Ragione umana e forma del mondo. Saggi su Kant 9788855293556, 9788855293563

La strada seguita dalla critica kantiana da un lato tende a fornire le condizioni e i limiti in cui l’esercizio della fa

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Ragione umana e forma del mondo. Saggi su Kant
 9788855293556, 9788855293563

Table of contents :
Avvertenza
Sigle
Introduzione
Il tribunale della ragion pura e i suoi gradi di giudizio
Antropologia da un punto di vista critico
Antropologia come
La specie umana dal punto di vista cosmopolitico
Diritto cosmopolitico e ragione umana
Filosofia in senso cosmico e destinazione dell’uomo
Bibliografia
Indice

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Angelo Cicatello Ragione umana e forma del mondo Saggi su Kant

Passages

Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza

Passages | 16

Angelo Cicatello Ragione umana e forma del mondo Saggi su Kant

Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 16 - gennaio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-355-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-356-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Sketch and real mix urban cityscape scene, development and real estate business concept, mixed media. © jamesteohart – stock.adobe.com

A mio figlio Tommaso e alla sua passione per Eddie Van Halen

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Avvertenza

Il libro nella sua veste unitaria riprende con profonde elaborazioni testi apparsi in versioni precedenti, delle quali si segnalano di seguito le relative informazioni bibliografiche: La specie umana dal punto di vista cosmopolitico. Note su Kant, in «Epekeina», n. 1, 2017, pp. 1-13. Diritto cosmopolitico e ragione in Kant, in «Etica & Politica/ Ethics & Politics», n. 1, 2018, pp. 325-339. Antropologia come “general Weltkenntniß”. Kant e la concezione cosmica dell’umano, in «Con-Textos Kantianos. International Journal of Philosophy», n. 8, 2018, pp. 377-392. L’anthropologie kantienne comme critique de la raison, in P. Jesus - E. Lefort - M. Lequan - D. Sardinha (a cura di), Kant et l’humain. Géographie, psychologie, anthropologie, Vrin, Paris 2019, pp. 171-181. Filosofia in senso cosmico e destinazione dell’uomo, in «Giornale di metafisica», n. 1, 2020, pp. 107-121. Der Gerichtshof der reinen Vernunft und seine Urteilsstufen, in C. Serck-Hanssen - B. Himmelmann (a cura di), The Court of Reason. Proceedings of the 13th International Kant Congress, de Gruyter, Berlin-Boston 2021, pp. 459-466.

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Sigle

Per le opere di Kant si fa riferimento al testo della Akademie-­ Ausgabe (Kants Gesammelte Schriften, a cura della Preußischen Akademie der Wissenschaften, Reimer, Berlin 1902 ss.), abbreviato con la sigla AA, cui seguono immediatamente l’indicazione del numero del volume e del numero di pagina. Fa eccezione la Kritik der reinen Vernunft, che viene invece citata nelle pagine della prima e seconda edizione originale (A e B). Là dove vengono adottate traduzioni pubblicate nel web, che non dispongono del riferimento al numero di pagina, ci si limiterà a indicare le pagine del testo originale. Eventuali modifiche alle traduzioni saranno segnalate, di volta in volta, nel testo. *** AA = Akademie-Ausgabe. Anth = Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (AA 7); tr. it. di M Bertani e G. Garelli, Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010. BBM = Bestimmung des Begriffs einer Menschenrace (AA 8); tr. it. di F. Gonnelli, Determinazione del concetto di razza

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umana, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 87-102. Br = Briefe (AA 10-13); tr. it. in I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, il melangolo, Genova 1990. GMS = Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (AA 4); tr. it. di V. Mathieu, Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1994. IaG = Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (AA 8); tr. it. di F. Gonnelli, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 29-44. KpV = Kritik der praktischen Vernunft (AA 5); tr. it. di V. Mathieu, Critica della ragion pratica, Bompiani, Milano 2004. KrV = Kritik der reinen Vernunft (zu zitieren nach Originalpaginierung A/B); tr. it. di C. Esposito, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004. KU = Kritik der Urteilskraft (AA 5); tr. it. di A. Gargiulo, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 2005. Log = Logik (AA 9); tr. it. di L. Amoroso, Logica, Laterza, Roma-Bari 1995. MS = Die Metaphysik der Sitten (AA 6); tr. it. di G. Landolfi Petrone, Metafisica dei costumi, Bompiani, Milano 2006. NF = Abhandlung des Naturrecht Feyerabend (AA 27, 4, 2, 2); tr. it., Lezioni sul diritto naturale, a cura di N. Hinske e G. Sadun Bordoni, Bompiani, Milano 2016. NEV = Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766 (AA 2). PG = Physische Geographie (AA 9).

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Refl = Reflexionen (AA 14-19). RH = Recensionen von J.G. Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, vol. 1/2. (AA 8). RGV = Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (AA 6); tr. it. di A. Poggi, La religione nei limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 2004. SF = Der Streit der Fakultäten (AA 7); tr. it. di F. Di Donato, riv. da M.C. Pievatolo, Il conflitto delle facoltà. Seconda parte, disponibile online: https://btfp.sp.unipi.it/dida/ kant_7/ar01s14.xhtml. TP = Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis (AA 8); tr. it. di M. C. Pievatolo, Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», disponibile online: http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s08.xhtml. V-Anth/Busolt = Vorlesungen Wintersemester 1788/1789 Busolt (AA 25). V-Anth/Collins = Vorlesungen Wintersemester 1772/1773 Collins (AA 25). V-Anth/Fried = Vorlesungen Wintersemester 1775/1776 Friedländer (AA 25). V-Anth/Mensch = Vorlesungen Wintersemester 1781/1782 Menschenkunde, Petersburg (AA 25). V-Anth/Mron = Vorlesungen Wintersemester 1784/1785 Mrongovius (AA 25). V-Anth/Pillau = Vorlesungen Wintersemester 1777/1778 Pillau (AA 25). V-Met-L2/Pölitz = Kant Metaphysik L 2 (Pölitz, Original) (1790/91?) (AA 28).

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V-Mo/Collins = Vorlesungen Wintersemester 1784/1785 Moralphilosophie Collins (AA 27). VvRM = Von den verschiedenen Racen der Menschen (AA 2); tr. it. di F. Gonnelli, Delle diverse razze degli uomini, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, RomaBari 2007, pp. 45-52. WDO = Was heißt: Sich im Denken orientiren? (AA 8); tr. it. di P. Dal Santo, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi, Milano 1996. ZeF = Zum ewigen Frieden (AA 8); tr. it. di F. Gonnelli, Per la pace perpetua, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 163-208.

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Introduzione

«La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze…»1. Le parole da cui prende le mosse la Critica della ragion pura testimoniano della contrazione di un debito che solo la costruzione dell’intero edificio architettonico può cercare di estinguere. L’espressione «ragione umana» costituisce, in effetti, il filo conduttore del percorso filosofico kantiano. Compare di continuo sulla scena dell’indagine critico-trascendentale, giocandovi il ruolo di protagonista indiscusso. Di più, alla ragione umana toccano molteplici funzioni, come il peculiare dibattimento che si svolge nel tribunale della critica rende palese in modo icastico. La ragione è, insieme, imputato, testimone e giudice. A generare le controversie è quello stesso soggetto su cui grava interamente il peso di risolverle. Se fosse una fiaba la Critica della ragion pura non avrebbe che un inizio: «c’era una volta la ragione umana». È qui che tutto comincia. Ed è così che la storia non solo continua, ma anche finisce. Eppure, a dispetto di questa pervasività che la vede presente in ogni anfratto dell’indagine critica, la ragione umana costituisce un tema tutt’altro che scontato nel contesto dell’opera 1  KrV, A VII; tr. it., p. 7.

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kantiana. Nei suoi termini più stringenti, la questione chiama in causa il nesso che lega l’esercizio della facoltà razionale all’essere umano, alla sua natura, alle sue disposizioni e si pone nella forma di due interrogativi che si tengono tra loro come momenti speculari di un intero: in che termini l’aggettivo «umana» qualifica la ragione? Cosa comporta per l’uomo e per la sua esistenza l’esercizio della ragione? Rispondere in modo esauriente a queste domande è tutt’altro che semplice. La ragione umana sembra, per molti versi, recare in sé i tratti di quella opacità che Agostino esperiva nel prendere in esame il tempo: «Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so»2. Agostino avvertiva lo sforzo immane di prendere distanza da ciò che ci è talmente familiare da segnare in modo pervasivo lo stesso inizio di ogni nostro domandare, fino ad alimentare la pretesa ingenua, quanto illusoria, di collocare tra un prima e un dopo l’agire divino. Non è un caso che, nelle Confessioni, la trattazione agostiniana del tempo prenda le mosse dallo scardinare la domanda impertinente quanto ingenua: «Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra?». Nulla! Risponde in modo perentorio Agostino3. Dio non faceva alcunché prima della creazione, perché solo nella e con la creazione abbiamo un prima e un dopo. Non c’è un prima, non c’è un tempo che precede il fare di Dio; dunque non c’è fare di Dio che non sia il creare il cielo, la terra e lo stesso tempo in cui si distende il nostro domandare.

2  Agostino, Confessionum libri XIII quos post Martinum Skutella iterum ed. Lucas Verheijen. Typographi Brepols, Turnholti 1981, XI, 14: «Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio»; tr. it. di C. Carena, Le confessioni, Einaudi, Torino 2015, p. 431. 3  Cfr. ivi, XI, 12; tr. it., pp. 427-429.

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Kant in fondo non ha parole troppo diverse nei riguardi del tema di elezione dell’indagine critica: tutti si intendono quando si parla di ragione, ma alla domanda su che cosa essa sia e soprattutto su quel che il suo esercizio comporti per l’uomo non si può inizialmente che reagire con un certo imbarazzo: Ogni nostra conoscenza comincia dai sensi, di qui si muove verso l’intelletto e si conclude nella ragione, al di sopra della quale non si incontra nulla di più elevato in noi per elaborare la materia dell’intuizione e per sussumerla sotto la suprema unità del pensiero. Ora, nel dover dare una spiegazione di questa più alta capacità conoscitiva, mi trovo in un certo imbarazzo.4

Se, come richiede l’indagine trascendentale, si va al di là di una mera descrizione stratigrafica delle funzioni della nostra facoltà conoscitiva e ci si chiede quale significato rivesta il darsi in noi dell’esercizio della ragione con le sue pretese e ambizioni, il tema della ricerca kantiana non può che palesarsi in tutta la sua portata problematica. È tema che si fa esplicito già sin dalle prime battute della Critica della ragion pura nelle quali, non a caso, si dà voce a una situazione di imbarazzo (Verlegenheit) in cui si trova la ragione umana in quanto assillata da questioni per un verso inevitabili, perché radicate nella sua natura di ragione, per altro verso irrisolvibili, perché esorbitano i poteri conoscitivi umani: La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere incalzata da questioni che non può evitare, poiché le sono imposte dalla natura stessa di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana.5

4  KrV, A 298-299/B 355; tr. it., p. 533. 5  KrV, A VII; tr. it., p. 7. Traduzione modificata.

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In quanto ragione non può eludere le domande connesse al suo uso puro. In quanto umana, però, non può, almeno sul piano squisitamente teoretico-conoscitivo, darvi risposta. L’imbarazzo risulta, in definitiva, dalla situazione antitetica che stringe il nesso tra il soggetto «ragione» e l’aggettivo «umana»: la natura del pensare razionale, inerente all’esercizio puro della facoltà conoscitiva e alla produzione del concetto dell’incondizionato6, entra inevitabilmente in frizione con la natura condizionata del soggetto umano finito, che pure all’esercizio della ragione è determinato. Nell’evidenziare il carattere inevitabile di questa antitetica, Kant si affretta, non a caso, a chiarire che si tratta di un imbarazzo nel quale la ragione umana cade «senza averne colpa»7; il che sottolinea che il cadervi è imputabile non a errore o a un atto arbitrario, ma a un rischio intrinseco all’operare della nostra ragione; un rischio che, se espone l’impresa conoscitiva a illusioni e inganni di ogni sorta, non può però, né deve, indurre a rinunciare al bene più alto che all’ente umano deriva dalla possibilità dell’uso puro della facoltà razionale, quando questo venga sistematicamente disciplinato dalla critica e non disinvoltamente eluso dalla censura. Sarà allora compito della critica dispiegare nel suo pieno significato una situazione che, proprio perché insorge in seno alla ragione umana e segnatamente in relazione al suo esercizio puro, non può essere addebitata a mero vaneggiamento. Occorrerà, cioè, cercare, se ve n’è uno, lo spazio in cui

6  «[…] Il principio proprio della ragione in generale (nell’uso logico) è di trovare per le conoscenze condizionate dell’intelletto quell’incondizionato con cui venga compiuta l’unità della conoscenza stessa. Questa massima logica non può divenire in altro modo un principio della ragion pura, se non ammettendo che, se è dato il condizionato, è data anche […] l’intera serie delle condizioni subordinate le une alle altre; la quale serie è perciò essa stessa incondizionata» (KrV, A 307-308/B 364; tr. it., p. 545). 7  KrV, A VII; tr. it., p. 7.

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la ragione umana possa finalmente coltivare le sue pretese più alte, senza pagare il prezzo, per lei insostenibile, di entrare in un conflitto insanabile con sé. Già da questi rilievi iniziali affiora in tutta evidenza come l’espressione «ragione umana» non costituisca un dato assodato della filosofia kantiana. Anzi, è solo nelle pieghe più profonde e sofferte dell’indagine critica che qualcosa come una ragione umana assume la sua forma propria, certificandosi come il tema centrale di una considerazione, stricto sensu, filosofica. Nella Reflexion 4987 si legge: «Ogni filosofia ha a oggetto la ragione: le massime, i limiti e lo scopo»8. Si potrà, allora, applicare all’indagine kantiana la paideia che Agostino raccomandava iniziando la sua ricerca sul tempo. Cosa faceva la ragione umana prima della critica? Nulla! Non vi era alcuna ragione, solo il vagare inconcludente della nostra facoltà conoscitiva tra gli estremi del dogmatismo e dello scetticismo. L’epoca della critica, contro ogni pretesa illusoria di carattere cosmologico, non data un inizio nel tempo. In quanto espressione di una rivoluzione nel modo di pensare9, essa testimonia invece di un gesto libero della ragione e, sottolinea Kant, «è […] una contraddizione cercare un’origine temporale delle azioni libere»10.

8  Refl 4987, AA 18: 52. 9  Cfr. KrV, B XII; tr. it., p. 31. 10  RGV, AA 6: 40; tr. it., p. 41. E ancora, nella Critica della ragion pura si legge: «Essa, la ragione, è presente e identica in tutte le azioni dell’uomo, in tutte le circostanze temporali, ma non è essa stessa nel tempo e non viene a trovarsi, per così dire, in un nuovo stato in cui prima non c’era: essa è determinante, ma non determinabile rispetto a tale stato. Pertanto, non si può domandare perché la ragione non si sia determinata diversamente, ma soltanto perché essa non abbia determinato i fenomeni diversamente tramite la causalità. Ma a questa domanda non è possibile dare alcuna risposta» (A 556/B 584; tr. it., p. 817).

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Kant è netto sul fatto che la ragione debba la sua stessa esistenza al libero esercizio della critica; il che significa che di ragione umana non si può parlare, in senso rigoroso, se non in relazione alla possibilità dell’esercizio autonomo di una facoltà che ha come primo e unico interlocutore se stessa, i suoi limiti, possibilità e poteri: La ragion pura, in realtà, non si occupa di nient’altro che di se stessa, né può avere altro compito, giacché ad essa non vengono dati gli oggetti in vista dell’unità del concetto empirico, bensì vengono date le conoscenze dell’intelletto in vista dell’unità del concetto razionale, vale a dire della connessione in un principio.11

La conoscenza di sé è il compito più arduo cui viene chiamata, Kant dice espressamente «esortata», la ragione in un’epoca che «non si lascia tenere a bada più oltre da un sapere apparente»12. Nello svolgere questo compito, connesso alla critica dei limiti del suo uso puro, essa non può contare sul conforto di alcun agente esterno: tutti i concetti, anzi tutte le questioni che la ragion pura ci presenta non si trovano nell’esperienza, ma risiedono a loro volta nella sola ragione e devono pertanto poter essere risolti e compresi secondo la loro validità o la loro nullità.13

E però, è proprio di fronte a questa autonomia, che è linfa vitale di un sistema al cui interno possono e devono essere risolte le questioni connesse a un uso puro della facoltà conoscitiva, che il riferimento a una «ragione umana» esibisce i suoi connotati più controversi. In che modo l’aggettivo «umana» si lega all’esercizio di questa facoltà spontanea e autolegislativa? Che posto occupa nell’edificio critico l’uomo con i suoi poteri li11  KrV, A 680/B 708; tr. it., p. 973. 12  KrV, A XI; tr. it., p. 11. 13  KrV, A 763/B 791; tr. it., p. 1079.

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mitati, la sua natura condizionata? Domanda ineludibile del resto, dal momento che è la stessa costruzione critica a comportare l’inaggirabilità del punto di vista kat’anthropon14, del riferimento alla «particolare costituzione» della nostra facoltà conoscitiva, il cui profilo, come Kant chiarisce, consiste in un’attività sintetico-discorsiva che opera con immagini15. Di questo, come del fatto che possiamo contare esclusivamente su una modalità sensibile dell’intuire, connotata dalla disposizione a essere affetti da qualcosa, e su una funzione pensante che opera solo secondo determinati generi di categorie, non è possibile dare ragione: Per quanto riguarda invece quella peculiarità del nostro intelletto, per cui esso realizza a priori l’unità dell’appercezione solo mediante le categorie, anzi solo mediante questo tipo e questo numero di categorie, non ci è possibile dare una ragione, così come non riusciamo a spiegarci perché possediamo proprio queste e non altre funzioni nei nostri giudizi, o perché tempo e spazio siano le uniche forme di un’intuizione possibile per noi.16

La critica deve, allora, arrestare il suo esame analitico della facoltà conoscitiva sulla soglia di un dato antropologico non ulteriormente indagabile. Il linguaggio sintetico della ragione umana fa, per così dire, tutt’uno con l’idea che non siamo dotati di un intelletto intuente e che dunque la nostra facoltà conoscitiva non può che procedere per connessioni regolate di un molteplice dato, non prodotto dalla stessa facoltà atta

14  KrV, A 739/B 767; tr. it., p. 1049. Questo tema verrà discusso in modo dettagliato nel primo capitolo del volume, che individua nel motivo di una tensione vitale, quanto problematica, tra il punto di vista kat’anthropon e il punto di vista kat’aletheian il terreno di esercizio proprio dell’indagine critico-trascendentale. 15  Cfr. KU, AA 5: 408; tr. it., p. 499. 16  KrV, B 145-146; tr. it., p. 259.

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a unificarlo. La natura ectipa della nostra facoltà conoscitiva rappresenta in altri termini il correlato necessario di una soggettività pensante che Kant concepisce come «originariamente sintetica». Kant però, come talvolta gli accade, non è chiaro su quanto tutto ciò caratterizzi in modo specifico l’uomo o sia estendibile a ogni ente razionale finito17. Potrebbe sembrare un falso problema dal momento che, come Kant stesso dichiara, «non conosciamo altri esseri razionali all’infuori dell’uomo»18. Senonché, proprio il riferimento all’ente razionale in generale traccia, in seno alla critica, un confine che delimita uno spazio più ampio di quello misurabile a partire dalle capacità conoscitive, dalle abilità pratiche e in definitiva dai poteri dell’uomo. Siamo dunque di fronte a una indagine che esibisce il suo profilo eminentemente trascendentale nel cercare di mettere a nudo una dimensione, diciamo così, non antropomorfa 17  In più occasioni, nel testo kantiano, l’operare sintetico della facoltà conoscitiva e la sua riconducibilità alle regole espresse dai concetti puri sembra in effetti figurare un modo di conoscere non necessariamente circoscrivibile in uno spazio esclusivamente umano: «I concetti puri dell’intelletto si riferiscono – semplicemente mediante l’intelletto – agli oggetti dell’intuizione in generale, a prescindere se sia la nostra o una qualche altra intuizione, purché sia un’intuizione sensibile: ma proprio per questo, quei concetti sono delle semplici forme del pensiero, con le quali non si conosce ancora nessun oggetto determinato» (KrV, B 150; tr. it., p. 265). E ancora, in modo più esplicito: «Spazio e tempo, quali condizioni di possibilità per cui degli oggetti possano esserci dati, valgono esclusivamente per gli oggetti dei sensi, quindi soltanto per gli oggetti dell’esperienza. Al di là di questi confini, spazio e tempo non si rappresentano assolutamente nulla, giacché essi si trovano soltanto nei sensi, e al di fuori dei sensi non possiedono realtà alcuna. Da parte loro, i concetti puri dell’intelletto sono liberi da queste limitazioni e si estendono agli oggetti dell’intuizione in generale, che può essere, ma anche non essere, simile alla nostra: basta che sia sensibile e non intellettuale» (KrV, B 148; tr. it., p. 263). 18  Cfr. KpV, AA 5: 12; tr. it., p. 53. Cfr. anche Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 338.

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del pensare razionale: l’uomo è sì l’unico ente razionale di cui abbiamo esperienza diretta, l’unico testimone del darsi al mondo di qualcosa come il pensare razionale. Ciò non toglie, però, che l’ente razionale, di cui l’uomo offre testimonianza, pensa e agisce secondo una modalità e secondo fini la cui portata pone l’uomo stesso al cospetto di qualcosa che trascende i suoi poteri, sia teoretico-conoscitivi, sia pratico-attuativi. Detto diversamente, il centrare l’indagine sulla ragione umana non si traduce in alcun modo in Kant nell’idea di una filosofia e di un mondo a misura d’uomo. Kant è chiaro in proposito, non solo, come è più facile attendersi, in sede di filosofia pratica, là dove la legge morale assume la forma di un comando incondizionato il cui valore vincolante prescinde dai poteri limitati dell’uomo di darvi effettiva esecuzione19, ma anche sul terreno della conoscenza teoretica. Anche in sede di critica della ragion speculativa, infatti, Kant pone in evidenza come l’appello alla nostra capacità conoscitiva limitata, pur così decisivo, non possa ergersi a giudice ultimo in merito alla legittimità delle questioni che sorgono in seno all’uso puro della facoltà razionale:

19  Nella Metafisica dei costumi si legge che nel discorso etico, almeno al suo livello fondativo, l’antropologia non può precedere la metafisica, pena il dover pensare come irraggiungibile per l’uomo ciò che all’uomo appare irraggiungibile solo perché la legge morale non viene considerata ed esposta nella sua purezza (cfr. MS, AA 6: 217; tr. it., p. 35). Per lo stesso motivo, legato all’inadeguatezza dei poteri umani a dare piena esecuzione ai comandi della ragione, la dottrina della virtù abbisogna di completarsi mediante l’assunzione postulatoria di un autore morale del mondo e di una esistenza futura che in Kant assume sia il profilo storico mondano di una specie umana cui sono affidati i compiti che ciascun individuo non potrebbe assolvere nella durata della propria vita limitata, sia il profilo morale-religioso di una vita intelligibile che appartiene all’anima immortale. Nei capitoli II e VI il rapporto tra etica, metafisica e antropologia emerge, in particolare, in relazione al tema della destinazione morale in quanto luogo elettivo in cui viene riformulata l’interrogazione sulla natura umana.

24 Noi non siamo neppure autorizzati, con il pretesto della nostra incapacità, a rifiutare tali problemi, come se la loro soluzione si trovasse realmente nella natura delle cose, e a rifiutare di indagarli ulteriormente, poiché è solo la ragione che ha prodotto dal suo grembo queste idee, ed è dunque la ragione che deve rendere conto della loro validità o della loro illusorietà dialettica.20

Questo passo della Dottrina trascendentale del metodo conferma, insieme ad altri, gli intenti dichiarati in sede di Prefazione, dove, in riferimento alle idee trascendentali e in generale alle difficoltà connesse all’uso puro della ragione, si legge: Le sue questioni [della ragione] non le ho evitate, accampando magari come scusa l’impotenza della ragione umana, ma le ho completamente specificate secondo principi.21

In termini più icastici, la critica in nessun modo può ridursi a una censura delle aspettative che la ragione alimenta in conformità a un bisogno che le è proprio22 e che, non seguen-

20  KrV, A 763/B 791; tr. it., pp. 1079-1081. 21  KrV, A XII; tr. it., p. 13. In questo senso preciso Kant parla di «critica della facoltà della ragion in generale, riguardo a tutte le conoscenze cui essa può tendere indipendentemente da ogni esperienza: quindi, la decisione circa la possibilità o l’impossibilità di una metafisica in generale e la determinazione sia delle fonti che dell’estensione e dei confini di essa – e tutto questo in base a dei principi» (KrV, A XII; tr. it., p. 11). In quell’«in generale» emerge, infatti, l’istanza di rigore di un’indagine che intende confrontarsi direttamente con le pretese sollevate in seno al pensare razionale. Nella critica si ha a che fare «soltanto con la ragione stessa e col suo puro pensiero» (KrV, A X IV; tr. it., p. 13); il che significa, in ultima analisi, cercare il significato intrinseco di quelle pretese in qualcosa di diverso dal «comune programma» di estendere la conoscenza umana al di là di tutti i confini di un’esperienza possibile, in uno scopo che rappresenta in sé il vero interesse dell’intera umanità. 22  «La ragione umana, infatti, anche senza essere mossa dalla mera vanità di un grande sapere, procede inarrestabilmente – spinta dal suo proprio bisogno – fino a delle questioni che non possono essere risolte da un uso em-

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do una logica arbitraria, non può semplicemente essere eluso avanzando come scusa l’impotenza connessa all’esercizio umano della facoltà razionale. Dunque, non è possibile zittire la voce della ragione, quale che sia l’ambito, teoretico o pratico, in cui essa legifera e quale che sia la natura, umana o altra, del soggetto che la esercita. Quella che Kant chiama metafisica «come disposizione naturale (metaphysica naturalis)»23 non verrà, dunque, mai rimossa a opera di una censura tarata su quel che è umanamente possibile conoscere sul piano teoretico o realizzare sul piano pratico, ma verrà presa in esame sin nelle viscere più profonde, non foss’altro che come il germe in cui si annida la vocazione dell’uomo in quanto ente razionale. La critica non è volta a sopprimere le pretese della ragione. Ben altrimenti è vocata a liberarle dal recinto di ogni brama di sapere e di potere troppo umana che di tali pretese finisce inevitabilmente con lo smarrire il senso; quel senso che è invece essenziale per la stessa esistenza dell’uomo compresa nella sua interezza. In definitiva, è la critica e solo la critica a trovarsi di fronte al compito di accordare in modo non riduzionistico le pretese della ragion pura con i limiti del soggetto che esercita la facoltà razionale, così che quel che accade di fatto, ossia il darsi di una ragione umana, esibisca anche una validità di diritto, ossia attesti nell’uomo un esecutore legittimo delle richieste e delle istanze sollevate mediante l’uso puro della facoltà razionale. L’espressione «ragione umana», che si legge al primo rigo della Prefazione all’edizione A della Critica della ragion pura, acquista, così, il suo pieno significato per l’indagine filosofica pirico della ragione e dai principi presi a prestito da quest’uso» (KrV, B 21; tr. it., p. 97). Il tema del «bisogno della ragione» è argomento della trattazione condotta nel primo capitolo di questo lavoro. 23  KrV, B 21; tr. it., p. 97.

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solo nell’intero svolgersi dell’impresa critica, che della facoltà razionale prende in esame le condizioni di legittimità del suo uso. L’intento, al di là dei domini specifici su cui la filosofia estende la sua gittata, rimane quello di chiarire quale genere di esperienza, quali fini e quale destino traccia per l’uomo la possibilità di un uso puro della ragione. Il completo dispiegarsi di questo intento fa tutt’uno con il programma kantiano di una filosofia che, come si specifica in un noto passo dell’Architettonica della ragion pura, va compresa secondo il suo «concetto cosmico [Weltbegriff]», ossia in quanto «scienza del rapporto di ogni conoscenza con i fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae)»24. Le pagine dell’Architettonica tracciano, allora, le linee di un percorso destinato a estendersi ben più in là di quello delimitato dalle opere esplicitamente dedicate all’interrogare critico. Il che significa che l’interrogazione sui limiti e sulle condizioni di legittimità dell’uso puro della ragione dà inizio a un percorso che nelle ambizioni di Kant deve estendere la sua gittata sulla esistenza umana compresa nella sua interezza, sino a toccare il piano delle indagini più specifiche che vedono il congiungersi della riflessione teoretica e pratico-morale con quella politico-comunitaria. Non a caso, il passo baconiano, posto da Kant in esergo all’edizione B, mette in luce nell’impresa critica il compito di indicare la via lungo la quale gli uomini «provvedano al bene comune e ne partecipino»25; congiungendo in un unico destino le conquiste sul terreno della conoscenza teoretica e il guadagno pratico di una ragione che rivela la sua efficacia sul terreno fenomenico dei rapporti mondani, solo nella misura in cui viene concepita non come semplice dotazione naturale, ma anche come fine, come bene

24  KrV, A 839/B 867; tr. it., p. 1177. 25  KrV, B II; tr. it., p. 5.

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che gli uomini sono chiamati a realizzare. Il progetto kantiano di una critica della ragione ha, dunque, come esito decisivo il riconoscere nella ragione non unicamente una fonte produttrice di conoscenze e abilità tecnico-pratiche, ma un modo del vivere, uno scopo che dà forma al mondo in cui l’uomo conduce la propria esistenza. Allora, se il tema della critica della ragione umana assume una rilevanza che, come Kant stesso afferma, non tocca solo le discussioni del filosofo di scuola, ma investe nella sua interezza l’uomo in quanto cittadino del mondo, progettare questa speciale forma di cittadinanza porta con sé una scommessa che si gioca anche sul terreno politico-giuridico della negoziazione e del commercium dei rapporti mondani. Non a caso Kant parla espressamente di «sommo bene politico»26; una formula che esprime la speranza di un accordo sintetico di virtù e felicità su questa terra, in questa vita, come esito dell’operare di una ragione messa in comune mediante la costruzione di sistemi di convivenza civile via via più estesi e più complessi che non solo coinvolgono i rapporti tra diversi organismi statali, ma si estendono alle relazioni tra individui e stati, come alle relazioni tra individui appartenenti a realtà statali diverse. Sulla costituzione di una «società cosmopolitica» la specie umana gioca il proprio diritto di vantare l’appartenenza alla comunità di coloro che Kant chiama esseri razionali terrestri27; appartenenza che può darsi solo entro un ordine che sia conforme ai principi dell’agire libero, in un mondo in cui siano congiunti il soggetto «ragione» e l’aggettivo «umana». Quale che sia il ruolo che esercita, la ragione è in definitiva per l’uomo un possesso per il quale è sempre richiesto il titolo

26  MS, AA 6: 355; tr. it., p. 323. 27  Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 338.

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di legittimità. L’espressione «ragione umana» richiede, perciò, una deduzione nel senso kantiano del termine: di una quaestio facti, di una dotazione che ciascun uomo possiede per natura, ci si deve sempre chiedere: quid iuris? Prendendo a prestito dalla Metafisica dei costumi i termini in cui Kant sviluppa la dinamica del rapporto tra possesso e proprietà del suolo, si potrebbe dire che la ragione costituisce per l’uomo un «possesso fisico» che, per sua stessa natura, aspira allo statuto di «possesso giuridico»28. E l’esibizione di questo titolo di legittimità implica per l’uomo un compito immane, una fatica che si prolunga indefinitamente. La cosmopoli kantiana non solo si rivolge, come è ovvio, alle relazioni tra gli individui e tra i popoli che abitano il suolo terrestre e su di esso si muovono, ma ambisce abbracciare nella rappresentazione di un tutto, in un’idea, le relazioni tra le diverse generazioni ed epoche che segnano la storia29. L’animal rationabile, come Kant definisce l’uomo30 sottolineando la condizione propria di una disposizione che può svilupparsi solo grazie all’educazione, alla cultura, alla civilizzazione e, infine, alla moralizzazione, tramanda i suoi frutti di generazione in generazione, esponendosi però con ciò stesso al rischio che i vantaggi acquisiti si disperdano nel continuo riaffiorare della violenza, dei conflitti e, più in generale, dell’insorgere di circostanze che ostacolano il pieno dispiegarsi dell’animal rationale, del linguaggio discorsivo, della percezione del gusto, del discernimento del bene e, infine, della formazione di un

28  Cfr. MS, AA 6: 249-257; tr. it., pp. 101-117. 29  Kant intende per specie umana «l’intero di una serie di generazioni che corre all’infinito (indeterminabile)» (RH, AA 8: 65). Al tema del cosmopolitismo inteso in questa accezione più estesa, connessa a una fisionomia non semplicemente naturale della specie umana e dello sviluppo delle sue disposizioni, sono dedicate in particolare le riflessioni del quarto capitolo di questo volume. 30  Cfr. Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 339.

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carattere della specie umana che renda vincolante in modo permanente un tale discernimento: L’essere umano è determinato dalla sua ragione a stare in una società con altri suoi simili, e in essa a coltivarsi, a civilizzarsi e a moralizzarsi per mezzo dell’arte e delle scienze; per quanto possa anche essere grande la sua tendenza animalesca ad abbandonarsi passivamente agli stimoli dell’agio e del benessere, cui dà il nome di felicità, egli è destinato piuttosto a rendersi attivamente degno dell’umanità, combattendo contro gli ostacoli che gli sono stati inflitti dalla rozzezza della sua natura.31

La ragione non si dà come un patrimonio di cui l’uomo disponga in forza del suo corredo fisiologico, ma rappresenta un’impresa coraggiosa che, vincendo la colpevole pigrizia insita nella concezione rassegnata a un destino inscritto nel decorso delle leggi naturali, o nella visione consolatoria di un ordine cosmico garantito dal favore di un agente divino, guarda all’homo/animal rationale come a un’idea, uno scopo. L’esser determinato dell’uomo dalla ragione non risponde, per questo, alla logica dogmatica che lega ratio e rationatum secondo la forma di un legame causalmente necessario, ma chiama in causa i «fenomeni della libertà», ossia le manifestazioni di un agire i cui principi rivelano la loro forza vincolante solo in chi, proprio e solo in virtù di un uso puro della ragione che mette capo all’istanza dell’incondizionato, è capace di assumerli e di seguirli liberamente32. In questo senso radicale la Bestimmung 31  Anth, AA 7: 324-325; tr. it., p. 342. 32  «Anche se si ritenesse che il genere umano, considerato nel complesso, fosse già da tanto tempo progrediente e in procinto di avanzare ancora, nessuno può garantire che, per via della disposizione fisica della nostra specie, non stia entrando proprio ora nell’epoca del suo regresso; e viceversa, se regredisce verso il peggio con caduta accelerata, non ci si deve perdere d’animo sul fatto che non si incontri proprio lì il punto di inversione (punctum flexus contrarii) a partire dal quale, grazie alla disposizione morale

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des Menschen, in cui soggetto determinante è la ragione, può trovare il suo scopo finale solo nella moralizzazione della specie umana e nella trasformazione delle organizzazioni civili in un tutto morale, in cui il diritto viene a configurarsi non solo come mezzo per accordare gli antagonismi, ma anche come fine, come bene da perseguire per sé, in quanto del possesso della ragione fornisce la pubblica, legittima esibizione. È questo il senso in cui, nel fare riferimento all’ideale repubblicano, Kant riconosce nel concetto di diritto ciò che è puramente morale33; là dove, diremmo con formula ambiziosa, il piano giuridico della regolamentazione delle azioni giunge a toccarsi con il piano etico della legislazione delle intenzioni, sicché si assottigliano i confini previsti da un sistema che, come quello kantiano, distingue in modo preciso i doveri di diritto dai doveri di virtù. Fuori da questo progetto cosmico, rivolto alla specie umana intesa come un tutto, che Kant concepisce sotto il segno di una teleologia rationis humanae, resta spazio solo per il dilagare insensato e capriccioso della violenza e della guerra, in cui parlare di ragione umana, come parlare di umanità, perderebbe di significato.

insita nel nostro genere, il suo percorso si volga di nuovo verso il meglio. Poiché, infatti, abbiamo a che fare con esseri che agiscono liberamente, ai quali dapprima si può certo dettare cosa debbano fare, senza che si possa predire che cosa faranno; ed essi, dal sentimento del male che hanno arrecato a se stessi, quando questo diventa davvero grave, sanno poi trarre un movente rafforzato per fare ora meglio ancora di quanto non prima di quella condizione. – Ma “poveri mortali – dice l’abate Coyer – presso di voi niente è stabile se non l’instabilità!”» (SF, AA 7: 83). Il fatto che il progresso, e in particolare il perfezionamento morale, non possa godere di alcuna garanzia ontologica, non toglie la speranza, anzi di tale speranza costituisce la condizione, di un progredire verso il meglio che, proprio in quanto affidato al libero agire dell’uomo, trova nel dovere morale il suo vero fondamento e vincolo (cfr. TP, AA 8: 308-309). 33  SF, AA 7: 87.

