Res publica. La forma del conflitto

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Aln1anacco di Filosofia e Politica Diretto da Roberto Esposito

Res publica La forn1a del conflitto A cura di Andrea Di Gesu Paolo Missiroli

Interventi

Monografica

Archivio

Roberto Esposito, Carlo Galli , Étienne Balibar, John P. McCormick, Oliver Marchart, Sandro Mezzadra, Geminello Preterossi, Jacques Rancière, Gabriele Pedullà

Silvia Dadà, Chiara De Cosmo, Bianca Maria Esposito, Anders Fje ld , Paolo Missiroli, Francesca Monateri , Matteo Pagan, Taila Picchi , Matteo Polleri

Nea l Wood

Quodlibet Studio

Indice

Andrea Di Gcsu, Paolo Missiroli

Istituire nel limite: politica, rottura, storia

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Interventi Roberto Esposito, Carlo Galli

Istituzione e sovranità: un confronto

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lli:icnnc Balibar

La democrazia dopo il suo declino: alcune ipotesi

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John P. McCormick

Ripensare la democrazia ateniese e la repubblica romana nel tempo dei populismi e della plutocrazia

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Olivcr Marchart

Ontologizzare sempre! L'antagonismo e il primato della politica

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Sandro Mc7.7.adra

Oltre lo Stato. Pensare la trasformazione e il conflitto oggi

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Gcmincllo Prctcrossi

Egemonia e costituzione materiale

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Jacqucs Rancièrc

La democrazia corretta

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Monogra-fìca Silvia Dadà

Tra etica e politica. L'idea di giustizia nel pensiero di Jacques Derrida

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INDICE

Chiara Dc Cosmo

Sistema e soggetto: struttura e spazi di conflitto nel pensiero di G. Lukacs

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Bianca Maria Esposito

La forma politica del Leviatano. Tra neutralizzazione e conservazione del conflitto Andcrs Fjcld

Rancière al di là della politica marginale: tre forme di soggettivazione politica Paolo Missiroli

Natura e istituzione. Note in vista di un'ecologia politica

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Francesca Monatcri

Salvare la rappresentazione. Forma estetica e forma politica nel pensiero di Walter Benjamin

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Matteo Pagan

L'istituzione come formazione. Goethe e Merleau-Ponty al di là della forza e della forma

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Taila Picchi

Mimetismo macchinale e politica dell'invenzione da Canguilhem a Simondon

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Matteo Pollcri

La critica immanente e il posto del conflitto. Sulla "quarta generazione" della Teoria Critica

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Archivio NcalWood

Il valore dell'insocievole socievolezza: Machiavelli, Sidney e Montesquieu A cura di Fran=o Marchesi Con un saggio di Gabriele Pcdullà

Ncal Wood e Machiavelli: ieri e oggi

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Istituire nel limite: politica, rottura, storia Andrea Di Gcsu, Paolo Missiroli

Per un'ontologia politica dell'istituzione Il volume che qui presentiamo è l'esito di un percorso di ricerca ormai pluriennale che giunge ora alla sua terza tappa. Nella prima pubblicazione di questa serie, Crisi dell'immanenza, erano state rilevate le impasse di un pensiero filosofico le cui categorie radicavano la politica in un'immediatezza che, rendendone indistinguibili i tratti specifici, finiva per precludere la possibilità di pensare qualsiasi forma della mediazione. Se in quel testo il concetto di istituzione era già indicato come possibile via d'uscita, il secondo volume, Istituzione, ne approfondiva i termini e ne sviluppava le implicazioni filosoficopolitiche. Le riflessioni contenute in questo terzo numero esplorano ulteriormente il senso del paradigma istituente già emerso nelle scorse tappe: in generale, possiamo leggerne l'esito nei termini di una concezione del processo istituente come rapporto tra l'attività politica di messa in forma e il limite che essa ha di fronte senza poterlo mai annullare. Si dischiude in questo modo la possibilità di porre il problema del confiitto e del suo rapporto con la forma: nella convinzione che solo a partire da questa base sia possibile riproporre la questione fondante della res publica, del vivere comune e del suo statuto. Il paradigma istituente, delineando una relazione costitutiva tra forma e conflitto, attività e limite, riapre la questione del politico e della sua ontologia: superando in questo modo il rapporto di esteriorità tra ontologia e politica che caratterizza i paradigmi filosofico-politici ereditati dalla riflessione teorica degli ultimi decenni. In alcuni di essi, infatti, l'ontologia tracima dalla politica, la supera per eccesso e usa questa asimmetria come fondamento delle sue diverse proposte

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ANDREA DI GESU, PAOLO MISSIROU

politiche, ponendo così le condizioni di possibilità di posizioni accomunate da un più o meno confessato vitalismo come dimensione di pura attività illimitata, potenza di creazione e trasformazione che si tratterebbe di liberare per intraprendere un processo di emancipazione radicale. In altri, il rapporto tra ontologia e politica appare esattamente rovesciato: essi, infatti, scavano al di sotto del politico per ricavarvi la fine messianica di ogni mediazione, nella forma di un'ontologia della disattivazione, dell'inoperosità e di un abbandono passivo alla frattura originaria dell'Essere. Il pensiero dell'istituzione, al contrario, tematizzando il limite nella sua relazione con l'agire riannoda i poli dell'ontologia e del politico per pensare quest'ultimo nella sua concretezza storica. Superare il puro attivismo costituente e la passività della destituzione risulta tanto più urgente nella misura in cui diverse figure del limite caratterizzano ormai la nostra stessa condizione storica sotto forme diverse: dalla conflittualità di un mondo divenuto ormai multipolare e privo di un'egemonia riconoscibile, alla crisi ecologica globale di cui la pandemia in corso non è che l'ultima manifestazione. Di fronte a queste urgenze del nostro presente, paradigmi incapaci di articolare il rapporto istituente, e non vincolante, tra attività e limite mostrano necessariamente tutte le loro difficoltà. Il compito di un pensiero istituente consiste dunque nel ripensare l'agire a partire dalla sua natura situata, rendendo così pensabile la trasformazione politica.

Un campo di possibilità Trasversale alle posizioni espresse in questo volume è dunque una certa posa riflessiva, in cui lo spazio dell'attività è sempre ricavato dalla constatazione di un limite che, lungi dal negarla, la rende piuttosto possibile. Sebbene l'identificazione della natura di tale limite diverga e sia anzi all'origine della pluralità degli approcci in questione, è in generale da tale gesto teorico che scaturisce la possibilità di un pensiero politico istituente in grado di riflettere sul rapporto costitutivo tra conflitto e forma. Il rapporto tra attività e limite permette infatti, da un lato, di ripensare la forma come attività istituente di articolazione di una

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serie di elementi dati che essa, appunto, istituisce; al contempo, essi costituiscono lo sfondo che, limitandola, la rende possibile e la connota. Dall'altro, riconfigura il conflitto come motore della messa in forma, in una relazione inaggirabile che lo dota di spessore storico. In questo modo non si pone più il confitto come nucleo originario e indifferenziato della storia, ma si dischiude al contrario la possibilità di caratterizzarlo, identificarne la differenza specifica rispetto ad altri, assegnargli un luogo. Si tratta di una postura che apre a prospettive teoriche molteplici, senza ridurle a un'unità forzata ma al contrario mantenendole nella loro pluralità. Un campo di possibilità di ricerca che introduce nuovi temi o torna su argomenti classici della riflessione filosofico-politica da un punto di vista inedito. Il rapporto tra attività e limite, forma e conflitto viene allora declinato nei termini di una democrazia radicale che tenga aperto lo spazio conflittuale del politico, impedendone la cristallizzazione in un proceduralismo inerte; o di un istituzionalismo giuridico che riconsegna vitalità alla norma riconnettendola al suo limite inteso come materia sociale che la eccede e al contempo la rende possibile; o, ancora, nella necessità di un'istituzione simbolica del conflitto come gesto originario del politico in quanto tale. Esso è leggibile, inoltre, nei termini di una relazione con un dato naturale non inteso come confine assoluto all'azione, ma come limite che la rende possibile e senza la quale non sarebbe nemmeno immaginabile: concepire in questo modo il rapporto tra attività e limite rende dunque pensabile un'ecologia politica che non sia né ritorno ad una natura intesa come origine essenziale, né teoria dell'ibrido, ma al contrario pensiero di un processo istituente che abbia come riferimento quel fondo naturale indistruttibile. Esso dischiude, infine, la possibilità di una politica della cura che ripensi le pratiche democratiche a partire dal limite costituito dal corpo e dalla sua vulnerabilità. Tutte queste opzioni disegnano i contorni di un dibattito che declina in modi diversi - ma non necessariamente alternativi - una stessa posizione ontologico-politica e che risulta soprattutto in grado di misurarsi in modo efficace col problema della storia. Un'ontologia politica strutturata sul rapporto tra la possibilità dell'agire e il limite che lo definisce, tra forma e conflitto, riconnette infatti necessariamente la riflessione teorica alla dimensione della storicità dell'agire

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ANDREA DI GESU, PAOLO MISSIROU

politico, superando anche in questo caso un nodo problematico ben noto dei paradigmi dai quali si differenzia.

Evento, invenzione, storia Il rapporto esteriore tra ontologia e politica rinvenuto nei paradigmi precedentemente esaminati si ripercuote infatti in una simmetrica difficoltà a pensare la dimensione storica del politico: se il vitalismo costituente genera una visione tendenzialmente teleologica del processo storico, l'inoperosità destituente tende al contrario alla sua disattivazione messianica. È significativo che il dibattito più recente su questi temi sconti ancora l'ipoteca di questi approcci, esacerbandone i tratti più problematici: assistiamo così al diffondersi da un lato di prospettive accelerazioniste in cui la teleologia del processo storico si fa scatenamento di un progresso tecnico indifferenziato; dall'altro, di posizioni che abbracciano la prospettiva del collasso, trasformando la speranza messianica in una fine del mondo come spazio di senso. Entrambi aggravano, così, il problematico rapporto tra politica e storia caratteristico dei paradigmi ai quali risultano ancora legati, sostenendo esplicitamente prospettive opposte di una fine della storia. Al contrario, solo cogliendo il motore delle trasformazioni storiche in un processo istituente sempre situato, come articolazione a partire da un limite, diventa possibile riassegnare l'azione politica alla storicità che le è propria: non per destinarla ad una mera amministrazione illuminata dell'esistente, ma per riaprire lo spazio concreto della rottura, dell'invenzione istituente e della trasformazione al di là di ogni teleologia e messianismo. Un processo, dunque, aperto alla possibilità di un evento che non si dà come sospeso nel nulla, ma come invenzione all'interno di un presente dotato di spessore e confini determinabili. L'azione politica si confronta con essi: non per accettarli in toto, ma per poterli al contrario trasformare, facendo entrare il nuovo nella Storia stessa. I paradigmi istituenti, pensando la vitalità del rapporto tra attività e limite, configurano dunque un'ontologia risolutamente storica del politico: l'articolazione è possibile, infatti, solo quando l'agire riflette sul suo limite e vi si misura, accedendo così alla possibilità di una politica storica e di una prassi istituente.

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L'organizzazione del volume rispecchia quella dei precedenti. Anche in questo numero, la riflessione è introdotta da un gruppo di affermati studiosi e studiose: Roberto Esposito, Carlo Galli, Étienne Balibar, Oliver Marchart, John McCormick, Dimitri D'Andrea, Geminello Preterossi, Sandro Mezzadra, Jacques Rancière. La seconda parte raccoglie invece alcuni saggi tratti dagli interventi tenuti da alcune e alcuni delle e dei partecipanti al Seminario permanente di Filosofia e Politica organizzato presso la Scuola Normale Superiore, nel corso dell'anno accademico 2019-2020. L'ultima sezione è invece riservata ali' Archivio: saggi inediti o ancora non tradotti in italiano di autori importanti, utili a delineare meglio il tema della nostra ricerca. CArchivio di questo numero è dedicato interamente al pensiero di Ncal Wood, di cui pubblichiamo un saggio corredato da una presentazione generale della sua opera a cura di Gabriele Pedullà. Senza il lavoro e la dedizione infaticabili di Roberto Esposito questo volume, come quelli che l'hanno preceduto, non sarebbe stato possibile: a lui va il nostro primo ringraziamento. Ringraziamo le autrici e gli autori che hanno accettato di contribuire al volume e alla discussione. La ricerca riassunta in queste pagine non sarebbe stata possibile senza il contributo di tutti i partecipanti al Seminario Permanente di Filosofia e Politica e senza la discussione paziente e a volte intensa condotta insieme negli appuntamenti pisani, e anche in quelli - purtroppo -virtuali. Questo numero ha potuto beneficiare di una struttura redazionale rinnovata, di cui ringraziamo i membri per il fondamentale contributo fornito nella correzione e nella preparazione degli articoli. Per la continuazione di questa iniziativa, è stato cd è tuttora decisivo il supporto della Scuola Normale Superiore, che ha ospitato gli incontri e le iniziative del Seminario. Prezioso è stato il confronto continuo con tutti i collaboratori della cattedra di Filosofia Teoretica e il loro aiuto. Ringraziamo perciò Laura Cremonesi, Alberto Martinengo e Rita Fulco. Un ringraziamento sentito va infine a Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi ed Elia Zaru per il loro supporto, e all'editore Quodlibet, che ha creduto e investito in questo progetto.

Interventi

Istituzione e sovranità: un confronto Roberto Esposito, Carlo Galli

ESPOSITO

Caro Carlo, la lettura del tuo libro sulla sovranità mi ha lasciato una impressione ambivalente. Un libro bello - teso, tagliente, vibrante. Condivisibile in quasi tutti i passaggi, presi singolarmente. Ma che, nell'insieme, non mi convince del tutto. Né nei suoi presupposti teorici, né nei suoi effetti politici all'interno del dibattito, e dello scontro, in atto. Parto da un dato per certi versi esterno al libro, che però agisce nella macchina retorica che lo muove. Legittimamente, s'intende - ogni vero libro di filosofia politica, per quanto scientificamente "puro", gioca anche una sua partita strategica, milita per una posizione in campo. Prima ancora che con i propri argomenti, scegliendosi l'avversario contro cui polemizzare. Ecco, mi pare che l'avversario che ti scegli sia troppo debole, consentendoti, come si suol dire, di "vincere facile". Fin dalle prime pagine te la prendi, del tutto giustamente, con chi accusa la sovranità, o addirittura lo Stato, di essere il male - razzismo, tribalismo, xenofobia -, situando invece cosmopolitismo, o globalismo, dalla parte del bene. Batti, a ragione, contro chi confonde sovranità e sovranismo, sovrapponendoli in una figura autoritaria e violenta, esposta a scivolare in una deriva totalitaria. Entrambi sappiamo che una simile forma di analfabetismo politico è piuttosto rara, almeno tra gli studiosi. Che, per quanto spesso privi di una qualche formazione giuridica, difficilmente possono incorrere in infortuni storico-concettuali del genere. Certo, negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, o nell'immediato dopoguerra, al cospetto della bancarotta degli Stati fascisti, è capitato che intellettuali liberali come Einaudi o democratici come Spinelli

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ROBERTO ESPOSITO, CARLO GALLI

confondessero la sovranità con il nazionalismo più arbitrario. Ma chi oggi ripeterebbe un simile giudizio, smarrendo il senso di distinzioni elementari? Nessuno, con un minimo di cultura politica, può immaginare che la sovranità, per quanto stressata o deformata dai processi di globalizzazione, possa essere abolita per decreto. O ipotizzare che gli Stati stiano per scomparire. Tutti sanno che "dopo lo Stato" - come titolano alcuni saggi recenti - c'è sempre lo Stato, in un orizzonte e con caratteri diversi, ma difficilmente sostituibile da altri dispositivi politici dotati della stessa efficacia. Bisogna guardarsi dallo scambiare la peculiare situazione europea - in cui gli Stati hanno effettuato qualche, rara e avara, cessione di sovranità all'Unione - con quanto accade nel resto del mondo, organizzato pressoché interamente in termini di sovranità statale. La quale sovranità è una macchina troppo articolata e complessa per essere stilizzata nella figura contratta di un dominio violento. La sovranità ha, sì, comportato sopraffazione di minoranze interne e prepotenza coloniale, guerre fratricide e persecuzione degli apolidi, ma anche uguaglianza, diritto, democrazia - qualcosa di assai diverso dal fantoccio cui si è conferito il nome, di per sé inadeguato, di "sovranismo". Tutto questo, almeno fra noi, possiamo darlo per scontato. E tu lo ricostruisci assai bene nella parte storica del tuo libro, ripercorrendo i passaggi della sovranità dallo Stato assoluto a quello di diritto, fino a quello democratico. Il mio dubbio riguarda non questa ricostruzione genealogica, quanto l'impianto paradigmatico che la sorregge, in larga parte schmittiano - pur avendo tu stesso su Schmitt una posizione risolutamente critica, soprattutto in ordine alle sue derive plebiscitarie degli anni Trenta. Ma quando scrivi che la sovranità schmittiana «è un'architettura attraversata dalla propria negazione, una stabilità tagliata da una instabilità strategica», delinei la tua stessa declinazione del concetto. Anche per te la sovranità è una figura antinomica che tiene insieme - in perenne tensione - mediazione e immediatezza, ordine e conflitto, norma e decisione. Personalmente considero adeguata questa definizione, ma a patto di non restarne prigioniero, e cioè di incrociarla con altri paradigmi. Uno dei quali attivato dallo stesso Schmitt negli anni Quaranta, quando intravede il tramonto della sovranità classica, sovrastata da dinamiche interne ed esterne che ne mutano radicalmente il profilo a favore di un mondo diviso in "grandi spazi". Sappiamo bene quanto

ISTITUZIONE E SOVRANITÀ: UN CONFRONTO

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quella elaborazione geo-politica, da parte di un autore intensamente "occasionalista" come Schmitt, contenesse forti elementi di strumentalità nei confronti della politica imperialista del Reich - anche senza assumerne necessariamente la postura rozzamente razziale. Ma, sciolto da quel contesto, il riferimento a un mondo organizzato in "grandi spazi" di taglia continentale non è poi lontano dalla situazione che si è venuta a creare alla fine della guerra fredda - governata appunto da super-Stati, o unioni di Stati, che di per sé travalicano il mosaico sovrano dello ius publicum Europaeum. Ma mi pare che il paradigma schmittiano - sia nella versione hobbesiana, sia in quella hegeliana, che pure ispirano le tue pagine - vada integrato, e in qualche modo contraddetto, anche dal paradigma foucaultiano. Che non esclude la figura dello Stato, ma la interpreta, anziché in termini di sovranità, in quelli di governo biopolitico - oggi si potrebbe dire di "governance". Si tratta di una trasformazione - che ha percorso varie stazioni negli ultimi due secoli, arrivando oggi al suo culmine - che non tocca tanto la forma dello Stato democratico, quanto, per così dire, la sua materia. Non tanto il nomos, quanto il bìos. La preponderanza della norma sulla legge o della popolazione sul popolo - per non parlare dei processi di immunizzazione che ormai regolano tutti i nostri comportamenti, reali e immaginari - è davanti agli occhi di tutti. Con un effetto di modificazione nettissima della logica sovrana. Quale Stato è oggi pienamente sovrano, qualunque significato si voglia dare a questo termine? Tu lo riconosci, ma non al punto da prendere le distanze dalla categoria. Ma, torno a chiederti, può mai un mutamento così vistoso della sostanza delle nostre post-democrazie lasciare immutate le sue forme? Certo, dirai tu, la sovranità è sempre mutata - per certi versi coincide con questo mutamento. Ma ammetterai che c'è una soglia oltre la quale la quantità diventa qualità - tocca la natura profonda del regime in cui viviamo, forse ancora sovrano nei suoi riti esteriori, ma sempre più biopolitico nei suoi contenuti. 2. Nel tuo libro indichi due angoli prospettici da cui la sovranità appare messa sotto scacco o comunque criticata. Il primo è quello del diritto internazionale, che, pur privo di dispositivi sanzionatori, si ritiene vincolante sulla scena globale quanto lo sono i diversi sistemi giuridici nazionali all'interno dei rispettivi paesi. L'altro è quello,

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sempre più sciolto da vincoli statuali, dell'economia capitalistica, soggetta alla sola lex mercatoria che essa stessa si è data, disposta a conferire l'attributo di "sovrano" soltanto al debito dei diversi Stati. Pur tenendo presenti entrambi questi vettori, l'angolo da cui muovo per "relativizzare" la sovranità dello Stato è un altro. E cioè quell'insieme di linguaggi, non solo giuridici, che fa capo all'istituzionalismo. In testi recenti ho provato a svilupparne il profilo in una direzione "istituente" che guarda, più che alle istituzioni già istituite, alla prassi del loro costituirsi e rinnovarsi. Come ben sai, all'elaborazione del paradigma istituente hanno contribuito diversi filoni, in verità non maggioritari, della cultura novecentesca - dalla fenomenologia francese all'antropologia filosofica tedesca, all'istituzionalismo giuridico italiano. Per limiti di spazio mi riferisco adesso solo a quest'ultimo, senza però dimenticare lo sfondo più ampio e profondo in cui va inquadrato. Al suo centro - lungo una linea di riflessione che da Santi Romano e Widar Cesarini Sforza si può far pervenire a Costantino Mortati - vi è la decostruzione della bipolarità esclusiva tra volere sovrano e diritti individuali su cui si regge l'ordine politico moderno. Rispetto al quale - in una forma che non lo rifiuta in toto, ma lo problematizza drasticamente - le istituzioni sono concepite come snodi plurali e mobili in cui si organizzano bisogni e istanze sociali non sufficientemente rappresentati dall'organismo unitario dello Stato. Un'esigenza a un certo momento, per quanto in maniera poco convincente, fatta propria dallo stesso Schmitt, che ne condivide il presupposto di fondo, in base al quale solo nell'ordinamento concreto il diritto trova il pieno dispiegamento, oltrepassando la logica astratta del sistema normativo. Naturalmente, lungi da mc l'idea di riproporre in quanto tali le teorie degli istituzionalisti italiani - gravate peraltro da una contiguità, non solo cronologica, con il regime fascista all'interno del quale si trovarono a operare. Per ridare ad esse vita occorre spezzare la cornice in cui furono elaborate, provando a ricongiungere diritto e politica in una maniera che in quelle circostanze i suoi interpreti non potevano neanche immaginare. E tuttavia di quelle teorie resta oggi più che una suggestione - si pensi, per esempio, alla legittimazione giuridica del principio rivoluzionario in Romano; o al richiamo di Cesarini Sforza a un «diritto collettivo», trasversale rispetto al diritto privato e al diritto pubblico, oggi traducibile in una sorta di "diritto comu-

ISTITUZIONE E SOVRANITÀ: UN CONFRONTO

ne". Sul piano paradigmatico, dell'istituzionalismo di Romano (e del francese Maurice Hauriou), è ancora attuale un certo superamento della categoria di "persona giuridica", cui resta invece tributario non solo il diritto privato, ma anche quello pubblico di matrice romana. Non per nulla la «riscoperta delle istituzioni» - per riprendere il titolo del fortunato libro di March e Olscn -, che ha caratterizzato gli ultimi decenni, avviene in concomitanza della riduzione della centralità dello Stato, benché, in linea di principio, questo resti la prima delle istituzioni. Ma non comprensiva di tutte le altre, come è invece presupposto nel modello post-hobbcsiano di ordine. Mai come oggi istituzioni di ogni tipo - economico, sociale, giuridico - fioriscono fuori dai confini dello Stato, in uno spazio, più che internazionale, trans-nazionale. Naturalmente sono lontano dall'attribuire ad esse una funzione indiscriminatamente progressiva. La loro genesi è mista, contingente, portatrice di interessi spesso opachi, orientati talvolta a rafforzare poteri esistenti. Ma anche ad aprire nuovi spazi di inclusione, a modificare rapporti di forza stabiliti, a favorire segmenti sociali emarginati. Si pensi al ruolo delle Ong - situate al punto di incrocio tra diritto, politica cd etica -, non solo indipendenti dagli Stati, ma a volte in larvato conflitto con essi. Qualcosa di analogo può dirsi di istituzioni sopra-nazionali, a partire dalla stessa Unione Europea. Criticabile quanto si vuole da diversi punti vista - insufficiente, contraddittoria, irrisolta. E tuttavia mai come oggi necessaria in situazioni di crisi gravissime come quella che attraversiamo. Tu ne sottolinei giustamente l'inerzia e anche la subalternità all'asse franco-tedesco. Eppure proprio in questi mesi, per impulso dello stesso asse, è innegabile che qualche passo in avanti essa l'abbia fatto. Perché - penserai - conviene alla stessa Germania salvare un'Europa in cui vede riflessa la propria immagine. Sarà pure così. Ma resta il fatto che senza di essa i paesi più fragili, come il nostro, non cc la farebbero. Può essere che la pandemia porti in futuro gli Stati a richiudersi. Ma in un futuro prossimo. Sul tempo più lungo è evidente che da crisi come questa in termini economici e sanitari- non se ne esce che attraverso sforzi comuni che nessuno Stato è in grado di fare da solo.

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GALLI

Caro Roberto, ho apprezzato il Pensiero istituente, che ben si inscrive nel tuo percorso intellettuale. In primo luogo per la competenza e l'intelligenza con cui ricostruisci i tre paradigmi di ontologia politica che individui come destituente, costituente e, appunto, istituente, ricavandoli da un'ottima conoscenza e da un'originale e partecipe interpretazione degli itinerari intellettuali dei tre filosofi da cui li assumi: Heidegger, Deleuze, Lefort. Operano nella tua scrittura due intuizioni: che la politica è decifrabile da un orizzonte teoretico; e che, al tempo stesso, la politica non è fondabile da alcuna teoria (personalmente, le condivido entrambe}. Tu articoli la prima attraverso tre coordinate: essere, politica, differenza - che, diversamente atteggiate, danno vita ai tre paradigmi; e accedi alla seconda attraverso alcune articolazioni del pensiero negativo che fin dalla sua origine nietzschiana ha aperto il mare magnum di quella che, da un altro punto di vista, si definiva la negazione indeterminata. È all'interno di questo "mare" che si colloca la posizione di Heidegger rispetto alla politica, che tu opportunamente non schiacci sul Discorso del rettorato (in cui la filosofia si illude per l'ultima volta di comandare la politica}, ma di cui trovi la debolezza proprio nella estrema divaricazione che egli progressivamente istituisce tra filosofia e politica, tra essere e opera, tra verità e realizzazione tecnica della ragione costruttiva. Lungi dall'essere iperpolitico, Heidegger ti appare, giustamente, incapace di pensare la politica come ambito specifico, e continuamente esposto - nella sua traiettoria di destituzione di quella "devastazione" che è l'esito dell'opera - a una inerte impoliticità. Fra la politica (che è violenza tecnica} e l'essere (che non è afferrato da alcun concetto) si spalanca una negazione radicale. Dalla cui abissalità è ovvio che altri fuggano, diversamente atteggiandone l'essenza anti-libcrale e anche anti-dialettica. E qui Deleuze è emblematico, con la sua capacità di interpretare il lascito di Nietzsche in senso affermativo, la volontà di potenza come il fondo selvaggio di un essere che coincide con la propria onnipotenza metamorfica: ovvero una potenza costituente non decisionistica, orientata a declinare il negativo come differenza, l'essere come divenire e come

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potenza, la società come desiderio incessante, la persona come rizoma, e la politica come carattere differenziale dell'essere- e quindi, di nuovo, perdendo di questa la specificità. Alla quale tu tieni molto - e sono ancora d'accordo con te, è questo l'altro motivo di apprezzamento - per uscire dal destino di entrambe le modalità di pensiero di adagiarsi, credendo di potenziarlo e di accelerarlo, su quello che di volta in volta è o è stato il corso del mondo. Al paradigma istituente - che individui in Lefort - tu affidi il mandato di evitare sia ingenui fondazionalismi, sia il loro opposto nichilistico; di andare oltre tanto il potere costituente quanto il suo rovescio, il potere destituente; e di essere così all'altezza del compito di intercettare la specificità della politica, che tu, con Lefort, collochi nella realtà del conflitto e nella sua gestione simbolica (ma dagli esiti effettuali). Secondo Lefort - ma anche secondo te - l'istituzione è un costrutto che ha l'obiettivo di non far coincidere l'ordine politico con la costituzione (ovvero né con la piena neutralizzazione giuridico-ordinativa del conflitto, né con l'atto decisionistico che pone quell'ordine dal nulla), ma anche di non lasciare la politica alla piena immanenza (rispetto alla quale il simbolo, e l'immaginario, segnano infatti uno scarto). La società democratica, la società delle istituzioni, non ha un'origine, né se ne impadronisce: le istituzioni frenano la tendenza autodissolutiva del desiderio, e il desiderio frena a sua volta la tendenza autodistruttiva del potere. Nella tua riflessione l'istituzione non è una realtà conservativa, né una persona giuridica: per te l'istituzione è oggettiva ma dinamica, ovvero è un soggetto esposto continuamente alla propria alterazione, alla propria alterità - alla propria differenza rispetto a sé stesso, cioè al conflitto. La tua esigenza di pensare la politica oltre e contro la spoliticizzazione portata dalla tradizione del razionalismo non è soddisfatta dalle istituzioni considerate in senso tradizionale: un vescovado; uno Stato Maggiore; un tribunale; un'università; un partito; un'impresa. Tutte queste - che siano un'auto-organizzazione della società o un'articolazione dello Stato - non esauriscono in sé stesse la politica. Se la tua è insomma un'esigenza di realismo, di radicalità e anche di efficacia (cioè di opera, benché disincantata), ancora una volta la condivido. Per te, per Lcfort, come per il pensatore che sta all'origine di questa linea di riflessione, cioè Machiavelli, il reale è la prassi in cui si intreccia-

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no senza mai comporsi il simbolo e il conflitto: per te, per Lcfort, e anche per mc, Machiavelli apre una prospettiva estranea non solo a Hobbcs ma anche al vitalismo nietzschiano e all'ontologia hcidcggcriana, oltre al fatto che egli tratta la prassi in modo assai diverso da Marx, perché questi in qualche misura ancora crede alla pensabilità del mondo, il che in Machiavelli non accade (la Fortuna appunto questo significa). Ho però l'impressione che le fonti remote di questo istituzionalismo - Hauriou e Santi Romano - non pensino l'istituzione in questa accezione, così gravida di significato teorico e politico: prevalgono in loro la polemica contro una trattazione solo giuridica - positivistica o anche normativistica (e, certo, anche dccisionistica) - dello Stato; e la polemica, naturalmente, contro la teoria individualistica e soggettivistica del contratto politico, della politica come contratto.

Ma non è questo il luogo per dibattere dell'uso più o meno corretto di Hauriou e di Santi Romano, che in fondo non è decisivo; si tratta piuttosto di riflettere sulle questioni che tu avanzi, e che io ritraduco come la questione del rapporto fra l'ordine politico efficace e l'origine di esso. Un rapporto inesauribile e una questione in sé non risolvibile una volta per tutte-la politica non è né saldamente fondabile né pienamente giuridificabilc -, la cui interpretazione affido alla nozione di sovranità. Il che non implica una ricaduta nella mitologia della persona, perché la mia nozione di sovranità non è né un feticcio idcntitario né un cristallino ordine giuridico: in quanto ha in sé tanto la dimensione puntuale della decisione - che non è creazione ex nihilo di un ordine, ma è certamente l'attuazione e la ripetizione dell'origine conflittuale di ogni ordine - quanto quella geometrica dell'ordinamento giuridico, quanto quella solida e concreta della società nelle sue articolazioni e nei suoi conflitti, la sovranità è piuttosto la chiave di un realismo che mi piace definire "critico". La sovranità, per come la penso, è storico-politica e non un'astrazione giuridica; è un centro di azione politica, ma non una soggettività identitaria: anzi, il nucleo della mia riflessione sta nel definirla "esistenziale" proprio nel significato di un soggetto attraversato dalla propria negazione, di un Uno costituito da un Due che non potrà mai essere eliminato.

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Con i rischi nichilistici che a ciò pertengono: ma perché mai la politica - realisticamente pensata - dovrebbe essere esente da rischi? E del resto come si può pensare la politica senza pensare i soggetti, nella loro problematicità ma anche nella loro consistenza reale, cioè conflittuale? E come si può pensare la politica senza pensarne l'energia interna, cioè l'originaria esposizione al rischio e al contempo la ricerca di una qualche coerenza? La piena neutralizzazione è di per sé impossibile, un mito negativo, una tecnicizzazione o una moralizzazione della politica. Il nesso fra potere costituente e potere costituito, che certamente appartengono al discorso della sovranità, è dinamico: nessun potere costituito è al riparo da un'insorgenza del potere costituente, in nuove forme. La sicurezza (e i diritti) sono strumenti e obiettivi ideologici, non concetti politici. Certo, questa accezione di sovranità è iscritta in un'ottica teologico-politica: ma non sostantiva né fondativa. La teologia politica è la stessa struttura del rapporto Uno-Due - il rapporto Stato-società non ne è che un esempio storico -; è la stessa coazione alla forma senza la quale non si pensa né si fa la politica (la pura immanenza ha fallito: su ciò siamo d'accordo); ed è al contempo l'apertura della forma sulla propria negazione. C'è un potenziale realistico e un potenziale critico in ciò, mi sembra. E non c'è venerazione dell'Uno, a cui si possa contrapporre l'istituzione come cifra di una politica plurale: se le istituzioni hanno capacità politica, se sono attraversate dal conflitto, allora hanno in sé l'essenza della sovranità. E come lo Stato è un'istituzione che ne contiene molte altre, meno intensamente politiche {tranne le rivoluzioni), così una società senza Stato ma abitata da una pluralità di simili istituzioni sarebbe la stessa cosa della società internazionale, in sé pluralistica perché abitata da molte soggettività politiche. Ora, credo che la differenza maggiore fra di noi - al di là dei diversi percorsi storico-analitici - stia nel fatto che io accentuo molto il dato esistenziale della politica (che non è, lo ripeto, un dato identitario) e che sono convinto che alla politica pertenga la coazione alla forma e al contempo l'esposizione al rischio. La questione non sta nel fatto che io dia troppo favore allo Stato come ordine unitario, né che la sovranità sia lessicalmente desueta, o peggio alluda a un ordine che si pretende definitivamente bloccato su sé stesso; sta invece nella domanda: c'è tutto ciò - la politica come energia e come rischio - nella tua nozione di istituzione?

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E naturalmente la questione sta anche nella effettualità di un approccio sovrano alla politica fondato metodologicamente su questa nozione di sovranità. Con la quale ho voluto dare un'interpretazione seria, fino alla drammaticità, della politica. E non mi sembra che questo dipenda da una mia volontà di "vincere facilmente": anzi, che il mio libro sia una provocazione dentro un discorso pubblico sostanzialmente impermeabile alla radicalità concettuale è dimostrato anche dalla reazione scandalizzata di alcuni lettori, che mi hanno interpretato come un sovranista. È difficile oggi che si pensi a una politica non neutralizzata dalla tecnica, dal diritto, dalla morale, dall'economia, dall'ecologia: tutti ambiti e problemi che possono essere politicizzati, e che appunto per questo non possono sostituire la politica. Ma se non temo la qualifica di alleato più o meno consapevole dei sovranisti, io stesso mi pongo invece, lo ripeto, la questione dell'attualità della mia decifrazione delle dinamiche politiche contemporanee attraverso la nozione di sovranità, che non è solo un metodo storico. E sono pervenuto alla conclusione che la sovranità è un punto di vista assai utile. Che essa si mostra nei contesti più impensati - perfino in un Paese la cui politica ha un'energia tendente allo zero, come il nostro, non abbiamo forse cercato di combattere il Covid con logiche confinarie? non abbiamo forse misurato la potenza dell'emergenza, e della decisione sull'emergenza, e la sua capacità di approssimarsi all'eccezione, di travolgere le istituzioni intese in senso statico, neutrale, conservativo? Non vediamo forse la politica internazionale ruotare attorno a centri di potere sovrani che riescono, sia pure a fatica, a piegare in parte a sé le logiche universalistiche (ma non certo pacifiche) del capitalismo globale? Non vediamo già all'opera la post-globalizzazione, e la politica mondiale organizzarsi intorno a quelli che ho definito «Grandi Stati»? Anche se sono Imperi, Federazioni, o che altro, dello Stato hanno infatti la caratteristica di porsi come sovrani, all'esterno. Non manca forse la Ue di sovranità anche perché in essa il metodo intergovernativo, che privilegia gli Stati sovrani, si è imposto su quello comunitario? Non teorizza per prima la Germania (con la sua Corte costituzionale) la propria sovranità? E a questo proposito

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vorrei far notare che la sovranità non implica né nazionalismo né anti-europeismo, e che il sovranismo è l'accentuazione polemica e identitaria di prassi Stato-centriche non estranee ai metodi di funzionamento della Ue. In ogni caso, anche se mi pare che nessuno veramente la voglia (non i sovranisti, evidentemente, ma neppure le élites mainstream), e che manchi l'energia politica per attivare un adeguato potere costituente - un "wc the peoplc" su scala continentale -, in linea teorica non ho nulla contro l'ipotesi di un'Europa sovrana (internamente federale, com'è ovvio). Del resto, la Francia ogni tanto agita questa proposta, se non altro per tentare di limitare l'egemonia di fatto che la Germania esercita sulla Ue. La sovranità è sinonimo di esistenza politica in senso forte, non di Stato nazionale. Non pretendo di averti convinto. Ma forse sono riuscito a spiegare la mia posizione, proprio col far emergere affinità e divergenze rispetto alla tua. Che è quanto entrambi desideravamo.

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Caro Carlo, fin da quando ho intrapreso questo confronto, ho avvertito che il suo rischio - ma si tratta di un rischio o di un'opportunità? - non era quello di un eccesso di lontananza, ma di un eccesso di vicinanza. Del resto è quasi inevitabile che chi interroga la politica filosoficamente, come fai tu, e chi fa filosofia con lo sguardo alla politica, come faccio io, si ritrovino vicini, dal momento che parlano lo stesso linguaggio. Se così non fosse, del resto, non avremmo potuto progettare e realizzare insieme un'Enciclopedia del pensiero politico o, assieme a Bepi Duso, una rivista come «Filosofia Politica». Ciò risalta ancora di più in un panorama culturale, come quello italiano, in cui, con qualche rara eccezione, i politologi hanno poca sensibilità filosofica e i filosofi hanno scarse competenze giuridico-politiche. Ciò detto, vengo alla parte critica del tuo intervento, organizzando la mia replica sulle lince di ragionamento da te stesso tratteggiate in merito alla sovranità, alla teologia politica e all'istituzione. Quanto alla prima, il problema di fondo riguarda il rapporto tra piano paradigmatico e piano storico. Nel tuo libro, e in generale nel

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tuo lavoro, percorri entrambi. Ma, nell'ordine e nell'intensità delle tue argomentazioni, privilegi il primo, anche in virtù della tua pronunciata inclinazione teoretica. Alla storia, certo, arrivi, ma dopo aver definito il paradigma di sovranità - non parti da quella. Proprio qui sta la questione che vorrei sollevare. Innanzitutto la scelta di un paradigma di sovranità, tra i vari possibili, non è ininfluente sul profilo complessivo del tuo discorso. Parlando di esistenza politica concreta, come ancora adesso fai, privilegi quello schmittiano - di ispirazione hobbesiana. E, coerentemente, lo inscrivi in un orizzonte teologico-politico. È una scelta legittima, ma non obbligata. Per dirne una, Biagio De Giovanni, nel suo Elogio della sovranità, adopera un paradigma hegeliano, più segnato dalla categoria di mediazione o, per riferirmi a un saggio recente su «Filosofia Politica», Davide T arizzo opta per uno di matrice lockiana - non teologico-politico, ma economico-politico. La cosa non è indifferente, almeno rispetto a una questione che nomini di sfuggita. Mi riferisco al termine-concetto di "persona", insieme romano e cristiano, che l'approccio teologico-politico deve necessariamente assumere, con un esito verticale evitato invece dagli istituzionalisti. Ora, convengo con te che la categoria di soggetto sia inevitabile nell'orizzonte politico, comunque venga declinato. Ma non altrettanto quella di persona. So bene che sfuggire alla semantica teologico-politica è difficile, vista la genesi dell'intero lessico-politico moderno. Eppure il mio tentativo di pensiero istituente tenta questa strada, evitando una teologia politica di tipo katechontico (cattolica), escatologico (costituente) o messianico (destituente). Il mio libro sul pensiero istituente, che riassumi acutamente all'inizio del tuo intervento, si propone di aprire un varco in questo fronte teologico-politico che "ossessiona" tutta la filosofia politica continentale (italiana in particolare). Ma il punto che volevo sottolineare è un altro. Alludo al rischio di applicare un dispositivo paradigmatico a un ambito storico eterogeneo e differenziato. Entrambi sappiamo a quali infortuni filosofici possa esporre la compressione di una vicenda storica complessa all'interno di un ordine paradigmatico univoco. Basti ricordare il catastrofico errore di Heidegger di riconoscere nella Germania nazista il baricentro metafisico dell'Occidente, o anche quello, certo meno grave, di Foucault, nel trattare il nuovo regime in Iran attraverso la categoria di rivoluzione. In casi del genere la replica della realtà, di fronte alla volontà di

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sistemarla in un contenitore paradigmatico predefinito, può produrre fraintendimenti di dimensioni imbarazzanti per il filosofo in questione e per la filosofia nel suo complesso. Naturalmente tu non corri questi rischi. Troppo profondo è il controllo storico-politico dei tuoi lavori per commettere simili errori di prospettiva. Eppure un pericolo resta. Quello di non valutare appieno gli effetti del tuo discorso - che non coincidono necessariamente con la tua intenzione. Sostenere che tu sia un "sovranista", per chi ha letto le tue pagine, è grottesco. Eppure l'origine di questo neologismo - risalente, pare, alla posizione critica dell'entourage gaullista nei confronti della nascente Comunità Europea negli anni Cinquanta - è significativa. Voglio dire che, se in astratto il riferimento alla categoria di sovranità è politicamente neutro, nello scontro politico attuale finisce per assumere inevitabilmente una tonalità antieuropea. È vero, ancora, che in termini dottrinari, il paradigma sovrano è altra cosa da quello nazionalistico. E tuttavia resta il fatto che tutti i "sovranismi", da quello francese a quello inglese che ha portato alla Brexit, a quello russo, ungherese o polacco, vengono declinati in chiave accentuatamente nazionale. Insomma, ancora una volta, la storicità dell'esperienza "contamina" la purezza dei paradigmi, spingendoli oltre il loro significato originario e trasformandoli in potenziali macchine politiche. Si potrebbe arrivare a sostenere, sia pure distinguendo tra l'uno e l'altro, che i vari istituzionalismi, non solo politici, ma anche filosofici, rovescino questa relazione tra ordine paradigmatico e ordine storico. Convengo con te sull'insufficienza di Hauriou e Santi Romano - che pure erano gli autori su cui Schmitt appoggiava la propria teoria dell'ordinamento concreto, ad alto tasso "esistenziale", per usare un tuo termine (che apprezzo, in tutta la sua drammaticità). Conosciamo il grado di strumentalità dello Schmitt di quegli anni. Ma certo, essere definiti, da lui, suoi "maestri", non era da tutti. È vero, Hauriou è troppo eclettico e a volte lessicalmente confuso; Romano, al contrario, è fin troppo tecnicamente sorvegliato per non essere conservatore, non solo sotto il profilo politico. Nessuno dei due- hai ragione - pensava qualcosa come un "pensiero istituente", nel senso verbale dell'espressione che io adopero in chiave dinamica e innovativa. Entrambi restano a una concezione sostantiva dell'istituzione. Eppure la inseriscono in un quadro intensamente storico-sociale. Dire che il diritto trova il proprio radicamento nell'ordinamento con-

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creto significa rovesciare l'ordine di presupposizione tra paradigma e storia. Prima di costituire un ordine fatto di leggi e sanzioni, il diritto esprime una trama di relazioni storiche presenti nel corpo sociale. Da qui la distanza da Kelsen e una maggiore assonanza con Schmitt, decisionismo a parte. Piuttosto che unificare le volontà soggettive - o personali - in un dato sistema di norme, il diritto ne riconosce la dimensione originariamente "collettiva", per usare il termine di Cesarini Sforza. È vero che gli istituzionalisti pongono al centro del quadro non il politico, ma il diritto. Ma un diritto che incorpora al proprio interno i rapporti tra le forze sociali. Anche se solo in parte lo si può definire istituzionalista, la costituzione materiale di Mortati viene da lì. Certo, Romano non pensa la relazione tra diritto e politica, come fa invece Schmitt; difende l'autonomia del diritto - per fortuna, verrebbe da dire, visti gli esiti della politicizzazione schmittiana in quegli anni. Non riempie il solco che da più di duemila anni divide Grecia e Roma, polis e ius. Ma proprio dal modello giuridico romano viene una suggestione che non va trascurata, messa in risalto dalla scuola "istituzionalista" nata a Parigi dall'insegnamento di Yan Thomas. Proprio perché autonomo dalla politica, il diritto produce realtà, "inventa" istituzioni prima inesistenti, ha un carattere potentemente performativo. A questa dinamica trasformativa rimanda il pensiero istituente. Tu mi chiedi se nella mia concezione di istituzione ci sia un'idea di politica come energia e rischio. Dirci senz'altro di sì, dal momento che, con Lefort e, prima ancora, con Machiavelli, la coniugo con il conflitto - tra le istituzioni e dentro ciascuna di essa. Pensa al "rischio" dell'istituzione del tribunato della plebe a Roma, al centro dei Discorsi - nato da un conflitto e produttivo di nuovo conflitto. A questo punto mi puoi obiettare che, se il diritto istituente assume un rilievo politico, allora parla anch'esso il linguaggio della sovranità, come tu la usi - intendendo con essa la tensione che oppone il soggetto a sé stesso, il Due all'Uno. Insomma, se la sovranità è conflitto, allora hai ragione - anche se in questo modo finisce per coincidere col "politico". Ma il problema è che la sovranità è stata pensata, da Bodin e Hobbes, per neutralizzare il conflitto. C'è qualcosa che non torna. È vero che la teologia politica è un Due. Ma un Due che l'Uno tende a unificare escludendolo, o subordinando uno dei due termini all'altro.

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Del resto anche se in ogni istituzione rinascesse una dinamica sovrana -volta all'egemonia - sarebbe comunque una sovranità differenziata e moltiplicata per quante sono le istituzioni: dentro e fuori lo Stato. C'è, insomma, un elemento di tensione differenziale (non solo pluralismo) nell'istituzionalismo che sfida l'unificazione sovrana e internamente la decostruisce. Mi torna in mente l'argomento di Peterson, contro Schmitt, in base al quale una religione trinitaria non può avere teologia politica. Naturalmente ricordo anche la replica di Schmitt, non priva di una sfumatura sofistica. Il problema resta quello di evitare il monoteismo politico, verso il quale la logica sovrana tende inesorabilmente a scivolare. C'è, infine, un'ultima questione che va richiamata. Oltre che il Due - il conflitto -, il pensiero istituente propone anche l'inizio, il senso originario dell'instituere latino, come dare vita al novum. Vitam instituere, recita un antico brocardo latino (secondo una tarda traduzione di un passo di Demostcnc citato dal giurista romano Marciano nel Digesto). Tu stesso sci un pensatore dell'origine, lo so bene. Ma anche l'origine va sottratta al lessico teologico-politico. Come? Liberandola dal dispositivo cristiano della creatio ex nihilo - in termini politici, dal potere costituente, senza cadere nel ritiro impolitico della potenza destituente. Anche se non si dissolve in esso, anche se permane uno scarto inevitabile - il taglio simbolico che impedisce la piena immanenza-, l'origine va reimmessa nel flusso della storicità. Esattamente quanto fa l'istituzionalismo al quale penso.

GALLI

Caro Roberto, anch'io ho l'impressione che i punti di contatto fra di noi siano più numerosi e importanti dei punti di differenziazione. Del resto, c'era da aspettarselo: al di là dei diversi percorsi che abbiamo intrapreso, e degli specifici linguaggi che abbiamo praticato e sviluppato, abbiamo in comune un impianto di concetti che ci ha permesso (più di un terzo di secolo fa) di fondare, insieme a Bepi Duso, una rivista fortunata come «Filosofia Politica», oltre che di organizzare (un quarto di secolo fa) l'Enciclopedia a cui fai riferimento. Se non altro, riusciamo reciprocamente a comprendere il detto e il non detto del nostro lavoro.

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Tre punti mi interessa particolarmente accennare. Il primo riguarda l'istituzione, che per ambire a essere un paradigma politico io credo debba saper ospitare in sé l'energia tipica della politica, e riconoscere di questa la rischiosità, la contingenza. Comprendo bene che tu cerchi di sottrarre la politica al peso della teologia politica - che vuol dire al peso della metafisica, comunque atteggiata, della persona, dell'ordine, della storia-; ma se al tempo stesso pretendi giustamente di conservare un atteggiamento realistico, ovvero di non esercitarti in ipotesi solo teoriche, potrai affrontare la politica con disincanto (e questo certamente lo fai) ma non potrai eluderne la gravità, la durezza, la drammaticità. Non potrai sottrarti alla questione dell'origine. Del resto, se prendiamo sul serio il conflitto - che tu correttamente associ all'istituzione -, le opzioni si restringono a quelle che classicamente risultano dalla trattazione del Negativo: razionalismo, dialettica, pensiero negativo (nelle sue diverse interne declinazioni). Cioè istituzioni rappresentative che pretendono di escludere il conflitto, trasformandolo in dialogo e in concorrenza economica (da cui emergono conflitti planetari sanguinosi, non riconosciuti come tali); produttività storico-rivoluzionaria della contraddizione - il mondo di ieri, l'ambito di ragionamento, l'ipotesi politica che abbiamo lasciato alle spalle, che ha esaurito la sua forza propulsiva -; assunzione della contraddizione come insuperabile, sia depotenziata come differenza sia enfatizzata come decisione. È qui che si danno le valenze decostruttive o al contrario affermative della negazione; è da qui che tu muovi, insoddisfatto delle risposte tragiche e di quelle euforiche: ma la tua insoddisfazione deve misurarsi col Negativo, con l'esigenza di controllarlo senza volerlo cancellare. Il che, se il realismo è la condizione entro la quale ragioniamo, implica un accesso - cauto, sobrio e minimale fin che si vuole - allo schema teologico-politico, o comunque sia a una genealogia. Il secondo punto vuol poi essere una risposta al tuo rilievo tutt'altro che banale, e per alcuni versi pertinente - sul fatto che io darci privilegio a un approccio paradigmatico alla politica. Ora, io sono affascinato dall'essenzialità delle geometrie concettuali, che la modernità ci obbliga a riconoscere e a praticare come livello epistemico-politico assai più cogente e reale delle ideologie, dei diritti e dei valori; ma questo livello non esaurisce per nulla il mio sguardo sulla politica: anzi, lo inizia. I concetti, infatti, mi interessano in quanto

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ne colgo l'origine abissale, la soglia nichilistica che li fonda e li attraversa; insomma, la loro fragilità, conflittualità e contingenza. La differenza fra Hobbes e Schmitt è qui: fra una genealogia (solo apparentemente) lineare dei concetti politici e una loro drammatica decostruzione, che costituisce un grande guadagno in termini di realismo. Ma l'accoppiata "concetti più genealogia" non esaurisce ancora il mio rapporto intellettuale con la politica. Rischia, infatti, di essere tanto uno schema scheletrico quanto una notte in cui tutte le vacche sono nere: dire che la politica consiste nei concetti e al contempo nella contingenza originaria è ancora restare all'interno della negazione indeterminata, riconoscerla come stigma della modernità. Mi sforzo invece di contemplare accanto a questa negazione anche un'altra, la "vecchia" negazione determinata: la contraddizione dialettica, privata della propria spinta positiva al superamento eppure ben presente, e diversa dal nichilismo moderno, nella contingenza. Le negazioni determinate sono molteplici: stanno nel lavoro, nel colore, nel genere. Non prima né dopo, bensì accanto allo schema epocale, geometrico - che senza di esse sarebbe monco, ma senza il quale sono incomprensibili nel loro darsi storico -, sono la storia concreta dei conflitti reali, delle contraddizioni laceranti; nella violenza e nel dominio che esprimono e che le esprime, costituiscono la solidità paradossale dei corpi sociali e politici, il disordine che di volta in volta costruisce ordini storici, sulla base di diverse e contingenti egemonie. Che il mio pensiero politico non voglia essere solo decisionistico e tragico - cioè paradigmatico - ma anche dialettico e drammatico, cioè storico, lo si vede dal fatto che nel mio libro sulla sovranità ho trattato questa come un punto (la decisione), una figura piana (un ordine giuridico), e come un solido (la società, con i suoi conflitti e le sue potenze). È questa ansia di dare concretezza al Negativo, al conflitto, di sottrarlo alla semplice funzione indeterminante e indeterminata di sfondamento originario degli ordini, che mi spinge a occuparmi anche di geopolitica e di storia dell'economia - cioè di alcuni dei modi concreti in cui la politica manifesta oggi la propria intrinseca conflittualità-, con uno sguardo sempre critico sulle scienze sociali che le trattano positivisticamente, ignorando le loro interne contraddizioni. Quindi, non la geometria di Kelsen, ma la geometria negata di Schmitt, che sempre inseguì la concretezza (termine chiave del suo

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lessico), anche se ho dubbi sul fatto che egli sia un istituzionalista nel tuo senso, ovvero che privilegi la storia sui concetti: c'è sempre in lui, anche quando parla di istituzioni o di ordini concreti, il riferimento a un livello superiore, a una coazione epocale all'ordine (generata e attraversata dal disordine, incardinata in un punto cieco originario): la teologia politica dapprima, il concetto di nomos poi, la normalizzazione nazista in mezzo. E soprattutto la stereometria di Hcgel e Marx, senza le loro ottocentesche certezze, ma con la loro immensa carica di realismo non appiattito sulla brutale empiria. Il paradigma foucaultiano, invece, mi pare sia una importante integrazione di tutto ciò, ma che non abbia la forza di metterlo in discussione radicalmente se non negando l'evidenza: la dimensione teologico-politica del Moderno (certo, molteplicemente atteggiata). In ogni caso, la mia nozione di sovranità non ha nulla di chiuso, di pacificato: non è solo forma. Anzi, l'anti-formalismo e l'anti-positivismo, benché diversamente declinati, ci uniscono. Infine, il terzo punto a cui voglio accennare, benché ne abbia già parlato. Per carattere e per scelta - per senso del dovere scientifico sono poco propenso a chiedermi che effetto avranno le mie parole, benché non sia certo tanto ingenuo da non sapere che ne avranno uno, e che saranno tanto più fraintese quanto più saranno non allineate agli idola fori. Tu non fraintendi, certo, cd è per questo che è un piacere dialogare con te, ma altri sì. Tuttavia, il fraintendimento è appunto un problema d'altri, sia che equivochino per polemica, sia che lo facciano per insufficiente controllo dei concetti e dei metodi che sono in gioco: permettimi, perciò, di ritenermi assolto dall'accusa di oscurità. Confermo quindi che sovranità è un metodo più che un contenuto (meno che mai il contenuto nazionalistico; l'opzione europea non è esclusa in linea di principio dal fatto che si sottolinei, ora, il deficit di politica della Ue): un metodo complesso, che tiene conto di parecchie tradizioni di pensiero, depurate (si spera) da parecchi dei loro limiti. Un metodo che legge la realtà delle dinamiche politiche in corso, soprattutto a livello globale, e che porta alla luce il nucleo politico plurale e conflittuale di un mondo che pretende di essere leggibile solo da un punto di vista economico, giuridico o morale - una pretesa che da questo metodo viene interpretata e contraddetta. Un metodo che della sovranità - carica com'è di politica e di contingenza, di ordine

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e di conflitto - fa una forma di negazione determinata, insomma. E quindi non un'affermazione, bensì una declinazione di quello spirito di contraddizione che per il più grande dei filosofi moderni era l'essenza della filosofia. Un metodo che, infine ma non da ultimo, ha fornito una gradita occasione di sereno confronto fra sovranità e istituzione, sì, ma anche fra vecchi amici. E anche questo è filosofia. (Questo dialogo è stato scritto nel mese di agosto

2020)

La democrazia dopo il suo declino: alcune ipotesi 1 Éticnnc Balibar

Il tema che ho proposto nel momento in cui ci sono stati chiesti i titoli dei nostri interventi era, e rimane, La democrazia dopo il suo declino: alcune ipotesi. Certo, sono sempre stato consapevole tanto del fatto che fosse alquanto vago, quanto del fatto che sembrava dare per scontato non senza un certo pericolo - qualcosa che, invece, dovrebbe essere messo in questione, cioè che vi sia un declino della democrazia, intesa . ,. . . . . . . come una pratica, un 1st1tuz10ne o un prmc1p10, o mterpretata come un'idea regolativa. Se vi chiedessi di provare a indicare e rendere espliciti tutti i prerequisiti implicati in un'ipotesi così generica, certamente non proporreste di tenere una conferenza, ma di scrivere un libro, o il compendio di un libro, cosa che, devo dirlo, non mi sento in grado di fare, anche se avessi più spazio e più tempo. Devo, comunque, ammettere che lo spettro della questione complessiva del progresso e del declino, nonché la sua inscrizione all'interno della prospettiva di una filosofia della storia, inizia a tormentarmi nel momento in cui utilizzo questi termini ipotetici. O, per dirla in ordine inverso, il termine "ipotesi", al plurale, che chiude il mio titolo, come equivalente semantico di un punto interrogativo, agisce in modo retroattivo: la questione non investe soltanto l'idea del "dopo", o di ciò che viene "dopo" il declino della democrazia, e, di conseguenza, dopo la stessa democrazia2.. Essa riguarda, innanzitutto e soprattutto, l'idea che c'è o che ci 1 Conferenza inaugurale al Convegno internazionale Riscrivere la democrazia: al di là del noi e del loro, New York Univcrsity - La Maison Françaisc of New York Univcrsity, 8 - 9 novembre 2.019. 1 Come quando, circa una decina di anni fa, apparve chiaro che alla domanda di Jcan•Luc Nancy, «che cosa viene dopo il soggetto?», non si poteva che rispondere: «ciò

lrrlENNE BAUBAR.

sarà un declino della democrazia e, nascostamente, implica un'idea di democrazia come qualcosa che potrebbe, in certe circostanze, "declinare" o "dissolversi". In realtà, dovrò considerare, al contempo, riflessioni che vanno in ciascuna di queste direzioni. Ci sono domande che non vengono mai poste dal punto di vista dell'eternità o dell'atemporalità. Esse devono la loro urgenza, e i termini stessi nei quali si sviluppano, alle circostanze; ciò significa che sono poste sotto i vincoli di un "adesso" che, inevitabilmente, è anche un "qui", il che mi induce a porre la seguente domanda: dove è situato, radicato, territorializzato o deterritorializzato l'"adesso"? Permettetemi di dire che quella che ho in mente ora è una topografia ad ampio raggio. Sto parlando, evidentemente, di un luogo al contempo intellettuale e politico, situato a Nord, in Occidente, ma che tenta di integrare i suoi propri confini, la sua necessaria relazione tanto con l'altro quanto con l'estraneo. Sto parlando (o riflettendo) in un momento che sembra caratterizzarsi tanto per i segni del passaggio, della transizione da un paradigma a un altro, che coincide, grosso modo, con la fine dei dibattiti politici del XX secolo e l'emergere dell'ossessione del XXI secolo {o dell'inizio del XXI secolo), quanto per i segni, per gli effetti già visibili, di una catastrofe imminente, cosa che conferisce al nostro stesso presente una dimensione escatologica, che brutalmente piomba dal cielo in terra ... Il passaggio può essere descritto nei termini della sostituzione di un nemico a un altro: mentre nel XX secolo i regimi politici (e, quindi, le nazioni, gli Stati, ma anche gli imperi) che si definivano "democratici" (o "società aperte") si sono visti minacciare da un nemico esterno, generalmente detto "totalitarismo", e dai suoi sostenitori, il XXI secolo, in cui si assume che la "democrazia" esista dovunque, per lo meno come principio, si vede minacciato da un nemico interno, altro dalla democrazia, che, in certi casi, è chiamato "populismo". Non senza interesse, ma a prezzo di una grande indeterminatezza nell'applicare tale etichetta, su cui tornerò più tardi, che può essere concepita sia in senso conservatore che in senso progressista o socialista. Per dirla secondo la convincente terminologia proposta per orientare i contributi a questo convegno, potremmo affermare che viene dopo il soggetto è il soggetto stesso, o, forse, la questione della soggettivazione» (su questo si veda il mio volume Citoye,1 Sujet. Essais d'a,llhropologie philosopbique, P.U.F., Paris :z.ou).

LA Dl!MOCRAZIA DOPO Il. SUO Dl!CUNO: ALCUNI! IPOTl!SI

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che, per le democrazie del XX secolo - "noi, i democratici" -, il principio antitetico veniva identificato nel "loro" (i fascisti, i comunisti), mentre per le democrazie del XXI secolo, il principio antitetico sembra operare rodendole dall'interno, tra "noi", sia sotto forma di collettività indeterminate di cittadini antidemocratici, sia, in modo più perverso, sotto forma di un principio di inversione della democrazia nel suo opposto "populista", che manipola il demos -cosa che ovviamente ci fa tornare alla mente antichissimi dibattiti filosofici. Un'altra versione di questa idea, che, a mio avviso, deve essere presa molto sul serio, afferma che la forma dominante dei regimi democratici, ormai largamente divenuta sinonimo di "democrazia liberale", ha prodotto il suo proprio rovesciamento: cioè l'antiliberalismo, l'autoritarismo, l'oligarchia più o meno corrotta, pronta a difendersi contro il suo stesso "popolo", se necessario anche usando la violenza. Condivido abbastanza l'idea che il neoliberalismo non sia la continuazione del liberalismo nel senso politico del termine, quanto, piuttosto, il suo crollo, o la sua distruzione. La questione cruciale è se noi consideriamo questo evento come un fenomeno superficiale, puramente congiunturale, oppure come un fenomeno di proporzione epocale, che segna la fine di un ciclo politico iniziato tra il XVIII e il XIX secolo, quando sono stati concepiti e resi operanti i principi costituzionali dei nostri Stati repubblicani. In merito alla catastrofe, si tratta, ovviamente, di quella ecologica, a proposito della quale mi sembra importante richiamare qui due aspetti piuttosto evidenti. Il primo è che questa catastrofe non è soltanto possibile o a-venire: essa è già qui, con degli effetti irreversibili. Non ci dobbiamo, dunque, domandare come questa catastrofe potrà in'{luenzare i nostri sistemi politici, le nostre ideologie, la percezione che abbiamo di noi stessi in quanto abitanti del pianeta Terra, con le nostre profonde disuguaglianze di potere e di protezione. Dobbiamo anche chiederci in che modo essa determini fin d'ora le nostre relazioni alle istituzioni, a partire dallo Stato e dal territorio, al sapere e alla comunicazione, in parte consapevolmente, ma in parte anche «all'insaputa della nostra coscienza», come direbbe Hcgel. Il secondo aspetto che mi sembra importante, in quanto conseguenza, è il fatto che riconoscere o negare la realtà della catastrofe in corso è, in effetti, un indicatore essenziale di scelte e impegno politico. Queste due possibilità, tuttavia, non sono simmetriche dal punto di vista della riflessione sulla situazio-

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ne e sulle prospettive della democrazia nel mondo di oggi. Se, da una parte, ritengo che possiamo convenire sull'idea che il negazionismo ecologista, così come praticato dal presidente T rump e da molti altri, sia un elemento importante, nonché chiaro segno di un orientamento antidemocratico della politica attuale, "populista" o meno; e se possiamo convenire, lo aggiungo volentieri, sull'idea che tale negazionismo abbia dei legami molto stretti con le nuove forme di razzismo mondiale o di discriminazione tra "noi" e "loro" - che si vedono all'opera nella chiusura violenta delle frontiere e nella repressione delle popolazioni migranti -, nonché sul fatto che il negazionismo giochi lo spettro demografico contro l'idea democratica, sono convinto che, sull'altro versante, le cose siano molto meno chiare. Non ho, ovviamente, alcuna difficoltà a riconoscere che Greta Thunberg e le persone che, come lei, manifestano nelle scuole e nelle università del mondo intero, o i giovani intellettuali che si stanziano in una "Zona da difendere" o creano fattorie sperimentali senza prodotti chimici, siano degli eroi democratici. Anticipano un impegno civile e delle forme di vita che potrebbero ricreare una cultura democratica dopo il "declino" di una democrazia liberale strettamente legata al capitalismo industriale e finanziario. Credo, tuttavia, che queste iniziative non tocchino, per il momento, se non una minima parte delle questioni istituzionali che dovranno essere risolte se vogliamo poter immaginare un futuro democratico post-industriale. Dunque, se il carattere antidemocratico della «democrazia del carbone», per riprendere la formula di Timothy Mitchell, è sempre più chiaro ed evidente, il carattere democratico del movimento ambientalista o "Save the Planet" si è solo parzialmente concretizzato. La sua indeterminazione lascia persino qualche spazio all'idea - che, lo ripeto, prendo molto sul serio (forse perché ho trascorso molto tempo, da giovane, a riflettere su idee come "la dittatura del proletariato") - che il solo modo di imporre in maniera sufficientemente rapida le norme mondiali e nazionali, necessarie per convertire i modi di produzione e di consumo di massa in pratiche ecologiche, sarebbe quello di creare una sorta di autorità scientifica e morale centrale, incaricata di cambiare le abitudini alienate di omnes et singulatim ... Chissà, in realtà, in che modo realizzare tutto ciò .•• Se alle incertezze legate all'ipotesi della "fine" del ciclo storico del liberalismo, si aggiungono quelle legate ai futuri effetti della catastro-

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fe ecologica, si capisce che la combinazione di queste due escatologie, apparentemente così diverse per origine e per significato, conferisce nuova urgenza al pensare la democrazia come concetto: cosa significa; in che modo possiamo accordarci sulla sua definizione; quali alternative di sorta lascia emergere, tanto nel passato che nel futuro. Naturalmente non potete aspettarvi che io risponda qui in modo sistematico. Mi servirò, comunque, di queste considerazioni preliminari per giustificare l'abbozzo di una genealogia, che mi porterà a chiedermi quale sia per mc uno dei fattori principali che riguarda il carattere democratico delle pratiche democratiche, o, al contrario, la concezione della democrazia come concetto del politico (che, per questa ragione, si pone in contrasto con nozioni come sovranità o lotta di classe, le quali, in circostanze differenti, o a partire da altre posizioni, hanno anch'esse proposto e propongono un tale concetto), e cioè la questione del suo rapporto con la violenza. Ho bisogno, in realtà, di una doppia genealogia, perché si tratta di passare da una questione di principio a una questione di evoluzione. La mia prima genealogia si riferisce a quelli che chiamerò gli "invarianti" dell'idea di democrazia, nella misura in cui si tratta di un'idea trans-storica: non nel senso che esisterebbe un ideale o un modello eterno di democrazia, ma nel senso in cui certe formule-chiave (che non sono tanto definizioni quanto slogan o parole d'ordine) sembrano aver attraversato più epoche storiche e più contesti sociali, creando così, nel discorso (il che implica anche la traduzione di una lingua in un'altra), una tradizione democratica. Ciò vuol dire, inoltre, che possono essere reinterpretate all'interno di differenti quadri e codici istituzionali, benché esse dissimulino e inglobino, non di rado, pratiche molto diverse. La seconda genealogia prova ad articolare tre tipi di pratiche democratiche, di cui vorrei mostrare l'eterogeneità e, al contempo, la mutua interdipendenza, un po' come in un nodo borromeo: la rappresentanza (o democrazia rappresentativa), la partecipazione (o democrazia partecipativa, che alcuni recenti episodi hanno indotto grandi pensatori contemporanei a ribattezzare "assemblea" [assembly]), e, infine, il confl.itto, o conflitto politico, nella misura in cui esso è al contempo un prerequisito e una conseguenza dell'intera "situazione" democratica o "forma di vita" democratica (che rappresento, prendendo in prestito la lingua di Machiavelli, come conf/.itto civile).

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Si potrebbe dire che questa articolazione formi anch'essa una sorta di "invariante" della tradizione democratica (forse l'invariante pratico, per opposizione all'invariante ideale), ma suppongo che sia preferibile esaminare la forma che esso ha acquisito, in modo più preciso, durante il ciclo liberale o, se si preferisce - per utilizzare una griglia hegelo-marxista -, nella sua forma borghese. Ciò sottintende che se stiamo assistendo alla "fine" del ciclo liberale nella storia della democrazia è anche perché, per quanto viviamo, oggi più che mai, nelle condizioni di una società capitalista, probabilmente non viviamo più sotto l'egemonia di una classe "borghese" nel senso originario del termine. La questione è che, comunque, la classe borghese ha avuto una concezione organica e fatto un uso sistematico (o addirittura esclusivo) delle istituzioni democratiche. Poiché questo è l'ordine che intendo seguire, permettetemi di cominciare con il primo schema genealogico. Di certo non esiste un'unica formula per ciò che si potrebbe chiamare l'invariante democratico in una tradizione democratica fatta, essa stessa, di traduzioni da una lingua all'altra e di un contesto, o di una società, in un altro, e che permetta, dunque, di coniugarne strettamente le continuità e le discontinuità. Come Martin Rueff spiegava ieri, è possibile provare a esprimere l'idea democratica (la tradizione, in quel caso, sembra sintetizzarsi nella persistenza e nel recupero di un'idea essenziale) per mezzo di un termine unico. Il termine uguaglianza è, in tal senso, un candidato ideale, che torna con insistenza in certi lavori della recente teoria critica. Ciò presenta, però, molteplici difficoltà. La prima è che non è per nulla certo che l'idea di uguaglianza caratterizzi la democrazia più di quella, ad esempio, di "comunitarismo" o, per contro, di "cittadinanza". Le cose sembrano andare in modo diverso: è una decisione intellettuale (e politica) che, in un contesto storico e discorsivo dato, chiama "democrazia" la legittimazione e l'applicazione radicale del principio di uguaglianza. In secondo luogo, anche un rapido esercizio di traduzione inter- e intra-linguistico mostra che il termine "uguaglianza" non è univoco: differenti concezioni dell'uguaglianza e differenti tipi di uguaglianza sono tra loro in concorrenza in ogni collettività, spazio, gruppo o regime politico "democratico". A partire da ciò, l'identificazione dell"'uguaglianza" come invariante democratico viene ancora una volta immediatamente invertita: si muta in questione, la

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questione di sapere quale uguaglianza è veramente, completamente o radicalmente democratica. Questo era vero già nella Grecia antica, lo fu nuovamente nel momento della fondazione delle democrazie liberali borghesi, e lo è ancor di più oggi. Certamente esiste un modo interessante per risolvere questa difficoltà: quello di introdurre la negazione, o l'idea dialettica per cui ciò che chiamiamo uguaglianza si dia sempre nella forma di una negazione, o della riduzione di qualche disuguaglianza (nello stesso modo in cui ciò che noi chiamiamo giustizia appare sempre attraverso la negazione o la riduzione di qualche ingiustizia). Non si tratta, in questo caso, soltanto di uno stratagemma verbale. Significa, piuttosto, che la categoria di uguaglianza è legata contemporaneamente alle esperienze e ai con'fl,itti, o anche alle lotte reali o potenziali che sono comunemente chiamate lotte per l'emancipazione; ma perché non parlare di lotte per l'ugualizzazione, cioè per "divenire uguali", in cui il termine "uguale" acquisisce curiosamente la qualità di un predicato, anche se è fondato su una relazione. A questo punto, però, interviene una terza difficoltà; difficoltà certamente, produttiva: l'uguaglianza o la negazione della disuguaglianza (di tutte le forme di disuguaglianza vissute e che sembrano incompatibili con una vita umana degna) non può essere legittimata o invocata da sola: deve essere sempre associata-a oppure "completata" da un altro principio o, perlomeno, da un'altra categoria implicita nell'atto di negazione, o che opera come segno o presagio dell'uguaglianza; ma anche, viceversa, che l'uguaglianza rende possibile. Permettetemi di suggerire, ma a questo stadio ancora senza alcuna dimostrazione, che l'altro dell'uguaglianza, il quid decisivo, è la libertà, non perché i due termini debbano necessariamente andare insieme, o apparire come principi sinonimi, o derivare l'uno dall'altro, ma esattamente per la ragione opposta: perché la loro unione è problematica; perché esiste tra loro una tensione, al cuore delle pratiche democratiche, che non può essere ignorata o eliminata, nonché una contraddizione che deve essere continuamente "superata", aufgehoben. E questo che mi ha condotto, già da tempo, ad allontanarmi dall'eloquente genealogia della tradizione democratica di Jacques Rancière, inventando e sostituendo il sintagma ugualibertà [égaliberté] al suo mero principio di uguaglianza (ma credo che Rancière, in realtà,

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abbia in mente altri elementi complementari all'uguaglianza). Tenuto conto della grande generosità dell'intervento di ieri di Martin Rueff, sarò abbastanza breve a tal proposito. Ho inventato questo sintagma perché volevo introdurre un'obiezione critica nel cosiddetto ordine lessicografico rawlsiano, che afferma il primato della libertà sull'uguaglianza (cioè, in pratica, del liberalismo sul socialismo) e riduce l'uguaglianza a una forma moderata di "equità", ritornando alla nozione antica che Rawls emula, e cioè l'aequum ius o l'aequa libertas. Tuttavia, quando un amico (il filosofo tedesco Frieder O. Wolf) mi ha svelato che il sintagma "uguale libertà" si trovava al cuore dei testi dei Levellers e dei dibattiti di Putney, durante la Rivoluzione inglese (1647), ho pensato di aver finalmente trovato l'invariante che stava a fondamento della tradizione democratica, poiché esso pone la questione infinita dell'applicazione di una libertà, che è libertà per degli eguali, e di una uguaglianza che è uguaglianza di esseri umani liberi o autonomi (nelle Dichiarazioni classiche, con una superba contraddizione performativa, si è poi scritto "uomini liberi"; una questione che non ha una soluzione prestabilita, ma che non deve mai essere passata sotto silenzio). A partire da questo riconoscimento, ritengo che possiamo trarre la conclusione politica più importante: un invariante democratico implica, in questo senso, un'ulteriore tensione permanente tra l'insurrezione e l'istituzione. Si sarebbe indubbiamente molto tentati di collocare principi come l'"ugualibertà", o anche l'"uguaglianza", dal solo lato dell'insurrezione (e quindi, in pratica, di rintracciare esempi storici di "ugualibertà" nei momenti di insurrezione). Non posso non concordare su questo, soprattutto nel momento in cui viviamo. Dove vediamo, oggi, l'ugualibertà all'opera, in modo attivo e concreto? La vediamo ad Algeri, Santiago del Cile, Hong Kong, Khartoum, Beirut, Baghdad, ecc., e questo, ancora una volta, ha un rapporto con l'azione del negativo. Gli insorti riaprono la questione democratica dell'ugualibertà e offrono una soluzione effettiva, per quanto fragile e provvisoria, al problema del superamento della tensione tra i due termini del dilemma, perché affrontano un regime politico antidemocratico, che perpetua forme consolidate di sfruttamento e di dominio nell'interesse di oligarchie corrotte, che fanno parte integrante del nuovo ordine del mondo. Non posso che essere d'accordo con l'identificazione della democrazia, attraverso la sua espressione

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nel linguaggio dell'ugualibertà, con un momento di insurrezione; e, in realtà, alla fine di questo mio intervento, proporrò l'idea che la modalità della democrazia "dopo il declino" della democrazia sia già anticipata nel carattere delle insurrezioni che osserviamo attorno a noi, in luoghi differenti e a differenti scale. Tuttavia, io stesso non posso limitarmi a quest'identificazione, che si rivelerebbe insufficiente, contraddittoria, ma anche, in verità, autodistruttiva. Quello che ci serve, non è fare riferimento alla sola insurrezione, ma all'articolazione dell'insurrezione con l'istituzione, o, meglio, al divenire-istituzione dell'insurrezione; a questo momento di "transizione" o di "realizzazione" che traduce l'insurrezione in istituzione, o che crea delle istituzioni per l'ugualibcrtà; oppure, se si preferisce, delle istituzioni di uguaglianza e di libertà che lascino aperta la loro articolazione ad una successione indefinita di "invenzioni" democratiche (prendo in prestito intenzionalmente l'espressione da Claude Lefort). Pertanto, l'articolazione di istituzione e insurrezione è fondamentalmente problematica, situata in uno spazio d'incertezza e tensioni, come l'uguaglianza e la libertà, ma anche intrinsecamente dissimmetrica: essa si può realizzare a partire dall'insurrezione verso l'istituzione, ma mai in senso inverso. Oppure, nel caso si producesse a partire dall'istituzione verso l'insurrezione, si tratterebbe di un movimento di restituzione, di rifondazione, un "ritorno" a quell'insurrezione che aveva generato le istituzioni democratiche; ciò implica una discontinuità; non si tratta di un "divenire-insurrezione dell'istituzione" senza soluzione di continuità. Perché questo movimento è necessario? Mi potrei accontentare di una citazione: il titolo scelto da Saint-Just per il suo testo rivoluzionario, rimasto incompiuto in piena transizione verso un futuro democratico: Frammenti di istituzioni repubblicane ... Ma occorre motivare quanto dico. Mi sembra che l'argomento, debole, per quanto usato molto di frequente, consista nello spiegare che le insurrezioni sono fragili, difficili da proteggere dalle cause interne cd esterne di dissoluzione, fintanto che non siano stabilizzate e garantite da costituzioni, leggi, organizzazioni materiali, ecc., con il rischio permanente che l'istituzione annulli l'insurrezione o "congeli" il suo slancio prima che l'obiettivo sia raggiunto, come avrebbe affermato lo stesso Saint-Just. Un argomento più solido, difficile da presentare in termini non filosofici, si ispira all'idea di "potere costituente" o, meglio anco-

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ra, di "potere istituente", cioè all'idea che il cuore dell'insurrezione democratica non consista esclusivamente nell'interrompere l'ordine esistente, ma nel crearne un altro, o nell'inventare forme di vita, e, dunque, norme o regole che siano, esse stesse, democratiche. Tutto ciò può, quindi, essere soggetto a due interpretazioni storiche molto diverse, anche antitetiche. Concluderò, dunque, questa rapida bozza della mia prima genealogia con la seguente osservazione. Una prima interpretazione ci è offerta dall'antitesi classica tra Stato e Rivoluzione, o, se si preferisce, dalla traduzione dell'idea di insurrezione in quella di rivoluzione necessaria alla creazione di uno Stato, il che fa sì che lo Stato diventi il cuore o la forma perfetta dell'istituzione. È una questione complicata, dato che nelle nostre tradizioni politiche vige l'idea di una "rivoluzione permanente", che sembra indicare una rivoluzione che rimane pura insurrezione, o che, forse, trascina i suoi protagonisti già al di là dello Stato che hanno istituito... ma la concezione dominante (perfettamente esposta da Hegel) è che la costruzione dello Stato costituisce lo scopo immanente del processo rivoluzionario; che esiste una teleologia che fa della rivoluzione lo strumento della creazione di uno Stato. Se le cose stanno così, è lo Stato ad incarnare la sostanza del principio democratico. Ma c'è una contraddizione in termini, perché ogni Stato è un'istituzione di relazioni di potere tra coloro che dirigono e coloro che sono diretti, o tra coloro che governano e coloro che sono governati, anche ove queste relazioni siano non-arbitrarie e sottoposte a regole e restrizioni costituzionali che garantiscono i diritti fondamentali, e anche se esse sono idealmente reversibili (come mirabilmente immaginava Aristotele, definendo la cittadinanza come una forma di potere che, allo stesso titolo dell'interlocuzione, è obbligata a un'alternanza tra cittadini, che comandano prima di obbedire e che obbediscono prima di comandare, per lo meno in relazione a funzioni civiche elementari). Questo chiarisce perché io preferisca un'altra formula, che condivido con Rancière, che la esprimeva in modo netto (per quanto credo che essa si possa rintracciare anche altrove, per esempio in Spinoza, perlomeno implicitamente), e cioè l'idea che, in realtà, la democrazia non è uno Stato o non è un regime politico per lo Stato come gli altri. Essa deve restare un'eccezione tra tutti i regimi (da non confondersi con un regime d'eccezione, anche se il confronto tra le due nozioni,

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in particolare per quanto riguarda l'utilizzo dell'idea di "sovranità", è inevitabile). Potremmo spiegarcelo in modo fenomenologico o empirico: la democrazia, come l'insurrezione da cui essa deriva e come le istituzioni che essa prova a creare, è sempre in corso d'opera; essa è, per essenza, incompleta, e resta sempre da completare. Oppure, come preferirei esprimermi onde evitare la facile retorica del compito infinito, del continuo sforzo, ma anche dell'"a-venire", essa è l'altro, l'elemento di alterità irriducibile di ogni regime o di ogni ordine costituzionale, che può sia fondare e conferire legittimità alle sue istituzioni, sia renderle illegittime, destabilizzarle o portare alla loro distruzione, perché eccede la loro forma. A questo punto giunti, tuttavia, non sono più d'accordo con Rancière, poiché mi sembra che, per evitare l'ambivalenza degli effetti dell'insurrezione sull'istituzione, lui tenda, ma anche, esplicitamente, decida, di riservare il nome di "politica" al puro momento democratico, al puro momento dell'enunciazione e della legittimazione del principio di uguaglianza, cosicché, per definizione, non ci sia una politica non democratica e la democrazia non debba mai affrontare l'altro dall'interno, né sia mai realmente l'altro all'interno di un regime. Essa non può che essere un'interruzione nella storia dei regimi o delle forme di governo. Invece io credo che tali regimi non avrebbero una storia, e nemmeno un'esistenza, se non fossero affrontati e sfidati dall'interno dall'altro da cui derivano la loro legittimità e che è rimasto più o meno irriducibile al loro ordine, soprattutto quando esso è sostenuto dai governati, che sono anche i "senza parte"3 • Giunto a questo punto, interromperò questo sviluppo per introdurre l'altra genealogia. Per quale ragione? Perché credo che la concezione del principio di ugualibertà in quanto invariante del discorso democratico, nonché la sua trasposizione in una dialettica dell'istituzione e dell'insurrezione (o dell'insurrezione istituente, o, ancor meglio, pensando al magnifico La Démocratie contre l'État, di Miguel Abensour, della "democrazia insorgente" come forza istituente), abbiano raggiunto i loro limiti nell'attuale congiuntura, e si rivelino addirittura incapaci di far realmente fronte alla crisi contemporanea della democrazia, così come è percepita non soltanto nei regimi li3 Penso a Partha Chatterjcc, Tbc Politics of tbc Govcnred: Popular Politics in Most of tbc World, Columbia University Press, New York 2.004; tr. it. di Matteo Bortolini, Oltre la cittadinanza: la politica dei governati, a cura di Sandro Me1.zadra, Mcltcmi, Roma 2.006.

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berali, che pretendono di aver diritto di preservare le loro tradizioni democratiche al prezzo di una lotta permanente contro un nemico interno "populista", ma anche nel mondo intero, compresi i luoghi in cui la democrazia, in tutti i sensi del termine, è da lungo tempo un obiettivo incerto o pressoché inaccessibile. È la questione della "post-democrazia" (una post-democrazia che può diventare dominante prima della democrazia stessa, in particolare sotto forma di contro-insurrezione preventiva, che sembra essere diventata il principio organizzativo della maggior parte dei grandi stati post-socialisti). Post-democrazia è un termine utile nella misura in cui ci obbliga a esaminare la situazione storica creata dove e quando l'apparente teleologia della storia moderna e della politica moderna - che colloca sempre la democrazia, o maggiore democrazia, nel futuro, o ne fa la soluzione futura in relazione alle presenti forme di disuguaglianza e di dominio - cessa di essere pertinente. Ovviamente, esiste un modo di giustificare l'idea di post-democrazia o di una democrazia esistente solo nel passato (o forse, potremmo dire con Reinhard Koscllcck, solo come un "passato futuro", Vergangene Zukunft, un'immagine del futuro che appartiene ormai irreversibilmente al passato), un modo che si basa su una sorta di teleologia capovolta, nella quale lo stesso sviluppo della modernità, e, in particolare, del capitalismo contemporaneo, ha prodotto un'obsolescenza delle condizioni nelle quali le insurrezioni democratiche, che sono anch'esse dotate di un potere istituente, divengono pensabili. È una versione dell'idea di "declino" che fa eco alla retorica della degenerazione e dell'evoluzione regressiva, che tradizionalmente fa parte dell'arsenale della politica conservatrice ... Essa potrebbe anche basarsi su argomenti più pragmatici, di cui almeno uno, come sappiamo, è particolarmente potente. Si tratta dell'idea che un elemento cruciale dei regimi democratici, ma anche delle insurrezioni democratiche, che era dato per scontato, ora è improvvisamente scomparso, ovvero il "popolo" o demos; un "popolo" che si era costituito come nazione nel senso civico o etnico del termine, o che esisteva all'interno delle frontiere nazionali. La tacita identificazione della nazionalità e della cittadinanza è stato uno dei fondamenti della sovranità popolare, o, meglio ancora, una precondizione per reclamare il "diritto di avere dei diritti", nel senso di Hannah Arendt. Ma questo non ha davvero più alcun senso... La questione del potere ritorna con una forza decuplicata:

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non perché il potere è monopolizzato da una classe dominante, o da un'oligarchia, ma perché il potere reale, ma anche il più effettivo, al contempo economico e politico, è deterritorializzato, e, dunque, fuori dalla nostra presa. Un'insurrezione contro un potere che, in definitiva, non può essere conquistato o combattuto, è sostanzialmente priva di senso. Riconosco pienamente che questo è un argomento molto forte a favore dell'idea di post-democrazia, almeno finché la categoria di cittadino non trovi la possibilità di essere ricreata o rigenerata al di fuori del territorio nazionale. Oppure, se si preferisce - per richiamare nuovamente il titolo di questo convegno - al di là del "noi" e del "loro", nel semplice senso amministrativo o istituzionale delle frontiere (anche linguistiche), separando i "quartieri" in cui i soggetti diventano comunità di cittadini attraverso il loro comune potere politico d'azione. Non si tratta tanto di creare entità globali o sovranazionali, quanto di creare movimenti civici transfrontalieri e transnazionali, che relativizzino l'idea stessa di appartenenza a un territorio, o mettano in discussione la funzione statalista dell'identificazione. Tuttavia, per quanto importanti possano apparire tutte queste considerazioni pragmatiche, e io ne riconosco la portata, credo che esse restino troppo deterministe, ma anche, di conseguenza, che esse tendano a oscurare l'elemento attivo di "dc-democratizzazione" insito nell'apparizione di forme e di regimi post-democratici, siano essi più orientati verso la tecnocrazia o verso l'autocrazia, o, sempre più, verso le due contemporaneamente. Com'è noto, la categoria di de-democratizzazione è oggi ampiamente utilizzata da alcuni teorici politici critici, e, in particolare, da Wendy Brown, a partire dal suo libro francese Les Habits neufs de la politique mondiale (2007), fino al più recente Undoing the Demos (2015). Non l'ha inventata, ma presa in prestito (in particolare da Charlcs Tilly) e sviluppata, per estenderla all'idea che il neoliberalismo non solo ha una dimensione sociale attraverso la quale distrugge le istituzioni di protezione sociale, ma associa sempre più spesso forme autoritarie di governo e un ordine morale repressivo a una politica di sistematica trasformazione dei cittadini in puri concorrenti, i cosiddetti "imprenditori di sé stessi". Sulla linea di queste considerazioni, sono tentato io stesso di proporre due ipotesi, che ritengo complementari.

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La prima è che, al posto di una semplice dialettica tra insurrezione e istituzione, o di una sua eccessiva considerazione, bisognerebbe introdurre una dialettica più storicizzata della de-democratizzazione e della resistenza. Ma la "resistenza" come forza passiva, o anche come forma puramente negativa, per quanto necessaria (e questo è sempre stato il caso nella storia, dalle guerre dei contadini nel XVI e XVII secolo alle moderne lotte contro il colonialismo e l'ipersfruttamento capitalistico}, non è di per sé un'alternativa alla de-democratizzazione. Oppure può diventarlo solo nella misura in cui inventa nuove forme di pratica democratica, e mira alla "democratizzazione della democrazia" stessa. Può darsi che nella storia sia sempre andata così, ma certamente così accade in periodi di crisi storica, quando non esiste più un terreno comune per un'intesa istituzionale, la cui stabilità costituzionale potrebbe costituire, in quanto tale, o, di per sé, una protezione contro nuove forme di disuguaglianza, di esclusione e di discriminazione, che sono anche forme di dissoluzione della cittadinanza attiva. La seconda ipotesi che voglio introdurre è l'idea che vi sia, al cuore degli attuali processi di de-democratizzazione, non soltanto lo sviluppo di forme di governo autoritarie e tecnocratiche, o di forme dcterritorializzatc di "governance"4, ma anche l'utilizzo sistematico di una violenza estrema, le cui conseguenze, questa è la mia tesi, consistono nel neutralizzare e distruggere la possibilità stessa del confl.itto politico. La dc-democratizzazione si attua per mezzo della distruzione nichilistica del conflitto politico, o, per dirla in termini machiavelliani, del confiitto civile. Ciò presuppone che noi riconosciamo, e integriamo pienamente nella nostra concezione della democrazia, il conflitto - la lotta politica - non solo come mezzo per raggiungere gli obiettivi rivoluzionari o istituzionali, ma anche come forma democratica in sé, quasi come "istituzione democratica". Conflitto come istituzione? Può darsi ... Il che significherebbe, a sua volta, che una democratizzazione della democrazia - l'opposto, cioè, della de-democratizzazione e l'unico modo per resistervi con successo - deve includere una strategia anti4 Secondo la terminologia che è stata progressivamente introdotta a partire dalla fine degli anni Ottanta o all'inizio degli anni Novanta dalla Banca mondiale cd altre istituzioni post-politiche. A tal proposito si veda la rivista italiana «Parolcchiavc», 56, 2016, dedicata al termine "governance".

