna romana, cfr. G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, vol. IV, Società Tipografica, Modena 1783, pp. 223–5; B. Croce, Gandolfo Porrino, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, vol. I, Laterza, Bari 1945, pp. 290–301; e D. Chiodo, Di alcune curiose chiose a un esemplare delle « Rime » di Gandolfo Porrino custodito nel fondo Cian, « Giornale storico della letteratura italiana », a. 120, vol. 180 (2003), pp. 86–101.

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l’amico Marcantonio Soranzo, il complice più documentato in sollazzi amorosi e attività seduttive.10 Il peso del contesto burlesco, in queste rappresentazioni, non va sopravvalutato in relazione alla pubblica immagine dell’autore. È ben vero che, contemporaneamente, le prime rime amorose del Casa esprimevano una condizione riflessiva e dolente non dissimile da quella petrarchesca a bembiana; ma è anche vero che un sonetto indirizzato nel 1533 all’amico Cosimo Gheri, e poi collocato nel canzoniere al n. 22, ci riporta a una scala di valori perfettamente in linea con quanto ci attendiamo dal Casa di questi anni: Né quale ingegno è ’n voi colto e ferace, Cosmo, né scorto in nobil arte il vero, né retto con virtù tranquillo impero, né loda, né valor sommo e verace, né altro mai, cheunque più ne piace, empieo sì di dolcezza uman pensero, com’al regno d’Amor turbato e fero di bella donna amata or pieta or pace.

L’amore ricambiato da una « bella donna amata » risulta dunque più « dolce », per il « pensiero umano », persino se paragonato al possesso di un ingegno colto e fertile, quale è quello del Gheri, o ad « una verità scoperta in una disciplina liberale »,11 o a lodi e valori in generale. Inserito nella struttura di un canzoniere, all’inizio di un percorso di crescita spirituale, un simile argomentare potrà sembrare solo il documento del consueto, e poi superato, traviamento giovanile; ma ben altre reazioni esso doveva suscitare nell’atto della corrispondenza: non sorprende se, come ci testimonia lo stesso autore in una lettera al Gualteruzzi del 2 gennaio 1534, i primi due versi non piacquero al 10. Eloquenti, del Capitolo del forno, i vv. 28–30 (« io per me rade volte altrove il metto, / con tutto che ’l mio pan sia pur piccino, / e ’l forno delle donne un po’ grandetto ») e 49–57 (« la pala poi vuole esser corta e grossa, / dice la gente ignorante; ma io / non trovo che ragion se l’abbi mossa; / e bench’io dica or contra ’l fatto mio, / perché Soranzo, a non vi dir bugia, / la pala mia non è gran lavorio; / io credo che bisogni, ch’ella sia / grande e profonda e grossa e larga e lunga, / e s’altro nome ha la geometria »). Quanto alle avventure amorose condivise con il nobile mercante veneziano Marcantonio Soranzo, rimando all’episodio (risalente al febbraio–marzo del ’36) ricostruito da Campana, Monsignor Giovanni, cit., 16, pp. 69–70. 11. Così interpreta il v. 2 Tanturli; Carrai intende invece « la verità che si palesa in una nobile arte ».

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Bembo, già allora costantemente consultato dal nostro autore circa la qualità delle proprie creazioni.12 La reale, vissuta posposizione di ogni altro interesse alle avventure amorose, ampiamente documentata dall’epistolario casiano di questi anni (nel quale spesso ad esempio il nostro autore ironizza sugli scarsi effetti prodotti in lui dallo studio dell’Etica aristotelica),13 domina insomma anche le coeve corrispondenze poetiche del Casa. Il quale, di sua iniziativa, tendeva a indirizzarle non a colleghi di rima, ma esclusivamente agli amici più fidati, e magari si lamentava (in una lettera al Gheri dell’11 marzo 1535) se a casa Soranzo « l’uno ha divulgato i miei amori, e fattoli immensi ed incomprensibili; e l’altro ha scritto de’ miei versi al Priuli, acciò che siano aspettati »;14 ma poi non si opponeva alla pubblicazione dei suoi Capitoli, né nascondeva le proprie debolezze. Non sorprende, allora, constatare come l’immagine del Casa di questi anni apparisse composta di talento e di una certa sregolatezza anche ad un estimatore lontano come Bernardo Tasso; che entro il 1537 gli inviò (probabilmente dal circolo bembiano di Padova) un sonetto ben consapevole al riguardo: Casa, se l’alte tue virtuti ardenti, di cui benigno ciel, lo studio e l’arte ti dier sì ricca e sì onorata parte quanta non forse a le più saggie menti, fortuna co’ begli occhi ognor ridenti lieta secondi, sì che in ogni parte chiare memorie del tuo onor cosparte vivan mai sempre in bocca de le genti, 12. « Della gelosia: sapete ch’io sono molto pauroso delle mie magre poesie pe’ l’ordinario, et hora vi dico ch’io mi sono paurosissimo, poi che io ho preso a ragionar di Sua Signoria [. . . ]: credo che quel sonetto si possa leggere. L’altro, fatto al signor vescovo di Fano, non è piaciuto a Monsignor Bembo ne’ due primi versi. Pregate la mia Illustrissima Signoria che si contenti di darveli ch’io me ne contento » (Moroni, Corrispondenza, cit., n. 5, p. 9). Riguardo alla « predominante influenza del Bembo » sulla « prima sperimentazione casiana », cfr. Stella Galbiati, L’esperienza lirica, cit., pp. 3–12; sulle differenze tra i due, L. Baldacci, Giovanni Della Casa poeta, in Id., Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Padova, Liviana, 19742 , pp. 171–247, a pp. 171–201; e, per un’analisi più complessiva, G. Dilemmi, Giovanni Della Casa e il “nobil cigno”: ‘a gara’ col Bembo, in Per Giovanni Della Casa, cit., pp. 93–122. 13. Come nella lettera indirizzata al Gheri nel marzo del ’36, e pubblicata in Della Casa, Opere, cit., tomo IV, p. 19; e cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 16, p. 70. 14. Cfr. Della Casa, Opere, cit., tomo IV, p. 15; e cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 16, pp. 68–9.

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mostrami come Amor leggiero e sciolto fugga con l’ali de’ pensier leggiadri, dritto volando a la gran Donna in seno; e come teco entro quel bel sereno de l’immortalità tutto raccolto sprezzi le nebbie, e i giorni oscuri et adri.15

La richiesta del mittente, un’ennesima disquisizione sui comportamenti di Amore, risulta decisamente lambiccata, e non a caso il nostro autore non rispose; in tale proposta, tuttavia, ritroviamo di nuovo buona parte dei tratti attribuiti al Casa dal Mauro: l’« ardore » che connotava le sue « virtù »; lo « studio » profuso; la contrapposizione tra la ricchezza dei suoi talenti e la « saggezza », propria di altre « menti »; e infine la sua nota aspirazione all’« onore », alla pubblica fama (« in bocca de le genti »), all’« immortalità ». Tutti tratti, ripeto, che il Casa esternava allora pubblicamente, e che infatti costituiscono il tema centrale della sua prima epistola latina in versi a noi nota (iii), indirizzata al solito Gheri nel 1535. Di fatto la sua prima autodifesa, nella quale peraltro non si registrano né smentite né note di pentimento, ma disprezzo per i pregiudizi del volgo sull’attività letteraria, apologia di quest’ultima, e rivendicazione, a fronte delle non negate debolezze sessuali, delle proprie virtù: generosità, libertà interiore, disinteresse per il denaro, dedizione all’amicizia e al bene della comunità.16 L’ammissione dei propri ardori amorosi e 15. Il sonetto è il n. 45 del Libro terzo de gli amori, pubblicato a Venezia, per Bernardino Stagnino, appunto nel 1537 (e riprodotto nell’ed. B. Tasso, Rime, a cura di D. Chiodo e V. Martignone, Res, San Mauro (Torino) 1995, vol. I, p. 343, da cui si cita); poiché la pubblicazione del Libro secondo risale al 1534, il sonetto deve intendersi composto nel triennio successivo, ma probabilmente nello stesso ’37 (quando il Tasso sostò a Padova, prima di giungere a Venezia) più che nei due anni precedenti, da Bernardo trascorsi tra Tunisi e Salerno al seguito di Ferrante Sanseverino. In effetti, gli iniziali attriti fra il Tasso e il Bembo (dovuti alle differenti poetiche) non impedirono ai due di avere numerosi contatti nati dall’ammirazione del primo per il veneziano (cfr. E. Williamson, Bernardo Tasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1951, pp. 9–11; per i rapporti col Bembo, C. Saletti, Un sodalizio poetico: Bernardo Tasso e Antonio Brocardo, in Per Cesare Bozzetti, cit., pp. 409–24; e C. Zampese, All’ombra del ginepro. Considerazioni sul primo libro degli “Amori” di Bernardo Tasso, in Le varie fila. Studi di letteratura italiana in onore di Emilio Bigi, Principato, Milano 1997, pp. 74–95). 16. Cfr. ad es. i vv. 6–9: « nec de te plebis quae sit sententia, magni / securus pendas: ignarum pleraque vulgus / pravo metitur modulo; tu neglige, et isto, / qui nunc te exercet, fugias decedere campo »; i vv. 15–21: « desidiae arguimur populo, ne forte probari / credideris genus hoc vitae simplex; [. . . ] / et gnavi me segnem culpant. Altera blando / pars animum integrum queritur me dedere amori / per luxum, et patrui verbis obiurgat acerbi »; i vv. 44–50:

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della passione letteraria è completa e senza riserve, mentre appare per ora negata ogni ambizione per la carriera ecclesiastica, aspirazione di cui piuttosto è confidenzialmente accusato il destinatario;17 del resto, l’inevitabile vecchiaia spegnerà le passioni, e allora quel popolo che ora lo perseguita riconoscerà che il poeta non ha mai danneggiato nessuno, né ha sperperato i beni di famiglia, e mai ha fatto mancare il suo soccorso a un amico in difficoltà economiche. I toni e i contenuti di questo componimento non avranno seguito, se si escludono alcune sezioni del carme che, vent’anni dopo, il Casa invierà Ad Germanos per difendersi dalle accuse d’immoralità rivoltegli dal Vergerio (xvii): ma le autogiustificazioni e le minimizzazioni dei propri comportamenti giovanili (o spacciati per tali) compresi in quel testo, nato da circostanze eccezionali, rappresenteranno un’anomalia (di stile e di contenuti) nel periodo in cui esso sarà composto.18 Consueta per il Casa, nei suoi ultimi anni di vita, sarà invece l’ammissione delle proprie difficoltà a liberarsi di quella schiavitù da beni e ambizioni terrene di cui egli denuncerà sempre più il carattere illusorio; contenuti, « Desidiae, aut tu me censor culpaveris otî? / Flagras ambitione, ardesque cupidine saeva / purpurei, haud vitam hanc moresve decentis, amictus. / Uror amoris ego haud me dignis ignibus; esto / quando ita me insimulas: quid tum? peccamus uterque; / nil est cur tu me prior incuses, graviora / offendens multo, et nimium distantia recto »; i vv. 64–73: « me mea post paulo febrisque reliquerit ultro / frigidior veniens morbum cum leniet aetas, / intereaque veternus non animum gravis urget. / Me tamen insequitur populus: quid si nihil omni / est actum in vita nobis, quod laedere quemquam / possit? Non ego rem, mihi sollers quam pater auxit, / in Venerem effundam [. . . ] / Nec fuerim, mimam quo sit mihi laxius unde / munerer, usquam inopi nimium contractus amico ». 17. Campana (Monsignor Giovanni, cit., 16, p. 79) legge al contrario i vv. 45–46 (riportati sopra, e contenenti l’accusa di eccessiva brama del cardinalato) come rivolti al Casa stesso: ma bisognerebbe allora virgolettarli, come improbabile citazione della voce dell’interlocutore; molto più lineare, direi, l’interpretazione già di Parenti, I carmi, cit., p. 227. Sulla poesia latina del Casa, oltre al citato studio di Parenti, ancora utili risultano M. Galdi, De latinis Joannis Casae carminibus disputatio, « Atti della R. Accademia di Archeologia, lettere e belle arti », n.s., 1 (1910), pp. 113–47; e Stella Galbiati, L’esperienza, cit., pp. 26–36. 18. Il carme verrà realizzato durante il ritiro a Nervesa, nel ’55: un periodo in cui l’immagine penitenziale disegnata dai testi casiani risultava molto apprezzata da colti e letterati d’Italia, ma che di fronte alle accuse d’immoralità rivoltegli dal Vergerio sarebbe apparsa a più freddi lettori sostanzialmente ammissoria. Di qui la composizione, in allegato alla Dissertatio adversus Paulum Vergerium, di questa epistola Ad Germanos tutta volta (in direzione opposta) a sminuire le proprie mancanze e sottolineare le proprie virtù, oltretutto in uno stile insolitamente chiaro e semplice, a fronte della consueta ricerca di ardua gravitas che, in questo caso, si sarebbe rivelata controproducente. Sul lungo contrasto intervenuto tra il Casa (peraltro in tali circostanze semplice esecutore di volontà farnesiane) e il vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, vicino a posizioni ereticali, cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 171–93, 247–64, 538–44; e Santosuosso, Vita, cit., pp. 116–23, 171.

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come andremo man mano verificando, che rappresenteranno il logico approdo di una rotta in realtà intrapresa già a partire dal 1537: quando, con il ricordato ingresso nella Camera apostolica, e gli incarichi sempre più delicati svolti al servizio del cardinale Alessandro Farnese,19 molto cambiò nell’immagine di sé che il poeta volle veicolata dai suoi testi, ed in particolare in quelli di corrispondenza.

6.3. Nuovi amici e primi ammiratori: verso un classicismo più ambizioso Di fatto, già negli anni che precedettero la nunziatura veneziana (dunque, entro il ’44), prima ancora dei contenuti testuali cambiarono le frequentazioni (e dunque i primi destinatari e lettori) del Casa, dopo che morti premature gli ebbero strappato il Soranzo e il Mauro nel ’36, e il Gheri nel ’37. I nuovi amici, che da questa fase sino ai suoi ultimi giorni resteranno i destinatari privilegiati dei suoi versi (soprattutto di quelli latini), si chiamano Marcantonio Flaminio, Galeazzo Florimonte, Alvise Priuli, Pier Vettori, Benedetto Varchi, Antonio Bernardi della Mirandola;20 e in primo luogo, almeno quanto a devozione intellettuale, Pietro Bembo, trasferitosi a Roma nel ’39 per vivere la nuova esperienza del cardinalato. La virata verso una dimensione di cultura coerentemente alta, sempre più caratterizzata dallo sforzo di appropriarsi delle risorse stilistiche della letteratura greco–latina, ne conseguì facilmente; come pure ne derivò una gestione nuova della propria produzione lirica volgare, in grado di pervenire nel ’45, come ha mostrato Fedi, ad un primo e coerente progetto di canzoniere 19. Su questo protagonista della storia politica e culturale di quegli anni, cfr. introduttivamente S. Andretta–C. Robertson, Farnese, Alessandro, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 45, 1995, pp. 52–70. 20. Colti protagonisti della riforma cattolica furono il poeta M. Flaminio (su cui cfr. A. Pastore, Flaminio, Marcantonio, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 48, 1997, pp. 282–8), e i suoi amici G. Florimonte (F. Pignatti, Florimonte, Galeazzo, ivi, pp. 354–6) e A. Priuli (P. Paschini, Alvise Priuli: un amico del card. Pole, Roma, Istituto Pio IX, 1921). Studioso di logica aristotelica e di filosofia morale fu A. Bernardi, accolto nel circolo farnesiano intorno al 1540 (cfr. P. Zambelli, Bernardi, Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 9, 1967, pp. 148–51). Sulle ben note e studiate personalità di P. Vettori e B. Varchi, mi limito a segnalare E. Carrara, Giovanni Della Casa, Pietro Vettori e il loro carteggio in volgare, « Schede Umanistiche », 1 (2005), pp. 51–101; S. Lo Re, Politica e cultura nella Firenze cosimiana. Studi su Benedetto Varchi, Vecchiarelli, Manziana 2008.

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(pur se di soli 32 testi), nel quale le vicende sentimentali fotografate in precedenza da prove episodiche potessero essere indirizzate lungo un percorso di maturazione interiore.21 Ovviamente, il passaggio alla nuova identità letteraria non avvenne se non attraverso snodi cruciali: non a caso in buona parte affrontati, ancora una volta, nel quadro di rilevanti corrispondenze in versi. Tra queste, vanno in primo luogo registrate le ultime espressioni del registro giocoso: non più tuttavia estese alle dimensioni del capitolo bernesco, ma limitate ad un paio di sonetti indirizzati uno al Bernardi, nel 1542, per ironizzare sulla saccenteria dei lombardi in generale, e dell’interlocutore in particolare (con cui pure sarebbe rimasto negli anni seguenti in ottimi rapporti); e l’altro ad Annibal Caro, per burlarsi, come ha mostrato Silvia Longhi, delle insistenti richieste del Varchi perché gli amici cantassero le virtù del suo amato Lenzi (in quanto è al clima di questi anni che ritengo vada ricondotto questo testo, e non, come sinora si è detto, agli ultimi mesi di vita del Casa, ben poco incline allora agli scherzi).22 Tra questi versi, non tanto le paradossali domande rivolte dal già monsignore al Mirandolese, né le maledizioni d’Amore coralmente intonate col Caro è utile citare in questa sede, quanto invece la risposta del Bernardi, dalla quale ancora traspaiono le più radicate debolezze del Casa, la pignoleria (erudita o meno), e soprattutto la presunzione per la propria eclettica cultura: Voi che tagliate in ponta di coltello e lavate sì ben la insalatuccia 21. Cfr. Fedi, I due canzonieri, cit., pp. 201–30. 22. Lo scambio di sonetti con il Bernardi è stato studiato da E. Scarpa, La corrispondenza burlesca fra Giovanni della Casa e Antonio Bernardi della Mirandola, « Filologia e critica », 15 (1990), pp. 88–111; per i successivi rapporti con il mirandolese cfr. Moroni, Corrispondenza, cit., nn. 246–9, pp. 395–401, e nn. 256–7, pp. 407–8 (tutte relative al 1547). Sul secondo episodio, cfr. S. Longhi, Un esperimento di scrittura « alla maniera di »: i due sonetti falsi e stravolti di Giovanni Della Casa e di Annibal Caro (1987), in Ead., Le memorie antiche. Modelli classici da Petrarca a Tassoni, Verona, Fiorini, 2001, pp. 89–103. Da tale studio in poi lo scambio viene datato « tra l’apparizione a stampa del libro del Varchi, a metà del 1555, e la fine dell’anno seguente » (p. 532), quando il Casa cessò di vivere; ma l’uscita a stampa dei Sonetti del Varchi è debole termine post quem, visto che, se il Caro e il Varchi si frequentavano sin dal 1525 (quando il primo divenne precettore del Lenzi), il Casa entrò in rapporti d’amicizia col Caro negli anni ’30 tramite l’Accademia dei Vignaioli, e col Varchi a seguito della missione compiuta a Firenze nel 1541 (che coincise col suo ingresso nell’Accademia fiorentina): ed è a ridosso di questi anni, in cui la già annosa accensione del Varchi per il Lenzi si sommava alla freschezza dell’incontro e alla recente esperienza nel registro burlesco degli altri due, che a mio avviso l’episodio meglio si colloca.