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E però, farsi pienamente carico di un simile progetto significa per l’uomo esperire fino in fondo, sul terreno tracciato dal rigore della critica, la sproporzione tra l’istanza di incondizionatezza che prende forma in seno all’uso puro della facoltà razionale e lo spazio condizionato in cui necessariamente si consumano il conoscere e l’agire umani. In forza di questa sproporzione, di questa situazione di imbarazzo che affetta l’esercizio della facoltà razionale, l’uomo «[…] si sente interiormente chiamato a diventare, grazie al suo comportamento in questo mondo e alla sua rinuncia a molti vantaggi, un buon cittadino di un mondo migliore che egli ha nell’idea»34. Questo è davvero il compito più difficile, quello che la critica assegna a una ragione che si rivolge a se stessa, ai propri limiti, ai propri scopi, prefigurando un destino di cui l’uomo, in quanto ente razionale, è responsabile, ma sui cui esiti, in quanto ente finito, condizionato, caratterizzato da poteri conoscitivi e pratici limitati, non può pretendere di avere l’ultima parola. Lungi dal potersi frettolosamente ascrivere al principio iperperformativo dell’affermazione di sé, alimentando forme di logocentrismo antropomorfico, il possesso della ragione, ricompreso con gli strumenti della critica kantiana, rammenta a ogni uomo che lo spazio in cui pensa di muoversi del tutto agevolmente e in cui ritiene di essere così bene acclimatato in virtù di uno sviluppo inarrestabile delle sue cognizioni e abilità non copre l’ampiezza intera del mondo in cui conosce, pensa, agisce. Nell’espressione «ragione umana» prende forma, dunque, il senso di una trascendenza sui generis che, se non può trovare garanzie ontologiche nell’affermazione dogmatica di un principio teologico, non deve nemmeno censurarsi a vantaggio di

34  KrV, B 426; tr. it., pp. 619-621. Nella Religionschrift si parla di «vocazione [Berufung] degli uomini come cittadini per uno Stato morale (RGV, AA 6: 142; tr. it., p. 157).

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una celebrazione rassegnata della finitezza dell’essere umano. Compito della critica della ragione è indicare una via che si sottragga in egual misura alle derive di una teologia consolatoria e di uno scetticismo autoreferenziale, le quali rappresentano in definitiva le facce speculari di una hybris umana che non può che ritorcersi contro la stessa possibilità dell’uso legittimo della facoltà razionale35. La ragione umana scopre la sua vera ricchezza e la fonte della sua stessa esistenza nella tensione vitale, inestinguibile, tra condizionato e incondizionato, con la quale solo l’esercizio libero e rigoroso della critica è in grado di fare i conti fino in fondo.

35  Nella Fondazione della metafisica dei costumi, in analogia con la situazione di imbarazzo descritta nella Critica della ragion pura, si parla di «situazione incresciosa» in cui versa la filosofia sul terreno della ricerca dei principi etici, i quali non possono essere derivati da una fonte che non sia la ragione stessa. Si tratta della situazione incresciosa che, scrive Kant, la filosofia, proprio nel suo più genuino intento fondativo, «deve mantenere anche se non riesce ad agganciarla a nulla nel cielo, o ad appoggiarla a nulla sulla terra» (GMS, AA 4: 425; tr. it., p. 135; diversamente dal traduttore, si preferisce rendere «mißlicher Standpunkt» con «situazione incresciosa», anziché con «posizione critica»). Non vi è forse descrizione più icastica di quel che il filosofo critico intende per «ragione umana».

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I Il tribunale della ragion pura e i suoi gradi di giudizio

1. Ragione umana come concetto problematico Uno sguardo di insieme sull’impresa critica di Kant evidenzia l’intreccio tra due interessi fondamentali. Da un lato, è in gioco l’interesse per la metafisica, ossia per quelle pretese della ragione nel suo uso puro che non possono essere soddisfatte sul terreno della semplice esperienza o della mera conoscenza empirica. Dall’altro, non meno presente è l’interesse per l’uomo, la sua natura, le sue disposizioni e facoltà specifiche. Entrambe le vocazioni costituiscono uno sfondo ineliminabile della ricerca kantiana, indicando, anzi, il motivo di una tensione interna al concetto stesso di «ragione umana» che dell’impresa critica rappresenta l’elemento chiave. A chi legga l’incipit della prima edizione della Critica della ragion pura la questione si mostra da subito in piena evidenza: La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere incalzata da questioni che non può evitare, poiché le sono imposte dalla natura stessa di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana.1 1  KrV, A VII; tr. it., p. 7. Traduzione modificata.

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La ragione, in virtù della sua stessa natura, solleva dunque questioni la cui portata va ben al di là del potere che le compete in quanto disposizione conoscitiva umana. Il predicato «umana», cioè, non qualifica il soggetto «ragione» in modo pacifico, indicando nella ragione un possesso, una facoltà sulla quale l’uomo esercita il pieno controllo. Al contrario, «ragione umana» è immediatamente in Kant il nome di un problema, descrive una situazione di imbarazzo (Verlegenheit), in cui la necessità di porre determinate questioni sembra venire inevitabilmente a confliggere con l’impossibilità di darvi risposta. Il destino della ragione umana non può, allora, che delinearsi all’insegna di un drammatico conflitto della ragione con se stessa2. E in questo senso Kant parla di una dialettica «che è inscindibilmente connessa all’umana ragione»3. Più specificamente: in quanto essere razionale, l’uomo coltiva un’istanza di incondizionatezza che, però, va ben al di là dei poteri conoscitivi di cui, in quanto uomo, dispone. Sicché, l’espressione «ragione umana» dà voce innanzitutto a una situazione di sproporzione di cui la critica della ragione è chiamata a farsi carico. In questo senso, l’indagine sistematica che Kant presenta sotto il nome di critica della ragione si muove problematicamente sulla linea-limite tra il richiamo necessario all’inaggirabilità delle condizioni connesse alla natura specifica della nostra facoltà conoscitiva e la consapevolezza, essa pure necessaria, che 2  Commentando l’incipit della Critica della ragion pura, M. Villaschek parla di «costituzione tragica della ragione umana» (M. Villaschek, Kant on the Necessity of Metaphysics, in V. Rohden - R.R. Terra - G.A. de Almeida - M. Ruffing [a cura di], Recht und Frieden in der Philosophie Kants. Akten des X. Internationalen Kant Kongresses, de Gruyter, Berlin-New York 2008, pp. 285-307: p. 285). 3  KrV, A 298/B 354-355; tr. it., p. 533.

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tali condizioni non possono avere l’ultima parola sul significato e la portata delle questioni che solleva un uso della ragione che trascende quello empirico. Per dirla con Kant, non si può addurre «la scusa dei limiti della nostra conoscenza» là dove «i problemi non ci vengono posti dalla natura delle cose, ma soltanto dalla natura della ragione e riguardano unicamente la sua costituzione interna»4.

2. Ragion pura e intelletto umano In questa prospettiva, si mostra come un compito inderogabile della critica il distinguere, in linea di principio, tra una legislazione riferibile incondizionatamente a ogni soggetto dotato di ragione, che inerisce al rapporto della ragione con se stessa5 in quanto attività pura, spontanea e autonoma, e il piano condizionato di un uso della ragione che, nell’ambito conoscitivo, non può prescindere dalla natura specifica del soggetto che la esercita, pena il dar luogo a pretese illegittime. Si tratta, in definitiva, della distinzione tra la ragione propriamente detta che, in quanto facoltà dei principi6, coltiva una

4  KrV, A 695/ B 723; tr. it., p. 991-993. 5  Come Kant afferma, traendo le conclusioni delle indagini condotte in sede di Dialettica trascendentale: «La ragion pura, in realtà, non si occupa di nient’altro che di se stessa, né può avere altro compito, giacché ad essa non vengono dati gli oggetti in vista dell’unità del concetto empirico, bensì vengono date le conoscenze dell’intelletto in vista dell’unità del concetto razionale, vale a dire della connessione in un principio» (KrV, A 680/B708; tr. it., p. 973). 6  Sull’uso del termine “principio” in relazione alla concezione kantiana della facoltà razionale cfr. i rilievi di L. Sala, Uso logico e uso reale della ragione. Origine e ruolo regolativo delle idee, in «Con-Textos Kantianos. International Journal of Philosophy», n. 8, 2018, pp. 303-318, in part. pp. 308-312.

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istanza di completezza pensabile solo nel concetto di una realtà incondizionata7 e l’intelletto che, della facoltà conoscitiva, esprime l’operare sotto determinate condizioni, segnatamente quelle che riguardano la modalità di conoscere specificamente umana. Kant non potrebbe essere più chiaro quando nella Critica del Giudizio sottolinea che «[l]’intelletto […] limita la validità [delle] idee della ragione solamente al soggetto, estendendola però universalmente a tutti i soggetti della stessa specie»8. I concetti dell’intelletto costituiscono le fonti di una conoscenza universale, la cui validità è però riferibile soltanto a soggetti della stessa specie. Si tratta di una universalità specifica, limitata ai soggetti che condividono determinate caratteristiche e disposizioni, e perciò non estendibile incondizionatamente a ogni ente dotato di ragione. È quanto Kant aveva espresso in forma sintetica nelle pagine introduttive della Dialettica trascendentale: […] la conoscenza sulla base di principi (in se stessi) è tutt’altra cosa rispetto a una semplice conoscenza dell’intelletto, la quale può anche precedere altre conoscenze nella forma di un principio, ma in se stessa (in quanto è sintetica) non si basa su un semplice pensiero, né contiene in sé un universale secondo concetti.9

Alla ragione attiene in senso proprio la denominazione di «facoltà dei principi», mentre l’intelletto esprime la modalità specifica secondo cui tali principi determinano la nostra facoltà conoscitiva in conformità alla sua natura e ai suoi poteri:

7  In questo senso Kant parla di «concetto trascendentale di ragione» che «si riferisce sempre all’assoluta totalità nella sintesi delle condizioni, e non finisce mai, se non nell’assolutamente incondizionato – vale a dire nell’incondizionato sotto ogni riguardo» (KrV, A 326/B 382; tr. it., pp. 567-569). 8  KU, AA 5: 401; tr. it., p. 485. 9  KrV, A 302/B 358; tr. it., p. 537.

37 La ragione è una facoltà dei principii e la sua ultima esigenza è l’incondizionato; l’intelletto invece è al suo servigio sempre soltanto sotto una condizione che deve esser data.10

In definitiva, il problema inaggirabile che la critica si trova ad affrontare è quello di dar conto delle pretese sollevate da un uso della ragione che trascende il piano dell’esperienza, e che per questo asseconda un’istanza conoscitiva e normativa di incondizionatezza, e le condizioni dettate dalla specifica costituzione dell’animo umano che tali pretese non sembra poter soddisfare. Il tema qui, vale la pena ribadirlo, è la ragione umana, il rapporto tra uomo e ragione che la critica deve assumere in tutta la sua problematicità: se da un lato non si può contare su una ragione che trascenda dogmaticamente i limiti e le condizioni dell’umano, dall’altro il rilievo critico sui limiti della nostra facoltà conoscitiva non può addursi a pretesto per censurare le pretese che prendono forma in seno al pensare puro. In definitiva, dogmatismo metafisico e scetticismo antropomorfo rappresentano le facce speculari di una ragione che non ha ancora fatto criticamente i conti con se stessa. Muoversi lungo questa strettoia, tenersi nel difficile equilibrio tra l’inseguire vanamente il miraggio di una verità incondizio-

10  KU, AA 6: 401; tr. it., pp. 483-485. Concordo con M. Rohlf che parla di un concetto non univoco di ragione nell’ambito della critica, distinguendo un uso ampio, rivolto sia all’esercizio della funzione intellettiva sia, ancora più estesamente, agli elementi puri della conoscenza, sensibilità compresa, e un uso ristretto che invece concerne la ragione in quanto facoltà dei principi e fonte delle idee (M. Rohlf, The Ideas of Pure Reason, in P. Guyer [a cura di], The Cambridge Companion to Kant’s Critique of Pure Reason, Cambridge University Press, 2010, pp. 190-299: p. 195). Ritengo tuttavia che questa non univocità nell’uso del termine ragione vada in modo esplicito ricondotta, nel caso specifico di Kant, alla complessità semantica necessariamente richiesta dall’impianto sistematico di una critica che, della ragione, indaga i limiti e le condizioni in relazione ai suoi possibili usi e conseguentemente in connessione ai diversi domini in cui si determina il suo esercizio; il quale però rimane, in definitiva, l’esercizio di una e un’unica ragione.

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nata che trascenda i modi specificamente umani di accedervi e, all’opposto, il pretendere di neutralizzare ogni istanza metafisica di incondizionatezza come vana esorbitanza rispetto alla condizione limitata della nostra facoltà conoscitiva, è, dunque, il difficile compito dell’indagine che Kant presenta sotto il nome di «critica della ragione».

3. Il primo grado di giudizio La distinzione logico-trascendentale tra ragione e intelletto innerva in modo strutturale il tribunale che Kant imbastisce in sede di Critica della ragion pura. Esso si rivela, perciò, come un organo complesso che prevede più gradi di giudizio e conseguentemente diversi ordini di legislazione, in base ai quali il giudizio viene emesso. In un primo grado il testimone chiave è la configurazione specifica della nostra facoltà conoscitiva che, almeno in certa misura, decide sugli esiti del dibattimento. A questo grado di giudizio corrisponde il progetto di una deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto. È vero, infatti, che il rigore logico-giuridico della deduzione richiede di lasciar fuori ogni argomento che leghi gli esiti della prova dell’oggettività delle nostre rappresentazioni alla mera descrizione del modo in cui siamo fatti, opponendosi con ciò a ogni «sistema di preformazione della ragion pura»11. È questo del resto il motivo per cui Kant riferisce alla deduzione l’aggettivo «trascendentale». Ciò però non cancella in alcun modo il senso di una sfida conoscitiva, la cui pretesa di validità, come si è visto, non può in ogni caso estendersi agli oggetti considerati a prescindere dalle condizioni e dalle modalità in cui essi si rendono 11  KrV, B 167; tr. it., p. 289.

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accessibili a noi, ossia in conformità con la costituzione specifica della nostra facoltà conoscitiva. È il senso per cui Kant, in riferimento alle indagini condotte in sede di critica della ragion speculativa, afferma che «talora si trova necessario far dipendere i principi dalla natura particolare della ragione umana»12, differenziando il piano delle questioni strettamente legate all’ambito teoretico-conoscitivo rispetto al piano di indagine in cui prende forma il discorso morale che, almeno al livello fondativo, non può chiamare in causa il riferimento specifico alla natura umana, dovendo vantare una cogenza che si estende a ogni essere razionale. Gli esiti della deduzione kantiana evidenziano dunque l’illegittimità, sul piano strettamente conoscitivo, di ogni accesso alle cose che pretenda prescindere dalle modalità e dalle condizioni in cui le cose si rendono a noi manifeste; la stessa possibilità di riconoscere il darsi di una realtà indipendente da noi non può prescindere dalle regole universali in base alle quali soggetti della stessa specie codificano, e per questo possono anche esprimere in forma di giudizio, una tale indipendenza. Ben di più, pensare di disporre di una visione sulle cose che si dia indipendentemente dal modo in cui le cose si rendono accessibili a noi significherebbe appellarsi alle risorse, di principio inattingibili, di una ragione che, per così dire, pensa e conosce al posto nostro; e cioè di una verità nei riguardi della quale saremmo semplicemente ricettivi, o al modo di un’anima in cui siano state impresse sin dalla nascita, per opera di un autore saggio del mondo, le idee di tutte le cose in generale, o al modo di una mens-tabula sulla quale gli oggetti, per movi-

12  GMS, AA 4: 411-412; tr. it., p. 101. Sul peso della componente antropologica, legata al ruolo inaggirabile della particolare configurazione della nostra facoltà conoscitiva nell’ambito dell’indagine critica cfr. i rilievi di N. Rescher, Kant and the Reach of Reason. Studies in Kant’s Theory of Rationale Systematization, Cambridge University Press, 2000, pp. 40-52.

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mento loro proprio, imprimano la loro forma. Si tratterebbe, in ogni caso, di un’esperienza conoscitiva in cui l’uomo non è il soggetto conoscente, tanto che non avrebbe neppure senso parlare della ragione «considerata soggettivamente come una facoltà della conoscenza umana»13. Come pure non ci sarebbe più spazio per il «nostro intelletto discorsivo, che ha bisogno di immagini», e che per questo non può riferirsi a oggetti muovendo da semplici concetti se non operando una sintesi del molteplice empirico dato nell’intuizione14. Nella direzione che riconduce ogni pretesa razionale di universalità entro i limiti che costituiscono la nostra facoltà conoscitiva va anche, almeno in parte, l’esito di quella particolare forma di deduzione che Kant nella dialettica trascendentale riserva alle idee della ragione. Come è noto, le idee, sebbene non possano esibire alcuna realtà oggettiva, svolgono una funzione essenziale in relazione alla conoscenza degli oggetti che si danno nell’esperienza. Ma ciò fanno solo nella misura in cui vengono piegate alla disciplina di un uso immanente, conforme ai poteri specifici della facoltà conoscitiva umana. In quella che Kant chiama «deduzione soggettiva», distinguendola dalla «deduzione oggettiva»15 dei concetti dell’intelletto, le idee si legittimano, infatti, come regole necessarie per l’uso coerente dell’intelletto in relazione alla ricerca di una unità sistematica nel complesso delle leggi empiriche particolari della natura.

13  KrV, A 297/B 353; tr. it., p. 531. 14  KU, AA 5: 408; tr. it., p. 499. Cfr. anche KrV, B 138-139; tr. it., pp. 249251, B 145-146; tr. it., p. 259. 15  KrV, A 336/B 393; tr. it., p. 581.

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4. Il grado più alto di giudizio Senonché, il compito della critica non si arresta qui. Alla «deduzione soggettiva» delle idee trascendentali è, infatti, richiesto un lavoro ben più arduo in relazione al quale viene in luce, in tutta la sua problematicità, il modo in cui Kant intende la ragione umana. Una critica della ragione deve, infatti, fare i conti con un’istanza conoscitiva e normativa di incondizionatezza che si impone anche indipendentemente dall’utilità che essa riveste in vista del progetto della massima unificazione possibile dei fenomeni e della sintesi delle condizioni sotto cui essi si rendono conoscibili a noi. Più precisamente, il bisogno di unità che è proprio della ragione, quel che Kant chiama in senso proprio Vernunfteinheit16 non va riguardato semplicisticamente nei termini funzionali della proiezione su scala più ampia dei compiti che la facoltà intellettiva, in connessione con la sensibilità, assolve in sede conoscitiva. Detto diversamente: le idee della ragione non cercano, e non trovano, piena legittimazione nella logica pragmatico-esigenziale di un criterio che orienta il perfezionamento della nostra conoscenza. Una deduzione che si fermasse a questo risultato, un tribunale che si arrestasse a questo grado di giudizio, non si sarebbe infatti confrontato fino in fondo con l’interesse che caratterizza in proprio la ragione. Come dice Kant, Ciò che […] ci spinge a oltrepassare di necessità il confine dell’esperienza e di tutto ciò che ci appare è l’incondizionato, quello che, rispetto ad ogni condizionato, la ragione esige necessariamente e a pieno diritto [mit allem Recht] nelle cose in se stesse, per poter concludere così la serie delle condizioni.17

Si tratta, perciò, di un «diritto» che può chiarirsi solo in un grado ulteriore di giudizio, in cui venga direttamente chiamato in 16  KrV, A 307/B 363; tr. it., p. 543. 17  KrV, B XX; tr. it., p. 39.

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causa il rapporto della ragione con se stessa. In discussione è qui, infatti, una pretesa incommensurabile rispetto a quel che si può comprendere e giustificare nella forma di un canone per l’uso coerente della conoscenza intellettiva. In definitiva, l’azione di ricondurre la molteplicità delle leggi empiriche della natura al concetto razionale di un’unità sistematica non è unicamente imputabile a un artificio economico18. Una tale posizione ridurrebbe la ragione e i suoi scopi a una sorta di funzione epistemica dell’intelletto, con il risultato, ben noto agli storici delle interpretazioni della prima Critica, di restringere l’indagine trascendentale sui limiti della ragione alla formulazione di una gnoseologia. La ragione kantiana coltiva l’incondizionato per un suo proprio bisogno, per un interesse che concerne la sua stessa natura: La ragione umana, infatti, anche senza essere mossa dalla mera vanità di un grande sapere, procede inarrestabilmente – spinta dal suo proprio bisogno – fino a delle questioni che non possono essere risolte da un uso empirico della ragione e dai principi presi a prestito da quest’uso.19

L’incondizionato non esprime, cioè, semplicemente una funzione, un principio regolativo della conoscenza, esso è uno scopo che la ragione coltiva in piena conformità alla propria natura di ragione, e di là dalla finalità legata all’uso strettamente conoscitivo, rivolto agli oggetti dell’esperienza20. 18  Come sottolinea L. Filieri: «La ragione ha sì per oggetto l’intelletto, ma non ha lo stesso oggetto dell’intelletto» (L. Filieri, Natura e funzione delle idee trascendentali, in «Con-Textos Kantianos. International Journal of Philosophy», n. 7, 2018, pp. 392-409: p. 401). 19  KrV, B 21; tr. it., p. 97. 20  Così Kant, in riferimento alla necessità di andare oltre i compiti già svolti in sede di Analitica dell’intelletto: «[…] non ci sembra sufficiente che si esponga semplicemente ciò che è vero, ma anche ciò che si desidera sapere» (KrV, A 237/B 296; tr. it., p. 453).

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Una deduzione delle idee della ragione, e con essa il compito critico considerato in tutta la sua portata, non può non confrontarsi con questo dato che tocca i bisogni, gli scopi della ragione secondo quella natura che la riguarda in proprio.

5. Il tribunale supremo della ragion pura Nel bisogno razionale dell’incondizionato è in gioco un’istanza di universalità e necessità per la quale è richiesta non solo una «Rechtfertigung kat’anthropon»21, ma una validità estendibile, in linea di principio, a ogni essere razionale.

21  KrV, A 739/B 767; tr. it., p. 1049. Sulle diverse occorrenze e sulla complessità semantica dell’espressione kat’anthropon nel contesto dell’opera kantiana, cfr. i rilievi circostanziati di M. Sgarbi, La distinzione aristotelica kat’anthropon-kat’aletheian in Kant, in «Sophias», n. 1, 2008, pp. 1624, in part. pp. 21-23, in cui si conclude affermando che «l’obiettivo della filosofia trascendentale di Kant sia proprio quello di investigare ciò che è kat’anthropon» (ivi, p. 23). Questa affermazione vale senz’altro in relazione alla confutazione critica di ogni pretesa di accedere alle cose prescindendo dalle condizioni in cui le cose sono accessibili a noi. Tuttavia, identificare in questa limitazione la portata dell’intera filosofia trascendentale rischia di fornire una visione troppo addomesticata del progetto critico kantiano, perché ridotta nello spazio esiguo di una critica della ragione a misura d’uomo. Certamente, il punto di vista kat’aletheian rimane di principio inaccessibile alla ragione umana. E però resta vero che la ragione, in quanto funzione spontanea, rispondente al principio di una legislazione autonoma, che non tollera alcuna censura che non provenga dal suo stesso esercizio critico, attesta in seno al pensare e all’agire dell’uomo la presenza irriducibile di una tensione tra condizionato e incondizionato su cui il punto di vista kat’anthropon non può avere l’ultima parola; pena il rompere il delicato equilibrio che, solo, impedirebbe di fare dell’uomo e della sua condizione finita il punto di vista assoluto sulle cose. Del resto Kant non si è accontentato di scrivere un saggio sull’intelletto umano e neppure un trattato della natura umana, ma si è lanciato nel progetto più ambizioso di una critica della ragion pura, il cui uso investe i diversi ambiti dell’esperienza umana,

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Comprendere in che senso tale istanza possa valere come legittima, senza che con ciò vengano superati i limiti della ragione umana, è la vera sfida della critica. Tale sfida implica di specificare il modo affatto peculiare in cui, in seno alla ragione, il tema del bisogno dell’incondizionato viene a chiarirsi in connessione con quel che la ragione stessa può e deve rivendicare come un suo diritto. Il bisogno dell’incondizionato, che risponde alla esigenza della ragione di superare lo spazio empirico in cui può esercitarsi legittimamente la conoscenza umana, non esprime infatti un desiderio contingente, un capriccio legato alla vanità e alla smania di estendere le nostre cognizioni al di là dei limiti e dei poteri di cui disponiamo. Il bisogno che qui è in gioco si radica nella natura stessa della ragione. Ora però, parlare di natura della ragione, parlare di natura, nel caso della ragione, non fa riferimento a una costituzione data, che si tratti dell’uomo o di qualunque altro essere. La pretesa normativa della ragione, che si esprime nel concetto dell’incondizionato, esorbita dai poteri dell’uomo non solo e non tanto perché la natura umana finita è incapace di darvi completa soddisfazione, ma anche e soprattutto perché dell’uomo, come di qualunque altro essere razionale, essa esprime propriamente il non essere interamente vincolato alle condizioni di una costituzione ontologica specifica22. È precisamente quel che Kant intende

illuminandone, ma insieme anche turbandone, il corso con le sue ambiziose e inderogabili pretese. 22  Se di una “natura” della ragione deve parlarsi, questa va intesa allora, piuttosto, in una accezione più prossima a quella che il termine assume nella Religionschrift in connessione alla questione della libertà umana. Il termine “natura” viene qui utilizzato da Kant come indicazione problematica del fondamento soggettivo dell’agire spontaneo, in sé insondabile perché non riconducibile a un che di dato, e che però «è anteriore ad ogni fatto che cade sotto il sensi» (RGV, AA 6: 20-21; tr. it., p. 19).

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quando, nel delineare il profilo critico della ragione, afferma che essa non può, di principio, accettare «altra censura al di sopra di sé»23, sicché le regole del suo agire non possono essere dettate da una costituzione ontologica data che la preceda e la pre-­determini, sia essa la natura umana, o ancora la costituzione specifica di un altro essere razionale, o persino la natura dell’essere divino. Se Kant parla di «natura» della ragione, ciò va inteso, allora, nel senso che è proprio della ragione, in quanto attività spontanea, seguire una legislazione autonoma, che non obbedisce alle condizioni e alle regole iscritte nella natura di questo come di qualsivoglia altro ente24. Così inteso, il bisogno dell’incondizionato non dà forma soltanto all’esigenza di ciò che non si dà a conoscere ma, ben altrimenti, è il concetto senza di cui non avrebbe neppure senso 23  KrV, A 795/B 823; tr. it., p. 1121. «Questa capacità di operare in modo puro è, secondo Kant, il tratto più alto e più caratteristico della ragione, e spiega perché la ragione non ha una misura esterna con cui confrontarsi; nessuna forma data dall’esterno che limiti o vincoli la sua propria attività di dar forma. Quindi, se deve esserci una critica della ragione pura come tale, allora questa può essere messa in atto solo assumendo il giusto punto di vista all’interno della ragione, e da qui delineando la sua struttura così come essa sorge naturalmente e con totale spontaneità unicamente dalla natura della ragione stessa» (C.D. Fugate, The Teleology of Reason. A Study of the Structure of Kant’s Critical Philosophy, de Gruyter, Berlin-Boston 2014, p. 17). 24  Da questo punto di vista, ha ragione O. O’Neill quando afferma che «L’autonomia non è il conseguimento speciale del più indipendente, ma una proprietà di ogni essere razionale» (O. O’Neill, Constructions of Reason. Explorations of Kant’s Practical Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 76). Nella declinazione kantiana del concetto di autonomia, in quanto proprietà che connota in modo essenziale la vita dell’ente razionale, si possono individuare i termini di una distanza critica radicale da ogni modello di libertà fondato sul privilegio di un ente autarchico. L’autonomia non è, infatti, da attribuirsi alla condizione specifica di un particolare tipo di ente, ma alla possibilità dell’esercizio della ragione in quanto tale, qualunque sia la natura specifica o anche la condizione contingente in cui la ragione viene esercitata.

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parlare di ragione, e conseguentemente neppure di una sua applicazione in ordine alla conoscenza. Compreso nello spazio autenticamente metafisico, segnato dal rapporto della ragione con stessa, e dunque non semplicemente commisurato al ruolo che esso assolve in relazione alla conoscenza degli oggetti dell’esperienza, il bisogno dell’incondizionato risulta, dunque, indistinguibile dal profilo eminentemente critico di una ragione che, nel seguire la sua natura di attività spontanea, non si sottopone ad alcuna legislazione esterna, o alle regole di una qualche costituzione data che la predetermini e con ciò la condizioni. In definitiva, il concetto dell’incondizionato incontra il senso stesso di una ragione la cui natura e la cui esistenza si fondano sulla possibilità del libero esercizio della critica come massima espressione di una forma di vita autonoma25. In questo, e solo in quest’ultimo grado di giudizio, che spetta al «tribunale supremo [der oberste Gerichtshof]»26 della ragione, prende forma determinata quel concetto di essere razionale in generale che, in ambito pratico-morale, costituirà il principio su cui si fonda un discorso metafisico sui costumi, la cui legislazione deve risultare cogente non solo per l’uomo, ma per ogni essere razionale. Oggetto del dibattimento nel tribunale supremo è un diritto che riguarda in proprio l’esercizio della ragione. Si tratta di quel che Kant, con espressione solo in apparenza problematica, presenta nello scritto Cosa significa orientarsi nel pensiero, come «il diritto del bisogno della ragione [das Recht des 25  Cfr. A 738/B 766; tr. it., p. 1049. In riferimento alle pretese sollevate in sede di ragion pura non si può, allora, parlare semplicemente di un bisogno insoddisfatto, ma di una struttura tensiva, implicita del resto nel principio stesso della critica, che ha a base la libertà e non un incondizionato concepito al modo dogmatico di un fondamento dato. 26  KrV, A 669/B 697; tr. it., p. 959.

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Bedürfnisses der Vernunft]»27; là dove, potremmo dire, una natura bisognosa, desiderante l’incondizionato, non può più distinguersi da una ragione che, nel suo esercizio critico, esibisce la legittimità di un tale bisogno28. E ciò perché l’istanza

27  WDO, AA 8: 137; tr. it., p. 51. 28  Fuori da questo straordinario connubio di diritto e bisogno c’è solo lo spazio per una ragione dogmaticamente incredula (cfr. WDO, AA 8: 146; tr. it., p. 65). Altra questione, che meriterebbe un’indagine dedicata, è ovviamente quella di chiarire i termini kantiani in cui all’esercizio del pensare razionale può essere riferito qualcosa come un bisogno. Il ricorso sistematico in Kant a formule in cui si parla di una ragione che, in prima persona, esprime bisogni, coltiva interessi, alimenta illusioni, cerca soddisfazione, desidera, ecc. non può, in effetti, non provocare più di una domanda circa il modo più appropriato di interpretare simili espressioni. Mi pare fornisca non pochi spunti di riflessione al riguardo P. Kleingeld la quale, in opposizione alle letture che riferiscono queste immagini a una funzione esclusivamente metaforico-decorativa, riconduce il «lessico del bisogno» a un uso simbolico, nel senso squisitamente kantiano dell’analogia filosofica (cfr. P. Kleingeld, The Conative Character of Reason in Kant’s Philosophy, in «Journal of the History of Philosophy», n. 1,1998, pp. 76-97, in part. pp. 91-97). Senza entrare nel merito della questione mi limito qui a sottolineare quel che ritengo essenziale in relazione al presente lavoro. Parlare di bisogno della ragione implica una reinterpretazione del concetto di “bisogno” e soprattutto del modo in cui l’aver bisogno si lega a una condizione di mancanza. Nel caso dell’esercizio spontaneo della facoltà razionale parlare di bisogno significa certamente fare riferimento a una condizione di mancanza. E però, questo mi pare sia il punto essenziale, il mancare assume qui una connotazione non semplicemente negativa, privativa. Esso si ascrive piuttosto al principio stesso della critica in quanto legata a un esercizio del pensare che non può, ma anche non deve, contare su un accesso all’incondizionato nei termini dogmatici di un fondamento dato; e ciò perché a partire dal punto di vista autonomo della critica l’incondizionato viene a configurarsi non come dogma ma come scopo da concepire in un uno con la dimensione dell’agire libero. In questo senso si dà un bisogno della ragione che non va semplicisticamente consegnato alla condizione finita di un essere manchevole, ma va più problematicamente riferito a una forma di manchevolezza sui generis, che concerne esattamente la condizione di libertà della critica e del concetto di incondizionato ad essa intimamente connesso.

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dell’incondizionato, prima di tradursi, in sede strettamente conoscitiva, in un principio regolativo che orienta la conoscenza dei fenomeni, e persino prima di segnare la via che conduce al piano della conoscenza pratica, esprime in senso eminente la natura della ragione, in quanto fonte di pretese e di istanze la cui legittimità non può, di principio, ancorarsi alla costituzione specifica di un essere, sia esso l’essere umano o, persino, l’essere divino. In conclusione: i gradi successivi di giudizio secondo cui opera il tribunale della ragion pura offrono un punto di vista privilegiato a partire dal quale riguardare il concetto kantiano di ragione umana in tutta la sua complessità. Se l’espressione «ragione umana» indica una facoltà che rientra nel corredo fisiologico delle nostre disposizioni conoscitive, e, come tale, viene considerata «soggettivamente come una facoltà conoscitiva umana», in virtù del possesso della ragione l’uomo si fa, però, testimone di istanze, pretese, progetti sulla cui soluzione egli, in quanto dotato di una natura e di poteri specifici, non può avere l’ultima parola. L’indagine critica assolve, cioè, al compito che le è proprio non semplicemente in quanto determina lo spazio di legittimità dell’uso puro della nostra facoltà conoscitiva, ma in quanto libera dalla morsa di ogni antropomorfismo dogmatico il significato di quelle pretese che la ragione coltiva di per sé, e il cui scopo, legato com’è all’esercizio del pensiero critico quanto alla dimensione autonoma dell’agire pratico, non è riducibile al semplice incremento delle cognizioni e delle abilità umane.

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II Antropologia da un punto di vista critico

1. L’interesse per lo straniero La filosofia kantiana ha sempre mostrato particolare interesse per la condizione e le sorti dell’ospite straniero. Le pagine di epoca tarda sul diritto cosmopolitico ne sono una chiara testimonianza e offrono anche a noi contemporanei spunti interessanti di riflessione su questioni che ineriscono alla cittadinanza, alle relazioni internazionali e, più in generale, a ciò che noi oggi ascriveremmo ai diritti umani. Lo straniero che giunge in terra d’altri ha anzitutto il diritto di non essere trattato come un nemico, a meno che, infrangendo le regole dell’«ospitalità universale» e della convivenza pacifica tra gli uomini, non trasformi la sua visita in invasione1. Nell’ambito della produzione kantiana l’interesse cosmopolitico per la condizione dello straniero non rimane, però, con-

1  Cfr. ZeF, AA 8: 357; tr. it., p. 177. Si avrà modo di trattare nei capitoli successivi della figura dello straniero in relazione alle questioni sollevate dal progetto filosofico-giuridico che Kant consegna allo scritto Sulla pace perpetua e, più in generale, in connessione alle profonde ricadute che la trattazione del diritto cosmopolitico registra sul terreno della ricerca teoretica e sul concetto kantiano di ragione umana. Cfr. in particolare infra, capp. IV e V.