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violenza, che ho anche chiamato, altrove, una strategia di "civiltà". Quello che avevo in mente era proprio l'idea di Machiavelli di "conflitto civile", che non è né la sistematica "non violenza" (anche se può farne parte), né (forse soprattutto) la "contro-violenza", il tentativo di torcere le armi dei dominanti contro i dominanti stessi, cosa che può funzionare - forse, ma non è mai certo - quando il potere usa la violenza in modo restrittivo, o quando - come ha cercato di spiegare una volta Michel Foucault invertendo la celebre formula di Clausewitz - la politica può essere rappresentata come "la continuazione della guerra con altri mezzi"; diventa, però, inutile e autodistruttiva quando le restrizioni vengono tolte e la violenza viene portata all'estremo per rendere impossibile il conflitto politico stesso. "Civiltà", per come utilizzo questo termine qui e altrove, naturalmente non è che un nome: il nome di un'ipotetica "politica della politica", o di una politica che cerca di ricreare la possibilità del conP,itto politico laddove viene represso e delegittimato, ma non indica alcuna strategia concreta. Può, tuttavia, essere utilizzato per raccogliere esempi e confrontare le esperienze. Ma attenzione, non è un'idea semplice. Anche in questo caso, ci sono diverse ragioni. Ovviamente, quella che chiamo violenza illimitata o "estrema", che ha la capacità di distruggere il conflitto stesso, non si presenta sotto un'unica forma. Se ci guardiamo intorno, nella situazione attuale, vediamo che va dalla comparsa di "zone di morte", dove si mescolano molteplici tipi di guerre civili e interventi imperialisti (si pensi alla Siria o allo Yemen), ai nuovi regimi nazionalisti e alle politiche "democratiche" che creano nemici interni o trasformano sempre più gli stranieri - soprattutto migranti e rifugiati in nemici, al fine di far ricadere le conseguenze della globalizzazione sulle identità tradizionali (in Europa e negli Stati Uniti), per non parlare dei potenti regimi che stanno sviluppando tecniche sempre più sofisticate per il controllo delle opinioni e dei movimenti, strategie a lungo termine per una contro-insurrezione preventiva (si pensi alla Cina). Ricordiamo che Deleuze parlava di "società di controllo" ... Non esiste, dunque, un'unica forma di violenza estrema, di cui una parte sarebbe invisibile o preservata da una totale visibilità. Così come non c'è un'unica strategia di civiltà, o di ricreazione del conflitto, perché una tale strategia dipende da una molteplicità di sommovimenti sociali, di rivendicazioni di diritti e di interessi emancipatori,

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che si trovano già nel tessuto sociale, pronti ad entrare nello spazio pubblico, o a divenire politici, nella misura in cui si manifestino in maniera conflittuale, nel senso in cui Machiavelli parlava di passaggio dal "privato" al "pubblico"; il che - come ci ha insegnato il femminismo - può anche significare che il privato in quanto tale è politico. Qui si annida una difficoltà ancor più grande. Già non è facile identificare le forme di violenza estrema - che siano organizzate o spontanee, che neutralizzino o sopprimano la conflittualità -, ma lo è ancor meno proporre una fenomenologia della conflittualità in sé. Ne ho dedotto, dopo Arendt, dopo Foucault, che proprio in tale questione si trovi una chiave per l'analisi della democrazia nella sua transizione dall'insurrezione all'istituzione, o nella sua oscillazione tra la de-democratizzazione e l'invenzione di nuove forme che le siano proprie. Disponiamo di un concetto chiaro di conflitto? Dirci, sì e no. Abbiamo più dei modelli che un concetto; o abbiamo dei sostantivi simbolici, come polemos o agon. Foucault, che ho citato per la sua problematica tesi (che non è stata la sua ultima parola sull'argomento) secondo cui la politica dovrebbe essere considerata come una continuazione della guerra, aveva, in realtà, iniziato con una domanda critica, una spiacevole domanda sulla tradizione e i filosofi marxisti: i marxisti parlano sempre di "lotta di classe", ma non spiegano mai cosa sia esattamente una "lotta" ... È una domanda interessante, perché vediamo, in particolare, che un gran numero di movimenti che oggi entrano nel campo della conflittualità democratica, o agonismo (come Chantal Mouffe, tra gli altri, ha proposto di chiamarlo), tendono a prendere in prestito, senza alcuna distanza critica, i modelli di lotta di classe ereditati dalla tradizione marxista e dal movimento operaio rivoluzionario, e ad applicarli in altri campi, semplicemente per dimostrare che il loro antagonismo rispetto un ordine dominante non può essere ridimensionato da alcuna riconciliazione o riconoscimento, a causa di una irriducibile o "strutturale" opposizione di interessi. Ma Foucault avrebbe probabilmente potuto ribaltare questa obiezione, volgendola contro sé stessa, perché la sua idea del rapporto di potere, che si basa sull'utilizzo della propria resistenza per diventare "produttivo" (o per disciplinare le soggettività), è tanto versatile quanto il concetto stesso di lotta di classe. O, più precisamente, si

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rivela limitata, o troppo poco articolata, quando il modello di lotta di classe è illuminante, cioè nella descrizione dell'irriducibilità delle cause economiche e strutturali del conflitto; mentre il concetto marxiano si rivela troppo poco articolato e poco lungimirante quando di tratta di comprendere le modalità in cui le mediazioni istituzionali trasformano lo schema dello stesso antagonismo di classe all'interno della storia del capitalismo. Sul piano formale, la difficoltà sta nel fatto che il conflitto democratico o civile gioca un ruolo di mediazione tra le altre due forme storiche di pratica democratica, che, come ho suggerito all'inizio, formano una sorta di nodo borromco o di interdipendenza triadica: la rappresentanza, che è più o meno democratica a seconda di dove trovi il suo equilibrio tra una semplice delega del potere e il controllo effettivo dei governanti da parte dei governati; e la partecipazione, o "democrazia diretta", anch'essa oscillante tra forme locali di autoorganizzazione o di "assemblee" e forme anonime di comunicazione di massa facilitate dalle nuove tecnologie di scambio. Ma il conflitto politico, come sappiamo, oscilla anch'esso tra ulteriori estremi: direi, da un lato la guerra civile e dall'altro il semplice pluralismo delle opinioni, in particolare nella sua forma parlamentare cd elettorale. C'è un'articolazione diretta tra la spinosa questione dell'intervento diretto delle folle, o delle masse, nella politica e nella storia, e questo problema del passaggio del conflitto dal polo della guerra civile (in cui Marx cd Engels hanno metaforicamente identificato la lotta di classe, nel Manifesto del Partito Comunista e poi nel C-apitale, prima di rendersi conto che le vere guerre civili sono, piuttosto, una sorta di abisso in cui la politica proletaria sprofonda corpo e beni) al polo del conflitto regolato, disciplinato, delle differenti opinioni, che tende a neutralizzare il dissidio, o a fare del dissenso una pura facciata del consenso dominante. È evidente che la tradizione liberale, o la forma borghese della democrazia, anche quando deve la sua origine a un'insurrezione popolare che ha comportato una trasformazione della massa, o della moltitudine, in attori politici diretti, ha sempre avuto la tendenza a ridurre la possibilità, per la massa in quanto tale, organizzata o meno, di svolgere un ruolo politico autonomo, salvo in situazioni eccezionali che non poteva evitare. Ciò che non è chiaro, invece, è quale forma di istituzionalizzazione del conflitto dovrebbe adottare una massa democratica, composta prin-

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cipalmente da soggetti o cittadini "subalterni" - per usare la terminologia gramsciana -, affinché i suoi interessi emancipatori possano, infine, trionfare sui poteri dell'oligarchia o, a fortiori, sulla violenza estrema. Vorrei aggiungere a questo un'osservazione che mi è stata suggerita da un rimarchevole passaggio della conferenza che ieri ha tenuto Marielle Macé, che sottolineava quanto fosse importante definire il potere dell'agire politico in termini di cause da difendere piuttosto che di gruppi o di comunità, che preesisterebbero al loro ingresso nella sfera pubblica, o in funzione del loro contributo a una costruzione politica. In termini marxisti, si tratterebbe del passaggio dalla "classe" al "partito", purché si comprenda che la classe non preesiste realmente alla sua trasformazione in partito, nel senso più ampio adottato da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, quando affermano che i "comunisti" non hanno interessi specifici, se non quello di esprimere la tendenza comune, immanente a tutte le lotte contro l'ordine sociale dominante. Dovremmo, naturalmente, cercare di trovare degli equivalenti per altri movimenti sociali, ora che abbiamo compreso che la loro pluralità è irriducibile e che proprio questa diversità è di per sé un fattore democratico. Tuttavia dobbiamo anche capire che la definizione di una "causa" ha un effetto retroattivo sulla formazione di un "gruppo", che tende a polarizzare i conflitti in forme che, per definizione, non sfuggono mai all'ambivalenza. Martin Rueff parlava del paralogismo trascendentale derivante dall'unione di un sostantivo politico e dall'uso del pronome "noi". Egli si riferiva ad uno straordinario paragrafo (§ 15 5) di Le Différend di Lyotard, in cui viene utilizzato questo riferimento kantiano. Potremmo anche formulare la domanda con l'aiuto delle categorie schmittiane. Nella descrizione del conflitto politico di Cari Schmitt (soprattutto nel suo saggio del 1923 sulla crisi della democrazia parlamentare), c'è un confl.itto di primo grado, dove i campi antitetici si affrontano, dove ci sono "amici" e "nemici", o, se preferite, dove "noi" e "loro" sono termini conflittuali. C'è, poi, un conflitto di secondo grado, che egli esprime nei termini soreliani di un conflitto tra "miti" politici: è il conflitto tra il mito "socialista" e il mito "nazionalista" (che, in pratica, per lui era il mito fascista, trionfante dopo la "Marcia su Roma" di Mussolini). Penso che questo conflitto di secondo grado sia l'equivalente strutturale del confronto

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delle "cause" di Macé o del conflitto di Marx tra i "partiti" piuttosto che tra le classi. Questo conflitto non è direttamente tra "loro" e "noi", o tra nemici e amici; è più astratto, o più simbolico: un conflitto tra due modi antitetici di definire l'antagonismo noi/loro, o amico/ nemico, sia in termini di interessi di classe, di identità nazionali o di impegno. È un conflitto che sarà politicamente decisivo. Ma, ancora una volta, produce un effetto retroattivo sulla definizione, la separazione, l'auto-rappresentazione di gruppi che si cristallizzano intorno al riconoscimento di una causa, di un partito o di un mito. Oltre alla categoria dell"'illusione trascendentale", presa in prestito da Lyotard attraverso Rueff - un'illusione che, ovviamente, nel campo storico della politica, può produrre effetti materiali straordinari -, proporrei di prendere in prestito da Gayatri Spivak la celebre categoria di "essenzialismo strategico", che ha usato in senso pragmatico per negoziare il paradosso delle lotte e delle forme di soggettivazione che miravano, praticamente, a produrre un risultato universalista o una rappresentazione più universalista degli abitanti del mondo, ma passando attraverso un'enunciazione particolarista, che era stata violentemente costretta al silenzio. Potremmo anche, credo, servircene come punto di partenza per un'indagine fenomenologica sugli effetti ambivalenti dell'identificazione collettiva nelle lotte e sugli effetti liberatori di una riflessione critica su questo meccanismo. Anche per questo credo che la questione del "populismo" sia così cruciale: non come nemico interno della democrazia, ma come campo di battaglia o campo di gioco dove si combatte una battaglia, o un conflitto di secondo o terzo grado, non solo tra gruppi o tra miti, cause, ideologie di parte, ma anche tra forme antitetiche di soggettivazione e identificazione. Per il discorso post-democratico dominante, che in questo trova un modo facile di vestirsi con gli abiti democratici che ha, in realtà, fatto a pezzi, il "populismo" è la categoria che permette di stigmatizzare gruppi e interessi che non hanno nulla in comune, se non la loro irriducibilità all'ordine politico stabilito. È un peccato che alcuni teorici della "democrazia radicale" abbiano suggerito che questa confusione possa essere usata "tatticamente" o anche "strategicamente", per spostare certe forze da un lato dello spettro politico e sociale all'altro. Tuttavia, la questione principale, credo, sarà quella di osservare se la nuova insurrezione che sta emergendo oggi nel mondo avrà la capacità critica di evitare di mitologizzare il proprio

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movimento, e, soprattutto, la capacità di attraversare i confini che la isolano o la rinchiudono in una nazionalità, una classe, una razza, un genere o una generazione, in modo che questi movimenti diventino agenti di un agire democratico "dopo il declino della democrazia". Questo sembra essere il caso, in certa misura, di alcuni tra questi, e, in particolare, dei nuovi movimenti ambientalisti, malgrado tutte le loro contraddizioni interne. Questo non significa che siamo usciti dall'interregnum e che stiamo per entrare, dopo la fine del liberalismo, in un nuovo ciclo di pratiche democratiche, ma può significare che non possiamo accontentarci di rimpiangere i nostri successi e le nostre conquiste passate. (Traduzione di Rita Fulco)

Ripensare la democrazia ateniese e la repubblica romana nel tempo dei populismi e della plutocrazia John P. McCormick

Due antichi sistemi di governo, la democrazia ateniese e la repubblica romana, sono protagonisti dei dibattiti sulla crisi della democrazia contemporanea. Un crescente numero di teorici politici invoca la democratica Atene e la Roma repubblicana come modelli da imitare - o esempi da evitare - per affrontare le crescenti disuguaglianze e la corruzione politica dilagante nella nostra epoca plutocratica. In questo saggio mi occupo di alcune storture ideologiche e storiche perpetrate da Philip Pettit e Nadia Urbinati quando utilizzano Atene e Roma per criticare le soluzioni maggioritarie e populiste alla crisi attuale. Mi trovo invece in maggiore accordo con l'opera di Josiah Obcr, anche se non manco di criticare il modo in cui, nella formulazione della demopolis, la sua alternativa neo-ateniese alla democrazia liberale 1 , egli distingue i principi liberali moderni da quelli democratici antichi. Nel corso delle mie osservazioni critiche ribadirò la personale predilezione per quelle istituzioni di derivazione ateniese e romana che potrebbero far fronte alla crisi contemporanea. Penso a istituzioni come le assemblee della plebe, le cariche politiche distribuite in modo casuale e - forse l'elemento più importante - i processi politici con giuria popolare. I recenti libri di Pettit - On the People's Terms - e Urbinati Democracy Disfigured - esprimono una sincera preoccupazione per la crisi contemporanea della democrazia, ma mostrano al contempo profonde inquietudini per le soluzioni maggioritarie e populiste di tale crisi 2 • Di conseguenza, i due studiosi prescrivono soluzioni po' Josiah Obcr, Demopolis. Democracy Before Liberalism in Theory and Practice, Cambridge University Press, Cambridge 2017. 2 Philip Pettit, On the People's Terms: A Republican Theory and Model of Democracy, Cambridge University Prcss, Cambridge 2012; Nadia Urbinati, Democracy Disfigured:

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litiche mediate dalle élites, si focalizzano sui meccanismi elettorali e propongono misure contro-maggioritarie. Questi modelli, tuttavia, debilitano, più che incoraggiare, i tipi di riforma istituzionale che sarebbero necessari per rinvigorire la democrazia contemporanea. E.ssi costituiscono un rafforzamento dell'esistente: accrescono quelle caratteristiche del moderno governo rappresentativo che, per ragioni che spiegherò, favoriscono l'ascesa della plutocrazia e l'emergere di forme reazionarie di populismo. Entrambi gli autori, inoltre, squalificano Atene e Roma in quanto risorse costruttive per la democrazia contemporanea: Pettit distorce il carattere direttamente democratico dell'antica Atene rendendola intrinsecamente irrazionale e oppressiva, mentre Urbinati identifica la Roma repubblicana come il luogo di nascita del populismo moderno, da lei inteso esclusivamente come una forma di cesarismo demagogico. In modo più costruttivo, il libro di Ober, Demopolis, utilizza l'indagine storica sulla politica antica per distinguere ciò che è liberale da ciò che è democratico nel regime moderno che chiamiamo democrazia liberale. Ober dimostra che i tre valori sottesi alla democrazia - l'uguaglianza, la libertà e la partecipazione politiche - sono sostanzialmente distinti da quelli tipicamente liberali come l'autonomia personale, i diritti umani e la giustizia distributiva. Questa riformulazione ci informa più chiaramente intorno a cosa sia effettivamente la democrazia e soprattutto su quali possibilità esistano per la sua realizzazione all'interno dei grandi Stati nazionali moderni. La critica che muovo a O ber è invece relativa alla sua adesione troppo risoluta alle nozioni liberali di proprietà privata e integrità fisica che inibiscono la realizzazione di una relativa uguaglianza economica e di un'efficace punizione politica in una florida democrazia.

Il "repubblicanesimo" di Pettit: democratico o aristocratico? Storicamente, gli attori politici inclini alla democrazia ritenevano che l'eccessiva influenza della ricchezza fosse la principale minaccia Opinion, Truth, a,uJ the People, Harvard Univcrsity Prcss, Cambridge 2.014; tr. it. di M. Cupcllaro, G. Barile, T. Quirico, Democrazia sfigurata: il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi, Milano 2.014.

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alla libertà dei governi popolari. Penso agli opliti delle antiche democrazie greche e ai plebei delle repubbliche italiane, ma anche alle gilde inferiori nelle città-Stato svizzere, tedesche e italiane durante il Medioevo e il primo periodo moderno. Il risultato di questo timore sono stati cittadini comuni posti al centro, e non a margine, delle riforme istituzionali e pratiche che mitigavano direttamente l'eccessiva influenza politica della ricchezza: tra le altre, l'ampio uso del sorteggio piuttosto che delle elezioni per la nomina dei pubblici ufficiali e l'esistenza di cariche e assemblee riservate ai cittadini più poveri. Il meccanismo del sorteggio e le istituzioni esclusivamente plebee funzionavano come forme di "azione affermativa" (affermative action) per i cittadini comuni. Naturalmente, si insisteva sul fatto che le grandi assemblee cittadine governate da procedure maggioritarie dovessero essere le istituzioni più potenti all'interno delle repubbliche, anche quando queste ultime erano intese come "regimi misti". Al contrario, gli attori aristocratici - l'oligarchia greca, i nobili romani e i Grandi delle prime città-Stato moderne - ritenevano che la tirannia maggioritaria fosse la più grande minaccia alla libertà civile. Di conseguenza, essi sostenevano organi senatoriali o giudiziari indirettamente responsabili, utili a temperare l'autorità delle assemblee maggioritarie e preferivano l'elezione al sorteggio come strumento di nomina politica. Al centro del suo modello istituzionale, Petrit propone dei baluardi istituzionali contro la tirannia maggioritaria del tutto simili a quelli appena nominati e dichiara la sua preferenza esplicita per le modalità di nomina politica basate sulle elezioni rispetto al sorteggio. L'autore di On the People's Terms, inoltre, non stabilisce alcun meccanismo di tutela contro l'eccessiva influenza politica delle élites socio-economiche. Il risultato di tutto ciò è che, nonostante la sua dichiarata opposizione, Pettit si trova saldamente all'interno del campo del repubblicanesimo aristocratico. Nel sostenere le sue proposte egli utilizza due pesi e due misure per valutare, da un lato, le istituzioni contro-maggioritarie ed elettorali e, dall'altro, le istituzioni pienamente maggioritarie e quelle basate sul sorteggio. Critica le assemblee "plenarie" o sovrane - come I'ecclesia ateniese - che includevano tutti i cittadini nel processo decisionale e condanna le assemblee "consultive" più piccole, come i tribunali ateniesi, che reclutavano membri casuali dalla cittadinanza generale. Per Petrit, le

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prime falliscono regolarmente il test di coerenza razionale3 mentre le seconde si rivelano potenzialmente irresponsabili. Le assemblee plenarie o sovrane, sostiene Pettit, tendono a generare leggi particolari che nel tempo si rivelano profondamente incoerenti tra loro, mentre i membri degli organi consultivi - come i consigli o i tribunali popolari -, resi indisciplinati dalla prospettiva della rielezione, possono comportarsi in modo irresponsabile o egoistico, finendo per danneggiare piuttosto che servire il bene comune. La storia fornisce una risposta a ciascuna delle accuse che Pcttit muove contro queste istituzioni che caratterizzavano le antiche democrazie greche. Anzitutto, I'ecclesia ateniese fu organizzata proprio per evitare quel tipo di risultati irrazionali che tanto preoccupano Pettit. Due consigli subordinati, la boulé, che aveva il compito di stabilire l'ordine del giorno e i nomoteti, addetti alla revisione delle leggi, interagivano con l'ecclesia in modo da dissuadere l'assemblea sovrana dal promulgare leggi incoerenti o cercando una correzione a posteriori. Pochi antichi governi che impiegavano sorteggi su larga scala per nominare organismi consultivi lo facevano senza stabilire anche schemi di rigoroso controllo pubblico per gli cx titolari di cariche. Una volta completati gli incarichi affidati per sorteggio, i singoli individui potevano essere obbligati a rendere conto del loro operato davanti a tribunali di concittadini e, in caso di comportamenti scorretti, si trovavano di fronte alla prospettiva di pesanti sanzioni. In breve, le istituzioni plenarie, consultive e basate sul sorteggio, non erano così terribilmente soggette all'irrazionalità o all'irresponsabilità come crede Pcttit. Le istituzioni ateniesi non dovrebbero pertanto essere così prontamente liquidate come possibile fonte di ispirazione per una riforma contemporanea, o almeno non per questi motivi. Inoltre, la valutazione incompleta delle istituzioni ateniesi proposta da Pettit non sarebbe così problematica se egli non "romanzasse" al contempo in modo inappropriato il funzionamento degli organismi rappresentativi all'interno delle democrazie contemporanee. Esiste una vasta letteratura, di cui Pcttit tuttavia non si occupa, pessimista sia riguardo la misura in cui i funzionari eletti rappresentino effettivamente le loro circoscrizioni elettorali, sia per quanto riguarda il legame tra la possibilità della rielezione e la responsabilità dei sin3 Cfr.

P. Pcttit, On the People's Terms cit., pp. 191-193, 2.07, 2.46, 303.

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goli titolari delle cariche nei confronti del pubblico. In altri termini, la ricchezza, più dei voti, può essere oggi il fattore determinante sia nel processo legislativo che nei concorsi elettorali. Certamente l'uguaglianza e la gerarchia sono questioni complicate nella storia del governo popolare. Tuttavia, Pettit presenta sempre i princìpi e le pratiche repubblicane tradizionali in un modo più egualitario e anti-gerarchico di quanto la documentazione storica giustifichi. La sua noncuranza delle importanti differenze esistenti tra repubblicani democratici e aristocratici su questi temi distorce il suo racconto della storia del repubblicanesimo. Per Pettit, infatti, le anomalie radicalmente anti-elitarie, come Machiavelli, Richard Price e i Levellers4, incarnano il repubblicanesimo molto più di quanto non facciano figure più comuni e meno egualitarie come Cicerone, Guicciardini, Harrington e Montesquieu. Pettit scrive che «la teoria repubblicana della giustizia sociale (sostiene) che lo Stato dovrebbe stabilire un uguale non dominio per i suoi cittadini in relazione gli uni agli altri»5. Nondimeno, i repubblicani democratici e quelli aristocratici avrebbero interpretato questa affermazione in modi molto diversi. Una delle più grandi divisioni tra i diversi tipi di repubblicanesimo riguarda proprio la misura in cui il clientelismo - le relazioni padrone-cliente - venga considerato conforme o sia invece una sorta di anatema per la costruzione di relazioni eque tra i cittadini. Molti aristocratici repubblicani penserebbero che l'affermazione di Pettit sia del tutto compatibile con i rapporti cliente-mecenate tra cittadini con diverse dotazioni materiali e status sociale. L'autore di On the People's Terms sembra ignorare che le pratiche gerarchiche clientelari erano perfettamente accettabili per le maggiori figure della tradizione repubblicana, tra cui Rousseau. Per questi repubblicani aristocratici, la dipendenza tra cliente e patrono non è accessoria ma costitutiva della stessa nozione di liber, o uomo libero, che rappresenta per Pettit la figura esemplare del cittadino repubblicano6 • Secondo il repubblicanesimo aristocratico, i cittadini meno virtuosi sono più liberi quando seguono le indicazioni dei cittadini che possiedono maggiore virtù. Le pratiche clientelari accettate da repubblicani come Cicerone e Rousseau sembrerebbero dunque ◄

lvi, pp. 6, 83, 84, 148, 150, 169, 174, 2.18, 2.2.1 e 2.47.

s lvi, p. 18. 6

lvi, pp. 6, 88, 2.2.1.

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violare profondamente gli standard egualitari stabiliti da Pettit riguardo alle interazioni tra i cittadini che non prevedono soggezione, e in particolare riguardo al fatto che tutti i cittadini devono potersi spudoratamente "guardare negli occhi" in quanto, socialmente, affatto eguali?. Eppure, Pettit sembra ignorare che, nei contesti repubblicani romano e fiorentino, i patroni avevano un'enorme influenza sulle scelte dei loro clienti per quanto riguarda il matrimonio, l'istruzione, il commercio e, soprattutto, la partecipazione politica.

La democrazia rappresentativa pro-ateniese e anti-romana di Urbinati

Nella sua analisi della democrazia rappresentativa contemporanea, Nadia Urbinati celebra i salutari lasciti ateniesi e denuncia le perniciose influenze romane. Queste ultime conducono necessariamente al populismo, il quale non può mai, in nessuna circostanza, assumere una forma progressiva. Secondo la studiosa, il moderno governo rappresentativo condivide con la democrazia ateniese l'impegno per l'isonomia e l'isegoria, l'uguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge. Isonomia e isegoria comportano l'eguale diritto di partecipare politicamente parlando e votando, in modo che la voce e il voto di ogni cittadino abbia pari dignità e pari peso politico 8 • T aie affinità con la democrazia ateniese, secondo Urbinati, rende il moderno governo rappresentativo di gran lunga superiore alle alternative populiste. Il populismo eredita infatti troppi elementi inegualitari dall'antica Roma9 e praticamente ogni principio o pratica riconducibile a quest'ultima costituisce una minaccia populista per la democrazia contemporanea. Tra questi clementi vi sono ad esempio l'accettazione delle disuguaglianze formali tra i cittadini - come la distinzione tra plebei ed élite - la sottovalutazione della libertà di parola a favore dell'acclamazione maggioritaria non deliberativa e le pratiche demagogiche ed escludenti con le quali i leader demonizzano i vari nemici del "popolo reale". Il racconto di Urbinati sul populismo, tuttavia, è intrinsecamente contraddittorio. Da un lato, i sostenitori del populismo sono presenpp. 3 e 17. N. Urbinati, Democrazia sfigurata cit., p. 2.8. 9 lvi, pp. 2.2.6-2.30.

7 lvi, 8

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tari come riprovevoli protocesaristi. Dall'altro, viene correttamente osservato che i movimenti populisti hanno facilitato e rafforzato la democrazia in alcuni contesti (negli Stati Uniti del secolo XIX, in alcuni paesi latini e sudamericani durante il secolo XX e nell'Europa meridionale del secolo XXl) 10 • Lascia quindi perplessi l'insistenza di Urbinati sul fatto che, in ultima analisi, il populismo sia un fenomeno di destra e che esso minacci invariabilmente di trascendere le norme costituzionali democraticamente salutari e di limitare i diritti delle minoranze 11 • Inoltre, l'immagine proposta da Urbinati dell'antica Roma in quanto perniciosa progenitrice del populismo è decisamente limitata ed eccessivamente gerarchica. La sua rappresentazione della politica romana è quasi sempre tratta dalla storia antica della città, quando la mobilità sociale era senza dubbio piuttosto limitata, vi era una maggiore segregazione tra le classi ed esistevano separazioni più stabili tra le istituzioni popolari e quelle aristocratiche. Questa è tuttavia una visione profondamente distorta della Repubblica Romana per come si è evoluta nel corso della sua storia. Una raffigurazione che ignora la realtà di una politica, quella romana, in cui i cittadini hanno continuamente negoziato e rinegoziato due concezioni alternative della cittadinanza. Da una parte, la nozione universale e comunemente condivisa del Populus Romanus e dall'altra quella più differenziata e spesso conflittuale della cittadinanza romana espressa dall'espressione SPQR: il senato e il popolo di Roma. Roma, per Urbinati, è sempre quest'ultimo sistema di governo gerarchicamente diviso e solo raramente la repubblica di cittadini liberi cd eguali. Proprio nel periodo medio della repubblica, invece, molte delle minacce che la studiosa associa alla politica romana erano già scomparse o almeno si erano profondamente trasformate. La rigida divisione sociale tra plebe e patriziato, ad esempio, venne soppiantata dalla più permeabile distinzione tra plebe e nobiltà. Le classi di voto a Roma, inoltre, non erano le caste fisse che descrive Urbinati. Si trattava al contrario di categorie fluide, determinate da un censimento delle proprietà che veniva rivisto ogni decennio. Infine, se la studiosa sottolinea correttamente la mancanza di deliberazione nelle assemblee romane con diritto di voto, minimizza eccessivamente la forza della

'

0

11

lvi, pp. 199-2.04 e 3 2.6. Cfr. ivi, pp. 131-142., 181-195, 2.2.6-2.2.7.

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discussione pubblica nelle assemblee deliberative, le contiones, che si riunivano il giorno prima che i voti fossero formalmente conteggiati12. Certamente i romani tolleravano più disuguaglianze politiche rispetto agli ateniesi, ma l'affermazione di Urbinati riguardo la reale entità delle disuguaglianze a Roma rimane molto controversa. La studiosa trascura più di un decennio di dibattiti sul ruolo che i plebei hanno avuto nel governo della Repubblica, soprattutto durante il suo periodo medio e, in una certa misura, negli ultimi secoli. Molti studiosi, come ad esempio Andrew Lintott e Fergus Millar, hanno sostenuto che istituzioni come il tribunato della plebe, i tribunali popolari e la legislazione nelle assemblee di Roma più equamente organizzate, rendevano la politica romana più democratica di quanto gli studiosi abbiano tradizionalmente supposto 1 3. Ci interessa in particolar modo l'argomento centrale dell'opera di Millar, il quale suggerisce che, siccome i consoli erano di solito lontani dalla città, alla guida degli eserciti della Repubblica, la maggior parte della politica interna romana era diretta dai tribuni della plebe, in assemblee come il conci/ium plebis e nei comitia tributa. Organi, questi, che generalmente decidevano le questioni a maggioranza piuttosto che, come facevano i comitia centuriata, con voti di maggiore peso per i cittadini più ricchi. Tornando ad Atene, Urbinati sottolinea aspetti della democrazia ateniese condivisi dal moderno governo rappresentativo: le caratteristiche formalmente egualitarie dell'isonomia e l'impatto positivo sulla libertà di parola derivante dal principio dell'isegoria, per cui chiunque è libero di parlare in assemblea 1 4. Ciò che viene tuttavia ignorato è la pratica radicalmente democratica dell'ho boulomenos per la quale qualsiasi cittadino "che avesse voluto" avrebbe potuto proporre il proprio nome per essere scelto a sorte per servire in una carica pubblica. Attraverso tale pratica ogni cittadino ateniese godeva della reale opportunità di ricoprire una carica; un'opportunità che

lvi, p. 303. Cfr. Andrcw Lintott, The Constitutio11 of the Rama11 Republic, Oxford Univcrsity Prcss, Oxford 1999; Timothy Pctcr Wiscman, Rcmembering the Roman People: Essays on Lote-Republiam Politics arul Literature, Oxford Univcrsity Prcss, Oxford 2008 e Fcrgus Millar, The Crawd i11 Rome in the Late Republic, Univcrsity of Michigan Prcss, Ann Arbor 11

13

2002. 1•

N. Urbinati, Democrazia sfigurata cit., pp. 73 e 223.

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non veniva influenzata dalle disparità di potere socio-economico presenti nella città. Si tratta di un aspetto centrale della pratica politica ateniese che la democrazia rappresentativa contemporanea, anche rimodellata nella sua forma ideale da Urbinati, non può offrire ai suoi cittadini. Quest'ultima, infatti, esclude l'esercizio generale del potere politico diretto da parte di qualsiasi cittadino lo desideri. Gli alti costi, materiali e non, delle campagne elettorali - anche nelle democrazie rappresentative in cui le elezioni vengono finanziate con fondi pubblici - escludono la possibilità che i cittadini comuni assumano una carica. Di fatto, le democrazie elettorali obbligano i cittadini che si candidano a diventare clienti dei singoli e dei gruppi che finanziano le loro campagne elettorali. Risponderei pertanto a Urbinati nel modo seguente: fino a quando la democrazia rappresentativa non permetterà, almeno con una certa approssimazione, l'equa condivisione e l'esercizio del potere politico tra tutti i cittadini, i movimenti populisti avranno motivi legittimi per contestarla. Questi ultimi saranno giustificati a chiedere che il governo rappresentativo sia più genuinamente rappresentativo e a contestare i privilegi di pochi inseriti in nome dei molti marginalizzati o esclusi.

Ineguaglianza, corruzione e punizione nella demopoli di Ober Ober dimostra che sia il liberalismo moderno che la democrazia antica erano e sono tuttora impegnati nella protezione della proprietà personale e dell'integrità fisica degli individui. La differenza risiede piuttosto nel fatto che mentre i liberali tendono a assegnare priorità alla proprietà privata e all'integrità corporea in quanto fini per la libertà individuale, i democratici li considerano come strumenti per la realizzazione della libertà e dell'uguaglianza tra la collettività dei cittadini. Nondimeno, credo che Ober conservi una concezione della proprietà e dell'integrità fisica troppo liberale per realizzare il suo modello di "Basic Democracy" o demopolis. In particolare, egli sottovaluta la misura in cui la disuguaglianza economica genera necessariamente il tipo di "corruzione sistematica" che egli considera una grave minaccia alla Basic Democracy 15 • Sottovaluta inoltre la severità delle 1

s J. Obcr, Demopolis cit., p. 132..

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punizioni che la demopolis deve infliggere a quegli individui arroganti e potenti1 6 che violano il principio di non tirannia sfruttando, umiliando e considerando infantili i cittadini più deboli e vulnerabili17. Suggerisco dunque che, affinché una demopolis sia sostenibile, Ober dovrebbe frequentare meno scrupolosamente i dogmi liberali riguardo ciò che è arbitrario e ciò che è eccessivo - specialmente quando si tratta delle proprietà o dei corpi dei «pochi arroganti e potenti» che minacciano di corrompere e persino di usurpare la Basic Democracy. Per quanto riguarda le questioni della proprietà e dell'uguaglianza economica, Ober crede che l'usurpazione plutocratica della demopolis - ovvero il controllo del governo o delle cariche dei funzionari governativi da parte delle élites economiche - sia al più una minaccia intermittente e non persistente alla democrazia di base. È un caso «particolare di corruzione sistematica» 18 • Questa impressione è confermata dalla riflessione dello studioso, indifferente in modo allarmante allo stato attuale della politica democratica nell'emisfero occidentale. Afferma ad esempio: «lascio da parte la questione se la corruzione sistematica di questo tipo sia una caratteristica reale dei sistemi democratici contemporanei o solo una possibilità teorica» 1 9. Tale atteggiamento agnostico di Ober suggerisce che l'invasione plutocratica della Basic Democracy e la presa della demopolis da parte delle élites siano da lui considerate le eccezioni e non la norma della politica democratica. Eppure, la storia dei governi popolari premoderni ci mette in guardia contro i tentativi di estromettere dalla politica democratica le questioni della disuguaglianza economica o della giustizia distributiva. Ancora una volta, gli esempi dell'antica Atene e di Roma, così come le esperienze delle repubbliche italiane medievali hanno portato i sostenitori del governo popolare ad affrontare di petto la minaccia che la diseguaglianza economica rappresenta per l'eguaglianza civica. Machiavelli, per esempio, dimostra in modo piuttosto convincente che regimi come la demopolis sono il bersaglio costante di (anche se non ha coniato l'espressione) "vaste cospirazioni di destra" - in ogni epoca, in ogni luogo e in ogni momento. Da questo punto di vista, quindi, la corruzione sistematica plutocratica è semplicemente una minaccia costante ed esistenziale per Ivi, p. 158. lvi, pp. II 1-112.. 18 Ivi,p. 132.. 19 Ibid.

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RIPENSARE LA DEMOCRAZIA ATl!NIESI! E LA REPUBBLICA ROMANA •••

qualsiasi politica civile che non sia già una pura oligarchia. Ober elude troppo velocemente la questione della proprietà e in particolare la questione della giustizia distributiva. Egli attribuisce esplicitamente al liberalismo l'interesse per la giustizia distributiva, e le sue stesse definizioni dei valori democratici - uguaglianza politica, libertà, partecipazione e dignità civica - presuppongono un significativo livello di uguaglianza economica. Forse una robusta e fiorente demopolis non richiede la pressoché totale uguaglianza socio-economica richiesta dai liberali redistribuzionisti e dai socialisti, ma certamente ne ha più bisogno di quanto Ober sia esplicitamente disposto ad ammettere. Riguardo la questione dell'integrità fisica e della punizione politica, lo studioso si chiede «come può una collettività di cittadini senza padrone [partecipare alla] punizione di chi infrange le regole»?w. Più drammaticamente, come possono anche i cittadini più deboli e vulnerabili controllare il comportamento di individui arroganti che [violano il principio di non tirannia] umiliando e rendendo infantili gli altri?2. 1. Tra i reati punibili che O ber ritiene siano delle minacce che umiliano e infantilizzano la dignità civica, spiccano gli atti malevoli di disinformazione di massa; in particolare, quegli inganni che ci inducono ad accettare rischi personali (decisioni di investimento pericolose) o rischi collettivi (politiche pubbliche pericolose) che non avremmo scelto con una informazione migliorC:Z.2 • Per il primo esempio Ober ha presumibilmente in mente le élites finanziarie che hanno generato la crisi economica del 2008. Per quanto riguarda il secondo - l'inganno che porta a politiche pubbliche pericolose - egli si riferisce esplicitamente alla disinformazione diffusa dall'amministrazione Bush-Cheney per giustificare l'invasione statunitense dell'Iraq nel 2003. Quali punizioni sarebbe dunque opportuno infliggere per tali violazioni della dignità civica, materialmente disastrose? L'ostracismo sembra offrire un'opzione accettabile. Banalmente, in tali circostanze Ober propone la rimozione elettorale o giudiziaria dei funzionari corrotti:z.3. In modo più provocatorio, nei casi in cui un'intera amministrazione, un'assemblea o anche una classe politica si dimostri corrotta o tirannica, lo studioso propone una sanzione adeguata: «il ritorno al dominio diretto da parte 10 lvi,

p. II I. .u lvi, p. 17. 12 lvi, p. 1 2.4. iJ lvi, p. 132..

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del demos»:z.4. Il popolo sovrano non solo ha il diritto di sostituire i membri cli un governo corrotto o cli riorganizzarne la forma istituzionale, ma, per affrontare e invertire la corruzione o l'usurpazione, esso può commissariare il governo e tornare alla democrazia diretta. Curiosamente, però, Ober non menziona una forma di punizione politica diffusa nelle democrazie e nelle repubbliche prima del XIX secolo, ovvero i processi politici popolari in cui funzionari pubblici o privati cittadini accusati cli corruzione o tradimento dovevano affrontare la possibilità della pena cli morte. Mi riferisco in questo caso ai processi capitali da parte di grandi giurie cittadine come quelle che condannarono Socrate ad Atene e Coriolano a Roma. Durante le primarie democratiche del 20I6, Hillary e Bill Clinton dichiararono pubblicamente che il logico risultato della campagna presidenziale cli Bernie Sanders sarebbe stato sparare a una persona su tre a Wall Street. Giustiziare i banchieri, i Clinton insistevano, non sarebbe al servizio della politica progressista. Non ne sono così sicuro. Avendo in mente gli esempi delle politiche antiche, Machiavelli insisteva sul fatto che la paura dell'esecuzione capitale era la sola strada per scoraggiare le élites economiche e politiche dall'indirizzare la politica pubblica verso i loro interessi privati, verso il loro stesso arricchimento. È necessario sottolineare che Machiavelli non ha incoraggiato né pogrom né epurazioni. Lungi da ciò, egli raccomandava piuttosto delle procedure giudiziarie legali e ordinate, delle modalità istituzionali attraverso le quali il maggior numero possibile di cittadini potesse decidere riguardo la vita delle élites accusate cli crimini politici. Crimini che includono quelli invocati da Ober: mentire per dare inizio a guerre inutili che consumano enormi quantità cli sangue e patrimoni dei cittadini, compiere delle scorrettezze finanziarie che scatenano crisi economiche su larga scala che costano a innumerevoli persone il loro lavoro, la loro casa e i loro risparmi. A ciò potremmo aggiungere, ipoteticamente, la collaborazione con nemici stranieri per corrompere le istituzioni pubbliche in nome cli un personale guadagno economico o politico. Gli antichi governi popolari, dimostra Machiavelli, inizialmente sperimentavano la prigionia e l'esilio come forme cli punizione politica. Tuttavia, troppo spesso i cittadini benestanti usavano le loro considerevoli risorse per ottenere indulti, per uscire cli prigione o per 14 Ivi, p. 136.

RIPl!NSARI! LA Dl!MOCRAZIA ATl!Nll!SI! E LA REPUBBLICA ROMANA,,,

rientrare prematuramente dall'esilio. Purtroppo, ci insegna Machiavelli, non esiste un'approssimazione funzionale alla morte. Anzi, la radicale definitività della morte è l'unico fattore che può fare riflettere chi userebbe le proprie ricchezze, come dice Machiavelli, "erroneamente", ovvero per tentare di corrompere un processo politico che dovrebbe servire ai molti e non ai pochi. Il buon liberale dichiarerà che il liberalismo ha fatto grandi passi avanti nella fioritura uamana e nella dignità civile, vietando la pena di morte nella stragrande maggioranza delle democrazie liberali. Si osservi come quei regimi sono riusciti ad arginare i crescenti livelli di disuguaglianza economica, di corruzione politica e di autocrazia! Anche se sono in gran parte in accordo con la tesi di Ober per cui liberalismo e democrazia sono spesso compatibili, in questo caso come in quello della proprietà - il democratico deve sostenere politiche che i liberali riterrebbero arbitrarie cd eccessive. La demopolis deve minacciare la pena capitale a quei cittadini ricchi o ai funzionari pubblici condannati per corruzione economica o politica - e forse solo alle élites economiche e politiche. Un tale rischio dovrebbe essere considerato "il costo degli affari" per coloro che godono dello status di élite in una democrazia sana - così come l'incarico di giurato o il pagamento delle tasse per tutti gli altri. In modo molto schietto Obcr dichiara che «senza cittadini liberi e uguali, non ha senso parlare di dcmocrazia» 2 5. Insisto quindi sul fatto che i cittadini di una demopolis vendono a buon mercato il loro impegno per la libertà e l'uguaglianza quando non riescono a difendere tali princìpi con la massima severità - cioè quando non riescono a ricorrere alla massima punizione per difenderli.

Conclusioni: Democrazia - passato, presente e futuro I partigiani della democrazia devono appropriarsi, in modo più ingegnoso e meno oclofobico rispetto a Pettit e a Urbinati, della lezione del passato repubblicano e democratico, e in particolare di quella rinfrescante onestà con cui i molti, il popolo, i poveri, hanno affrontato il problema cruciale del potere economico e politico. In netto contrasto 1.s lvi, p.

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con i modelli di democrazia elettorale e anti-maggioritaria di Pettit e Urbinati, la democrazia ateniese e la Repubblica romana hanno messo in campo istituzioni volte ad assicurare che i poveri potessero governare o condividere equamente il governo con i ricchi. Attraverso l'uso del sorteggio in molteplici sfere del governo ateniese e attraverso istituzioni esclusivamente plebee nella Roma repubblicana, i cittadini comuni hanno affrontato direttamente, costituzionalmente e collettivamente, ciò che il repubblicanesimo di Pettit e la democrazia rappresentativa di Urbinati trattano come una questione secondaria, privata o individuale: l'imponente potere politico della ricchezza. Nonostante le mie critiche, ritengo il lavoro di Ober prezioso per aiutarci a superare i pregiudizi anti-maggioritari del liberalismo e del repubblicanesimo che inquinano gli scritti di Pettit e Urbinati. La sua definizione di democrazia e liberalismo come "separati ma compatibili" fornisce un antidoto alla pillola di veleno lasciata nella teoria della democrazia liberale dai suoi fondatori. Anche se non fa nomi, Ober chiarisce che Montesquieu, Madison, Constant e Mili distinguono in malafede - o, peggio, ideologicamente - tra le cosiddette libertà degli antichi e dei moderni, in un modo decisamente iniquo nei confronti della democrazia. Questi teorici e statisti ferocemente oclofobici cercavano di vaccinare la loro nuova creazione, la democrazia liberale, contro un pericolo per loro terrificante: la possibilità che l'elemento democratico dell'amalgama liberal-democrazia potesse a un certo punto minacciare o sfidare con successo la supremazia della componente liberale all'interno della modernità. Come sostiene Ober, consolidando la supremazia liberale nella liberal-democrazia, i suoi fondatori intellettuali hanno lasciato sia i democratici che i liberali in un disperato svantaggio di fronte a momenti di crisi come quello che viviamo. Hanno infatti eliminato delle risorse inestimabili con le quali la democrazia diretta o la politica plebea avrebbero potuto essere energicamente promosse in tempi come il nostro. Un periodo in cui il liberalismo appare inefficiente o obsoleto, e in cui la Basic Democracy potrebbe essere la migliore o l'unica speranza per quello che Ober definisce elegantemente come fioritura umana, ovvero il godimento della prosperità, della sicurezza e della non tirannia 26• (Traduzione di Mattia di Pierro)

Ontologizzare sempre! L'antagonismo e il primato della politica Olivcr Marchart

Verso un'ontologia dell'antagonismo Nel pensiero politico degli ultimi anni abbiamo assistito ad una svolta, talvolta definita "svolta ontologica", in direzione del politico in quanto distinto dalla politica in senso stretto. La vera chiave per ogni ontologia politica giace in questa differenziazione, introdotta da numerosi autori, tra la politica ontica "ordinaria" e una nozione ontologica del politico (come dimensione che pertiene all'intero campo del sociale più che a una pratica o campo particolare). Questa differenziazione (in Francia tra la politique e le politique) può essere fatta risalire ad un articolo di Paul Ricoeur del 1956 dal titolo Il paradosso politico, e riemerge prepotentemente negli anni Ottanta quando molti filosofi - tra i quali Jean-François Lyotard, Claude Lefort, Alain Badiou, Jacob Rogozinski, Jacques Rancière e Étienne Balibar - furono invitati da Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue-Labarthe a presentare degli interventi al Centre de recherches philosophiques sur le politique e a discutere ciò che gli organizzatori definivano come il "ritrarsi del politico" [Le retrait du politique]1. Da quel momento storico in poi, ciò che in Post-foundational Politica[ Thought, la mia monografia sul paradigma intellettuale dell'heideggerismo di sinistra\ ho chiamato la differenza politica - concetto modellato sulla differenza ontico-ontologica heideggeriana - ha finito per essere canonizzata come una distinzione concettuale di base del pensiero politico. Tuttavia, come ho cercato anche di dimostrare nel mio lavoro, ' Cfr. Philippc Lacouc-Labarthc, Jcan-Luc Nancy (a cura di), Le retrait du politique, Galiléc, Paris 1983. :r. Cfr. Olivcr Marchart, Post-foundational Politica/ Thought. Politica/ Difference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Eclinburgh Univcrsity Prcss, Edinburgh 2.007.

OUVER MARCHART

la differenza politica non implica una gerarchia per cui il politico, o il lato ontologico, sarebbe posto in risalto e la pratica politica, sul lato ontico della differenza, risulterebbe svalutata, come alcuni critici di questo approccio hanno sostenuto. Susan Buck-Morss, ad esempio, ha sospettato che il passaggio dalla politica ordinaria all'ontologia politica sia una "strada a senso unico" incapace di riportare indietro alla pratica politica3. Altri ne hanno criticato "l'assenza di peso sociale" (ossia, un'insensibilità verso la sofferenza sociale)4 o )"'aura negativa" da esso conferita ai processi politici, etichettati come "meramente positivisti, sociologici, empirici o ontici" dagli ontologi politici5. Molto spesso gli ontologi devono dunque confrontarsi con accuse di eccessiva astrazione a scapito di concretezza sociologica e coinvolgimento politico. lo non credo, tuttavia, che questo sia vero. Al contrario, l'obiettivo dell'ontologia politica contemporanea, nella maggioranza dei casi, è ringiovanire la pratica politica precisamente al fine di aprire spazi in cui mettere in discussione strutture di subordinazione. In questo senso, il suo attacco non è diretto alla "politica ordinaria" per se, ma ad una politica post-conflittuale che cerca di spogliare la politica di qualunque contenuto politico. Inoltre, ridirigendo l'attenzione sulla natura in ultima analisi conflittuale di tutto ciò che è sociale, un'ontologia del politico ci spinge a sviluppare una prospettiva politica complessiva sul sociale. Non nel senso di assumere che tutto è politico in termini di politica sistemica, ma nel senso che tutte le questioni sociali sono politiche in quanto fondate, in misura più o meno maggiore, sul politico: vale a dire, attraverso istanze di conflitto, potere, subordinazione, oppressione, esclusione e decisione quanto, ovviamente, di resistenza, opposizione, scontro, associazione o costruzione del consenso. Queste sono tutte modalità politiche che strutturano il nostro mondo sociale; e l'ontologia politica tende a sottolineare la politicità del nostro mondo. Una mossa che permette di generalizzare ciò che le femministe, negli anni Settanta, hanno diagnosticato riguardo al personale e al privato: ciò che sembra in 3 Cfr. Susan Buck-Morss, A Communist Ethics, in S. 2izck (a cura di), The Idea of Communism 2, Verso, London-New York 2.013, pp. 5-7. 4 Cfr. Lois McNay, The Misguided Search {or the Politica/: Socia/ Weightlessness in Radical Democratic Theory, Polity Prcss, Cambridge 2.014. s Bruno Bostccls, The Actuality of Communism, Verso, London-Ncw York 2.011, p. 68.

ONTOLOGIZZARI! Sl!MPRl!I L'ANTAGONISMO I! Il. PRIMATO Dl!LLA POLmCA

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superficie non-politico può, infatti, avere radici profondamente politiche. Sensibilizzate da una tale ontologia, le analisi sociali saranno spinte a cercare manifestazioni del politico nei luoghi più inaspettati. Sostengo dunque, contra la famosa ingiunzione di Fredric Jameson, "storicizzare sempre!", che per avere una prospettiva realmente politica sul mondo, dovremmo piuttosto ontologizzare sempre. Prima di tornare sul "lato ontico" della differenza politica e discutere quella che definirò la tesi del primato della politica (in contrasto con la tesi di un qualche primato del politico), vorrei aggiungere alcune parole sul carattere ontologico del politico. Diamo per scontato che parlare del "politico" in quanto tale non dice ancora molto. Dobbiamo specificare o nominare il politico. Come ha sostenuto una volta Alan Badiou, pensare è dare un nome all'essere. Mentre per Badiou l'essere è di natura matematica, Antonio Negri battezzerebbe l'essere col nome di "moltitudine"; e ci sono molte altre opzioni. Prendendo le mosse dalla prospettiva di una tradizione marxista leggermente differente, vorrei sostenere che il nome appropriato per il politico come ciò che descrive la natura ontologica di tutti i fatti sociali sia "antagonismo". Si tratta di un termine dalla lunga storia intellettuale. Ha a che fare col conflitto, non solo col conflitto nel senso "ontico" di persone che si combattono a vicenda, ma in un senso ontologico più ampio e che risulta più fondamentale di una relazione amico-nemico. Ciò che vediamo all'opera in Marx, infatti, da un punto di vista filosofico non è altro che il famoso "lavoro del negativo" hcgeliano6• Uno degli ultimi credi di questa tradizione è Ernesto Laclau, il cui contributo teoretico più decisivo è precisamente la sua concezione dell'antagonismo: in una mia recente monografia, Thinking antagonism7, ho cercato di ricavare le implicazioni propriamente ontologiche di tale approccio, mentre in un altro libro, ConfUctual aesthetics8, ho sviluppato le implicazioni che tale ontologia ha in rapporto alle pratiche politiche dell'attivismo artistico. Come ha soste-

6 Cfr. Gcorg Wilhclm Fricdrich Hcgcl, Pha11omcnologie des Geistes [1807), in Id., Hautpwerke in sechs Banden, Mcincr, Hamburg 1999, tr. it. di V. Ciccro, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, p. 69. 7 Cfr. Olivcr Marchart, Thinking A11tago1usm: Politica/ Ontology a~er Ladau, Edinburgh Univcrsity Prcss, Edinburgh 2018. 8 Cfr. Id., Conflictual Aesthetics: Artistic Activism and the Public Sphere, Stcmbcrg, Bcrlin 2019.

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nuto Laclau, ogni società, ogni ordine politico, ogni identità sociale, in breve, tutto ciò che è sociale, può essere istituito solo rispetto a un fuori negativo, a qualcosa che mette assieme elementi dispersi in un qualche tipo di agglomerato precario, di totalità precaria, semplicemente negandoli. Così, l'antagonismo istituisce l'ordine, ma evita al contempo che esso si totalizzi. La società è istituita politicamente, ed essere politicamente istituiti significa essere istituiti attraverso il lavoro del negativo, ossia l'antagonismo. Il fatto che il mondo sociale, di regola, appaia piuttosto pacifico e per nulla antagonistico, ha a che fare col fatto che consiste di abitudini sedimentate che possiamo dare per scontate {ad esempio: le istituzioni). Ma queste abitudini sono tutte fondate su un momento di istituzione politica, hanno le loro radici nell'antagonismo (alternative vennero soppresse, relazioni di subordinazione stabilite, ecc.). E questo momento istituente del politico rimane in qualche modo presente, seppur solo in modo latente e dormiente. Ma può sempre essere riattivato non appena emergano nuovi antagonismi e le abitudini sedimentate delle nostre vite e delle nostre istituzioni siano improvvisamente messe in discussione.

Il principio di anarchia

Tenendo a mente questa concezione del politico (il cui nome è antagonismo), dobbiamo ora rivolgerci alla politica. Come risulta da quanto è stato detto finora, non c'è nulla di intrinsecamente sbagliato nelle manifestazioni "ordinarie" della politica; al contrario, senza politica non avrebbe alcun senso parlare del politico, considerata la relazione differenziale e perciò necessaria tra i due lati della differenza politica. In quanto segue, vorrei dunque sostenere la tesi che la svolta ontologica nel pensiero politico, basata sulla reversibilità differenziale tra politica e politico, non consista semplicemente nell'attribuire un primato ad una nozione ontologica del politico. Consiste anche nel riconoscere un equivalente primato alla pratica ontica della politica, per quanto paradossale ciò possa suonare. Il lato ontico della differenza politica l'agire politico nel senso più ordinario dell'espressione - acquisirebbe dunque, a sua volta, una certa dignità ontologica. Per dirlo nel modo più breve possibile: essere è agire. E asserire che essere è agire significa invertire l'ordine di priorità tra l'ontico e

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l'ontologico, la politica e il politico. I difensori della svolta ontologica nel pensiero politico possono insistere sul primato del politico. Ma, come ho detto, il quadro si modifica se la differenza politica viene considerata come differenza, e non appena venga tenuto conto che il gioco tra l'ontico e l'ontologico non può essere fermato e che le due istanze possono tranquillamente cambiare di posto. Che succederebbe, dunque, se decidessimo di rovesciare la nostra prospettiva? Se pensassimo alla politica non come una funzione derivata del politico, ma piuttosto come un a priori pratico di quest'ultimo? Se, per essere più precisi, il politico non esistesse di per sé (se non in un aggregato di abitudini sociali sedimentate), eccetto quando è riportato in vita dalla politica? L'ordine di priorità tra politica e politico sarebbe capovolto. Sarebbe necessario attribuire il primato alla politica più che al politico. Da questo punto di vista - e per occuparsi della differenza politica è necessaria una costante Gestaltwandel -, non è l'istanza ontologica dell'antagonismo che si prende in carico il ruolo di fondamento ultimo di tutto ciò che è sociale - è la pratica ontica della politica nella sua capacità fondativa. Questa tesi, in effetti, non è lontana dal nostro punto di partenza heideggeriano. Heidegger, come ha osservato Reiner Schiirmann, ha trasformato la ricerca metafisica di fondamenti reinterpretando «ogni fondamento come un fondare, come un verbo e non come un nome»9. Più che immaginare il "fondamento" nei termini di una base solida dobbiamo pensarlo come un'attività. Il grande merito di Schiirmann nel suo fondamentale studio Il principio d'anarchia è stato quello di mostrare l'inversione heideggeriana dell'inveterata gerarchia tra Essere e agire. Tale inversione, ovviamente, ha senso solo in un quadro di riferimento post-fondazionale in cui il "fondamento" è diventato criticabile. Quando Schiirmann - che, insieme a Miguel Abensour, Bernard Sticgler, Jacques Rancière e, più di recente, Frédéric Lordon, appartiene ad una corrente an-archica del pensiero post-fondazionale contemporaneo - ha difeso un paradossale "principio d'anarchia", egli non si riferiva ad un programma d'azione anarchico. Si riferiva alla struttura quasi-trascendentale dell'essere. An-archia designa l'estinzione della «regola di cercare sempre un Primo a partire dal qua!I Rcincr Schiirmann, Heidegger on Being and Acting: From Principks to A,wrchy, Indiana Univcrsity Prcss, Bloomington 1986; tr. it. di G. Carchia, Dai pri,icipi all'anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995, p. 183.

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le il mondo divenga intelligibile e governabile, la regola dello scire per causas, dello stabilire "principi" per il pensare e per l'agire» 10 • Il punto importante di Schiirmann era che l'estinzione dei principi primi assumerà, a sua volta, la funzione paradossale di un principio: il principio dell'estinzione dei principi. Il paradosso di un «principio di anarchia», continua Schiirmann, è abbagliante, «perché con due parole indica l'al di qua e l'aldilà della chiusura metafisica, esibendo così la linea di confine di questa stessa chiusura»u. Su questa linea di confine, che segna la fine del fondazionalismo metafisico, riemerge l'eterna questione della politica: «che accade della domanda "che fare?" alla fine della metafisica?» 12 • La risposta di Schiirmann è chiara. Nel momento in cui l'età della metafisica volge al termine, l'azione è liberata da principi ultimi e, dunque, mostra di essere di principio an-archica 1 3. Resta però da ricavare un'implicazione conseguente: se tutti i principi sono, come è stato sostenuto, basati sull'azione, ne segue che l'azione diventa a sua volta il nuovo principio dell'estinzione dei principi. Sulla base dell'assenza di fondamenti ultimi, l'agire diventa l'istanza fondativa dell'essere sociale. E possiamo a questo punto iniziare a capire perché l'essere possa in sé stesso essere di natura "attiva". Una volta perso il suo status di fondazione solida, l'essere è fondato sull'agire, ossia sull'attività primordiale del fondare che, dal canto suo, non può essere fondata. Tradotto in una teoria della differenza politica: il fondamento/abisso hantologico 14 [hauntologica/J dell'essere sociale deve attualizzarsi nella forma pratica di una politica ontica. E a questo punto dobbiamo separarci da Schiirmann e Heidegger, che rifuggono una nozione davvero politica di agire. Ciò che essi difendono è una forma di agire slegata da qualunque tipo di attivismo. In effetti, ciò lvi, p. 30. lbid. "· lvi, p. 454. •3 Cfr. ivi, p. 2.8. '4 N.d.T.: Il riferimento dell'autore è al concetto derridiano di hantologie, sviluppato nel suo testo Spettri di Marx e che il traduttore italiano lascia in lingua originale. Il traduttore inglese opta al contrario per la traduzione - grazie alla similarità tra il francese "hantc" e l'inglese "haunt" e la possibilità di preservare il gioco di parole con "ontologie" -, coniando così "hauntology" e l'aggettivo corrispondente. Si è scelto in questa sede di tradurre l'aggettivo con un calco fonetico dall'inglese/francese all'italiano per preservare il riferimento, già derridiano, alla dimensione ontologica. '

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che essi difendono è nient'altro che una forma più alta di passività, una forma di attività del tutto passiva. Nello scenario bucolico tratteggiato dal tardo Heidegger l'uomo, il guardiano dell'essere, è destinato a rimanere passivamente attivo; vale a dire che l'uomo agisce mantenendo un'attitudine passiva in relazione al dispiegarsi del gioco dell'essere.

Da Heidegger a Hegel: negatività radicale È appena il caso di sottolineare il prezzo altissimo pagato da tale nozione di attività passiva: la depoliticizzazione dell'agire. La natura politica dell'essere viene ripudiata nell'esatto momento in cui è affermata. La ricerca di Schiirmann di «un'altra politica» 1 5 è la ricerca di una politica priva di politica: un modo di agire «diverso dal "realizzare"» 16 o dall'agire strategico. Ogni tipo di azione strategica e efficace sarebbe respinta in quanto metafisica da Heidegger come da Schiirmann. E se, per Schiirmann, le azioni dovrebbero trasformarsi in un «gioco senza fondamento e senza perché» 1 7, questa potrà anche costituire un'immagine appropriata della natura hantologica del politico, ma non coglie la natura ontica della politica. Esiste un qualche tipo di politica non interamente depoliticizzata che possa coincidere con un «gioco senza perché»? Ebbene, una politica che non implichi il ragionamento strategico o non cerchi di raggiungere obiettivi particolari sarebbe difficilmente immaginabile come politica. In ragione dei loro elevati presupposti ontologici Heidegger e Schiirmann sono mal equipaggiati a sviluppare una nozione davvero politica di politica. Nonostante la sua parentesi nazista, c'è nel pensiero di Heidegger un pregiudizio antipolitico che deriverebbe dai suoi presupposti filosofici, più che politici. Nell'insistenza heideggeriana su un'ontologia della differenza-qua-differenza a spese di un'ontologia della negatività, il mondo della politica è rimosso dalla vista. La negatività, tuttavia, è la dimensione più importante del politico nella tradizione della Scuola deW&sex inaugurata da Ernesto •s R. Schiirmann, Dai pri11cipi all'at1archia. Essere e agire;,, Heidegger cit., p. 472.. 16

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lvi, p. 167. Jvi, p. 472..

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Laclau e Chantal Mouffe e, tenendo conto della sua teoria dell'egemonia, è probabilmente la scuola di pensiero più vicina alla politica della «vita reale» 18• L'antagonismo, in questa traiettoria, è il nome del politico. E dunque il politico, come è stato più sopra esposto, assume la sua funzione fondante [grounding] (es-fondante [degrounding]) tracciando una linea di demarcazione rispetto all'intero fuori negativo [negatory outside] di ogni ordine o identità politica dati. È vero, anche Heidegger conosce il terrore davanti al "nulla" e all'annichilimento, ma non assegna al negativo alcuna funzione produttiva nella forma di una concezione "ontica" dell'azione. Egli ha criticato Hegel per aver mantenuto una nozione di negatività non sufficientemente radicale (il che, dato il logicismo di Hegel, è senz'altro vero), ma non ci ha fornito un'alternativa migliore. Al contrario, è approdato ad un passivismo zen privo di ogni negatività. Per sviluppare un'immagine più realistica dell'agire politico è necessario prendere in considerazione la tradizione hegeliana; e io sottoscriverei la tesi secondo la quale la nozione post-fondazionale odierna di antagonismo ha le sue radici storiche nel "lavoro del negativo" hegeliano. Un'ontologia post-fondazionale della differenza, di conseguenza, dev'essere integrata con un'ontologia della negatività radicale, e quest'ultima deve informare la nostra nozione di politica ontica. Una forma di agire che si esaurisca nel gioco derridiano della différance, in un differimento infinito dei suoi obiettivi politici, difficilmente può essere definita politica. La politica inizia con la negazione. Da una prospettiva ontologica, ciò implicherebbe ovviamente l'emergenza "evenemenziale" dell'antagonismo; tuttavia, dal punto di vista delle pratiche onticbe, che sono il fulcro di questo articolo, la negazione dev'essere provocata. La negatività, in altre parole, non è semplicemente "là fuori" come un principio del cosmo o come un contenuto oggettivo del mondo. La negatività dev'essere prodotta dalle nostre azioni. Per questo, nel provare a invertire l'ordine di priorità tra l'ontologico e l' ontico, è necessario insistere sulla negatività come pratica ontica - poiché l'istanza ontologica dell'antagonismo emergerà solo se attivata dalle nostre azioni mondane. C'è antago18 Cfr. Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London 1985, tr. it. di F. Cacciatore e M. Filippini, Egemo11ia e strategia socialista. Verso umi politica democratica radicale, il mclangolo, Genova 2011.

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nismo perché la politica procede per negazione. Al fine di rendere conto interamente di questa relazione reversibile, o circolare, tra politica e politico, Heidegger dev'essere integrato con Hegel e con la tradizione dcll'hcgelismo di sinistra. Infatti, l'intuizione che "l'essere è agire" è inerente all'intera tradizione di negatività radicale che si estende da Hegel a Laclau, via Marx. Nessuno ha avuto un'idea più chiara della natura attivista dcli'essere di Alcxandrc Kojèvc, che ha inaugurato un'intera serie di ontologie della negatività del ventesimo secolo. Nelle sue celebrate lezioni sulla Fenomenologia dello spirito di Hcgel, Kojèvc - sicuramente ispirato da Hcidegger (e da Marx), ma molto prima di Schiirmann - ha insistito sull'idea di csscre-comcagire attraverso la negazione: L'Uomo non è Essere che è: egli è un Nulla che annienta mediante la negazione dell'Essere. Ora, la negazione dell'Essere è l'Azione. Ecco perché Hegel dice: ,cl'essere vero dell'uomo è la sua azione». Non agire significa dunque non essere in quanto essere veramente umano. Significa essere in quanto Sein, in quanto essere dato, naturale; dunque decadere, abbrutirsi. E questa verità metafisica si rivela all'Uomo mediante il fenomeno della noia: l'Uomo che - al pari della cosa, al pari dell'animale, al pari dell'angelo - resta identico a sé stesso, non nega, non si nega, cioè non agisce: si annoia. E solo l'Uomo può annoiarsi' 9.

Questo è uno dei passaggi chiave delle lezioni di Kojèvc e, a mio modo di vedere, della filosofia del ventesimo secolo. Sfortunatamente, per ragioni di spazio non è possibile fornirne, in questa sede, un'interpretazione approfondita. Mi si permetta, tuttavia, di indicarne alcuni degli aspetti principali. Kojève è stato accusato di "antropologizzarc" Hcgel e Hcidcggcr, e tuttavia ciò che è definito "Uomo" in questo passaggio è privo di un'essenza umana positiva. L'essere umano è non-identico a sé stesso. Se un qualche tipo di essere può emergere da questa non-identità, può essere fondato solo sulle azioni umane. E ogni azione, a sua volta, è anch'essa priva di un'essenza positiva, in quanto agire significa semplicemente negare l'essere (incluso l'essere dell'uomo, che, altrimenti, rimarrebbe identico a sé stesso e ridotto ad una cosa o a un animale). Come continua Kojève:

'9 A. Kojèvc, lntroduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1971 (nuova cd.), tr. it. di G. F. Frigo, Introdutione alla lettura di Hege~ Adclphi, Milano 1996, p. 225.

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«infatti, l'uomo non può essere soddisfatto se non dall'azione. Ora, agire è trasformare il reale. E trasformare il reale è negare il dato»z.0 • Il fine dell'azione, se fosse raggiungibile, significherebbe la fine della negazione, che condurrebbe alla fine della politica - e, per Kojève, della storia - e, da lì, direttamente ad un mondo post-politico di noia e di animalità identica a sé stessa. In due passaggi Kojève ci mostra un'antropologia attivista - o piuttosto: un'ontologia dell'Essere attivo. Primo, l'antagonismo - in particolare l'antagonismo hegeliano tra servo e padrone -è trasposto sul terreno mondano dell'azione. E, secondo, l'azione - l'essenza negativa dell'essere umano - è definita da Kojève come la negazione del dato.

Il soggetto politico: un agent provocateur Ora, chi - o cosa - potrebbe essere il soggetto dell'agire politico? Evidentemente, per una concezione post-fondazionale dell'azione e della capacità di agire (agency ], l'azione non è riducibile alla lotta di classe ma rimane "an-archica". Al fine di determinare la funzione del soggetto politico, il compito sarà quello di riconnettere una visione ontica dell'azione con un'ontologia generale dell'antagonismo. Non si tratta di un compito triviale, data la natura reversibile, se non circolare, dell'ontico e dell'ontologico, della politica e del politico. Non possiamo evitare di muoverci avanti e indietro tra questi due registri se vogliamo sfuggire alle due impasses simmetriche del passivismo heideggeriano, da un lato, e di un attivismo fine a sé stesso, dall'altro. Aderire al primo porterebbe alla paralisi politica; seguire il secondo, concentrandosi esclusivamente sul registro ontico dell'azione politica e della capacità di agire politicamente, ci condurrebbe dritto nella trappola del volontarismo politico. Il dilemma è evidente. L'agire, è stato detto, deriva dall'attivazione dell'antagonismo. Tuttavia l'antagonismo, come istanza esteriore di negazione radicale, non può essere attivato dal semplice volere. Invece di aggirare il dilemma, propongo di tenere assieme queste due tesi apparentemente contraddittorie: (a) Per agire politicamente, l'antagonismo dev'essere attivato. La politica, in altri termini, è il la10

Ibid.

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voro onrico di attivazione del politico; (b) da un punto di vista ontologico, tuttavia, l'antagonismo- un blocco costitutivo che è esperito come un evento - non può essere attivato. Può emergere in qualunque punto della fabbrica sociale, e però non può essere "forzato" allo scoperto. Inoltre, non esiste alcuna origine dell'azione in quanto "fondamento del fondamento" a partire da cui l'antagonismo può essere forzato ad emergere. In altre parole, non c'è alcun soggetto del volere in grado di costituire un fondamento delle nostre azioni. Ma come attivare ciò che non può essere attivato? E chi è il "soggetto" in grado di attivare ciò che sfugge all'attivazione? Di fronte a questo rompicapo, l'unica risposta congruente con il paradigma postfondazionale della differenza politica è la seguente: gli agenti politici agiscono come se potessero attivare l'antagonismo. Il soggetto del volere della politica è un'impossibile, e al contempo necessaria, finzione metafisica. Gli attori politici non possono che pensarsi come "soggetti" delle loro azioni, poiché altrimenti non inizierebbero nemmeno ad agire. Per quanto non siamo la fonte delle nostre azioni, dobbiamo attribuirci la capacità di agire a meno di non voler restare spettatori passivi. Inoltre, la capacità di azione politica rtJolitical agency] rileva da un incontro con l'antagonismo e, allo stesso tempo, un agente dovrebbe agire antagonisticamente, vale a dire negare il dato. Di conseguenza, più che essere la fonte delle loro azioni, gli agenti politici emergono da questo processo circolare. In una maniera non del tutto diversa dalla dialettica kojèviana, un'identità sociale data (ad esempio, un gruppo sociale definito dalla sua collocazione differenziale nella topografia sociale) comincia a divenire un agente politico attraverso un'istanza puramente negativa di dislocazione, e, iniziando a sua volta a negare il dato, arriva ad emergere come attore politico - un attore che può ben dire: io sono perché nego - e nego perché il mio essere è negato. La politica è, dunque, una faccenda davvero circolare. In quanto agenti politici siamo attivati dall'antagonismo nel momento esatto in cui incontriamo il conflitto e la contingenza; e tuttavia, il nostro compito come agenti politici è innanzitutto di attivare l'antagonismo. Da ciò segue un imperativo politico: agisci come se potessi attivare ciò che ti attiva. Più che "agire" nel senso dell'attività passiva heideggeriana, è necessario passare ad una forma di passività attiva. Agire equivale a niente di più che scommettere sull'emergenza dell'anta-

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gonismo entro il campo delle pratiche sociali ontiche. Essendo un tentativo, e niente più di questo, può facilmente fallire. E tuttavia, l'antagonismo- in quanto vera forza attivante - deve essere attivato. Non c'è altra possibilità per far emergere l'antagonismo, poiché esso non preesiste in nessun senso alla sua attivazione attraverso la pratica ontica. L'antagonismo come istanza di negatività radicale, lungi dal costituire qualcosa dell'ordine di una forLa naturale da qualche parte là fuori, slegato dalla nostra pratica, è sempre prodotto politicamente. Ciò che da una prospettiva ontologica è il nome di un blocco insormontabile della società - una mera incommensurabilità che non può essere costruita -, è costruito, da una prospettiva ontica, attraverso una pratica particolare: la negazione del dato. Senza dubbio, può sempre emergere il problema che, detto in modo triviale, "il dato" non si preoccupi granché. I poteri dominanti possono essere troppo forti, l'egemonia troppo profondamente radicata perché una politica particolare possa riuscire a riattivare antagonismi sedimentati. Sia come sia, un antagonismo dormiente non si sveglia da solo dal suo torpore. Il suo risveglio dev'essere provocato - senza alcuna garanzia di successo. La politica, in quanto protesta, consiste nel provocare l'antagonismo. In relazione a quest'ultimo, l'agente politico agisce come agent provocateur. Questo agent provocateur è l'"Uomo" di Kojève - quel «Nulla che annienta mediante la negazione dell'Essere».

Affermare l'affermazione - volere la volontà collettiva Come abbiamo visto, agire politicamente, ossia negare il dato, richiede la capacità di agire - una capacità che l'agente non possiede a priori (supporre altrimenti significherebbe aderire alla metafisica del Soggetto). Il passaggio dalla passività all'attivismo trova il suo presupposto in un'esperienza di dislocazione e frustrazione, ma serve qualcosa di più affinché una richiesta venga presentata e perché il dato sia negato. La capacità di agire deve essere asserita dall'agente - anche se nessuna capacità del genere esiste o precede l'azione. Di conseguenza un agente, come abbiamo visto, deve agire come se fosse fornito della capacità di agire. Mi si permetta di approfondire le implicazioni metafisiche di una tale maniera di agire.

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L'azione politica presuppone una quasi-metafisica "volontà di volere" come volontà-di-fondazione. L'agente agisce come se fosse un soggetto del volere a capo del suo volere, e, per fare questo, deve volere il proprio volere, poiché "volere è volere sé stesso":z. 1 • La circolarità è inevitabile se vogliamo compiere il passaggio da una teoria fondazionalista a una post-fondazionalista dell'agire. Quando si dissipano gli ultimi fondamenti, i soggetti politici devono sollevarsi con le loro forze. Ma il punto richiede due specificazioni. Primo, da un punto di vista politico questo "volere" che dev'essere voluto non pertiene all'individuo. Può appartenere solo a un agente collettivo - che è il motivo per il quale Gramsci parla di una «volontà collettiva». Di conseguenza, la capacità-di-volere deriva dalla natura collettiva dell'agente; risulta dalla forza dell'essere-in-comune collettivo, e dall'organizzarsi con l'obiettivo di raggiungere l'egemonia. Se gli individui o i membri aggregati di un progetto egemonico sono anche forniti della capacità di volere, è perché partecipano ad una facoltà collettiva di volizione. Sono resi in grado di agire grazie al potere che irradia da un progetto egemonico. Dovesse svanire questo potere, la loro capacità di agire sarebbe per ciò stesso debilitata. E, secondo, non dobbiamo fare l'errore di immaginare questa volontà-di-volere come una forLa distruttiva. Al fine di negare il dato, ho detto, l'agente deve affermare capacità che non possiede. In un momento di auto-affermazione la propria volontà di agire deve essere affermata, poiché altrimenti rimarremmo in uno stato di pigro "nichilismo passivo". Diventare attivi, in altre parole, presuppone l'affermazione della nostra capacità di agire, ossia la nostra volontà-di-volere. Agire - e, dunque, negare - significa affermare l'affermazione. Quest'ultima tesi, per quanto possa apparire controintuitiva, trova supporto in quello che probabilmente fu uno dei più grandi risultati di Gilles Deleuze, ossia la sua interpretazione della filosofia di Nietzsche:z.2.. Dcleuze sottolinea come in Nietzsche "il divenire-attivo è affermatore e affermativo":z. 3• Questo sembra contraddire palesemente la nostra definizione dell'agire come negazione del dato. E lo ,., M. Hcidcggcr, Nietzsche, Giinthcr Ncskc Vcrlag, Pfullingcn 1961, tr. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adclphi, Milano 1994, p. 49. 2.2. Cfr. Gillcs Dclcmc, Nietzsche et la philosophie, Prcsscs Univcrsitaircs dc France, Paris 1972.; tr. it. di S. Tassinari, Nietzsche e la filosofia, Colportagc, Firenze 1978. 2. 3 lvi, p. 106.

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stesso Deleuze rifiuta ogni compromesso tra Nietzsche e Hegel2·4. Tuttavia, la pura affermazione, percome si presenta in Nietzsche, implica la negazione. Solo nella semplice affermazione - nell'I-A dell'asino, l'animale da soma che porta il peso del dato - il dato è accettato così com'è: La tesi di Nietzsche si può così riassumere: il sì che non sa dire di no (il sì dell'asino) è una caricatura dell'affermazione. Proprio perché dice sì a tutto ciò che è no, proprio perché subisce il nichilismo, esso resta a servizio della potenza di negare come del demone di cui porta tutti i fardelli. Il sì dionisiaco, viceversa, sa dire di no: è l'affermazione pura, ha sconfitto il nichilismo e destituito la negazione di ogni potere autonomo, ma questo per aver messo il negativo a servizio delle potenze affermative. Affermare è creare e non portare, sopportare, assumere1 5.

Affermare il dato con il semplice "sì" dell'asino è affermare la condizione nichilistica del mondo. È rassegnarsi a quelle relazioni di esclusione, oppressione e subordinazione che in gran parte definiscono il dato. L'asino è una creatura da soma priva di capacità di azione politica. Un singolo "sì" non è dunque sufficiente: "occorrono due affermazioni per fare della negazione nel suo insieme un modo di affermare" 26• Agire significa affermare l'affermazione. La capacità di azione politica, dunque, non deve essere confusa né col passivismo (quello che Nietzsche chiamava "nichilismo passivo") né con la distruzione fine a sé stessa (come nel caso dell'avventurismo o di un cieco insurrezionalismo). La vera attività politica inizia quando, nelle parole di Deleuze, «[la distruzione] si converte e passa dalla parte dell'affermazione», quando comincia a riferisi «ad una potenza affermativa» 27 , quando diventa una volontà-di-volere. L'affermazione è necessaria poiché, come è stato sostenuto, un agente deve affermare sé stesso come il Soggetto delle sue azioni egli deve, cioè, affermare metafisicamente la sua capacità di negare come una capacità di volere (anche se solo nella modalità del come se). Inoltre, l'affermazione è necessaria perché "negare il dato" ha senso solo se messo al servizio della creazione di un progetto positivo 2.4 Cfr. ivi, p. 2.65. 2.s Ivi, p. 2.54. 16 Ivi, p. 2.48. 17 Ivi, p. 2.41, corsivi dell'autore.

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- un progetto che ha il potenziale di aggregare un consenso diffuso e di «divenire maggiore». In quest'ultimo senso, «affermare è creare» significherebbe che dobbiamo dare vita, come ha scritto Gramsci riferendosi a Machiavelli, a un «Moderno Principe». Affermando la nostra propria volontà-di-agire affermiamo anche questo progetto di formazione della volontà collettiva. Ci sono ottime ragioni per volgersi verso una teoria della doppia affermazione. In anni recenti, specialmente nella corrente an-archica del pensiero politico post-fondazionalc, teorie avventuriste cd insurrczionalistc - esemplificate in modo paradigmatico dal manifesto intitolato L 'in.su"ezione che viene2 8 - hanno guadagnato attrattiva. Il paradigma insurrezionale si basa sull'idea piuttosto monodimensionale di attaccare "lo Stato" o "l'ordine poliziesco" - come se lo Stato esistesse come un blocco omogeneo che possa essere attaccato frontalmente da gruppuscoli dissidenti. La nozione più sofisticata di "democrazia selvaggia" posta "contro lo Stato" mostra tracce dello stesso fraintendimcnto'-9; e anche il famoso "disaccordo" della "parte dei senza parte" di Rancièrc appare modellato su una logica binaria dell'insurrezione: "i senza-parte - i poveri dell'antichità, il terzo stato o il proletariato moderno - non possono infatti ottenere altro se non il niente o il tutto" 30. Assoggettare la politica ad una logica del "tutto o niente" significa relegare l'azione politica -che, in realtà, si dispiega in un terreno complesso attraversato da una molteplicità di antagonismi - al regno dell'immaginario. Questi autori ci propongono una scelta brutale: passività o insurrezione. Non rimane, in questo quadro, alcuno spazio per un programma politico positivo che possa fornirci di un punto d'avvio per la costruzione di una nuova egemonia. Tuttavia, la creazione di una nuova volontà collettiva è precisamente ciò che risulta oggi necessario, in una congiuntura storica in cui l'egemonia neolibcralc crolla e il vuoto politico cresce. Non viviamo una situazione rivoluzionaria che autorizzerebbe una 28 Cfr. Comité lnvisiblc, L 'i1,su"ection qui vient, La fabriquc, Paris 1.007; tr. it. di M. Tari, L 'i11su"etione che viene, in Id., L'insurrezione che viene - Ai nostri amici - Adesso, Nero, Roma 1.019. 29 Cfr. Migucl Abcnsour, La démocratie co11tre l'État. Marx et le moment machiavélien, Félin, Paris 1997; tr. it. di M. Pc7.7.clla, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 1.007. 30 Jacqucs Rancièrc, La mése11tente, Galiléc, Paris 199 5; tr. it. di B. Magni, Il disaccordo, Mcltcmi, Roma 1.007, p. 30.

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politica del «tutto o niente»; ciò che esperiamo è, piuttosto, la crescente dislocazione della formazione egemonica nella maggioranza dei paesi occidentali. In una situazione storica del genere, il compito politico consiste nel dare vita a un "Nuovo Principe", ossia nell'affermare l'affermazione. Un tale progetto non è promosso da fantasie insurrezionali, né dalla vuota fraseologia di una metafisica "idea di comunismo"3 1 o dall'invocazione di un partito d'avanguardia pseudo-leninistaF·. Approcci del genere risultano esauriti - per ragioni pratiche, perché una nuova egemonia può risultare solo da ciò che i militanti di Nuit Debout in Francia chiamavano "la convergenza delle lotte": la convergenza di lotte concretamente esistenti; e anche per ragioni teoriche, poiché in politica il dato non può essere negato in toto. Al fine di attaccare la totalità di ciò che è dato è necessario trovare un punto archimedeo oltre questa totalità. Senza un punto che ci possa fornire una fondazione ultima per le nostre azioni è impossibile negare totalità astratte come "il sistema", "lo Stato", il "capitalismo", il "patriarcato" e così via. L'idea stessa di un sistema monolitico di oppressione è fantasmatica, così come lo è il tentativo di attaccare tale sistema frontalmente. Negazione, dunque, può solo significare negazione di qualcosa di dato concretamente, più che di totalità onnipotenti meramente immaginarie. E lo stesso dev'essere detto riguardo all'affermazione. Essa ha senso solo come affermazione determinata: la creazione di un progetto e di una volontà collettiva concretamente esistenti-un nuovo progetto egemonico. (Traduzione di Andrea Di Gesu)

3 1 Cfr. Alain Badiou, L'bypbotèse communiste, ~ditions Ligncs, Paris 2009; tr. it. di L. Boni, A. Cavazzini, A. Moscati, L'ipotesi comunista, Cronopio, Napoli 2011. 31 Cfr. Jodi Dcan, Tbe communist borizon, Verso, London-Ncw York 2012.

Oltre lo Stato. Pensare la trasformazione e il conflitto oggi Sandro Mezzadra

1.

Nel tempo della pandemia

Scrivo mentre la pandemia appare fuori controllo in Italia, in Europa, nel mondo. Mi è difficile non cominciare con qualche osservazione a proposito della congiuntura eccezionale in cui stiamo vivendo ormai da mesi. I sistemi politici e le società sono messi evidentemente a dura prova da quel che sta accadendo, con effetti decisamente ambivalenti, che non mi sembra siano colti adeguatamente da una focalizzazione unilaterale su concetti quali emergenza e stato d'eccezione. Un approccio "neo-malthusiano", che scarica sui poveri (e su minoranze variamente razzializzate) il peso della pandemia, è certo prevalente nelle scelte di alcuni governi- ed è trasversalmente diffuso tra le élite un po' in tutto il mondo. Altrove, prevale un atteggiamento che si potrebbe riassumere con la formula foucaultiana "bisogna difendere la società", con una combinazione variabile di autoritarismo, paternalismo, uso delle tecnologie digitali e apertura in direzione di un diritto universale alla salute. Ovunque, il governo dei confini si riorganizza attorno alla centralità di misure igienico-sanitarie, nuove combinazioni di immobilità e mobilità più o meno forzata prendono forma nel contesto dell'emergenza mentre vecchi e nuovi confini interni assumono una valenza fondamentale (ad esempio tra le regioni, attorno alle zone rosse, ma anche attorno ai cosiddetti "lavori essenziali" e alle case, con tutto quel che significa per i rapporti tra i generi). Sotto il profilo sociale, un'ulteriore spinta all'individualismo e alla diffusione della paura convive con esperienze di segno opposto, con la moltiplicazione di reti mutualiste e di pratiche di solidarietà. Sono solo pochi cenni, che andrebbero approfonditi nel senso di un'analisi politica della congiuntura pandemica, necessariamente da

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SANDRO MEZZADRA

svolgere a livello globale. E sarebbe decisamente interessante interrogarsi sulle trasformazioni di Stato e sovranità nella presente congiuntura. Non può essere questo, tuttavia, l'obiettivo perseguito nelle pagine che seguono. Coerentemente con il tema a cui è dedicato questo numero dcli' «Almanacco», vale piuttosto la pena di domandarsi quali siano i conflitti più significativi che caratterizzano la congiuntura pandemica. In un intervento recente, Susan Watkins ne ha censiti un gran numero, a partire dalle formidabili mobilitazioni che si sono sviluppate negli Stati Uniti dopo l'assassinio di George Floyd attorno alla parola d'ordine Black Lives Matter. Il nesso con la pandemia è evidente laddove si consideri l'impatto sproporzionato del Covid-19 sulle comunità afroamericane (e sui Latinos, che non a caso hanno partecipato alle mobilitazioni in numeri molto superiori rispetto al passato, prefigurando la formazione di uno spazio di convergenza tra diverse lotte e soggetti che rappresenta la vera novità del movimento dell'estate del 2020). Ma mobilitazioni e proteste negli ultimi mesi si sono verificate con grande intensità anche altrove, in America Latina, nel "grande Medio Oriente" e in India, per esempio. Potremmo senz'altro aggiungere l'Italia, dove proprio i "lavoratori essenziali" sono stati protagonisti di lotte importanti, nelle fabbriche, nei magazzini della logistica, nel food delivery, in agricoltura, anche durante il lockdown. Ciascuno di questi momenti di insubordinazione ha naturalmente una storia, affonda le proprie radici in esperienze e processi di organizzazione precedenti (collegandosi in molte parti del mondo a una continuità di rivolte che proprio nel 2019 aveva conosciuto una particolare intensità). La pandemia ha attribuito a queste lotte nuovi significati e ne ha messo in evidenza il profilo. Mi pare quindi condivisibile la conclusione di Watkins, la quale ritiene che la questione fondamentale che ci consegna la congiuntura pandemica non sia tanto il futuro del "populismo", o più in generale l'impatto sui sistemi politici, quanto piuttosto la necessità di capire "quali nuove forme politiche prenderanno nei prossimi anni queste proteste di massa, spesso appena abbozzate" 1 •

' Susan Watkins, Politics and Pandemics, «New Lch Rcvicw", 12.5, 2.02.0, p. 17.

OLTRI! LO STATO. Pl!NSARI! LA TRASFORMAZIONI! I! IL CONFLITTO OGGI

2.

Il capitalismo, oggi

Estrapolare questo tema dalla congiuntura che stiamo vivendo non ha per me il senso di ridurre la complessità dell'analisi politica della pandemia: ne evidenzia piuttosto un aspetto che rinvia alla necessità di affinare nuovi strumenti teorici per comprendere e sviluppare il potenziale dei movimenti e delle lotte sociali degli ultimi anni a livello globale. Si tratta ovviamente di movimenti e lotte profondamente eterogenei (animati da soggetti altrettanto eterogenei), che comprendono, per fare solo qualche esempio, occupazioni di piazze e "maree" femministe, mobilitazioni contro il razzismo e processi di auto-organizzazione sui luoghi di lavoro, pratiche di resistenza negli slum e lotte contro il debito e l'austerity, opposizione a grandi opere e all'estrattivismo e mobilitazioni di migranti. In The Politics of Operations, io e Brett Neilson abbiamo cercato di tracciare una prima, provvisoria mappa di queste lotte e di questi movimenti 2 • Lo abbiamo fatto sullo sfondo di un'analisi specifica del capitalismo contemporaneo, convinti che una teoria politica radicale non possa che essere incardinata in una rinnovata critica dell'economia politica. Centrale, per noi, è del resto l'idea che il capitale sia per definizione una potenza le cui operazioni dispiegano effetti essenzialmente politici, capaci cioè di investire il piano stesso della produzione di soggettività, per quel che concerne tanto la dimensione individuale quanto quella collettiva. Lungi dal rappresentare uno stabile presupposto, la distinzione tra il piano economico e il piano politico (che ha pure giocato un ruolo fondamentale nella storia del capitalismo moderno) è sempre profondamente instabile e va continuamente riaffermata nel tempo dominato dal capitale. Questa instabilità è oggi massima, al punto che risulta radicalmente messa in discussione la possibilità di assumere l'autonomia (e la sovranità) dell'ambito politico come riferimento fondamentale per interventi di regolazione e di riforma che eccedano gli interessi di quello che con Marx possiamo chiamare il «capitale complessivo». Un'analisi che si soffermi sugli ambiti più significativi e innovativi in cui si dispiegano le operazioni del capitale contemporaneo, come ad

1 Cfr. Sandro Mc7.7.adra, Brctt Ncilson, The Politics of Operations. F.xcavating Contemporary Capitalism, Dukc Univcrsity Prcss, Durham 2.019, cap. 5.

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esempio l'estrazione, la logistica, la finanza, non può che cogliere gli effetti di governo (dei territori e delle popolazioni) connaturati a tali operazioni. In un libro recente, Martin Arboleda ne dà un'efficace esemplificazione analizzando la geografia e l'economia politica del settore minerario in America Latina, e in particolare in Cile. Non che lo Stato sia qui assente. Gioca piuttosto un ruolo fondamentale nel facilitare l'espansione delle attività estrattive (con gli effetti di spossessamento che tale espansione ha per le comunità indigene e contadine). Ma Arboleda aggiunge che «le dinamiche immanenti alla base degli spazi di estrazione nel capitalismo maturo sono globali nel loro contenuto e nazionali solo nella forma»3. Le gigantesche aree estrattive, così come le infrastrutture che le collegano tra loro e al mercato mondiale sono nei fatti direttamente governate dalle grandi corporation e si collocano all'interno di uno spazio mondiale per molti versi diverso da quello definito dagli Stati e dalle relazioni internazionali. All'interno di questo spazio prevale semmai una razionalità logistica, che produce a sua volta i propri effetti di governo dei territori e delle popolazioni4. La tesi generale che io e Brett Neilson abbiamo elaborato è che oggi, al di là del grande rilievo delle attività letteralmente estrattive in molte parti del mondo (che sono ormai in molti casi attività ad altissimo contenuto tecnologico), il funzionamento del capitalismo dipenda sempre più dalla centralità di operazioni estrattive in senso lato. Non intendiamo con questo ridurre il capitalismo nel suo complesso all'estrazione. Piuttosto, sottolineiamo la rilevanza dell'articolazione tra operazioni del capitale tra loro eterogenee (commerciali e industriali, ad esempio), e sosteniamo che l'unità del "capitale complessivo" risulta dalla sincronizzazione e dal comando esercitati da operazioni come quelle logistiche e finanziarie di cui evidenziamo la natura appunto in senso lato estrattiva. Solo qualche cenno a questo proposito: la finanza trova la sua fonte eminente di valore nella futura cooperazione produttiva dei soggetti indebitati, da cui estrae valore senza organizzarla direttamente; la logistica, attraverso l'estensione e il coordinamento a livello globale delle catene di fornitura (delle 3 Martin Arboleda, Planetary Mi,re. Tcrritories of Extraction Under Late Capitalism, Verso, London-New York 2.02.0, p. 26. 4 Si veda ad esempio Deborah Cowen, The Deadly Life of Logistics: Mapping Vio/e,u:e in the Globo/ Trade, University of Minnesota Prcss, Minneapolis 2014.

OLTRE LO STATO. PENSARE LA TRASFORMAZIONE E IL CONFLITTO OGGI

supply chains) che rende possibile, stabilisce le condizioni generali affinché colossi della distribuzione come Amazon e Walmart possano imporre i propri parametri e i propri tempi a eterogenei ambienti produttivi, da cui ancora una volta estraggono valore senza un intervento diretto nella produzione5. Il rilievo strategico dell'estrazione è poi segnalato dalla diffusione del "data mining", che oggi gioca un ruolo essenziale in un gran numero di ambiti e processi economici (si pensi, per fare solo due esempi, alla cosiddetta Rivoluzione industriale 4.0 e al "biocapitale", ovvero al capitale investito nello sviluppo di farmaci "post-genomici") e che in particolare sostiene lo sviluppo del "capitalismo delle piattaforme". Per queste ultime, che rappresentano per molti versi un'incarnazione della razionalità logistica, «i dati, esattamente come il petrolio, sono una materia prima da estrarre, raffinare e usare in una molteplicità di modi» 6 • Questi dati sono evidentemente prodotti dagli utenti delle piattaforme (da una forma specifica di cooperazione sociale), e costituiscono una base essenziale per i processi di valorizzazione del capitale in esse investito, accanto al lavoro che le piattaforme stesse in vari modi impiegano e sfruttano. Come mostrano ormai moltissime ricerche sul lavoro digitale e di piattaforma, questo lavoro è caratterizzato da intermittenza e precarietà, ed è difficilmente riconducibile a quella figura standard del lavoro dipendente attorno a cui si sono storicamente sviluppati tanto il diritto collettivo del lavoro quanto le politiche di welfare7 • Indipendentemente dal fatto che il modello del lavoro digitale e di piattaforma esercita un'indubbia influenza anche al di fuori degli ambiti in cui ha avuto origine, quello che possiamo definire il rapporto di lavoro standard è letteralmente esploso negli ultimi anni in molte parti del mondo, dando luogo a processi di "moltiplicazione del lavoro", ovvero di intensificazione e al tempo stesso di profonda diversificazione delle posizioni, delle esperienze e delle figure del

s Cfr. S. Mc1.7.adra, B. Ncilson, The Politics of Operations cit., in specie cap. 4. Ma si veda anche Veronica Gago, Sandro Mc1.7.adra, A Critique of the Extractive Operations of Capitai: Toward an Expanded Concept of Extractivism, «Rcthinking Marxism», 2.9/4, 2.0 17, pp. 574-59 1 . 6 Nick Srnicck, Platform Capitalism, Polity, Cambridgc-Maldcn 2.017, p. 40. 7 Cfr. Ursula Huws, Reinvtmting the Welfare State. Digitai Platforms a,uJ Public Policies, Pluto Prcss, London 2.02.0, in specie cap. 3; e Antonio Casilli, Schiavi del clic, Fcltrinclli, Milano 2.02.0.