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e con un scudelino di salsuccia sguazzate in cento intorno un piscitello [. . . ]; voi che séte l’Amèn, l’Alfa e l’Oméga del volgar, del latin, d’ogni scïenza fondaco, magazin, banco e botega; perché fate a’ lombardi conscïenza delle rape, s’in susta, in foia, in frega vanno per le radici Arno e Firenza?23

Né solo il Bernardi si permetteva ancora di infierire sulle debolezze del nostro autore. Com’è noto, l’ingresso nella carriera ecclesiastica, per l’ambiziosa natura del fiorentino, si tradusse in una immediata e decisa aspirazione al cardinalato, talmente trasparente da venire assai presto rilevata e stigmatizzata dall’autore di un’efficace Pasquinata, certo non molto posteriore all’assunzione, da parte del nostro autore, del pubblico ufficio affidatogli nel ’37: La Camera Apostolica sta fresca, retta da Giovan Gaddi, ch’è decano, ch’ha tanta rabbia e stizza ed è sì insano, che di se stesso par che gli rincresca. Poi viene il Pescia che ha maggior ventresca ch’un porco grasso ed allevato a mano; quel de la Casa è rigido e inumano e d’esser cardinal sol trama e tresca.24

Ma al Casa (peraltro ormai quasi quarantenne) queste provocazioni e questi giochi risultavano sempre più insapori ed estranei; e fu lui stesso a sottolinearlo pubblicamente, indirizzando in anni ancora giovanili al Bembo un’epistola latina in versi (xx), tutta giocata sulla contrapposizione tra la poesia dei moderni, considerata in primo luogo come prodotto di basso intrattenimento (e quindi facile, priva d’arte musicale, o addirittura lasciva, volgare, destinata a palati grossolani); e quella degli antichi, in grado di trasmettere preziose conoscenze 23. Vv. 1–4, 9–14 del sonetto del Bernardi, secondo l’edizione datane da Scarpa, La corrispondenza, cit., pp. 101–2. 24. Sonetto sopra la Camera Apostolica, vv. 1–8: edito in Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di V. Marucci–A. Marzo–A. Romano, 2 tomi, Roma–Salerno 1983, tomo I, n. 474, pp. 510–1.

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attraverso felicissime, ardue, simboliche immagini mitologiche.25 Ne deriva una poetica, qui per la prima volta disegnata, consapevolmente intesa ad una ricerca di complessità, stilistica e tematica: Malim vel segni mentem torpere veterno, aut mea deformes tunicas dare carmina scombris, quam laudes umquam vulgi captare laborem, aut scribam indoctas aliquid quod mulceat aures tonsorum, et nugis lippos delectet Etruscis. [. . . ] Optarim potius de classe proborum contingat nobis rarus laudator. Habere quod si contigerit nullum, tunc conscia recti mens aderit saltem sibimet pulcherrima merces.26

L’aspra, umanistica condanna della poesia contemporanea, stranamente, non presenta come eccezione l’opera, latina e volgare, del destinatario: concetto che doveva però, evidentemente, ritenersi sottinteso. In questi versi, allora, non dovremo neppure leggere (come pure parrebbe) un radicale rifiuto della poesia volgare in nome di un classicismo solo greco–latino, ma, come detto, ogni concessione a una lirica facile, che vada incontro ai gusti del volgo; dunque, anche una radicale condanna della passata esperienza giocosa, e un programma estetico valido per la futura produzione sia latina che volgare.27 In effetti il tono arduo, sostenuto, nobilmente classico si ritroverà, 25. Cfr. Della Casa, Carmina, cit., xx 12–18: « Sed postquam rerum series, quas mistica nobis / abdiderat natura, hominum patuere sagaci / ingenio, et primae explorata potentia caussae, / turpe nefas visum est vili recludere vulgo / viscera naturae. Quare prudentibus illa / tradentes noscenda viris, texere quibusdam / figmentis, vulgusque adyto exclusere profanum » (pp. 94–5); i vv. 39–49: « Nimirum prout haec rerum miracula prorsus / divini fuit ingenii reperisse; figuris / sic eadem variis texisse fatebimur artis / eximiae; [. . . ]. / Nescio quos vates haec tempora nostra protervos / educunt, Latii qui haud argumenta leporis / vulgantes, recti sermonis dogmata fraudant; / Pierios laniant numeros; sacrasque Camoenas / foedant, prostituunt, nudantque » (pp. 95–6); e i vv. 54–64: « et ludrica carmina condunt, / quae canat ad limen iuvenis malesanus amicae, / aut magis in mensa referat parasitus herili, / et recitent mimi, scurrae custosque tabernae. / Forsitan inquires quid nos iuvet esse Latinos, / quid iuvet ampullas et sesquipedalia verba / cogere carminibus Latii, et claudere sensus / arcanos paribus numeris, cum qui legat ista / vix unus, aut alter erit? Sed aperta poesis / illorum rudibus dominis plebique placebit, / illorum et magnas volitabit fama per urbes » (p. 96). Il carattere giovanile del testo emerge sin dall’incipit, caratterizzato dall’allocuzione al « Bembe pater ». 26. Ivi, xx 65–69, 72–75, pp. 96–7. 27. Una lettura analoga già in Tanturli, Le ragioni, cit., pp. 23–24, ove l’epistola è in parte riprodotta e commentata. Sul distacco provato dal Casa, sin dal 1540, nei confronti della sua scrittura comica, cfr. anche Corsaro, Giovanni Della Casa, cit., pp. 150–2.

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com’è noto, sempre più presente nelle rime del Casa; il cui nuovo stile, pur manifestandosi a tale altezza cronologica, e saltuariamente, in una produzione non superiore ai trenta sonetti, comincia proprio in questi anni a suscitare l’ammirazione di alcuni colleghi funzionari, padani, ma attivi a Roma alle dipendenze di vari cardinali, e rimatori a loro volta. Il Casa comincia così ad essere il destinatario di numerose proposte poetiche, cui talvolta risponderà, sottraendosi in altri casi, mentre mai lo troveremo, in volgare, nelle vesti di proponente (perché tale non è il caso di alcuni sonetti degli anni veneziani da lui indirizzati ad amici e protettori – magari su commissione – da cui mai, progettualmente, sarebbe giunta una risposta): un uso proprio di un intellettuale consapevole della propria autorità, ma perfettamente opposto a quello tenuto nella versificazione latina, dove la massima parte dei testi casiani si presenta nella forma di epistole inviate per iniziativa dell’autore, e anche ad amici letterati. In particolare, tra il ’41 e il ’44, gli giunsero due proposte poetiche. Una gli fu indirizzata dal parmense Giacomo Marmitta, proprio in quegli anni presente a Roma come segretario del futuro cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano: Chi poter agguagliar Casa presume il vostro ornato stile, o ’n prosa, o ’n rima, cotanto sopra il ver se stesso stima quanto il sol luce sopra ogn’altro lume; anzi pur pensa con cerate piume volare al globo de la luna in cima, onde il suo nome in carte poi s’imprima, tal che in mill’anni il tempo no ’l consume. Ché come fiume che da l’alpi scende, quando pioggia dal ciel cade maggiore, è ’l vostro dir, qual or ferve e s’avanza: e s’ei di mover per suggetto prende gli umani affetti, o in bella donna amore, non sia chi di seguirlo abbia speranza.28 28. Trascrivo il sonetto dall’edizione delle Rime, in Parma, appresso di Seth Viotto, 1564, p. 41, n. [74]. La sua datazione non oltre il ’44 potrebbe essere posta in dubbio dal fatto che esso è immediatamente seguito dal sonetto Or vivrete a voi stesso, or pace avranno, che, se rivolto al Casa (non nominato), andrebbe letto come saluto in prossimità del ritiro a Nervesa (così Carrai

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Al di là dell’impianto elogiativo, il Marmitta sottolinea una caratteristica precisa dello stile del Casa, probabilmente la più rilevante: il fluire rapido della sintassi nel metro, rallentato da poche pause, e qui paragonato allo scorrere di un fiume impetuoso. Un bel complimento, proveniente da un letterato con cui il nostro monsignore intratteneva contatti di lavoro, e in seguito avrà anche scambi epistolari; ma il Casa non rispose.29 Rispose invece, forse anche per l’amicizia del mittente con il Bembo, a questo sonetto di Bernardo Cappello, giunto a Roma (esule da Venezia) nel settembre del ’41: Casa gentil, che con sì colte rime scrivete i casti e dolci affetti vostri, ch’elle già ben, di quante a’ tempi nostri si leggon, vanno al cielo altere e prime; acciò che ’l mondo alquanto pur mi stime, prego ch’a me per voi si scopra e mostri com’io possa acquistar sì puri inchiostri, strada sì piana e mente sì sublime.30

Interessante, in questa proposta del Cappello, può essere la focalizzazione dell’attenzione dell’autore sulla sola produzione aulica e più nell’Introduzione a Della Casa, Rime, cit., pp. xv–xvi, ove il sonetto è ristampato). Questi due testi però sono molto distanti dagli altri indirizzati al Casa (nn. [189], [203], [273], pp. 121, 128, 168), e tra i due blocchi figurano quelli in morte di V. Colonna [182], p. 112, e del Bembo [162], [163], p. 98: pur in una struttura che dà ampi segni di disordine, dunque, preferisco considerare questo primo omaggio come risalente ai primi anni ’40. Giacomo Marmitta (1504–61) fu alle dipendenze del Ricci dal 1438, e lo seguì prima a Roma, poi (dal 1544) in Portogallo, ove il Montepulciano fu inviato come nunzio. Nel 1549 il Marmitta rientrò a Roma, dove fu gradualmente conquistato dalla spiritualità di s. Filippo Neri, assistito dal quale morì il 28 dicembre 1561. Informazioni biobibliografiche offre P. Cosentino, Marmitta, Giacomo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 70, 2007, pp. 625–7. 29. Una lettera indirizzata dal Casa al Marmitta quando quest’ultimo era già al servizio del card. Ricci si legge in Della Casa, Opere, cit., tomo V, p. 134; ma contatti tra i due presuppone anche una lettera indirizzata dal Gualteruzzi al Casa il 24 gennaio 1545 (cfr. Moroni, Corrispondenza, cit., n. 44, pp. 99–100). 30. Le Rime di B. Cappello furono pubblicate a Venezia, presso Domenico e Gio. Battista Guerra, nel 1560; io le ho consultate in ATL. Archivio della tradizione lirica, CD–Rom a cura di A. Quondam, Lexis, Roma 1997 (testo fissato da E. Albini). Questo componimento peraltro, che nella raccolta del veneziano è il n. [133], e di cui qui cito i vv. 1–8, si può leggere anche nelle edizioni casiane, dalla princeps (p. 45) a Della Casa, Rime, cit., p. 76. Sull’autore (1498–1565), subito accolto al suo arrivo a Roma nella cerchia del card. Alessandro Farnese, cfr. F. Fasulo – C. Mutini, Cappello, Bernardo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 18, 1975, pp. 765–7.

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recente del destinatario, quella effettivamente rispondente alla definizione data dai primi due versi: aveva così inizio quella cancellazione dell’esperienza giocosa del Casa cui questi da qualche tempo mirava, come provato dall’epistola al Bembo. Certo, al di là di questo, il testo del veneziano è più superficiale di quella del Marmitta, traducendosi in sostanza in una futile richiesta di didattica poetica, ovviamente irrealizzabile nell’ambito di un sonetto responsivo. Il Casa, tuttavia, colse l’occasione per trasformare l’inevitabile espressione di modestia, impostagli dalla circostanza, nella prima, importantissima, amara confessione dell’inconciliabilità tra la propria vocazione poetica e gli impegni professionali e mondani ai quali lui stesso, per mera ambizione, si era asservito. E a tale scopo non si accontentò di una risposta per le rime (l’attuale sonetto 26): Mentre fra valli paludose ed ime ritengon me larve turbate e mostri, che tra le gemme, lasso, e l’auro e gli ostri copron venen che ’l cor mi roda e lime, ov’orma di virtù raro s’imprime, [. . . ] ten vai tu sciolto a le spedite cime: onde m’assal vergogna e duol, qualora membrando vo com’a non degna rete col vulgo caddi, e converrà ch’io mora;

ma ribadì più liberamente il concetto in un secondo sonetto, l’attuale n. 25: Solea per boschi il dì fontana o speco cercar cantando, e le mie dolci pene tessendo in rime, e le notti serene vegghiar, quand’eran Febo ed Amor meco [. . . ]; ma, quasi onda di mar cui nulla affrene, l’uso del vulgo trasse anco me seco e ’n pianto mi ripose e ’n vita acerba, ove non fonti, ove non lauro od ombra, ma falso d’onor segno in pregio è posto.31 31. Del primo ho riportato i vv. 1–5, 8–11; del secondo i vv. 1–4, 7–11. La stesura

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Ben oltre il topico pentimento religioso nei confronti della passione amorosa espresso dai sonetti 17–19, e ben prima (almeno cinque anni) della capitale canzone 47 (che introdurrà alla serie delle rime morali, dominate dal tema qui per la prima volta affrontato), in questa corrispondenza poetica, al compimento dei quarant’anni (proprio l’età della crisi in Petrarca, si potrebbe notare),32 il Casa si rappresenta come vittima, frustrata, della propria debolezza di fronte alle seduzioni mondane: le ricchezze, gli onori... veleni che rodono il cuore, e tuttavia micidiali non ancora nei riguardi di una cercata comunione con Dio, ma piuttosto nei confronti di una vocazione poetica che si pone come centrale e rimpianto valore, sopraffatto da più meschine (seppur prestigiose) attrattive. Il Cappello, purtroppo, non capì nulla; e prima impegnandosi nella replica (O chi m’adduce al dolce natio speco) a riproporre tutte le parole rima del secondo sonetto casiano (non senza uno dei suoi frequenti dolorosi accenni alla propria condizione di esule), poi concludendo con un gioioso ringraziamento per l’attenzione ricevuta (Casa, che ’n versi od in sermone sciolto), nulla aggiunse d’interessante se non un giudizio di valore che cominciava già allora ad affermarsi, ossia la precoce incoronazione del Casa come poeta di statura non inferiore a quella di Petrarca e di Bembo: Sì m’appresserei forse al giogo u’ teco altro nessun che ’l maggior Tosco vène, col Bembo, al qual nulla è che ’l corso affrene sì ch’egli a par a par non poggi seco.33 originaria prevedeva, per il testo 26, « caddi col vulgo » al v. 11; per il testo 25, « ed eran » al v. 4, « come onda » al v. 7, « fonte » al v. 10, « pregio in segno » al v. 11 (cfr. Della Casa, Le rime, cit., tomo II, pp. 53–4; Id., Rime, cit., p. 70). 32. Sui possibili significati della petrarchesca conversione a quarant’anni, cfr. M. Santagata, I frammenti dell’anima, il Mulino, Bologna 1992, pp. 76–83. 33. Sono i vv. 5–8 del testo [135] del Cappello (O chi m’adduce al dolce natio speco), come appaiono nelle edizioni casiane (dalla princeps, pp. 45–6, sino a Della Casa, Rime, cit., p. 71), e come quindi dovevano originalmente configurarsi. Inserendoli nella propria raccolta, probabilmente per recuperare un maggior equilibrio fra i tre grandi, il Cappello così li riscrisse: « Sì m’appresserei forse al giogo u’ teco / vicino al miglior Tosco il Bembo or viene; / e là ’ve ambo par gloria, anzi ch’affrene / vostro corso rea parca, avrete seco ». Quanto al sonetto [134] del Cappello (anch’esso sempre presente in stampe casiane, dalla princeps, p. 46, a Della Casa, Rime, cit., pp. 71–2), che ne chiuse la corrispondenza col nostro autore, cfr. a conferma di quanto detto i vv. 1–6: « Casa, che ’n versi od in sermone sciolto, / ne l’antico idioma e nel moderno / quei pareggiate onde con grido eterno / d’alta lode a tutt’altri il pregio è tolto; /

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6.4. Venezia: dall’apice del successo alle prime insoddisfazioni Ad onta delle apparenze, lo stato d’animo rappresentato nelle risposte al Cappello accompagnò il Casa per tutto il pur prestigioso quinquennio della legazione veneziana.34 O meglio, inizialmente i traguardi raggiunti dell’arcivescovado e della nunziatura, i complimenti che dal Bembo gli giungevano per ogni suo nuovo componimento (dai tre sonetti « per la signora Camilla », nn. 27–29, alla fondamentale canzone 32), la pubblica lettura data dal Varchi a Padova (e subito stampata) del sonetto alla gelosia (8), e l’ottima accoglienza ricevuta dal De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, sembravano promettere una felice stagione creativa.35 In particolare, il successo del trattatello latino (già composto nel ’41, ma fatto circolare nel ’46) faceva del Casa un letterato ormai completo, come ben presto si premunirono di sancire, in pubblica forma di epistola in versi, due più che autorevoli amici, Marcantonio Flaminio e Pietro Bembo. Il primo in faleci latini: Disertissime Casa, quem libellum legendum dederas mihi, relegi poscia ch’io son ne’ vostri scritti accolto, / a che temer ira di tempo o scherno? ». 34. La costante presenza nel Casa, rilevabile già dalle canzoni “veneziane” 32 e 45, di « uno scontento intimo che la circostanza del mancato acquisto della porpora cardinalizia varrà soltanto a portare in superficie e a determinare più chiaramente nelle sue correlazioni oggettive », è stata già indicata da Sole, Cognizione, cit., p. 33. Sul periodo della legazione, cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 16, pp. 349–580, e 17, pp. 145–282, 381–506; Santosuosso, Vita, cit., pp. 83–133; A. Menniti Ippolito, Paolo III e Monsignor Della Casa. Psicologie di ecclesiastici in un decennio di transizione, in Giovanni Della Casa. Un seminario per il centenario, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 131–53; e, sul piano strettamente letterario, Fedi, Sul della Casa, cit., pp. 85–97. 35. Gli apprezzamenti bembiani citati s’incontrano ovviamente nell’epistolario del veneziano: « Ho veduto con sommo piacer mio i tre sonetti del mio Mons. della Casa, i quali sono molto belli e molto leggiadri » (lettera n. 2385, a C. Gualteruzzi, comprendente anche suggerimenti migliorativi dei componimenti – che il Casa accolse in minima parte – e pubblicata in Bembo, Lettere, cit., vol. IV, pp. 457–8). « Il S.r Legato mi mandò un bellissimo suo sonetto fatto sopra il rettratto di Mad. Is di Tiziano [. . . ]. Mi rallegro che il nome di quella Mad. si celebri da sì gran poeta » (lettera n. 2405 a G. Quirini: ivi, p. 479). « Vidi la Canzona che Sua Signoria fece a’ dì passati, la quale mi fu gratissima: ché è molto bella e grave e ingeniosa, e piena d’alti sentimenti [. . . ]. Diteli che io gli ho una grande invidia di così bella Canzone » (lettera n. 2469 a G. Quirini: ivi, pp. 521–2). Sulla celebre lettura tenuta dal Varchi nel 1545, cfr. S. Jossa, Poesia come filosofia: Della Casa fra Varchi e Tasso, in Giovanni Della Casa. Un seminario, cit., pp. 229–40. Per l’immediata fortuna del De officiis, non solo subito lodato dal Flaminio e dal Bembo, ma anche presto cercato dal Caro e da Bernardo Tasso, cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, p. 438; e S. Carrai, Sulla data di composizione del « De officiis inter potentiores et tenuiores amicos » del Della Casa, « Rinascimento », 20 (1980), pp. 383–7.