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finato nello spazio della riflessione politico-giuridica. Esso si radica piuttosto nel tessuto teoretico della ricerca critica sui poteri e i limiti della nostra facoltà conoscitiva, intercettando la questione architettonica del rapporto tra le diverse forme del sapere umano e, con ciò, iscrivendosi nella costruzione complessa della filosofia kantiana. Essa appare da un lato caratterizzata dall’intenzione di istituire, nell’ambito di una topografia della ragione umana, confini precisi, distinguendo ad esempio tra facoltà spontanea e capacità ricettiva, uso puro e uso empirico della ragione, conoscenze a priori e a posteriori, filosofia pura e discipline empiriche, ecc.; dall’altro, però, il sistema richiede per il suo stesso funzionamento che talvolta i confini diventino più sfumati, in modo da consentire il passaggio in zone non del tutto inquadrabili in un ordine istituzionalizzato. Zone di confine appunto, nelle quali accade di imbattersi in abitanti che appartengono a luoghi diversi e tra loro distanti. Non deve stupire, allora, che la figura dell’ospite straniero, oltre a sollevare un interrogativo per la dottrina kantiana del diritto, compaia anche nel bel mezzo dell’Architettonica della ragion pura, là dove Kant traccia in forma sistematica i confini della metafisica. In quel luogo, ponendo l’accento sul carattere improprio della presenza della psicologia empirica tra le discipline metafisiche, l’autore della prima Critica scrive: Si tratterebbe dunque come di uno straniero, ospitato già da tanto, a cui si concedesse un soggiorno per qualche tempo ancora, finché esso possa trovare la sua propria dimora in un’antropologia completamente sviluppata (il corrispettivo di una scienza empirica dell’uomo).2

Sembra insomma che anche qui sia richiesto un diritto “cosmopolitico” che supplisca alle lacune di un sistema non ancora articolato in tutte le sue parti, regolando i rapporti di 2  KrV, A 849/B 877; tr. it., p. 1191.

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ospitalità tra discipline che appartengono a ordini diversi del sapere umano: da un lato la metafisica, con il suo bagaglio di conoscenze pure; dall’altro l’antropologia, considerata come stadio finale della trasformazione della psicologia empirica in una più ampia e sistematica conoscenza dell’uomo3. Questo studio prende in esame i termini del rapporto problematico tra filosofia pura e conoscenza dell’uomo, provando a rispondere al seguente interrogativo: in che senso l’antropologia, intesa da Kant come scienza empirica, può far parte del progetto trascendentale di una critica della ragion pura? Non ci si dovrebbe piuttosto attenere a una separazione irrimediabile tra ordini di indagine che perseguono scopi affatto diversi e secondo metodi che hanno poco o nulla in comune? Rispondere a queste domande appare fondamentale per gettare luce su quel che Kant intende con l’espressione «ragione umana» e, dunque, per meglio chiarire la natura del rapporto che sussiste tra l’uomo come tema dell’antropologia e la ragione come oggetto della ricerca critica. Detto diversamente, accedere in modo rigoroso al significato dell’espressione «ragione umana», intenderne il ruolo e determinarne il posto nell’ambito della filosofia di Kant implica, innanzitutto, il doversi misurare con le difficoltà che sorgono sul terreno delle relazioni tra le diverse parti del sistema. 3  Sul confluire della psicologia nel progetto di una conoscenza empirica dell’uomo e sul significato profondo che questo passaggio riveste nell’ambito del ripensamento kantiano dell’intero disegno della metafisica cfr. i rilievi di N. Hinske, La psicologia empirica di Wolff e l’antropologia pragmatica di Kant. La fondazione di una nuova scienza empirica e le sue complicazioni, in G. Cacciatore - V. Gessa Kurotschka - H. Poser - M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico. Atti del Convegno internazionale di Napoli, 2-5 aprile 1997, Guida, Napoli 1999, pp. 207-224; R. Brandt, Aux origines de la philosophie kantienne de l’histoire. L’anthropologie pragmatique, in «Revue germanique internationale», VI, 1996, pp. 19-34.

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2. L’antropologia come conoscenza empirica Anche il lettore più fiducioso nelle risorse architettoniche della filosofia kantiana non può non registrare una certa difficoltà nel trovare una posizione all’antropologia nell’ambito del progetto critico. Tanto più che nemmeno i testi kantiani sembrano dare alcun soccorso, offrendo suggerimenti sia a chi intenda confermare l’antropologia in quello statuto di conoscenza meramente empirica che la tiene a debita distanza dalla filosofia pura, sia a chi, seguendo una direzione radicalmente opposta, rinviene nel progetto di una antropologia fondamentale il senso stesso dell’impresa critica. Gli interpreti del primo tipo possono segnare a loro favore la cura metodica di Kant nel delimitare, come si è visto, il campo delle conoscenze metafisiche rispetto al dominio epistemico della psicologia empirica e dell’antropologia. Inoltre, possono esibire come prova la stessa struttura generale delle lezioni antropologiche, il cui profilo risulta costantemente legato a osservazioni di carattere empirico. Ciò non implica, però, che si debba assecondare il giudizio sommario col quale Schleiermacher riduce l’antropologia pragmatica a una collezione di trivialità lontane dalla prospettiva e dallo spirito delle tre critiche4. Si può anche, con Brandt, riconoscere la presenza in Kant di una un’indagine sull’uomo che assume la forma sistematica di una scienza, senza dover sostenere che una tale scienza appartenga alla filosofia in senso stretto e costituisca un sistema articolato sulla base di un’idea di ragione5. Resta vero, comunque, che qualsiasi diagnosi che tenda a marcare in modo radicale la distanza tra l’impresa critica e l’antro4  Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Rezension von: Immanuel Kants Anthropologie, in Id., Kritische Gesamtausgabe, vol. I/2, a cura di G. Meckenstock, de Gruyter, Berlin 1799, pp. 365-369. 5  R. Brandt, Die Leitidee der Kantischen Anthropologie und die Bestimmung des Menschen, in R. Enskat (a cura di), Erfahrung und Urteilskraft, Königshausen und Neumann, Würzburg 2000, pp. 27-40, p. 27.

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pologia non può glissare impunemente sulle tante incursioni della filosofia pura sul terreno empirico dell’indagine antropologica. Solo per citare qualche esempio, si pensi agli argomenti trattati nel § 7 dell’Antropologia dal punto di vista pragmatico, come la distinzione tra facoltà attiva e capacità ricettiva dell’animo o la distinzione tra spontaneità dell’appercezione e senso interno; temi che, come è noto, stanno al cuore della riflessione kantiana sui limiti dell’uso puro della ragione6. Di più, il programma di un’antropologia intesa come conoscenza rivolta non a ciò che la natura fa dell’uomo, ma a ciò che l’uomo in quanto agente libero può e deve fare di se stesso7, esibisce, pur nel quadro esplicito di una ricerca empirica rivolta ai fenomeni osservabili dell’esistenza umana, un’istanza normativo-teleologica la cui portata non può essere corretta6  È vero che Kant tratta questi temi, e in special modo quello concernente il rapporto tra senso interno e appercezione trascendentale, nello spazio circoscritto di una annotazione che egli stesso dichiara non appartenere all’antropologia, essendo di interesse dell’indagine metafisica, «che ha a che fare con la possibilità della conoscenza a priori» (Anth, AA 7: 142-143; tr. it., p. 130). Tuttavia, anche in questo caso, il giudizio viene subito mitigato: «Ma era comunque necessario ritornare un po’ indietro, per impedire anche soltanto gli sbagli in cui si imbatte a questo riguardo una mente speculativa […]. Pertanto è consigliabile, e addirittura indispensabile, incominciare da fenomeni osservati entro sé, per procedere solo in seguito all’affermazione di certi principi concernenti la natura dell’essere umano» (Anth, AA 7: 143; tr. it., p. 130). Sulla differenza di piani che la distinzione tra senso interno e appercezione gioca rispettivamente all’interno della prima Critica e dell’antropologia insiste Foucault, pur nella cornice di una interpretazione che, nel metodo e negli esiti, va ben al di là di un contesto di esegesi dell’opera kantiana (M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, tr. it. di G. Garelli, in Anth, pp. 9-94: p. 23). Sulla peculiarità dell’interpretazione foucaultiana dell’antropologia kantiana cfr. T. Tuppini, Critica o antropologia? Alcune considerazioni intorno all’Introduzione all’antropologia di Kant (1961) di Michel Foucault, in Was ist der Mensch / Que é o Homem. Antropologia, Estética e Teleologia em Kant, Centro de Filosofia da Universidade de Lisboa, 2010, pp. 259-272. 7  Cfr. Anth, AA 7: 119; tr. it., p. 99.

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mente valutata senza il riferimento al corpus delle tre critiche8. E da ultimo, non può passare inosservata la complicità tra i temi discussi in sede di Architettonica della ragion pura in merito alla necessità che il sapere di scuola si apra a una visione che concerne il senso dell’esistenza umana nella sua interezza, e un’antropologia che deve chiarirsi essenzialmente come sapere capace di orientare nel mondo9. Su questo punto avremo modo di tornare nella parte conclusiva del capitolo. Le incursioni della filosofia trascendentale sul terreno dell’antropologia, se in nessun modo possono autorizzare ad abbandonare lo spazio dell’indagine empirica, suggeriscono comunque di contestualizzare tale indagine in un quadro di questioni più ampio a partire dal quale anche la domanda sull’uomo presenta, già da subito, un profilo più complesso di quello 8  Ha ragione R. Lauden quando sottolinea: «Il forte sottofondo teleologico presente nell’analisi kantiana della destinazione dell’umanità è un chiaro segno del fatto che l’antropologia, per quanto intesa come una scienza nella quale “i fondamenti della conoscenza vengono tratti dall’osservazione e dall’esperienza”, non è semplicemente una scienza empirica» (R. Lauden, Kant’s Human Being. Essays on his Theory of Human Nature, Oxford University Press, 2011, p. 76). Sulla necessità di contestualizzare l’impostazione kantiana del problema antropologico nella cornice critica del giudizio teleologico ha insistito con particolare enfasi H.L. Wilson, Kant’s Pragmatic Anthropology. Its Origin, Meaning, and Critical Significance, State University of New York Press, Albany 2006. Sulla rilevanza filosofica dell’antropologia kantiana cfr., più in generale, G. Böhme, Immanuel Kant. Die Bildung des Menschen zum Vernunftwesen, in R. Weiland (a cura di), Philosophische Anthropologie der Moderne, Beltz Athenäum Verlag, Weinheim 1995, pp. 30-38, in part. pp. 30-32. 9  Sull’intreccio tra la dimensione cosmica del filosofare, che emerge in modo esplicito nelle pagine dell’Architettonica della ragion pura, e il senso di un’antropologia che si declina come sapere concernente l’uomo in quanto cittadino del mondo cfr. in particolare i rilievi di C. La Rocca, il quale parla opportunamente di un «nesso tra filosofia come sistema cosmopolitico e destinazione dell’uomo cui fa capo il carattere pragmatico dell’antropologia» (C. La Rocca, Le lezioni di Kant sull’antropologia, in «Studi kantiani», XIII, 2000, pp. 103-117: p. 115).

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che può essere delineato sulla base dell’osservazione del comportamento e degli accadimenti umani. In altri termini, se è ambizione di Kant conferire all’antropologia lo statuto di una scienza autonoma nella quale far confluire le ricerche della psicologia empirica, ciò non esclude però, anzi addirittura prevede, la possibilità di coltivare uno sguardo su tali ricerche che attinga a risorse non reperibili in seno alla sola osservazione empirica. Anzi, è proprio l’appello a queste risorse che consente a Kant di operare una distinzione in seno alla ricerca antropologica tra un punto di vista empirico e un punto di vista pragmatico, quest’ultimo rivolto alla capacità auto-formativa che caratterizza l’uomo in quanto ente libero. D’altra parte – e qui veniamo al punto che più direttamente ci interessa – distinguere tra diversi punti di vista a partire da cui può essere investigato l’uomo e, più in particolare, interrogarsi sulle disposizioni che lo concernono in quanto ente razionale, non deve in alcun modo costituire la premessa per una indiscriminata moltiplicazione degli enti che si spinga fino alla ricerca di un modello ulteriore di indagine antropologica che semplicemente trascenda il piano delle cognizioni empiriche. È il rischio dogmatico cui si espongono quelle posizioni che, contrapponendosi a ogni riduzionismo in chiave empirista dell’indagine kantiana sull’uomo, finiscono però con l’ancorare all’elaborazione di un’“antropologia fondamentale” la tenuta stessa del sistema critico, ponendo, così, alla base delle questioni discusse nell’ambito delle tre critiche il riferimento a una precisa idea di costituzione o natura umana. Non sono poche, come vedremo, le difficoltà che emergono da questo indirizzo ermeneutico, il quale, facendo riferimento soprattutto ad alcuni luoghi noti dell’opera kantiana10, insiste sulla

10  Cfr. ad es. Log AA 9: 25; tr. it., p. 19, Br, AA 11: 429; tr. it., p. 319, VMet-L2/Pölitz AA 28: 533 534.

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centralità della domanda sull’uomo quale perno attorno a cui ruotano le domande poste da Kant in sede di filosofia pura. Se, infatti, un confinamento dell’indagine sull’uomo sul terreno dell’osservazione empirica rischia di non dare il giusto peso alle questioni che stanno sullo sfondo della considerazione di un ente capace di riscrivere secondo una finalità libera il rapporto con il proprio corredo naturale, l’insistenza ostinata sulla domanda intorno all’uomo quale chiave di accesso al senso più profondo del progetto critico rischia invece, da parte sua, di travisare il vero scopo dell’indagine trascendentale sui limiti della ragione.

3. L’antropologia come scienza fondamentale L’istanza di un’“antropologia fondamentale” assume in seno alla Kant-Forschung forme molteplici che testimoniano l’intersecarsi su uno sfondo comune di indirizzi filosofici tra loro anche molto distanti. A questo atteggiamento interpretativo possono, infatti, ascriversi anzitutto letture che, come quella di E. Weil o di M. Foucault, lamentano in Kant la mancanza di una tematizzazione adeguata della questione dell’uomo. In questo caso la figura dominante diviene quella, codificata da Heidegger11, di un Kant che indietreggia pavido di fronte al compito di un’indagine radicale sulla costituzione ontologica della soggettività finita dell’uomo12. 11  Di questo e di altri aspetti dell’interpretazione heideggeriana di Kant mi sono occupato in modo tematico in Soggettività e trascendenza. Da Kant a Heidegger, il melangolo, Genova 2005. 12  E. Weil afferma, ad es.: «Risulta così che il fondamento ultimo della filosofia kantiana deve essere ricercato nella sua teoria dell’uomo, nell’antropologia filosofica, non in una “teoria della conoscenza” e neppure in una metafisica, che pure rappresentano parti essenziali del sistema. Ma Kant

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Il riferimento all’antropologia come Grundwissenschaft sulla quale si giocano, o dovrebbero giocarsi, le sorti della filosofia pura non costituisce, però, solo il termine polemico di quelle posizioni che, nell’assenza di una scienza siffatta, denunciano un deficit fondativo nell’impresa critica. L’idea di un’antropologia fondamentale guida, in modo più o meno esplicito, anche le interpretazioni che rinvengono nella Critica della ragion pura in particolare, e, più in generale, nell’intero edificio critico, l’esecuzione del progetto di un’indagine «trascendentale» dell’uomo, intesa nel senso di un’analisi delle facoltà conoscitive umane che prescinda dai contesti concreti e dai limiti contingenti in cui esse vengono esercitate. Come dire, alle ricerche empiriche che indagano la natura umana a partire da fenomeni osservabili si affiancherebbe in Kant un’“antropologia pura” che intercetta le domande fondamentali della filosofia critica; un’indagine sistematica delle condizioni e dei limiti costituitivi dell’uomo in quanto soggetto pensante, conoscente, desiderante, senziente, ecc. Frierson parla, ad es., di tre ordini dell’antropologia kantiana: un ordine normativo proprio di un’«antropologia trascendentale» che definisce ciò che l’uomo dovrebbe pensare, sentire o scegliere, il piano descrittivo di un’antropologia empirica che classifica e categorizza i modi osservabili in cui l’uomo pensa, sente e agisce, e l’ordine di una conoscenza pragmatica nella quale i due approcci, normativo e descrittivo, si combinano insieme13.

non fa di questo fondamento del suo pensiero l’oggetto della sua riflessione, non lo tematizza» (E. Weil, Problèmes kantiens, Paris, Vrin, 1963, p. 33; tr. it. di P. Venditti, E. Weil, Problemi kantiani, Quattroventi, Urbino 1983, p. 36. Cfr. anche M. Buber, Das Problem des Menschen, Heidelberg, Lambert Schneider, Heidelberg 1948, pp. 11, 14). 13  Cfr. P.R. Frierson, What is the Human Being?, Routledge, London-New York 2013, p. 6.

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La tentazione è, insomma, quella di adottare l’espressione anthropologia transscendentalis che, però, occorre una volta nell’intero arco della produzione kantiana, e per di più in un contesto ben circostanziato14, per qualificare un tipo di indagine sull’uomo che si porrebbe a un livello preliminare rispetto al terreno in cui opera la ricerca empirica, sino a innervare la struttura stessa dell’edificio critico. Il caso di Frierson costituisce un esempio emblematico di come una parte della Kant-Forschung abbia dilatato lo spazio dell’indagine sull’uomo, sino a farne l’orizzonte in cui ripensare il senso delle domande poste dalla filosofia pura. Su questa linea interpretativa si collocano anche coloro che, pur tenendo distinto in Kant l’ordine delle conoscenze pure rispetto al campo delle ricerche antropologiche, tendono comunque a leggere il corpus delle opere critiche come uno studio delle facoltà conoscitive umane fondamentali che fa da precondizione per un’antropologia concepita come progetto per l’orientamento dell’essere umano nel mondo, dunque per quella antropologia che in Kant assume la forma di una conoscenza pragmatica. Si è parlato, in questo senso, delle tre critiche come di un trattato della natura umana in generale15, nel quale l’esame delle facoltà conoscitive assurge al livello più profondo di un’analisi pura del pensare, del volere, del sentire, dello sperare. In questo caso non si tratta di unificare filosofia pura e antropologia nel segno del progetto, più o meno riuscito, di una scienza antropologica dal profilo non empirico nella quale confluirebbero, in ultima analisi, le questioni sollevate in sede di ricerca critico-trascendentale. Si tratta piuttosto di identifi14  Refl 903, AA 15: 395. Sul significato che l’espressione anthropologia transscendentalis riveste nel contesto della riflessione critica di Kant si tornerà nella parte conclusiva del capitolo. 15  Cfr. A. Falduto, The Faculties of the Human Mind and the Case of Moral Feeling in Kant’s Philosophy, Berlin-Boston, de Gruyter, 2014, pp. 85-86.

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care nelle facoltà conoscitive umane l’oggetto di un’indagine articolata su due livelli: quello logico-trascendentale e quello antropologico-empirico, così da costituire, sebbene secondo prospettive differenti, lo spazio nel quale pensare a una ricerca sull’uomo filosoficamente fondata. Anche in questo caso, però, il riferimento a una idea determinata di natura umana rimane l’orizzonte nel quale situare l’intera filosofia kantiana, così che lo spettro di un’antropologia onnicomprensiva, che inghiotte persino lo spazio della filosofia pura, ritorna nella forma di un’indagine sulle facoltà conoscitive umane che si muove su diversi piani, abbracciando a un estremo il campo di indagine delle Critiche e all’estremo opposto le scienze che ricostruiscono la natura dell’uomo a partire dal materiale offerto dall’esperienza.

4. Il rischio della ragione antropomorfa Ora però, nelle posizioni interpretative che, in modo più o meno diretto, ancorano il disegno critico al progetto di una conoscenza “filosofica” dell’uomo che va al di là di quel che si può evincere della sua natura sulla base dell’osservazione empirica, si annida un rischio che potremmo definire nei termini di una indebita antropomorfizzazione della filosofia pura. Il punto qui non sta nel mettere in discussione la posizione centrale che all’interno della filosofia kantiana occupa l’interesse per le forme dell’esperienza umana. E tuttavia leggere l’impresa critica come un trattato sulla natura umana, anche se intesa nei termini “puri” di un’analisi delle facoltà fondamentali dell’uomo, mi sembra rischi di far perdere di vista il senso complessivo della ricerca che Kant presenta sotto il nome di “critica della ragione”, e soprattutto il senso in cui una tale ricerca si lega alla dimensione del conoscere e dell’agire umani.

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Lo scetticismo nei riguardi di una scienza della natura umana come terreno di ancoraggio per l’impresa critica si rende, del resto, subito evidente nell’approccio sistematico alle questioni dalle quali l’impresa critica prende le mosse e che riguardano la possibilità di un uso puro della ragione: Le sue questioni [della ragione] non le ho evitate, accampando magari come scusa l’impotenza della ragione umana, ma le ho completamente specificate secondo principi.16

«Critica della ragione» significa in prima istanza confrontarsi con una pretesa conoscitiva e normativa che travalica la misura dell’umano e che dell’uomo più che indicare la natura, nel senso di un insieme di disposizioni date, prefigura la destinazione, nel senso di uno scopo la cui realizzazione, però, per quanto si imponga come necessaria, non è concepibile a partire dai soli poteri e dalle sole risorse di cui l’uomo dispone per natura. Impresa tutt’altro che facile. Non è un caso che Kant la presenti come la situazione di imbarazzo dalla quale prende le mosse l’impresa critica: La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere tormentata da questioni cui non può sottrarsi, poiché le sono imposte dalla natura stessa di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana.17

Considerata secondo la possibilità di un uso che trascende quello empirico, la ragione pone l’uomo al cospetto di questioni la cui portata oltrepassa la condizione che viene contrassegnata con l’aggettivo «umana». Nella prospettiva critica, parlare di «ragione umana» non significa, semplicemente, indicare una facoltà che rientra nelle dotazioni naturali dell’uomo, 16  KrV, A XII; tr. it., p. 13. 17  KrV, A VII; tr. it., p. 7. Traduzione modificata.

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ma implica in primo luogo l’interrogarsi sulla sproporzione che corre tra l’istanza di incondizionatezza, avanzata da un uso puro della nostra facoltà conoscitiva, e il carattere necessariamente condizionato della nostra capacità di rispondere a una simile istanza. È questo il motivo di una Verlegenheit in cui «la ragione umana cade senza averne colpa»18. “Non è colpa di nessuno: è il destino!”, si dice. Kant sottoscriverebbe questo detto in riferimento al fatto che le questioni metafisiche non sono liquidabili come un semplice errore umano. Non rispondono cioè a pensieri arbitrari. Come egli afferma: «Si tratta di sofisticazioni non degli uomini, bensì della ragion pura stessa, dalle quali neppure il più sapiente fra tutti gli uomini saprebbe liberarsi»19. Ciò però non implica che le pretese sollevate dall’uso puro della ragione siano di per sé erronee. In esse parla infatti qualcosa di decisivo che è compito della Dialettica trascendentale fare emergere, fornendo gli strumenti di un uso disciplinato delle idee della ragione. Delimitare, come Kant fa, l’isola della verità dall’oceano della parvenza non toglie che quel che è più importante, anche per vivere nell’isola, rimarrebbe ignoto a chi non ha il coraggio di avventurarsi in quell’oceano. Le idee trascendentali sono portatrici sane di un potenziale illusorio che, se non tenuto sotto il controllo sistematico di una disciplina logica, finisce col condurre alla costruzione di un sapere ingannevole. Per questo, una critica della ragione si rende necessaria, non però per prendere congedo dalle pretese più alte che essa avanza, ma per prevenire gli errori che ci porterebbero fuori strada rispetto alla vera destinazione cui ci dispone il suo uso puro; una destinazione che non coincide in alcun modo col semplice e indiscriminato accrescimento della nostra brama conoscitiva:

18  KrV, A VII; tr. it., p. 7. 19  KrV, A 339/B 397; tr. it., p. 585.

62 D’altronde, non era certo questo ciò a cui mirava la destinazione naturale [Naturbestimmung] della nostra ragione; e il dovere della filosofia era quello di eliminare l’inganno nato da un malinteso, anche se con ciò si dovesse distruggere un’illusione ancora tanto apprezzata e tanto amata.20

Il senso in cui il progetto di una critica della ragione, e con essa di una filosofia pura, si lega all’indagine sull’uomo va compreso, allora, non direttamente in relazione all’intento di fornire una qualche caratterizzazione della costituzione conoscitiva umana, ma in relazione alla possibilità di individuare il significato che per l’uomo e per la sua intera esistenza rivestono questioni la cui portata va ben oltre i poteri conoscitivi di cui egli dispone. Quando Kant presenta la critica della ragion pura come una «critica della facoltà della ragione in generale»21, egli non intende fornire una descrizione della natura umana22 concepita al livello più profondo della sua struttura conoscitivo-razionale, ma intende anzitutto farsi carico fino in fondo dell’esperienza di una sproporzione, nell’uomo, tra natura e ragione, tra ciò che all’uomo è dato e ciò a cui l’uomo è destinato. Il che è tanto più importante in relazione al fatto che la ragione non può, di principio, costituire una caratteristica che identifica la natura umana semplicemente perché, considerata in se stessa, essa non risponde ad altro che a una pura attività spontanea, la cui funzione riconduce al principio di una legislazione autonoma: 20  KrV A XIII; tr. it., p. 13. 21  KrV, A XII; tr. it., p. 11. Corsivo mio. 22  Concordo con B. Jacobs quando afferma che il punto di vista maturato dalla prima Critica non può più riconoscersi nel modello humeano di una ricerca della natura umana nella quale cercare la fondazione delle scienze che tentano di rendere assiomatiche le esperienze umane (B. Jacobs, Kantian Character and the Science of Humanity, in B. Jacobs - P. Kain [a cura di], Essays on Kant’s Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 105-134, in part. pp. 108-109).

63 la ragione non si arrende a un fondamento che sia dato solo empiricamente e non segue l’ordine delle cose così come esse si presentano nel fenomeno, ma si costruisce con piena spontaneità un proprio ordine secondo idee, alle quali essa adatta le condizioni empiriche, e in base a quelle idee dichiara come necessarie persino azioni che pure non sono accadute e forse non accadranno mai.23

Come è intesa da Kant, la ragione individua, allora, quell’aspetto per il quale l’uomo, come ogni essere razionale, non risulta interamente legato a una condizione fisiologica, a una natura data, che lo preceda e lo pre-determini, ma è in grado di riscrivere il rapporto con le proprie dotazioni naturali, esercitando un’azione auto-formativa. Su questa base Kant può distinguere nell’ambito delle cognizioni rivolte all’essere umano il punto di vista fisiologico dal punto di vista pragmatico: Una dottrina della conoscenza dell’essere umano, trattata sistematicamente (antropologia), può dirsi tale o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. La conoscenza fisiologica dell’uomo ha di mira l’indagine di ciò che la natura fa di lui, mentre quella pragmatica mira a indagare ciò che egli, in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può e deve fare di se stesso.24

Per citare un esempio, suggerito dallo stesso Kant, noi da un lato siamo fisiologicamente dotati della facoltà della memoria, dall’altro siamo in grado di sviluppare strategie atte a potenziare la nostra capacità di ricordare. Se riguardo al primo aspetto rimaniamo spettatori di quel che la natura fa di noi, per il secondo invece diveniamo attori, utilizzando quel che la natura ci ha dato per ampliarne e migliorarne la funzione in vista di

23  KrV, A 548 /B 576; tr. it., p. 807. 24  Anth, AA 7: 119; tr. it., p. 99.

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scopi arbitrari non necessariamente iscritti nel nostro tessuto fisiologico. In questa prospettiva l’interesse dell’antropologia sarà rivolto a fenomeni che risultano dall’agire dell’uomo in quanto freihandelndes Wesen. Ciò non implica però che il punto di vista pragmatico trascenda il piano dell’osservazione empirica. L’interesse conoscitivo per la natura umana, pur aspirando al profilo sistematico di una scienza, mantiene pienamente un carattere empirico. Esso è rivolto all’uomo o da un punto di vista fisiologico, ossia come un prodotto naturale, o da un punto di vista pragmatico, ossia come ente culturale. In entrambi i casi, comunque, a essere studiato è il fenomeno di un’azione, si tratti di un’azione della natura sull’uomo o dell’uomo su se stesso. Ma non viene indagato il principio dell’agire in quanto tale che può costituire solo lo sfondo problematico di una critica della ragione intesa come attività spontanea e auto-legislatrice25. Come Kant specificava già in una lettera a Markus Herz del 1773 in relazione al programma che aveva in mente per il collegium privatum di antropologia: […] vi cerco più i fenomeni e le loro leggi che i fondamenti primi della possibilità della modificazione della natura umana in generale.26

Non si tratterà, allora, di cercare nel progetto di una conoscenza antropologica di carattere non empirico l’orizzonte all’interno del quale comprendere le questioni fondamentali della filosofia critica. Al contrario, si tratterà di vedere nell’impostazione dell’indagine critico-trascendentale sul conoscere e agire razionale il criterio capace di definire e orientare ogni ricerca

25  Ha ragione R. Lauden quando afferma che l’antropologia studia gli effetti fenomenici della libertà umana nel mondo empirico e non la loro origine non empirica (R. Lauden, Kant’s Human Being, cit. p. 81). 26  Br, AA 10: 145; tr. it., p. 78.

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empirica sull’uomo, inquadrandola in un disegno normativoteleologico più ampio.

5. Un nuovo punto di vista Detto altrimenti, per Kant la distinzione tra il modello di una conoscenza pragmatica dell’uomo e il profilo meramente descrittivo di una conoscenza fisiologica si dà pur sempre nello spazio di un’antropologia dalla fisionomia squisitamente empirica. Quel che muta significativamente è, invece, la possibilità di guardare alle cognizioni empiriche dell’antropologia muovendo da un punto di vista diverso; ossia, a partire dalla possibilità di pensare un essere in grado di strutturare il rapporto con le proprie dotazioni naturali e con i propri talenti, in una parola, un essere in grado di formarsi, di agire su di sé, di coltivarsi in vista della realizzazione di scopi che vanno al di là della sua condizione di ente naturale (Naturwesen), perché assumono valore vincolante solo nel contesto di un uso puro della ragione: Il risultato complessivo cui perviene l’antropologia pragmatica riguardo alla destinazione dell’essere umano [Bestimmung des Menschen] e la caratteristica della sua progressiva formazione sono dunque i seguenti. L’essere umano è determinato [bestimmt] dalla sua ragione a stare in una società con altri suoi simili, e in essa a coltivarsi, a civilizzarsi e a moralizzarsi per mezzo dell’arte e delle scienze.27

27  Anth, AA 7: 324; tr. it., p. 220. Mi discosto dal traduttore nel rendere Bestimmung con «destinazione» anziché con «destino». Ritengo infatti che la voce «destinazione», utilizzata invece nella traduzione di G. Vidari, rivista da A. Guerra (Laterza, Roma-Bari 1969), si presti meglio a evocare la complessità semantica dell’uso kantiano del termine Bestimmung sia in ambito strettamente antropologico sia nel contesto più ampio dell’impresa critica.

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Considerata da questo punto di vista, l’antropologia, pur distinta accuratamente dalle conoscenze razionali pure, guadagna una posizione precisa lungo il percorso tracciato dalla filosofia critica, il cui compito, lo ripetiamo, non consiste nel fornire una qualche conoscenza della natura umana, ma nel prefigurare, sul filo conduttore di un’analisi dei limiti e delle possibilità di un uso puro della ragione, quelli che per l’uomo e per la sua esistenza si presentano come scopi essenziali. Che ad additare questi scopi sia la ragione, intesa come attività spontanea e auto-legislatrice, significa che essi, per definizione, non si iscrivono in una presunta natura umana precostituita28. I fini perseguiti dalla ragione non sono comprensibili come effetti di una causa naturale che li precede. Al contrario, essi assumono consistenza a partire dalla dimensione puramente spontanea dell’agire libero; quella dimensione che dell’uomo indica, non la natura, nel senso di una costituzione ontologica specifica, ma la destinazione morale, nel senso di un compito cui l’uomo è chiamato proprio in relazione alla sua capacità di un uso puro della ragione. In quanto scienza empirica l’antropologia non può additare gli scopi che all’uomo vengono assegnati da un uso puro della ragione, come non può costituire il luogo deputato a una trattazione rivolta alla dimensione dell’agire libero. E tuttavia, il riferimento a un uso puro della ragione e alla dimensione dell’agire libero rappresenta lo sfondo “naturale” di un’indagine antropologica che, secondo il programma kantiano, deve occuparsi non di quel che la natura fa dell’uomo ma di quel

28  «Dunque, per poter assegnare all’essere umano la propria classe nel sistema della natura vivente e così caratterizzarlo, non resta altro che questo: egli ha un carattere che si crea da sé, dal momento che ha capacità di perfezionarsi secondo fini che si è scelto da lui stesso» (Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 216).

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che l’uomo può e deve far di se stesso29. L’indirizzo dato da Kant alla ricerca antropologica dà corso, in tal modo, a quanto dichiarato in sede di Architettonica della ragion pura, là dove si afferma che l’antropologia, come qualsiasi altra scienza, può rivolgersi ai fini necessari ed essenziali dell’umanità solo per il tramite di una conoscenza razionale che muove da semplici concetti; quel genere di conoscenza di cui la critica della ragione ha il compito di assicurare limiti e possibilità: La matematica, la fisica, la stessa conoscenza empirica dell’uomo possiedono un alto valore come mezzi, per lo più in vista di fini contingenti, ma in ultima istanza anche in vista di fini necessari ed essenziali all’umanità: in questo caso, però, solo con la mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti, e che può essere chiamata come si vuole, ma propriamente non è altro che metafisica. Proprio per questo, la metafisica costituisce anche il compimento di ogni cultura della ragione umana, un compimento che risulta indispensabile, anche nel caso si voglia prescindere dal suo influsso come scienza su certi fini determinati.30

Questo, come altri passi kantiani, attesta la necessità di una riflessione filosofica sull’uomo, senza con ciò alimentare false aspettative nei riguardi di una conoscenza sistematica della natura umana che oltrepassi il terreno delle ricerche empiriche. Una conoscenza empirica dell’uomo può, certo, confluire nel progetto più ampio di una “filosofia” ma solo in quanto quest’ultima viene intesa come scienza architettonica che orienta le

29  Del resto, anche la dimensione dell’agire in vista dell’utile, che rientra nell’esercizio della prudenza, e che tanta parte ha nel progetto kantiano di un’antropologia pragmatica, non sarebbe neppure concepibile senza il riferimento alla capacità dell’uomo di porsi liberamente dei fini che trascendono la sua condizione naturale. Su questo punto si tornerà in modo più circostanziato nel terzo capitolo. 30  KrV, A 850/B 878; tr. it., p. 1193.

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diverse conoscenze verso scopi i quali, al di là degli obiettivi specifici perseguiti nei singoli settori del sapere, concernono, come dice Kant, «l’intera destinazione dell’uomo»31. Non a caso, nell’Architettonica della ragion pura si parla della filosofia nel suo concetto cosmico (Weltbegriff) come «scienza del rapporto di ogni conoscenza con i fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae)»32. La filosofia assume così la forma di una legislazione che orienta i saperi scientifici e i loro fini arbitrari verso uno scopo che interessa necessariamente chiunque, dunque non solo lo scienziato o il filosofo di scuola, ma l’esistenza umana compresa nella sua interezza.