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lavoro 8• Nel contesto di un capitalismo che assume caratteristiche sempre più marcatamente estrattive, in cui vengono in primo piano come base dei processi di valorizzazione risorse e potenze "comuni" (dalle materie prime alla cooperazione sociale), sembra tramontare quella "dialettica del riconoscimento" che fin dall'analisi marxiana il momento del contratto inscriveva nel rapporto di lavoro. È un problema politico fondamentale, mi pare, soprattutto considerando la storia del riformismo socialdemocratico novecentesco, che proprio alla valorizzazione di quella dialettica, attraverso la mediazione dello Stato, ha in vari modi puntato.

3. Lo Stato in discussione In una prospettiva di teoria marxista, si può dire che i due assi fondamentali (anche se certo non esclusivi) dell'azione dello Stato nel suo rapporto con il capitale consistano da una parte nella rappresentazione del capitale complessivo come capitale nazionale, dall'altra nel suo intervento sul terreno della riproduzione e della socializzazione della forza lavoro. Non intendo sostenere che su entrambi questi assi gli Stati contemporanei (che andrebbero naturalmente analizzati in modo specifico e differenziato) abbiano cessato di operare. Ma certo incontrano enormi ostacoli. Il capitale contemporaneo eccede continuamente, anche quando le sue operazioni appaiono fortemente territorializzate (come nei due esempi precedenti delle attività minerarie e delle piattaforme), lo spazio e il "codice" nazionale, dispiegando una sua specifica politica e trovando anche autonome forme di regolazione giuridica9. In questa condizione, lo Stato risulta continuamente spiazzato, e la violenza che caratterizza il rapporto di capitale si esprime spesso senza alcuna mediazione. La riproduzione e la socializzazione della forza lavoro sono al contempo sempre più

8 Mi sia consentito il rinvio a Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Border as Metbod, or, Tbe Multiplicatio11 of Labor, Duke University Prcss, Durham 2.013, pp. 87-93 e all'ampia bibliografia ivi citata e discussa. 9 Molto importante è in questo senso il lavoro di Gunther Teubner: si veda, per una sintesi, il suo Istituzioni in frammenti. Il costituzionalismo sociale al di là dello Stato-nazione, in Sandro Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovra,iità, proprietà e nuovi poteri costitue11ti, ombre corte, Verona 2.012, pp. 15-33.

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determinate dall'azione di poteri privati (si pensi, per fare solo due esempi, ai mutui per l'acquisto della casa e ai fondi pensione), mentre la crisi ormai evidente del rapporto di lavoro standard priva lo Stato di un punto di riferimento normativo attorno a cui organizzare i propri interventi. A questo va aggiunto che, come mostra ormai da molto tempo la letteratura sulla governance e sulla "governamentalizzazione" dello Stato, la stessa unità istituzionale dello Stato è messa oggi in discussione, mentre ancora una volta i poteri privati e la razionalità d'impresa penetrano all'interno delle sue strutture e condizionano le sue politiche10 • In queste condizioni appare davvero improbabile che lo Stato sia in grado di fronteggiare efficacemente il capitale, per temperarne l'azione in base a criteri di giustizia sociale o per spezzare il suo dominio sull'insieme dei rapporti sociali. Tanto la riforma quanto la rivoluzione, in altre parole, non sembrano poter assumere oggi lo Stato come vettore privilegiato di trasformazione. Realisticamente, si tratta di battere altre strade per la ricerca di strumenti adeguati a promuovere un processo di trasformazione radicale, nel segno del nesso inscindibile tra libertà e uguaglianza - un processo che peraltro appare oggi difficile inscrivere nell'alternativa tra riforma e rivoluzione. Sono, questi ultimi, termini da ripensare profondamente, immaginandone nuove possibili articolazioni, oltre l'esaurimento delle esperienze e delle pratiche che fanno ad essi storicamente riferimento 11 • Le moderne logiche della sovranità e dell'unità politica hanno a lungo condizionato il modo in cui, in particolare nel Novecento, la trasformazione comunista e socialista della società è stata pensata e praticata - appunto, pur con significative differenze, tanto nel segno della rivoluzione quanto nel segno della riforma. Non soltanto i regimi che hanno fatto riferimento al modello sovietico, ma anche il • 0 Si vedano in generale Saskia Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princcton University Prcss, Princcton 2.006 e Pierre Dardot, Christian Lavai, La nouvelle raison du mo11de. F.ssai sur la société néolibéral, La Découverte, Paris :1.009; tr. it. di R. Antoniucci e M. Lapcnna, La 11uova ragio11e del mo11do. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2.01 3, cap. 12.. 11 Si vedano ad esempio, in questo senso, Michacl Hardt, Antonio Negri, Assembly, Oxford University Press, Oxford-New York 2.017; tr. it. di T. Rispoli, Assemblea, Ponte alle Grazie, Firenze 2.018, capp. 14 e 15 e ~tienne Balibar, Histoire intermi11able. D'une siècle l'autre, 'P.crits I, La Découvertc, Paris 2.02.0, cap.11.

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riformismo socialdemocratico in Europa occidentale e molti regimi "socialisti" nati dalle lotte anticoloniali hanno attribuito allo Stato una posizione di centro indiscusso nella guida e nell'organizzazione dei processi politici, sociali ed economici. È certo vero che la storia del marxismo e delle lotte contro il dominio del capitale comprende un gran numero di esperienze radicalmente diverse da questo punto di vista, alcune delle quali hanno ad esempio puntato sull'autonomia operaia, sui consigli, sull'autogestione e sull'autogoverno. Queste esperienze compongono un ricco archivio, che oggi vale indubbiamente la pena di rivisitare, sotto l'incalzare delle esigenze del nostro presente. Resta vero, tuttavia, che il mainstream delle politiche che hanno fatto riferimento al marxismo (o a un socialismo democratico non più marxista, come nel caso della socialdemocrazia tedesca dopo la svolta di Bad Godesberg} è stato caratterizzato dalla assoluta centralità assegnata allo Stato. Ed è una constatazione in qualche modo paradossale, laddove si sottolinei come la peculiarità della riflessione politica di Marx consista proprio nello spiazzamento dello Stato dal centro della politica, e semmai nell'individuazione di un essenziale "criterio del politico" nella lotta di classe12 •

4. Un potere diviso Ho menzionato le logiche moderne della sovranità e dell'unità politica ben consapevole della forza con cui, in Europa, il processo di formazione dello Stato territoriale ha progressivamente determinato l'emergere di un "monopolio", per impiegare il lessico weberiano, dello Stato stesso sull'insieme della politica (che o è esercitata a partire dallo Stato oppure punta a occuparlo}. Questo vale per l'esperienza storica europea, mentre la stessa proiezione globale dell'Europa attraverso la conquista, il colonialismo e l'imperialismo segue percorsi e mobilita concetti significativamente diversi1 3 • È un u. Cfr. in questo senso l1tienne Balibar, "Klassenkampr als Begriff des Politische11, in Rahd Jaeggi, Danid Loick (hrsg.), Nach Marx. Phi/osophie, Kritik, Praxis, Suhrkamp, Bcrlin 2.013, pp. 445-462.. Ma si veda anche Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifcstolibri, Roma 2.014. '3 Si veda ad esempio Lauren Bcnton, A Search for Sovereignty. Law and Geography in European Empires, 1400-1900, Cambridge University Prcss, Cambridge-New York 2.010.

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punto da tenere ben presente, sia in una prospettiva storica (laddove si voglia in particolare lavorare a una storia globale dello Stato e della sovranità) sia in riferimento al nostro tempo {laddove si punti a comprendere le diverse manifestazioni della statualità e della sua contestazione). Ma certo, l'esperienza storica europea è molto rilevante, non solo in sé ma anche per l'enorme influenza che ha avuto sull'immaginazione e sulle pratiche politiche in molte parti del mondo. E qui, indubbiamente, il processo di monopolizzazione collegato ai concetti di sovranità e Stato ha condotto a una coincidenza di "statuale" e "politico" che all'inizio del Novecento ha trovato una sintesi elegante e in qualche modo definitiva nella prosa del grande giurista tedesco Georg Jellinek. « Politisch" heisst "staatlich ", si legge nella «Allgemeine Staatslehre», im Begriff des politischen hat man bereits den Begriff des Staates gedacht: «politico significa statuale, nel concetto di politico è già pensato il concetto di Stato» 1 4. So bene quanti siano stati i tentativi, nei seguenti decenni, di pensare il politico oltre lo Stato. I nomi di Cari Schmitt e di Hannah Arendt indicano due di questi tentativi, particolarmente rilevanti ancorché di segno molto diverso se non opposto. Penso tuttavia, come ho sostenuto in precedenza, che l'identificazione di politico e statuale abbia continuato a esercitare una grande influenza nel corso del Novecento sulla stessa politica comunista e socialista, e continui spesso ancora oggi, in modi naturalmente mutati rispetto a quelli che si sono appena incontrati in Jellinek, a determinare una sorta di blocco dell'immaginazione politica tanto nel pensiero della trasformazione quanto in molteplici sperimentazioni pratiche 1 s. Mi pare tuttavia una questione di realismo politico riconoscere la necessità di spezzare definitivamente l'unità di politico e statuale. Un'analisi realistica delle trasformazioni dello Stato e del suo rapporto con il capitale, quale quella che ho schematicamente tracciato in precedenza, impone di sganciare una politica orientata alla trasformazione dell'esistente dal riferimento alla centralità dello Stato come agente privilegiato dello stesso processo di trasformazione. E suggerisce di ' 4 Gcorg Jellinek, Allgemeine Staatslehre (1900), Duncker

& Humblot, Bcrlin

192.2., p.

180. 1 S lo e Brett Neilson diamo ad esempio un'illustrazione di questo punto attraverso un'analisi dei cosiddetti governi "progressisti" latinoamericani nel primo decennio del secolo: dr. S. Mezzadra, B. Ncilson, The Politics of Operations cit., in specie pp. 2.33-2.37.

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guardare ai movimenti e alle lotte sociali, spesso recalcitranti a piegarsi alle logiche della sovranità e dell'unità politica, come a potenze politiche di prima grandezza, espressioni di trasformazioni profonde che hanno investito e rimodellato la composizione del lavoro e la stessa trama dei rapporti sociali. Parlare di una politica che non sia centrata attorno allo Stato non è espressione di quella "fobia di Stato" che, come ricordava Michel Foucault, è spesso soltanto il rovescio della "statofilia" 16 • Al contrario, sono ben lungi dall'escludere la possibilità che una coalizione di forze possa occupare singole strutture dello Stato, municipi, governi regionali o nazionali, aprendo varchi per una politica della trasformazione. Il punto fondamentale per me consiste piuttosto nell'esigenza di pensare il potere a partire dalla sua divisione - ovvero di immaginare il consolidamento di un potere (di una rete di poteri e contropoteri) altro rispetto a quello fissato nelle istituzioni statali. Quello a cui penso è un potere radicato all'interno dei movimenti e delle lotte sociali, un potere capace di affermare e di difendere la propria autonomia anche in presenza di governi impegnati in un progetto di trasformazione, rispetto a cui può svolgere un ruolo di incitamento o di contestazione, anche dura, su singoli provvedimenti. Ed è evidente come una prospettiva di questo genere richieda un'analisi politica dei movimenti e delle lotte sociali molto diversa da quella canonica all'interno della sociologia dei movimenti sociali, per cui il ruolo fondamentale di questi ultimi consiste nell'elaborare una serie di "domande" che partiti e istituzioni statuali devono poi selettivamente accogliere. Pur in modo molto sofisticato, questo modello analitico è ben presente anche nella teoria politica, in particolare nel lavoro di Ernesto Laclau 1 7. Al contrario, per me è essenziale la questione della capacità dei movimenti e delle lotte sociali di esercitare direttamente potere, e parallelamente di stabilizzare nel tempo la loro azione. Lavorando con diversi amici, ho rivisitato negli ultimi anni da questo punto di vista il paradigma del "dualismo del potere" e il con" 1 Michcl Foucault, Naissa,ice de la biopolitique. Cours au Collège de Fra,ice (19781979), Scuil-Gallimard, Paris :1.004; tr. it. di M. Bcrtani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corsa al Collège de France (1978-1979), Fcltrinclli, Milano :1.005, p. 75. 17 Cfr. ad esempio Ernesto Laclau, On Papulist Reasan, Verso, London-Ncw York :1.005; tr. it. di D. Ferrante, La ragio11e populista, Latcr7.a, Roma-Bari :1.008, in specie cap. 4·

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cetto di "contropotere" 18 • Il "dualismo del potere" fa evidentemente riferimento a Lenin e al modo in cui la divisione del potere nella situazione rivoluzionaria russa - con l'emergere accanto al governo provvisorio di «un altro governo, ancora debole, embrionale, ma tuttavia reale e in via di sviluppo: i Soviet dei deputati degli operai e dei soldati»'9 - preparava a suo giudizio le condizioni per l'insurrezione e per la presa del potere. Decisiva, per ripensare il paradigma del "dualismo del potere", mi pare in ogni caso la sua temporalità, che in Russia si distese nell'arco di pochi mesi mentre in altre esperienze rivoluzionarie del Novecento, quella messicana di inizio secolo e quella cinese ad esempio, il dualismo restò a lungo in vigore, dando luogo a esperienze che possono oggi essere utilmente studiate. Non va dimenticato del resto che in un peculiare laboratorio del riformismo radicale, quello dell'"austromarxismo" e in particolare della "Vienna rossa" all'indomani della Prima Guerra Mondiale, si assistette al tentativo di rendere permanente il "dualismo del potere" valorizzando in questo senso il ruolo e l'autonomia dei consigli 20. Attorno al tema del "dualismo del potere" esiste oggi, in ogni caso, un dibattito molto vivace2 1 • A mio giudizio, una rivisitazione di questo paradigma deve in primo luogo muovere da una riflessione sulle condizioni della stabilizzazione del dualismo, del suo riconoscimento come principio costituzionale, si potrebbe dire; in secondo luogo, occorre enfatizzare lo scarto, l'autonomia e in qualche modo l'asimmetria del "secondo potere" rispetto al primo. Il concetto di contropotere - con le diverse genealogie che di esso si possono 18 Cfr. Sandro Mc7.7.adra, Michacl Hardt, October! To Commemorate the Future, «South Atlantic Quartcrly», 4, 2017, pp. 649-668, Sandro Mc7.7.adra, Brctt Ncilson, Potere, in C17 {a cura di), Comunismo necessario. Manifesto a più voci per il XXI secolo, Mimcsis, Milano 2020, pp. 107·122 e Sandro Chignola, Sandro Mezzadra, Per una teoria del co11tropotere. La storia e il problema, «Quaderni di Euronomadc», 1, 2020, pp. 17-24 (il quaderno è liberamente scaricabile all'indiri1.zo http://www.curonomadc.info/). 1 9 Vladimir llic Lenin, Sul dualismo del potere (aprile 1917), in Id., Opere scelte in sei volumi, voi. IV, Editori Riuniti-Edizioni Progrcss, Roma 1975, p. 56. :z.o Si veda in particolare Max Adlcr, Demokratie und Riitesystem, Vcrlag dcr Volksbuchandlung lgnaz Brand & co, Wicn 1919. Come introduzione all'"austromarxismo" rimane utile il libro di Giacomo Marramao, Austromarxismo e socialismo di sitlistra tra le due gue"e, I.a Pietra, Milano 1977. 11 Si veda ad esempio AA.VV., A11 America11 Utopia. Dual Power a11d tbe U11iversal Anny, Verso, London-Ncw York 2016 (in particolare i saggi dello stesso Jamcson e di Alberto Toscano).

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costruire, che vanno dal costituzionalismo classico a Machiavelli e all'altra modernità, dalle diverse esperienze di resistenza al colonialismo e alla schiavitù, ai movimenti radicali del black power e dell'autonomia italiana negli anni Sessanta e Settanta - offre certamente un ulteriore angolo prospettico sull'intera questione. Anche da questo punto di vista non mancano sviluppi interessanti nei dibattiti critici contemporanei. Si pensi ad esempio al lavoro di Pierre Rosanvallon sulla "contro-democrazia" che, pur costruito attorno a figure quali quelle del "popolo-controllore", del "popolo-veto" e del "popologiudice", si collega esplicitamente alle "nozioni di antipotere o contropotere" diffuse tra "gli attori militanti" a partire dalla convinzione che «il concetto di contro-democrazia dev'essere inteso anche in questa prospettiva» 2.2.. Riprendendo una questione a cui ho fatto cenno in precedenza, mi pare che una riformulazione del paradigma del "dualismo del potere" e del concetto di contropotere quale quella qui indicata possa consentire l'apertura di un campo di sperimentazione politica in cui mettere alla prova e reinventare tanto il concetto di riforma quanto quello di rivoluzione. Definite una serie di questioni cruciali attorno a cui deve ruotare un programma di trasformazione radicale dell'esistente (per fare solo qualche esempio: aumento del potere e quindi del salario di lavoratrici e lavoratori subordinati; lotta senza quartiere al razzismo e al sessismo; lotta alla povertà; interventi strutturali contro il cambiamento climatico e conseguente riconversione dell'apparato produttivo; libertà di movimento), risulta possibile pensare tanto a politiche di riforma che si inscrivano nel rinnovato quadro del "dualismo del potere" traendone forza e spinta, quanto a un orizzonte rivoluzionario reso realistico dall'accumulazione di potenza in capo al "secondo potere" come condizione di una rottura.

5. Istituire il contropotere Nella prospettiva di un ripensamento del dualismo del potere quale quella che si è appena delineata, uno dei problemi fondamentau Picrrc Rosanvallon, La contTe-démocratie. La politique à l'iige de la défiance, Scuil, Paris 2.006; tr. it. di A. Brcsolin, Controdemocrazia. La politica trell"era della sfiducia, Castclvccchi, Roma 2.012., p. 2.2..

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li - già lo si è detto - consiste nell'assicurare la durata dell'azione dei movimenti e delle lotte sociali. È il problema classico dell'organizzazione, che si tratta oggi di aprire in direzione di quella rivisitazione del concetto di istituzione attorno a cui molti studiosi e molte studiose stanno lavorando 2 3. Attraverso la ricostruzione di genealogie giuridiche, politiche e filosofiche che liberano l'istituzione dal nesso strettissimo con la verticalità del comando e con il weberiano destino della burocratizzazione, emergono profili del processo istituente e della stessa realtà istituzionale che appaiono eccedere la figura dello Stato. La dimensione antropologica dell'istituzione, il suo nesso con necessari processi di stabilizzazione dei comportamenti collettivi, si coniuga in questi dibattiti con un rinnovato interesse per le diverse tradizioni del pluralismo giuridico, per aprire l'istituzione in direzione del divenire seguendo ad esempio le suggestioni di un filosofo come Maurice Merleau-Ponty 2 4. La prospettiva di Gillcs Dcleuze, con l'enfasi che la caratterizza sugli aspetti "creativi" dell'istituzione consente di approfondire ulteriormente questa ricerca, sottolineando la natura ambivalente della dinamica istituente e la possibilità di una sua evoluzione insieme alle prassi e ai rapporti sociali. L'istituzione appare qui legata a doppio filo a un "diritto vivente". E come scrive Sandro Chignola, introducendo un'ampia ricognizione degli scritti di Félix Ravaisson, Gabriel Tarde e Maurice Hauriou, «un diritto vivente è una politica immanente dell'azione: il ritmo di composizione di singolarità ed eventi in pratiche moltitudinarie di verifica del limite delle forme sperimentate della socializzazione» 25 • C'è oggi l'esigenza di approfondire l'analisi delle istituzioni statali, certo per coglierne trasformazioni che, per esempio in base ai partenariati tra pubblico e privato, aprono spazi per la penetrazione :tJ Si vedano ad esempio i contributi raccolti nel numero monografico recentemente dedicato al tema dall' •Almanacco di Filosofia e Politica»: dr. Mattia Di Picrro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Istituzione. Filosofia, politica, storia, Quodlibct, Macerata 2.02.0. Ma si tenga presente anche Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2.02.0. 14 Cfr. Paolo Napoli, L'istituzione e il deposito del senso, in M. Di Picrro, F. Marchesi, E. Zaru (a cura di), Istituzione cit., pp. 53-69 e Judith Rcvcl, Istitw;iotre e storicità. Una lettura politica della questiotre dell'espressione, ivi, pp. 71-82. 1 S Sandro Chignola, Diritto vivente. Ravaisson, Tarde, Hauriou, Quodlibct, Macerata 2.02.0, p. 14. Ma si veda anche Laurcnt dc Suttcr, Deleuze, la pratique du droit, Michalon, Paris 2.009; tr. it. di L. Rustighi, Deleuze e la pratica del diritto, ombre corte, Verona 2011.

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al loro interno della razionalità di impresa ma anche per evidenziare le persistenti patologie prodotte dai processi di burocratizzazione. Non va del resto trascurata, in questa analisi, la possibilità di individuare varchi per una politica della trasformazione e per stabilire nuovi terreni di confronto tra istituzioni pubbliche e movimenti sociali. Ancora più importante, tuttavia, mi pare la ricerca di forme istituzionali autonome, a partire dalla capacità dei movimenti e delle lotte sociali di istituire modalità di stabilizzazione (e al tempo stesso di intensificazione) della propria azione. Certo, l'istituzione è qualcosa di più della semplice organizzazione: è fissazione - per quanto aperta al divenire della cooperazione sociale che la istituisce - di una norma condivisa e di un criterio di efficacia dell'azione collettiva. Nella cornice che ho fin qui delineato, è un istituto che consente l'esercizio del contropotere e di pratiche di autogoverno. E attorno a cui può prendere forma una diversa normatività, radicata all'interno di grandi bisogni di massa, strutturata in base alle questioni politiche oggi fondamentali e sostenuta dalla cooperazione e dal conflitto delle diverse figure in cui si esprime oggi l'eterogenea composizione del lavoro sfruttato e comandato dal capitale26 • A me pare, per concludere, che questa idea di istituzioni autonome, non statali, abbia oggi una particolare attualità a proposito del welfare, che nella crisi pandemica torna a essere un terreno fondamentale di scontro e, auspicabilmente, di sperimentazione politica. La disponibilità di ingenti risorse, in particolare europee, nel contesto del programma "Next Generation EU", lascia intravedere anche in Italia quantomeno un'inversione rispetto a una lunga stagione in cui quella che possiamo chiamare con una formula abbreviata l'egemonia neoliberale si è tradotta in una infinita serie di tagli alla spesa sociale (con i risultati che si sono visti in questi mesi, in particolare per quel che riguarda la sanità, ma non solo). È bene sottolineare che le risorse possono essere spese in molti modi e secondo diverse logiche (tra cui non mancano quelle appunto neoliberali): proprio su questo si aprirà lo scontro politico. Non è del resto né possibile né auspicabile immaginare un "ritorno" allo Stato sociale che in Europa occidentale abbiamo conosciuto dopo la Seconda Guerra Mondia>Al Un punto di riferimento fondamentale per mc continua a essere in questo senso il saggio di Antonio Negri, La ttorma rivoluzionaria (1978), in Id., Macchina tempo. Rompicapi, liberazione, costituziotte, Fcltrinclli, Milano 1982., pp. 12.7-145.

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le. E questo non solo perché di quella specifica esperienza politica sono venuti meno tutti i presupposti materiali, ma anche perché non possiamo dimenticare le critiche a essa rivolte da un insieme di movimenti sociali, che ne hanno messo in evidenza il familismo, le molteplici esclusioni, e i tratti duramente disciplinari. Quel modello di Stato sociale si fondava del resto sulla centralità indiscussa attribuita allo Stato nella gestione delle politiche sociali, e questo è stato un ulteriore aspetto messo in discussione dall'azione dei movimenti2.7• Un ragionamento sul welfare oggi non può che ripartire dall'insieme di queste critiche, per muovere in direzione dell'invenzione di nuove forme di articolazione delle politiche sociali a partire da una combinazione di intervento pubblico e processi di auto-organizzazione sociale. Non mancano del resto esempi molto significativi di vere e proprie istituzioni autonome costruite dai movimenti sul terreno del welfare. Mi limito a due esempi, entrambi tratti dalla realtà italiana. Si pensi in primo luogo ai consultori autogestiti a cui diedero vita i collettivi femministi a metà degli anni Settanta, facendo proprie pratiche contraccettive e abortive. Se i consultori rimasero a lungo istituti di contropotere femminista e dopo l'istituzionalizzazione dei "consultori familiari" continuarono a interagire con questi ultimi in molti modi, dalla negoziazione al conflitto, i "Centri Antiviolenza" (CAV) costituiscono oggi in molti casi un'analoga istituzione autonoma "delle donne per le donne", indipendentemente dal fatto che possano accedere al finanziamento pubblico (regionale)2. 8 • In secondo luogo, i servizi sociali, le comunità terapeutiche, le cooperative sociali nate attorno al movimento della psichiatria radicale sono anch'essi esempi di una straordinaria immaginazione istituzionale che ha rappresentato l'altro lato della critica durissima dell'istituzione manicomiale, secondo la combinazione dei due gesti definiti da uno dei protagonisti di quell'esperienza: "l'istituzione negata e l'istituzione inventata "2.9. È, mi pare, un'indicazione preziosa anche per il nostro presente.

17 Si veda, tra i molti testi che si potrebbero citare, U. Huws, Rei,wenting the Welfare State cit., cap. 2. 18 Si veda il bel saggio di Chiara Giorgi, Maria Rosaria Marci la, Istituzioni del comune econtropotere, «Quaderni di Euronomadc», 1, 2020, pp. 43-53. 1 9 Franco Rotclli, L'istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2oro, Edizioni Alphabcta, Merano 2015.

Egemonia e costituzione materiale Gcmincllo Prctcrossi

Quello tra Gramsci e Mortati è stato un incontro impossibile (così come quello tra Gramsci e Schmitt). Ma per certi versi si tratta di percorsi di pensiero paralleli, pur nella loro evidente distanza. Gramsci ha una concezione moderna, artificialista, del diritto•: come scrive nel paragrafo 98 (intitolato I costumi e le leggi) del Quaderno 6 (anni 1930-1932), il diritto non riflette il costume, sanzionandolo, ma è «lotta per la creazione di un nuovo costume». Lo dimostra «la storia reale dello sviluppo del diritto, che ha domandato sempre una lotta per affermarsi» 2 • Gramsci vede nelle posizioni fattualiste, che 1 Su diritto e Stato in Gramsci, cfr.: Christinc Buci-Glucksmann, Gramsci et l'État. Pour une théorie materialiste de l'histoire, Fayard, Paris 1975, tr. it. di C. Mancina e G. Saponaro, Gramsci e lo stato. Per una teoria materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1976; Mark Bcnncy, Gramsci on Law, Morality atui Power, «lntcrnational Journal of thc Sociology of Law», 11, 1983, pp. 191-208; Norberto Bobbio, La società civile in Gramsci (1969), in Id., Saggi su Gramsci, Fcltrinclli, Milano 1991; Paolo Cristofolini, Gramsci e il diritto naturale, «Critica marxista», 3-4, 1976, pp. 105-u6; Riccardo Guastini, Le "Note sul Machiavelli, sulla politica, e sullo stato moderno", in AA.W., Gramsci. Un'eredità contrastata, Ottaviano, Milano 1979, pp. 77-83; Stefano Rachcli, I/ diritto ,iel pensiero di Gramsci, «Critica giudiziaria», 3-4, 1982, pp. 7-24; Benedetto Fontana, Hegemony and Power, Univcrsity of Minnesota Prcss, Minncapolis-London 1993; Douglas Lytowit7., Gramsci, Hegemony and the Law, «BYU Law Rcvicw», 2000, pp. 515-551; Chantal Mouffc {cd.), Gramsci andMarxist Theory, Routlcdgc, London-Ncw York 2014; Ronaldo Polctti, Law in Gramsci, «Socicdadc e Estado», 4, 1989, pp. 69-79; Pietro Rcscigno, Gramsci e l'esperienza del diritto, «Rivista critica del diritto privato», 2, 2014, pp. 179-186; Pctcr Thomas, The Gramscian Moment, Brill, Lcidcn 2009; Michele Filippini, Diritto, in Guido Liguori, Pasquale Voza (a cura di), Dizionario gramsciano z926-z937, Carocci, Roma 2009, pp. 225-226; Tommaso Gazzolo, Gramsci e la teoria del diritto, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2, 2018, pp. 327-350; Claudio Dc Fiorcs, La dimensione ttormativa tra Stato e società in Antottio Gramsci, Democrazia e diritto, 2, 2017, pp. 58-78. 1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gcrratana, Einaudi, Torino 2007, voi. II, p. 773.

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Gl!MINl!LLO PRl!Tl!ROSSI

potremmo ascrivere genericamente all'ambito dell'istituzionalismo3, un «residuo molto appariscente di moralismo intruso nella politica» (cioè una sorta di normativizzazione del fatto sociale, astrattamente considerato, che occulta i processi politici, i rapporti di potere, la costruzione di volontà collettiva al fine di spostare le forze in campo, che invece segnano i presupposti materiali e simbolici reali della giuridificazione). Fa parte dell'ideologia del ceto dei giuristi, per Gramsci, pensare che il diritto sia l'"espressione integrale dell'intera società". Invece «il diritto esprime la classe dirigente», che "impone" a tutta la società quelle norme di condotta che sono più legate alla sua ragion d'essere e al suo sviluppo4. Ma non per questo il diritto è uno strumento di mera oppressione. Nell'universalismo formale del diritto, e ancor più nell'idea che esso dipenda dalla volontà libera (qui Gramsci riprende la Filosofia del diritto di Hegel), connettendo potere legittimo e libertà, e non esaurendosi in un mero dominio di fatto (pur avendo bisogno della forza organizzata), «c'è implicita l'utopia democratica del XVIII secolo»5. Il diritto moderno punta al riconoscimento da parte dei consociati e tendenzialmente al coinvolgimento di tutti i cittadini nella trama giuridico-istituzionale della società. L'accettazione libera del conformismo sociale implica che tutti possano diventare elementi della classe dirigente. Quindi il diritto si presta tanto ad essere escludente, quanto ad allargare l'inclusione: anzi, è costitutivamente una coordinazione di inclusione ed esclusione, che fissa la determinatezza delle comunità politiche e la loro gerarchia interna. Ciò fa sì che sia uno strumento necessario (almeno finché persiste la distinzione dirigentidiretti) e soprattutto che possa essere volto a fini emancipativi, avendo nel proprio codice genetico (anche) quella "promessa democratica". Nella modernità, il diritto e i diritti sono cioè utilizzabili sì come uno strumento della borghesia per abbattere i vecchi rapporti di potere della società tradizionale, ma anche per trasformare, e almeno in parte mettere in questione, l'ordine borghese sul terreno della società 3 Anche se le posizioni di un Santi Romano sono in realtà un po' più complesse, perché un certo ruolo della volontà è presente, soprattutto nel momento della positivizzazione statuale e della sanzione, e perché la societas è pur sempre un accumulo storico-pratico (quindi artificiale) di comportamenti e atti normativi non propriamente "naturali". 4 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., voi. II, p. 773. s lbid.

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civile. Questa è qualcosa di più e di diverso dalla struttura materiale: è il luogo dove i processi materiali si politicizzano, e le forze concrete si fanno Stato. In questo spazio di potere, lotta cd elaborazione culturale si colloca anche il diritto. Ma cosa implica, concettualmente e politicamente, il fatto che il diritto non possa essere «espressione integrale della società»? L'uso del termine "integrale" è qui significativo, perché nella visione gramsciana indica una piena integrazione tra società civile e società politica, e viene utilizzato a proposito dell'ordine "a venire", post-borghese, che dovrebbe esprimere compiutamente le forze più avanzate della società civile, in grado di espandersi cd assorbire l'intera società. Da un lato, il diritto presuppone e rappresenta la scissione che caratterizza la politica, che sembrerebbe risolta nello Stato "integrale" (che tipo di politica esprima questa integralità, visto che di un'organizzazione politica ci sarà comunque bisogno, e in che senso sarà ancora politica; quale natura avrà il potere, o se sarà archiviato, tutto questo rimane abbastanza indefinito e rimesso a un orizzonte di lunghissima durata). Gramsci, da marxista (per quanto eretico) sembra ritenere che tale scissione sia definitivamente superabile una volta che la grande dicotomia capitale-lavoro sarà stata riconciliata. Ma rimane il dubbio che si tratti in realtà di una scissione ancor più originaria. Diritto e politica sono per definizione "non integrali", cioè incapaci di esprimere l'intera società. D'altronde, lo stesso spazio dell'egemonia è reso possibile da questa non integralità, da questo deficit che chiama un'eccedenza 6, e dal tentativo di articolare l'ambito del potere sul terreno della società civile, trasfigurando il dominio in "forza più consenso". Pertanto, al massimo, un'egemonia socialista può andare in direzione di un'integralità progressiva, in divenire, come orizzonte che non pretende di saturare del tutto, e immediatamente, il politico con il sociale. Il diritto moderno può essere un mezzo di questa articolazione egemonica. Per questo ha un ruolo di un certo rilievo nella revisione gramsciana della filosofia della prassi. Il diritto non può essere integrale ora, ma lo sarà nella "società regolata". Nel frattempo, è egemonico. 6 Si tratta di un punto teorico che è stato valori7.7.ato da Ernesto Laclau per elaborare la sua teoria del populismo e legarla a quella dell'egemonia gramsciana: cfr. Ernesto Laclau, La ragione populista, cd. it. di D. Tari7.7.o, l..atcrza, Roma-Bari 2.008, pp. 109-110.

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Gramsci sa che l'artificialismo non può essere inteso ingenuamente, come volontarismo soggettivistico, come "creazione dal nulla" sociale. Le rivoluzioni contro l'Assolutismo erano state in qualche modo "preparate" in un "costume" già pronto a rompere l'ordine vigente. Naturalmente, sul termine "costume" bisogna intendersi: se lo si concepisce come una piatta e ottusa prassi conservativa di un ordine già da sempre dato, non se ne può valorizzare la dimensione dinamica. Se invece lo si intende anche come aspirazione, come possibile fonte di conflitto, diventa un fattore prepolitico di potenziale trasformazione politica. Secondo Gramsci, la progressiva espansione del carattere obbligatorio del diritto e dell'intervento dello Stato (che è legato, anche, all'uso del diritto per cambiare la società, oppure per reprimere un diritto nascente) è dovuta all'espansione delle disuguaglianze (quindi alle dinamiche della società capitalistica). C'è un'ambiguità di fondo, ma produttiva, del "giuridico": da un lato la lotta per il diritto esprime istanze di cambiamento; dall'altro, l'obbligatorietà può avere una funzione repressivo-conservativa. In generale, c'è «un carattere educativo, creativo, formativo del diritto»?. Certe correnti intellettuali astrattamente illuministiche non l'hanno messo in luce, confidando semplicisticamente nello spontaneismo della natura umana. Invece, sembra dirci Gramsci, c'è bisogno della funzione forgiatrice del diritto obbligatorio, perché senza di essa non ci sarebbe neppure possibilità per le classi subalterne di diventare, o ambire a diventare, dirigenti. C'è qui un "resto" hegeliano, sulla libertà come esito di una dura educazione all'obbedienza, sul disciplinamento come fattore progressivo, seppur da interiorizzare, da far proprio, volgendolo in autonomia individuale e collettiva. La libertà non è data, ma sorge dalla crisalide dell'obbedienza. E postula una comunità. Il liberalismo non coglie la necessità di portare tra le masse l'elaborazione della volontà collettiva. Per rispondere appieno a tale esigenza occorre un ordinamento che sia realmente "integrale", e quindi per certi aspetti "non politico", o "politico" in un altro senso, come piena compenetrazione tra società civile, sistema di produzione e società politica, che determini un allargamento della nozione di Stato, sia sul piano economico sia sul piano culturale, e il superamento della scissione tipicamente borghese tra le istituzioni pubbliche e la società come sfera dell'autonomia privata. 7 A.

Gramsci, Quaderni del carcere cit., voi. II, p. 774.

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In questi passi, come in altri luoghi dei Quaderni, Gramsci utilizza uno stile di pensiero che, al netto dell'estraneità ideologica, è avvicinabile per certi aspetti a quello di Mortati, come se tentassero di rispondere, da due punti di vista diversi, e senza connessioni reciproche, alle stesse sfide, quelle poste dai regimi politici di massa. Riflettono infatti sul medesimo problema: come fa la società civile a diventare Stato? Solo che per Mortati l'ottica è, linearmente, quella della generazione dell'unità politico-costituzionale (non del superamento del "politico"). Mentre per Gramsci la questione dell'unificazione politica si pone, ma in maniera più ambivalente: da un lato per la fase di transizione, e dall'altro per un'ipotetica fase di liberazione dal dominio, nella quale la politica persiste, ma come trasfigurata. In ogni caso, per entrambi cruciale è il ruolo del partito di massa come fattore dinamico di unificazione8, così come l'insistenza sulla necessità di una compenetrazione Stato-società, che conduca a un senso nuovo- "totale" 9 (che non significa totalitario) o "integrale" 10 -del8 Scrive Gramsci nel Quaderno 13 (anni 1932-1934): il partito, in generale, è un «elemento di società complessa nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione»; si tratta cioè di «un organismo già dato dello sviluppo storico», che viene a costituire «la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali» (A. Gramsci, Quademi del carcere cit., voi. Ili, p. 15 58). Gli fa inconsapevolmente eco Mortati, pochi anni dopo: il partito «è l'elemento attivo dell'istituzione originaria, necessario perché questa assuma una forma politica» (Costantino Mortati, La Costituzione in senso materiale (1940), Giuffrè, Milano 1998, p. 73). Ovviamente qui non è questione di influen:r.c reciproche dirette, ma della centralità di un nodo politico e teorico-costituzionale, comune alle tcmatiZ7.azioni più acute e profonde sulla novità determinata dall'irnl7.Ìone delle masse sulla scena pubblica. Le risposte che Mortati e Gramsci immaginano condividono l'esigen7.a di individuare sul terreno della società la base materiale e simbolica del nuovo ordine e di produrre un'unità dal basso, ciò che implica l'emergere di forze concrete in grado di sostituire l'antico Principe. La nuova società di massa deve trovare in sé stessa il proprio principio d'ordine, ma non può essere gestita orizzontalmente. 9 Cfr. Massimiliano Gregorio, Park totale. Le dottrine costitw:iotwli del partito politico in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 2013, pp. 204-216, 239-247. • 0 «Nel mondo moderno, un partito è tale, integralmente e non, come avviene, frazione di un partito più grande, quando esso è concepito, organiZ7.ato e diretto in modi e forme tali da svilupparsi integralmente in uno Stato (integrale, e non in un governo tecnicamente inteso) e in una concezione del mondo. Lo sviluppo del partito in Stato reagisce sul partito e ne domanda una continua riorganizzazione e sviluppo, così come lo sviluppo del partito e dello Stato in concezione del mondo, cioè in trasformazione totale e molecolare (individuale) dei modi di pensare e operare, reagisce sullo Stato e sul partito, costringendoli a riorganizzarsi continuamente e ponendo loro dei problemi nuovi e originali da risolvere» (A. Gramsci, Quaderni del carcerecit., voi. III, p. 1946).

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la comunità politica e dei suoi attori. La nuova legittimità politica dei regimi di massa si gioca su questo terreno. Mortati, da giurista non marxista, non mette al centro la questione del capitalismo (anche se sa bene che lo sviluppo della società industriale avanzata ha posto delle sfide strutturali allo Stato liberale, come aveva già evidenziato il suo maestro Santi Romano). Mentre Gramsci, da leninista critico ed innovatore, legge la grammatica dello Stato e delle istituzioni giuridico-politiche - pur colte nella loro rilevanza e relativa autonomia - alla luce dell'anatomia della società borghese. Entrambi, da punti di partenza diversi, arrivano a porre l'esigenza di una nuova mediazione Stato-società, che si fondi sulla piena assunzione della costituzione materiale e simbolica della società di massa e individui nuovi soggetti titolari dell'energia politica che essa esprime. Egemonia e "parte totale" appartengono allo stesso universo semantico e alla medesima costellazione di problemi: le "forze egemoniche" assomigliano notevolmente alle "forze dominanti" evocate da Mortati, quali portatrici della "costituzione materiale". Ora, "parte totale" è un ossimoro, perché tiene insieme due opposti apparentemente incompatibili; ma questo è anche il suo punto di forza: trasfigura il particolare e concretizza l'universale, conferendogli una carica energetica. Totalizzazione della parte significa universalizzazione "di parte", che si determina fissando una frontiera politica: un Intero politico che si {ri)costituisce a partire da una parzialità {"forze determinate" che prevalgono unendo forza e capacità di aggregare, cioè "egemonicamente", per usare il lessico, coevo, gramsciano), rivestendosi di generalità. Concettualmente, saremmo ancora nell'orizzonte di pensiero dell'unità politica hegeliana come "universale concreto". Solo cha la sua articolazione, in virtù della conflittualità dei regimi di massa, si è fatta non solo più complessa che in Hcgel, perché la società è uscita dalla tutela dello Stato, ma soprattutto è frutto di una politicizzazione inscritta nella società, che è essa stessa generativa dell'ordine. La "costituzione in senso materiale" registra questa ricostruzione dell'unità politica dal basso, che ristabilisce (e deve ristabilire) una verticalità, ma traendola dall'interno delle forze che si agitano nella società e dall'equilibrio ordinante e integrativo che quelle tra esse vincenti sono in grado di far valere. Ma perché, a un certo punto, nei primi decenni del Novecento, emerge la tematica del "totale"? Da un lato si tratta di uno stru-

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mento descrittivo. Dall'altro, è un modo per rispondere alle trasformazioni indotte dalla transizione post-liberale dei regimi di massa. Il «totale» compensa la perdita di politicità dello Stato, che accompagna la sua dilatazione e diffusione nel sociale (o la crescente socializzazione dello Stato, se si preferisce). La nozione di "totale" è una sorta di punto di caduta delle contraddizioni del mondo postliberale, ma anche il segno dell'impossibilità di tornare indietro. Il dibattito sulla nozione è la cartina di tornasole delle fibrillazioni della Repubblica di Weimar così come dell'avvento del fascismo in Italia, ha negli ambienti della Rivoluzione conservatrice e del fascismo delle origini un ambito di elaborazione, ma in realtà circola trasversalmente, tra giuristi, pensatori politici e ideologi differenti se non opposti, accomunati dalla percezione che quel concetto esprima un nodo reale: quali sono le nuove forze portatrici della legittimità politico-costituzionale, e come si può generare unificazione delle masse partendo dalla società divisa, cioè non potendo presupporre lo Stato-persona sovrano? Giocare la carta del "totale" è, insomma, tra gli anni Venti e Trenta una strategia per assumere appieno la "crisi di legittimazione", al fine di egemonizzarla. Nei teorici non (o anti) marxisti, ma collocati oltre lo schema liberale, con l'obiettivo che le istituzioni pubbliche non siano completamente invase dalla società. Per Gramsci, al fine di costruire il "nuovo Principe". In entrambi i casi si tratta di un uso in chiave positiva della nozione di «totale», o come ricostruzione di uno Stato in grado di integrare (con il comando, ma non solo) le masse, o come ordine egemonico che mira alla loro integrale auto-organizzazione. Ma tale auto-organizzazione non può essere spontaneistica: per Gramsci funziona solo se sfocia in trascendenza egemonica immanente al sociale. La stessa costruzione della "società regolata" è un paradosso: da un lato implica l'egemonia, dall'altro il suo progressivo affievolimento. Il riferimento alla nozione di «totale» è un modo per attingere la nuova Verfassung della società di massa, continuando a pensarne l'unità politica. Il cui principio unificatore è necessario e deve essere autonomo, ma non può essere semplicemente sovraordinato, perché per essere efficace deve sorgere dal seno della società e dai suoi conflitti. Per questo, la questione del «totale» non può essere ridotta al totalitarismo. È la questione dell'unità politica, sul terreno e al tempo della società civile di massa. Naturalmente, è

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vero che la pretesa di intensità politica che tale strategia 11 esprime può anche sfociare in una riduzione forzosa della complessità. Ma il problema di ricostruire un ubi consistam, che consenta un agonismo non dissolutivo, non può essere rimosso né affidato a soluzioni non politiche. Nel secondo dopoguerra, sulla scia della lezione di Weimar, la soluzione istituzionale era stata il costituzionalismo democratico e sociale, un ordine pluralista in grado di contenere le spinte dissolutive perché solidale e tendenzialmente egualitario (cioè ridistributivo, keynesiano). Una lezione anche per l'oggi. Dal punto vista teorico, a me pare che attraverso il concetto di "totale" si sia posta nel cuore del Novecento12 la questione di una nuova teologia politica di massa, pienamente inscritta nell'immanenza secolare: cioè il compito di ricostruire una sfera del "politico" dotata di relativa autonomia, non schiacciata sul sociale, e tuttavia espressiva della concretezza dei rapporti sociali. Il residuo teologico-politico è dato dalla necessaria trascendenza egemonica. Ma l'orizzonte ideologico e costituzionale entro cui questa si inserisce è immanentistico. In questo paradosso inaggirabile - la trascendenza dell'immanenza - sta la radice della costante riemersione nel contesto democratico, fino ai giorni nostri, del "politico-simbolico", il cui segreto è stato catturato dalla sovranità moderna, post-teologica e tuttavia politicamente trascendente. Una politica concepita come totalità parziale {o appunto "parte totale"), sia che si tratti di un'unificazione nella rappresentazione (con un punto cieco di esclusione, che consente l'integrazione di tutto il resto "visibile"), sia che affidi ad alcune forze sociali il compito di realizzare un Intero egemonicamente "integrale" {opcrazio-

11 Cfr. Carlo Galli, Strategie della totalità. Stato autoritario, Stato totale, totalitarismo nella Germania degli anni Trenta, «Filosofia Politica», 1, 1997, pp. 27-62. 1'- Tale nozione ha rivelato tutto il suo potenziale drammatico tra le due guerre; ma non è scomparsa la problematica che vi era sottesa: nel secondo dopoguerra essa è stata per così dire rielaborata pluralisticamente e mitigata, riferendola al sistema dei partiti di massa, ad esempio con l'urbani7.7.azione di Schmitt in Germania, attraverso la mediazione, tra gli altri, di Bockenforde, e in Italia grazie all'eredità dell'impronta mortatiana sulla Costituzione del '48. Mortati, grande conoscitore delle dottrine weimariane, non a caso pubblica in tutta fretta una sintesi sulla Costituzione di Weimar ad uso dei suoi colleghi costituenti, opportunamente ristampata di recente in occasione dell'anniversario weimariano: cfr. Costantino Mortati, La Costituzio11e di Weimar, a cura di M. Fioravanti, Giuffrè, Milano 2019.

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ne che non potrà mai essere "orizzontale"), esprime dunque la costante presenza sottotraccia della tematica teologico-politica (anche come questione dcli' auctoritas laicizzata, cioè di un potere carismatico mondano) nella temperie della società di massa, secolarizzata ma non {ancora) deideologizzata. Anzi, proprio secolarizzazione e pluralizzazionc aprirono la strada all'ideologia (come sostituto del teologico-politico). A lungo, il cosiddetto tramonto delle ideologie è sembrato sterilizzare per sempre tali istanze. Oggi, in una fase ormai "post/post-ideologica", se anche non si vedono ali'orizzonte, almeno per ora, nuovi apparati ideologici già in grado di imporre un paradigma alternativo, cresce non a caso il bisogno di "visioni" radicali e "simboli" forti, parallelamente al crollo verticale della fiducia nel mainstream. Da un certo punto di vista, si può dire che per Gramsci il problema del diritto e quello dell'egemonia si sovrappongano. Scrive nel Quaderno 6: «come assimilare alla frazione più avanzata del raggruppamento tutto il raggruppamento: è un problema di educazione delle masse, della loro "conformazione" secondo le esigenze del fine da raggiungere. Questa è appunto la funzione del diritto nello Stato e nella Società; attraverso il "diritto" lo Stato rende "omogeneo" il gruppo dominante e tende a creare un conformismo sociale che sia utile alla linea di sviluppo della classe dirigente» 1 3. Nel rapporto con l'etica, si disvela la specificità del giuridico, ma anche il parallelismo che persiste tra queste due dimensioni della ragion pratica, le quali non possono sovrapporsi o identificarsi, ma sono necessariamente connesse. Nella sfera dell'etica, la corrispondenza tra le azioni degli individui e i fini della società è "spontanea", mentre è «coattiva nella sfera del diritto positivo tecnicamente inteso» 1 4. Laddove la coazione non è statale, ma di opinione pubblica e ambiente morale (cioè si sostanzia in una sorta di pressione sociale), l'adeguarsi dell'agire dei singoli ai fini collettivi - che sono sempre anche dominanti - è più "etica" perché più libera. Senza questo spontaneo riconoscersi ncll' ordine sociale, almeno in un certo grado, un ordinamento non potrebbe durare. Ma far affidamento solo su tali forze spontanee significa non cogliere la funzione conformatricc dello Stato. Insomma,

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A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., voi. II, p. 757. lbid.

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il potere istituzionalizzato ha bisogno di legittimazione, cioè ha radici in basso, ma senza comando non si dà ordine. Il diritto è artificio coattivo, ma tale costruzione non basta a sé stessa: ha bisogno di un ambiente etico-sociale in cui operare, da cui trarre linfa e sul quale retroagire disciplinandolo e trasformandolo. Il diritto da un lato presuppone un certo grado di omogeneità (altrimenti l'ordine non si darebbe), dall'altro ha precisamente l'obiettivo di creare omogeneità (nel gruppo dirigente e nel suo rapporto con i diretti). Può sembrare una concezione illiberale o addirittura incompatibile con lo Stato di diritto. In realtà, se si pensa che il tema di una relativa omogeneità sociale è stato al centro anche di teorie costituzionali certamente compatibili con il pluralismo (e che nel contesto pluralistico hanno dato i migliori frutti), come quelle di Bockcnforde, Mortati, Smcnd, Heller, ci si rende conto che il rapporto tra omogeneità sociale e pluralismo non è semplificabile nel senso della negazione o rimozione del problema della produzione di omogeneità. Solo una concezione atomistica dei diritti individuali può escludere tassativamente il loro nesso con la dimensione collettiva, e con le lotte egemonico-identitarie al suo interno. Soprattutto, il rischio è quello di non vedere all'opera le forze ideologiche reali che si fanno veicolo di omogeneità, che comunque si danno anche in un contesto liberaldemocratico (basti pensare all'impatto conformistico del neoliberismo negli ultimi decenni). L'importante è utilizzare il concetto di omogeneità sociale, e quello per certi versi connesso di egemonia, in chiave pluralistica e agonistica: l'omogeneità in un contesto democratico-costituzionale non potrà mai saturare lo spazio pubblico, minando la possibilità del dissenso, ma dovrà sempre coniugarsi con il conflitto. Del resto, è Gramsci stesso a metter in guardia dai rischi di "burocratizzazione", mostrando una netta predilezione per un paradigma realistico delle fonti del diritto, che assicuri la loro adattabilità alla vita sociale in continua evoluzione: non un codice perpetuo, di tipo "bizantino-napoleonico", ma la giurisprudenza come metodo, in stile "romano-anglosassone" 1 5. Da un punto di vista politico, è però evidente che quel rapporto tra pluralismo ed omogeneità sociale, conflitto cd egemonia regge nella misura in cui vi siano dei soggetti collettivi organizzati (partiti, sindacati, corpi intermedi), che •s Ibid.

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non solo strutturino le for.le della società e medino tra loro, ma costituiscano "scuole di vita statale" 16 (perché al loro interno la necessità è già diventata libertà, essendosi l'obbligazione legale fatta vincolo etico-politico). Questo è uno degli aspetti più problematici del pensiero gramsciano oggi (ma anche di tutti i teorici della democrazia dei partiti, come Mortati), perché i soggetti politici non sono certo scomparsi, ma la loro funzione pedagogica e organizzativa pare tramontata o comunque radicalmente mutata. Gramsci appaia Stato etico e società civile, come se fossero la stessa cosa, sostenendo che esprimerebbero un'immagine di "Stato senza Stato" che era ben presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto, seppur in una chiave utopica o di pura teoria 1 7. Dunque, "Stato etico" starebbe a significare "Stato senza Stato" (cioè senza coercizione): una posizione singolare, se si considera che non corrisponde affatto alla dottrina dello Stato di Hcgcl. Così come, c'è da dire, è una libera interpretazione (in realtà un evidente fraintendimento) la sovrapposizione sic et simpliciter tra società civile cd eticità dello Stato. In realtà, Hcgel ha pensato il "politico" in stretto rapporto a una nozione moderna di eticità, attraversata dalla scissione indotta dal principio della soggettività, che viene però recuperata nelle articolazioni della società civile: così è escluso che lo Stato possa essere ridotto alla società civile (significherebbe la sua privatizzazione), mentre semmai è l'ascesa all'interesse collettivo che può essere preparata sul terreno sociale e civile di una sfera pubblica più larga di quella statale. In effetti, Gramsci usa molto liberamente il lemma "Stato ctico" 18, come indicatore della "fine del dominio". Mentre quello di Hcgel, ai suoi occhi, è lo Stato borghese per eccellenza, la cui universalità è legata alla capacità della borghesia di essere una forza propulsiva nella società moderna: in tale prospettiva, divisioni sociali, conflitti e rapporti di potere asimmetrico persistono come dato permanente, per quanto razionalizzabile. Gramsci vagheggia A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., voi. II, p. 92.0. lvi, p. 764. 18 Bisogna ricordare che Hcgel usa molto raramente l'espressione "Stato etico", anche se, ovviamente, vede nello Stato, e in particolare nello Stato "politico", il coronamento dell'eticità (ma tale connessione tra "politico" cd "etico" ha una valenza diversa dall'cticizzazionc dello Stato, e indica l'articolazione complessa dei livelli sociali e istituzionali che strutturano l'eticità moderna). L'impressione è che Gramsci sia soprattutto condizionato dall'uso del lemma, e dal vivace dibattito su di esso, nel neoidealismo italiano. 16 17

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una soggettività politica (pensata peraltro senza ingenuità anarcoidi, quindi in grado di assumere fino in fondo la questione del potere), che abbia l'obiettivo di sopprimere sé stessa e non di conformare a sé tutta l'umanità (in ciò consisterebbe la sua suprema eticità "metapolitica"): «La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l'eticità o universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di sé stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» 1 9. Emerge qui un tratto parareligioso, di una religione immanentistica che cerca disperatamente di liberarsi da ogni trascendenza, anche di quella del "politico", ma che pare destinata a non riuscirci; anzi, paradossalmente, per fare politica in nome di quello scopo, è costretta a generare quasi a sua insaputa trascendenze secolari, politicosimboliche. Inoltre, si aprono interrogativi che interpellano la natura di quell'organismo sociale: in che senso è tecnico e morale allo stesso tempo? Cosa assicura la sua unitarietà: solo il processo produttivo? Il potere vi è espunto, o è talmente inserito nel meccanismo sociale da perdere il suo tratto autoritativo e da non essere avvertito come coercitivo? E la sua tecnicizzazione come può legarsi ali'ethos piuttosto che essere fattore di burocratizzazione e spersonalizzazione? In che senso sarà ancora uno Stato? E in direzione di quale "cultura"? Di una Bildung genericamente umanistica, di una critica eretica (manifestazione dell'autonomia di un pensiero finalmente affrancato da rapporti sociali di dominio: ma rivolto contro cosa, se l'antagonismo sociale fondamentale sarà stato superato?), di una nuova visione del mondo meta-ideologica? Quell'organismo sociale unitario tecnico-morale si colloca oltre lo Stato politico, oltre il Capitale, oltre il dominio dell'uomo sull'uomo. Si tratta indubbiamente di un'organizzazione complessa, ma non più basata sulla distinzione governanti-governati (tanto nella produzione quanto nello Stato, tanto all'interno delle singole comunità umane quanto nei rapporti internazionali). Serba un nucleo utopico, cioè l'idea paradossale di una politica senza (più ragioni di) conflit'9

A. Gramsci, Quaderni del carcerecit., voi. II, pp.

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to. Ci saranno ancora Stati al plurale, cioè un pluriverso politico, o quell'organismo sociale tecnico-unitario sarà l'organizzazione del mondo come unità? Se fosse così, forse si potrebbe istituire un paragone tra queste ipotesi gramsciane e lo «Stato universale omogeneo» di cui ragiona Kojève nel secondo dopoguerra. E se la radice di quella scissione dirigenti-diretti e del suo salvifico superamento è il capitalismo, in che modo ciò che lo sostituirà sarà, dal punto di vista organizzativo, effettivamente liberante, visto che si tratta di rovesciarlo ma mantenendosi nel solco della "modernizzazione" tecnica e produttivistica che esso crea? E poi, davvero la radice del dominio (così come dell'imperialismo, del razzismo, dello sfruttamento, dello schiavismo) è imputabile al solo capitalismo, o esso ne è una forma storica (per quanto particolarmente intensa)? Il fatto che sia ad alto contenuto tecnologico e auto-espansivo ne fa un unicum tale da porre le basi per una trasvalutazione definitiva dei vincoli "hobbesiani" dell'umano (scarsità, violenza, imprevedibilità, diffidenza, passioni d'onore)? A me pare che in Gramsci rimanga aperta, e in qualche modo irrisolta, la tensione tra (parziale ma necessaria) autonomia del "politico" (egemonia, giacobinismo, mito-principe, persistenza dello Stato, ruolo delle istituzioni politiche) e saldatura società civile-Stato come saturazione della politica, sua integrale socializzazione (che assicurerebbe un presunto superamento della dicotomia pubblico/privato nel senso della completa messa in comune dell'agire sociale e produttivo e non invece - come sta avvenendo - della privatizzazione integrale della vita collettiva). In questo senso la nozione di Stato integrale è ambigua, perché serba in sé tre possibili declinazioni: l'idea di una totalizzazione politica (Partito-Stato), quella di una saturazione sociale del "politico", e quella di una dialettica costante tra molecolare e collettivo, che può essere anche curvata verso una concezione pluralistica e agonistica (in definitiva democratico-radicale) dell'egemonia. L'ulteriore ambiguità sta nel fatto che le due totalizzazioni/saturazioni, speculari, spingono l'una verso una "politica assoluta", l'altra verso la spoliticizzazione. In entrambi gli esiti, il destino dell'egemonia come campo di lotta (terza declinazione) sembra compromesso. Gramsci chiude le sue considerazioni sull'ordine politico della società comunista, nel paragrafo 88 del Quaderno 6, con un'affermazione sorprendente, cioè sostenendo che nella società regolata il

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modello dello Stato-guardiano (di matrice liberista) potrebbe essere quello preferibile, in quanto forma di organizzazione giuridico-istituzionale adatta a una società sempre meno bisognosa di interventi d'autorità: «Nella dottrina dello Stato - società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale a Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase di Stato-guardiano notturno, cioè di un'organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi»2.0 • L'uso di tale formula è impressionante, non solo perché Gramsci non è Hayek, ma perché sa bene quali contenuti repressivi e di classe la nozione liberale di "Stato guardiano notturno" serbi. Quello Stato guardiano è minimo ma non nel dominio, perché concentra una violenza che si manifesta anche con lo "stato di eccezione" (benché rimosso e negato dai liberali), quando l'ordine proprietario è minacciato. Aggiungendo, come per mettere le mani avanti: «Né ciò può far pensare a un nuovo "liberalismo", sebbene sia per essere l'inizio di un'era di libertà organica»2. 1 • Opera qui una teologia economica che si fa politica, la fede (evidentemente intrinseca al marxismo, anche nelle sue varianti "eretiche") nelle potenzialità del sociale, certo non lasciato a sé stesso (Gramsci è un critico rigoroso del determinismo), ma messo in condizione, grazie alla "briscola" del moderno Principe proletario, di dispiegare tutte le potenzialità della modernizzazione in un assetto egemonico post-borghese. Gramsci non crede a una produttività del sociale del tutto autonoma e autosufficiente. Però quando, dopo il 1989, anche i resti dell'investimento di fede nell'eresia bolscevica del nuovo Principe verranno drammaticamente meno, e il contesto weltgeschichtlich della rivoluzione comunista collasserà definitivamente, anche per gli credi di Gramsci il rischio che rimanga solo il "mito del Capitale" (non tanto nel senso dell'opera di Marx, ma soprattutto del suo oggetto) si farà insidioso (uno schema che, ovviamente ben al di là delle intenzioni di Gramsci, ha a che vedere con quella subalternità contemporanea al neoliberalismo, che ha caratterizzato anche tanta parte della sinistra post-comunista).

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A. Gramsci, Quaderni del carcerecit., voi. Il, pp. 763-764. lbid.

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In parallelo con il singolare riferimento positivo allo "Stato guardiano notturno", in alcuni passi dei Quaderni Gramsci adombra la possibilità che nella "società regolata" il diritto in quanto prassi possa costituire, in autonomia, il fulcro dell'ordine sociale post-borghese. Cioè l'infrastruttura giuridica, in una società fondamentalmente conciliata, subentrerebbe all'egemonia. Innanzitutto bisogna chiarire di quale diritto si tratterebbe: un diritto sociale, promozionale, non politico-coercitivo; un diritto almeno parzialmente sganciato dalla sanzione (che quando fosse contemplata, perché inevitabile, dovrebbe svolgere per Gramsci una funzione educativa). Ma un diritto promozionale può reggere prescindendo dal contenuto d'ordine garantito dalla coazione? L'esperienza degli Stati sociali cli diritto ha indubbiamente mostrato l'utilità del diritto promozionale, e anche la sua tendenza ad espandersi, ma cli certo non la possibilità cli operare una sostituzione del diritto penale, della nozione cli ordine pubblico, dell'apparato sanzionatorio, in generale della funzione obbligante del diritto, con lo spontaneismo giuridico del sociale o con la mera funzione incentivante dei pubblici poteri. L'uso sociale del diritto, frutto della società di massa e della democratizzazione degli ordinamenti, non è un'alternativa al diritto politico (semmai indica una rideclinazione "dal basso" della politicità), e si applica anche alla coazione e al diritto sanzionatorio, investendoli di un'aspettativa legittimante di tipo consensualistico e in un qualche senso partecipativo. Ma questo non rovescia lo schema di qualificazione della giuridicità centrato sulla coppia volontà-coazione, alternativo a quello giusnaturalista fondato sulla veritas, semmai lo complica e ne prospetta una legittimazione diversa rispetto a quella del principio d'autorità dello Stato-persona. Tale legittimazione consente di immettere argomenti e contenuti etico-sociali nella produzione giuridica, politicizzandoli, ma non permette certo una liberazione dal potere (coattivo) 22 • Non si esce dall'egemonia ("corazzata .u Negli anni del neoliberalismo e del cosiddetto "postmoderno", l'idea di una "società regolata" giuridicamente (addirittura su scala globale), di un diritto in sé ordinato e spontaneamente ordinante, ha portato all'affermazione di un paradigma post-statuale e neo-medievalista radicalmente alternativo rispetto al lascito della modernità. Per fortuna queste illusioni globaliste e antimodeme, o ingenue o velenose, sono oggi entrate radicalmente in crisi: il modello di ordine giuridico che prospettavano aveva caratteristiche e presupposti di senso da un lato profondamente premodemi e tradizionalistici, dall'altro polcmogcni e opachi, in grado di occultare le reali rela7loni di dominio imposte dai "poteri indiretti" (in ordine di pericolosità, oggi: economico-finanziari, tecnocratici, mediatici

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di coercizione" 2 3 ). Anzi, proprio tale nuova legittimazione sociale ne rende il concetto più chiaro e necessario: egemonico è quel diritto che è fondato su un'asimmetria di potere tra dirigenti e diretti, ma contribuisce a costruire il consenso interno alle decisioni, ed è anche un sensore di quanto accade nella società, un trasmettitore di istanze che consente di decidere meglio. Nella logica egemonica, il diritto non può appiattirsi sul fatto, essere mero specchio di una società già in sé ordinata; la lotta per un nuovo diritto24 presuppone uno scarto tra fattualità e progetto: prescindendo dalla prima, non c'è concretezza nel cambiamento; escludendo il secondo, il diritto diventa il custode dell'ordine come meta-valore (cioè di un ordine purchessia) e non uno strumento politicamente contendibile di regolazione dinamica dei conflitti sociali. Gramsci sa bene che il diritto non esprime tutta la società, ma la classe dirigente. Il diritto moderno raccoglie l'eredità delle utopie egualitarie delle rivoluzioni democratiche del Settecento: è un notevole avanzamento, che rappresenta però il punto massimo oltre il quale non si può andare, rimanendo sul terreno "egemonico". Da tale "promessa normativa" può derivare una spinta propulsiva agonistica, che non conseguirà una società perfetta, ma è in grado di spostare rapporti di forza a favore di chi sta in basso. È chiaro che l'obiettivo della "società regolata" è molto più ambizioso, perché metapolitico. Ma se cade il presupposto di fede nello scatenamento rivoluzionario delle forze produttive e nell'unicità definitiva che tale salto rappresenterebbe, l'idea di "società regolata" può rie fondamcntalistico-religiosi). In ogni caso, credo che intendere gli accenni alla "società regolata" di Gramsci (pur non privi di problemi) come anticipa7.Ìoni del globalismo postmoderno e del progressismo ncolibcralcsarcbbc una vera e propria forzatura. Mi pare che si sbilanci troppo in direzione di un "Gramsci globalista" il volume, peraltro stimolante, di Giuseppe Vacca, Modernità alternative: il Novecento di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2017.

A. Gramsci, Quaderni del carcerecit., voi. Il, p. 764. li nuovo diritto esprimerà il contenuto d'ordine progettuale di gruppi rivoluzionari che rompono con il vecchio ordine per affermarne uno nuovo, che è sì già in nuce presente in una parte della società, ma che deve affermarsi, prevalere e imporre un nuovo equilibrio, per diventare il nuovo diritto legittimo (e non un'avventura eversiva, quale sarebbe qualificata se quel progetto fosse sconfitto). Sul tema, cfr. Santi Romano, L 'instaur~o,,e di fatto di un ordinamento costituzio,rale, in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffrè, Milano 1969; Mortati, in La costitu:tione in senso materiale, si inscrive nel solco di Romano, ma innova profondamente, ponendo al centro i processi di politici7.7.azionc nella definizione degli assetti costituzionali. ~3

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solversi facilmente in un'utopia conservatrice. Infatti, oltre a essere metapolitica, la società regolata rischia di essere anche "metagiuridica" (almeno nel senso del diritto moderno come strumento di lotta e trasformazione), o per altro verso pangiuridica (nel senso di un ordo sostanziale premoderno, che di liberatorio promette ben poco). Ma il diritto non può essere tutto, permeare l'intero spazio sociale. Soprattutto, non è autosufficiente: ha sempre dei presupposti. Anche il diritto della società regolata li ha. Il diritto egemonico ha presupposti "positivi", cioè storico-politici. Quelli del diritto della società regolata sono molto più onerosi, perché attengono a una sfera ontoantropologica e weltgeschichtlich, che interpella le "cose ultime" {più o meno secolarizzate). Come sappiamo, Gramsci ribadisce più volte che l'egemonia si costruisce sul terreno della società civile: quindi quello che appare come Stato "esterno" sarebbe il vero "interno" dello Stato. C'è però tutta una tradizione, centrale per lo ius publicum Europaeum (da Hobbes a Rousseau, da Hegel a Stein, fino ad Heller e Mortati), che vede nello Stato politico qualcosa di autonomo, il vero "interno" dell'ordine sociale, pur avendo tematizzato, in alcune sue figure cardine (Stcin, Hellcr, Mortati), l'articolazione del "corpo politico" dello Stato, assumendo le sfide di una sua (parziale) socializzazione emerse con la modernità matura e la politica di massa. Una tradizione che mantiene, pur con differenze e alleggerimenti, la politicità (statuale cd eventualmente partitica) come qualcosa di distinto dalle altre forme associative, sia quando si focalizza, come nella linea che va da Hegel a Heller, sull'articolazione plurale, complessa dell'unità politica, o punta sulla "materialità" della costituzione (nozione mortatiana, ma che ha antecedenti in Stein, Smend, e in fondo nella stessa Verfassung hegeliana), sia quando, come in Rousseau 25, il principio d'ordine di una collettività concreta viene individuato nell'assiologia polemica della volontà generale (universale perché anti-particolaristica), che mira a una problematica saldatura legge-corpo politico per evitare l'espropriazione dell'universale collettivo da parte dei governanti. Ora, guardandola con attenzione, la nozione gramsciana di egemonia, pur pagando il suo debito marxista assumendo lo Sta-

.1s In Rousseau il ruolo della sovranità è assunto dalla volontà generale, che è il nuovo principio di legittimità razionale dello Stato.

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to "esterno" come rivelativo della reale natura della società civile, può essere fatta rientrare anch'essa tanto nel solco della Verfassung materiale, quanto in quello della radicalizzazione della democrazia, poiché punta alla costruzione (certamente a partire dal terreno della società civile, ma per radicarvela, non per dissolvervela) di un' eteronomia politica antagonistica (non schiacciabile del tutto sull'immanenza della società). La forza egemonica è interna/esterna al sociale, cioè da quel crogiuolo sorge ma ad esso è irriducibile: si concilia con il superamento della scissione Stato politico-società solo se questo obiettivo viene proiettato in avanti, come telos metapolitico. In fondo, l'egemonia gramsciana mira a occupare lo spazio dello Stato politico, portandovi gli esclusi dal dominio borghese, che divengono "dirigenti", grazie al partito-principe. Il concetto di egemonia si inscrive pertanto nella vicenda mitopoietica dell'appropriazione di massa della sovranità moderna, cioè della sua profonda trasformazione imposta dall'irruzione nello spazio pubblico dell'ambivalenza produttiva del "popolo" (matrice generativa dell'ordine e fattore mobilitante degli esclusi). Dallo Statopersona si può passare, da un lato, alla "costituzione materiale", dall'altro all'egemonia del "partito-principe": entrambe le strade, parallele, condividono la centralità di forze "eccedenti", che ereditano l'energia "sovrana", ma sorte sul terreno sociale. A dispetto dei retaggi finalistici cd escatologici del pur eretico pensiero gramsciano, a mio avviso non solo non è illegittimo, ma è assai promettente leggere l'effetto Gramsci all'interno del solco democratico-radicale, che muove da Rousseau (il quale, pur contrapponendovisi politicamente, si inserisce dal punto di vista concettuale nell'asse hobbcsiano dell'autorizzazione dal basso del potere e della "costruzione del popolo") e sfocia oggi in posizioni come quelle di Rancière e Mouffe, pur nelle reciproche differenze: per il primo si tratta di politicizzare il popolo proprio in quanto "resto" negativo, "parte dei senza parte", contrapponendosi alla sterilizzazione liberale della democrazia (per molti versi in analogia alla proposta populista di Laclau), per la seconda, l'obiettivo è introdurre sì una robusta dose di agonismo, ma in una cornice in definitiva libcraldcmocratica. Sono tutti modi per andare oltre Gramsci, rendendone produttiva l'eredità. Non mi pare casuale che tutte queste strategie teoriche si inscrivano nel contesto di un recupero del "politico" su un piano di immanenza.

La democrazia corretta Jacqucs Rancièrc

Nota introduttiva Il testo che segue è stato pubblicato nel 1990 in un numero della rivista «Le Genre Humain», intitolato Il consenso, un nuovo oppio?. Il lettore può trovarvi in germe un certo numero di idee e di analisi che sono state sviluppate quattro anni dopo nel Disaccordo, ma può anche essere disorientato dal contesto in cui esse sono state introdotte. Se questo articolo intende distinguere la democrazia dalla propria caricatura consensuale, si serve, per farlo, di un metodo indubbiamente molto strano. Infatti, si lascia condurre dalla frase di un nemico della democrazia, Tucidide. E questa frase ci induce ali'equivoco perché loda il governo di Pericle, icona della democrazia ateniese, per essere stata una mera apparenza della democrazia, una copertura dell'esercizio del potere aristocratico del migliore. Come estrarre da questo elogio di una democrazia apparente una definizione positiva della democrazia che si opponga alla sua caricatura consensuale? La risposta a questo paradosso sembra essere un nuovo paradosso: per separare la democrazia dal consenso, occorre conferirle tutto il suo valore d'apparenza. Siamo onesti: se il lettore di oggi può rimanere perplesso di fronte a questa dimostrazione è perché io stesso, in quell'epoca, ero incerto sull'esito del percorso che avevo intrapreso 1 • Ero stato invitato da sollecitazioni esterne ad avventurarmi su un territorio che non era mio, quello della teoria politica. Lo avevo fatto in un contesto specifico, segnato da un duplice e ambiguo successo della democrazia: la fine della dittatura del Generale Pinochet in Cile e il crollo dell'impero sovietico. 1 Ho provato a fare il punto su queste incertezze nella prefazione da mc scritta per la pubblicazione dc Ai bordi del politico: dr. Jacqucs Rancièrc, Aux bords du politique, Gallimard, Paris 1990; tr. it di A. lnzcrillo, Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2.011.

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Tuttavia, avevo portato su questo territorio una preoccupazione che ha caratterizzato tutto il mio lavoro: una insoddisfazione per le tradizionali opposizioni tra le parole e le cose, tra la forma e il contenuto, tra l'apparenza e la realtà che vi si cela. Un lungo lavoro sulle forme dell'emancipazione operaia mi aveva condotto a criticare la doxa marxista che faceva delle forme democratiche una mera apparenza che nasconde la realtà del dominio capitalista. Il riemergere ambiguo del significante "democrazia" fu per me l'occasione di trasformare questa critica in una ricerca positiva sul senso di quella parola. E mi sembrò che il modo migliore di impostare questo lavoro fosse prendere le mosse non tanto dalla prosa ufficiale e mediocre, che celebrava in quel momento il trionfo planetario della democrazia, quanto piuttosto da quei pensatori che, dalle origini, avevano visto nel "governo del popolo" uno scandalo da abolire o una inquietudine a cui porre rimedio: Platone, per il primo aspetto, Tucidide, e soprattuto Aristotele, per il secondo. In Platone, c'era la denuncia di quella incostanza, propria dell'uomo e della società democratici, che vanifica qualsiasi possibilità di buon governo. In Aristotele, c'era l'arte di venire a patti con la lotta tra i ricchi e i poveri attraverso artifici istituzionali che, in un'identica costituzione, permettessero ai ricchi di vedere una oligarchia, ai poveri una democrazia. Con e contro Platone, avevo cercato di dare un valore positivo alla democrazia come modo di essere collettivo e individuale. E avevo tentato, allo stesso modo, di pensare un uso democratico degli artifici attraverso cui Aristotele pensava di imporre una regola all'eccesso democratico. Tuttavia, facendo ciò, restavo rinchiuso in quello stesso schema classico in cui si muovono sia le scienze politiche che la routine del governo: lo schema che conferisce alla democrazia una duplice esistenza, come forma sociale caratterizzata dall'aspirazione di tutti agli stessi piaceri e come forma costituzionale del potere popolare esercitato dai suoi rappresentanti. È questa cornice che ho tentato di rompere nel Disaccordo, sostenendo una duplice tesi: in primo luogo la democrazia non è una forma di società. Essa è l'interruzione della logica ordinaria attraverso cui la superiorità di un gruppo sociale si trasforma in titolo che dà accesso al governo. In secondo luogo, essa non è una forma di governo, ma la rottura delle logica ordinaria di governo secondo la quale il governo spetta a quanti vi sono destinati in virtù di una competenza specifica. Il potere del popolo è propriamente il potere paradossale di quanti

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non hanno alcun titolo a esercitare il potere. Non ero ancora arrivato a questo punto, quando ho scritto La democrazia co"etta. Testo che rappresenta comunque un passaggio essenziale nel mio percorso, per via dcli' oggetto di riflessione propostomi dalla sollecitazione di un amico: il consenso. Con questo termine s'intendeva, allora, l'annullamento delle tradizionali fratture politiche tra sinistra e destra o tra conservatori e socialisti. Ho cercato di sondarlo per dargli il suo significato essenziale: il consenso è il processo che fa scomparire l'istanza simbolica del potere del popolo riducendolo alla gestione pacifica degli interessi globali di una società. Mostrando che la pacificazione del conflitto politico, così promessa, dà inizio a una guerra implacabile contro un altro assoluto, nemico o escluso non simbolizzabile, il mio testo invitava a ripensare la funzione simbolica essenziale della sfera d'apparenza del popolo che viene a rompere la logica "normale" dell'ordine sociale e dei meccanismi di governo. L'idea ambigua di una democrazia "corretta" (corrigée) ha attivato quindi l'esigenza di una democrazia da ripensare. A tal proposito, questo testo di trenta anni fa è purtroppo ancora molto attuale.

J. Ottobre

R.

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La democrazia corretta «Dal nome, era la democrazia, nella realtà, il governo di uno solo». In politica tutto dipende da alcune formule fondamentali. Tuttavia è necessario sapere come le si voglia intendere. Cominceremo dalla seguente ipotesi: la celebre frase di Tucidide sul governo di Pericle non è "politica" nel senso in cui traduce la saggezza disincantata di chi è abituato a comandare e prende atto dell'opposizione tra le parole d'effetto e le realtà sostanziali. Lo scarto tra le parole e le cose, di cui, d'altra parte, Tucidide conosce bene la perversione, definisce lo spazio stesso della razionalità politica. La democrazia quindi non è nient'altro che un nome o un'illusione. È un modo di disporre il nome e l'apparenza del popolo, di mantenerlo presente nella sua assenza. Tucidide ci dice: la democrazia non è precipuamente la gestione degli interessi della comunità, e neppure la semplice arte di soggiogare la

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plebaglia con parole d'effetto. La politica è il dispositivo che mantiene il popolo nell'elemento della visibilità imposta dal suo nome: il popolo, quel soggetto situato nello scarto stesso tra la finzione della comunità e l'eccesso di realtà della plebaglia, collega e disgiunge l'una e l'altro, si profila e scompare nella combinazione dei loro tratti.

Dispari e anarchico Nelle pagine che seguono, s'intende soltanto far riecheggiare la singolarità delle parole di Tucidide nell'ambito della soddisfazione vagamente preoccupata di un presente che approva il trionfo delle democrazie, domandandosi al contempo se esse siano governabili. Il presunto cinismo dell'amico dei sofisti si prende gioco della gravità delle nostre domande. Sa bene che la questione della politica coincide con il chiedersi se le democrazie siano governabili. Ma sa anche che è una questione sempre già risolta: le democrazie sono allo stesso tempo governate e ingovernabili, governate in quanto ingovernabili. C'è politica, arte e scienza politiche, perché c'è democrazia. La politica si trova come già-presente nella fattualità democratica, nella stranezza stessa di quell'accostamento di parole che unisce la quantità indeterminabile del démos all'azione indefinibile del kratein. Il disordine fondamentale di quell'accostamento non consiste nel fatto che il popolo sia troppo ignorante per gli affari che richiedono conoscenza, troppo incostante per quelli che richiedono stabilità, troppo esaltato là dove occorre essere prudenti, troppo bassamente meschino là dove occorre volare alto. Il disordine fondamentale sta nel fatto che il popolo è sempre più e meno di sé stesso: la maggioranza invece dell'assemblea, l'assemblea invece della comunità, i poveri invece della città, gli applausi in segno di accordo, le schede 2 contate al posto di una decisione presa. Il conto maggioritario delle schede e le lamentele sulla stupidità della maggioranza sono il male minore rispetto a quell'unoin-più, a quella differenza da sé che costituisce il demos come tale. Il popolo è allo stesso tempo dispari e anarchico. La lingua ne reca testimonianza: al soggetto demos non può corrispondere alcuna

2. N.d.T. Nel testo francese si trova il tennine cailloux, che rimanda agli ostraka, i cocci su cui, nella democra7.ia ateniese, si iscrivevano i nomi in vista di diversi tipi di votazione.

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arché, alcun modo di comandare partendo da un inizio, da un principio, ma soltanto una cratia, un modo di avere la meglio. Perché si è i migliori, dicono gli ammiratori di Pericle, Tucidide e Calliclc? Perché la si spunta, risponde il suo detrattore Platone. La cratia del migliore - kreitton - non è una qualità, né un sapere definibile, ma quella semplice marcia in più grazie alla quale vince, in seno al popolo, chi si sottomette meglio alla legge del suo desiderio, così come riceve da esso più potere chi gli dà più arsenali, colonie e prove della sua importanza. Vuno-in-più della democratica si lascia sempre ricondurre al sempre più del desiderio insoddisfatto e dell'imperialismo economico che fa della democrazia la figlia dcli'oligarchia e la madre della tirannide. Il pensiero della politica nasce da una scelta rispetto alla democrazia: la si dichiara ingovernabile, poiché è il regime della disparità e si affida la salvezza della città all'uso filosofico delle parole e a quello matematico del numero; oppure la si governa partendo dalla sua disparità, dalla sua ingovernabilità, e si fa uso per lei e contro di lei della distanza da sé che la costituisce: fissando regole costituzionali e prassi di governo che permettano al popolo di godere della visibilità del proprio potere, nella dispersione e nella delegazione stessa dei propri attributi e prerogative. T aie è per esempio la pratica dei patteggiamenti - sophismata -, che Aristotele oppone alla condanna platonica della sofistica democratica. Ipotesi di una democrazia corretta, governata dall'uso ragionevole della sua ingovernabilità, nella quale non ci sia né furbizia, né contrasto cinico o contrito tra le parole e le cose, tra la scena e le quinte, ma la realizzazione dello scopo della politica, la guida armoniosa della comunità attraverso la discordia, la diseguaglianza del popolo rispetto a sé stesso. Il trionfo dei fatti concreti sulle parole a effetto è allo stesso tempo il trionfo del logos politico sulla fattualità democratica. E sarebbe tentante riportare su questo terreno l'incontro della fattualità con il rigore di una dialettica che realizzi l'essenza della politica attraverso la sua stessa negazione. Ci sarebbe quindi, prima, l'idea della politica, l'archetipo del primo libro della Politica di Aristotele: la comunità fondata sul potere specificamente umano del logos, potere di esprimere ciò che è utile e dannoso, e di conseguenza, ciò che è giusto e ingiusto.

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Ci sarebbe, in secondo luogo, la semplice fattualità della città divisa tra i ricchi e i poveri, opposti non soltanto dalla fortuna, ma anche dal desiderio di potere. E ci sarebbe, infine, il sistema delle forme e dei patteggiamenti attraverso i quali il logos del politico si realizza nella sua capacità di superare la doppia divisione del popolo: la sua differenza rispetto a sé stesso e la divisione in classi. È possibile tuttavia che questa dialettica della ragione comunitaria, che si afferma sulla fattualità della divisione, tralasci il nodo essenziale della politica, la sua vera e propria "origine". Perché, come intendere esattamente l'espressione fondamentale dell'utile e del dannoso che si attua in deliberazione sul giusto e sull'ingiusto? In che modo l'espressione dell'utile - in Aristotele, to sumpheron: ciò che contribuisce, ciò che riunisce servendo, ciò che serve riunendo - può comportare quella del giusto, della giustizia come principio della politica? Il sun di sumpheron non basterà mai a differenziare la comunità umana dalle comunità di api e di formiche. Eraclito lo sapeva già: il logos è sumpheromenon I diapheromenon. Per arrivare al giusto partendo dall'utile, occorre passare dagli opposti: blableron I adikon, il dannoso quindi l'ingiusto, come spesso si traduce. Ciò equivale tuttavia a occultare il cuore della questione : l'asimmetria del sumpheron e del blaberon. Il blaberon non è il dannoso. È quanto fa torto o danno. L'utile concorso - onesta fantasticheria dcli'età liberale - riguarda la costituzione della politica soltanto mediante il litigio, mediante quel torto che è opposto all'utile senza essergli simmetrico. La fattualità della divisione dei poveri e dei ricchi non è l'ostacolo al di là del quale il logos politico deve ritrovarsi. Quella fattualità dà corpo al litigio attraverso il quale l'ordine dell'utile accede a quello del giusto. La democrazia nomina questo litigio, nominando allo stesso tempo la differenza del popolo rispetto a sé stesso e il potere d'apparenza legato alla proclamazione del suo nome. La politica dipende dal fatto democratico, dal modo in cui la democrazia dispiega la propria fattualità sotto forma di tre figure: quella dell'apparenza dispiegata dal nome del popolo, quella della disparità del suo conteggio, e quella del litigio legato ali'opposizione tra i ricchi e i poveri. C'è politica prima di tutto perché ci sono nomi che dispiegano la sfera di apparenza del popolo, anche a costo di separarsi dalle "cose", in secondo luogo perché il popolo è sempre in eccesso o in difetto rispetto alla forma in cui si manifesta; in terzo luogo perché il

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nome del popolo è al contempo quello della comunità e quello di una parte - o piuttosto di una partizione - della comunità. Lo scarto tra il popolo come comunità e il popolo come divisione è il luogo di un litigio fondamentale. Il popolo possiede, prima del re, un doppio corpo. La politica non dipende dal fatto che sia utile riunirsi o dal fatto che ci si riunisca per occuparsi adeguatamente degli affari comuni, ma dal fatto che ci sia un torto o un'ingiustizia da riparare. Tuttavia, il torto politico legato al doppio corpo del popolo non è un torto qualsiasi. Da una parte, non si lascia ricondurre al torto giuridico che un tribunale può giudicare basandosi sulla legge o sulla norma. L'inconciliabilità delle parti è anteriore a ogni litigio particolare. Ma, d'altra parte, questa inconciliabilità non s'identifica con una guerra implacabile o con un debito infinito. Il movimento del torto, reale operatore del passaggio della società animale ordinata alla comunità politica umana, si staglia sul fondo di un'alterità radicale, a cui Aristotele conferisce un profilo emblematico: quello dell'estraneo a ogni consorzio umano, colui che è al di sotto o al di sopra dell'umanità: mostro impegnato in una guerra totale o divinità al di fuori di ogni tipo di reciprocità. Tra il regolamento giuridico e il debito infinito, tra il diritto e la religione, il litigio politico rivela un'inconciliabilità che è al contempo riparabile; essa dà luogo a violente forme di manifestazione dell'alterità e di trattamento pacifico del conflitto, entrambi in eccesso rispetto a a ogni tipo di dialogo tra gli interessi rispettivi delle parti e a ogni regola che stabilisca una qualsiasi forma di reciprocità tra diritti e doveri. In nome del popolo vengono a rispondere soggetti che si fanno carico del torto, esibiscono il corpo di un litigio inconciliabile e avviano al contempo le procedure del suo trattamento argomentativo. C'è politica in virtù della presentazione democratica di tale dispositivo dell'apparenza, della disparità e del litigio. Ciò significa che la politica non c'è semplicemente perché si tratta del potere o dello Stato. Quel che si annovera nella storia politica associa al dispositivo propriamente politico altri apparati di potere legati all'esercizio della regalità, al vicariato della divinità, al comando degli eserciti e alla gestione degli interessi. E laddove si annuncia la "fine" del politico, ad essere messo realmente in discussione è questo dispositivo dell'apparenza, della disparità e del litigio. E quanto avviene quando l'apparenza si perde nel regno dell'esibizione universale della realtà, il litigio nell'oggettivazione dei "pro-

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blemi" comuni e delle strade intraprese per risolverli, la disparità nel conteggio permanente dei sondaggi pre-elettorali, delle percentuali di gradimento che accompagnano il conteggio permanente dei buoni e dei cattivi livelli della gestione degli affari comuni. L'esibizione al posto dell'apparenza, il conteggio esaustivo al posto della disparità, il consenso al posto del litigio, tali sono le figure regolatrici di questa correzione contemporanea della democrazia che è pensata come fine della politica, ma che converrebbe forse chiamare post-democrazia. Figure d'una razionalizzazione dell'ingovernabilità democratica in cui l'esaustività di ogni conteggio e di ogni immagine, come la produzione illimitata di leggi e articoli finalizzati a prevedere e a risolvere ogni litigio, si sorprendono nel vedere apparire improvvisamente le figure rinnovate del mostro e quelle della spietata divinità.

La metapolitica moderna La politica rinasce, nell'età moderna, quando si dispiegano nuovamente il nome del popolo e lo spazio del litigio al quale questo nome dà corpo. Chi pensa la politica attraverso lo Stato, come fanno ostinatamente i nostri liberali anti-statalisti, può sempre far derivare lo Stato repubblicano dalla formazione regale dello Stato-nazione. Invece, la politica rinasce quando la sfera di apparenza del popolo si impone di nuovo ai prestigi della maestà regale e alle insegne del vicariato divino. Rinasce quando il popolo riappare come luogo di una divisione e quando questa divisione viene a manifestare di nuovo, nel cuore della leggenda comunitaria, la dissimmetria tra il sumpheron e il blaberon. È a questo punto che vengono proposti nuovi nomi per il popolo e nuovi soggetti capaci di esibire e trattare il suo torto: repubblicani, democratici e rivoluzionari, ma anche operai e proletari. Ma è proprio in questo momento che, intorno alle blande fantasticherie del sumpheron che unirebbero la comunità industriosa, vengono ad aggirarsi le ombre più ingombranti del popolo sovrano, che risolve ogni litigio, e del corpo del popolo oppresso, come luogo di un torto assoluto. Qui si afferma la singolarità della politica moderna: essa dispiega ancora una volta il dispositivo dell'apparenza, del litigio e della disparità democratica, raddoppiandolo con una metapolitica che designa quanto il dispositivo non è in grado di sostenere, la sua

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contraddizione o la sua ipocrisia, la sua crisi o la sua fine. La politica moderna nasce raddoppiata dal pensiero della propria abolizione. Quanto era normale per Aristotele e Tucidide - cioè che il popolo fosse ad un tempo il tutto e la parte, sovrano e non sovrano - è oramai oggetto di scandalo per il pensiero. E indubbiamente Platone aveva già concettualizzato l'opposizione assoluta tra la repubblica e la democrazia, aveva già opposto una metapolitica, una politica dcli'arché, alla fattualità democratica. La metapolitica moderna viene tuttavia ad avvolgersi al cuore stesso della politica. Esige che i nomi della politica siano simili alle realtà da essa investite o che quelle realtà siano simili ai suoi nomi. L'apparenza del popolo deve essere fissata negli attributi della sovranità, o l'apparenza della sovranità sciolta a beneficio della realtà del popolo produttore. La disparità democratica, fissata sotto forma di legge del suffragio maggioritario, vacilla tra la componente irrappresentabile della sovranità e la componente incalcolabile del torto arrecato ai poveri. Il popolo democratico deve essere istruito nell'ambito delle forme della didattica repubblicana oppure la repubblica deve essere riportata alla verità del regno degli interessi. Così, a costo di fragili alleanze, vengono ad urtarsi gli elementi di un dispositivo democratico a cui si chiede di far coincidere i nomi e le cose, la verità e le apparenze. Secondo i liberali, le arcaiche passioni legate al nome del popolo alterano la virtualità del dominio del sumpheron, di quel concorso dell'utile e del giusto che mette fine al litigio. Secondo i socialisti, il diritto dei produttori viene ad opporsi ai nomi della politica o la guerra delle classi alle finzioni del potere giuridico. Il genio di Marx consiste nell'aver tracciato, in alcuni testi ancora attuali, tutto il teatro della politica e della metapolitica moderna: i nomi e le toghe della politica antica dispiegati per liquidare la maestà regale e la moderna gestione degli interessi; i portenti dell'industria borghese e le acque ghiacciate del calcolo egoista; la critica dei diritti umani e la denuncia dell'assenza assoluta di diritti dei proletari; la missione della classe senza qualità e il futuro potere del produttore, la scomparsa dello Stato parassita e la dittatura del proletariato. Marx fissa inoltre la drammaturgia essenziale di questo teatro - o meglio, la sua doppia drammaturgia: la tragedia del torto irreparabile inscenata sul fondo dell'idillio di una giustizia sorta dal regno della produzione utile. Converte lo scarto della democrazia rispetto a sé stessa nello scarto del politico a sé e dà a questo scarto un nome che sarà adottato da

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tutta la modernità, anche a costo di ritorcerlo contro sé stesso. Lo chiamerà ideologia. Ideologia non è soltanto un nuovo nome assegnato a una vecchia nozione (illusione, simulacro o altro). Ideologia è il nome della distanza, infinitamente accusata, che separa i nomi dalle cose, I'operatore concettuale che organizza le congiunzioni e le disgiunzioni tra gli elementi del dispositivo politico moderno. A fasi alterne, essa permette di diminuire l'apparenza del popolo al rango di un'illusione che nasconde la realtà del conflitto, oppure, invece, di accusare i nomi del popolo e le manifestazioni del suo litigio di essere quel vecchiume che ritarda l'avvento degli interessi comuni. Ideologia è il nome che lega la produzione del politico alla sua abolizione, che designa la distanza tra le parole e le cose, come quel disordine che, insito nella politica stessa, può essere trasformato in disordine della politica. È il termine sempre mobile che permette, ridistribuendo a piacimento i rapporti tra l'apparenza e il litigio, di spostare incessantemente il luogo del politico, fino al suo limite: la dichiarazione della sua fine. La "fine del politico" denomina il compimento di quel processo attraverso cui la metapolitica, avviluppata al cuore del politico, svuotandolo dall'interno, fa scomparire, in nome della critica delle apparenze, la mediazione del torto e dell'ingiustizia, fino alla mera riduzione della giustizia politica al ragionevole regno del sumpheron.