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saepe ac saepius, et tamen legendi is desiderium mihi reliquit. Nec mirum; siquidem tuus libellus tam doctus, numerosus, elegansque est, ut scriptus videatur aureo illo saeculo Ciceronis, atque ab ipso divino Cicerone. Nec profecto vivet iste minus diu libellus, quam libri Ciceronis. Ergo, Casa disertissime, perge, saeculumque nostrum orna aureolis tuis libellis.36

Il secondo con un subito celebre sonetto (inviato il 14 agosto 1546), che fu anche l’ultimo del poeta veneziano: Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo, et pura fede et vera cortesia, et lo stil, che d’Arpin sì dolce uscia, risorge, e i dopo sorti lascia a tergo, s’io movo per lodarvi et carte vergo, presontuoso il mio penser non sia, ché mentre e’ viene a voi per tanta via, nel vostro gran valor m’affino et tergo. Et forse anchora un amoroso ingegno ciò leggendo, dirà: « Più felici alme di queste il tempo lor certo non hebbe. Due città senza pari et belle et alme le dier al mondo, et Roma tenne et crebbe. Qual può coppia sperar destin più degno? ».37 36. M. Flaminio, Carmina, a cura di M. Scorsone, Res, San Mauro (Torino) 1993, v 11, pp. 152–3; il Casa lesse il testo nell’estate del ’48, quando apparvero a stampa i Carmina quinque illustrium poetarum (Venetiis, ex officina Erasmiana V. Valgrisii, 1548), tra i quali quelli del Flaminio: e se ne compiacque in una lettera al Gualteruzzi del 7 luglio (cfr. Moroni, Corrispondenza, cit., n. 331, pp. 490–1). 37. Pubblicato in tutte le edizioni casiane (dalla princeps, p. 47, a Della Casa, Rime, cit., p. 108), il testo, già n. 141 nell’ed. Dionisotti, è oggi il n. 179 in P. Bembo, Le rime, a cura di A. Donnini, 2 voll., Roma, Salerno, 2008, vol. I, pp. 412–3 (per il regesto delle varianti, cfr. vol. II, pp. 1236–7). La datazione del sonetto si ricava dalla lettera con cui il Gualteruzzi lo inviò al Casa (cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, p. 436; e Moroni, Corrispondenza, cit., n. 178, pp. 301–2); vedi anche A. Donnini, Il sonetto di Bembo a Giovanni Della Casa, « Studi e problemi di critica testuale », n. 70 (2005), pp. 5–25.

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Due investiture, entrambe incentrate sul merito di aver fatto rinascere nel De officiis la prosa di Cicerone.38 Il Casa ovviamente le accolse con orgoglio, documentato dal suo epistolario;39 ma, se troppo tardi conobbe i versi del Flaminio per ricambiare l’omaggio, in qualche difficoltà venne a trovarsi anche nel comporre la risposta al Bembo (l’attuale son. 35, comunque inviato entro il 28 agosto).40 In effetti, non è improbabile che quella lode così circoscritta alle qualità della sua prosa latina ponesse in qualche disagio il nostro autore, che dal venerato maestro doveva ben aspettarsi anche un accenno al suo valore di poeta volgare; e di tale disagio è prova l’attenzione che, in una lettera al Gualteruzzi del 14 settembre 1546, egli confessò di aver posto sull’espressione « amoroso ingegno »: Ho dubitato sopra quello « amoroso ingegno », perché io non posso ben vedere che forza habbia in quel loco lo epitheto « amoroso », almeno quanto a quella parte che parla di me, come scrittor di prosa latina, con la qual per lo più non si scrive d’amore.41

Il risultato fu che nella sua risposta, un po’ compassata, il Casa finì con lo sviluppare, accanto all’esaltazione del ruolo svolto dal Bembo 38. Nel caso del sonetto bembiano, lo specifico riferimento al De officiis (a fronte di precedenti più comprensive interpretazioni) è stato evidenziato da C. Scarpati (Con Giovanni Della Casa dal « De officiis » al « Galateo » [1981] in Id., Studi sul Cinquecento italiano, Vita e Pensiero, Milano 1982, pp. 126–55, a pp. 126–7), a cui anche si deve l’accostamento di questi versi al carme del Flaminio (ivi, p. 128). 39. Cfr. la lettera al Gualteruzzi del 21 agosto 1546: « ho hauto la vostra de’ XIV, cara oltra il solito per la compagnia che le hanno fatta gli elettissimi versi, che mi hanno pieno di vanagloria insieme et d’invidia: perché leggendoli mi è parso esser quel ch’io non sono » (Moroni, Corrispondenza, cit., n. 179, p. 302); e la citata lettera al Gualteruzzi del 7 luglio 1548: « io ho havuto da Messer Donato Rullo un bellissimo libro di versi latini moderni, dove sono anco una parte di quelli di Monsignor Bembo; e fra quelli, del Sig. Flaminio [. . . ]; ma fra quelli è uno epigrammetto in laude di quel mio trattatello prefato, che io non lo havea mai più sentito né saputo che fosse fatto. Se io me ne sono tenuto buono o no, lo lascio pensare a Voi che vi havete anco il vostro » (ivi, n. 331, p. 491). 40. Per la ricostruzione del carteggio relativo al son. 35 rimando a Della Casa, Rime, cit., pp. 105–6. Quanto al Flaminio, solo in occasione della sua morte, nel 1550, il Casa potrà intitolargli un carme (Flaminii Manes, i), inteso peraltro a frenare l’azione moralizzatrice del Priuli sul Florimonte: egli infatti vi prega l’ombra del Flaminio di far desistere il Priuli dal suo tentativo di convincere il Florimonte a lasciare Roma (e la sua anziana compagna) per risiedere ad Aquino, la diocesi di cui era vescovo, adempiendo a un dovere che lo stesso Florimonte, a Trento, aveva fortemente contribuito a far affermare. 41. La lettera, come sempre, si legge in Moroni, Corrispondenza, cit., n. 186, p. 312. Sull’episodio, cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, p. 438; e Dilemmi, Giovanni Della Casa, cit., pp. 95–7.

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nella sua vocazione poetica, forse il tema meno interessante della proposta, ovvero il rapporto con le città d’origine e di residenza; non senza introdurre in esordio, peraltro, un polemico accenno al conforto guadagnato con il distacco dalle « discordie acerbe » di Roma: quasi a suggerire il superamento, col trasferimento a Venezia, anche di tutte le ragioni del disagio a suo tempo lamentato al Cappello.42 Ma soprattutto, in qualche modo approfittando dello spazio concessogli da quel riferimento al suo « amoroso ingegno », egli non rinunciò a introdurre, tra le righe di una dichiarazione di modestia, una formula in grado di estendere alla poesia il raggio dei propri meriti: L’altero nido, ov’io sì lieto albergo, fuor d’ira e di discordia acerba e ria, che la mia dolce terra alma natia e Roma dal penser parto e dispergo, mentr’io colore a le mie carte aspergo caduco (e temo estinto in breve fia) e, con lo stil ch’a i buon’ tempi fioria, poco da terra mi sollevo ed ergo, meco di voi si gloria [. . . ].

I versi 5–8 di questo testo assumono quindi un rilievo non trascurabile: essi documentano che all’altezza del 1546 il Casa non si sottraeva ad ammettere pubblicamente la propria consapevolezza di « sollevarsi da terra » (per quanto « poco ») nell’« aspergere colore alle sue carte » (colore inizialmente definito « torbido », ma poi più vagamente « caduco »);43 ed anzi affermava di riuscire in tale impresa attraverso « lo stil ch’a buon’ tempi fioria »: uno stile classico (e dunque non solo ciceroniano), che l’espressione utilizzata faceva intendere come proprio di tutte le « carte » del nostro autore, e non solo di quelle in prosa latina (per le quali egli era stato esplicitamente lodato). Questi versi, tuttavia, segnano anche l’apice di un percorso che stava per precipitare lungo una direzione completamente diversa. Senza 42. Che nella prima quartina del son. 35 si ripropongano « i temi di un risentimento polemico che avevamo visti sperimentati già nei sonetti per il Cappello », in particolare verso Roma, notò già Baldacci, Giovanni Della Casa poeta, cit., p. 197; va tuttavia sottolineato il rovesciamento di prospettiva: non più dall’interno delle « valli paludose », ma dall’esterno di esse, da un « lieto albergo » ora raggiunto. 43. Cfr. Della Casa, Le rime, cit., tomo II, p. 60.

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dimenticare quanto sappiamo sulla deludente parabola rappresentata per il Casa, sotto il profilo delle ambizioni di carriera, dal quinquennio veneziano (dai grandi e numerosi riconoscimenti iniziali agli esiti insoddisfacenti della sua azione diplomatica), qui interessa rilevare come quegli stessi anni, analizzando i suoi comportamenti di già celebre poeta, appaiano orientati all’insegna non tanto della dichiarata nuova serenità e della consapevolezza di sé esplicitata nella risposta al Bembo, quanto delle recriminazioni confessate in precedenza nei sonetti a Bernardo Cappello. Il primo documento di questa ambivalenza è rappresentato da quella sorta di controcanto con cui, nel suo epistolario, egli esprimeva totale insoddisfazione per la sua attività poetica di quel periodo, che vedeva asservita proprio a quei doveri sociali che si leggono lamentati nei versi al Cappello: perché da tali condizionamenti nascevano i sonetti che l’amicizia e il rispetto per Girolamo Quirini lo costrinsero a dedicare alla sorella dell’amico, Elisabetta (33–34, 36, 38–39), una donna che oltretutto il Casa non amava frequentare,44 e ancor più quelli che nel 1548 l’insistenza di Alessandro Farnese lo costrinse a comporre in onore di Livia Colonna (41–44).45 Ed anche se (come abbiamo visto) non c’era suo componimento che non incontrasse la lode del Bembo, e se 44. Non si giustifica altrimenti l’iniziale ritrosia ad avviare un’amichevole frequentazione, e addirittura i 18 mesi fatti trascorrere tra la visita del gennaio ’45 e quella del settembre ’46 (cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 401–4). Altri documenti sui non facili rapporti tra il Casa e la Quirini (carissima invece al Bembo) offre Dilemmi, Giovanni Della Casa, cit., pp. 109–10. 45. La relativa documentazione in Della Casa, Rime, cit., pp. 124–134. Va ricordato che, secondo Carrai, « potrebbe alludere all’occasione di questa serie di sonetti Casa, d’ogni mio bene albergo fido, spedito a Monsignore da Vespasiano Martinengo » (Della Casa, Rime, cit., p. 128). Del Martinengo purtroppo si sa poco (se non che fu nobile, studioso di diritto, autore di 19 sonetti e una sestina, e che morì ancor giovane: cfr. V. Peroni, Biblioteca Bresciana, 3 voll., Brescia, Bettoni e soci, 1818–23, rist. anast. Bologna, Forni, 1968, vol. II, p. 250). Il testo del sonetto in questione, che si legge nelle Rime di diversi eccellenti autori bresciani, raccolte da G. Ruscelli, in Venezia, per Plinio Pietrasanta, 1554, p. 85, così recita: « Casa, d’ogni mio bene albergo fido, / anzi di tutto il bel ch’oggi si vede, / in cui vera onestate e pura fede / con Amor fanno e con le Grazie nido, / ov’è ’l bel viso, ond’or piango et or rido, / et onde il cor Amor mi sana e fiede? / Ov’è l’or fino, ov’ei scherzando siede, / e dice – abbiti, madre, Pafo e Gnido – ? / Già non conosco in te la forma usata, / un tenebroso orror t’ingombra intorno, / ché ’l nostro sol spiega i suoi raggi altrove; / per la fronde da te già tanto amata / in terra, o Febo, omai conduci il giorno, / ch’ei più non celi sue bellezze nove » (nella stampa, v. 8: « madre, e Pafo, Gnido »). Ora, per quanto alcuni versi possano ingannare, a me questo testo non sembra contenere un’allocuzione al Casa, ma più banalmente ad un’abitazione rimasta vuota dopo la partenza dell’amata (se non si vuole credere ad un sottilissimo doppio senso di troppe espressioni); evito quindi di trattarne a testo.

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da questa forzata creatività nacquero capolavori come il sonetto La bella greca (36), quanto detto trova conferma in documenti inequivocabili, come il lamento indirizzato al Gualteruzzi, a proposito dei sonetti promessi alla Quirini sul ritratto realizzatole dal Tiziano, in una lettera del 5 febbraio 1545: O se fussi qualche persona misericordiosa che me ne volessi prestare almanco uno, et nominarvi entro la giovine et Titiano, quanto gli benedirei le mani! Se voi aveste sentito quante querele e come gravi et lunghe sopra questi benedetti versi, quasi gli fareste voi: et saprestegli ben far buoni: cosa che non saprò far io, come ho detto.46

E parole ancora più esplicite trovò il Casa riguardo ai sonetti per la Colonna, sui quali, oltre a una veloce confessione allo stesso Gualteruzzi del settembre 1548 (« de’ sonetti non so che mi dire, altro che ringratiar la mia ventura, s’egli è vero che piaccino a qualch’uno »), è da ricordare lo sfogo contenuto in una lettera a Gandolfo Porrino del 21 luglio 1548: Io credo, che io farò sonetti venticinque anni, o trenta [. . . ]; tal Signore gli vuole, e per tal Signore s’hanno da fare; ma io ho questa mia tanto maladetta musa, che non vuol cantare a mia posta; pur vedrò di andarla tanto lusingando, che ella dirà fra bene, e male qualche cosa di quella partita, che gli duol sì forte. Avessele fatto manco bordelli attorno, che non avrebbe ora briga di affaticare un prete gottoso.47

Il secondo dato, nella stessa direzione, è rappresentato dall’assoluto silenzio del Casa nei confronti di quanti, in quel quinquennio veneziano, gli indirizzarono proposte poetiche: tutte, ovviamente, di contenuti schiettamente encomiastici. In parte questo può certamente essere derivato dal poco tempo lasciatogli dagli impegni diplomatici e da un provvisorio inaridirsi della sua vena letteraria, come egli scriveva al Porrino il 16 gennaio di quello stesso anno, scusandosi di non saper ricambiare i numerosi invii (non proposte, di cui non abbiamo traccia) dell’amico: 46. Della Casa, Opere, cit., tomo V, p. 207; cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 431–2. 47. Per la frase al Gualteruzzi, cfr. Moroni, Corrispondenza, cit., n. 351, pp. 516–7; la lettera al Porrino si legge in Della Casa, Opere, cit., tomo V, p. 169; cfr. anche Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 432–3.

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Ho pur tanto tempo questa volta, che io vi posso scriver due versi di mia mano, e ringraziarvi degli avvisi, e più di tanti, e tanti bei versi, che voi mi avete mandato, che mi fanno vergognare di questa mia vena asciutta, e torbida.48

Ma, alla luce di quanto visto sinora, non c’è dubbio che il silenzio riservato ad altri e più estranei ammiratori si dovette alla volontà di difendersi, ove fosse possibile, da quell’uso sociale della scrittura poetica che andava dilagando nel costume di quegli anni, e che al Casa risultava insopportabilmente gravoso. Si capisce allora come, in tali condizioni, egli si guardasse bene dal rispondere ai sonetti inviatigli (assieme a numerose lettere adulatorie) da un personaggio come l’Aretino:49 che egli non mancò di conciliarsi con donativi (tra cui una collana d’oro), ma i cui due omaggi (il primo del 1449, il secondo corretto nel 1452), elogiativi al limite della caricatura e del tutto privi di contenuti, trascurò come meritavano.50 Ma, ad ulteriore conferma, egli non rispose neppure a mittenti con cui era in ottimi rapporti: come Gaspara Stampa, cui il Sansovi48. Della Casa, Opere, cit., tomo V, pp. 168–9. 49. I rapporti fra il Casa e Pietro Aretino furono ben illustrati da Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 390–3. Essi naturalmente sono oggi meglio documentabili grazie all’edizione delle Lettere dell’Aretino (vol. IV dell’Edizione Nazionale delle Opere dell’autore), a cura di P. Procaccioli, 6 tomi, Roma, Salerno, 1997–2002: cfr. libro I, pp. 496–7 (Lettere diverse a l’autore), ep. xxx; libro III, pp. 19, 129, 132, 188–89, 246, 314–5, epistole 8, 111, 116 (al Casa, del dicembre 1548, con dichiarazione d’affetto per il destinatario), 189, 276, 359; libro IV, pp. 81, 212, 261, 362, 402-3, epistole 100, 339, 419, 594, 653; libro V, pp. 158, 161–62, 186–87, 321–22, 374–75, epistole 202, 209 (al Casa, del marzo 1549, contenente il sonetto O Casa, anzi Teatro, Tempio, e Foro, inviato in cambio della collana d’oro ricevutra in dono), 241, 404, 471; libro VI, p. 97, epistola 89 (a Girolamo Molino, datata 1552, e comprendente il sonetto Casa, Sagrario de l’eroiche scole, «un poco revisto e racconcio»). 50. Ecco il testo del primo sonetto: « O Casa, anzi Teatro, Tempio, e Foro, / du’ spazia, du’ rispende, e du’ risiede, / quella virtù, quel valor, quella fede, / con che gite facendo il secol d’oro, / divoti inchinan voi, tutti coloro / ne i quali spirto di ragion si vede; / e chi più vi alza al ciel, chi più vi cede, / più di ciò che far dee serva il decoro, / perché non sol di Tullio organo sete, / di David cetra, di Parnaso ingegno, / fiato a la Fama, e ricordanza a Lete; / ma d’oggi il dì, non tien più egregio pegno / di voi, che a Dio e a gli uomini vivete / non men d’onor, che di salute degno ». E quello del secondo: « Casa, Sagrario de l’eroiche scole, / l’Invidia v’ama, e ammira la Fortuna, / quasi uom che in sé più meraviglie aduna, / che rai non sparge a mezzo Aprile il Sole. / Questa età ch’a i miracoli non sole / il ciglio alzar, fa udir sopra la Luna, / come ve infuse Dio sin ne la cuna / l’esser d’altrui nel suon de le parole. / Onde chi dal dir vostro è in carte impresso, / dal bel Tosco Arno al gran Nilo d’Egitto / vola con l’ali del suo nome istesso. / Tal ch’io con vile orror del tempo invitto, / de la immortalità prendo il possesso, / se in duo note di voi mi trovo ascritto ». Che il secondo non possa essere il rifacimento del primo, come pure qualcuno ha detto, appare evidente.