6. Antropologia trascendentale come disciplina critica In una nota quanto discussa Reflexion, che Adickes fa risalire al periodo 1776-1778, si parla a questo proposito di un occhio ulteriore di cui ogni scienza deve dotarsi al fine di poter vedere il proprio oggetto «dal punto di vista degli altri uomini»33. Tale occhio, afferma Kant, non è altro che «l’autoconoscenza della ragione umana»34, la cui funzione critica consiste nell’impedire il radicarsi di quelle forme di egoismo scientifico consistenti nel considerare l’uso ristretto che della ragione si fa nell’ambito di una disciplina determinata come parametro da adottare indistintamente in tutti gli altri campi del sapere35. Quanto ci sia bisogno di una tale accortezza critica può essere 31  KrV, A 840/B 868; tr. it., p. 1179. 32  KrV, A 839/B867; tr. it., p. 1177. 33  Refl 903, AA 15: 395. 34  Refl 903, AA 15: 395. 35  Refl 903, AA 15: 395.

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testimoniato, per citare qualche esempio che ci urge più da vicino, dal danno enorme che all’intera umanità ha arrecato l’applicazione, nell’ambito delle scienze sociali, del principio evoluzionistico della selezione della specie. O si pensi, ancora, alle conseguenze disastrose di un sistema universitario che applica i criteri bibliometrici in uso nelle facoltà scientifiche per valutare la ricerca nel campo dei saperi umanistici. Per superare questa condizione egoistica del sapere, che Kant esemplifica nella figura dell’erudito, non basta ampliare le proprie conoscenze in direzione di ambiti conoscitivi diversi, non basta cioè diventare più eruditi. Quel che si richiede, si legge nel testo della Reflexion, è «un’autoconoscenza dell’intelletto e della ragione. Anthropologia transscendentalis»36. Una forma di conoscenza siffatta non identifica una scienza dell’uomo, tantomeno può essere riguardata come la controparte pura di un’antropologia empirica. Essa non dice nulla su ciò che l’uomo è, può o deve essere, almeno non nel senso in cui lo farebbe un sapere dottrinario. Una anthropologia transscendentalis svolge piuttosto la funzione di una “disciplina” nel senso kantiano del termine. Essa non è una super-scienza dell’essere umano che trascende il piano della semplice considerazione empirica, ma va intesa nel senso squisitamente critico di una misura sistematica di prevenzione contro ogni uso ottuso, monoculare, della ragione; quell’uso che renderebbe la ragione inadatta a esprimere il senso più profondo dell’esistenza umana e della sua destinazione finale. Con le parole di Kant, «è necessario qualcosa che conferisca umanità all’erudito»37, mostrandogli la possibilità di un uso della ragione non ristretto alle procedure di acquisizione di conoscenze o di abilità tecniche. Un’anthropologia transscen36  Refl 903, AA 15: 395. 37  Refl. 903, AA 15: 394.

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dentalis, intesa come «autoconoscenza dell’intelletto e della ragione», non denota dunque una scienza che elegge come oggetto l’uomo nei termini “puri” di un’indagine delle sue facoltà conoscitive. O meglio, l’esame delle facoltà conoscitive umane, nella misura in cui assurge alla considerazione trascendentale, non va ascritto al programma di una Grundwissenschaft dell’uomo, quasi si possa affiancare alle osservazioni e alle ricerche empiriche che caratterizzano in modo prevalente i corsi kantiani di antropologia una conoscenza che consideri in modo sistematico l’uomo al livello più profondo della sua vita conoscitivo-razionale. In definitiva, quando parla di «auto­ conoscenza dell’intelletto e della ragione», Kant non ha di mira la conoscenza di qualcosa come una natura “pura” dell’uomo, un dato che possa a sua volta divenire oggetto di conoscenza, ma fa riferimento a una dimensione puramente spontanea del conoscere e dell’agire che dell’uomo sta a indicare il suo non essere riducibile a qualsivoglia natura pre-costituita. In questa prospettiva, non si può contare sul dato di una natura umana che stia, per così dire, dietro alla natura cui possiamo accedere nei termini di una conoscenza fenomenica. E ciò non solo a cagione dei nostri limiti conoscitivi, ma per il motivo logico-strutturale che la funzione della ragione, quando non venga considerata da un punto di vista meramente psicologico, individua il nostro non essere interamente vincolati a una condizione fisiologica, a una natura, che ci preceda e ci pre-determini38. In conclusione, il rapporto tra filosofia critica e antropologia non può essere risolto né nei termini di una netta distinzione tra l’ordine delle conoscenze pure e l’ordine delle conoscenze em38  Cfr. A. Ferrarin, The Powers of Pure Reason. Kant and the Idea of Cosmic Philosophy, The University of Chicago Press, Chicago-London 2015; tr. it. di L. Filieri, I poteri della ragion pura. Kant e l’idea di una filosofia cosmica, ETS, Pisa 2022, pp. 41-43.

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piriche, né però sul piano di una lettura che tende a ricondurre le questioni fondamentali della filosofia pura a una domanda più fondamentale, rivolta alla costituzione dell’essere umano. L’antropologia, nel senso specifico di una scienza sistematica della natura umana, non può che darsi sul piano della conoscenza empirica. E tuttavia le ricerche empiriche, che formano il quadro dell’antropologia kantiana, mantengono un legame essenziale con la filosofia pura. E ciò perché, lo si è visto, solo attraverso una conoscenza razionale pura, ossia per il tramite del dispositivo critico-metafisico della filosofia, le considerazioni di tipo antropologico possono essere comprese in relazione allo scopo finale dell’uomo39. E anzi, solo in vista di un simile scopo, che, nella prospettiva kantiana, si specifica nella destinazione morale e nell’idea cosmopolitica di un mondo il più possibile conforme ai principi dell’agire libero, si può parlare legittimamente di specie umana compresa «come un tutto [als Ganze]»40; ossia, solo a queste condizioni, è possibile costruire un discorso filosofico-razionale sull’uomo che ambisca prescindere dai limiti spazio-temporali all’interno dei quali ci è concesso solo di osservare e categorizzare i fenomeni dell’agire umano41. Detto diversamente, di specie umana si può e anzi si deve parlare per Kant non in riferimento a quella natura specifica che decide l’evoluzione degli individui, ma in riferimento alla facoltà che ciascun uomo ha di determinare

39  Così, rientra, ad esempio, nei compiti della conoscenza antropologica anche un esame delle passioni e inclinazioni che agevolano, o ostacolano, la piena realizzazione di una forma di vita razionale per l’uomo. 40  Anth, AA 7: 331; tr. it., p. 350. 41  Sul nesso teleologico tra la specie umana intesa come un tutto, come un intero che ha priorità sulle parti, e l’idea di un cammino progressivo verso la costituzione di una società cosmopolitica cfr. i rilievi di A. Taraborrelli, Cosmopolitismo. Dal cittadino del mondo al mondo dei cittadini. Saggio su Kant, Asterios, Trieste 2004, pp. 57-58.

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se stesso, di agire su di sé e sul mondo in cui opera secondo massime che rispondono al principio razionale di una spontaneità auto-legislativa. L’occhio ulteriore che la filosofia presta all’antropologia consente quello sguardo sull’intero della specie umana, che non potrebbe darsi a partire da una ricostruzione della natura dell’uomo fondata sull’esperienza. Allo sguardo del filosofo la specie umana si offre, dunque, come il concetto che rende pensabile ciò che all’uomo, considerato come singolo individuo, risulterebbe impossibile, ossia il compimento della sua destinazione. Ed è proprio in vista degli scopi che sono assegnati all’uomo dalla ragione, e che appaiono avvicinabili solo in relazione allo sviluppo storico dell’intera specie, che nella Prefazione alla Antropologia pragmatica Kant può parlare di una «conoscenza generale» dell’uomo, la quale precede sempre qui la conoscenza locale, se deve essere ordinata e diretta dalla filosofia; senza quest’ultima – continua il testo –, ogni conoscenza acquisita non può che procedere a tentoni e in maniera frammentaria, e non mette capo ad alcuna scienza.42

Intesa come conoscenza pura, la filosofia non ha come oggetto l’uomo e per questo non può essere ascritta a una sorta di antropologia di secondo livello che si affianca alla conoscenza empirica della natura umana. E tuttavia, nella misura in cui dell’uomo indica la destinazione finale, la conoscenza razionale pura offre il punto di vista a partire da cui le cognizioni empiriche dell’antropologia possono dismettere il loro carattere frammentario e convergere verso un oggetto il più possibile vicino a quel che indichiamo con il concetto generale di “specie umana”. Così, solo la filosofia, sebbene non abbia l’uomo a suo oggetto, fornisce le direttive per una considera42  Anth, AA 7: 120; tr. it., p. 101.

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zione unitaria dei fenomeni umani e, con ciò, legittima l’idea di un’antropologia non ridotta a una collezione di osservazioni empiriche senza alcun ordine sistematico.

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III Antropologia come general Weltkenntniß

1. Perché viaggiare? Non è raro per il lettore di Kant imbattersi in espressioni dall’effetto spiazzante. E non mi riferisco qui al dato, comunemente accolto, di una prosa che, nel contesto della trattazione di questioni particolarmente spinose, non sempre si rivela ospitale. Mi riferisco piuttosto a episodi, almeno in apparenza meno significativi, che sembrano dar voce a un certo gusto kantiano di sfidare il senso comune, come a segnalare la presenza di questioni che, pur non occupando il terreno di indagine del filosofo di scuola o del metafisico di professione, implicano comunque l’ausilio di risorse logico-ermeneutiche che vanno al di là dell’uso del semplice buon senso. Il che risulta particolarmente degno di attenzione nel contesto di quelle ricerche che, come nel caso dell’antropologia, vengono espressamente concepite da Kant sotto il segno popolare di un’Aufklärung fürs gemeine Leben1. Così, quando nella Prefazione all’Antropologia dal punto di vista pragmatico appronta gli strumenti per quella che chia-

1  V-Anth/Mensch, AA 25: 853.

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ma «conoscenza dell’uomo inteso come cittadino del mondo»2, Kant scrive: Fra i mezzi idonei ad ampliare l’ambito dell’antropologia c’è il viaggiare, o almeno la lettura dei resoconti di viaggio. Ma prima è necessario aver acquisito a casa propria [zu Hause] una certa conoscenza degli esseri umani, frequentando concittadini e compatrioti, se si vuole sapere dove indirizzare poi la ricerca all’esterno, al fine di ampliarne maggiormente l’ambito. Senza un piano di questo genere (il quale già presuppone una conoscenza dell’essere umano), il cittadino del mondo nella sua antropologia rimane sempre racchiuso in limiti piuttosto ristretti.3

Certo, quando parla di casa propria, Kant non si riferisce a una riunione condominiale, né più in generale a un contesto sociale che si percepisca nella forma di una cerchia culturale ristretta. Come egli dice esplicitamente, si tratta delle frequentazioni dei suoi concittadini, degli abitanti di Königsberg; ossia della città che, agli occhi di uno dei suoi residenti più affezionati, vale come esempio di «centro di uno stato in cui si trovano i consigli del suo governo; che abbia un’Università […] e goda anche di una situazione favorevole al commercio marittimo; che per via fluviale possa favorire il traffico tanto dall’interno del paese quanto con i paesi confinanti di differenti lingue e costumi»4. Dunque, è a una realtà dal notevole potenziale “cosmopolitico” quella cui Kant pensa come alla culla di una conoscenza preliminare dell’essere umano, sulla quale edificare un piano che faccia da guida per ogni viaggio fuori dai confini di casa. E tuttavia, non può non suscitare un qualche effetto straniante, persino provocatorio, specie nel lettore contemporaneo, l’idea di una conoscenza dell’uomo e del 2  Anth, AA 7: 120; tr. it., p. 100. 3  Anth, AA 7: 120; tr. it., pp. 100-101. 4  Anth, AA 7: 120, Anm.; tr. it., p. 100, nota.

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mondo, anzi di una conoscenza dell’uomo in quanto cittadino del mondo, che propone come propria cornice lo spazio politico-sociale di una città. L’idea del cosmopolita che conosce il mondo e i suoi abitanti da casa propria, o al più dalle porte della sua città, sembra piuttosto somigliare all’immagine dello scolastico deriso da Hegel perché voleva imparare a nuotare prima di tuffarsi in acqua; il che dovrebbe valere a maggior ragione nel caso di una scienza, come l’antropologia, del cui carattere prevalentemente empirico Kant non fa mistero, e per la quale, dunque, non può risultare indifferente l’estensione del campo di osservazione. E però, a dispetto dell’idea che una conoscenza dell’essere umano può darsi sempre e solo a partire «dall’osservazione di ciò che gli uomini effettivamente fanno e non fanno»5, la scommessa di Kant su una scienza antropologica, e cioè su una conoscenza dell’uomo che presenti un profilo sistematico, ambisce a guadagnare un punto di vista che prescinda, almeno nei limiti del possibile, dalle circostanze di luogo e di tempo nelle quali il comportamento umano viene osservato. Come è concepita da Kant, l’antropologia deve darsi nella forma di una «conoscenza generale [Generalkenntniß]» che «precede […] la conoscenza locale [geht vor der Localkenntniß voraus]»6. E superare lo spazio limitato di una conoscenza locale non può corrispondere al semplice moltiplicarsi di cognizioni riguardanti realtà locali diverse, come avverrebbe nel caso del viag5  Anth, AA 7: 121; tr. it., p. 102. Il richiamo all’osservazione empirica si profila sin dall’inizio come un dato costante delle lezioni di antropologia di Kant. Cfr., ad es., V-Anth/Collins, AA 25: 07. Nella Lettera a Markus Herz del 1773 Kant, presentando il suo piano per l’insegnamento accademico dell’antropologia, parla di «dottrina fondata sull’osservazione [Beobachtungslehre]» (Br, AA 10: 146; tr. it., p. 79). Nelle lezioni di metafisica del 1782/1783 l’antropologia viene presentata come una «psicologia basata su dati osservabili» (V-Met/Mron, AA 29: 757). 6  Anth, AA 7: 120; tr. it., p. 101.

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giare. Perciò non può esservi dubbio che l’uomo di cui Kant è in cerca è diverso dall’uomo in cui si imbatte il turista, o persino il ricercatore curioso dei costumi del luogo. Nelle lezioni di antropologia del semestre invernale 1777/78 Kant parla della «conoscenza locale del mondo [local Weltkenntniß]» come di una conoscenza «empirica» che «è legata al luogo e al tempo e che non fornisce neppure regole per l’agire nella vita comune. Chi – continua il testo – studia il mondo attraverso il viaggiare, ha di esso solo questa conoscenza, la quale tuttavia dura solo per un po’ di tempo. Infatti, se muta la condotta nel luogo dove egli è stato, cessa anche la conoscenza di esso»7. E appena dopo Kant si chiede: «dove possiamo, dunque, conoscere al meglio il mondo senza viaggiare?»8, chiarendo come l’osservazione degli uomini che ci circondano e un’attenta riflessione (starke Reflection) possano sostituire l’estensione dell’esperienza e, in ogni caso, superino di gran lunga la conoscenza cui giunge un «viaggiatore spensierato [ein gedanckenloser Reisender]»9. Nelle lezioni del semestre invernale 1775/76, sempre a proposito della distinzione tra conoscenza locale e conoscenza generale del mondo, Kant af7  V-Anth/Pillau, AA 25: 734. Nelle lezioni del semestre invernale 1775/76 la differenza tra un’«antropologia generale» e «un’antropologia locale» viene chiamata in causa per caratterizzare una conoscenza che si rivolge «non alle condizioni degli uomini [Zustand der Menschen] ma alla natura dell’umanità [Natur der Menschheit]. Infatti – continua il testo – le caratteristiche degli uomini mutano sempre, mentre la natura dell’umanità no. L’antropologia è, dunque, una conoscenza pragmatica [pragmatische Kenntnis] di ciò che scaturisce dalla nostra natura, ma non una conoscenza fisica o geografica. Infatti, queste sono legate al tempo e al luogo e non sono durevoli» (V-Anth/ Fried, AA 25: 471). Poco dopo Kant sottolinea come una tale conoscenza implichi il possesso di «principi sicuri [sichere principia]» secondo i quali poter fare esperienza (cfr. ibidem). 8  V-Anth/Pillau, AA 25: 734. Cfr. al proposito anche gli abbozzi dei corsi accademici degli anni ’70 (AA 15: 659). 9  V-Anth/Pillau, AA 25: 734.

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fermava: «Per studiare l’uomo, possiamo dunque anche non viaggiare, ma possiamo prendere in considerazione [erwegen] la sua natura ovunque»10. Non a caso, l’antropologia kantiana fa appello non alla mera osservazione empirica, ma a «mezzi sussidiari» come «storia universale, biografie, nonché spettacoli teatrali e romanzi»11. Essa muove sì dal mettere insieme molte osservazioni, ma, suggerisce Kant, si tratta delle osservazioni di coloro che, come Shakespeare e Montaigne, «hanno avuto una conoscenza profonda dell’uomo»12. Una conoscenza antropologica che non rimanga confinata al punto di vista locale, un’antropologia come general Weltkenntniß13 non si lega, allora, alla maggiore estensione del campo di osservazione. A fare la differenza non è, infatti, la quantità del materiale empirico di cui si dispone, ma la possibilità di apprestare un piano a partire dal quale molteplici esperienze possano venir comprese e orientate. Si tratta, dunque, di una differenza qualitativa che non è ricavabile analiticamente dalla somma dei dati accumulati: Gli uomini mostrano le fonti delle loro azioni, tanto in questo piccolo contesto quanto nel gran mondo. Per questo è richiesto solo un occhio attento e un viaggiatore, se vuole viaggiare con giovamento, deve innanzitutto disporre di questi concetti. 14

10  V-Anth/Fried, AA 25: 471. 11  Anth, AA 7: 121; tr. it., p. 102. 12  V-Anth/Fried, AA 25: 472. Cfr. V-Anth/Mensch, AA 25: 857-858. Kant richiama anche gli esempi di Richardson e Molière (cfr. Anth, AA 7: 121; tr. it., p. 102). 13  V-Anth/Pillau, AA 25: 734. 14  V-Anth/Pillau, AA 25: 734. Cfr. anche V-Anth/Busolt, AA 25: 1435. Nello scritto Determinazione del concetto di razza umana del 1785 l’idea di un piano preliminare che preceda il viaggiare viene in evidenza nella forma, tipica del lessico della svolta critica, di una conoscenza che sa già cosa cer-

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Il viaggiare, si legge nel testo delle lezioni di geografia fisica curato da Rink e pubblicato nel 1802, «consente di ampliare la conoscenza del mondo esterno; il che però è di poca utilità se non si dispone di una certa preparazione acquisita per il tramite dell’insegnamento»15.

2. Dal cosmologico al cosmopolitico Al progetto di una conoscenza generale del mondo che precede, guidandola, ogni conoscenza locale, fa da sfondo un’idea di mondo inteso non come luogo estraneo, da osservare. Il mondo non si configura, cioè, come una dimensione di principio aliena alla soggettività umana, fatto di luoghi esterni l’uno all’altro, da riconnettere insieme mediante la via empirica del viaggiare. La Weltkenntniß cui Kant fa riferimento nel contesto della ricerca antropologica risponde, piuttosto, all’idea di un intero (Ganze) di cui l’uomo e la conoscenza che ha o può avere di sé sono parte integrante e costitutiva16. La conoscenza che

care in seno all’esperienza; il che suggerisce che la possibilità di disporre di un piano preliminare che guidi le osservazioni empiriche sulla natura umana non vada semplicemente ascritta al raggiungimento di un grado più alto di generalizzazione empirica: «Le conoscenze che i nuovi viaggi diffondono circa le varietà del genere umano hanno sinora avuto l’effetto più di stimolare l’intelletto a ulteriori indagini su questo argomento che di soddisfarlo. Qui molto sta certo nell’aver ben determinato preliminarmente il concetto che si vuole chiarire con l’osservazione, prima che si interroghi a partire da esso l’esperienza; nell’esperienza, infatti, si trova ciò di cui si ha bisogno solo in quanto preliminarmente si sappia cosa si debba cercare» (BBM, AA 8: 91; tr. it., p. 87). 15  PG, AA 9: 158. 16  A. Falduto mette bene a fuoco il nesso che, nel quadro dell’antropologia kantiana, lega indissolubilmente conoscenza di sé e conoscenza del mondo: «Il fatto che l’essere umano ha bisogno di essere istruito sul mon-

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qui è in gioco non guarda, cioè, alla scena del mondo come a uno spettacolo al quale l’uomo si rivolga da semplice osservatore esterno. Il punto di vista non può essere, qui, quello dello spettatore disinteressato, ma è, come Kant dice, quello del cittadino del mondo: «Il cittadino del mondo deve considerare il mondo in quanto abitante [als Einsaße] e non come straniero»17. E quel che distingue un abitante da uno straniero non è, com’è ovvio, la diversa posizione geografica, ma la possibilità o meno che l’uomo svolga un ruolo attivo nella costituzione dell’ordine del mondo di cui egli è parte. Nella conclusione del saggio Delle diverse razze degli uomini del 1775, in cui annuncia i corsi di geografia fisica e di antropologia, Kant, prefigurando in modo già esplicito un indirizzo destinato a divenire decisivo nel contesto della sua indagine antropologica, parla della conoscenza del mondo come di un sapere pragmatico18 che rende utilizzabili per la vita le diverse scienze e abilità apprese e rispetto al quale l’insegnamento della geografia fisica svolge una funzione preparatoria. Nel distinguere tra geografia fisica e antropologia, Kant fa riferi-

do significa da un lato che si deve essere istruiti sull’ambiente in cui si vive, ma, nel contempo, che si debba essere istruiti su se stessi. Una conoscenza dell’essere umano in quanto cittadino del mondo corrisponde ad una conoscenza utile all’orientamento umano nel mondo» (A. Falduto, The Faculties of the Human Mind, cit., p. 67). Sulla questione dell’autoconoscenza e sulla sua evoluzione nel quadro delle lezioni di antropologia cfr. R.A. Makkreel, Self-cognition and Self-assessment, in A. Cohen (a cura di), Kant’s Lectures on Anthropology. A Critical Guide, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 18-37. 17  Refl. 1170, AA 15: 517-518. 18  Cfr. VvRM, AA 2: 443; tr. it., p. 20. La questione del delinearsi dell’indirizzo pragmatico nell’evoluzione della ricerca antropologica kantiana non è di facile soluzione, anche perché, oltre a coinvolgere i corsi di antropologia, comporterebbe un esame dettagliato dei corsi di geografia con i quali le tematiche antropologiche, come si è visto, sono strettamente correlate.

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mento a un «duplice campo»: «la natura e l’uomo»19; aggiunge subito dopo che «[e]ntrambi i campi devono però essere considerati […] cosmologicamente [kosmologisch], e cioè non secondo quello che i loro oggetti contengono di notevole nel particolare (fisica e psicologia empirica), ma secondo ciò che ci dà da osservare il loro rapporto con l’intero in cui si trovano, e nel quale ognuno prende anche il suo posto»20. D’altro canto, la dichiarata funzione preparatoria della geografia fisica, in quanto parte di una più ampia Weltkenntniß rivolta a un sapere utile per la vita dell’uomo, implica una considerazione del mondo come habitat umano, come lo spazio nel quale l’uomo può sviluppare e far progredire le proprie capacità, disposizioni e talenti. Non a caso, nelle lezioni di geografia fisica il mondo viene indicato come il «sostrato e la scena su cui si svolge il gioco della nostra abilità. Il mondo è il terreno sul quale vengono acquisite e applicate le nostre conoscenze»21. Coglie, allora, nel segno R. Lauden quando sottolinea la difficoltà di tracciare una linea di demarcazione netta tra il terreno di indagine della geografia fisica e quello dell’antropologia, rilevando che «in tutte le descrizioni e documenti della geografia fisica di Kant oggi disponibili gli esseri umani giocano un ruolo preminente»22. Del resto, già Michel Foucault aveva evidenziato il nesso profondo che lega geografia fisica e antropologia 19  VvRM, AA 2: 443; tr. it., p. 20. 20  VvRM, AA 2: 443; tr. it., p. 20. Nella lettera, già citata, a Markus Herz del 1773, Kant presenta l’antropologia come «un esercizio preparatorio all’abilità, alla prudenza e addirittura alla saggezza. Insieme alla geografia fisica, essa si distingue da ogni altro insegnamento e si potrebbe chiamare conoscenza del mondo» (Br, AA 10: 146; tr. it., p. 79). Mi discosto qui dal traduttore nel rendere Weisheit con «saggezza» anziché con «sapienza». 21  PG, AA 9: 158. 22  R.B. Lauden, Kant’s Human Being, cit., p. 125. Sul rapporto tra geografia fisica e antropologia, e, più in generale, su talune questioni di carattere filologico connesse all’utilizzo del materiale disponibile per le lezioni di

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nella fase iniziale della produzione kantiana, individuandovi i termini di un equilibrio simmetrico di uomo e natura, che sarebbe però destinato a rompersi nella riflessione successiva di Kant. Secondo la traiettoria disegnata da Foucault, infatti, quello che prima figurava come un compito affidato alle «due metà simmetriche di una conoscenza di un mondo articolato secondo l’opposizione di uomo e natura»23 finiva poi col gravare interamente su «un’Antropologia che incontra la natura solamente nella forma già abitabile della Terra»24. In altri termini, col progressivo insediarsi dell’indirizzo pragmatico nella scienza dell’uomo, l’idea di un intero, di un ordine cosmico che fa da sfondo unitario al sapere della natura e alla conoscenza dell’uomo, cederebbe il passo a una prospettiva cosmopolitica «in cui il mondo apparirebbe piuttosto come città da fondare che come cosmo già dato»25. Al cosmologico subentrerebbe, dunque, il cosmopolitico: la fiducia in un ordine metafisico che tiene in una sorta di armonia prestabilita uomo e natura cederebbe il passo all’ideale pragmatico-politico di un mondo da costruire e di una natura sulla quale potere e dovere intervenire. La diagnosi di Foucault intercetta, indubbiamente, un elemento non trascurabile della ricerca antropologica kantiana. Come è concepita da Kant, l’indagine sulla natura umana rivendica, infatti, sin dall’inizio un preciso spazio di autonomia rispetto al sapere metafisico26. Essa rappresenta, com’è noto, geo­grafia, cfr. S. Marcucci, Etica e antropologia in Kant, in «Idee. Rivista di filosofia», XLII, 1999, pp. 9-23, in part. pp. 14-18. 23  M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, cit., p. 20. 24  Ibidem. 25  Ibidem. 26  «Se consideriamo la conoscenza dell’uomo come una scienza particolare, ne derivano molti vantaggi. Infatti: 1. non si è obbligati a studiare per amor suo tutta la metafisica. 2. Prima che una scienza possa ottenere ordi-

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il luogo più appropriato nel quale confluiranno le ricerche della psicologia empirica, la cui collocazione Kant, già nei corsi di antropologia degli anni ’70, non vedeva all’interno di un sistema metafisico nel quale essa fosse preceduta, e in qualche misura fondata, da una teoria cosmologica27. In quanto scienza autonoma, l’antropologia non cercherà, perciò, appoggio in un ordine cosmico dato, ma scommetterà su un ordine del mondo del quale l’uomo, vocato allo sviluppo delle proprie capacità, talenti e disposizioni, è parte attiva, decisiva. La nozione di mondo viene, così, strappata all’ambito dei metaphysische Dogmata, per essere consegnata allo spazio dei menschliche Pragmata. Il progetto kantiano di una scienza pragmatica dell’uomo considera, cioè, il mondo come una scena che si disegna nel libero gioco degli attori che vi prendono parte, e perciò stesso destinata a rimanere un mistero per quegli spettatori che vi cercassero un copione già scritto.

ne e regolarità della disposizione, essa deve essere coltivata (getrieben) in accademie. Questo è l’unico mezzo per portare una scienza a una certa elevatezza; il che, però, non può accadere se non viene isolata con precisione» (V-Anth/Collins, AA 25: 7-8). 27  Sull’argomento cfr. R. Brandt, Aux origines de la philosophie kantienne de l’histoire, cit., pp. 23-24, 28, dove vengono evidenziati i termini in cui Kant scardina l’impianto della Metaphysica di Baumgarten, e con esso una concezione dell’anima che, in quanto vis repraesentativa universi, occupa un posto determinato in un ordine del cosmo dato. Cfr. anche R. Brandt - W. Stark, Einleitung, in Kant’s Vorlesungen, vol. II, Vorlesungen über Anthropologie, AA 25: VII-CLI, pp. VII-XXIV. Ciò non cancella tuttavia il peso del contributo che Baumgarten, e in particolare il modo in cui egli, segnando le distanze dal modello wolffiano, declina il rapporto tra psicologia empirica e psicologia razionale, fornisce agli sviluppi dell’antropologia kantiana. Sull’argomento cfr. G. Lorini, The Rules for Knowing the Human Being: Baumgarten’s Presence in Kant’s Anthropology, in R. Lauden - G. Lorini, Knowledge, Morals and Practice in Kant’s Anthropology, Palgrave Macmillan, Cham 2018, pp. 63-80.

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3. Dal cosmopolitico al cosmico Ora, non v’è dubbio che il punto di vista pragmatico, che trova il suo focus nella figura attiva dell’uomo-cittadino, fornisca le direttive guida dell’antropologia kantiana, contribuendo in modo decisivo a definirne il profilo più maturo. Ciò però non può essere inteso semplicisticamente nei termini di una prospettiva che tenda progressivamente a ridurre l’ordine del mondo alla dimensione dell’operare umano. Una tale semplificazione non renderebbe, infatti, giustizia di un tratto decisivo dell’indagine kantiana sull’uomo, nella misura in cui non tiene conto, fraintendendone anzi il senso, della nuova cornice epistemologica e degli strumenti che la svolta critica comporta per la conoscenza antropologica e per la maturazione del suo indirizzo pragmatico. Da un lato, infatti, gli esiti della critica della ragione pongono il sigillo definitivo su una ricerca intorno all’uomo svincolata dall’immagine dogmatica di un ordine del mondo dato. Dall’altro, la svolta critica e il progetto di una filosofia intesa come scienza architettonica del sapere umano, mettono capo a una nozione di cosmo, di intero, in cui le ricerche antropologiche trovano una collocazione specifica. Alla luce di questa collocazione che, come vedremo, si sostanzia in una riformulazione in chiave etica della domanda antropologica sulla natura umana, anche il progetto pragmatico di un mondo-ambiente nel quale l’uomo, grazie allo sviluppo delle proprie capacità, trova la sua posizione e conquista un ruolo centrale, viene a inserirsi all’interno di un disegno più ampio. In esso l’uomo viene posto al cospetto di scopi la cui realizzazione va ben al di là di quel che egli può fare; ben al di là dell’immagine pragmatica di un mondo pensato e progettato a misura d’uomo. Detto altrimenti, l’orientamento pragmatico dell’antropologia kantiana, nonché il concetto di specie umana che ad esso si connette, illuminati dalla svolta critica, si rivelano anima-

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ti da una tensione normativo-teleologica, in forza della quale qualunque ricerca empirica sulla natura umana viene, per così dire, consegnata alla causa della filosofia e segnatamente all’ambito di una riflessione di ordine metafisico che concepisce l’essere dell’uomo, non sulla base empirico-fattuale dell’osservazione di ciò che gli uomini generalmente fanno o non fanno, ma in relazione al compito e a un ordine di fini cui gli uomini sono chiamati in quanto esseri dotati di ragione. Kant non potrebbe essere più chiaro quando nella Caratteristica antropologica, che costituisce la seconda parte dell’antropologia pubblicata, scrive: Il risultato complessivo cui perviene l’antropologia pragmatica riguardo alla destinazione dell’essere umano [Bestimmung des Menschen] e la caratteristica della sua formazione sono dunque i seguenti. L’essere umano è determinato dalla sua ragione a stare in una società con altri suoi simili, e in essa a coltivarsi, a civilizzarsi e a moralizzarsi per mezzo dell’arte e delle scienze.28

Ora, il punto è che un tale compito, proprio perché assume forma compiuta solo in relazione alla possibilità dell’uomo di sviluppare un uso della ragione non riducibile alla mera capacità di predisporre soluzioni strategiche per soddisfare i bisogni dell’istinto, si mostra soggetto a costanti e reiterate deviazioni29. Queste si devono, più specificamente, al fatto che l’educazione del genere umano, dunque la possibilità di coltivare gli scopi cui l’uomo si riconosce vincolato in quanto ente razionale, è affidata pur sempre a uomini, a esseri che abbisognano a loro volta di essere educati; abbisognano, dunque, di apprendere un uso non meramente strumentale della capaci28  Anth, AA 7: 324; tr. it., p. 342. Diversamente dal traduttore si rende Bestimmung con «destinazione» anziché con «destino», per le ragioni già esposte supra, p. 65, nota 27. 29 Cfr. Refl 1521, AA 15: 888.

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tà razionale. Non a caso, l’indirizzo pragmatico della ricerca antropologica si accompagna al progetto di un’educazione del genere umano, considerato «nella totalità della sua specie»30, e alla tensione verso una comunità cosmopolitica fondata sulla libertà che l’uomo, però, può attendersi, come Kant dice, «solo dalla provvidenza: cioè da una saggezza che non è la sua»31, perché risponde a un’idea della ragione, cui egli, «per sua propria colpa [durch seine eigene Schuld]»32 e a seguito dei suoi condizionamenti, non può dare compiuta esecuzione. In questo senso Kant parla, seppure con una formula non esente da problemi, di «idea impotente della sua propria ragione [ohnmächtige Idee seiner eigenen Vernunft]»33; il possessivo seiner fa qui riferimento all’essere umano, il quale non ha il potere di realizzare quel che tuttavia la ragione, in se stessa, gli prescrive universalmente, ossia, al di là delle intenzioni degli individui e della capacità che ciascuno ha di darvi esecuzione34. Il che significa che l’uomo, in quanto essere razionale, si riconosce vincolato a un compito che però, in quanto essere terrestre, non è in grado di portare a termine con le sue sole forze. Il ricorso kantiano alla «provvidenza», intesa come disegno della natura che va al di là della saggezza di cui ciascun uomo è capace, svolge qui un ruolo tutt’altro che marginale. Lungi dal poter venire liquidato come una concessione che Kant farebbe a una lettura in chiave teologica delle vicende umane, esso mette a fuoco il tratto eminentemente problematico che caratterizza la condizione dell’uomo in quanto ente razionale terrestre. Più precisamente: l’indagine antropolo30  Anth, AA 7: 328; tr. it., p. 346. 31  Anth, AA 7: 328; tr. it., p. 346. 32  Anth, AA 7: 328; tr. it., p. 346. 33  Anth, AA 7: 328; tr. it., p. 346. 34  Anth, AA 7: 328; tr. it., p. 346. Cfr. anche KU, AA 5: 432-433; tr. it., pp. 549-551.

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gica confluisce, in Kant, in un disegno normativo-teleologico che prefigura per la specie umana una finalità di cui l’uomo, in quanto ente razionale, è pienamente responsabile, tanto da poter scegliere di non aderirvi, ma della cui piena realizzazione, in quanto ente finito, non può essere indicato come l’esclusivo esecutore, tanto da chiamare in causa un ordine delle cose che non è contenibile nello spazio pragmatico di ciò che l’uomo può fare. Come si legge nella trascrizione Mrongovius, il conseguimento della destinazione finale dell’umanità (Endbestimmung der Menschheit), legato alla possibilità che noi ci coltiviamo, civilizziamo e moralizziamo al massimo grado, «si può certamente sperare [laßt sich gewiß hoffen]»35. E tuttavia, quel che a tal fine […] la provvidenza [Vorsehung] predispone come mezzo rimane per noi incomprensibile e impossibile da scoprire perché la nostra ragione qui si approssima ai limiti della ragione eterna [an die Grenzen der ewigen Vernunft sich nahert].36

Il termine destinazione (Bestimmung), parola chiave della filosofia di Kant37, dà forma a questo straordinario quanto drammatico connubio di responsabilità e impotenza. Un connubio il cui senso profondo, sebbene tenda talora a occultarsi, in Kant, nell’immagine iper-performativa di un uomo capace di farsi da sé, anima però costantemente la rappresentazione teleologica di uno scopo al quale l’uomo è destinato sulla terra, ma la cui esecuzione si rende pensabile solo in uno spazio limite segnato dal rapporto tra quel che l’uomo deve fare e quel che l’uomo può fare. L’essere razionale che è l’uomo è 35  V-Anth/Mron, AA 25: 1429. 36  V-Anth/Mron, AA 25: 1429. 37  Alla centralità della questione della destinazione dell’uomo nell’ambito della filosofia kantiana R. Brandt ha dedicato uno studio circostanziato (cfr. R. Brandt, Die Bestimmung des Menschen bei Kant, Meiner, Hamburg 2007).