Il razzismo: la malattia del consenso L'ipotesi della democrazia consensuale si enuncia pressappoco in questi termini: siamo giunti alla fine del tempo in cui regnava l'apparenza del popolo e il suo litigio. Ne siamo usciti sia per la sconfitta dei poteri "operai" che per l'energia con cui abbiamo sviluppato e condiviso le nostre ricchezze, moltiplicato le forme di soddisfazione individuale e le forme di concertazione collettiva. Possiamo oggi trattare la divisione per quel che è divenuta: una forma di concorrenza, une modalità del concorso attraverso cui la produzione dell'utile si converte in produzione della giustizia. Possiamo dare alla realtà della democrazia quel che togliamo alla sua ombra, liberare la sua disparità dai prestigi dell'apparenza e dalle inflazioni del litigio. Oggi, il difetto della rappresentazione - la differenza della maggioranza parlamentare rispetto al popolo sovrano, come anche ri-

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spetto alla molteplicità dei cittadini, o addirittura l'assenza di maggioranza o il vuoto dell'emiciclo - può essere corretto attraverso prassi che presentificano il popolo e le sue parti, che oggettivano esaustivamente problemi, soluzioni e regole di discussione. Prassi che armonizzano il conteggio delle parti e l'immagine dell'intero all'interno del calcolo ininterrotto che presentifica la somma dell'opinione pubblica come elemento identico al corpo del popolo. Prassi atte a convertire in problema ogni oggetto di litigio capace di rianimare il nome del popolo e l'apparenza della sua divisione. Ogni litigio è il mero sintomo di un problema e un problema non è nient'altro che la mancanza dei mezzi necessari a risolverlo. La manifestazione del torto deve lasciare posto all'identificazione e al trattamento della mancanza: mancanza di beni da condividere o di regole atte a evitare preventivamente i conflitti a cui risponderanno, da una parte, la crescita all'infinito, dall'altra, il proliferare di leggi e articoli di legge. All'enumerazione completa dei problemi da risolvere e delle lacune da colmare deve infine corrispondere un'enumerazione esatta delle parti sociali, necessarie e sufficienti per intavolare una discussione e per risolvere ogni problema. L'immagine della tavola rotonda, appropriata al problema affrontato, oppone la propria completezza al vuoto dell'emiciclo, identificandola al 100% della popolazione, intervistata ogni giorno, in vista dei sondaggi, sui propri desideri e sulle proprie scelte e presentificata nella somma esatta delle proprie divisioni. All'oggettività dei problemi e all'enumerazione dei partners sociali adeguati deve poi rispondere l'appianamento delle opinioni nella direzione della soluzione che s'impone da sé come unica soluzione ragionevole. La politica si prefigge, così, una finalità edificante. La democrazia, ripulita dai suoi orpelli teatrali, viene a identificarsi con quel dialogo, a quella ricerca comune dell'homonoia che Platone opponeva alle seduzioni della retorica e al baccano delle assemblee e dei teatri popolari. Ma Platone non si accontenta di una così povera ricompensa. La differenza tra il dialogo e la persuasione retorica non definisce per lui alcuna possibile correzione della democrazia. Essa definisce invece la differenza radicale che separa la filosofia dalla democrazia. La democrazia non è filosoficamente riscattabile. Ed è sicuramente ridicolo proporre il suo riscatto dialogico attraverso una discussione sui vantaggi e gli svantaggi, sul bilanciamento

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degli interessi. La disparità è essenziale alla democrazia. Il solo dialogo che le si addice è quello in cui ci si ascolta senza ascoltarsi, il dialogo della scena teatrale. La democrazia è strettamente legata al teatro tragico, al litigio irrisolto. L'esperienza democratica moderna confuterà l'eccessiva semplicità dell'identificazione operata da Platone tra la disparità democratica e il sempre di più, proprio al desiderio della plebaglia. Ma confermerà quanto meno l'intuizione di Platone: la democrazia non è la ricerca dell'homonoia- e soprattuto non è l'idillio che nasconde, sotto gli abiti della discussione filosofica, la discussione degli interessi comuni. Il dialogo democratico assomiglia in questo al dialogo poetico, quale lo definisce Mandel'stam: l'interlocutore vi è indispensabile, ma lo è anche la sua indeterminatezza, l'aspetto inatteso del suo volto3. Il dialogo democratico rifiuta l'oggettivazione delle parti sociali e dei loro "problemi". Un interlocutore non è una parte sociale. E gli avanzamenti della democrazia si sono sempre compiuti tramite l'improvvisazione di attori non programmati, di interlocutori in soprannumero: una folla rumorosa che occupa le strade, una folla silenziosa che incrocia le braccia in una fabbrica ... Non si tratta di spontaneità popolare, ma di disparità democratica. Nessuna "brutalità" contro l'organizzazione. Queste folle improvvisate hanno saputo rapidamente darsi dei rappresentanti che andassero a parlare civilmente con i rappresentanti della ricchezza e del potere, quando costoro erano ben disposti all'ascolto. Il torto politico, l'abbiamo già detto, può essere riparato. Ma riparare il torto non significa risolverlo definitivamente. Presupporre la comunanza del linguaggio e la comprensione delle ragioni reciproche, in vista della sua manifestazione e della sua argomentazione non significa oggettivare il torto in un problema per il quale le forze sociali cercherebbero insieme una soluzione. Le parti che si affrontano non compongono una totalità che possa portare a termine la sua risoluzione. Il soggetto che dà corpo e voce al litigio non possiede la qualità di dichiararlo chiuso. E non è il caso, come fa Habermas, di opporre una formazione discorsiva della volontà democratica al compromesso liberale degli interessi. La democrazia non è né il compromesso degli interessi, né la formazione di una volontà comune. Il suo dialogismo è quello di una comunità divisa, non perché

3 Cfr. Osip Mandcl'stam, A proposito dc/l'interlocutore, in Id., Sulla Poe.sia, tr. it. di M. Olsouficva, Bompiani, Milano 2005.

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l'universale le sia indifferente, ma perché l'universale in politica è sempre polemico. Il torto politico non si risolve mai definitivamente, ma si ripara attraverso l'inconciliabilità, in una comunità sempre instabile e eterogenea. Anche per questa ragione non è il caso di opporre la logica post-moderna della dispersione dei giochi di linguaggio e dell'eterogeneità del dissidio, alla logica moderna del litigio fondato sul linguaggio comune del torto, il grande racconto del popolo e la prescntificazione della vittima universale. Da una parte~ il posto del torto nel dispositivo politico è anteriore e precipuo rispetto a qualsiasi figurazione di una vittima universale. E la cancellazione del primo non implica il vuoto dell'altra. Le metamorfosi del popolo e del suo litigio non si riducono a una tale figurazione metapolitica. D'altro canto, l'omogeneità del litigio e del racconto proletari non si oppongono semplicemente alla pluralità dei giochi di linguaggio. Il regno del litigio non è il regno dell'omogeneità. E il grande racconto proletario emblematizza una molteplicità di piccoli giochi di linguaggio e di piccoli litigi, esemplificazioni e messe in scena del torto che circolano sempre sulla frontiera che separa l'omogeneo dall'eterogeneo, mescolando sistematicamente i regimi dell'enunciazione e criticando la comunità al tempo stesso in cui la costituiscono. Il litigio è la vera misura dell'alterità, quella che unisce gli interlocutori mantenendoli a distanza. Anche in questo caso, è possibile applicare alla politica quanto Mandel'stam dice dell'interlocuzione poetica: non è un problema di acustica, ma di distanza. È l'alterità che dà senso all'eterogeneità dei giochi di linguaggio, e non viceversa. Inoltre, i sogni di una nuova politica dell'alterità, ristretta e generalizzata, di reti multiformi che sviano i flussi della macchina della comunicazione e dell'informazione, hanno già ottenuto i risultati deludenti che tutti conosciamo. A meno che non sia religiosa, l'alterità non può essere che politica, cioè fondata sul torto inconciliabile e riparabile. Quando il dispositivo del litigio scompare, quel che domina al suo posto è la mera piattezza del consenso, che presenta tempestivamente ai realisti, soddisfatti dalla pacificazione delle passioni politiche del popolo, la sua inevitabile controfigura: il ritorno all'animalità politica, il puro rifiuto dell'altro4. L'attuali-

4 Cfr. Jacqucs Rancièrc, Aux bords du politique, Gallimard, Paris lnzcrillo, Ai bordi del politica, Cronopio, Napoli 2.011.

1990;

tr.

it di A.

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tà ne dà testimonianza nella derisoria buona volontà all'opera nelle tavole rotonde consensuali, destinate a risolvere i problemi di cui le recenti esplosioni del razzismo sarebbero il sintomo. Il guaio è che il razzismo non è un sintomo, ma una malattia, e più esattamente la malattia stessa del consenso, la misura persa dell'alterità. È lo stesso movimento che esaspera la figura dell'altro nel semplice rifiuto razzista, facendola scomparire nella problematizzazione dell'immigrazione. È il "ragionevole" annullamento dell'apparenza nell'esposizione, della disparità nel computo e del litigio nel consenso a far riemergere il mostro, nell'assenza del politico. È il computo esaustivo della popolazione, sottoposta ininterrottamente ai sondaggi, a creare, al posto del popolo, dichiarato arcaico, quel soggetto chiamato "I Francesi", che, oltre alle previsioni perentorie sul futuro politico di questo o quel vice-ministro, si manifesta prevalentemente attraverso opinioni categoriche sul numero eccessivo degli stranieri, sull'insufficienza della repressione e sul comfort scandaloso delle prigioni. È il regime dell'esibizione universale e la sua conseguente promessa di una soddisfazione integrale di tutti i fantasmi al solo prezzo di quattro cifre e di altrettante lettere a esporre, in mezzo alla rassegna degli oggetti di piacere, la figura del guastafeste. È l'annientamento del soggetto del litigio a creare la vittima senza parola, l'oggetto di un odio implacabile. L'immigrato è principalmente un operaio che ha perso il proprio nome, che non è più visibile come tale. In sostituzione dell'operaio o del proletario, oggetto del torto dichiarato e soggetto che espone il proprio litigio alla lotta e al dibattito, l'immigrato appare contemporaneamente come il fautore di un torto irriducibile e come l'oggetto di un problema da affrontare in una tavola rotonda. L'oggetto del problema e l'oggetto dell'odio formano un cerchio, se non una spirale, spirale dell'alterità politica perduta, destinata a quell'odio indicibile che accompagna la "depassionalizzazione" realista dei problemi. In politica non esiste "depassionalizzazione"; esiste la passione per l'uguaglianza oppure la passione per la diseguaglianza, come è provato dalla ingenua o cinica risposta degli onesti oppositori, invitati alle tavole rotonde : disposti a discutere, se prima avete ceduto sull'uguaglianza; a integrare l'altro, se cominciate col negargli la cittadinanza. Depoliticizzare i conflitti per liquidarli, privare l'alterità della sua misura per risolvere meglio i suoi problemi, tale è la follia che il no-

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stro tempo assimila all'ipotesi di una democrazia ragionevole e facile, in cui le iniziative dello Stato si accordano ai movimenti naturali della società produttiva5, ai suoi sforzi e ai suoi desideri. Si dice che lo Stato debba essere modesto, restituendo o lasciando alla società il suo dinamismo e i suoi poteri, atti a garantire una coesistenza armoniosa dei suoi agenti. A questo scopo, occorre che lo Stato si statalizzi nella giusta maniera accordandosi al brusìo delle energie del mondo, ai ritmi della produzione e della circolazione delle cose, delle persone e delle informazioni, adottando i metodi di gestione, di comunicazione e di concertazione delle imprese. Purtroppo, perché lo Stato possa essere modesto, occorrerebbe lo fosse anche la società. L'uno non è mai né più né meno modesto dcli'altra. Ciascuno dei due presenta, a sua volta, la faccia d'immoderatezza della coppia e, in realtà, oggi è la società che fa mostra d'immoderatezza, identificandosi alla promessa continua di dare tutto a tutti, cioè identificandosi con la frustrazione continua di tutti in ogni cosa. La grande illusione della metapolitica moderna consiste esattamente in questa opposizione di una società moderata a un Stato immoderato, nella quale non hanno smesso di fondersi i liberali e i socialisti. Il freddo mostro dello Stato non ha mai smesso di lavorare per il freddo mostro della società, per tutti gli oggetti di piacere che questa espone come critiche dell'apparenza e come lieta risoluzione dell'alterità. Stato e società, questa coppia si oppone precisamente là dove la politica cade nell'oblio, cioè là dove viene meno il rapporto primo e fondante che la politica instaura con la fattualità democratica, con il dispositivo dell'apparenza, della disparità e del litigio. Non esiste preferenza tra soluzione sociale ai problemi statali e soluzione statale ai problemi sociali. La follia del nostro tempo vuole curare con il consenso le malattie del consenso. Occorre al contrario ripoliticizzare i conflitti per renderli trattabili, restituire al popolo i propri nomi e alla politica la propria visibilità, oramai svanita nella gestione dei problemi e dei mezzi. (Traduzione di Diletta Mansella)

S Cfr. M. Crozicr, État moderne, état modeste. Stratégies pour un autre changement, Fayard, Paris 1986; tr. it. di D. Lipari, Stato moderno, Stato modesto, Edizioni Lavoro, Roma 1992.

Monografica

Tra etica e politica. L'idea di giustizia nel pensiero di Jacques Derrida Silvia Dadà

Per sua stessa intenzione, il pensiero derridiano tende a sfuggire a rigide categorizzazioni e definizioni, per quanto riguarda sia la sua forma che il suo contenuto. Infatti, il procedimento con cui la decostruzione si attua porta a rinunciare a un'idea di "definizione" come spazio delimitato in cui inscrivere un dato tema, affermando la necessità di scompaginare le opposizioni tra ciò che sta dentro e ciò che invece è relegato fuori dalle dicotomie del pensiero. Considerando questo ben noto aspetto, si può tuttavia riflettere sul carattere della decostruzione stessa, ancor prima che sui suoi oggetti, e chiedersi se questa stessa messa in discussione abbia un senso primariamente ontologico, o etico, o addirittura politico. Se essa infatti, da un lato, si rivela come sempre in atto nel "testo", descrivendo quindi il fondamento infondato del reale e la sua stessa struttura ontologica, è insieme anche il compito a cui si è chiamati per aprirsi all'evento dell'altro e ciò avviene in particolare attraverso il suo impiego politico, nella messa alla prova delle istituzioni, delle leggi e di quei costrutti storici e culturali che occupano lo spazio della nostra vita sociale. Questo intreccio tra piani, presente soprattutto nella produzione matura dell'autore, sembra trovare il punto di massima evidenza nelle riflessioni riguardo al "non-concetto" di giustizia, il quale finisce quasi per sovrapporsi alla decostruzione stessa. Chiarire questa vicinanza e riflettere sul suo senso sembra la strada più adeguata per comprendere il rapporto tra il pensiero di Derrida, l'etico e il politico1 • A questo scopo il presente contributo si sviluppa attraverso 1 Utili1.ziamo qui il termine "politico" distinguendolo dalle sue concrete manifestazioni, ossia dalla "politica", rifacendoci principalmente al dibattito sul pensiero dcrridiano sviluppatosi nel 1980 ai colloqui di Cérisy-la-Sallc, dal quale hanno avuto inizio l'anno successivo i lavori del Centre de recherches philosophique sur le politique, sotto la dirc1.io-

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quattro tappe. Nella prima la questione della giustizia è introdotta in relazione al corpus derridiano e al suo presunto ethical o politica/ turn. La seconda, invece, prende in esame il testo maggiormente rappresentativo riguardo a questo tema, ossia la conferenza Dal diritto alla giustizia del 1989, facendo emergere i vari livelli o le varie forme di giustizia che Derrida descrive. Per comprendere la relazione tra queste modalità si passerà, nella terza sezione, a rintracciare il carattere performativo della giustizia prendendo in esame anche altri testi dell'autore. Infine si presenteranno, aprendo un confronto con la critica e in particolare con Simon Critchley, alcune conclusioni rispetto al rapporto tra etica e politica delineato nella precedente analisi. La nostra tesi è che, nel pensiero di Derrida, sia opportuno parlare di etico-politico, a causa della difficoltà di scindere i due ambiti. Ciò non significa che essi coincidano o possano essere identificati, ma che si trovano sempre in un rapporto di reciproca implicazione, che trova le sue basi proprio nell'idea di giustizia.

1.

Ethical o PoliticalTum?

Nel tentativo da parte della critica di scandire temporalmente e tematicamente l'opera di un autore sorgono sempre alcuni problemi. Anche nel caso di Derrida la distinzione tra un "primo" e un "secondo" Derrida, o la definizione di una "svolta" nel suo pensiero, abitualmente posta tra gli anni Ottanta e Novanta, ha sviluppato un vivo dibattito. C'è infatti da chiedersi se, innanzitutto, questo turn ci sia stato, e, nel caso di una risposta affermativa, quando e di che carattere esso sia. Prendendo, ad esempio, Richard Kearney, troviamo il riferimento a un iniziale "epistemological moment" seguito da un "ethical moment", a cui lo studioso fa corrispondere il passaggio da una prima influenza heideggeriana seguita da un interesse per il pensiero levinasiano:z.. La maggior parte della critica, tra cui lo stesso Keamey, concorda nel vedere in questo passaggio non tanto una netta frattura, quanto un cambio di prospettiva. Egli parla appunto ne di Jcan-Luc Nancy e Philippc Lacouc-Labarthc. Cfr. Pilippc Lacouc-Labarthc, Jcan-Luc Nancy (cds.), Rejouer le politique, Galiléc, Paris 1981. 1 Richard Kcamcy, Derrida's Ethical Re-Tum, in Gary B. Madison (cd.), Working through Derrida, Northwcstcrn Univcrsity Prcss, Evanston 1993, pp. :z.8-59.

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di un "re-turo" proprio per mettere in luce non l'abbandono, bensì la ripresa delle tematiche epistemologiche del primo periodo, ma affrontate da un punto di vista etico. C'è chi, come Simon Critchley3, invece, tende a sminuire la centralità di questa svolta, mettendo piuttosto in luce la continuità e la centralità dell'ispirazione etica nella decostruzione, valorizzando il legame con la filosofia levinasiana. Lo stesso Derrida, in effetti, si è espresso contro l'interpretazione del suo pensiero in chiave discontinua. Nella conferenza oggi raccolta in Stati canaglia egli dichiara: [ ... ] non c'è mai stato, negli anni Ottanta e Novanta, come talvolta si sostiene, un politica/ turn o un ethical turn della decostruzione, almeno così come io ne ho esperienza. Il pensiero del politico è sempre stato un pensiero della différance e il pensiero della différance è sempre stato un pensiero del politico, del contorno, e dei limiti del politico [ ... ]4.

La decostruzione, ci dice Derrida, è essenzialmente politica, e quindi le ultime opere non sarebbero altro che una naturale conseguenza di questa pratica filosofica. In effetti la decostruzione ha come proprio avversario dichiarato, sin dall'inizio, una metafisica della presenza, sistema costituito da concetti che non nascondono il loro legame con l'etica e con la politica: logocentrismo, fonocentrismo, fallocentrismo, più complessivamente etnocentrismo. La prospettiva metafisica, infatti, procede con un andamento gerarchico, per cui si stabilisce una superiorità all'interno di coppie concettuali: la superiorità del logos su altre forme di discorso, la superiorità della voce sulla scrittura, la preponderanza del campo di significato virile e paterno sulla femminilità, riunito insieme nel primato dell'Occidente. In questo lavoro, che analizza una nozione mostrandone l'intrinseca contaminazione con ciò che vi è escluso, si percepisce già quindi, perlomeno per contrasto, una spinta etica e politica 5• 3 Simon Critchlcy, The Ethics of Deconstruction, Edinburgh Univcrsity Prcss, Edinburgh 1993. 4 Jacqucs Dcrrida, Voyous. Deux Essays sur la raison, Galiléc, Paris 2.002; tr. it. di L. Oddio, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003, pp. 66-67. s Un'altra interessante possibilità sarebbe quella di parlare di impolitico, categoria che ha conosciuto con la riflessione di Roberto Esposito un ampio sviluppo e che coglie il carattere liminale con cui lo stesso Dcrrida affronta la questione del politico (R. Esposito, Categorie dell'impolitico, il Mulino, Bologna 1999, p. XIV). Sebbene la vicinanza mcto-

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Anche in Dal diritto alla giustizia egli afferma che l'opera della decostruzione, sebbene sembri non «avere come argomento centrale la giustizia, né l'etica né la politica», in molti luoghi è silenziosamente attraversata da questi temi: È evidente che i discorsi sulla doppia affermazione, sul dono al di là dello scambio, e della distribuzione, sull'indecidibile, sull'incommensurabile o l'incalcolabile, sulla singolarità, sulla differenza e l'eterogeneità sono anche, interamente, discorsi almeno obliqui sulla giustizia 6•

Essendo queste le parole dell'autore, dovremmo forse semplicemente accettarle e concludere il dibattito a favore dell'assenza di una svolta. Tuttavia, come lui stesso ci insegna, non è mai sufficiente affidarsi all'autonarrazione e alla esplicita trattazione di un problema, ed è necessario piuttosto rivolgere lo sguardo oltre il discorso dichiarato, in direzione di un non-detto o di un detto altrimenti. Sebbene, quindi, tenendo presente questi aspetti e volendo dare fede alle parole dell'autore, non si possa parlare di una svolta vera e propria intesa come nascita improvvisa di un legame tra decostruzione e etica e tra decostruzione e politica, siamo comunque dell'opinione che, anche senza parlare di una svolta, si debba comunque riconoscere che ci sia un momento in cui Derrida ha cominciato a trattare in modo più esplicito, diretto e aperto di questioni etico-politiche, e in particolare della giustizia. Si potrebbe paragonare a una sorta di graduale dologica alla decostruzione nell'elaborazione di questo concetto possa essere sicuramente una prospettiva utile per i nostri fini, scegliamo di non utili7.7.are questo termine per due ragioni. La prima è interna al testo stesso di Esposito, poiché tra gli autori in cui questo atteggiamento impolitico viene riscontrato (Arendt, Wei~ Canetti, tra gli altri) non appare Derrida. Ma, anche superando questa considerazione vedendo nell'opera stessa, più che nel suo oggetto, la traccia derridiana, ci sembra che gli sviluppi successivi del filosofo italiano giustifichino la nostra scelta. Egli infatti, soprattutto a partire dalle riflessioni sulla communitas nel suo legame con l'immu,utas, apre la strada alla tematica della biopolitica affermativa, ambito rispetto al quale il filosofo franco-algerino rimane sempre piuttosto estraneo se non addirittura in contrasto. Per comprendere il debito ma anche la distanza di Esposito rispetto a Dcrrida si veda principalmente: R. Esposito, lnter-view (with Timothy Campbe/1), tr. ing. di A. Paparcone, «Diacritics», 36, 2006; R. Esposito, A proposito di Derrida: biopolitica e immunità, «Joumal for Polities, Gcnder and Culture», 2011, 8, pp. 8-12.

li Jacqucs Dcrrida, Force de loi. Le "Fo11dement mystique de l'autorité", Galilée, Paris 1994; tr. it. di F. Garritano, Forza di legge. li "Fo11dame11to mistico dell'autorità", Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 55.

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emersione di temi che da sempre hanno accompagnato la prospettiva derridana. A questo punto subentra l'ulteriore questione, che si può cogliere già nel passo sopra citato: si tratta, in senso sfumato, di un ethical o di un politica/ turn? Derrida dice infatti che «non c'è mai stato[ ... ] un ethical o un politica/ turn», affiancando i due termini in modo pressoché indistinto. In effetti la critica si divide tra chi parla di ethical turn, e chi invece parla di politica/ turn, senza che la propensione per una delle due soluzioni sia motivata, come se si trattasse di sinonimi. Entriamo quindi nel vivo della nostra riflessione, per rispondere a questa domanda, soffermandoci sull'idea di giustizia.

2.

Diritto e Giustizia

Nella nota conferenza tenuta a New York nel 1989, momento in cui la maggior parte della critica è solita riconoscere il presunto turn, Derrida si occupa di definire i rapporti tra due dimensioni della giustizia: una, riconducibile al diritto, fatto di leggi, nella loro pretesa universalità e razionalità, riconducibili al calcolo e alla regola, ma insieme sottoposte all'incedere storico; e una giustizia che appartiene a tutt'altro ordine, quello dell'incalcolabile, dell'indecidibile, della singolarità irriducibile, quell'a/ di là che Derrida associa al pensiero di Levinas. Anche in questo testo, come in altri luoghi, egli dichiara: «sarei tentato, fino a un certo punto, di accostare il concetto di giustizia - che tendo a distinguere dal diritto - a quello di Levinas» 7• La frase a cui si fa riferimento è tratta da Totalità e Infinito: «La relazione con altri - cioè la giustizia» 8• La giustizia, quindi, sarebbe quella

7 J. Dcrrida, Forza di legge cit., pp. 73-74. Sebbene questo riferimento abbia giustamente autori7.7.ato ad accostare la visione della giusti7.ia a quella di Lcvinas, ciò non comporta che si possa fare tra le due proposte un'equazione. Innanzitutto, per il senso di questo altro, che per Lcvinas ha una dimensione eminentemente umana, mentre per Dcrrida si estende, prendendo le dimensioni più generali dell'alterità dell'evento. Oltre a questo, è necessario precisare che lo stesso termine di "giusti1.ia" assume, nelle opere successive di Lcvinas, un significato diverso, che non può essere sovrapposto a quello di etica, ma comprende anche il senso di "diritto", attraverso la figura del terzo uomo. Il tentativo di mostrare le affinità dei due autori su questo tema ha spesso condotto a una saldatura ingiustificata e scmplificatoria, di due pensieri che continuano a mantenere alcune distan7.c. 8 Emmanucl Lcvinas, Totalité et Infini. Essai sur l'exteriorité, Nijhoff, La Hayc 1961; tr. it. di A. Lingis, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità,Jaca Book, Milano 1990, p. 88.

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relazione, etica, in cui l'Io incontra l'alterità. Relazione asimmetrica infinita, ospitalità senza condizioni, con una terminologia derridiana. Tornando alla giustizia, quindi, con queste parole Derrida sembrerebbe contrapporre un piano, quello del diritto, all'interno del quale oltre alle leggi sono da intendersi anche le istituzioni (statali e non) che ammettono e in parte si fondano con la violenza e la forza nel conflitto; e dall'altra parte un piano della giustizia, intesa come apertura all'alterità dell'evento. Le due dimensioni potrebbero, tenendo conto di queste descrizioni, essere intese in termini di politico, nel caso del diritto, contrapposto o comunque distinto dall'etico, ossia la giustizia. Quindi, quest'ultima, oggetto delle nostre riflessioni, sembrerebbe aver trovato la sua dimensione propria nell'etico. Tuttavia, come l'autore sottolinea, non può esserci una semplice contrapposizione. È la stessa decostruzione a rifiutare un pensiero dualistico e antitetico, andando a scardinarlo dall'interno per far emergere la contaminazione originaria. Per comprendere questo passaggio vale la pena soffermarsi su una nota frase e cercare di approfondirne il senso. Derrida sottolinea come il diritto, in quanto ambito della legge e delle istituzioni, sia storicamente determinato, e quindi sia decostruibile. La giustizia, invece, è l'indecostruibile stesso: «La decostruzione - ci dice Derrida - è la giustiva» 9 • Da questa affermazione egli fa derivare tre proposizioni: 1) La decostruibilità del diritto (per esempio) rende la dccostru7ione possibile. 2) Anche l'indecostruibilità della giustizia rende la decostruzione possibile, anzi, si confonde con essa ' 0 •

Interessante l'inserimento di questo "per esempio" tra parentesi, il quale chiarisce il fatto che il diritto non costituisce l'unico terreno su cui la giustizia, e quindi la decostruzione, si fa, bensì, come il testo letterario, come l'ambito estetico, scientifico, per il suo essere "opera" o "testo", permette che la sua concettualità sia messa in discussione e rivoluzionata mettendone in luce le sue contraddizioni interne. Abbiamo quindi da un lato la delineazione del rapporto tra diritto e giustizia, dall'altro la sovrapposizione tra quest'ultima e la decostruzione. Ma la presunta identità tra il piano della giustizia e !1 '

J. Dcrrida, Forza di legge cit., p. 64.

0

lvi, p. 65.

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della decostruzione sembra essere in contraddizione con la terza proposizione, che Derrida chiama "conseguenza": 3) Conseguenza: la decostruzione ha luogo nell'intervallo che separa l'indecostruibilità della giustizia e la decostruibilità del diritto. Essa è possibile come esperien7.a dell'impossibile, là dove, anche se essa non esiste, anche se non è presente, non ancora o mai, c'è giustizia 11 •

La decostruzione è la giustizia, e insieme avviene tra diritto e giustizia; come dice giustamente Thorsteinsson, «elle "est" à la fois destination et parcours» 12• Ma come è possibile che la decostruzione sia, insieme, la giustizia e il ponte tra diritto e giustizia? Per capirlo, consideriamo le modalità di funzionamento della decostruzione, così come sono state in più occasioni descritte dallo stesso Derrida. Tale struttura può essere delineata attraverso tre fasi (non cronologiche). O, meglio, un momento preparatorio e due fasi, tanto che Derrida parla di "doppia scienza", "doppio gesto" o "doppia seduta" per indicare questa struttura bipartita. La fase preliminare, che potremmo definire il momento o, consiste nell'analisi del discorso filosofico preso in considerazione, nel tentativo di fare emergere gli aspetti contraddittori e problematici sui quali si fonda. Si dà poi una pars destruens, che consiste nel rovesciamento delle coppie concettuali poste in opposizione; e infine una pars construens, un momento di re-iscrizione, in cui il vecchio concetto metafisico viene aperto al suo altro. Nel caso della giustizia, l'analisi decostruttiva procede ponendo prima in evidenza gli aspetti contraddittori di questa concettualità {in questo caso, da un lato la presunta opposizione tra diritto e giustizia e dall'altro la contaminazione reciproca attraverso il concetto di forza); passa poi per un rovesciamento di questo ordine gerarchico {ponendo in luce l'eccedenza di una giustizia al di là del diritto come apertura all'alterità dell'evento); e termina con la re-iscrizione, nel concetto di giustizia stesso, di ciò che la metafisica aveva strappato da esso e posto al suo esterno (ricostituendo il legame interno col diritto). È così che secondo questa dinamica si avrà da un lato una giustizia come diritto, lbid. Bjorn Thorstcinsson, La question de la justice chez Jacques Derrida, L'Harmattan, Paris 2.007, p. 350. 11

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che si basa sul principio economico del calcolo; dall'altro una giustizia esorbitante, impossibile, incalcolabile che "si confonde" con la decostruzione; infine una decostruzione, che "è la giustizia", la quale avviene nel "calcolo dell'incalcolabile", nello spazio tra i primi due sensi di giustizia. Con questa espressione paradossale, che si ripete in più luoghi dell'opera derridiana, vediamo ancora l'incontro e lo scontro tra istanze contraddittorie ma che necessitano di stare insieme senza mai poterlo fare davvero. La giustizia infatti si trova ad essere espressa nel suo carattere dinamico, che permette di liberarla dalla fissazione concettuale e mostrare la compresenza, al suo interno, di aspetti propri del diritto e della giustizia al di là del diritto, senza ridursi a una loro unione, nemmeno in senso dialettico, poiché il risultato, la "sintesi", non è mai raggiunto, bensì continua a operare indefinitamente, non potendo mai effettivamente avvenire, in quanto "esperienza dell'impossibile". Non è quindi una contraddizione quella di indicare con il termine "giustizia" sia l'incalcolabile e indecostruibile che è reso possibile dal diritto, che la decostruzione che avviene tra i due. Sono in effetti tutte e due "giustizie" (tutte e tre, se consideriamo che Derrida chiama il diritto "giustizia come diritto"), in quanto sono parti del processo decostruttivo che vede in questo termine uno degli "indecidibili". Da qui risulta che, se accettiamo l'accostamento tra il piano etico e la giustizia "al di là del diritto", e quello tra la dimensione del politico e la "giustizia come diritto", quell'idea di giustizia che fa da ponte e che li lega in modo dinamico e paradossale, e che "è la decostruzione", si trova ad essere una sorta di piano etico-politico, in cui il limite tra i due concetti è insieme uno spazio di distinzione ma anche il loro punto di saldatura. Crediamo che questo modo di intendere la giustizia permetta di superare l'opposizione e mettere piuttosto al centro un'altra categoria, ossia quella della performatività. Vediamo subito come.

3. La giustizia si fa «Non ricordo più chi abbia osato dire che la decostruzione è la giustizia»I3. Vent'anni più tardi, poco prima della sua morte, in una

•J Jacqucs Dcrrida, "Justices", in D. Cohcn-Lcvinas, G. Michaud (cds.),Appels de Jacques Derrida, Hcrman &litcur, Paris 2014; tr. it. di S. Dadà, "Justices", ETS, Pisa 2019, p. 50.

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conferenza nell'aprile 2003 ad lrvine, California, Derrida torna a parlare di questo tema, richiamando proprio questa affermazione, presente nella conferenza dell'89. I toni di questo discorso sono decisamente differenti da quelli precedenti, le espressioni venate anche di una certa malinconia e l'argomentazione meno strutturata rispetto ad altri luoghi. Malgrado una minor organicità del discorso, ci sembra che questo testo testimoni il legame tra l'idea di giustizia e la performatività in modo originale. L'aspetto performativo del linguaggio era stato oggetto del pensiero derridiano sin dagli anni '70, a partire dal confronto con il pensiero di Austin nella conferenza Firma evento e contesto 1 4. Da questo confronto, prolungatosi nell'aspro dibattito con Searle, Derrida fa emergere un'idea di performatività che, a differenza della descrizione del filosofo inglese, si intreccia indissolubilmente con il piano constativo 1 5, fino a rendere impossibile giungere a una caratterizzazione univoca degli enunciati. In base al contesto, e a causa della loro iterabilità, i due ambiti si sovrappongono e determinano la loro mutua fondazione. Sin da subito il legame con l'ambito etico si lasciava intravvedere. Proprio per questo c'è chi, come Jonathan Blair, ha sostenuto che la presunta svolta dovesse essere individuata nella conferenza del 1971 16• Tale tratto etico e politico è riscontrato, ad esempio, anche da James Loxley: [... ] thc attcntion that work givcs to conccptions of law, justicc, hospitality, and sovcrcignty, in particular, is itsclf indcbtcd to thc dcconstructivc invcstigation of thc nature of institutions and institutional validity undcrtakcn in his cngagcmcnt with Austin and Scarlc 1 7.

Jacques Derrida, Signature, événement, contexte, in Id., Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972.; tt. it. di M. Iofrida, Firma, evento, contesto, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997. 1 S Questa è l'interpretazione che Derrida fa del discorso di Austin, sebbene in effetti la performatività del linguaggio nella sua intere7.7.a sia affermata attraverso la distinzione tra locutorio, illocutorio e perlocutorio presente già in John L. Austin, How to Do Things with Words, Oxford University Prcss, Oxford-New York 1962.; tt. it. di C. Villata, Come fare cose con le parole. Le "Wi/liam James Lectures" tenute alla Harvard U,uversity ,rei 1955, Marietti, Genova 1987. 16 J. Blair, Context, Event, Politics, «Tclos: Criticai Theory of the Contcmporary», 141, 2.007, pp. 149-165. 17 James Loxlcy, Performativity, Routledge, New York 2.007, p. 110. Segnaliamo questo saggio nella sua intere7.7.a, per il modo chiaro e completo con cui prende in considera14

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Del resto, è lo stesso Derrida a dichiarare, in Limited Inc. a, b, c... : «Penso che la teoria degli speech acts sia, nel suo fondo e in ciò che ha di più fecondo, più rigoroso, più interessante [... ] una teoria del diritto, della convenzione, della morale politica, della politica come morale» 18 • A confermare in effetti queste dichiarazioni, le riflessioni sull'autolegittimazione della Dichiarazione americana 1 9, così come quelle sulla forza performativa del «fondamento mistico dell'autorità», ed anche l'interessante riflessione sulla promessa riguardo all'opera dell'amico Paul de Man 20• Ad essere nuova nella conferenza californiana, quindi, non è la posta in gioco etica implicita nel discorso sulla performatività, quanto la messa a tema della vicinanza tra giustizia, decostruzione e performatività. Senza poterci soffermare sulla lettura derridiana del tema in generale, rivolgiamoci direttamente alla conferenza del 2003. Derrida prende in esame un componimento del poeta Gerard Manley Hopkins, e si sofferma in particolare sui seguenti versi: [... ] the just man jusrices; Keeps grace: that keeps all bis goings graces; Acts in God's eye what in God's eye he is Christ'- 1

È proprio questo passo a dare il nome a tutto l'intervento: "]ustices ", che, posto fuori contesto, al primo sguardo, lascia chi legge nello spaesamento tra varie possibilità di interpretazione, a cavallo tra due lingue. La prima ipotesi che salta alla mente è forse che si tratti di un sostantivo plurale di lingua francese o inglese, da tradurre, paradossalmente, come "giustizie", e che quindi il testo che ci si prepara a leggere tratti di una molteplicità di sensi, modi, manifestazioni, di que-

zione i principali nomi che hanno fatto i conti con la questione della pcrformatività: John L. Austin, Stanley Cavcll, John Scarle, Jacqucs Derrida e Judith Butler. 18 Jacqucs Dcrrida, Umited lnc., Galiléc, Paris 1990; tr. it. di N. Pcrullo, Umited lnc., Cortina, Milano 1997, p. 144. 19 Jacqucs Dcrrida, Otobiographies. L 'enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Galilée, Paris 1984. 20 Jacqucs Derrida, Mémoires: pour Paul de Man, Galiléc, Paris 1998; tr. it. di G. Borradori e E. Costa, Memorie: per Paul de Man. Saggio sull'autobiografia, Jaca Book, Milano 2017. ~ 1 J. Dcrrida, "Justices" cit., p. 36.

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sta nozione. Soltanto entrando nel testo veniamo accostati al primo (e non necessariamente unico) significato, la terza persona di un verbo in lingua inglese, to justice, il cui uso, assai raro e peculiare, diventa per Derrida il luogo di un ragionare su una faccia della giustizia rimasta in ombra. "L'uomo giusto giustizia": attraverso una predicazione che richiama alla mente suggestioni heideggeriane, questa felice espressione di Hopkins dice, per Derrida, molto di più di una semplice tautologia. La giustizia è praticata dal giusto, che può essere detto "giusto" soltanto perché pratica la giustizia. Nell'azione del giusto c'è un potere performativo che fa sì che in modo quasi naturale venga emanata l'azione giusta, ma senza che tale realizzazione sia un vero e proprio compimento. Nel suo essere incalcolabile, infatti, la giustizia non può mai realizzarsi. Il giusto, quindi, nell'essere tale, in un certo senso già non lo è più, poiché il "fare giustizia" implica da sempre una compromissione con il diritto, calcolabile e finito. Una compromissione pur necessaria: è nella realtà storicamente determinata, nella concretezza del sociale, nello spazio delle istituzioni e nell'elaborazione delle leggi che la giustizia deve realizzarsi, senza mai poter giungere a compimento. Sia l'inattività teoretica che l'esorbitanza di un'etica della responsabilità infinite, da sole, non fanno altro che annientare ogni orizzonte possibile di progresso, etico e politico. Non vi è quindi un dislivello, una possibilità di scissione tra la definizione di giustizia e il suo farsi, bensì un'intrinseca performatività che si definisce nel suo farsi e si fa nel suo dirsi. È per questo carattere performativo che lo stesso Miller, a cui la conferenza è dedicata, viene definito "giusto". Che cosa significa, infatti, fare la giustizia? Significa fare decostruzione; e attraverso le sue opere, ancor prima dell'incontro con la decostruzione stessa, ancor prima della dibattuta nascita di quel fenomeno che in America si chiamò "decostruzionismo", l'approccio di Miller al testo si è dimostrato agli occhi di Dcrrida un approccio decostruttivo. E quindi un approccio giusto. Questo è il carattere performativo della decostruzione, che è insieme l'atto della giustizia stessa, ma che si riscontra anche nella fondazione della legge e dell'istituzione, poiché nell'affermarla crea la realtà stessa, paradossalmente interno cd esterno ad essa. Sia quindi che il suo oggetto sia il diritto, che siano le istituzioni, che sia il testo letterario, ciò che caratterizza la giustizia è questa prassi, questa performatività, che sembra precedere la sua definizione politica cd etica e comprenderle entrambe.

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4. Quel limite che unisce etico e politico Considerare il piano etico, ossia il piano della responsabilità e dell'apertura all'alterità, come nettamente differente e diviso da quello politico, inteso come il luogo impuro del conflitto, luogo del compromesso rispetto alla esorbitante richiesta etica (il piano dell'indecidibile e quello della decisone, in termini più propriamente derridiani), può condurre a una lettura del pensiero derridiano come privo di una sua rilevanza politica. Questo è ad esempio ciò che troviamo in Critchley, il quale afferma il primato dell'etico nella proposta del filosofo, mettendo in luce che il gesto decostruttivo si rivela incapace di giungere alla soglia del politico, intesa come terreno fattuale e concreto dell'antagonismo, della lotta e del conflitto. È quindi necessario, e questo è l'obiettivo dello studioso, fare compiere alla decostruzione un passo ulteriore, che il suo primo rappresentante non ha realizzato. È nel recupero della proposta levinasiana, nei suoi riferimenti al Terzo uomo e alla giustizia2 2, che Critchlcy vede la possibilità di questo passo verso una "ethics of dcconstruction", per superare quel carattere aporetico rispetto alla decisione e alla realizzazione: I shall argue that it is not so much an avoidance of the question of politics that characteri7..Cs Derrida's works, but the way in which politics is discussed which itself needs to be questioned. I shall claim that Derrida's works result in a certain impasse of the political (an impasse: a rood or a way having no exit or outlet, a blind alley or cui de sac):i.3,

È interessante vedere come qui Critchely in un certo senso sostenga la non-politicità del pensiero derridiano appellandosi al suo carattere aporetico. Tuttavia Dcrrida non fa mistero di questa logica alla base del suo pensiero, cd è proprio nell'aporia e nel paradosso che sembra trovarsi la spinta performativa di questa proposta. Non a caso, proprio in Dal diritto alla giustizia sono presentate le "aporie della giustizia", che non paralizzano il pensiero, bensì lo rendono

2.1. Contenuti soprattutto in Emmanucl l.cvinas, AutTement qu'etre ou au•delà de l'essence, Nijhoff, Le Hayc 1974; tr. it. di A. Lingis, Altrimenti che essere o aldilà dell'essenza, Jaca Book, Milano 1983. :i.3 S. Critchlcy, The Ethics of Deconstructiori cit., p. 189.

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dinamico. L'aporia dell'assenza di regole, che impone ogni singola volta di inventare la regola e quindi di ridefinire la legge in base al singolo caso, il che libera la giustizia dalla staticità della semplice applicazione o dall'interpretazione secondo modelli prestabiliti; l'aporia dell'indecidibilità, che continua ad accompagnare ogni decisione, nel suo momento di follia, rendendone impossibile l'effettiva pienezza, rimandandone la riuscita ad un avvenire mai presente; infine l'aporia dell'urgenza, che nell'assenza di regole e nell'impossibilità della piena presenza, obbliga comunque alla realizzazione, nel qui e ora, della giustizia, come risposta immediata alle esigenze dell'altro. La difficoltà riscontrata da Critchley, più che risiedere in questo carattere della decostruzione, ci sembra dovuta alla scelta interpretativa di tenere distinti i due piani. Concordiamo quindi con Jenny Edkins 2 4 e con Madeleine Fagan2 5, le quali sottolineano che in una prospettiva come quella del filosofo franco-algerino, non si possa porre il primato dell'etica sul politico, se non rischiando di ricadere nella logica dell'astrazione e della generalizzazione, e allo stesso tempo non si possa rinunciare ad essa senza affermare l'assenza di fondamento della politica. Quindi, onde evitare di subordinare la politica al fondamento etico e, insieme, di pensare a una politica senza fondamenti, la soluzione sembra consistere nel fare a meno della dicotomia stessa. Edkins, in particolare, e noi aderiamo a questa scelta, propone quindi di parlare di "etico-politico". Nel suo testo dedicato proprio a Emmanuel Levinas è lo stesso Derrida a dirlo: «La frontiera tra l'etico e il politico perde definitivamente la semplicità indivisibile di un limite. Qualunque cosa possa dire Levinas, la determinabilità di questo limite non è mai stata pura, non lo sarà mai» 26• Ed è proprio in corrispondenza di questo limite, rappresentato graficamente come il trattino di unione che unisce e insieme divide le due parole, che crediamo si scorga la giustizia, coincidente con la decostruzione stessa. Essa, senza poterne essere pie-

L4 Jenny Edkins, Ethics a,uJ Practices of Engagement: lntellectuals as Experts, in «lnternational Rclations», 19, 1, 2005, pp. 9-64. '-S Madcleine Fagan, Ethics and Polmcs after Poststnu:turalism: Levinas, Derrida and Nancy, Edinburgh University Prcss, Edinburgh 2013, p. 42. 16 Jacques Derrida, Adieu, à Emma11uel Levinas, Galilée, Paris 1997; tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Addio. A Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998, p. 167. Siamo del parere che anche per Levinas il limite non sia puro.

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namente definita, è caratterizzata da questa forza performativa che mette continuamente in tensione etica e politica nel loro indissolubile legame. Una forza che le precede entrambe, che è ciò che insieme ne determina la differenza e le unisce.

Sistema e soggetto: struttura e spazi di conflitto nel pensiero di G. Lukacs Chiara Dc Cosmo

Ne Les aventures de la dialectique Merleau-Ponty sostiene che, per Lukacs, «il marxismo è o dovrebbe essere [... ] un modo per dire che i rapporti tra gli uomini non sono una somma di atti o di decisioni personali, ma passano attraverso le cose: attraverso cioè le funzioni anonime, le situazioni comuni, le istituzioni in cui gli uomini si sono talmente proiettati che il loro destino si compie oramai fuori di loro» 1 • Non vi sarebbe, dunque, nella prospettiva lukacsiana, un agire che non sia, al contempo, determinante e determinato, mediato dagli intrecci delle relazioni pratiche degli esseri umani fra loro e con la natura. Se nel modo di produzione capitalistico i movimenti degli agenti sociali non sono mai trasparenti, ma si costituiscono attraverso costanti oggettivazioni, queste ultime sono parte del continuo edificarsi della storia, in un movimento in cui le persone divengono cose e le cose persone. È soltanto riconoscendo la materialità di questo orizzonte storico che, per Lukacs, è possibile pensare il conflitto rivoluzionario, inteso nei termini di una ridefinizione cosciente delle stesse istituzioni in gioco in un preciso contesto storico-sociale. Un'azione, cioè, che, ponendosi come consapevolmente interna ad una struttura storicamente determinata, riesca a ridefinirne i contorni e a trascenderla. Se il conflitto viene inteso in questi termini, allora, quelle interpretazioni che tendono a considerare la riflessione lukacsiana come incapace di individuare un'autonomia propria della lotta politica in quanto tale, al di là delle sue determinazioni sociali o economiche\ 1 M. Mcrlcau-Ponty, Les ave,1tures de la dialectique, Gallimard, Paris 1955; tr. it. di D. Scarso, Le avventure della dialettica, Mimcsis, Milano-Udine 2.008, p. 45. 1 Si intende qui alludere a tutte quelle interpretazioni che enfatizzano la completa adesione luk:icsiana al pensiero di Hcgcl attraverso il suo utilizzo della categoria di "tota-

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sembrano non esaurirne la complessità. Il decorso processuale della vita sociale, con le sue interconnessioni e concretizzazioni oggettive, è certamente primario nella prospettiva del filosofo ungherese, ma lo è nel riconoscimento dcli' autonomia relativa delle sue istanze3, condizione che sola rende possibile una sua trasformazione. Un'autonomia relativa che, tuttavia, va compresa nella cornice di una struttura storicamente determinata: la non astrattezza della categoria del conflitto si mostra nel fatto che, nelle sue varie declinazioni storiche, esso assume forme differenti, tali da non rendere pensabile, nella prospettiva lukacsiana, concepirlo come un concetto ontologico o esistenziale. Sulla base di queste premesse, si vorrebbe in questa sede ricostruire il rapporto delineato dal filosofo ungherese fra gli spazi di lotta aperti in questa struttura, così precisamente delineata, e le soggettività che li agiscono e ne sono agite.

I.

La struttura e la praxis

Si è detto che, nella prospettiva di Lukacs, il conflitto non è mai pensabile come una tendenza atemporale, nella sua autonomia, cioè, rispetto ad un quadro strutturale e storico ben delineato. Se esso si traduce nei termini di lotta di classe e, se è vero che la dinamica della lotta di classe non ha cessato di attraversare la storia, è pur vero lità"; nel tutto sociale, essendo ogni momento immagine particolare dell'universalità della struttura, non vi sarebbe nessuna istan7.a in grado di porsi al di fuori di una completa comprcscn7.a sincronica, di una determinazione diretta. Cfr., a titolo di esempio, M. Vacatcllo, Lukacs. Da Storia e coscienza di classe al giudizio sulla cultura borghese, La Nuova Italia, Firenze 1968, in particolare pp. 2.4 sgg. La radice di questa critica non è difficile da individuare nell'obiezione althusscriana alla dialettica di Hegel; cfr. in particolare L Althusscr, L'object du CJpital, in AA.VV., Lire le CJpital, François Maspéro, Paris 1965; tr. it. di M. Turchetto, Leggere il capitale, Mimcsis, Milano 2.006. Per un'interpretazione differente della categoria di totalità, cfr. F. Cerotti, Totalità, bisogni, organjq.azjone. Ridiscutendo "Storia e cosciet,za di classe", La Nuova Italia, Firenze 1980. 3 Cfr. in particolare il saggio Legalità ed illegalità di Storia e coscienza di classe, dove dalla descrizione del processo di lotta del proletariato emerge in maniera chiara la temporalità differente assunta dai momenti ideologico, politico cd economico (G. Lukacs, Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien iiber marxistiche Dialektik, Malik Verlag, Bcrlin 192.3; tr. it. di G. Piana, Storia e coscienza di classe; Mondadori, Milano 1973, pp. 319 sgg.).

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che - e in questo Lukacs aderisce pienamente alla posizione marxiana - il punto di vista che consente di concepire la storicità in questi termini è sempre quello del presente, o meglio di una sua analisi critica4. È indispensabile, dunque, per comprendere questa categoria nel pensiero lukacsiano, delineare, seppur sinteticamente, in prima istanza il modo in cui viene descritta la configurazione logica della società presente e, in secondo luogo, soffermarsi sul rapporto fra antagonismo strutturale, funzionale cioè alla riproduzione complessiva dei rapporti sociali esistenti, e confl.itto, inteso come manifestazione soggettiva e congiunturale del primo. Nel pensiero lukacsiano, come si cercherà di mostrare, l'antagonismo che contraddistingue i rapporti di produzione capitalistici, riproducendo la polarizzazione da un lato dei lavoratori costretti a vendere la propria forza lavoro e dall'altro dei proprietari dei mezzi di produzione, non si traduce immediatamente in una lotta aperta fra le classi, ma è di per sé parte del movimento contraddittorio della società. Una conflittualità che si traduca in dinamica rivoluzionaria necessita della presa di coscienza sia dell'imprescindibilità della riproduzione di questo antagonismo per la tenuta dei rapporti all'interno di tale struttura sociale, sia dei diversi livelli di mediazione attraverso i quali esso si esplica al suo interno. Per Lukacs, le istituzioni sociali, le oggettivazioni dei rapporti degli uomini fra loro, sono per l'appunto tali, cioè pratiche. Nella particolare configurazione economica della società capitalistica, analizzata in Storia e coscienz.a di classe a partire da uno sguardo sul processo produttivo stesso, queste concrezioni si presentano come autonome - o, per riprendere i termini di Merleau-Ponty, come un "destino". In questo senso, la scissione fra formazioni e individui che le costituiscono, fra il decorso all'apparenza autonomo di legalità formali e particolarità che rimangono inespresse è una caratteristica di quella configurazione, completamente socializzata, che è la società moderna. Le formazioni oggettivate, sorte dagli intrecci dell'agire sociale, non sono oppressive in quanto tali, ma lo diventano all'interno di un certo tipo di rapporti storici; in questo senso, non è più sulle istituzioni tout-court che ci si deve interrogare, ma sulle modalità

4 «[ ••. ] l'interesse economico di classe come motore della storia è emerso in tutta la sua nudità e purezza soltanto nel capitalismo», ivi, p. 76.

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nelle quali esse si traducono in forze coattive che si esplicano al di sopra delle azioni degli individui. Si deve ricercare, cioè, il motivo per il quale esse appaiono come processi indipendenti rispetto ai quali sembra possibile soltanto un'opposizione priva di mediazioni. Esso è da ritrovarsi, per il Lukacs di Storia e coscienza di classe, nel processo di reificazione che investe tutte le manifestazioni vitali di tale struttura sociale. «La reificazione», come sostiene Cerotti, «non è riduzione dei rapporti umani allo stato di cose, intese, queste, nella loro fisicità e naturalità [... ], ma a cose quali queste appaiono - esse stesse già deprivate - nelle forme fantasmagoriche (gli astratti rapporti di valore e di scambio) derivanti da rapporti sociali antagonisrici»5. Sulla base materiale dei rapporti capitalistici di produzione, che non permettono mai, almeno in forme stabili e durevoli, una comunità di interesse tra lavoro salariato e capitale, le relazioni sociali divengono delle forme fantasmagoriche, che occultano la propria essenza e la propria genesi e si pietrificano nella mera apparenza. Quest'ultima retroagisce effettualmente sulla realtà, alimentando il meccanismo di auto-riproduzione del capitale stesso6 • Il valore della merce, che non è altro che il dispendio di forza-lavoro umana occultata come proprietà della merce stessa, è qualcosa di puramente sociale, di irreale, ma che assume una sua autonomia attraverso l'oggetto che ne è portatore materiale. Il fenomeno della reificazione, dunque, non s F. Cerotti, Totalità, bisogni, orgat~one. Ridiscutendo "Storia e coscietlZtl di classe" cit., p. 36. Come notava anche Krahl a proposito del concetto di merce che emerge nelle analisi del Capitale, «un'esistenza cosalc spetta unicamente alle forme appropriate mediante un lavoro determinato, teleologico; solo queste forme, che sono destinate al godimento sensibile, hanno un'esistenza sensibilmente percepibile, spazio-temporale, materialmente fondata» (H. J. Krahl, Konstitution und Klassenkampf. Zur historischen Dialektik von biirgerlicher Emandpation u,ui proletarischer Revolution. Schriften, Reden und Enhuiirfe aus dm, Jahren I966 - I970, Neue Kritik, Frankfurt a.M. 1971; tr. it. di S. dc Waal, Costi~one e lotta di classe, Jaca Book, Milano 1973, p. 46). li «La fantasmagoria costituisce il negativo della razionalità moderna. Non la sua negazione, il suo calco. Il progetto cartesiano di fondazione della razionalità sulla certezza dcli' ego cogito viene messo in scacco. Nella fantasmagoria i "sensi ingannano" in modo oggettivo cd altrettanto oggettivamente non è dato "distinguere la veglia dal sonno". Marx sottolinea come l'effetto del feticismo non sia semplicemente illusorio, ma oggettivo. La fantasmagoria ci immette in un mondo rovesciato di incantesimi e fantasmi. La mossa marxiana non va nella direzione dell'Illuminismo. Non intende negare l'esistenza dei mostri, ma mostrare come i mostri reali producano realmente un immaginario mostruoso» (M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book, Milano 2.011, pp. 177-178).

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designa semplicemente il farsi cosa di relazioni umane, ma il dominio dell'apparenza e dell'immediatezza, l'oblio della genesi storica delle forme sociali. In una cornice dominata dal fantasma mistificante della merce non è possibile riconoscere le mediazioni che articolano i singoli momenti nelle loro interazioni, perché la merce si mostra come apparenza satura di sé, che occulta del tutto la propria essenza. In questo senso, la società capitalistica si configura, per Lukacs, come una struttura chiusa, come una totalità dotata di un suo specifico movimento e con determinate tendenze immanenti. Chiusa, dunque, non nel senso di immobile o di ossificata, ma piuttosto articolata in un divenire non aperto, costruito dialetticamente, pur non potendo non generare forme di coscienza non dialettiche (ma fondate sulla semplice opposizione fra l'individuo e la società, le soggettività agenti e le forme politiche etc.). Questo movimento non è altro che la riproposizione, identica, del rapporto di dominio insito nella formamerce, su scala sia sincronica che diacronica, nel tutto sociale. In questo senso, la società moderna è contraddittoria ed antagonistica, per Lukacs, ma non produce automaticamente una confl.ittualità tale da metterla in discussione: la sua tendenza è quella di generare crisi, che manifestano l'irrazionalità intrinseca al sistema stesso, ma che non possono rappresentare una rottura di questa struttura, perché fanno parte del suo movimento?: [... ] la violenza [die Gewalt], che appare qui come figura concreta [als konkrete Gestalt] dei limiti dell'irrazionalità [lrrationalitiitsschranke] del razionalismo capitalistico, del punto di intermittenza delle sue leggi, è per la borghesia qualcosa di completamente diverso che per il proletariato. Per la borghesia, la violenza è la continuazione immediata della sua vita quotidiana [••• ]8.

7 La società moderna, in altri termini, si riproduce sulla base delle contraddizioni immanenti alle sue forme logiche di sviluppo, che si legano alla natura antagonistica dei suoi rapporti di produzione, in un movimento che perpetua queste contraddizioni perché si configura non in maniera lineare, ma alternando momenti espansivi e momenti di crisi. La conflittualità, se per essa si intende l'espressione attiva di queste contraddizioni e la loro messa in discussione in forme effettive di lotta, non è una necessità inerente al decorso autonomo delle leggi sistemiche di questo modo di produzione, ma richiede una presa di coscien7.a che provi, in un certo modo, a trascenderle. Questo aspetto è fortemente visibile nei saggi di Storia e coscienza di classe dedicati al pensiero di Rosa Luxemburg. 8 G. Lukacs, Storia e coscienza di classe cit., p. :z.36.

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La storicizzazione della categoria del conflitto, inteso qui come rottura rivoluzionaria, dunque, comporta anche una sua differenziazione immanente: secondo Lukacs, sebbene nel sistema capitalistico vi siano delle contraddizioni oggettive e strutturali che, edificate dagli antagonismi, edificano antagonismi che si manifestano anche in senso soggettivo, non per questo esse si traducono immediatamente in pratiche attive di opposizione. Come la struttura può, al suo interno, generare delle crepe, che aprono ad una tendenza favorevole alla lotta, anche quest'ultima si articola in senso processuale, in fasi e forme intrecciate le une alle altre. Ma, come nota Lukacs nel saggio del 1924 dedicato a Lenin, «quale svolta in senso positivo debba prendere questo processo non è assolutamente determinabile in base al processo stesso»9. La questione che si apre, dunque, riguarda le modalità di traduzione di questi antagonismi sistemici in una dinamica attivamente politica.

2.

Il proletariato come soggetto rivoluzionario

Se la società moderna appare, nell'ottica lukacsiana, dominata dall'apparenza dell'autonomia delle sue istituzioni, che genera inevitabilmente una contrapposizione lineare fra delle forme chiuse e delle possibilità di azione che ne rimangono necessariamente all'esterno, allora è dalla potenziale reversibilità di questa apparenza che bisogna muovere per pensarne una messa in discussione. Secondo Lukacs, è necessario, per rendere nuovamente mobile e decostruire questa opposizione binaria, portare a coscienza la genesi delle oggettivazioni che costituiscono l'architettura di questa data società, mostrandone, in prima istanza, l'intrinseca praticità 10 • Sul fronte ideologico della !I G. Lukacs, Lenin. Studie,1 uber den Zusamn,e,rhang seiner Gedanken, Verlag der Arbciterbuchhandlung, Wien 192.4; tr. it. di G. D. Neri, Letrin. Unità e coerettr,IJ del suo pensiero, Einaudi, Torino 1970, p. :z.6. 10 «Ciò presuppone[ •.• ] che si possa mostrare nel mondo che si contrappone all'uomo nella teoria e nella praxis un'oggettualità [Gege,rstiindlichkeitJ che, se viene concepita e pensata correttamente e coerentemente fino in fondo, non deve in alcun modo restare celata in una mera immediatezza [.•. ): di conseguenza, essa deve poter essere appresa come momento in corso che media passato e futuro e rivelarsi così in tutte le sue relazioni categoriali come prodotto dell'uomo, come prodotto dello sviluppo sociale» (G. Lukacs, Storia e coscienza di classe cit., p. 2.11 ). Un aspetto rilevato esplicitamente da Postonc: «within thc

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classe borghese, tuttavia, questa riscoperta genetica non può avvenire, poiché le sue forme di coscienza si conformano a tal punto ai meccanismi reificanti del tutto sociale, da ritenerli pressoché naturali e, dunque, eterni 11 • Per Lukacs, è la classe proletaria che, per la sua particolare posizione all'interno di questa totalità, si mostra capace di sottrarsi alla cornice formalistica che rende le dinamiche reali incomprensibili per le altre classi in gioco, e in grado di mettere in campo una forma di conoscenza che sia anche pratica rivoluzionaria. Il marxismo lukacsiano, con riferimento primario a Storia e coscienza di classe, è stato designato come un "marxismo della soggettività" 12, e questo lavoro è stato classificato come un'opera di «ricostruzione della genesi di un soggetto storico: il proletariato rivoluzionario» 1 3. L'interrogativo che qui si pone, dunque, concerne il tipo di connessione che Lukacs rintraccia fra l'ordine logico della struttura e le potenzialità soggettive di emancipazione. Se l'analisi delle dinamiche economiche della società capitalistica conduce Lukacs ad individuare nella forma-merce la radice della sua dinamica auto-riproduttiva, è nella contraddizione interna a questa forma che si possono, secondo la sua prospettiva, ravvisare delle potenzialità conflittuali. Non si tratta, dunque, di postulare astrattamente che l'antagonismo fra lavoro salariato e capitale, fondante la struttura di questo modo di produzione, si traduca nel conflitto fra la classe borghese e la classe dei lavoratori. Piuttosto, nel portare

framework of this categoria! approach, praxis is not simply opposcd to structures, but is also constitutive of them» (M. Pastone, Lukacs and the Dialectical Critique of Capitalism, in R. Abritton, J. Simoulidis (a cura di), New Dialectics and Politica/ Eronomy, Palgrave Macmillan, New York :z.003, pp. 78-100, p. 79). Tuttavia, come viene più volte affermato in questi saggi, la genesi storica qui considerata non si identifica né con lo sviluppo cronologico delle strutture, né con la loro successione puramente logico-formale, ma è articolata a partire dalla relazione con cui esse sono intrecciate nella moderna società borghese. 11 «In quanto il pensiero borghese, prigioniero delle categorie feticistiche, irrigidisce l'operare di queste relazioni in un fisso carattere di cosa, esso non riesce a tenere il passo con lo sviluppo sociale. Le categorie razionali astratte della riflessione, che sono l'espressione oggettiva immediata di questa prima reale sociali12.a1.ione dell'intera società umana, appaiono al pensiero borghese come qualcosa di ultimo, di insuperabile» (G. Lukacs, Storia e coscier,za di classe cit., p. :z.3 :z.). 12 M. Lowy, Luktics: u11 marxisme de la subjectivité révolutionnaire, «Revue Nouvelles FondationS», 3-4, :z.006. '3 F. Ccrutti, Hegel Luktics Korsch. Sul significato ema11cipativo della dialettica 1,e/ marxismo critico, «Quaderni Piacentini», Xl/47, 1972., p. 90.

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a coscienza la genesi della posizione che questa soggettività occupa all'interno del sistema dei rapporti di produzione, si svela, secondo Lukacs, la contraddizione intrinseca all'intera società: (... ] in quanto viene in primo piano la specifica oggettualità di questo genere di merce - il suo essere un rapporto fra gli uomini sotto veli di cosa, un nucleo qualitativo e vivente sotto una crosta quantificante - il carattere di feticcio fondato sulla forza-lavoro come merce può essere scoperto come carattere di ogni merce: in ognuna il suo nucleo, il rapporto tra uomini, interviene come fattore dello sviluppo sociale 1 4.

Ciò che è qui in gioco è la possibilità di una de-naturalizzazione della struttura stessa attraverso l'individuazione di un luogo in cui, pur nella totalizzazione del dominio dell'apparenza, i suoi meccanismi ideologici possano venir messi in questione 1 5. Nella postfazione all'edizione italiana di Coscienza di classe e storia 16 , Zizek rileva la complessità di questa posizione, sottolineando che non si tratta, nella prospettiva lukacsiana, di un'opposizione esterna fra universalità della struttura e individualità della classe, ma di una scissione interna alla soggettività stessa 1 7. Con un accostamento a Badiou, Zizek 1◄

G. Lukacs, Storia e coscienza di classe cit., p. 223. s Sulla messa in questione dei processi ideologici come momento centrale per una rottura che procede al di là dcli' oggettività delle crisi economiche in senso stretto insiste molto Robcrt P. Jackson; cfr. Lebowitz, Lukacs and Postane: Subiectivity in Capitai, «Scicncc & Socicty», 2181, 2017, pp. 248-278. 16 S. :2:i:r.ck, Georg Lukacs - filosofo del leninismo, in G. Lukacs, Chvostismus und Dialektik, Aron Vcrlag, Budapest 1996; tr. it. di M. Maurizi, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Alcgrc, Roma 2007. 1 7 «L'affcrma7.ionc che il proletariato è la classe universale è perciò, in definitiva, equivalente all'affermazione che, all'interno dell'ordine globale esistente, il proletariato è la classe che è radicalmente dislocata (o, come direbbe Badiou, quella che occupa lo spazio di una "torsione sintomalc") rispetto al corpo sociale: mentre le altre classi possono sostenere ancora che "la società esiste" e che essi hanno il loro posto specifico all'interno del corpo sociale globale, la stessa esisten7.a del proletariato rifiuta l'affermazione che "la società esiste". In altre parole, la sovrapposizione fra Universale e Particolare nel proletariato 11011 coincide con la loro identità immediata (nel senso che gli interessi particolari del proletariato sono allo stesso tempo gli interessi universali dell'umanità, cosicché la liberazione del proletariato equivarrà alla liberazione dell'intera umanità): il potenziale universale rivoluzionario è piuttosto "iscritto nell'essere stesso del proletariato" come sua scissione radicale intrinseca» (ivi, p. 144). È evidente qui la ripresa di ciò che Marx scriveva ncll' Intraduzia11e alla Critica della filosofia del diritta di Hegel [1843], nella quale il proletariato veniva descritto come la classe capace di un'emancipazione universale in quanto unico soggetto 1

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definisce quest'ultima come la classe che è radicalmente dislocata, cioè che, in quanto negata dalla totalità della configurazione sociale, può rappresentare una negazione attiva della società stessa 18 • Le modalità di questa negazione, tuttavia, non consistono, per Lukacs, in una pura insorgenza conflittuale, nel senso di un'espressione di lotta spontanea e priva di articolazione, ma in una pratica di mediazione; individuare uno spazio, nel contesto logico della società, che permetta di svelarne i meccanismi di auto-riproduzione, significa però anche non dimenticarne la stratificazione, la temporalità differente (l'ideologia e la scienza non sono necessariamente compresenti alla struttura), e, di conseguenza, considerare la lotta anche come momento costruttivo di articolazione di queste diverse istanze. Se, dunque, l'universalità della classe proletaria viene interpretata in questo modo, essa non rappresenta un appiattimento delle diversificazioni soggettive e temporali che compongono una determinata configurazione sociale 19, ma la possibilità della convergenza di queste ultime in un unico fronte conflittuale, diretto a rimettere in discussione, in maniera radicale, la peculiare forma di dominio che contraddistingue questa struttura. Per questa ragione, la radicale storicizzazione dei termini in gioco è fondamentale per comprendere, nella sua complessità, la posizione lukacsiana su questo tema. Il conflitto rivoluzionario appare dunque, nel pensiero del giovane Lukacs, come una forma determinata e al contempo radicale di ridecapace di una negazione radicale dell'ordinamento sociale esistente, nella misura in cui non vi è integrabile. 18 Vi sono, certamente, alcuni clementi di analogia interessanti fra i due pensatori, ma - anche se sarebbe impossibile rendere ragione in questa sede dei momenti, invece, di distanza - bisogna comunque tener presente che il discorso di Badiou è molto più attento al contenuto politico dell'evento. La sua riflessione mette in discussione la possibilità stessa di una contraddizione materiale, intendendola piuttosto come scissione sostanziata dalla suddivisione dualistica che si crea all'interno della comunità sociale (il popolo) (cfr., in particolare, A. Badiou, Théorie du sujet, Scuil, Paris, 1982; tr. it. di F. Franccscato, La teoria del Soggetto, Astcrios, T ricstc 2011 ); una prospettiva che Lukacs difficilmente condividerebbe. 1 9 Cfr. il saggio Il mutamento di frmzio,ie del materialismo storico, dove si parla diffusamente dello sviluppo ineguale dell'arte e della scienza rispetto al funzionamento economico. ~ qui in gioco una complessa dialettica fra unifica7.ionc di tutte le istanze strutturali e apparenza della loro autonomia, che nel suo dispiegarsi riproduce questa unificazione stessa: in questo senso, la coscienza delle mediazioni interne al tutto sociale si traduce nel riconoscimento reale della loro differenziazione concreta e della loro autonomia, piuttosto che in un'ulteriore totali7.7.azionc astratta. Cfr., su questo, I. Mészaros, Lukacs' Concept of Dialectic, Thc Mcrlin Press, London 1972.

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finizione dei rapporti di dominio. In un certo senso, essa sembra non sfuggire a quelle critiche che vi riscontrano una specie di riflessione teleologica 20 o un richiamo utopico ad un'istanza profondamente sovversiva, che misconoscerebbe il ricorrere costante delle dinamiche di potere nella storia. Tuttavia, se è vero che i rapporti di dominio si ripropongono nella storia, essi non appaiono come una costante ontologica, ma come storicamente differenziati. In questo senso, se la congiuntura muta le soggettività che possono farsi interpreti del conflitto, non cambia l'esigenza di un modo specifico della conflittualità, poiché la società contemporanea è ancora mossa dalla medesima, per quanto articolata diversamente, struttura produttiva; il conflitto, se vuol essere fecondo e duraturo, dovrebbe riconoscersi come interno a questa struttura e non come insorgenza pura opposta ad una forma di dominio altrettanto astratta. Un'autonomia relativa, dunque, dell'azione politica, intesa qui come dimensione attiva e cosciente della lotta, che diventa così in grado di discernere la capacità del sistema economico e ideologico di riassorbire in sé le crisi e che si pone come attiva proprio in rapporto a questo riconoscimento.

3. Il con'{l,itto come mediazione Nella direzione finora seguita sembrerebbe, dunque, che si tratti di rintracciare una soggettività, interna ad un dato sistema sociale, in cui siano ravvisabili potenzialità conflittuali. La determinazione si presenterebbe, quindi, come unilaterale, in contrasto con quelle tendenze 20 Mi riferisco a tutte quelle critiche, in primis la stessa autocritica lukacsiana della Prefazione del 1967, che riscontrano la problematicità della nozione del proletariato come soggetto-oggetto identico della storia, vedendovi sottesa una filosofia della storia costruita in termini teleologici o una confusione fra le pratiche di oggettivazione e il fenomeno della reificazione. Cfr., ad esempio, L. Cortella, Fonnaziotie e scomposizione di una teoria. Storia e prospettive del concetto di reificaziow, in AA.VV., Teorie della reificazione. Storia e attualità di u11 {enometro sociale, Mimcsis, Milano-Udine 2.013; G. Starosta, Scitmtific Knowledge atid Politica/ Action: on the Antinomies of Lukdcs' Thought ;,, History and Class Conscioussncss, «Sciencc and Socicty», 67/i, 2.003; A. Arato, Lukacs' Theory of Reificatio11, « Tclos», 11, 1972, pp. 2.5-66; L Althusscr, Marxismeet humanisme (1963], in Id., Pour Marx, François Maspéro, Paris 1965; tr. it. di F. Madonici, Marxismo e umatlismo, in Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 198, n. 1, dove si parla di concezione "religiosa" del proletariato. Queste interpretazioni trovano sicuramente riscontri testuali nei saggi del giovane Lukacs e mantengono una loro fondat= teorica, ma, come spero di aver mostrato, non ne esauriscono la complessità.

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recenti del pensiero filosofico-politico contemporaneo che ricercano una forma di determinazione circolare, seppur temporalmente diseguale, fra soggettività (intesa nei termini di soggettivazione) e conflitto stesso21 • Se tuttavia, nell'ambito di questi paradigmi, viene giustamente messa in questione l'idea di soggettività come risultato statico di un sistema, rimane problematico storicizzare la categoria del conflitto stesso. Come si è accennato, in molti passaggi di Storia e coscienza di classe emerge l'idea per cui il procedere storico si costruisce attraverso l'oggettivarsi dei rapporti fra gli uomini in forme ideologiche, politiche e sociali storicamente determinate. Di conseguenza, se l'irrigidirsi delle istituzioni in strutture chiuse è proprio di una determinata configurazione sociale, altrettanto particolari saranno le sue forme di resistenza. Se si pone la questione in questi termini, ne emerge una fondamentale tensione: come conciliare l'idea che la rivoluzione proletaria rimetta in discussione, nella prospettiva lukacsiana, l'intera storia concepita come succedersi di rapporti di dominio e la sua collocazione in una cornice logico-strutturale molto precisamente individuata? Il filosofo ungherese definisce sempre la lotta rivoluzionaria nei termini di una mediazione, sia sincronica che diacronica22 • Nel già menzionato saggio su Lenin del 19.24, quando Lukacs parla delle possibilità di sovvertimento dell'istituzione statale e delle modalità attraverso le quali la lotta per l'acquisizione del potere da parte della soggettività proletaria sia al contempo uno spezzare i limiti della forma statale stessa, egli 11 Mi riferisco al cosiddetto "paradigma istituente", la cui prospettiva è così riassunta da Esposito: «l'istituire, nel solco di quanto è già istituito, crea stabilità e stabilizza la creazione, senza proclami rivoluzionari, vaticini messianici, propositi anarchici, dal momento che non esiste, né è mai esistita, una società che abbia fatto a meno del potere. Di questo la prassi istituente dccostruiscc ogni sostanzialità, mette in dubbio qualsiasi appartenenza, rivela il centro vuoto, di volta in volta occupabile solo dalle forze che momentaneamente prevalgono, prima di essere sostituite da altre, altrettanto sostituibili. In questo senso, nel paradigma istituente, i soggetti politici non p,ecedono i11 maniera sostanzia/e il conflitto, ma ve11gono plasmati e trasformati da esso. Alla categoria di soggetto sube11tra quella di soggettivazione, coincidetlte con il movimento, sempre collettivo, dell'istituire• (R. Esposito, Pe,,siero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2.02.0, corsivo mio). 12 «II divenire è al tempo stesso mediazione fra passato e futuro: tra il passato concreto, cioè storico, cd il futuro altrettanto concreto, cioè altrettanto storico. II concreto qui ed ora nel quale il divenire si dissolve nel processo, non è più un istante passeggero cd inafferrabile, sfuggente immcdiatc7.7.a, ma il momento della mcdia7ionc più profonda cd articolata, il momento della decisione, della nascita del nuovo» (G. Lukacs, Storia e coscienza di classe cit., p. :z.68. Ma dr. anche la definizione di "momento rivoluzionario" in Id., Coscie,,za di classe e storia cit., p. :z.6).

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sottolinea come la concezione per la quale la resistenza sia diretta alle configurazioni di potere tout-court rimanga sostanzialmente utopica 2-3. Anche nelle forme conflittuali, dunque, si creano configurazioni stabili e organizzative24, che ridefiniscono dialetticamente anche le soggettività attive che vi prendono parte. Non si tratta, tuttavia, nella visione del filosofo ungherese, di una progressione istituente che procede in maniera indefinita, ma della realizzazione di uno scarto qualitativo, che diviene possibile soltanto se questa mediazione si estende in maniera diacronica anche al futuro 2 5. Quest'ultimo, tuttavia, non è un orizzonte simbolico intenzionato, né l'idea di una trascendenza utopica, ma è, invece, materialmente costituito da quelle crepe e quelle direzioni che, pur essendo il risultato della struttura, vengono occultate dalla sua stessa conformazione ideologica. Non esiste una lotta che prova a mettere in discussione la forma strutturale della società in termini puramente decostruttivi, secondo Lukacs, ma piuttosto un soggetto che riesce ad unificare, nel conflitto mediato dalla teoria, gli antagonismi materiali dispersi che il sistema sociale crea. La completa socializzazione, che avviene all'interno del modo di produzione capitalistico, è vera e falsa al contempo: è su questa contraddizione primaria che la direzione del conflitto può manifestarsi, assumendo direzioni plurime. In questo senso specifico, il conflitto per Lukacs non si attesta mai su un livello puramente politico, non è mai soltanto un atto di ridiscussione degli assetti formali della società, ma è sempre azione concreta in una struttura altrettanto concreta.

G. Lukacs, Lenin cit., p. 78. generale alle forme mediate attraverso le quali la lotta si articola in contrasto con i diversi livelli istituzionali, volti a preservare, nel loro complesso, i rapporti sociali esistenti. Occorre tener presente che, in particolare in Coscie,~ di classe e storia, una di queste forme è quella rappresentata dal partito, quale veicolo organizzativo indispensabile proprio per l'insufficiell7.a di un'insorgenza conflittuale puramente spontanea. Clr. in particolare pp. 53 ss. 25 Cfr. il saggio Coscienza di classe. L'Idea del comunismo, di cui recentemente Badiou rivendica l'attualità proprio in quanto idea (cfr. in particolare, A. Badiou, The Comtmmist Idea and the Question ofTerror, in S. :2:ikk [a cura di], The Idea of Commu,ùsm, voi. :z., Verso, London 2.013, pp. 1-12), non è, dunque, qualcosa di astratto, bensì sorge ncll'immancn7.a di ciò che la società, nel suo decorso naturalizzante, non riesce a rcali7.7.are. Questo è il senso, probabilmente, della nozione di sito eve,,emenzia/e per come essa viene presentata ne L'essere e l'evento, quale condizione necessaria perché ci sia un evento, ossia qualcosa di storico, opposto alla stabilità intrinseca di un processo naturale (nel senso, dunque, anche di quelle dinamiche sociali che procedono nella continuità delle proprie tendcn7.c dispiegate, senza intcrru7joni). Cfr. A. Badiou, L'étre et l'événement, Seui(, Paris 1988; tr. it. di G. Scibilia, L'essere e l'evento, il melangolo, Genova 1995, in particolare pp. 177 ss. 23

24 Si allude, qui, in

La forma politica del Leviatano. Tra neutralizzazione e conservazione del conflitto Bianca Maria Esposito

[••. ] quand'anche si scrivesse la storia della pace e delle istitUT.ioni, non si scriverebbe mai nient'altro che la storia della guerra.

M. Foucault

Obiettivo del presente contributo sarà quello di trattare un problema centrale per capire un modello del potere statuale che, sorto agli inizi della modernità come una delle prime trattazioni sistematiche della sovranità, possiamo riassumere sotto il nome biblico, quasi mitico 1, del "Leviatano". Mettendo al centro del mio intervento il tema del rapporto tra società e politica, tra conflitto e istituzioni, o, per citare Cari Schmitt, tra "politico" e Stato2, vorrei concentrarmi sul problema dell'origine della forma politica nel pensiero di Thomas Hobbes, analizzando dunque quello che potremmo definire il momento teologico-politico di fondazione del potere sovrano. Ne risulterà un'analisi storica che, attraverso le riflessioni di Schmitt e Foucault, individuerà nel Leviatano un paradigma di governo che eccede le proprie strutture artificiali di legittimazione. Questa lettura incrociata ci consentirà infatti di superare l'opposizione formulata da Foucault in Il {aut défendre la société, tra una concezione meramente giuridica della 1 Cfr. Cari Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Si,m u,uJ Fehlschlageines politischen Symbols, Hohenheim Verlag, Kéiln-Lovenich 1982; tr. it. di C. Galli, Sul Leviatano, il Mulino, Bologna 2011, p. 39: «Nominare il Leviatano non ha il semplice valore di illustrare un pensiero, come un qualunque paragone che serva a chiarire una dottrina politica o come una qualsivoglia citazione; piuttosto, col Leviatano si evoca un simbolo mitico, pieno di reconditi significati». 1 Mi riferisco qui alla celebre frase di apertura di Der Begriff des Politische,1 (1932): «Il concetto di Stato presuppone quello di "politico"», in Cari Schmitt, Der Begriff des Politischen, Duncker & Humblot, Bcrlin 1963; tr. it. di G. Miglio e P. Schiera, Le categorie del"politico", il Mulino, Bologna 2012, p. 101.

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sovranità hobbesiana - sintetizzata nella formula potere-contratto o contratto-oppressione - e una concezione storica e concreta del potere statuale - condensata nella formula guerra-repressione o dominazionerepressione3. La forma politica del Leviatano si dimostrerà così essere fondata, sia da un punto di vista ipotetico-razionale che empirico e reale, su una contemporanea neutralizzazione e conservazione del conflitto. Il mio contributo sarà diviso in tre parti: in primo luogo intendo affrontare la questione della genesi della forma statuale così come è stata formulata da Hobbes nel 1651; in secondo luogo mostrerò come questa sia stata variamente problematizzata da Schmitt, riferendomi al suo celebre saggio del '38 e al successivo "sistema-a-cristallo"4; e infine, mi dedicherò all'interpretazione foucaultiana di Hobbes e ai problemi della "concretezza" e della "guerra".

1.

La forma astratta dello Stato e la concretezza del confl.itto

Con la pubblicazione del Leviathan, or the Matter, Forme, & Power of a Common-wealth, Ecclesiasticall and Civil, Hobbes diede forma [" Forme") alla sua dottrina dello Stato con lo scopo di presentare una costruzione teorica in grado di fondare - attraverso un "discourse of Common-wealth"s - i presupposti per un potere civile stabile che fosse in grado di scongiurare i rischi di una guerra civile. Quando scrive, Hobbes ha in mente la concretezza della situazione inglese - il passaggio dalla monarchia degli Stuart alla guerra civile, culminato nell'esecuzione di Carlo I, e l'instaurazione del potere repubblicano di Oliver Cromwell -; una situazione a fronte della quale egli si preoccupa di fondare un modello astratto della sovranità che riguardasse non tanto la legittimazione di un singolo individuo sovrano, quanto la J Cfr. Michcl Foucault, "li {aut défmulre la société". Cours au Co/lège de France ( I 975· z976), Scuil-Gallimard, Paris 1997; tr. it. di M. Bcrtani e A. Fontana, Bisogna difendere la società, Fcltrinclli, Milano 2.02.0, p. 2.4. 4 Cfr. Cari Schmitt, Der Leviatha11 i11 der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sin11 und Fehlschlag eines politischen Symbols cit.; Il "sistema-a-cristallo" è invece apparso per la prima volta in una nota alla sesta edizione del 1963 di Cari Schmitt, Der Begriff des Politischen cit., pp. 1 50-1 5 2.. S Thomas Hobbes, Leviatban, or Tbe Matter, Forme, & Power of a Common-wealth Ecclesiastica/I and Civil, Andrcw Crooke, Green Dragon in St. Paul Church-yard, London 1651; tr. it. di R. Santi, Leviatano, Bompiani, Milano 2.018, p. 4.

LA FORMA POLITICA DEL LEVIATANO

sede stessa del potere. «I speak not of the men, but (in the abstract) of the seat of power» 6• Ciò che interessa a Hobbes è di costruire in abstracto un gigantesco "animale artificiale", creato dall'arte dell'uomo, imitatore di Dio/artefice della natura, al fine di proteggerlo e difenderlo. Imitando quel razionale ed eccellente prodotto della natura che è l'uomo, Hobbes descrive così il suo grande Leviatano: una «potenza che non conosce eguali sulla terra»7, rappresentata da un corpo politico antropomorfo la cui salute dipende dalla concordia e la cui morte dalla guerra civile. Come illustrato nella celebre immagine all'inizio dell'opera, il great Leviathan rappresenta l'unità astratta e pacifica di tutti i cittadini 8: una moltitudine unita in un corpo, ecclesiastico e civile, che detiene la spada del potere secolare e il pastorale del potere ecclesiastico. Già dal frontespizio Hobbes dichiara infatti di voler proporre un modello della sovranità in grado di tenere insieme Stato e Chiesa, fondazione naturale e teologica del potere civile, inscrivendo il potere religioso all'interno di un discorso autonomo sull'origine e la generazione dello Stato in senso naturale. Il principio vitale che muove l'astratta creatura del Leviatano, questo gigantesco automa dall'anima artificiale, non consiste infatti nell'ispirazione o trasmissione di un potere divino, ma nella sua sovranità ["sovereignty"]9. L'autorità e la dignità del potere civile non dipendono più da una legittimazione religiosa, secondo il modello della sovranità medievale, ma da un processo di autorizzazione dal basso e da un patto stipulato tra uomini, i quali cedono il proprio diritto naturale a un sovrano terzo, realizzando così il principio rappresentativo in virtù del quale esso è chiamato ad agire legittimamente10• Originato da un pactum unionis - paragonato da Hobbes al fiat divino, quel «let us make man» pronunciato da Dio nella creazione11 6

lbid. lvi, p. 3: «Non est potcstas Super Tcrram quac Comparctur ci lob. 41.24». 8 Cfr. Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore, Adclphi, Milano 201 5. 9 Cfr. Cari Schmitt, Der Staat als Mechanismus bei Hobbes ,md Descartes, «Archiv fiir Rcchts-und Sozialphilosophic», 30, 1936/37, pp. 622-631.; tr. it. di C. Galli, Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano 1986, pp. 45-57. ' 0 Per un approfondimento del concetto di rappresentanza e della sua trattazione all'interno dell'opera hobbcsiana, cfr. Hanna Feniche! Pitkin, The Com:ept of Representation, Univcrsity of California Prcss, Berkeley I 972; tr. it. di E. Zaru, Il co11cetto di rapprese11ta,,za, Rubbcttino Editore, Sovcria Mannelli 2017. 11 Thomas Hobbcs, Leviata110 cit., p. 1. 7

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-, lo Stato si presenta così come il risultato dell'aggregazione di una moltitudine amorfa e in competizione naturale, la quale "decide" di unirsi in un corpo politico e sociale per sottrarsi alla propria paura reciproca 12 • Per costruire la sua macchina statuale - una macchina, come osserverà Schmitt, molto simile a un primo grande dispositivo di sicurezza atto a garantire la pace e la protezione dei singoli 1 3Hobbes considera dunque in primo luogo la sua materia e il suo artefice: ovvero, l'uomo con le sue passioni. Nella prima parte del suo sistema egli formula una vera e propria antropologia dei desideri umani; un «sistema [chiuso] dei bisogni» 1 4, da cui deriva la teorizzazione di uno stato di natura conflittuale, nel quale l'uomo vive una condizione di continua paura, incertezza e diffidenza. Non è il caso qui di soffermarci sul noto problema interpretativo che vede nello stato di natura hobbesiano da un lato una mera ipotesi razionale un'ipotesi dialettica e ontologicamente "nulla" rispetto alla costruzione statuale che ne emerge 15 - e dall'altro una condizione storica o empirica reale - attestata nelle tre condizioni concrete della guerra civile, delle società primitive e della guerra tra stati1 6 • Ciò che conta in ultima istanza è il fatto che Hobbes affermi che senza un potere che tenga assoggettate le tendenze disgreganti e asociali dell'animo umano, gli uomini si troverebbero in una condizione di guerra di tutti contro tutti: «without a common power to keep them ali in awe, they are in that condition which is called war» 1 7. u. Sulla problematica natura "decisionista" del pactum rimando all'Introduzione di Carlo Galli a Cari Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes cit. 13 La tesi di Schmitt è che questa definizione dello Stato anticipi la successiva defini• zione ottocentesca della polizia. C1r. Cari Schmitt, Le categorie del •politico" cit., p. 91. 14 Cari Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes cit., p. 152.. 1 s Cfr. Carlo Galli, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna cit., p. 52.: «Infatti, la natura è in Hobbcs solo un'ipotesi argomentativa costruita in modo tale - priva di ordine e di senso com'è, vera tabula rasa - da dover essere necessariamente abbandonata, lasciata alle spalle; la natura non è ontologicamente "qualcosa", ma è solo il disordine specularmente opposto all'ordine, in una pretesa esclusione reciproca. Anche questa natura è un artificio, è un costrutto logico che serve a essere negato specularmente dalla politica». 16 La tesi di Norberto Bobbio è che si tratti di una pura ipotesi razionale che conosce tuttavia una verifica empirica in tre situa7.ioni storicamente constatabili, ossia nelle società primitive (condi7.ione prc-statale), nello stato di guerra civile (condizione anti-statale) e nella società internazionale (condizione intcr-statale); cfr. Norberto Bobbio, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 1989, pp. 41-42.. 17 Thomas Hobbes, Leviatano cit., p. 2.06 (corsivi miei).

LA FORMA POI.i'OCA Dl!L LEVIATANO

Senza un potere comune in grado di tenerli in soggezione, gli uomini si troverebbero infatti in una guerra «of every man against every man»; una condition, questa, che va intesa come uno stato potenziale, non necessariamente attuale, in qualche modo precedente [ «out of civil state»] e continuamente operante all'interno del dispositivo di legittimazione della sovranità in quanto suo elemento negativo. Se si prende sul scrio la metafora meteorologica proposta da Hobbes nel Cap. XIII, si comprende come questo stato di conflitto non riguardi né propriamente una condizione precedente all'ordine, né una guerra permanente, ma piuttosto una condizione latente e costante che rischia da un momento all'altro di prccipitare18 : For as thc nature of foul wcathcr, licth not in a showcr or two of rain; but in an inclination thcrcto of many days together: so the nature of war, consisteth not in actual fighting; but in the known disposition thereto, during ali the time there is no assurance to the contrary. Ali other time is pcacc.

La guerra non consiste infatti nella battaglia o nell'atto di combattimento, afferma Hobbes, ma in un periodo di tempo ["time"] in cui la volontà di contendere in battaglia sia sufficientemente conosciuta. Un tempo, dunque, che continua a sussistere nella paura e nelle minacce, anche dopo la costituzione di un potere comune, e che anzi assicura proprio questo potere nella sua legittimità 19• Come ha sottolineato Roberto Esposito, ciò che tiene in piedi la "macchina" del Leviatano è infatti la paura della sua stessa disgregazione 20; la paura della guerra civile, della morte e della frammentazione sociale che spingono l'uomo alla sottomissione volontaria e obbediente nei confronti di un potere in grado di mantenere la pace. Da antiaristotelico Hobbes slega infatti la scienza che riguarda l'origine dello Stato da ogni continuità generativa tra una condizione naturalmente socievole dell'uomo e la sua aggregazione politica; la forma politica e la società civile non sorgono accanto alla famiglia come un fenomeno sociale naturale, ma come il risultato di un patto artificiale. Gli uomi'8

lbid.

In questo quadro è piuttosto la pace a presentarsi come un momento "eccezionale": un "otber time" di sospensione delle contese, in cui vige la certe7.7.a della rinuncia di tutti gli uomini alla propria volontà di contendere. 10 Sul ruolo della paura nella costruzione del potere del Leviatano si veda il primo capitolo di Roberto Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 2.006, pp. 3-2.8. '9

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ni non provano infatti piacere, ma al contrario una grande quantità di angoscia, nello stare insieme dove non ci sia un potere sovrano capace di assoggettarli tutti. Senza un tale potere, afferma Hobbes, non ci sarebbero infatti né coltura, né commercio, né navigazione, né conoscenza, né arti, né lettere. In una parola: società ["society"]. Nello stato di natura hobbesiano non c'è società. È questo il punto da tener fermo quando si legge il Leviatano. In questa condizione - uno stato negativo che precede non solo la cessione del proprio diritto naturale al sovrano, ma la stessa costituzione di un corpo sociale in quanto tale - gli uomini vivono in uno stato conflittuale che con Hegel potremmo definire "atomistico". Non, dunque, un conflitto generativo di ordine e che produce associazione o soggetti politici, ma un conflitto che - come è stato notato - è più simile a un caos che precede la costituzione di un kosmos2 1 • La forma politica e la società civile sorgono più precisamente dalla negazione di tale conflittualità caotica, attraverso la rinuncia di ogni individuo alla propria pretesa affermativa su ogni altro. Una negazione che, come vedremo più avanti, sorregge la formazione di un corpo politico - artificiale e unitario - che metterà in campo delle strategie di assoggettamento ben meno "neutre" di quanto vorrebbero sostenere le interpretazioni che, con Schmitt e Foucault, potremmo definire "liberali" della filosofia giuridica hobbesiana22 • Le interpretazioni che vedono in Hobbes un semplice precursore e fondatore della tradizione del giusnaturalismo concepiscono infatti l'origine dello Stato hobbesiano come una fuoriuscita originaria e definitiva dallo stato di natura, il quale rappresenta la precondizione conflittuale al sorgere di un ordine politico pacificato. Il Leviatano si istituirebbe così nell'antitesi tra uno stato pre-politico da superare e uno stato politico al quale approdare; una forma - geometrico-euclidea - sospesa su un abisso e generata da un salto razionale e da un pactum attraverso il quale si creerebbe ordine dal nulla. Ciò che ha portato a numerosi problemi nell'interpretazione del Leviatano è il fatto che questo pactum - questo passaggio dal conflitto atomistico alla società civile e dalla guerra alla sua eliminazione - venga paragonato da Hobbes Cfr. Carlo Galli, ContingenZtJ e necessità nella ragione politica modema cit. 21-22; Cari Schmitt, Sul Leviatano cit., pp. 94-95; Sullo stesso argomento anche Mauro Famesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes, Quodlibct, Macerata 2013. 11

u Cfr. Michcl Foucault, ABisog,,a difendere la società" cit., pp.

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stesso al fiat divino, come se la creazione del Leviatano accadesse all'improvviso e quasi per "miracolo" in un passaggio costituente e razionale dal disordine all'ordine, dalla guerra alla pace, dall'informe alla "forma"2 3. Eppure, come abbiamo visto, il conflitto e la guerra non sono mai eliminati nel passaggio dallo stato di natura alla società civile, ma piuttosto incanalati e conservati nella descrizione di una condizione antropologica immodificabile per la quale l'uomo rimane ancorato a una radicale inimicizia che permane e che funge da fondo "politico" alla "politica" come sua possibilità più propria.

L'unità mitica del Leviatano e la doppia apertura dell'ordine moderno 2.

Il confronto di Schmitt con Hobbes su questi temi si può dire un confronto durato tutta una vita. Tra i testi hobbesiani di Schmitt il saggio più noto e controverso è sicuramente quello del '38, intitolato Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, nel quale Schmitt sviluppa le sue tesi sulla polivalenza dell'immagine del Leviatano ragionando sul valore mitico da attribuire a questo strano simbolo politico 24• Dopo essersi dedicato una prima volta a Hobbes in una conferenza consacrata a Cartesio, Schmitt interroga infatti la storia di quest'immagine biblica - legata alla Cabala e alla dottrina mandaica, ali' Apocalisse di Giovanni e al protestantesimo luterano-, arrivando a sostenere che il Leviatano rappresenti originariamente un simbolo pagano dell'unità politica. Un simbolo positivo, dunque, che nella prospettiva schmittiana è in grado di riunire in un'unica immagine la totalità mitica di Dio-uomo-animale-macchina, incarnando così quella che è la vera unità dello "Stato totale" secondo la definizione proposta da Hclmut 1 3 Cfr. Cari Schmitt, Sul Leviatano cit., p. 54: «Il terrore dello stato di natura fa riunire gli individui pieni di paura, la loro paura sale all'estremo, scocca una scintilla della "ratio" e improvvisamente davanti a noi si erge il nuovo Dio•. 1..4 Già nella sua confcren1.a dedicata a Cartesio Schmitt afferma che il simbolo del Leviatano sarebbe composto di tre immagini diverse e inconciliabili tra loro: quella mitica del mostro biblico, quella personalistica, legata al meccanismo della rappresentanza, e quella meccanicistico-cartesiana, in grado di tenere insieme le due precedenti, facendo del Leviatano una perfetta macchina animata della persona sovrano-rappresentativa, il «primo moderno meccanismo in grande stile». Cfr. Cari Schmitt, Sul Leviatano cit., p. 54.

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Schelsky2 5. Nel saggio schmittiano la contrapposizione tra pensiero liberale cd ebraico da un lato - pensiamo qui alla presa di distanza rispetto all'interpretazione straussiana del rapporto Hobbcs/Spinoza - e concezione mitica del potere dall'altro, è netta e accompagnata da una serie di considerazioni negative sulla ricezione ebraica della figura del mostro biblico. L'interpretazione schmittiana di Hobbcs si colloca infatti ai margini delle due interpretazioni prevalenti all'epoca, che tendevano a estremizzare alcuni punti della dottrina hobbesiana, appiattendola da un lato sulla dottrina del totalitarismo e dall'altro sulla tradizione liberale. Pensiamo qui alla critica di Schmitt al cattolico Joseph Vialatoux, il quale vedeva in Hobbcs, un nume tutelare del bolscevismo, del fascismo, del nazionalsocialismo e dei "Deutsche Christen", ma anche a Rcné Capitante Fcrdinand Tonnies, i quali insistevano invece sul carattere individualistico e borghese della costruzione politica hobbesiana 26• L'interpretazione schmittiana si colloca nel solco di questo dibattito, tutt'ora aperto, proponendo un'articolazione più complessa di quelli che sono gli elementi - mitici, ma anche estetici - che influenzarono l'immagine mostruosa del Leviatano e la sua ricezione nella storia del pensiero filosofico moderno. La questione centrale intorno alla quale ruota la riflessione di Schmitt riguarda infatti il superamento delle contraddizioni dello Stato moderno liberale; ovvero la deriva tecnica delle democrazie liberali da un lato - affrontata attraverso i concetti di "neutralizzazione" e "spoliticizzazione" - e il problema dell'unità dello Stato dall'altro - ripensata attraverso il concetto di "Stato totalc" 27 • Sia in Schmitt che in Hobbcs ne va infatti del problema dell'unità politica in quanto tale: secondo Schmitt, il Leviatano rappresenterebbe quella figura mitica, onnipotente e sovrana, in grado di mutare gli uomini-lupi in cittadini e di combattere la tipica divisione giudaico-liberale - propria anche di un certo cristianesimo, non certo cattolico - tra politica e religione, tra potere pubblico e fede interiore, che portò la moderna forma politica 1 s Cfr. Hclmut Schclsky, Die Totalitiit des Staates bei Hobbes, «Archiv fiir Rcchts- und Sozialphilosophic», 31, 1938, pp. 176-193. 2'i Schmitt si riferisce in nota a Joscph Vialatoux, La Cité de Hobbes. Théorie de l'état totalitaire, essai sur la conception naturaliste de la civilisation, Lccoffrc et Gabalda, Paris-Lyon 1935; Rcné Capitant, Hobbes et l"État totalitaire, «Archivcs dc Philosophic dc droit et dc Sociologie juridiquc», 6, 1936; Fcrdinand Tonnics, Thomas Hobbes Leben und Lehre, Frommanns, Stuttgart 1925. 17 Cfr. Carlo Galli, Introduzione a Cari Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes cit., pp. 1-28.

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a una scissione definitiva nelle due dimensioni di pubblico e privato. Il Leviatano è, secondo Schmitt, un simbolo unitario di ordine e sicurezza capace di combinare in un'unica immagine quella di un grande uomo e di una grande macchina, di un grande animale e di un Dio mortale, sottolineando allo stesso tempo come la funzione rappresentativa di questo gigantesco "automa" sia autonoma rispetto a qualsiasi istanza religiosa. Il "Dio mortale" nella prospettiva schmittiana non è affatto il defensor pacis di una pace riconducibile a Dio, quanto il creator pads di una pace terrena. Il suo ruolo è quello della macchina di sicurezza, il suo fine la protezione efficace. Il principio sul quale si regge l'intera impalcatura rappresentativa della persona sovrana - trascendente in un senso sempre soltanto giuridico, mai metafisico - risiede infatti nella conservazione e difesa della vita dei sudditi, intesa come esistenza fisica e terrena. È per questo che, enfatizzando la funzione protettiva della macchina statuale e dimenticando quell'unità mitica che gli avrebbe concesso di recuperare l'unità pagana di politica e religione, il Leviatano finì per trasformarsi nel primo prodotto dell'epoca della tecnica. Nella lettura di Schmitt è proprio un ebreo liberale come Spinoza a portare alla scissione definitiva di questi due ordini simbolici. Radicalizzando la divisione tra interiorità della coscienza e pubblicità del potere che Hobbes aveva solo accennato, Spinoza distrusse il mostro marino dal suo interno, portandolo a una graduale "neutralizzazione" che lo consegnò all'epoca contemporanea nella forma positivistica, tecnica e burocratica dello Stato di diritto ottocentesco. Ecco perché Schmitt ci parla di senso ["Sinn"] e fallimento ["Fehlschlag"] di un simbolo politico. Nella prospettiva storica delineata dal giurista, Hobbes è infatti collocato agli inizi dell'epoca moderna sia come involontario fondatore di una concezione razionalistica e liberale dello Stato, che come «primo pensatore del decisionismo». In questa doppia genealogia l'onnipotenza del Leviatano ha da un lato a che fare con la possibilità di una decisione assoluta e concreta sul comando legale e dall'altro con la necessità di garantire la sicurezza dei sudditi e, dunque, con una prestazione specifica della macchina statuale, la quale troverebbe così in sé il proprio "diritto" e la propria "verità" 28 • L'interpretazione schmittiana di Hobbcs è dun.tB Cfr. Cari Schmitt, Sul Leviatano cit., p. 81: «Ma l'idea dello Stato come magnum artificium, tecnicamente perfetto e creato dall'uomo, come macchina che rinvia soltanto a sé-cioè nella prestazione e nella funzione- il proprio "diritto" e la propria "verità", è

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que tutt'altro che pacifica. Essa conserva una complessità e un'ambivalenza che potremmo dire inerenti allo stesso sistema hobbesiano. Quella più nota, e responsabile di quell'identificazione Schmitt/ Hobbes che porterà molti studiosi di Schmitt a una semplificazione della sua comprensione del Leviatano, è sicuramente l'ambivalenza "decisionista", contenuta in Politische Theologie e in Ober die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens 2 9. Ma il senso profondo del valore attribuito da Schmitt alla dottrina giuridica hobbesiana va ricercato in una nota aggiunta all'edizione del '63 di Der Begriff des Politischen3°, nella quale Schmitt inserisce il suo celebre "sistema-acristallo", il «frutto di una ricerca durata tutta la mia vita»3 1 • Nel "sistema-a-cristallo" è condensata infatti in forma schematica la vera convergenza tra il pensiero giuridico di Schmitt e quello del filosofo inglese. Nel cristallo di Hobbes si rende infatti visibile quella doppia apertura dell'ordine politico di cui ha parlato Carlo Galli in riferimento al pensiero giuridico di Schmitt: l'apertura nei confronti della contingenza e dell'"Idea", dell'immanenza e della trascendenza, della concretezza e della forma. Anche in Schmitt, come in Hobbes, ne va infatti della messa in forma del politico e della tenuta dell'ordine e dell'unità politica in quanto tali. Come pensatore della crisi terminale della modernità, Schmitt scorse nell'assenza di fondamento la vera essenza della politica moderna, e lo fece a partire da un pensatore sistematico come Hobbes e dalla sua concezione di una radicale e originaria inimicizia dell'uomo. Come abbiamo visto, il punto di partenza della dottrina hobbesiana è il confiitto nello stato di natura; uno stato pre-politico - non impolitico o antipolitico - dal quale scaturisce concretamente come sua antitesi, gestione e canalizzazione, lo Stato come forza che mantiene l'ordine sociale, e lo trattiene da una sua deriva bellicosa. Una nuova condizione, dunque, chiamata a gestire e dominare i difetti della prima. Schmitt pensa questo stesso passaggio a partire dal problema dell'assenza di un fondamento nella stata concepita e rappresentata sistematicamente, con chiare7.7.a concettuale, per la prima volta da Hobbcs». 21!1 Cari Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveriinitiit, Duncker & Humblot, Bcrlin 192.2., e Cari Schmitt, Ober die drei Arten des rechtswissenscha~lichen Denkens, Duncker & Humblot, Berlin 1934. Entrambi i saggi sono tradotti in italiano in G. Miglio e P. Schiera (a cura di), Le categorie del "politico" cit. 3° Cfr. Cari Schmitt, Le categorie del "politico" cit., pp. 150-152.. 3 ' lvi, p. 151.

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politica moderna e attraverso la definizione dell'essenza del "politico" come distinzione amico/nemico. Al pari di quella schmittiana, la dottrina politica hobbesiana è infatti fondata su una conflittualità radicale e ineliminabile, ci dice Schmitt: il "sistema-a-cristallo" è una costruzione razionale sospesa su un abisso che ha a che fare in primo luogo con la concretezza e la contingenza del "politico" e con la possibilità sempre latente della guerra. Andando oltre il suo razionalismo sistematico, Schmitt vede infatti in Hobbes un pensatore della concretezza e un teorico della politica come azione e decisione concreta. Di fronte ai conflitti religiosi egli reagì consapevole della necessità di una loro "neutralizzazione" politica. La legittimità dell'ordine politico non poteva più passare per un'autorità indiretta come quella della Chiesa papale-, ma doveva fondarsi come potestas directa. Come abbiamo visto, Hobbes fonda l'autorità della potestas su un passaggio originario dal caos all'ordine, dalla guerra alla pace, dall'antagonismo dei singoli alla loro pacificazione, attraverso un pactum che obbliga tutti ugualmente alla sottomissione volontaria nei confronti di un potere comune. In questo passaggio - il quale, più che rappresentare un'ipotesi ontologico-politica reale, sembra quasi far parte di una finzione atta a garantire la stabilità del potere sovrano in quanto tale - si instaura quella doppia relazione dell'ordine legale, ci dice Schmitt, da un lato con chi è tenuto a rispettarlo al fine della propria autoconservazione (sistema dei bisogni), dall'altro con I'auctoritas che lo incarna dandogli efficacia concreta e facendosi interprete di quell'unica veritas della rivelazione che sussume sotto di sé tutte le altre (apertura alla trascendenza). È in questo senso che Schmitt può affermare che, pur aprendo la strada a una concezione totalmente autonoma e immanente della politica, Hobbes conservi un'apertura nei confronti della trascendenza. Leggendo il "sistemaa-cristallo" dall'alto verso il basso si comprende infatti che le leggi di natura non sono sufficienti ad assicurare e fondare il potere della macchina statuale, così come lo Stato di diritto e le democrazie liberali non riescono a reggersi semplicemente sui presupposti del positivismo giuridico. Allo stesso modo, se si legge il sistema dal basso verso l'alto, si comprende come la verità da sola non garantisca l'obbedienza, ma abbia bisogno di una potestas diretta in grado di renderla effettiva, secondo quello che è il problema schmittiano

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della Rechtsverwirklichung e quello weberiano dell'uso legittimo della violenza3 2 • In una nota al suo ultimo testo su Hobbcs, Schmitt scriverà: «Il cristallo di Hobbcs mostra che il positivismo non esclude la trascendenza (tanto poco quanto la trascendenza esclude il positivismo)»H. La serena sicurezza nella quale gli uomini si trovano in tempi di pace occulta infatti la realtà conflittuale sulla quale si regge la {ictio della forma politica moderna, la quale si nutre della paura del conflitto e si impone con la coercizione.

3. Il potere dello Stato e la continuazione della guerra con al-tri mezzi Come noto, la prospettiva di Foucault si definisce in opposizione a quella giuridica hobbesiana. Abbandonando esplicitamente il modello "classico" della sovranità, nei suoi corsi tenuti al Collège de France, Foucault concepisce il potere a partire dal suo carattere relazionale. Il potere non si fonda su sé stesso e non si genera da sé stesso, afferma Foucault: «il potere non si dà, non si scambia né si riprende, ma si esercita e non esiste che in atto»34. I meccanismi di potere non sono infatti concepiti nella loro astrattezza come orientati a una pacificazione della società, ma come intrinseci ai rapporti sociali stessi: ai rapporti produttivi, alle relazioni familiari, sessuali etc. In opposizione alla concezione liberale del potere politico e contro i philosophes del XVIII secolo, Foucault pensa al potere statuale non nella sua forma giuridica e astratta, come se questa riguardasse un ordine politico e legittimo scaturito dal nulla, quanto come una rete fitta di rapporti e di relazioni che nella loro complessità presentano

31 Si è spesso parlato in riferimento al Leviatano di una doppia fondazione del potere sovrano, naturale e teologica. Schmitt, invece, tenta di spiegare come una doppia apertura quella che sembrerebbe una doppia fondazione: come una interrelazione o un'interdipendenza dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto, tra leggi di natura e leggi dello stato, tra la necessità dei singoli di essere protetti e la necessità del sovrano dì ricevere obbcdien7.a e dì governare senza essere contestato nel suo legittimo esercizio della violenza. 33 Cari Schmìtt, Die vollendete Reformatio11. Bemerku11gen und Hi,iweise zu neuen Leviathan-foterpretationmi, «Dcr Staat», 4, 1965; tr. it. di C. Galli, Scritti su Thomas Hobbes cit., p. 190. 3'4 Miche! Foucault, "Bisogna difendere la società" cit., p. 2.2.. Si veda a tal proposito anche la raccolta dì interventi dì Mìchel Foucault, Microfìsica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977.

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delle strategie o delle tecnologie di governo storicamente determinate e che dipendono da diversi fattori economici, religiosi, sociali, storici e culturali. Prendendo dunque le distanze da una certa lettura di Hobbes, potremmo dire che il modello foucaultiano si distingua da quello "giusnaturalistico" in quanto individua il potere e le sue strategie nel sociale, mentre il secondo aveva la pretesa di vedere istituito il sociale proprio a partire dal potere. Come abbiamo visto, quello del Leviatano è un modello che presuppone una concezione razionalistica dello Stato e del potere che ne deriva, che ha a che fare con l'astrazione e la creazione artificiale di una forma statuale a partire da un patto di unione, concepito nei termini teologico-politici di una "creatio ex nihilo". Il modello del Leviatano riguarda infatti un passaggio originario dal disordine ali' ordine, dal caos alla società, dal conflitto alla pace, dall'uguaglianza degli individui alla loro pacificazione artificiale. Il punto di partenza è l'indifferenziazione nello stato di natura, il punto di arrivo il potere civile, e il mezzo attraverso il quale avviene questo passaggio, un patto stipulato tra individui a favore di un potere comune capace di assoggettarli tutti. Come ha osservato Foucault nel suo corso del '76 - un corso tenuto tra la pubblicazione di Sourveiller et punir e La volonté de savoir, e che presenta una riflessione storica articolata proprio intorno al problema della sovranità giuridica moderna -, la genesi della forma politica hobbcsiana non deve però essere concepita come una semplice fuoriuscita dallo stato di natura. Hobbes, afferma Foucault, non si limita infatti a collocare la guerra "alle origini dello stato nell'aurora reale e fittizia del Leviatano - ma la insegue e la vede minacciare e sgorgare anche dopo la costituzione dello stato, negli interstizi, ai limiti o alle frontiere dello stato"35. Oltre ai tre esempi classici di "guerra permanente", posti in qualche modo al di fuori della costruzione statuale del Leviatano, Hobbes ci fornisce infatti alcune prove empiriche, tratte dalle azioni quotidiane di ognuno, che attesterebbero un perdurare dell'inimicizia dell'uomo anche dopo la costituzione dell'ordine civile. Chiudendo a chiave le porte, armandosi durante i viaggi e serrando i forzieri persino in casa propria, l'uomo compirebbe un quotidiano atto di accusa nei confronti del suo simile, confermando così il suo naturale atteggiamento di pan3s

Michcl Foucault, "Bisog,,a difendere la società" cit., p. So.

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ra e diffidenza3 6• Ed è precisamente su questa paura che si fonda il dispositivo politico hobbesiano: ovvero, sulla paura e sulla certezza che l'uomo ha di poter entrare in confl.itto con ogni altro uomo. La tesi di Foucault è che alle "origini" dello Stato hobbesiano non ci si trovi in una reale condizione di guerra, quanto in un «teatro delle rappresentazioni scambiate»37 in cui vige un sentimento di paura reciproca, legato a delle minacce di violenza sempre e solo simulate. Il passaggio alla sottomissione nei confronti dello Stato avverrebbe semplicemente attraverso un processo di fissazione di una differenza di forza e con uno slittamento che la collocherebbe in maniera fittizia da una parte. Secondo Foucault, Hobbes non concepisce, dunque, l'origine dello Stato come un vero stato di "guerra" da superare. Questa viene anzi occultata nella finzione che vede nell'istituzione della sovranità dello Stato un momento generativo di pace. Rovesciando il noto aforisma di Von Clausewitz, Foucault afferma dunque che il vero discorso rimosso della teoria hobbesiana - la quale fa della politica una continuazione della guerra con altri mezzi - sia proprio il discorso della guerra e della conquista, esplicitato invece in termini storico-filosofici nelle riflessioni di altri autori, come mostra l'esempio di Boulainvilliers3 8• La vera essenza del potere del Leviatano non risiederebbe, dunque, nella giustificazione formale e giuridica della sovranità - come se esistesse soltanto una sovranità per istituzione-, ma nell'occultamento di un rapporto di forLa originario - sovranità per acquisizione - nel quale si genera una disparità, attraverso cui una forza specifica riesce ad avere il predominio su tutte le altre. Quello di Hobbes è difatti un discorso filosofico-giuridico, afferma Foucault, che nasce per far tacere un altro discorso: quello dello storicismo politico. Ed è proprio di questo discorso che Foucault intende fare la storia e "tessere l'elogio"39 nella sua analisi genealogica. Nella prospettiva foucaultiana la forma politica del Leviatano, e più in generale la nascita dello Stato moderno, non andrebbe dunque concepita nella sua astrattezza e artificialità giuridica, ma nella sua concretezza storica, a partire dalle strategie messe in campo per la conquista e la conser36

lvi, p. 83.

37 lvi, 38

p. 82.

Ivi, pp. 81-83. 39 lvi, p. 99·

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vazione del potere. In termini diversi, ma andando nella stessa direzione, potremmo dire in conclusione che anche Schmitt abbia voluto affermare - come fa ripetutamente - che il "Dio mortale" piuttosto che creato per patto, sia semplicemente "evocato" nella figura mitica del Leviatano, e pertanto trascendente, sia rispetto ai membri del contratto, sia rispetto alla loro somma4°. Una trascendenza giuridica, ma anche storica, in cui, come abbiamo già visto, la guerra e il conflitto sono conservati come possibilità estreme nell'azione e nella decisione politica concreta della persona sovrano-rappresentativa. Sia nella lettura foucaultiana che in quella schmittiana è infatti in gioco ciò che è al di fuori e al di là del diritto positivo e delle sue astrazioni razionali: la storia e la concretezza, la guerra e la violenza, le lotte e la resistenza, la decisione e le guerre civili di religione. Come abbiamo visto sia nell'interpretazione storico-orizzontale proposta da Foucault che in quella katecontico-verticale teorizzata da Schmitt, il Leviatano diviene, dunque, espressione e simbolo di una battaglia vitale e storica: una lotta politica concreta, combattuta intorno al problema della divisione dei poteri e contro la Chiesa di Roma, contro la nobiltà cetuale e la pretesa da parte di piccoli gruppi in rivolta di fondare una nuova forma politica su una propria verità4 1 •

40 Cari

Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes cit., p. 54; cfr. Cari Schmitt, Sul Leviatano cit. Sarebbe interessante in altra sede approfondire alcune considera7loni di Schmitt a proposito del diritto di rcsistcn7.a e dell'appello pubblico alla verità in Sul Leviatano, ponendole a confronto con le riflessioni di Foucault intorno al significato politico della pa"esia. 4'

Rancièrc al di là della politica marginale: tre forme di soggettivazione politica Andcrs Fjcld

Il concetto di soggettivazione appare nella filosofia politica nella seconda metà del secolo XX, in particolare con Gillcs Delcuzc, Michel Foucault e Jacqucs Rancièrc. Una volta rigettata la teoria del soggetto autonomo caro all'Illuminismo - il soggetto come legislatore di sé, i cui principi di conoscenza del mondo gli sono immanenti -, le soggettività si vedono ormai assorbite in un campo sociale dotato di meccanismi di codificazione, identificazione e dominio. Dc-individualizzati e storicamente situati, i soggetti sono presi nelle maglie del potere e ogni dimensione personale, anche la più intima, si fa già politica. Nelle ambizioni critiche di pensatori come Karl Marx, Fricdrich Nietzsche e Sigmund Freud, la soggettività diviene un processo di negoziazione costante con il mondo, una costruzione processuale i cui riferimenti sono creati, spesso alla cicca, nel movimento stesso. Cosa accade, tuttavia, quando una cosa, un gesto, dei corpi, delle voci non si iscrivono più nelle coordinate previste per la loro esistenza quando si sottraggono alle codificazioni che le identificano e le regolano? È qui che si situa, a mio avviso, il pensiero politico di Jacqucs Rancièrc: nella fascinazione per gli orizzonti aperti, per le possibilità ridistribuite e per gli effetti prodotti dalle brecce, dagli scarti, dalle interruzioni, dagli intervalli, dalle deviazioni e dalle disidcntificazioni in seno al campo sociale. Fin dal suo primo libro, La leçon d'Althusser 1 , l'attenzione alle pratiche e agli immaginari degli attori informa la sua critica della tradizione marxista, della sociologia e della storiografia. Rancièrc denuncia il modo in cui questi saperi anzitutto irrigidiscono i soggetti in una identificazione - in quanto sfruttati, dominati o spettatori passivi - da cui dovranno in seguito cmanci1

Jacqucs Rancièrc, La leçon d'Althusser, Gallimard, Paris 1975.

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parsi. Contro tale postulato di una primaria incapacità di uscire dalla propria situazione di dominazione - che ripiega i soggetti in rappresentazioni che prendono il sopravvento sulle loro stesse percezioni, pratiche e sogni-, la «presunzione di uguaglianza» diviene l'ipotesi di lavoro principale di Rancière. Tale ipotesi è elaborata prima in Le Maitre ignorant2, ma viene «politicizzata» in Aux bords du politique3 e in La Mésentente4 in cui compare la nozione di soggettivazione politica a cui dedicheremo qui attenzione. In questo articolo propongo di «mettere al lavoro» la sua nozione di soggettivazione a partire da una situazione politica singolare, quella del movimento dei diritti civili nato a Montgomery, negli Stati Uniti, tra il 19 5 5 e il 19 5 6. Il mio obiettivo non è né di «rendere concreti» né di «validare» i concetti filosofici proposti da Rancière, ma piuttosto quello di discutere e sviluppare un'ipotesi di lavoro che è allo stesso tempo uno sforzo di «pensare con e contro» il filosofo francese. Tale ipotesi si muove in direzione opposta rispetto alle letture più diffuse della riflessione di Rancière, che tendono a ridurre la sua opera sperimentale, che procede per tentativi, a una semplice contraddizione binaria tra eguaglianza (orizzontale, emancipatrice, politica) e ineguaglianza (gerarchica, dominatrice, poliziesca). Questo schema binario conduce a ciò che Slavoj Zizek chiama una «politica marginalista», che esiste solo nelle «brevi esplosioni di spontaneità rivoluzionaria»5 e la cui finalità si riduce a fare durare il più possibile un'esperienza egualitaria destinata comunque a ripiombare nelle maglie del dominio. Come afferma Alain Badiou, «Rancière si può riassumere in questo modo: ciò che ha valore è sempre l'inscrizione fugace di un termine soprannumerario» 6• Fugace, in quanto

1 Jacqucs Rancièrc, Le Maitre ig11orant: Cinq leçons sur l'émancipatio11 i11tellectuelle, Fayard, Paris 1987; tr. it. di A. Cavazzini, 1/ maestro ignora11te, Mimesis, Milano-Udine 2008. 3 Jacques Rancièrc, Aux bords du politique, Osiris, Paris 1990; tr. it. di A. ln7.crillo, Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2.011. 4 Jacqucs Rancièrc, La Mése11tente, Galiléc, Paris 1995; tr. it. di B. Magni, I/ disaccordo, Mcltcmi, Roma 2.007. 5 Martin Dclcixhc, Justinc Lacroix, Aux bords de la démocratie. Droits de l'homme et politique chez Étienne Balibar, «Raison publiquc", 2., 19, 2.014, pp. 37-51, p. 49. Traduzione nostra. 6 Alain Badiou, Les leço1,s de Jacques Rancière, savoir et pouvoir après la tempete, in Laurcncc Cornu, Patricc Vermercn, La philosophie déplacée. Autour de ]acques Rancière. Horlieu, Lyon 2.006, pp. 131- 154, p. 151. Traduzione nostra.

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la politica si limiterebbe all'interruzione «rara e occasionale» di un ordine sociale che non solo costituisce la quotidianità delle nostre vite, ma nel quale le interruzioni politiche sono destinate a ricadere. In effetti, secondo Jean-Philippe Deranty, «Rancière ha fatto sua la metafora della società come ordine gravitazionale, come una sorta di natura aristotelica, nella quale gli oggetti finiscono sempre per ritornare al proprio posto» 7. Soprannumeraria, perché la politica sarebbe limitata alla «verifica» dell'eguaglianza. I suoi orizzonti e le sue capacità trasformative non supererebbero perciò mai i contorni del loro proprio spazio-tempo. Il problema proprio della politica non sarebbe quello di istituire, di trasformare o di re-istituzionalizzare, ma semplicemente quello di fare perdurare l'esperienza egualitaria, come se quest'ultima fosse un rifugio sospensivo nel mezzo di un mondo intrinsecamente inegualitario. Secondo Zizek, una politica marginalista di questo genere «contiene i semi del proprio fallimento, e deve indietreggiare davanti ali'ordine esistente» 8 • Ciò che propongo, considerando le relazioni tra disobbedienza, strategie politiche e il posto dinamico e centrale della religione nei movimenti dei diritti civili, è che sia possibile pensare più forme di soggettivazione nel quadro concettuale proposto da Rancière. La situazione politica, in questo senso, non consiste nella frattura fra due logiche contraddittorie, ma nell'intreccio non solo tra differenti soggetti e le «loro» soggettivazioni, ma anche tra tre forme diverse di soggettivazione. Ciò che mi interessa è dunque decostruire l'idea per cui una sola nozione di soggettivazione sia sufficiente per pensare un processo di emancipazione politica e gli spessori, le contingenze e le tensioni che caratterizzano i movimenti sociali. È allora su questo fondo filosofico che propongo di esplorare l'idea che ci siano più forme di soggettivazione, tra religione, politica e riorganizzazione della quotidianità, le quali si intrecciano nel movimento dei diritti civili di Montgomery e che io chiamerò disidentificazione polemica, sovraidentificazione religiosa e identificazione conflittuale.

7 Jcan-Philippc Dcranty, Raticière and Co11temporary Politica/ Ontology, « Theory and Event», 6, 4, 2003, http://musc.jhu.edu/journals/theory_and_event/toc/tae6-4-hnnl. Traduzione nostra. 8 Slavoj 1:iick, Le sujct qui fache - Le amtre absent de /'011tologie politique, Flammarion, Paris 2007, p. 316. Traduzione nostra. Da trovare in Il soggetto scabroso.

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La disidentificazione polemica Rancière definisce la soggettivazione politica come un'operazione di disidentificazione polemica: disidentificazione di un'identità assegnata nell'ordine sociale messa in atto da azioni che interrompono il funzionamento «normale» degli spazi di queste assegnazioni, per manifestare dei torti (dei problemi strutturali di cui farsi carico) e aprire così nuove possibilità di vita. «L'attività politica è quell'attività che sposta un corpo dal luogo che gli era stato assegnato, o che cambia la destinazione di un luogo; fa vedere ciò che non aveva modo di essere visto, fa sentire un discorso laddove ne risuonava solo l'eco, fa sentire come discorso ciò che era inteso soltanto come rumore»9. La disidentificazione funziona perciò come dissenso: interruzione dell'ordine sociale, deviazione delle identità assegnate, moltiplicazione del possibile. Il sistema della segregazione al quale si oppone il movimento dei diritti civili negli Stati Uniti si basa sul colore della pelle in quanto marchio identificatore, che assegna ciascuno al «suo» posto, regolando i movimenti e circoscrivendo le possibilità. Si tratta di un tessuto d'assegnazione identitaria che codifica la vita sociale, culturale, economica e politica. Un sistema che funziona secondo delle leggi, dei costumi, delle pratiche, soprattutto di minaccia e di violenza, che operano in seno agli spazi sociali (ospedali, cinema, mercato del lavoro, ascensori, cimiteri, trasporti ... ). Il 1° dicembre 1955, a Montgomery, negli Stati Uniti, contro la norma che regola lo spazio sugli autobus, Rosa Parks si rifiuta di lasciare il suo posto a una persona bianca. Nove mesi prima, nella stessa città, Claudette Colvin, di 15 anni, è la prima persona di colore a dichiarare la propria innocenza dinanzi al tribunale in seguito al suo arresto per lo stesso atto 1°. Già in questo momento, un movimento di protesta è sul punto di scatenarsi, ma non trova il sostegno di alcuni importanti leader neri, che considerano Colvin troppo giovane e troppo impulsiva per rappresentare la figura emblematica di una contestazione collettiva. Due mesi prima di Parks, Mary Louise Smith si rifiuta di alzarsi per fare posto a una donna bianca ma, soprattutto a causa dell'esperienza di Colvin, si dichiara colpevole.

Rancièrc, Il disaccordo cit., pp. 48-49. Cfr. Phillip Hoosc, Claudette Co/vin. Twice toward ;ustice, Squarc FISh, New y ork 2.009.

9 ]. '0

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Quando Parks rifiuta di spostarsi, la codificazione sociale della sua pelle nera continua a funzionare: la donna bianca aspetta il suo posto; l'autista ordina a Parks di spostarsi per andare là dove dovrebbe essere; i poliziotti, conformemente alla loro autorità ufficiale, la fanno scendere dall'autobus e la incriminano. Seguendo Rancière, tuttavia, il senso politico della sua azione, in quanto interruzione polemica dei meccanismi «normali» della segregazione, è un altro. La capacità dissensualc che tale gesto consegna alle persone di colore è una possibilità esistenziale che richiede la trasformazione di tutte le coordinate dell'ordine sociale che la rifiutano codificandola come un semplice atto di delinquenza. Distruggendo in questo modo la limitazione sociale del possibile per esplorare altre potenzialità esistenziali, Parks non ingaggia una semplice resistenza al dominio, ma apre piuttosto un altro mondo possibile. In questo senso, secondo Rancièrc, la situazione politica è caratterizzata dalla «contraddizione di due mondi ospitati in uno solo» 11 • F.ssa designa infatti il conflitto di due modalità distinte di codificare gli clementi di una stessa situazione: «la politiquc porte sur cc qu'on voit et cc qu'on peut cn dire, sur qui a la compétcncc pour voir et la qualité pour dire, sur Ics propriétés des cspaces et Ics possiblcs du tcmps» 12• Ben al di là della validità della sua azione in quanto offesa alle regole della segregazione, l'atto di Parks, in senso politico, reinveste il «paesaggio del possibile» convertendo il sistema di segregazione in un sistema di torto, manifestandolo in quanto torto. Questo torto non si riferisce a delle persone specifiche - questa donna bianca, questo autista di autobus, questi poliziotti - ma all'ordine in seno al quale i loro atti sono «normali», all'ordine che ha codificato in questo modo i corpi e i loro movimenti. Ancora, seguendo Rancièrc è importante sottolineare che il torto non si riferisce tanto all'ingiustizia quanto alla contingenza delle regole sociali: Il torto politico non può essere risolto tramite oggettivazione del litigio e compromesso tra le parti. Ma va trattato, tramite dispositivi di soggettivazione che lo fanno sussistere come rapporto modificabile tra le parti, come mutamento stesso del terreno su cui il gioco si svolge' 3. lvi, p. 49. Traduzione nostra. •~ Jacques Rancièrc, Le partage du smisible, La Fabrique, Paris 2000, p. 14; tr. it. di F. Caliri, La partizio11e del sensibile, DcrivcApprodi, Roma 2016. '3 J. Rancière, I/ disaccordo cit., p. 58. Continua: «Il suo trattamento [ .•. ] passa attraverso la costituzione di soggetti specifici che assumono il torto, rendendolo consistente, 11

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A differenza di ciò che era successo dopo il gesto di Colvin, in seguito all'atto di Parks si sviluppa un boicottaggio massivo degli autobus a Montgomery, da parte di trenta o quarantamila persone di colore, che durerà per 3 8 1 giorni. Nei primi mesi le rivendicazioni di questo movimento si limitano semplicemente all'abbandono del sistema di segregazione negli autobus. Tuttavia, in seguito al rifiuto del sindaco e del direttore della compagnia di trasporti e alla criminalizzazione della protesta, il movimento si evolve mirando alla contestazione della costituzionalità del sistema di segregazione.

Politica della credenza religiosa In questi stessi anni, diverse lotte contro il sistema di segregazione in tutto il Paese cominciano a produrre risultati significativi. Nel 19 54 la Corte Suprema decide che la segregazione nelle scuole pubbliche è contraria alla Costituzione: un grave colpo al fondamento giuridico della segregazione stessa 1 4. Anche lotte più quotidiane contribuiscono a un'aria di resistenza. Un comitato di donne nere, ad esempio, riesce nel 1950 a obbligare dei commercianti bianchi di Montgomery a intestare con Mr., Mrs., o Miss le pubblicità e le fatture inviate ai neri 1 s. La realtà sociale di questo mondo mi pare metta in difficoltà una filosofia politica che intenda leggere il sistema di segregazione come un blocco solido di dominio e di ineguaglianza, e ciò per almeno due ragioni. Da una parte, si tratta di un sistema poroso e ambiguo, fatto di negoziazioni quotidiane, di compromessi più o meno istituzionali, di tensioni spesso contenute da violenze eccessive e dall'inasprimento delle identità rituali. Dall'altra, è un sistema frammentato da resistenze disperse e in cui le coordinate sociali sono moltiplicate da differenti soggettivazioni.

inventano le sue forme e i suoi nomi nuovi e lo vanno a trattare nell'ambito di un dispositivo specifico di dimostrazioni,. (ibid). •◄ Cfr. Jamcs T. Pattcrson, Brow,1 v. Board of Education - A Civi/ Rights Mi/estone a,ui its Troubled Legacy, Oxford Univcrsity Prcss, Oxford 2001. 1 S Cfr. P. Hoosc, Claudette Co/vin cit., p. 40. Si veda anche John Hopc Franklin, Evclyn Brooks Higginbotham, From Slavery to Freedom. A History of Africa11 Americans, McGraw-Hill, New York 2.011, pp. 473-547.

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All'interno di queste molteplici resistenze, la chiesa gioca un ruolo centrale. Oltre a essere un luogo di preghiera e di socializzazione, essa prende anche in carico delle funzioni sociali di cui i neri sono privati a causa della segregazione. Funziona spesso come un centro sociale, un forum politico, una scuola, una società di mutuo soccorso e un luogo di riunione per i comitati politici. L'associazione creata per organizzare il boicottaggio a Montgomery, in particolare, sarà presieduta da Martin Luther King, un giovane prete che ha appena assunto le sue funzioni. Ora, la questione dell'articolazione tra credenza religiosa e politica non si pone semplicemente a causa dei molteplici ruoli sociali assunti dalla chiesa in queste circostanze. Essa si pone all'interno del credo stesso, all'interno della teologia. Per Martin Luther King la religione non può limitarsi a purificare l'anima umana dai pesi del mondo, preparando l'uomo per la sua prossima vita. Essa deve anche agire per creare, sulla terra, condizioni sociali favorevoli alla salute dell'anima. Come afferma lo stesso King: Il vangelo cristiano è una strada a doppio senso. Da un lato, cerca di cambiare le anime degli uomini e così riunirli a Dio; dall'altro, tenta di cambiare le condizioni ambientali degli uomini affinché l'anima possa avere una possibilità dopo essere cambiata. Ogni religione che professa di occuparsi delle anime degli uomini ma che non si occupa delle baraccopoli che le condannano, delle condizioni economiche che le strangolano e delle condizioni sociali che le paralizzano è una religione morta. È questo tipo di religione che i marxisti amano vedere: oppio del popolo 16•

Inspirato soprattutto da Gandhi e dal pensatore cristiano Reinhold Niebuhr, Martin Luther King fa della fede una responsabilità civile da assumere, un tribunale del sistema di segregazione che giudica attraverso il metro dall'uguaglianza di ogni uomo davanti a Dio, una strategia politica di disobbedienza. Questa strategia è fondata in una concezione dell'amore, che egli difende contro le polarizzazioni conflittuali e la strumentalizzazione della violenza. Invece di polarizzare il conflitto, è necessario partire dall'amore e presupporre l'eguaglianza umana, l'accordo, la solidarietà, cercando quindi la compassione e la comprensione dell'avversario attraverso la dignità come pacifi16 Martin Luthcr King, Stride Towards Freedom. The Montgomery Story, Bcacon Prcss, Boston 2.010, p. 2.3. Traduzione nostra.

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ca resistenza alle violenze del mondo. Responsabilizzarsi riguardo le condizioni sociali e politiche a partire da un'idea di giustizia divina che presuppone l'uguaglianza in quanto uguale dignità di ogni uomo davanti a Dio: questa credenza religiosa sembra risuonare nell'atto di Rosa Parks, quando mette a confronto la segregazione con la sua stessa violenza, prefigurando un altro mondo possibile. In altri termini, la dottrina religiosa dell'"amore dell'avversario" di Luther King sembra potersi articolare all'atto polemico di rimanere seduti su un sedile qualsiasi in un autobus in cui vige la norma della segregazione razziale. Come pensare la relazione tra questi due elementi, tra la credenza religiosa e la disidentificazione polemica? Si tratta, in fondo, dello stesso registro? Se scegliamo la prospettiva di una filosofia politica che cerca in una sola idea di soggettivazione tutte le risorse concettuali per pensare un movimento sociale o un processo d'emancipazione, saremo indotti a supporre sia che tale idea possa inglobare l'insieme delle dinamiche prodotte in una mobilitazione politica, sia, in questa situazione specifica, che essa integri la credenza religiosa nel suo movimento, come una delle sue modalità. Certo, concettualmente questo è possibile. Tuttavia, di fronte alla mobilizzazione per il boicottaggio degli autobus a Montgomery vorrei sviluppare un'altra ipotesi, a mio avviso più interessante e corretta: esiste un'articolazione tra differenti forme di soggettivazione, un intreccio sperimentale che non è né una complementarità, né un'opposizione, ma un nodo instabile.

Sovraidentifìcazfone religiosa Due questioni devono essere poste a partire da questa ipotesi: anzitutto, perché si tratterebbe in entrambi i casi di soggettivazione? Secondariamente: in cosa differiscono, in che cosa sono delle forme differenti di soggettivazione? La credenza religiosa, così come l'interruzione disidentificatrice, può far deviare o riorientare le identità assegnate dall'ordine sociale, creando delle scene conflittuali e generando così altre traiettorie e possibilità esistenziali. Essa, a condizione di strappare un essere dal suo posto nell'ordine sociale, per dotarlo di altre traiettorie, di altre

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procedure di identificazione, di altri orizzonti, è simile alla disidentifìcazione polemica nel senso proposto da Rancière, in quanto «sradicamento nei confronti della naturalità di una posizione» 1 7. In questo senso, si tratta di soggettivazione in quanto vi è sdoppiamento delle coordinate sociali che legano un corpo ad una posizione, creazione di spostamenti produttivi, conflittuali e produzione di condizioni che permettano di porre e di assumere un problema che, altrimenti, non avrebbe diritto di cittadinanza. Come afferma Deleuze leggendo Bergson: «C'est la solution qui compte, mais le problème a toujours la solution qu'il mérite en fonction de la manière dont on le pose, des conditions sous lesquelles on le détermine en tant que problème, des moyens et des termes dont on dispose pour le poser» 18 • Eppure, questi spostamenti, queste moltiplicazioni delle coordinate non seguono la stessa logica nei due casi. La credenza religiosa misura l'insufficienza dell'identità sociale, del nero e del bianco nel sistema di segregazione, attraverso una spiritualità o un ordine divino rispetto al quale le identità quotidiane appaiono come seconde nature o forme incompiute. In questo caso la soggettivazione è legata alla valutazione dell'ordine sociale e delle identità ordinarie rispetto a ciò che devono diventare, rispetto alle verità che portano in loro stesse, alle vere potenze che bisogna risvegliare. Propongo di pensare questa forma di soggettivazione in termini di sovraidentifìcazione, in quanto l'insufficienza di una data identità sociale è misurata dal rapporto a delle sovra-identità più vere 1 9. Mi sembra dunque che la teologia di King rappresenti proprio una sovraidentifìcazione dei neri e dei bianchi, poiché rapporta queste due identità alla loro eguaglianza davanti a Dio. In questo modo, la segregazione come generatore di sofferenze viene problematizzata in quanto negazione delle sovraidentità. In altri termini, la teologia di King rapporta una identità alla sua sovraidentità e si dota quindi di strategie, di strumenti per ridurre lo scarto tra le due.

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J. Rancièrc, Il disaccordo cit., p. 55.

Gillcs DclcU7.C, Le Bergsonisme, Prcsscs Univcrsitaircs dc France, Paris 2011, p. 5. Altrove ho esplorato più approfonditamente la nozione di sovraidentificazione nel suo legame con la questione dell'utopia. A riguardo cfr. Anders Fjcld, Le travail de l'imaginaire. La parole muette du Familistère de Guise entre utopie et capitalisme, in Patrick Bourgne, Christian Drevct, Xavier Fourt, Marie Hélène Gay-Charpin, Matérialiser /'utopie, Presscs Univcrsitaircs Blaisc Pascal, Clcrmont-Ferrand 2020. 19

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La soggettivazione polemica, invece, non è tanto una sovraidentificazione ma, riprendendo l'idea di Rancière, una disidentificazione. Mettendo in atto un blocco dei meccanismi dell'ordine sociale, essa non coinvolge una sovraidentità in grado di fornire la misura dell'ingiustizia della segregazione, ma si rapporta a un torto da trattare in un orizzonte diffuso e indeterminato. Il senso polemico dell'azione di Rosa Parks si trova nella disidentificazione che essa opera: la donna nera identificata in questo spazio, in modo che rispetti la superiorità dei bianchi e lasci il suo posto, fa parte di un mondo segregazionista che non è più il suo. Non è più quella donna nera; si è disidentificata. Bloccando la normalità di questo mondo, Parks pone piuttosto la questione di cosa potrebbe avvenire con una moltiplicazione diffusa di come se - come se i neri potessero sedersi dove vogliono, come se il loro colore di pelle non fosse più un marchio identitaria, come se il mercato del lavoro fosse aperto ai neri, come se il compromesso vergognoso "separati ma uguali" non avesse più importanza ... Se l'azione di Parks blocca i meccanismi non è per dire, per attestare, chi la donna realmente è, ma per ricodificare l'ordine sociale nei termini di una serie di torti, i quali devono a loro volta essere trattati attraverso la trasformazione dell'ordine che li riproduce sistematicamente. Il registro disidentificatore produce così un torto nella convinzione che la manifestazione dei problemi attraverso il blocco del sistema sociale creerà delle condizioni di scelta che permetteranno di trasformare il quadro sociale che riproduce questi stessi problemi. Il registro sovraidentificatore, invece, misura l'ingiustizia del mondo attraverso delle sovraidentità, credendo sia necessario risvegliare e coltivare delle verità e delle forme di spiritualità che sono represse e pervertite nell'ordine sociale. Queste due forme di soggettivazione - sovraidentificatrice e disidentificatrice - coesistono, convergono, condividono le loro forze e strategie nella mobilitazione di Montgomery. La credenza religiosa non è semplicemente sottoposta alla disidentificazione polemica, né viceversa. Si tratta di convergenze instabili con delle frontiere diffuse tra soggettivazioni che distribuiscono in modo diverso le coordinate degli spazi e le controversie che coinvolgono, e che possono anche entrare in tensione, dividersi, portare a spaccature.

RANCll!RI! AL DI LÀ Dl!LLA POLITICA MARGINALI!

Identificazione con'{l.ittuale: organizzazione della quotidianità della lotta

In seguito al suo atto, Parks viene rapidamente condotta in prigione. La notizia del suo arresto si diffonde velocemente nella comunità nera. Lo stesso giorno diversi leader neri si accordano per tentare di mettere in pratica il boicottaggio degli autobus, già quasi realizzato attorno al caso Colvin nove mesi prima. Quattro giorni dopo il suo arresto Parks è giudicata colpevole e decide di fare appello. Il boicottaggio degli autobus da parte della popolazione afroamericana in quel giorno è quasi totale. Il pomeriggio viene fondata una nuova associazione per organizzarne il proseguimento e Martin Luther King ne è il presidente. La sera stessa, l'associazione organizza una grande riunione nella chiesa in cui predica King. Sono quasi cinquemila le persone presenti. E siccome l'interno della chiesa non può contenere che un migliaio di persone, vengono installati degli altoparlanti per chi non riesce ad entrare. Gli annunci riguardo la prosecuzione del boicottaggio e l'idea di mettere in campo un sistema di trasporti alternativo per permettere a tutti di andare al lavoro e a scuola sono sostenuti dagli applausi. Questa mobilitazione, che si trova all'intersezione dell'interruzione polemica, delle strutture di resistenza esistenti e della chiesa, si confronta ora necessariamente con la questione: cosa fare in questa situazione, con questo momentum generato dal boicottaggio massivo, la cui ampiezza sorprende tutti ma che è anche puntuale e limitato? Questo problema implica un ragionamento in termini di strategie, di calcolo delle forze, di organizzazione. La strategia adottata è quella di perseguire indefinitamente il boicottaggio, iniziare un dialogo sulla base delle relazioni di forza generate e delle posizioni sociali dei leader neri e ricorrere alla giustizia. Per adottare questa strategia è necessario inventare e sperimentare una organizzazione provvisoria. Si tratta di una pianificazione considerevole: una quotidianità alternativa per trenta o quarantamila persone, con autisti, tesorieri, prestiti e acquisti di automobili, organizzazione delle strade, obblighi quotidiani da rispettare, varie violenze da anticipare e gestire. Tutto questo per mantenere il blocco, la circolazione dei torti e l'insistenza sulla necessaria risoluzione di questi ultimi. Ora, una tale organizzazione non funziona sul modello della disidentificazione, pur trovando il suo ruolo a partire da questa. Essa

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funziona piuttosto attraverso assegnazione dei posti e funzionalizzazione dei ruoli. In questo senso è di fatto simile alla logica poliziesca d'identificazione. Siccome si inscrive risolutamente nel conflitto però, può essere considerata una identificazione con'{f.ittuale. Mi sembra perciò che si possa parlare di una terza dimensione di soggettivazione al cuore della mobilitazione, che mette in campo un altro registro, un altro rapporto alla mobilitazione stessa. Tale terza dimensione non appartiene interamente all'ordine dell'interruzione e della circolazione dei torti e neppure completamente alla credenza religiosa e alle sue sovraidentificazioni. Essa appartiene piuttosto a quell'organizzazione dei ruoli e delle funzioni che permetteranno di proseguire il blocco. A questo stadio iniziale della mobilitazione non si tratta di porre fine alla segregazione, ma di tre rivendicazioni più modeste. Anzitutto, pretendere il rispetto della legge del 1900, la quale afferma che nessuno deve alzarsi nel caso in cui non ci siano più posti liberi. In secondo luogo, richiedere l'assunzione di autisti neri. In terzo luogo, esigere che gli autisti trattino le persone nere con rispetto 20• Le negoziazioni non vanno tuttavia a buon fine. Come afferma il sindaco W. A. Gayle: «Resisteremo, Non parteciperemo a un programma che permetterà ai neri di prendere l'autobus al prezzo della nostra tradizione, del nostro modo di vita» 21 • Seguendo l'idea dell'avvocato Fred Gray, l'associazione presieduta da King decide dunque di citare in giudizio la città di Montgomery e lo Stato dcli' Alabama per tentare di mettere in discussione la costituzionalità delle leggi di segregazione negli autobus. Qualche mese più tardi, la sentenza è pronunciata in favore dell'accusa. Il sindaco Gayle porta il caso fino alla Corte Suprema, che, il 20 novembre 1956 (in un altro processo contro Martin Luther King sull'illegalità del sistema alternativo di trasporto) decide che la segregazione come sistema di organizzazione sociale non è fondata nella Costituzione. Il boicottaggio continua ancora per un mese, fino al 20 dicembre: 381 giorni in tutto.

20 Cfr. Stcwart Bums, Daybreak of Freedom. The Montgomery Bus Boywtt, Tbc Univcrsity of North Carolina Prcss, Chapcl Hill 1997, p. 58. 21 Citato in P. Hoosc, Claudette Co/vin cit., p. 73. Traduzione nostra.

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Conclusioni Perché insistere su queste tre dimensioni della soggettivazione nella mobilitazione a Montgomery? In che modo l'insistenza sulle forme della soggettivazione, al plurale, richiede di modificare la filosofia della soggettivazione e il modo in cui questa pensa l'emancipazione? Ci sono due punti importanti che vorrei sottolineare in conclusione. Il primo riguarda la figura della soggettivazione politica stessa e le speranze che si ripongono in essa. L'idea della soggettivazione al plurale, legata allo sforzo di pensare l'emancipazione come convergenza, tensione, nodo di differenti forme di soggettivazione, risolve a mio parere due elementi problematici nella filosofia della soggettivazione di Rancière. Da un lato, rigetta l'idea che la soggettivazione politica includa il suo proprio movimento, che essa delimiti i contorni del suo stesso spazio, che abbia una consistenza che la attraversa dall'inizio alla fine. Dall'altra, rifiuta una nozione di soggettivazione politica in grado di identificare una sola dinamica sociale capace di sviluppare le speranze di emancipazione. In altri termini, la forma plurale della soggettivazione annulla l'ipotesi di una coincidenza concettuale tra una logica operativa (soggettivazione politica) e una speranza politica (emancipazione). Con l'idea della soggettivazione al plurale, la disidentificazione polemica, in quanto logica operativa, serie di operazioni che creano degli effetti particolari nel campo sociale, diviene parziale, meno consistente e autosufficiente. Essa non è più legata a una garanzia concettuale per la quale, anche se può fallire, rimane in ogni caso la logica che porterà l'insieme delle speranze di emancipazione. In questo senso, la soggettivazione politica non totalizza le condizioni in cui si rende operativa (come se la sua disidentificazione polemica costituisse un inizio radicale). La mia lettura della soggettivazione politica in Rancière mi porta a demolire questa specie di sedimentazione binaria tra l'ordine sociale (ciò che egli chiama la polizia) e la politica, cercando piuttosto di sviluppare un'altra idea che, rimanendo all'interno delle coordinate proposte dal filosofo, mi sembra opporsi alla concezione binaria. Si tratta dell'idea per cui «un'identità si costruisce a partire da una moltitudine di identità legate alla moltitudine dei posti che gli individui possono occupare, alla molteplicità delle loro appartenenze,

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delle forme di esperienza possibili»2.2 • In questo senso, l'identità deve forse essere compresa come la relativa stabilizzazione delle multiple soggettivazioni. La situazione di conflitto che si opera a partire dall'interruzione polemica può allora contribuire a un'accelerazione o a una caotica ramificazione delle soggettivazioni. F.ssa non può però totalizzare queste ultime sotto la sua logica, integrarle nella sua consistenza, portarle tutte in sé in quanto unica dinamica capace di assumere le speranze dell'emancipazione. Ho tentato di mostrare come ciò sia riscontrabile nel caso del movimento di Montgomery. In questa mobilitazione politica, la disidentificazione polemica non è che una delle forme d'esperienza, uno dei fattori che compongono una molteplicità di appartenenze. Più precisamente, la disidentificazione polemica non è che il blocco pratico dei meccanismi di riproduzione «normale», ciò che mette in scena un soggetto del torto che insiste sulla necessità di risolvere i suoi problemi, che li fa circolare per trasformare quell'ordine che non cessa di riprodurli. Ma essa si collega alla sovraidentificazione religiosa, al suo orizzonte di giustizia egualitaria, e alle strategie di disobbedienza civile provenienti dalla teologia dell'amore. La disidentificazione si lega alla chiesa come luogo di unione, che comporta una radicalizzazione nella misura in cui questa si mobilita nel boicottaggio degli autobus. Si collega, infine, alle forme provvisorie di organizzazione per mantenere il blocco, che fanno parte di una logica differente, la quale non funziona sul modello della disidentificazione, ma come funzionalizzazione dei ruoli (identificazione conflittuale). Ciò conduce a un secondo punto, relativo alla nozione di disidentificazione. Tale nozione corre il rischio di far credere che la posta in gioco sia la liberazione da ogni caratteristica identitaria e il superamento di un ordine sociale essenzialmente conservatore e reazionario. Ora, non è assolutamente così che il movimento si è costruito a Montgomery. È piuttosto l'ordine segregazionista a negare e rifiutare ciò che il «nero» è veramente e a concepirne cultura, eredità, stili di vita e appartenenze solamente come immediatamente contrari alla segregazione stessa, come delle identità false, vuote, delle maschere. Tuttavia, se la credenza religiosa e la disidentificazione polemica tro-

..,_ Jacqucs Rancièrc, La méthodc dc l'égalité, Bayard, Lonrai zione nostra.

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p.

113.

Tradu-

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vano un collegamento in queste circostanze, è anche in ragione dell'idea di liberare un popolo che è alla ricerca del suo mondo, della sua giustizia. La disidentificazione, in questo senso, non è il superamento di ogni identità, ma piuttosto una frattura mobile che porta le stesse identità in polemica contraddizione con le regole dell'ordine sociale. Una situazione in cui le identità sono anche suscettibili di mutare. Invece di sovradeterminare le situazioni politiche attraverso uno schema concettuale che polarizza nettamente le situazioni e le dinamiche di dominio e di emancipazione, mi sembra più interessante cercare di arricchire queste dinamiche con strati di indecidibilità, non per rinviare all'infinito la questione dell'emancipazione, ma piuttosto per riflettere l'imprevedibilità concreta e i diversi registri tra i quali circolano le identità, le mobilitazioni, le speranze, che producono effetti talora convergenti, talora dissonanti, e che a volte conducono alla disgregazione.

Natura e istituzione. Note in vista di un'ecologia politica Paolo Missiroli

Le ricerche sul concetto di istituzione, aumentate notevolmente di numero in tempi recenti 1 , non si sono finora accompagnate ad una sua messa in questione nell'orizzonte problematico suscitato dalla crisi ecologica2 • Tale mancata problematizzazione priva questo insieme di riflessioni di alcuni importanti strumenti teorici, lasciando intatti alcuni presupposti tipici di larga parte del pensiero moderno e contemporaneo. Obiettivo di questo saggio è fornire alcuni strumenti per colmare questa mancata analisi riflettendo sul rapporto tra isti-

1 Per una ricostruzione sintetica dell'interesse emergente per il tema, si veda Enrica Lisciani-Pctrini, Massimo Adinolfi, lntroduction, «Discipline filosofiche», 2, 2019, pp. 5-8. Da segnalare è il lavoro - portato avanti da diversi anni, ben prima di questa recente esplosione di interesse - di alcuni studiosi italiani, tra cui si veda almeno Ubaldo Fadini, li tempo delle istituziotù. Percorsi della contemporaneità: politica e pratiche sociali, ombre corte, Verona 2016; Mariano Croce, Che cos'è u,i'istituzione, Carocci, Roma 2010; Carlo dc Rita, Desiderio e istituzione. Per un'antropologia politica della soggettività, Franco Angeli, Milano 2007. '- Che il problema ecologico costituisca «l'ori7.7.ontc fondamentale della nostra epoca» è argomento sostenuto da Manlio lofrida, Per u,i paradigma del corpo: u1,a rifondazione filosofica dell'ecologia, Quodlibct, Macerata 2019, p. 45. Egli sostiene anche la tesi, che costituisce il presupposto del presente articolo, che il pensiero filosofico nella sua interezza debba fare i conti, nelle sue stesse categorie, con l'irru1ionc di questo problema. Che la filosofia cd in generale le scienze umane debbano necessariamente sottoporsi ad un processo strutturale di revisione, a partire dall'orizzonte problematico costituito dalla crisi ecologica, è idea diffusa già da diversi anni: si veda, su questo Hicham-Stéphanc Afoissa (a cura di), P.cosophies, la philosophie à l'épreuve de l'écologie, &litions MF, Parigi 2006 e ~milc Hachc (a cura di), De /'u,iivers clos au monde infini, ~itions Dchors, Parigi 2014; Picrrc Charbonnicr, Abo,uiance et liberté. U11e histoire environ1zeme11tale des idée.s politiques, La Découvcrtc, Paris 2.02.0. La stessa idea, ma a proposito dell'ambito più specificamente letterario, è stata diffusa da Amitav Gosh, The Great Dera11gement: Climate Change and the Unthi11kable, Pcnguin Books, London 2016; tr. it. La grande Cecità. li cambiamento climatico e l'impensabile, Neri Po1.7.a, Viccw.a 2017.

PAOLO MISSIROU

tuzione e Natura3. Dopo aver brevemente delineato i tratti generali delle due posizioni che appaiono oggi dominanti sul tema, si proverà a chiarire in che termini la prestazione concettuale di Maurice Merleau-Ponty, in particolar modo negli ultimi anni del suo svolgimento, apra ad un modo diverso di pensare al rapporto tra istituzione e Natura rispetto alle due delineate nella prima parte del saggio. Più adeguato, come si spera di mostrare in conclusione, per pensare il tema delle istituzioni ali'altezza della nostra condizione storica, inseparabile dalla crisi ecologica globale.

1.

Natura negata I natura costruita

Il primo modo in cui viene storicamente pensato il rapporto tra Natura e istituzione può essere definito come negativo. Esso consiste nell'idea secondo cui l'istituzione, per potersi affermare, deve superare e quindi annullare la natura.Tale posizione è classicamente moderna, secondo la definizione di modernità di Bruno Latour, per il quale la caratteristica principale di tale epoca consiste nel fondamentale dualismo posto tra natura e cultura4. Tale versione negativa del rapporto tra istituzione e Natura è stata portata a massima espressione

3 "Natura" viene qui scritto con la maiuscola per distinguerla, nella sua dimensione non-umana, dalla natura-umana classicamente intesa, che è invece al centro della riflessio• ne sull'istituzione almeno a partire dagli studi di Arnold Gehlen, nonché, anni più tardi, di Gilles Deleuzc. In questo articolo, infatti, il nostro oggetto è il rapporto tra la Natura cosiddetta "non-umana" e le istituzioni, non la relazione che intercorre tra una specifica configurazione antropologica e l'istitu7.ione stessa. Questa generica definizione deve rimanere tale a causa della vastità dei significati che il termine Natura ha assunto storicamente; tale Natura non-umana è, nella forma dell'animalità, interna all'umano stesso, che però in tutta una serie di prospettive conserva intatta la propria umanità come contrapposta alla propria parte animale. Per una ricognizione di alcuni approcci legati al piano di ragionamento tipico dell'antropologia filosofica, si veda, oltre al già citato U. Fadini, Il tempo delle istituzio11i cit., pp. 7-48, anche Gillcs Delcuzc, lnstincts et institutions, Hachcttc, Paris 1955, tr. it. di U. Fadini, K. Rossi, Istinti e istituzioni, Mimesis, Milano 2.002. 1, 2.014 2 ; Arnold Gehlcn, Urmensch and Spatkultur. Phi/osophische Ergebnisse und Aussagen, Vittorio Klostcrmann, Frankfurt am Main, 2.004, tr. it. di E. Tetamo, a cura di V. Rasini, L'uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici, Mimcsis, Milano-Udine 2.016, pp. 2.1-143. 4 Bruno Latour, Nous n'avons iamais été modemes, La Découvertc, Paris 1991, tr. it. di G. Lagomarsino, Non siamo mai stati modemi, Elèuthera, Milano 1995.

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da Kojève nei suoi corsi su Hegel5. Per il filosofo russo ogni azione umana, essendo in sé stessa radicata in un essere-nulla dell'umanità nell'uomo, si definisce essenzialmente come negazione del dato Naturale. Ogni naturalità è un semplice resto che viene via via eliminato con il procedere del processo storico. Per Kojève, infatti, la Storia in generale è definibile come «l'opposizione fra l'Uomo e il Mondo (naturale)» 6• Ogni istituzione, che sia il linguaggio, ogni forma sociale o la stessa tecnica ha come condizione di esistenza l'annullamento dell'elemento naturale, interno (come animalità) o esterno (come insieme degli elementi non costruiti dall'uomo) all'umano. La fine della storia, per Kojève, consiste nella realizzazione di un mondo in cui la Natura cessa di esistere come spazio autonomo e diviene interamente assorbita dal Welt ricostruito tecnicamente? mediante il Lavoro, che assume qui una valenza distruttiva: questa trasformazione della Natura in funzione di un'idea non materiale è il Lavoro nel senso proprio del termine. Lavoro che crea un Mondo non naturale, tecnico, umanizzato, adattato al Desiderio umano di un essere che ha dimostrato e realizzato la sua superiorità sulla Natura rischiando la vita per lo scopo non biologico del riconoscimento8•

Sebbene tale posizione, per la quale la Natura esiste solo per essere negata dall'istituzione/cultura, sia ancora presente nel dibattito contemporaneo, in forme diverse e non così nette9, il dualismo 5 Alcxandrc Kojèvc, lntroductio11 à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénoménologic dc l'Esprit professées de 1933 à 1939 à l'École des Hautes Études réu11ie.s et publiées par Raymond Queneau, Gallimard, Paris 1947; tr. it. di G.F. Frigo, Introduzione alla lettura di Hegel. Laio,ù sulla "Fenomenologia dello Spirito" tenute dal 1933 al 1939 all'École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau, Adclphi, Milano

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6 lvi, P· 487. 7 lvi, p. 383. 8 lvi, p. 213. 9 Essa è stata sostenuta, ad esempio, da Robert l.cgros, L'idée d'huma,ùté. lntroductionà la phénomé11ologie, Bcrnard Grassct, Paris 1990, pp. 259-267. Secondo l'autore, che fa riferimento alle tesi arcndtiane contenute in Vita activa, la dimensione storica dell'umanità consiste nella continua separazione dal mondo naturale. Più recentemente, pur in un contesto diverso e concettualmente più elaborato, anche Roberto Esposito ha sostenuto una sostanziale «innaturalità» dcll'isritu7.Ìone, una sua integrale artificialità, nonché un suo essere esclusivamente storica, sfuggendo ad una supposta fissità della Natura stessa. Si veda Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di 011tologia politica, Einaudi,

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natura-cultura che la sottende è stato ampiamente criticato da molti studiosi negli ultimi trent'anni 10• Tale operazione di critica l'ha resa sicuramente meno agibile rispetto alla seconda modalità attraverso cui viene delineato il rapporto tra natura e istituzione, che è possibile definire costruttivista. Secondo tale posizione, variamente declinata, la Natura stessa non esiste in sé: essa è un prodotto del discorso e della prassi storica. Si prenda ad esempio il lavoro complessivo di Jason W. Moore, studioso statunitense fondatore dell'ecologia-mondo 11 • Dal suo punto di vista la Natura, nella sua distinzione dalla Società, è una creazione ideologica, utile alla strutturazione di un apparato globale di valorizzazione degli enti non-umani ai fini del profitto, fondamento della modernità capitalistica. Tale distinzione agisce isolando alcuni elementi nella «rete della vita» e rendendoli così una serie di oggetti esterni all'umano, disponibili allo sfruttamento, mere risorse 12 • L'assoluta inconsistenza ontologica dell'elemento naturale è certificata, secondo Moore, dal fatto che la crisi ecologica non consiste affatto in una crisi della Natura in sé, ma piuttosto dei modi in cui il capitale globale riesce ad ottenere quella Natura-oggetto (da lui stesso costruita) ad un costo accettabile in vista del profitto1 3. Sebbene sia da sottolineare come, per Moore, la proposta dell'ecologia-mondo spinga a ripensare la distinzione stessa tra natura e società, è tuttavia chiaro che in una simile prospettiva la Natura stessa è un mero prodotto storico.

Torino 2020, p. 17; Roberto Esposito, Per un pensiero istituente, «Discipline filosofiche», 2.9, 2, 2.019, p. 16, p. 25. 10 Per una panoramica essenziale di tale mastodontico processo di revisione del dualismo natura-cultura si vedano almeno (oltre al già citato B. Latour, Nous n'avons ;amais été modemes cit.): nel campo dell'antropologia, ma con esiti molto al di là di quella specifica disciplina, Philippc Dcscola, Par de-là nature et culture, Gallimard, Paris 2005, tr. it. di N. Breda, Oltre natura e cultura, SEID, Firenze 2.014; più in riferimento alle discussioni appartenenti al campo dell'antropologia filosofica e dell'estetica, Jean-Marie Scheffcr, 1A fin de l'exception humaine, Gallimard, Paris 2007. Per una panoramica generale della problematiu.azione del rapporto tra natura e società nelle scienze umane, Pierre Charbonnier, 1A fin d'un gran partage. Nature et société de Durkheim à Desco/a, CNRS Éditions, Paris 2015. 11 Tra i suoi molti lavori, si vedano almeno Jason W. Moore, Capitalism in the Web of Ufe, Verso, New York 2015; Jason W. Moore, The Rise of Cheap Nature, in Id. (a cura di), Anthropocetre or Capitalocene? Nature, History and tbc Crisis of Capitalism, Kairos, Dexter 2.016, pp. 78-115. n. Jason W. Moore, The Rise of the Cheap Naturecit., p. 87. ' 3 Jason W. Moore, Capitalism in the Web of Ufe cit., pp. 2.91-305.

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Più recentemente (anche grazie ad una traduzione italiana dal significativo titolo L'istituzione della natura), tale modalità costruttivista di porre il rapporto natura-istituzione ha preso maggiore forza a partire dalle ricerche di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau 1 4. In due saggi, gli autori sostengono la radicale artificialità giuridica della natura. Nel diritto romano essa è, sostiene Thomas, una finzione costruita dallo stesso discorso giuridico al fine di giustificare elementi interni all'ambito stesso del diritto. Ad esempio, la libertà naturale viene presupposta alla mancata libertà istituzionale nella misura in cui, essendo la schiavitù considerata in sé innaturale, chi diviene schiavo può esserlo solo in quanto «ingenuo» e quindi incapace di compiere atti giuridici15. Si vede dunque come la Natura sia integralmente costruita al fine di giustificare specifiche forme giuridiche: essa è, cioè, un'istituzione16 • Chiffoleau sottolinea inoltre la funzione intrinsecamente normativa del concetto di natura nel diritto medievale: essa consiste nell'insieme di principi che reggono il complesso teologico-politico della Cristianità che devono essere difesi contro i suoi nemici contro-natural?. L'autore non esita a definire questa determinazione degli atti contra naturam, che avviene sullo sfondo di una naturalità artificiale che dona senso al diritto, un vero e proprio «programma politico» 18 alla base della sovranità. La Natura è così uno strumento del diritto, in quanto sua creatura 1 9. Essa diviene in tale contesto la fonte, posta come originaria ma in realtà costruita discorsivamente, del diritto stesso, e quindi anche della repressione dell'innaturale. La Natura costruita consiste in un insieme di caratteristiche determinabili razionalmente che fondano così il diritto. 14 Yan Thomas, Note sur l'i11stitutionalité de la nature à Rome, in Théo/ogie et droit da1,s la science politique de l'État modeme. Actes de la table ronde de Rome (12-I4 novembre 1987), &olc Françaisc dc Romc, Roma 199I, pp. 2.01-2.2.7; Jacqucs Otiffolcau, Contra naturam. Pour u,re approche casuistique et procédurale de la trature médiévale, «Micrologus. Nature, Scicnccs and Mcdicval Socictics», 4, 1996, pp. 2.65-31:z.; tr. it. di M. Spanò, Yan Thomas, Jacqucs Chiffolcau, L'istituzione della natura, Quodlibct, Macerata

2.02.0. 1

s Y. Thomas, J. Chiffolcau, L'istituzione della natura cit., pp. 37-38.

lvi, p. 45· Ivi, p. 65. 18 lvi, p. 82.. 19 Michele Spanò, «Perché non rendi poi quel che prometti a/lor?». Temiche e ideologie della giuridifìcazione della natura, in Y. Thomas, J. Chiffolcau, L'istituzione della natura cit., p. 109. i6 17

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Entrambe queste modalità di porre la questione del rapporto tra natura e istituzione condividono una medesima idea di Natura, quella moderna. Se la modalità costruttivista assume tale nozione con lo scopo di mostrarne l'inesistenza reale, tuttavia essa dona al termine Natura il medesimo senso che, ad esempio, gli dona Kojève. Le caratteristiche di questa natura - posta dunque in quest'ultimo caso come ciò che l'istituzione deve negare per esistere e nel primo come ciò che viene costruito culturalmente nel processo storico - sono quelle di essere un oggetto completamente disponibile alla conoscenza, pienamente positivo, le cui caratteristiche sono cioè determinabili integralmente. Essa è considerata inoltre ambito assolutamente altro rispetto alla cultura: nella posizione negativa questo è evidente di per sé; in quella costruttivista, invece, la nozione di Natura (in sé inesistente) è costruita sempre in opposizione a quella della cultura. Si pongono a questo punto tre possibili esiti del problema del rapporto istituzione-Natura. Il primo consiste nel mantenere intatto il dualismo moderno e continuare a sostenere una sostanziale innaturaHtà dell'istituzione, riconoscendo l'esistenza della Natura solo per poterne affermare la negazione. Il secondo consiste, invece, nell'abbandonare definitivamente l'idea di natura e nel sostituirvi qualcos'altro, superando così di slancio il dualismo2.0. È tuttavia possibile una terza via d'uscita a tale impasse: accettare la necessità di una critica radicale del dualismo moderno tra natura e cultura, non abbandonando tuttavia l'idea di Natura, bensì ripensandola, e di conseguenza ripensando in modo nuovo anche il suo rapporto con l'istituzione. È questa la via percorribile a partire da Merleau-Ponty. 2.0 È questa la prospettiva di numerose/i autrici cd autori, tra cui si può qui ricordare, giusto a titolo di esempio, Donna Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Tecbnology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in Ead., Simians, Cyborgs and Women: The Reinventio11 of Nature, Routlcdgc, New York 1991, pp. 149-181; tr. it. di L. Borghi, Manifesto cyborg. Dorine, tecnologie e biopolitiche del corpo, Fcltrinclli, Milano :z.018; lo stesso La tour, sebbene ultimamente si sia spostato su posizioni più legate al tema della Terra, condivide questo prospettiva nel suo No11 siamo mai stati moderni cit.; rcccntcmcntc, Gianfranco Pellegrino e Francesco di Paola (Nell'a11tropocerie. Etica e politica alla firie di un morula, DcrivcApprodi, Roma :z.018) hanno avanzato una proposta etico-politica complessiva proprio a partire dall'abbandono dell'idea di natura in favore di quella di ibrido. Tali prospettive anti-naturalistc, per quanto fondamentali nella critica dell'impostazione dualista moderna, contengono una serie di difficoltà qui non affrontabili. In merito, si rimanda all'ottimo lavoro di Luigi Pclli7.7.oni, Ontologica/ Politics in a Disposable World. The New Mastery o/Nature, Ashgatc, Burlington :z.015.

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Merleau-Ponty: una nuova idea di Natura

Anticipando la necessità di un pensiero dell'Essere come qualcosa di non completamente superabile ed allo stesso tempo non già da sempre posto da un soggetto astratto, già nel corso dedicato al tema dell'istituzione Merlcau-Ponty si pone la seguente domanda: « Y a-til un horizon unique de tous les horizons institutionnels? L'histoire comprend-elle du non historique?» 21 • Egli risponde, qualche riga dopo, affermativamente, sostenendo che nessuna storia, nemmeno quella che seguirà ad un'eventuale rivoluzione, può porsi senza rapporto con una pre-storia, con qualcosa che precede l'istituzione rivoluzionaria stessa 22 • Il fatto che la novità ab-soluta non pertenga al piano della storia è dovuto in prima battuta a questo fondo prestorico che la attraversa e da cui essa non può in alcun modo separarsi. Sarà tuttavia nei corsi degli anni successivi 2 3 che Merleau-Ponty affronterà il tema qui sollevato. Cominciando il corso del '56-' 57 Merleau-Ponty prende le distanze dall'idea moderna di Natura come oggetto completamente alla luce e altro dalla cultura e dalla storia, affermando: La Natura è differente dall'uomo; non è istituita da quest'ultimo, si oppone al costume, al discorso. La Natura è il primordiale, cioè il non-costruito, il non-istituito; di qui l'idea di un'eternità della Natura (eterno ritorno), di una solidità. La Natura è un oggetto enigmatico, un oggetto che non è del tutto oggetto; essa non è completamente dinanzi a noi. È il nostro suolo, non ciò che è dinanzi, ma ciò che ci sostiene>-f.

La nozione di Natura, che dal filosofo francese viene più volte ribadita essere la chiave di volta per una rinascita della filosofia 2 5, 21 Mauricc Mcrlcau-Ponty, L 'institution, la passivité. Notes de cours au Collège de Fra11ce (1954-1955), &litions Bclin, Paris 2003, p. 60. 2.2. lvi, p. 82. 2.3 Mauricc Mcrlcau-Ponty, La nature, Scuil, Paris, 1995, tr. it. di M. Mazzacut-Mis e F. Sossi, a cura di M. Carbone, La 11atura, Raffcllo Cortina Editore, Milano 1996; Mauricc Mcrlcau-Ponty, Notes de cours au Collège de France. 195 8-1959 et 1959-1961, Gallimard, Paris 1996, tr. it. di A. Pinotti c F. Paracchini, a cura di M. Carbone, È possibile oggi la filosofia? Lezioni al Collège de Fra,,ce 1958-1959 e 1960-1961, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003. '-4 M. Mcrlcau-Ponty, La natura cit., p. 4. 25 lvi, p. 298.

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serve a Merleau-Ponty per spiegare quel fondo negativo, non interamente visibile né oggettivabile, che rimane al fondo di ogni attività 26 • Da questo punto di vista la riflessione sulla Natura si situa in piena continuità con i corsi degli anni precedenti: ogni istituzione emerge da questa potenza invisibile, dalla produttività non istituita che è la Natura stessa 27. Essa dunque è costitutivamente opaca, non chiaramente visibile, in quanto Abisso 28• La Natura, oggetto enigmatico per definizione, viene definita così dal filosofo francese: Quest'inafferrabile, quest'inglobante, come direbbe Jaspers, è l'orizzonte di ogni riflessione; esso non costituisce o non deve costituire un ambito aperto a una conoscenza sensibile. È un orizzonte con il quale dobbiamo confrontare il finito. L'uomo deve essere compreso insieme all'intera massa che porta con sé. [ ... ) [Schelling) riconosce un peso d'essere al fondo della libertà, una contingenza che non è solo ostacolo, ma che penetra la mia libertà, la quale non si costituisce mai come una pura e semplice negazioné9.

In cui è da sottolineare come "riflessione" non significhi mai, nel contesto concettuale merleau-pontyano, il semplice atto cognitivo del pensiero: una filosofia riflessiva è, per il filosofo francese, un pensiero di sorvolo, un modo di intendere le cose come integralmente costruite dal pensiero, in un'attività continua3°. Quello che interessa a Merleau-Ponty è mostrare come ogni attività possa darsi solo all'interno di quell'orizzonte di tutti gli orizzonti che è la Natura stessa3 1 • Questa concezione della Natura come «essere selvaggio»3 2 , essere interrogativo33, positività non definibile integralmente, ha come esito un altro modo di pensare il rapporto tra istituzione, nelle sue diverse forme, e Natura. Essa rende impossibile pensare al rapporto tra attività e passività, istituzione e Natura come rapporto di causaeffetto: la Natura non può essere la causa determinata dell'istituzio26 M. Merlcau-Ponty, Il visibile e l'itwisibile cit., p. 187. 2 7 M. Merlcau-Ponty, La natura cit., p. 4. 2ll Ivi, p. 52.. Il riferimento di Merlcau-Ponty è qui, evidentemente, a Schelling. 29 lvi, p. 70. Jo M. Merlcau-Ponty, Il visibile e l'i,wisibile cit., pp. 66-67 J 1 M. Merlcau-Ponty, La natura cit., p. 75. J:t M. Merlcau-Ponty, Il visibile e l'i,wisibile cit., p. 186. 33 lvi, p. 2.29.

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ne in quanto non è un insieme di caratteristiche positive dalle quali seguono determinati esiti. Un pensiero determinista, in questo senso, sarebbe per Merleau-Ponty una forma di positivismo, cioè un pensiero per cui l'essere è di-spiegabile razionalmente e logicamente nella sua interezza34. La posizione del filosofo francese si distingue dunque sia da quella di coloro che rinvengono una determinazione totale dell'istituzione da parte dell'ambito naturale, sia da quella di chi sostiene invece una sua assoluta separazione dalla Natura stessa: né determinazione, né separazione, ma espressione 35 • Le istituzioni non sono affatto una copia o un'emanazione della Natura, ma un suo modo di esprimersi attraverso di noi; esse si collocano in quel margine di attività e di passività così caratteristico del pensiero di MerleauPonty. Il senso stesso, in questo contesto, non è mai interruzione della natura in favore dell'intervento dall'alto di un soggetto formatore, ma semplice espressione della Natura, libero gioco di cssa3 6• D'altra parte, nessun rapporto immediato è possibile con l'essere selvaggio che ci precede37 e a partire dal quale possiamo essere: tale rapporto è sempre mediato da un apparato istituzionale3 8, che però a sua volta riposa sull'appartenenza a quella medesima Natura. Essa percorre da capo a fondo l'istituzione, che però non è in sé stessa Natura. L'essere 34 È il rischio che corre, per il nostro autore, Bcrgson. Si veda M. Mcrlcau-Ponty, La natura cit., pp. 95-97. 3S Il merito di aver notato l'assoluta centralità di tale categoria anche in rapporto all'idea di Natura in Mcrleau-Ponty è di Tal Toadvinc, Merleau-Po,zty's Pbilosophy of Nature, Northwestcrn Univcrsity Press, Evanstons 2009, p. 14, 12.6, 131. Sul tema dell'espressione in Mcrleau-Ponty, si veda almeno Stefan Kristenscn, Parole et subiectivité. Merleau-Ponty et la phénomét10/ogie de l'expression, Vrin, Paris 2010. 36 lvi, p. 99; sul tema del gioco in Merleau-Ponty, anche in riferimento al tema della Natura e dell'espressione, si veda il capitolo sullo Spielraum in Prisca Amoroso, Gianluca dc Fazio, Tema su variazjoni. Un laboratorio merleau-pontyano, Mucchi, Modena 2.02.0, pp. 11-2.7. 37 Da questo punto di vista la filosofia della natura di Mcrleau-Ponty è assolutamente inconciliabile con le prospettive naturalistiche tipiche, ad esempio, del realismo speculativo: per il filosofo francese il chiasmo tra soggetto e mondo, pur ponendo il soggetto in un ambito di passività fondamentale, non lo annulla come tale e gli rende impossibile, in for7.a della sua parzialità situata, cogliere l'Assoluto reale, che è invece l'obiettivo teorico di queste correnti di pensiero. Si veda su questo almeno lan Hamilton Grant, Philosopbies of Nature after Schel/ing, Continuum, London 2.008; tr. it. di E.C. Corricro, Filosofie della natura dopo Scbelling, Rosenberg & Sellier, Torino 2.017. 38 Sottolinea correttamente questo elemento- dopo aver però ribadito la centralità di una dimensione non-istituita che precede l'istituzione - Enrica Lisciani-Pctrini, MerleauPonty: potenza dell'istituvone cit., p. 83.

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umano, nel momento stesso in cui nasce, vive in un campo istituito su quel fondo naturale che rimane come «nucleo transtemporale [... ] sorta di eternità» 39. T aie rapporto espressivo, mediato, con la Natura non è dovuto ad una differenza radicale della cultura in generale rispetto ad essa, ma piuttosto al carattere abissale, non afferrabile della stessa Natura. Questa distanza incolmabile è allo stesso tempo ciò che rende l'istituzione merleau-pontyana «sospesa, sbilanciata su un "fuori" che essa non può mai togliere, tale da renderla un positivo lavorato da un negativo che non smette di travagliarlo»4°. L'apertura indefinita del processo istituente non è dunque legata ad una sua intrinseca potenza affermativa, ma al contrario alla sua parzialità, al suo essere costitutivamente mai completa, traendo la sua esistenza ed il suo senso dall'essere selvaggio che la rende possibile. Iniziando il corso del '58-' 59, Merleau-Ponty critica aspramente tutti i pensieri artificialisti che tendono a rimuovere la natura come spazio autonomo, definendoli «modi di pensare quasi onirici, musco degli orrori»4 1 • Entrambe le due modalità riportate nella prima parte di questo saggio appartengono, in sensi diversi, a tale impostazione. Mcrlcau-Ponty offre gli strumenti per sfuggire all'alternativa tra negazione e costruzione, rinnovando profondamente l'idea stessa di Natura. La Natura di Merlcau-Ponty non è, infatti, né un oggetto positivo, né tantomeno è separata dalla cultura, che al contrario è costitutivamente pervasa da essa e che al contempo è l'unica via per accedervi. È questa concezione che rende possibile un modo di pensare il rapporto tra questo essere selvaggio e l'istituzione che sfugge all'alternativa riportata inizialmente, facendo leva sul concetto di espressione. È anche per questo motivo che per Mcrlcau-Ponty nulla è più urgente di una filosofia della Natura come suolo: Questa presa di coscienza di un Boden, di una sedimentazione, potrebbe essere riscoperta della Natura (a condizione che non si concepisca tale Natura così come la descrive la scienza oggettivistica e come causa universale in sé), riscoperta di una Natura-per-noi come suolo di tutta la nostra cultura, in cui si radica in particolare la nostra attività creatrice che dunque non è incondi-

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M. Mcrlcau-Ponty, È possibile oggi la filosofia? cit., p. 199. E. Lisciani-Pctrini, Merleau-Ponty cit., p. 88. M. Mcrlcau-Ponty, È possibile oggi la filosofia? cit., p. 11.

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zionata, che deve mantenere [la] cultura a contatto dell'essere grezzo, che deve confrontarla con essoi ...

3. Atterrare. Problemi e prospettive Se questa impostazione del ragionamento ha il pregio di collocare non solo il tema dell'istituzione, ma l'ambito culturale tout-court in un orizzonte biologico e geologico, il primo e più evidente problema che può essere rinvenuto in essa è la sua apparente difficoltà ad impostare un atteggiamento critico nei confronti del presente. Si può avere l'impressione che l'interesse di Mcrlcau-Ponty per una filosofia che ci restituisca il contatto originario con le cosc43 ne precluda a tratti un possibile uso in senso critico, soprattutto in direzione ecologicopolitica. Se ogni istituzione è espressione della Natura, può apparire complicato tracciare una distinzione tra istituzioni ecologiche o meno. Tcd Toadvinc ha correttamente sostenuto l'impossibilità di un'applicazione diretta in campo politico della riflessione di Mcrlcau-Ponty sulla Natura, proprio in virtù dcli'abissalitàlopacità che la costituisce44. Nella misura in cui sfugge alla definizione moderna di Natura e ad una determinazione positiva, essa non può in alcun modo porsi come fonte di norme o di forme istituzionali specifiche. È probabile che qualcosa come un'ecologia politica non sia ancora oggi stata pensata compiutamente e che farlo rimanga un compito per l'avvenire. Tuttavia, se il modo stesso in cui gli occidentali concepiscono il loro rapporto con il mondo è al contempo effetto e causa decisiva della situazione di crisi in cui ci troviamo45, la riflessione di MerleauPonty, specialmente se declinata nei termini qui rapidamente esposti, è condizione di possibilità ineludibile per ogni ecologia politica. È lo stesso Merlcau-Ponty, peraltro, a collegare esplicitamente, sulla scia di Husscrl4 6, le proprie riflessioni sulla Natura come suo,.,. lvi, p. 12.. 43 lvi, p. 60. -4-4 T. T oadvine, Merleau-Ponty's Phi/osopby of Nature eit., pp. 1 31·13 5. -4S lvi, p. 134. -46 Soprattutto in riferimento al famoso testo di Edmund Husscrl, Grundlegende U11tersuchu11gen zum pbiinome110/ogischen Ursprung der Raumlichkeit der Natur, in Pbi/osophical F.ssays in Memory of Edmund Husserl, Harvard University Prcss, Cambridge 1940,

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lo per ogni cultura al tema della Tcrra47: «la Terra è la radice della nostra storia. Così come l'arca di Noè portava tutto ciò che poteva restare di vivo e di possibile, nello stesso modo la Terra può essere considerata come portatrice di tutto il possibile» 48 . Questa concezione della Terra come fonte di tutte le possibilità di ogni cultura, come Boden pre-oggettivo49 non abbandonabile né oggettivabile, viene opposta dal filosofo alle visioni "prometeiche"5° per le quali la realizzazione della storia consiste nel dominio della Natura. Probabilmente, tale contrapposizione colpisce più noi, abitanti dcli' Antropocene, epoca da alcuni raccontata come il definitivo stabilirsi di un controllo antropo-macchinico sul pianeta5 1 , di quanto non dicesse ai contemporanei di Mcrlcau-Ponty. Lo dimostra l'insieme di ricerche, più o meno recenti, intorno al tema della Terra e dell'abitareP·. Già in questo insieme di lavori l'abitare, in forza della parzialità costitutiva del soggetto, che non può mai vivere im-mediatamente la Natura, è sempre pensato come istituito; pp. 307-32.6; tr. it., Rovesciamento della dottrina copernicana nell'interpretazione della co"ente visione del mondo, «aut aut», 2.45, 1991, pp. 3-18. 47 Sul rapporto tra il pensiero di Mcrlcau-Ponty cd il tema della Terra si veda Prisca Amoroso, Pensiero terreste e spazio di gioco. L'orizzonte ecologico dell'esperienza a partire da Merleau-Ponty, Mimcsis, Milano-Udine 2.019, in particolare pp. 87-12.2.. 48 M. Mcrlcau-Ponty, LA natura cit., p. 116. 49 M. Mcrlcau-Ponty, È possibile la filosofia oggi? cit., p. 13. so lbid. s• Per uno studio complessivo su questi sogni di dominio si veda l'ormai classico Clivc Hamilton, Earthmasters. The Dawn of the Age of climate engineering, Yalc Univcrsity Prcss, New Havcn-London 2.014. Di recente, si è aggiunto alla schiera dei propugnatori di un rapporto di assoluto dominio con la Terra Jamcs Lovclock, Novacene. The coming age of Hyperintelligence, Allcn Lane, London 2.02.0; tr. it. di A. Panini, Novacene. L'età dell'iperintellige,wz, Bollati Boringhicri, Torino 2.02.0. s>. Si veda, giusto a titolo di esempio, Charlcs S. Brown, Tcd Toadvinc (a cura di), Eco-Phenomenology: Back to the Earth ltself, State Univcrsity of New York Prcss, New York 2.003; Ottavio Marzocca, 11 mondo comune. Dalla virtualità alla cura, Ecommons, Roma 2.015; Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale, Mimcsis, Milano-Udine 2.015; Augustinc Bcrquc, Ecumene. lntroduction à l'étude des milieux humains, Bclin, Paris 2.016; tr. it. di C. Arbore, S. Gamba, M. Maggioli, Ecumene. Introduzione allo studio degli ambienti umani, Mimcsis, Milano-Udine 2.019; Frédéric Ncyrat, LA pari inconstructible de la Terre. Critique dugéo-constructivisme, Seui(, Paris 2.016; Bruno Latour, Où atterrir?: Comment s'orienter en politique, La Découvcrtc, Paris 2.017; tr. it. di R. Prezzo, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina, Milano 2.018; Achille Mbcmbc, Brutalisme, La Découvcrtc, Paris 2.02.0.

NATURA I! ISTITUZIONI!. NOTE IN VISTA DI UN'l!COLOGIA POLITICA

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allo stesso tempo, chiasmaticamente, ogni istituzione è espressione della Natura, a causa della dimensione di passività che sempre costituisce ogni attività, nonché dell'essere prima di tutto corpo dell'umano stesso. Qualcosa come un'ecologia politica potrebbe nascere solo dall'incontro tra queste ricerche, lette con gli strumenti merleaupontyani, e la tematica dell'istituzione. T aie operazione potrebbe rendere possibile una critica radicale delle forme istituzionali dominanti nel presente e la delineazione di un processo istituente che tenga in considerazione la nostra radicale geograficità53. Il presente lavoro ha, più modestamente, il compito di preparare questo incontro.

n A. Bcrquc, Ecumene cit., p.

1.

Salvare la rappresentazione. Forma estetica e forma politica nel pensiero di Walter Benjamin Francesca Monateri

1.

Introduzione

La storia della datazione del Frammento teologico-politico non è per nulla indifferente 1. Solamente tenendo conto del momento in cui Benjamin lo scrive, è possibile inserirlo nelle sue riflessioni giovanili e leggerlo non, come spesso avviene, in rapporto alle Tesi sul concetto di Storia - malgrado la riflessione sul senso storico e sul tema messianico siano già presenti -, ma piuttosto accostandolo a Per la critica della violenza e, soprattutto, agli studi benjaminiani dedicati al cattolicesimo romano e al romanticismo tedesco2.. Questa è l'unica strada in grado di rivelare come i testi di Benjamin considerati politici - ad esempio, il Frammento e Per la critica della violenza - siano in realtà incentrati sull'idea di forma, che, ' Il Frammento fu scritto da Bcnjamin nell'ambito di riflessioni per la recensione - oggi perduta - allo Spirito dell'utopia di Bloch. Adorno ebbe occasione di leggerlo a

Sanremo alla fine del 1936. In questa circostanza Bcnjamin vi si riferì esaltandolo come «novità delle novità». Questa affermazione fece supporre ad Adorno che si trattasse di un testo appena concepito, ma l'indicazione semmai riguardava il contenuto del frammento, il tema messianico, da poco ritornato attuale nelle meditazioni di Bcnjamin, mentre la sua stesura è di gran lunga precedente. 1 Intendo riferirmi, oltre a Walter Bcnjamin, Begriff der Ku11stkritik in der deutschen Roma11tik, Vcrlag A. Franckc, Bcrn 192.0; tr. it. a cura di N.P. Cangini, Il concetto di critica d'arte nel roma11ticismo tedesco, Mimcsis, Milano 2.017, anche a Romanticismo (1913); Due poesie di Friedrich Holderlin (1915); Nota su Gundolf: Goethe (1917); Le affinità elettive di Goethe (192.2.), in Walter Bcnjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt 1972.-89; tr. it. a cura di E. Ganni, Opere complete. Scritti z906-1922, Einaudi, Torino 2008. Sulla critica di Bcnjamin al cattolicesimo romano cfr. julian Robcrts, Walter Ben;ami11, Thc Macmillan Prcss, London 1982.; tr. it. G. Mazzon, Walter Ben;amiti, il Mulino, Bologna 1987, pp. 162-163; cd allo scritto Walter Bcnjamin, LA posizione religiosa della nuova gioventù (1914), in Id., Gesammelte Schriftencit., tr. it. Scritti 1906-1922 cit., pp. 2.07-2.10.

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intesa solo in parte nella sua portata politica, rivela una vocazione estetica come legittimazione simbolica del presente politico-culturale. In secondo luogo, attraverso questa lettura, diviene contemporaneamente possibile portare alla luce come gli studi benjaminiani ritenuti esclusivamente estetici - soprattutto il Dramma barocco tedesco - siano anche pienamente politici. Può sembrare paradossale che questo avvenga proprio nell'autore che ha forse più aspramente criticato ogni estetizzazione della politica 3. Ma il termine estetica va qui inteso in senso più specifico. Non si tratta, com'è ovvio, di una filosofia dell'arte. L'estetica qui in gioco è, al contrario, declinata come morfologia e, nello specifico, come morfologia politica. La scommessa teorica è così far emergere come questa specifica concezione estetica derivi dal dialogo che Benjamin ha con Cari Schmitt. La lettera che Benjamin invia al giurista tedesco, riconoscendo il proprio debito intellettuale, a ben pensarci, denuncia proprio la continuità originaria che Benjamin intravede tra estetica e filosofia politica. Una continuità, com'è noto, metodologica che, come cercavo di evidenziare, sarà al centro di questa ricostruzione del suo pensiero4. L'idea è così di mostrare come lo slittamento operato da Benjamin dalla filosofia dello Stato alla filosofia dell'arte sia, in realtà, solamente di superficie. In questo modo, leggere il Frammento teologico-politico in rapporto a Per la critica della violenza e agli studi sul cattolicesimo romano e sul romanticismo tedesco è l'unica via in grado di dimostrare che il progetto politico benjaminiano, almeno in questi anni, non è costruito soltanto come confutazione del capitalismo5. La proposta di Benjamin, vorrei sostenere, si delinea al contrario come una confu-

3 Walter Bcnjamin, Das Kunstwerk mi Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Id., Schriften, Suhrkamp Vcrlag, Frankfurt am Main 1955; tr. it. E. Filippini, L'opera d'arte 11ell'epoca della sua riproducibilità teaùca. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1998, p. 39. 4 Continuità metodologica che vede anche Jacob Taubcs affermando, dopo aver letto la lettera di Bcnjamin: «Qui sotto potete mettere anche il mio nome» Uacob Taubcs, Ad Cari Schmitt. Gegenstrebige Fiigung, Mcrvc, Bcrlin 1987; tr. it., G. Scotto, E. Stimilli, a cura di E. Stimilli, In diverge11te accordo. Scritti su Cari Schmitt, Quodlibct, Macerata 1996, p. 72). S Tomba, forse più di altri, evidenzia come il progetto politico di Bcnjamin emerga dalla confutazione del capitalismo. Cfr. Massimiliano Tomba, Attraverso la piccola porta. Quattro studi su Walter Ben;ami11, Mimcsis, Milano 2017.

SALVAREI.ARAPPRESl!NTAZIONE

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tazione del politico, e cioè dell'idea di rappresentazione sottesa a una particolare concezione della forma. È quindi proprio la forma che permette di rivelare il retroterra estetico degli scritti politici benjaminiani e, soprattutto, l'essenza politica dei suoi studi estetici compendiati nel Dramma barocco tedesco. Solo così è possibile mostrare che l'allegoria altro non è che una forma politica alternativa rispetto a quella pensata dalla modernità hobbesiana. È la compenetrazione originaria di estetica e filosofia politica che permette questa rilettura del pensiero benjaminiano. Il punto è capire quanto il problema estetico-politico della forma rientri all'interno del Frammento, e un possibile suggerimento può essere fornito dalla lettura che ne propone Jacob Taubes. Per Taubes, il tono nichilistico che chiude il testo deve essere letto nei termini di morphé di questo mondo che si dilegua 6 • Il che può anche dire molto di più su che cosa significhi considerare il nichilismo come metodo della politica mondiale e, ancora, perché si tratti, in ultima istanza, di una questione estetica. L'idea estetica di forma sarebbe così alla base della critica che Benjamin muoverebbe al politico, pur senza arrivare a un rifiuto della rappresentazione tout-court. Studiare la proposta rappresentativa di Bcnjamin è quindi anche un modo per rintracciare un'idea di rappresentazione in grado di parlare alla filosofia politica, poiché quest'ultima, come sembra essere sempre più chiaro, non può più prescindere dalla nozione estetica di forma. Per così dire, salvare la rappresentazione, salvare una specifica idea di forma, non è un compito solo estetico, ma anche, e soprattutto, politico.

' Jacob Taubcs, Dic politische Theologie des Paulus. Vomiige, gehalten an der Forschungsstiitte der Evangelischen Studiengemeinschafr i11 Heidelberg, 23.-27. Februar 1987, Fink, Miinchen 1993; tr. it. P. Dal Santo, La teologia politica di San Paolo, Adclphi, Milano 1997, p. 137. Tau bes torna altre volte sull'interpretazione del Frammento di Bcnjamin, solitamente con l'intenzione di confutare la lettura proposta da Gcrshom Scholem. L'idea di Taubcs è di definire Bcnjamin come «marcionita moderno», poiché, in quanto marxista mistico, ha dei tratti inaspettati sia per il marxismo che per il messianesimo ebraico. Jacob Taubcs, Walter Benjamin. Ein modenrer Marcionit? Scholems Benjamir,1,,terpretation religionsgeschichtlich uberpriifr, in Norbert W. Bol7., Richard Fabcr (a cura di), Antike u,ui Modenre. Zu Walter Benjamins »Passagen", Vcrlag Konigshauscn & Ncumann, Wiirzburg 1986; tr. it. a cura di E. Stimilli, Walter Btmjamin. Un marcionita moderno, in Jacob Taubcs, I/ prezzo del messianesimo, Quodlibct, Macerata 2.000, pp. 57-71.

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2.

L'estetica dietro la politica

Il Frammento teologico-politico e Per la critica della violenza sono due testi eminentemente politici. Come cercavo di sottolineare, è però possibile rintracciare in entrambi una centralità dell'idea di forma, mettendo in luce come la critica politica portata avanti da Benjamin in questi anni affondi le sue radici in una critica estetica. La questione è evidenziare attraverso quale strada passerebbe il rifiuto benjaminiano di ogni teologia politica. Esistono due possibili vie: per un verso, si può considerare come tema centrale del Frammento una specifica nozione di temporalità ma, per altro verso, è anche possibile sostenere che il rifiuto della rappresentazione teologicopolitica passi in verità proprio per l'idea estetica di forma. Alla temporalità si appoggiano gran parte delle letture che vogliono vedere nel Frammento una confutazione del capitalismo. Com'è noto, Benjamin va elaborando - sulla scia della Cabbala - una concezione del regno profano che deve sapersi in relazione escatologica con il Regno di Dio e, il punto più interessante, spesso trascurato, sarebbe in questa interpretazione la relazione tra i due regni e non la loro separazione. Reintrodurre la categoria della finitezza del mondo diventerebbe così indispensabile per rispondere a una specifica concezione della temporalità, quella capitalistica, di un culto che, essendo senza trascendenza, è anche senza salvezza7. Ma non si tratta di questo soltanto. Il Frammento è infatti una radicale confutazione non solo del capitalismo, ma più in generale della forma politica e, nello specifico, dell'idea di forma sottesa a ogni paradigma teologico-politico. Riguardo alla radicale messa in discussione della forma politica in questo testo, si è parlato di un anarchismo giovanile di Benjamin. Questo sarebbe da ricondurre al suo rapporto con Gershom Scholem che, per un verso, lo aveva invitato a leggere la letteratura libertaria di Landauer e, per altro verso, ne aveva influenzato un'interpretazione della Cabbala nella sua dimensione restituzionista - tesa per gran parte alla restaurazione dell'armonia edenica -, cui, in effetti, il Frammento si rifà esplicitamente parlando

7 Cfr. Bcmd Wittc (a cura di), Theologie und Politik: Walter Be11;amin und ein Paradigma der Moderne, Erich Schmidt, Bcrlin 2.005; tr. it. a cura di M. Ponzi, Teologia e politica. Walter Ben;amin e un paradigma del modemo, Aragno, Torino 2.006.

SALVAR!! I.A RAPPRl!Sl!NTAZIONI!

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di restitutio in integrum8• Senza voler forzare una simile lettura, è necessario sottolineare che, almeno in questo contesto, la messa in discussione del capitalismo è, se non altro, connessa a una critica della ricerca moderna di una forma statuale. Il Frammento sarebbe così il più radicale rifiuto della forma politica elaborata dalla modernità. Questo è evidente solamente se lo si legge in rapporto a Per la critica della violenza. Qui la domanda sottesa è se possa esistere una violenza di altro genere rispetto a quella del diritto9. Ogni violenza sembra rientrare all'interno del continuum del diritto, di cui Benjamin mette in primo piano il carattere conservativo: esso, dedito alla durata, appartiene a una storia che reprime violentemente il nuovo. Una concezione del diritto condivisa da T aubes, il quale, nel vedere in Schmitt una forma catecontica di esistenza, intende dire che Schmitt è il katechon e lo è in quanto giurista 10 • La sua ossessione per la forma sarebbe così legata a un'idea della Legge come conservazione dell'ordine esistente. La lettura di Benjamin del diritto è la medesima: esiste una scissione tra il piano etico e il piano politico per cui l'ordine della giustizia non è l'ordine del diritto, la cui unica priorità è - al contrario - il mantenimento della forma incapace di porre alla base un interrogativo etico. Taubes scrive a proposito della legge che il suo intento è mantenere il mondo così com'è, «qualunque ne sia la forma» 11 • Questo è il punto: la forma statale deve essere radicalmente criticata poiché non può realmente annullare la violenza, ma solo limitarsi ad occultarla 12 • Se al centro del Frammento troviamo una critica del diritto che passa per una sospensione della forma, non appare strano che il nichilismo citato da Benjamin in conclusione abbia spesso ricordato Cfr. Michacl Lowy, Rédemption et utopie. Le juda'isme libertaire en Europe centrale. Une étude d'affinité élective, PUF, Paris 1988; tr. it. D. Bidussa, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollari Boringhicri, Torino 1992.. 9 Walter Bcnjamin, Zur Kritik der Gewalt (1921) in Id., Gcsammcltc Schriftcn II, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972-; tr. lt. a cura di M. Tomba, Per la critica della violenza, Alcgrc, Roma 2010, p. 57. • 0 J. Taubcs, La teologia politica di San Paolo cit., p. 186. I l lbid. 11 Così, per un verso, è impossibile rinunciare alla lotta contro la violenza ma, per altro verso, è necessario mantenere la consapevolezza che la politica non può identificarsi con la non violcn7.a, coincidere con l'imperativo della pace, anzi, deve lasciare posto allo scontro politico. Cfr. trienne Balibar, Violence et Civilité. Wellek Library Lectures Et Autres Essais De Philosophie Politique, Galilée, Paris 2010. 8

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l'idea Paolina di un come se non, di un hos me. Si tratta, in effetti, di due testi messianici il cui risvolto politico deve ancora essere portato completamente alla luce. È proprio Jacob Taubes - nelle sue lezioni su Paolo - a leggere il nichilismo benjaminiano in rapporto ali' hos me paolino 1 3. Da qui deriva la lettura del Frammento secondo la quale esso andrebbe restituito al messianesimo sabbatiano inteso come programma politico radicale 1 4. Si è addirittura parlato di paolinismo del Frammento per indicare la sua più o meno esplicita adesione all'assunto che la Legge ebraica non rappresenta più uno strumento di salvezza, ma un impedimento al compimento storico 1 5. È però solo T aubes a toccare il punto fondamentale: il problema della forma, della morphé di questo mondo. Mi sembra perciò particolarmente interessante sottolineare che il sapersi in relazione escatologica con il regno di Dio - il nichilismo stesso del frammento benjaminiano - significa soprattutto che la politica profana non deve avere una funzione catecontica di mantenimento del presente contro il Regno e, in un certo senso, potremmo dire, di messa in forma di un'epoca. Nichilismo e katechon sono due compiti politici messi in contrapposizione dall'idea estetica di forma. Le parole di Taubes aiutano a evidenziare la centralità filosofica del tema della forma all'interno del pensiero benjaminiano: il nichilismo è rifiuto della forma politica implicata dai paradigmi teologicopolitici, prima ancora che confutazione della temporalità capitalistica. Andrebbero in questo senso approfonditi i rapporti che Taubes intravede, sulla scia benjaminiana, tra il katechon, la legge e la forma o, in altri termini, tra filosofia politica ed estetica. È allora proprio il modo moderno-hobbesiano di intendere la forma politica e di crearla il tema centrale del Frammento. '3

J. Taubcs, La teologia politica diSa11 Paolocit., p. 137.

Secondo Stimilli, è lettura del sabbatiancsimo proposta da Gcrshom Scholcm a illuminare i rapporti tra nichilismo e politica: il fondamento teorico del movimento sabbatiano risiederebbe infatti nella Cabbala Iuriana, ma come svolta nichilistica della speculazione di Luria, per molti versi, come un suo tradimento. Cfr. Elettra Stimilli, Il nichilismo Sabbatia110 come fenomeno politico, in Roberto Esposito, Carlo Galli, Vinccnw Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Latcrza, Roma-Bari 2000, p. 256. •s Cfr. Federico Dal Bo, L'immediata i11tensità messianica del cuore. Paolinismo nel Frammento teologico-politico di Walter Benjami,i, in G. Guerra, T. Tagliacozzo (a cura di), Felicità e tramo11to. Sul Frammento teologico-politico di Walter Benjamin, Quodlibct, Macerata 2019. '4

SALVARE I.A RAPPRESENTAZIONE

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3. La politica dietro l'estetica

Se da questa analisi risulta evidente la centralità del problema della forma politica all'interno del Frammento, resta da dimostrare che essa ha origine negli studi giovanili che Benjamin dedica al cattolicesimo romano e al romanticismo tedesco. Benjamin, in effetti, sta qui cercando di prendere le distanze cosa che diventerà più evidente nel Dramma barocco - dal circolo di Stefan George e, in particolare, dal simbolismo di Ludwig Klages. È per questo che la preparazione di una critica alla forma simbolica, sistematizzata nel Dramma barocco, passa per lo studio del modo in cui l'ironia romantica riesce a mettere in discussione la forma compiuta del simbolo 16 • È in effetti poco convincente leggere Il concetto di critica d'arte nel romanticismo tedesco esclusivamente come un testo dedicato al messianesimo romantico. È invece più efficace considerarlo come una critica del modo di far poesia proprio del circolo di George, una critica che rivela immediatamente la sua portata politica, se analizzata come confutazione della mitologia condivisa dai discepoli del Kreisl7. Benjamin incontra Klages a Monaco nel 1914 e rimane molto colpito dalla sua teoria del simbolismo, riconoscendo però quasi immediatamente che il problema del simbolo - così come Klages lo concepisce - risiede nel suo non esser referenziale. In altri termini, il simbolo non si riferisce a qualcosa, ma è qualcosa. Si tratta di una rappresentazione intesa come decalcomania che Benjamin arriva a rifiutare nel frammento del 1921 con l'affermazione che la teocrazia non ha alcun significato politico 18• Come emerge dagli studi che Benjamin conduce in questi stessi anni sul cattolicesimo romano, 16

W. Benjamin, I/ concetto di critica d'arte ,rei romanticismo tedesco cit., p. 144. t Klages, come Bcnjamin ricorda a Scholem, ad introdurlo, ad esempio, alla lettura di Bachofcn. Cfr. Walter Bcnjamin, Gcrshom Scholem, Briefwechsel, z933-z940, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980; tr. it. a cura di S. Campanini, Archivio e Camera oscura. Carteggio z932-z940, Adclphi, Milano 2.019, p. 188. Sul tema cfr. Mario Pcu.clla, Interpretazioni di Bachofen ,re/l'opera di Walter Benjamin, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 18, 2., 1988, pp. 843-857. 18 Walter Bcnjamin, Theologhisch-politisches Fragment (1920-2.1), in Id. Gesammelte Schrifte,1 II, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972.; tr. it. a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Frammento teologico-politico, in Walter Bcnjamin, Sul concetto di Storia, Einaudi, Torino 1997, p. 2.54. 17

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criticare il simbolo significa così anche rifiutare una certa tendenza politica secondo cui il divino può essere rappresentato in terra tramite istituzioni; il che implica, naturalmente, che l'unico mezzo terreno per la redenzione sia la Chiesa istituzionalizzata1 9. In questo modo, ciò che Benjamin stigmatizza è la teologia politica sottostante a quella poetica. In effetti, se il saggio sulle due poesie di Friedrich Holderlin non arriva a superare il simbolismo naturale della scuola di George, l'articolo dedicato alle Affinità elettive di Goethe è un'aperta critica etica all'interpretazione fornita da Friedrich Gundolf, chiamato il «cancelliere dell'impero spirituale di George» 20 • Quanto resta quindi di questi studi benjaminiani all'interno del Frammento è il rifiuto della rappresentazione teologico-politica sottesa alla poetica del Kreis georgeano. Letta in questi termini, la critica estetica del simbolismo e dell'interpretazione del romanticismo è in realtà una critica pienamente politica. Come cercavo di sottolineare nell'introduzione, Benjamin non è l'unico nel corso del Novecento a dare un'interpretazione politica del romanticismo tedesco. Così queste considerazioni vanno lette anche a partire dalle tesi di Schmitt sul romanticismo. L'assenza di forma e l'occasionalismo sono al centro della critica che Schmitt muove al romanticismo 21 • Benjamin è al contrario tra i pochi interpreti a non concentrarsi sul soggettivismo nell'interpretazione dell'età romantica per vedervi, invece, un movimento epocale 22• Il che è evidente già soltanto nella centralità attribuita da Benjamin alla teoria dei generi letterari e, nello specifico, al romanzo considerato come un tentativo di mettere in forma un'epoca storica 2 3. Nonostante le numerose differenze che intercorrono tra l'interpretazione benjaminiana e quella Bcnjamin, Opere Complete. Scritti 1.906-1.9.2.2 cit., pp. 2.07-2.10. Julian Robcrts, Walter Benjami11 cit., p. 157. ~• Cfr. Cari Schmitt, Politiscbe Roma11tik, Dunckcr & Humblot, Miinchcn 1919; tr. it. a cura di C. Galli, Romanticismo politico, Giuffrè, Milano 1981. ._. Molto probabilmente Bcnjamin era consapevole delle forzature introdotte nella propria interpretazione del romanticismo e le riteneva opportune. Cfr. Walter Bcnjamin, Eva Ficscl, La filosofia del linguaggio del romanticismo tedesco, in W. Bcnjamin, Opere Complete. Scritti 1.9.23-1.9.27 cit., pp.731-732.. ~3 «Questa forma simbolica per cccellcn7.a è il romanzo. Ciò che per prima cosa balza agli occhi in questa forma è la sua apparente libertà e asscn7.a di regole. Difatti il romanzo può riflettere su sé stesso a suo piacimento, rispecchiare, in sempre nuove considerazioni, ogni grado di coscienza dato da una posizione superiore» (W. Bcnjamin, // co,rcetto di critica d'arte ,rei romanticismo tedesco cit., p. 159). '9 W.

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di Schmitt, esistono due punti comuni che vale la pena sottolineare: la centralità attribuita alla forma e il tentativo di fare del romanticismo un presupposto per la comprensione della propria epoca. Bcnjamin, in effetti, seppure con esigenze diverse, condivide con Schmitt l'idea che la forma non sia solo un concetto artistico, cd è proprio per questo essenziale criticare la forma simbolica, come dicevo, nella sua portata politica. È però nella stessa declinazione dell'idea estetica di forma che si nascondono i motivi delle differenze politiche tra le due interpretazioni. Benjamin, sulla falsariga dei romantici, cerca di elaborare una forma alternativa alla teologia politica, una forma capace di integrare il tempo al proprio interno2 4. Al contrario, è il rapporto tra la forma e il tempo che Schmitt non riesce mai a risolvere cd è così che in Benjamin è concesso quanto in Schmitt è negato: la forma, appunto. In effetti, il disperato tentativo di Schmitt di provvedere a una forma per la propria contemporaneità trova una risposta solamente nel decisionismo politico che però altro non fa che rivelare l'inesistenza di una forma precedente alla decisione, e, in questo, Schmitt è pienamente crede del modo modcrno-hobbesiano di ragionare sulla forma politica. La forma è- se intesa in questi termini - una creazione decisa 2 5. In questo contesto, Benjamin sembra individuare come crepa della macchina teologico-politica proprio la sua necessità di provvedere a una forma che non esiste 26• Interpretazione che richiama alla memoria la critica 2.4 Sul rapporto tra la fonna e il tempo nel romanticismo tedesco, cfr. Federico Vcrcellone, Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del roma11ticismo tedesco, Guerini, Milano 1998. '-S Schmitt cambia nel corso degli anni la propria concezione della forma, cercando, soprattutto all'interno dcli' Amleto o Ecuba, ma già in parte nel Nomos della terra, di integrare il tempo al suo interno. Questo avviene, com'è noto, a seguito della lettura del Dramma baro"o tedesco, e soprattutto dopo l'Institutio,wl Tum. t così evidente che il rischio cui più facilmente il pensiero istituente si espone è l'integrazione della storia all'interno delle istituzioni. Cfr. Cari Schmitt, Der Nomos der Erde im Viilkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Greven, Koln 1950; tr. it. E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Il Nomos della terra. Nel diritto inten,azionale dello "Jus publicum europaeum", Adclphi, Milano 2.003; Cari Schmitt, Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spie/, E. Diederichs, Diisscldorf 1956; tr. it. S. Forti, a cura di C. Galli, Amleto e Ecuba: l'irrompere del tempo nel gioco del dramma, Bologna, il Mulino 1983. '-6 A questo proposito va ricordato che l'Ursprung di Bcnjamin non è mai l'arché schmittiano, il che influen7.a le due diverse concezioni della fonna. Or. Carlo Galli, Genealogia della politica. Cari Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996, pp. 403-404.

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di occasionalismo che Karl Lowith muove a Schmitt27. Così, contro la forma teologico-politica della modernità hobbesiana, Benjamin, seguendo la lezione romantica, prova a proporre una forma alternativa, una forma dinamica, in grado di integrare il tempo al proprio interno, e cioè, per dirlo in termini più espliciti, la storia.

4. Il Dramma Barocco come destituzione della sovranità Com'è noto, gli studi di Benjamin sul cattolicesimo romano e sul romanticismo tedesco vengono sistematizzati all'interno del Dramma barocco, un testo rispetto a cui è facile riconoscere un contenuto estetico. Eppure, ancora una volta, l'analisi di una forma artistica ha a che fare con la critica di una specifica forma politica. È possibile leggere il Dramma barocco, come anche il Frammento, nei termini di una messa in scena della destituzione della sovranità moderna. La sovranità barocca è, in altre parole, lo scarto tra l'assolutezza del potere sovrano e la sua capacità di governare. La storia stessa del Leviatano -cioè della forma statuale teologico-politica criticata da Bcnjamin - può esser letta come un Trauerspief- 8• Ma, soprattutto, la tragicità del Leviatano, almeno per Bcnjamin, risiede nella sua incapacità di rappresentare l'epoca a lui contemporanea. Così la tragicità della storia della forma politica concepita dalla modernità non è determinata solo dall'instaurarsi del Regno di Dio in questo mondo - dall'ultimo confronto su cui si concentrano quasi tutte le interpretazioni del Frammento benjaminano -, quanto soprattutto dalla sua incapacità di porsi come forma rappresentativa di un'epoca. È l'inattualità del Leviatano come modello rappresentativo a muovere il dramma al cui centro c'è la storia e non il mito29 • La forma di rappresentazione teologico-politica rivela in questo modo la propria inattualità, poiché incapace di integrare al proprio interno la storia. 1 7 Karl Lowith, Der okkasionelle Dezisionismus vo11 Cari Schmitt, «lntcmationalc Zcitschrift fiir Thcoric dcs Rcchts», 9, 1935, Vcrlag Mctzlcr, Stuttgart, pp. 101-123: tr. it. A. M. Pozzan, Il decisionismo occasionale di Cari Schmitt, in Karl Lowith, Marx, Weber, Schmitt, Latcrza, Roma-Bari 1994, pp. 123-166. 18 Carlo Galli, Contaminazioni. l""zionidel Nulla, in R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e Politica cit., p. 1 50. 29 Walter Bcnjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Rowohlt, Bcrlin 1928; tr. it. F. Cunibcrto, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 37.

SALVARE LA RAPPRESENTAZIONE

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È necessario in questo contesto tornare sulla distinzione tra il simbolo e l'allegoria: si tratta di due strutture di significazione contrapposte. Il simbolo è un sistema di rappresentazione per molti versi analogo alla presentificazione del senso propria del modo moderno di ragionare sulla forma statuale, su una messa in forma, si potrebbe dire, della società3°. Il simbolo è, ancora una volta, l'espressione estetica della rappresentazione teologico-politica. Per dirlo in altri termini, il simbolismo sottintende una logica che potremmo definire catecontica, evidenziando il legame che intercorre tra le interpretazioni novecentesche del katechon e la forma politica, giuridica, artistica e, più in generale, estetica. Al contrario, l'allegoria bcnjaminiana è un sistema di significazione - cd è bene sottolinearlo - che si costruisce come forma anticatecontica. L'allegoria va così interpretata in senso rigorosamente rappresentativo proprio nella misura in cui si pone come rappresentazione alternativa rispetto a quella statuale della modernità. L'immagine allegorica, ben lontana dal rifiutare ogni forma di rappresentazione, abbandona sì ogni formalizzazione, ma a favore di un rinnovamento delle forme disgregate e non di una loro dissoluzione. Se l'intuizione allegorica, in cui l'immagine è rovina3 \ si presenta come unica forma estetica in grado di rappresentare l'epoca, esiste insieme una possibilità politica alternativa, un linguaggio estetico e politico che parte dalle rovine, ma - seppur consapevole del proprio aspetto melanconico - è capace ancora di rappresentare. E si può dire di più. L'allegoria èin grado di rappresentare un'epoca proprio perché è storicamente attiva, mentre il simbolo è un estremo inerte3 2 • L'allegoria si confronta quindi con il tempo e abbandona l'immediatezza della rappresentazione teologico-politica. La lettura del romanticismo operata da Benjamin appare così in grado di cogliere il problematico rapporto tra la forma e il tempo. La grandezza dell'allegoria, come Benjamin intuisce sulla falsariga dei romantici, risiede nel suo essere temporale. Così la forma politica che Benjamin va elaborando è una forma storica. 30Jvi, pp. 134-135. 3 • lvi, p. 15 1. 31 Su questo punto è particolarmente significativa l'espressione bcnjaminiana secondo cui l'allegoria non invecchia (ivi, p. 135).

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Questo è vero anche nelle Tesi. All'inizio della IV Benjamin cita Hegel scrivendo: «cercate innanzitutto cibo e vesti, e il regno di Dio vi sarà dato in sovrappiù» 33. Questa citazione è rovesciata da Matteo: «cercate il regno di Dio e la sua giustizia e queste cose vi saranno date in sovrappiù» 34• Ancora una volta, la politica profana è non solo separata, ma soprattutto in relazione escatologica con il Regno di Dio. Esiste una possibilità di rappresentare il Regno in questo mondo, ma a partire dal cibo e dalle vesti, dai frammenti concreti del desiderio insoddisfatto della storia dei vinti - questo è il senso dell'allegoria benjaminiana. Il Frammento teologico-politico e Per la critica della violenza hanno come questione centrale il problema della forma politica e gli studi di Benjamin su cattolicesimo e romanticismo lo dimostrano. La compenetrazione originaria di estetica e filosofia politica può così mostrare come la critica della forma politica passi attraverso una critica estetica del simbolismo ma, soprattutto, come all'interno del Dramma barocco sia possibile individuare una proposta politica. Ne segue, forse senza che sia necessario esplicitarlo, che uno dei testi considerati pienamente estetici di Benjamin si rivela in realtà essere uno studio pienamente politico. È così che la critica alla rappresentazione politico-statuale passa attraverso la critica del concetto estetico di simbolo. Nei testi che Benjamin scrive fino al '2.1, l'unica politica possibile consiste nel trapassare di ogni struttura, nel rompersi della forma simbolica sia dal punto di vista artistico che da quello storicopolitico, ma il rifiuto del simbolismo di George non coincide con il rifiuto di ogni rappresentazione. Nulla può essere salvato della forma compiuta - e perciò mistificante - del simbolo, ma resta una possibilità politica nella forma estetica dell'allegoria.

5. Conclusioni Attraverso Benjamin diventa possibile ripensare una forma che integri il tempo al proprio interno e quindi anche la storia. Ripartire dal rapporto tra estetica e filosofia politica rende così possibile con-

33 34

W. Bcnjamin, Sul concetto di storia cit., p. Mt 6, 31-33.

25.

SALVARE LA RAPPRESENTAZIONI!

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centrarsi sulla centralità del problema filosofico della forma e, più nello specifico, della forma politica, ampliando contemporaneamente l'ambito di indagine della morfologia. Questo è il primo passaggio essenziale per pensare una morfologia politica intesa non come studio delle forme politiche, ma di una politica delle forme. L'estetica può aiutare la riflessione politica sulla forma affinché riesca a integrare il tempo senza dissolversi in esso. Per dirlo in altri termini, oltre il dualismo di politica e società c'è l'allegoria come forma dinamica, che poi significa temporale e storica. Da questo dipende, com'è ovvio, anche la sua fragilità; ma lo studio di forme dinamiche non coincide con un integrale rifiuto delle forme o della rappresentazione. Sicuramente la forma estetica dell'allegoria è una proposta politica che il Frammento sembra prevedere. Il problema della rappresentazione emerge spesso negli anni Venti del Novecento e passa proprio attraverso diverse interpretazioni del cattolicesimo romano e del romanticismo tedesco, a partire dalla differenza intravista da Schmitt tra V ertretung e Reprasentation3S, per arrivare fino alla Darstellung del Dramma barocco. Si tratta di formulazioni della rappresentazione che mettono in capo il rapporto tra estetica e filosofia politica; ma è soprattutto la proposta bcnjaminiana a pensare politicamente il concetto più estetico di rappresentazione - una Darstellung appunto -, una rappresentazione, per molti versi, teatrale. Quindi, lo slittamento che Bcnjamin compirebbe dalla filosofia politica di Schmitt alla filosofia dell'arte di cui si fa portavoce è solo apparente. Bisogna tener conto ancora, per tornare alla datazione del Frammento, che esso viene scritto prima della pubblicazione di Teologia politica3 6 • Cosa si nasconda dietro al dibattito teologico-politico - lo stesso motivo per cui Schmitt prende tanto seriamente la critica di Peterson37 - ha a che fare con una questione estetica. La teologia poli3S Or. Caci Schmitt, Romischer KatholWsmus und politische Form, Klett-Cotta, Stuttgart 1923; tr. it. C. Galli, Cattolicesimo romano e forma politica, il Mulino, Bologna 2010.

3 6 Vale la pena, in questo contesto, di richiamare la tesi agambcniana secondo cui Teologia politica I sarebbe una risposta a Per la critica della violetua. Secondo Agambcn, lo Stato di eccezione sarebbe lo spazio in cui Schmitt cerca di catturare la violenza "anomica" di Bcnjamin. Cfr. Giorgio Agambcn, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 37 Erik Peterson, Der Mo11otheismus als politisches Probkm. Ein Beitrag zur Geschichte der politischeti Theologie im lmperium Romanum, Hcgner, Lcipzig 193 5; tr. it. I/ monoteismo come probletna politico, Queriniana, Brescia 1983.

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tica già nel frammento benjaminiano rivela il suo rapporto essenziale con la forma, intesa come forma politica, ma anche come sistema di legittimazione simbolica di un'intera epoca storica. Se è possibile sostenere che proprio quel trattino che separa, e unifica al contempo, la teologia e la politica rivela semplicemente che sono entrate entrambe in crisi e che ricongiungerle è il primo compito messianico3 8 - rendendo così immediatamente evidente il problema politico sotteso alla questione-, manca ancora un'analisi del Frammento in grado di tenere pienamente conto dell'idea estetica della forma. Il compito della politica contemporanea è anche riconoscere il retroterra estetico della teologia politica. Questo sembra essere l'unico modo per comprendere la proposta politica benjaminiana che si annida all'interno della sua riflessione estetica. &tetica e filosofia politica devono essere messe in dialogo, non solo per decostruire le premesse estetiche della teologia politica, ma per comprendere una proposta politica che altrimenti rischia di rimanere inesplorata. Il rapporto tra il tempo e la forma non è un problema solo estetico, colto dal romanticismo tedesco, ma è un antichissimo problema di filosofia della storia di cui Benjamin sembra essere consapevole.

38 Mario Tronti, Walter Benjamin. Frammento teologico-politico, in Id., Il demone della politica. Antologia di scritti (z958-2oz5), a cura di M. Cavalieri, M. Filippini,Jamila M.H. Mascat, il Mulino, Bologna 1017, p. 640.

L'istituzione come formazione. Goethe e Merleau-Ponty al di là della forza e della forma. Matteo Pagan

Scopo di questo intervento è interpretare alcuni concetti chiave della morfologia goethiana e valutare la loro utilità in una prospettiva teorica che voglia mettere in discussione la netta contrapposizione tra la vita come pura forza, di per sé portatrice di politica, e l'istituzione come pura forma, semplice apparato immunitario, statico e limitante 1 • Queste due assunzioni non sono una recente novità all'interno del dibattito filosofico-politico: già Marcuse in Eros e civiltà (1955), assumendo una concezione negativa, repressiva, dell'istituzione, contrapponeva alla sua oppressione una liberazione dell'Eros. In modo simile, ne L'anti-Edipo (1972), Dcleuze e Guattari hanno rivestito il desiderio di una potenza affermativa che non richiede di essere politicamente istituita e che anzi è destinata a contrastare ogni istituzione, intesa solo negativamente come dispositivo inibente il desiderio stesso. Al di là delle differenze considerevoli che li distinguono, questi due autori pensano la vita e l'istituzione come due poli frontalmente contrapposti: da un lato una forma completamente negativa, un potere immobile e reazionario, e dall'altro una forza 2 completamente affermativa, un flusso vitale senza confini, senza limiti. Questa divisione ha implicato nel corso degli anni una separazione sempre più netta tra politica e società e, con essa, il bipolarismo (ancor oggi dominante) tra la

1 Cfr. Roberto Esposito, Pensiero Istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Ei• naudi, Torino 2.02.0. 1 In un testo del 1986 - in cui non è facile capire se stia ricostruendo la posizione di Foucault o parlando in prima persona - Dcleuzc scrive: «Quando il potere diventa biopotere, la resistenza diventa potere della vita[... ]. La vita non è forse questa capacità di resistere che è propria della forza?». Gillcs Dclell7.c, Foucault, Minuit, Paris 1986; tr. it. di F.Domenicali, Foucault, Cronopio, Napoli 2.009, p. 1 2.4.

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staticità del politico e la dinamicità del sociale, tra l'oppressione e l'emancipazione, tra l'istituzione e i movimenti. Se si vuole evitare quest'opposizione, dimostratasi incapace di avere effetti politici significativi, è necessario sforzarsi di articolare la vita e l'istituzione o, in altre parole, la forza e la forma, due categorie che buona parte del pensiero contemporaneo ha pensato come inconciliabili. In questa direzione, un contributo significativo può essere apportato da quella tradizione morfologica che, sulla scia di Goethe, ha preferito alla nozione statica di "forma" (Gestalt) quella dinamica di "formazione" ( Gestaltung o Bildung), che considera il vivente nel suo incessante divenire una forma. La tesi che si vorrebbe dimostrare è che lo sviluppo di una concezione diversa della forma, intesa in senso dinamico come Bildung o Gestaltung, è la condizione di possibilità per pensare, da una parte, l'istituzione non più come un katechon, ma come una forma vitale, dinamica, e, dall'altra, la vita come sempre istituita, come forma di vita - né blo{?e Leben né flusso in perpetuo divenire, due modi diversi per dissolvere il carattere formale che caratterizza il bios. Il saggio sarà suddiviso in tre parti: nella prima ci si concentrerà sulla morfologia di Goethe, e in particolare sulle nozioni di Bildung e Gestaltung. Questa prospettiva, che ai suoi tempi apparve minoritaria, ha via via acquisito vigore e, nel corso del Novecento, è stata fonte di ispirazione per campi specifici del sapere filosofico3 e, in particolare, per il pensiero di Merleau-Ponty. Pertanto, nella seconda parte si accennerà al debito morfologico merleau-pontyano, ovvero alle sue inerenze nei confronti della riflessione di Goethe, e si metterà in luce la sua rilevanza per l'elaborazione del concetto di istituzione. Infine, nella terza parte, verranno delineate alcune conclusioni generali sulle tematiche affrontate. Si cercherà in particolare di passare dal piano vitale al piano più propriamente politico, per valutare le implicazioni pratiche che un pensiero dell'istituzione come formazione può avere.

3 Cfr. Francesco Moiso, Morfologia e filosofia, «Annuario filosofico», 8, 1992., pp. 79-139.

L'ISTITUZIONE COME FORMAZIONE

1.

2.2.5

Goethe: il movimento nella forma

La morfologia di Goethe, che si dispiega in modo parallelo sia nelle sue indagini naturalistiche che nella sua opera letteraria, è una prospettiva trasversale che, pur unendo le ambizioni di diversi ambiti di ricerca, ha origine nella scienza della natura: è infatti lo studio del fenomeno naturale nella sua apparenza a fornire il prototipo del metodo morfologico. Questo approccio si sforza di rinvenire un principio ordinatore di ciò che appare, di ciò che ha espressione sensibile, sulla base della «convinzione che tutto ciò che è deve anche dar cenno di sé e mostrarsi»4. È opportuno sottolineare che la considerazione della natura dal punto di vista della sua apparenza contraddiceva apertamente la concezione meccanicista ottocentesca che, leggendo la natura in termini matematici, si limitava a studiarne la composizione fisico-chimica. Come dirà Helmholtz utilizzando una metafora teatrale, lo scienziato naturale deve studiare «le leve, le funi e i rulli» che stanno dietro le quinte e reggono la scena della natura. Al contrario, Goethe afferma la necessità di studiare la natura nei suoi modi di presentarsi sulla scena; questo atteggiamento fenomenologico ante litteram (che ai tempi ebbe ben poca fortuna) può essere riassunto con la massima gocthiana «Soprattutto non si cerchi nulla dietro ai fenomeni: essi sono la teoria»5. Per questo motivo la morfologia si pone il compito di darstellen und nicht erklaren: non di spiegare i meccanismi o le forze, ma di descrivere la Gestaltung della forma organica e delle sue metamorfosi. Il vivente non è staticamente conoscibile, non può essere ridotto a una formula, ma va descritto nel suo carattere dinamico. Conseguenza di questo approccio è il superamento della contrapposizione tra forma organica e divenire vitale; in Goethe la fissità e il flusso non formano una coppia di contrari perché la forma non è intesa come Gestalt, ma come Bildung.

" Johann Wolfgang von Goethe, Die Schriften zur Naturwissenschaft, LeopoldinaAusgabe, Hermann Bohlaus Nachfolgcr, Weimar 1947 e ss., I, voi. 10; tr. it. di R. Rizzo, Per una morfologia come sciet® autonoma, in Id., Per una scienza del vivente. Gli scritti scientifici: Morfologia III, Il Capitello del Sole, Bologna :z.009, p. II 5. S Johann Wolfgang von Goethe, Maximen und Reflexionen, Goethe Gescllschaft, Weimar 1907; tr. it. di M. Bignami, Massime e riflessioni, Theoria, Roma-Napoli 1983, p. 154.

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Per indicare il complesso dell'esistenza di un essere reale, il tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae da ciò che è mobile e si ritiene stabilito, confuso e fissato nel suo carattere un tutto unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar modo quelle organiche, ci accorgiamo che in esse non vi è mai nulla di immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in continuo moto. Perciò la nostra lingua si serve opportunamente della parola Bildung, formazione, per intendere sia ciò che è già prodotto, sia quello che sta producendosi. Ne segue che in una introduzione alla morfologia non si dovrebbe parlare di Gestalt; e, se si usa questo termine, avere in mente solo una idea, un concetto, oppure qualcosa di fissato nell'esperienza solo per un momento6 •

Così, superando il pregiudizio metafisico che contrappone la permanenza dell'essere al divenire del sensibile, Goethe afferma che la forma stessa è intrisa di movimento. Quella di Goethe è quindi una concezione anti-classica della forma: il suo progetto non è infatti quello di rinvenire forme compiute e perfette, eterne e immutabili, ma semmai quello di indagare la formazione e la genesi delle forme dall'informe. Come ha ben evidenziato Moiso, la fascinazione di Goethe per la classicità italiana, che riunisce nella sua estetica monumentale «il massimo movimento nella massima quiete», è rivelatrice di un atteggiamento che cerca di ottenere una visione unitaria del molteplice naturale senza per questo rischiare di annullarlo: si tratta infatti di un'unità «che non è qualcosa che esclude il molteplice, ma che si esprime essenzialmente attraverso di esso» 7 • In definitiva, la novità radicale che l'approccio morfologico goethiano introduce nello studio della natura è l'idea che si possano considerare i fenomeni naturali nella prospettiva della loro formazione. Questo implica una considerazione qualitativa e non quantitativa della forma e, dunque, l'abbandono del modello meccanicistico. La morfologia è quindi scienza di una forma sempre in divenire, la cui Bildung unisce il proprio farsi e l'esperienza dell'osservatore: infatti, «se vogliamo acquisire in una certa misura una percezione vivente della natura, dobbiamo mantenerci mobili e plastici seguendo

6 Johann Wolfgang von Goethe, Werke, Hamburger Ausgabe, Wcgncr, Hamburg I 948 e ss., voi. 13, p. 55; tr. it. di B. Goff, B. Maffi, S. Zccchi, Metamorfosi delle pia11te, Guanda, Milano 2.02.0, p. 43. 7 Francesco Moiso, Goethe tra arte e scie11za, Cucm, Milano 2.001, p. 32..

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l'esempio che essa stessa ci dà» 8• Di conseguenza, lo sguardo di Goethe non si pone certo in una position de survol rispetto al divenire delle forme organiche, riducendolo a semplice oggetto di conoscenza, ma si colloca semmai all'interno di questo stesso divenire, è ad esso adeguato e quindi capace di cogliere l'invarianza del movimento senza pietrificarlo. La morfologia infatti osserva la serie delle forme per seguire il passaggio graduale da una varietà all'altra: questo permette di trovare l'unità nel molteplice e, allo stesso tempo, di non eliminare il mutamento. Lo sforzo è insomma quello di trovare un ordine in ciò che è per natura continuo movimento, a partire dal presupposto che la trasformazione non è informe, ma passaggio da una forma all'altra secondo una legge9. Goethe sembra cercare l'ordine proprio là dove i fenomeni sono meno ordinati e più caotici; il suo obiettivo è quello di ricavare dal caos un'unità capace di preservare la mobilità e la plasticità di quest'ultimo, mantenendolo vivo. In questo orizzonte di pensiero, l'ideale non si oppone al sensibile, non si trova in un luogo differente dal sensibile, ma viene fatto emergere dal sensibile stesso. Dalle singole osservazioni parziali Goethe riesce infatti a derivare delle leggi generalizzatrici: l'obiettivo è proprio quello di risalire dal fenomeno empirico al "fenomeno originario" ( Urphiinomen), inteso come un "punto pregnante',r 0 al quale ricondurre la molteplicità apparentemente irrelata delle trasformazioni organiche. È evidente come l'intuizione del fenomeno originario non conduca a un modello d'universalità statica: l'Urphanomen non è I' eidos platonico, ma una struttura dinamica nel caotico affollarsi delle forme che rende intuitivamente pensabile quella totalità. Non si tratta quindi di un'informazione, ovvero di una discesa della forma ideale sulla materia sensibile eterogenea e inarticolata, ma dello scarto di una trascendenza nell'immanenza sensibile, considerata nella sua perenne formazione e trasformazione. È proprio l'idea di una costante metamorfosi della natura che spinge Goethe a cercare una definizione della forma che ne sappia comunicare la dinamicità. Questa concezione dinamica della forma, come Bildung o Gestaltung, risulta feconda perché permette di non 8

J. W. Goethe, Metamorfosi delle piante cit., p. 43.

Cfr. Paola Giacomoni, Le forme e il vivente. Morfologia e filosofia della natura in ]. W. Goethe, Guida, Napoli 1993, p. 153. '° Cfr. J. W. Goethe, Metamorfosi delle piante cit., p. 148. 9

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opporre il divenire e il persistere, la forza dinamica e la forma immobile, e anzi impone di considerarli come una polarità costitutiva della stessa vita organica, la quale certo è sempre in divenire, ma non per questo è qualcosa di indistinto. «L'idea di metamorfosi [... ] è uguale alla vis centrifuga e si perderebbe nell'infinito, se ad essa non si associasse un contrappeso: intendo l'impulso alla specificazione, la tenace facoltà di persistere di ciò che una volta è pervenuto alla realtà. Una vis centripeta, contro la quale, nel suo più oscuro fondamento, nessuna esteriorità può nuocere in alcun modo» 11 • Il divenire continuo in cui consiste la vita si configura quindi sempre come il divenire di una forma. Quest'ultima non viene dunque intesa come una mera barriera, ma come un limite mobile e permeabile, senza il quale la vita non può manifestarsi. Inoltre, la morfologia goethiana offre un ulteriore spunto teorico. Come è stato messo in luce, Goethe non assume una forma ideale, perfetta ed eterna che si imprimerebbe su una materia informe come uno stampo sulla cera, dando così unità al diverso. Nel paradigma morfologico si abbandona l'idea platonica dell'informazione della materia sensibile da parte della forma ideale a favore di un'idealità che mantiene la sua origine e il suo dominio nel sensibile stesso. Nella sua produzione scientifica, Goethe offre quindi un metodo di descrizione della Gestaltung naturale, la morfologia, che non si determina in un processo di astrazione dal sensibile, ma attraverso una riabilitazione ontologica del sensibile stesso. Così, nella riflessione goethiana emerge già ciò che accomunerà diverse esperienze teoriche novecentesche: un'ontologia del sensibile declinata nei termini di una filosofia della forma.

2.

Merleau-Ponty: l'istituzione nella vita

Non è quindi un caso che la morfologia goethiana abbia avuto una profonda influenza sulla riflessione filosofica del XX secolo: come si è già accennato nell'introduzione, esiste una forte permanenza delle questioni morfologiche nel pensiero contemporaneo, e in particolare nella riflessione Merleau-Ponty. In questa sede non è naturalmente 11 Johann Wolfgang von Goethe, "Problem ,urd Erwiderung", in Id., Goethes Werk.e. Weimarer Sophienausgabe, Hermann Bohlaus Nachfolger, Weimar 1887-1919, II, voi. VII, p. 7 5; tr. it., "Problemi", in Id., La metamorfosi delle piante cit., p. 144.

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possibile esaminare il debito morfologico merleau-pontyano in tutte le sue sfaccettature1 2.. Quello che interessa è semmai mostrare alcune convergenze tra determinati aspetti della riflessione di Goethe e il concetto di istituzione, a cui il filosofo francese dedica un corso al Collège de France nel 1954-1955. Nell'introdurre il corso, Merleau-Ponty si allontana dal concetto husserliano di "costituzione" e propone di comprendere la genesi delle istituzioni umane, quali sono i sentimenti, le opere d'arte e il sapere, come l'apertura di un campo. Tuttavia, l'apertura a si produce sempre a partire da ciò che già c'è. Pertanto, l'istituzione è indissociabile dalla storia: «Per istituzione s'intendevano dunque quegli eventi di un'esperienza che la dotano di dimensioni durevoli, in rapporto alle quali tutta una serie di altre esperienze avrà senso, formerà un proseguimento pensabile o una storia» 1 3. Mcrleau-Ponty configura così una relazione dinamica tra un'attività istituente, l'evento storico, e uno stato istituito, la tradizione. L'evento storico modifica sempre il campo già istituito nel quale si iscrive e, così facendo, ne apre un altro dotato di senso, secondo una dinamica che Mcrleau-Ponty definisce in termini immediatamente politici: «Rivoluzione e istituzione: la rivoluzione è re-istituzione, che culmina nel rovesciamento dell'istituzione precedente», «l'istituzione non è il contrario della rivoluzione: la rivoluzione è un'altra Stiftung» 1 4. A questo punto, è importante osservare che in due passaggi dell'introduzione al corso Merleau-Ponty fa per la prima volta un riferimento diretto a Goethe, cd in particolar modo alla sua teoria del genio. Egli scrive: Il senso è deposto[ ... ]. Ma non come un oggetto nel guardaroba, come un semplice resto o sopravvivenza, come residuo: [è] come da continuare, da completare, senza che questo seguito sia determinato. Ciò che è istituito cambierà, ma questo stesso cambiamento è invocato dalla sua Stiftung. Goethe: [il] genio [è] produttività postuma. Ogni istituzione è in questo senso genio 1 S.

12 A questo proposito si rimanda alla brillante tesi di dottorato di Simone Frangi, intitolata La matrice morfologica del pensiero estetico di Maurice Merleau-Po11ty, Università degli studi di Palermo, Dottorato di ricerca in "estetica e teoria delle arti", XXII Ciclo, Relatori: Prof. Salvatore Tedesco e Prof. Pierre Rodrigo, data di difesa: 2.5 marzo 2.011. 1 J Mauri ce Merlcau-Ponty, L 'institutio11, la passivité. Notes de cours au Collège de Fra11ce (1954-1955), Bclin, Paris 2.003, p. 12.4. Le traduzioni sono mie. 14 lvi, pp. 42. e 44· 15 lvi, p. 38.

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L'interesse di Merleau-Ponty per la filosofia dell'arte goethiana è motivato dal fatto che per il poeta tedesco la condizione di possibilità della creazione del genio è il suo rapporto trascendentale con la natura in cui è immerso. In Goethe vi è infatti un forte legame tra la filosofia della natura e la filosofia dell'arte e, anzi, si può affermare che la prima fondi in qualche modo la seconda: la formatività dell'arte è intesa sul modello della formatività naturale. Sulla scia di Kant, Goethe afferma che il genio è veramente creatore in quanto opera secondo leggi che la natura gli fornisce: egli non segue l'impeto disordinato del proprio sentimento, ma sa impadronirsi della legislazione della natura e trasportarla nell'arte, producendo forme nuove come lanatura, in un processo di continua ripresa e trasformazione del dato. È dunque possibile considerare l'arte geniale come una vera e propria istituzione in senso merleau-pontyano, in quanto configurazione di un senso che non richiede come propria condizione di possibilità una Sinngebung, ovvero un'attribuzione di senso ai dati percettivi inerti da parte di una coscienza costituente. La produttività postuma a cui Merleau-Ponty fa riferimento è proprio la capacità del genio goethiano di introdurre un senso nella natura a partire dalla natura stessa, da ciò che è sensibilmente presente, e non dalla ricchezza del proprio animo interiore. Il senso è quindi inteso come uno scarto rispetto alla natura presente, come una trascendenza immanente. Sarà proprio quest'idea di senso come scarto a caratterizzare l'istituzione secondo Merleau-Ponty: egli afferma infatti che l'istituzione ha un «senso interno» che «induce senso esterno perché è aperto, è scarto rispetto a una norma di senso, differenza. È questo senso come scarto, deformazione, che è proprio all'istituzione» 16 • In definitiva, l'istituzione è genio in senso goethiano in quanto quest'ultimo non solo riassume efficacemente la compresenza di natura e di libertà, di passività e di attività, di istituito e istituente, ma condivide anche l'idea del senso come scarto nell'immanenza. Inoltre, considerando il rapporto molto stretto che la filosofia dell'arte di Goethe intrattiene con la sua Naturphilosophie, risulta possibile avvicinare i concetti di istituzione e di formazione (Bildung o Gestaltung). Goethe e Merleau-Ponty condividono infatti l'idea che la creatio non sia mai ex nihilo, ma sempre ex aliquo. L'orga16

lvi, p. 41.

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nismo è per Goethe una forma in movimento, una continua ripresa e trasformazione della forma precedente: in natura solo ciò che è già formato viene ritrasformato. Allo stesso modo Merleau-Ponty, allontanandosi dalla Sinngebung lacerante di Sartre e dall'illusione di poter far sorgere l'assolutamente nuovo, conferisce all'istituzione anche una dimensione conservativa o, più precisamente, articola la conservazione e l'innovazione: il novum non sorge dal puro Nulla, ma dalla ripresa e dalla trasformazione di qualcosa che è già sedimentato nel tempo. Non è quindi un caso che i fenomeni attraverso i quali Merleau-Ponty elabora il tema dell'istituzione siano marcati dalla storia: in effetti, le quattro parti in cui è diviso il corso affrontano rispettivamente la storicità della vita, del sentimento, della pittura e della matematica. Nella prima parte, intitolata significativamente Institution et vie, Merlcau-Ponty segnala che l'istituzione si ritrova già nello sviluppo dell'organismo, nel comportamento animale e in quei processi, come la pubertà, che vengono normalmente considerati come puramente biologici. Senza addentrarci nei dettagli di questa interessante ricerca, quello che importa mettere in luce è che per Merleau-Ponty il riferimento dell'organismo a reazioni sensate, la risposta dell'animale a degli stimoli espressivi e, in generale, l'idea di un evento fecondo per l'organismo vivente, dimostrano come nei cosiddetti processi naturali vi sia una modalità di sviluppo che non è già data, ma che al contrario implica un'istituzione, una storia. In questo senso l'istituzione si iscrive nella vita stessa, in quei processi che di norma reputiamo puramente biologici. «Organismo: non solo durata irreversibile (accumulazione, invecchiamento, tappe della vita) [..• ] ma storia e istituzione nel senso di: riferimento a senso» 1 7. Questo tratto comune alla vita organica e all'animalità ha delle risonanze nell'essere umano, ma per Merlcau-Ponty resta comunque una "differenza immensa" tra l'umano e l'animale: che non sta nell'assenza dell'istituzione animale nell'essere umano, ma nell'uso che questi ne fa. L'umano è capace di "farne altro", rendendo così una situazione indefinitamente aperta: «Non binari, ma elaborazione di una "possibilità inerente» o istituzione umana. È proprio dell'istituzione umana: un passato che crea una questione, la mette in riserva, fa situa-

'7

Ivi, p.

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zione indefinitamente aperta" 18• In altre parole, l'istituzione umana, intesa come l'avvenimento di un senso che non liquida assolutamente quello che la precede, è una trasformazione che, hegelianamente, «conserva [... ] e supera» 1 9. Ora, l'idea della trasformazione come superamento relativo avvicina Merleau-Ponty non solo a Hegel, ma anche alla filosofia della natura di Goethe. Si è già dimostrato infatti che per quest'ultimo la trasformazione della natura si verifica sempre sullo sfondo di un ordine formale dinamico. La trasformazione è il mutamento della forma già presente, che è a sua volta solo un momento in un flusso di Gestaltung. Di conseguenza, la formazione non è mai un inizio assoluto che dimentica il passato: se l'organismo diviene, lo fa a partire da una forma per diventare un'altra forma. In maniera analoga Merleau-Ponty sostiene che l'organismo diviene a partire da un'istituzione per diventare un'altra istituzione. La vita non è dunque concepita da Merleau-Ponty come una forza assoluta che rompe tutti i confini, ma come una formazione in senso goethiano, come una forma sempre in movimento, allo stesso tempo istituita e istituente. I concetti di istituzione e di formazione indicano allora un processo in cui un persistere passa nel divenire e il divenire conduce a un persistere; queste due dimensioni hanno però un carattere relativo e non assoluto: non vi è né divenire assoluto né eternità immobile nella vita organica, ma chiasmo di dinamicità e staticità, di attività e passività, di forza e forma. Questo particolare rapporto chiasmatico tra forza e forma può rivelarsi fecondo anche da un punto di vista più propriamente politico. A dimostrarlo è lo stesso Merlcau-Ponty, il quale, alla fine della parte del corso dedicata al rapporto tra istituzione e vita, fa un parallelismo con i problemi della filosofia della storia. Allo scopo di superare l'idea ingenua per cui la rivoluzione sarebbe uno stato che supera semplicemente le contraddizioni precedenti, Merleau-Ponty dimostra che la rivoluzione non è la fine né della storia, né della preistoria, ma semmai l'apertura di una storia altra, la creazione di una tradizione nuova nella storia. È questo il senso della «rivoluzione reale ma relativa» che Merleau-Ponty propone alla fine di questa prima parte:

,a lvi, p. 57· '9

Ivi, p. 58.

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Quindi rivoluzione reale ma relativa. Reale: i rapporti sociali non sono più gli stessi; [è] assurdo voler ricondurli agli antichi; non ci sono più classi. Ma relativa: non è fine della storia e nemmeno della preistoria, perché non è Aufhebung della storia per conto suo, verità assoluta della coscienza assoluta, che resta da criticare e che non si critica. [La] rivoluzione è certo superamento dell'infantilismo sociale, prematurazione. Ma non storia assolutamente nuova, senza rapporto con la preistoria, conclusa2.0.

3. Conclusioni

A questo punto, è opportuno esaminare le conseguenze teoriche e pratiche che i concetti di formazione e istituzione comportano e formulare qualche considerazione conclusiva. La ricerca ha mostrato innanzitutto che Goethe e Merleau-Ponty condividono l'idea di storia come articolazione di emergenza e sedimentazione: come il concetto goethiano di formazione descrive la vita organica in quanto ripresa e trasformazione continua della forma precedente, così per MerleauPonty l'organismo diviene a partire da un'istituzione per diventare un'altra istituzione. Per quest'ultimo la storia è allo stesso tempo l'attività istituente e il suo risultato istituito. La fecondità della concezione merleau-pontiana dell'istituzione consiste proprio nell'esaminare l'evento sempre in riferimento alla tradizione in cui necessariamente si iscrive; così facendo si rinuncia, da una parte, all'esaltazione messianica dell'evento in quanto tale e, dall'altra, al suo inserimento forzato all'interno di una storia dialettica e teleologicamente orientata21. Tuttavia, occorre anche osservare che, come ha acutamente segnalato Terzi 22, pensare l'evento all'interno del campo d'esperienza in cui si inscrive è solo un lato della medaglia: un aspetto altrettanto fondamentale dell'evento storico è l'irruzione del nuovo, inteso come novità radicale e imprevista che lacera lo stesso campo d'esperienza lvi, p. 62. Dialogando criticamente con il marxismo della sua epoca, Merlcau-Ponty afferma a più riprese che non vi è alcuna fine della storia, che il futuro è imprevedibile e aperto. Il rapporto che Merlcau-Ponty istituisce tra evento e tradizione può allora essere inteso come una "dialettica sen1.a sintesi". 12 Cfr. Roberto Terzi, Institutio,i, événement, histoire chez Merleau-Ponty, «Bulletin d'analysc phénoménologique», 3, 2017, pp. 1-29. Sul tema dell'istituzione in MerlcauPonty, si veda inoltre Enrica Lisciani-Petrini, Merleau-Po,ity: pote,w, dell'istituzione, «Discipline filosofiche», 2, 2019, pp. 71-98. 10 21

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in cui si inscrive. Merleau-Ponty insiste spesso sui valori di unità e di continuità della storia e, per questo motivo, sembra avere una certa difficoltà a rendere conto dell'irruzione della novità storica. Verrebbe quindi da chiedersi se questa concezione della storia come inaugurazione nella tradizione sia sufficiente, o se non vada ripensata alla luce dell'idea di evento storico come rottura. Questo non significa "sparare agli orologi" o ritornare a un'idea positivista di evento come fatto puntale e oggettivo all'interno di una storia lineare, ma semmai sviluppare un nuovo pensiero dell'evento che riesca a rendere conto del suo carattere pluridimensionale. In secondo luogo, l'analisi ha messo in luce che, per Goethe e Merleau-Ponty, la netta contrapposizione nella vita organica tra flusso e fissità, tra forza e forma, appare priva di fondamento2.3. Lo studio dei concetti di istituzione e formazione ha mostrato infatti che la vita è per i due autori sempre nello stesso tempo istituita e istituente, formata e in formazione. Per entrambi la vita non è quindi un divenire indifferenziato, indistinto: una vita completamente immanente, non istituita, informe, finirebbe per dissolversi nel suo stesso divenire2.4. Per evitare questo esito, occorre considerare la forma, il limite, come quello strumento che consente al soggetto vivente di distinguersi, di differenziarsi, e quindi in un certo senso di resistere alla propria dissoluzione nel flusso vitale. La forma è ciò che permette all'organismo di non-coincidere con il flusso, è quel negativo che permette la stessa affermazione. Se da una parte la vita è sempre il divenire di una forma, d'altra parte non vi è mai forma senza processo, non vi è mai Gestalt senza Gestaltung. Il punto da sottolineare è allora proprio la 2.3 Lo conferma anche la ricerca teorica contemporanea nelle scicn7.c della vita, carattcri7.7.ata da un vero e proprio ritorno della forma. «Conseguenza immediata di questa rinnovata attenzione per l'organismo e per le potenzialità esplicative della morfologia è il superamento di una contrapposizione statica tra forma e for7.a, fra la forma organica e l'energetica delle forze naturali, una contrapposizione che - per quanto pervasiva nel pensiero biologico cd estetico novecentesco da Ucxkiill a Dclcu7.c - potremmo ormai riguardare come una sorta di grande errore prospettico». Salvatore Tedesco, Andrea Pinotti (a cura di), Estetica e scie,~ della vita. Morfologia, biologia teoretica, evo-devo, Raffaello Cortina, Milano 2.013, p. 180. 2.4 Su questo punto si rimanda a Helmuth Plcssncr, Die Stufe,, des Organischen und der Mensch. Einleitung indie philosophische Anthropologie [ 192.8), in Gesammelte Schri~er,, Band IV, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1980-1985; tr. it. di V. Rasini, I gradi dell'organico e l'uomo. Introduzione all'antropologia filosofica, Bollati Boringhicri, Torino 2.006, pp. 159-165.

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diversa concezione della forma che i concetti di Bildung e Gestaltung permettono di elaborare: la forma non è più intesa in senso negativo come una barriera statica e bloccante, ma al contrario come un confine permeabile e dinamico, condizione di possibilità della vita stessa. La forma non è più Schranke, barriera, ma Grenze, limite. Pensare l'istituzione come formazione, e non come forma immobile, consente allora di svincolarsi da quella concezione repressiva e conservatrice dell'istituzione che ha caratterizzato il dibattito filosofico-politico contemporaneo. La morfologia permette di considerare l'istituzione non più come un semplice apparato immunitario, statico e oppressivo, ma come una forma dinamica e per questo vivente. Nello stesso tempo, pensare l'istituzione come formazione significa anche non ridurre la vita alla bloPe Leben o all'élan vita/ bergsoniano: Goethe e Merleau-Ponty dimostrano che la vita è sempre istituita, è sempre una forma di vita in formazione. Infine, a partire da queste riflessioni è possibile fare un parallelismo tra il piano vitale e quello più propriamente politico. Si è mostrato infatti come nella tradizione morfologica inaugurata da Goethe la forza e la forma, l'affermazione e la negazione, non si contrappongano frontalmente, ma si intreccino. In questo senso, i concetti goethiani di Bildung e Gestaltung possono rivelarsi utili per una prospettiva teorica che punti ad articolare forma politica e movimento sociale, ordine e conflitto. Pensare l'istituzione come formazione, come forma intrisa di movimento, implica il superamento della netta opposizione tra istituzione e movimenti, tra oppressione cd emancipazione. Come la morfologia di Goethe non reprime il movimento, ma lo incanala nella forma stessa, così l'ordine non si oppone al conflitto, ma emerge dal conflitto e ne condivide la dinamicità. Si delinea così quella che definirei una politica del limite, a patto di intendere questo concetto non come una barriera statica e limitante, ma come una forma in senso goethiano, come un confine permeabile e dinamico che tuttavia determina la distinzione e la non-coincidenza, condizioni di possibilità del contrasto politico. A partire dalla morfologia, diventa così possibile pensare il rapporto tra ordine e conflitto come uno scarto nell'immanenza, come una trascendenza immanente. Inoltre, in precedenza si è messo in luce come l'approccio morfologico gocthiano non imponga una forma universale al divenire informe della materia sensibile, ma cerchi di far emergere un "punto pregnante"

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dalla stessa varietà naturale. Allo stesso modo, un pensiero dell'istituzione come formazione non impone dall'alto una forma politica su un movimento sociale concepito come informe - riprendendo di fatto l'idea platonica dell'informazione della materia da parte della forma -, ma cerca di far emergere l'istituzione dallo stesso conflitto sociale. Si è visto infatti che per Goethe la materia non è da informare perché è sempre già formata e in formazione. In maniera analoga Merleau-Ponty inizia il suo corso sull'istituzione criticando proprio la distinzione tra la materia non ancora formata, hyle, e la forma come attività significante, morphé2 J. Per articolare ordine e conflitto non occorre imporre dall'alto una forma al movimento sociale, ma semmai sollecitare l'organizzazione di quest'ultimo con l'obiettivo di istituire un'unità in cui le differenze possano riconoscersi senza annullarsi.

:r.s Cfr. M. Mcrlcau-Ponty, L'institution, la passivité cit., p. 33.

Mimetismo macchinale e politica dell'invenzione da Canguilhem aSimondon Taila Picchi

La révoltc impliquc cn cffct une profonde transforma-

tion dcs conduitcs finalisécs, et non un dérèglcmcnt dc la conduitc Simondon

Una certa modellizzazione del politico in base all'analogia col vivente, non metaforica come nell'apologo di Agrippa ma che trasferisce il funzionamento organico alla regolazione sociale, cioè applica l'analogia del vivente-macchina alla macchina-Stato, comporta due diverse modalità con cui rappresentare il rapporto tra vita e tecnica. Ne risultano due concezioni, che Canguilhem analizza nei termini di vitalismo e di meccanicismo sulla base della collocazione della finalità: internamente, adottando la prospettiva organica di un sistema che si autoregola, oppure esternamente, adottando la prospettiva meccanica di una pianificazione tecnocratica. Tanto in Canguilhem quanto in Simondon, la società si presenta come un misto di organico e tecnico. Di conseguenza, la concettualizzazione di una finalità emergente, che articola la regolazione sociale ibridando normatività biologica e tecnica, delinea la questione politica come risposta all'emergenza di una nuova normatività. Quando si applica l'analogia del viventemacchina alla società, la stabilità sociale rischia di rispondere a un funzionamento di tipo automatico, mentre il conflitto si collocherebbe in quell'eccedenza normativa propria delle esigenze del vivente. Di conseguenza, il trasferimento del dispositivo del mimetismo macchinale alla società ridefinisce anche il politico tecnicamente, come esternalità che ha il compito di bilanciare i dinamismi interni, oppure organicamente, come atto di invenzione immanente al sociale. Una concezione del politico come finalità emergente, che mette sullo stesso

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piano invenzione biologica e invenzione tecnica, permette di pensare la società come un tutto sinergico attraversato da forze e normatività differenti, che non si riduce alla rappresentazione dell'organismo né a quella dell'automa e che riarticola ordine e conflitto nei termini di regolazione e invenzione.

Metamorfosi dell'analogia vivente-macchina L'analogia del vivente-macchina è alla base di due modelli che Deleuze e Guattari, nell'Anti-Edipo, presentano, da una parte, come una concezione tecnicista secondo cui gli organismi sono macchine più perfette; dall'altra, come una concezione organicista, secondo cui le macchine sono il prolungamento dell'organismo. Per i due autori, in realtà, siamo di fronte a «due stati della macchina che sono altresì due stati del vivente», poiché tanto la concezione organicista quanto quella tecnicista vertono su due rappresentazioni del vivente e della macchina complementari: «la macchina è desiderante e il desiderio è macchinato» 1 • In un'altra prospettiva, Foucault esprime questa opposizione a partire dal disciplinamento della materialità corporea nei termini di macchinazione biologica e macchinazione politica: «il grande libro dell'Uomo macchina venne scritto simultaneamente su due registri: quello anatomo-metafisico, di cui Descartes aveva scritto le prime pagine e che medici e filosofi continuarono; quello tecnico-politico, costituito da tutto un insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri e da processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni del corpo» 2 • In entrambi i casi abbiamo a che fare con due dispositivi: quello del mimetismo macchinale e quello tecno-politico. Da una parte, si tratta di un dispositivo anatomo-metafisico sul modello macchina-organismo che presenta una concezione antropologico-vitalista. Dall'altra, di un modello meccanicista dell'uomo come prodotto tecnologico, che si fonda sulla rappresentazione antropologica e strumentale della tecni1 Gillcs Dclcuzc, Fclix Guattari, Capitalisme et schizophrétùe I: L 'A11ti-CF.dipe, Editions du Minuit, Paris 1972.; tr. it. di A. Fontana, L 'A11ti-Edipo. Capitalismo e schizofrmùa z, Einaudi, Torino 1972, p. 325. 1 M. Foucault, Suroeiller et punir, Gallimard, Paris 1976; tr. it. di A. Tarchctti, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993, p. 148.

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ca, ingloba l'organico nel tecnico e riduce l'uomo a mero strumento produttivo al pari di una cosa. L'analogia del vivente-macchina è alla base tanto del dispositivo del mimetismo macchinale quanto del dispositivo tecno-politico. Come mostra Canguilhem in Macchina e organismo, vitalismo e meccanicismo non sono due modelli realmente contrapposti ma, semmai, sovrapposti. Questa idea, di cui Deleuze e Guattari si appropriano, riarticola il rapporto tra vita e tecnica nei termini di un rapporto estrinseco tra modello meccanicista e modello vitalista, di una finalità esterna che pone un aut aut tra spiegazione meccanica e spiegazione biologica. Perciò, Deleuze e Guattari riconfigurano il rapporto tra esperienza e scienza al di là del dispositivo anatomometafisico del modello macchina-organismo che non si riduce al modello tecno-politico dell'uomo come prodotto tecnologico3. Se il modello tecno-politico disciplinare che ritroviamo in Foucault può per certi versi risultare riduttivo nei confronti dell'eccedenza biologica e della possibilità di produrre nuove normatività - soprattutto alla luce dell'introduzione a partire dagli anni Settanta della nozione di governamentalità, il dispositivo del mimetismo macchinale, che ricomprende il tecnico nell'organico come sostengono Deleuze e Guattari in linea con la riflessione di Canguilhem, non autorizza un vitalismo unilaterale4. Questa problematica è al centro della riflessione di Canguilhem quando si interroga non soltanto sul rapporto tra meccani3 La potenza affermativa dell'ontologia delcuziana in un certo senso fa collassare meccanicismo e vitalismo l'uno sull'altro attraverso la nozione di desiderio. Come scrivono Delcuzc e Guattari ncll'Anti-Edipo, «il meccanicismo astrae dalle macchine un'unità strutturale con cui spiega il funzionamento dell'organismo. Il vitalismo invoca un'unità individuale e specifica del vivente, che ogni macchina presuppone in quanto si subordina alla persistenza organica e ne prolunga all'esterno le formazioni autonome. Ma si noterà che, in un modo o nell'altro, la macchina e il desiderio rimangono in tal modo presi in un rapporto estrinseco, sia che il desiderio appaia come un effetto determinato da un sistema di cause meccaniche, sia che la macchina stessa risulti un sistema di mezzi in fun7ione dei fini del desiderio» (G. Dclcuzc, F. Guattari, L'anti-Edipo cit., pp. 32.2.-32.3). 4 DelcU7.c e Guattari constatano che, «in fin dei conti, sono gli stessi clementi ultimi e la stessa forza in disparte a costituire un solo piano di composizione che contiene tutte le varietà dell'Universo. Il vitalismo è sempre stato passibile di due interpretazioni: quella di un'idea che agisce ma che non è, e agisce dunque soltanto dal punto di vista di una conoscenza cerebrale esterna (a partire da Kant fino a Claudc Bcrnard); o quella di una forza che è, ma che non agisce, cd è dunque un puro Sentire interno (a partire da Leibniz fino a Ruycr)» (Gilles Dclcuzc, Felix Guattari, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino 2.002., p. 2.17).

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cismo e vitalismo5, ma in particolare quando osserva quel misto di tecnico e organico che è la società in quanto machine autant que vie. Il paradigma della società-macchina e il trasferimento dell'omeostasi biologica a quella sociale permette di tracciare una linea di continuità tra la concezione dello Stato moderno e la teoria cibernetica di Wiener imperniata sull'idea di omeostasi sociale. Tanto la macchina-Stato quanto l'informazione cibernetica hanno la funzione di stabilizzare un dato sistema in tensione. Si tratta di tradurre, attraverso un modello estratto dalla scienza, una forma di determinismo che caratterizza la costruzione del corpo politico imperniata sul criterio di stabilità di sistema. Come scrive Bardin, «pour la modélisation des systèmes sociaux, Wicner adoptc la énièmc métamorphosc d'un modèle de machine entièrement déterministe et homéostatique» 6• Dunque, il modello automatico della cibernetica applicato al sociale non sembra sufficiente per comprendere tutte quelle condotte e comportamenti che producono uno scarto normativo rispetto a una regolazione sociale totalmente automatizzata. In contrapposizione al determinismo che risulta dall'applicazione sociale della teoria cibernetica dell'informazione, Simondon rivendica la necessità di un certo tasso di automatismo che, invece di rappresentare un limite, sancisce l'apertura di spazi di libertà. Come egli scrive, «l'automa può rappresentare un equivalente funzionale della vita, poiché la vita comporta funzioni automatiche, di autoregolazione e di omeostasi, ma l'automa non costituisce in alcun caso un equivalente funzionale dell'individuo» 7, proprio in virtù della capacità umana di inventare nuove strutture. In effetti, «selon Simondon, l'cfficacité politiquc dc la cybcrnétiquc est donc compromise précisément cn raison dc l'insuffisance de son modèle, l'automatismc ne pouvant rcndre comptc m dc processus dc genèse du systèmc socia), ni dcs opérations qui s Gcorgcs Canguilhcm, Machi,w et organisme (1947), in Id., La connaissance de la vie, Vrin, Paris 195:z., pp. 101-1:z.7; tr. it. di F. Bassani, La conosce,u:a della vita, il Mulino, Bologna 1976, pp. 149-183. 6 Andrea Bardin, La société, «machine autant que vie,.. Régulation et i,wention entre Wiener, Canguilhem et Simondon, in Vinccnt Bontcms (a cura di), Gilbert Simondon ou l'invention du futur. Colloque de Cerisy, Klincksicck, Paris 2016, pp. 33-44: 35. 7 G. Simondon, Note Complémentaire aux co11séque,u:es de l'individuation, in Id., L'individuatio11 à la lumière des notions de forme et d'information, Millon, Grcnoblc :z.005, pp. 503-5:z.7; tr. it. a cura di G. Carrozzini, L'individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione, Mimcsis, Milano :z.011, p. 715.

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le déstabilisent» 8• Dunque, la questione dell'automatismo comunica da una parte con quella teleologica, autorizzando una forma di determinismo, mentre dall'altra non esclude un'idea di libertà che, infatti, non è indipendente dal funzionamento automatico, poiché il trasferimento del mimetismo macchinale dal vivente-macchina alla società-macchina pone delle conseguenze in relazione alle condotte finalizzate individuali e soprattutto collettive, cioè a quello spazio che si apre per l'azione umana.

La questione della finalità emergente Come mostra Canguilhem in Macchina e organismo, la questione teleologica è già da sempre implicata tanto nel modello meccanico quanto in quello vitalista: la differenza sta nel porre tutta la finalità all'inizio, come vorrebbe il pensiero della creazione continua di Bergson, oppure alla fine, come Canguilhem rintraccia nel meccanicismo cartesiano. In effetti, tutta la riflessione che l'epistemologo sviluppa nella conferenza del 1947, poi pubblicata in La conoscenza della vita, fa eco ai due convegni su Cartesio del 19 37 e del 19 3 89, in cui intraprende quel recupero di Bergson che gli permette di mettere sullo stesso piano tecnicità e attività creatrice10 • La discussione sulla conce8 A. Bardin, La société, «machi11e auta11t que vie» cit., p. 34.

Canguilhcm tratta le macchine come organi della vita, ovvero riconfigura la tecnica attraverso l'inversione del rapporto con le scicn7.c della vita, per «rcmcttrc le mécanismc à sa piace dans la vie pour la vie» (Gcorgcs Canguilhcm, Note sur la situatio11 faite e11 Fra11ceà la philosophie biologique (1947), in Id., Oeuvres Completes, tome IV: Résista11ce, philosophie biologique et histoire des scie11ces (1940-1965), Vrin, Paris 2.01 5, pp. 307-3 2.0, p. 32.0). La preoccupazione di Canguilhcm nei colloqui su Cartesio verte sulla necessità di invertire il rapporto tra scien7.a e tecnica a partire da Cartesio e attraverso Cartesio, mediante la distinzione tra La tecnica e Le tecniche. La tecnica si presenta come «cxprcssion d'un "pouvoir" originai, créatcur cn son profond, et pour lcquel la scicnce élaborcrait, parfois à la suite, un programmc dc développcment ou un code dc précautions» (Gcorgcs Canguilhcm, Descartes et la tech11ique, in Id., Oeuvres Completes, tome I: Écrits philosophiques et politiques (1926-1939), Vrin, Paris 2011, pp. 490-498: 490). ' 0 L'apporto del pensiero bergsoniano nella riflessione di Canguilhem è quello di «une philosophic biologiquc du machinismc, traitant Ics machincs commc dcs organcs dc la vie et jetant Ics bascs d'une organologie généralc» (G. Canguilhcm, Note faite cit., p. 319). Come scrive Braunstein, «Bcrgson a su montrcr quc la fabrication d'outils est un prolongcmcnt dc l'élan virai, quc la tcchniquc est une fonction du vivant. Lcs outils sont des organcs artificicls qui nous scrvcnt dans cette cxploitation dc la matière qu'cxigc la !I

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zione meccanicista e vitalista di Macchina e organismo inizia a porre il problema della finalità emergente nella società a partire dall'adozione di una prospettiva normativa, che Canguilhem riprende nelle Nuove riflessioni intorno al normale e al patologico, scritte tra 1963 e 1967, in particolare, in Dal sociale al vi'tale 11 • Se in Macchina e organismo l'analisi del problema della teleologia nella concezione meccanicista è funzionale all'affermazione della necessità di reinserire il tecnico nell'organico come «fenomeno biologico universale»a, in Dal sociale al vitale si tratta di osservare la società sulla base di una normatività biologica interna e di una normatività tecnica esterna. Secondo Canguilhem, «l'organizzazione sociale è, prima di tutto, invenzione di organi: organi di ricerca e di ricezione di informazione, organi di calcolo e perfino di decisione» 1 3. Tuttavia, se l'evoluzione biologica procede per integrazione progressiva di organi e funzioni, l'evoluzione storica delle società umane - inversamente - tende a moltiplicare e allo stesso tempo nascondere i propri mezzi d'azione. Nella società, la soluzione di ogni nuovo problema di informazione e di regolazione viene ricercata se non ottenuta con la creazione di organismi o di istituzioni «parallele,. a quelle la cui insufficienza per sclerosi e per routine a un dato momento esplode. La società deve dunque sempre risolvere un problema senza soluzione, quello della convergen7..a delle soluzioni parallele 14.

Se la società può sembrare un organismo vivente più complesso, in realtà, per Canguilhem si tratta di un «insieme malamente unificato di mezzi» 1 5 e «la regolazione sociale tende dunque verso la regolazione organica e la mima, senza però cessare d'essere composta meccanicamente» 16 • Una simile concezione non riduce vie» Ucan-François Braunstcin, Canguilhem avarrt Canguilhem, «Rcvuc d'histoirc dcs scicnccs», 53'1, 2.000, pp. 9-2.6: 18). 11 G. Canguilhcm, Du socia/ au vita/, in Id., Le Normai et le Pathologique, augmenté de Nouvelles Réflexions concerna,it le ,iormal et le pathologique, PUF, Paris 2.005, pp. 175-191; tr. it. di D. Buzzolan, Dal sociale al vitale, in I/ normale e il patologico, a cura di M. Porro, Einaudi, Torino 1998, pp. 199-2.19. 11 G. Canguilhcm, LA conoscenza della vita cit., p. 182.. ' 3 G. Canguilhcm, Dal sociale al vitale cit., p. 2.16. '-4 lvi, p. 2.17. •s lvi, p. 2.19. 16 lvi, p. 2.18. Commenta Guchct, «la société n'cst pas scmblablc à un organismc (on se souvicnt dcs cririqucs adrcssécs par Simondon à la Cybcrnétiquc), mais clic n'cst pas

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il sociale né a un organismo né a un ripiegamento sul dispositivo tecno-politico che lo regola tecnicamente dall'esterno, ma semplicemente afferma una distinzione irriducibile tra finalità organica e finalità tecnica, auto-regolazione e pianificazione tecnocratica. Come scrive Guchet, nella società «la finalité n'est pas donnée, elle est invcntéc tout comme sont inventés Ics "organcs" sociaux; Ics règlcs d'ajustcmcnt doivent etrc représcntécs. La société apparait moins commc un organisme intégré quc commc un cnscmble dc moycns extériorisés, pas toujours bien coordonnés et unifiés cntre cux, faute précisémcnt d'une fin immanente à laquelle se rapportcrait l'activité collective» 1 7. Proprio a partire dalla finalità emergente nella società, in Problemi di regolazione nel/'organismo e nella società 18 , Canguilhem giunge alla conclusione che la giustizia - che nel suo ragionamento rappresenta la funzione politica dello Stato debba essere esterna all'omeostasi sociale in modo da poter controbilanciare l'emersione di normatività che possono tanto disgregare la totalità sociale quanto inventare nuove forme di vita collettiva. La questione politica si configura perciò come risposta all'emergenza di una nuova normatività 1 9.

non plus scmblablc à une machinc. [.•. ] La société n'cst pas uniqucmcnt machinc dans la mcsurc où Ics fins dc la collcctivité ne pcuvcnt pas ctrc strictcmcnt planifiécs et cxécutécs conformémcnt à un programmc; mais clic n'cst pas pour autant uniqucmcnt organismc. Bicn quc la régulation sociale tende vcrs la régulation organiquc, la cliffércncc cntrc Ics dcux est irréductiblc: dans l'organismc, cn cffi:t, la fìnalité est interne, Ics règlcs d'ajustcmcnt dcs partics cntrc dies sont immancntcs et agisscnt sans etrc rcpréscntécs» (Xavicr Guchct, Pour uti humanisme tcchnologiquc. Culture, tcchnique et société dans la pbilosopbie de Gi/bert Simondo11, PUF, Paris 2010, p. 261). 17 X. Guchct, ibid. 18 Gcorgcs Canguilhcm, Le problème des régulations dans l'organisme et dans la société, in Id., Écrits sur la médeci11e, Scuil, Paris 2002, pp. 101-123; tr. it. di D. Tarizzo, Problemi di regolazione nell'organismo e nella società in Sulla medicina. Scritti r955-r989, Einaudi, Torino 2007, pp. 53-65. 19 Come commenta Bardin, «ccttc cxtériorité paradoxalc dc l'apparat dc régulation, "surajoutéc" à la société, c'cst-à-dirc au dchors du controlc dcs proccssus dc typc homéostatiquc, défìnit précisémcnt cc quc Canguilhcm nommc "la justicc": "La justicc, la régulation supreme, mcmc s'il y a dans la société dcs institutions dc justicc, ne figure pas sous la forme d'un apparcil qui scrait produit par la société cllc-mcmc", clic doit venir "d'aillcurs". Et c'cst pour ccttc raison quc la société scrait caractériséc par dcs périodcs dc chutc tcndancicllc du taux dc sagcssc, et dcs momcnts cxccptionncls d"'invcntion" héroiquc, cn plcin accord avcc l'hypothèsc dc la duplicité dcs tcndanccs (dose et ouvcrtc) proposécs par Bcrgson» (A. Bard in, La société, «machi1111 autant quc vie» cit., pp. 3 6-3 7 ).

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Simondon prolunga la riflessione di Canguilhem 20 e l'attenzione all'eccedenza normativa della vita si completa con una concezione organica della tecnica. Si può parlare di un materialismo vitalista in cui «l'organizzazione, pur conservandosi, si trasforma nel passaggio dalla materia alla vita» 21 e verte su un concetto di materia polarizzato tra dinamismo vitale e inerzia22 • L'attenzione alla normatività biologica procede parallelamente alla definizione di una normatività tecnica, che caratterizza anche l'inorganico, fondata su una nozione non cibernetica di informazione. Da una parte, l'ambivalenza della nozione cibernetica d'informazione impiegata in maniera non tecnologica è il fondamento del materialismo vitalista, dall'altra, la teoria dell'individuazione - che fa agire questa nozione non tecnologica d'informazione - si basa sulla riforma del dualismo forma-materia che passa attraverso la critica all'ilomorfismo, parallela e complementare alla critica dell'informazione cibernetica. Sostituendo alla nozione di forma quella d'informazione nei termini di paradigma tecnologico della presa di forma, oltre a generalizzare il processo d'individuazione a ogni tipo di formazione tecnica, fisica, biologica e sociale, Simondon completa l'intento canguilhemiano dell'inserzione del tecnico nell'organico come fenomeno biologico universale. Come scrive Bardin, «radicalisant Canguilhem, Simondon déplace cette conception des processus desquels la normativité émerge, en référant "l'individuation" non seulement au vivant, mais à la matière elle-meme (qui ne peut pas non plus etre dite inerte)» 2 3. Il concetto di informazione, comprendendo in sé la nozione di omeostasi organica, rappresenta una specifica proprietà del vivente che non si riduce alla sua autoregolazione. Di conseguenza, l'informazione si presta a spiegare il funzionamento dell'organismo e della macchina e traduce la regolazione organica e inorganica con un termine - l'invenzione - che si applica alla materia e alla vita 2 4. L'invenzione tecnica è nor10 Ricordiamo che Canguilhem è il Directeur della tesi complementare di dottorato di Simondon, poi pubblicata (Gilbert Simondon, Du mode d'existence des objets techniques, Aubier, Paris 1958). 11 G. Simondon, L'i,uliuiduazionecit., p. 2.14. 2.1. A questo proposito si rimanda a Andrea Bardin, From Life to Matter: Simondon 's Politica/ Epistemology, «PhilosophyToday», 63, 3, 2.019, pp. 643-657. 1 3 A. Bardin, La société «machine autant que vie» cit., p. 37. 24 Sul tema dell'invenzione nella riflessione di Simondon si veda Giovanni Carrozzini, L'addio a Kant di Foucault e Simondon, «aut aut», 377, 2.018, pp. 12.3-137; Andrea

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mativa come lo è l'invenzione biologica, e permette di comprendere il vivente come misto di funzioni organiche e automatiche, e la macchina non soltanto secondo un funzionamento meccanico, ma anche informativo, come scarto, differenza da sé, normatività che irrompe per risolvere un problema. Perciò, secondo Simondon, se «l'automatismo, nelle sue più diverse accezioni, è stato impiegato, con maggiore o minor successo, per penetrare nelle funzioni del vivente per mezzo di rappresentazioni tratte dalla tecnologia, a partire da Descartes sino alla moderna cibernetica» 2 s, è necessario un modello complementare basato sull'invenzione che permetta di pensare la finalità emergente che riunisce nella società finalità interna dell'organismo e finalità tecnica della macchina 26 •

La critica alla società-macchina e l' «acte de gouvernement» Nel Du mode Simondon presenta l'atto di governo nei termini di una regolazione sociale che si fonda sul rapporto tra cultura e automatismo e su questo tema ritorna nella Note Complémentaire aux conséquences de l'individuation. La Nota affronta quindi la questione del rapporto tra automatismo e società che nell'atto di governo si presenta nella forma di una causalità cumulativa e ricorrente della regolazione sociale, sul modello della trasmissione d'informazione nel sistema come regolazione culturale 2 7. Tanto nella concezione dell'atto di governo quanto nella Nota, la cultura è ciò che permette la regolazione sociale attraverso la simbolizzazione di condizioni tecniche e organiche2 8 • La differenza della normatività tecnica rispetto a una concezione tecnocratica sta nella torsione dall'esterno verso l'interno della finalità tecnica, poiché le condizioni di accettazione dell'inveoBardin, Phi/osophy as politica/ techne: The traditio11 of inve11tion in Simondon's politica/ thought, «Contcmporary Politica) Thcory», 17, 4, 2.018, pp. 417-436. 1.s G. Simondon, L'individuazio11e cit., p. 69 . .z.6 Nella Nota Complementare, Simondon dichiara il suo intento programmatico di rendere compatibili, in seno alla società, vita biologica e vita tecnica (ivi, pp. 693-72.7, p. 697). 1.7 Come scrive Simondon, «ogni civiltà possiede un certo grado di automatismo per garantire stabilità e cocrcn7.a cd abbisogna anche del dinamismo delle società, le sole capacità di adattamento costruttivo e creativo vere e proprie, per non rinchiudersi in sé stesse secondo un adattamento stereotipato, ipcrtclico cd involutivo» (ivi, p. 716). 1B Ivi, p. 696.

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zione tecnica si comprendono all'interno dei rapporti sociali. La relazione tra tecnica e potere, mediata dalla cultura, riarticola il rapporto tra automatismo, determinismo e stabilità politica, e lo stesso atto di governo è introdotto a partire da questa mediazione culturalez.9. La funzione politica della cultura comprende la regolazione dell'informazione a livello sociale e permette di rintracciare speculativamente in Simondon una riflessione politica a partire dalla finalità emergente nella società come sinergia di normatività tecnica e normatività biologica. Il progetto simondoniano concepisce la relazione tra tecnico e sociale nei termini di technologie culture/le che si definisce «da una parte come veicolo che va dall'uomo all'universo e dall'altra come veicolo di informazione che va dall'universo all'uomo»3°. La relazione tra governati e governanti è mutuale e rappresenta una sorta di causalità ricorrente analoga alla regolazione dell'informazione nelle macchine, che prevede effetti di ritorno. La società è pensata come réseau di forze omeostatiche che si autoregola sulla base della 2.9 «La véritablc médiation cntrc la techniquc et le pouvoir ne pcut ctrc individucllc. Elle ne pcut etrc réaliséc quc par l'intcrmédiairc dc la culture. Car il cxistc quelquc chose qui pcrmct à l'hommc dc gouvcmcr: la culture qu'il a rcçuc; c'cst ccttc culture qui lui donne dcs significations et dcs valcurs; c'cst la culture qui gouvcmc l'hommc, memc si cct hommc gouvcmc d'autrcs hommcs et dcs machincs. Or, ccttc culture est élaboréc par la grande masse dc ccux qui sont gouvcmés; si bicn quc le pouvoir cxcrcé par un hommc ne vicnt pas dc lui à proprcmcnt parlcr, mais se cristallisc et se concrétisc sculcmcnt cn lui; il vicnt dcs hommcs gouvcmés et y retoumc. Il y a là une sorte dc récurrencc. [.•• ] C'cst la culture qui est régulatricc et qui fait le licn dc causalité circulairc cntrc gouvcmant et gouvcmés: son point dc départ et son point d'aboutissemcnt sont le gouvcmé. Le manquc d'homéostasic sociale provicnt dc cc qu'il cxistc un aspcct dc la réalité gouvcméc qui n'cst pas représenté dans ccttc relation régulatricc qu'est la culture» (G. Simondon, Du mode cit., pp. l 50-15 l ). 3° G. Simondon, Nota cit., p. 72.z.. La costituzione di una filosofia della tecnica che non sia una filosofia della potcn1.a umana attraverso le tecniche fa parte del progetto pedagogico-politico di Simondon che passa attraverso la comprensione della tecnica nella cultura: «une relation régulatricc dc causalité circulairc ne pcut s'établir cntrc l'cnscmblc dc la réalité gouvcméc et la fonction d'autorité: l'information n'aboutit plus parcc quc le code est dcvcnu inadéquat au typc d'information qu'il dcvrait transmcttrc. Une information qui cxprimcra l'cxistcncc simultanéc et corrélativc dcs hommcs et dcs machincs doit comportcr Ics sehèmcs dc fonctionncmcnt dcs machincs et Ics valcurs qu'ils impliqucnt. Il faut quc la culture redcvicnnc généralc, alors qu'cllc s'cst spécialiséc et appauvric. Ccttc cxtcnsion dc la culture, supprimant une dcs principalcs sourccs d'aliénation, et rétablissant l'information régulatricc, possèdc une valcur politiquc et sociale: clic pcut donncr à l'hommc dcs moycns pour pcnser son cxistcncc et sa situation cn fonction dc la réalité qui l'cntourc» (G. Simondon, Du mode cit., p. 14).

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cultura prodotta dal basso «par la grande masse dc ccux qui sont gouvcrnés»3 1 • In relazione a questa concezione della società, Simondon analizza l'atto di governo nei termini di una regolazione culturale tra governati e governanti criticando la concezione cibernetica di Wicner che pensa la società sulla base di omeostasi. Rien ne permet de considérer la société comme le domaine d'une homéostasie inconditionncllc. Norbert Wiener parait admcttrc un postulat dc valeurs qui n'est pas nécessairc, à savoir qu'une bonne régulation homéostatique est une fin dcrnière des sociétés, et l'idéal qui doit animer tout acte de gouvernement. En fait, de meme que le vivant se fonde sur dcs homéostasics pour se développer et dcvenir, au lieu dc tester perpétuellemcnt dans le meme état, de meme, dans l'actc dc gouverncment, il y a une forcc d'avènemcnt absolu, qui s'appuic sue des homéostasies mais qui Ics dépassc et Ics cmploie32·.

Radicalizzando l'idea di Wiencr di una regolazione omeostatica della società, Simondon sostiene che pensare la società come omeostasi non è sufficiente per comprendere le dinamiche al suo interno perché, scrive Bardin, «la società non esiste mai come una, e tuttavia le condizioni di possibilità di un atto di governo sono determinate proprio dal campo configurato dalle singole omeostasi sociali che ne delimitano i margini d'azione» 33 • Simondon, dunque, ripensa dall'interno la società come organismo attraversato da dinamismi che articola su vari e disparati ordini di grandezza la propria normatività, istituendo delle relazioni che sono differenziali e non gerarchiche. Da questo punto di vista, il politico si presenta come eccedenza interna al sistema sociale e «si situa nei margini strutturali di non tenuta della normatività costituita, entro le figure del sociale e - sotto forma di ripetizione - della "natura tecnica" dell'uomo»H. Simondon riprende l'idea canguilhemiana che le società sono un misto di macchina e organismo, una sorta di automatismo a finalità emergente, ma non conviene con il maestro sull'esternalità del politico. Il governo è propriamente l'invenzione di una nuova compatibili3' 32

lvi, p. 150. lvi, p. I 5 I.

33 Andrea Bardin, Per una teoria delle società in G. Simondon, XIX Convegno Nazionale dei Dottorati di Ricerca in Filosofia Istituto Banfi, Reggio Emilia 17-20 febbraio 2008, (cd. online http://it.scribd.com/doch97 5 5776/Simondon-Per-unatcoria-della-societa ), p. 5. 34 lbid.

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tà in seno alla società, per cui il politico non è istituito tecnicamente come regolazione esterna che bilancia i dinamismi interni, ma risulta immanente alla stessa regolazione sociale sulla base di una sovrapposizione di sociale e politico ed è già da sempre presupposto nel funzionamento di una pericolosa specie di automi: «l'essere umano rappresenta un automa piuttosto imprevedibile poiché rischia sempre di inventare e di costituire nuove strutture»35.

Metastabilità sociale e politica dell'invenzione

La normatività sociale rappresenta un altro ordine di grandezza rispetto a quella biologica: è dell'ordine dell'organizzazione e non dell'organismo, mentre la società appare sempre come misto di naturale e artificiale, organico e tecnico. Come scrive Bardin, «l'atto di governo non è insomma ciò che istituisce la società, ma ciò che, a partire da processualità di differenti ordini di grandezza (da un "campo" del sociale già strutturato, orientato e attivo) istituisce una relazione che tenta di renderle compatibili in un sistema più o meno "metastabile", cioè più o meno capace di ulteriori trasformazioni»3 6 • La nozione di metastabilità, che Simondon utilizza per descrivere l'essere individuale nei termini di un sistema che solo macroscopicamente sembra stabile, ma internamente è sfasato, attraversato da potenziali e dinamismi, si applica anche al sociale. La società è anch'essa un sistema metastabile attraversato da dinamismi in cui, a partire da una situazione di tensione interna, è possibile instaurare una nuova normatività. A partire dalla centralità della nozione di metastabilità, alla base della concettualizzazione della disparazione3 7, Rouvroy e Berns conG. Simondon, Notacit., p. 716. A. Bardin, Per una teoria delle società cit., p. 5. 37 I concetti di sistema metastabile e di dispara7.Ìone sono due nozioni correlative nell'economia della teoria dell'individuazione. Simondon introduce il concetto di disparazione attraverso l'esempio della vista: fisiologicamente, nella vista componiamo due immagini, catturate da ciascun occhio, in un'unità. L'immagine unitaria che abbiamo dell'oggetto osservato è il risultato della disparazione. Di conseguenza, la disparazione non è propriamente un terzo momento nel processo del vedere, quanto piuttosto l'unifica7.Ìone di due momenti simultanei. Perciò, Simondon postula un'originaria eterogeneità dell'essere che si manifesta in questa cocsisten7.a di clementi ambivalenti, e la disparazione rappresenta 3S

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ducono una critica della governamentalità algoritmica riattualizzando la riflessione simondoniana. Metastabilità e disparazione permettono di pensare «"le commun", entendu ici comme cct "cntrc", cc lieu de com-parution dans lequel Ics etrcs sont adrcssés et se relatent Ics uns aux autres dans toutes leurs dissymétries, leurs "disparations"»38. Come rileva Toscano, «la métastabilité peut bien détermincr dcs antagonismcs mais l'invcntion d'une nouvelle configuration sociale n'cst jamais transitive à une quelconquc logiquc dc systèmc. Il y a toujours une discontinuité hasardeuse cntre l'Inégal et le Commun. La disparation permct donc de pcnscr une conflictualité sociale, mais toujours relative à un champ métastablc»39. Inoltre, aggiunge Sticgler, la nozione di disparazione di Simondon è propriamente «la dimensionnalité commc temporalité»4° dell'individuazione collettiva - un tempo noetico, secondo Stiegler, che può e deve trasformarsi in tempo storico. La riflessione di Simondon, lungi dal restaurare la teleologia, offre gli strumenti per trattare anche l'evento come fenomeno transitorio attraverso la nozione di metastabilità. Secondo Toscano, questa nozione autorizza «une conception de la politique (de son événement) comme invcntion d'une communication entre sérics initialement incompossiblcs; comme invention d'un commun qui n'est pas donné

la rela7.Ìonc asimmetrica attraverso cui l'essere si costituisce come individualità e milieu, soggetto e oggetto. 3 8 Antoincttc Rouvroy, Thomas Bcms, Gouvemamentalité algorithmique et perspectives d'éma,icipation. Le disparate comme condition d'i,ulividuation par la relation?, «Réscaux», 177'1, 2.013, pp. 163-196: 193. Rouvroy e Bcrns propongono una critica del dispositivo govcmamcntalc a partire dalla proposta ontologica simondoniana e dall'apparente compatibilità con processi d'individuazione collettiva di entità disparate che estendono l'analogia del vivente-macchina anche a informazione e mctainformazionc. Secondo Rouvroy e Bcms, la governa mentalità algoritmica presuppone I' «évacuation dc toute forme dc disparité», laddove la conccttualizza7.Ìonc simondoniana del sociale «néccssite et présupposc dc la non-coincidcncc care'est dcpuis celle-ci quc dcs proccssus d'individuation se produiscnt dès lors quc c'cst clic qui nous obligc à nous adrcsscr Ics uns aux autrcs» (A. Rouvroy, T. Bcms, ibid.). L'adozione del dispositivo govcrnamcntalc per comprendere la modalità di relazione e regolazione dei Big data rappresenta una soluzione tecnicista che, come scrive Sticglcr, «co11crétiserait, mais, du mcmc coup, déréaliserait la pcnséc simondonicnnc cn cc qu'cllc constituc une gouvernamentalité des relatior,s» (Bcmard Sticglcr, La société automatique I. L 'avenir du trovai/, Fayard, Paris 2.015, p. 2.69). 39 Alberto Toscano, La disparation, «Multitudcs», 18/4, 2.004, pp. 78-79. 40 B. Sticglcr, La société automatique cit., p. 2.69.

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par avance et qui surgit sur fond d'inégalité ontologique»4 1 • Se è vero che l'elaborazione di una teoria politica non rientra nelle prerogative filosofiche di Simondon, tuttavia, il lavoro di autori come Bardin cerca proprio di mostrare il valore politico della riflessione simondoniana42. Secondo Bardin, infatti, Simondon ci permette di fondare un'epistemologia politica, ovvero di costruire una scienza delle società che può essere predittiva rispetto ai processi omeostatici, ma non può essere predittiva rispetto all'emergenza e agli esiti degli interventi propriamente politici (il governo, dunque, non in quanto regolazione del funzionamento dell'esistente, ma in quanto "invenzione" di compatibilità) che sono evenemenziali e innescano processi di tipo discontinuo. Una scienza del genere sarà dunque capace di ricostruire l'ontogenesi delle singolarità che costituiscono il sistema sociale, e, grazie a questo, determinare le tendenze in atto e le condizioni di stato dell'emergenza di un'operazione di sintesi non dialetticamente risolutiva, ma "metastabilizzante". Il rischio di tale operazione propriamente politica è costitutivo e necessario per tenere aperta la società a quella tensione propria del collettivo in nome della quale il politico non si riduce a mitologia difensiva dell'ordine costituito-43.

In rapporto all'emergenza del politico e alla sua preditrività, l'atto di governo riarticola il rapporto tra finalità tecnica e società attraverso la mediazione della cultura. L'idea di una regolazione culturale traduce l'idea di fini non più assoluti, che l'uomo scopre grazie al suo rapporto con l'oggetto tecnico e, in generale, con ogni prodotto della sua atti-

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A. Toscano, 1A disparation cit., p. 76• Phi/osophy as political tech,ze cit.; si veda anche Andrea Bardin, Epistemologia e politica in Gilbert Simondo11. lndividuazio11e, tecnica e sistemi sociali, Edizioni Fuorircgistro, Viccn7.a 2.ou. Ricordiamo anche letture biopoliriche della riflessione di Simondon {M. Combcs, Simondon. fodividu et collectivité, pour une phi/osophie du transindividuel, PUF, Paris 1999; P. Virno, Moltitudine e principio di i11dividuazione, postfazione a G. Simondon, L'individuazione psichica e collettiva, DcrivcApprodi, Roma 2.001, pp. 2.31-2.41; B. Aspe, Simondon, Politique du transindividuel, Dittmar, Paris 2.013), il contributo di Sriegler - purtroppo prematuramente scomparso durante la redazione di questo lavoro - per una fenomenologia farmacologica della tecnica (B. Sriegler, 1A technique et le temps I. 1A faute d'Epiméthée, Galiléc, Paris 1994; 1A technique et le temps 11. 1A désorientation, Galiléc, Paris 1998; 1A société automatique I. L'avenir du travail cit.), interpretazioni materialiste (11. Balibar, V. Morfino (a cura di), I/ transi,idividuale. Soggetti, mutazioni, re/azioni, Mimcsis, Milano, 2.014) e il lavoro di Rcad U- Rcad, The Politics of Tra11sindividuality, Brill, Lciden-Boston 2.016). 43 A. Bardin, Per una teoria delle società cit., pp. 5-6. .µ Si veda A. Bardin,

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vità44, giacché - scrive Toscano - «Simondon introduit la thématiquc d'une finalité tcchniquc, une "auto-valorisation" néc dans l'invention etse propagcant par les machines»45. Ciò porta Toscano a interpretare il pensiero simondoniano nei termini di una politica dell'invenzione a partire dall'effetto che a suo avviso l'autovalorizzazionc tecnica ha nella società: «voici une belle définition dc politiquc: "un couplagc entre les capacités inventives et organisatriccs de plusicurs sujets" [Du mode, p. 253)»4 6 • Anche Bardin, in linea con l'idea di una politica dell'invenzione, sostiene che in Simondon, così come in Canguilhcm, troviamo una concezione del sociale a finalità emergente, in cui l'invenzione politica non risulta né da un processo di regolazione interna né come pianificazione tecnocratica estcrna47. Per questa ragione, la proposta di Bardin di un'epistemologia politica costruita sulla complessità sociale tanto biologica quanto tecnica permette di pensare non soltanto la metastabilità intrinseca a ogni società ma anche la possibilità di un'azione trasformatrice a partire dal dinamismo sinergico di normatività differenti e individui disparati. Il dispositivo del mimetismo macchinale riconfigurato nei termini di sistema metastabile è lo strumento per pensare il sociale come totalità complessa e eterogenea, mentre il politico come invenzione, ossia come evento di rottura rispetto a una data normatività. Una politica dell'invenzione riposa dunque sulla natura metastabile delle condizioni di produzione dell'evento, sul limite predittivo di attualizzazione e sulla possibilità concreta di inventare nuove soluzioni e nuove forme di vita collettiva. 44 «L'intégration d'une rcpréscntation dc réalités tcchniqucs à la culture, par une élévation et un élargisscmcnt du domai ne tcchniquc, doit rcmcttrc à lcur piace, com mc tcchniqucs, Ics problèmcs dc finalité, considérés à tort commc éthiqucs et parfois commc rcligicux. L'inachèvcmcnt dcs tcchniqucs sacralisc Ics problèmcs dc finalité et asscrvit l'hommc au rcspcct dc fins qu'il se rcprésentc commc dcs absolus» (G. Simondon, Du mode cit., p. 151 ). ◄ SA. Toscano, La disparation cit., p. 79. ◄ 6 lvi, p. 80. ◄7 «Dans la philosophic dc Simondon, on trouvc, cn cffct, une conccption dc l'invcntion politiquc qui se détachc autant dc l'idéc d'une finalité "interne" (immanente ou transccndantc) au corps politiquc, dont le déploicmcnt dcvrait etrc rcspccté sinon protégé à tout prix, quc dc l'idéc tcchnocratiquc d'une finalité "cxtcrnc", qui pourrait etrc planifiéc, imposéc et finalcmcnt intégréc au fonctionncmcnt dc la machinc politiquc. En fait, la philosophic dc Simondon autori se l'csquissc d'un modèlc dc systèmc socia I qui, répondant à la formule paradoxalc dc Canguilhcm selon laqucllc la société est "machinc autant quc vie", pourrait se définir commc étant une société à finalité émergente» (A. Bardin, La société, "machine autant que vie" cit., p. 33).

La critica immanente e il posto del conflitto. Sulla "quarta generazione" della Teoria Critica Matteo Polleri

«Mais un jour, peut-etre, le siècle sera deleuzien» - scriveva Michel Foucault recensendo, nel 1970, l'opera dell'amico Gilles Deleuze 1 • Se il dibattito intorno a tale affermazione resta tuttora aperto\ non c'è invece alcun dubbio sul fatto che, nel primo ventennio del nuovo millennio, la teoria e la critica del potere siano divenute almeno in parte foucaultiane 3• Non senza scarti e resistenze, naturalmente, ma suscitando dibattiti, dubbi e obiezioni, e aprendo la strada a possibili ibridazioni teoriche in ambito filosofico-politico. Per discutere del problema delle "forme del conflitto" - oggetto di questo numero dell'Almanacco - ci si concentrerà allora su uno di questi punti di frizione, affrontando una serie di questioni all'incrocio tra il pensiero di Karl Marx e quello di Foucault. Autentici convitati di pietra di ogni tentativo di costruire una "filosofia sociale" all'altezza delle sfide del presente4, queste figure di pensatori sono state spesso considerate come alternative inconciliabili nella critica della società. Per quanto aggiornate sul piano teoretico, politologico o sociologico, le diagnosi legate al pensiero di Marx Michel Foucault, Theatrum phi/osophicum, in Id., Dits et écrits, Gallimard, Paris voi. I PP· 943-944. 2 Cfr. Patrice Maniglier, Deleuze: un métaphysicien dans le siècle, «Magazine Littéraire,., 406, 2.002., pp. 2.6-2.8. 3 È pressoché impossibile restituire la vastità e profondità dell'influenza di Foucault sulle varie branche del pensiero contemporaneo: essa si estende dalla filosofia all'antropologia, passando per la scienza politica, la storia, la sociologia, i postco/o11ial e i gender studies. Per una panoramica dell"'effctto Foucault" sulle scienze umane e degli studi foucaultiani contemporanei, si veda Arianna Sforzini, Judith Rcvel, Ariane Rcvel, Daniele Lorcnzini, Jcan-François Braunstein (a cura di), Foucault(s), &litions dc la Sorbonnc, Paris 1

2001,

2.017.

4 Per una definizione della filosofia sociale, si veda Franck Fischbach, Manifeste pour une phi/osophie sociale, La Découverte, Paris 2.009.

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sarebbero infatti caratterizzate, secondo i più, da una griglia analitica omogenea per svelare le logiche dell'oppressione, da una strategia macroscopica per definire l'orizzonte dell'emancipazione e da una concezione della storia tendenzialmente processuale e teleologica. Le ipotesi legate al nome di Foucault, dal canto loro, svilupperebbero invece uno sguardo "microfisico", insistendo sull'eterogeneità di dispositivi di potere localizzati (epistemologici, istituzionali, discorsivi) e sulla molteplicità irriducibile delle resistenze che permettono di farvi fronte, definendo così una teoria evenemenziale della storicità. Numerosi sono stati, negli ultimi anni, gli studi che hanno tentato di mettere in comunicazione tali prospettive: dalla scoperta delle tracce marxiane rinvenibili negli scritti del francese5 ai tentativi di rileggere Marx "dopo" e "con" Foucault6. Pur tenendo conto di tali ricerche, nelle pagine seguenti non si propone, tuttavia, un ritorno filologico su questi classici. Si intende piuttosto prendere in considerazione una delle correnti di pensiero che ha provato a integrare i concetti di Marx e Foucault all'interno di un programma di ricerca terzo e originale. Obiettivo dell'articolo è infatti quello di analizzare punti di forza e debolezze delle recenti elaborazioni della galassia "francofortese", insistendo sui problemi che emergono nella definizione del rapporto tra la "critica", la concezione del "sociale" sulla quale si basa e il posto occupato dal "conflitto" all'interno di essa. In primo luogo, si argomenterà che, tra i vari tratti originali dei contributi di questi autori, vi è l'impiego congiunto, talvolta contraddittorio, di categorie marxiane e foucaultiane. In un secondo tempo, si mostrerà che la mancata tematizzazione del "conflitto sociale" (della sua natura, dei suoi soggetti e delle sue forme) e del suo rapporto con la "critica" costituisce un limite strutturale di questo campo di studi. Si sosterrà, in conclusione, che è a partire dall'approssimazione di tale rapporto che una lettura incrociata di Marx e Foucault potrebbe prendere le mosse.

s Cfr. Stéphanc Lcgrand, Le marxisme oublié de Foucault, «Actucl Marx», 36'2., 2.004, pp. 2.7-43; Rudy M. Lconclli, Foucault lecteur du Capitai, in Christian Lavai, Fcrhat Taylan, Luca Paltrinicri (a cura di), Marx & Foucault. Lectures, usages, confrontations, La Découvcrtc, Paris 2.015, pp. 59-70. 6 Cfr. Antonio Negri, Marx a,ul Foucault. Essays, Polity Prcss, London 2.016; Jacqucs Bidct, Marx avec Foucault, La Fabriquc, Paris 2.014; Picrrc Dardot, Christian Lavai, Marx, prénom: Karl, Gallimard, Paris 2.012..

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a) Critica delle forme di vita e immanenza del potere Data la molteplicità di riferimenti mobilitati nel dibattito francofortese, non va da sé che le filosofie di Marx e Foucault rappresentino una risorsa per i suoi sviluppi contemporanei. Lungi dal ridursi unicamente a questi pensatori, le fonti dei suoi protagonisti risultano anzi variegate: vanno dal pragmatismo di John Dewey al recupero di alcune istanze del com unitarismo di Charles Taylor, passando per il dialogo con le teorie della giustizia e l'appropriazione della categoria di "immanenza". Questi e altri temi si intrecciano nelle ricerche di autori come Rahel Jaeggi, Martin Saar, Rainer Forst, Hartmut Rosa e Robin Celikates7, senza permettere l'individuazione di facili comun denominatori teorici. Eppure, le riflessioni di alcuni degli eredi del programma dcli' Institut fùr Sozialforschung sembrano fornire ragioni sufficienti per interpretare l'opera della "quarta generazione" 8 francofortesc come un tentativo di integrare certe ipotesi di Foucault a un apparato concettuale "post-marxista". Ciò è confermato non soltanto da Axel Honneth- il quale, in diverse occasioni, ha posto l'accento sul ruolo giocato dalla sua lettura critica di Foucault e Marx nell'elaborazione del concetto di "lotta per il riconoscimento"9. Perché sono soprattutto i contributi dei suoi principali allievi a procedere in tale direzione, proponendo delle forme di "critica immanente" che comprendono al loro interno istanze marxiane e foucaultiane. A ormai quarant'anni di distanza, si potrebbe allora dire che l'indicazione di Nancy Frascr - secondo la quale sarebbe stato necessario sviluppare gli "empirica/ insights" dei corsi di Foucault senza con ciò ricadere nelle sue (presunte) "confusioni normative" 10 -sia stata assunta come piano di lavoro dai più noti esponenti della Teoria Critica. 7 Per una cartografia di alcune di queste ricerche, si veda Leonard Mau.onc, Riconoscim,mto, partecipazione, giustificazione o critica interna? Verso una quarta via politicofilosofica, «Filosofia Politica», :z., 2.017, pp. 385·402.. 8 Per questa definizione, si veda Giorgio Fazio, Una quarta generazione della Scuola di Francoforte, «Consecutio Rerum», 4, 2., 2.018, disponibile online: http://www.consccutio. org/2.018/o4'patologic-sociali-itincrari-nclla-tcoria-critica-contcmporanca/. 9 Si veda per esempio Axcl Honneth, LA Théorie Critique et la théorie de la recon,,aissance. Entretien avec Olivier Voirol, in Id., LA société du mépris. Ver.s une nouvelle Théorie critique, La Découvcrtc, Paris 2.006, pp. 15 1-180. 10 Naney Fraser, Foucault's theory of power: empirica/ insighits and normative confusions, «Praxis lntemational», 3, 1981, pp. 2.72.-2.87.

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Grazie al recupero di alcuni aspetti del pensiero del giovane Marx, innestati nel pragmatismo di Dewey, la "critica delle forme di vita" (Kritik von Lebensformen) proposta da Jaeggi tenta di costruire un metodo adeguato a mettere in discussione non soltanto le "patologie sociali" che affettano la vita collettiva, ma anche i modi di esistenza che costituiscono il tessuto etico microscopico della società. La sua "critica immanente" prova così a superare le difficoltà della "critica interna" - incapace, secondo l'autrice, di rompere con la tradizione data, perché giudica il suo oggetto soltanto sulla base dei suoi stessi criteri normativi - recuperando il modello marxiano della "critica dell'ideologia" 11• In questa prospettiva, è la nozione di "pratica sociale", nucleo elementare della categoria generale di "forma di vita", a essere introdotta per pensare un procedimento attraverso il quale la denuncia delle contraddizioni tra fatti e discorsi permetta di scovare, in quelle stesse contraddizioni, delle risorse normative ancora inespresse. Per "pratica" Jacggi intende una sequenza di azioni verbali e non verbali che stabiliscono un rapporto attivo e passivo con sé stessi, gli altri, il mondo: una griglia di azioni e apprensioni della realtà sociale innervata da valori e interpretazioni condivise, al tempo stesso "given" e "made" 12, subita e agita, ma non necessariamente provvista di una dimensione intenzionale. Una sorta di razionalità conoscitivo-strumentale che si fa costume individuale, insomma, nella quale si sedimentano maniere di vivere dai tratti sperimentali, dotate di una relativa omogeneità, fondamentalmente dinamiche e quindi suscettibili di trasformazione. Elaborato a partire dalla definizione hegeliana delle figure dello "spirito oggettivo", il concetto di "Lebensform" sembra far da contraltare alle indagini foucaultiane sui "modes de vie" 1 3, dislocando l'esigenza di critica della società al punto di incrocio tra etica e politica all'interno di un quadro teorico dialettico e pragmatista 14, senza dubbio debitore della micrologia morale di Adorno 15 • 11 Rahcl Jaeggi, Kritik vo,i LebtmS{omum, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2.014; tr. ing. di C. Cronin, Critique of forms oflife, Harvard Univcrsity Prcss, Cambridgc-London 2.018, pp. 53-54. ''- lvi, pp. II 2.-II 3. •3 Sul rapporto tra erica c politica in Foucault, si veda Judith Revcl, Betwee,1 Politics and Ethics. The Questio,i of Subiectivatio11, in Laura Cremonesi, Orazio lrrera, Daniele Loren7.ini, Martina Ta7.7.ioli (a cura di), Foucault and the Maki,ig of Subiects, Rowman&Littleficld, London 2.016, pp. 163-174. 1'4 Cfr. R.Jacggi, Critique of fonns of lifecit., pp. 58-65. •s Cfr. R. Jaeggi, "No Individuai Ca,i Resist": Minima Moralia as Critique of Fonns of Life, «Constcllarions», 1211, 2.005, pp. 65-82..

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È a partire dalla stoffa micropolitica costituita da tali "clusters of practices" che, secondo Jaeggi, una critica delle ingiustizie e delle gerarchie illegittime che strutturano la società può essere sviluppata. Un "set di pratiche" dà luogo a una forma di vita, che a sua volta costituisce l'effetto e la precondizione dell'agire umano nella storia, risultando più o meno funzionale al suo "progresso" in termini di giustizia, efficienza e moralità. Istituzioni specifiche come la proprietà e il lavoro possono essere intese come "Lebensfonnen": fasci di pratiche nei quali attività economiche ed extra-economiche si intrecciano secondo un meccanismo di co-implicazione orizzontale, risolvendo e suscitando "problemi" di varia natura. Criticare il capitalismo come forma di vita significa allora scomporre la struttura di tali aggregati tramite un approccio multidimensionale, denunciando il sistematico "rovesciamento" delle loro promesse in alienazione e dominio 16 • In questo modo, diventa possibile metterne in luce i "fallimenti pratici" (critica funzionalista), gli ostacoli posti alla realizzazione delle norme di giustizia (critica morale) e gli impedimenti alla sperimentazione di una "vita buona" (critica etica)17. Dal canto suo, Saar propone invece una ridefinizione del programma della filosofia sociale a partire da un'interpretazione delle inchieste genealogiche di Foucault alla luce della problematica francofortese relativa alla costruzione di un modello valido di "critica sociale". Mobilitando una concezione dell'"immanenza del potere" derivata dai suoi studi su Spinoza e Nietzsche 18 , egli sottolinea come, nei corsi preparatori a Sorvegliare e punire 19, le analisi delle "relazioni di potere" non siano intese secondo il modello della "sottomissione", e risultino quindi estranee alla diade concettuale di costrizione e mistificazione tipica della tradizione della teoria politica moderna, da 16 Cfr. Rahcl Jacggi, E11tfremdut1g: Zur Aktualitiit ei,res sozialphilosophischen Problems, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2.016; tr. it. di A. Romoli, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, Castclvccchi, Roma 2.017. 17 Cfr. Rahcl Jacggi, Fanne di vita e capitalismo (a cura di Marco Solinas), Roscnbcrg &Scllicr, Torino 2.016, pp. 97-12.6. 18 Martin Saar, Die lmmane,,z der Macht. Politische Theorie nach Spi11oza, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2.013; Id., Genealogie als Kritik. Geschichte und Theorie des Subjekts ,1ach Nietzsche u11d Foucault, Campus Vcrlag, Bcrlin 2.007. 1 9 In particolare in Michcl Foucault, La société punitive. Cours au Collège de Fra11ce (1972.-1973), Scuil-Gallimard, Paris 2.013; tr. it. di P. A. Rovatti e D. Borea, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972.-1973), Fcltrinclli, Milano 2.016.

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Hobbes a Weber 20• Le situazioni di oppressione non si danno infatti, a suo avviso, nella forma del "dominio" unilaterale, ma attraverso una dinamica produttiva, che sollecita la formazione dei soggetti costruendo le loro stesse condizioni storiche di possibilità21 • Si tratta di una logica costitutiva, per la quale le relazioni di potere operano sulle soggettività "da dentro", al di là delle opposizioni tra esterno e interno, profondità e superficie, determinante e determinato - muovendosi, cioè, come processo complesso non riducibile agli elementi che lo compongono. Taie slittamento concettuale dalla sfera della sottomissione a quella della produzione, dall'accentramento alla diffusione, dalla determinazione alla relazione, impedisce di pensare il potere come «anteposizione» (Oberordnung), e suggerisce una concezione di esso come disposizione articolata di forze costituenti. In tale prospettiva, categorie classiche dell'analisi del potere - come "potentia", "potestas" e "auctoritas"; "forza", "ordine" e "violenza"; "legittimità" e "ideologia" - restano operative, ridisegnandosi intorno a un principio di «effettuazione interna e costitutiva» 22 che ricorda la «causalità metonimica della struttura sui suoi clementi» abbozzata da Louis Althusser nella sua lettura del C-apitale 2 3. Una concezione che permette, a detta di Saar, di ripensare l'emancipazione oltre l'alternativa tra «trionfalismo della libertà assoluta» e «nichilismo del potere totale» 2 4, e grazie alla quale si dimostra che la critica - come nel caso delle foucaultiane «pratiche di libertà» 2 5 - non si fonda su un "fuori", ma scaturisce all'interno dei medesimi rapporti di forza che contribuisce a mappare. La sua validità non è garantita da un principio trascendente la realtà sociale, né riferita a un orizzonte messianico o

Cfr. Martin Saar, Power and critique, «Journal of power», 1, 3, 2010, pp. 7-20. Cfr. ibid. l l lbid. '-3 Cfr. AA.W., Lire Le Capitai, PUF, Paris 2014; tr. it. di M. Turchetto, Leggere il Capitale, Mimcsis, Milano 2006. 2.4 Martin Saar, Die Form der Macht. lmmanenz und Kritik, in M. Rolli, R. Nigro (a cura di), Vierzig Jahre. Oberwachen und Strafen. Zur Aktualitàt der Foucault'schen Machta,uzlyse, transcript Verlag, Biclefcld 2017, pp. 157-173; tr. it di O. Del Nonno, La forma del potere. Immanenza e critica, «Consecutio Rerum», 4, 2, 2018, disponibile online: http://www.consccutio.org/2018/o,vla-forma-dcl-poterc-immanen7.a-e-critica/. '-S Cfr. Judith Revcl, Libertél/ibération, in Ead., Dictio,maire Foucault, Ellipscs, Paris 2007, pp. 88-90. 10

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escatologico, perché coestensiva rispetto alle relazioni sociali e alle loro fluttuazioni. La critica, di conseguenza, opera nella direzione di un "infra-superamento" delle configurazioni di potere di un'epoca determinata, senza implicare una loro repentina sostituzione o la loro soppressione definitiva26 • Malgrado le differenze evidenti che li separano, questi modelli di critica immanente - delle "forme di vita" o delle "relazioni di potere" - condividono la comune esigenza di sottrarre il metodo critico al formalismo etico che aveva caratterizzato il lavoro di Honneth, senza con ciò cadere nella relativizzazione dei suoi riferimenti valoriali. Impiegano, in tale prospettiva, due strategie complementari. La prima consiste nell'attualizzazione della definizione della filosofia come attività pratico-teorica che, secondo la lettera inviata dal giovane Marx ad Arnold Ruge nel 1843, «dalla critica del vecchio mondo vuole desumere quello nuovo» 2 7, senza presupporre ideali utopici e principi regolativi astratti. La seconda può essere definita come una rinnovata attenzione per la dimensione plastica, metamorfica e microscopica dei rapporti sociali, intesi non soltanto come palcoscenico dei processi di dominazione ma, foucaultianamente, come terreno sul quale sono fabbricate al tempo stesso soggettività e resistenze, grazie a un insieme di pratiche eterogenee.

b) Il posto del confl.itto28 Le ricerche appena riassunte segnano una forte discontinuità rispetto alle virulente critiche rivolte da Jiirgen Habermas all'impianto teorico di Marx e alle ricerche di Foucault tra gli anni Settanta e Ottanta. Nessun "postmodernismo" è rimproverato al secondo 29, Cfr. M. Saar, La forma del potere cit. Karl Marx, Lettera a Ruge. Settembre 1843, Kreuznach, in Gian Mario Bravo (a cura di), Annali franco-tedeschi, Massari Editori, Grotte del Castro 2.001, pp. 72.-74. Questo passo marxiano è più volte citato come archetipo della critica immanente in R. Jaeggi, Criur,e of f onns of /ife cit. Per quanto riguarda il contenuto di questo paragrafo, ringrazio Lconard Mazzonc per le conversazioni avute in merito. 1 9 Su tale critica e la successiva palinodia, si veda Jiirgen Habermas, Des philosophische Diskurs der Modeme, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1988; tr. it. di E. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1987; Id., Taki11g aim at the heart of the 16

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mentre alcune categorie di ispirazione marxiana - come quelle di "reificazione" e "alienazione" - tornano in auge, ristrutturate e rifondate, nel programma francofortese3°. "Immanenza del potere" e "critica sociale" sembrano anzi articolarsi a partire dall'incrocio di concetti provenienti dalla tradizione hegelo-marxiana e da quella nietzscheano-foucaultiana. E paiono così sconfessati, per non dire ribaltati, i pronostici del giovane Honneth, secondo il quale un doppio distanziamento dal "materialismo storico" di Horkheimer e dalla "dottrina funzionalistica del potere" di Foucault avrebbe permesso alla Teoria Critica di uscire dalle sue impasses teoriche3 1. Questa contaminazione porta tuttavia con sé alcune difficoltà, che vale la pena sottolineare per favorirne gli sviluppi. Nelle ricerche dei francofortesi contemporanei permangono infatti alcune idee tipiche dell'interpretazione habermasiana di Marx e di Foucault: è da qui che derivano i principali ostacoli all'integrazione delle due prospettive. L'opera del primo - intesa come una «metacritica della critica hegeliana della sintesi trascendentale di Kant»32. - era stata congedata da Habermas per il suo presunto riduzionismo. I concetti di "sintesi sociale" e di "prassi" sarebbero infatti appiattiti da Marx sull'unica sfera della struttura economica e del lavoro produttivo33. Il pensiero di Foucault veniva invece ricondotto da Habermas a un disperato tentativo di elaborare un «nietzscheanesimo di sinistra», e conseguentemente stigmatizzato come «cripto-normativo», sostanzialmente relativistico, e quindi incapace di giustificare le ragioni che spingono i soggetti verso gli ideali di libertà e eguaglianza 34 • Per present, in D. Hoy (a cura di), Foucault. A criticai reader, Blackwcll, Oxford

1991, pp.

193 ss. 3° Or. Axcl Honncth, Verdinglichtung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2.006; tr. it di C. Sandrclli, Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento, Mcltcmi, Milano 2.019; R. Jacggi, Alienazione cit. 3' Axcl Honncth, Kritik der Macht: Reflexionsstufm, einer kritischm, Gesellschaftstheorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988; tr. it. di M. T. Sciacca, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habennas, Dedalo, Bari 2.002.. 3~ Cfr. Jiirgcn Habcrmas, Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1968; tr. it. di G. Rusconi, Conoscmiza e interesse, Latcrza, Roma-Bari 1990. 33 Cfr. Jiirgcn Habcrmas, Zur Rekonstruktion des Historischm, Materialismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1976; tr. it. di F. Ccrutti, Per la ricostruzione del materialismo storico, Etas, Milano 1979. 34 J. Habcrmas, Il discorso filosofico della modernità cit., pp. 2.78-2.79. Sul rapporto tra Foucault e la Scuola di Francoforte, si veda Manlio lofrida, "Annali franco-tedeschi".

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quanto riguarda l'oggetto del nostro discorso, due sono stati i principali contro-effetti di tali prese di posizione. Da un lato, esse hanno condotto Habermas a una sublimazione linguistica delle forme del conflitto sociale, la cui materialità viene astratta nei termini di una raffinata teoria dell'agire comunicativo. Dall'altro, gli stessi concetti di "lavoro" e "produzione", impoveriti e semplificati, perdono progressivamente centralità teorico-politica, soccombendo a una definizione nella quale la funzione polemogena da essi rivestita all'interno della società capitalistica risulta obliterata 35 • Alla luce di questo doppio movimento di congedo da Marx e rifiuto di Foucault, un approccio conflittualistico alla società - sia esso dicotomico e polarizzante, come nel caso della "critica dcli'economia politica"; oppure pluralistico e diffusivo, secondo lo stile della "microfisica del potere" - viene abbandonato, lasciando invece spazio alla discussione dei presupposti normativi della critica e delle sue implicazioni morali ed epistemologiche. È precisamente su questo punto che la quarta generazione francofortese resta ancorata alla rifondazione habermasiana della Teoria Critica. Per quanto i contributi di Jaeggi e Saar non ripetano il suo congedo da Marx e tentino di assorbire le ipotesi introdotte da Foucault, il posto occupato dal concetto di "conflitto" e il suo rapporto con la "critica" appare infatti indeterminato e ambiguo. Nel caso di Jaeggi, la conflittualità sociale, seppur indicata come punto di partenza per la Criticai Theory, non viene definita nel suo statuto, né analizzata dal punto di vista delle contraddizioni strutturali della forma di vita capitalistica3 6• Pare piuttosto essere intesa come una sorta di segnalatore dei problemi che, pragmaticamente, ogni forma di vita si trova a dover risolvere qualora sorgano disaccordi rispetto alle sue regole, ai suoi valori o alla sua efficacia nell'adeguare la realtà alle promesse normative che ne giustificano il funzionamento. Il conflitto I testi di Foucault sull'lllumi,usmo alla luce del confronto tra Francia e Germania, «Materiali foucaultiani», 9-10, 2.016, pp. 12.7-142.. Più in generale, si veda Yvcs Cussct, Stéphane Habcr (a cura di), Foucault et Habermas. Parcours croisés, CNRS &lirions, Paris 2.006. 35 Sul rapporto tra Habermas e la sociologia, si veda Stéphane Habcr, Habermas et la sociologie, PUF, Paris 1998. 3 6 Come recentemente notato in Lconard Ma7.zone, Perché dovremmo vivere altrimenti? Alt:11ne ragio,u etico-pragmatiche per desiderare un'altra vita, «Consecutio Rerum», 3, 2.017, disponibile online: http://www.consccutio.org/2.017/1o/pcrche.dovremmo-viverealtrimenri-alcunc-ragioni-erico-pragmarichc-pcr-desiderare-unaltra-vita/.

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- tra sistemi di norme, soggetti sociali o modelli di organizzazione societaria - appare in questo senso marginalizzato, e assorbito all'interno di una concezione progressiva del processo di "apprendimento collettivo" nel quale si svilupperebbe la storia delle società umane. Jacggi sembra così dimenticare che - secondo la già menzionata lettera del giovane Marx - per desumere il mondo nuovo a partire dalla critica del vecchio la filosofia non può che "mondanizzarsi", cioè immergersi, «non solo esteriormente, ma anche interiormente nel tormento della lotta». Poiché essa è certo una "autochiarificazione" (o "autoriflessione") della modernità su sé stessa, ma sempre rispetto «alle sue lotte e ai suoi desideri», e con l'obiettivo di stabilire una relazione di «conflitto con le forze esistcnti»37. Più ambivalente, e aperta a possibili sviluppi, risulta la maniera con la quale Saar aggira il problema. Egli si sforza infatti di pensare oppressione cd emancipazione non solo nei termini del dominio e della sua abolizione, ma anche in quelli, più complessi, della "produttività del potere" e della "trasformazione del sé", sottolineando l'importanza delle pratiche di resistenza e autorganizzazionc che spontaneamente si generano nella socictà3 8• Con ciò, tuttavia, il concetto di conflitto non riceve ulteriori determinazioni, rimanendo allo stato di un'evocazione tanto importante quanto vaga. A quest'ultima non segue né una distinzione delle sue diverse manifestazioni (discordia? dissenso? opposizione? lotta? antagonismo? guerra?), né una disamina della sua natura (socio-economica? normativa? intersczionalc?), e nemmeno una fenomenologia delle sue possibili forme espressive e organizzative. L'idea che la società sia attraversata da tensioni potenzialmente esplosive rappresenta, certo, il presupposto della nozione di "condotta critica", che permette a Saar di gettare un ponte tra il pensiero del giovane Horkheimcr e l'ultimo Foucault39. Ma il problema, una volta posto, pare dileguare su un piano d'immanenza nel quale risulta difficile identificare lince di demarcazione e punti di rottura. La lezione foucaultiana relativa alla "differenza di potenziale" insita nelle maglie del potere, e la sua prossimità con la teoria marxiana del-

Cfr. K. Marx, Lettera a Ruge cit., pp. 72.""74. Su questo, si veda Martin Saar, La phi/osophie sociale camme théorie critique. Ordre, pratique, S11jet, «Actucl Marx», 66, 2., 2.019, pp. 138-151. 3!1 Jbid. 37 38

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lo sfruttamento4°, pare allora valorizzata da Saar solo parzialmente. Tanto che il formidabile interrogativo che Foucault ha rivolto a Marx e ai marxismi del suo tempo - «qu'est-ce que la "lutte", quand on dit lutte des classes?»4 1 - risulta messo surrettiziamente da parte. Negli anni '90, Honneth colse il problema posto dall'evacuazione del conflitto sociale nella teoria critica di Habermas, e tentò di risolverlo attraverso la riformulazione del concetto di "lotta per il riconoscimento" abbozzato negli scritti del giovane Hegel4 2 • Oggi, i suoi allievi non insistono più sull'esigenza universalistica di fondare eticamente le ragioni del conflitto sociale, ma sembrano pur sempre ricadere nella tendenza - tipica delle ricerche francofortesi sotto l'egida di Habermas - alla smaterializzazione dei suoi soggetti, delle sue forme e della sua funzione all'interno della società. E di conseguenza, il peculiare incrocio di echi marxiani e foucaultiani che propongono pone senza dubbio una questione determinante per la filosofia sociale, ma elude uno dei suoi maggiori punti di attacco teorico.

e) Tra Marx e Foucault: aporie e punti di eresia È a partire da questa difficoltà che un'altra ricerca sul rapporto tra concetti marxiani e foucaultiani potrebbe prendere le mosse. Se sono note, d'altra parte, le aporie alle quali vanno incontro i tentativi di conciliare l'analitica dei poteri foucaultiana e la critica marxiana del capitalismo 43 , meno studiati risultano quei luoghi di contatto problematici che, riprendendo una formula da Le parole e le cose, si potrebbero definire come i "punti di eresia"44 intorno ai quali si -4° Rivendicata dallo stesso Foucault in Michcl Foucault, I.es mailles du pouvoir, in Id., Ditsetécrits cit., voi. li, pp. 1001-1013. Cfr. anche Id., L'immanenza del potere. Intervista a Rouge, «Almanacco di filosofia e politica•, I, 2019, pp. 239-266. -4• Michcl Foucault, Métbodologie pour la connaissance du monde: comment se débarrasser du marxisme?, in Id., Dits et écrits, voi. Il, cit., p. 6o6. -4 2 Cfr. A. Honncth, Kampf um Anerkennung. Zur moraliscbeti Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Bcrlin 1992; tr. it. di C. Sandrclli, La lotta per il riconoscimento, il Saggiatore, Milano 2002. 43 Su tali aporie, si veda ~tienne Balibar, L 'A,iti-Marx de Miche/ Foucault, in C. Lavai, L. Paltrinicri, F. Taylan {a cura di), Marx & Foucaultcit., pp. 84-102. -4-4 Su tale nozione in Foucault, si veda ~tienne Balibar, Foucault et le «point d'bérésie», in Id., Passio,is du concept. Épistémologie, tbéologie et politique, &rits 2, La Découvcrtc, Paris 2020, pp. 126-166.

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incontrano alcune ipotesi di Marx e Foucault. Temi e problemi non soltanto comuni a entrambi, ma intorno ai quali una lettura comparativa permette di gettar luce su argomenti e categorie dell'uno e dell'altro. Osservato sotto questa luce, il rapporto tra conflitto e critica può in effetti essere declinato intorno a tre assi tematici, che costituiscono altrettanti punti di eresia tra Marx e Foucault. Si può infatti notare come per entrambi gli autori la definizione dello "scontro" all'interno della società sia intesa come un problema non solo (e non tanto) di ordine sociologico o politologico, ma anzitutto ontologico, con una serie di implicazioni legate alla concezione della soggettività e alla teoria della storia. Comune a entrambi è la matrice bellica e strategica impiegata per descriverne le geometrie, nonché la funzione di motore trasformativo che esso assume rispetto alle forme del potere storicamente determinate e all'emergenza di nuove figure della soggettività 45• Per Marx, certo, l'"essere sociale" nel quale ogni prassi si inserisce è qualificato da "contraddizioni" che ne determinano l'essenza processuale4'\ mentre la "microfisica" foucaultiana designa una concezione energetica della realtà, animata da "forze" che si definiscono nella loro opposizione reciproca47. Eppure, tanto per l'uno quanto per l'altro, il conflitto sembra essere inteso a un tempo come esito inerziale di processi anonimi - la lotta tra classi, la meccanica di dispositivi e resistenze - e come attualizzazione e variazione di tali processi grazie alla costituzione, attraverso lo scontro stesso, dei soggetti che vi agiscono. Le due griglie analitiche trovano così un tri◄S Su questo si vedano Sandro Mc7.7.adra, Nei cantieri mar.ria,ù. li soggetto e la sua produzione, manifcstolibri, Roma, 2.014. Mauri7.io Ricciardi, Il potere temporaneo. Karl Marx e la politica come critica della società, Mcltcmi, Milano 2.019. 46 Per un'interpretazione dell'ontologia sociale di Marx in termini processuali, si veda Gyorgy Lukacs, Geschichte und Klassenbewustsei11, Aisthcsis, Biclcfcld 2.013; tr. it. di G. Piana, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano 1997. Per una ripresa contemporanea di tale approccio, si vedano almeno Emmanucl Rcnault, Criticai theory and processual socia[ o,itology, «Journal of Social Ontology», 1, 2., 2.016, pp. 17-32.. Julicttc Farjat, Frédéric Monfcrrand, Processus, loi et te,uJance, in Julicttc Farjat, Frédéric Monfcrrand, Dictionnaire Marx, Ellipscs, Paris 2.02.0, pp. 170-174. 47 Come sottolineato, per esempio, in Roberto Esposito, Politica e ,iegazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino, 2.018, pp. 181-186. Sul concetto di conflitto in Foucault, si vedano anche gli spunti contenuti in Andrea Di Gcsu, lmma,ienza e conflitto. Per u,i pe11siero del comune ;,, Miche[ Foucault, in M. Di Picrro, F. Marchesi (a cura di), «Almanacco di Filosofia e Politica», 1, 2.019, pp. 177-188.

LA CRITICA IMMANENTE E IL POSTO DEL CONFI.IITO

pio punto di caduta convergente. In primo luogo, in una definizione complessa del conflitto come fattore costitutivo del "sociale" e delle sue figure soggettive, attraverso una logica di "azione reciproca" tra polarità che si danno all'interno della stessa relazione che intrattengono. In secondo luogo, in una concezione della critica che non muove dalle sue giustificazioni universali, ma nasce nella diagnosi interna di tali conflitti, siano essi espliciti o impliciti, manifesti o germinali, esteriorizzati o interni ai soggetti. Infine, nella valorizzazione epistemologica di un "punto di vista" sulla società dichiaratamente parziale, dotato di un approccio "scettico" rispetto alla validità delle norme morali dominanti4 8 : uno sguardo sulla realtà sociale che l'attività critica non si limita ad assumere, ma che partecipa a costruire. Tanto per Marx quanto per Foucault, allora, tale attività intellettuale non consiste solo nella diagnosi dei poteri esistenti o nell'individuazione dei problemi morali cui le forme di vita danno luogo, ma assume il processo di formazione della soggettività come terreno di contesa sempre aperto. E si sforza così di pensare la storia e la trasformazione sociale in termini dinamici, tanto sotto la lente dell'oggettività dei processi sociali quanto sotto quella delle discontinuità e delle rotture imprevedibili che vi possono insorgere49. Sono grammatiche concettuali, quelle di Marx e di Foucault, che, pur sembrando irrimediabilmente distanti, possono allora essere percorse in direzioni diverse a partire da tali punti di tensione. Essi generano infatti interrogativi che spiazzano le riflessioni abitualmente sviluppate nel solco delle tradizioni di pensiero alle quali questi autori hanno dato vita. Fino a che punto, verrebbe da chiedersi, "ontologia sociale" e "ontologia politica" sono reciprocamente esclusive? È possibile pensare l'emancipazione al tempo stesso come totalizzazione dell'individuo, pieno sviluppo delle facoltà e dell'autocoscienza, e come processo di differenziazione, come soggettivazione in continuo divenire? Come articolare una concezione processuale della società (e della storia) e un'analisi evenemenziale delle sue fratture? È muovendo da queste domande, e dalle esitazioni teoriche di cui sono il sin48 Sulla natura scettica della critica marxiana si veda Emmanucl Renault, Marx et l'idée de critique, PUF, Paris 1998; tr. it. di M. T. Ricci, Marx e l'idea di critica, manifcstolibri, Roma 1999. 49 Sul concetto di "discontinuo" in Foueault, si veda Judith Revcl, Foucault. Une pensée du disconti1tu, Seui(, Paris 2.010.

MATTEO POLLl!RI

tomo, che una lettura di Marx attraverso Foucault, e viceversa, può permettere non tanto di farne convergere le teorie, quanto di porre le basi per una loro articolazione puntuale all'interno di un orizzonte di ricerca che riannodi critica e conflitto utilizzando congiuntamente i loro concetti.

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Neal Wood Il valore dell'insocievole socievolezza: Machiavelli, Sidney e Montesquieu A cura di Francesco Marchesi

Nota introduttiva

Neal Wood (1922-2003) è stato un importante storico delle idee di orientamento marxista. Il lavoro suo e della sua compagna Ellen Meiksins Wood con la quale ha co-firmato numerosi volumi, è stato caratterizzato da un'originale impostazione volta alla ricerca delle condizioni sociali del pensiero politico. Un metodo che si è opposto nel mondo anglosassone a quello della cosiddetta Scuola di Cambridge di Quentin Skinner e John Pocock, in quanto ha inscritto le teorie politiche antiche e moderne non solo nel discorso di un'epoca storica, ma nei conflitti attorno alla produzione della ricchezza e alla distribuzione della proprietà. Tuttavia, lo studioso si rifiutava di ridurre le idee a semplice riflesso di un'appartenenza di classe, insistendo tuttavia sulla rilevanza delle relazioni sociali con cui la teoria politica di ogni tempo si trova di volta in volta a confrontarsi. Wood ha analizzato in questo senso un ampio spettro di autori e di problemi storici, tra i quali la reazione di Sant' Agostino rispetto ai movimenti ereticali contadini, il nesso tra John Locke e il capitalismo agrario, fino al rapporto tra gli intellettuali inglesi e il comunismo. Nel testo del 1967 che qui presentiamo per la prima volta al lettore italiano, Wood delinea un'importante e tuttora influente lettura del conflitto politico in Machiavelli. Il saggio, sebbene inevitabilmente datato per alcuni aspetti, chiarisce due motivi della posizione machiavelliana ancor oggi controversi e spesso fraintesi nelle sue riprese filosofiche: da una parte, Wood mostra fin dalle prime righe del testo come Machiavelli sia un pensatore del conflitto e non della competizione, e dunque di un antagonismo sociale inteso come rottura del quadro di riferimento, piuttosto che di una competizione intesa come predominio entro le condizioni date. Dall'altra, Wood sottoli-

nea come tale trasformazione, per concretizzarsi, debba incarnarsi in istituzioni che ne garantiscano la solidità e la durata. Contestualmente, il marxismo libertario e anti-burocratico di Wood danno luogo ad alcuni errori e ingenuità quanto all'esame dell'influenza di Machiavelli sugli altri pensatori analizzati nel saggio, Sidney e Montesquieu: in particolare l'autore proietta su questi ultimi una fedeltà a Machiavelli che è invece autentica trasformazione della lezione del fiorentino. L'eredità conflittualista del Segretario viene infatti trasfigurata dal liberalismo, repubblicano o moderatamente monarchico, di Sidney e Montesquieu, per i quali l'antagonismo nei confronti del potere politico non significa rottura con l'ordine sociale esistente ma protezione della proprietà e di una libertà garantita dal privilegio. Confondendo, e implicitamente unificando, potere politico e potere economico e sociale, Wood fraintende nelle righe finali del testo l'eredità del liberalismo, che gli appare come punto di resistenza all'oppressione piuttosto che difesa della libertà di pochi dall'interesse generale, talvolta rappresentato dal potere politico. Se dunque il saggio di Wood risulta ancora oggi filosoficamente rilevante - e per alcuni versi pionieristico riguardo a temi centrali nella critica contemporanea -, perché in grado di mettere a fuoco la distinzione tra conflitto e competizione e la dimensione istituzionale del pensiero machiavelliano, non appare pienamente attendibile sul piano storico, perché fraintende la collocazione di Machiavelli all'interno della genesi del pensiero politico moderno.

Il valore dell'insocievole socievolezza: Machiavelli, Sidney e Montesquieu

I Per introdurre la nostra analisi sarà utile brevemente contrapporre la visione del conflitto sociale (domestic confl.ict) presente nella Grecia classica e a Roma e quella suggerita dalla teoria machiavelliana. Per chiarire queste differenze è innanzitutto necessario distinguere tra competizione e conflitto. La competizione presuppone un ampio accordo sui fini, e un disaccordo a proposito dei mezzi, delle persone e delle politiche che possono meglio raggiungere tali obiettivi. La competizione è una gara (game situation): coloro che competono possono essere atleti sul campo, candidati per un incarico pubblico, membri di un'assemblea, professionisti o uomini d'affari rivali. E sebbene nella pratica sia spesso difficile tracciare una precisa linea di demarcazione tra competizione e conflitto, il conflitto è generalmente caratterizzato dalla tensione, dall'ostilità e da un disprezzo che può trasformarsi in violenza e guerra. Tipicamente, un esteso e intenso disaccordo sui fini e, di frequente, una riluttanza a sottostare alle regole del gioco, conducono al conflitto. Forme caratteristiche del conflitto sociale, in una scala approssimativa in ordine crescente di violenza, sono: una radicale opposizione tra partiti, manifestazioni e raduni di massa, marce di protesta, scioperi, picchetti, sommosse, ammutinamenti, insurrezioni, rivoluzioni e guerre civili. I pensatori classici condannavano il conflitto sociale e, in diversa misura, accettavano la competizione. Machiavelli non soltanto accettava la competizione ma riteneva che il conflitto sociale, se non condotto fino a una violenza generalizzata, fosse salutare. La sua nozione di conflitto rappresentò una rottura radicale con il passato, e un punto di riferimento per le teorie successive.

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Platone e Aristotele concepivano la polis come un tutto organico composto di parti differenti, ognuna dotata di funzioni proprie in relazione al funzionamento corretto dell'intero. Il fine o il funzionamento corretto della polis e dell'insieme sociale è il risultato di una condotta morale d'eccellenza postulata dalla ragione. Questo obiettivo morale determinerà la differenziazione delle funzioni all'interno della polis e la natura delle relazioni tra di esse in vista del mantenimento dell'equilibrio e dell'armonia tra le parti. Un tale bilanciamento sociale era pensato come naturale e buono, a protezione dell'unità e della simmetria del cosmo. La concezione teleologica di Aristotele, tanto della polis che della natura, implica l'idea dell'armonia o della «pace» sociale, in analogia con una materia naturalmente immobile, e non invece in movimento. La sua famosa critica della polis ideale di Platone in quanto unisono, e non armonia, tra le parti risulta fuorviante[. Nessuno dei due pensatori permetterebbe l'esistenza del conflitto nella sua polis ideale. All'origine della critica di Aristotele si trova il suo dissenso nei confronti della comunanza di proprietà, donne e bambini all'interno della classe dominante teorizzata dal maestro. Aristotele, che desidera una maggiore diversità e varietà all'interno della polis ben ordinata di Platone, non guarda con favore al collettivismo, e tuttavia sulla questione del conflitto il suo modello è molto simile a quello platonico. Egli compara il corretto ordinamento delle parti della città all'armonia di una composizione musicale, nella quale i diversi elementi sono uniti per formare un insieme gradevole. Ma, e dimenticare questo punto significa fraintendere Aristotele, l'unità di una composizione musicale è predeterminata dalla concezione del compositore: il fine che armonizza la polis è il bene comune definito da una particolare nozione di eccellenza umana. In entrambi i casi, musicale e politico, il fine pone limiti molto chiari alla natura delle parti e alle loro relazioni. L'armonia di Aristotele, come l'unisono di Platone, preclude dissonanze, o sfumature tra modalità tonali e atonali. Nonostante egli prescriva una maggiore competizione e multiformità rispetto all'ideale platonico, non suggerisce mai di tollerare differenze fondamentali, opposizioni e conflitti all'interno della polis. La sua visione dell'equilibrio sociale gli impedisce di riconoscere la legittimità delle molteplici forme di conflitto sociale non-violento. Non avrebbe mai applicato al conflitto sociale 1

Aristotele, Politica, a cura di C. A. Viano, Rizzoli, Milano 2.008, 12.63b.

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un immaginario di guerra o ispirato allo scontro militare, come molti fanno oggi in modo incosciente2 • Il suo obiettivo di concordia sociale, homonoia, l'unione delle anime in una forma di vita, è sostanzialmente estraneo alla nozione moderna di una fondamentale lotta sociale e politica. Anche nella discussione della politéia, la forma costituzionale più efficace che consiste in una mescolanza di democrazia e oligarchia, Aristotele non fa pensare a un sistema di conflitti e contese tra il demos e gli oligarchi. Al contrario, egli mira a un equilibrio tra i due gruppi, da ottenersi attraverso un'ampia «classe media», più estesa tanto di ogni singola classe che di una combinazione delle altre classi. Egli ritiene che questa ampia classe media di proprietari terrieri, nel quadro di una timocrazia, possa essere un contrappeso rispetto alle altre classi, prevenendo così l'emergere di fazioni e di dissensi3. In effetti, questo sistema di governo è la versione «politica» del «giusto mezzo» etico, volto a una vita di moderazione e conflittualità minima. Ancora, nelle raccomandazioni per la prevenzione della stasis, la corruzione della polis caratterizzata dalla contesa tra le fazioni, egli fa riferimento all'equilibrio del corpo umano in relazione al pericolo dell'aumento sproporzionato di ogni parte della città4. Chiaramente Aristotele consentirebbe una maggiore eterogeneità e competizione nella polis rispetto a Platone: nondimeno sulla questione del conflitto essi sono concordi. Per i due pensatori il problema centrale della polis è la st:asis e il mantenimento dell'ordine. L'idea aristotelica della costituzione mista risulta largamente statica, ignorando gli clementi di contrasto e la loro interazione. I moderni concetti di conflitto, di matrice liberale, non devono essere letti in questo quadro; egli non fu un liberale o un Whig dell'antichità5. Riguardo al conflitto sociale, Polibio e Cicerone si schierarono con Platone e Aristotele. Essi concordavano sul fatto che la costituzione della Roma repubblicana, una mescolanza dei «princìpi» delle tre costituzioni semplici, monarchica, aristocratica e democratica,

1 Sulla novità dell'uso della metafora militare nelle discussioni sulla politica si vedano i commenti nel mio saggio Some Reflectio,,s 011 Sorel and Machiavelli, «Polirical Scicncc Quartcrly,o, 83, 1968, pp. 76-91. 3 Aristotele, Politica cit., 12.95b-12.96a. 4 lvi, 1302.b-1303a. s Un esempio n:ccntc di una lettura che rintraccia alcune tcndell7.C liberali in Aristotele si può osservare in Bcmard Crick, In Def(!IIS(! of Politics, Penguin Books, London 1964, pp. 17-18.

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fosse il più avanzato ordine raggiungibile. Una volta mescolate in questo modo, i punti di forza di ognuna sarebbero stati neutralizzati da quelli delle altre, in modo che nessun principio potesse prevalere e, di conseguenza, degenerare". La teoria della costituzione mista è fondata su due assunti: la tesi psicologica secondo cui l'influenza corruttrice del potere su un individuo o su un gruppo possa essere contenuta da un sistema di pesi e contrappesi, e l'idea sociologica per cui le classi debbano essere bilanciate o stabilizzate7• Rispetto alla seconda, Polibio sostenne che la costituzione mista «debba rimanere a lungo in uno stato di equilibrio come un rivestimento ben tagliato» 8• I pesi e contrappesi non ostacolano l'unità in tempi di pericolo, e durante i periodi di pace e prosperità sono sufficienti a prevenire la crescita eccessiva di ognuna delle parti, che rischia di distruggere l'equilibrio costituzionale9. La lotta di classe e i contrasti di fazione devono essere scongiurati, proprio come hanno insegnato Platone e Aristotele. Cicerone esprime con ancora maggiore chiarezza rispetto a Polibio l'avversione classica nei confronti della partigianeria e del conflitto, diventando il simbolo di un'intera tradizione su questi temi. Con Aristotele, egli compara una repubblica (commonwealth) ben ordinata a un'armonia musicale10 • La sua idea di armonia sociale e politica costituisce quello che Charles Norris Cochrane ha chiamato concordia ordinum 11 • Nelle repubbliche esistenti due «partiti» o categorie di uomini sono sempre presenti, i populares e gli optimates1 2 • Secondo la descrizione di Cicerone, i primi sono degli attaccabrighe che tentano di condurre le masse verso un avanzamento della propria condizione, a spese del bene comune. Dall'altra parte, gli optimates, sono uomini saggi, moderati e prudenti che antepongono il bene co6 Per la visione della costituzione mista da parte di questi autori si veda: Polibio, Storie, a cura di D. Musri, Ri7.7.oli, Milano 2001, VI, 10-18, 43-58; Cicerone, La repubblica, a cura di F. Ncnci, Ri7.7.oli, Milano 2008, I, xxix, xlv, xlvi, H. 7 Si veda in particolare Kurt von Frit7., The Theory o( the Mixed Constitution in A11tiquity: A Criticai A11alysis o( Polybius Politica/ Ideas, Columbia Univcrsity Prcss, New York 1954, pp. 80-82. 8 Polibio, Storie cit., VI, 10. !1 Jvi, VI, 18. 1° Cicerone, La repubblica cit., H, xlii. 11 Charlcs Cochranc, Christia11ity and Classica/ Culture: A Study of Thought and Action (rom Augustus toAugustine, Oxford Univcrsity Prcss, New York 1944, pp. 58-59. 12 Cicerone, Pro Sestio, a cura di R. Reggiani, Mondadori, Milano 1990, XLV-XLVII, LXV-LXVI.

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mune all'interesse di ogni gruppo o individuo particolare. L'ideale ciceroniano di una repubblica ben ordinata immagina delle masse quiete e soddisfatte sotto il comando degli optimates, i quali sono in grado di preservare il loro rango, prestigio e onore. Nella Pro Sestio, Cicerone definisce questa condizione - segnata dall'assenza di conflittualità tra classi e partiti - cum dignitate otium, ossia una tranquillità pubblica che onora i meritevoli 1 3. Nel testamento indirizzato a suo figlio, il De offìciis, avverte che un governo non dovrebbe mai favorire un interesse rispetto a un altro, perché il risultano potrebbe essere distruttivo per uno Stato, producendo contese tra le parti, discordia e sedizione 14. E se il contrasto ha luogo, esso dovrebbe essere privo di rancore e animosità. L'eroico cittadino-soldato di un grande Stato non dovrebbe esprimere la passione o la rabbia del campo di battaglia negli affari domestici: la sua condotta dovrebbe essere segnata da clemenza, mitezza, garbo, cortesia, affabilità e da un tranquillo e imperturbabile stato mentale. Così l'armonia sociale, con poco o nessun conflitto, potrà essere istituita. Se l'attitudine classica verso il conflitto può essere simboleggiata dal principio ciceroniano della concordia ordinum, la posizione machiavelliana è rappresentata dalla concordia discors 1 5. Il suo concetto di conflitto sociale, con tutte le sue implicazioni, è uno dei caratteri più innovativi e ignorati della sua visione. La sua approvazione del conflitto sociale come un dato positivo è chiaramente in rapporto a clementi del suo pensiero che rompono con l'ambito classico, o ne ridimensionano la portata, esplorando nuovi concetti. In primo luogo, nonostante Machiavelli assuma il bene comune come fine dello Stato, egli ha in mente non tanto fini morali quanto la sopravvivenza, la sicurezza e la felicità dei cittadini, in una parola, l'utilità pubblica. Più ancora, egli non colloca mai lo Stato in una gerarchia cosmologica o in un ordine morale universale. Le considerazioni politiche sono distinte dai precetti morali. La politica diventa un'attività autonoma. Secondariamente,

•J)vi, XLV. ' 4 Cicerone, Deofficiis, a cura di G. Piconee R. R. Marchese, Einaudi, Torino 2019, I, xxv. 1 S Co11cordia discors è una formula utilizzata per descrivere il concetto di ordine sociale presente in Montesquieu da Sergio Cotta nel suo importante saggio L 'idée de parti da,,s la philosophie politique de Mo11tesquieu, in L. Dcsgravcs (éd.), Actes du Co11grès Mo11tesquieu, Dclmas, Bordeaux 1956, p. 2.61. La formula sembra riferibile anche all'impostazione machiavelliana.

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Machiavelli pensa che dal punto di vista psicologico l'uomo sia un insieme di desideri insaziabili che utilizza strumenti razionali. Platone e Aristotele avrebbero condiviso questa visione per quanto riguarda il comportamento attuale dell'uomo. Tuttavia, mentre essi l'avrebbero considerato un comportamento spiegabile come deviazione da ciò che è naturale e buono, Machiavelli lo considera naturale, ma non sempre buono. I desideri umani, persino l'istinto elementare di autoconservazione, diventano la base della politica e dei suoi ordinamenti: lo stato è un artificio costruito per soddisfare i desideri umani. Gli uomini desiderano sopra ogni cosa conservarsi e vivere felicemente e in sicurezza, liberi dal dominio esterno e dalla tirannia interna: uno stato ben ordinato deve essere in grado di assolvere a tali compiti. Sempre ardente repubblicano Machiavelli è uno dei primi moderni devoti alla libertà, e il suo atteggiamento libertario è strettamente connesso al riconoscimento degli effetti benefici del conflitto. Infine, il suo accento sulla politica come mezzo, come insieme di tecniche, la sua spiccata preferenza per un'azione risoluta, abile, vigorosa e repentina, in una parola un'azione racchiusa dal termine virtù, la sua condanna dell'inazione, della procrastinazione, dell'indecisione, e la sua paura della tranquillità sociale come segno di infiacchimento, indolenza e corruzione, tutto questo lo colloca nella tradizione moderna. La sua tesi secondo cui la verità è l'effetto dell'azione e non della contemplazione, così come l'idea che il saggio sia un uomo d'azione e non un quietista, è in contrasto con parte della posizione classica. La teoria machiavelliana del conflitto sociale viene formulata nei Discorsi e nelle /storie fiorentine 16 • Essa si fonda sull'idea che in ogni repubblica esistano due classi sociali fondamentali: il popolo e i grandi. La distinzione è più psicologica che economica, ed è basata sull'egoismo umano inteso come desiderio individuale di potere. Il popolo, che costituisce la grande maggioranza di ogni repubblica, è composto da coloro che desiderano non essere dominati dai pochi, e che vogliono proteggere le loro vite, le loro famiglie e le loro proprietà. I grandi sono una minoranza caratterizzata da una disordinata fame di potere e di affermazione personale, coloro che soffrono di un'eccessiva libido dominandi. Dallo scontro di questi due gruppi in una repubblica deriva-

16 Le idee di Machiavelli a proposito del conflitto sociale possono essere rintracciate nei Discorsi, I, 2-8, 16-18, 37; e nelle !storie fìorenti11e, III, 1; VII, 1.

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no le buone leggi, che rendono l'ordine e l'armonia una forma di vita. Machiavelli aderisce alla classica teoria della costituzione mista e all'idea di equilibrio, ma la sua preoccupazione è rivolta alla descrizione e all'analisi dei processi di conflitto e di lotta, che chiamano in causa le passioni e producono opposizioni, e dai quali emerge il bilanciamento costituzionale. Dal momento che egli enfatizza, piuttosto che ignorare, l'interazione tra clementi in conflitto, tra gruppi sociali in contrasto, il suo equilibrio, a differenza dei filosofi classici, non è statico o meccanico. La politica secondo Machiavelli è una dinamica, un processo dialettico che implica uno scontro tra opposti, una momentanea sintesi o equilibrio e la rottura della sintesi da parte di un nuovo conflitto, ad seriatim 1 7. Il suo modello resta sempre quello della Roma repubblicana. Roma non ebbe un legislatore come Licurgo, che stabilisse fin dall'inizio una costituzione in grado di garantire la libertà per il futuro. Fu la fortuna, la frizione tra patrizi e plebei, che colmò questa lacuna. Le innumerevoli dispute e tumulti tra le due classi furono la prima causa della libertà di Roma per trecento anni, una libertà dall'autocrazia e dal dominio straniero. Queste lotte violente, che Machiavelli elogia, furono molto più che competizioni amichevoli tra gruppi sociali rivali, stando alla descrizione di Livio, sua fonte principale. In ogni caso, l'idea che il conflitto sia salutare ha origine in Machiavelli, non in Livio. Agli scettici riguardo a tale impostazione, Machiavelli offre numerosi argomenti. In primo luogo i tumulti non condussero mai alla guerra civile, a cecidi o all'uso estensivo di esili e sanzioni. Secondariamente, la buona sorte di Roma e la sua superba organizzazione militare dipcsero in larga parte dalle buone leggi che nacquero da quel conflitto quasi permanente. E infine, i contrasti interni non furono meri inconvenienti, ma furono benefici perché cruciali per la grandezza di Roma. Ogni repubblica, di conseguenza, dovrebbe istituzionalizzare il conflitto sociale attraverso le assemblee, i processi pubblici e strumenti simili. Comunque, i conflitti produttivi esistono solamente in repubbliche sane, libere dalla corruzione. In una repubblica corrotta il conflitto degenera nella partigianeria, nella guerra civile e nell'anarchia. Il conflitto in una repubblica è salutare solo se la maggior parte dei cittadini conservano lo spirito civico e il senso del dovere, e se al momento del bisogno essi sono disposti a sacrificare il proprio interesse immediato in favore '7

Ancora un suggerimento di S. Cotta, L 'idée de parti cit.

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dell'utilità pubblica. La Roma precedente alle Guerre Puniche era certamente un esempio calzante, secondo Machiavelli, minacciata com'era da numerosi pericoli esterni. La sua sopravvivenza definì i limiti entro i quali il conflitto può funzionare in sicurezza. Al contrario, il fatto che la stessa città di Machiavelli fosse costantemente tormentata dalle fazioni e dal disordine era dovuto alla corruzione dei cittadini. Machiavelli ricava da tutto ciò un certo numero di assunzioni piuttosto radicali, importanti per il futuro della teoria politica e sociale: 1. La libertà dei cittadini dipende dal conflitto interno e non dalla competizione armoniosa. 2. Il conflitto civile è un importante barometro della salute dello Stato. 3. Una più vitale e impegnata forma di cooperazione cittadina emerge dal conflitto e dall'opposizione piuttosto che da una situazione di competizione in cui vengono valorizzate l'uniformità e l'ortodossia. 4. La politica è un processo di tipo dialettico caratterizzato dallo scontro degli opposti, dalla temporanea riconciliazione in un bilanciamento delicato, e da un necessario aggiustamento di tale equilibrio in relazione a nuove cause di conflitto. 5. Il conflitto benefico in uno Stato «sano» come Roma deve essere distinto dalla lotta delle fazioni e dall'instabilità di Stati corrotti come la Roma successiva ai Gracchi e la Firenze dei tempi di Machiavelli. In questi stati c'è una rottura della comunità, una perdita del senso civico nei confronti del dovere e della cooperazione, una ricerca universale del proprio interesse immediato. 6. Uno Stato ben ordinato dovrà stabilire una molteplicità di sbocchi istituzionali per la conflittualità.

II Se ci si chiede come sia stata recepita in Inghilterra la teoria machiavelliana del conflitto, si può rispondere che essa è stata largamente sottovalutata o ignorata. La fonte seicentesca più ovvia per scrutinare la possibile influenza della teoria del Fiorentino sono gli scritti dei «repubblicani classici» come Milton, Marvell, Harrington, Neville e Sidney 18 • Si tratta di repubblicani che veneravano l'antichità classica ,s Lo studio di riferimento è ancora Zcra S. Fink, The Classica/ Republicans: An Essay in the Rerovery ofa Pattem o(Thought in Sevente,mth-umtury Englatul, Northwcstcrn Uni-

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e in particolare la Roma repubblicana, erano ardenti fautori della costituzione mista e di un governo ben preparato in vista dell'espansione militare, se non addirittura apertamente tendente verso avventure imperialistiche. A Roma essi affiancavano poi altri modelli da emulare: l'antico regno degli Ebrei e le diverse forme istituzionali assunte dalla Venezia moderna. E, ovviamente, erano tutti seguaci devoti di Machiavelli, ritenendo i Discorsi una fonte rara di saggezza politica. Tuttavia, seppur con un'eccezione notevole, la teoria machiavelliana del conflitto sembra aver esercitato su di loro ben poca influenza. Ad esempio Harrington e Neville erano impegnati a promuovere Stati dalla natura immortale in cui l'armonia e l'ordine siano fermamente stabiliti e le contese di partito, se non eliminate, accuratamente controllate. Sebbene essi ritenessero che i partiti dovessero essere ammessi in uno Stato libero, non erano entusiasti di continue agitazioni. L'eccezione era I'enfant terrible, Algernon Sidney, secondo figlio di Robert Sidney, il secondo Conte di Leicester1 9 • Per quanto Sidney citi Machiavelli raramente nei suoi monumentali Discourses Concerning Government (1698), un'opera molto più ampia del Common-wealth of Oceana (1656) di Harrington, e scritta in un linguaggio meno adulatorio nei suoi confronti, egli sembra più vicino di Harrington allo spirito del Fiorentino 20. La sua visione della natura umana tende versity Prcss, Evanston 1962.. Si veda inoltre: Percz Zagorin, A History of Political Thought in the F.nglish Revolution, Routlcdgc, London 1954; Caroline Robbins, The EightemllhCentury Commonwealthma11: Studies i11 the Trarrsmissio11 Developme,ll ami Circumstatu:e of English Liberal Thought {rom Restoration of Charles II unti/ the War with the Thirtce,1 Colonies, Harvard Univcrsity Prcss, Cambridge 1961. Su Harrington si può fare riforimen· to all'eccellente saggio di J. G. A. Pococlc, The Ancient Constitution atul the Feudal Law; A Study of English Historical Thought in the Sevm,teenth Cetllury, Cambridge University Prcss, Cambridge 1957, pp. 12.4-147; e al suo Machiavelli, Harrington, and English Political ldeologies in the Eighteenth Century, «William and Mary Quarterly,,, 2.2., 1965, pp. 549583; e anche a Charles Blit7.cr, An lmmortal Commonwealth: The Politica/ Thought of]ames Harrington, Yale University Press, New Haven 196o. '9 Non esistono biografie adeguate di Sidney, o analisi complessive del suo pensiero politico. Per i dettagli sulla sua vita e influenza si veda l'articolo di C. H. Firth nel Dictionary of National Biography; Caroline Robbins, Algernon Sidney's Discourscs Concerning Govemment: Textbook of Revolution, «William and Mary Quarterly», 4, 1947, pp. 2.672.96. Sul suo pensiero politico si veda Z. S. Fink, The Classica/ Repub/icans cit., pp. 149· 169; C. Robbins, The Eighteenth-Century Commonwealthman cit., pp. 41-47. 10 Si è adottata l'ultima edi7.ione inglese, The Works of Algemon Sidney, London 1772.. Oltre alle numerose edizioni inglesi e americane (l'ultima del 1805), vi furono tre traduzioni in francese nel 1702., 1755, 1780, e due in tedesco, 1705, 1793. I riferimenti espliciti di Sid-

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a essere più pessimista di quella di Harrington, di conseguenza egli riconosce l'imperfezione del mondo umano e l'impossibilità di creare uno stato perfetto. Scrivere riguardo a uno stato immortale, per Sidney come per Machiavelli, significherebbe solamente accumulare delusioni. Ancora, alla luce della fragilità delle costruzioni umane, Sidney era convinto come il suo maestro che gli Stati debbano essere periodicamente rinnovati se si vuole che essi durino per un tempo considerevole e che la corruzione venga sradicata. Nel raccomandare un processo di riforma perenne egli sottolinea la necessità del conflitto come fondazione della libertà. Alla sua dottrina della riforma e del conflitto egli aggiunge l'idea del diritto di cittadinanza e della rivoluzione come dovere contro la tirannia. Più di ogni altro repubblicano classico Sidney insiste sul fondamentale egoismo dell'uomo e sulla sua imperfezione. Egli afferma che la «barbarie bestiale in cui molte nazioni, in particolare in Africa, America e Asia, vivono oggi, mostra quale sia la natura umana se non viene migliorata dall'arte e dalla disciplina •.. »2 1, e che «gli uomini sono soggetti ai vizi e alle passioni, che devono essere moderate in ogni condizione ... » 22 • Anche il migliore e più saggio tra gli uomini è limitato da una scarsa lungimiranza2 3, è incline all'errore 2 4, e di conseguenza anche le migliori creazioni umane testimoniano dcli' «umana imbecillità» 2 5. Per questo gli uomini risultano sempre e ovunque estremamente portati a corrompersi 26• Ogni istituzione umana è dunque mutevole e imperfctta2 7. Anche il miglior ordinamento politico può decadere. Tutto ciò che si può sperare è di posporre l'inevitabile degenerazione. Le relazioni tra gli stati sono il risultato delle fragilità umane e dell'egoismo che conduce al bellum omnium contra omnes. Per queste ragioni una costante preparazione ncy a Machiavelli si trovano in II, xi, p.110; xxvi, p. 2.25; xxix, p. 2.45; III, xvi, p. 350; xl, p. 479. Si vedano inoltre due passi in cui Machiavelli non è menzionato per nome: II, xxxvi, p. 459; III, xxv, p. 4o6. Questi pochi riferimenti (a confronto per esempio di Commonwealth of Oceatta di Harrington) non sono indicativi dell'enorme influenza di Machiavelli. 21 III, vii, p. 304. 22 III, xiii, p. 33 6. 23 II, xvii, p. 144. 24 III, xxv, p. 404. 2 s III, xxv, p. 405. 26 III, vi, p. 298. 27 11, xvii, pp. 144-145; xix, p. 160; III, xxxvi, p. 461.

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militare è un requisito per una vita sociale sicura 28 • Con franchezza Sidney ammette che lo Stato migliore è quello più capace di intraprendere la guerra con successo2 9. E tra tutti gli Stati le repubbliche sono le migliori perché dotano il cittadino di una più estesa libertà, il che comporta il più grande spirito di devozione al bene comune e, di conseguenza, la maggiore forza militare. Il fine dello Stato dovrebbe essere la salus populi, definita da Sidney come l'equa protezione dei diritti naturali, dati da Dio, alla vita, alla libertà, alla proprietà della terra e dei beni3°. La società civile si forma sulla base di un contratto tra gli uomini volto ad assicurare questi diritti3 1 ; il governo e la legge devono sempre osservarli, ed esservi subordinati. Il valore sociale e politico più amato da Sidney è in effetti la libertà, che comporta la garanzia della persona e della proprietà. La libertà è definita come «l'indipendenza dalla volontà altrui»3 2 • Salus populi significa, rispetto a un agente esterno, «indipendenza dalla volontà» di ogni altro Stato e, internamente, indipendenza dalla volontà di colui che governa per quanto riguarda i diritti dell'individuo, diritti che non devono tuttavia ledere il benessere della comunità. La libertà non implica quindi la licenziosità, bensì l'esenzione da ogni legge a cui l'individuo non abbia dato il suo assenso33. Se priva di limiti essa è infatti in contraddizione con il governo. Gli uomini devono sottomettersi ad alcune regole, alla legge naturale e a una legge civile che sia in armonia con la legge naturale34. La schiavitù è invece l'opposto della libertà, essendo una completa soggezione della persona e della proprietà alla volontà altrui 35. Lo scopo dell'uomo nella sua vita terrena è, di conseguenza, quello di preservare la propria libertà e di prevenire la schiavitù3 6 • Nel contesto di una società in cui i diritti di ognuno sono soggetti al bene comune, ogni individuo dovrebbe rispettare i diritti altrui. L'individuo 18

II, xxiii, p. 178. Jbid. 3° III, xvi, p. 3 s1; Il, ii, pp. 68-69; Sui diritti naturali cfr. I, viii, p. 8; xii, p. 24; xvii, p. 44; Il, iv, p. 76; xxxi, pp. 263-264; III, xvi, p. 351; xix, p. 435. 3 ' III, xvi, p. 348. 31 I, v, p. 10; III, xvi, p. 348. 33 I, iii, 3. H Il, xx, p. 163. 3S I, v, p. IO. 36 I, v, p. I I. 19

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è libero solamente in ciò che lo riguarda come tale37: può fare ciò che desidera con la sua casa, la sua terra, i suoi beni, fino al momento in cui non interferisce con il diritto di qualcun altro di fare altrettanto. Ogni violazione del dominio individuale per la preservazione dei diritti degli altri, ossia per il bene comune, deve comportare un'equa limitazione delle azioni di tutti gli individui. Quando i diritti naturali di qualcuno vengono violati senza un motivo ragionevole, l'individuo ha il diritto e il dovere di resistere all'autorità civile3 8• Ad eccezione dell'importante dottrina del diritto e della legge naturale, Sidney aderisce dunque da vicino agli insegnamenti del suo maestro fiorentino. Una differenza ulteriore riguarda la sua preferenza per i patrizi come guardiani della libertà39, mentre Machiavelli ha invece sostenuto che nella repubblica più forte, quella che riesce a espandersi, i migliori protettori della libertà sono i membri del popolo. Un insegnamento cruciale di Sidney, il nesso tra la valorizzazione della libertà e l'insistenza sul conflitto, si trova nello slogan, ripetuto spesso, per cui la libertà è «la madre e l'infermiera» della virtù, di tutte le virtù: morale, civile e militare4°. In una fiorente atmosfera di libertà repubblicana, ogni avanzamento dovrebbe essere proporzionale al contributo di ognuno alla comunità. Ogni mancanza nel servizio alla comunità comporta un suo immediato scacco41 . Di conseguenza la virtù è un risorsa popolare largamente emulata, a ogni livello di una società repubblicana. E dal momento che essa dipende dalla libertà, l'ordine e la stabilità hanno a che fare con la libertà. Così le repubbliche ben ordinate sono i governi più stabili, sebbene esse possano essere soggette a tumulti, divisioni e contrasti4 2 • Infatti il conflitto in una repubblica sana è un segno di vigore e vitalità, e non di debolezza e instabilità. La tesi di Sidney riguardo al conflitto origina logicamente dall'assioma, strettamente correlato alla sua visione pessimistica della natura umana, secondo il quale ogni società civile, non importa come sia

37 lii, 38 lii,

xli, p. 482.. iv, pp. 2.88-2.89. 39 Il, xxiv, p. 186. 40 Il, xi, pp. 110, 114, 117; xv, p. 1 33; xxi, p. 2.2.6; xxviii, p. 2.36. 4' 11, xxv, p. 2.18. 41 Il, xviii, p. 148.

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ordinata, è soggetta a turbolenze e disordini43. Questo è un semplice fatto che deve essere riconosciuto. Siamo nuovamente prossimi allo spirito di Machiavelli e piuttosto distanti dalle idee platoniche e aristoteliche. Ogni concezione di un ordinamento civile privo di conflitto è fantasia. Il conflitto è naturale nell'ordine civile così come è la norma delle relazioni umane. Per questo è necessario rendersi conto che il conflitto non è affatto il peggiore dei mali che possa affliggere uno Stato44. L'ordine sociale imposto dalla monarchia assoluta non è una «soluzione pacifica» 45 più dell'isolamento e della frammentazione di una prigione o di un cimitero. La monarchia assoluta è una condizione di schiavitù, la schiavitù del despota orientale ad esempio, produttrice di vizio e crudeltà in misura molto maggiore rispetto a un governo popolare o misto. Seguendo Machiavelli, Sidney distingue i conflitti in Stati sani rispetto ai disordini degli Stati corrotti46• Se nei secondi i tumulti e le sedizioni conducono al caos e alla guerra civile, nei primi non producono danno e possono, infatti, esser di giovamento allo Stato e rinvigorirlo. Sidney pensa alle lotte tra i patrizi e i plebei nella Roma repubblicana, che, sostiene, produssero rimedi per i mali della città, evitando spargimenti di sangue, esili e punizioni47. Il problema della successione, poi, sempre causa di dispute sanguinose sotto la monarchia assoluta, è del tutto assente in una repubblica ben ordinata48 • Una repubblica si riprende rapidamente da un dissidio e spesso migliora la sua condizione49. Ancora, ragiona Sidney, dal momento che tutte le costituzioni umane sono soggette alla corruzione, conflitti periodici come quelli avvenuti a Roma sono essenziali per la riforma dello Stato e la restaurazione dei suoi primi princìpi5°. Ma Sidney non immagina mai una costituzione originaria perfetta, immutabile cd eterna, che periodicamente debba essere recuperata. Come ogni cosa umana, le costituzioni mutano. Il mutamento costituzionale deve essere guidato verso il meglio, con cautela e saggezza,

4J Il, xxiv, p. 185. « Il, xxvi, p. 2.2.3. 4 s lbid. 46 II, xi, p. 109 47 II, xiii, pp. 12.3-12.5; xiv, p. 12.6; xviii, p. 151; xxiv, pp. 2.14-2.15. 48 Il, xxiv, pp. 185, 2.04, 2.07, 2.11, 2.14. 49 Il, xxiv, p. 2.15. 50 II, xiii, p. 12.4.

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e non lasciato al caso o al decadimento51. Sidney aveva un'idea piuttosto vaga del progresso sociale e politico, ma questa è la grande lezione di Roma, che attraverso la partecipazione del corpo cittadino, talvolta in conflitto, altre volte in armonia, fu capace di trasformare una costituzione imperfetta in un più adeguato strumento di soddisfacimento dei desideri degli uomini. Da una psicologia piuttosto pessimistica, con un'enfasi sull'egoismo, sull'imperfezione e sulla fallibilità, assieme a un'ammirazione per la Roma repubblicana, Sidney giunse a una posizione radicalmente repubblicana a proposito delle libertà dei cittadini e riguardo all'adattabilità del governo alle mutevoli condizioni storiche, attraverso lo strumento del conflitto sociale. Ovunque egli riconosce la differenza tra la partigianeria di un popolo corrotto e il conflitto di un ordine sano. Il conflitto in un ordine in salute può diventare la più efficace modalità di rafforzamento sociale e di cambiamento costituzionale, di prevenzione degli abusi sociali e costituzionali, in una parola, la garanzia di un governo limitato e progressista. E la forma ultima del conflitto, l'ultima istanza del cittadino, è la rivoluzione. Se il governo si rivela ottuso, ostinato, miope e dispotico, proibendo l'opposizione e resistendo a una diffusa domanda di cambiamento, riforma e sicurezza individuale, i cittadini sono giustificati a utilizzare la violenza per insediare nuovi governanti. Sidney perse la vita per questa convinzione.

III Montesquieu, che aveva assimilato Machiavelli e Sidney, prese a cuore ciò che lesse e osservò riguardo al conflitto inglese tra i partiti, al viavai commerciale e alle lotte per la libertà nell'austera città sul Tamigi. Il risultato fu una brillante difesa intellettuale della concordia discors. Almeno a partire dal classico Montesquieu e Machiavelli di E. Lcvi-Malvano, pubblicato a Parigi nel 1912, la grande influenza del fiorentino sul pensatore francese è pienamente attestataP·. In partis• lii, xxviii, p. 421; xxxviii, p. 469. s2. Un quarto di secolo in anticipo Paul Janct nella sua Histoire de la science politique dans ses rapports avec la morale, R Alcan, Paris 1887, Il, p. 326, faceva riferimento al grande debito verso Machiavelli contratto da Montesquieu. Per analisi recenti si veda S. Cotta, L'idée de parti cit., pp. 260-261; André Bcrtièrc, Montesquieu lecteur de Machiavel, in Actes

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colare, Levi-Malvano sottolinea l'impatto dei Discorsi sulla prima e non pubblicata dissertazione sulla politica e sulla religione romana, offrendo una comparazione dettagliata di passaggi paralleli dei Discorsi e delle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734)53. Due aspetti di questa influenza sono qui da sottolineare. Il primo deriva da un suggerimento di Robert Shackleton, secondo cui il soggiorno di Montesquieu in Inghilterra lo condusse a una visione più matura di MachiavelliH. La sua amicizia con Lord Bolingbroke e la familiarità con il «Craftsman» 55, la lettura di Thomas Gordon5 6 e la conoscenza di William Cleland, padre dell'autore delle Memoirs of a Coxcomb, gli mostrarono che Machiavelli era più dell'allievo del demonio, e che i Discorsi erano importanti per il diciottesimo secolo. Il secondo aspetto dell'influenza di Machiavelli ha invece a che fare con Sidney. Montesquieu, dopo aver letto Sidney, deve aver guardato con maggiore attenzione ad alcune idee di Machiavelli. La critica concorda sul fatto che l'autore inglese venne letto da Montesquieu57. Uno dei Pensieri deriva indubbiamente da Sidney5 8• Al du Congrès Montesquieu cit., pp. 141-158; Badreddine Kasscm, Décadenceet absolutisme dans l'oeuvre de Montesquieu, Droz-Minard, Paris-Genève 196o, pp. 196-199, 2.59; Robcrt Shackleton, Montesquieu. A Criticai Biography, Oxford University Prcss, Cambridge 1961, pp. :z.:z., 12.7, 142.-143, 152., 165, 2.65-2.69, 2.92.. Nello Spirito delle leggi, VI, 5, Montesquieu definisce Machiavelli «un grand homme». Le altre me!l7.ioni di Machiavelli da parte di Montesquieu, seguendo la lista di Bcrtière cit., p. 143, n. 3, sono: L"Esprit des Loi.s, In, 9 (passo eliminato); XXIX, 19; Pensées, 184, 1793; Spicilège, 472.-473, 487, 52.1; Lettres familières, CVI. Due volte impiega una massima machiavelliana: L'Esprit des Lois, XXI, :z.o; Pensées, 1506. Montesquieu legge Machiavelli in traduzione e anche probabilmente nell'originale. S3 La Disserlation sur la politique des Romains dans la religion fu evidentemente scritta attorno al 1716. Ettore Lcvi-Malvano, Montesquieu e Machiavelli, Champion, Paris 1912., pp. 59-96. 54 R. Shaekleton, Montesquieu eit., pp. 12.7, 142.-143, 152.. SS lvi, p. 12.7, n. 4. Shacklcton elenca i numeri del «Crafu.man» a cui Montesquieu si riferisce nel suo Spicilège: 3 1 gen. 172.'jf30; 7, :z.8 fcb. 172.'jf30; 9 mag. 1730; 13 giu. (5 set.) 1730; 31 ott. (5 cfic.) 1730; 2.1 nov. (19 clic.) 1730; :z.8 nov. (1° ago.) 1730; 9 gt:n. (:z.3 gt:n.) 173o/31. 5 6 Cfr. R. Shacklcton, Montesquieu cit., p. 2.92.. 57 Ad esempio: Joscph Dedieu, Montesquieu et la tradition politique anglaise en France: /es sources anglaises de l'" Esprit des lois ", Lccoffrc, Paris 1909, pp. 1 1, 3 14-3 :z.6; e il suo Montesquieu, l'hommeet l'oeuvre, Boivin & Cic, Paris 1943, p. 75; Hcnry Pugct, Montesquieu et l'Anglete"e, in Boris Mirkinc-Guctzcvitch (éd.), La pensée politique et constitutionnelle de Montesquieu, Recucil Sircy, Paris 1952., pp. 2.93-2.94; R. Shackleton, Montesquieu cit., pp. 2.34, :z.68, 2.70, 2.76, 2.84, 2.92.. 58 Montesquieu, Pensées, 62.6.

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suo ritorno dall'Inghilterra, Montesquieu acquistò una traduzione in tre volumi dei Discorsi di Sidney, pubblicati ali' Aia nel 1702, con l'intenzione di trarne note ed estratti in preparazione della stesura dello Spirito delle leggi. I temi machiavelliani sottolineati da Sidney sono quelli che Montesquieu fa propri: la difesa appassionata della libertà, l'odio per il dispotismo, la convinzione che l'assolutismo sia legato alla corruzione, la prescrizione della costituzione mista, una descrizione paradigmatica dei comportamenti di un popolo libero, il richiamo al ritorno ai princìpi e la necessità del conflitto interno. In ogni caso, avendo a che fare con una mente complessa e sottile come quella di Montesquieu, sarebbe semplicistico sostenere che egli ricavò la sua teoria del conflitto solamente dalla lettura di prima mano di Machiavelli e di seconda mano attraverso Sidney. Oltre alla struttura logica del suo pensiero, che avrebbe potuto comunque condurlo a una visione simile, egli era molto interessato a ciò che vedeva e leggeva riguardo alla realtà politica e sociale dell'Inghilterra. Già molto prima di visitare l'Inghilterra egli si riferiva, nella Lettera persiana 136, agli «storici d'Inghilterra, dove si vede la libertà sorgere continuamente dalle fiamme della discordia e della sedizione; il principe sempre vacillante su un trono incrollabile»59. Il linguaggio è sorprendente: queste non sono le parole che normalmente si utilizzano per descrivere la semplice competizione. Qui, all'inizio del suo percorso intellettuale, troviamo già un motivo presente nel suo pensiero maturo. Scorrendo le Considerazioni, scritte negli anni immediatamente successivi al suo ritorno da Londra, ci si può stupire di quanto l'esperienza inglese filtri nella lettura della storia romana da parte di Montesquieui;0 • Il nono capitolo, in particolare, offre una sorta di sintesi tra Roma, l'Inghilterra e Machiavelli, di prima e seconda mano. Il pieno impatto dell'esperienza inglese si trova poi in una delle parti più importanti, sebbene spesso dimenticata o trascurata, dello Spirito delle leggi, il capitolo 2 7 del libro XIX, che dovrebbe essere letto assieme al capitolo 6 del libro XI, il quale contiene la celebre esposizione della separazione dei poteri. Passando, dalle speculazioni attorno alle influenze, alla sostanza del pensiero di Montesquieu, è necessario soffermarsi sulla relazione S9 Charlcs L. dc Montesquieu, Lettere persiat1e, in Id., Tutte le opere 17u-1754, a cura di D. Felice, Bompiani, Milano 2.014, L, CXXXVI. lio Si veda l'interessante osservazione di B. Kasscm, Décadence et absolutisme cit., p. 2.04.

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tra il suo concetto di natura umana e la sua teoria del conflitto sociale. Non è sorprendente che egli ponga al centro delle sue considerazioni sulla politica lo scontro tra gli interessi e le dispute tra i partiti, in ragione di una psicologia che assegna il primato alle passioni. Esse costituiscono il principale motore della macchina umana, un aspetto chiarito nei Pensieri e nel saggio mai pubblicato sulle causé 1 : «tutti i vizi e le virtù umane», sostiene Montesquieu, «sono effetti ordinari di una certa condizione della macchina» 62• Ogni diversa costituzione del meccanismo interno all'uomo produce una differente forza delle passioni, che varia nei modi e nell'intensità da individuo a individuo. La combinazione delle passioni propria di ognuno determina l'insieme della sua vita e dà conto della grande varietà del comportamento umano. Con le sue ben note teorie del clima e dei costumi, Montesquieu riconosce la dipendenza delle regolarità e delle uniformità nei comportamenti umani dal contesto psicologico, fisico e sociale. L'ordinamento dello Stato deve fondarsi sulla comprensione della natura e della forza di queste passioni, e sul fatto che per ogni individuo l'autoconservazione è ciò che maggiormente definisce i comportamenti. Montesquieu non considera però l'amor proprio la principale fonte dell'azione sociale in senso stretto, come nel caso in cui esso possa condurre al suicidio o a un'azione caritatevole in ragione della semplice simpatia per le disgrazie altrui 63. Forse perché la sua concezione della psiche come crogiolo di forze lo porta a condannare una vita di ritiro ascetico. La vita ideale è fatta di vigore e di attività produttiva 64. Le passioni devono riuscire a esprimersi e devono essere canalizzate dall'intervento e dall'interazione delle leggi e dei costumi, in vista di un rafforzamento dell'ordinamento sociale. Le dispute interne, responsabili della libertà dei cittadini romani, non devono essere colte separatamente rispetto alle passioni che hanno condotto quegli stessi cittadini verso la conquista del mondo. 61 Charlcs L. dc Montesquieu, Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, a cura di D. Felice, ETS, Pisa 2.004. 62 lbid. 63 Charlcs L. dc Montesquieu, Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza, in Id., Tutte le opere cit., cap. Xli. 6.4 Una tra le interpretazioni più stimolanti e rivelatrici su questo punto è Hcnri Barckhauscn, Montesquieu, ses idées et ses oeuvres d'après Ics papiers de la Brède, Hachcttc, Paris 1907, pp. 18-2.4, 34-35. Si veda anche B. Kasscm, Décade,,ce et absolutisme cit., p. 2.59; S. Cotta, L'idée de parti cit., p. 2.62..

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Montesquieu sviluppa il suo breve riferimento all'importanza del conflitto nella Lettera persiana 13 6 e nella seguente apertura del capitolo ottavo delle Considerazioni: Mentre Roma conquistava il mondo, c'era fra le sue mura una guerra latente: erano fuochi come quelli dei vulcani, che fuoriescono non appena qualche materia viene ad aumentarne la fermentazionés.

Dopo aver citato l'esempio familiare dei patrizi e dei plebei, e dopo essersi riferito al governo dell'Inghilterra, egli conclude che un governo libero è sempre «soggetto alle agitazioni» 66• Nel capitolo successivo egli sostiene che l'espansionismo di Roma, e non il conflitto sociale, fu il principale fattore del suo declino. Il conflitto era inevitabile dal momento che i cittadini-soldati, così coraggiosi e vigorosi nella difesa della città dai nemici esterni, non avrebbero potuto trasformare completamente la loro condotta negli affari domestici67. Sarebbe stato eccessivo chiedere audacia in guerra e cautela in pace. In effetti, se una repubblica è caratterizzata dalla pace interna, può essere sicura che i suoi cittadini abbiano perso la loro libertà ed energia. Nello stato possono essere distinti due tipi di armonia. Il primo è quello dei romani: mentre a un certo livello le parti sono tra loro in opposizione, a un livello più alto esse cooperano per il bene comune. Come Aristotele e Polibio prima di lui, Montesquieu utilizza un'analogia con l'armonia musicale. E tuttavia egli assegna un nuovo contenuto a questa allusione, poiché il suo concetto di bene comune implica la sicurezza e la felicità dei cittadini, e la soddisfazione dei loro desideri piuttosto che il raggiungimento di un fine morale assoluto. Il secondo tipo di armonia è quello che esiste sotto il dispotismo orientale, e consiste in una quiete quasi assoluta, nella solitudine dei «corpi morti l'uno accanto all'altro» 68 • A un altro livello, tuttavia, l'analisi rivela una divisione fondamentale non solamente tra il governante e il governato, tra l'oppressore e l'oppresso, ma anche tra i singoli individui, atomizzati così come avviene in una società dispotica. A differenza di ciò che accade in una repubblica, il dissenso in 6 s Montesquieu,

Considerazionicit., p. 653.

66

lvi, p. 657

67

Cfr. con il passo di Cicerone citato sopra. Montesquieu, Considerazioni cit., p. 659.

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uno stato dispotico si rivela disastroso per il regime. Piuttosto che lavorare a riformare o cambiare una legge particolare, i dissidenti vorranno spodestare il tiranno, creando un vuoto di potere che verrà riempito da un altro despota. Quattordici anni dopo, nello Spirito delle leggi, Montesquieu passa dall'analisi dei conflitti a Roma a quelli in Inghilterra. Nel farlo egli ripete il principio secondo il quale una sana repubblica democratica prospera sul conflitto, al contrario delle repubbliche aristocratiche dell'antica Sparta e della Venezia moderna69. Quindi, nel libro diciannovesimo, analizza il conflitto tra i partiti in Inghilterra. La connessione tra questa sezione e i commenti sui conflitti a Roma può sembrare evidente, ma pochi commentatori vi hanno fatto riferimento.Tra i migliori commentari classici, né Janet né Barckhausen operano questa connessione o menzionano l'analisi presente nel magnum opus di Montesquieu. Shackleton discute entrambe, ma manca la connessione tra le due 70, e lo stesso si può dire di Courtney71 . Due commentatori in anni recenti, Cotta e Kassem, hanno posto l'attenzione sull'importante relazione tra le due analisi del conflitto7:z.. Cotta, un acuto studioso di Machiavelli, fa riferimento al nono capitolo delle Considerazioni come a «una nuova concezione della vita politica»73, procedendo esattamente in questi termini a una discussione dell'analisi del conflitto tra i partiti inglesi proposta da Montesquieu. Designando i partiti come «court» e «country», piuttosto che con i più tradizionali, ma per il periodo meno accurati, nomi di «Tory» e «Whig», Montesquieu si dimostra un acuto osservatore della vita politica inglese. Egli avvia la sua riflessione tentando di connettere la natura dei partiti inglesi alla elementare separazione tra i poteri esecutivo e legislativo, già illustrata nell'undicesimo libro. Secondo il suo interesse particolare il cittadino è libero di indicare la propria prefe69 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, in Id., Tutte le opere cit., II, 2.. 70 R. Shackleton, Montesquieu cit., pp. 2.91-2.98. 7' J. P. Courtncy, Montesquieu and Burke, Oxford University Prcss, Oxford 1963, pp. 64-66. Sebbene si riferisca all'idea di conflitto presente nelle Considerazioni in connessione con la teoria della separazione dei poteri, Raymond Aron non menziona la discussione sui partiti inglesi. Si veda il suo Main Cu"ents in Sociologica/ Thought, Basic Books, New York 1965, I, pp. :z.8-39. 72 S. Cotta, L'idée de parti cit., pp. :z.6o-:z.6:z.; B. Kasscm, Décadence et absolutisme cit., pp. :z.59, :z.73. 73 S. Cotta, L 'idée de parti cit., p. :z.60.

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renza per uno dei due poteri, schierandosi con la monarchia o con il parlamento. Le passioni hanno libero corso in Inghilterra: i due partiti, court e country, sono in lotta permanente. Quando un partito diventa troppo forte il consenso può riversarsi sull'altro. La politica inglese sembra consistere in una costante circolazione dei sostenitori da un partito ali'altro, secondo i rapporti di forza del momento. Gli individui possono essere politicamente solidali e associati un giorno, e nemici il seguente, il che significa che, sebbene la fraternità politica risulti indebolita, l'odio politico estremo viene sensibilmente ridotto. Sia il sovrano che il suddito si trovano in uno stato di perenne insicurezza. Ogni giorno il sovrano deve ottenere e condividere la fiducia da individui e gruppi che gli si opponevano il giorno precedente. I compagni politici di un individuo possono in ogni momento diventare avversari. Tutto questo produce un'inquietudine generale, ma con la conseguenza salutare che ogni individuo è estremamente attento alle proprie libertà. Una minaccia interna come la violazione di una legge fondamentale potrà far convergere il sostegno attorno al legislativo, mentre un pericolo proveniente dall'esterno potrà incrementare la forza della corte. In quella che è senza dubbio un'allusione alla Gloriosa rivoluzione, Montesquieu ritiene che, quando si hanno simultaneamente una minaccia interna e un pericolo esterno, una rivoluzione può avvenire senza alterare né la costituzione né la forma di governo. La discussione delle fazioni inglesi riveste un significato fondamentale. Montesquieu è stato il primo pensatore politico a produrre un tentativo di analisi - per quanto abbozzato - del sistema dei partiti, a collegarlo alla struttura del governo. Ancora, egli prova a spiegare la moderazione della politica inglese e la stabilità del suo governo mostrando come sia proprio il sistema dei partiti a svolgere un ruolo di integrazione, riducendo il peso dei comportamenti politici estremi. E infine egli sostiene che il libero gioco delle fazioni sia la miglior garanzia della libertà degli inglesi. La politica diventa una funzione delle passioni degli individui, per come esse si manifestano nella grande arena sociale degli interessi in conflitto. Il movimento frenetico della lotta tra i partiti tiene i cittadini in allerta, previene l'indolenza e la stagnazione sociale, e accresce la forza e la vitalità della società inglese74. 7◄ La posizione di Montesquieu sul nesso tra l'espressione delle passioni attraverso il conflitto e la vitalità dell'ordine sociale si trova tipicamente in un suo commento riguardo l'Inghilterra: «Essendovi libere tutte le passioni, l'odio, l'invidia, la gelosia, l'ardore di

IL VAI.ORE DELL'INSOCIEVOLE SOCIEVOLEZZA

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IV Quanto abbiamo qui rintracciato nel pensiero di Machiavelli, Sidney e Montesquieu è, in effetti, l'emergere di un nuovo concetto di società. Paradossalmente, si tratta di una visione della società che implica necessariamente tanto elementi di asocialità che di socialità, dal momento che l'uomo viene considerato come un essere tanto insocievole quanto socievole. L'elemento sociale è necessario agli uomini per vivere assieme; l'elemento di asocialità è cruciale, in ogni caso, se l'uomo vuole essere più di un automa irriflessivo che ripete costumi e tradizioni, un orologio rotto e malandato, come Hegel afferma da qualche parte. La civilizzazione comporta riforma e l'autocoscienza necessaria per la riforma stessa. Dunque la civilizzazione implica un conflitto perpetuo tra il vecchio e il nuovo, in una sorta di processo dialettico. Quando tale processo manca, la civilizzazione è assente. Gli uomini si affrancarono dal brodo primordiale per divenire più che sciocchi bruti privi di immaginazione nel momento in cui alcuni individui si posero in contrasto con i loro simili. Il liberalismo moderno, con tutti i suoi limiti, ha almeno lavorato per difendere il principio dell'opposizione e del conflitto, in particolare nell'ambito del pensiero, della parola e dell'associazione. Quando il principio della messa in discussione dell'autorità e dei fini comuni, e dell'opposizione a ciò che è stabilito, non viene più riconosciuto e valorizzato, lo spirito umano viene soffocato e distrutto, e la società, intesa come civiltà, deperisce. Guardando indietro all'età moderna dalla sua solitudine a Konigsberg, lmmanuel Kant riconobbe qualcosa della natura complessa della società, non da una posizione di distacco e neutralità, ma nel senso di un impegno appassionato per l'uomo: Il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro antagonismo nella società, in quanto esso divenga infine la causa di un ordine legittimo. Per antagonismo intendo qui la insocievole socievole7.za degli uomini, vale a dire la loro tendenza ad unirsi in società, che tuttavia è congiunta ad una continua resistenza, la quale minaccia continuamente di sciogliere tale

arricchirsi e di distinguersi, apparirebbero in tutta la loro estensione, e, se fosse diversamente, lo Stato sarebbe come un uomo abbattuto dalla malattia, privo di passioni perché privo di for7.c,. (Montesquieu, Lo spirito delle leggi cit., p. 1551).

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società. Nella natura umana c'è con evidenza la disposizione a tutto questo. L'uomo ha una inclinazione ad associarsi: poiché in tale stato sente in maggior misura sé stesso in quanto uomo, sente cioè lo sviluppo delle sue disposizioni naturali. Ha però anche una forte tendenza a isolarsi: perché trova in sé, allo stesso modo, la proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il proprio interesse, e perciò si aspetta resistenza da ogni lato, come sa di sé che egli, a sua volta, è inclinato a far resistenza verso gli altri. È questa resistenza che risveglia tutte le forze dell'uomo, che lo conduce così a superare la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onore, potere o ricchezza, a procurarsi un rango fra i suoi consoci, i quali non può sopportare, ma di cui anche non può fare a meno. Così si producono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell'uomo; così si sviluppa a poco a poco ogni talento [ ..• ). Senza quelle proprietà - in sé certo non proprio degne d'essere amate - dell'insocievolezza, dalla quale nasce la resistenza che ognuno deve necessariamente incontrare nelle sue pretese egoistiche, tutti i talenti rimarrebbero eternamente racchiusi nei loro germi, in un'arcadica vita pastorale di perfetta concordia, appagamento e amorevolezza: gli uomini, mansueti come le pecore che conducono al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore superiore di quello che essa ha per questo loro animale domestico7S.

I pensatori che forse hanno più contribuito a questa prospettiva nell'Europa della prima modernità sono Machiavelli, Sidney e Montesquieu. E neppure l'influente esempio dell'esperienza sociale e politica inglese può essere sottovalutato. Se il capitalismo e il comunismo burocratici contemporanei non avranno disumanizzato e distrutto l'uomo, una maggiore attenzione dovrà essere concessa alla natura del conflitto, ai modi e ai mezzi attraverso i quali la nostra vita comune può essere arricchita dal conflitto.

7S Immanucl Kant, Idee per una storia da un punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnclli, Latcrza, Roma-Bari 2.009, p. 33. Corsivo dell'autore.

Neal Wood e Machiavelli: ieri e oggi Gabriele Pcdullà

Alla periferia del terzo paradigma Non è raro leggere che negli ultimi cinquant'anni, a livello internazionale, due scuole di pensiero si siano contese l'interpretazione filosofica di Niccolò Machiavelli: i discepoli, prevalentemente americani, di Leo Strauss, e gli studiosi, prevalentemente britannici, legati alla cosiddetta scuola di Cambridge di John G.A. Pocock e Quentin Skinner. Si tratta però di una ricostruzione troppo parziale, sbilanciata sugli autori di lingua inglese, dal momento che - senza alcuna pretesa di dare vita a una interpretazione unitaria (appunto "di scuola") - una terLa linea filosofica importante si è affermata e ha prosperato negli anni Settanta e Ottanta tra Francia e Italia attorno ad alcuni autori marxisti o post-marxisti quali Claude Lefort, Louis Althusser e Toni Negri. Nel momento in cui questa stagione si sta chiudendo e nuove letture di Machiavelli vanno affermandosi sulla scena internazionale, diventa tanto più essenziale provare a raccontare in modo meno superficiale quella vicenda (un discorso a parte richiederebbe Foucault, dal momento che i suoi corsi di argomento politico degli anni Settanta e Ottanta sono stati pubblicati in forma scritta solo molto dopo, e quindi in qualche modo appartengono già alla stagione successiva). A rimanere ingiustamente ai margini di una simile tripartizione è probabilmente uno dei massimi storici novecenteschi del pensiero politico, l'americano Neal Wood (1922-2003). A Wood si devono diversi saggi importanti su Machiavelli, almeno due dei quali forieri di sviluppi nei contributi dei più giovani studiosi che si sono richiamati alla sua lezione, ma capita raramente di trovare il suo nome nelle storie della critica machiavelliana. Nonostante il valore dei suoi lavori, questa assenza si spiega facilmente non appena si tenga conto di due

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elementi. Anzitutto, Machiavelli ha occupato una poslZlone tutto sommato periferica nell'opera di Wood, il quale, dopo aver esordito con un libro di argomento iper-contemporaneo (la storia intellettuale del comunismo in Inghilterra nella prima parte del XX secolo 1 ), ha concentrato le sue ricerche soprattutto sul pensiero politico classico:z. e sul pensiero politico inglese del Cinquecento e del Seicento (con speciale attenzione all'opera di John Locke)3. I saggi su Machiavelli dimostrano una conoscenza approfondita, "dall'interno", dell'opera del fiorentino, ma sono cronologicamente concentrati in pochi anni, come se Wood avesse precocemente esaurito il suo interesse per questo autore e altre questioni avessero attratto la sua attenzione; non meno significativo è che in gran parte degli scritti su Machiavelli il nome del fiorentino venga accostato a quello di altre figure, da Sorel a Seneca, e da Algernon Sidney a Montesquieu, facendo di Machiavelli un elemento, per quanto decisivo, di una costellazione più vasta di autori. Basta fare qualche semplice conto. Dopo aver composto una lunga introduzione per una edizione (uscita nel 1965) dell'Arte della guerra, Wood pubblica, nel biennio 1967-1968, cinque saggi impegnativi su Machiavelli - saggi che, a quest'altezza della sua vita, fanno di Machiavelli l'autore da lui più studiato. Qui però il suo lavoro ha una battuta di arresto, in controtendenza con un ritorno di fiamma a livello internazionale per il Principe e i Discorsi. Nel 1969 le celebrazioni per il quinto centenario della nascita di Machiavelli diedero infatti nuovo impulso agli studi su di lui, mentre da questo momento Wood si limitò a pubblicare solo un altro saggio, nel 1972, più tre recensioni in qualche modo "strategiche" per la natura dei libri discussi4. Messi assieme, questi ' Ncal Wood, Communism and British lntellectlulls, Columbia Univcrsity Prcss, New York 1959. 2. Id., Class ldeo/ogy and A,icient Politica/ Theory: Socrates, Plato, and Aristotle in Socia/ Context, Blackwell, London 1978 (scritto con la moglie Ellcn Mciksins Wood); Id., Cicero's Socia/ a,u:l Politica/ Thought, Univcrsity of California Prcss, Berkeley 1988. 3 Id., The Politics of Locke's Phi/osophy: A Socia/ Study of «An Essay Co,iceming Human Understanding», University of California Prcss, Berkeley 1983; Id., fohn Locke and Agraria11 Capitalism, Univcrsity of California Prcss, Berkeley 1984; Id., Foundations of Politica/ Eco,iomy: Some Early Tudor Views 011 State and Society, Univcrsity of California Prcss, Berkeley 1994; Id., A Trumpet of Sedition: Politica/ Theory a,u:l the Rise of Capitalism, New York Univcrsity Prcss, New York 1997, anch'esso scritto assieme alla moglie. 4 I quattro libri recensiti da Wood in questi anni sono rispettivamente: Alfredo Bonadco, Corruption, Conf/icl, and Power in the Works ant Times of Niccolò Machiavelli,

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testi potrebbero comporre una monografia nemmeno troppo esile, ma Wood ha sempre resistito alla tentazione di raccogliere i propri scritti dispersi, al massimo lasciando che singoli suoi saggi fossero ristampati in volumi collettanei su particolari soggetti. In seguito alla morte della moglie Ellen Meiksins (1942-2016), non rimangono più molti testimoni esterni che possano integrare le scarse informazioni sul processo intellettuale che portò Wood prima a interessarsi a Machiavelli e poi ad abbandonarlo, ma è possibile lo stesso ipotizzare una risposta. Nel 1968 apparvero i diciassette volumi della International Encyclopedia of the Socia/ Sciences diretta dal celebre sociologo Robcrt K. Merton (1910-2003) e dal suo allievo Davis L. Sills (1920-2015). La lunga voce su Machiavelli che vi si legge porta la firma di Wood, e non è difficile immaginare che i saggi apparsi in quegli anni siano nati proprio dal lavoro di preparazione per quella difficile impresa (Merton e Wood erano stati colleghi per cinque anni alla Columbia, dal 1958 al 1963, anno in cui Wood decise di trasferirsi all'UCLA). Con ogni probabilità, esaurito un compito così impegnativo, Wood scelse di indirizzarsi verso altre ricerche, anche se Machiavelli non scomparve mai del tutto dal suo "radar", come dimostrano le recensioni degli anni successivi. Il secondo elemento di cui bisogna tenere conto quando si cerca di comprendere la limitata influenza dei suoi studi machiavelliani (soprattutto in Europa continentale) è la collocazione politica di Wood, il quale per tutta la vita, sino al postumo Tyranny in America: Capitalism and National Decay (Verso, London 2004), non fece mistero delle proprie idee radicali, ispirate a un marxismo libertario, al punto che nel 1966, in polemica con la guerra in Vietnam, giunse ad abbandonare l'UCLA per trasferirsi alla York University di Toronto e a prendere successivamente la cittadinanza canadese. Se gli Univcrsity of California Prcss, Berkeley 1973 (uno studio in cui Wood è spesso chiamato in causa), discusso assieme a Pctcr Bondanclla, Machiavelli and the Art of Renaissance His· tory, Waync State Univcrsity Prcss, Dctroit 1973; John G.A. Pocock, The Machiavellian Moment, Princcton Univcrsity Prcss, Princcton 1975; Harvcy C. Mansficld, Machiavelli's New Modes a,rd Orders, Univcrsity of Chicago Prcss, Chicago 1979 (di cui Wood fece una memorabile stroncatura). In precedenza Wood aveva recensito Charlcs D. Tarlton, Fortune Circle: A Biographical lnterpretation of Niccolò Machiavelli, Quadranglc Books, Chicago 1971. La bibliografia delle opere di Wood pubblicata su «History of Politica! Thought•, 2.1, 2.000, pp. 561-563, non registra le recensioni e non è escluso che qualche altro testo, disseminato in una sede minore, possa essere scoperto in futuro.

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altri interpreti machiavelliani ascrivibili alla famiglia marxista - Lefort, Althusser, Negri - trovarono facilmente un pubblico in Francia e in Europa, dove in quegli anni non esisteva una forte prevenzione anti-socialista nelle università e più in generale nella cultura, la posizione di Wood nell'accademia anglo-americana rimase sempre un poco marginale, rallentando anche la circolazione del suo pensiero nei paesi dell'Europa occidentale, dove avrebbero potuto trovare più facilmente accoglienza. Il riferimento a Marx porterà anzi Wood a teorizzare una Socia/ History of Politica/ Thought, come recita il titolo di un articolo-manifesto apparso su «Politica! Theory» del 1978, nel nome di una forma di contestualismo assai diversa da quella teorizzata in quegli stessi anni da Quentin Skinner, con la sua insistenza esclusiva sui contesti linguistici. Vale la pena citare per esteso una delle critiche di Wood, perché essa consente di mettere a fuoco - per opposizione - il tipo di storiografia filosofica da lui praticata: una storiografia tanto attenta ai contesti sociali e istituzionali, quanto disposta a proiettare gli autori su una cronologia più lunga rispetto a quanto sostenuto dai teorici della Cambridge School. [fhc] antipathy of Platonic idcalism to historical changc and causai proccss rclating past, present, and future, is rcplicatcd in onc of thc typically postmodcrn fcaturcs of thc Cambridge School. Whcn thc words of thc tcxt in historical politica! thcory are rclatcd by thc Cambridge School to practical politics and govcmmcnt, it is oftcn in an 'cpisodic' fashion, as in Skinncr's trcatmcnt of thc Aorcnrinc contcxt of Machiavclli's thought or of Hobbcs and thc Engagcmcnt Controvcrsy. Thc full swccp of history, thc intcrconncction of idcas with long-tcrm sodai, political, and economie forccs and trcnds ordinarily rcmains uncxamincd and unair praiscd. Wc are cxposcd, instcad, to thc fragmcntation and atomi7.ation of history, its brcak-up into discrete, almost sclf-containcd scgmcnts, with vcry littlc cxplanation of thcir rclarionship to what wcnt on bcforc or what was to follow. Or at lcast this is thc imprcssion oftcn convcycd to thc rcadcr. Obviously for hcuristic rcasons, it is ncccssary to scvcr thc scamlcss web of history, but thc Cambridge School oftcn fails to cxplorc how thc fragmcnt, thus isolatcd and cvaluatcd, rcsults from past circumstanccs and contributcs to future changc. Pcrhaps this csscntially statie and atomistie conccption of history is due to thc ideali stie assumptions (oftcn unconscious and unrccogni7.cd) of thc Cambridge School: its linguistic rcductionism, constant rcfcrral of tcxts to linguistic paradigms, and failurc to cmphasi7..c thc intcrconncction of idcas and thc materiai world. Admittcdly, thc thcorist undcr cxamination cannot be awarc of thc future. But this indisputablc fact docs not prcvcnt thc analyst today from bcing constantly attuncd to what comcs bcforc and aftcr a tcxt, thus carcfully situating it in thc proccss of bccoming without committing anachronism or distorting thc author's mcaning.

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The problem with the Cambridge School is that it sccms more philosophical than historical. By its fixation with language and linguisric formularions, it threatens to isolate the classic text in politica! theory from the sphere of action and practice, from the devcloping materiai world of scnsible expcriencc. A text was written to contend with real, concrete politica! and socia! problems, not simply to amend, forward, or transform reccived idcas and conccpts in an autonomous realm of idcas. The bcst antidote for the philosophical idcalism of the Cambridge School, dcspite its many valuable interprerive contriburions, is an incrcascd recognition of the materiai world of society and polirics and a greater acknowledgement that lifc is much more than language, and that polirics, historical and contemporary, involvcs much more than verbal signs5.

In una stagione crescentemcntc segnata dal così detto «linguistic turn», il progetto di una «socia( history of politica( thought» non ha trovato abbastanza seguaci cd è rimasto sostanzialmente irrealizzato\ ma negli ultimi anni il Neal Wood machiavellista ha cominciato ad attirare l'attenzione di studiosi più giovani. Alla base di questo interesse c'è anzitutto il saggio che qui si pubblica in prima traduzione italiana e che originariamente apparve sulla «Buckncll Rcvicw» nel 1968, per poi essere ristampato poco dopo in una raccolta di saggi su Machiavelli curata da Martin Flcisher (uno specialista del pensiero politico di Thomas More)?. Il titolo - The Value of Asocial

Sociability: Contributions of Machiavelli, Sidney, and Montesquieu - può trarre facilmente in inganno, lasciando credere che si tratti di un saggio sulla fortuna di Machiavelli (per di più incentrato su un autore poco conosciuto come Algcrnon Sidney, che solo negli anni successivi gli studi di Pocock, e in generale le ricerche sulla tradizione repubblicana, avrebbero riportato all'attenzione dei non specialisti della storia inglese del Seicento, indicando in lui uno dei principali 5 Ncal Wood, Reflectio,is 011 Politica/ Theory. A Voice o{ Reaso11 {rom the Past, Palgravc, New York 2.002, pp. 108-109. 6 I due volumi pubblicati presso Verso da Ellcn Mciksins Wood sul pensiero politico dalla Grecia antica all'Illuminismo dopo la morte del marito (nel 2.008 e nel 2.012.) sono tutt'al più una sgraziata caricatura della storiografia olistica teorizzata dal marito. Ibridato con la lezione di Bourdicu, il progetto di Wood è stato recentemente rilanciato in Francia da Chloé Gaboriaux e Arnault Skorniki, Ver.s u,re histoire sociale des idées politiques, Prcsscs univcrsitaircs du Scptcntrion, Villcncuvc-d' Ascq 2.017, dove si legge anche un'intervista di Jérémic Barthas e Skomiki a Skinncr, in cui lo storico del pensiero inglese è sollecitato a rispondere alle obiezioni di Wood (pp.93-110). 7 Martin Flcishcr (a cura di), Machiavelli a11d the Nature o{ Politica/ Thought, Athcnacum, New York 1972..

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continuatori della lezione dei Discorsi sopra la prima cieca di Tito Livio). In realtà, come si comprende leggendolo, il saggio di Wood offre molto di più: è il tentativo di ricostruire, nella storia del pensiero moderno, una precisa tradizione conflittualista, che - invece di lodare la concordia e l'armonia sociale - ha saputo vedere nel conflitto un elemento di forza. Per apprezzare appieno la lettura che Wood fa di Machiavelli è indispensabile però fare prima un passo indietro.

Da Lewis Coser a Neal Wood Machiavelli formula il proprio apprezzamento per i conflitti sociali che a Roma contrapposero patrizi e plebei in un capitolo dei Discorsi, il quarto del primo libro, assai valorizzato dalla recente critica machiavelliana, dopo essere stato scarsamente discusso nel corso del Novecento, quando - sulla scia di Hegel - Machiavelli era ancora letto, attraverso il Principe, anzitutto come il teorico dello Stato moderno. Pochi studiosi facevano riferimento alle pagine sulle lotte tra patrizi e plebei, e quei pochi tendevano a vedervi soprattutto un precorrimento di due tradizioni politiche affermatesi nel XIX secolo, quella liberale e quella marxista. Se, per marxisti quali Max Horkheimer, Giuliano Procacci, Agnes Heller, Louis Althusser e Josef Macek, Machiavelli era niente meno che un antesignano della lotta di classe, i pensatori liberali, soprattutto piemontesi, si richiamarono alla sua tesi soprattutto in chiave antitotalitaria, sfruttando una intuizione di Piero Gobetti nella lotta contro Mussolini (l'idea sarebbe tornata, negli anni successivi, negli scritti di Filippo Burzio, Arnaldo Momigliano, Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Alessandro Pizzorno). In tutti e due i casi, però, la radicalità del conflittualismo di Machiavelli, che vede nelle lotte sociali il vero cemento della società, veniva a cadere, dato che per i marxisti la lotta di classe era destinata a estinguersi una volta superato il capitalismo, mentre dai Discorsi i liberali traevano soprattutto l'idea che esistessero un conflitto buono e un conflitto cattivo, rispettivamente all'interno e all'esterno delle istituzioni rappresentative, di fatto condannando ogni altra forma di contesa politica. Per trovare una tradizione di pensiero in cui - prima di Wood - la tesi di Machiavelli era stata recepita in tutta la sua portata concettuale, bisogna rivolgersi alla sociologia tedesca. La tesi di Discorsi l.4 è

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ricordata infatti da Ludwig Gumplowicz (1838-1909) nella sua influente Geschichte der Staatstheorien (1905), un libro che ha lasciato tracce profonde sulla Soziologie (1908) di Georg Simmel (18581918), dove pure Machiavelli non è mai esplicitamente menzionato, per poi ricomparire, questa volta esplicitamente, nel libro di esordio del fondatore della così detta «sociologia del conflitto» 8, l'ebreo tedesco trapiantato negli Stati Uniti Lewis A. Coser (1913-2003). Il debito di Coser verso Simmel è così forte che quest'ultimo decise di organizzare The Function of Socia/ Confiict (The Free Press, New York 1956) come un commento a sedici proposizioni tratte dalla Soziologie9; non è meno importante però che Coser abbia scelto di aprire il proprio libro con una perentoria citazione dal capitolo l.4 dei Discorsi, quasi a indicare in Machiavelli, prima ancora di Simmel, il fondatore di una lettura conflittualista dei fenomeni sociali. I say tbat tbose wbo cavi! tbc disscnsions betwixt tbc Patricians and Plcbeians, cavil at tbc vcry causcs wbicb in my opinion contributcd mostto [Romc's] liberty; for wbilst tbcy objcct to tbcm as tbc sourccs of tumult and confusion, tbcy do not considcr tbc good cffccts tbcy produccd; sccming citbcr to forgct, or ncvcr to bave known, tbat in ali Commonwcaltbs, tbc vicws and disposition of tbc Nobility and Commonalty must of ncccssity be vcry widcly if not totally diffcrcnt: and tbat ali tbc laws wbicb are made in favour of liberty, bave bccn owing to tbc diffcrcncc betwixt tbcm 10• 8 Gli altri esponenti di punta della sociologia del conflitto sono considerati Ralf Dahrcndorf (192.9-2.009) e Randall Collins (1941-). 9 Ho ricostruito sinteticamente la genealogia von Gumplowicz-Simmcl-Coscr nel mio Machiavelli in Tumult: The «Discourses on Livy» a,uJ the Origi1,s of Politica/ Conflictualism, Cambridge Univcrsity Prcss, Cambridge 2.018, pp. 242.-2.44, dove però Simmel è erroneamente definito «mcntor• di Coscr, mentre il disccpolato di quest'ultimo avvenne unicamente attraverso i libri. Per le letture marxiste e liberali del conffittualismo machiavelliano si vedano invece, ivi, le pp. 244-247 e lo schema riassuntivo a p. 2.53. È grazie alla recensione di Jérémic Barthas al mio Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinatWJ e conPitto tu:i «Discorsi sopra la prima dcca di Tito Livio», Bulzoni, Roma 2.011,chc -in vista della versione inglese del libro - mi sono convinto della necessità di approfondire gli usi della tesi machia ve Iliana anche in ambito sociologico; si veda in proposito Jérémic Barthas, Machiavelli e l'istituzio11e del conflitto, «Rivista Storica Italiana», II7, 2.015, pp. 552.-566. 0 ' Si tratta della traduzione di Ellis Famcworth (1762.). Il libro di Coscr venne presto tradotto in italiano (Le fu,rzioni del conPitto sociale, Feltrinclli, Milano 1967) e successivamente in francese (Lcs fonctions du conflit socia/, PUF, Paris 1982.). Anni dopo, Cosce farà seguire al suo libro una raccolta di saggi sullo stesso tema: Co11tinuities in the Study of Socia/ Conflict, Thc Free Prcss, New York 1967; ma a quel punto, come scrisse un recensore, «Coscr's point of vicw» era ormai già ben «rcprcscntcd in cvcry graduate

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Il lavoro di Coser era il frutto di un Phd in sociologia condotto a partire dal 1951 presso la Columbia University sotto la direzione di Robert Merton - il futuro curatore della lnternational Encyclopedia of the Socia/ Sciences, in cui successivamente Wood avrebbe pubblicato la sua voce su Machiavelli. Negli anni Cinquanta Merton era già una figura di primo piano nella sociologia americana, ma, di soli due anni più anziano del suo allievo (che aveva intrapreso il suo dottorato quasi alla soglia dei quarant'anni), ne rimase profondamente influenzato, al punto di decidere di dedicare un intero anno del suo seminario alla lettura riga per riga dell'opera di Simmel avvalendosi dell'aiuto di Coser 11 • Il grande spazio che - in aperta discontinuità con la lezione del suo maestro Talcott Parsons {1902-1979) - il conflitto occupa nel funzionalismo di Merton (dalla teoria della devianza, o deviance, al concetto di tensione, o strain) può essere considerato anche un lascito delle loro conversazioni di allora 12 • dcpartmcnt» (così Picrrc L. van dcr Bcrghc su «Socia( Forccs», 46, 1968, pp. 589-590). Un poco sorprendentemente, The Functio11 o{ Socia[ Co11Pict divenne un vero bcst scllcr: secondo la testimonianza dello stesso Coscr, nel 1984 il volume aveva superato le 100.000 copie vendute. 11 Sul rapporto tra Coscr e Mcrton siamo ora bene informati grazie a un saggio di Christian Flcck, Lewis A. Coser: A Stranger Withi11 More than one Gate, «Czcch Sociologica! Rcvicw», 49, 2.013, pp. 951-968, che attinge anche al loro epistolario inedito. u Tra i sociologi vi è tuttora disaccordo sul senso e sulla profondità della evoluzione di Mcrton rispetto al suo maestro. Se per Piotr Sztompka, Mcrton potrebbe essere incluso fra i sociologi del conflitto (Robert K. Merto11: An lntellectual Profile, McMillan, London 1986), per Ruth A. Wallacc e Alison Wolf, invece, Mcrton sarebbe sostan7jalmcntc rimasto all'interno del funzionalismo di Parsons ( Co11temporary Sociologica[ Theory, Prcnticc Hall, Uppcr Saddlc Rivcr 1980). Vale la pena di citare il parere, assai informato cd equilibrato, di Coscr, per il quale Mcrton avrebbe solo «tried to softcn tbc prcvious rigidity of funcionalist thcory», senza per questo diventare necessariamente un conflittualista egli stesso: «Mcrton did ycoman's work in banishing tbc Panglossian optimism that ali was always to tbc bcst in tbc bcst of ali possiblc (funcrional) worlds. His analyses stresscd instcad tbc nccd to be awarc of basically structural sourccs of disordcr, of socio-cultural contradicrions and of divcrgcnt valucs within givcn structurcs» (Masters of Sociologica[ Thought: ldeas of Historical a11d Socia[ Context, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1977, p. 567). Nella voce su Machiavelli il linguaggio dello stesso Wood denuncia un'influcn7.a dell'approccio iperrazionalistico del funzionalisti, come in questo passo: «Any well-ordcrcd state is, according to Machiavelli, a ratio11al organization in which citizcns know with a high dcgrcc of ccrtainty thc legai conscqucnccs of thcir actions, i.e., what thcy can and cannot do with impunity. Hencc, centrai to Machiavelli's proposals for succcssful govemmcnt is a ratio1tal systcm of law that will eliminate arbitrary rulc by guarantccing legai cquality, by providing rcgularizcd proccdurcs for the rcdrcss of gricvanccs, by prohibiting rctroacrivc laws, and by cxccuting all laws vigorously and efficicntly» (corsivi miei).

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Non è necessario, credo, insistere sulla importanza di questo contesto per mettere a fuoco il saggio di W ood, che non solo era stato collega di Merton dal 1958 al 1963, ma aveva probabilmente anche conosciuto Coser, il quale, tra l'altro, nel 1960 aveva recensito in termini assai favorevoli il suo Communism and the British Intellectua/s 13 • Data l'importanza assegnata da Coser e Merton agli aspetti positivi delle lotte sociali, non è così sorprendente che Wood sia stato portato a valorizzare questo aspetto della riflessione machiavelliana. Il tema emerge già nella introduzione alla edizione dell'Arte della guerra - in realtà una vera e propria piccola monografia di quasi ottanta pagine, in cui la teoria militare di Machiavelli diventa l'occasione per trattare da questa prospettiva il suo intero progetto politico. Scrive Wood: The dvic agitations for which the Republic was noted stayed within bounds and had an invigorating rather than a debilitating effect. At least as Machiavelli views Roman history, from the time of the Tarquins to the Gracchi - a period of over four hundred years - the continuai internal conflict was never so serious as to necessitate the widespread infliction of penalties, either exile or execution, or fines against individuai citizens. Sodai conflict, he claims, never degenerateci into thc factional mcnacc to thc public welfarc that it did in many )esser states. [... ] Conflict is the basic pattern of sodai behavior. Individuals, families, and states exist in a condition of ccaseless tension and war. Civil society produces two qualitatively different kinds of conflict, corrupt and ordered. Corrupt conflict is the struggle among men for aggrandizement and domination without rcspect for the authority of law, religion, and age, and without conccrn for the common good. In the corrupt dvii society, one dominated by corrupt conflict, economie avaricc is the common mode of behavior, and sensual gratification by means of the money wrested in the socia) contcst is the common goal. Politically speaking, corruption means factionalism, violencc, conspiracy; in republics, an alternation betwcen anarchy and tyrannical rule. Ordered conflict takes piace within a framcwork of law, and is always subordinate to the common good, never erupting into violencc and civil war'-t.

La riflessione di Wood diventa particolarmente originale nelle pagine finali, dove vengono passate in rassegna la diversa razionali•J Cfr. «Amcrican Journal of Sociology», 66, 1960, pp. 99-100. Nel 1957 Coscrstcsso aveva pubblicato assieme a Irving Howc un libro sulla storia del comunismo americano: Tbc Amcrican Communist Party: A Criticai History (1919-1957), Beacon, Boston 19 57. '4 Ncal Wood, Introduction (1965) toNiccolò Machiavelli, TheArt ofWar, Da Capo, Indianapolis 1965, pp. L-LI.

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tà sociale che anima l'esercito e una repubblica, dimostrando come per Machiavelli la seconda non possa essere ricondotta alla prima. La politica ha bisogno del conflitto interno, mentre la guerra deve evitarlo e richiede l'assoluta coesione del gruppo. Cercare di riportare la razionalità sociale della repubblica a quella dell'esercito è dunque tanto impossibile quanto dannoso. Sono le righe conclusive dell'introduzione: The argument that Machiavelli's concept of the ideai army is in many respects relevant to his view of the rarional civic order should not suggest that he identifies or confuses the ci vie community with the military community. The two communiries are disrinct, yet related, although the relarion is not one of parity. Machiavelli is quite explicit that the rarional military mechanism should never be confounded with the rarional dvic mechanism. The well-ordered state should be governed by its cirizens; the army cannot be governed by its soldiers. An army is an instrument of the state, and should always be subordinate to it. (... ] Civil sodety is always much less organized, lcss rarionalized, and less disciplined than the military mechanism. The civic mechanism always will be, and always should be, less of a rarional mechanism than the army. To borrow a disrincrion made by Aristotle in his criticism of Plato's republic, an army acts in unison, while a dvii society should be a harmony. The unison of the military mechanism precludes internal conflict. Harmony in the civic community precludes neither conflict nor comperirion. Conflict in the form of an open dash of diverse interests will destroy the army. Within certain limits, such conflict is a source of strength and vigor for dvii society. These limits are a respect for authority, a desire to abide by the rules, and a consideration for the interests of others that will lead to a belief in the primacy of a common good. A conflict of interest arises from the very nature of man. It may be temporarily eliminated as in an army, or directed, contained, and urilizcd as in dvii socicty, but its tota! exrincrion is found only among the dead. Machiavelli is too much of a republican, too much of the very kind of man he is so fond of describing as "human nature," too much of an admirer of Rome, ever to believe that the dvii order should be an army'5.

Se si legge anzi la descrizione di Wood della particolare razionalità sociale che governa l'esercito si può sospettare che essa sia costruita sulla rappresentazione di Talcott Parsons dell'intera società. Lo suggerisce l'uso ossessivo del sostantivo function e dell'aggettivo fune•s lvi, pp. LXXVIII-LXXIX. Nella Soz:;iologie Simmel aveva espresso la differenza tra le due unità attraverso un paragone tra la Disputa del Sacramento di Raffaello e la Candida Rosa del Paradiso dantesco.

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tional - ripetuti costantemente assieme a rational e routinezed (altri due veri e propri termini-manifesto della scuola di Talcott Parsons}. Thc army dcpictcd by Machiavelli in The Art o(War is a suprcmcly rational mcchanism. Its {unction can be succinctly dcfìncd as military victory ovcr thc cnemy. Evcry part and activity of the military community cxist simply and solely for thc sake of this primary function assigned to thc whole. Rational cfficicncy in tcrms of thc bcst possible means to the end of victory is thc criterion by which ali arrangcmcnts and kinds of conduct are institutcd or pcrmittcd to cxist. Dircction of this community is assurcd by a hierarchy bascd upon function. At thc top thcrc is a unity of dircction in thc hands of a single individuai, and from him a regularizcd chain of command extends downward. Each pcrson in the chain is dircctly responsible to the pcrson above him for ali that goes on below him. His rights and duties are fully and clearly prescribed by the rules which govern the community as a whole, sctting forth routinized proccdures to be followcd by ali, and stipulating the punishment for their violation. Ali of this contributes to the sense of sccurity and well-being felt by tbc individuai who is a part of the system. He is able to prcdict the consequences of his activities, to know what hc can and cannot do with impunity. Rcmuneration is in proportion to the function performed. Advanccment in the hicrarchy depends upon one's ability to perform bis allotted function. It is quite possible for the individuai who fìrst enters the society at the bottom of the hierarchy to advancc to the top on the basis of persona! merit. In fact, the leading members of the hierarchy are expccted to bave passed through and gaincd expcrience in ali the lcvels below them. Sclection for membership in tbc military community is in strict accordance with rational criteria such as age, physical condition, occupation, and moral charactcr, ali with an cye toward the contribution that the individuai will be able to make. Training for the various {unctional roles is detcrmined by detailed regulations prescribing the nature and frequency of the exercises, the type of arms, equipment to be uscd, etc. The military community is dividcd into differcnt kinds of functional units, each kind identica! in composition and cquipmcnt. Opcrations of tbc community whcthcr in camp, on march, or in battlc are conductcd in a routinized, ordcrly fashion according to tbc mcthods lcarncd whilc training. If tbc military community is thc most rational of communities, its most rational aspcct, perhaps, is the encampmcnt which Machiavelli describcs in considcrablc dctail. It is a triumph of planning and {unctional cfficicncy• 6•

Se, letto in questa prospettiva, al funzionalismo di T alcott Parsons si può rimproverare di aver scambiato la società, con le sue tensioni costruttive, per una gigantesca caserma da disciplinare in 16

lvi, pp. LXXIII-LXXIV (corsivi miei).

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ogni minimo dettaglio, lo stesso errore non si può imputare invece a Machiavelli: il quale, anzi, in questo particolare contesto teorico viene a offrire un importante contributo per ripensare in maniera più dinamica il rapporto tra gli uomini. Questa intuizione dell'importanza del conflittualismo dei Discorsi, piuttosto inconsueta nelle letture del tempo di storici, filosofi e letterati, avrebbe trovato piena espressione nel saggio su Machiavelli composto per la International Encyclopedia of the Socia/ Sciences (dove la sezione sui «Social Aspects» della voce «Conflict» è firmata proprio da Coser)17. È indispensabile riportare un altro lungo estratto dal testo di W ood: Conflict is a vita! conccpt in Machiavclli's politica( thought. Hc acccptcd conflict as a univcrsal and pcrmancnt condition of socicty, stcmming from human nature. Thc traditional classica( and mcdicval vicw had bccn that socia! conflict is not a natural condition, and many classica( and mcdicval thinkcrs had tricd to design a typc of socia( organization that would eliminate contcntion. Thc conccption of socia! conflict as unnatural ran parallcl to tbc Aristotclian conccpt that mattcr at rcst is more natural than mattcr in motion. Machiavelli abandoncd tbc formcr of thcsc ancicnt modcs of thought with bis notion of tbc naturalncss of socia! conflict, although tbc lattcr was not discardcd unti! tbc ncxt ccntury with Galilco's rcvolutionary insight that tbc natural state of mattcr is motion. Thc basic manifcstation of sodai conflict, according to Machiavelli, is tbc pcrcnnial strugglc bctwccn tbc common pcoplc and tbc grcat and powcrful. Whilc this is clcarly a notion of class strugglc involving economie factors, Machiavclli's cxplanation of tbc strugglc is not couchcd in economie tcrms. Tbc primary cause of domcstic strifc and of war bctwccn statcs is, as hc saw it, a lust for powcr and domination. Within any state, tbc ovcrwhclming majority scck sccurity for thcir pcrsons and posscssions, whilc a handful, cithcr a hcrcditary aristocracy or a commerciai oligarchy, dcsirc to dominate tbc masscs. Inspircd by Polybius, Machiavelli bclicvcd that such conflict is not only natural but that it may be turncd to socially uscful cnds. Virtuous commonwcalths cxhibit this kind of conflict no lcss than do corrupt oncs. Tbc diffcrcncc !ics not in tbc presence of conflict in tbc onc and tbc abscncc in tbc othcr, or cvcn in tbc dcgrcc of conflict, but in tbc quality of conflict in cach. 17 Prima di Coscr, un altro ex·troskista, sicuramente ben noto a Wood, aveva indirettamente valori7.7.ato il conflittualismo machiavelliano: JamesBurnham (1905-1987), il quale, in The Modern Machiavellia11s: Defemlers of Freedom, aveva scritto che «freedom [ .•.] is the product of conflict and differcnces, not of unity and hannony» {Day, New York 1943, pp. 124-12.5). Burnham, già celebre per la sua analisi dei processi manageriali di burocratizzazione (The Managerial Revolution, Day, New York 1941), dopo la guerra sarebbe diventato uno dei più aggressivi intellettuali conservatori americani.

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Conflict in a virtuous commonwealth takes piace within certain bounds: it is limited by a patriotic dcdication to the common good that supersedes narrow sclf-interest, by a willingness to respcct law and authority, and by an aversion to the use of violence and nonlegal activity. Republican Rome, Machiavelli's ideai of the virtuous commonwcalth as describcd in the Discourses, exemplified this kind of limitcd conflict in that the stmggle between patricians and plebcians was institutionalizcd through the Senate and the popular assemblics with their tribunes. The very strength and unity of the republic together with the citizcns' liberties depended upon the continued contest.

Concludendo la voce, Wood non esita a esplicitare l'estrema rilevanza di questa posizione per la sociologia contemporanea, che, principalmente grazie a Coscr, proprio attorno al ruolo del conflitto nella vita delle comunità si stava in quegli anni arrovellando: Rclevant to the sodai scientific method conccms of our time are his views on the integrative function of conflict, the instrumental value of law and ideology in shaping society, the cole of conspiracy, and the politica! craft in generai. A careful study of his military image of politics may help us to perccive more readily the inadequacy of our own comparable image of the politica!.

Particolarmente significativa è l'espressione (derivata da Simmel e da Coser) «integrative function of conflict» - una formula di grande successo, che ricorre in quegli stessi anni negli scritti di parecchi sociologi 18 • Tutto questo suggerisce che il saggio del 1968 per la «Bucknell Review» sia nato da una sorta di parto gemellare con la voce di enciclopedia pubblicata lo stesso anno, come peraltro viene da pensare anche di altri dei testi di Wood pubblicati nel biennio 1967-68, e soprattutto di Some Reflections on Sorel and Machiavelli, dove torna un'ampia riflessione sulla positività del conflitto per Machiavelli e il paragone con Galileo viene sviluppato in maniera più approfondita:

18 Ad esempio Robcrt North, Howard E. Koch e Dina A. Zinncs, The Integrative Function of Con(lict, cJournal of Conflict Resolution», 4, 196o, pp. 355-374; Werner Levi, The Com:ept of 1,rtegration in Research on Peace, «Background», 9, 1965, pp.111126. li concetto di «integrative conflict rcsolution» o di «integrative conflict management• si trova usato nella letteratura sociologica e politica di quegli anni per questioni tanto diverse quanto la soluzione delle tensioni razziali, l'amministrazione scolastica e la disten· sione tra blocco sovietico e blocco americano per prevenire la guerra nucleare.

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This emphasis upon conflict represcnts a radical brcak with the classicalmcdieval tradition of politica) thought, and is distinctivcly modem. Machiavelli must be credited for fìrst assigning a positive socia! and politica! value to domestic conflict. While traditional thinkers like Plato and Aristotle had dearly recognized the existencc of conflict within the polis, they thought of it as an unnatural condition arising from the domination of the human soul by the bascr appetitcs. Sincc the nature of the soul was thought to be a harmony of parts under the rule of reason, socia! conflict represented a defcction of the psyche from nature. Conscquently, a socia! organization was recommended in which a harmony, if nota unison of parts, would replacc ali antagonisms, and in which civic education would mold healthy, harmonious human souls. This social-psychology of harmony has a parallcl in the ancient physical conccpt that matter at rest is more natural than matter in motion. During the Cinquecento both theories were challenged by two Italian thinkers. Machiavelli argued that socia! disorder and decadence cannot be solved by the climination of conflict. Conflict, so natural to man, the slave of contending desircs, will always be present in human society. Any attempt to eliminate conflict will eventuate in the destruction of man. The solution to socia! and govcrnmental instability must lie in conflict itsclf. Through propcr regulation conflict can be a strengthening, vitalizing, creative, and intcgrating socia! factor, a way of freeing man from the domination of man. Galileo performed much the same scrvicc for physics that Machiavelli carlier had rendered politics by arguing that the natural state of matter is motion instead of rcst.

Da Neal Wood a Claude Lefort Uno degli effetti della lezione di Coser è stato che negli stessi anni in cui i filosofi, gli storici del pensiero politico e gli storici continuavano a ignorare l'importanza della tesi di Discorsi I.4 - tra i sociologi (ma solo tra i sociologi) Machiavelli divenne invece il padre nobile di una concezione della società che in diverse ricostruzioni del tempo viene fatta culminare proprio nella sociologia del conflitto, esattamente come, nelle stesse opere, la concezione opposta, generalmente esemplata dalla figura di Talcott Parsons, viene ricondotta al magistero di Aristotele 1 9. Oggi che il rapporto tra sociologia e '9 Per questa idea si vedano per esempio Don Martindale, The Nature and Types of Sociologica! Theory, Routledge, London 1961, p. 142.; Thomas J. Bcmard, The Consensus-Co,,flict Debate, Columbia University Prcss, New Yok 1983. Tale appropriazione dei Discorsi da parte dei sociologi non fu sempre accompagnata da un vero confronto con il testo machiavelliano; tra le banalizzazioni più estreme va sicuramente annoverato Serge Moscovici e Willem Doisc, Co,,flictand Consensus, Sage, London 1994, pp. 58-59.

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filosofia politica sembra essersi allentato e quello tra sociologia e storia del pensiero politico totalmente dissolto, l'impiego "militante" di Machiavelli da parte degli autori più vicini a Merton può apparire persino sorprendente, ma quando si legge il saggio di Wood è indispensabile tenere invece presente il fertile scambio tra i diversi campi di ricerca, favorito anche dal progetto interdisciplinare della lnternational Encyclopedia of the Socia/ Sciences. Non si può naturalmente trascurare nemmeno l'anno di pubblicazione di quelle pagine - il 1968, come simbolo di una stagione di lotte civili e sociali. Il saggio per la «Bucknell Review» riflette però soprattutto le preoccupazioni di diversi analisti del tempo per i crescenti pericoli di un inesorabile processo di burocratizzazione, accusato di corrodere le procedure di deliberazione collettiva nel nome di una efficienza di natura tecnocratica tanto nei paesi capitalisti quanto nei paesi socialisti. Su questo punto la conclusione dello scritto di Wood è estremamente chiara: «Se il capitalismo e il comunismo burocratici contemporanei non avranno disumanizzato e distrutto l'uomo, una maggiore attenzione dovrà essere concessa alla natura del conflitto, ai modi e ai mezzi attraverso i quali la nostra vita comune può essere arricchita dal conflitto». In un simile quadro, proprio in Machiavelli, e nella prima ondata di pensatori moderni (sino a Kant e a Hegel), si poteva cercare un potente antidoto a questa tendenza disumanizzante della modernità e alla pretesa di escludere dalle decisioni i cittadini, ridotti a passivi consumatori di beni, in una sorta di riedizione distopica del sogno platonico di una città governata "razionalmente" da un manipolo di saggi- non più i re-filosofi della Repubblica, ma i sociologi alla Talcott Parsons, che negano l'importanza del conflitto. In quegli anni Wood non era peraltro il solo filosofo politico a ritenere che proprio dal conflittualismo dei Discorsi potesse venire un aiuto a pensare il presente. Più o meno in contemporanea, una lettura analoga venne proposta da Claude Lcfort (1924-2010) in quello che è certamente il più importante libro sul Machiavelli composto in francese nel corso del Novecento: Le travail de l'ceuvre Machiave/20, frutto di una tesi di dottorato discussa nel 1971 sotto la guida di Raymond Aron, dopo che alcune delle sue idee fondamentali (proprio a proposito della valutazione positiva dei conflitti data da Ma-

:1.0

C. Lcfort, Le travail de l'muvre Machiavel, Gallimard, Paris 1972..

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chiavelli) erano già state anticipate in una serie di saggi preparatori a partire dal 196021 • Marxista anti-stalinista e animatore della rivista «Socialisme ou barbarie» (1948-1967), anche Lefort si era accostato a Machiavelli con un preciso intento militante. Nella concezione conflittualista e pluralista della politica Lefort era infatti andato cercando un antidoto ai tentativi di unificare artificialmente la società (come in URSS); per riprendere la sua formulazione, i Discorsi dimostrerebbero chiaramente come il sociale non si lasci mai ridurre al politico2 2, e come ogni tentativo di pacificare i contrasti una volta per tutte (ciò che la propaganda sovietica sosteneva fosse avvenuto in Russia dopo la Rivoluzione del 1917), sia destinato all'insuccesso o si tramuti inevitabilmente in una perdita della libertà per tutti. Anche Lefort, insomma, combatteva in quegli anni una lotta bifronte, contro il capitalismo, ma anche (in nome di un socialismo libertario) contro le degenerazioni del movimento dei lavoratori nel cosiddetto blocco orientale. Se Horkheimer e i marxisti avevano indicato in Machiavelli un antesignano della lotta di classe e una tappa chiave nella storia che doveva condurre alla scoperta della dialettica, Lefort poteva apprezzare Machiavelli proprio per l'assenza di qualsiasi prospettiva sintetica nella sua opera, perché semplicemente, come insegna la dottrina umorale dei Discorsi, dal conflitto non è possibile uscire. Queste analogie con Wood sono molto importanti, poiché in quegli anni Lefort, che dopo gli studi di filosofia si era indirizzato verso la sociologia (prima in veste di assistente universitario di Gcorges Gurvitch, poi di professore), si teneva bene informato sulla produzione americana e, come ha suggerito Jérémie Barthas, era rimasto probabilmente segnato dalla lettura di Coscr 2 3. Alla luce di quanto detto nelle pagine precedenti, è dunque assai verosimile che lo stesso The Function of Socia/ Confl.ict sia tanto all'origine delle riflessioni di Wood quanto di 11 Per esempio Claudc Lcfort, Ré(lexio,rs sociologiqucs sur Machiavel et Marx, «Cahicrs intcrnationaux dc sociologie», 2.8, 196o, pp. 113-135 (in particolare, per i conflitti, pp. 12.9130, e con esplicito richiamo alla terminologia di Coscr a p. 130: «le lotte di classe si sono trasformate in un'armonia, che si è rcaliu.ata - come si direbbe oggi - in una intcgra7ionc dei conflitti»). Su Lcfort e Machiavelli si veda ora anche Mattia Di Picrro, L'csperie,n:a del mondo: Claude Lefort e la fenome11ologia del politico, ETS, Pisa 2020, pp. 169-2.38. 11 Queste intuizioni di Lcfort hanno lasciato una traccia profonda anche nei primi lavori di Roberto Esposito, e soprattutto ne La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Liguori, Napoli 1983. 13 J. Barthas, Machiavelli e l'istituzione del conflitto cit.

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quelle di Lefort (anche se nessuno dei due lo menziona mai nelle rispettive monografie). Ma, stando alla cronologia delle pubblicazioni, non è impossibile ipotizzare anche una diretta influenza di Wood su Lefort, probabilmente più attraverso la voce su Machiavelli della International Encyclopedia of the Socia/ Sciences che attraverso il saggio per la (poco diffusa in Europa) «Bucknell Review» 2 4. Solo lo studio dei manoscritti e dei postillati di Lefort potrà eventualmente dimostrare, accanto a Coser, un influsso di Wood su Le travail de l'reuvre Machiavel. Quello che però sembra indiscutibile è il coagularsi di una serie di spunti diversi in una tradizione interpretativa bicefala (americana e francese) dell'opera di Machiavelli: il recupero americano della lezione di Simmel (un autore spesso liquidato troppo frettolosamente dai filosofi tedeschi della generazione a lui successiva, come Siegfried Kracauer, Walter Benjamin e Theodor Wiesengrund Adorno), l'apporto della tradizione trotskista (cui tanto Coser quanto Lefort erano stati legati), i nuovi conflitti sociali dei primi anni Sessanta. Di certo, in un periodo in cui era soprattutto Parigi a "dare le carte" nel dibattito filosofico e teorico internazionale, è interessante che in questo caso il rilancio del conflittualismo della Soziologie sia passato invece per New York (probabilmente un effetto della centralità che la sociologia statunitense aveva ampiamente conseguito nel dibattito internazionale a partire dagli anni Cinquanta) 2 5. Dopo questa convergenza nel nome di Machiavelli, nei decenni successivi, la ricerca di un socialismo libertario avrà esiti differenti nei due autori. Anche in polemica con un Parti Communiste Français sempre più arroccato su posizioni vetero-staliniste, Lefort si allontanerà progressivamente dalla tradizione marxista per farsi il portavoce di un radicalismo democratico ostile in primo luogo verso il tota24 Probabilmente Wood ha influcn7.ato anche la lettura di Machiavelli offerta dal teorico politico laburista Bcrnard Crick nella sua prefazione a una edizione dei Discorsi ( 1971 ), anche se Crick aveva già manifestato la propria preoccupu.ionc per la pretesa della scienza e della sociologia di sostituirsi alla politica in In Defense of Politics, Univcrsity of Chicago Prcss, Chicago 1962.. 2.s Negli stessi anni Lcfort non fu l'unico filosofo francese a confrontarsi con la sociologia del conflitto. Si veda per esempio Paul Rica:ur, Le conflit: signe de cotùradiction ou d'unité?, in AA.W., Contradictions et conflits: Naissance d'une société?, Chroniquc sociale dc France, Lyon 1971, pp. 189-12.0; tr. it. di M. Pagan, Il conflitto: segno di contraddivo,re odi u,lità.?, in M. Di Picrro, F. Marchesi, E. Zaru (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica 2, Istituzione. Filosofia, politica, storia, Quodlibct, Macerata 2.02.0, pp. 2. 5 5-2.77.

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litarismo sovietico (soprattutto dopo la lettura di Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzcnicyn). Wood, invece, in assenza di una sinistra intellettuale filosovietica come quella francese (tanto in Canada prima, quanto in Inghilterra poi), non smetterà di indirizzare i propri strali soprattutto contro i tratti violenti e antidemocratici del capitalismo, sino al postumo Tyranny in America (Verso, London 2004) 26• Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, però, in nome di una polemica congiunta contro i processi di burocratizzazione (e depoliticizzazione) in atto, secondo Wood e Lcfort, tanto nelle democrazie occidentali quanto negli stati del blocco sovietico, Machiavelli si trovò a svolgere per loro una funzione analoga, aiutandoli a denunciare il tradimento del progetto di liberazione della modernità filosofica all'interno della stessa modernità2 7. Nel segno di Coscr.

Confl.itti benefici e politica estera: il «teorema di Sallustio». Un discorso su The Value of Asocial Sociability non può essere davvero completo senza menzionare l'altro grande saggio machiavelliano di Neal Wood. Lo si è lasciato sinora ai margini del discorso solo perché appartiene a un'altra stagione della sua vita e perché, nonostante Machiavelli vi occupi un posto importante, il fiorentino costituisce soltanto uno dei tasselli fondamentali del ragionamento di Wood: Sallust's Theorem: A comment on «fear» in Western Politica/ Thought, apparso nel 1995 su «History of Politica! Thought». Si tratta di una riflessione sulla teoria sallustiana del metus hostilis, vale a dire sull'idea che la repubblica romana si mantenne virtuosa solo

zii Come studioso, e specialmente come teorico di una "Socia! History of Politica! Thought", Wood non sarà solo un interprete di Machiavelli, ma anche, in qualche modo, un suo "continuatore", mettendo sempre i conflitti conacti al centro delle sue analisi dei testi filosofici non meno che dei pamphlet militanti. Per esempio, nell'idea che la prima delle «conditions favouring politica! thcory• siano «politica! conflict and socia! turmoil• si avverte una sfumatura persino più machiavelliana che marxista (N. Wood, Reflections cit, p. 45). Sugli usi di Machiavelli da parte di Lcforte Wood si veda G. Pcdullà, Machiavelli in Tumu/tcit, pp. 247-249. 27 Un'altra differcn1.a tra Wood e Lcfort va ravvisata nella valutazione opposta di Hcgcl: mentre per Lcfort, anti-hcgcliano perché anti-stalinista, Machiavelli costituisce un'alternativa al filosofo tedesco, per Wood Hcgcl, con il suo conflittualismo, può essere visto come il coronamento della modernità inaugurata dai Discorsi. Questa diversa lettura presuppone naturalmente un Hegcl (e un Marx) scn1.a alcun approdo sintetico.

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fino a quando la minaccia esterna di Cartagine trattenne la classe dirigente dal perseguire fini egoistici. L'argomento di Sallustio era ben noto agli storici della letteratura latina 2 8, ma prima di Wood, che nel suo saggio segue l'influenza della sua ipotesi su Machiavelli, Bodin e Hobbcs, nessun teorico politico ne aveva fatto il soggetto di un intero saggio. In questo caso le pagine di Wood non sono sempre ineccepibili nell'analisi dell'opera di Machiavelli (al punto che non vengono menzionati i due capitoli dei Discorsi dove il debito verso la teoria del metus hostilis è più profondo2 9), ma hanno avuto il grande merito di richiamare l'attenzione su questa tradizione di pensiero3°. Per il lettore di The Value of Asocial Sociability, il nuovo saggio su Sallustio è particolarmente importante soprattutto perché mette in luce la natura profondamente dialettica di tutta la riflessione di Wood. Da un lato, nel saggio del 1968, Wood ha mostrato come una intera tradizione politica, inaugurata da Machiavelli, abbia saputo vedere nelle lotte sociali uno strumento di coesione e forza e non di semplice disgregazione; dall'altro, nel saggio del 1995, ha trovato in un'altra tradizione politica, inaugurata da Sallustio ma tra i moderni rilanciata sempre da Machiavelli, l'intuizione che una minaccia esterna può produrre degli effetti simili. Chiaramente i due conflitti funzionano da "stabilizzatori" in maniera molto diversa, ma comune alla base di entrambi i ragionamenti è l'idea che la concordia, o una forma di concordia superiore, sia il prodotto di un conflitto, senza il quale solo un'armonia superficiale può essere conseguita. 111 Martin Gclzcr, Nausicas Widerspruch gegeti die Zerstrarung Karthagos (1931; in Id., KleineSchri{ten, Steiner, Stuttgart 1963, voi. Il, pp. 39"72;Harald Fuehs, Der Priedeals Gefahr, «Harvard Studics in Classica! Philology», 63, 1958, pp. 365-385; Giorgio Bonamente, 11 «metus punicus» e la decaden:tll di Roma in Sallustio, Agostino ed Orosio, «Giornale italiano di filologia», 27, 1975, pp. 137-169; Heinz Bcllen, Metus Gallicus, metus Punicus, Stciner, Stuttgart 1985. Successivamente al saggio di Wood si veda almeno: Ilaria Ramclli, La dialettica tra guerra esterna e guerra civile da Siracusa a Roma, in Marta Sordi (a cura di), 11 pensiero sulla guerra nel mondo antico, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 45-63. 2.9 Si tratta dei capitoli I.i 8 e III. 16 dei Discorsi. Wood fa invece riferimento ai capitoli 11.25 e 111.12 e ali' Arte della guerra. 30 Daniel Kapust, Ancient Uses ofPolitica[ Fear and its Modem Implications, «Journal of tbc History of ldcas», LXIX, 2008, pp. 353-373; loannis D. Evrigcnis, Fear of Enemies and Collective Action, Cambridge Univcrsity Prcss, Cambridge 2009. lo stesso, a mia volta, ho cercato di rileggere la posizione di Machiavelli sugli effetti positivi delle minacce esterne collocandola nel contesto della sfortuna umanistica della teoria sallustiana del metus hostilis in Machiavelli in Tumult cit., pp. 84-116.

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Per quanto siano passati quasi trent'anni tra The Value of Asocial Sociability e The Sallust's Theorem, non si può non notare come l'intuizione su cui si regge quest'ultimo sia presente anche nell'introduzione alla sua edizione dcli'Arte della guerra, dove si legge infatti: Corruption appears in an ovcrly succcssful socicty whosc collcctivc cfforts no longcr bave to be conccntratcd for tbc sakc of survival upon a particular aim, for cxamplc, tbc rcsisting and taming of nature, constant vigilancc against a potential external threat, continuai active struggle with an enemy, or a program of military aggrandizcment. Tbc conquest of nature, tbc removal of tbc potential cxtcrnal threat, tbc dcstruction of a traditional cncmy, or tbc consummation of military policy by conqucring all thcrc is to conqucr, causes a peoplc to relax their effort, to seek to live tbc luxurious !ife, to become soft and self-sceking3'.

Alla luce di questa idea, nelle pagine di Wood viene a stabilirsi un rapporto strettissimo tra politica estera e politica interna. Si tratta infatti di uno dei tratti probabilmente cruciali della riflessione machiavelliana, ma anche di uno dei più difficili (potenzialmente) da metabolizzare nella storiografia, dove i pensatori più disposti ad apprezzare il conflittualismo dei Discorsi sono spesso restii a riconoscere l'apprezzamento di Machiavelli per l'espansionismo romano3 2 • Dalla sua edizione dcli' Arte della guerra, nel 1965, Wood è sempre invece stato interessato al modo in cui tecniche militari e tecniche politiche sono venute a incrociarsi nell'opera di Machiavelli, indicando negli Strategema'ta di Frontino uno dei modelli del suo metodo (Frontinus as a possible source for Machiavelli's method, 1967) e accostandolo a Sorci per la comune tendenza ad adottare un lessico militare per la politica interna (Some reflections on Sorel and Machiavelli, 1968), sino alla voce redatta per la lnternational Encyclopedia of the Socia/ Sciences, dove si legge: Sincc be[= Machiavelli] vicwed domestic politics as a kind of warfare and dealt with political matters as a generai might deal with tbc problem of defeating an cncmy, it is not surprising that be wrotc about politics as classical military theorists wrote about war. Military stratagcms are translatcd into politica! maxims of tbc same calculating objectivity, and a rationally organized and commandcd army serves as a model of a rational social organization.

31 3~

N. Wood, lntroduction cit. p. rn. John P. McCormick, Democrazia machiavelliana

115-154.

(2.011},

Viclla, Roma

2.02.0,

pp.

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Most politica! situations, Machiavelli believed, are conspiratorial or counterconspiratorial, and conspiracy is primarily of a military character. The politica! art is akin to the military art with its premium upon secrecy, planning and preparedness, estimation of factors, flexibility, rapidity and decisiveness of execution, surprise, and deception. These qualities characteri:zc the conspiratorial methods necessary for founding or radically reforming a state and the counterconspiratorial methods required for maintaining a state (since conspiracy must be prevented by avoiding the hatred and contempt of the governed). Prior to Machiavelli, only military theorists had dealt in detail with the problems of conspiracy; in the Discourses (see IIl.6), he formulated the West's first generai theory of politica! conspiracy. Not only did Machiavelli liken politica! situations to military ones and the art of politics to the military art, but he also considered politica! and military leadership to be similar. Politica! leadership resembles the creative activity of the generai who organi:zcs, disciplines, trains, and leads an army to victory. That virtù is the cardinal quality of politica! leadership as well as of successful generalship is significant. The politica! virtuoso is rational, calculating, and eminently self-controlled, plays many roles with aplomb, and is prudent enough to identify his own interest with the well-being of those he seeks to manage. Machiavelli's heroes are the ancient founders and the soldier-statesmen of the Roman Republic.

Rispetto a questa ricostruzione, il saggio del 1995 compie però un ulteriore passo avanti. Se per Wood «Sallust's Theorem (... ] is the typical response of the skilled military commander to the problem of peace and its effect upon soldiers who were no longcr risking their lives in battle»33, ai suoi occhi risulta soprattutto importante che Machiavelli, Bodin e Hobbes ne abbiano tratto la lezione che quella stessa paura esterna che ha reso i romani virtuosi possa e debba essere prodotta all'interno dello stato 34 • Prolungando il suo ragionamento, e incrociandolo magari con le riflessioni di Nicole Loraux sulla tendenza dei pensatori greci e in generale classici a rappresentare la città felice come in pace con sé stessa e in guerra con gli altri35, si potrebbe dire che, attraverso questa adozione di un vocabolario militare, i pensatori della prima modernità siano giunti per Wood a mettere in crisi la netta scpa33 Ncal Wood, Sa/lust's Theorem: A Comment 011 «fear» i11 Westeni Politica/ Thought, «History of Political Thought», 16, 1995, p. 18:1.. 34 Nel mio Machiavelli i11 T umu/t ho parlato in proposito di metus civi/is (alle pp. 1 1 1 e II5-II6). 3S Nicole Loraux, La città divisa (1997), Neri Pozza, Vicenza 2.005, introduzione di Gabriele Pcdullà (anche questa un'opera molto influen7.ata da Lefort).

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razione tra politica interna e politica esterna tipica degli autori antichi, non solo mostrando il loro intrecciarsi, ma i tratti che le accomunano. Un altro elemento di rottura con la teoria greco-romana (e umanistica): e anche in questo caso nel nome del conflitto.

Neal Wood oggi The Value of Asocial Sociability merita di essere considerato uno dei saggi su Machiavelli più originali del XX secolo. Questo non vuol dire naturalmente che le idee in esso espresse siano oggi del tutto condivisibili: a distanza di oltre cinquant'anni la posizione di Wood non va solo storicizzata, ma richiede di essere anche integrata e in parte corretta, senza che questo diminuisca il suo valore. Alla luce delle conoscenze attuali, la ricostruzione di Wood appare soprattutto carente dal punto di vista storico. Oggi sappiamo infatti che la tesi di Machiavelli sulla positività dei conflitti sociali ha preso forma da una originale lettura delle Antiquitates dello storico greco Dionigi di Alicarnasso e che essa ha goduto di grande fortuna in età moderna, ma pure che le stesse pagine sono state usate a fini molto diversi a seconda del momento storico e dell'identità di coloro che a esse si sono richiamati. C'è stata una fase barocca, in cui i pensatori politici hanno visto nella perenne competizione tra popolo e aristocrazia uno strumento del principe per governare meglio i propri sudditi (Virgilio Malvezzi, Diego de Saavedra Fajardo, Joachim Pastorius ... ); una fase anti-tirannica, in cui Machiavelli, soprattutto al tempo della Rivoluzione Inglese, è stato apprezzato come teorico del diritto di resistenza (Marchamont Needham, John Milton, Algernon Sidney, John Adams ... ); una fase, in cui ai Discorsi si è chiesta la legittimazione di un'opposizione costituzionale, fedele al sovrano pur nel dissenso in parlamento verso la maggioranza di governo (Lord Halifax, John Trenchard, Thomas Gordon, Montesquieu ... ); e una fase radicale, in cui l'esempio di Roma è stato usato per dimostrare come, in assenza di conflitto, gli stati scivolino inevitabilmente nel dispotismo (Walter Moyle, Adam Ferguson, Jean-Jacqucs Rousseau, Vittorio Alfieri, Mably ... ). Rispetto a Wood, il quadro si è insomma enormemente popolato, ma sono emerse soprattutto differenze non trascurabili tra i vari autori, con il risultato che un'unica linea di

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pensiero Machiavelli-Sidney-Montesquieu-Kant-Hegel appare oggi storicamente insostenibile3 6• L'altro elemento di debolezza della lettura di W ood è sicuramente l'idea che in Machiavelli il dato economico giochi un ruolo tutto sommato marginale nel conflitto, che si ridurrebbe a un mero «lust for power». Studi recenti hanno invece evidenziato l'importanza di questo elemento delle lotte tra patrizi e plebei nella ricostruzione dei Discorsi e la centralità della lotta per la «roba» nelle /storie fiorentine3 7 • Grazie a una serie di importanti studi di Jérémie Barthas, l'economia è apparsa anzi al centro delle preoccupazioni di Machiavelli (seppure in maniera non esplicita): nella critica della liberalità principesca3 8, nel rifiuto delle armate mercenarie e nella lotta contro l'oligarchia finanziaria fiorentina 39 , nella riflessione sulle colonie, nell'apprezzamento per i riformatori spartani Agide e Cleomene4°, e così via. Wood inscrive 36 Ho cercato di ricostruire questa vicenda plurisecolare in Machiavelli in Tumult cit., pp. :z.:z.7·:z.40; per il ruolo decisivo di Dionigi si veda invece alle pp. 181-:z.19 e Gabriele Pcdullà, Giro d'Europa. Le mille vite di Dionigi di Alicamasso {XV-XIX secolo), introduzione a Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma antica, a cura di Francesco Donadi e Gabriele Pcdullà, Einaudi, Torino 2.010, pp. LIX-CLIX. 37 Sulle lotte sociali delle /storie fiorentine hanno insistito soprattutto Toni Negri, I/ potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (199:z.), manifcstolibri, Roma :z.oo:z. e Filippo Del Lucchese, Crisis and Power. Economics, Politics, and Conflict in Machiavelli's Politica/ Thought, «History of Polirical Thought», 30, 2.009, pp. 75-96. Si veda ora anche Fabio Raimondi, L'ordinamento della libertà. Machiavelli a Firenze, ombre corte, Verona 2.013. 3 8 Jérémic Barthas, Un lapsus machiavelien: «Tenuto»l«temuto» dans le chapitre XVI du "Prince", in Machtclt lsrai:Hs e Louis A. Waldman (a cura di), Re11aissance Studies in Honor of Joseph Connors, Villa i Tatti, Fircn7.c :z.013, voi. II, pp. 83-90; Id., Libéralité, Obligation, Fiscalité: Sens et portée de la synthèse machiavélienne, in Éléonorc Le Jalléc e Fiona Mclntosh (a cura di), Libéral, Libéralité, Libéralisme: Histoire et enjeux d'un (non-) lieti, Champion, Paris :z.o 18, pp. 97- 11 1. 39 Id., «L'arge,,t n'est pas le ,ierf de la guerre». Essai sur une prétendue erreur de Machiavel, Collccrion dc l'&:olc françaisc dc Romc, Romc :z.011; Id., Machiavelli, Public debt, and the Origins of Politica/ Economy, in Filippo Del Lucchese, Fabio Frosini e Vittorio Morfino (a cura di), The Radical Machiavelli, Brill, Lcidcn 2015, pp. 273-305; Id., Machiavelli, the Republic, and the Financial Crisis, in David Johnston, Nadia Urbinati e Camila Vergara {a cura di), Liberty a,td Conflict: Machiavelli on Politics and Power, Univcrsity of Chicago Prcss, Chicago 2017, pp. 257-279. Su questo punto si veda adesso anche Francesco Marchesi, Machiavelli e la crisi finanziaria del Cinquecento, «Il pensiero economico italiano», 23, 2015, pp. n-22.; Id., Cartografia politica. Spazi e soggetti del conflitto in Niccolò Machiavelli, Olschki, Firenze 2018, pp. 27-58. 4° Giorgio Cadoni, Machiavelli e i rifonnatori di Sparta, in Id., Crisi della mediadone politica e conflitti sociali, Jouvcncc, Roma 1994, pp. 277-294.; J. Barthas, L'argent cit., pp. 372-386;John P. McCormick, O(Tribunes andTyrants: Machiavelli's Legai and Extra-

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invece le sue considerazioni originali in un'idea ancora molto tradizionale del rapporto che ci sarebbe tra economia e politica/guerra nell'opera di Machiavelli - un'idea che qualche anno più tardi sarà ribadita anche nella sua monografia su Cicerone, dove si legge appunto che l'oratore romano «goes beyond Machiavelli in bis concern over questions of economie policy in politics»4 1 • Beninteso, Wood non sostiene che i confitti di cui parla Machiavelli non abbiano una dimensione economica, ma piuttosto che Machiavelli tende a inquadrarli principalmente attraverso delle caratterizzazioni degli attori politici eminentemente psicologiche (come si evince da un passaggio della voce per la Encyclopedia: «This is clearly a notion of class struggle involving economie factors» ). Questo dettaglio è molto importante, perché mette in chiaro che la posizione di Wood non può essere assimilata all'interpretazione di quanti, negli ultimi anni, si sono richiamati ai Discorsi per proporre una forma di «agonistic liberalism»42 • Non per niente nel saggio per la «Bucknell Review» il conflitto benefico di Machiavelli viene opposto in maniera netta tanto al pericoloso «factionalism» (vale a dire una «universal pursuit of narrow self-interest» ), quanto alla «harmonic competition», ossia a una «situation of competition in which conformity and orthodoxy are stressed», che descrive uno scontro condotto secondo le regole predefinite dai gruppi dominanti, dove non c'è modo di influire in maniera sostanziale sulle diseguaglianze economiche. Il conflittualismo di Machiavelli non è invece così timido: e Neal Wood lo ha compreso molto bene anche nel momento in cui ha seguito l'influsso della sua lezione in autori notoriamente meno sensibili alla "questione sociale", quali Sidney e Montesquieu. Come talvolta succede ai testi davvero importanti, dopo una lunga fase egemonizzata metodologicamente dall'approccio idealistico della scuola di Cambridge (un approccio che, sul piano ideologico, Legai Modes (or Co11trolling Elites, «Ratio luris», 28, 2015, pp. 252-266; G. Pedullà, Machiavelli i11 Tumultcit., pp. 78-83. •• N. Wood, Cicero's Social cit., p. 177. .µ James Gray, E11lightenme11t's Wake, Routledge, London 1995; Stuart Hampshire, Justice is Co11flict, Princcton University Press, Princcton 1999; Chantal Mouffe, The Democratic Paradox, Verso, London 2000, pp. 102-103; Serge Audier, Co11flit et liberté, Vrin, Paris 2005, pp. 286-290. Con la loro giuridici7.7.azione e parlamcntarizzazione del conflitto, i teorici liberali e neo-repubblicani ripropongono una interpretazione della tesi di Discorsi l.4 non molto diversa da quella promossa in Inghilterra tra fine Seicento e inizio Settecento da Halifax, Trenchard, Gordon e, in Francia, almeno in parte, da Montesquieu.

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corrisponde alle simpatie elitistiche dei suoi esponenti43 ), è stato necessario un diverso contesto intellettuale e politico affinché i saggi machiavelliani di Neal Wood trovassero le loro condizioni di leggibilità e cominciassero a ricevere l'attenzione che meritano e che forse non trovarono interamente nemmeno al tempo della loro prima pubblicazione. Il momento sembra propizio. E ora c'è solo da augurarsi che la traduzione in italiano del più importante tra essi contribuisca a rimettere al centro della ricerca storica e della riflessione teorica su Machiavelli alcune delle intuizioni di Wood. Bibliografia degli scritti di Neal Wood su Machiavelli fotroduction to Niccolò Machiavelli, The Art of War, Da Capo, Indianapolis 1965, pp.

IX-LXXXIII. FrontittuS as a possible source {or Machiave/li's method, «Joumal of thc History of Idcas», 27, 1967, pp. 243-248. Machiavelli's concept o{Virtù reconsidered, «Political Studics», 15, 1967, pp. 159-172. Some reflections on Sorel and Machiavelli, «Political Scicncc Quartcrly», 83, 1968, pp. 76-91. Some common aspects of the thought of Seneca and Machiavelli, «Rcnaissancc Quartcrly», 21, 1968, pp. 11-23. The value of asocial sociability: Contributions of Machiavelli, Sidney, and Montesquieu, «Thc Buckncll Rcvicw•, 16, 1968, pp. 1-22. Machiavelli, Niccolò, in David L. Sills e Robcrt K. Mcrton (a cura di), Intenzational Encyclopedia of the Socia/ Scie11ees, McMillan and Thc Free Prcss, New York 1968, voi. IX, pp. 505-511. Rcvicw of Charlcs D. Tarlton, Fortune Circle: A Biographical lnterpretation of Niccolò Machiavelli, «Thc Amcrican Historical Rcvicw•, 76, 1971, p. 794. Machiavelli's huma,usm of actio11, in Antony Parei (cd.), The Politica/ Calculus: Essays on Machiavelli's Philosophy, Univcrsity of Toronto Prcss, Toronto 1972, pp. 33-58. Rcvicw of Alfredo Bonadco, Corruption, Co,rflict, a,ui Power in the Works ant Times of Niccolò Machiavelli, and Pctcr Bondanclla, Machiavelli a,ui the Art of Renaissa1,ce History, «Amcrican Historical Rcvicw», 80, 1975, pp. 683-684. Rcvicw of John G.A. Pocock, The Machiavellian Moment: F/ore,1tine Politica/ Thought and the Atlantic Republican Tradition, «Political Thcory•, 4, 1976, pp. 101-104. Ma,,sfield on Machiavelli, «Philosophy of Social Scicncc», 15, 1985, pp. 45-52. Sa/lust's Theorem: A comment on «fear» in Westen, politica/ thought, «History of Politica! Thought», 16, 1995, pp. 174-189.

43 John P. McConnick, Readit1g Machiavelli: Scandalous Books, Suspect Engagements, atui the Virtue of Popu/ist Politics, Princcton Univcrsity Prcss, Princcton 2018. Come ha notato Nadia Urbinati, storicamente il repubblicanesimo ha sempre condotto una doppia battaglia: contro il dispotismo, ma anche contro la dcmocra7.ia: si vedano in proposito Nadia Urbinati, Unpolitical Democracy, «Political Theory», 3 8, 201 o, pp. 65-92.; Ead., Competing {or Liberty: The Repuhlican Critique of Democracy, «The American Political Scicncc Revicw», 106, 2012, pp. 6o7-621.