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no aveva dedicato nel ’45 la lettura varchiana del sonetto alla gelosia, e la cui raccolta di rime proprio al Casa sarebbe stata dedicata dalla sorella Cassandra, nell’edizione a stampa del 1554, uscita dopo la morte della poetessa.51 Eppure l’omaggio inviatogli da Gaspara era stato quanto mai garbato, con quell’apparente noncuranza che talvolta rende particolarmente gradevoli i suoi versi: Cercando novi versi e nove rime per poter far le lodi vostre cónte, Apollo, sceso giù dal sacro monte, l’orecchie mi tirò ne l’ore prime. – Altro ingegno, altro stile ed altre lime, – mi disse – o d’eloquentia un maggior fonte, ti converrebbe a poter stare a fronte con soggetto sì degno e sì sublime. Un mar, che non ha fine e non ha fondo, cerchi solcar, cercando di lodare il riverendo a null’altro secondo. A tutt’altri le stelle furo avare, quando mandar sì chiaro spirto al mondo, a cui han dato ciò che si può dare – .52

Mentre dunque il nostro autore, travolto dagli impegni politici, viveva con sofferta insoddisfazione la modesta e condizionata attività letteraria del suo quinquennio veneziano (come provano il suo epistolario e il suo silenzio nei confronti degli ammiratori), noi dobbiamo dedurre dai panegirici dell’Aretino e della Stampa che, alla fine della legazione, la pubblica immagine dell’arcivescovo è ancora ben ferma entro i solidi, ma anche statici connotati del letterato di successo, o meglio ormai del maggior poeta volgare vivente; tanto più che col sonetto responsivo alla proposta del Bembo, comparso anche a stampa 51. In Venezia, per Plinio Pietrasanta. Sulla Stampa, cfr. per un primo orientamento M. Zancan, Rime di Gaspara Stampa, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, II. Dal Cinquecento al Settecento, Einaudi, Torino 1993, pp. 407–32. 52. Il sonetto è il n. 288 dell’ed. G. Stampa – V. Franco, Rime, a cura di A. Salza, Laterza, Bari 1913; io ne trascrivo il testo dalla princeps, nella quale il testo si legge a p. 142. Per altre sue implicazioni, rimando a G. Forni, “L’orecchie mi tirò ne l’ore prime”. Nota su Giovanni Della Casa e Gaspara Stampa, in Giovanni Della Casa. Un seminario, cit., pp. 289–99.

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nel 1548 (nell’edizione postuma delle Rime del veneziano),53 il nostro autore si era fatto ancor più apertamente carico di tale investitura. Ma questa situazione non sarebbe durata ancora a lungo.

6.5. Tra Venezia e Nervesa: dall’autocritica stoica a una nuova religiosità Nel 1549, in concomitanza con la morte di papa Paolo III, la fine della nunziatura, lo svanire delle condizioni per il raggiungimento dell’agognata porpora cardinalizia,54 il Casa pone in atto una nuova, radicale trasformazione della propria pubblica identità, letteraria e morale. Come anni prima aveva saputo reinventarla nel passaggio da una fisionomia eclettica e spregiudicata a un’immagine di colto e nobile cantore dei sentimenti e degli affetti, ora il suo primo desiderio appare quello di riproporsi, dalla solitudine di una vita tornata privata, come il primo fustigatore di se stesso, votato all’autodenuncia delle proprie mire passate, tutte bassamente mondane: l’amore dissoluto, la poesia come mezzo di ambiziosa realizzazione, e, persa ogni fiducia in tal senso, la ricerca di altri tipi di onori, di genere professionale, carrieristico. Tale denuncia, sia chiaro, poteva ben nascere da un’esigenza sincera; ma richiedeva comunque un impegno comunicativo, ed in questa sede non altro interessa se non render conto delle strategie messe in atto a tal fine, e dei loro effetti tra i corrispondenti, ovvero i primi destinatari di tale operazione.55 53. P. Bembo, Delle rime. Terza impressione, in Roma, per Valerio Dorico e Luigi fratelli, ad instantia di Carlo Gualteruzzi, 1548; in tal sede apparve anche a stampa il sonetto 37 del Casa, composto appunto in morte del Bembo (Or piagni in negra vesta, orba e dolente). 54. Circostanze per le quali rimando ancora a Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 507–22; e a Santosuosso, Vita, cit., pp. 127–37. 55. Altri si sono interrogati sull’autenticità del rapporto, nei versi del Casa, tra vita e rappresentazione letteraria (soprattutto in quest’ultimo periodo dell’esistenza casiana). Il più scettico in materia fu A. Seroni, per il quale « erano gli esercizi stessi che pretendevano un mito » (Sulla lirica di Giovanni Della Casa [1944], in Id., Da Dante a Verga, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 98–114, a p. 103). In seguito prevalse però la posizione di Caretti, che dall’attenzione posta all’attività pubblica del poeta fu guidato a sostenere che le Rime « sono il documento veramente privato del Della Casa, il suo testamento letterario e sentimentale, nei limiti di sfogo consentiti da una educazione umanistica e da una natura estremamente controllata » (Della Casa, cit., p. 145); posizione sostanzialmente condivisa da Baldacci (Giovanni Della Casa, cit., pp. 193–247), e in parte accolta dallo stesso Seroni (Sulle « rime morali » di G. Della Casa, in Id., Da Dante a Verga, cit., pp. 122–32). Più recentemente, tuttavia, mentre Sole

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Nel canzoniere, com’è noto, questa nuova consapevolezza è improvvisamente e integralmente denunciata dalla canzone 47; ma nei rapporti con i lettori coevi e più vicini, tale metamorfosi non poté che realizzarsi gradualmente, in particolare tramite corrispondenze poetiche cui il Casa, dopo tanto silenzio, si prestò con una disponibilità mai vista prima: delle ultime quindici liriche del canzoniere, non a caso, nove hanno un destinatario; e ad esse si aggiunsero, tra il ’50 e il ’55, almeno dieci epistole in versi latini, per non parlare delle odi composte in morte o in lode di conoscenti e potenti, quasi sempre ugualmente coinvolti in una sorta di inesausto e pubblico esame di coscienza.56 I nuovi contenuti, probabilmente, trovarono per la prima volta espressione nell’epistola inviata all’amico Florimonte (ii), forse durante la sosta romana intercorsa dal gennaio del 1550 al giugno 1551, e aperta (con deliziosa invenzione) da un paragone del proprio carattere con quello dell’inguaribile Elena, incapace di gettare nella tomba della sorella, al ritorno da Troia, più della punta di un capello: Ut capta rediens Helene cum coniuge Troia [. . . ] succisam de more comam missura sepulto germanae cineri, fertur dempsisse capillo vix tandem e summo paulum, ne forte placeret tonsa minus metuens Spartanis improba moechis: haud aliter, Galatee, malis erroribus actus nuper ego, et Phrygios nautas, Paridemque secutus aufugi longe [. . . ] Debueram dudum crinem secuisse decorum; hoc est argentum, comites et stragula, coenas lususque, et Musas missas fecisse loquaces, è tornato a sottolineare il rapporto con imprescindibili archetipi (« il voler porre il proprio insuccesso al culmine di un ideale e paradigmatico iter perditionis, se obbedisce a un criterio letterario di coerenza interna alla vicenda umana trascritta nelle Rime [. . . ], d’altra parte risponde soprattutto all’esigenza di presentare il suo risentimento nella luce inequivocabile della rinuncia petrarchistico–cristiana agli onori del mondo, a trasferire cioè un’esperienza personale e storicamente determinata entro la norma di uno schema morale–letterario che assume quell’esperienza su un piano metafisico »: Cognizione, cit., p. 36), Tanturli si è opposto ad assegnare un « carattere privato » a testi cui l’introduzione in una « struttura organica » assegna un messaggio universale (cfr. Le ragioni, cit., pp. 32–41). 56. Mi riferisco ai sonetti 50, 51, 52, 53, 55, 57, 58, 59, 60; e ai carmi i, ii, v, vi, vii, ix, xi, xii, xiii, xvi, xvii, xviii, xix, xxv, xxvi, xxx. Le proporzioni cambiano poco anche a tener conto delle rime extravaganti, tra le quali possono ritenersi con qualche certezza successive al ’49 le nn. 70, 72, 75, 76, 77, 78, 79.

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intrepidus nuper curatae mentis, et acer corrector: sed enim pravus populi pudor obstat; hunc propter pavidi phaleris amicimur ineptis.57

Da tempo, ammette il Casa, egli avrebbe dovuto tagliare il “capello” degli onori e dei tanti piaceri, per tornare a dar voce alle Muse abbandonate; ma si è fatto travolgere dai costumi del volgo, sicché, anche se è consapevole che la qualità di un uomo non dipende dal manto che indossa (meno che mai da quello cardinalizio), e se ha di fronte a sé esempi di virtù (come il Priuli) e di umiltà (come il nuovo amico Gabriele Faerno), egli non può dire di essere guarito dalla sua febbre di ambizione: ammissione preziosa, che darà ragione delle sue mai del tutto sopite aspirazioni.58 È facile notare che anche in questo testo, come già nei sonetti al Cappello, in gioco non è ancora l’aspirazione a una pace spirituale religiosamente vissuta, ma quella ad una stoica liberazione interiore che potesse consentire alla vocazione poetica di tornare ad esprimersi.59 A tale scopo, anche l’ironia (sui propri mali fisici, sulle rinunce cui sarebbe andato incontro lasciando di nuovo Roma: la compagnia di uomini colti, e soprattutto il buon vino) poteva rappresentare una soluzione tanto psicologica quanto espressiva, e in effetti il Casa se ne servì nel carme indirizzato a Gabriele Faerno al momento del suo secondo, volontario trasferimento a Venezia nel ’51 (v); ma tale registro 57. Vv. 1–22 (Della Casa, Carmina, cit., pp. 64–5). Su questo testo, e sulla sua datazione, cfr. ancora Parenti, I carmi, cit., pp. 223, 230–1. 58. Cfr. i vv. 36–50 (Della Casa, Carmina, cit., pp. 65–6): « Nunc pravos inter tituli discrimen inanes / atque bonos nullum signant; saepe et toga pectus / candidius multo, et maius pulla arctaque texit, / quam laxi Tyrioque infecti murice amictus: / [. . . ] Priulusque bonus, simplexque Faernus, / prudens et verae virtutis cultor uterque, / vitrea quos numquam titillat gloria, febris / purgatos huius. Nos quamvis cesserit horror, / atque aestus, sani nondum tamen usque valemus; / sicque animus positam reminiscitur ambitionem, / vulnus ut obductum prurit tamen, haeret asello / ut nudo clitellis nonnumquam ulcus in armo ». G. Faerno, bibliotecario alla Vaticana, fu conosciuto dal Casa proprio nel corso del suo penultimo soggiorno romano (anche se di lui gli aveva già scritto il Gualteruzzi in una lettera del 6 ottobre 1548: cfr. Moroni, Corrispondenza, cit., n. 355, p. 524): sulla sua figura cfr. S. Foà, Faerno, Gabriele, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 44, 1994, pp. 146–8. Sulla persistenza nel Casa di ambizioni che lo spinsero a tornare a Roma nel giugno del 1555, quindi a porsi al servizio di papa Paolo IV e a distaccarsi strategicamente dal cardinale Farnese, cfr. Campana, Monsignor Giovanni, cit., 17, pp. 586–606; e Santosuosso, Vita, cit., pp. 175–91. 59. Aspetto già notato da Stella Galbiati (L’esperienza, cit., pp. 30–2), in particolare a proposito del carme in morte di Ubaldino Bandinelli (vi).

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non trovò altre espressioni, almeno in sede poetica.60 Comunque, nel frattempo, l’irrequieto stato d’animo del Casa durante la sosta romana non passò inosservato, almeno agli occhi sempre attenti del ritrovato Giacomo Marmitta; che dopo la nuova partenza dell’arcivescovo per Venezia, nel richiedergli (retoricamente) aiuto e guida sulla via della gloria letteraria, non mancò di aggiungere l’augurio (ai vv. 6–7) di una pronta guarigione dalla subentrata, e da lui notata, depressione: Se l’onesto desio, che in quella parte ch’al mar d’Adria pon freno, a noi lontano, signor, vi trasse, il ciel non faccia vano, che in voi cotante grazie ha infuse e sparte, ma senza oprar d’umano ingegno o d’arte, sgombro di quel umor maligno e strano, omai vi renda, e l’onorata mano libera lasci a vergar dotte carte, piacciavi, prego, di mostrarmi quale sia il dritto e bel sentier che l’uom conduce al poggio ov’ei si fa chiaro e immortale.61

L’augurio, come si vede, si estendeva a quello di un pieno recupero della creatività letteraria (vv. 7–8): proprio la difficoltà in tante occasioni lamentata dal Casa. Il quale, questa volta rispondendo al parmense, 60. Cfr. i vv. 1–12 (Della Casa, Carmina, cit., p. 72): « Humida Tyrreni fugientem flamina venti / caelumque pestilens Latî, / me Venetum excipient mitissima littora, et aurae / salubriores, putribus / iam membris senio, et podagra turgentibus acri, / quae flare suerunt nec mala / imbutae tussi, neque in ipsis fluctibus udae, / Faerne, mireris licet. / Prorsus, qui Romam liquit, rerum ille carebit / pulcherrimo spectaculo; / non coetum aeque illustrem hominum, nec Palladis aeque / instructa pectora artibus »; e i vv. 21–26 (ivi, p. 73): « Ipse ego, ferventi delapsam ex imbrice lympham / nuper, nec altos in scrobes, / et vappam, salices inter quae nata palustres / caeni saporem patrii / potanti offundet, mediis fervoribus, ardens / arente fauce traxero ». Ma non certo ironico è il conclusivo elogio del carattere pacifico dell’amministrazione veneziana, ai vv. 27–34 (ibid.): « Ast idem hospitibus placidos, et dulcia pacis / impertientes commoda / mortales cernam, et locupletem civibus urbem / dispar probantibus nihil; / cernam loricam violentam, ensemque superbum / inermibus suffragiis / constrictum, et dirae execratum caedis amorem / longe exulantem gentium ». Anche su questo componimento cfr. Parenti, I carmi, cit., pp. 219–20. 61. Sono i vv. 1–11 del testo n. [189] in Marmitta, Rime, cit., p. 121; si legge anche nelle edizioni casiane, dalla princeps (pp. 47–8) a Della Casa, Rime, cit., pp. 169–70 (ove la corrispondenza, a p. 168, viene datata tra il ’51 e il ’52). Come già detto nella nota 28, forse il Marmitta salutò il Casa partente per Venezia e Nervesa anche col sonetto [75], Or vivrete a voi stesso, or pace avranno (p. 41).

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come già aveva fatto col Cappello replicò addirittura con due sonetti, entrambi per le rime, ed entrambi portatori di un messaggio per lui rinnovato. Mi riferisco al sonetto 50: chi sdrucita navicella invano vede talor mover governo e sarte ami, Marmitta, il porto; iniqua parte elegge ben chi ’l ciel chiaro e sovrano lassa e gli abissi prende: ahi cieco, umano desir, che mal da terra si diparte! [. . . ] Procuriam dunque omai celeste luce, ché poco a chiari farne Apollo vale, lo qual sì puro in voi splende e riluce.

E al 51: Sì liet’avess’io l’alma e d’ogni parte il cor, Marmitta mio, tranquillo e piano, come l’aspra mia doglia al corpo insano, poi ch’Adria m’ebbe, è men noiosa in parte; [. . . ] o fosca, o senza luce vista mortal, cui sì del mondo cale, come non t’ergi al ciel, che sol produce eterni frutti? Ahi vile augel su l’ale pronto, ch’a terra pur si riconduce!62

Tra i due sonetti, è evidente che quello che direttamente risponde al Marmitta è il secondo, il 51: nell’esordio, il Casa riconosce che lo spostamento a Venezia è forse servito a migliorare la sua salute (il primo fine che si proponeva nell’ode al Faerno), non certo il suo stato d’animo.63 Ma i due testi sono legati da un elemento mai incontrato 62. Del son. 50 ho riportato i vv. 3–8, 12–14; del 51, i vv. 1–4, 10–14. I due testi si leggono anche nell’ed. delle Rime del Marmitta, cit., p. 196, ove sono introdotti dalla didascalia: Risposta di Monsig. della Casa con gli duoi presenti sonetti, a quel di m. Giac. Mar. che incomincia « Se l’honesto desio che in quella parte ». L’unica lezione successivamente corretta dal Casa era « sua doglia » (51, 3), sostituito con « mia doglia ». 63. La maggiore attinenza del son. 51 nei riguardi della proposta, già notata da Tanturli (nel suo commento a Della Casa, Rime, cit., p. 152), ha indotto lo studioso a considerare il n. 50 come responsivo non al citato testo marmittiano, ma al successivo sonetto I’ mi veggio or da

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prima nelle corrispondenze poetiche casiane, l’invito al recupero di una dimensione religiosa; e nel contempo, nel sonetto 50 viene meno perfino quello che era stato finora il solo valore assolutamente positivo, e mai abbastanza perseguito, ovvero la dedizione alla poesia: « ché poco a chiari farne Apollo vale ». Era un importante passo in avanti, forse in parte ispirato dal carattere dello spirituale interlocutore, di cui è nota la venerazione per s. Filippo Neri; certo è che lo stesso Marmitta dovette inizialmente rimanere un po’ spiazzato, perché da un lato (e senza rispondere per le rime) replicò di non ritenersi capace di una libertà interiore prospettatagli in termini così sublimi, giungendo persino ad esprimere amichevole invidia per la disponibilità di un rifugio come quello di Nervesa: Casa, non come voi sollevo et ergo lo cor al ciel; ma sempre a terra volto, fra mille inganni, e duri lacci involto, indarno i miei pensier parto e dispergo. Avessi io come voi securo albergo in un boschetto di bei rami folto; Là ’ve in se stesso l’animo raccolto lasciasse omai le vane cure a tergo! Ch’io spererei seguendo le vostre orme alzarmi in parte, ove sarebbe udita la voce, ch’or di me qui langue e more. Ma come posso da tai nodi sciorme, come loco cangiar, pensieri e vita, canuto e stanco in così lungo errore?;

dall’altro invece (nella risposta canonica) si dichiarò gioiosamente indirizzato verso la giusta via, e di dovere tale conquista proprio alle indicazioni del Casa: I’ mi veggio or da terra alzato in parte ove il mio antico error m’è chiaro e piano, e quanto basso, anzi pur cieco e insano sia il desir mio conosco a parte a parte, terra alzato in parte (sul quale vedi oltre); il quale invece (per le ragioni già ribadite da Carrai, in Della Casa, Rime, cit., p. 167) deve comunque ritenersi il testo che chiuse la corrispondenza.