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responsabile del mondo in cui abita, in quanto è portatore di un destino che lo sottrae al gioco deterministico della natura38, rendendolo non semplice spettatore, ma attore del mondo. E però, in quanto essere finito, in forza dei limiti che la sua condizione gli impone, egli non può che vivere il destino che gli è assegnato dalla ragione come un gioco più grande di lui, come un compito che ragionevolmente non può gravare sulle sue sole spalle. Meglio: quella stessa ragione che come principio dell’agire spontaneo strappa l’uomo alla natura (intesa come ordine dato di leggi) rende l’uomo, nel contempo, partecipe di un destino del quale egli seppur responsabile non è in pieno possesso. Per dirla con una felice formula di G. Böhme, «l’uomo autonomo non è sovrano»39; autore del proprio destino, non ne è signore. Al fondo dell’indagine pragmatica che mette capo alla figura cosmopolitica dell’uomo-cittadino, soggetto attivo nella scena del mondo, opera, allora, una concezione cosmica dell’umano; il che va inteso nel senso che l’uomo non può essere identificato nel carattere che lo distingue dagli altri esseri terrestri, se non in riferimento a un mondo, a un tutto, del cui ordine egli è certamente attore, ma la cui ampiezza, le cui dinamiche e relazioni non sono negli esiti e nei fini sotto il suo controllo. Certo, l’uomo occupa un posto centrale nel complesso degli esseri viventi e, più in generale, degli enti mondani. Come si legge nel testo dell’antropologia pubblicata, l’essere umano costituisce «l’oggetto più importante»40 e «il conoscerlo nella sua specie, come essere terrestre dotato di ragione, merita in modo particolare il nome di conoscenza del mondo, ancorché l’uomo non costituisca che una parte delle creature

38  Cfr. Anth, AA 7:120; tr. it., p. 100. 39  G. Böhme, Immanuel Kant, cit., p. 35. 40  Anth, AA 7: 119; tr. it., p. 99.

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della terra»41. E però, proprio in forza di quell’uso della ragione che lo distingue da ogni altro essere terrestre, l’uomo è parte di un disegno più ampio i cui fini vanno ben al di là del mondo in cui egli sembra essersi così bene acclimatato in virtù dello sviluppo delle sue disposizioni e abilità, ben al di là di un mondo concepito e vissuto come rassicurante habitat umano. È in relazione a un tale disegno cosmico che l’antropologia kantiana rimette in gioco, contro ogni spinta unilateralmente antropocentrica, il senso di un ordine del mondo non riducibile alla dimensione pragmatica42. Il che deriva, in definitiva,

41  Anth, AA 7: 119; tr. it., p. 99. 42  Leggerei in questa direzione le indicazioni di Martinelli, il quale individua in seno all’antropologia pragmatica una traiettoria di indagine che conduce dalla polis al kosmos. Più precisamente egli parla di una considerazione «su scala cosmica» alla luce della quale l’uomo risulta fare di sé «quello che la natura stessa esige da lui, di modo che la coppia oppositiva iniziale pragmatico/fisiologico ha valore metodologico per l’antropologia e non configura invece un’opposizione di merito tra natura e cultura» (R. Martinelli, Antropologia, in S. Besoli - C. La Rocca - R. Martinelli [a cura di], L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 13-52: p. 28). Mi discosto, invece, da Martinelli nella conclusione di un ragionamento che sembra in definitiva avallare la tesi secondo la quale il riferimento al mondo assume la veste di un orizzonte di possibilità che si apre «sulla scorta della pur problematica collaborazione tra gli uomini». In questa prospettiva, il punto di partenza sarebbe, in Kant, quello di un io senza mondo, e la direzione quella che va dall’io al mondo (cfr. ivi, p. 31). Ritengo, al contrario, che il profilarsi già in sede antropologica di un compito irrinunciabile, che però l’uomo stesso non è ragionevolmente capace di portare a termine a partire dalle sue sole forze, collochi l’operare umano all’interno di un orizzonte ben più ampio. Infatti, la considerazione finalistica della natura, e in particolare l’orientamento normativo-teleologico dell’indagine pragmatica sull’uomo, non possono venire riguardati come semplici connotati di un mondo «nobilitato dalla presenza umana» (ivi, p. 31). Essi indicano, più radicalmente, un’idea di uomo nobilitata da un progetto, la cui ampiezza non può essere contenuta nello spazio delle sole possibilità e capacità umane.

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dal fatto che la ragione, in forza della quale l’uomo occupa un posto speciale tra gli enti mondani, non appartiene all’uomo come una semplice dotazione naturale, un possesso specifico che completi il suo quadro fisiologico. Della fisiologia umana la ragione attesta, piuttosto, una mancanza, un’incompletezza, il «vuoto della creazione»43. L’uomo è vocato a colmare quel vuoto mediante l’istruzione e una serie indefinita di tentativi che legano le sorti di una generazione agli sviluppi delle altre, in vista di uno scopo finale che pertiene alla storia della specie umana considerata come un tutto, come un intero44. In questa prospettiva, attenta alla complessità irriducibile del rapporto uomo-natura-ragione, il concetto di specie umana assume la sua piena valenza teorica, innestandosi in quella filosofia che Kant concepisce architettonicamente come sapere che orienta le diverse forme di conoscenza verso «i fini essenziali della ragione umana»45; verso quei fini che pertengono alla destinazione morale dell’uomo46, delineando un ordine del mondo che trascende il mondo che l’uomo è capace di progettare e realizzare con le sue sole forze47. In questo dise-

43  IaG, AA 8: 21; tr. it., p. 33. 44  Cfr. IaG, AA 8: 19; tr. it., p. 31. Cfr. anche V-Anth/Mensch, AA 25: 1196; V-Anth/Mron, AA 25: 1417; Anth, AA 7: 324; tr. it., p. 341. 45  KrV, A 839/B 867; tr. it., p. 1179. 46  Cfr. KrV, A 840/B 868; tr. it., p. 1179. 47  Come dice A.W. Wood con formula paradossale, «la razionalità deve essere considerata come un problema posto agli esseri umani dalla loro natura, della cui soluzione non è responsabile la natura ma gli esseri umani» (A.W. Wood, Kant and the Problem of Human Nature, in B. Jacobs - P. Kain [a cura di], Essays on Kant’s Anthropology, cit., pp. 38-59: p. 51). A ciò andrebbe tuttavia aggiunto che per gli esseri umani essere responsabili della soluzione non significa detenere anche il potere di darla. Da questo punto di vista, la situazione che meglio descrive la complessità del rapporto tra uomo e ragione rimane quella che Kant disegna all’inizio dell’avventura critica, dove, non a caso, si parla di destino (Schicksal) della ragione umana:

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gno architettonico la ragione non si configura come semplice capacità dell’uomo di porsi fini arbitrari, non iscritti nel suo corredo fisiologico-genetico. Piuttosto, i fini arbitrari perseguiti dall’uomo, come gli obiettivi specifici coltivati da ciascuna scienza o abilità, si rivelano connessi a fini che, a loro volta, non sono riducibili a mezzi per ottenere qualcos’altro, relandosi in un intero irriducibile alla somma delle loro parzialità. Dell’arbitrio dell’uomo, come del suo potere, tali fini necessari non indicano il prodotto ma il limite e con esso l’orizzonte di possibilità48. E ciò perché la stessa possibilità di coltivare fini arbitrari (persino quando eleggono a movente l’egoismo più spinto) non può che comprendersi, in radice, sullo sfondo di quella dimensione autonoma dell’agire libero, che trova per Kant il suo senso compiuto solo nella destinazione morale dell’uomo49. Insomma, l’esercizio del libero arbitrio, anche là dove non elegga come movente l’intenzione morale, non è comprensibile in quanto libero se non in riferimento alla pos-

«La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere incalzata da questioni che non può evitare, poiché le sono imposte dalla natura stessa di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana» (KrV, A VII; tr. it., p. 7. Traduzione modificata). 48  «Egli [Kant] ha sottolineato che la ragione stessa ci dà uno scopo con la “natura razionale”. E questo scopo è da intendersi come la “suprema condizione limitativa della libertà delle azioni di ogni uomo”. Quindi non si tratta solo del concetto di libertà, si tratta delle condizioni di una definizione universale della libertà, che abbia forma di legge» (H. Klemme, Die vernunftige Natur existirt als Zweck an sich selbst, in «Kant-Studien», n. 1, 2015, pp. 88-96: p. 95). 49  Ha ragione Sussman quando afferma: «Le risorse concettuali mediante cui articoliamo e deliberiamo in merito a interessi non morali hanno la loro origine in un contesto morale strutturato secondo le idee di legge e obbligazione, e in un’idea del sé come essenzialmente responsabile della legge e dell’autorità» (D.G. Sussman, The Idea of Humanity. Anthropology and Anthroponomy in Kant’s Ethics, Routledge, New York-London 2001, p. 75).

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sibilità di rappresentarci scopi che assumono valore in se stessi, ossia a prescindere da quel che, strategicamente, potremmo ricavarne a nostro vantaggio. Se così è, come risulta insufficiente ogni antropologia fisiologica che rimanga limitata al punto di vista dell’uomo in quanto prodotto del gioco della natura, altrettanto insufficiente risulterebbe un’antropologia pragmatica che si legasse unicamente alla rappresentazione antropocentrica di un mondo pensato a misura dell’arbitrio e del potere umano. Ciò che lo stesso Kant non manca di mettere in luce, quando riferisce il punto di vista pragmatico a una conoscenza dell’uomo che «mira ad indagare ciò che egli, in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può [kann] e deve [soll] fare di se stesso»50. La prospettiva architettonica consegna, dunque, la ragione umana a quella dinamica paradossale secondo la quale l’uomo occupa un posto centrale nel mondo, ma solo a condizione che riconosca di non essere il centro del mondo. Detto altrimenti: nessuna antropologia che si pretenda come conoscenza finaliz50  Anth, AA 7: 119; tr. it., p. 99. Diversamente dalla filosofia morale, l’antropologia considera per statuto quel che l’uomo deve fare da una prospettiva che innanzitutto tenga conto di quel che egli può fare in base alla sua natura e ai modi in cui su di essa interviene. Tuttavia, l’intreccio tra l’elemento pragmatico-prudenziale e il motivo teleologico-morale, che attraversa la ricerca antropologica di Kant, non autorizza a seguire direzioni univoche, specie quando esse attengono al concetto specifico di libertà che è in gioco nella ricerca kantiana sull’uomo. Perciò, sebbene concordi con Brandt quando sostiene che il riferimento all’uomo in quanto essere che agisce liberamente, che compare nella Prefazione all’Antropologia dal punto di vista pragmatico, non chiami in causa la questione metafisica del rapporto tra libertà e determinismo, non mi trovo in accordo con lui quando afferma che la libertà vada, qui, intesa semplicemente in relazione all’operare concreto dell’uomo, sulla base cioè del discernimento tra le azioni che, conformemente all’esperienza, sono in nostro potere e quelle che non lo sono (cfr. R. Brandt, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in Pragmatischer Hinsicht (1978), Meiner, Hamburg 1999, p. 39).

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zata all’orientarsi dell’uomo nel mondo può prescindere dalla guida di una filosofia intesa come considerazione in chiave cosmica dell’uomo e della sua destinazione.

4. Antropologia e filosofia Nella prefazione all’Antropologia dal punto di vista pragma­ tico Kant parla esplicitamente dell’antropologia come di una Generalkenntniß «ordinata e diretta dalla filosofia; senza que­ st’ultima – continua il testo – ogni conoscenza acquisita non può che procedere a tentoni e in maniera frammentaria, e non mette capo ad alcuna scienza»51. La guida della filosofia risulta essenziale, al punto che il suo apporto fa da spartiacque tra una vera scienza dell’uomo e quella che, altrimenti, rimarrebbe una mera collazione di acquisizioni empiriche. Il che, come si è visto, non implica che Kant insegua la pretesa “dogmatica” di accedere a una presunta natura immutabile che faccia da substratum alle manifestazioni fenomeniche (azioni, costumi e abitudini stratificate) dell’essere umano, come se la filosofia dovesse o potesse riconoscersi in una sorta di dottrina trascendentale dell’uomo o antropologia fondamentale. Si tratta, invece, di dar seguito al programma che Kant rende esplicito nella Critica della ragion pura, nel quale l’indagine empirica sull’uomo figura come parte di un disegno architettonico più ampio, che riguarda la relazione tra le diverse forme del sapere umano. In tale disegno la filosofia svolge un ruolo guida, in quanto riferisce gli obiettivi specifici e le abilità coltivate nelle diverse scienze ai fini essenziali della ragione umana: La filosofia riferisce tutto alla saggezza, ma attraverso la via della scienza. L’unica che una volta aperta non si chiude mai

51  Anth, AA 7: 120; tr. it., p. 101.

95 più e non permette di smarrirsi. La matematica, la fisica, la stessa conoscenza empirica dell’uomo possiedono un alto valore come mezzi, per lo più in vista di fini contingenti, ma in ultima istanza anche in vista di fini necessari ed essenziali all’umanità: in questo caso, però, solo con la mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti, e che può essere chiamata come si vuole, ma propriamente non è altro che metafisica. Proprio per questo, la metafisica costituisce anche il compimento di ogni cultura della ragion umana, un compimento che risulta indispensabile, anche nel caso si voglia prescindere dal suo influsso come scienza su certi fini determinati.52

Il compito architettonico di porre in relazione ogni conoscenza con i fini necessari ed essenziali all’umanità caratterizza la filosofia nel suo «concetto cosmico [Weltbegriff]»53; là dove «cosmico» fa riferimento all’idea di un tutto pensato in relazione alla destinazione morale dell’uomo: L’ultimo fine non è altro che l’intera destinazione dell’uomo [die ganze Bestimmung des Menschen], e la filosofia che se ne occupa si chiama morale.54

Al di là delle declinazioni specifiche che assume nelle diverse parti del sistema kantiano, il riferimento alla destinazione morale dà voce a una modalità affatto peculiare dell’uomo di rapportarsi alla propria ragione. Questa non è solo la fonte dalla quale scaturiscono conoscenze e abilità sulla cui base l’uomo, secondo una logica puramente pragmatica, appresta i mezzi per progettare un mondo conforme ai suoi fini arbitrari. Piuttosto, la ragione si configura essa stessa come uno scopo, come una forma di vita da realizzare nel mondo, sebbene i limiti del mondo in cui l’uomo vive e le capacità e le risorse 52  KrV, A 850/B 878; tr. it., p. 1193. 53  KrV, A 838/B 866; tr. it., p. 1177. 54  KrV, A 840/B 868; tr. it., p. 1179.

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educative di cui dispone non siano sufficienti a garantire negli effetti quello a cui, in quanto essere razionale terrestre, è destinato. Il complesso intreccio di filosofia, metafisica e antropologia che attraversa la riflessione kantiana sull’uomo e sulla sua destinazione non fa che registrare questa condizione. Sotto la guida della filosofia, l’antropologia vede convergere le molteplici osservazioni empiriche sulla natura umana verso quegli scopi il cui valore vincolante discende dall’uso puro della ragione e che, per questo, sono comprensibili solo «con la mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti», ossia di quella conoscenza che per tradizione si definisce «metafisica». Tali scopi esprimono il senso di una destinazione intesa come massima approssimazione possibile a un ordine del mondo sulla cui realizzazione l’uomo non ha però l’ultima parola. E tuttavia – questo il punto decisivo – è solo in riferimento a, o in vista di, tale destinazione, che appare lecito parlare della specie umana come di un intero55, e dunque, in definitiva, di una considerazione razionale dell’uomo che sia in grado di superare quella locale, ponendosi al di là delle limitazioni spazio-temporali in cui la natura umana si rende conoscibile empiricamente. Il riferimento all’uomo «inteso nella totalità della sua specie [im Ganzen ihrer Gattung]»56 non può giustificarsi sul terreno della semplice osservazione empirica, cui pure l’antropologia deve attingere. Esso implica, piuttosto, che le conoscenze acquisibili empiricamente, insieme ai precetti pragmatici che regolano il modo in cui l’uomo può servirsene a proprio van-

55  Sull’argomento cfr. R. Brandt, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in Pragmatischer Hinsicht (1978), cit., pp. 9-10; J.H. Zammito, What a Young Man Needs for His Venture into the World. The Function and Evolution of the “Characteristics”, in A. Cohen (a cura di), Kant’s Lectures on Anthropology, cit., pp. 230-248, pp. 244-247. 56  Anth, AA 7: 328; tr. it., p. 346.

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taggio, vengano guidate da un occhio supplementare, rivolto non ai fini contingenti che di volta in volta orientano il comportamento umano, ma a quelli che Kant, con riferimento alla dimensione morale, indica come i fini essenziali della ragione umana. Ne deriva un modello complesso di indagine al cui interno le ricerche empiriche sulla natura dell’uomo vengono illuminate da uno sguardo filosofico, anzi metafisico, sulla costitutiva dimensione cosmica dell’umano e sulla sua destinazione morale57. Proprio e solo nel contesto di questa riformulazione in chiave etica della domanda sull’uomo si apre lo spazio per una general Weltkenntniß che, come Kant afferma nelle lezioni del semestre invernale 1777/78, «non è empirica ma cosmologica»58, senza che ciò risulti in contraddizione con il profilo dichiaratamente empirico delle osservazioni sulla natura umana e delle cognizioni che su quelle osservazioni si fondano59. 57  Peraltro sembra che Kant dia qui corso a un indirizzo della ricerca sull’uomo che, almeno nelle intenzioni generali, si profilava, già prima della svolta critica, nell’annuncio delle lezioni del semestre invernale 1765/66, dove lo studio della natura umana, intesa come ciò che rimane costante nell’uomo al di là della mutevole forma impressagli dal suo stato contingente, viene ricompreso in modo esplicito all’interno dell’indagine morale (cfr. NEV, AA 2: 311). Cfr. al riguardo N. Hinske, Kants Idee der Anthropologie, in H. Rombach (a cura di), Die Frage nach dem Menschen. Aufriß einer philosophischen Anthropologie. Festschrift für Max Müller zum 60. Geburtstag, Alber, Freiburg i.Br.-München 1966, pp. 410-427, in part. p. 418. 58  V-Anth/Pillau, AA 25: 734. 59  Mi discosto qui dalla lettura di R. Lauden, il quale tende a sminuire il senso della contrapposizione tra cosmologico ed empirico, che figura in questo passo delle lezioni kantiane, imputandolo a uso terminologico impreciso e ribadisce il carattere irriducibilmente empirico e a posteriori della general Weltkenntniß (cfr. R. Lauden, Kant’s Human Being, cit., pp. 86-88, 118). Mi pare che tale posizione mal si concili, almeno nei suoi esiti, con l’idea di una specie umana concepita da Kant teleologicamente nel suo legame con la dimensione morale; idea che lo stesso Lauden, peraltro, non manca di evidenziare (cfr. ivi, pp. 89-90). Una lettura che valorizza con particolare enfasi la

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In conclusione: l’appello kantiano a una conoscenza generale del mondo che precede quella locale, se già a partire dalla metà degli anni ’70 costituiva un Leitmotiv delle lezioni di antropologia, considerato alla luce della svolta critica e della nozione di mondo che in essa prende forma, esibisce pienamente il tratto qualitativo di una conoscenza che, al di là dei diversi contesti spazio-temporali, si rivolge alla specie umana intesa nella sua interezza. Lungi dal costituire una conoscenza che risponda semplicemente a un grado maggiore di generalità empirica, la general Weltkenntniß viene, così, a delimitare quel terreno problematico di confine in cui la molteplicità delle osservazioni empiriche sulla natura umana converge nel disegno di un ordine cosmico. Certo, il concetto di mondo, come la nozione di Weltkenntniß, assumono molteplici significati nell’opera kantiana, e in special modo nelle lezioni di antropologia60. Potremmo, anzi, dire che la parola “Welt” viene a configurarsi come una sorta di prefisso costante della riflessione di Kant, accompagnandola nei suoi diversi ambiti, da quello specificamente teoretico-metafisico, a quello morale, sino agli scritti che vedono l’intrecciarsi della ricerca sull’uomo con il progetto civile di una società cosmopolitica. Resta vero, però, che il concetto di mondo, di là dai tanti significati che assume nei diversi contesti, non può che prendere forma, col maturare della svolta critica, in un’idea della ragione. Come è stato bene evidenziato, «ogni “mondo” si genera in primo luogo nelle idee della ragione come una totalità

dimensione teleologica dell’antropologia kantiana quale contrassegno di una scienza dal profilo non meramente empirico si trova in H.L. Wilson, Kant’s Pragmatic Anthropology, cit., in part. pp. 104-105, 111-116. 60  In particolare, con riferimento all’ambito dell’antropologia, cfr. A.K. Giri, Kant and Anthropology, in A.K. Giri - J. Clammer (a cura di), Philosophy and Anthropology. Border Crossing and Transformations, Anthem Press, London-New York-Delhi 2018, pp. 141-146, pp. 143-146.

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e un sistema di fini»61. In quanto idea razionale, espressione di una libera attività spontanea e auto-legislativa, il mondo non può imporsi nella forma dogmatica, rigidamente cosmologica, di un ordine dato nel quale l’uomo occupi una posizione prestabilita. E tuttavia, nel contempo, in quanto è gravido di scopi la cui piena realizzazione trascende le capacità e i limiti della condizione umana, l’idea di mondo si fa voce di un significato irriducibile all’ordine pragmatico di ciò che l’uomo è in grado di fare e progettare.

61  A. Ferrarin, I poteri della ragion pura, cit., p. 67.

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IV La specie umana dal punto di vista cosmopolitico

1. La pace come progetto filosofico Nell’ambito della Kant-Forschung il termine «cosmopolitismo» è venuto sempre più assumendo la fisionomia di una parola chiave, tendente a indicare non solo la particolare configurazione di un progetto politico-giuridico, ma, più estesamente, un modo di pensare, una modalità di approccio, un punto di vista insomma, a partire dal quale rileggere il disegno intero della filosofia kantiana, dalle opere più espressamente votate a questioni di ordine teoretico, alla riflessione moralereligiosa, oltre che ovviamente agli scritti di storia e di diritto. A testimonianza dell’accentuarsi di questa tendenza negli ultimi anni, al di là dei molti saggi e contributi che si potrebbero citare in merito1, basterà forse il titolo dell’XI Internationaler

1  Solo a titolo di esempio cfr. M. Bösch, Globale Vernunft. Zum Kosmopolitismus der Kantischen Vernunftkritik, in «Kant-Studien», XCVIII, n. 4, 2007, pp. 473-486; O. Hoffe, Kants universaler Kosmopolitismus, V. Rohden - R.R. Terra - G.A. de Almeida - M. Ruffing (a cura di), Recht und Frieden in der Philosophie Kants, cit., pp. 139-155; P. Kleingeld, Kant and Cosmopolitanism. The Philosophical Ideal of World Citizenship, Cambridge University Press, Cambridge 2012; G. Cavallar, Kant’s Embedded Cosmopolitanism. History, Philosophy, Education for World Citizens, de Gruyter,

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Kant-Kongress: Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht, tenutosi a Pisa nel 20102, dove l’aggettivo «cosmopolitico» contrassegnava il profilo più ampio di una filosofia che, pensata, come Kant auspica, nel suo «concetto cosmico [Weltbegriff]»3, si rivolge agli interessi più profondi dell’uomo, o, come si legge in modo esplicito nell’Architettonica della ragion pura, ai «fini più alti della ragione umana (teleologia rationis humanae)»4. Di questo disegno teleologico della ragione, che in Kant si lega a una precisa concezione del filosofare, gli scritti dedicati al diritto e alla politica costituiscono però non una semplice appendice, ma un momento essenziale, nella misura in cui della ragione, delle sue pretese e aspettative, concorrono a delineare l’orizzonte propriamente umano. Di più, l’intero progetto cosmopolitico di pace, in vista del quale Kant legge la storia della specie umana, va ricompreso sotto il segno filosofico di una finalità, di una destinazione5, che all’uomo è asse-

Berlin-­Boston 2015; A. Cicatello (a cura di), El cosmopolitismo kantiano. Tradición y perspectivas, num. mon. di «Con-Textos Kantianos. International Journal of Philosophy», n. 10, 2019; M. Russo, Cosmologia e umanesimo in Kant, Palermo University Press, Palermo 2020. 2  S. Bacin - A. Ferrarin - C. La Rocca - M. Ruffing (a cura di), Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht. Akten des XI. Internationalen Kant-Kongresses, de Gruyter, Berlin-Boston 2013. 3  KrV, A 838/B 866; tr. it., p. 1177. 4  KrV, A 839/B 867; tr. it., p. 1179. Cfr. anche Log., AA 9: 23; tr. it., p. 18, V-Met-L2/Pölitz, AA 28: 532. 5  «I fini essenziali […] non coincidono ancora con i fini supremi, dei quali (se si sia raggiunta la perfetta unità sistematica della ragione) non può esservene che uno solo. Di conseguenza quei fini o coincideranno con l’ultimo fine, o costituiranno dei fini subalterni che appartengono necessariamente ad esso come mezzi. L’ultimo fine non è altro che l’intera destinazione dell’uomo [die ganze Bestimmung des Menschen], e la filosofia che se ne occupa si chiama morale» (KrV, A 840/B 868; tr. it., p. 1179). Sul concetto kantiano di

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gnata dalla possibilità dell’uso della ragione; una destinazione di cui l’uomo può farsi carico solo costruendo forme di convivenza che siano il più possibile garantite dalla minaccia della violenza e della guerra. Insomma, anche l’interesse delle opere di tono più marcatamente politico richiede di essere compreso nello spazio di un disegno filosofico rivolto all’esistenza umana considerata nella sua interezza6. Non stupisce, allora, che Per la pace perpetua, uno degli scritti più rappresentativi dell’impegno teorico-politico di Kant, venga presentato nel segno di un «progetto filosofico»7. L’espressione philosophischer Entwurf qualifica in Kant una precisa modalità di approccio agli argomenti di ordine politico e giuridico. Concetti come “progresso”, “civilizzazione”, “pace permanente”, “società cosmopolitica”, rientrano in un progetto filosofico in quanto fanno riferimento a un uso della ragione che si pone al di là di ciò che può essere desunto dalla semplice esperienza. E ciò in quanto si legano a un disegno del corso storico degli eventi che nessuna esperienza è in grado di garantire. Per tali concetti, dunque, si pone il quesito in merito al loro titolo di legittimità a fornire strumenti per la comprensione dello svolgersi delle vicende umane. Detto diversamente: per essi, come per i concetti e i principi discusdestinazione si è già discusso nei capitoli precedenti e si tornerà nuovamente, e in modo più dettagliato, nel capitolo conclusivo. 6  Così Kant nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico: «L’essere umano è determinato [bestimmt] dalla sua ragione a stare in una società con altri suoi simili, e in essa a coltivare, a civilizzarsi e a moralizzarsi per mezzo dell’arte e delle scienze; per quanto possa anche essere grande la sua tendenza animalesca ad abbandonarsi passivamente agli stimoli dell’agio e del benessere, cui dà il nome di felicità, egli è destinato [bestimmt] piuttosto a rendersi attivamente degno dell’umanità, combattendo contro gli ostacoli che gli sono stati inflitti dalla rozzezza della sua natura (Anth, AA 7: 324325; tr. it., p. 342). 7  Cfr. ZeF, AA 8: 341; tr. it., p. 163.

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si in sede di Critica della ragion pura, non è sufficiente una deduzione meramente empirica. Così, quando, ad es., Kant parla della pace perpetua come di uno scopo «niente affatto chimerico»8, la sua intenzione rimane pur sempre quella di individuare i limiti entro i quali il riferimento a un tale scopo, a questa idea della ragione, può esibire un titolo di legittimità, anche solo come principio normativo per la costruzione di un ordine mondiale sempre più al riparo dalla minaccia della violenza e della guerra. E non è un caso che, nel profilare l’ipotesi di una confederazione tra gli stati come forma di organizzazione provvisoria in vista di una pace duratura, Kant ricorra al lessico trascendentale e parli di «realtà oggettiva»9 dell’«idea di federalismo»10, la cui praticabilità «può essere esibita [lässt sich darstellen]»11. Sono, già questi, esempi evidenti di come la questione politica, concernente l’effettiva attuabilità di un progetto di comunità civile, si saldi costantemente alla questione teoretica che si interroga sull’uso legittimo di concetti della ragione, rispetto ai quali la semplice esperienza non può fornire le condizioni e gli strumenti di verifica. Ancora, quando nella seconda sezione de Il conflitto delle facoltà Kant si chiede in quale ordine ci si può attendere il progresso dell’umanità verso il meglio12, egli reitera, specificandone il senso sul terreno della «storia morale»13 degli uomini, la domanda sulla legittimità14 dell’uso di un concetto, quello di 8  Cfr. ZeF, AA 8: 368; tr. it., p. 186. 9  ZeF, AA 8: 356; tr. it., p. 175. 10  ZeF, AA 8: 356; tr. it., p. 175. 11  ZeF, AA 8: 356; tr. it., p. 175. 12  Cfr. SF, AA 7: 92. 13  SF, AA 7:79. 14  Riferendosi al percorso argomentativo seguito ne Il conflitto delle facoltà A. De Freitas Meirelles evidenzia come Kant commisuri l’interrogazione sulla possibilità del progresso del genere umano ai parametri della filoso-

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progresso, in relazione al quale afferma espressamente che si tratta di una questione che non può risolversi «immediatamente attraverso l’esperienza»15. O infine – ma l’elenco potrebbe continuare –, che nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico Kant si riferisca alla società cosmopolitica come a un «principio regolativo»16 implica il confronto con la questione filosofica circa la legittimità dell’uso di un concetto della ragione, il cui significato, qualora venisse usato come «principio costitutivo»17, non potrebbe che assumere l’aspetto chimerico «dell’attesa di una pace durevole, nel bel mezzo delle più violente azioni e reazioni che caratterizzano l’esistenza umana»18. In definitiva, la questione critico-trascendentale circa la legittimità dell’uso di concetti che da un lato si sottraggono a una verifica empirica diretta e dall’altro reclamano, perché confia trascendentale (A. De Freitas Meirelles, Philosophie transcendantale et histoire chez Kant, in V. Rohden - R.R. Terra - G. A. de Almeida - M. Ruffing [a cura di], Recht und Frieden in der Philosophie Kants, cit., pp. 679686, p. 685). Sulla questione del progresso morale e del suo significato in relazione allo sviluppo della disposizione razionale dell’uomo cfr., in particolare, P. Kleingeld, Kant, History, and the Idea of Moral Development, in «History of Philosophy Quarterly», XVI, n. 1, 1999, pp. 59-80. Sulle difficoltà che il tema del progresso morale solleva all’interno della filosofia kantiana cfr. E.L. Fackenheim, Kant’s Concept of History, in «Kant-Studien», XLVIII, 1956-1957, pp. 381-398, in part. p. 397. Cfr. anche, sebbene da una prospettiva incentrata maggiormente sul progresso morale dell’individuo, i rilievi critici di F. Zuolo, Il progresso morale in Kant. Impossibilità ontologica e necessità pratica, in «Rivista di filosofia», n. 3, 2009, pp. 373-396. Più in generale, sulle questioni lasciate aperte dall’idea di un progresso e di una «storia della ragione» cfr. Y. Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 271-306. 15  SF, AA 7: 83; tr. it., p. 226. 16  Anth, AA 7: 331; tr. it., p. 350. 17  Anth, AA 7: 331; tr. it., p. 350. 18  Anth, AA 7: 331; tr. it., p. 350.

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cetti della ragione, uno statuto non arbitrario, costituisce lo sfondo ineliminabile della riflessione kantiana; anche là dove essa assume il profilo specifico di una proposta politica sulle modalità in cui il pericolo della violenza possa e debba essere arginato con i mezzi del diritto. Nella proposta cosmopolitica di Kant a giocare un ruolo decisivo sono le risorse contro-fattuali che il diritto, in quanto concetto della ragione19, offre per garantire, sebbene solo nella forma di un’approssimazione progressiva verso il meglio, quella condizione durevole di giustizia e di pace che non può essere oggetto di una semplice previsione fondata empiricamente su quel che offre lo spettacolo delle vicende umane: Non si può trattenere un certo fastidio quando si vede rappresentato il loro [degli uomini] fare ed omettere sulla grande scena del mondo e, pur con l’apparire di tanto in tanto della saggezza del particolare, si trova tutto tale fare ed omettere, nel suo insieme, intessuto di fine idiozia, di vanità infantile, spesso anche di infantili cattiveria e smania di distruzione.20

Il diritto costituisce insomma la chiave di volta del discorso filosofico-politico sul progresso e la pace21, tanto più perché rappresenta una condizione imprescindibile per lo sviluppo delle disposizioni originarie dell’uomo; quello sviluppo, quel progresso, in forza del quale, soltanto, l’uomo può rendersi 19  «[…] il diritto è uno di questi concetti della ragione pura pratica relativo all’arbitrio secondo le leggi della libertà» (MS, AA 6: 249; tr. it., p. 99). 20  IaG, AA 8:17-18; tr. it., p. 30. 21  «Solo per il fatto che l’elemento storico-fattuale, la politica reale, viene sottoposta all’intelligibile, all’idea del diritto, il mondo dell’agire umano, in sé inconsistente, lasciato in balìa del caso, può ottenere la pace perpetua» (R. Malter, Nachwort, in I. Kant, Zum ewigen Frieden, Reclam, Stuttgart 1984, p. 70).

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degno, nel senso di acquisirne la titolarità legittima, dell’appellativo di essere razionale. Il diritto sta, in effetti, a ricordare all’uomo il fatto che egli non dispone della ragione nella semplice forma naturale di una dotazione antropologica. In questo senso, anzi, l’unica conoscenza antropologica che può riguardare l’uomo in quanto essere razionale concerne non «quel che la natura fa di lui»22, ma «ciò che egli in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può e deve fare di se stesso»23. Il punto di vista pragmatico fa riferimento a una antropologia che «contiene la conoscenza dell’uomo inteso come cittadino del mondo»24. La figura del «cittadino del mondo» segna, cioè, l’acquisizione del titolo in virtù del quale l’uomo può rivendicare legittimamente il possesso della ragione non in quanto semplicemente dotato della possibilità fisiologica di usarla, ovvero in quanto animal rationabile25, ma in relazione a un uso della ragione rivolto a ciò che riguarda l’umanità, anzi, interessa ogni uomo in quanto capace di pensare la propria umanità come un compito comune, da realizzare insieme ad altri uomini: Egli [l’uomo] in primo luogo conserva se stesso e la propria specie; in secondo luogo esercita, istruisce ed educa quest’ultima per la società domestica; in terzo luogo la governa come un tutto sistematico (ordinato secondo principi razionali) che fa parte della società.26

22  Anth, AA 7:119; tr. it., p. 99. 23  Anth, AA 7:119; tr. it., p. 99. 24  Anth, AA 7:120; tr. it., p. 100. 25  Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 339. 26  Anth, AA 7: 321-322; tr. it., p. 339.

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2. Uomo, polis e ragione Kant offre, così, una versione affatto peculiare della formula tradizionale dell’uomo animale politico. Ovvero, non si tratta di rintracciare nell’uomo una tendenza naturale alla socialità. Il giudizio sulla natura umana rimane, in Kant, pur sempre sospeso, o meglio si potrebbe dire conteso, tra la tendenza alla socievolezza e l’inclinazione all’insocievolezza27. E però, l’insistenza kantiana su tale contesa non può essere cristallizzata nei termini di una descrizione ontologica, ma risponde al rilievo circa la costitutiva impossibilità di ancorare il giudizio sui fatti e le azioni umane a una presunta natura fissabile in base a caratteristiche stabili28. In ogni caso, l’appartenenza di ciascun individuo alla specie umana non si definisce, e non può definirsi, semplicemente in relazione a un corredo fisiologico dato, ma richiede di venire mediata dalla capacità di condividere con gli altri uomini i compiti che a ciascuno, in quanto individuo, sono imposti dalla semplice ragione, in modo che la semplice ragione si faccia ragione condivisa, comune, e pertanto atta a formare costumi e istituzioni29. 27  Cfr. IaG, AA 8: 20-22; tr. it., pp. 33-34; cfr. anche Anth, AA 7: 322; tr. it., p. 339. 28  Da questo punto di vista, i rilievi kantiani sulla insocievole socievolezza degli uomini, più che a una tesi dogmatica sulla natura dell’uomo, rispondono alla posizione critica circa l’impossibilità, di principio, di identificare un substratum che soggiaccia a comportamenti che, nel caso dell’ente razionale umano, vanno ricondotti a “fenomeni” dell’agire libero. 29  Nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico Kant si fa carico in pieno della difficoltà di definire le proprietà che caratterizzano la specie umana: «Se il supremo concetto di specie fosse quello di un essere razionale terrestre, noi non potremmo allora designarne alcun carattere, perché non abbiamo nessuna conoscenza di esseri non terrestri dotati di ragione di cui poter addurre la peculiarità, e caratterizzare così quegli esseri terrestri includendoli sotto gli esseri razionali in generale. – Sembra dunque che il problema di stabilire il carattere della specie umana [den Charakter der Menschengattung] sia senz’altro insolubile, perché la soluzione dovrebbe ottenersi

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Come dire: la politicità dell’uomo non risulta banalmente ancorata al dato antropologico di una razionalità di cui l’uomo disponga per definizione. In questo senso è anzi filosoficamente irrilevante se l’uomo sia o non per natura un essere politico. Piuttosto, la possibilità che si parli di natura umana, ossia di una specie al quale ogni uomo possa dire di appartenere, richiede i tempi lunghi della storia nel corso della quale l’uomo è chiamato a sviluppare la propria disposizione all’uso della ragione: Essa [la ragione] non opera istintivamente, ma ha bisogno di tentativi, di esercizio e di istruzione per progredire a poco a poco da un grado di conoscenza all’altro. Perciò ogni uomo avrebbe la necessità di vivere un tempo smisuratamente lungo per apprendere come dovrebbe fare uso completo delle sue disposizioni naturali; oppure, se la natura gli ha concesso solo una breve durata della vita (come di fatto è accaduto), essa ha bisogno di una serie forse interminabile di generazioni, di cui l’una trasmetta all’altra il proprio illuminismo, per far maturare infine i suoi germi nel nostro genere sino a quel grado di sviluppo che sia perfettamente adeguato al suo scopo.30

Il pieno sviluppo delle disposizioni originarie dell’uomo ha come condizione l’ingresso nello status civile; status che, al comparando, attraverso l’esperienza, due specifiche varietà di esseri razionali – cosa che l’esperienza non ci offre» (Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 338). Cfr. anche Refl 1482, AA 15: 661. Anche nella Critica della ragion pratica, sebbene in un contesto diverso, Kant fa esplicito riferimento al «fatto di non conoscere altri esseri razionali all’infuori dell’uomo» (KpV, AA 5:12; tr. it., p. 53). La soluzione prospettata da Kant va, com’è noto, nella direzione di una reimpostazione radicale della questione antropologica: «Dunque, per poter assegnare all’essere umano la propria classe nel sistema della natura vivente e così caratterizzarlo, non resta altro che questo: egli ha un carattere che si crea da sé, dal momento che ha la capacità di perfezionarsi secondo fini che si è scelto lui stesso» (Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 338). 30  IaG, AA 8: 17-18; tr. it., p. 31. Cfr. anche Anth, AA 7: 324; tr. it., p. 341; V-Anth/Mensch, AA 25: 1196; V-Anth/Mron, AA 25: 1417-1418.

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fine di garantire un ordine di pace mondiale, deve poter essere esteso oltre i limiti domestici dello ius civitatis, per coinvolgere i rapporti tra i popoli. Solo un ordine mondiale fondato sul diritto può infatti promuovere, secondo Kant, il progresso della specie umana. L’idea giusnaturalistica, o giusrazionalistica, di un diritto fondato sulla ragione31 coesiste, insomma, con l’idea che il diritto, nella sua forma pubblica e nella sua estensione cosmopolitica, costituisce la condizione, il «grembo»32 come dice Kant, nel quale, solo, possono maturare le disposizioni umane33. Là dove una simile maturazione non ha come scopo semplicemente l’utilizzo della ragione come strumento per procurare all’uomo ciò che gli animali ottengono direttamente con l’istinto. In questo «progresso» ne va, infatti, della ragione stessa in quanto «facoltà di estendere le regole e gli scopi dell’uso di tutte le forze molto oltre l’istinto naturale»34, in quanto capacità dell’uomo di prefigurare scopi e di progettare forme di vita non necessariamente iscritte nel suo corredo fisiologico-genetico35. I problemi, i conflitti e, con essi però, anche la ricchezza irrinunciabile della proposta filosofico-politica di Kant, risiedono essenzialmente in questa tensione tra il piano normativo-tra31  «Tutte quelle di natura giuridica rappresentano proposizioni a priori in quanto sono leggi di ragione (dictamina rationis)» (MS, AA 6: 249; tr. it., p. 101). 32  IaG, AA 8:28; tr. it., p. 41. 33  IaG, AA 8:28; tr. it., p. 41. Cfr. al riguardo anche KU, AA 5: 432-433; tr. it., p. 551. 34  IaG, AA 8: 18; tr. it., p. 31. 35  «Poiché gli umani possono scegliere liberamente i loro scopi in luogo di perseguire semplicemente gli scopi che desiderano istintivamente, il loro modo di vita è radicalmente indeterminato – aperto e non prefissato» (R.B. Lauden, Kant’s Human Being, cit., p. xxii). Cfr. anche R.B. Lauden, Cosmopolitical Unity. The final destiny of the human species, in Kant’s Lectures on Anthropology, cit., pp. 211-229, p. 221.

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scendentale (che riguarda l’uomo in quanto essere capace di determinare la sua facoltà di desiderare e il suo agire secondo principi della ragione, e per questo capace di orientare il suo muoversi nel mondo) e l’ordine contingente, storico-evolutivo, di una razionalità che all’uomo è data solo come disposizione che attende di esser sviluppata, assumendo la forma della elaborazione progressiva di strategie sempre più complesse per sopperire alla carenza iniziale di dotazioni naturali36. In questo senso, che definisce il concetto kantiano di progresso, la storia del genere umano, di cui si dice nell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, è anche la storia del costituirsi di un genus commune fondato sull’uso della ragione. In altre parole, al genere umano ciascun uomo appartiene legittimamente solo in forza della capacità e dell’intento di proporsi ad altri uomini per formare con essi una società fondata sul diritto. Per questo, se una storia umana si dà, essa può darsi solo da un punto di vista cosmopolitico, e cioè solo sul «filo conduttore» di una lettura che individua nell’ingresso dell’uomo nella comunità civile la condizione per lo sviluppo delle sue disposizioni naturali37.

36  «Sembra che qui la natura si sia compiaciuta nell’essere massimamente parsimoniosa, e abbia limitato la sua dotazione animale a una misura scarsa, appena sufficiente al supremo bisogno di un’esistenza ai suoi inizi: come se avesse voluto che l’uomo, quando si fosse sollevato dalla massima rozzezza alla massima abilità, alla perfezione interiore dell’atteggiamento di pensiero e con ciò (per quanto è possibile sulla Terra) alla felicità, dovesse averne il merito esclusivo e ringraziare di tutto ciò solo se stesso; proprio come se essa avesse mirato a che egli ottenesse razionale stima di sé piuttosto che benessere» (IaG, AA 8: 19-20; tr. it., p. 32). Sull’argomento e, in particolare, sulle difficoltà che nel contesto della riflessione kantiana si legano all’idea di una evoluzione e di uno sviluppo storico della ragione umana, cfr. i rilievi di A. Ferrarin, I poteri della ragion pura, cit., pp. 32-34. 37  «[C]osì, io credo, verrà scoperto un filo conduttore [Leitfaden] che non solo servirà a spiegare il così intricato gioco delle cose umane o a prevedere, a vantaggio dell’arte della divinazione politica, future trasformazioni degli

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3. Il concetto cosmopolitico di specie umana In gioco è dunque la possibilità di istituire una forma di cittadinanza in virtù della quale ciascun individuo possa dirsi non solo di fatto ma ancor prima di diritto parte del genere umano. Sul diritto e, più specificamente, sulla necessità di entrare in una condizione civile in grado di arginare l’esposizione alla violenza si gioca, allora, una scommessa decisiva. L’ingresso nella polis non risponde a una mera logica di sopravvivenza, non esprime unicamente la modalità in cui ciascun individuo cerca di mettersi al riparo da una condizione naturale nella quale sarebbe in continuo pericolo di vita. Il male connesso al permanere dell’uomo nello stato di natura non può essere, cioè, semplicisticamente identificato, secondo Kant, nell’immagine cruenta di una condizione selvaggia in cui gli uomini si trovano in lotta l’uno con l’altro, e dunque a rischio costante di perdere la vita. Il rischio che investe la condizione propriamente umana è piuttosto quello del perdurare di una situazione in cui l’esercizio della violenza non venga pubblicamente riconosciuto come la lesione di un diritto. In tale situazione l’uomo perderebbe la possibilità di diventare umano ancor prima di poter perdere la vita; si troverebbe in stato di guerra ancor prima di trovarsi impegnato in un conflitto effettivo38.

Stati […] ma verrà anche dischiusa una consolante prospettiva per il futuro […] nella quale, in grande lontananza, viene rappresentato come il genere umano si sollevi infine proprio a quello stato in cui tutti i germi che la natura ha posto in esso siano pienamente sviluppati, e la sua destinazione qui sulla Terra possa essere soddisfatta» (IaG, AA 8: 30; tr. it., p. 42). 38  Nella Metafisica dei costumi, nella sezione del diritto pubblico dedicata al diritto dei popoli Kant afferma esplicitamente che uno stato non giuridico «è uno stato di guerra (il diritto del più forte), anche se non vi è una guerra effettiva, né una lotta continua (ostilità), ed è (poiché nessuno dei contendenti vuole nulla di meglio) in se stesso ingiusto al massimo grado, anche se nessuno dei due Stati è trattato ingiustamente dall’altro (MS, AA 6: 344; tr. it., p. 299). Lo stato di natura descrive, per Kant, una condizione di «guerra

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Il punto non è, allora, quello di arginare una violenza intesa hobbesianamente come stato naturale del bellum omnium contra omnes, dalla quale proteggersi mediante l’ingresso in una condizione civile, ma è la necessità, intesa come obbligo dettato incondizionatamente dalla ragion pura pratica39, di uscire da una situazione in cui, sia pure in assenza di conflitto, ciascuno rimarrebbe comunque, di principio, esposto all’arbitrio e alla violenza dell’altro, senza potersi appellare a un giudice che faccia valere i suoi diritti40. Da questo punto di vista,

permanente [beständiger Krieg]» (MS, AA 6: 343; tr. it., p. 297), nel senso non della presenza di un conflitto costante, ma dell’assenza di un diritto che regoli ogni possibile conflitto. 39  Sul carattere incondizionato dell’obbligazione giuridica cfr. A. Pirni, Sul fondamento, ovvero il non-luogo della comunità politica, in «LOGOS. Anales del Seminario de Metafísica», XLII, 2009, pp. 37-60: p. 43. Cfr. anche O. Höffe, Kant’s Principle of Justice as Categorical Imperative of Law, in Y. Yovel (a cura di), Kant’s Practical Philosophy Reconsidered, Kluwer Academic Publishers, London 1989, pp. 149-167; O. Höffe, Kategorische Rechtsprinzipien. Ein Kontrapunkt der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1994, in part. pp. 11-29 e 126-149; Id., Kategorische Rechtsimperativ. “Einleitung in die Rechtslehre”, in Id. (a cura di), Immanuel Kant. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Akademie Verlag, Berlin 1999, pp. 41-62. 40  Secondo G. Cavallar: «Mentre per Hobbes lo stato di natura compromette il desiderio di felicità e autoconservazione e perciò deve, per ragioni pragmatiche, essere stabilito un ordinamento per il superamento dei conflitti, in Kant è sì anche imprudente ma, in prima istanza, è contrario al dovere permanere nello stato di natura. In quanto esseri dotati di ragione gli uomini sono obbligati a costituire i loro rapporti secondo regole del diritto. Il passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto pone la pace in luogo della guerra. Non decidono il timore della morte e il desiderio di felicità, ma unicamente l’argomento secondo cui solo nello stato giuridico è deciso sulla base del diritto e non dell’arbitrio che la rozza violenza venga risolta mediante il potere di coercizione legale» (G. Cavallar, Pax Kantiana: Systematisch-historische Untersuchung des Entwurfs “Zum ewigen Frieden” (1795) von Immanuel Kant [Schriftenreihe der oesterreichischen Gesellschaft zur Erforschung des 18. Jahrhunderts], Böhlau, Wien 1992, p. 70). Nella stessa direzione si pone M. Mori quando, riferendosi a Kant, afferma

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risulta irrilevante se lo stato di natura sia o non «uno stato di ingiustizia [Ungerechtigkeit], dove ognuno si scontra con gli altri soltanto regolandosi sulla forza»41. Si tratterebbe in ogni caso, questo il punto, di uno «stato senza diritto [Zustand der Rechtlosigkeit]»42, di una condizione esposta all’esercizio della libertà senza regola, in cui si perderebbe l’umanità prima ancora che possa perdersi la vita43. Dunque, il principio secondo cui «si deve uscire dalla stato di natura nel quale ognuno fa di testa propria e ci si deve accordare con tutti gli altri […] per sottostare a un potere legislativo pubblico esterno»44 non

che «il passaggio al diritto pubblico non è come in Hobbes un problema di sicurezza ma è un problema di coerenza giuridica. Occorre cioè togliere quell’idea di sovranità individuale che costituisce un ostacolo alla realizzazione da parte del diritto di una reciprocità tra i diversi arbitri sotto una legge universale» (M. Mori, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali: diritto, politica, storia, il Mulino, Bologna 2004, p. 101). Sulla differenza tra Kant e Hobbes in tema di obbligazione politica cfr. anche i rilievi di D.G. Sussman, The Idea of Humanity, cit., p. 126. 41  MS, AA 6: 312; tr. it., p. 231. 42  MS, AA 6: 312; tr. it., p. 231. 43  Nella Fondazione della metafisica dei costumi si parla di «principio dell’umanità [Prinzip der Menscheit]» quale «condizione limitativa suprema della libertà d’azione di ciascun uomo» (GMS, AA 4: 430-431; tr. it., pp. 147-149). Questa formula, che intercetta, già in sede di trattazione degli imperativi etici, il senso di un’accezione giuridica dell’agire libero, fondato sulla capacità autolimitante dell’ente razionale, svolgerà un ruolo decisivo nella concezione dell’umano, quale emerge dagli scritti kantiani più esplicitamente dedicati al diritto. Del resto, le evidenti differenze di piano che caratterizzano il rapporto tra legislazione etica e legislazione giuridica non possono far perdere di vista il fatto che il progetto stesso di una fondazione della metafisica dei costumi, nell’impianto sistematico della filosofia pratica di Kant, pone le basi di una dottrina dei costumi concepita come radice comune da cui si dipartono i ceppi della Rechtlehre e della Tugendlehre. A parlare nelle prescrizioni etiche come nei doveri giuridici è comunque una e una sola ragione. 44  MS, AA 6: 312; tr. it., p. 231.

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va riguardato come un semplice imperativo ipotetico della sopravvivenza: se non vuoi morire, devi entrare in uno stato civile! Con questo principio è, piuttosto, in gioco la possibilità stessa che ciascun individuo si riconosca come appartenente alla comunità umana. La minaccia che l’esercizio pubblico del diritto è chiamato ad arginare non risiede, allora, semplicemente nel fatto che gli uomini si aggrediscono l’un l’altro, ma consiste nell’idea che essi in generale commettano «la più grande ingiustizia [überhaupt thun sie im höchsten Grade […] unrecht] volendo essere e rimanere in uno stato che non è giuridico, nel quale cioè a nessuno è assicurato il proprio contro il sopruso»45. Kant non potrebbe essere più chiaro in proposito quando afferma: Non è dunque un fatto ciò che rende necessaria una coazione legale pubblica; al contrario, sebbene gli uomini possano essere immaginati buoni e amanti del diritto quanto si vuole, è inscritto a priori nell’idea razionale di un tale stato (non giuridico) che, prima di ottenere una condizione legale pubblica, uomini isolati, popoli e Stati non potranno mai essere al sicuro dalla violenza altrui, esercitata in base al diritto che ognuno ha di fare ciò che ritiene giusto e buono a prescindere dall’opinione altrui.46

In quanto progetto di un ordine civile che non solo coinvolga gli individui di un organismo statale, ma si estenda alle relazioni tra i popoli, e ancora alle relazioni tra individui e stati, il disegno cosmopolitico di Kant assume, dunque, il profilo specificamente filosofico di una riflessione più ampia sulla connotazione non meramente naturale del concetto di specie umana. E ciò perché alla specie umana, che Kant identifica come «specie degli esseri terrestri ragionevoli»47, ogni individuo può dire 45  MS, AA 6: 307; tr. it., p. 225. 46  MS, AA 6: 312; tr. it., p. 231. 47  Anth, AA 7: 331; tr. it., p. 350.

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di appartenere legittimamente solo nella misura in cui con altri individui si rende capace di istituire sulla terra in cui abita modalità di convivenza atte a favorire lo sviluppo della disposizione naturale all’uso della ragione. Il riferimento del Kant maturo a un «diritto cosmopolitico», che tiene insieme individui e stati quali «cittadini di un universale stato di uomini»48, getta luce sul nesso profondo che lega la dottrina del diritto a una considerazione che investe lo statuto della ragione umana, rendendo ancor più perspicuo il legame tra diritto, umanità e razionalità. Potremmo dire che, al di là della questione concernente le forme istituzionali concrete che può assumere il riferimento di Kant allo ius cosmopoliticum, è comunque decisivo che un diritto siffatto è chiamato innanzitutto a dar voce, ai diversi livelli dell’organizzazione politica, al legame imprescindibile che vige tra uomo, polis e ragione. In definitiva, che si possa parlare di una specie umana caratterizzata dall’uso della ragione, che si possa pensare il genere umano come una «specie di esseri terrestri ragionevoli»49 richiede da parte dell’uomo lo sforzo in direzione di una «progressiva organizzazione dei cittadini della terra nella specie e in vista di essa [in und zu der Gattung], in quanto sistema connesso cosmopoliticamente»50. La specie umana si definisce tale solo nello spazio di questa tensione tra l’in, ossia il trovarsi in una condizione caratterizzata da determinate disposizioni, e l’in vista di, ossia il compito di sviluppare queste disposizioni nel contesto di una organizzazione civile. E il fatto che sia l’Antropologia dal punto di vista pragmatico sia la dottrina del diritto della Metafisica dei costumi si concludano nel segno della edificazione universale della pace suggerisce,

48  ZeF, AA 8:349, Anm.; tr. it., p. 169, nota. 49  Anth, AA 7: 331; tr. it., p. 350. 50  Anth, AA 7:333; tr. it., p. 352.

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una volta di più, l’intreccio tra l’ideale cosmopolitico di una unione giuridica degli uomini sotto leggi pubbliche e il genere umano in quanto può essere pensato come una «specie di esseri terrestri ragionevoli».

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V Diritto cosmopolitico e ragione umana

1. Un diritto controverso Quale posto occupa nel pensiero di Kant il riferimento a un diritto cosmopolitico? Che ruolo gioca nel progetto di costruzione di una pace mondiale? E ancora: in relazione a chi si rende necessario pensare un diritto che faccia da complemento, come Kant esplicita, al diritto statuale e al diritto internazionale? Il diritto cosmopolitico, in quanto facente riferimento a un «universale Stato di uomini»1 o a una cittadinanza della Terra che va al di là dell’appartenenza giuridica a una determinata realtà statuale, non assume in Kant una forma istituzionale precisa. E ciò ha contribuito ad alimentare più di un sospetto sulla funzione che un diritto siffatto può svolgere effettivamente nel contesto di un progetto politico di pace mondiale2,

1  ZeF, AA 8: 349. Anm.; tr. it., p. 169, nota. 2  M. Mori sostiene, ad es., che il Terzo articolo definitivo per la pace perpetua «svolge […] una funzione marginale nell’economia dell’opera e [che] la critica ha spesso sopravvalutato il significato che esso riveste nel quadro del pacifismo e, a volte, dell’intera filosofia giuridica di Kant» (M. Mori, La pace e la ragione, cit., p. 147). Si tratta di una valutazione che insiste sulla

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al di là del generico appello a una non meglio identificabile comunità estesa all’intero globo terracqueo. D’altro canto, ciò non significa che non si diano posizioni interpretative che, pur evidenziando la resistenza kantiana a ogni forma di applicazione transnazionale del diritto cosmopolitico, non esitano però a riconoscere la consistenza e la validità del progetto di Kant anche sul piano stricto sensu giuridico3. Ritengo tuttavia che dalla proposta cosmopolitica di Kant, al di là della collocazione che essa trova all’interno dello spazio più specifico della dottrina del diritto, emergano elementi di non poco rilievo in connessione con il progetto di una «critica della ragione», considerato nella sua intera estensione architettonica, e dunque, in definitiva, in relazione a quel che Kant intende propriamente per «ragione umana». E semmai – questa l’ipotesi che guida il presente capitolo – proprio a partire da quel che la trattazione del diritto cosmopolitico rivela in merito alla complessità del concetto di ragione si rende possibile comprendere in modo teoreticamente avvertito il significato della proposta politico-giuridica che innerva gli scritti della tarda maturità kantiana. Nell’intento di verificare questa ipotesi sarà, però, anzitutto utile evidenziare gli elementi di tensione del testo kantiano che, se non sempre giustificano, certo incoraggiano il prolife-

riluttanza di Kant a far rientrare le prerogative messe in gioco dal diritto cosmopolitico in un sistema giuridico sovranazionale il cui potere cogente vada al di là del potere di autodeterminazione dei singoli stati sovrani. Tale riluttanza renderebbe, di fatto, “lettera morta”, perché priva di qualsiasi cogenza giuridica esterna, l’idea di una cittadinanza cosmopolitica in forza della quale gli individui possano essere considerati come sottoposti a un’autorità diversa rispetto a quella dello Stato in cui vivono (cfr. ibidem). 3  Cfr. ad es. l’analisi circostanziata di P. Kleingeld, Kant’s Cosmopolitan Law. World Citizenship for a Global Order, in «Kantian Review», n. 2, 1998, pp. 72-90, in part. pp. 81-84, 86-87.

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rare di letture diverse, spesso tra loro non facilmente conciliabili, del diritto cosmopolitico e del tema dell’ospitalità. Ciò permetterà di considerare il diritto cosmopolitico secondo una prospettiva più ampia, correlata alla modalità in cui Kant concepisce il rapporto tra umanità e razionalità; e, infine, di ridiscutere in radice, alla luce di questa prospettiva, la tensione antagonistica che, in seno al concetto kantiano di ospitalità, attraversa i rapporti tra visitatore e visitato, ospite e ospitato.

2. Il diritto alla libera circolazione I «cittadini della Terra»4 di cui Kant ragiona in relazione al progetto di una società cosmopolitica si presentano, in prima istanza, come coloro i quali possono muoversi liberamente lungo l’intero pianeta senza essere trattati come nemici al loro primo ingresso in terra d’altri. E possono far ciò in ragione di un «diritto di visita [Besuchrecht]» che spetta a ogni uomo in base al «diritto al possesso comune della superficie della Terra»5. Il diritto al possesso comune del suolo coincide con un diritto di superficie che non è ancora diritto di proprietà. Esso esprime, infatti, quella caratteristica del suolo terrestre per cui esso è accessibile in linea di principio a ogni uomo, in quanto costituisce un intero che, perché tale, non è concepibile in termini di parcellizzazione proprietaria. Della proprietà il possesso comune del suolo costituisce, piuttosto, la condizione, in quanto rappresenta la premessa di quell’atto

4  Anth, AA 7: 333; tr. it., p. 352. 5  ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177. Nella Metafisica dei costumi si parla in questo senso del «diritto di tutti gli abitanti della terra di ricercare [versuchen] una comunità universale e di visitare [besuchen] a questo scopo tutte le regioni della terra» (MS, AA 6: 353; tr. it., p. 317).

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arbitrario mediante il quale viene stabilito il primo possesso su un territorio. Da un lato, dunque, l’idea di una comunanza originaria del suolo è ciò a partire da cui soltanto può prendere legittimamente avvio il processo mediante il quale si acquisisce la proprietà di un territorio: Impadronirsi di un terreno isolato costituisce un atto di arbitrio privato, senza tuttavia essere autoritario. Chi se ne impossessa si basa sul possesso comune innato della terra [auf dem angebornen Gemeinbesitze des Erdbodens] e sulla corrispondente volontà generale a priori riguardo a un lecito possesso privato di essa (perché altrimenti le cose disponibili dovrebbero essere trasformate da sé e in base a una legge di cose senza padrone) e acquista mediante la prima presa di possesso originaria un terreno determinato, opponendosi con diritto (iure) a chiunque volesse impedirgliene l’uso privato […].6 6  MS, AA 6: 250; tr. it., pp. 101-103. Nel manoscritto del Naturrecht Feyerabend si legge: «La proprietà inizia con l’occupazione delle cose. Da ciò sorgono obligationes negativae, che altri devono astenersi da tutto ciò che qualcuno ha occupato. Che cosa è necessario a tal fine? Attestare che si è preso possesso della cosa. Poiché si deve presumere che egli abbia anche voluto appropriarsi di essa. Se io vedo che qualcosa è nel potere di un altro, non posso sottrargliela, perché non so se gli reco un torto. La mera volontà dell’altro non può limitarmi rispetto alle cose in suo possesso, bensì solo la cosa, che è un prodotto della libertà, in quanto io allora agisco contro la libertà dell’altro (NF, AA 27: 1343-1344; tr. it., pp. 121-123). Sul nesso intrinseco che, nella prospettiva kantiana, lega proprietà e relazioni interpersonali cfr. T. Patrone, Kant’s Rechtslehre and Idea of Reason, in S. Baiasu - S. Pihlström - H. Williams (a cura di), Politics and Metaphysics in Kant, University of Wales Press, Cardiff 2011, pp. 115-133: pp. 125-128; cfr. al riguardo anche i rilievi di L. Thorpe che ricostruisce la questione della proprietà, in modo originale, sullo sfondo della peculiare lettura che Kant, sul piano dell’indagine metafisica, offre del rapporto sostanza-accidente (L. Thorpe, Kant on the Transferal of Property. The Relationship between Kant’s Meta­ physics and His Philosophy of Right, in V. Rohden - R. R. Terra - G. A. de Almeida - M. Ruffing [a cura di], Recht und Frieden in der Philosophie Kants, cit., vol. IV, pp. 735-744).

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In ragione di ciò Kant afferma: «La prima presa di possesso ha […] un fondamento giuridico per sé (titulus possessionis), che è il possesso comune originario»7. D’altro canto, proprio perché originario, il possesso comune del suolo ricorda a chi ha stabilito la proprietà su una parte di esso che quella parte non cessa per questo di essere parte di un tutto e, in quanto tale, non può di principio costituire un luogo inaccessibile ad altri: […] il possesso del suolo sul quale possono vivere gli abitanti della terra può essere pensato sempre soltanto come possesso di una parte di un tutto determinato, quindi come quello sul quale ognuno ha un diritto originario.8

Come spiega bene S. Muthu, «L’argomento di Kant è che non possiamo presumere dal semplice fatto di possedere legittimamente un territorio che questo ci dia l’autorità e il diritto di escludere del tutto altri da esso»9. In Per la pace perpetua Kant afferma, non a caso, che in forza del diritto al possesso comune della superficie terrestre, «[…] originariamente nessuno ha più diritto che un altro a stare in un luogo di essa»10. Il diritto cosmopolitico di non essere trattati in modo ostile al proprio arrivo in terra straniera, in quanto è fondato sul possesso comune originario del suolo, sta allora a ricordare che ogni acquisizione rimanda a un atto che, per quanto compreso nello spazio di legittimità del diritto, si presenta nel suo gesto iniziale arbitrario. E in considerazione di tale arbitrarietà anche il possessore legittimo di un territorio conserva comunque

7  MS, AA 6: 251; tr. it., p. 105. 8  MS, AA 6: 352; tr. it., p. 352. 9  S. Muthu, Justice and Foreigners: Kant’s Cosmopolitan Right, in «Constellations. An International Journal of Critical and Democratic Theory», VII, n. 1, 2000, pp. 23-45: p. 35. 10  ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177.

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un obbligo nei riguardi del visitatore, l’obbligo di non trattarlo in modo ostile e di non respingerlo, quando il respingerlo comporti per lui danno o rovina11. Il diritto cosmopolitico di visita definisce, dunque, i tratti etici di una idea di comunità che si estende agli abitanti della Terra, nel senso che, in forza del possesso comune originario del suolo, tutti hanno almeno il «diritto di proporsi come membri della società [zur Gesellschaft anzubieten]»12 o di «tentare un commercio con gli antichi abitatori [einen Verkehr mit den alten Einwohnern zu versuchen]»13. Si badi, il diritto di proporsi per una società, o di tentare un commercio con gli antichi abitatori, non equivale al diritto di entrare in società o di istaurare relazioni commerciali. Perché questo avvenga, si richiede il consenso dell’altra parte. Anzi, nella Metafisica dei costumi Kant condanna come deplorevole ogni tentativo di entrare forzatamente o con l’inganno in relazione con popoli che vivono in isolamento; tanto più quando si pretenda legittimarlo ammantandolo della presunta buona intenzione di convertire allo stato di diritto uomini che conducono una vita selvaggia, e di civilizzare così i «popoli rozzi»14. Il postulato kantiano del diritto pubblico, secondo il quale «nella situazione di inevitabile coesistenza con tutti gli altri uomini, si deve uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico»15, il Proximi­ ty Principle (come lo ha ribattezzato Waldron16) non può tra-

11  ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177. 12  ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177. 13  ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177. 14  Cfr. MS, AA 6: 353; tr. it., p. 317. 15  MS, AA 6: 307; tr. it., p. 225. 16  Cfr. J. Waldron, Redressing Historic Injustice, in L. Meyer (a cura di), Justice in Time. Responding to Historical Injustice, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden 2004, pp. 55-77: p. 57.

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dursi, in alcun caso, nella legittimazione di una condotta di dominio, di insediamento sul suolo altrui, anche qualora tale condotta venga presentata all’insegna di una missione di civilizzazione. Infatti, ciò equivarrebbe alla pretesa di requisire un principio universale per metterlo al servizio di una volontà particolare, quella che oggi definiremmo la pretesa di “esportare” modelli istituzionali preconfezionati. L’idea di una edificazione universale e duratura della pace da perseguire con i mezzi di una costituzione civile che leghi gli uomini che vivono fianco a fianco implica infatti, come Kant afferma nelle pagine conclusive della sezione sul diritto pubblico, che la regola di tale costituzione civile «non deve venire derivata dall’esperienza di coloro che finora l’hanno potuta apprezzare così tanto da farne una norma per altri, bensì deve essere in generale derivata a priori mediante la ragione dall’ideale di un’unione giuridica degli uomini sotto leggi pubbliche»17. L’ideale cosmopolitico di un’unione giuridica degli uomini sotto leggi pubbliche non riguarda, cioè, uno standard normativo che alcuni possano rivendicare come loro possesso e che possano, perciò, pretende17  MS, AA 6: 355; tr. it., p. 321. Ciò vale, senz’altro, come tratto costitutivo del cosmopolitismo maturo di Kant, nel quale si fa strada con chiarezza il motivo di una critica decisa contro il colonialismo europeo. Il che non toglie che nell’intero arco dell’opera kantiana non si incontrino indicazioni che vanno, invece, nella direzione di una civilizzazione forzata dei popoli che non si sono dati una costituzione civile. Cfr. ad es. Refl 8065, AA 19: 599, databile nel periodo compreso tra il 1780 e il 1789. Più in generale, sull’evoluzione del pensiero kantiano riguardo al colonialismo, cfr. la ricostruzione di P. Kleingeld, la quale ritiene che una critica senza riserve del colonialismo si dà in Kant solo a partire dalla metà degli anni ’90 (P. Kleingeld, Kant’s Second Thoughts on Colonialism, in K. Flikschuh - L. Ypi [a cura di], Kant and Colonialism. Historical and Critical Perspectives, Oxford University Press, Oxford 2014, pp. 43-67, in part. pp. 52-66). Sull’argomento cfr. anche i rilievi di R. Lauden, il quale però non concorda con l’idea di collegare, come fa Kleingeld, l’anticolonialismo esplicito della produzione tarda di Kant allo sviluppo di una posizione più libera da stereotipi a sfondo razziale (cfr. R.B. Lauden, Kant’s Human Being, cit., p. 134).

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re di imporre ad altri, ma concerne il senso di un’accessibilità alle norme dell’agire razionale che nessuno può negare ad altri senza con ciò perdere, egli per primo, l’accesso alla ragione. È questo il senso in cui Kant fa riferimento alla pace universale come allo «scopo finale della dottrina del diritto all’interno dei limiti della semplice ragione»18.

3. I limiti del diritto cosmopolitico Risulta allora evidente come il progetto di pace universale non possa legarsi semplicemente alla promozione e all’intensificazione dei rapporti di interazione e di comunicazione tra gli uomini, di cui il diritto cosmopolitico, fondato sul possesso comune originario del suolo terrestre, si farebbe garante. Altrettanto decisivo è, per Kant, il motivo che insiste sui rischi legati all’abuso di questo diritto. Da qui viene la necessità di delimitare con precisione lo spazio del suo effettivo esercizio. Non stupisce perciò che il Terzo articolo definitivo per la pace perpetua presenti il diritto cosmopolitico anzitutto all’insegna di una sua necessaria limitazione: Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni della ospitalità universale.19

La limitazione consiste nel fatto che il diritto di visita non autorizza lo straniero a risiedere nel paese che lo ospita. Non è, letteralmente, un diritto di essere ospitato (Gastrecht). Per questo si richiede uno speciale contratto con il sovrano, che renda il visitatore un coabitante.

18  MS, AA 6: 355; tr. it., p. 321. 19  ZeF, AA 8: 357; tr. it., p. 177.

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Dietro la distinzione tra Besuchrecht e Gastrecht, dietro l’attenzione di Kant a marcare i confini e lo spazio di esercizio del diritto cosmopolitico, che di primo acchito può sembrare esaurirsi nella forma striminzita di un’ospitalità a gettoni, si manifesta, in realtà, un intento progettuale concreto. Quello che individua storicamente le condizioni universali di pace mondiale nella necessità di delegittimare la condotta di conquista economica e territoriale perpetrata dai cosiddetti popoli civilizzati a danno dei nativi. Anzi, il motivo che oggi si direbbe anticolonialista ispira dal profondo la trattazione kantiana del diritto cosmopolitico. La distinzione tra Besuchrecht e Gastrecht trova, da questo punto di vista, più di un semplice incentivo nell’esigenza di delegittimare la condotta di certi “visitatori” che fanno presto a trasformare, con la violenza o con l’inganno, la visita in occupazione. Così Kant, nel denunciare quel che ostacola la possibilità che i popoli entrino tra loro in rapporti pacifici: Si confronti con ciò la condotta inospitale degli Stati civilizzati del nostro continente, soprattutto di quelli commerciali, e si vedrà che l’ingiustizia che essi dimostrano nella visita a territori e popoli stranieri (che per loro è un tutt’uno con la loro conquista) giunge sino all’orrore. L’America, le terre dei negri, le Isole delle Spezie, il Capo di Buona Speranza, ecc. quando furono scoperti erano per essi terre che non appartenevano a nessuno; infatti gli abitanti per loro non contavano nulla. Nelle Indie orientali (Hindustan), con il pretesto di filiali commerciali soltanto progettate, introdussero truppe straniere, e con queste l’oppressione degli indigeni, l’istigazione dei diversi Stati della regione a guerre sempre più estese, e così carestie, insurrezioni, tradimenti e tutto il resto che può venir aggiunto alla litania dei mali che opprimono il genere umano.20

20  ZeF, AA 8: 358-359; tr. it., p. 178.

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Nel difendere le ragioni dei nativi dalle aggressioni dei paesi commerciali, Kant si fa voce di un diritto cosmopolitico che in nessun caso può diventare appannaggio culturale esclusivo dei popoli europei, quasi che “cosmopolitismo” possa significare l’estensione e l’esportazione su scala globale di un modello pre-determinato di “umanità” o di “razionalità”. La volontà di garantire la diversità delle forme di vita, di esistenza, di cultura e di scelta dell’assetto politico più idoneo per la convivenza sembra in effetti un tratto caratteristico del cosmopolitismo maturo di Kant. Il diritto cosmopolitico, proprio nel suo carattere limitativo, unisce, per usare una felice formula di Höffe, «un diritto alla cooperazione universale con il diritto alla differenza»21. L’attenzione al motivo che oggi diremmo anticolonialista consente, così, di smarcare Kant dalle facili obiezioni che tendono a considerare la distinzione tra Besuchrecht e Gastrecht come il prodotto di una volontà ideologica tendente a escludere lo straniero dalla partecipazione a pieno titolo alla vita della comunità civile che lo ospita; il che però non può tradursi nel preconizzare un Kant teorizzatore di un diritto esteso all’ospitalità universale, in forza del quale l’autore del Terzo articolo definitivo si proporrebbe come una sorta di difensore ante litteram della causa dei richiedenti asilo e degli immigrati. Come si legge in Per la pace perpetua, «[…] questo diritto di ospitalità, vale a dire la facoltà dei visitatori stranieri, non si estende oltre le condizioni di possibilità di tentare un commercio con gli antichi abitatori»22. È questo lo spazio nel quale deve essere limitato il diritto di ospitalità. Dunque, non è in gioco

21  O. Höffe, Kants universaler Kosmopolitismus, in V. Rohden - R.R. Terra G.A. de Almeida - M. Ruffing [a cura di], Recht und Frieden, cit., vol. I, pp. 139-155: p. 153. 22  ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177.

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un diritto cosmopolitico all’ospitalità universale, ma si tratta di determinare a quali condizioni il diritto del visitatore si rende compatibile con un ordine universale di pace. In definitiva, l’accento non cade su un diritto all’ospitalità che andrebbe esteso universalmente a ogni uomo. Cade piuttosto sul fatto che in nessun modo tale diritto, per quanto universalmente riconosciuto, può legittimare forme di condotta che ledano sistematicamente l’esercizio dell’arbitrio altrui, ledano, nella fattispecie, il diritto dei primi possessori, ovvero dei nativi. A questo proposito si può, anzi, rintracciare in Kant un modo specifico di fare appello al diritto fondato sul possesso comune originario del suolo: l’attenzione questa volta si rivolge, non alle prerogative del visitatore, ma all’esigenza di proteggere il visitato da visitatori troppo invadenti. Così, nella dottrina del diritto privato della Metafisica dei costumi il possesso comune originario del suolo non viene chiamato in causa a sostegno della prerogativa degli uomini di muoversi liberamente sulla superficie della Terra, ma viene identificato con il diritto che essi hanno «di essere lì dove la natura o il caso (senza la loro volontà) li ha messi»23. Qui Kant, più che dello straniero in visita in terra d’altri, parla di chi in questi luoghi abita da sempre ed ha potuto così su di essi stabilire il primo possesso. Le popolazioni native sono quelle che per definizione si trovano ad abitare un luogo che non hanno scelto, ma che la natura o il caso ha scelto per loro. Come dire, quello stesso possesso originario del suolo terrestre che obbliga il visitato a non trattare come un nemico lo straniero in visita, obbliga, però, anche il 23  MS, AA 6: 262; tr. it., p. 129. È significativo che, sempre nella Metafisica dei costumi, Kant caratterizzi specularmente il colonizzatore come colui che per sua volontà, e non per volere della natura o del caso, entra in contatto con altri popoli e, nella fattispecie, con popoli la cui forma di convivenza sociale non possiede ancora un assetto giuridico (cfr. MS, AA 6: 266; tr. it., p. 135).

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visitatore a non violare i diritti dei popoli nativi24. Essi hanno infatti il diritto di essere lì dove la natura o il caso li ha messi.

4. Le due facce del diritto al possesso comune originario del suolo Si registra, così, già solo a partire dal modo articolato in cui Kant si richiama al possesso comune originario del suolo terrestre, una tensione interna alla sua proposta cosmopolitica. Essa vede da un lato il motivo che insiste sul contenuto positivo del diritto di visita in quanto diritto teso a garantire la libera circolazione degli uomini sulla Terra e la loro interazione. Il visitatore straniero, sia esso il commerciante o il viaggiatore curioso, è, secondo questa prospettiva, titolare di un diritto che gli spetta in quanto portatore di potenziali relazioni atte a preparare il terreno per un futuro di pacifica interazione tra i popoli della Terra. In quanto volto a garantire la condizione dello straniero in visita, il diritto cosmopolitico è chiamato ad assicurare le condizioni minime di pensabilità di un ordine mondiale di pace da costruire nel tempo mediante il ricorso a forme istituzionali di convivenza politica via via più complesse che interessino zone sempre più ampie del globo terrestre. In questa direzione vanno, ad. es., le osservazioni dello scritto Per la pace perpetua sul fatto che «la cultura crescente e il 24  «La costruzione giuridica di un ipotetico possesso comune della Terra, che ha un lontano e onorevole antecedente nell’antica giurisprudenza europea, funziona in questo contesto come una lama a doppio taglio. Da una parte, Kant vuole evitare l’impiego di tale costrutto per giustificare e legittimare l’espansione coloniale occidentale; dall’altra, egli vuole fondare il diritto degli esseri umani ad associarsi sul fatto che, poiché la superficie della Terra è limitata, prima o poi dovremo imparare a condividere le risorse che essa offre» (S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, tr. it. di S. De Petris, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 25).

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graduale avvicinamento degli uomini a un più ampio accordo sui principi» riequilibri la «tendenza all’odio reciproco» dovuta alla «diversità delle lingue e delle religioni»25. Così pure, è rilevante il ruolo delle relazioni commerciali e dei rapporti finanziari che costringono gli stati, non foss’altro che per ragioni di reciproca convenienza economica, a favorire la pace, là dove il diritto delle genti, e dunque l’assetto politico internazionale, non sarebbe invece in grado di garantirli dal pericolo della reciproca aggressione e della guerra26. Dall’altro lato incalza però in Kant con uguale forza il motivo critico che pone l’accento sulla necessità di limitare ogni forma di ospitalità che possa rischiare di tradursi in una minaccia per i popoli ospitanti. L’accento cade qui, come si è visto, sul fatto che il diritto di visita non può e non deve legittimare politiche aggressive di insediamento coloniale. Più che a difendere le ragioni culturali o commerciali del viaggiatore, Kant si mostra dunque interessato a difendere le ragioni delle popolazioni native o anche, più in generale, a giustificare l’atteggiamento di quei governi che adottano una politica accorta nei confronti del visitatore straniero27. Si badi, non si tratta di due istanze che debbano necessariamente entrare in contraddizione: concepire un diritto di visita in forza del quale lo straniero non può essere aggredito senza ragione al suo primo ingresso in terra d’altri non è di per sé

25  Cfr. ZeF, AA 8: 367; tr. it., p. 186. L’equilibrio dinamico tra spinta antagonistica e avvicinamento reciproco fornisce del resto, vale la pena ricordarlo, la ricetta di una intesa di pace tra i popoli che non deve tradursi, per Kant, nella dispotica soppressione delle differenze. 26  Sul ruolo che le relazioni commerciali e gli interessi economici svolgono nel progetto cosmopolitico di Kant cfr. G. Cavallar, Kant’s Embedded Cosmopolitanism, cit., pp. 64-73. 27 In Per la pace perpetua si fa l’esempio della Cina e del Giappone (cfr. ZeF, AA 8:359; tr. it., pp. 178-179).

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incompatibile con il fatto che il visitato debba essere protetto da possibili aggressioni del visitatore mediante una limitazione del diritto all’ospitalità. Ciò che invece genera conflitto è il porre esclusivamente in rilievo uno di questi due aspetti, esagerandone la portata a detrimento dell’altro. Sul primo aspetto, che si lega ai contenuti di socialità e interazione tra gli uomini del diritto cosmopolitico di visita, hanno insistito diversi autori che, sebbene a partire da prospettive diverse, hanno focalizzato l’attenzione sul contenuto positivo del diritto di visita inteso come diritto degli individui alla libera circolazione e al libero scambio, si tratti di merci o di idee28. L’enfasi cade, in questo caso, sul carattere inalienabile di un diritto che garantisce l’azione del visitare, del muoversi liberamente verso il proprio vicino per stringere relazioni con lui. L’insistenza sull’elemento di socievolezza del diritto di visita e sul suo ruolo di promotore di una prima forma di “amicizia” tra i popoli che prepari, o anche sostituisca provvisoriamen-

28  H. Arendt riporta il diritto cosmopolitico di visita a una formulazione in chiave giuridica dell’interesse kantiano per la socievolezza degli uomini e per la costituzione di quella mentalità ampia che, in Kant, passerebbe dalla possibilità, la più estesa possibile, di visitare il punto di vista degli altri (cfr. H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, a cura e con un saggio intr. di R. Beiner, The University of Chicago Press, Chicago 1982, pp. 7475, 114-115). Sulla scia del paradigma comunicativo di Arendt si colloca, per certi versi, anche la lettura di D. Howard che, in riferimento al diritto di visita, parla di obbligazione a perseguire la comunicazione pubblica (cfr. D. Howard, The Politics of Critique, Macmillan, London 1989, pp. 101103). Altri autori, come ad. es. H.G. Schmitz, insistono piuttosto sul ruolo sistematico che il diritto di visita, in quanto diritto che favorisce l’interazione e l’avvicinamento tra i popoli, svolgerebbe all’interno di un progetto politico di pace (H.G. Schmitz, Moral oder Klugheit. Überlegungen zur Gestalt der Autonomie des Politischen im Denken Kants, in «Kant-Studien», LXXXI, n. 4, 1990, pp. 413-434: p. 423). Cfr. anche E. Garzón, La paz republicana, in «Enrahonar», XVII, 1994, pp. 21-23; M. Bösch, Globale Vernunft, cit., pp. 475-476, 483.

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te, il costituirsi di un ordine politico mondiale, non esaurisce però l’intero spettro della proposta cosmopolitica di Kant. Come si è visto, altrettanto significativi sono i rilievi sul tratto di insocievolezza e sulla condotta inospitale di certi visitatori nei riguardi di popoli per i quali l’arrivo dello straniero può far presto a trasformarsi in vera e propria invasione. Nel porre l’attenzione su questo aspetto della riflessione kantiana, alcuni autori hanno, così, individuato nella limitazione del diritto d’ospitalità e nel divieto del colonialismo la condizione cosmopolitica di giustizia per poter cominciare a costruire un ordine mondiale di pace29. Si comprende bene come il diritto di

29  Rilievi sull’importanza della critica del colonialismo nell’ambito del diritto cosmopolitico di Kant si trovano, in forma sistematica o anche episodica, in buona parte della Kant-Forschung. Su questo tema ha posto l’attenzione, tra i primi, G. Cavallar, Pax Kantiana, cit., pp. 225-234, in part. pp. 225227. Sul ruolo decisivo che svolge la posizione anticolonialista di Kant cfr. più specificamente R. Malter, Nachwort, cit., pp. 69-85, in part. p. 75; cfr. anche K. Väyrynen, Weltbürgerrecht und Kolonialismuskritik bei Kant, in V. Gerhardt - R.P. Horstmann - R. Schumacher (a cura di), Kant und die Berliner Aufklärung. Akten des IX. Internationalen Kant-Kongresses, Berlin 2000, de Gruyter, Berlin-New York 2001, vol. IV, pp. 302-309, in part. pp. 303-306. Secondo M. Caimi, che si colloca in modo ancor più radicale su questa scia interpretativa, non sarebbe il mero diritto individuale di visitare terre straniere, ma l’eliminazione di ogni giustificazione del colonialismo e dunque di qualsiasi abuso del diritto di ospitalità, la condizione per realizzare un ordine cosmopolitico di pace (cfr. M. Caimi, Acerca de la interpretación del tercer artículo definitivo del ensayo de Kant Zum ewigen Frieden, in V. Rohden (a cura di), Kant e a instituição da paz, Ed. da UniversidadeUFRGS - Goethe-Institut-ICBA, Porto Alegre 1997, pp. 191-200, in part. pp. 196-197). La tensione interpretativa tra le posizioni che considerano il diritto di visita come garanzia di libertà di circolazione e di comunicazione e le posizioni che invece leggono nel Terzo articolo definitivo l’intenzione di limitare gli abusi del colonialismo è evidenziata anche da R. Terra, La actualidad del pensamiento político de Kant, in «Episteme», XXVIII, n. 2, 2008, pp. 93-119, in part. pp. 115-117. Il motivo della tensione tra diritto all’ospitalità e critica del colonialismo sta anche sullo sfondo della lettura di J. Thumfart, il quale individua, però, nel diritto cosmopolitico di Kant, al di

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visita qui non venga tanto preso in considerazione come norma universale che incentiva e protegge la libera circolazione degli uomini sulla Terra. Esso figura, piuttosto, come forma di ospitalità ristretta, le cui prerogative non possono estendersi al di là di quel limite oltre il quale non verrebbero garantite le condizioni minime di sicurezza e di reciproco scambio pacifico tra visitatore e visitato. Solo a condizione di un diritto di ospitalità limitato, per richiamare le parole di Kant, «[…] continenti lontani possono entrare pacificamente in rapporti reciproci che in seguito divengono regolati da leggi, e così possono infine condurre il genere umano sempre più vicino ad una costituzione cosmopolitica»30. Torna, qui, con forza il postulato kantiano sulla necessità che l’uomo esca dallo stato di natura per entrare in uno stato civile. L’ingresso nello stato civile, dal punto di vista cosmopolitico, richiede, cioè, innanzitutto la limitazione del diritto naturale all’ospitalità affinché esso si renda compatibile con il principio del diritto. Detto diversamente: l’arbitrio di ciascuno, e così anche la libertà individuale di visitare terre straniere, deve potersi accordare con l’arbitrio di chi può legittimamente rifiutare di entrare in società con un visitatore che abbia tutto l’aspetto dell’invasore. Solo a questa condizione, dunque, si può parlare, in senso proprio, di un diritto d’ospitalità, ovvero di un titolo che ciascun uomo può avanzare legittimamente nei confronti di altri uomini. Da questo punto di vista, la traiettoria che descrive il progresso verso un ordine cosmopolitico di pace mondiale non si iden-

là della semplice censura del colonialismo, i termini di una riformulazione dello ius communicationis (cfr. J. Thumfart, Kolonialismus oder Kommunikation. Zur Kants Auseinandersetzung mit Francisco de Vitorias ius communicationis, in S. Bacin - A. Ferrarin - C. La Rocca - M. Ruffing [a cura di], Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht, cit., vol. III, pp. 929-939, in part. pp. 932-934). 30  ZeF, AA 8: 358; tr. it., pp. 177-178.

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tifica con la semplice idea di una crescente interazione sociale e politica per la quale si richieda una normazione giuridica sovranazionale. L’urgenza è invece quella di arginare i rischi che una crescente interazione sociale e politica può produrre, quando non sia concepita all’insegna di regole che ne limitino il potenziale autodistruttivo. Il darsi di paradigmi di lettura così diversi del diritto cosmopolitico, e più in particolare del discorso kantiano sull’ospitalità, non è però solo da imputare alla socievole insocievolezza degli interpreti, ma, come si è visto, è legato anche al fatto che nello stesso Kant le due prospettive sembrano stare in un equilibrio talvolta precario31. Perciò, se non è ermeneuticamente auspicabile spezzare la tensione che attraversa la trattazione kantiana del diritto cosmopolitico a favore dell’uno o dell’altro versante interpretativo32, neppure è possibile coltivare il

31  Ponendo forse troppa enfasi sugli elementi di frizione presenti nel cosmopolitismo kantiano, Derrida legge il diritto cosmopolitico all’insegna di un conflitto antinomico tra l’istanza imperativa di una ospitalità incondizionata e la necessità di tradurre l’ospitalità nella forma giuridica di norme che ne regolino l’applicazione concreta (cfr. J. Derrida, Cosmopolites de tous les pays, encore un effort!, Galilée, Paris 1997, pp. 65-67; 73). Una critica puntuale di questa interpretazione è contenuta in G.W. Brown, The Laws of Hospitality, Asylum Seekers and Cosmopolitan Right. A Kantian Response to Jacques Derrida, in «European Journal of Political Theory», IX, n. 3, 2010, pp. 308-327; al riguardo mi permetto di rinviare anche a A. Cicatello, Il diritto di visita entro i limiti della semplice ragione. Note a margine del cosmopolitismo di Kant, in «Estudos Kantianos», III, n. 2, 2015, pp. 73-90. Al di là delle pur evidenti forzature interpretative, la lettura di Derrida ha comunque contribuito non poco a far affiorare nel dibattito contemporaneo l’enorme potenziale ermeneutico contenuto nel diritto cosmopolitico di Kant, mostrandone la rilevanza in relazione alle questioni dell’immigrazione e dell’asilo politico. 32  T. Waligore (Cosmopolitan Right, Indigenous Peoples, and the Risks of Cultural Interaction, in «Public Reason», I, n. 1, 2009, pp. 27-56: pp. 29-31) denuncia, ad es., il vizio di parzialità di letture che, come quella di Waldron

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sogno coerentista di un Kant che riesca a comprimere in una formula unica tutte le dinamiche che attraversano il complesso rapporto tra i diritti del visitatore e quelli del visitato. E ciò perché in entrambi i casi rischia, comunque, di andare perduta la ricchezza della proposta cosmopolitica kantiana.

5. I limiti terrestri del possesso della ragione Spirito commerciale, comunicazione, promessa di interazione e di scambio reciproco da un lato, politiche aggressive di espansione economica, abuso della proprietà altrui e fenomeni di civilizzazione forzata dall’altro, popolano allo stesso titolo il suolo terrestre sul quale Kant intende cominciare a costruire il suo progetto cosmopolitico di pace. Non è un caso che il diritto al possesso comune del suolo venga chiamato in causa, nella Metafisica dei costumi, tanto per affermare le prerogative del visitatore che si reca volontariamente in terra d’altri, quanto per proteggere la condizione di chi in quella parte di terra è stato posto dalla natura e dal caso, di chi insomma c’è nato. Entrambi sono cittadini a pari (Kant’s Heading Cosmopolitan Right. Manuscript, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 230) esagerano il significato del diritto di visita in quanto norma che promuove e incentiva il contatto e la comunicazione tra popoli, a discapito dell’attenzione rivolta da Kant agli ostacoli decisivi che forme di interazione e di società non consensuale possono opporre lungo il cammino verso la realizzazione di un ordine cosmopolitico di pace. Non meno viziate di parzialità possono, però, risultare letture che puntano esclusivamente sul motivo anti-colonialista, sminuendo invece il significato del diritto di visita in quanto diritto individuale alla libera circolazione e alla comunicazione. Cfr. a questo riguardo le obiezioni mosse a M. Caimi, Acerca de la interpretación, cit., da C Belfort, Estudo da natureza do homem em Kant a partir do caso do estrangeiro e o conceito de hospitalidade, in «Kant E-Prints» II, n. 2, 2007, pp. 127-142, in part. p. 137).

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titolo, sono i «cittadini della Terra» in vista di cui deve essere affermato e, a un tempo, limitato un diritto cosmopolitico. E ciò perché, come Kant stesso dice, il possesso comune del suolo non fonda una comunità del possesso. Non si riferisce, cioè, all’uso comune del territorio e nemmeno a una sorta di proprietà comune primitiva. Descrive solo il trovarsi degli uomini in una «situazione di possibile scambio fisico [Wechselwirkung (commercium)]»33. Il ricorso al latino commercium esibisce una precisa valenza semantica in relazione al modello di comunità che Kant concepisce sotto il segno del diritto cosmopolitico. La comunità del suolo terrestre non risponde alla «comunità giuridica del possesso (communio) e perciò dell’uso o della proprietà del suolo stesso»34. Piuttosto, il diritto al comune possesso originario procede dal fatto che gli uomini, in virtù della forma sferica della Terra35, si trovano già sempre nella condizione di poter venire a contatto l’uno con l’altro e con ciò «in un rapporto continuo di un popolo con tutti gli altri che si offrono allo scambio reciproco [sich zum Verkehr untereinander anzubieten]»36; dove è decisivo comprendere a quali condizioni l’azione di proporsi per formare una società possa favorire, e non invece impedire, il progressivo costituirsi di una pace duratura. Non si tratta, dunque, di un possesso statico, come se si potesse condividere come patrimonio comune qualcosa di già dato. In gioco è, invece, la possibilità di una interazione dinamica a partire dalla quale si costituisce, per Kant, il senso specifico della comunità cosmopolitica. In altri termini, a definire il senso della comunità

33  MS, AA 6: 352; tr. it., p. 315. 34  MS, AA 6: 352; tr. it., p. 315. 35  «La natura ha circoscritto tutti i popoli entro determinati confini [Grenzen] (grazie alla forma sferica del luogo del loro soggiorno, il globus terraqueus)» (MS, AA 6: 352; tr. it. 315. Cfr. anche ZeF, AA 8: 358; tr. it., p. 177). 36  MS, AA 6: 352; tr. it., p. 315.

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del suolo terrestre non è la condivisione di qualcosa di dato, sia esso, uno spazio chiuso entro confini fissati, o un sistema di valori culturali, o persino la rivendicazione del possesso della facoltà razionale intesa come dotazione naturale dell’uomo. La comunità degli esseri razionali terrestri si definisce sempre e solo nella forma dinamica del commercium, dell’azione reciproca (Wechselwirkung). Il fatto che Kant parli nella Metafisica dei costumi di commercium in relazione alla comunità del suolo, corrisponde, in definitiva, all’insistenza sul carattere dinamico-relazionale della sua idea di società cosmopolitica, là dove decisivo non è il costituirsi di una società sulla base di ciò che è comune, ma il formarsi di una comunità sulla base dello scambio di ciò che è differente37. Nella Critica della ragion pura il termine commercium occorreva, nel contesto della discussione della Terza analogia dell’esperienza, a indicare un significato di comunità fondato sull’azione reciproca: Nella nostra lingua il termine comunanza [Gemeinschaft] ha due significati: può voler dire, cioè, sia communio sia commercium. Qui ci serviamo del termine nel secondo significato, come una comunanza dinamica, senza la quale neanche la comunanza locale (communio spatii) potrebbe mai essere conosciuta empiricamente.38

Quando parla di un diritto connesso al possesso comune del suolo, Kant non fa dunque riferimento a un suolo comune. A rigore, anzi, un suolo comune non si dà, se non in termini di possibili relazioni di scambio, se non, dunque, come un’idea

37  A questo proposito cfr. i rilievi di S. Anderson-Gold, Cosmopolitan Right. State and System in Kant’s Political Theory, in S. Baiasu - S. Pihlström H. Williams (a cura di), Politics and Metaphysics in Kant, cit., pp. 235-249; pp. 239-240. 38  KrV, A 213/B 260; tr. it., p. 409.

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della ragione, l’idea di un «tutto determinato»39, a partire dal quale, soltanto, sono concepibili le parti. In gioco è qui, allora, il senso metafisico di un intero, il cui contenuto, in quanto pensabile solo a partire dalla pura ragione, non può consistere nella somma empirica delle parti, ma deve implicare la possibilità che la parzialità delle parti venga superata. Nella Metafisica dei costumi Kant parla, non a caso, del possesso comune originario come di un «concetto pratico della ragione, che contiene a priori il principio secondo il quale soltanto gli uomini possono utilizzare il posto che occupano sulla Terra in base a leggi di diritto»40. La possibilità di usare o di stabilire la legittima proprietà su una parte del suolo si fonda sul presupposto che gli uomini possano pensarsi come esseri che abitano la parte di un tutto determinato, ovvero della superficie terrestre intesa come globo. Senza aver sviluppato questa disposizione razionale, potremo al massimo concepire un’idea del mondo che abitiamo secondo l’estensione dei confini di quella parte sulla quale abbiamo posto la nostra sede. Ed è esattamente a disinnescare il potenziale di violenza contenuto in questa idea insieme sedentaria ed espansionistica di cosmopolitismo che è rivolta la distinzio-

39  MS, AA 6: 352; tr. it., p. 352. 40  MS, AA 6: 262; tr. it., p. 129. Sempre nella Metafisica dei costumi Kant parla della «comunione originaria del suolo [ursprüngliche Gemeinschaft des Bodens]» come di una «idea che ha realtà oggettiva (giuridica e pratica) [objective (rechtlich praktische) Realität]» (MS, AA 6: 251; tr. it., p. 103). Come dice bene Cavallar, «la comunità originaria è, analogamente al contratto originario, non un fatto storico ma un’idea razionale» (G. Cavallar, The Rights of Strangers. Theories of International Hospitality, The Global Community, and Political Justice since Vitoria, Ashgate, Burlington 2002, p. 363); cfr. anche A. Pinheiro Walla, Private Property and the Possibility of Consent. Kant and Social Contract Theory, in L. Krasnoff - N. Sánchez Madrid - P. Satne (a cura di), Kant’s Doctrine of Right in the Twenty-First Century, University of Wales Press, Cardiff 2018, pp. 29-45: pp. 33-34.

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ne kantiana tra diritto di visita e diritto di residenza. Così, se il semplice proporsi all’altro per formare una società non può, di principio, giustificare nell’altro una reazione aggressiva, d’altra parte tale società non può essere subdolamente propinata o imposta con la forza, tantomeno con la giustificazione che l’altro non abbia ancora raggiunto quel livello civile di razionalità che solo potrebbe sottrarlo allo stato selvaggio. Prima che della possibilità di una istituzione giuridica mondiale che preservi in modo permanente la pace, con il diritto cosmopolitico ne va, insomma, del diritto stesso alla ragione; quella ragione che per i suoi connotati terrestri, umani, non può, come la superficie della Terra, venire parcellizzata a vantaggio di chi pretenda appropriarsene sottraendola ad altri. A partire da questa prospettiva, il diritto di visita può, allora, acquisire un significato diverso da quello di una semplice forma restrittiva di ospitalità. Esso si fa espressione di una ragione che non è semplicemente, naturalmente, data a tutti gli uomini in guisa di una comune dotazione antropologica, ma richiede di essere istituita sul terreno cosmopolitico dello scambio reciproco tra forme sociali differenti. Sulla ragione, come sulla superficie della Terra, ciascun individuo può legittimamente rivendicare il possesso, solo a patto di non escludere nessun altro dalla possibilità di accedervi. Anche qui, si potrebbe dire, è in gioco la possibilità di una deduzione nel senso kantiano del termine: dalla ragione come quaestio facti, alla ragione come quaestio iuris per l’uomo. Mediante questa deduzione, dell’idea di ragione viene delimitato l’orizzonte terrestre, umano, così che la ragione possa rendersi atta a istituire relazioni politiche, dando forma a costumi e istituzioni41. Il richiamo geografico di Kant alla forma

41  Leggerei in questa prospettiva il suggerimento di P.J. Rossi di riguardare il cosmopolitismo kantiano come «forma di resistenza alle dinamiche

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sferica della Terra come superficie circoscritta sulla quale gli uomini non possono disperdersi all’infinito ma sono destinati a incontrarsi, rivela allora un legame più che metaforico con l’idea, espressa nella Critica della ragion pura, di una ragione che deve essere riguardata come una «sfera» e non come un «piano esteso» sul quale stabilire «confini [Schranken]»42, mobili certo, ma in definitiva invalicabili. La comunità degli esseri razionali terrestri, sotto il cui segno Kant concepisce il suo progetto cosmopolitico di pace, risponde all’idea di un intero, di un tutto in sé determinato, il cui significato e il cui possesso si rendono accessibili solo a chi non pretenda di ridurli a semplice estensione della parte su cui ha fissato la propria sede43. Da questo punto di visita, dal punto di vista della ragione intesa come bene comune originario che ci diviene proprio solo nella misura in cui ci rendiamo capaci di riconoscere agli altri il medesimo diritto di accedervi, potremmo dire che per Kant siamo tutti a un tempo ospiti e ospitati, visitatori e visitati. In altri termini, l’insistenza sulla distinzione tra visita e residenza caratterizza il senso in cui ciascun uomo può legittimamente riferire a se stesso il possesso della ragione, ovvero di quel territorio sul quale non possiamo fissare la nostra sede esclu-

egemoniche che tentano l’essere umano a oltrepassare i limiti che la critica richiede a noi di istituire seguendo la ragione» (P.J. Rossi, Cosmopolitanism and the Interests of Reason. Hope as Social Framework for Human Action in History, in Recht und Frieden in der Philosophie Kants, cit., vol. IV, pp. 65-75: p. 69). 42  Cfr. KrV, A 762/B 790; tr. it., p. 1079. Cfr. anche KrV, A 759/B 787; tr. it., p. 1075, dove si fa anche esplicito riferimento alla forma sferica della Terra. 43  Il cittadino della ragione non ha a che fare semplicemente con Schranken, ma con Grenzen, ossia con l’idea di un tutto determinato, di un intero, il mondo, il cui significato non si riduce alla semplice somma delle parti. Il critico della ragione, volto a determinare i Grenzen della ragione (cfr. KrV, A 761/B 789; tr. it., p. 1077) trova, in questo senso, nel cittadino cosmopolitico la sua figura storico-progettuale.

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dendone l’ingresso ad altri, senza con ciò perdere noi stessi il diritto di abitarvi. Mi pare che possa essere, in ultima analisi, identificato qui il contributo kantiano fondamentale per poter oggi ripensare il tema dell’ospitalità, senza cadere facili prede del conflitto tra gli assertori dell’identità culturale e della sovranità nazionale e i teorici di un’ospitalità incondizionata che nella parola “identità” additano l’origine di tutti i mali. Se è senz’altro vero, come afferma Habermas, che «l’idea kantiana di cosmopolitismo [deve] essere riformulata per non perdere il contatto con una situazione mondiale radicalmente mutata»44, è altrettanto vero, anche se forse meno ovvio, che il modo peculiare in cui Kant concepisce il diritto cosmopolitico, e soprattutto il concetto di “ragione umana” che ne risulta, può fornire un valido antidoto contro ogni facile semplificazione che su temi come ospitalità, immigrazione, accoglienza, rischia solo di acuire antagonismi latenti, innescandone il potenziale di violenza.

44  J. Habermas, L’idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, in Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, tr. it. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 177-352, pp. 189-190.

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VI Filosofia in senso cosmico e destinazione dell’uomo

1. Attualità della metafisica Se si mette da parte quanto vi è di esagerato nelle espressioni di questo filosofo, certo il suo slancio spirituale nel risalire da una considerazione in termini di copia di ciò che è fisico nell’ordine cosmico sino alla connessione architettonica dello stesso ordine secondo fini, cioè secondo idee, è uno sforzo che merita rispetto ed è degno di essere imitato.1

Le parole ammirate che Kant rivolge a Platone individuano icasticamente nel rapporto tra metafisica ed etica una delle chiavi di accesso privilegiate al pensiero critico-trascendentale compreso nella sua trama sistematica. Dalla forma affatto peculiare in cui questo rapporto si articola in Kant affiora, in effetti, in tutta la sua portata la questione, ineludibile per il filosofo critico, del nesso architettonico tra l’ordine fisico del cosmo e l’ordine morale dei fini, o più precisamente, la questione del modo in cui un tale nesso può essere pensato senza nulla concedere a visioni dogmatiche che esorbitano i poteri conoscitivi della ragione umana. Di più, la proposta filosofica di Kant offre soluzioni per molti versi inedite a do1  KrV, B 375; tr. it., p. 559.

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mande che percorrono in modo pervasivo l’intera storia del pensiero. Metafisica ed etica indicano, infatti, da un lato orientamenti specifici della tradizione filosofica, ma dall’altro intercettano in modo ben più ampio il senso della tradizione filosofica nella sua interezza, nella misura in cui di essa costituiscono a vario titolo l’anima portante. In questo senso si è potuto parlare di “metafisica occidentale”, includendo in essa, in modo più o meno esplicito, indirizzi di pensiero molteplici che, pur nelle loro differenze, sono accomunati dall’istanza di connettere il discorso ontologico sull’ente in generale con il discorso teologico sull’ente sommo. E per converso, specie in epoca recente, si è potuto individuare nell’etica l’orizzonte onnicomprensivo di una filosofia che, in nome dell’appello alla responsabilità per l’altro, mette radicalmente in discussione il primato dell’essere e, con esso, il concetto onto-teologico dell’ente necessario. In altri termini, porre la questione del rapporto tra metafisica ed etica implica in ogni caso la necessità di tenere sullo sfondo questioni che attraversano l’intera tradizione filosofica. Si potrebbe, anzi, dire che una relazione tra i due termini si impone come un dato quasi ovvio, almeno nel senso che sarebbe inverosimile attendersi che esperienze così radicate nella vita dell’essere pensante non finiscano per incrociarsi o, se si vuole, per valicare l’una i confini dell’altra, talora inducendo il timore di pericolose invasioni di campo, sino ad acuire l’esigenza di distinzioni metodiche sempre più rigorose tra domini diversi del sapere filosofico. Certo è che l’esigenza di distinguere il piano delle riflessioni rivolte alla condotta umana rispetto a un ordine delle cose nei riguardi del quale l’uomo non può esercitare il suo potere deliberativo, ha giocato un ruolo decisivo nel promuovere l’istanza di una riflessione etica per la quale viene, in modo più o meno esplicito, rivendicato uno spazio di autonomia rispetto

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a premesse di tipo ontologico-metafisico. Non a caso, la nota distinzione aristotelica tra la parte razionale dell’anima, rivolta alla contemplazione di enti i cui principi non possono essere diversamente da quel che sono, e la parte dell’anima che entra in relazione con ciò che invece dipende da noi e può essere diversamente da come è2, ha fornito più di un elemento per la costruzione di un modello di etica non ancorata alle questioni che, lungo il corso della storia del pensiero, vengono comunemente indicate come “metafisiche”. E, sebbene un giudizio troppo risoluto in merito al profilo non-metafisico dell’etica aristotelica non sia affatto esente da problemi3, resta vero che il rapporto tra metafisica ed etica si presenta, almeno in prima istanza, all’insegna del problema di mettere in comunicazione ordini del sapere che muovono da premesse diverse e perseguono differenti finalità. Non si tratta di una questione da poco, non solo per lo sforzo teorico che essa richiede, ma anche, e soprattutto, per la posta in gioco che vi è implicata. Infatti, qualunque forma possa assumere, una metafisica priva di ogni connotazione etica rischierebbe di non aver alcun ruolo nel quadro dell’esistenza umana, ossia in relazione al posto che all’uomo può essere assegnato

2  Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1139a 4-15; tr. it. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 225. 3  Su questo aspetto mi limito qui a rimandare a due contributi che, da punti di vista diversi, rimettono in discussione la vulgata di un’etica aristotelica senza metafisica: cfr. O. Höffe, Etica senza o con metafisica. Gli esempi di Aristotele e Kant, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», XXII, n. 3, 2009, pp. 561-576; F. Trabattoni, Sull’“attualità” dell’etica di Aristotele. Alcuni problemi, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», II, n. 2, 2000. Sul tema cfr. anche l’interpretazione di C.P. Long, il quale, sebbene non nel contesto di una ricostruzione di taglio filologico, delinea una prospettiva originale a partire dalla quale ripensare, con le risorse concettuali offerte da Aristotele, il rapporto tra metafisica ed etica (C.P. Long, The Ethical Culmination of Aristotle’s Metaphysics, in «Epoché», VIII, n. 1, 2003, pp. 121-140).

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nel mondo. Per dirla con Kant, una metafisica siffatta sarebbe un semplice affare di scuola, in cui non fa più problema il significato che questioni come la libertà, l’anima e Dio assumono in relazione all’esperienza umana compresa nella sua interezza. Detto diversamente, interrogarsi sul rapporto tra metafisica ed etica significa sollecitare la riflessione in merito a un’attualità della metafisica che non si riduce semplicemente all’interesse che un particolare indirizzo della ricerca filosofica suscita nello studioso contemporaneo, ma passa necessariamente dalla capacità di toccare le sorti di ogni uomo, dando voce alla capacità dell’uomo di prefiggersi scopi che vanno al di là della soddisfazione dei bisogni naturali e di progettare forme di vita non necessariamente inscritte nel suo corredo fisiologicoevolutivo. Il che, nel caso di Kant, significa innanzitutto focalizzare l’attenzione sulla capacità auto-formativa dell’essere umano, ossia sulla possibilità che ha l’uomo di agire su di sé, di strutturare il rapporto con le proprie dotazioni naturali e con i propri talenti, in vista di una destinazione che non coincide necessariamente con la sua natura.

2. L’etica come parte della metafisica In Kant la questione del rapporto tra metafisica ed etica si pone in modo sistematico, delineandosi come progetto per la costruzione di un sapere architettonico che individui nella destinazione morale dell’uomo lo scopo finale, oggi si direbbe (in forma forse un po’ riduttiva) il senso, di ogni ambizione metafisica coltivata in sede di conoscenza teoretica. Si tratta, cioè, di comprendere, sempre nel rispetto dei confini epistemici che distinguono l’uso speculativo dall’uso pratico della ragione, il fatto che, in questa distinzione, in ogni caso è in gioco una e una sola ragione. E, sebbene si sia soliti riferire in sen-

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so stretto il nome di «metafisica» all’ambito della conoscenza teoretico-speculativa (alla cosiddetta metafisica della natura), ciò non toglie che lo stesso appellativo possa essere mantenuto anche in riferimento alla dottrina dei costumi, nella misura in cui questa «[…] appartiene al tronco particolare della conoscenza umana, e più precisamente della conoscenza filosofica, derivante dalla ragion pura»4. In effetti, la prospettiva kantiana non solo scommette su una metafisica che deve cercare nell’etica, intesa nel senso ampio di una filosofia pratica che comprende anche la dottrina del diritto, la via per la quale poter ancora esercitare un ruolo nell’esistenza, nella storia e nell’agire politico. Ma, specularmente, fornisce il profilo di un’etica che, solo nella misura in cui si innesta sul terreno della ricerca metafisica, configurandosi come «metafisica dei costumi», può rendere conto della trama complessa che caratterizza il rapporto tra esercizio dell’arbitrio e vincolo normativo, tra gli scopi che ciascun uomo si pone soggettivamente e il riferimento a una legge che dell’arbitrio di ciascuno deve rappresentare il limite. Nella Fondazione della metafisica dei costumi si legge: Se ha da esservi […] un principio pratico supremo, e un imperativo categorico che comanda alla volontà dell’uomo, questo deve derivare dalla rappresentazione di ciò che è necessariamente uno scopo per ognuno, essendo fine in se stesso: e, come tale, costituire un principio oggettivo della volontà, che serva di legge pratica universale. Un fondamento di tale principio è: la natura razionale esiste come un fine in sé.5

Il riferimento alla volontà di un essere razionale in generale costituisce, com’è noto, il fulcro dell’impianto normativo dell’etica kantiana. La natura incondizionata del dovere e l’u-

4  KrV, A 842/B 870; tr. it., p. 1181. 5  GMS, AA 4: 428-429; tr. it., p. 143.

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niversalità della legge morale si legano al concetto esemplare di un ente la cui facoltà di desiderare è direttamente determinata dalla ragione: Il dovere dev’essere, infatti, una necessità praticamente incondizionata dell’azione, e deve, quindi, valere per tutti gli esseri razionali (a cui possa comunque riferirsi un imperativo), e solo per questo essere una legge anche, in particolare, per tutte le volontà umane.6

L’appello a un principio della condotta etica che vale non solo per l’uomo ma per ogni essere finito capace di una forma di vita razionale, risponde all’esigenza di un’etica che, nella prospettiva kantiana, trova nella metafisica, intesa in senso specifico come conoscenza razionale per semplici concetti7, il termine cui riferire ogni pretesa di rigore normativo8. Detto diversamente, il referente primo delle istanze normative dell’etica kantiana, il soggetto dell’azione morale, non è l’uomo, in quanto ente dotato di una natura specifica, ma l’uomo in quanto compreso a partire dal “semplice concetto” di un ente razionale in generale. Kant è chiaro in proposito quando, nella Fondazione della metafisica dei costumi, non solo afferma che la

6  GMS, AA 4: 425; tr. it., p. 135. 7  «Se dunque un sistema di conoscenze a priori basato su semplici concetti [aus bloßen Begriffen] si chiama metafisica, una filosofia pratica che non ha per oggetto la natura bensì la libertà dell’arbitrio, presupporrà e richiederà una metafisica dei costumi» (MS, AA 6: 216; tr. it., p. 33). 8  Ciò vale a maggior ragione in considerazione del fatto che, come Kant chiarisce nella Critica della ragion pratica, il principio della moralità non solo si estende a tutti gli esseri finiti dotati di ragione, ma include anche l’essere infinito, con la differenza che nel caso dell’intelligenza suprema la legge morale non assume la forma di un imperativo, dunque di un’obbligazione (cfr. KpV, AA 5: 32; tr. it., p. 89). Il principio della moralità concerne, dunque, in senso proprio il concetto metafisico di un essere razionale in generale, ivi compreso l’Essere infinito; un concetto che, perciò, risulta ben più comprensivo di quello, già ampio, che riguarda ogni essere razionale finito.

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forza normativa dell’imperativo morale non può in alcun modo appellarsi a particolari sentimenti, disposizioni o inclinazioni sensibili; ma puntualizza come una morale pura non possa ancorarsi neppure a un eventuale «specifico indirizzo che sia proprio della ragione umana [einer besonderen Richtung, die der menschlichen Vernunft eigen wäre]»9. Dunque, il progetto di fondazione di una dottrina metafisica dei costumi non solo deve, come è ovvio, prescindere da qualsiasi riferimento alla condizione sensibile dell’uomo, ma deve, in linea di principio, prescindere da ogni riferimento a una presunta costituzione specifica della ragione umana. Solo a questa condizione può essere garantita quella che Kant chiama «schiettezza dei costumi [Lauterkeit der Sitten]»10. Ciò vuol dire che una dottrina pura dei costumi non dispone di alcun ancoraggio a una qualche forma di conoscenza della natura umana, sia essa intesa in riferimento alla condizione sensibile nella quale l’uomo si trova ad agire, sia essa intesa in riferimento a una particolare costituzione della ragione umana. Proprio questa radicale mancanza di ancoraggio colloca la ricerca filosofica sui costumi in una posizione che, per quanto «incresciosa [mißlich]»11, come la definisce Kant, è espressione genuina di una ragione autonoma, non determinata da agenti esterni, o dal riferimento a una qualsivoglia natura pre-data;

9  GMS, AA 4: 425; tr. it., p. 135. «La conoscenza pratica o morale è, secondo Kant, ancor più pura della conoscenza teoretica, nella misura in cui la conoscenza dei principi morali è del tutto indipendente dalla “natura specifica della ragione umana”» (R.B. Lauden, Kant’s Impure Ethics. From Rational Beings to Human Beings, Oxford University Press, New York-­Oxford 2000, p. 5). 10  GMS, AA 4: 426; tr. it., p. 137. 11  GMS, AA 4: 425; tr. it., p. 135. Mi discosto qui dalla traduzione utilizzata, che rende mißlicher Standpunkt con «posizione critica».

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che è l’unico modo per garantire il senso eminentemente etico dell’agire secondo leggi della libertà. In quanto ricompresa sotto il segno di una fondazione metafisica che si rivolge in prima istanza all’essere razionale finito, l’etica kantiana non riguarda direttamente l’uomo. L’uomo viene chiamato in causa, per così dire, in seconda battuta, ossia nello spazio di una filosofia applicata che indaga i limiti entro i quali egli può dare realizzazione effettiva alle prescrizioni dell’etica, può prepararsi ad accoglierle educando i suoi talenti, le sue disposizioni naturali. È nel segno di una filosofia applicata che si parla, nella Metafisica dei costumi, di un’antropologia morale, la quale conterrebbe […] soltanto le condizioni soggettive, sia avverse che favorevoli, per l’attuazione [Ausführung] delle leggi della metafisica dei costumi nella natura umana [in der menschlichen Natur], per creare, estendere e rafforzare i principi morali […]. Una tale antropologia – aggiunge Kant – non può mancare, ma non deve in alcun modo precedere la metafisica o essere confusa con essa.12

Per quanto costituisca un contributo imprescindibile allo studio della condotta morale dell’uomo considerata nel suo insieme, la ricerca antropologica non può costituire, in luogo della metafisica, il terreno di fondazione di un’etica. Diversamente, si correrebbe il rischio di produrre leggi morali false o quanto meno indulgenti, che farebbero presumere irraggiungibile [unerreichbar] ciò che non viene raggiunto appunto per-

12  MS, AA 6: 217; tr. it., pp. 33-35; cfr. anche GMS, AA 4: 212; tr. it., p. 101; V-Mo/Mron II, AA 29: 599; V-Mo/Collins, AA 27: 244; V-Anth/Fried, AA 25: 471-472. Un tentativo convincente di tratteggiare, a partire dal ricco materiale offerto dalle Vorlesungen kantiane, il profilo di un’antropologia morale in Kant, è offerto da R.B. Lauden, Kant’s Human Being, cit., pp. 49-77. Sul rapporto tra etica e antropologia e sul ruolo dell’educazione morale nella filosofia pratica di Kant cfr. anche Id., Kant’s Impure Ethics, cit.

151 ché la  legge non è stata considerata ed esposta nella sua purezza.13

Questo difficile passo è decisivo per la comprensione del rapporto che Kant istituisce tra metafisica, etica e questione dell’uomo. Da un lato l’etica, in quanto è iscritta nel registro metafisico della ragion pura, non parla direttamente dell’uomo, ma di una legge universalmente vincolante per ogni essere finito capace di ragione. E però, all’uomo essa si riferisce indirettamente, per il tramite di un’antropologia che concerne quel che l’uomo, in base alla propria natura, e in considerazione dei suoi limiti, può fare per approssimarsi a una legge cui, d’altra parte, si avverte vincolato non in virtù di una natura specifica che lo identifica in quanto uomo, ma in virtù della sua appartenenza a una comunità ideale di esseri razionali. Il che implica che il riferimento all’antropologia, per quanto essenziale al fine di comprendere la dimensione umana dell’etica, non può sortire alcuna indulgenza in merito a ciò che la legge morale comanda incondizionatamente di realizzare. In altre parole, se da un lato Kant avverte l’esigenza di contestualizzare il discorso morale sul piano di una conoscenza antropologica rivolta a quel che l’uomo può fare in considerazione dei limiti impostigli dalla sua natura specifica, d’altra parte questi limiti non possono avere l’ultima parola su quel che la legge morale prescrive di fare e presenta come realizzabile. Kant intende proprio questo quando afferma che, nel caso del discorso etico, l’antropologia non può precedere la metafisica, pena il dover pensare come irraggiungibile per l’uomo ciò che all’uomo appare irraggiungibile solo perché la legge morale non viene considerata ed esposta nella sua purezza. Le prescrizioni della ragion pratica rimangono, in tal modo,

13  MS, AA 6: 217; tr. it., p. 35. «L’etica indulgente è la rovina della perfezione morale dell’uomo» (AA 27: 301).

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vincolanti per l’uomo, perché si impongono come realizzabili anche a prescindere dalla sua capacità e dalla sua maggiore o minore inclinazione a darvi piena esecuzione. Sta qui l’intreccio problematico che connota dall’interno il rapporto tra metafisica ed etica e soprattutto marca la rilevanza di tale rapporto in riferimento alla dimensione dell’umano. L’etica non può contare su una descrizione previa di che cosa l’uomo sia. Piuttosto, è la domanda antropologica sulla natura umana che assume, in Kant, una fisionomia etica. E ciò perché la prescrizione della perfettibilità umana, il compito di realizzare un mondo che si disegni il più possibile conforme alla dimensione dell’agire libero, orienta un conoscere che dell’uomo, più che la natura intesa come insieme di disposizioni date, concerne la possibilità che egli, in quanto ente dotato di ragione e in quanto dalla ragione determinato, ha di riscrivere il rapporto con le proprie disposizioni in vista della prefigurazione e realizzazione di fini non necessariamente iscritti nel suo corredo fisiologico. Nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico emerge in modo evidente il senso della declinazione etica della domanda sull’uomo: Il risultato complessivo cui perviene l’antropologia pragmatica riguardo alla destinazione dell’essere umano [Bestimmung des Menschen] e la caratteristica della sua progressiva formazione sono dunque i seguenti. L’essere umano è determinato [bestimmt] dalla sua ragione a stare in una società con altri suoi simili, e in essa a coltivarsi, a civilizzarsi e a moralizzarsi per mezzo dell’arte e delle scienze.14

14  Anth, AA 7: 324-325; tr. it., p. 342. Mi discosto dalla traduzione di Garelli rendendo Bestimmung con «destinazione» anziché con «destino», per le ragioni già esposte supra, p. 65, nota 27.

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La questione è, allora, quella di chiarire cosa significhi che l’uomo è determinato dalla ragione. Una tale determinazione non va intesa nel senso che la ragione denoti una proprietà che caratterizza la natura dell’uomo. La ragione non si lega, cioè, all’uomo al modo definitorio di una qualificazione che ne specifichi la costituzione ontologica. E ciò semplicemente perché, considerata in se stessa, la ragione non identifica in generale alcuna natura, ma risponde a un’attività spontanea, la cui funzione riconduce al principio di una legislazione autonoma. Come è intesa da Kant, la ragione, più che fornire la connotazione specifica della natura umana individua quell’aspetto per il quale l’uomo, come ogni altro essere razionale, non risulta vincolato interamente a una condizione fisiologica, a una natura data che lo preceda e lo pre-determini. In breve, la ragione non descrive una dotazione naturale, ma una disposizione finalistica. L’uomo non è un animal rationale, ma un «animal rationabile»15, ossia un ente che si rapporta alla ragione non semplicemente come a un possesso di cui egli disponga in base a uno specifico corredo ontologico16, ma come a una forma di vita che egli è chiamato a realizzare e sviluppare nel mondo; un compito questo che si presenta come vincolante per l’uomo, ossia mantiene il suo carattere incondizionato, anche a prescindere dal potere limitato, condizionato, che l’uomo stesso ha di darvi esecuzione effettiva. In tal modo, più che indicare la nostra natura, la ragione, come dice Kant, ci «traspone [versetzt]» in una natura diversa da quella in cui

15  Anth, AA 7: 321; tr. it., p. 339. 16  A.W. Wood esprime in una formulazione iperbolica la condizione problematica che concerne la razionalità umana: «la razionalità deve essere considerata come un problema posto agli esseri umani dalla loro natura, della cui soluzione non è responsabile la natura ma gli esseri umani» (A.W. Wood, Kant and the Problem of Human Nature, cit., p. 51).

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facciamo esperienza della nostra capacità inadeguata di realizzare quanto essa, in quanto ragion pura, ci comanda di fare17. Più specificamente, in quanto essere razionale, l’uomo reca in sé le tracce di un destino di cui, in quanto uomo, non è padrone, nel senso che la sua condizione di essere finito non è in grado di assicurare la realizzazione di un mondo conforme alle prescrizioni della ragione. Noi non siamo, cioè, in quanto esseri finiti, in grado di controllare sul piano dei risultati quel che, in quanto partecipi della legislazione autonoma della ragione, siamo comunque vincolati a realizzare. La Bestimmung des Menschen fa, dunque, riferimento a uno scopo la cui realizzazione, per quanto si presenti come moralmente necessaria, obbligante e teoreticamente possibile in relazione a un uso puro della ragione18, non è però concepibile a partire dai soli poteri e dalle sole risorse di cui l’uomo dispone. Nell’ampiezza del campo semantico che tiene insieme nel termine Bestimmung determinazione, vocazione, destinazione emerge in tutta la sua complessità il nesso che lega inscindibilmente l’ordine umano di ciò su cui possiamo esercitare il nostro arbitrio e il nostro potere deliberativo e l’ordine metafisico che chiama in causa tutto ciò che non dipende da noi, in quanto trascende ogni nostro potere di attuazione. In questa particolare commistione di libertà e vincolo, di arbitrio e di necessità, di autonomia e destino, si manifesta il senso profondo in cui la filosofia critica riscrive il rapporto tra metafisica ed etica,

17  Cfr. KpV, AA 5: 43; tr. it., p. 109. 18  La possibilità teoretica fa riferimento alle condizioni di attuabilità delle prescrizioni della ragion pratica la cui esecuzione la critica kantiana da un lato riconosce come almeno possibile nel lavoro che in seno alla specie umana si protrae in indefinitum di generazione in generazione, dall’altro postula come certo sul terreno di una dottrina dell’intelligibile che ripensa su base pratico-morale i concetti di anima immortale e di un autore saggio del mondo.

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tra il piano incondizionato delle cose divine e il piano contingente degli affari umani.

3. Metafisica e ragione umana Considerata secondo la possibilità di un uso che trascende quello empirico, la ragione pone, così, l’uomo al cospetto di questioni la cui portata oltrepassa la condizione che viene contrassegnata con l’aggettivo “umana”. In questa prospettiva, parlare di ragione umana non significa in primo luogo indicare una facoltà che rientra nelle dotazioni naturali dell’uomo, ma implica l’interrogarsi sulla sproporzione che corre tra l’istanza di incondizionatezza avanzata da un uso puro della nostra facoltà conoscitiva e il carattere necessariamente condizionato della nostra capacità di rispondere a una simile istanza. Farsi pieno carico di questa sproporzione è esattamente la sfida che anima l’impresa critica, che muove non a caso proprio dal prendere atto di una condizione destinale della ragione umana, la quale si trova inevitabilmente contesa tra le pretese che coltiva in quanto pura ragione e gli ostacoli che incontra in quanto umana: La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere incalzata da questioni che non può evitare, poiché le sono imposte dalla natura stessa di ragione, ma a cui non può nemmeno dare risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana.19

Le questioni metafisiche non smettono di interrogare l’uomo. Esse permangono, anche a dispetto della loro insolubilità. Permangono, perché sono non semplici invenzioni o sofistiche19  KrV, A VII; tr. it., p. 7. Traduzione modificata.

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rie, ma desideri, richieste della ragione e, come tali, non sono liquidabili come pensieri arbitrari. Meno che mai se ne può prendere congedo facendo appello alla natura condizionata della conoscenza umana. Kant è chiaro al riguardo quando, in relazione alle questioni metafisiche, dice: […] non le ho evitate, accampando magari come scusa l’impotenza della ragione umana [dem Unvermögen der menschlichen Vernunft], ma le ho completamente specificate secondo principi.20

La considerazione dell’«impotenza della ragione umana» non può avere l’ultima parola sulle questioni metafisiche. Il che significa che l’espressione «ragione umana» non può esaurirsi nell’immagine riduttiva di una facoltà riferita alla condizione finita dell’uomo. Tale espressione testimonia piuttosto del fatto che in seno al pensare razionale si danno istanze di cui a partire unicamente dalla condizione finita dell’uomo non si può rendere adeguatamente conto. Vale, dunque, già in sede di fondazione della conoscenza teoretica quel che abbiamo visto valere in sede di fondazione della dottrina dei costumi, ossia: l’appello ai poteri e alle condizioni limitate dell’uomo non può autorizzarci a guardare con indulgenza ai compiti che ci vengono assegnati dalla ragione nel suo uso puro. Le pretese sottese a un uso della ragione che trascende il piano dell’esperienza non sono, infatti, liquidabili come meri errori umani. Esse sono, piuttosto, portatrici sane di un potenziale illusorio che, se non tenuto sotto il controllo sistematico di una disciplina logica, finisce col condurre alla costruzione di un sapere ingannevole. Per questo, una critica della ragione si rende necessaria al fine di prevenire sviamenti che ci porterebbero fuori strada rispetto alla vera destinazione

20  KrV, A XII; tr. it., p. 13.

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cui ci dispone un uso puro della ragione; destinazione che non coincide in alcun modo col semplice e indiscriminato accrescimento della nostra brama conoscitiva, ma deve riguardare il significato che per l’uomo e per la sua intera esistenza rivestono questioni la cui portata va ben oltre i poteri conoscitivi di cui egli dispone. Sta qui, in definitiva, il senso del legame profondo tra conoscenza teoretica e dimensione pratico-morale; un legame che non va concepito nella forma estrinseca di un accordo di collaborazione stipulato tra due domini indipendenti del sapere umano. Esso va, piuttosto, inteso sotto il segno di una radice comune. Kant la identifica nel progetto di una critica della ragione che intende farsi carico fino in fondo dell’esperienza di una sproporzione, nell’uomo, tra natura e ragione, tra ciò che all’uomo è dato e ciò a cui l’uomo è destinato, tra l’ordine del condizionato e il principio incondizionato di una legislazione autonoma. Le difficoltà impervie e le aporie che all’uomo vengono poste dalla ragione nel suo uso puro segnano la via che il filosofo deve percorrere fino in fondo per accedere in modo teoreticamente avvertito, ossia «attraverso la via della scienza»21 a quel che, al di là di ogni interesse di scuola, concerne comunque ogni uomo e che per Kant va individuato nella sua destinazione morale.

4. Filosofia in senso cosmico e destinazione dell’uomo La filosofia segna, così, il passaggio dalla scuola al mondo. Nell’Architettonica della ragion pura Kant parla della filosofia nel suo concetto cosmico (Weltbegriff) in quanto «scienza del

21  KrV, A 850/B 878; tr. it., p. 1193.

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rapporto di ogni conoscenza con i fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae)»22, in quanto legislazione che orienta i saperi scientifici e i loro fini arbitrari verso uno scopo che interessa necessariamente chiunque, dunque non solo lo scienziato o il filosofo, ma l’esistenza umana nella sua interezza. “Cosmico” è lo scopo in relazione al quale le diverse forme e discipline del sapere umano vanno considerate come parti di un tutto architettonicamente strutturato. Il che significa essenzialmente che ogni uso particolare che si fa della ragione in vista dell’acquisizione di conoscenze o abilità tecniche deve poter essere riguardato alla luce di una visione più ampia che va al di là del campo ristretto nel quale opera ciascuna disciplina del sapere umano. Nella Reflexion 903, che Adickes fa risalire al periodo 17761778, Kant parla della necessità di un occhio supplementare di cui ogni scienza deve dotarsi al fine di poter vedere il proprio oggetto «dal punto di vista degli altri uomini [aus dem Gesichtspunkte anderer Menschen]»23. Il che significa la necessità di mantenere costante la vigilanza critica, affinché non allignino quelle forme di egoismo scientifico che considerano l’uso ristretto che si fa della ragione nell’ambito di una disciplina determinata come parametro da applicare indiscriminatamente a ogni altro campo del sapere; ciò che renderebbe la ragione inadatta a esprimere il senso più profondo dell’esistenza umana compresa nella sua interezza. Si tratta dunque, ancora con le parole di Kant, di conferire «umanità all’erudito»24, educandolo a un uso della ragione non ristretto alle procedure di acquisizione di conoscenze o di abilità tecniche. Questo è il compito più difficile. Un compito in vista del quale la fi22  KrV, A 839/B 867; tr. it., p. 1177. 23  Refl 903, AA 15: 395. 24  Refl 903, AA 15: 394.

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gura del filosofo, e segnatamente del metafisico, non può che legarsi a quella del moralista: La matematica, la fisica, la stessa conoscenza empirica dell’uomo possiedono un alto valore come mezzi, per lo più in vista di fini contingenti, ma in ultima istanza anche in vista di fini necessari ed essenziali all’umanità: in questo caso, però, solo con la mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti, e che può essere chiamata come si vuole, ma propriamente non è altro che metafisica. Proprio per questo, la metafisica costituisce anche il compimento di ogni cultura della ragion umana, un compimento che risulta indispensabile, anche nel caso si voglia prescindere dal suo influsso come scienza su certi fini determinati.25

Abbracciata nel suo concetto cosmico, la filosofia non concerne la ragione, il pensiero, come semplici fonti produttrici di conoscenze o di abilità pratiche, ma si interroga sul significato che la ragione, la capacità di conoscere e la possibilità di pensare in generale assumono per l’uomo, per la sua esistenza, per la sua destinazione. L’accusa di formalismo astratto, rivolta spesso a un’etica che, come quella kantiana, iscrivendosi su un registro metafisico, eleggerebbe l’essere razionale a unico soggetto dell’azione, va in questa prospettiva senz’altro ridimensionata. E ciò perché il riferimento all’essere razionale, proprio e solo in quanto non si identifica direttamente con l’uomo, può svolgere un suo ruolo decisivo per l’uomo, per la sua esistenza, per la sua destinazione. Il che coincide, in definitiva, col fatto che la ragione kantiana non è qualcosa su cui l’uomo può vantare ambizioni di 25  KrV, A 850/B 878; tr. it., p. 1193. «Nella filosofia cosmica teoria e prassi, inconciliabili e divise relativamente ai loro campi di applicazione, sono unificate. Del resto, gli usi e gli interessi speculativo e pratico discendono dalla stessa unità originaria del pensiero» (A. Ferrarin, I poteri della ragion pura, cit., p. 93).

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possesso, non è un semplice mezzo per produrre conoscenze o sviluppare abilità. Dell’uomo la ragione esprime, piuttosto, il non essere del tutto vincolato a una natura, a una costituzione data. E questa condizione ontologica «incresciosa», di cui la ragione si fa testimone, apre al senso di una libertà che, concepita sotto il segno di una pura spontaneità auto-legislativa, produce istanze, norme, desideri dei quali l’uomo, in quanto essere razionale, è partecipe, ma sui quali, in quanto essere finito, non può esercitare pienamente il suo potere conoscitivo, né può invocare fino in fondo il suo arbitrio. Mi sembra, in definitiva, che vada ascritto a questa peculiare configurazione «cosmica» dell’umano il tratto decisivo di quel che Kant indica col termine «destinazione morale», nonché il senso eminente di una metafisica che non si lascia semplicisticamente ricondurre alla figura di una ragione prevaricatrice che in seno all’esistenza umana chiude le porte a ogni esperienza etica di alterità. Il concetto kantiano di ragione sembra, piuttosto, suggerire esattamente il contrario: la ragione descrive la condizione per la quale noi non ci troviamo mai a casa nostra, o, se si preferisce, abitiamo casa nostra come ospiti che non sempre si trovano a proprio agio. Essa ci pone in una «situazione di imbarazzo», perché ci ricorda che lo spazio in cui pensiamo di muoverci così agevolmente e in cui riteniamo di essere così bene acclimatati in virtù delle nostre conoscenze e delle nostre abilità non copre affatto l’ampiezza, l’intero, del mondo in cui viviamo26. La ragione mostra, allora, il suo 26  Ernst Nolte da una prospettiva ovviamente diversa da quella kantiana ha espresso in modo icastico il senso di questa duplice appartenenza dell’uomo: «Quali che siano i risultati cui può portare il far della filosofia, per il fatto di esistere la filosofia dimostra la verità della tesi per cui l’uomo appartiene sia a un tutto non concreto sia al proprio noto ambiente, e che quindi non è un’unità compatta ma da un certo punto di vista qualcosa di più di se stesso (E. Nolte, I tre volti del fascismo, tr. it di F. Saba e G. Manzoni, Mondadori, Milano 1971, p. 598).

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volto eminentemente etico come disciplina che frena l’istinto tutto umano di cercare riparo, di sottrarre il nostro vivere all’esperienza di un mondo che ci si apre realmente solo nello spazio metafisico della distanza tra quel che ci è dato e ciò a cui siamo destinati27. Mettere a fuoco il senso etico di questa distanza è compito che Kant affida al progetto di una critica della ragione, al di là delle modalità speciali in cui tale compito si declina nelle diverse parti del suo sistema. Mi pare che in questa messa a fuoco emergano i termini di un rapporto tra etica e metafisica che assicura alla prima la rilevanza filosofica di una indagine che continua a riflettere criticamente sui principi del nostro essere e del nostro agire, e alla seconda una longevità pari almeno a quella dell’uomo su questa terra, al di là della presenza e del “successo” che le questioni metafisiche, in forma più o meno addomesticata, continuano ancora a registrare nel dibattito contemporaneo.

27  In questo spazio si colgono i tratti di una trascendenza che caratterizza in proprio la vita dell’ente razionale; una trascendenza che, sebbene non possa in alcun modo ancorarsi, pena la ricaduta nel dogmatismo, a una garanzia ontologica di matrice divina, tuttavia non può essere risolta nello spazio finito delle capacità conoscitive e delle abilità pratiche umane. Essa rimanda al motivo eminentemente critico di una tensione che, in seno a ogni ente razionale finito, si dà tra le istanze di un sapere e di un agire incondizionato e le risorse di cui può disporre una natura condizionata da limiti invalicabili. Allora, se come scrive O. O’Neill, Constructions of Reason, cit, p. 26, commentando le massime del sensus communis, «il pensiero razionale non è governato da standard trascendenti, ma dallo sforzo di orientare il pensiero di ciascuno in modo tale da non precludere il suo accesso ad altri», ciò non può tuttavia venire inteso in direzione di una risoluzione delle istanze fondative sollevate in sede di ragion pura sul terreno politico della negoziazione intersoggettiva umana. L’espressione «ragione umana» dà voce, in Kant, a un’esperienza di trascendenza che, per quanto tocchi in proprio l’uomo, mette capo a questioni sulle quali l’uomo, anche organizzato nella forma di vita comunitaria più evoluta, non può avere l’ultima parola.

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Indice

Avvertenza

p. 9

Sigle

p. 11

Introduzione

p. 15

I Il tribunale della ragion pura e i suoi gradi di giudizio

p. 33

1. Ragione umana come concetto problematico 2. Ragion pura e intelletto umano 3. Il primo grado di giudizio 4. Il grado più alto di giudizio 5. Il tribunale supremo della ragion pura

p. 33 p. 35 p. 38 p. 41 p. 43

II Antropologia da un punto di vista critico 1. L’interesse per lo straniero 2. L’antropologia come conoscenza empirica 3. L’antropologia come scienza fondamentale 4. Il rischio della ragione antropomorfa

p. 49 p. 49 p. 52 p. 56 p. 59

5. Un nuovo punto di vista 6. Antropologia trascendentale come disciplina critica III Antropologia come general Weltkenntniß 1. Perché viaggiare 2. Dal cosmologico al cosmopolitico 3. Dal cosmopolitico al cosmico 4. Antropologia e filosofia

p. 65 p. 68

p. 75 p. 75 p. 80 p. 85 p. 94

IV La specie umana dal punto di vista cosmopolitico

p. 101

1. La pace come progetto filosofico 2. Uomo, polis e ragione 3. Il concetto cosmopolitico di specie umana

p. 101 p. 108 p. 112

V Diritto cosmopolitico e ragione umana 1. Un diritto controverso 2. Il diritto alla libera circolazione 3. I limiti del diritto cosmopolitico 4. Le due facce del diritto al possesso comune originario del suolo 5. I limiti terrestri del possesso della ragione VI Filosofia in senso cosmico e destinazione dell’uomo 1. Attualità della metafisica 2. L’etica come parte della metafisica

p. 119 p. 119 p. 121 p. 126 p. 130 p. 136

p. 143 p. 143 p. 146

3. Metafisica e ragione umana 4. Filosofia in senso cosmico e destinazione del­ l’uomo Bibliografia

p. 155 p. 157 p. 163

Passages

Collana di Storia della Filosofia Diretta da: Umberto CURI e Carmelo MEAZZA

1. Lucrezia Ercoli, Filosofia dell’umorismo. 2. Marco Fortunato, Decisione – Indecisione. 3. Andrea Panzavolta, Caro Herr Mozart, cari compositori. 4. Elio Matassi, Appunti sul presente. 5. Chiara Pasqualin, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico. 6. Alexander Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva. 7. Nicola Comerci, Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione. 8. Laura Sanò, Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arend e Kafka. 9. Enrique Dussel, Le metafore teologiche di Marx. 10. Pierre Gisel, Cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza. 11. Andrea Panzavolta, La promessa delle sirene. Filosofia dell’opera lirica.

12. Antonio Lucci, La stella ascetica. Soggettivazione e ascesi in Friedrich Nietzsche. 13. Giuseppe Pintus, La monade spirituale. Studio su Luigi Stefanini. 14. Gian Paolo Faella Wittgenstein, maestro o dilettante. Esercizi critico-speculativi su un caso di controversa popolarità filosofica. 15. Marco Mantovani, Einverleibung e «organismo sociale». Modelli e metafore della relazione individuo, Stato e società in Nietzsche. 16. Angelo Cicatello, Ragione umana e forma del mondo. Saggi su Kant.

Passages | 16 La strada seguita dalla critica kantiana da un lato tende, anche nel suo percorso evolutivo, a fornire le condizioni e i limiti in cui l’esercizio della facoltà razionale si rende atto a legiferare sul terreno dell’interazione sociale e della costituzione di organismi istituzionali politici complessi. Si tratta del percorso che può essere definito cosmopolitico nel senso di una direzione che vede il declinarsi della domanda cosmologica sul terreno pragmatico della costituzione di un habitat concepito a misura d’uomo. Il cittadino del mondo è individuato come la figura di un soggetto attivo che si esercita nell’acquisizione di cognizioni e nello sviluppo di abilità, nonché nella costituzione di modelli di vita associata sempre più estese che conferiscano al globo terraqueo la forma di una polis. D’altra parte, però, l’interrogazione metafisica che anima nel profondo la ricerca critica di Kant, segna il convergere delle conoscenze e delle abilità umane verso un’idea di mondo, il cui ordine normativo-teleologico nessun organismo politico-istituzionale è in grado di «esibire in concreto». In questa prospettiva, l’uomo, in quanto ente razionale, si scopre parte di una comunità i cui fini trascendono lo spazio pragmatico in cui esercita il proprio arbitrio e il proprio potere, perché dell’esercizio dell’arbitrio e del potere essi individuano i limiti.

Angelo Cicatello insegna Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Palermo. Studioso di Kant e della filosofia classica tedesca, si è dedicato ai temi della Teoria critica classica e agli sviluppi della questione ontologico-metafisica all'interno della riflessione contemporanea. È autore dei volumi Dialettica negativa e logica della parvenza. Saggio su Th. W. Adorno (2001), Soggettività e trascendenza. Da Kant a Heidegger (2005), Ontologica critica e metafisica. Studio su Kant (2011).

€ 10,00

ISBN ebook 9788855293563