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onde l’alma da sé lo scaccia e parte e comincia a ritrarsi a mano a mano su verso ’l cielo, ond’io son sì lontano, e da l’errante volgo irne in disparte; ch’ella, scorgendo che sì poco sale umana gloria, a l’alta eterna luce si volge e di null’altro omai le cale: questo bel frutto in lei, Casa, produce il vostro alto consiglio, e con quest’ale al vero e sommo Ben si riconduce.64

Il carattere religioso e persino ascetico di questa corrispondenza casiana, sviluppata su toni contriti ma anche propositivi, e supportata dalla comprensione partecipe dell’interlocutore, trovò un chiaro riscontro, pur con esiti opposti, nello scambio di sonetti intercorso con Benedetto Varchi: svoltosi a mio avviso con un certo anticipo rispetto ad altre analoghe iniziative varchiane (su cui rimando alle pagine successive), visto l’accenno alla morte del Bembo come ad evento non ancora lontano, e soprattutto un approccio del proponente in cui questi si mostra del tutto ignaro delle nuove intenzioni del Casa. È infatti difficile spiegare altrimenti questa ennesima investitura del nostro autore quale massimo letterato e poeta vivente, e in quanto tale prestigioso rappresentante di Firenze (chiodo fisso del Varchi), non senza un chiaro richiamo d’esordio (con l’ovvio gioco di parole sul cognome del Casa, già divenuto luogo comune) all’incipit del precedente omaggio bembiano: Casa gentile, ove altamente alberga ogni virtute, ogni real costume, Casa, onde vien che questa etate allume e le tenebre nostre apra e disperga [. . . ]. Quanto, allor che ’l gran Bembo a noi morìo, perdero in lui le tre lingue più belle, tutto ritorna e già fiorisce in voi; 64. Dei due sonetti, il primo è il n. [203] dell’ed. cit. delle Rime del Marmitta (p. 128), e correda per la prima volta la raccolta casiana nell’ed. Carrai (Della Casa, Rime, cit., p. 167); il secondo è il n. [273] (p. 168), e si legge in tutte le edizioni del nostro autore, dalla princeps (p. 48) a Della Casa, Rime, cit., p. 172.

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per cui l’altero nido vostro e mio, ché gli rendete i pregi antichi suoi, risonar s’ode infin sopra le stelle.65

Ebbene, la risposta del nostro arcivescovo (53) fu davvero poco cordiale, come la circostanza del resto motivava: contrariamente alle pur modeste ammissioni contenute nella replica al Bembo, in essa non si trova che una radicale negazione di ogni proprio merito, e l’affermazione, attraverso le immagini dell’uccello palustre dal volo basso, del lume prossimo a consumarsi, dell’ignobile ramo boschivo su cui l’alloro non può essere innestato, di una siderale distanza rispetto al nobile canto del maestro veneziano: Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga che ’n Adria mise le sue eterne piume, a la cui fama, al cui chiaro volume non fia che ’l tempo mai tenebre asperga; ma io palustre augel che poco s’erga su l’ale sembro, o luce inferma e lume ch’a leve aura vacille e si consume, né pò lauro innestar caduca verga d’ignobil selva: dunque i versi, ond’io dolci di me, ma false udi’ novelle, amor dettovvi e non giudicio [. . . ].66 65. Il sonetto (di cui cito i vv. 1–4, 9–14), sempre presente in edizioni casiane (dalla princeps, p. 49, a Della Casa, Rime, cit., p. 179), è il n. [77] dell’edizione De sonetti di m. Benedetto Varchi [. . . ] colle risposte e proposte di diversi. Parte seconda, in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1557, p. 80: raccolta in cui esso presenta due correzioni d’autore, una al v. 8 (« s’affine » per « si specchi »), e una al v. 12 (« vostro nido » per « nido vostro »). La collocazione della risposta del Casa, tra le Rime di quest’ultimo, in posizione successiva al n. 52 (certamente databile tra il ’53 e il ’54), essendo probabilmente nata dalla comune ascendenza varchiana, non comporta una necessaria posteriorità cronologica: al contrario, per le ragioni indicate a testo, la più plausibile datazione del sonetto 53 dovrebbe riportarci agli anni (veneziani) ’51–’52. Sull’articolazione della raccolta lirica del Varchi, cfr. L. Paolino, Il “geminato ardore” di Benedetto Varchi. Storia e costruzione di un Canzoniere “ellittico”, « Nuova rivista di letteratura italiana », 1–2 (2004), pp. 233–314; e G. Tanturli, Una gestazione e un parto gemellare: la prima e la seconda parte dei Sonetti di Benedetto Varchi, « Italique », 7 (2004), pp. 43–100. 66. Il testo indirizzato al Varchi presentava « altere » per « eterne » (v. 2), mentre l’iniziale variante « cui leggier aura d’ora in or consume » (v. 7: cfr. Della Casa, Le rime, cit., tomo II, p. 74) non figura nelle edizioni del destinatario. Il « tono di rifiuto deciso, quasi scontroso » di questa risposta è stato già rilevato da Tanturli (cfr. Della Casa, Rime, cit., p. 181); e cfr. ancor prima Dilemmi, Giovanni Della Casa, cit., pp. 98–9.

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L’autocritica, come si può notare, rimane anche qui limitata all’ambito letterario: ad estenderla alla sua intera esperienza di vita il Casa provvedeva, da qualche tempo, in vari altri testi (dalla canzone 47 ai sonetti in morte di Trifon Gabriele, 48–49). Ma questa risposta fu ugualmente così lapidaria e scostante (soprattutto nei vv. 9–11), che il Varchi solo per interposta persona, come vedremo, riuscirà in seguito a ristabilire dei contatti in forma poetica. La stagione delle lodi, soprattutto da parte di chi il Casa sentiva più vicino, doveva finire; se corrispondenze aveva senso intrattenere, esse dovevano ora veicolare (possibilmente con la partecipazione dell’interlocutore) consapevolezza della caducità di ogni bene mondano, e al tempo stesso coscienza della difficoltà di dedurne uno stile di vita coerente, pure continuamente auspicato, rimpianto, agognato. Contestualmente, nella lirica latina, da ormai assennato moralista eppure ancora in parte vittima di antiche debolezze, il Casa di Venezia e di Nervesa tende sempre più a proporsi come educatore di moralità, finalmente memore dei tanti studi dedicati all’Etica aristotelica. Così, in un’epistola metrica (vii) ad Annibale Rucellai del 1552, egli si impegna e mettere in guardia il nipote prediletto dalle falsi lodi, dalle lusinghe, capaci di renderci schiavi dell’amore per noi stessi;67 e similmente in un carme (xxv) indirizzato nello stesso anno a Pompilio Amaseo, in occasione della morte di Romolo, padre del destinatario e antico maestro del Casa, egli raccomanda al giovane di non piangere la morte del padre, ma di accettare il destino voluto per l’uomo da Dio (qui dagli dèi), senza disturbare con lamenti la pace raggiunta da Romolo nel regno dei giusti.68 67. Cfr. i vv. 1–9 (Della Casa, Carmina, cit., pp. 76–7): « Mentem blandiciae perdere credulam / norunt, non secus ac mortiferas malae / multo melle novercae / olim cum medicant dapes. // Viro imbuta malo dulcia murmura / mendacis fuge linguae, et teneras neque / falsis laudibus aures / admoris, cupidus puer // verarum [. . . ] »; e i vv. 33–40 (ivi, p. 78): « Cum laudis faciem sumpserit impudens / fraus, affinxerit et cum tibi non tua / blanda nomina voce, / et dulcem illecebram struet; // ne te praecipitem trudat amor tui, / ne nugis capiare, ut volucris solet / dulci parvula cantu / tecti vepribus aucupis ». Sui rapporti e la corrispondenza tra il Casa e il nipote, cfr. M. Mari, Le lettere di Giovanni Della Casa ad Annibale Rucellai, in Per Giovanni della Casa, cit., pp. 371–417. 68. Cfr. vv. 1–2, 13–23, 38–40 (Della Casa, Carmina, cit., pp. 103–4): « Ne tu immerentes, ne mulieribus / Manes paternos urge ululatibus [. . . ] / Idem tribunal nos manet, urnaque / omnes; beatus quem minimae premunt / culpae; absolutum et rite Iudex / mittit ad Elysiam quietem; / qua dum ille laetus perfruitur, Deos / frustra lacessis fractus et impotens, / et voce compellas acerba / fata tuis inimica votis. / Non Diis amicum est, optime Pompili, / ut quidquid illis est placitum semel / nos improbemus / [. . . ]. Frustra igitur ferox / quaeris

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6.6. Nervesa: attestazioni di raggiunta sapienza cristiana Diverse e nuove, a Nervesa, sono anche le reazioni del Casa nei confronti dei consueti, tenaci condizionamenti esterni a quello che restava comunque il suo primo fine terreno, ossia la libera attività letteraria. Quanto quei condizionamenti restassero insuperati, nonostante l’apparente distacco dai meccanismi romani del potere, lo testimonia una ben nota lettera a Pier Vettori del 15 luglio 1553: Son’ entrato in una briga non necessaria, cioè, di far versi latini; e credeva di potermene liberare a mia posta, ma m’interviene al contrario, non solo perché io stesso non me n’astengo così facilmente; ma ancora perché io son ricerco alle volte di farne da persone, alle quali io non ardisco negare, come è il Cardinal Farnese, e qualche altro. Ma veggio poi, che ’l compiacer loro è mia vergogna in due modi: l’uno, perché l’esser poeta non è forse in tutto comportabile al mio grado; e l’altro, perché l’esser cattivo poeta non è comportabile a nessun grado. Io ho fatto un’Oda ad instanza del Cardinal Farnese in laude di Mad. Margherita, sorella del Re di Francia; o più tosto detto, che la bisognerebbe fare, come V. S. vedrà, che gliele mando. V. S. ha in gran parte la colpa, che io sia ricerco, perché ella mi ha messo in reputazione appresso Sua Signoria Illustrissima, e con le parole, e con le scritture: sia contenta ancora d’aver la briga di vederla, e di leggerla due volte, ed avvertirmi liberamente in generale, ed in particulare, senza rispetto alcuno.69

La novità rispetto al passato è che, nella sua nuova veste di saggio solitario, egli poteva prendersi la libertà di sviluppare in modo assai personale anche i temi addossatigli su commissione: sicché, se l’ode per Margherita di Valois (richiesta dal cardinale Alessandro Farnese) è in realtà a lungo dominata dal racconto della corruzione che l’anima dell’autore aveva dovuto subire a Roma (xi), a Girolamo Correggio, che gli chiese un sonetto in lode di Girolama Colonna, egli rispose persino con un invito a fuggire l’amore, capace di straziare il cuore (sonetto 57); e a Ranuccio Farnese, che lo invitava a un identico impegno, rispose (col sonetto 55) di rivolgersi ad un altro poeta, perché egli ormai era solo intento a dimenticare il passato romano (concetto reluctari Deorum, / quae melius patiare, iussis ». Sul defunto, introduttivamente, cfr. R. Avesani, Amaseo, Romolo Quirino, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 2, 1960, pp. 660–6; sul figlio, cfr. Id., Amaseo, Pompilio, ivi, pp. 658–60. 69. Della Casa, Opere, cit., tomo V, pp. 128–9.

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affine a quello portante dell’ode a Margherita di Valois), né più alcun interesse gli suscitava la gloria: Mendico e nudo piango, e de’ miei danni men vo la somma tardi omai contando tra queste ombrose querce, ed oblïando quel che già Roma m’insegnò molti anni; né di gloria, onde par tanto s’affanni umano studio, a me più cale, e quando fallace il mondo veggio, a terra spando ciascun suo dono, acciò più non m’inganni.70

Nel frattempo, di sua iniziativa, il Casa sceglieva anche dei destinatari ben distanti da quel circolo farnesiano che era stato sempre il suo mondo, rivolgendosi a religiosi impegnati con passione nella riforma cattolica. E mentre al piacentino Cornelio Musso, vescovo di Bitonto noto per probità e rigore, indirizzava un’epistola metrica latina in lode dell’eloquenza spiegata dal destinatario nelle sue prediche dal pulpito (xxvi), al cardinale di Trento Cristoforo Madruzzo, nell’agosto del 1554, rivolgeva un sonetto (58) che, pur attraverso un piuttosto ovvio gioco sul nome del ricevente, aveva comunque il ruolo significativo d’introdurre per la prima volta nella produzione casiana, con tutte le implicazioni di un così esplicito richiamo religioso, il nome di Cristo: e sì porterai tu Cristo oltra il rio di caritate, colà dove il volgo cieco portarlo più non si ricorda.71 70. Vv. 1–8. Il testo fu pubblicato per la prima volta nel Tempio della divina signora donna Giovanna d’Aragona, a cura di G. Ruscelli, Venezia, per Plinio Pietrasanta, 1554: ove il v. 8 si legge nella forma: « ciascun suo don, perché più non m’inganni ». Una variante del v. 7, « falso il mondo conosco » (cfr. Della Casa, Le rime, cit., tomo II, p. 75), non fu accolta in alcuna edizione a stampa. In merito all’identità della signora non lodata da questo sonetto, secondo Carrai (Della Casa, Rime, cit., pp. 186), « la “leggiadra Colonnese”, così menzionata al v. 9, potrebbe non essere Girolama [. . . ], né Livia [. . . ]. Plausibile è che si trattasse di Giovanna d’Aragona, moglie di Ascanio Colonna ». L’affinità tematica tra l’ode xi e il sonetto 55 fu già notata da Parenti, I carmi, cit., pp. 220–1. Su Ranuccio, fratello di Alessandro, cardinale già all’età di 15 anni (nel 1545) e morto trentacinquenne nel 1565, cfr. G. Fragnito, Farnese, Ranuccio, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 45, 1995, pp. 148–60. Su G. Correggio, figlio di Veronica Gambara e familiare del card. A. Farnese, cfr. Ead., Correggio, Girolamo, ivi, vol. 29, 1983, pp. 450–4. 71. Vv. 12–14. I due destinatari erano peraltro conoscenze di lunga data: due lettere del Casa al Madruzzo (spesso nominato nel carteggio col Gualteruzzi), datate 18 giugno 1547 e

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Né il Casa si fermò qui, in questa definitiva ricostruzione della propria immagine nella direzione di una Sapienza cristiana ormai raggiunta, se non pienamente vissuta. Su tale via, egli si spinse fino a riconoscere in rima (dopo aver in mille modi recalcitrato nei fatti) il proprio dovere, appena sancito dal Concilio di Trento, di risiedere a Benevento, la diocesi di cui da oltre un decennio era arcivescovo; e per farlo colse come occasione un innocuo sonetto, nulla più che umilmente elogiativo, giuntogli dal napoletano Berardino Rota: Parte dal suo natio povero tetto da pure voglie accompagnato intorno contadin rozzo, e giunge a bel soggiorno da chiari regi a gran diporto eletto; ivi tal meraviglia have e diletto in veder di ricche opre il luogo adorno, che gli occhi e ’l piè non move, e noia e scorno prende del dianzi suo caro alberghetto. Tal aven al penser, se la bassezza del mendico mio stil lascia e ne vene del vostro a contemplar l’alta ricchezza, Casa, vera magion del primo bene, in cui per albergar Febo disprezza lo ciel, non che Parnaso ed Ippocrene.72

Forse per la distanza, dato che in quegli anni si muoveva tra Napoli e Roma, il Rota con questo testo proponeva un omaggio per nulla aggiornato sulle più recenti evoluzioni della lirica casiana73 . Ma invece 9 gennaio 1549, sono pubblicate da A. Santosuosso, Inediti casiani. Con appunti sulla vita, il pensiero e le opere dello scrittore fiorentino, « La rassegna della letteratura italiana », 79 (1975), pp. 461–95, a pp. 484–5, 487–8. Sul cardinale di Trento, cfr. R. Becker, Madruzzo, Cristoforo, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 67, 2007, pp. 175–80; sul vescovo di Bitonto, cfr. P. Foresta, Musso, Cornelio, ivi, vol. 77, 2012. 72. Così, come giunse al nostro autore, il testo si legge nelle edizioni casiane, dalla princeps (pp. 49–50) a Della Casa, Rime, cit., p. 200; successivamente il Rota, in vista della prima stampa (Sonetti et canzoni, in Napoli, appresso Giovanne Maria Scotto, 1560) ne rielaborò i vv. 5–6, che divennero « ivi ha tal meraviglia e tal diletto / scorgendo di ricche opre il loco adorno », e in questa veste il sonetto si legge oggi in B. Rota, Rime, a cura di L. Milite, Fondazione Bembo – Guanda, Parma 2000, pp. 302–3, n. 118 (edizione cui rinvio anche per tutte le informazioni biobibliografiche sull’autore). 73. Il che fa pensare ad una composizione relativamente alta del testo, nel quadro della produzione del Rota: nella quale è nota, in generale, la forte incidenza della lezione e delle

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di ignorarlo, o di reagire come in precedenza aveva fatto con il povero Varchi, il nostro arcivescovo colse l’occasione che gli offriva un saluto provenientegli da un rimatore del Meridione, per alludere, nel responsivo e cordiale sonetto 60, a quel dovere pastorale da lui sempre trascurato (vv. 12–14): Mio dever già gran tempo a le tirrene onde mi chiama, e or di voi vaghezza mi sprona; ahi, posi omai chi mi ritiene!

Confessioni sempre più trasparenti, dunque. Tra queste, allora, non sorprende trovare infine un’esplicita attestazione di disinteresse proprio per l’ossessione di tutta la sua vita, la porpora cardinalizia. E lo spunto, in questo caso, tornò a darglielo il Varchi, in una corrispondenza poetica con Francesco Nasi (un fiorentino residente nel veneto, e familiare del nostro arcivescovo), già studiata da Silvia Longhi.74 Dopo il brusco trattamento ricevuto in precedenza, il Varchi infatti non ritornò a provocare l’antico amico, ma si limitò a chiederne notizie al Nasi, velatamente accennando, come esempio dell’ingiustizia che domina il mondo, alla mancata nomina cardinalizia del Casa: che fàce ora il gran vostro e mio buon Casa, nel qual, con lunga e larga e folta schiera di virtù, senno ed eloquenza intera s’annidan sempre, come in propria casa? Voi pur sapete, ed ei, ch’alto coraggio nulla non cura, perché ’l mondo onori il men buon più sovente, e ’l manco saggio. Ditegli dunque: « il meritar gli onori è vera gloria, che non pate oltraggio; gli altri son falsi e torbidi splendori ».75 più tipiche immagini del Casa (cfr. L. Milite, Introduzione a Rota, Rime, cit., pp. xv–xvi). 74. S. Longhi, Della Casa, Varchi, Bembo e la vera gloria (scheda per il sonetto “Feroce spirto”), « Studi e problemi di critica testuale », n. 19 (1979), pp. 127–34; a p. 127, il poco che è oggi possibile sapere sul Nasi. 75. Vv. 5–14 del sonetto Francesco, in cui, quanto è fra noi rimasa, n. 78a dell’ed. Varchi, De sonetti, cit., p. 81; lo ripubblica Longhi (Della Casa, cit., p. 128), la quale segnala il carattere citazionale dei vv. 12–14, in cui l’autore trascrisse i vv. 9–12 del sonetto 129 del Bembo (cfr. Id., Prose, cit., p. 612); e lo ristampa Carrai in Della Casa, Rime, cit., p. 173.

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Il Nasi rispose ribadendo la raggiunta indifferenza, da parte del Casa, riguardo a questo genere di onori; nel suo sonetto, l’illustre concittadino appare rappresentato (come già abbiamo visto negli ultimi versi del Marmitta) come illuminato da una « luce celeste » che già lo colloca « negli eterni cori »: [. . . ] nell’ornata et onorata casa, ove abitar l’immagin venne intera del bel dire et oprar, mai non è sera, perché luce celeste ivi s’accasa. Bene ella scorge come ’l buono e saggio non pregia d’adornar quel ch’è di fuori, che solo è ombra in sì corto viaggio. In lei e ’n voi veggio i perfetti onori, che non posson patir nessuno oltraggio, sendo innalzati negli eterni cori.76

A questo punto anche il diretto interessato ritenne opportuno intervenire, tra l’altro con uno dei suoi sonetti più famosi (52), per confermare ancora una volta la propria trasformazione interiore, e in particolare la propria conquistata indifferenza per il colore del manto; ma indirizzò questi versi al Nasi, non al Varchi: Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero, e per ornar la scorza anch’io di fore molto contesi: or langue il corpo e ’l core paventa, ond’io riposo e pace chero. Coprami omai vermiglia vesta o nero manto, poco mi fia gioia o dolore, ch’a sera è ’l mio dì corso e ben l’errore scorgo or del vulgo che mal scerne il vero. La spoglia il mondo mira; or non s’arresta spesso nel fango augel di bianche piume? gloria non di virtù figlia che vale?77 76. Vv. 5–14 del sonetto Varchi, la virtù vostra in chiara basa, n. 78b dell’ed. Varchi, De sonetti, cit., p. 81; lo ripubblicano Longhi, Della Casa, cit., pp. 128–9, e Carrai in Della Casa, Rime, cit., pp. 173–4. 77. Nel testo inviato al Nasi, i vv. 7–8 avevano probabilmente la forma: « sì lo mio dì sen

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In entrambi i sonetti, del Nasi e del Casa, si noterà come il distacco dall’ambizione cardinalizia si inserisse coerentemente all’interno di un più complessivo, conquistato disinteresse da parte dell’arcivescovo per ogni mondana apparenza: era l’approdo ideale di un percorso rappresentato con perfetta gradualità, e dunque anche per questo (oltre che, naturalmente, per i significati oggettivi e profondi del ritiro a Nervesa) tanto più convincente. Tale per lo meno apparve (come si è visto) al Bolognetti e al Marmitta; tale apparve a Cassandra Stampa, che giustificò la propria scelta di dedicare al Casa l’edizione delle rime della sorella Gaspara, disegnando un ritratto del nostro autore perfettamente corrispondente all’immagine di saggio, austero e illuminato, che abbiamo visto gradualmente prender forma in tante corrispondenze;78 e tale apparve al milanese Anton Francesco Raineri, il quale all’inizio del 1553, nel chiudere la serie dei propri Cento sonetti (con omaggio del tutto disinteressato, come già notato per il Bolognetti), giunse a rivolgersi al Casa in questi termini: Casa, de le virtù tempio, che solo quasi il sol miro et altamente onoro, che i coralli e i robin fragili e l’oro sdegni, e dietro ciascun ti lasci al volo, tu scintillando a me, ch’appresso volo col bel disio, sin dal celeste coro la via m’additi, ond’io cinto d’alloro, vagheggiando il tuo lume, aggiunga al polo. fugge e ben l’errore / scorgo del vulgo che mal scerne il vero »; ma per la sofferta elaborazione di questo sonetto cfr. Della Casa, Le rime, cit., tomo II, pp. 73–5; e Id., Rime, cit., p. 174. 78. Basta leggere alcune frasi estrapolate dalla dedica (datata Venezia, 13 ottobre 1554) della princeps: « il vivo raggio di Vostra Signoria Reverendiss. splende agli occhi miei da quella sua riposta solitudine, ove il più delle volte per dar opera ai suoi gravi et alti studi, e pascer di preziosissimo cibo il suo divino intelletto, si ritiene. Sì fattamente che, come ferro da calamita, sono stata tirata a viva forza a consacrarle a lei, perché (oltra che è Signore di natura, nato nobilissimo in nobilissima città d’Italia; di fortuna, per le ricchezze amplissime che ella ha; di virtù, possedendo tutte le più nobili e più segnalate scienze che si trovino; et ella quale come a chiarissima stella, e ferma, si deono indirizzare tutte le opere di quei, che nel mare di qualsivoglia fatica onorata navigano), io sono sicura che in questo compiacerò anche alla benedetta anima dell’amata sorella mia [. . . ]. Non isdegni adunque Vostra Signoria Reverendissima di ricever, con quella molta bontà d’animo che Dio le ha dato, questi pochi frutti dell’ingegno della disideratissima sorella mia, dalla quale fu mentre visse osservata, e tanto reverita » (cc. IIv–IIIv). Il testo della dedica si legge integralmente ristampato in Stampa – Franco, Rime, cit., pp. 368–9.

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E mentr’il volgo entr’a quest’aer fosco erra dietr’a i caduchi umani onori col ciglio e col pensier torbido e losco, me, tra l’alme più pure e i santi Amori scorgi al verace onor perch’i’ sia vosco, qual raggio che col sol spunte già fuore.79

Si tratta di versi estremamente significativi. Essi testimoniano che, nell’atto stesso di dare inizio al suo ritiro, il poeta fiorentino poteva addirittura già essere (letterariamente) presentato come guida alla beatitudine celeste, e introdotto in tale ruolo alla fine di un canzoniere: una sede e un ruolo generalmente riservati a Dio e alla Vergine.

6.7. Il soggiorno romano e qualche contraddizione Proprio grazie alla raccolta del Raineri, tuttavia, si può constatare come quest’ultima immagine del Casa (ascetica ed edificante) conservasse ancora tratti di persistente ambiguità. In gioco, ovviamente, non vi erano le riconosciutissime doti intellettuali, letterarie e poetiche del fiorentino, né il raggiungimento di un’ormai salda dignità morale; poco stringente, e quindi sostanzialmente esteriore, poteva invece apparire quel distacco da ogni riconoscimento mondano che il nostro arcivescovo, dopo aver a lungo lamentato di non riuscire a raggiungere, aveva infine sostenuto di aver conseguito (pur al termine di un amaro percorso di errori e di delusioni, come nel sonetto 52): quel distacco che solo autorizzava la sua elezione (da parte del Bolognetti, del Marmitta, del Nasi, del Raineri) a vera e credibile guida spirituale. 79. È questo l’ultimo dei Cento sonetti di m. A. Raineri, in Milano, per Gio. Antonio Borgia, 1553, c. 29v (la lettera dedicatoria a Fabiano de’ Monti, c. 2r–v, è datata I aprile 1553); la raccolta (di cui G. Gorni ha allestito un’edizione per ATL, cit.) comprende anche altre rime, le Pompe, nonché una Brevissima esposizione in prosa firmata dal fratello dell’autore, Girolamo: tutto oggi disponibile grazie a A.F. Raineri, Cento sonetti, altre rime e Pompe, con la Brevissima esposizione di G. Raineri, testo e note a c. di R. Sodano, Res, San Mauro (Torino) 2004. Sul Raineri (1510–60), poco fortunato cortigiano di Pier Luigi Farnese, cfr. B. Croce, Antonfrancesco Raineri, in Id., Poeti e scrittori, cit., pp. 376–89; C. Vela, I letterati nelle istituzioni: l’esperienza interrotta di Pierluigi Farnese (1545–1547), « Archivi per la storia », 1 (1988), pp. 343–64, a pp. 347–50; Gorni, Un’ecatombe, cit.; e i già ricordati Poeti del Cinquecento, pp. 533, 539–40, 564–70.

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Per avvertire subito la portata di tale ambiguità, dicevo, è sufficiente confrontare il testo dell’ultimo dei Cento sonetti del Raineri con quello della Brevissima esposizione che lo correda, a firma del fratello dell’autore, Girolamo (se non si tratta di una maschera dello stesso Antonfrancesco): Non poteva già far l’Auth. più degna et onorata chiusa al numero dei suoi cento sonetti che con quest’ultimo; il qual contiene una minima parte delle lodi e degli onori infiniti che si devono dai più nobili intelletti a Mons. Della Casa Reverendiss. Et in effetto è poi così: perch’a dì nostri non si vede anco persona, al comun giudizio, più compita di quel Signore, e tanto universale et eccellente, sì circa le scienze, com’intorno alle lingue. E veramente chi si può dir ch’agguagli Mons. Della Casa nelle composizioni volgari, et in versi et in disciolta orazione? E chi nelle latine? Chi nelle greche? E chi nelle scienze poi? Vediamo uscir in luce ogni dì cose delle sue che smarriscono, e dilettano insieme, tutti gli acuti ingegni [. . . ]. Il quale animo, oltre i studi gravi e severi, e le doti della fortuna, congiunte con le virtù che risplendon in lui, è nelle cose del mondo essercitato tanto, e di sì rara bontà, ch’io non crederò mai che per dar compimento intiero alla sua felicità et alla gloria del sommo suo pontificato, N. S. Giulio III si lasci uscir di mano una sì grande occasione di ornar un tal soggetto della sua convenevole dignità; et è ciò ch’io dico sì chiaro al mondo, che il differirlo più parrebbe gran meraviglia, se non si bilanciassero i rispetti con l’infinita provideza di S. Beatitudine. Ma venendo a l’esposizione del sonetto, ancorché quel Signore si stia con l’animo tutto tranquillo e sereno intorno ai studi suoi, e poco aggia bisogno dell’altrui lodi, non ha potuto però l’auth. non dir che splenda il sole, e non mostrar quant’egli ammiri et onori la luce sua: il che fa col presente sonetto.80

La contraddizione che intercorre tra l’« ideale rinunciatario » del sonetto e l’auspicio, introdotto dalla prosa, « che il Casa sia onorato dal pontefice della sua “convenevole dignità”, e cioè insignito della porpora cardinalizia », è un dato evidente, messo del resto già in luce da Gorni.81 Si trattava, in realtà, di un’incoerenza solo apparente, da cui l’immagine dell’ultimo Casa non poteva prescindere; proprio la 80. Raineri, Cento sonetti, cit., cc. 82r–v. L’impressione che « dietro Hieronimo sia sempre vigile Antonfrancesco, come suggeritore attivo », e che « dietro le parole di Gerolamo, non altrimenti noto che per questo commento, ci debba essere Anton Francesco stesso », è già stata, rispettivamente e indipendentemente, di Gorni (Un’ecatombe, cit., p. 137) e di Vela (I letterati, cit., p. 349). 81. Un’ecatombe, cit., p. 142; a p. 140, un rilievo generale che può aiutare a comprendere il nucleo di tale contraddizione: « nel malcerto equilibrio tra sonetti e prose, sono quasi sempre quest’ultime a imporre la loro voce: l’occasione pratica, tendenzialmente sublimata o messa fra parentesi dalla lirica, prende nella prosa del fratello la sua rivincita ».

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sua laboriosa solitudine, proprio il dichiarato distacco da ogni onore terreno dovevano infatti renderlo particolarmente meritevole di un riconoscimento a carattere religioso (per quanto sempre terreno): agli occhi di molti ammiratori, e probabilmente ai suoi stessi occhi, viste le rinate (e allo stesso modo contraddittorie) speranze dell’ultimo anno romano. Di qui, in contrasto con tutte le casiane dichiarazioni di estraneità dalle vanità mondane che abbiamo passato in rassegna, il persistere, nelle corrispondenze e negli omaggi poetici che ancora gli giungevano, di una costante celebrazione dei suoi meriti letterari, e persino di allusioni a quel manto cardinalizio cui molti continuavano a ritenerlo prima o poi destinato. Chi più si ostinò in questa direzione, certo al Casa di questi anni tutt’altro che gradita, fu Benedetto Varchi. Acceso forse di nuovo e ingiustificato entusiasmo dalla lettura di Feroce spirto, non a lui diretto, ma dal quale dovette sentirsi coinvolto, il Varchi volle infatti cimentarsi nientemeno che in una triplice rinnovata proposta poetica, con la quale, ben lungi dal condividere l’attitudine ascetica e penitenziale attribuitasi dal destinatario (a partire proprio e soprattutto da quel testo), insistette sull’assai meno nobile traccia di celebrare la gloria poetica conquistata dall’interlocutore come ampiamente compensatrice delle mancate soddisfazioni di carriera: Bembo toscano, a cui la Grecia e Roma s’inchina, e l’Arno più, per lo cui inchiostro sen va lieto e superbo il secol nostro, e ricca Flora e felice si noma; più chiaro manto voi, più degna soma aspetta, e fregio già più bel che d’ostro (come vede ciascun me’ ch’io no ’l mostro), v’adorna e cinge l’onorata chioma. Nulla deve stimar cosa mortale, anzi nulla è quaggiù, che non annoi chi ha da gire al ciel, come voi, l’ale. Tanto più scende uom qui, quanto ei più sale; io per me dico, Signor mio, con voi: « Gloria non di virtù figlia, che vale »?82 82. Il sonetto è il n. [221] dell’ed. B. Varchi, De sonetti . . . parte prima, in Fiorenza,

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Solo apparente, in effetti, è l’adesione alla prospettiva spirituale dell’ultimo Casa professata dal Varchi nelle terzine, che giungono addirittura a chiudersi con una diretta citazione di Feroce spirto: palese è infatti la dissonanza tra i contenuti della sirma e quelli della fronte, pomposamente celebrativa non solo nella solenne investitura del « Bembo toscano », ma anche nella chiara allusione alla corona poetica quale onore ben più pregiato di qualsiasi porpora cardinalizia. Il Casa che si ritira a Nervesa non solo per potersi dedicare liberamente alle lettere, ma anche (a suo dire) perché desideroso di sollevare il proprio sguardo oltre i caduchi onori mondani, al Varchi appare invece, tuttora, come un fiero spirito d’intellettuale, sdegnato contro le ingiustizie riservate dal mondo ai suoi meriti, libero da immediati condizionamenti, e quindi in grado di destinare tutte le energie alla propria felicissima creatività letteraria: Signor, che quanto il Tebro ebbe e ’l Peneo tanto oggi avete, e par, non che vicino al vostro andate e mio sì gran Vicino, che sopra l’alte por la sua poteo; e per fuggir di questo vile e reo secolo ingrato, acerbo, empio destino, tra ’l superbo Adria e ’l frondoso Apennino, la ’ve l’alta cittate Antenor feo, lungi vi state dalla gente, e, vòlto colla penna il pensier sopra le stelle, tutte spregiate omai le cose umane: felice voi che, d’ogni cura sciolto, opre tessete e sì care e sì belle, che dureran quanto ’l moto lontane!83

E di questa sua lettura della condizione psicologica dell’ultimo Casa il Varchi era talmente convinto, da giungere a pregare l’illustre concittadino di dedicarsi anche alla prosa toscana, dopo aver illustrato con le sue opere tutti gli altri generi letterari, nelle tre lingue di cultura: appresso Lorenzo Torrentino, 1555, p. 113; lo ripubblicano S. Longhi, Della Casa, cit., p. 131, e Carrai, in Della Casa, Rime, cit., p. 174. 83. Testo n. [220] dell’ed. Varchi, De sonetti . . . parte prima, cit., p. 112.

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Signore, a cui come in lor propria e chiara casa rifuggon le virtuti afflitte, al secol basso e scuro oggi interditte, se non quanto per voi s’erge e rischiara: or che la vostra sola, non pur rara penna ha sì belle e tante rime scritte, non lasci, prego, senza lode inditte le prose d'Arno, oltra l’usato avara. Già sa per tutto ognun che quel d’Arpino torto vi mira, e che di pari spazio ven gite quasi col gran Venosino; Bembo novello, a cui ’l greco e ’l latino deve e più il tosco inchiostro, ond’io ringrazio il cielo, e voi, quanto conviensi, inchino.84

Apparentemente, un imponente apparato celebrativo. Ma non sorprende se ai tre sonetti il Casa non reagì in alcun modo: il loro contenuto andava infatti esattamente nella direzione opposta rispetto all’immagine che il nostro autore, gradualmente e pazientemente, aveva mirato a disegnare e ad offrire di sé dopo il ritiro a Nervesa. Per la stessa ragione, probabilmente, egli non rispose alle attenzioni di altri ammiratori: forse ignari della sua ultima e più penitenziale produzione, o forse, come il Varchi, poco convinti da essa. Così, non rispose al napoletano Giovanni Antonio Serone, che ingenuamente gli chiedeva come mai non volesse più concedersi all’ammirazione del mondo letterario: poggiaste voi tra’ più sublimi ingegni col Bembo, altera coppia, a mano a mano mercando fama: or più ch’altri sovrano col crin toccate li celesti segni. Quel d’Arno e quel d’Arpin solo in voi parmi e ’l Venusin veder, che scrisse in carte via più vivaci che metallo e marmi. 84. Ivi, n. [219], p. 112. Tale monotematica prospettiva si ritrova negli altri testi varchiani contenenti lodi del Casa: quelli (pubblicati nella stessa edizione) indirizzati ad Annibale Rucellai [222], Lorenzo Vidrosci [452], Marcantonio Bosso [520]; e quello (edito in Varchi, De sonetti, cit.) ad Andrea Lori [126 b].

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Illustre: or perché non di voi dar parte più spesso al mondo? Il cui dir sciolto, i carmi, lo stile ammira, il suon, la vena e l’arte.85

E non rispose a Bernardo Tasso (forse anche perché impedito dalla morte), che Per la salute di Monsignor da la Casa, si può ipotizzare negli ultimi mesi romani, giunse a scrivere un’intera ode;86 nella quale, implorando Apollo perché facesse ristabilire il poeta dai suoi mali, l’autore si permise di profetizzare per quest’ultimo, in caso di guarigione (contro tutte le attestazioni di rinuncia e noncuranza che abbiamo visto diffondere dal Casa), ancora ed esplicitamente un sicuro approdo al cardinalato: Sì il vedrai poscia alzato, per tante opere sue chiare e leggiadre, da questo sommo Padre, adorno d’ostro il crine, a quel Senato u’ di virtute ai buoni il pregio è dato; indi, qual nuovo Atlante che cogli omeri suoi sostenga il mondo, sostenere il gran pondo di quest’impero, e far ogni alma errante del nostro alto Motor verace amante; e tor con l’armonia de le sue note, come un tempo feo l’inamorato Orfeo de’ monti alpestri e d’ogni belva ria che la dolcezza del suo canto udia, di man l’armi, e del core de’ prencipi cristiani orgoglio et ira, e rivolger la dira 85. Sono i vv. 5–14 del sonetto Casa, al cui paragon cittadi e regni, edito per la prima volta nell’antologia De le rime di diversi nobili poeti toscani, raccolte da m. Dionigi Atanagi, in Venezia, appresso Lodovico Avanzo, 1565, c. 85r. Sull’autore cfr. R. Fedi, Tasso, Della Casa e un poeta dimenticato (1985), in Id., La memoria, cit., pp. 342–69: a p. 365 la riedizione del sonetto). 86. Precisare fino a qual punto il Tasso e il Casa fossero nel frattempo divenuti familiari non sembra possibile. Tra l’altro, il « Bernardo » di cui il Casa dichiara di apprezzare le rime in una lettera del 17 febbraio 1552, alla luce delle rispettive biografie, deve identificarsi non col Tasso (come indicato da Santosuosso, Inediti, cit., p. 492, ove il documento è pubblicato), ma col Cappello. Del Tasso, tuttavia, fa menzione il Gualteruzzi in una lettera al Casa del 26 novembre 1547 (Moroni, Corrispondenza, cit., n. 278, pp. 429–31).

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e sanguigna lor guerra, il lor furore, in queta pace et in sincero amore.87

Come già nell’esposizione di Girolamo Raineri, in questi versi del Tasso la convinzione che la lungimiranza del pontefice di turno dovesse aprire al Casa la via verso il cardinalato si sposa alla certezza che tale onore fosse ben meritato dal poeta, posto tra i « buoni » non per altri meriti che « per tante opere sue chiare e leggiadre ». Bernardo, in effetti, si mostra sicuro che primo compito di un cardinale fosse quello di favorire la pace, e che il possesso di capacità poetiche (e quindi oratorie) rappresentasse un’arma preziosa per riportare i litigiosi « prencipi cristiani » dai campi di battaglia ai tavoli diplomatici. Ma tutto questo cosa aveva a che fare col percorso morale disegnato dall’arcivescovo fiorentino, prima ancora che nel canzoniere, nella trama delle sue corrispondenze poetiche? Ai sempre più austeri contenuti di queste ultime, come abbiamo visto, chi più fiduciosamente si attenne furono il Bolognetti, il Marmitta, il Nasi e Antonfrancesco Raineri; e, su quelle basi, dovremmo concludere che il Varchi (non smettendo di ricordare al Casa la sua dimensione di poeta ossequiato e di gloria toscana), Girolamo Raineri e il Tasso (continuando a vedere nel futuro dell’arcivescovo il manto cardinalizio) non avessero capito nulla. Ma forse, chissà, costoro non ottennero risposta perché piuttosto avevano capito troppo. In effetti, qualche dubbio sulla possibile funzione strategica dell’ultima e più ascetica immagine indossata dal nostro autore poteva e può legittimamente sorgere, dato se non altro quanto sappiamo (e allora si poteva arguire) sull’innegabile residuo di ambizioni che nel giugno del ’55 lo spinse ad 87. B. Tasso, Rime, cit., vol. II, Ode, pp. 369–70, n. 45, vv. 31–50. Riporto anche i vv. 1–15: « Chi loderà col canto / il tuo bel nome, o figlio di Latona? / cui darai d’Elicona / il sommo impero, i primi pregi e ’l vanto / che donasti ad Arezzo, a Smirna, a Manto? // Chi coi soavi accenti, / temprando al suono or quella lira, or questa, / quetarà la tempesta / del mare irato, e porrà freno ai venti / e farà i boschi a le sue note intenti, // se con pietosa mano / al gran Casa non dai salubre aita / pria che de la sua vita / s’asconda il chiaro sol ne l’Oceano, / onde da te poi si sospiri invano? ». Il testo comparve per la prima volta a stampa nel 1560, nell’ultima sezione delle Rime di messer Bernardo Tasso divise in cinque libri. Salmi. Ode, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari. Quanto all’occasione della sua scrittura, ricorderò che il Tasso, nel suo eterno peregrinare, giunse a Roma nel febbraio del 1554, per ripartirne nel ’56: dal giugno del ’55 (data dell’ultimo rientro a Roma del Casa) al novembre del ’56 (quando quest’ultimo venne a morire) Bernardo fu quindi certamente vicino all’illustre collega, e direttamente informato della sua incerta salute (cfr. Williamson, Bernardo Tasso, cit., pp. 19–23).

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abbandonare la quiete di Nervesa per tornare a ricevere a Roma le ultime delusioni. Ma, a prescindere dal margine di letterario artificio che si voglia o meno attribuire all’autoritratto morale disegnato dal Casa nelle sue ultime poesie, è facile comprendere e condividere l’ammirazione che il percorso di autoriabilitazione qui ricostruito (attraverso la lente delle corrispondenze poetiche) ha suscitato presso quasi tutti i lettori: tale percorso infatti conquista non solo per l’ardua dissezione di una pubblica immagine, compiuta senza riserve dal suo titolare col doppio bisturi della saggezza stoica e della sapienza cristiana; ma anche perché fu perseguito in ogni dettaglio comunicativo (intensità del messaggio e vigore dell’espressione, certo, ma anche gradualità del ravvedimento e accurata scelta dei destinatari) con esemplare maestria.

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Indice dei nomi

Accolti, Francesco: 71 n. Adorno, Francesco: 157 n. Agnese di Durazzo: 22 n. Agostino di Duccio: 133 Alberti, Leon Battista: 68 e n., 70 n., 73, 133 e n., 134, 135 n. Albini, Enrico: 188 n. Albizzi, Matteo di Landozzo degli: 16 n. Albrecht, Reinhard Jonathan: 116 n. Alighieri, Dante: 11, 14, 27 n., 28, 29 e n., 31 n., 32 e n., 33–34 nn., 37 e n., 41 n., 45 n., 47 n., 48–49 e nn., 53 e n., 56, 57 n., 58–59 e nn., 61 e n., 62, 64 n., 66 n., 69–72 nn., 160, 167 e n., 170 n. Amaseo, Pompilio: 207, 208 n. Amaseo, Romolo Quirino: 207, 208 e n. Anassagora: 140 Andretta, Stefano: 183 n. Angiolieri, Cecco: 70 n. Angiolini, Enrico: 56 n. Anguillara, Orso dell’: 65 Annibale Barca: 149 Antonio da Ferrara: v. Beccari, Antonio Antonioli, Guido: 129 n. Aragona, Alfonso d’: 67, 86, 144, 148–49, 164 Aragona, Ferrante d’: 62, 63 n., 164 Aragona, Giovanna d’: 209 n. Ardissino, Erminia: 63 n. Aretino, Pietro: 197 e n., 198 Ariosto, Francesco Peregrino: 76 e n. Ariosto, Ludovico: 9 n. Asor Rosa, Alberto: 198 n.

Astesano, Antonio: 80 n. Atanagi, Dionigi: 219 n. Atti, Isotta degli: 134–40 e nn., 142–54, 157–70 e nn. Audisio, Felicita: 25 n., 28 n. Aurispa, Giovanni: 80 n., 107 e n., 131 Ausonio, Decimo Magno: 89 n., 94–95 nn. Avesani, Rino: 208 n. Babbi, Annamaria: 164 n. Baldacci, Luigi: 180 n., 194 n., 200 n. Balduino, Armando: 58 n. Ballistreri, Gianni: 58 n. Bandinelli, Ubaldino: 201 n. Barbara, Paola: 125 Barbarisi, Gennaro: 175 n. Barbaro, Francesco: 80 n. Bardi, Roberto de’: 16 n. Baron, Hans: 76 n., 103 n. Bartolino da Padova: 31–32 Basinio da Parma: 11, 114 e n., 133–35 e nn., 137–38, 140–41 e nn., 152–70 e nn. Battaglia, Salvatore: 47 n. Battaglini, Angelo: 135 n. Beccadelli, Antonio: v. Panormita, Antonio Beccari, Antonio: 15–7 e nn., 19–20, 28– 29, 33–34 nn., 37 e n., 45, 48–49 e nn., 53 n., 59 n., 64 n., 72 n. Becker, Rotraud: 210 n. Bembo, Pietro: 177 e n., 180 e n., 181 n., 183, 185, 186 n., 188–190, 191–95

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e nn., 196, 199 e n., 205–06, 212 n., 216–218 Bentivogli, Aloigi: 62 Bernardi della Mirandola, Antonio: 183– 85 e nn. Berni, Francesco: 178 n. Berra, Claudia: 175 n. Berté, Monica: 41 n. Bertolini, Lucia: 69 n. Bertoni, Giulio: 77–80 nn., 107 e n., 131 n. Bertozzi, Marco: 134 n. Bettarini, Rosanna: 15 n. Biancardi Giovanni: 64 n., 66 n., 68 n. Bilancioni, Pietro: 138 n. Billanovich, Guido: 25 n., 39 n., 42 n. Biondi, Albano: 82 n. Boccaccio, Giovanni: 16 n., 29 n., 33 n., 39–41 nn., 48–49 e nn., 60 n., 61 e n., 62, 110 Bolognetti, Francesco: 174, 175 n., 177, 213, 215, 220 Borsa, Benedetto: 80 n. Borsetti, Ferrante: 77 n., 79 e n., 80 n. Borsi Franco: 135 n. Bosco, Umberto: 28 n. Bosso, Marcantonio: 218 n. Bottari, Guglielmo: 164 n. Bottrigari, Ercole: 176 n. Bracci, Braccio: 16 n. Bracciolini, Poggio: 80 n. Brambilla Ageno, Franca: 24 n. Branca, Vittore: 16 n., 56 n. Brocardo, Antonio: 181 n. Brocardo, Domizio: 12, 57, 58–59 e nn., 60 e n., 61 Brugnolo, Furio: 9 n., 19 n., 21 n., 27 n. Bruni, Leonardo: 75, 76 n., 80 n., 100, 102, 103 e n., 104, 120 e n., 121, 157 n. Buonaccorso da Montemagno il Giovane: 64 n., 66 n. Burchiello (Domenico di Giovanni, detto il): 68 n.

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Calitti, Floriana: 9 n. Callimaco da Siena: 65 n. Campana, Augusto: 134–35 nn. Campana, Lorenzo: 177–80 nn., 182 n., 191 n., 193–97 nn., 199 n., 201 n. Cappello, Bernardo: 188–91 e nn., 194 e n., 195, 201, 203, 219 n. Capra, Luciano: 75 n., 80 n., 103 n. Carbone, Ludovico: 76 n., 114 e n., 129– 31 e nn., 132 Carducci, Giosuè: 130 e n. Caretti, Lanfranco: 177 n., 199 n. Caro, Annibal: 184 e n., 191 n. Carrai, Stefano: 56 n., 176–79 nn., 188 n., 191 n., 195, 204–05 nn., 209 n., 212 n., 217 n. Carrara, Eliana: 183 n. Carrara, Francesco da, il Vecchio: 23 e n., 24, 25 n., 34 n., 38, 39 e n., 44–46, 48–50, 51 e n., 52, 53 e n., 54 Carrara, Francesco da, il Novello: 36 n., 38, 44 n., 52 e n. Carrara, Marsilio da: 24–25 e nn., 31 e n., 32, 36, 38, 44, 48 Casciotti, Bartolomeo: 75, 77 e n., 80 n. Casella, Ludovico: 130 Castiglione, Baldassarre: 178 n. Catullo, Gaio Valerio: 93 n., 99 n., 100, 108 n., 110 n., 111, 117 n., 158 n. Cavalcanti, Guido: 136 e n. Cecchi, Emilio: 152 n. Centoni, Ilario: 40 e n. Cerroni, Monica: 178 n. Cesare Augusto: v. Ottaviano Augusto (Gaio Giulio Cesare): Ceserani, Remo: 175 n. Cessi, Camillo: 131–32 nn. Chiodo, Domenico: 178 n., 181 n. Cicerone, Marco Tullio: 96 n., 99 n., 109 n., 155–57 e n., 159 n., 174, 192–93, 218–19 Cieri Via, Claudia: 141 n.

Indice dei nomi

Cino da Pistoia (Guittoncino di Francesco de’ Sigibuldi): 15–16, 37 e n., 45 e n., 53 e n., 64 n., 69 n. Cinuzzi, Andreoccio Gerardo: 66 e n. Ciociola, Claudio: 19 n. Claudiano, Claudio: 99 n., 161 n. Cognasso, Francesco: 21 n. Colonna, Ascanio: 209 n. Colonna, Giacomo: 15 e n. Colonna, Giovanni: 15 e n., 16 n. Colonna, Girolama: 208, 209 e n. Colonna, Livia: 178 n., 195–96, 209 n. Colonna, Vittoria: 188 n. Confortino: 25, 26–27 e nn., 28 n., 29, 41–42 e nn. Conti, Giusto de’: 12, 62–72 e nn., 134, 135 n., 136 e n., 140, 141 e n. Coppini, Donatella: 127 n., 141 n. Correggio, Girolamo: 208, 209 n. Corsaro, Antonio: 175 n., 178 n., 187 n. Corsi, Giuseppe: 34 n. Cosentino, Paola: 188 n. Costabili, Giovanna: 76 e n. Costabili, Paolo: 130, 131 e n. Costanza di Francesco di Montecuccolo: 78 Croce, Benedetto: 178 n., 214 n. Csemiczei, János: v. Pannonio, Giano Cudini, Piero: 29 n. Daniele, Antonio: 31 n., 48 n. Dante da Maiano: 33 n., 53 n. Danzi, Massimo: 173 n. Davanzati, Mariotto: 68, 69–71 e nn., 72 Decaria, Alessio: 69 n. Decembrio, Angelo Camillo: 76 e n., 77–78 nn., 82 e n. 83 n., 113 n. Del Bene, Sennuccio: v. Sennuccio del Bene Del Borgo, Tobia: 75 Della Casa, Giovanni: 9 n., 10, 13–14, 173–221 e nn. Della Guardia, Anita: 114–15 nn., 125 n., 140 n.

De Luca, Marinella: 134 n. De Robertis, Domenico: 78 n. De’ Rossi, Niccolò: v. Rossi, Niccolò de’: Dietisalvi, Pietro: 16 n. Dilemmi, Giorgio: 180 n., 194–95 nn., 207 n. Di Lenardo, Lorenzo: 173 n. Dionisotti, Carlo: 193 n. Domenico di Giovanni, detto il Burchiello: v. Burchiello Dondi dall’Orologio, Giovanni: 15, 17 e n., 20 n., 25 e n., 29, 31–35 e nn., 36, 38, 43, 48 n. Donnini, Andrea: 193 n. Dornetti, Vittorio: 19 n., 55 n. Dotti, Ugo: 25 n., 28 n. Empedocle: 155 e n. Ennio, Quinto: 101 n. Enrico Ila da Prato: v. Ila, Enrico Esiodo: 97 n. Esposito, Davide: 58 n., 60 n. Este, Borso d’: 129, 131–32 Este, Ercole d’: 115 n. Este, Leonello d’: 76 e n., 78 n., 80 e n., 81–83, 88 e n., 95–98, 100, 103, 106, 107 e n., 113–14, 118 e n. Este, Niccolò III d’: 73 n., 75–76 e nn., 78–79, 80 e n., 81, 82 n., 83–88, 90– 91, 102–103, 106 Este, Niccolò di Leonello, d’: 88 n. Este, Taddea d’: 38 Eugenio IV, papa: 142 Faerno, Gabriele: 201–02 e nn., 203 Falcioni, Anna: 56 n., 133 n., 135 n. Falconieri, Giacomo de’: 16 n. Fanti, Gian Agostino: 174 Farnese, Alessandro: 183 e n., 188 n., 195, 201 n., 208, 209 n. Farnese, Pier Luigi: 214 n. Farnese, Ranuccio: 208, 209 n. Fasulo, Francesco: 189 n.

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i. pantani – responsa poetae

Federico III, imperatore: 129 Fedi, Roberto: 176–178 nn., 184 e n., 191 n., 219 n. Fera, Vincenzo: 77 n. Ferri, Ferruccio: 139 n. Filelfo, Francesco: 80 n., 107 Fini, Daniele: 115 n. Flaminio, Marcantonio: 183 e n., 191 n., 192–93 e nn. Floriano da Rimini: 41–42 e nn., 43 Florimonte, Galeazzo: 183 e n., 193 n., 200 Foà, Simona: 201 n. Folena, Gianfranco: 29 n., 53 e n. Folgóre da San Gimignano (Giacomo di Michele): 70 n. Fontana, Francesca: 130 Foresta, Patrizio: 210 n. Forni, Giorgio: 198 n. Fragnito, Gigliola: 209 n. Francesco di Vannozzo: 9 n., 11, 13, 16– 17 e nn., 19–54 e nn., 55, 71 n. Franco, Veronica: 198 n. Frati, Lodovico: 130 n., 138 n. Gabriele, Trifone: 207 Gaddi, Giovanni: 185 Galdi, Marco: 182 n. Galli, Angelo: 57 n., 60, 61–63 e nn., 64, 65 n., 67–68, 69–71 nn., 138 e n. Gambara, Veronica: 209 n. Ganguzza Billanovich, Maria Chiara: 24 n. Garin, Eugenio: 76 n., 131 n., 152 n. Gatari, Bartolomeo: 36 n., 39 n., 45 n. Gatari, Galeazzo: 36 n., 39 n., 45 n. Gerézdi, Raban: 114 n. Gheri, Cosimo: 177 e n., 179, 180 e n., 181, 183 Giacomo da Lentini: 72 n. Giacomo del Verme: 53 n. Gigliucci, Roberto: 9 n., Giamblico: 157 n. Gianfigliazzi, Geri de’: 15

226

Gidino da Sommacampagna: 20 n. Giorgio da Valmontone: 66 e n. Giovanni da Carpi: 78–79 nn. Giovanni de Forvicibus: 78 Giovanni del Virgilio: 11 Giovenale, Decimo Giunio: 88 n., 92–93 nn., 95 n., 113 Giulio III, papa: 215 Giusti, Antonella: 177 n. Giunta, Claudio: 10 n., 11 n., 20 n. Gonzaga, Gianfrancesco: 86, 88 n. Gonzaga, Giulia: 178 e n. Gonzaga, Margherita: 88 n. Gorni, Guglielmo: 27 n., 71 n., 173 n., 175 n., 214–15 nn., 216 e n. Graciotti, Sante: 127 n. Gualdo Rosa, Lucia: 76 n. Gualteruzzi, Carlo: 177 e n., 178 n., 180, 188 n., 191–93 nn., 196 e n., 199 n., 201 n., 210 n., 219 n. Guarini, Girolamo: 80 n., 107, 108 n. Guarino Veronese: 12, 73 e n., 74–75, 76 n., 77 e n., 78 n., 79–80 e nn., 81–82, 89, 91, 96, 98–100, 101 e n., 102, 103, 104 n., 105–06, 111, 113–14, 118, 120, 126, 128–29 Guinizelli, Guido: 61 e n., 170 n. Guittone d’Arezzo: 33 n., 59 n., 136 e n. Horányi, Matyas: 114 n. Iacopo da Imola: 16 n. Ila, Enrico: 76 e n., 80 e n., 81, 106, 107 e n. Jones, Philip James: 133 n. Jossa, Stefano: 191 n. Klaniczay, Tibor: 114 n. Kohl, Benjamin G.: 23 n. Kristeller, Paul Oskar: 108 n. Lanza, Antonio: 68 n. Lazzarini, Lino: 19 n. Lenzi, Lorenzo: 184 e nn.

Indice dei nomi

Levi, Ezio: 19 n., 21–23 nn., 24 e n., 26 e n., 28 e n., 38 n., 40–41 nn., 43–44 nn., 47 n. Ligdamo: 159 n. Lion, Checco da: 38, 39 e n., 43 Lion, Francesco da: 39 n. Lion, Nicolò da: 25, 36 e n. Livio, Tito: 83, 95 n., 156 n. Longhi, Silvia: 173 n., 176 n., 178 n., 184 e n., 211 e n., 212 n., 217 n. Longo, Vincenzo: 165 n. Lori, Andrea: 218 n. Lo Re, Salvatore: 183 n. Loschi, Niccolò: 75, 80 n. Lucano, Marco Anneo: 84 n., 90, 93 n., 95–99 nn., 108–09 nn., 110, 155–56 nn. Luciano di Samosata: 165 e n. Lucrezio Caro, Tito: 88 n., 92 n., 97 n., 108 n., 169 n. Luiso, Francesco P.: 76 n., 79 n., 103 n. Macrobio, Ambrogio Teodosio: 156 n., 157 Madruzzo, Cristoforo: 209, 210 n. Malaspina, Moroello: 14 Malatesta, Galeotto Roberto: 147, 166– 67 Malatesta Malatesti, signore di Pesaro: 55, 56 e n., 57, 60, 61 e n., 64 e n., 71 n. Malatesta Novello: 147 Malatesta, Pandolfo: 59, 164 Malatesta, Sigismondo Pandolfo: 67, 133– 40 e nn., 142–54, 157–67, 169, 170 e n., 171 Malato, Enrico: 19 n. Malecarni, Francesco: 67, 71 Mancini, Albert N.: 175 n. Mancini, Massimiliano: 9 n., 104 n. Manetti, Aldo: 73 n. Manetti, Roberta: 21 e nn., 22 n., 24 n., 26 n., 28–35 nn., 37 n., 39–41 nn., 44–51 nn. Manuzio, Aldo: 115 n.

Manzoli, Donatella: 77 n. Maramauro, Guglielmo: 42 Marescalchi, Francesco: 73, 75, 79, 100– 01, 106 Mari, Michele: 207 n. Mariotti, Scevola: 127, 128 n. Marletta, Fedele: 162 n. Marmitta, Giacomo: 174, 187, 188 e n., 189, 202–03 e nn., 204, 205 n., 212– 13, 215, 220 Marrasio, Giovanni: 75, 80 n., 120, 121 n., 158 n. Marrocco, Mauro: 20 n. Martellotti, Guido: 11 n. Martignone, Vercingetorige: 181 n. Martinengo, Vespasiano: 195 n. Martino V, papa: 85 e n., 89 Marucci, Valerio: 185 n. Marziale, Marco Valerio: 10, 84 n., 88 n., 92 n., 95 n., 100, 108 n., 111, 114, 127–29 Marzo, Antonio: 185 n. Masai, François: 133 n., 157 n. Massèra, Anton Francesco: 135 n., 138 n. Matteo d’Orgiano: 7 Mauro (Giovanni Mauro) d’Arcano: 173– 74 e nn., 177–78, 181, 183 Medin, Antonio: 21–23 nn., 26 e n., 30 e n., 31–37 nn., 39–40 nn., 44–47 nn., 50–51 nn., 53 n. Meldini Piero: 134 n. Menniti Ippolito, Antonio: 82 n., 191 n. Mezzani, Menghino: 16 n. Milan, Gabriella: 21 n. Milite, Luca: 210 n. Molino, Girolamo: 197 n. Montefeltro, Battista di: 56 Montefeltro, Federico di: 62, 68 Montefeltro, Guidantonio di: 60 e n. Montefeltro, Violante di: 14 Montemagno, Buonaccorso da: v. Buonaccorso da Montemagno Monti, Fabiano de’: 214 n.

227

i. pantani – responsa poetae

Moroni, Ornella: 177 n., 180 n., 184 n., 188 n., 192–93 nn., 196 n., 201 n., 219 n. Mula, ser: 35 n. Musca, Giorgio: 66 n Musmeci, Marco: 133 n. Musso, Cornelio: 209, 210 n. Mutini, Claudio: 189 n. Nasi, Francesco: 211–13 e nn., 215, 220 Neri, Filippo, santo: 188 n., 204 Nonni, Giorgio: 61 n., 69–70 nn., 138 n. Nota, Elvira: 25 n., 28 n. Notaro: v. Giacomo da Lentini Omero: 101 n., 152, 158, 159 n. Orazio Flacco, Quinto: 10, 87 n., 89 n., 95 n., 97 n., 100, 102 n., 218–19 Orsatto, Reprandino: 60 e n. Orsini, Orso: 65 e n. Ottaviano Augusto (Gaio Giulio Cesare): 84 Ovidio Nasone, Publio: 10, 84 n., 87–89 nn., 90, 92–99 nn., 100, 106, 108– 09 nn., 110 e n., 117 e n., 122 e n., 141, 155–56 nn., 158–59 nn., 161 n., 169–70 nn. Pacca, Vinicio: 16 n., 26 n. Pancheri, Alessandro: 26 n., 41 n. Pandoni, Giovanni Antonio: v. Porcelio Pannonio, Giano (Csemiczei, János): 13 e n., 114–21 e nn., 123–28 e nn., 129 Panormita, Antonio (Antonio Beccadelli): 75, 80 n. Pantani, Italo: 9 n., 29 n., 77 n., 104 n., 114 n., 135 n. Paoletti, Lao: 129 n. Paolino, Laura: 16 n., 26 n., 206 n Paolo, santo: 122 n. Paolo III, papa: 199 Paolo IV, papa: 201 n. Papagno, Giuseppe: 82 n.

228

Parenti, Giovanni: 176 n., 182 n., 201–02 nn., 209 n. Paschini, Pio: 183 n. Pasini, Pier Giorgio: 134 n., 137 n. Pasquazi, Silvio: 80 n., 104 n., 130 n. Pasquini, Emilio: 56 n. Passarelli, Maria Antonietta: 108 n. Pasti, Matteo de’: 133, 137 Pastore, Alessandro: 183 n. Patrizi, Francesco: 80 n. Pedroni, Matteo: 10 n. Pellegrin, Elisabeth: 39 n. Peroni, Vincenzo: 195 n. Persio Flacco, Aulo: 89 n., 156 n. Pesenti, Tiziana: 31 n. Petrarca, Francesco: 9 n., 10, 14–17 e nn., 20, 25–30 e nn., 31 n., 32 e n., 33 n., 34 e n., 36–43 e nn., 48–49 e nn., 53 e n., 55–56, 57 e n., 58, 59–61 e nn., 62–63, 64 e n., 65, 66 n., 67–68, 69–70 e nn., 72 n., 113, 117 e n., 122 e n., 136 e n., 168, 169–70 e nn., 190 e n. Piccinino, Niccolò: 86 e n., 148 Piccolomini, Enea Silvio: v. Pio II, papa Pignatti, Franco: 183 n. Pio II, papa (Enea Silvio Piccolomini): 79 n., 115, 127, 128 e n., 129, 134 e n., 136 e n. Piromalli, Antonio: 135 n. Pirrotta, Nino: 27 n., 42 n. Pissavino, Paolo: 77 n. Pitagora: 140, 145, 156 e n., 157, 165 Platone: 97 n., 120, 152, 155 e n., 156, 157–58 e nn. Plauto, Tito Maccio: 97–99 nn. Pletone, Giorgio Gemisto: 133 e n., 135, 157 e n. Porcelio (Giovanni Antonio Pandoni): 75, 162 e n., 163–64 Porfirio di Tiro: 157 n. Porrino, Gandolfo: 178 e n., 196 e n., 197 Prete, Sesto: 77 n.

Indice dei nomi

Prisciani, Prisciano: 130–31, 132 e n. Priuli, Alvise: 180, 183 e n., 193 n., 201 Procaccioli, Paolo: 69 n., 197 n. Properzio, Sesto: 92–93 nn., 95 n., 100, 108–09 nn., 110 n., 111, 122 e n.159 n., 161 n. Proto, Enrico: 26–27 nn. Pucci, Antonio: 16 n. Quarta, Nino: 26–28 nn., 41–42 nn. Quattrofrati, Niccolò: 107 e n. Quattrucci, Mario: 76 n. Quintiliano, Marco Fabio: 155 n. Quirini, Elisabetta: 195 e n. Quirini, Girolamo: 191 n., 195 Quondam, Amedeo: 9 n., 13 n., 82 n., 188 n., 191 n. Raineri, Anton Francesco: 174, 175 n., 213, 214 e n., 215 e n., 220 Raineri, Girolamo: 214 n., 215 e n., 220 Ravagnani, Benintendi dei: 41 Resta, Gianvito: 121 n., 158 n. Ricci, Corrado: 137 n. Ricci, Giovanni: 187, 188 n Ricciardo da Battifolle: 16 n. Riccio barbiere: 16 n Riva, Franco: 20 n. Rinuccini, Cino: 71 n. Rizzo, Silvia: 88–89 nn., 101 n., 103 n. Robertson, Clare: 183 n. Romano, Angelo: 185 n. Romei, Danilo: 178 n Romei, Giovanni: 78 Roselli, Rosello: 63, 64–65 e nn., 68 e n. Rossi, Aldo: 20 n. Rossi, Cecco di Meletto de’: 16 nn. Rossi, Niccolò de’: 27 e n., 29 n., 42 n., 60 e n., 64 n. Rossi, Vittorio: 28 n. Rossi Finamore, E.: 135 n., 162 n. Rossini, Egidio: 21–22 nn. Rota, Bernardino: 210–11 e nn.

Rubino: 44, 45 n. Rucellai, Annibale: 207 e n., 218 n. Rullo, Donato: 193 n. Ruozzi, Gino: 129 n. Ruscelli, Girolamo: 195 n., 209 n. Sabbadini, Remigio: 73–74 nn., 76 n., 78 e n., 79–80 nn., 101 n., 107 e n., 108 n. Sacchetti, Franco: 59, 60 n., 64 n., 72 n. Salem Elsheikh, Mahmoud: 27 n., 42 n Saletti, Caterina: 181 n. Sallustio Crispo, Gaio : 129 Salza, Abdelkader: 198 n. Sanseverino, Ferrante: 181 n. Sansovino, Francesco: 198 Santagata, Marco: 15 n., 56 n., 60 n., 62 n., 68 n., 190 n. Santosuosso, Antonio: 177 n., 182 n., 191 n., 199 n., 201 n., 210 n., 219 n. Sapegno, Natalino: 152 n. Sardi, Francesco: 78 Sardi, Ludovico: 9 n., 12, 74–111 e nn., 113 Sardi, Niccolò: 78 Saviozzo: v. Serdini, Simon Savonarola, Michele: 80 n. Scala, Antonio della: 20–21, 22 e n., 38, 39 n., 44 e n., 45, 50, 51 n., 52 Scala, Bartolomeo della: 22 e n., 44, 45 Scala, Cansignorio della: 22 n. Scarcia, Riccardo: 171 n. Scarpa, Emanuela: 184–85 nn. Scarpati, Claudio: 193 n. Schizzerotto, Giancarlo: 77 n. Schönberger, Eva: 28 n. Schönberger, Otto: 28 n. Scorsone, Massimo: 178 n., 192 n. Segre, Cesare: 26 n. Seneca, Lucio Anneo: 84 n., 90, 93 n., 95 n., 99 n. Sennuccio del Bene: 15–16 e nn., 67

229

i. pantani – responsa poetae

Serdini, Simone: 17 n., 19–20, 56–57 e nn., 58, 59 e n., 60 n., 61 e n., 62, 64 e n., 69 n. Serone, Giovanni Antonio: 218, 219 n. Seroni, Adriano: 200 n. Seta, Lombardo della: 38, 39 n. Sforza, Francesco: 81, 86 e n., 90, 142, 148 Sforza, Polissena: 137–38, 162 Sigibuldi, Guittoncino di Francesco de’: v. Cino da Pistoia Silio Italico, Tiberio Cazio: 84 n., 88–89 nn., 90, 92 n., 94–95 nn., 97 n., 109 n., 110, 156 n. Simioni, Attilio: 21 n. Socrate: 157 n. Sodano, Rossana: 214 n. Soldati, Benedetto: 134 n. Sole, Antonino: 176 n., 191 n., 200 n. Solerti, Angelo: 16 n. Solone: 77 n., 102 Soranzo, Marcantonio: 178, 179 e n., 180, 183 Stampa, Cassandra: 198, 213 e n. Stampa, Gaspara: 198 e n., 213 Stäuble, Antonio: 10 n. Stazio, Publio Papinio: 84 n., 88–89 nn., 90, 92 n., 95–99 nn., 109 n., 110, 155 n. Stella Galbiati, Giuseppina: 177 n., 180 n., 182 n., 201 n. Stoppelli, Pasquale: 13 n. Stramazzo, Andrea: 15 Stramazzo, Muzio: 16 n. Strozzi, Ercole: 115 n. Strozzi, Giovanni: 120 n. Strozzi, Tito Vespasiano: 12–13, 75 e n., 80 n., 104, 106, 111, 113–27 e nn., 140 e n. Superbi, Agostino: 79 n. Susanna romana: 178 n. Szörényi, László: 120 n.

230

Tanturli, Giuliano: 176 n., 178–79 nn., 187 n., 200 n., 204 n., 206–07 nn. Tasso, Bernardo: 180, 181 n., 191 n., 219– 20 e nn. Tasso, Torquato: 10 n. Tateo, Francesco: 122 n. Teleki, Sámuel: 114 n. Terenzio Afro, Publio: 113 Tibullo, Albio: 108 n., 110 n., 111, 122 n., 161 n. Tinucci, Niccolò: 72 n. Tiraboschi, Girolamo: 178 n. Tissoni Benvenuti, Antonia: 114 n. Tiziano Vecellio: 191 n. Tolomei, Guido: 36 n. Tombeur, Paul: 13 n. Tommaso da Messina: 16 n. Totaro, Luigi: 134 n. Travi, Ernesto: 177 n. Trivisola di Francesco di Vannozzo: 47 n. Trolli, Domizia: 56 n. Trotta, Costanza: 125 Turchini, Angelo: 133 n., 137–138 nn. Uberti, Fazio degli: 53 e n. Ughi, Luigi: 79 n. Valerio Flacco, Balbo Setino Gaio: 87–89 nn., 90, 97 n., 156 n. Valois, Margherita di: 208–09 Valturio, Carlo: 138 e n. Valturio, Roberto: 133–34, 135 n. Vannozzo, Francesco di: v. Francesco di Vannozzo Vannozzo di Bencivenne: 43 e n. Van Sickle, John: 176 n. Varchi, Benedetto: 183–84 e nn., 191 e n., 198, 205, 206 e n., 207, 211–12 e nn., 216, 217–18 e nn., 220 Vasoli, Cesare: 127 n. Vecchi Galli, Paola: 16 n. Vegetti, Mario: 77 n. Vela, Claudio: 214–215 nn.

Indice dei nomi

Vergerio, Pier Paolo: 182 e n. Verhulst, Sabine: 46 n. Verlato, Zeno Lorenzo: 9 n., 21 n. Verme, Giacomo del: v. Giacomo del Verme Vettori, Piero: 183 e n., 208 Vicini, Emilio P.: 107 n. Vidrosci, Lorenzo: 218 n. Virgilio Marone, Publio: 29, 41 n., 83, 84 n., 87–89 nn., 90, 92–99 nn., 108–09 nn., 110 e n., 113, 145, 152, 155 n., 156 e n., 157, 158–59 nn., 161 n., 169 n., 174 Visconti, Bernabò: 22–23 nn., 45 Visconti, Filippo Maria: 82 n., 85 e n., 86, 107, 143, 148 Visconti, Gian Galeazzo: 12, 21, 29–30, 40, 44 n., 52, 53 n. Vitéz, János: 114 Viti, Paolo: 76 n. Wiese, Berthold: 63 n. Wilkins, Ernest Hatch: 25 n., 42 n. Williamson, Edward: 181 n., 220 n. Witten, Norbert: 76 n., 113 n. Woodhouse, Christopher Montague: 133 n. Yriarte, Charles: 133 n. Zabughin, Vladimiro: 163 n. Zambelli, Paola: 183 n. Zampese, Cristina: 181 n. Zancan, Marina: 198 n. Zardini, Francesca: 164 n.

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Indice dei manoscritti

Berlino, Deutsche Staatsbibliothek Hamilton 495: 77 n., 79 n. Hamilton 614: 116 n. Berlino, Staatsbibliothek Preuischer Kulturbesitz Latina 447: 116 n. Civitanova Marche, Archivio Storico Pergamena 29: 66 n. Ferrara, Biblioteca Ariostea I 70: 76-77 nn., 80 n. I 240: 80 n., 104 n. I 434: 76-77 nn., 80 n. II 135: 103 n. II 151: 73 n., 101 n.

Madrid, Biblioteca Nacional 3520 (M 15): 77 n., 79 n. Milano, Biblioteca Trivulziana 1018: 59 n. Modena, Biblioteca Estense α.J.5.15 (Lat. 1080): 76-78 nn., 80 n., 107-110 nn. Oxford, Bodleian Library Canon. Ital. 50: 65 n. Padova, Biblioteca del Museo Civico C.M. 422: 116 n. Padova, Biblioteca del Seminario 59: 20-21 e n., 23, 26 n., 41 n.

Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Padova, Biblioteca Universitaria Nuovi Acquisti 692 (Phillips 8333): Provvisorio 196: 79 n., 84 n., 116 n. 87-89 nn. Firenze, Biblioteca Riccardiana 1154: 138 n. Londra, British Library Additional 17421: 116 n. Macerata, Archivio Storico Dep. Cingoli, Archivio storico, pergamena 132/a: 66 n. Dep. Cingoli, Archivio storico, pergamena 132/b: 66 n. Dep. Cingoli, Archivio storico, pergamena 133: 66 n.

Parigi, Bibliothèque Nationale Nouv. Acq. Lat. 1882: 108 n. Parma, Biblioteca Palatina Parmense 283: 108 n. Roma, Biblioteca Casanatense 1714: 107 e n. 1732: 73 n. Toledo, Archivo y Biblioteca Capitolares

233

i. pantani – responsa poetae

100.42: 80 n., 92-95 nn., 97 n. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticano Latino 1672: 162-163 nn. Vaticano Latino 1794: 76 n. Vaticano Latino 3196: 26 e n. Vaticano Latino 3271: 116 n. Vaticano Latino 8914: 76 n. Barberiniano Latino 42: 76 n. Ottoboniano Latino 1153: 130 e n., 131 n. Ottoboniano Latino 1661: 115 n. S. Maria Maggiore 45: 116 n. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana Latino XII 70: 116 n. Latino XII 71: 116 n. Latino XII 135: 73 n. Latino XII 137: 131–32 nn. Latino XIV 218: 80 n.

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Finito di stampare nel mese di ottobre del  dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»  Ariccia (RM) – via Quarto Negroni,  per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma