Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa? 9788842091288

"Siamo un popolo di poeti e santi, poi, in ultimo di navigatori. Salpiamo sempre con grandi discorsi e dichiarazion

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Qui dobbiamo fare qualcosa Sì, ma cosa?

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9128-8

Indice

Che tempo che fa?

1

Dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?

8

Un metodo a tre atti

19

Cosa consigliano i drammaturghi?

30

Intermezzo: la dea Cura

39

Torniamo a noi?

42

Elementi che inquinano il secondo atto: ah, i bei tempi andati...

47

Ma mica il modello nostalgico è di sinistra?

60

Intermezzo: la confusione regna sovrana

67

Datemi una differenza: il piccolo orto di una volta...

72

Punto uno. La natura è un concetto relativo

86

Punto due. Il sogno dei simboli genera mostri?

91

La società assorta vs la società aperta. In mezzo l’Italia, ovvero la società new age?

101

Berlusconi e il tè verde

106 V

Dacci oggi il nostro metodo scientifico quotidiano

115

Le conseguenze morali del progresso

129

Nota dell’Autore

137

Qui dobbiamo fare qualcosa Sì, ma cosa?

Che tempo che fa?

Da una quindicina d’anni ho sviluppato una particolare predisposizione d’animo verso i meteorologi. Meteoropatia, suppongo. Il mio umore è influenzato dal tempo atmosferico. Quindi, sapere in anticipo come, a seconda della temperatura e dei venti, muterà, durante la giornata, il mio carattere mi dà una certa sicurezza. E a proposito di meteorologi, mi capita spesso di ascoltare Luca Mercalli: Che tempo che fa. Mercalli ha l’abitudine di affrontare temi diversi, anche quelli non propriamente legati alla meteorologia. A me, come sopra dichiarato, piacciono i meteorologi, quindi li ascolto con interesse. Quel giorno gli chiesero che cosa pensasse del nucleare. Rispose che sì, ora il nucleare è più sicuro rispetto a un tempo, resta però il problema delle scorie. Bene. Ma aggiunse: un Paese come il nostro che non sa nemmeno gestire i rifiuti può mai gestire le scorie nucleari? Meglio dunque non averlo il nucleare e affidarsi alle cosiddette energie alternative. Ci fu un grande applauso in sala e ricordo benissimo che anche io annuii con la testa, come a dire: mi piacciono i meteorologi, dicono cose sensate. 1

Il fatto è che l’argomento rifiuti in quel momento mi toccava da vicino: Caserta, Napoli e provincia ne erano sommersi. Un giorno sì e un giorno no, ricevevo la telefonata di qualche amico di Caserta. Tutte telefonate di rimprovero, nemmeno tanto larvate. In sostanza dicevano: noi non sappiamo più che cosa fare, i rifiuti ci sommergono, tu vivi a Roma, te ne sei andato da Caserta e ora non capisci la nostra situazione. Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa? Questa doppia dichiarazione, affermazione più domanda, è uno di quei modi di dire ricorrenti che sento decine e decine di volte e dico centinaia e centinaia di volte. Ci sono le scorie nucleari e ci sono troppi rifiuti e la corruzione diffusa, il complotto dei grandi contro i piccoli, le multinazionali che ci stritolano, gli allevamenti intensivi. Dobbiamo fare qualcosa, sì, ma cosa? Ora, da una quindicina d’anni, oltre alla meteoropatia ho sviluppato un’altra sindrome: l’insonnia. Di un tipo molto particolare: m’addormento. Profondamente. Faccio sogni. Intensi. Spesso strani. E poi mi sveglio intorno alle quattro del mattino. Quella notte, dopo aver visto Che tempo che fa, idem. Crollai e sognai. Sognai che mi applicavo a inserire le ali alle singole scorie nucleari. Ero capace di fissare delle grandi ali, ali d’angelo suppongo, ovvero piumate come i costumi delle soubrette degli anni Sessanta, e le particelle nucleari poi, spinte dal vento, volavano via lontane. Le tre e trentacinque, quando mi svegliai. Ricordo che sbattevo le palpebre come se queste fossero state delle ali. Stavo ancora sognando? Ma dove andavano quelle scorie? Lontano, ad inquinare altri posti? In questo caso l’inqui2

namento l’avevo prodotto io, non c’era dubbio. Che disastro. Eppure, m’ero tanto applicato a inserire le ali alle scorie. Scoria dopo scoria. E se il sogno esprimeva un sentimento propositivo? Nel senso: sì, potevo gestire le scorie. Appunto, bastava, con un po’ di volontà e determinazione, mettere le ali alle singole particelle. Buon uso della tecnologia e quello che è sporco diventa pulito. O quasi. Era questo il messaggio del sogno? Alle quattro e dieci non ero riuscito a interpretare il sogno, a fornirgli un orientamento. Inquinavo o pulivo? Tanto amore per Freud e niente. Ore passate sull’Interpretazione dei sogni e nessun risultato utile. Più avanti nella notte, poi, tutti i miei pensieri si sono incupiti, come accade durante le notti insonni. La notte del resto è democratica, tutti i pensieri vengono a galla. Ognuno chiede lo stesso grado di rappresentanza. Nessuna stelletta o distintivo particolare. Non si annunciano. Ti invadono e basta. E per combattere questo eccesso di informazioni mi sono riaddormentato. Succede, a volte. A me soprattutto. Davanti alla complessità dei pensieri che salgono a tormentarti durante le notti insonni, capita di cercare l’incredibile semplicità. La poesia soltanto può darti l’abbandono alla semplicità. Pasternak, nella poesia Le onde, dice: «Vi sono nelle esperienze dei grandi poeti / tali tratti di naturalezza / che non si può, dopo averli conosciuti, / non finire con una mutezza completa. / Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi / e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, / non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia, / in un’incredibile 3

semplicità. Ma noi non saremo risparmiati / se non sapremo tenerla segreta. / Più di ogni altra cosa è necessaria agli uomini, / ma essi intendono solo ciò che è complesso». Incredibile semplicità. Dormire per proteggersi. Imparentati a tutto ciò che esiste. Vabbè, mi sono riaddormentato. La mattina dopo ero al bar e ho avuto una specie di rigurgito. Intendo dire che mentre leggevo «Repubblica», le pagine interne dedicate all’emergenza rifiuti, il sogno mi è tornato a mente. E mi sono detto: e se Mercalli avesse torto? Voglio dire, lasciando da parte il nucleare, di cui non so molto, ma, dico, se Mercalli avesse torto proprio riguardo quella sua affermazione: un Paese che non riesce a gestire nemmeno i rifiuti come può pensare al nucleare? Meglio dunque ricorrere alle energie alternative, diceva Mercalli. E se fosse il contrario? L’Italia è piena di ottimi tecnici nucleari, di bravi ingegneri, di eccellenti scienziati, tanto bravi che sono un tipico prodotto da esportazione: perché mai non potremmo gestire il problema del nucleare? Voglio dire, la dichiarazione di Mercalli e l’applauso della platea di Che tempo che fa, compreso il mio assenso da casa, mezzo sdraiato sul divano, semiaddormentato, non erano forse il risultato di questa (malinconica) equazione atavica: dobbiamo fare qualcosa! Sì, ma cosa? E se, ancora, questo (ricorrente) ricorrere a soluzioni sempre un po’ astratte che mi sanno sempre di formula magica fosse solo un modo per non affrontare il problema? Ossia, evitare di fare i conti con le scorie? Applicare le ali è un impegno, presuppone «virtute e canoscenza». Operazione faticosa. Non è meglio ricorrere a una for4

mula magica? Pronunci la formula e il problema, prima così complesso, si avvia verso la risoluzione immediata: tutti d’accordo, si può andare a casa o andare a dormire. Parole magiche anzi parole amebe, come usa dire Uwe Porksen, linguista e medievista di Friburgo. Ossia quelle parole che per il troppo uso, diffuso e interclassista, hanno perso il loro significato originario, e dunque come delle amebe non hanno confini e tendono a inglobare tutto quello che vicino a loro si muove. Una parola ameba ha connotazioni molto forti e chi la usa diventa importante. È come un sasso lanciato in una conversazione, produce onde ma non colpisce nulla. Tuttavia, le parole amebe si mangiano le parole a loro vicine, ma anche verbi, aggettivi. Insomma il movimento logico del pensiero, con tutte le sue accelerazioni, cadute, digressioni, di fronte alle scorie, pur essendo così vitale, si blocca. Le parole amebe fagocitano l’analisi, prima quella grammaticale poi quella logica. Inglobano tutto e rendono possibile l’impossibile, come la magia. Energie pulite, per esempio. Parola magica (parola ameba)? Non ci libera forse dalla necessità di verificare se l’energia è sempre pulita? E se, invece, l’energia fosse sempre sporca e diventasse pulita solo dopo l’applicazione delle ali alle singole scorie? Fatto sta che c’è un ricorrente ricorrere (appunto) alle energie pulite – trovatemi un politico che rinunci a farsi fotografare su uno sfondo di pale eoliche (un ricorrente ricorrere di immagini di questo tipo). Allora io mi chiedo se tutto questo non è altro che un tentativo di pulirsi la coscienza. Che ci vuole? Basta ritenersi dalla parte giusta e pulita del mondo. E impegnarsi 5

a proclamarlo. In fondo lo sforzo vocale, nel proclamarlo intendo, ci esonera dall’offrire un contributo per la risoluzione di un problema. Tanto c’è la ricorrente parola magica – o ameba che dir si voglia – che ci toglie d’impaccio: c’è sempre. E mentre leggevo «Repubblica» (il giornale che leggo dal 1980 e al quale sono molto affezionato) mi venne in mente un elenco di parole magico-amebiche ricorrenti: decrescita felice, bei tempi di una volta, allevamenti biologici, coltivazioni biodinamiche, sinergiche, energie pulite, no rifiuti, no Tav, senza se e senza ma... E perché mi ossessionano? Perché mi suona come una sfiducia nelle proprie potenzialità individuali? E la questione delle ali? Non sarà che un Paese che non sa gestire le scorie (in senso lato), è un Paese che non si prende l’impegno di gestire un rischio? E se abbandoniamo la possibilità di calcolare e prevedere, torniamo a esporci tutti al volere degli dei? Siamo ancora sotto il cielo, condannati o protetti dagli dei? Del resto, il critico Alfonso Berardinelli, ha scritto che un giorno, visitando il Kunsthistorisches Museum di Vienna, si era trovato in mezzo a due quadri, uno di Giorgione, I tre filosofi, e l’altro di Bruegel, Il banchetto di nozze. Più guardava Giorgione e più pensava. Non riusciva a togliersi dalla testa una sensazione: l’Italia da quel quadro aveva deciso di non muoversi più. E perché muoversi se sulla terra piove una luce divina (che solo i tre filosofi però sembrano vedere)? Perché andare avanti se si è già perfetti? Non era così in Bruegel, con i suoi corpi goffi e gonfi di contadini che piegati sulla schiena lavorano nei campi. Due 6

concezioni del mondo a confronto: una natura perfetta da un lato (e quindi inabitabile) e una brutale e demoniaca, dall’altro (che bisognava modificare per abitarla). Dunque, ha vinto Giorgione? Una luce magica piove su di noi? Che, tradotto e modernizzato, vuol dire che è meglio rimanere immobili tanto nuovi miracoli sono a portata di mano? Energie alternative, decrescita felice, rifiuti zero. E se questa visione magica ricorresse spesso – perché questo è il dubbio che ti viene di notte – proprio nel pensiero di sinistra? Nel mio giornale e nel mio pensiero? E se fossero questi ricorrenti elementi a inquinare i sogni (nel senso più nobile e collettivo del termine)? Queste ali alle scorie si possono mettere oppure no? Devo fare qualcosa. Per capire, dico. Questo ho pensato quella mattina. Sì, indubbiamente è il momento di fare qualcosa. Sì, ma cosa?

Dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?

Nemmeno a farlo apposta. Quando cominci a fissarti su alcune questioni, poi quelle questioni si moltiplicano sotto i tuoi occhi. Il perturbante, come disse Freud. Strani segni che (stranamente) si ripetono con anomala costanza e accendono in te l’inquietudine. Qualche giorno dopo – dopo la notte insonne – scesi a Caserta per una presentazione. A Santa Maria Capua Vetere. Libreria Spartaco, per la precisione. Faticai un po’ a trovare la libreria, perché non c’ero mai stato, ma soprattutto perché davanti alla libreria c’era un muro di rifiuti. Una bella libreria, con un’ampia vetrata, pulita e ben illuminata, ma completamente oscurata dai rifiuti. Un muro così alto che il proprietario prima mi chiamò (sono sicuro di aver ascoltato un riverbero da eco: Antonio ooo per di qua aaa, ma forse è solo la deformazione romanzata) poi mi indicò con la mano il percorso che dovevo seguire per accedere in libreria. Dopo i convenevoli di rito con gli astanti e un po’ di chiacchiere necessarie sulla incresciosa situazione dei rifiuti, cominciò la presentazione di un mio vecchio libro: La manutenzione degli affetti. 8

Anni fa, durante un dibattito sui narratori del Sud, organizzato da Galassia Gutenberg a Napoli – eravamo io, Fofi, Saviano (prima di Gomorra) – mentre si parlava di una presunta superiorità della narrativa meridionale (superiorità in ambito civile) un narratore del Nord Est, Mauro Covacich che civilmente ascoltava, disse: per forza, voi avete il problema dei rifiuti e delle discariche, eh! Sfido io che fate l’impegno civile! Quando Mauro Covacich espose in maniera cruenta questo pensiero, ricordo che ci rimasi un po’ male. Quasi come se fossimo, noi del Sud, vittime di una condizione e dunque anche incapaci di raccontare altro: potevamo emergere e arrivare ai cuori delle persone solo se facevamo esplodere, magari amplificandola, questa condizione, di modo che l’impegno civile fosse chiaro. Lapalissiano. Ci liberavamo da un fardello denunciando il fardello, ma allo stesso tempo diventavamo poi vittime della nostra denuncia: hai le discariche a cielo aperto, come fai a non parlarne, la gente vuole sapere in che schifo di Paese vivi, o no? Denuncia il fardello e spera che il fardello non ti schiacci. Tuttavia Covacich non aveva colpa. Era quel dibattito a essere insensato. Fatto sta che colpa o non colpa, invece, in occasione della presentazione alla libreria Spartaco, come dicevo, una bella libreria, gestita da persone amorevoli e piene di passioni, cominciai a pensare che Covacich avesse ragione. Dietro di me c’era, infatti, un muro di rifiuti e io stavo lì a parlare di sentimenti in senso stretto. Quindi deviai il discorso verso il sentimento dei rifiuti, per così dire. 9

Finché mi limitai a denunciare l’orribile reale situazione, ebbi l’applauso di tutti. Poi però mi ricordai di Mercalli, delle scorie e del mio sogno: si possono applicare le ali alle scorie? Davvero siamo così incapaci di fare qualcosa? Li vogliamo togliere questi rifiuti, addormentati, viscidi e puzzolenti, davanti alla libreria? Anche perché, in questo caso, a differenza del nucleare, le scorie sono più facili da gestire. Basta infatti costruire e far funzionare bene un inceneritore. Ce la possiamo fare. Non appena pronunciai la parola «inceneritore» si scatenò un putiferio. La soluzione non era piaciuta agli astanti. Voglio dire, la soluzione non era nemmeno la mia soluzione, era la cosa più ovvia che può venire in mente a un cittadino che si trova sommerso dai rifiuti. Infatti, in genere, quel cittadino li brucia. In quei giorni, nemmeno a farlo apposta, quando i cumuli erano alti come un palazzo di un piano, qualcuno, stanco di questo andazzo (o per provocare altri spiacevoli andazzi), prendeva una torcia e bruciava la catasta. Si bruciano, insomma. La soluzione sembrava convergere su questa tecnica di smaltimento. Ma siccome bruciare i rifiuti per strada non è una cosa saggia, né buona e giusta, si è pensato, e non solo a Caserta, ma in tutto il mondo, di bruciarli in modo controllato. L’inceneritore, però, mi resi conto, non era la soluzione. Dobbiamo fare qualcosa, ma certo non l’inceneritore. Giusto, dissi io, fate bene a ricordarmelo, non esistono soluzioni definitive, diciamo che potrebbe, per il momento, fornire un utile apporto al problema. E qui, davanti alla parola «utile», fece la sua appari10

zione una figura che qui e ora, solo per comodità narrativa, chiameremo spettro. Anche lui, a suo modo, una figura perturbante. E inquietante, anche. E cioè: dicesi spettro il giovane di buona cultura, generalmente umanista, appena laureato, in Lettere o Scienze della comunicazione, e molto attivo nel sociale, forse anche ricco, sicuramente di buona famiglia, che ritenendosi dalla parte degli umili, i quali (secondo lo spettro) non hanno voce né cultura, prende le loro parti e poi contesta tutti, o quasi tutti, i processi d’innovazione tecnologica – quelli che riguardano l’agricoltura, le biotecnologie, le opere d’ingegneria, nucleare e non. Contesta perché ritiene pericolose siffatte innovazioni. Pericolose soprattutto per la gente umile. In questo caso, lo spettro suddetto, davanti o dietro, insomma, circondato dai rifiuti, contestava la soluzione «inceneritore». Una falsa soluzione. Rischiosa per tutte quelle persone che si trovano ad abitare nelle prossimità della struttura. – Perché? – Inquina, emette diossina. In tutta Europa li stanno chiudendo. – Ma sì, per aprirne altri. Più sicuri. Tutto inquina, bisogna vedere come gestire l’inquinamento. – No l’inquinamento degli inceneritori non si può gestire, ci sono le nanoparticelle, oltre la diossina. – Ma chi l’ha detto? – Grillo! Ora, non so voi, ma, scusate il bisticcio, ci sono in tutti noi dei punti di rottura. Oltre a essere come foglie tremule in inverno sugli alberi, siamo, in fondo, come dei cristalli che risuonano sì, ma solo alle giuste frequenze. Spesso si 11

rompono non appena la frequenza si alza. Il mio punto di rottura nella stragrande generalità dei casi scatta sulla nota Grillo. Nota ricorrente. In certi ambienti, «L’ha detto Grillo», ha sostituito la vecchia e cara frase «L’ha detto la televisione». Ma ditemi voi, è possibile che un comico conosca le nanoparticelle più di un fisico quantistico? È possibile che io cittadino debba fidarmi più di un comico che di un esperto d’ingegneria e chimica ambientale? In questo Paese, esiste o non esiste una scala di misura sui cui gradini possiamo non solo posizionarci per guardare il mondo, ma sulla base della quale decidere in che modo dobbiamo gestirlo, amministrarlo, ecc.? Esiste una scala di misura, magari elementare, della quale mi posso fidare? Insomma, è una questione di principio. Qui, contro queste frequenze fuori scala dobbiamo fare qualcosa! Sì, ma cosa? Nonostante i punti di rottura, in genere lo spettro insiste. E prova a cambiare tono. Accadde anche in quel caso. Visto che Grillo determina il mio punto di rottura e impedisce la discussione (in effetti divento abbastanza nervoso e intrattabile) cita un’altra fonte, insomma ci mette il carico da novanta: – L’ha detto Report! A questo punto, metto anche io il carico: Umberto Veronesi. L’illustre oncologo che ha dichiarato, proprio a Che tempo che fa, nella puntata del 20 gennaio 2008: gli inceneritori presentano zero rischio. È chiaro, mi dico, stiamo andando avanti a citazione, mentre fuori i rifiuti puzzano e una leggera brezza porta dentro la libreria il vero risultato di questa sfiancante di12

scussione sulle nanoparticelle, Report e Grillo, ossia, in soldoni: una puzza insopportabile. Ma non è ancora finita. Perché è chiaro che il giovane umanista non si fida di Veronesi, la sua fondazione è – mi dice – finanziata da una nota ditta di inceneritori. Da questo si evince, conclude lo spettro, quello che tutti sanno, e che uno scrittore come me che passa per essere uno civile non vuole vedere: Veronesi non è indipendente. Ma, dico io, è altresì chiaro – e mi rendo conto che abbiamo così le idee chiare che ci oscuriamo a vicenda –, è chiaro, dico, che il ragionamento può essere rovesciato: Veronesi, da scienziato, ha studiato il problema, e siccome ritiene che l’inceneritore non presenti rischi decide in maniera trasparente di accettare un finanziamento da ditte impegnate anche nel campo dell’incenerimento. Niente di nascosto, lo dichiara anche nel suo sito. Basta andare alla pagina «Partners», c’è l’Acea, l’Enel, l’Eni. Più di così. – Ma è chiaro che uno scienziato che accetta finanziamenti non può indagare a fondo sul problema inceneritore. Non è indipendente. Non è indipendente. Bene. Ma cosa ci fa presumere che Grillo lo sia? Possibile che non resti altro da fare che fidarci dell’indipendenza di Grillo? Dopo questa discussione in libreria, finita abbastanza male e che ha, poi, visto la mia fuga verso la stazione, anche perché la puzza era davvero insopportabile, ho cominciato, comodamente seduto in Eurostar, a riflettere sulla figura dello spettro. Scorreva davanti a me il paesaggio classico di certe zone campane, campagna e abusivismo, e sarà per una questione di contrasto ma mi tornava alla mente lo 13

spettro: giovane di buona cultura umanistica che si ritiene, naturalmente, dalla parte giusta del mondo. Di sinistra, ma non si identifica nella sinistra di partito. In effetti, a sentire le sue argomentazioni si direbbe un nostalgico del bel tempo che fu. O meglio, un reazionario, per il sospetto che nutre, fortemente nutre, per la modernità. Intanto scorrevano davanti ai miei occhi i quadri così poco idilliaci e per niente bucolici della campagna campana, vedevo muri di rifiuti delimitare le strade di campagna e sentivo la puzza dei rifiuti nelle mie narici; ero desideroso di togliermi dalla testa queste immagini cupe: dobbiamo fare qualcosa! Sì, ma cosa? Deciso a indagare sull’esistenza di questa benedetta scala di misura tarata sulle competenze, ho preso il cellulare e ho chiamato un mio amico che lavora nel campo dell’ingegneria chimica ambientale. Gli ho chiesto: – Ma questi inceneritori, voglio dire, se fatti bene, veramente producono diossina e avvelenano le persone? La sua risposta è stata, pressappoco, di questo tenore: se una puttana brucia un copertone in mezzo alla strada produce più diossina di quella emessa da un inceneritore. Poi, il mio amico ha cominciato a elencare i dati e a indicarmi documenti, cosa che spesso fanno i tecnici, ma che i letterati, anche quelli con curiosità scientifiche come me, tendono subito a dimenticare: solo in Italia la percentuale di rifiuti che va all’inceneritore è inferiore al dieci per cento, in Germania è superiore al venticinque. Superiore al trenta per cento in Olanda, Belgio e Francia. Superiore al quaranta per cento in Svezia; e superiore al cinquanta per cento in Danimarca. 14

I dati generalmente hanno il potere di rassicurarmi. Il concetto di scala del rischio è fondamentale. Come è importante ricordarci di quello che fanno quei Paesi che definiamo, nelle discussioni da bar, più avanzati di noi. Loro sì e noi no? E perché? Di chi siamo figli noi? Forse a partire dai tre filosofi di Giorgione abbiamo generato troppi spettri filosofi che ora si aggirano, impunemente, nelle discussioni? Fatto sta, pensavo, ora più rassicurato (d’altra parte il treno stava lasciando la Campania), che lo spettro sta diventando un problema perché, evanescente com’è, si appropria di ogni luogo e di questioni che non possono essere di sua competenza. Il giovane spettro è massimalista e ama la voce grossa, due metodologie che fanno purtroppo parte della comunicazione moderna. Il giovane spettro dichiara il suo no continuo: no rifiuti, no nucleare, no chimica, no Ogm. No erbicidi, per esempio, ho sentito una volta in un altro dibattito. Fanno schifo e inquinano e soprattutto sono prodotti dalle multinazionali. Veleni chimici! Però, in quell’occasione, Roberto Defez, biologo responsabile del Sagri (ovvero, salute, agricoltura, ricerca), e mio amico, fece notare allo spettro che alcuni erbicidi di ultima generazione sono a bassissima tossicità, tanto da non lasciare quasi residui. Insomma, il mondo si migliora anche studiando in laboratorio nuove molecole a basso impatto. È chiaro, rispose invece lo spettro. – È chiaro che un erbicida viene fuori dal ventre oscuro delle multinazionali, dunque, come fa a essere un buon 15

prodotto? Non puoi migliorare il mondo se questo è governato dal potere delle multinazionali. – Bene. Però, riflettiamo: un’agricoltura senza erbicidi richiede l’uso di mondine che si spezzano la schiena e strappano, naturalmente, le erbacce dai campi. Chi la fa la mondina? Io no, ve lo dico sinceramente a scanso di equivoci: non vengo. – Non c’è bisogno di fare la mondina. Basta seguire i criteri dell’agricoltura biologica. Eccola la parola magica, o ameba. Chissà perché e chissà quando, la parola «biologica» è diventata una parola magica. Chi l’ha fatto credere? Proprio perché sono contro le parole magiche mi sento di affermare: ma appunto! Le mondine esistevano proprio quando non si usavano gli erbicidi e, volenti o nolenti, per questioni di arretratezza, si produceva in regime di biologico. Per questo, venendo al dunque, chi è contro l’erbicida e vuole migliorare il mondo o studia chimica e cerca di produrre nuove molecole capaci di degradarsi con pochi residui oppure, non c’è altra scelta, bisogna necessariamente che si candidi a fare la mondina. – No, non è vero. E comunque, per farla breve, nessuno vuole fare la mondina. Non ci pensiamo proprio, né loro né io, anzi visto che ci siamo, aggiungiamo anche: no alla schiavitù. Come è bello quando le cose non costano, tutto gratis, basta dichiararlo: insomma, no dimostrazioni. Quella sera, prima di arrivare a casa e infilarmi a letto per crollare profondamente, pensai che in fin dei conti, un modo che abbiamo per vivere bene è quello di illudersi 16

che il problema è facilmente superabile. Abbassiamo l’ostacolo, eliminiamo le complicazioni pronunciando le parole magiche e poi ci premiamo per aver superato brillantemente l’ostacolo: no erbicidi, no mondine, no schiavitù. Poche cose, molti no, pochi sì convinti e più volte ripetuti. Sì che presuppongo soluzioni a venire, ancora da sviluppare. Palingenesi. Il tutto da ripetere svariate volte. In fondo è lo slogan dei comunicatori pubblicitari, con i quali però sia gli spettri di sinistra sia io non siamo d’accordo. Dunque, mi sono chiesto, chiudendo gli occhi: perché sposarne lo stile? Troppe domande complicate. Così l’incredibile semplicità del sonno mi ha vinto. Fino alle quattro e qualcosa. E qui, in questa dimensione di insonnia democratica, ho rivisto qualche mia posizione. Si diventa, del resto, più tolleranti di notte. Per paura della solitudine, credo. Si desidera essere amici di tutti. Così ho pensato. Però, in fondo, gli spettri sono i testimoni di un disagio, di una paura. Però, dobbiamo a loro se un’inquietudine è giunta fino a noi. Se la chimica, per esempio, è cambiata e ora è meno inquinante, se, secondo i dati Inail, il posto più sicuro per lavorare è il petrolchimico, lo dobbiamo a certi spettri che hanno detto no. Ma non solo a loro. Lo dobbiamo ai tanti chimici che si sono messi a studiare per meglio capire gli errori. Insomma, si sono applicati per gestire le scorie. Dobbiamo fare qualcosa perché questo Paese impari a gestire le scorie. Da ciò ne deriva che dobbiamo essere amici degli spettri e con loro discutere. Questo ho pensato durante le ore di insonnia. 17

Dobbiamo fare qualcosa assieme agli spettri. Sì, ma cosa? Ci vuole metodo! Se cercassimo un metodo comune? Sì, ma quale?

Un metodo a tre atti

Breve ma (credo) fondamentale digressione: alcuni teorici della narrazione – narrazione in senso lato – affrontano spesso quello che si chiama «modello a tre atti». Un modello vecchio come il cucco. È stato canonizzato da Aristotele. Il metodo sostituisce, in parte, e modernizza, l’altro modello narrativo: il viaggio dell’eroe. Più facile. Ulisse compie un viaggio e affronta delle prove. Durante il viaggio Ulisse non cambia. Il suo carattere, le sue inclinazioni restano le stesse di sempre: Ulisse è intelligente e astuto prima di partire, durante il viaggio e alla fine del viaggio. Magari è più o meno intelligente a seconda della prova che deve affrontare. La storia ruota attorno alla sua astuzia e noi lettori di volta in volta ci chiediamo: come farà il nostro eroe a uscire fuori dall’ennesima situazione difficile? Con intelligenza e astuzia, appunto. Il modello a tre atti prevede un cambiamento, una seconda opportunità. È un modello democratico (credo). Nel primo atto, il protagonista si sceglie o si crea un obiettivo: scoprire la causa della peste a Tebe, vincere la finale dei mondiali, conquistare la ragazza più bella della scuo19

la, ecc. Nel secondo atto il nostro protagonista fallisce il suo obiettivo, quindi, prima rinuncia, scoraggiato, all’azione, poi ci riflette, rivede i suoi errori, passa al contrattacco e nel terzo atto, generalmente, vince. È un modello elementare, una specie di matrice. Ora, i suddetti teorici, nell’esaminare il modello, sottolineano l’importanza del secondo atto, il momento nel quale il protagonista fa i conti con la propria coscienza, scopre che l’obiettivo dichiarato può essere sì raggiunto, ma soprattutto sollevato su un piano morale, più alto e nobile, se, e solo se, con coraggio e tormentosa autocoscienza, si affrontano i propri errori. Il secondo atto segna il momento della lotta: qui bisogna fare qualcosa. E la si fa davvero. Il grande Kurt Vonnegut, scherzando un po’ sulla questione dei modelli, ha cercato di visualizzare il percorso che l’eroe compie davanti ai nostri occhi. Riassumo. Si tratta di disegnare un sistema di assi cartesiani, ascisse e ordinate, e denominarle asse della fortuna e asse della sfortuna. Così: Asse fortuna

Asse sfortuna

Una favola famosa, Cenerentola, vede la protagonista, orfana, costretta a fare i conti con due sorellastre stronze e 20

una matrigna non da meno. La povera ragazza parte da sotto l’asse della sfortuna. È triste e per un po’ di tempo la sua vita segue un andamento rettilineo, anzi, con tendenza al ribasso, deve spazzare, servire a tavola... Sempre sotto l’asse della sfortuna. Finché si annuncia che ci sarà un ballo a corte. Come farà la nostra eroina ad andare al ballo? Come farà a risalire l’asse della fortuna e permettere così a noi di gioire del suo successo? La fata! Magia, e Cenerentola comincia a risalire l’asse della fortuna. Fino a un certo punto però, poi: no, è mezzanotte, perdo tutto, devo correre via. Di nuovo sotto l’asse sfortuna, anche se un po’ sopra rispetto al punto di partenza: in fondo ha ballato con il principe. Poi, la storia è nota, scarpetta e via di nuovo verso una fortuna esagerata. Asse fortuna

Asse sfortuna

Tanto per divertirci secondo la teoria di Vonnegut, lo schema della Metamorfosi di Kafka avrebbe questo andamento. Gregor, sveglio già da una notte inquieta, deve prendere un treno ma si rende conto che l’ha perduto. Non ha soldi. Insomma, parte anche lui come Cenerentola sotto l’asse sfortuna. Poi però apre gli occhi e si trova trasformato in un coleottero bruno. Coleottero e non sca21

rafaggio, ci tiene a dire Vladimir Nabokov (un ottimo entomologo) nelle sue lezioni di letteratura. Lo scarafaggio infatti ha forma piatta e grosse zampe, Gregor ha invece forma convessa da entrambe le parti (ventre e schiena) e zampe piccole. Sia come sia, coleottero o scarafaggio, la nuova vita di Gregor, da quando si risveglia, segue questo grafico. Asse fortuna

Asse sfortuna

David Mamet, tanto per citare uno che ha investito molte energie critiche per definire il secondo atto, sostiene che quelle narrazioni dove il secondo atto è carente danno vita a un’arte blanda. Nel senso che, quando la nostra parabola perde forza e va in picchiata (siamo tentati o) preferiamo affrontare la crisi del secondo atto appoggiandoci alla fatina. Cenerentola, infatti, risolve i suoi problemi grazie alla fata. Dunque il secondo atto è inesistente. Al contrario, in tutte le narrazioni serie, il secondo atto si tiene alla larga dalla magia, rigetta la soluzione facile. Il secondo atto necessita di bilanci amari. È il momento in cui a prevalere è l’inquietudine conoscitiva, il ragionamento lancinante. L’eroe arretra, ammette di essere stato 22

troppo arrogante o presuntuoso e si rimbocca le maniche cercando e seguendo quelle tracce che prima, nell’euforia dell’impennata (evviva la fata mi porta al ballo), non aveva preso in considerazione. Vuole tornare a cavalcare l’asse della fortuna, sì, ma il nostro eroe comprende ora che non è tanto importante mantenere la dichiarazione d’intenti; quello che davvero importa è la nuova strada scelta per raggiungere l’obiettivo. Una strada nuova, cioè, in fondo, una maniera diversa di percepire e dunque di organizzare la nostra conoscenza del mondo. Secondi atti siffatti sono benvenuti. Accrescono la nostra coscienza intima. Ecco, mi sono chiesto una mattina al bar – mentre scorgevo dei (terribili) titoli di «Libero»: cosa penserebbe un serio teorico della narrazione se dovesse esaminare il carattere italiano? Come valuterebbe l’andamento della narrazione? Probabilmente arriverebbe alla conclusione che manchiamo di un serio secondo atto. Siamo un popolo che ama le grandi dichiarazioni retoriche che colpiscono il cuore e, contemporaneamente, preferisce risolvere i conflitti a tarallucci e vino. Siamo emotivi, a volte fortemente empatici. Un’emozione e cambiamo idea. La partita la vince dunque colui (o coloro) che si mostra forte, capace di parlare in maniera tronfia e diretta al cuore. Ma, alla fine dei conti, così ci portiamo solo un po’ più in alto sull’asse della fortuna. Cosette da primo atto, così tralasciamo gli inevitabili conti con la realtà, tutto precipita. Oh, come sono sfortunato. Poi c’è il vuoto, un lungo tempo morto, finché non arriva un’altra promessa: forza, ti riporto io al ballo, con una 23

nuova carrozza, più bella, luminosa. Altra cavalcata, gioia fino a quando: merda, ma pure questa carrozza non funziona. Vuoto, gelo e altra promessa all’orizzonte. Asse fortuna

Asse sfortuna

Ora, tanto per applicare lo schema narrativo e nello stesso tempo tornare a volare basso: che è successo coi rifiuti? A Napoli, Caserta e provincia, i rifiuti non sono più nelle strade o almeno non invadono le strade principali. Eppure fino a poco tempo fa, leggevo svariate dichiarazioni di politici, amministratori, esperti che affermavano: ci vorranno almeno dieci anni per liberarsi da questi rifiuti. Cosa probabilmente vera. Eravamo posizionati molto in basso, sempre con riferimento all’asse sfortuna. Così, amministratori, politici, esperti discutevano sul da farsi. Come risalire? Termovalorizzatori (pardon), inceneritori no, oppure sì, magari forse fra un po’. Differenziata? Nuove discariche? Riflettevamo sulla questione, ma ci muovevamo sempre sotto la linea sfortuna. Esempio. Se, qui e ora, non bruci i rifiuti negli inceneritori – sviluppando la necessaria quantità di diossina e nanoparticelle – non ti resta che scavare delle discariche e in queste tumulare i rifiuti. E 24

infatti. Infatti, voglio dire, a un certo punto della storia scandalo rifiuti, proprio per interrare quintali e quintali di rifiuti, sono stati individuati dei siti. Uno di questi era in Irpinia. Non so se voi siete mai stati in Irpinia. Io sì. Se non l’avete mai fatto, e non avete nei prossimi anni intenzione di visitarla, fate male: è un posto particolare, particolarmente suggestivo. Se, tuttavia, volete farvi un’idea senza muovervi, potete leggere i bei libri di Franco Arminio, poeta e scrittore e, come da sua personale definizione, «paesologo». Studia le dinamiche dei piccoli borghi disabitati. Sono libri belli. Dai quali si ricava, tra le altre cose, che una certa parte dell’Irpinia è vuota. Colline coltivate a grano. Ore e ore di solitudine. Ebbene, questo spazio vuoto, quasi disabitato, è stato scelto per una discarica. Al Formicoso, precisamente. C’è tanto spazio, non ci sono abitazioni, quindi perché no? Ebbene, l’intera provincia si è ribellata. Abbiamo già una discarica che accoglie i nostri rifiuti, perché sacrificare la terra d’Irpinia per aggiungerne un’altra che dovrebbe accogliere i rifiuti degli altri? La cosa particolare è che proprio Franco Arminio è stato tra i promotori della rivolta contro la discarica. La cosa ancora più particolare è che quando è salito su un palco, improvvisato dopo l’affollata manifestazione, e ha arringato le persone con il megafono, un cameraman, che ha ripreso l’evento, volendo fare una carrellata per inquadrare l’insieme ha mostrato un po’ a tutti il paesaggio: uno spazio vuoto che si stendeva attorno alle persone per chilometri e chilometri. Uno spazio siffatto o lo coltivi a gra25

no, o (Dio non voglia) lo urbanizzi oppure lo utilizzi per una discarica. Ti fai pagare e distribuisci i proventi per la manutenzione del paesaggio. Niente di tutto questo. Neanche Vinicio Capossela che ha cantato contro la discarica ci aiuta poeticamente a risolvere la questione. Neanche lui è riuscito a offrirci una soluzione se non quella magica che va sotto il nome di: «rifiuti zero». Il che significa, sempre nell’ottica della narrazione, prevedere l’intervento della fata, come in Cenerentola, o saltare direttamente al terzo atto. Rifiuti zero è a tutti gli effetti una proposta che vale zero. Prima di venire attuata ce ne passa di tempo, bisogna prima decrescere, felicemente anche, poi cambiare i regolamenti per gli imballaggi (troppo voluminosi e inutili, lo penso anche io, ma credo, purtroppo, che il mondo vada verso un packaging sempre più spinto), poi abituare persone variopinte e di diversi strati sociali a consumare con criterio, ecc. Troppe questioni. Che, con lo stesso principio dei pensieri durante l’insonnia notturna, vengono a galla, mantenendo lo stesso grado di rappresentanza, senza ordinarsi per file di priorità, e richiedono di essere affrontate tutte con uguale impegno. Alla fine le questioni sul tavolo – e solo per quanto riguarda i rifiuti – sono così tante che, nella fattispecie anche io pensavo, dopo aver discusso con gli spettri, nemmeno fra dieci anni le risolveremo. L’incredibile complessità della vita nei confronti della quale non c’era poesia che tenesse. Linea piatta. Sfortuna. Poi Berlusconi ha tolto i rifiuti di mezzo. La nostra li26

nea della fortuna sale, sale, come durante la festa di Cenerentola. Ma un momento, viene da chiedersi durante le notti insonni, scoccherà prima o poi la mezzanotte? Ci ritroveremo spogliati da tutti i vestiti? A rigor di logica dovrebbe iniziare il secondo atto. Il momento nel quale, spinti dalla picchiata, ci chiediamo – e lo facciamo tutti insieme, amministratori, esperti, poeti, cantautori e grillini, spettri, ecc. – ma se ci volevano dieci anni per liberarsi da questi rifiuti ora dove sono finiti? Si sono volatilizzati? Sono partiti via treno merci per la Germania, sono interrati in qualche discarica? Domande importanti. Secondo atto, appunto: come dobbiamo esaminare e risolvere la questione rifiuti? Invece abbiamo fatto un salto. Nemmeno alla maniera di Majakovskij commemorato da Pasternak: «Tu dormivi, spianato il letto sulla maldicenza dormivi / e cessato ogni palpito eri placido, bello, ventiduenne, / come aveva predetto il tuo tetrattico. Tu dormivi stringendo al cuscino la guancia, / dormivi a piene gambe, a pieni malleoli. Inserendoti ancora una volta di colpo nelle leggende giovani, / tu ti inseristi in esse con più forza / perché le avevi raggiunte con un balzo. Il tuo sparo fu simile a un Etna in un pianoro di codardi. / E di codarde». Non quel tipo di salto. Nessun salto esplosivo in un pianoro di codardi (quell’incredibile semplicità?). Un genere di salto più innocuo e di sicuro meno costoso. E invece siamo finiti dritti dritti al terzo atto. Non ci sono più rifiuti. Dove sono? Infatti il grafico evidenzia, appunto, la mancanza del secondo atto. 27

Asse fortuna

Asse sfortuna

Naturalmente a questo punto della narrazione, la domanda: ma dove sono finiti i rifiuti? Dove sono finite le complesse questioni che abbiamo affrontato, litigando e dandoci degli spettri a vicenda? La diossina? Le nanoparticelle? I vaffanculo? Queste domande pleonastiche (diceva la mia professoressa) arrivano fuori tempo massimo. Appunto. Si possono fare delle congetture, ma impegnarsi a provarle, qui e ora, non ha senso. Le strade sono pulite, no? Quindi pensiamo ad altro, facciamo un salto altrove. Un altro. Non dobbiamo più preoccuparci, almeno fino alla prossima crisi. Ora che la città è libera che facciamo? Ci mettiamo a combattere per la raccolta differenziata? Per la costruzione di termovalorizzatori? Tutto questo non costa fatica? Meglio pensarci ancora un po’. Abbiamo fatto tutto questo. Saltato il passaggio intermedio, quello analitico, appunto, e siamo arrivati direttamente al terzo atto. Mica ora che il conflitto è risolto torniamo indietro? Ma no dai. C’è tempo. Fino alla prossima crisi. Perché se i rifiuti non sono spariti tramite bacchetta magica, di sicuro, dopo la mezzanotte, torneranno. E come li accoglieremo? Con ritardo. 28

Siamo un popolo da primo atto che indirizza tutta la propria stupefacente creatività nelle dichiarazioni di intenti e poi, fisiologicamente avendo, come dire, consumato molta benzina nel primo atto, rinuncia via via all’analisi che, come si sa, è faticosa, frustrante, richiede tenacia e competenza, ecc. Qui, cari spettri, dobbiamo fare insieme qualcosa per affrontare il secondo atto. Sì, ma come?

Cosa consigliano i drammaturghi?

Cautela. Cautela e metodo. Calma, per prima cosa abbassiamo il tono delle nostre dichiarazioni: se partiamo da ipotesi più plausibili, più concrete, poi non ci sembrerà così difficile affrontare il secondo atto. Cerchiamo di conquistarcelo il consenso, senza però estorcerlo. Non promettiamo miracoli. Possiamo farcela. Abbiamo i migliori scienziati, bravi tecnici, persone abituate a ragionare in termini di costi-benefici. Bilanci, non chiacchiere. Vero, no? Stabiliamo un parametro di riferimento: il bene comune e poi cominciamo a ragionare sulle variabili. Sì, ma come? Siamo un popolo di poeti e santi, poi, in ultimo, di navigatori. È la nostra natura. Voglio dire, salpiamo sempre con grandi discorsi e dichiarazioni solenni. Se il viaggio si fa accidentato, impervio e difficile, noi continuiamo sempre e comunque a proclamare con toni accesi che tutto va bene. Non va affatto bene così, scusate il bisticcio. I teorici della narrazione rivelano in casi siffatti un errore di procedura. Bisogna fermarsi e riflettere, indagare la natura del viaggio. Il fatto è che manchiamo di metodo, narrativo e non. Come quando consoliamo qual30

cuno che sta male: va tutto bene gli diciamo, non preoccuparti. Lo vogliamo convincere, in pratica, che non sente dolore. Ma perché? Perché siamo in grado di accogliere quel dolore oppure non abbiamo intenzione di sopportarlo? Qual è la risposta? Ma chissà se posso davvero rispondere. In fondo sono della stessa pasta degli spettri. Nasco o non nasco dall’oscuro ventre italiano? Ma a proposito di viaggi o percorsi più o meno impegnativi. Magari è una mia impressione. Di sicuro troppo personale per trasformarla in elemento statistico. Da una quindicina d’anni (da quando soffro di meteoropatia), abbiamo detto addio alla vecchia Repubblica. Abbiamo dichiarato (primo atto): via dalla corruzione. Via da quella politica democristiana sotterranea, oscura, avvilente, invasiva, virale. Via anche dagli anni craxiani, dai garofani rossi e dal corpo dell’allora premier, Craxi, in trionfo, dopo i discorsi ai faraonici congressi del Psi, camicia bianca e canottiera in trasparenza. Via dalle serate in discoteca di De Michelis. Via da tutto questo. D’ora in poi mani pulite. Tutti d’accordo. Il cappio della Lega in Parlamento, il titolo dell’«Indipendente», diretto allora da Vittorio Feltri, subito dopo la mancata autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi (30 aprile 1993): «Hanno vinto i ladri». Via. Ma sì, mani pulite. La bufera di Mani pulite, la rivoluzione di Tangentopoli, inchieste in tutta Italia, in ambito nazionale, provinciale, comunale, locale. D’ora in poi si cambia. Speranze. Annunci. Salpiamo dallo stesso porto, tutti d’accordo. Nemmeno il tempo di riflettere un po’, 31

di darci regole solide e condivise che Berlusconi annuncia la sua discesa in campo. È il 26 gennaio 1994: «L’Italia è il Paese che amo. [...] Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme per noi e per i nostri figli un nuovo miracolo italiano». Ho l’impressione che allora siano cominciati addirittura gli squilli di tromba. Tutti annunciano qualcosa, nel bene e nel male. Nel ’94 qualcuno disse: «Forza Italia è un partito di plastica, durerà quattro mesi». Già, una fine imminente. E gli annunci non sono solo di questo tipo. C’è chi annuncia la fine del mondo, l’apocalisse, l’imminente arrivo di un milione di posti di lavoro, niente più tasse, un Paese in ottima forma, un Paese in profondissima crisi. Risultato? Impressioni? Narrativamente parlando, dico. Siamo sempre al primo atto, il protagonista di turno promette di risolvere ogni cosa al più presto, oppure, nell’altra versione, quella, diciamo così, dell’opposizione, il protagonista (generalmente un intellettuale) già arreso agli eventi indomabili, alle nanoparticelle, alla diossina, proclama che non c’è più niente da fare, che non è più possibile sognare, che non resta che aspettare la fine del mondo, la catastrofe globale. Nobili dichiarazioni di intenti. Sempre quelle. Gesti di vanità. In un modo o nell’altro: o inizia un nuovo mondo, grazie a me. O finisce. E ve ne accorgete grazie a me. Ora, una confessione. La mia percezione di questa tendenza alla nobile dichiarazione d’intenti si è fatta più acuta a partire dal febbraio 1996. A seguito di un episodio che da allora è diventato per me ossessivo. In quel periodo, e per un po’ di mesi a venire, ho incontrato solo ragazze che 32

piangevano. Motivo? Avevano appena finito di ascoltare una canzone di Battiato: La cura. Se solo chiudo gli occhi ho chiara la mia immagine. In macchina ci sono io e delle mie amiche. È sabato, siamo proprio in quello specifico momento che Tom Waits canta in una canzone del 1974, (Looking for) The Heart of Saturday Night. E cioè, la preparazione al sabato sera, l’attesa della domenica, quel senso di pace e naturalmente la radio accesa: Battiato cantava e le mie amiche mi chiedevano di alzare il volume: alza, alza! Battiato cantava: «Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto, [...] supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare, perché sei un essere speciale e io avrò cura di te!». Poi la canzone finiva, io abbassavo il volume e notavo con la coda dell’occhio che le mie amiche mi stavano guardando. Storto. Volevano dirmi: tu non sei così! Ma come si fa a essere così? Avevano ragione, non ero così, ancora oggi non so cosa significhi tessere i capelli come trame di un canto. Però ammiravo Battiato (lo invidiavo), ma nello stesso tempo ne ero ossessionato, tutte quelle amiche che piangevano. E mi guardavano storto. Ho cercato dapprima soccorso nella poesia. Un modo per ribattere. Non so tessere i capelli come trame di un canto, ma so capire la poesia e posso dedicarla a te, donna. Forse però sceglievo poesie che non funzionavano abbastanza, una di Pasternak, si intitolava Amare gli altri è una pesante croce: «Amare gli altri è una pesante croce, / ma tu sei bella, senza ghirigori / ed il segreto della tua vaghezza / è l’enigma risolto della vita [...]. È facile svegliar33

si e vedere chiaro, / spazzare dal cuore il pattume verbale / e vivere senza intasarsi in anticipo. / Tutto questo è solo una piccola scaltrezza». Credo che sbagliassi poesia. Insomma, la piccola scaltrezza, quell’incredibile semplicità. In fondo concetti sommessi. Qui Battiato diceva: «Avrò cura di te, guarirai da tutte le malattie». Là i manifesti elettorali di Berlusconi promettevano in quel periodo il nuovo miracolo italiano. In mezzo a chi mi mettevo? Allora, ho cercato di seguire il consiglio dei teorici della narrazione, volevo affrontare il secondo atto. Nello specifico: esaminare il concetto di cura. Ecco quello che ho scoperto nella mia personalissima analisi. Per prima cosa, la cura presuppone un sistema di potere, all’interno del quale c’è chi cura, dunque è sano, e chi riceve le cure, dunque è malato. Chiaramente non stiamo parlando di un malato che cade e deve essere raccolto, stiamo parlando (facendo metafora) di un rapporto d’amore-potere in cui i ruoli sono sempre così ben definiti da apparire immutabili: chi cura e chi ha bisogno di cure. Messa in questi termini, La cura mostra anche delle ingenuità teologiche: chi cura è convinto di poter eliminare il male che c’è in te, purificandoti. I fanatici della politica estera americana hanno pensato, per esempio, di purificare l’altro dal male, invadendolo con il proprio bene. Un’ingenuità teologica, dicevo. Del resto, anche i bambini che fanno catechismo lo sanno: il diavolo c’è. Si può solo combattere. Mica lo puoi eliminare. Come la diossina, le nanoparticelle, i rifiuti, le scorie. Si possono, al massi34

mo, gestire. Del resto dice questo anche la prima lezione che impari quando frequenti un corso di stechiometria. Nessuna reazione avviene con una trasformazione completa. Restano sempre delle scorie. Come i sentimenti, del resto. Per questo Pasternak diceva che amare gli altri era una pesante croce. Ma La cura, ed è il secondo punto, presuppone anche l’assenza della responsabilità individuale, cioè (la cura), sembra suggerire continuamente: senza la mia cura non ce la puoi fare, non ti puoi alzare. Un sistema di potere chiuso, quindi, come tutti i sistemi di potere chiusi, ha bisogno per alimentarsi di un costante uso di retorica («Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore»). Te lo devo proprio far credere. E quindi, per primo devo crederci io. Se io mi illudo poi illudo anche te. Come è bella questa illusione italiana, sempre divisa tra due poli estremi: i rifiuti sono così tanti che è impossibile liberarcene, oppure: ci penso io, dieci giorni e passa la paura, però, per favore, non fare domande. Ma se fosse una questione di parole? Di significato? Di etimo. Forse dobbiamo sostituire la parola «cura» con la parola «manutenzione». Immagino che chi pratichi la manutenzione non possa dire: «Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto», il suo rapporto con il prossimo è più pratico, umile, sarei tentato di dire, più democratico: senti, hai qualcosa nei capelli, mo’ te la tolgo. La cura è una dichiarazione di potenza, la manutenzione è una dichiarazione di limiti: più di questo non posso. Non posso tessere i tuoi capelli come trame di un canto, mi so alzare solo sulle punte ma te lo devo proprio dire a 35

costo di rovinare tutto: rischio di inciampare o rompermi le dita dei piedi e le correnti gravitazionali le conosco così e così. Tutti a prendere in giro Berlusconi. Il partito di plastica, la calza sulle telecamere per non fare vedere le rughe. La poesia di Battiato da un lato e la grezza scaltrezza del cameraman dall’altro. Tutti a prendere in giro Berlusconi. Anche io. E poi ci commoviamo ed entusiasmiamo quando qualcuno promette vita eterna. Magari mi sbaglio. Preso come sono dalla mia antipatia per quella canzone. Ma gli spettri, durante la notte, mi fanno notare che la mia, è solo invidia. Si insinuano nei miei pensieri così ordinati per dirmi: ma dai, nell’ottica dei tre atti, quella dichiarazione di cura forse è giusta. È bello avere un uomo (o una donna) affianco capace di individuare le tue fragilità (le rughe, la paura di invecchiare). È bello che quest’uomo ripeta a se stesso come un mantra che rispetterà e curerà le tue fragilità. In amore che c’è di male ad affidarsi al potere di qualcuno? E poi è solo una canzone, suvvia. L’unico strumento che abbiamo per esprimere sentimenti folli. Qui intorno è tutto così ordinato, razionale, meccanizzato. Dacci almeno la possibilità di sognare. Un po’ di follia è un diritto. Nel primo atto la follia è necessaria. E se a darmi così fastidio fosse il fatto che, sotto sotto, ci vedo qualcosa che si ricollega alla religione? Mi chiedo da sveglio – oramai ho perso il sonno. Parlo, cioè, dell’abbattimento, per così dire, del senso di responsabilità individuale. Abbattimento provocato, appunto, dall’idea di cura. Potrebbe trattarsi di una religiosità sui generis, diffusa anche tra quelli che non sono proprio religiosi. 36

Che posso fare io come persona se sono malato e devo essere curato? Sono malato, il mondo è malato, li vedi i rifiuti, le nanoparticelle, le vedi le scorie nucleari? Siamo un Paese incapace di gestire i rifiuti, come possiamo pensare al nucleare? Anche io applaudo. Non ce la possiamo fare, siamo troppo sotto l’asse sfortuna. Dunque, qual è il rimedio? Non ci mettiamo proprio mano, lasciamo che lo facciano altri, sono più bravi di noi. In fondo il grafico parla chiaro, partiamo da troppo in basso, ci vuole energia e carica per cominciare a salire. Tutto fa dunque presagire che prima o poi arriverà qualcuno con la sua giusta dose di follia per curarci dai nostri malanni. Forse Battiato intendeva dire questo? Cioè, in fin dei conti, quella canzone non è mica dedicata a una donna, ma a se stesso. È la (bellissima) canzone di un misantropo. Meglio rifletterci un po’ su. Ma su cosa? Ah, ma poi, mi dico, cercando di reagire agli spettri notturni: ammesso che esista un uomo capace di sollevarci al di sopra delle correnti gravitazionali, dopo, dopo il volo, noi cosa siamo disposti a dare in cambio a un tipo così? Gratitudine, riconoscenza eterna. Magari me lo sposo. E se mi porta, più prosaicamente e meno poeticamente, con volo privato (o di Stato) in Sardegna? Per una festa con tanta bella gente? E se questo tipo poi si presenta anche alle elezioni? Lo voto. Come minimo. Si prende cura di me. Mi solleva in alto. Mi rende migliore di quello che sono. Mi solleva dalla categoria degli sfigati – categoria comunemente intesa «a sinistra». 37

Il fatto è che il terreno è già da tempo arato e siamo sensibili al primo atto. Troppo ben predisposti. Per questo i teorici della narrazione consigliano cautela. E metodo. E analisi costante. C’è passione e follia anche nell’analisi. Peccato che questo tipo di follia è difficile da cantare. Bisognerebbe prima o poi provarci, però. Altrimenti la situazione si aggrava. Qua bisogna fare qualcosa. Sì, ma cosa? Mah. Il massimo che in questo momento mi viene in mente è un consiglio: bisogna alzarsi da soli, con le proprie forze. E non fa niente se non si raggiungono le correnti gravitazionali. E alziamoci. Ma come?

Intermezzo: la dea Cura

Mi viene in mente anche un’altra cosa sulla cura. Ma è più una fissazione da filologo dilettante. C’è un’antica parabola che ci introduce alla dea Cura. Quella dea che sembra avere una presa potente sulla umana natura. Da millenni. La racconta molto bene Robert P. Harrison nel suo Giardini. La riassumo: la dea Cura stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso. Pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre era intenta a stabilire che cosa avesse fatto, intervenne Giove. Cura lo pregò di infondere lo spirito a ciò che aveva fatto. Giove acconsentì. Ma quando la dea Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la dea Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto venisse imposto il proprio nome, perché aveva dato a esso una parte del proprio corpo. I contendenti allora elessero Saturno a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente, giusta, decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte ri39

ceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo riceverai il corpo. Ma poiché tu, Cura, per prima hai dato forma a questo essere, finché esso vive lo possiederai. Il nome? Si chiami Homo poiché è fatto di humus». Qui si apre una discussione. Stabilito che a Giove spetta lo spirito dell’uomo, ma – attenzione – dopo la morte, alla Terra spetta il corpo dell’uomo, ma anche qui, dopo che la morte lo ha disfatto, alla Cura spetta l’uomo durante il suo percorso materiale. Stabilito questo, si deve però pensare che siccome l’uomo nasce dalla terra, per un naturale sillogismo è la terra la prima destinataria della Cura. Gli esseri umani, presi dalla Cura, sentono il bisogno irrefrenabile di dedicarsi a qualcosa. Alla terra. Alla sua coltivazione. Ora, stabilito ancora che lo spirito va a Giove, dopo la morte, e il corpo ritorna alla Terra, è chiaro che la cura della terra riguarda l’uomo vivo e la coltivazione di un giardino, esempio di dedizione a qualcosa, richiede una tecnica che nasce dall’uomo stesso. Questi giardini sono così diversi dai giardini divini, perché conservano l’impronta umana (lo spirito a Giove dopo la morte). Ora il racconto della creazione (il racconto del genere umano) e quello della dea Cura presentano parecchie affinità. E qualche differenza. Marcata. Se infatti Dio avesse voluto fare di Adamo ed Eva i custodi del giardino dell’Eden, avrebbe dovuto crearli come creature in grado di prendersi cura di qualcosa, invece, chissà, per un istinto di protezione, Dio li ha esentati dalla cura del giardino. Quando mangiarono la mela (o il fico o la melagrana) lo fecero assecondando un desiderio di arroganza? Di trasgressione? Non sembra. Fu un gesto compiuto senza 40

paura, senza drammi, senza sensi di colpa. Con assoluta noncuranza. Appunto. Ciò dovrebbe significare che i giardini perfetti non contengono la cura. Lì, in quei luoghi, infatti, il concetto di realtà non entra. Quei doni non ci riguardano veramente. E il giardino dell’Eden era un dono che non ci riguardava. Solo con la caduta abbiamo acquisito il senso della realtà e l’idea della Cura. Cosa dovrebbe significare ciò? Che gli esseri umani devono trattare con noncuranza ogni dono che ha la pretesa di essere perfetto e incorruttibile. O le soluzioni che hanno il medesimo segno. Quest’uomo, perlomeno durante il passaggio sulla terra, dovrebbe essere più sensibile all’imperfezione che alla perfezione della creazione, più accogliente verso qualunque proposta che contenga quelle umane (e calcolabili) scorie piuttosto che alle proposte confezionate usando molti aggettivi superlativi. Insomma, meglio cadere che rimanere prigionieri del giardino dell’Eden. Meglio gestire le scorie presenti che sperare in un ritorno al passato.

Torniamo a noi?

Ma torniamo a noi. In fondo è così. Come piacciono, a noi italiani, le persone che curano. Non tenere pensieri, ci penso io: sono quel genere di affermazioni che ci rassicurano. Una strana miscela. Due elementi che si combinano: il senso di depressione cronica da presunta incapacità all’azione e – manco a dirlo – l’attesa di qualcuno che ci faccia sognare. Una combinazione perfetta per un ottimo primo atto: non ce la posso fare con le mie forze e sto qui a discutere tristemente sulla mia incapacità, quando ecco che... Ho ricordi che affondano nella prima infanzia; mi affiorano alla mente pezzi di discussioni tra amici, parenti. Tutti che andavano nella stessa direzione: qui dobbiamo rivolgerci a qualcuno che conta. E certo, mi dicono, tu sei del Sud, familismo amorale. Ne hai sentito parlare, no? Avrai almeno studiato un po’ di sociologia? Hai letto l’indagine condotta tempo fa dal sociologo americano (poi consigliere di Nixon e Reagan) Edward C. Banfield? Assieme alla moglie visita i paesini lucani e ne trae una conclusione. La espone in un libro, Le basi morali di una società arretrata. Massimizzare i vantag42

gi materiali e immediati della famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Di questo si tratta. Familismo amorale del Sud. Mah! Il familismo è amorale solo al Sud, al Nord diventa utile strategia di potere. Ma ditemi voi, perché poi le famiglie del Sud sono amorali e quelle del Nord sono potenti? È un po’ come la differenza tra poveri e ricchi rispetto al problema droga: i poveri sono deboli e quindi si drogano, i ricchi fanno esperienza della droga. Ma è questo il punto? Non sarà piuttosto atavica sfiducia nelle nostre potenzialità individuali? Abbiamo bisogno di una famiglia di riferimento (che sia abbastanza potente). Intendiamoci, siamo vanitosi, al limite della presunzione, ma siamo stati abituati fin da piccoli che da soli non andiamo da nessuna parte. Seguire le regole non paga perché troppo complessa e potente è la burocrazia. Perciò c’è bisogno della famiglia, l’orto, il feudo di riferimento. Bisogna trovare qualcuno che conta, quello che ci risolva il problema. Ergo, ci piacciono le persone che curano. Ergo, nella vita conviene specializzarci: o ci assumiamo il ruolo del curatore o quello del bisognoso. Nel primo caso, il lavoro sta tutto nel diventare abili retori e gestori ad libitum del primo e del terzo atto. Nel secondo caso, bisogna fare poco: sfruttare l’invidia e trasformarla in benevolenza verso il nostro salvatore. Ho ricordi che affondano nell’infanzia, mannaggia. Così forti che mi condizionano anche oggi. Esempio, devo iscrivere mio figlio alla scuola media, pubblica, si intende. Solita storia. Mia moglie va a prendere informazioni e torna cupissima. Solita storia, dice: quelli raccomandati an43

dranno nelle sezioni migliori, troveranno bravi professori, attenti. Quelli raccomandati avranno maggiori possibilità rispetto agli altri. Noi che vogliamo fare? Dice lei. E che vogliamo fare? Dico. Ipotesi di mia moglie: informati un po’, vedi se conosci qualcuno che ci può risolvere questo problema. Tesi mia in risposta: non conosco nessuno e non voglio conoscere nessuno. Ribattuta di mia moglie: quindi non vuoi impegnarti affinché tuo figlio abbia almeno una possibilità in più. La possibilità che tu stesso non hai avuto, hai fatto scuole pessime, tanto è vero che non sai nemmeno se biblioteca si scrive con una b o con due. Una dico io, convinto. Ma mi sono buttato a indovinare, effettivamente ho fatto scuole medie orribili (orri... con quante b?), dai salesiani. E abbraccio, con quante b, mi chiede ancora? Faccio finta di non aver sentito. Il discorso continua, passiamo alle accuse, dunque la metto sul piano etico: l’Italia non cambierà mai se noi per primi non cambieremo, dobbiamo risolvere il problema alla radice, se riusciamo a garantire una buona scuola a nostro figlio solo passando per la raccomandazione togliamo il posto agli altri; se tutte le famiglie stanno facendo questo stesso ragionamento in questo momento, vuol dire che stanno cercando un uomo capace di risolvere il problema, un curatore. E perché lo cercano? Perché si ritengono malati, pessimisti, incapaci di risolvere la questione entro la legalità. Alla fine del gioco sai chi vince? Berlusconi. Qui mia moglie mi fa l’applauso e mi dice: allora se sei coerente, adesso vai dalla preside e le fai questo bel di44

scorso; ti metti davanti al suo ufficio e controlli che nostro figlio abbia la stessa possibilità (quante b, mi chiede? Io faccio vedere che sono concentrato su un piano più alto e mi chiedo quante b?) degli altri, ovvero che le estrazioni vengano davvero fatte a sorte. Vai! Dimostra a tuo figlio che suo padre crede seriamente nella legalità. Fai un po’ di manutenzione, altro che discorsi pomposi sull’etica. E vado a parlare con la preside. Lei mi rassicura con belle parole e io mi rassicuro a mia volta. Come è semplice, penso. La legalità. Esco fuori e incontro un’amica che mi confida un segreto: ci stiamo impegnando per fare andare nostra figlia con i professori migliori, perché, è chiaro, le sezioni non sono tutte uguali e sai perché? Perché siamo in Italia, ci sono quei professori bravi che fanno bene il proprio dovere e quelli che bravi non sono. Così mi dice la mia amica e continua: perché dovrei lasciare mia figlia in mano a professori ignoranti? La scuola media è importante, se non correggi gli sbagli adesso te li porti dietro fino a che campi. Mia figlia non sa ancora la differenza tra «c’è» verbo e «ce» particella. «C’è» verbo e «ce» particella? Chiedo io. Ma lei continua: ti rendi conto di cosa sono costretta a fare? Raccomandare mia figlia già a partire dalla terza media. «C’è» verbo e «ce» particella. La differenza mi fa eco nella testa. Pessime scuole. Mancanza di studio. Le dico: per favore, non fare questo discorso a mia moglie. Siamo italiani dunque. La nostra personale convinzione è che gli altri sono poco convincenti, tranne qualcuno che invece è convincente. Dobbiamo fare di tutto per andare con quelli convincenti. E per farlo è necessario convincere 45

qualcuno e pregarlo di indirizzarci verso quelli convincenti. Sembra un gioco di parole? Solo in apparenza. Fin dalla tenera infanzia, questa convincente convinzione ci convince che per evitare di scrivere biblioteca con due b (come nel mio caso) è opportuno lavorare alla ricerca dell’uomo convincente, quello capace di convincere gli altri d’essere più convincente degli altri. Insomma, in sostanza, meglio che la responsabilità se la prenda un altro. A lui il potere e le rogne, a noi la leggerezza, quella di risplendere di luce riflessa. Tanto è tutto un discorso strategico. Primo e terzo atto. Dichiarazione, risoluzione. Luce riflessa. Bisogna dunque far qualcosa. Contro il logorio della cura, ma non nel senso della dea Cura. Contro le dichiarazioni retoriche, i voli sopra le correnti gravitazionali, contro le ricette semplicemente miracolose, contro gli spettri. Se si potesse ragionare caso per caso, come un buon laico dovrebbe fare. Se ci abituassimo a fare manutenzione durante il percorso, con serietà e capacità di approfondimento, a fare un bilancio delle scorie? Questo ci vorrebbe per avviarsi sulla strada di una buona narrazione. Affrontare questo benedetto secondo atto e uscirne rinnovati. Finalmente. Lo vogliamo stare a sentire o no Tolstoj? Se a metà della nostra vita non facciamo un serio bilancio, poi l’altra metà della nostra vita sarà sterile. Questo diceva il maestro, Tolstoj. E i maestri vanno sempre ascoltati. Sempre ringraziati. Mai criticati, semmai superati. Questo lo diceva Busi.

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Elementi che inquinano il secondo atto: ah, i bei tempi andati...

Forse non basta. Eh sì. Anche le giuste dichiarazioni di manutenzione possono subire inquinamenti di ogni genere. Possiamo partire bene, poi ci distraiamo un po’ e tutto crolla. Può succedere che, durante la nostra assenza, intervengano elementi marginali, variabili impazzite che conquistano il nostro modello narrativo. Lo devitalizzano. Elementi marginali. Sono un problema, a volte. Sono sì compresi nel modello ma tendono a prendere il sopravvento e bloccare l’andamento. Elementi troppo poetici, assonanze troppo facili da fare. Succede come quando scopriamo che l’olio migliora la funzionalità delle ruote. Una volta capito che ungerle le fa scivolare meglio, ne abusi. Il fatto è che sempre questi benedetti teorici della narrazione sottolineano come l’eroe, poco prima di cominciare il suo travagliato esame di coscienza e di immergersi quindi nel secondo atto, si prende una pausa, si ritira dalla mischia – corre dalla sua donna, si fuma una sigaretta, si beve una birra. Oppure pensa ai bei tempi andati. Solo un attimo di abbandono e nostalgia, si intende, poi si proietta in avanti, con forza. 47

Noi italiani siamo di un’altra pasta. Siamo molto slow. A volte pittoreschi in questa nostra ossessione per la lentezza. Trasformiamo la benemerita corrente di pensiero chiamata, appunto, slow food, in slow motion. Percorso al rallentatore. Eccoci: siamo in ritardo su molte cose. Nucleare? Vent’anni di ritardo. Tecnica del Dna ricombinante, ovvero quella metodologia genetica che permette con più precisione di trasferire geni? In anticipo sui tempi, ma di fatto bloccati nella ricerca, dunque, quindici anni di ritardo. Energie alternative? Tipo fotovoltaico termodinamico? Ottime ricerche ma finanziamenti bloccati. Politica? Qui non si capisce bene: o ritardo di quarant’anni o grande anticipo. Strano no? Le migliori menti della nostra generazione bloccate da quelle peggiori. Forse il concetto di slow ci ha modificati. Andiamo lenti e non perché facciamo pause di riflessione utili. Semplicemente, mi sembra, andiamo in controtempo rispetto al tempo che viviamo. Ci chiediamo: ma perché in fondo dobbiamo tornare (cioè fare i conti) nel mondo così come è fatto qui e ora e combattere per quello che ci riguarda? Questo secondo atto è così scocciante, facciamo una cosa, dai, avviciniamoci quanto più è possibile, ma rimaniamo sulla soglia, quindi una donna, una sigaretta, e, naturalmente, i bei tempi andati: una volta sì! Come ci piacciono a noi (no, non si dice, un errore che mi porto dietro dalle elementari, vabbè...) i bei tempi andati. Figurine, canzonette, vecchie Citroën due cavalli, «Signorina Felicita, a quest’ora / scende la sera nel giardino antico / della tua casa. Nel mio cuore amico / scende il ricordo. E ti rivedo ancora / e Ivrea rivedo e la cerulea 48

Dora / e quel dolce paese che non dico». Dolce paese che non dico, diceva Gozzano. Italia scomparsa, diciamo noi. Allora sì che il mondo aveva un sapore. La modernità è insapore, insalubre, tutta strategia. Che noia, che stress. E noi, quindi, dovremmo far cosa? Affrontare la preside di turno per garantire legalità e democrazia? Questo dovrei farlo io. Ma dai, meglio una pausa, fermiamoci. Corriamo troppo no? Lo stress, il logorio, il consumismo, lo spreco, la strategia. Vuoi mettere come si viveva una volta, quando si era così felici? Ritmi lenti. Guardavo il Grande Fratello 9 – altra discussione in famiglia, io dico che lo faccio per ragioni sociologiche (bisogna capire la contemporaneità) ma è chiaro a tutti che guardo solo Cristina Del Basso e le sue tette (cosa anomala perché preferisco il culo, le tette rimandano troppo a un immaginario materno, quindi italiano. Ma è un discorso che andrebbe affrontato per bene). Uno dei concorrenti di cui non ricordo il nome (e certo, guardi solo Cristina...) non più che ventenne, ha dichiarato, en passant, che il pane non ha più il sapore di una volta. Di solito, siamo portati a essere tolleranti e a sorridere quando una tale affermazione viene fatta dai nostri nonni, ma, come dice Bertinotti, «francamente», mi è molto difficile capire come può un ventenne ricordare e apprezzare il vecchio sapore del pane di una volta. Una volta, scusate il bisticcio, «una volta» significava veramente «una volta», ossia tantissimo tempo fa, e non appena dieci anni fa. Verrebbe da dire: «una volta» non è più quella di una volta. Gioco di parole? No, problema italiano, eccone un altro: quello del sapere nostalgico. Che è cosa diversa dalla 49

nostalgia. Quest’ultima è diritto di tutti: il primo bacio, le vacanze al mare... Quelli che credono nel sapere nostalgico, pensano che tutto quello che è avvenuto nella magica cornice delle età passate ha valore, mentre il presente è sinonimo di corruzione. Qualsiasi cambiamento ha un cattivo vettore e ci avvia verso la corruzione. In sostanza, il sapere nostalgico offende il presente. Tuttavia questo sapere nostalgico ha il pregio di piacere al grande pubblico. E ci credo. Ricorda l’ideologia creazionista. C’era una volta un Paradiso terrestre. Ci andiamo a nozze con il Paradiso terrestre. «Perché muoversi se sulla terra piove una luce divina?», dice Berardinelli. Voglio dire, il sapere nostalgico si fonda su un modello idealizzato: il passato è sempre puro e innocente. È chiaro che davanti a un modello siffatto non c’è cambiamento che tenga. Nel Paradiso tutto quello che si muove non si sposta in avanti o indietro, ma cade giù, si corrompe. Il movimento va dunque combattuto. Bisogna resistere alla tentazione della caduta. Allora, alle forze che spingono va opposto il modello puro e innocente del passato incorrotto. Creazionismo. In genere fa un sacco di danni. Non ci permette di ragionare (ed esaminare) le condizioni di partenza: come si fa, infatti, a contestare un modello ideale? Quindi facciamo fatica a immaginare (e provare a regolare) quello che fisiologicamente si muove. C’è un responsabile? Voglio dire: prima che noi ci spingessimo a dichiarare il nostro disgusto per il pane moderno, prima che monaci, preti, vescovi, ci parlassero del pane di ieri, c’è stato un fratello maggiore o uno zio che ha spinto i nostri ragionamenti in questa direzione? Un in50

tellettuale che più di ogni altro ha fondato il mito del sapere nostalgico? Lo dico, scusandomi. La caratura del personaggio è notevole e, quindi, visto che mi trovo, chiedo le attenuanti generiche: Pasolini. Penso a Pasolini ogni volta che mi capita di tornare a Napoli oppure quando un amico mi chiama per parlare dei rifiuti. Penso all’idea di sapere nostalgico, ai guai che ha causato sul nostro immaginario. Pasolini dedicò alla città di Napoli e ai suoi abitanti un trattato pedagogico-filosofico, Gennariello, uscito sul «Mondo» in quattordici puntate a partire dal 6 marzo fino al 5 giugno 1975. Il trattato cominciava così: «Benché sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono, appunto, in concreto, e per di più ideologicamente, simpatiche. Essi infatti non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. E questo, per me, è molto importante, anche se so che posso essere sospettato per questo delle cose più terribili. [...] Ma che vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della Repubblica Italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della Repubblica Italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della Repubblica Italiana». Poi, nel trattato, Pasolini affrontava parecchie questioni: l’aborto, il sesso, la lingua, i borghesi. Sono passati trent’anni da Gennariello e chissà se aveva ragione quando affermava che la città era una sorta di resistenza attiva all’omologazione, perché i napoletani 51

provengono da una cultura antica, mitica, sono Tuareg, pieni di allegria e di affetto naturale: «Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un napoletano durante un’effusione di affetto mi stava sfilando il portafoglio, gliel’ho fatto notare e il nostro affetto è cresciuto». Questo, a conti fatti, adesso e anche allora, significa che se il portafoglio ve lo rubano a Roma, probabilmente vi sentirete oggetto di violenza, passerete una brutta giornata, se vi accade a Napoli è motivo di allegria naturale, non ve lo ruba un ladro, cioè un individuo soggetto ai sensi di legge (come tutti) ma un Tuareg. Qualcuno che, grazie a Dio, non ha mai subito il cattivo influsso del tempo. La modernità non l’ha mai toccato. Come si rubava una volta... Del resto, non voglio adesso abusare, ma questa definizione di Pasolini sul furto come scambio di sapere ha fatto scuola. Ho letto di recente una dichiarazione di Paolo Poli, anche questa dello stesso tenore: «Napoli mi piace, una città dove ti rubano la valigia ma ti danno il cuore». Potrebbe essere quasi uno slogan per la promozione turistica. E infatti lo è. Non solo munnezza ma anche furti tipici, come quelli di una volta. Però quando noi scrittori del Sud eravamo più giovani (eh! I bei tempi...) avevamo individuato un avversario culturale: Luciano De Crescenzo. Quelle sue storie aneddotiche. Quei napoletani filosofi, l’arte di arrangiarsi, quelle carrellate finali che mostravano la città brulicante di vita e sullo sfondo il mare. Che poesia. Che impegno civile. E che noia. Provavamo noia. Noia per quelle immagini immobili, quelle cartoline virate seppia. Confesso: non 52

sopportavamo De Crescenzo. Speravamo in meglio. Nella cultura alta. Ci meritavamo una possibilità di riflettere sui tempi che ci trovavamo a vivere. E invece anche il grande Pasolini parlava dei Tuareg. Ma come? Allora, ripensandoci, De Crescenzo aveva ragione: non ha fatto altro che riprendere il ragionamento di Pasolini. La Napoli di Bellavista è una città antica abitata da Tuareg, così simpatici che tutti noi speriamo restino immutati, immoti. C’era stato Lauro, la speculazione edilizia, il colera, c’era il contrabbando e la camorra si stava preparando a fare il salto nel commercio della cocaina, c’era Gava, c’era tutto questo, si stavano, cioè, ponendo le basi per una collaborazione (politica, economica) tra il peggior Nord e il peggior Sud, si stava formando un immaginario potente e noi, lettori impegnati di sinistra, cacciavamo via De Crescenzo e ricordavamo le profezie di Pasolini. Fatto sta che, almeno sull’argomento Napoli e dintorni, Pasolini e De Crescenzo lavoravano sulla stessa frequenza, ma da diversi ripetitori. I tempi erano sfasati, d’accordo, ma poi le onde si sono incontrate, accavallate, l’ampiezza è aumentata o si è annullata e comunque alla fine queste onde hanno subito un processo di diffrazione. Ne è uscita un’immagine rassicurante, da una parte i Tuareg puri di cuore, dall’altra la modernità infernale. Cosa scegli? Per essere uno scrittore civile, un cittadino impegnato, cosa scegli fra le due opzioni? Ma dai, è chiaro, meglio i Tuareg, meglio la purezza, meglio la beata ignoranza dei napoletani. Meglio stare fermi. Fuori c’è la disfatta. Il mutamento antropologico. L’apocalisse. C’è un’altra considerazione da fare, in merito all’im53

mobilismo italiano. Genera presunzione. Abbiamo, noi italiani, una particolarità. Ebbene sì, un’altra: ci consideriamo molto creativi. Seguivo un giorno Omnibus Life, una puntata dedicata al seguente tema: come si vive nelle nostre città. L’«Economist» per esempio, aveva inserito tra le città nelle quali si vive meglio sia Vancouver sia Zurigo. A un certo punto Enrico Vaime, il secondo conduttore (il programma è condotto da Tiziana Panella), ha detto una cosa che mi ha colpito. (Precisazione: Vaime mi è molto simpatico. Il fatto è che sono ossessivo e guardo troppo la televisione. Dunque, può capitare che seguendo un personaggio quasi ventiquattr’ore su ventiquattro, si trovino delle falle logiche nei suoi ragionamenti. Se qualcuno seguisse me anche solo per sei ore, ne troverebbe di stupidaggini. Quindi considerate quello che sto per riportare un peccato veniale di Vaime, che potrei aver fatto io. Anzi facciamo finta che l’ho detto io.) Insomma, Vaime dice: va bene a Zurigo si vivrà pure bene, ma loro non hanno il grande patrimonio artistico che abbiamo noi, loro non potrebbero mai scrivere una canzone come Roma nun fa’ la stupida stasera. Poi il discorso è passato su Vancouver. Anche qui c’era incertezza, una città ghiacciata. Vuoi mettere con il nostro sole? Questa considerazione mi ha inquietato. Un elemento perturbante, suppongo. Il giorno prima – che seguissi Omnibus – avevo preso un caffè con un mio amico, fisico quantistico, il quale mi aveva annunciato il suo trasferimento a Vancouver. Perché, gli ho chiesto? Prima di tutto – mi ha risposto – la Gelmini ha tagliato tutti i fondi, 54

quindi la ricerca è di fatto impossibile, e poi perché a Vancouver il governo regala a fondo perduto quarantamila dollari a ogni studente che vince il dottorato. E perché, ho chiesto ancora? Perché si intende festeggiare un giovane ricercatore che entra nel mercato del lavoro. Una sorta di benvenuto. Un modo per dire: noi crediamo in voi, ci fidiamo, investiamo sulla vostra scienza. A Zurigo invece ci sono stato. Appena atterrato mi sono ricordato di un divertente monologo di Benigni che descriveva la vita amena degli svizzeri: di cosa si parla in Svizzera? Di mucche e di banche e di orologi a cucù. Divertente. Forse Vaime ha ragione. Però, poi, frequentando Zurigo mi sono ricreduto. Una città viva. Parlano di tutto, altroché. Lavorano poco, giusto il necessario. Sembra quasi che non gli importi di accumulare. E hanno un fantastico sistema tramviario. Economico. Ora: è o non è un problema italiano questo? L’insistere su Roma nun fa’ la stupida, o sul nostro grande patrimonio artistico, insomma. Va bene siamo un popolo di artisti, ma a Vancouver (a parte la musica e la fantastica Alice Munro) investono quarantamila dollari per festeggiare ogni futuro ricercatore, e a Zurigo viaggiano tutti in tram. Secondo me vivi meglio, magari canti con più leggerezza. Se poi ascolti la dichiarazione di Giancarlo Innocenzi, sottosegretario per la Comunicazione del secondo governo Berlusconi (nel documentario Citizen Berlusconi, di Susan Gray e Andrea Cairola), allora la questione della creatività ti si chiarisce definitivamente. Parlando di televisione dice: gli altri Paesi hanno avuto prima le norme poi la televisione, noi prima la televisione. Per via della nostra creatività. Ah, ecco! Un 55

altro particolare aspetto della creatività. Davanti alla quale, viene voglia di essere mediocri, ordinari. Nel dialogo notturno con gli spettri, mi viene il sospetto che questa presunta creatività sia un altro dei nostri modi creativi per offendere il presente. C’è il nostro grande passato che ci riscatta dalle brutture della modernità. Suvvia, vuoi mettere Roma nun fa’ la stupida. Canti questa canzone e il ponentino leggero ti solleva dai tuoi sbalzi d’umore. Altro che quarantamila dollari al neo dottorando. O le regole prima della televisione. Ma pensa a cantare, dai! Il punto è questo. Torniamo lì, al creazionismo. Gli italiani sono creazionisti, amano le cose passate perché rassicurano, e sono convinti, tra l’altro, che il passato esista da sempre. Il passato ci è stato offerto da Dio. Dobbiamo continuamente tornarci. E accomodarci fra le sue nobili braccia. In Italia pure gli atei sono creazionisti. Centocinquant’anni dalla prima edizione dell’Origine delle specie e siamo ancora fermi al sapere nostalgico. Del resto quale alternativa abbiamo messo in campo? Il consumismo, l’omologazione, lo stress, il logorio. E quindi meglio, restiamocene sulla soglia, non affrontiamo il presente, potremmo peggiorarlo ancor più, ricordiamoci di come era bello quando a sfilarci i portafogli erano i napoletani di una volta. Uno scambio di sapere, era quello, altro che furto. Mica come oggi. Ma, mi chiedo, perché noi che usiamo (o abusiamo di) tutti i prodotti della modernità, poi rimpiangiamo quello che è stato? Detta in breve, e semplicemente, credo sia colpa anche della cultura di sinistra e non solo di Pasoli56

ni. Negli ultimi anni ha sostituito l’idea di progresso (allora marxista) con il sapere nostalgico o nel peggiore dei casi con il revival. È riuscita a vincere là dove non avrebbe dovuto vincere. Ha sfondato e occupato il territorio che apparteneva alla destra, quello della tradizione e del mito. Del creato incorruttibile. A volte guardo alcuni personaggi in televisione: sono esponenti della nuova sinistra. O leggo degli articoli e penso: quelle stesse idee che, in gioventù, ho combattuto perché mi sembravano rimandare a un immaginario pericolosamente epurato dagli aspetti violenti, un immaginario falso che scambiava condizione per vocazione, tutte le idee per combattere le quali mi sono preso a botte con i fascisti, perché loro, i fascisti, mi sembravano (lo erano certamente e chiaramente) contro il progresso, ora me le ritrovo sulle pagine culturali della «Repubblica» o in televisione, il sabato sera. Pure in prima serata. Ma sbaglio io o loro? Troppa insonnia provoca guai e percezioni sbagliate? Ma, una volta, Marx non aveva detto che la scienza (e il progresso) è il miglior alleato della rivoluzione? D’accordo, anche quell’idea di progresso era una costruzione astratta, ideologica – e di sicuro illusoria – ma almeno, ora, affrontiamo questo secondo atto, appunto. Facciamo un’analisi seria? Andiamo? Mi sa che è difficile. Non sappiamo bene dove. Siamo in lutto, convinti che abbiamo perduto qualcosa di unico e bello, il futuro ci appare incerto. Se interrogati a fondo su cosa abbiamo perduto, forniamo, però, definizioni incerte. Sappiamo che questa cosa era contenuta nel pas57

sato. Quindi, dobbiamo tornare indietro a prenderla. Avanti non è possibile, c’è il baratro. Sarà per questo che la sinistra (o meglio i suoi profeti) ha cominciato a rimpiangere? Per evitare di fare i conti con la sconfitta ed elaborare un nuovo piano strategico con dettagliata analisi costi-benefici, i vecchi profeti hanno preferito mettere su un triste teatrino con due attori: da una parte il valore della tradizione dall’altra parte la corruzione della modernità. I due attori sono burattini con connotati veramente grotteschi. Pertanto la tradizione è sempre millenaria e dunque carica di significati; la modernità è sempre omologante e corruttrice di antichi saperi. Sono discorsi che solo vent’anni fa, quelli di noi che erano di sinistra avrebbero respinto perché, appunto, considerati di destra e pure un po’ fascisti. Ora invece fanno tendenza e allora ci tocca assistere allo scontro epico tra la musica popolare, i cibi genuini, i piccoli contadini, i locali biologici e le multinazionali, il grande mercato, il complotto economico. Si badi, i teorici della narrazione dicono che il rimpianto ci può anche stare, è un elemento che precede l’analisi. Un momento di pausa. Basta che sia veloce. Fatemi prendere fiato. Fatemi fumare questa sigaretta, voglio chiamare la ragazza di un tempo. Tutti abbiamo diritto alle nostre Luci a San Siro: «Milano mia [...], prenditi pure quel po’ di soldi, quel po’ di celebrità, ma dammi indietro la mia Seicento i miei vent’anni e una ragazza che tu sai...». Questo pensa l’eroe prima di tornare nella mischia moderna. Nella bolgia. 58

Ma noi siamo di un’altra pasta. Ce la prendiamo comoda. Eppure, come abbiamo preso in giro quella pubblicità: il gusto pieno della vita. Il protagonista di quella pubblicità buttava via tutto, cellulare, beni di consumo. Rimandava gli impegni e si prendeva la sua pausa: beveva l’amaro e riscopriva i sapori veri. Siamo ancora lì con lui, seduti al tavolo a rimpiangere. E dai, però adesso si è fatto tardi, andiamo. Andiamo?

Ma mica il modello nostalgico è di sinistra?

Ci tocca assistere a tutto questo. E leggerlo anche. Almeno una volta a settimana. Una ripetizione con variazioni di timbro, dicono gli esperti di acustica. «Repubblica», per esempio, il quotidiano che compro ogni mattina dal 1980, che per molte cose mi piace tanto, è di sinistra, combatte le giuste battaglie contro il nostro re di turno. Su alcune questioni, mica poi tanto secondarie, anzi, fondamentali per lo sviluppo del Paese, questo giornale ha una visione nostalgica, tanto da formare un modello culturale. Martedì 28 aprile 2009. Pagina culturale. Dialogo tra il regista Ermanno Olmi e Carlo Petrini. Conduce Paolo Rumiz. I due discutono sul documentario di Olmi, Terra madre. Meglio dirlo subito, così ci togliamo il pensiero, meglio, per questa volta, non avanzare per gradi, permettendo così al lettore di identificarsi con il personaggio, i suoi umori, i suoi tormenti, ma andare diritti al punto. Credo si possa dire: è un dialogo da antologia, antologia del gusto nostalgico. Olmi: «Pensaci. Una donna come la tradisci? Quando 60

la riduci a strumento procreativo. Ma la terra cos’è se non una femmina? Se non ne intendi l’essenza vitale non hai capito niente» [...]. Petrini: «Guarda quanta dignità hanno i contadini dei Paesi poveri... Ci fanno sentire ridicoli... Di fronte a loro ci scopriamo brutti, rumorosi, avvelenati dall’inutile, curvi sui cellulari» [...]. Olmi: «Tranquillo. Verrà la fame e allora capiremo... La fame, intendo, del nutrimento giusto... Pensa alla parabola del figliol prodigo. Di che si nutriva? Ghiande per porci. E noi? Uguale. Merendine, cibi con additivi. Porcherie. Nel nostro intestino il cibo non fermenta più, ma va in putrefazione». Alcune affermazioni, come «dignità dei contadini dei Paesi poveri», colpiscono molto, fanno a pezzi centinaia di testimonianze e serissimi saggi e inchieste su com’era ed è, invece, poco dignitosa la miseria. Saggi e inchieste che hanno cercato di indagare i motivi della povertà e hanno cercato vie di uscita. Del resto se la miseria fosse stata davvero dignitosa e conveniente, saremmo rimasti miseri. Perché cambiare? A Petrini e Olmi non piacciono gli occidentali: sono brutti, curvi sui telefonini, niente a che vedere con l’austerità (e, si sottintende, la bellezza) del mondo contadino. Produciamo tanto e male e la sinistra crede ancora all’idea del progresso, mentre bisognerebbe riflettere sulla qualità e sul senso di quello che produciamo. Quei compagni di strada che si intestardiscono sulla produzione, secondo Petrini, hanno tradito gli ideali della sinistra. 61

Alle 8.10 del mattino, mentre prendevo il caffè al bar, una bella giornata davanti a me, l’umore sereno. E il compagno Petrini lancia un j’accuse alla sinistra. Mi sento chiamato in causa. Mi va pure storto il caffè. Il cielo s’annuvola. Compagni bucolici, fidatevi, anche io credo nelle regole e nella sana distribuzione del reddito. Poi, detto fra noi, non mi importa se una nuova tecnologia, come i cellulari, potrebbe rendermi più brutto e curvo e torvo, insomma è una questione di gusti. Sono, invece, più interessato a capire se gli operai, i tecnici, gli impiegati, gli informatici che producono questo benedetto cellulare ne ricavano miglioramenti di reddito e di diritti. Ma a parte la suddetta questione, la cui trattazione richiederebbe un saggio a parte, la cosa che incuriosisce è questa incoerenza di cui siamo vittime, che possiamo chiamare «modello nostalgico di sinistra». Petrini scrive su un giornale, «Repubblica» appunto, che io ho cominciato a comprare nel lontano 1980 in quanto ero (sono) il classico rappresentante di quel ceto medio che voleva sollevarsi prima culturalmente, poi, forse, economicamente, da anni e anni di palude e di cattivo gusto democristiano. Rappresentavo cioè il pubblico medio, di sinistra, (idealmente) progressista. Però a un certo punto, sempre durante le notti insonni, qualche spettro mi ha fatto notare la mia incongruenza: ero il tipico lettore di sinistra sensibile alle suggestioni della modernità e contemporaneamente potevo detestare la modernità? Criticare il presente ma non accettare il presente. Gioco di parole? E no, mi dicevano gli spettri. Guarda che stai diventando il tipico uomo massa, che pensa solo al pro62

prio benessere individuale ma non si chiede mai da dove derivi questo benessere. Vero. Ero diventato il tipico lettore di sinistra: progresso sì, ma a patto che lo sporco non si intraveda. In sintesi: bene la tecnologia se produce un televisore al plasma, un vestito che calza a pennello e ben disegnato (magari prodotto nel napoletano in nero), benissimo se si tratta di un architetto cool, ma per quanto riguarda l’alimentazione, lì siamo all’antica e dunque andiamoci slow, la terra, l’orto, il contadino che si scambia i semi, la dignità della miseria, ecc. Molto cool anche questo, in effetti. Paradossi. Moderne ambiguità. Schizofrenia della sinistra, dichiararsi dalla parte dell’austero contadino mantenendo però il proprio raffinato tenore di vita. Sfruttare appieno le potenzialità della società moderna e battersi, solo a parole, affinché si mantenga in qualche luogo della nostra memoria l’idea della dignità della miseria, quando i cibi fermentavano bene nel nostro intestino. In gergo un atteggiamento simile si può rubricare sotto la voce: «oscurantismo bucolico». Ma davvero diamo fiducia a questa affermazione: il nostro intestino non fermenta più niente e tutto va in putrefazione? Cosa vuol dire? Che mangiamo male? Che i contadini non sanno più produrre? Che non abbiamo strumenti agronomici per migliorare i prodotti alimentari? Strano. Oggi, le persone a quarant’anni sono ancora belle. Mia nonna contadina era già vecchia a quell’età. Mio figlio undicenne mi ha quasi raggiunto in altezza. Forse questo significa che lui ha a disposizione più proteine, cioè più mattoni per cre63

scere. Ma allora, la fermentazione intestinale non è poi così messa male. E cos’è, poi, questa avversione agli additivi chimici, esistono degli additivi chimici (cattivi) e additivi non chimici? Siamo davvero convinti che una molecola sintetizzata in laboratorio sia velenosa e una, per così dire, estratta in natura, sia innocua? Gli additivi sono sostanze che svolgono una determinata funzione nel cibo: emulsionare, conservare, colorare. Guardate che, se facciamo così, poi ci esponiamo alle critiche dei chimici. Vogliamo sentire, a questo proposito, cosa dice sull’argomento un chimico competente? È importante la cultura, no? Anche la chimica è cultura. Dice Dario Bressanini, chimico teorico che scrive sulla rivista «Le Scienze» e ha un blog molto bello – lo seguo sempre: «Esistono circa quattrocento additivi e sono tra le sostanze chimiche più controllate che esistano. Per ognuno di questi c’è un dossier tossicologico, redatto solitamente dall’Efsa o da altre istituzioni come la Fao, che ne stabilisce le proprietà, gli usi e le quantità ammesse in base alle necessità. Il dossier viene periodicamente aggiornato e così alcuni additivi una volta permessi ora non lo sono più, mentre altri sono entrati nell’uso. Tanto per confronto, sappiate invece che per gli Aromi non esiste ancora una legislazione simile (entrerà in vigore nel 2010-2011). Se ne usano circa quattromila ma non c’è ancora una lista, come per gli additivi, da cui attingere e non vi è un dossier per ognuno di loro. Al contrario, vi è solo una lista di sostanze proibite ma per il resto c’è molto più arbitrio, tanto è vero che sulle etichette leggiamo genericamente Aromi o Aromi Naturali e non l’elenco delle sostanze aggiunte. Per inciso, ancora una volta dal pun64

to di vista tossicologico la scritta Aromi Naturali non è di per sé più ‘tranquillizzante’ per il consumatore perché esistono moltissime sostanze naturali tossiche». Insomma, forse non basta dichiarare la propria avversione ai «veleni chimici» che inquinano la terra. Mi sa che è un atteggiamento snobistico e un po’ reazionario. Per migliorare il mondo, forse è più corretto devolvere parte dei proventi dei nostri redditi per finanziare ricerche che studino come produrre nuove molecole di sintesi più leggere, biodegradabili e meno invasive. Così possiamo smettere di chiamarli «veleni chimici», e usare il loro vero nome: agrofarmaci. Qui viene il dubbio: è il modello nostalgico che ci blocca? Perché siamo sempre lì, fermi? La convinzione che le scorie ci avvelenano (ma è la dose che fa il veleno) non ci lascia gioco. A Vancouver credono nella ricerca e nel futuro. Ti danno quarantamila dollari a fondo perduto. I nostri ricercatori ormai impiegano il loro tempo un po’ per combattere quelli che li accusano di non far fermentare il mondo e un po’ per cercare finanziamenti. Li vedi sempre nervosi. – Dove vai? – E dove vado, a chiedere soldi. Non abbiamo soldi per le nostre ricerche, ce ne sono alcune bellissime, realizzate da giovani intelligenti e vitali e non abbiamo finanziamenti. Cosa vuoi che facciano questi giovani? Se ne vanno a Vancouver. Una città di ghiaccio dove non potranno cantare Roma nun fa’ la stupida, ma va bene lo stesso, si accontenteranno di quarantamila dollari. Così la creatività futura non ne risentirà. La Gelmini? Certo, ma anche il vecchio 65

governo non scherzava. Aiuto. Non riusciamo a fare ricerca. Nessuno ci aiuta. Siamo andati all’audizione del Senato del 10 giugno 2009, mi dicono alcuni di loro, per far presente la nostra incresciosa situazione. Tanti progetti brillanti, nessun finanziamento. Sai chi c’era all’audizione? Nessuno. Sai dove erano tutti? All’audizione di Grillo, «Parlamento pulito». Sai cosa ha detto Grillo? Che ci sono le deputate un po’ zoccole. Sai quale notizia hanno riportato i giornali? Che Grillo ha detto che alcune deputate sono un po’ zoccole. E noi? Che dobbiamo fare, andare nudi al Senato? Chi ci rappresenta? Nessuno. Nemmeno la sinistra. Anzi, su alcune questioni la sinistra non ci capisce niente. Vedi i sapori di una volta, il passato che non passa, i contadini: tutto astratto e tutto inutile. Non si migliora così il mondo. Con l’oscurantismo bucolico. E infatti, il mondo moderno si migliora anche e soprattutto in laboratorio, altrimenti, come dice sempre il mio amico Defez – quando non è in giro a chiedere soldi – ci limitiamo a combattere i cattivi erbicidi ma nessuno di noi si candida per fare la mondina e strappare con molta dignità contadina le erbacce con le mani, curvi otto ore sotto il sole, la schiena a pezzi, ecc.

Intermezzo: la confusione regna sovrana

Dicono i teorici della narrazione: i personaggi non cadono mai dall’alto, sono figli di un contesto culturale. Vuoi ritrarre con chiarezza un personaggio? La sua psicologia? I movimenti narrativi che potrà fare e quelli che non sarà capace di fare? Esamina il contesto. Allora, vado a una festa. Capita anche questo. Un’amica di un’amica di un’amica. In pratica sono quasi un imboscato. Mi colpisce una certa tipologia femminile e giovanile e di sinistra. Un’avvertenza. Era una sera piovosa. Non prevista dai meteorologi. Dunque il mio umore non era dei migliori. Di conseguenza la mia capacità interpretativa, già di per sé labile, era bassa. Però mi colpiva questa tipologia femminile e giovanile (naturalmente io non colpivo loro). Prendo un po’ qua e un po’ là, frasi orecchiate e messe insieme. Cerco di comporre una scheda. Alcune di loro hanno dei problemi familiari lasciati alle spalle e non risolti. Dunque, in sequenza: prima psicanalisti di scuola freudiana, poi junghiana, infine pratiche terapeutiche come la bioenergetica. Non credono all’oroscopo, almeno 67

non a quello riportato dal «Messaggero», ma a quello letto su «D la Repubblica delle Donne», stilato da Marco Pesatori. Pare sia bravissimo. Può essere, però io, vi dico la verità, non me ne intendo. Professione? Artisti. Ultimo viaggio fatto: Palestina, campi profughi. L’idea sulla quale stavano lavorando: un film sui campi profughi, perché è ora di dire al mondo la verità. No al nucleare, avevano visto un’inchiesta fatta da Report. No agli Ogm, avevano visto un’inchiesta fatta da Report. Sì al biologico, avevano visto un’inchiesta di Report e avevano letto su «Repubblica» un articolo di Vandana Shiva, nota attivista politica indiana, che affermava sicura di sé che i prodotti biologici sono in armonia con il creato. Sì all’omeopatia. Chi gliel’ha detto che funziona? Il proprio medico, omeopata, appunto. Laici. Contro il papa. Ultimo ragazzo avuto: uno creativo. Persona in gamba. Peccato che era un mezzo impotente. Anche lui alcuni anni di analisi. Discorsi ricorrenti? Berlusconi. Le veline. Le telefonate tra Gelmini e Carfagna. Le ho lette. Anche io. Non indovinerai mai cosa c’è scritto. Hobby ricorrenti: andare a cavallo. Fare shopping. Non nei centri commerciali, che schifo. Negozi carini che vendono prodotti artigianali. Peccato che siano costosi e che non emettano scontrino fiscale. Ma sai, piccolo è bello. O leggere. Cosa? Libri che parlano d’amore e di follia. 68

Due elementi importanti per una donna. Le donne prediligono la follia, oppure il mistero. Uomo dell’altra parte con il quale andresti a letto? Corona Fabrizio. I Corona’s. Non per questo, è un uomo molto affascinante. È misterioso. Io potrei capirlo. Le altre no. Ultima perversione? Un sadomaso. Che faceva? Mi legava al letto. Com’era? All’inizio bello, poi si è rivelato uno stronzo, frustrato e pure impotente. Cosa desideri? Emozioni vere! Follia. Libri letti? Quelli che parlano di emozioni vere! L’ultimo della Mazzantini non è male. Un po’ troppe metafore ma la storia è bella. Non basta. Mi rendo conto. Sono solo frasi colte a una festa da un tizio annoiato perché la previsione meteo non si è rivelata esatta. Frasi superficiali, sono solo un surrogato, sotto, di sicuro, si nasconde una personalità più complessa. Però. Però, un altro giorno sono ospite di un seminario. Dedicato agli operatori sanitari. La docente fa vedere un film: Mare dentro di Alejandro Amenábar. Pubblico di donne, in gran parte. Ceto sociale medio basso. Si sente la periferia. Altre hanno studiato fino a prendersi la laurea. Cosa pensano del film Mare dentro? Come è antipatico il protagonista! Perché? Perché si capisce che non è stato amato, per questo vuole suicidarsi. Ma è malato, bloccato a vita su un letto. Gira solo la testa. A stento. È un egoista che non ha emozioni. Anche qui, in quest’occasione, mi capita di girare in mezzo alla gente durante la pausa caffè. Nemmeno in quest’occasione posso vantare un umore allegro e una capacità di ascolto ampia. Colgo delle frasi. 69

Voi cosa volete invece dalla vita? Dagli uomini? Follia! Emozioni vere! Trasgressioni! I Corona’s? Sì. Hobby ricorrenti: ballare, palestra, shopping. Centri commerciali. Uomo politico dell’altra parte con il quale andreste a letto? Nessuno. Viva Berlusconi, si è fatto da solo. Con Berlusconi? Perché no. Sesso con i politici? Lo fanno tutti. Cosa vuoi che sia. Chi sei tu per impedirmelo? Sei uno che ha studiato? Ma non hai nemmeno capito che Mare dentro parla di un egoista incapace d’amare. Chi ha amore da dare è sincero, chi è generoso è sincero. Berlusconi è generoso. Emozioni vere. Biologico? Costa. L’oroscopo? Quello di «Vanity Fair». Padre Pio? Certo che sì. È un santo. Libri letti? L’ultimo della Mazzantini. È bello perché ci sono un sacco di metafore. Sì all’omeopatia. Chi gliel’ha detto che funziona? Un po’ tutti, soprattutto noti personaggi televisivi. Che come si sa, hanno la passione per Padre Pio e per l’omeopatia. Confusione. È il giudizio di tutti. Io arrivo veramente per ultimo. Quest’Italia è confusa. I punti di riferimento si sono perduti. Da una parte, una volta si stava meglio, dobbiamo decrescere, dall’altra, meglio crescere, ma ancora meglio se qualcuno lo fa al posto mio. Non mi impegno e alla fine cresco lo stesso. L’alto non c’è, nemmeno il basso, trionfa il medio. Elementi narrativi staccati dal contesto che vagano e inquinano. A destra e a sinistra. Il dolore degli altri si affronta 70

piangendo o rimpiangendo. Non analizzando. Oppure non si affronta, abbiamo il nostro personale dolore da mostrare. Chi mostra meglio vince. Che si fa? Quale secondo atto ci aspetta se questo contesto, ovvero il punto di partenza, è così confuso? A che eroe siamo legati, a chi chiediamo di accompagnarci durante il viaggio per farci vedere la strada che anche noi percorriamo? Si ricomincia daccapo? E non si può. Darwin ce lo impedisce. Siamo il prodotto dell’evoluzione, è impossibile azzerare tutto. E allora? Mi sa che ci tocca procedere per gradi. Lavorare con quello che si ha e non con quello che si vorrebbe avere. Mostrare le differenze tra una scelta e un’altra. Solo così i valori appaiono più chiari. Datemi una differenza, vi mostrerò un valore.

Datemi una differenza: il piccolo orto di una volta...

Torniamo al sapere nostalgico. È chiaro che se ci appoggiamo troppo a un siffatto modello, poi, con molta probabilità capita che i conti in campo non tornino per niente. Quando i conti non tornano non bisogna spaventarsi. Lo dicono i teorici della narrazione. È lì che il personaggio passa dalla cura alla manutenzione. C’è da verificare adesso. Toni più bassi. Abbiamo promesso alla nostra amata di preservare la sua bellezza e ci troviamo piegati in due da un mal di pancia inaspettato. Della bellezza della nostra amata comincia a importarci un po’ meno. In un buon racconto il nostro protagonista ragiona sul suo mal di pancia: sarà psicosomatico? Ho impiegato troppe energie e ora sono a secco? Chiaro che sì. Ci tocca rivedere la nostra promessa iniziale e ragionare sulle complesse variabili che la vita ci pone davanti. Dichiarare la nostra fragilità e riprendere il cammino. Viceversa, in un cattivo racconto, il nostro protagonista piegato dal mal di pancia, continua ad alimentare la promessa iniziale. Oppure, visto che il mal di pancia gli rende la vita difficile, decide di affidarsi a una ricetta ma72

gica. Un salto logico. In fondo un terzo atto siffatto è simile al primo atto. Una facile promessa equivale a una facile risoluzione. Oppure terza ipotesi, se ho mal di pancia io, prevedo allora che tutti l’avranno da qui a poco. I miei sintomi sono evidenti segni che il mondo è malato, tutto torna, lo dico io che sono il poeta, il vate, il visionario. Stiamo precipitando. L’apocalisse è vicina. Però, niente male come discesa. Questo ultimo tipo di reazione al mal di pancia può andare sotto il nome di retorica dell’apocalisse, una tecnica usata, per esempio, dai Testimoni di Geova. Ce li ricordiamo tutti, no? Quei simpaticoni. Tendevano ad atterrirti. E convertirti. La procedura standard si svolgeva secondo passaggi collaudati. Rappresentare fenomeni complessi la cui trattazione richiederebbe competenze specifiche, con immagini semplici ed evocative. In più, associare cose molto distanti tra loro senza provare il nesso che dovrebbe unirle. La tecnica tuttavia funzionava e finiva per provocare in te una sorta di morboso stupore catatonico. Per un momento tutto sembrava tornare, così come le auto che inquinano l’aria, i veleni chimici che distruggono la terra. Del resto, queste immagini erano rapportate continuamente a un modello ritenuto ideale: un mondo bucolico, incontaminato frutto della bontà e della generosità di Dio. Insomma, l’ideale purissimo da una parte e la corruzione di cui sono portatori gli uomini. La scelta si restringe. O ti converti o muori. In realtà gli apocalittici tendono per vanità a sopravvalutare alcuni sbalzi della curva, insomma, si fidano troppo dei loro mal di pancia. C’è di più, spesso scoprono che 73

si guadagna anche abbastanza (gli apocalittici e i nostalgici godono nei media di una buona rendita di posizione) prolungando l’agonia. Più si semplifica la visione dell’apocalisse più le persone ne sono attratte. Anche loro, in fondo, vogliono solo raccontare la storia. La storia della fine del mondo contiene elementi epici. Il risultato? Può succedere che aspettando l’apocalisse il sentimento che più comunemente si può impadronire di noi sia quello della frustrazione, del tipo appunto: non riusciamo a gestire i rifiuti figuriamoci le scorie nucleari. Graficamente parlando? Uno stato di piattezza dove gli unici movimenti sono quelli immaginati dai teorici dell’apocalisse: A, A1, A2, cioè, apocalissi, più o meno intense, più o meno profonde, che non arrivano e ci lasciano un senso di immobilità. E un ritardo cronico. Asse fortuna

Asse sfortuna A

A1

A2

Ora, per parlare di un campo verso il quale ho qualche interesse (culturale e lavorativo), cioè l’agroalimentare, è facile dimostrare che affermazioni del suddetto tipo (sapere nostalgico, retorica dell’apocalisse, ecc.) si appoggiano su dichiarazioni di fede. Abbiamo un problema! Bene, come facciamo ad affrontarlo? Con parole amebe. Basta 74

agricoltura intensiva, al bando gli allevamenti industriali, evviva la miseria genuina, sapere antico, contadini di tutto il mondo che si scambiano i semi. Agricoltura sinergica, biodinamica, biologica, quelle pratiche che nascono dal sano rapporto tra uomo e natura. Promesse. Ricette risolutive. Come considerarle? Dichiarazioni di fede? Dovremmo considerarle caso per caso ed analizzare ognuna di esse rigorosamente. Il fatto è che se siamo pigramente immersi nel modello culturale nostalgico, poi tendiamo a saltare la fase analitica. Troppo allettante la promessa iniziale e ancora più allettante la ricetta finale. Risultato: pigrizia culturale, sterilità. Ci impegniamo poco, culturalmente parlando. Tutta la conoscenza che dovremmo produrre per migliorarci non risulta utile allo scopo. A che serve infatti sforzarci di conoscere questo nostro mondo attuale se, secondo il modello nostalgico, il mondo che aveva valore era quello di un tempo? A che serve se tutto è perduto e il presente è sinonimo di corruzione? Questo modello fa molti proseliti. Costa poco. È facile capire allora come anche molte trasmissioni di sinistra, appena possono, accolgono con entusiasmo ogni discorso del suddetto tipo. I conduttori ascoltano i compagni bucolici e sembrano contenti: si sentono dalla parte giusta del mondo. La natura, le energie alternative, il piccolo orto, l’organico, il biologico: che meraviglia, il sano rapporto uomo-natura. Sano rapporto uomo-natura. Ma che significa? Esiste davvero questo sano rapporto, cioè, esiste davvero la natura? Per i creazionisti sì. Per i cattolici anche, ma del re75

sto il cristianesimo ha sfondato a sinistra e tra i ricchi di sinistra. Quanti Rutelli convertiti, quante preghiere mattutine. Quanti monasteri frequentiamo per ritemprarci, quanti priori, abati, missionari pubblicano libri sul pane di ieri o sulla vita in povertà e quante copie si vendono dei loro libri. La natura, prodotto della creazione, esige rispetto per i suoi doni, cogliamoli con discrezione, non ce ne facciamo nemmeno accorgere. Quanti ricchi di sinistra la pensano così. Gli stessi ricchi che fanno corsi di sopravvivenza nella natura selvaggia, prima di tornare in azienda e dirigere con polso duro i dipendenti – a volte come detesto i ricchi. Per me no, però. Sono laico. La natura è il prodotto di un’equazione, nasce dall’interazione tra noi e l’ambiente. Noi modifichiamo l’ambiente e l’ambiente modifica noi. Il risultato si chiama «natura». La natura è perciò un risultato. È sfuggente, aleatoria, e per questo, per essere definita, ha bisogno di misurazioni, di costante monitoraggio. Ha bisogno di apporti conoscitivi moderni, di manutenzione, appunto. Necessita di essere tenuta a bada. La natura lasciata a se stessa non ci piacerebbe. Non la troveremmo «armonica». Faccio per dire, ho conosciuto un agricoltore sinergico molto arrabbiato con la modernità, con l’agricoltura convenzionale, gli antiparassitari, le multinazionali, ecc. Mi chiedete cos’è un agricoltore sinergico? Non lo so. So che è diverso dall’agricoltore biodinamico e da quello biologico. Perché? Non lo so, vi dico. Non lo dico io, che è diverso. Lo diceva lui, era contro lo slow food e i biodinamici. Era uno scissionista. 76

Ho provato a indagare ma sono differenze così minime, sfumature che non saprei riportarvi – ci sono, comunque, dei siti che lo spiegano. Se ci tenete. Ma non è questo il punto. Il punto è che lui coltivava ventitré metri quadri di terra. Coltivava un fazzoletto di terra grande quanto il mio balcone. Pure io sul mio balcone non uso concimi. È un modello di sviluppo sensato questo? No, è semplicemente un altro aspetto del carattere italiano: il piccolo orto. O meglio, il mio piccolo orto di una volta. Che non è soggetto alla corruzione della modernità. Il mio piccolo orto che può far miracoli. Non perché produca davvero, ma perché in Italia nessuna cosa è foraggiata e finanziata come i piccoli orti. E qui torniamo al seno di Cristina Del Basso. La mamma italica che ci finanzia con generosità e senza farsi troppo pensiero delle conseguenze del nostro agire. Per questo il forum sul seno di Cristina è così frequentato, tanto che anche «Panorama» ha dedicato una copertina all’evento – meglio la preferenza verso il culo laico, mi verrebbe da dire, non nel senso della fortuna. Insomma, è un modello di sviluppo serio questo? Un Paese che, per restare in tema agricolo, vede le sue colture gravemente danneggiate da attacchi di insetti, che è in affanno con le esportazioni, che importa il sessanta per cento dei mangimi zootecnici – per non parlare dell’energia –, questo Paese che avrebbe bisogno di un serio piano quinquennale e di investimenti innovativi, un Paese come il nostro che avrebbe bisogno di una costante innovazione, preferisce concentrarsi sui piccoli orti di una volta: la passata di pomodoro. 77

Prodotti tipici? Mi sembra che nel paniere complessivo dei beni occupino una piccola percentuale: il quattro per cento. E al resto, chi ci pensa? Ricette semplici, quindi. Buone per me che spesso sono pigro e ho poca voglia di muovermi. Sono in buona compagnia. Tutti pigri ma contenti. Appagati dalle belle dichiarazioni di fede, cioè, l’agricoltura biologica, sinergica, biodinamica, i piccoli orti naturali, quelli che fanno miracoli, che aboliscono insetti, producono prodotti sani, ecc. Ma perché aboliscono gli insetti? E già, perché? Esempio: piccolo caso di inquinamento biodinamico. Si tratta di un’azienda che coltiva olivi. Un ettaro e mezzo circa, in un’amena zona collinare romana. Il proprietario per preservare la salubrità del suo terreno, o quello che la filosofia biodinamica ritiene essere un terreno salubre, insomma, questo agricoltore si rifiuta di tagliare le malerbe. La natura, sostiene, si autoregola, tanto è vero che il nostro, con rigoroso formalismo teorico, non pota nemmeno gli ulivi che presto sviluppano una chioma disordinata. Con il tempo, dai fossi di scolo, piano piano dapprima i pioppi (che si riproducono per talea, basta un ramo e parte la pianta), poi le ortiche, cominciano a invadere il campo. E si mangiano pezzi di terreno utile. In un terreno così selvaggiamente autoregolato, arrivano anche i rovi che cominciano selvaggiamente ad arrampicarsi sugli olivi. Ora, a primavera dai rovi nascono dei bei frutti di bosco, more e fragoline, ma, a questo punto, l’agricoltore biodinamico comincia ad avere qualche preoccupazione, i rovi sono così vigorosi che si rischia di non entrare in campo e raccogliere le olive. Decide allora di tagliare i ro78

vi, dimenticandosi quello che aveva detto qualche tempo prima riguardo alla capacità della natura di autoregolarsi. Ma interviene la moglie dell’agricoltore: non è d’accordo. E ci credo! Lei vuole fare la marmellata con i frutti di bosco e nasce così, fra i due, un piccolo dilemma etico: si raccolgono le olive e si sacrificano i frutti di bosco. O viceversa? I due però non fanno in tempo a risolvere il problema che interviene nella contesa un terzo, anzi, terzi. Si tratta dei vicini di azienda. Loro non coltivano biodinamico e vedono il proprio appezzamento riempirsi di erbacce: provengono tutte dal campo biodinamico. I vicini di azienda fanno storie, va bene il biodinamico ma bisogna perlomeno salvare il decoro e l’ordine. Soprattutto, è necessario bloccare le erbacce che oramai si riproducono con enfasi esponenziale invadendo i campi e ignorando qualsiasi proposito di autoregolazione. L’agricoltore biodinamico non molla. Non ha nessuna intenzione di usare erbicidi che inquinerebbero non solo il terreno ma anche la sua filosofia. Poco male, dicono i suoi vicini, usa la zappa. Nemmeno la zappa però va bene, per una ragione che adesso non ricordo. Fatto sta che i vicini si scocciano di tutta questa storia, chiamano i vigili, si appellano al concetto di buon decoro civico e l’agricoltore biodinamico si vede recapitare una multa dal messo comunale, che ammonta a un centinaio di euro. Niente da fare, l’agricoltore è disposto ad andare fino in fondo, arrivare anche in tribunale per difendere la causa. Del resto, è una causa nobile. Per questo chiama un agronomo, ha bisogno di una perizia giurata necessaria al ricorso, ma l’agronomo appena 79

vede il campo così combinato lo invita a prendere la zappa. L’agricoltore biodinamico alla fine accetta, prende la zappa e pulisce il campo. Chissà, a me piacerebbe che avesse tratto una morale: la natura si autoregola anche e soprattutto se nel sistema è presente l’uomo. Ne dubito. Trattasi, infatti, di un pensiero ossessivo che genera moderne illusioni cognitive, quello di pensare che siccome si segue una pratica agronomica detta erroneamente biodinamica o, per altri versi, biologica, gli insetti, le erbacce, ecc., non invadono il campo, in quanto questo è in rapporto armonico con la natura. Come ha sostenuto recentemente Vandana Shiva in un articolo apparso naturalmente su «Repubblica», nella sua cooperativa biologica, dove i contadini usano ancora il bue per tirare l’aratro, il terreno è sano e gli insetti non ci sono. Si tratterebbe in questo caso di un’invenzione da Nobel: insetti ed erbacce culturalmente modificati che sanno leggere e riconoscono i buoni propositi e l’animo nobile di Vandana Shiva, e così decidono di cambiare campo e dirigersi verso i terreni di quelli che, con animo meno nobile, usano diserbanti e antiparassitari. In attesa di questa invenzione straordinaria, però, credo ci toccherà usare ancora mezzi rudimentali per difenderci dalla natura che è indubbiamente ignorante, si rifiuta di imparare a riconoscere le nostre buone intenzioni. Vedete? Alla fine queste soluzioni sono dichiarazioni di fede. Molto semplici da fare. Non costano niente. Il primo atto è la dichiarazione dell’apocalisse, il secondo sal80

ta, il terzo è la soluzione. Semplice semplice: come i film per famiglia, arriva l’eroe e risolve il problema. Ce ne sono tante altre di questo tenore: è biologico, dunque sano e naturale. Ogni tanto ne leggo qualcuna. In agricoltura biologica si usano gli oli bianchi per la lotta contro le cocciniglie. Gli oli bianchi! Capisco la suggestione: rimandano alle beauty farm. È incredibile quanto erotismo emanano certe parole. Solo che quegli oli bianchi sono ricavati dal petrolio. Sempre nel settore fossile siamo. Oppure: il rame che si usa in agricoltura biologica contro alcune crittogame non è mica un metallo pesante che può causare, in dosi eccessive, danni? No, è energia vitale. Energia vitale, capito? Mendeleev e la sua tavola periodica degli elementi non conta. Il rame non fa male perché è energia vitale. Così mi ha detto un archeoagronomo. Cos’è? Non lo so, ma lavora tanto perché ci sono trasmissioni di sinistra che, appunto, sono brave nel denunciare la cattiva politica perché lì si va sul facile, ma non appena si tratta di affrontare un argomento complesso come quello legato all’agricoltura, be’, allora, si torna al passato, al biologico, all’archeoagronomia. Fede, retorica, equivoci e così via. Non fa niente, a noi piace finanziare la fede, la retorica. Il nostro otto per mille quotidiano, l’obolo che versiamo per ottenere in cambio le necessarie rassicurazioni. Dai, mi dico, spettri! Mica è questa la soluzione della sinistra. Archeoagronomia sinergica? Torniamo al passato dunque, è semplice. Facciamo a meno della chimica e di quelle corrotte biotecnologie. Non ci servono, basta 81

tornare alla natura, quella mitica, religiosa, di spirito creazionista, cioè immutata, capace di autoregolarsi, la natura romantica, tipica della concezione della destra, appunto. Eppure, basterebbe poco per rendersi conto che in quei luoghi dove, per forza di cose, si pratica agricoltura biologica, come parte dell’Africa, gli insetti ci sono eccome, fanno danni e le produzioni scarseggiano. Provate a dirlo a un agronomo africano cosa pensa dell’agricoltura biologica. Però state attenti a vantarvi perché rischiate. Come una volta successe a me, a Praga, prima della caduta del muro, in vacanza, quando dichiarai che ero comunista. Che cosa? Mi dissero così: che cosa? Andate a dire a loro: dobbiamo decrescere. A proposito di decrescita felice. Altra ricetta semplice. Anche qui. Un po’ di conti della serva. Quando i nostri antenati decisero di averne abbastanza di cacciare e misero su le prime comunità agricole, permettendo così all’agricoltura di svilupparsi, scelsero di coltivare tre tipi di cereali. In Mesopotamia orzo, in Cina riso, e in America centrale mais. Facendo una stima di massima si può calcolare la produzione media per ettaro in cinquecento chilogrammi. E non appena i nostri antenati smisero di cacciare e competere così selvaggiamente per le risorse cominciarono anche a guardare le stelle. L’astronomia è nata pressappoco all’unisono, in Mesopotamia, in Cina e in Messico. Con la pancia piena si guarda in alto? Comunque, verso l’età romana la produzione cresce e si attesta intorno alla tonnellata. Durante il Medioevo? Una tonnellata. Prima guerra mondiale? Sempre una ton82

nellata. Solo dopo la prima guerra mondiale la produzione comincia a salire: concimazione, diserbo, antiparassitari e soprattutto miglioramento genetico, portano la produzione a cinque tonnellate per ettaro. Il nostro fabbisogno di calorie è soddisfatto. Possiamo andare alle feste, a cavallo, mangiare (bene) nei presidi slow food, viaggiare in Palestina e decidere di fare un film sui campi profughi, ecc. Ne abbiamo la forza. Finalmente. Allora, se proprio dobbiamo decrescere, perché il sistema agroalimentare non funziona, diteci, per favore, di quanto. Sono pure d’accordo con voi, ma, per favore, fornitemi una percentuale di decrescita realistica in campo agroalimentare: invece di cinque tonnellate per ettaro va bene quattro e mezzo, quattro? Ditecelo. Qual è la percentuale di decrescita auspicabile, quella che ci porta direttamente in contatto con il passato mitico? Quella che ci fa sentire in rapporto armonico con la natura? Vogliamo fare una scelta drastica? Tornare a una tonnellata. Come in alcuni Stati africani. Dove il Pil è fermo agli anni Settanta? Sia come sia, allora, chi comincia? Magari io, chiedo meno soldi per le mie collaborazioni professionali. Meno soldi, meno consumi, meno produzioni, meno viaggi, meno produzione di anidride carbonica, decrescita genuina. Ma per decrescere felicemente quanto devo chiedere in meno per una collaborazione? Suvvia, compagni, una cifra seria, un dato scientifico non lo si nega a nessuno. Una percentuale. Altrimenti sembra una ricetta semplice. Più che una ricetta, un argomento vintage. A volte pure un po’ ridicolo. Come i libri di Vandana Shiva. Come quando in Ritorno alla terra, dopo averci det83

to che il mondo è in balìa di tutto e tutto è collegato a tutto, catastrofi globali, cicloni tropicali, Ogm e contadini suicidi, allevamenti intensivi e depauperamento delle risorse, ecc., ci indica una soluzione equa e sostenibile per spostarsi e produrre energia in maniera compatibile con il creato. Bene. Finalmente una soluzione. Ero così ansioso dopo la lettura. I cammelli! Possiamo usare i cammelli. Come i cammelli? Sì, i cammelli. Sono animali resistenti alla siccità. In India ce ne sono milioni, usiamo i cammelli e spostiamoci così. Cara Shiva, il cammello no. È una questione personale. Da piccolo ho avuto uno shock con un cammello. Al circo ci sono montato su per farmi una fotografia e questo si è imbizzarrito. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Ma dimostrerebbero tutti la stessa cosa, da quella natura, da quella terra di una volta (biologica, biodinamica, sinergica, ecc.) siamo scappati, ci teneva in gabbia, eravamo troppo schiavi delle sue mitologiche braccia. Ma a questo punto, durante la notte, intervengono gli spettri. E mi dicono, giustamente: mi spiace per te, ma il mondo non va così bene. La chimica di guai ne ha fatti, mi sembra ovvio che siamo spaventati. Inutile che fai ironia facile sui cammelli di Vandana Shiva. Sei uno di quelli appiattiti sul presente. Ti piacciono davvero le multinazionali chimiche? E i fiumi inquinati? Ti piace intossicarti nel traffico? Il riscaldamento globale? Ti piace davvero consumare? Credi davvero che l’economia si riprenda e offra a tutti migliori possibilità, semplicemente svuotandoci le 84

tasche e riempiendo i cessi? Frase tratta da un’Amaca di Michele Serra. Però questa volta la risposta la so. La questione con il tempo mi si è chiarita. Secondo me ci sono due passaggi da affrontare per provare a ragionare e fornire una risposta alle giuste sollecitazioni degli spettri. Solo che il primo passaggio è propedeutico al secondo. Come alcuni esami universitari.

Punto uno. La natura è un concetto relativo

Del resto, la dea Cura ha presa sugli uomini. O no? Ci adoperiamo per modificare il percorso che ci è dato percorrere. Prima che lo spirito passi a Giove e il corpo torni alla dea Terra. In campo agroalimentare, che cosa ha fatto la dea Cura? Ha migliorato le piante. Come? Durante la rivoluzione verde si è spinto molto sulla quantità, ibridi più produttivi, varietà nanizzanti, ma poco si è fatto per intensificare la difesa delle piante. Poco sì, ma relativamente. Oggi se metti in commercio una varietà di insalata senza resistenza alla peronospora (un fungo) nessuno la compra. E giustamente. In questi anni sono state introdotte, solo per fare un esempio, ventisei resistenze alla peronospora. Nell’insalata che mangiamo ci sono geni per la resistenza a un fungo. E nessuno che si scandalizza. Giustamente. Consideriamo quell’insalata naturale. E non ci facciamo caso. Ma introdurre una resistenza significa, in soldoni, spostare geni da una parte all’altra. Noi spostiamo continuamente geni, da tempo immemorabile. Del resto, anche nel mitico passato, ne abbiamo fatti di spostamenti. Per migliorare. 86

Altro che cammelli. Basta leggere Storia popolare della scienza di Clifford D. Conner. Scienza popolare, cioè tentare in tutti i modi di allargare la diffusione della conoscenza. Bel libro. Ah, Conner si definisce marxista. Bei tempi, quelli in cui ci si poteva definire marxisti. Inciso (un po’ lungo): siccome leggiamo i venditori di sapere nostalgico, abbiamo l’abitudine di pensare alle generazioni passate come a uomini in perfetto accordo con la natura. È tradizione comune, per esempio, raccontare di contadini integrati nell’ambiente in cui vivevano, impegnati non a sfruttare né a manipolare la natura ma a prendere da lei solo quello che occorreva davvero. Ancora oggi l’iconografia ci mostra immagini che vanno in quella direzione: contadini che si riposano sotto querce, felici, che fumano sigari o bevono vino, al tramonto, dopo una giornata passata nei campi o (è il caso dell’oggi) non contadini ma presunti loro rappresentanti come, appunto, Vandana Shiva, che abbracciano alberi o mostrano frutti carnosi, come quelli che chissà, forse, esistevano nell’Eden. Tutto in queste immagini lascia intendere il sano rapporto dei figli con la madre terra. Sono quegli elementi impazziti che arrivano a noi e che portiamo con noi, divulgandoli durante le feste. Facciamo guai in questo settore. Eppure, basta approfondire lo studio della cultura agricola, del suo «sapere popolare», per accorgersi che questo rapporto non va nella suddetta direzione armonica, ma al contrario si tratta di un rapporto del tipo uomo vs natura. Bruce D. Smith ha scritto un bel trattato, The Emergence of Agriculture. Dimostra che già i famosi cacciatori87

raccoglitori non dovrebbero essere considerati come soggetti passivi dell’ecosistema, uomini, cioè, che si limitano ad adattarsi a un ambiente naturale, fisso e immutabile. Al contrario, questi uomini e queste società arcaiche hanno fatto continui esperimenti di manipolazione di comunità di piante e animali. Un esempio di come popoli preagricoli potevano modificare il paesaggio è fornito dagli indiani Kumeyaay della California che avevano sperimentato la coltura di un gran numero di piante commestibili e medicinali. Avevano piantato ad altitudini maggiori le querce selvatiche e i pini che davano frutti commestibili, e portato lungo la costa la coltivazione di piante che crescevano ad alta quota, come la palma del deserto e la mesquite. Piantarono talee di cactus e altre piante grasse vicino ai loro villaggi. Brutta notizia per i creazionisti. Nemmeno i cacciatoriraccoglitori sono più quelli di una volta. Jared Diamond, poi, autore di uno straordinario saggio divulgativo, Armi, acciaio e malattie, sostiene che questi popoli primitivi erano enciclopedie viventi di scienze naturali. Conoscevano il nome di centinaia e centinaia di piante, il loro utilizzo e la loro funzione. Ora, queste sorprendenti conoscenze non furono patrimonio di un ristretto gruppo di uomini preistorici superiori agli altri, perché l’agricoltura non ebbe inizio in un sol posto per poi diffondersi in altri luoghi. Bei tempi, quelli: la scienza era popolare. Anche se la documentazione archeologica ci dice che la domesticazione delle piante ebbe luogo la prima volta in Medio Oriente (circa diecimila anni fa, ma la data è ancora con88

troversa), è anche vero che analoghi processi si verificarono in modo indipendente in Cina, nelle Americhe, nell’Africa subsahariana e in Nuova Guinea. È opinione assodata, poi, che la domesticazione delle piante fu a tutti gli effetti una «manipolazione genetica». L’espressione va, per correttezza, inserita tra virgolette solo perché non si sarebbe potuta usare prima che si conoscesse la base ereditaria del gene. Ma in sostanza è lecito dire che i cacciatori-raccoglitori che inventarono l’agricoltura praticavano una sorta di ingegneria genetica. Per dare un esempio di questa ingegneria genetica, un altro storico, Jack Weatherford, fa un elenco delle pratiche colturali molto spinte degli amerindi (indiani d’America): sapevano che il granturco si poteva seminare soltanto conficcando saldamente i chicchi nel terreno, dunque sceglievano con cura ogni seme, invece di seminare a spaglio. Questo metodo di semina consentiva loro di coltivare centinaia di varietà di ogni pianta. Per far crescere il granturco, i contadini fertilizzavano ogni pianta mettendo polline di grano sulle sue barbe. Sapevano che, prendendo il polline di una varietà di granturco e fertilizzando le barbe di un’altra varietà, davano origine a un tipo di granturco con le caratteristiche combinate di entrambi i genitori. In pratica gli amerindi praticavano l’ibridazione. Secondo Clifford Conner, tutte queste conoscenze (e innumerevoli altre) erano a disposizione di quelle comunità; costituivano sapere comune, diffuso e popolare. Nessuna comunità, dunque, si è limitata a raccogliere frutta dagli alberi, ma ognuna di loro ha sfruttato l’intelligenza per modificare la natura. 89

Se si parte da questa tesi è forse più facile (e sarebbe più giusto) oggi definire non solo cosa significa natura e come, con quali strumenti (con quali costi e quali benefici) a lei ci rapportiamo, ma soprattutto possiamo capire come e attraverso quali strumenti tonificare e innervare le nostre comunità con il giusto e moderno apporto di cultura scientifica. Come si fa oggi? Come si rende popolare la scienza? Come si divulgano le conoscenze? Università pubblica? Soldi alla ricerca? Soldi alla divulgazione? Dovrebbe essere così. Io direi di sì. E sono sicuro che gli spettri sono con me. Lottiamo per i quarantamila dollari a fondo perduto per i dottorandi, come in Canada? O passiamo al punto due? Passiamo al punto due?

Punto due. Il sogno dei simboli genera mostri?

Punto due, sempre (però) tenendo presente che il primo punto è propedeutico. Passare da una tonnellata a cinque nel giro di pochi decenni è un evento che non scordi facilmente. Cambia tutto intorno a noi. Solo sessant’anni fa un contadino italiano si muoveva, se andava bene, in un raggio di trecento chilometri dal posto dove abitava e mangiava quello che si produceva localmente. Con molta probabilità non riusciva nemmeno a comunicare bene con il collega contadino oltre la montagna, causa la barriera del dialetto. E quella frase che diceva mio nonno: mi sono guadagnato il pane con il sudore della fronte. Ora che senso ha? Di sicuro, il pane non si guadagna più con il sudore della fronte. D’altra parte, uno studio economico su dati Istat dimostra che a un lavoratore di media anzianità e qualifica, bastano cinquanta secondi di lavoro per guadagnarsi una brioche. Dopo sette minuti riceverebbe un chilo di pasta. Dopo tre giorni di lavoro avrebbe assicurato il fabbisogno mensile di cibo. E proprio per dirla tutta, sul pane. Piero Camporesi ci ricorda di quelle società non lontane nel tempo (fino agli anni Venti) nel91

le quali si mangiava pane adulterato che procurava narcosi, oltre che potenti mal di pancia. Un mondo di lavoratori sottopagati che erano costretti a mescolare grano con prodotti infestanti, quali canapa e loglio. Persone soggette così a crisi improvvise indotte dalle intossicazioni che spesso erano collettive e violente. Il pane di ieri. Poi c’è stata la rivoluzione verde, dunque. E il pane di ieri è diventato pane gustoso e a conti fatti di buona qualità. Il costo di tutto questo? Be’, qualcuno, indubbiamente, va conteggiato. La chimica è tra questi. Uso o abuso? Ma siccome la dea Cura non ci lascia tranquilli, alcuni genetisti hanno cominciato, per primi, a partire da metà degli anni Ottanta, a cercare un rimedio. Come? Dotare la pianta di difese proprie. Come? Tecnica del Dna ricombinante. Centinaia e centinaia di ricercatori che lavoravano nel settore pubblico – scienza popolare dunque – cominciarono a occuparsi del Dna ricombinante: trasferire un solo gene, quello utile, da una parte all’altra. Un procedimento mirato, controllato. Chirurgico. Altro che mutazioni, poliplodia, e altri procedimenti che modificano interi set genomici. Difficile da controllare. Un gene utile da una parte all’altra. Centinaia di ricercatori pubblici. Italiani. Università italiane. Prodotti tipici. Niente da fare. In Italia non si può fare. La ricerca sulle biotecnologie si blocca per l’opposizione di due ministri, Pecoraro Scanio e poi Alemanno. Sinistra e destra. O destra e sinistra. Scusate ma non sono sicuro dell’ordine. Alleati. È reato anche fare ricerca o è reato solo fare ricerca? Perché? Come mai? In uno Stato laico è possibile un discorso laico? Caso per caso. Possiamo prenderci o no questo lusso? 92

Voglio dire, permettere che il pomodoro San Marzano decimato dal virus del mosaico del cetriolo – quello che mangiamo ora è un ibrido americano, tipo San Marzano –, grazie alla tecnica del Dna ricombinante sviluppi la resistenza al virus e dunque torni in campo, non significherebbe portare a termine un’operazione meritoria? Prendere i geni per la resistenza da una varietà selvatica (ma non se ne trovano) attraverso incrocio o altro significherebbe anche cambiare intere sequenze genetiche. Quel pomodoro, lo dico per i puristi, sarebbe ancora un San Marzano tipico? Con la tecnica del Dna ricombinante si può, invece, introdurre la resistenza: un solo tratto genico e passa la paura. Usare la dea Cura affinché un prodotto buono come il San Marzano possa allietare i nostri palati? Non si può, pare. Il pomodoro San Marzano resistente al virus è stato ottenuto dalla ricerca pubblica ed è un prodotto fantasma. Perché? Fa paura. E chi sono quelli che, in Italia, si battono contro la tecnica del Dna ricombinante? Scienziati? Nobel per la biochimica? Genetisti di valore? No. Sono Beppe Grillo, Dario Fo, Mario Capanna. E mettiamoci, ahimè, pure Report. Ma hanno delle attenuanti: si fanno consigliare dagli archeoagronomi. È un problema di simboli. Alcuni simboli sono ottimi per non affrontare l’analisi caso per caso. Gli oppositori alle biotecnologie sono fissati su una questione: la fragola pesce. Qualcuno deve averli convinti che esista un prodotto derivante dalla tecnica del Dna ricombinante che si chiama «fragola pesce». Capanna l’ha illustrata a Uno Mattina, il 30 luglio 2007. Gli hanno chiesto che cos’è un Ogm. L’hanno chiesto a Capanna non a Ferruccio Ritos93

sa, il padre della genetica italiana, ma all’ex leader di Potere operaio, Democrazia proletaria e ora ex membro della Fondazione Diritti Genetici. Capanna a domanda risponde sollevando entrambe le mani, dice, pressappoco: da una parte c’è la fragola, dall’altra il pesce artico; si uniscono – e unisce le mani come se volesse simboleggiare la produzione di una frittata – ed ecco la fragola pesce, un prodotto che non sa di niente. E ci credo. Chi la mangerebbe. Nemmeno io. Eccoci allora: altra immagine simbolo che diventa argomento ricorrente non solo nelle feste, ma anche nelle trasmissioni televisive. Fragola pesce, leggenda metropolitana. Eppure dura a morire. Grillo sostiene che sessanta persone sono morte mangiando la fragola pesce. Chissà dove li ha presi questi dati sulle morti. La storia della fragola pesce, comunque, è ricostruita con dovizia di particolari e precisi riferimenti alle fonti dal chimico Dario Bressanini. Basta leggere il suo blog, oppure consultare, on line, il report annuale della prestigiosa rivista «Plant Biology». Spiega da dove è nata la leggenda. Mica ci fidiamo di Grillo o degli archeoagronomi? Insomma, è chiaro che quella mattina Capanna con quella immagine della fragola pesce non stava contestando solo la tecnica del Dna ricombinante ma, con quella semplificazione, stava offendendo un’intera categoria di ricercatori che da anni cercano di migliorare le piante e abbassare l’apporto della chimica. Voglio dire se si parte da un simbolo così falso, poi diventa difficile discutere. Il processo infatti è il seguente: noi abbiamo delle opinioni, i politici dovrebbero leggere 94

le nostre opinioni e tradurle in norme e leggi. Se, in un campo, come quello abbastanza complesso delle biotecnologie, partiamo con opinioni semplificate e false come quella della fragola pesce, poi i politici leggeranno queste semplificazioni e produrranno norme inadatte. Le norme inadatte a loro volta produrranno un ambiente inadatto. Dunque mai come nella modernità per migliorare l’ambiente bisogna migliorare le opinioni. Approfondirle, insomma. La parola «cultura» in senso lato (e la divulgazione) diventa di fondamentale importanza. Se affidiamo la cultura e la divulgazione a persone non competenti sull’argomento, le nostre opinioni non migliorano e nemmeno fanno passi avanti i politici, ecc. Ma non abbiamo i migliori scienziati? E che ce ne facciamo se i progressi della ricerca pubblica vengono poi trattati da persone con poche competenze in quei settori? Alle feste che frequento parlano degli scienziati pazzi, al servizio del potere. Della diossina, delle nanoparticelle, della fragola pesce. Mica di Ferruccio Ritossa. E poi ci lamentiamo delle multinazionali. E certo che gli spettri ci tormentano. Se in testa abbiamo le immagini amplificate da Grillo, Capanna, ecc., poi ci viene paura. Che saranno mai gli Ogm? Ma perché mi dovete costringere a mangiare la fragola al sapore di Paraflu? Chiedo controlli seri. Con questa questione dei controlli, le multinazionali ci vanno a nozze. Avete paura? Fate bene. Noi vi garantiamo controlli seri. Sapete quanto costa portare oggi sul mercato una varietà ottenuta con la tecnica del Dna ricombinante? Devono superare controlli costosi, dai venti 95

ai cinquanta milioni di dollari. Nessuna varietà, ottenuta spostando sì geni ma con metodi convenzionali, è più controllata di un Ogm. Chi lo può fare? Mica la ricerca pubblica. Restano le multinazionali. Che in sostanza hanno comprato in questi anni decine e decine di brevetti dalla ricerca pubblica – la migliore ricostruzione sull’argomento è di Anna Meldolesi, Organismi geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato. E prodotto solo due colture Ogm che hanno avuto un buon successo. Sono per i ricchi, si intende. Quindi anche per noi. Espropriazione di risorse? Un po’ sì. Ma non ci lamentiamo. È colpa nostra se, afflitti come siamo dai ricordi dei bei pomodori di una volta, non ci rendiamo conto degli strumenti che abbiamo a disposizione per migliorare il presente. Ultimo esempio sulla questione. Professor Francesco Sala. Laurea in Farmacia e Scienze biologiche. Si mette in testa – gli scienziati sono così: ossessivi – di salvare la produzione di mele renette, prodotto tipico della Valle d’Aosta. Di cosa soffrono? Sono attaccate da un coleottero, la Melolontha melolontha. L’insetto ha un terribile difetto: attacca le radici degli alberi di melo. Problema serio. La lotta chimica è quasi impossibile, penetrare fino alle radici con antiparassitari è un problema. Le reti di protezione per impedire la deposizione delle uova sono costose. Allora che cosa si fa? Attualmente si ricorre alla lotta manuale. Bambini ed extracomunitari scavano la terra alla ricerca delle larve, le chiudono in un sacchetto, vanno al comune con la cacciagione e in cambio ricevono un po’ di soldi. Francesco Sala pensa di introdurre nel portainnesto del melo una sequenza genica presa dal batterio Bacillus thu96

ringiensis. Questo naturale organismo unicellulare produce una tossina, letale solo per gli insetti, in quanto viene attivata in ambiente alcalino e il nostro stomaco contiene acido cloridrico. E poi i villi intestinali mancano dei recettori che agganciano la tossina. È ritenuto dagli ecologisti della prima ora (ah, gli ecologisti di una volta...) l’insetticida naturale per antonomasia. Viene usato in agricoltura biologica: il settantacinque per cento degli antiparassitari biologici fa uso delle tossine prodotte dal Bacillus. Quindi, se invece di buttarlo in formulazione aerosol in campo, lo introduciamo direttamente nel genoma della pianta, abbiamo una coltura che si protegge da sola. Evitiamo così di passare con le macchine su e giù per i campi. Risparmiamo energia, produzione di anidride carbonica, e magari evitiamo che gli insetti utili che non predano la pianta finiscano stecchiti dalle tossine di Bt buttate per aspersione. Nelle piante dette Ogm in commercio (mais, cotone, colza e soia), è stato introdotto da tempo. Funziona e fa risparmiare. In questo caso specifico però, siccome la modifica interessa il portainnesto, a rigore di logica, l’albero che ne viene fuori non sarebbe nemmeno da classificare come Ogm. Il professor Sala prova e riprova, finalmente riesce. Ottiene degli ottimi meli resistenti alla melolonta. Costo dell’operazione? Diecimila euro. Cosa succede in seguito? Interpellanza comunale. Un verde blocca il progetto: cibo di Frankenstein. Come e perché e in quale Paese democratico un ricercatore deve essere trattato come quel pazzo del dottor Frankenstein? Da dove viene questo immaginario? Catti97

va volontà, ignoranza o l’una e l’altra cosa insieme? O forse le immagini sterili, le fragole pesce, hanno lavorato lentamente fino a impedirci di ragionare nello specifico? Fatto sta che l’albero resistente alla melolonta sta lì ad ammuffire. Ora, se vogliamo – e giustamente – pensare alla qualità (come sostiene Petrini) di un prodotto, siccome la quantità è soddisfatta, e possiamo far finta che ne vogliamo di meno, se ci crediamo alla qualità, è chiaro che questa non nasce sugli alberi. Mai è successo che una mela sia stata buona a prescindere, perché il buon Dio ha deciso di farci un dono. Lo sappiamo, no, è il nostro mito di fondazione: Adamo ed Eva erano incuranti dei doni. La mela (e gli infiniti altri prodotti ortofrutticoli) vengono fuori dal lavoro di selezione degli uomini e ora è necessario non prenderci una pausa, ma al contrario intensificare gli sforzi, perché c’è da badare ad aggiustare un sistema complesso: non solo la mela ma l’intera filiera. Una mela è buona perché è stata migliorata geneticamente, perché abbiamo abbassato la dose di antiparassitari e perché gli operai che lavorano nel settore non debbono per forza curvarsi a raccogliere le larve. Per questo una mela offre qualità. Non solo al singolo che ne gusta il sapore ma alla collettività. Nel caso specifico, Francesco Sala è un piccolo benefattore. Così viviamo un paradosso: da un lato dichiariamo il nostro amore per i prodotti tipici, dall’altro non siamo in grado di proteggerli utilizzando strumenti moderni. Tanto ci sono quei contadini che curvi sulla schiena scavano per cercare le larve della melolonta. Sono così belli. Ap98

partengono a un’antica tribù, sono quasi simili ai Tuareg, vengono direttamente dal passato e lavorano per noi che siamo comodamente seduti nel presente. A lamentarci del presente. Ora, dunque, posso dire agli spettri: vedete, non tutti gli strumenti del presente sono corrotti. Anzi, alcuni servono a migliorare e ad aggiustare errori fatti in precedenza, per superbia, arroganza e assenza d’inquietudine conoscitiva. Ma serve cultura, studio, impegno. Anzi, per parafrasare l’ex procuratore Francesco Saverio Borrelli, bisogna: studiare, studiare, studiare. Più si studia più si è precisi. La qualità dei prodotti, qualunque essi siano, non nasce sugli alberi per incanto. Bisogna prima modificare gli alberi. È la passione per la conoscenza che permette le buone modifiche e nasce da un sentimento di incanto. Però. Se consideriamo questi strumenti come esempi di corruzione, in quanto rientrano sotto la metafora spiegata da Capanna, Grillo, ecc. della fragola pesce, allora non riusciamo a ragionare caso per caso, definire difetti e pregi. Perciò cari spettri, forse, per evitare di svuotarci le tasche e riempire i cessi (cioè consumare consumare consumare) è il momento di unirci ancora una volta e lanciare un appello al mondo della comunicazione. Se vogliamo vederci più chiaro è necessario per prima cosa distruggere quest’immaginario fasullo. Se è necessario affrontare il secondo atto, cioè vivere e non offendere il presente, ma anzi studiarlo con profondità e inquietudine, allora è arrivato il momento di sgombrare il campo dagli equivoci e cercare alleati. 99

E allora, cari compagni di sinistra: e dai, lasciate questi venditori di nostalgia, ascoltate di tanto in tanto un tecnico competente, per favore, è un appello. Invitate Francesco Sala, Dario Bressanini, Daniele Tirelli, Anna Meldolesi, Gianfranco Bangone, Roberto Defez, Gilberto Corbellini, i professori delle università di Portici, Viterbo, Pavia, Bologna, Milano, ecc. Suvvia un po’ di curiosità. Pagate o non pagate gli autori dei vostri programmi? Soprattutto se sono giovani avrebbero il dovere di essere curiosi e aperti al mondo, e selezionare ospiti competenti, anche se non sono noti. Sarebbe un vantaggio per tutti, quello di ottenere informazioni più serie; non fa niente se sono complesse. La complessità ha il suo repertorio di soddisfazioni. Le soddisfazioni sono, poi, elementi utili per procedere in questo benedetto secondo atto. Così, poi, durante le feste parliamo anche d’altro.

La società assorta vs la società aperta. In mezzo l’Italia, ovvero la società new age?

Sapere nostalgico? Mah! Gli spettri mi fanno sapere che arrivo per ultimo. Che malinconia. Essere last and least. Prendo il caffè la mattina, mi guardo riflesso allo specchio del bar. Sono insieme a tante persone. Tutte come me. Hanno letto i titoli dei giornali, commentano le prodezze di Berlusconi. Siamo poco creativi. A parte Roma nun fa’ la stupida. Non ci viene niente da dire. Mi rendo conto che il problema è stato già affrontato decine di volte da sociologi e filosofi. José Ortega y Gasset, per citarne uno. Dobbiamo a lui alcune riflessioni suggestive. Specialmente sulla modernità. Come si possono classificare le società? In due modi: da una parte, le società assorte, dall’altra, quelle aperte. La prima categoria definisce i «Tuareg» quel tipo di società nella quale l’individuo non sceglie. Non vuole o non può farlo. È guidato nelle sue scelte dalla fede e dalle tradizioni. Queste due dimensioni spirituali e sociali gli offrono sia il conforto sia le risposte. La scala dei valori che guidano l’individuo è fatta di valori tradizionali, accumuli di conoscenza e di sapere mai più verificato. C’è un pro101

blema, però, che Ortega y Gasset riesce a individuare: questo tipo di società assorta non è, naturalmente, libera da conflitti, movimenti e tentativi di smuovere lo status quo. Per mantenersi assorta, dunque, questo tipo di società avvolge l’individuo in una fitta trama di segni e simboli, tanto fitta e potente che il simbolo stesso è più forte del reale. Questo significa che la via più sicura e più giusta per risolvere un conflitto è quella di ricondurre il conflitto sotto lo stemma simbolico. Nelle società assorte dunque esiste un’opinione pubblica condivisa che si lega alla visione religiosa. In ultima analisi, una vera e propria autorità. Un’autorità autoreggente, per dirla in breve. Nessuno sente il bisogno di mettere in discussione l’autorità: chi siamo infatti noi per opporci a una tradizione millenaria? Nessuno mette in discussione l’autorità, poi, anche perché nelle società assorte prevale l’abitudine. L’abitudine ci libera dalla nostra inadeguatezza. Ci fa sentire capaci di autonomia. L’abitudine dunque è sacra, come sacri sono i rituali. Nelle società assorte sono le minoranze a essere creative. E sono gli intellettuali in senso lato, insomma i depositari della cultura, a dettare il ritmo dei cambiamenti. Sempre molto lenti. Ma accade. Non c’è niente da fare. A un certo punto, il cambiamento, che è sempre una costante in tutte le società, diventa più veloce, a volte fulmineo. Complotto contro la sacra abitudine? No. A quanto pare si tratta di innovazioni tecnologiche. Cultura in senso lato, insomma. Idee nuove, novità che screditano di colpo il bagaglio di conoscenze che ci portavamo in dote e che, spesso con pigrizia, usavamo. 102

Le innovazioni mutano le aspettative dei singoli, soprattutto di quelli più sensibili e curiosi. Prendiamo dapprima un’altra speciale abitudine: confrontiamo i valori del passato con quelli che il presente ci offre. E cerchiamo di rileggere il modello tradizionale: il nuovo ne esce vincente. La società assorta a questo punto è costretta ad aprirsi. L’individuo deve prendere atto – e spesso lo fa a prezzo di danni gravi sul suo fragile e non preparato sistema nervoso – che il rapporto che fino ad allora aveva stabilito con il mondo e con gli altri non è il solo e unico. Soprattutto non è detto che sia il migliore. Le abitudini si sfaldano, le sacralità si rompono e comincia il contagio. Adesso c’è abbondanza e nuovi prodotti. Si afferma il piacere, l’opportunità, la necessità di scegliere. E si afferma anche l’individuo che nega il principio di autorità. Nasce il principio di azione elettiva, cioè dell’atto libero dalle costrizioni: sono il solo responsabile. Il fatto è che le scelte si moltiplicano ma non sempre abbiamo voglia, passione, intelligenza, curiosità per sostenerle e sperimentarle, correggerle. Il prezzo di tutto questo? Un’incredibile confusione. Il fatto è che non possiamo rinunciare alla nostra dose di abitudine rassicurante. Che cosa scelgo? Quali vestiti? E sono questi vestiti compatibili con l’ambiente? E da mangiare? Mi date la fragola pesce? Ma assolutamente no, voglio un cibo tradizionale, quello prodotto direttamente dal contadino, perché il maiale industriale è pericoloso, non era come quello di un tempo quando pascolava libero e felice per i campi; adesso è chiuso in gabbia, si ammala, produce virus e questi virus si trasferiscono a me. 103

Vogliamo poi parlare del riscaldamento globale che tutte queste novità stanno alimentando? Degli uragani? Dell’anidride carbonica? Della scomparsa delle lucciole? Fatemi scendere, voglio un cammello. O un’abitudine equipollente. La modernità è spossante. Una sfida continua. In Italia poi è arrivata così all’improvviso. Lo spavento c’è stato, i danni sul territorio anche: guardate le nostre coste. Pasolini è stato un profeta della scomparsa del mondo contadino, del j’accuse, dell’abiura, dell’«Io so ma non ho le prove». E alla fine ha vinto Pasolini. Ha avuto ragione anche quando aveva torto. Il suo messaggio, magari, di sicuro letto male, degradato, semplificato, è passato. Il mondo è cambiato, le società assorte spazzate via; l’età dell’oro, quella bella miseria, quelle facce dure e pulite, sono fuggite per sempre. Addio! Tutti adesso dicono di sapere, non hanno le prove e la sparano grossa. E, quindi, le fragole pesce sono tra noi. Ma, mi chiedo a volte durante la notte, perché non ha vinto Goffredo Parise? Sarebbe stato meglio: «Credo profondamente e dolorosamente nella democrazia in Italia, cioè nel grado di maturazione di tutti i cittadini per un discorso pubblico. Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra. Alla democrazia in Italia credo con la ragione, alla pedagogia con il cuore». Avesse vinto Parise sarebbe stato meglio. Meglio per la democrazia italiana moderna. Perché c’è il forte sospetto che per essere moderni bisogna anche essere colti e intelligenti, cioè aperti al mondo, ma, cosa più importante, per 104

essere felicemente moderni, oltre a studiare studiare studiare, è necessario avere una scala di misura, non solo culturale, soprattutto scientifica, dentro la quale muoversi e in funzione della quale poter misurare la distanza che ci lega o ci separa dalle cose. In realtà, a conti fatti, basterebbero poche misure per fornire buoni orientamenti. Ma le buone misure sono tuttavia più difficili da comunicare e nelle società aperte si affermano più facilmente le idee semplici e rassicuranti: le fragole pesce e simili sono le nostre nuove abitudini. In assenza di questo metro, formalmente chiaro, poi si produce di nuovo il sapere nostalgico o quello religioso. La passione per la misura, per il confronto, per la previsione (nella fisica classica conoscere significa prevedere) si perde. Ci riesce difficile comunicare questo sentimento del mondo alle nuove generazioni. E anche gli spettri notturni diventano poi fantasmi che fanno la voce grossa ma che non spaventano nessuno. Anzi diventano di moda, vengono pagati per dire che l’apocalisse è domani, come dicono i vecchi e cari Testimoni di Geova, che gli scienziati sono pazzi e soprattutto ci propongono mezzi di locomozione superati e un po’ esotici: cammelli, asini e via dicendo. Si afferma, allora, rischiosamente, una speciale forma di religione, un nuovo modo di eludere il secondo atto: la new age, dove tutto fa rima con tutto. Non c’è separazione tra le cose, solo unione. Il vero fallimento del secondo atto. E in questa cornice, avanza allora l’ideologia del tè verde. E di Berlusconi.

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Berlusconi e il tè verde

Per i non addetti ai lavori, il tè verde si ottiene dalle foglie della Camelia thea che però una volta raccolte non vengono fatte fermentare né seccare, come invece accade con gli altri tipi di tè. In questo modo gli elementi minerali contenuti nelle foglie non sono dispersi e il tè verde si presenta ricco di antiossidanti, vitamine, minerali (zinco, manganese, potassio, magnesio), alcaloidi vari e polifenoli. Contemporaneamente le foglie del tè verde mantengono basso il contenuto di teina e caffeina. C’è da dire però, cosa buffa ma non strana, che il tè verde non ha particolari aromi, perché questi ultimi si ottengono dal processo di fermentazione. E qui c’è una prima curiosità: il tè verde è usato per profumare alcuni detergenti. Curioso: una foglia non profumata che viene impiegata per dare profumo. Il fatto è che il tè verde è da qualche anno diventato un fenomeno alimentare di massa. Grazie a un’attenta, intensa operazione di marketing, il tè verde si è accreditato ai nostri occhi come l’erba curativa per eccellenza. Basta, secondo la pubblicistica, la sua infusione per curare molti malanni, dai 106

più semplici a quelli più gravi. L’elenco è lungo, varia, se proprio si vuole riassumere, dalla carie al cancro, dall’ipertensione a svariate infezioni virali. Ora, il tè verde è un prodotto antico ma solo relativamente da poco sono state scoperte le sue proprietà e accettate da una gran massa di consumatori. Perché? Su cosa si basa? Gli esperti suggeriscono una risposta: la new age, l’ideologia new age, ossia, una sorta di ideologia romantica degradata e modernizzata, una controcultura nella quale si muovono senza problemi la visione antindustriale, la filosofia del sapere nostalgico, ovvero il sapere millenario delle antiche culture – per dire, le vecchie e buone erbe di una volta di certo migliori e più umane delle medicine che la modernità ci infligge. Questa ideologia ha eletto il tè verde come sua bevanda rappresentativa. Del resto, si sa, la new age è la nostra nuova abitudine, più o meno blanda. Ci protegge dalle sfide della modernità. È vero, siamo continuamente sottoposti a scegliere, giudicare, analizzare. Ci stanchiamo. Meglio rifugiarci in un’ideologia di contenimento. Cosa c’è di meglio della new age? Sincretismo e cristianesimo, Gesù e lo Yin e lo Yang, terreno e trascendente, con la new age si riconcilia anima e corpo, femminile e maschile, spirito e materia, singolo e cosmo, la religione e la scienza. Si è diffusa rapidamente proprio seguendo le rotte della modernità. Ci sono più scambi culturali e dunque più equivoci culturali. Risultato? Tutto si coniuga con il tutto. Pensiero magico. Siamo ancora lì. Sono passati quattrocento anni da quando il botanico Carlo Linneo elaborò la scienza della tassonomia. Una rosa non può rimandare a null’altro che 107

a una rosa. Rimandi simbolici di cui erano specialisti gli alchimisti. E i poeti. Perché una rosa ha un numero sempre uguale di sepali, petali, pistilli e ovari. Una specie è una specie. Ci sono differenze che ci permettono di cogliere l’individualità. Era la nascita della modernità. Vecchia e cara modernità. Quindi arrivarono i chimici che cominciarono a pesare gli elementi, poi i fisici, i genetisti, i biologi. In breve fu disponibile una scala di misura. La misura fa la differenza, la differenza ci offre un valore. E poi? E poi siamo tornati al pensiero magico, alla visione alchemica. Una rosa è un simbolo che si congiunge ad altri simboli. Dove, in quale settore, ha sfondato per prima la new age? Tra i ricchi (a volte detesto i ricchi). Di sinistra anche. Sono loro che hanno studiato, analizzato e diffuso le invisibili connessioni che uniscono i filoni salutistici, la medicina olistica, Padre Pio, la psicologia, lo spiritualismo, in un’unica marmellata ideologica. Sono loro che hanno creduto di dover essere per forza in pace con l’universo, in armonia con il creato. Sono loro che ci spingono a raggiungere i Tuareg con i cammelli, perché lì, in quella valle, regna un mondo sacro e non corrotto. Insomma, per modo di dire. Ci arriviamo in macchina e per l’ultimo pezzo ci affidiamo al cammello, ma questo è un altro discorso. Dice Daniele Tirelli: «L’enfasi che nasce dalle menti sensibili al fascino della new age non si concentra più sulla convinzione su cui si fonda la scienza: guardare le cose dall’esterno. Nemmeno si avvale delle tensioni del Faust che vuole assolutamente e dannatamente scoprire le leggi che regolano l’universo per sfruttarle a proprio beneficio. No. Si limita a ricercare un potere mentale finalizzato al108

la scoperta del sé, al dominio del proprio corpo grazie alle pratiche di varie discipline che facendoci entrare in sintonia con la natura, ci conducono verso la guarigione. Ci rendono più longevi e ci rasserenano lo spirito». La novità però è la facilità con cui questi concetti si diffondono da un’élite al grande pubblico attraverso canali commerciali dei più diversi: settimanali femminili, dove regnano architetti cool che disegnano case in perfetta armonia con la natura, centri commerciali, magari innaturali, ma pieni di negozi che vendono prodotti naturali, erbe, tisane, Cd con musica rilassante, rumori di cascate, gocce d’acqua che cadendo rimbombano piacevolmente. Ancora: proliferazioni di corsi, seminari e centri studi, nei quali si discute e si pratica la meditazione trascendentale, la chiroterapia, la kinesiterapia, l’omeopatia, l’iridologia, il massaggio di polarità, la riflessologia, il tocco terapeutico. La new age poi non è in opposizione a qualcosa, è in pace con tutto e tutti. Figurarsi se si oppone al capitalismo. Quindi, quale migliore religione per opporsi senza opporsi? Ho un timore. Solo da noi la new age è così forte. A sinistra e a destra. Piace a tutti. Siamo tutti un po’ magici. Amiamo la natura e ci piace comprare prodotti naturali. La società industriale non ci piace. La burocrazia ci ossessiona, gli intrighi ci abbattono – io, tra l’altro, devo ancora andare a scuola per la questione di mio figlio, mica è chiaro in che classe lo mettono. E siccome siamo abituati a cercare nell’altro il responsabile dei nostri fallimenti, poiché il melodramma è la nostra musica d’elezione, ossia le condizioni sono sempre avverse e sfavorevoli – mai che pensiamo che siamo artefici 109

delle nostre condizioni – insomma visto il nostro modello di riferimento, è facile che cerchiamo nella new age la nostra sana abitudine per rimediare. La new age, di fatto, abolisce la ricerca che deve compiersi nel secondo atto. Quando la soluzione è complessa basta dichiarare di avere fiducia in qualcuno o in qualcosa, anche perché il qualcuno o il qualcosa presenta sottili connessioni con te. La soluzione ti appare. Poi d’accordo è semplicistica, retorica, spesso una vera puttanata, ma tanto basta. È la nostra abitudine. E qui torna il tè verde. La sua diffusione è in diretta proporzione con la diffusione del pensiero magico. Dove si trova il tè verde? Dovunque. In bevande alcoliche, nella gomma da masticare, nelle caramelle, nei detergenti, nei dentifrici, nelle schiume da bagno e negli shampoo. Si trova anche nei prodotti per lavare indumenti. Ora, per quale principio fisico-chimico, gli elementi miracolosi del tè verde dovrebbero passare dal dentifricio al tuo corpo? Come fanno a passare dal bagnoschiuma alla tua pelle e da qui arrivare, senza subire modificazioni, direttamente in circolo? Come fanno a passare, per esempio, dall’accappatoio, precedentemente lavato con sapone al tè verde, e dalla spugna alla pelle e da questa in circolo, direttamente nella nostra linfa vitale? La spiegazione non c’è. Almeno non è fisico-chimica. Si chiama «principio d’incorporazione». È un principio magico, new age, appunto. Siamo convinti di potere assorbire il principio vitale semplicemente mangiandolo o ancora più semplicemente mantenendo una vicinanza simbolica al principio primo. La sua sola presenza presuppone un benefico contagio con l’esterno. Non 110

importa la quantità. Perché nel pensiero magico la quantità è un concetto che nessuno considera, come del resto alcuni intellettuali di cui sopra non credono alle produzioni quantitative. Loro non mangiano, incorporano qualità. In una società come quella italiana, che ha fatto un balzo in avanti e ne sfrutta i benefici senza considerare i costi, una società il cui ceto intellettuale è composto da preti, cardinali un po’ saggi e un po’ egoisti e letterati che rimpiangono, in questa società, dove il futuro è segnato oramai dall’apocalisse, cosa resta da fare per cercare di definire il proprio spazio? A quale santo bisogna votarsi? Quale principio primo bisogna incorporare affinché un po’ di energia benefica giunga fino da noi? Berlusconi. Un uomo che abbiamo in un modo o nell’altro incorporato, alcuni convinti che andava mangiato per distruggerlo, altri che bastava la sola vicinanza per avere un beneficio tangibile. Ha trovato la strada già segnata. Pensiero magico, rimpianti, difficoltà ad usare gli strumenti che la modernità ci mette a disposizione. Confusione. Mancanza di punti di riferimento. Una cosa vale l’altra. Così Berlusconi è diventano il nostro tè verde politico. Il principio primo della cura. L’archetipo del ci penso io, però non fare domande. È facile. Ti faccio credere che sei come me; di sicuro se hai dei sogni, grazie a me possono risplendere. E chi è oggi che non ha dei sogni? È l’epoca del talento diffuso. Il talento è il buon viatico per il domani. Dei Tuareg non ce ne facciamo niente. Sono andati. Berlusconi lo sa. Quelli della sinistra sono degli sfigati. Del resto il terreno è stato già spianato. Da anni. Così lo vediamo allietare giovani ragazze e maturi capi di Sta111

to, frequentare le ville borghesi e quelle proletarie, le periferie del Napoletano e il centro del mondo. È ubiquitario. Ha invaso anche gli spettri. Lo vediamo rilanciare, non mollare mai e può farlo, può incidere, perché sono anni e anni che il concetto di misura, a destra e a sinistra, è andato perduto e al posto delle unità di misura è fiorito, per successive gemmazioni, il pensiero magico, che come si sa appiana tutto e rende più forti i simboli e i simboli garantiscono la vicinanza. E sempre a proposito di pensiero magico e di vecchie tradizioni. Una è interessante: in alcune antiche culture l’usanza era quella di dar da mangiare al capo, allietarlo con banchetti faraonici e prelibatezze. Un eccesso di alimentazione. Semplice sillogismo: riempiendo il ventre del capo si riempiva anche quello dei sudditi. Così mentre pensiamo ai cammelli, ai Tuareg, insomma a corpi scomparsi – sempre di simboli si tratta – Berlusconi ha pensato bene di usare il suo corpo e metterlo al servizio del principio d’incorporazione. Lui riempie il nostro ventre e noi riempiamo il suo. Il tè verde è a disposizione di tutti. E i gusti sono cambiati. Ma, mi chiedo, a proposito di tempi che cambiano, mica abbiamo nutrito troppa fiducia nel fatto che i gusti raffinati, quelli stabiliti da uomini di cultura, quei gusti potessero fornire anche una misura e regole di comportamento alla collettività incolta? Mi viene sempre in mente un aneddoto che spesso racconta Antonio Pennacchi. Sempre a proposito di Pasolini, che si lamentava dell’arrivo della speculazione edilizia a Sabaudia. Pasolini stava facendo dei sopralluoghi per un film sulla spiaggia e si la112

mentava: non sapeva dove puntare la cinepresa. Dovunque la puntasse c’era un abbozzo di villa in costruzione. La civiltà dei consumi stava uccidendo un luogo bello e incantato. Un gusto barbaro avanzava. Vero! Andate oggi a Sabaudia, cercate di accedere al mare, difficilissimo. Chilometri e chilometri di case lungo la costa che vi privano dell’ingresso al mare. Pasolini profeta. Pennacchi racconta questa storia inserendo però un particolare. Pasolini, ci ricorda Pennacchi, aveva una villa, insieme a Moravia, proprio a Sabaudia. E in molti a Sabaudia lo ricordano arrivare con la sua Alfa Romeo, felice di correre lungo l’antica strada che da Roma portava fino a Latina e poi curvare a sinistra verso Sabaudia. Chissà quante lucciole avrà ucciso Pasolini con quelle corse notturne, dice Pennacchi. E chissà, aggiunge, se Pasolini avrebbe provato piacere nel sapere che gli operai di un tempo, magari arricchiti, volevano anche loro la villa sulle dune, perché come Pasolini, subivano il fascino di quei luoghi. Anche loro desiderosi di correre come Pasolini lungo la strada. Un problema questo, indubbiamente. Qui gli spettri non ci possono tanto aiutare. È un problema credere che i gusti delle persone raffinate e intelligentissime (Pasolini lo era) potessero creare una differenza di valore. Del tipo: io mi posso permettere di avere la villa a Sabaudia perché sono sobrio e non inquino, ho acquisito con le dovute letture la giusta coscienza per guidare un’Alfa Romeo o comprare la villa sulle dune senza far male a nessuno. Sono in possesso di una sorta di aristocrazia culturale, quindi me lo posso permettere. Tu no. È un po’ come nell’Uomo che amava le donne, di Truf113

faut. Il protagonista, un eccellente e poetico, curioso libertino, viene avvicinato da una persona che gli chiede un consiglio in merito alle donne: come fare a tradire la moglie. È sicuro della sua domanda. È sicuro, cioè, di aver domandato al tipo giusto, potrà trovare complicità, entrambi amano le donne. E no, gli risponde il protagonista, tu non te lo puoi permettere, io sì, le amo davvero, tu no. Io sì tu no. Il mare di Sabaudia, le dune. Io sì tu no. Problema. Come si fa? Quei gusti alti sono diventati di massa, sono scesi a illuminare una massa che non poteva permettersi di avere quel genere di gusti. Ebbene, la massa li ha trovati seducenti. Come si doveva fare per rispettare le giuste ambizioni dei singoli e proteggere la collettività dai costi di quelle stesse ambizioni? O non ci abbiamo pensato per niente o l’abbiamo fatto in maniera sbagliata. Fatto sta che erano in tanti ad avere ambizioni di riscatto e sono in tanti ad averne ancora. Ci voleva proprio un secondo atto, cioè dei limiti, o delle misure adeguate alla nuova situazione. Ma forse eravamo entrati da tempo nel mondo new age; la misura era saltata e tra il singolo e il mondo non ci passavano che pochi gradi di separazione. Nel caso in esame, per restare in tema, Berlusconi è il mondo dunque è il singolo. Moderno, veloce, scattante. Fatemi accumulare e per magia sarete accumulati. Sono stati aboliti gli ultimi gradi di separazione. Lui del resto ha un vantaggio: non deve provare nulla, basta il giuramento. Come il tè verde non deve davvero garantire di passare dall’accappatoio al nostro sangue. Si può fare: il tè verde passa leggero sul nostro secondo atto. 114

Dacci oggi il nostro metodo scientifico quotidiano

E bravo, mi dicono gli spettri durante la notte. Hai fatto il libro. Ti sei sfogato. Bene. Ma questo secondo atto? Ci sono elementi che inquinano la misura, ce l’hai detto e ridetto. Va bene. Bravo. Ti sei sfogato, non ne possiamo più. Ma che cos’è il secondo atto? Un esempio ce lo vuoi fare, sì o no? Mi sveglio e penso che gli spettri hanno ragione. Cerco di fare mente locale, è notte, non è facile. Penso al secondo atto e per definirlo mi vengono solo tre parole: non lo so! Spettri, aspettate un momento. È una domanda impegnativa. Domani poi devo andare al ministero a lavorare. Un attimo. Ci penso. Sì, perché la domanda degli spettri è seria. Come fare ad affrontare il secondo atto. Cioè, come fare per cambiare il nostro Paese, per passare dalla cura alla manutenzione, per parlare costantemente con i presidi che gestiscono il futuro dei nostri figli e assicurare loro una buona sezione? E per i contadini nostrani? In sintesi, come fare per ricominciare e ricostruire un’idea di misura? Per sconfiggere questo benedetto tè verde? Come fare per definire le 115

differenze e di conseguenza i valori? Sei uno scrittore, no? Leggi tanto. E allora, dacci un po’ di luce, non limitarti solo a prevedere la data della prossima apocalisse. Ho una suggestione. Viene da lontano però non nel senso temporale. Niente nostalgia. Nel senso spaziale, intendo. Viene dal tennis. E non c’entra nemmeno il gioco. Si tratta di una dichiarazione d’amore che Andre Agassi fece a sua moglie, la tennista Steffi Graf. Nella Hall of Fame Agassi introdusse sua moglie. Il discorso lo cito a memoria: «Ogni giorno cercavo di raccontare a me stesso l’amore che provavo per te. Utilizzavo la piccola lavagna che avevamo in cucina per scrivere qualcosa su di te, a volte un pensiero, a volte un racconto, a volte una sola riga». Poi Agassi fa una pausa e dice ancora: «Ma forse ci deve essere un modo più semplice per dirlo: ricordo un giorno quando guardai il tetto di una cattedrale. Era avvolto dal sole e tutta la struttura brillava. Io cominciai a pensare a quanti uomini avessero lavorato giorno per giorno a quella struttura, magari inconsapevoli di cosa sarebbe venuto fuori, di sicuro dimenticando gli ordini della committenza. Lavoravano duro, giorno dopo giorno, non cercando l’applauso degli altri, ma con la sicurezza che solo un impegno serio e profondo avrebbe arricchito la loro anima». Poi Agassi raccorda questa immagine bella e sincera all’amore che la moglie ha per il tennis e conclude dicendo: «Tu Steffi hai combattuto ogni giorno in campo per vincere i tuoi avversari, ma ora, io qui, in piedi davanti a te, ti dico, che per me, per la tua famiglia, per i nostri cuori tu non hai rivali. Hai vinto tu». Va bene, sono sentimentale e trovo questa dichiarazione bella, commovente. Ma quello che mi interessa, dopo 116

aver versato le necessarie lacrime, è però quel passaggio che riguarda la cattedrale: costruire non per l’applauso degli altri ma perché solo un impegno serio e profondo può bene orientare la nostra vita. Credo oggi che quest’impegno serio e profondo, giornaliero e al riparo dagli applausi, sia patrimonio della scienza. E della sua metodologia. Il secondo atto, quindi, comincia con l’acquisizione di una metodologia conoscitiva. Visto che tutti ricerchiamo l’applauso, visto che siamo seguaci di Fabrizio Corona, o meglio, siamo persone che sempre meno amano la passione, che è disturbante, spesso improduttiva, conflittuale – a questa preferiamo l’emozione che per sua natura è veloce, repentina e labile –, visto che siamo persone che disprezzano gli altri, a meno che gli altri non ci amino, e che siamo, quindi, più propensi a convincere gli altri a forza di begli esempi; visto che ogni momento della nostra vita deve essere così speciale da meritare l’applauso e per ottenerlo siamo disposti a fotografarci e giocare sulle luci con Photoshop e inserire rapidamente la bella foto su Facebook, allora credo che possiamo, nonostante quest’aspetto della modernità, che mi piace poco, ma tant’è, credo che possiamo impiegare le energie che ci restano per costruire ogni giorno qualcosa, solo per il gusto di impegnarci profondamente e seriamente. Non resta che scoprire questo piacere e poi finanziare la ricerca e in ultima analisi affidarsi alla metodologia scientifica. Insomma un patto sinergico (non nel senso di agricoltura) tra le due culture. Per il bene dell’Italia, e per costruire il futuro, potremmo scambiarci saperi e metodi. L’epistemologia, infatti, si basa su un costante, giornalie117

ro, ordinario, secondo atto. Il secondo atto è un’abitudine, non c’è niente da fare: va, lentamente, acquisita. Compagni, amici, fratelli, spettri, è di questo che abbiamo bisogno. Mi rendo conto, il metodo scientifico non è di moda. La moda è dire che la scienza è venduta al potere. Questo lo dicono in tanti. Trattasi, infatti, di un fenomeno (tristemente) noto. Provate ad affrontare un argomento scientifico – Ogm, nucleare, cellule staminali, ecc. – con persone che militano in associazioni varie, ambientaliste, politiche di sinistra. Dovunque vi capiterà di affrontare l’argomento – angolo di strada, radio, televisione –, ascolterete la seguente affermazione: nella nostra associazione (ambientalista, politica, ecc.) militano scienziati indipendenti che svolgono ricerche indipendenti. È la vecchia questione: il nostro orto scissionista è più bello del vostro. Oppure, siccome voi siete corrotti noi dobbiamo difenderci dalla corruzione cercando un protettore. Siccome sono uno scrittore, posso spingermi a dire che dichiarazioni siffatte vanno catalogate sotto la voce: «affermazione retorica o ricattatoria». Il tuo interlocutore, cioè, vuole estorcerti un’emozione e suscitare l’applauso. Non intende guadagnarsi la tua attenzione con l’analisi ma, al contrario, ti spinge subito in un angolo dichiarando che lui è dalla parte giusta del mondo perché i suoi scienziati sono, appunto, indipendenti. Capite bene che un’affermazione siffatta contiene un sottotesto nemmeno tanto velato: siccome le risorse sono limitate, se noi abbiamo assunto gli scienziati indipendenti, voi vi beccate gli scienziati non indipendenti. Dunque, tanto per chiarire (ancora un sottotesto), vi beccate 118

quegli scienziati che sono al servizio delle multinazionali, finanziati con soldi sporchi che mascherano la verità, ecc. In teatro o nella narrativa quelli che vi ricattano emotivamente sono considerati o mestieranti o persone (artisticamente) disoneste. Agli angoli delle strade, in televisione o alla radio, però, espressioni ricattatorie come quella di sopra sono una costante: fidatevi di noi, votateci, finanziateci, perché la nostra ricerca è indipendente. L’altra è condotta da scienziati servi del potere. Quello che preoccupa non è tanto il singolo ricatto emotivo, ma che queste affermazioni, ripetute sui media e ripetute in un Paese come l’Italia, storicamente sensibile al fascismo e quindi alle affermazioni totalitarie, queste affermazioni, dicevo, formano un immaginario poi difficile da smontare. Ogni volta bisogna, con pazienza certosina, spiegare che il metodo scientifico ha il dovere di scartare le dichiarazioni retoriche ad effetto. Ma mentre spieghi l’abc epistemologico, l’altro è già avanti pronto a ricattarti con un’altra affermazione retorica. Non si finisce mai. In realtà le discipline scientifiche si basano su un ottimo metodo. Questo metodo si fonda su tre importanti step: prima di tutto il lavoro viene pubblicato su una prestigiosa e accreditata rivista, in secondo luogo viene discusso, cioè esaminato punto per punto e pubblicamente da gruppi di scienziati che impegnano tutte le loro energie e il loro sapere per trovare eventuali punti deboli e dunque scartare il lavoro o decidere di proseguire e infine vengono eseguiti esperimenti in vari laboratori, esperimenti che per essere considerati validi devono per forza riprodurre i risultati ottenuti dalla teoria di partenza. 119

Questo metodo dunque convalida una teoria solo dopo un travagliato esame e un’accurata ricerca della prova. È un metodo democratico, nel senso più umile del termine. Per riuscire nel loro intento gli scienziati devono redigere un inventario di quello che regge all’onere della prova e di quello che invece non funziona. Insomma, nella comunità scientifica, io non posso dire: siccome sono indipendente ho visto l’unicorno, fidatevi e finanziatemi. Devo non solo dimostrare la presenza dell’unicorno, ma affidare i miei dati a una comunità di esaminatori, i quali, a prescindere dalle mie nobili dichiarazioni di indipendenza, li dovranno analizzare punto per punto, e poi, attraverso esperimenti ripetuti in vari laboratori, riprodurre il mio unicorno. Il grande pubblico generalista a digiuno di metodo scientifico e, a ragione, annoiato dalle procedure di validazione, spesso finisce per accontentarsi della prima notizia, specie se è sostenuta da un forte tasso di retorica. Il più delle volte le notizie che finiscono sui media, e che tanto allarmano o indignano, riguardano lavori che sono ancora nella fase preliminare. In sostanza, ci si può spingere ad affermare che la scienza è contro le singole opinioni, ossia chiede con insistenza la verifica (pubblica e democratica) di quanto affermato. Si capisce quindi che questo metodo mette costantemente alla prova le nostre opinioni. Se uno dice: i napoletani sono dei Tuareg, e magari vuole solo sollecitare la nostra attenzione su un aspetto particolare dei napoletani, allora, d’altro canto, per evitare che quest’affermazione, con il tempo, stancamente lavori su di noi e contribuisca 120

a formare uno stereotipo in ragione del quale non solo elaboriamo delle opinioni – per esempio, dobbiamo aiutare i Tuareg – ma poi, in ragione di quelle opinioni, attuiamo scelte politiche (magari annunciate in modo pomposo e retorico e mai verificate a consuntivo, tanto i Tuareg non cambiano), insomma per evitare che queste immagini diventino sterili, è necessario divulgare, faccio per dire, i dati raccolti da Gianfranco Viesti, in Mezzogiorno a tradimento. Viesti dimostra, con lunga (e certo un po’ noiosa) esposizione di dati, che i soldi che arrivano al Mezzogiorno, nonostante sia abitato da Tuareg e nonostante quello che dice la Lega, sono molto scarsi. Se vogliamo, faccio per dire, giudicare il merito di una ricerca scientifica e dunque decidere i finanziamenti ad essa associati, non sarebbe meglio fare come nei Paesi anglosassoni? Affidarci a una peer review? Il mio studio viene giudicato da un gruppo di scienziati. Ma che caratteristiche devono avere? Prima di tutto devono essere di provata autorevolezza. Come si fa? Ci sono degli indici che misurano il grado della loro affidabilità, per esempio pubblicazioni su riviste autorevoli, risultati raggiunti nel loro campo, ecc. Poi devono essere indipendenti dalla fonte di finanziamento. La pubblica amministrazione stabilisce una serie di regole per eliminare ogni possibile conflitto d’interesse. Lo so – me lo dicono anche gli spettri in continuazione – che da noi è difficile, ma perché non cominciare? «Non svuotate la peer review», dice Gilberto Corbellini in un suo articolo, uscito sul «Sole 24 Ore», domenica 14 giugno 2009. In Italia solo il dieci per cento dei finanziamenti devoluti alla ricerca passano attraverso un 121

metodo di revisione alla pari – ah, Corbellini nell’articolo dice anche altre cose. Che gli anglosassoni sono protestanti e ci tengono a fare le cose per bene; quindi, per prima cosa, ritengono necessario evitare il conflitto d’interesse. Il nostro è un Paese cattolico, la scienza è portatrice di pensiero critico, quindi meno scienza per tutti. Fatto sta che la percentuale segnalata da Corbellini è bassa. Esempio della suddetta serietà e della mancanza di serietà nostrana. Una settimana sì e l’altra no nasce una polemica sul biologico: se salva o non salva la qualità dei prodotti, l’agricoltura, i contadini, ecc. Finché viene fuori una «Systematic Review» che esamina cinquant’anni di studi sui prodotti coltivati con il cosiddetto metodo «biologico». Ebbene, i media non riescono a impostare sulla questione un discorso serio? Come mai? Me lo chiedo anche io, perché nonostante abbia quasi finito di scrivere il libro e sto qui a parlare dell’importanza della metodologia scientifica, venerdì 31 luglio 2009, intervistato dalla trasmissione radiofonica Fahrenheit, non sono riuscito a spiegare con serietà di che cosa si stava parlando. Perché? Sinceramente? Ero impreparato. Stavo in vacanza con la famiglia, a Venezia, non avevo lo studio sotto mano. Però mi sono detto: ne ho letti tanti di studi, ce la posso fare. E invece no: colpo di scena. Insomma, mi lamento dell’impreparazione altrui e poi quando tocca a me perdo l’occasione. Fretta? Problema contemporaneo. Forse. Peccato. Scopro che la «Systematic Review» meritava molta attenzione. Proprio per la questione metodologica. Il secondo atto. Gli spettri durante la notte mi hanno tormentato. E deriso. 122

Cerco di recuperare. La Food Standards Agency vuole vederci più chiaro e commissiona un report alla London School of Hygiene & Tropical Medicine. Argomento? Capire se i cibi coltivati con metodo «organico» siano, dal punto di vista nutrizionale, superiori a quelli convenzionali. Come fanno? Hanno raccolto 52.471 studi, pubblicati in riviste specializzate, in varie lingue, dal 1° gennaio 1958 al 29 febbraio 2008 – la ricerca è stata portata a termine utilizzando il portale PubMed che raccoglie circa diciotto milioni di articoli pubblicati su riviste scientifiche. Dopo di che i revisori hanno stabilito dei parametri. Per esempio, sono stati esclusi tutti gli studi che non risultavano in peer review, quelli che non avevano l’abstract in inglese, quelli che non contenevano analisi comparative tra cibo organico e convenzionale, quelli che non segnalavano la composizione dei nutrienti e di altre sostanze, quelli che non analizzavano l’impatto della fertilizzazione e quelli che non registravano i diversi metodi di coltivazioni. Dopo questa scrematura, dei 52.471 studi ne sono rimasti soltanto undici. Questi ultimi sono stati riesaminati e la conclusione è stata che non ci sono dati reali per sostenere la superiorità dei cibi organici. Quando dunque i difensori del cibo organico sostengono invece che ci sono studi che dimostrano il contrario, noi, noi in senso lato, cioè noi operatori culturali, abbiamo il dovere di chiedere quali: quali studi tra questi 52.471? Quelli esclusi o gli undici presi in considerazione? È chiaro che quelli di «Systematic Review» sono i benvenuti, proprio in ragione della loro metodologia conoscitiva. Fa piacere che esistano revisori dei conti, per così 123

dire, capaci di esaminare cinquant’anni di studi e fornirci dei parametri di riferimento. È una buona narrazione. Primo atto: c’era una volta uno scontro epico tra due contendenti, quelli che amavano il cibo convenzionale e quelli che amavano la produzione organica. I due contendenti si sono quasi scannati, hanno giurato di avere entrambi ragione, tirato fuori dati e misure, anzi si sono messi in posa e hanno annunciato trionfanti che i loro dati erano i migliori possibili sull’argomento. Così, ognuno di loro, in questo bailamme, ha cercato il modo per mettere a frutto le proprie convinzioni, finché un bel giorno – è l’avvio del secondo atto – dei principi autorevoli sono venuti a trovarci e ci hanno detto: da ora in poi prenderemo sul serio tutto quello che voi direte, esamineremo caso per caso i vostri argomenti. Passa un lungo anno di lavoro durante il quale, mentre noi continuiamo, anche alle feste, a discutere – tè verde sì, ma no, omeopatia, sì no, cibo organico sì o no – loro, i principi autorevoli che non ci tengono nemmeno troppo ad apparire, producono una «Systematic Review», che dovrebbe condurci al terzo atto. Come finisce? Mah, direi che sarebbe un buon terzo atto se si smettesse di fare la guerra. Esempio: ho un piccolo appezzamento di terra ereditato dai miei nonni. È incolto, in collina, in una zona impervia. Però queste zone qualcuno deve pur coltivarle, altrimenti quei suoli saranno soggetti a dissesto idrogeologico. Sono giovane e nutro speranze per il futuro: decido di coltivarlo. Agricoltura biologica. Mi faccio due conti, ce la posso fare. Prendo anche un contributo che varia da coltura a coltura e a seconda delle zone e dei metodi di 124

produzione e di sicuro spunterò un prezzo più alto. Da un punto di vista economico il biologico conviene. E in alcune zone è anche utile. Siccome però ho letto studi in «Systematic Review» e non credo alle parole magiche, sono anche curioso, e poi, da tecnico, so che in campo è tutta un’altra storia e bisogna adattarsi di volta in volta alle sempre mutevoli condizioni. Diciamo che non mi vanto, non faccio troppo affidamento sulla superiorità dei cibi biologici. Cerco semplicemente di fare un buon lavoro. Mantengo la mente aperta, per così dire. Se un giorno viene a trovarmi un coltivatore di mais della Pianura padana, del Bergamasco, e mi dice che non ce la fa più, che ha tanti ettari e tutti sono attaccati dalla piralide (un lepidottero che attacca culmi e spighe) ed è costretto a passare anche quattro volte in campo per buttare agrofarmaci, spendendo soldi, io, coltivatore di un piccolo appezzamento, non sarò così presuntuoso da dire: passa al biologico e tutto si risolve. Anzi, lotterò insieme a lui affinché, per esempio, possa coltivare il mais Bt, cioè quel tipo di mais che contiene il gene che produce la tossina letale per lepidotteri e coleotteri. Non dirò mica: ah, la fragola pesce, ah ci sono problemi per la salute. Non lo dirò. Ho letto i report dell’Efsa (autorità europea per la salute alimentare) e so che questa autorità è più titolata di Capanna e di Grillo – almeno in questo campo. A conti fatti, poi, si risparmia chimica. Non bisogna nemmeno affittare trampoli (sì i trampoli) per entrare in campo e trattare le piante quando queste sono alte un metro e insomma, io coltivatore biologico e tu, maiscoltore convenzionale, ci accordiamo, per una volta, perché entrambi ab125

biamo idee chiare sulla questione e non abbiamo voglia di farci la guerra per difendere i nostri piccoli e grandi orti. Se il maiscoltore e il coltivatore biologico leggono entrambi i report e si fidano della metodologia scientifica costringeranno i politici a esaminare questioni complesse caso per caso e a legiferare senza trucchi. Naturalmente potrà accadere che cambino le condizioni e in quel caso dovremo reagire, velocemente. Alla fine, c’è un’unica strada: la cultura. Un intellettuale impegnato è anche un intellettuale di servizio. Serve a raffinare le scorie. A gestirle. Un intellettuale, quando è a servizio della cultura, dovrebbe riuscire a indicare cosa dobbiamo comprendere nei nostri ragionamenti e cosa va escluso. Spettri dai, lottiamo insieme. Abbiamo bisogno di cultura in senso lato e di diffondere le informazioni ma a patto che queste vengano costantemente riviste da autorità competenti. Spettri, lottiamo affinché torni, in questa confusione ordinaria, un principio di autorevolezza. Perlomeno ci togliamo il gusto di valutare se dare o meno ragione a Vandana Shiva e impegnarci per mettere su un bel parco cammelli o scegliere di finanziare una tecnologia nuova. Questo non vuole dire naturalmente che bisogna lasciare perdere l’idea della Shiva, se funziona. Io però, come vi dicevo, ho avuto lo shock da piccolo, quindi sui cammelli non ci salgo. Come si fa a portare avanti questa battaglia. Siamo ancora nel secondo atto, tormentato. Acquisire un dettagliato e autorevole report da parte di una fonte d’informazione, che magari contribuisce alla sua diffusione pubblica, significa forse dare una possibilità concreta a ciò di 126

cui parla Parise: il grado di maturazione dei cittadini. È quello il punto a cui tendere. Con costanza. Sarebbe una soluzione definitiva. Non credo. Sta di fatto che di sicuro una trattazione analitica e approfondita, seria e condivisa, è un dovere per tutti quelli che fanno informazione ed è ancora più doverosa per tutti quelli che si ritengono, a torto o ragione, intellettuali. Definizione che comunque andrebbe presa molto sul serio, perché si tratta, infatti, di un mestiere molto serio. Insomma sarebbe o no più interessante per me e per gli spettri imparare dolorosamente ma profondamente a ragionare non sull’applauso che ci consente di apparire migliori, ma, al contrario, in base a unità di misura, di modo che possiamo realisticamente capire se questo Paese non sa gestire i rifiuti e dunque non merita niente, e dobbiamo fidarci del ventre di Berlusconi? E ci sarebbe ancora da capire, realisticamente, se è o non è cultura da promuovere e da sovvenzionare quella espressa da tecnici nucleari che sono capaci di progettare un impianto affinché (parliamo dei reattori di quarta generazione) abbiano un solo incidente nel giro di un milione di anni – così prevede il protocollo di realizzazione. Queste procedure di controllo nascono dalla passione e dall’inquietudine conoscitiva e dunque vanno incentivate? O, al contrario, è meglio, forse preferibile, affidarsi alle parole magiche, o ai cari vecchi ricordi, che male che vada contribuiscano a farci apparire pittorescamente inconfondibili agli occhi degli stranieri? In un regime di opinioni diffuse e per di più sostenute con escamotage ricattatori in cui vince chi la dice più 127

grossa (accusando gli altri di malafede) il metodo scientifico dovrebbe non solo diffondersi a partire dalle scuole elementari (così si può ancora migliorare), ma fungere da bussola orientativa, soprattutto in un Paese come l’Italia, sempre così in bilico tra interesse privato e pubblica credulità. Mi chiedo, di mattina presto, quando c’è una bell’aria e una leggera brezza di mare che pulisce ogni cosa, mi chiedo: che ci vuole? Ci deve pure essere una fonte autorevole che per il bene di tutti voglia prendersi questa responsabilità. Deve essere possibile ascoltare persone competenti che ragionino caso per caso ed esaminino questioni in maniera approfondita, persone che forniscano parametri di scala così che possiamo decidere da quale gradino guardare il mondo o questa bella giornata che si mostra nuda e indifesa davanti ai nostri occhi.

Le conseguenze morali del progresso

Che bel titolo. Peccato però: non è mio. Last and least, dicevo. L’ho rubato al titolo originale del libro di Benjamin M. Friedman, professore di Economia ad Harvard, Il valore etico della crescita. Sviluppo economico e progresso civile. Quando si parla di «conseguenze morali» dei processi di crescita economica, noi tutti, io e gli spettri, pensiamo a cose orribili. Di notte ci svegliamo e facciamo l’elenco. Siccome io nella catalogazione sono bravo, per via della nevrosi, compilo subito l’elenco: inquinamento ambientale, disuguaglianze tra classi sociali, degrado etico, aumento dei sentimenti di rifiuto e di intolleranza verso il diverso e l’individualismo che avanza. Del resto gli spettri esistono per questo, inquietarci e costringerci a riposizionare i nostri strumenti. Però è Friedman ad assumere le sembianze di uno spettro. Anzi di un antispettro. Ci tiene a farci percepire un aspetto del problema che ci sfugge. Per pigrizia culturale, naturalmente. C’è una correlazione diretta, anche se non lineare, tra crescita economica e progresso morale di una società. Attenzione, ci dice Friedman: non c’entra il Pil, quan129

to piuttosto la percezione che i cittadini hanno del proprio standard di benessere economico, attuale e in divenire, confrontato con quello del passato, dei propri genitori, o con quello di altre società. Ovvero, la coscienza di vivere meglio che in passato riduce l’urgenza di vivere meglio degli altri, di conseguenza molti dei comportamenti che derivano da questo desiderio competitivo sono sublimati rispetto ad altri obiettivi. Ciò significa, sempre secondo Friedman, che i Paesi tendono ad andare in una direzione moralmente positiva quando la maggior parte dei loro cittadini percepisce la possibilità di un proprio miglioramento nelle condizioni di vita. Viceversa, quando non avvertono tale opportunità, si assiste ad un arroccamento su posizioni etiche antidemocratiche e moralmente condannabili. Insomma, è più facile che i cittadini sviluppino una maggiore tolleranza verso gli immigrati se si sentono sicuri della propria condizione economica. Non solo: «Quando la maggior parte dei cittadini beneficia di buoni standard materiali, la società di cui fanno parte s’impegnerà maggiormente a creare nuove e più avanzate istituzioni democratiche». Così la pensa Friedman. Questo vuol dire che il progresso ci chiede di essere all’altezza dei tempi, ovvero capaci di trovare strumenti sempre più appropriati per monitorare il mondo. Non ci vuole niente per perdere quello che abbiamo acquisito. E questo dovrebbe anche significare che quando qualcuno, generalmente quelli di Greenpeace, ci ferma agli angoli delle strade per allertarci sulla sempre più diffusa scomparsa delle foreste, noi dobbiamo essere all’altezza dei tempi. Dire: no, non è corretto. Per esempio, in Italia le 130

foreste sono aumentate di dieci milioni di ettari. Del resto è chiaro, in tanti si sono concentrati sulla costa. In Italia le foreste stanno bene e anche la flora e la fauna sono in ottime condizioni; i lupi sono passati da cento esemplari a cinquecento. Basta entrare in un bosco per vedere un lupo. Ma tutto quest’ottimismo non va continuamente sbandierato; bisogna meritarselo giorno dopo giorno. Una foresta necessita di manutenzione e di cure. Faccio per dire: alberi vecchi assorbono poca anidride carbonica. Una vecchia foresta abbandonata a se stessa serve a poco o niente. È il progresso, bellezza. Ci vogliono soldi e fondi per coltivare un bosco e mantenerne integri i benefici. Gli spettri dovrebbero cambiare disco, non più: dateci soldi per non fare distruggere le foreste, ma fondi per manutenere quelle che abbiamo. Imparare a gestire e a usare bene qualcosa di utile che si ha già, come una foresta, è più difficile. Credere che tutto vada a rotoli e finanziare distrattamente qualcuno che un giorno pianti diverse varietà di alberi è molto meno impegnativo e molto meno costoso. Del resto è sempre una questione di punti di vista e di soluzioni proposte. Ascoltate Serge Latouche e vi parlerà di terribili conseguenze di questo progresso, magari a mo’ di esempio, vi descriverà la desertificazione del suolo agricolo, sempre più degradato. Vi indicherà anche la soluzione, appunto decrescita felice. Nei salotti dei ricchi è una parola che funziona, sembrerete più democratici e attenti al benessere collettivo. Ma, appunto, è una sensazione limitata ai pochi felici che fingono d’essere impegnati e infelici. Se invece non leggete Latouche, ci impegneremo un 131

po’ di più per recuperare dati più precisi. Sulla rivista «Soil Use and Management» (o la rivista «Le Scienze» che ne pubblica degli stralci), leggeremo infatti dati diversi: circa il ventiquattro per cento dei nostri suoli è degradato. I risultati sono stati ottenuti monitorando il nostro pianeta con dei satelliti e calcolando la differenza tra la radiazione luminosa rossa e quella infrarossa. Questo rapporto esprime il grado di salute del terreno, perché la clorofilla assorbe quasi completamente la radiazione infrarossa e riflette quella rossa. Le situazioni peggiori si registrano però in Africa o a sud dell’Equatore, in quei Paesi, cioè, che non crescono o crescono poco, quelli che non riescono a essere all’altezza delle conseguenze morali del progresso – per dirla alla Friedman. Allora, questo secondo atto? Il lungo travagliato esame di coscienza? La descrizione accurata di problemi, conflitti e argomenti. Davvero non fanno per noi? Non ci meritiamo il progresso perché non sappiamo gestire le sue conseguenze. Il progresso è un costo, non c’è dubbio. Che si fa? Si va avanti o indietro? Si canta Roma nun fa’ la stupida, s’inneggia alla creatività che risolve il problema regole o si aspira alla conquista dei quarantamila dollari al primo dottorato utile? È un sogno a occhi aperti? Ma nessuno di noi può farne a meno. Di sognare a occhi aperti, dico. Lo fa Battiato e lo faccio (con meno potenza poetica) anche io. Il segreto forse sta nel pensare che i nostri sogni non possono essere migliori di noi. Se miglioriamo noi, anche i sogni progrediscono. 132

Dunque, prima di riaddormentarmi, un po’ per liberarmi dagli spettri, sogno anche io. Romanticamente. Sogno che il tempo migliori e la mia meteoropatia si spenga, che i napoletani, i casertani, comincino a fare a botte con quelli che gli dicono: sembri proprio un Tuareg, che Fazio e Dandini invitino in trasmissione un genetista di fama, che il Grande Fratello diventi ancora più importante perché in fondo è una trasmissione utile a selezionare quelli che sanno fare qualcosa da quelli che non sanno fare niente – questi ultimi, infatti, scelgono il Grande Fratello ed è un bene. Se facessero gli avvocati, gli architetti, i medici lo farebbero male e a me non va di dover combattere con la preside per iscrivere mio figlio in una buona sezione e poi scoprire che il professore ha chiesto l’aspettativa per soddisfare la sua giusta esigenza di creatività. Quindi è meglio che lo si sappia subito. Uno, dieci, cento Grande Fratello. Sogno però che la ricerca pubblica sia finanziata e non sia più costretto ad assistere a scene come questa: 15 luglio 2009, convegno «Scienza e agricoltura», Roma. Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione, della Università e della Ricerca scientifica, porta avanti il suo intervento e dice, allargando le braccia: c’è la crisi, non ci sono soldi per la ricerca. Situazione incresciosa, ma tant’è. Ascoltiamo tutti, in silenzio. C’è qualche mugugno in sala. Ma il professor Edgar Krieger, che ascolta l’intervento in traduzione simultanea, guarda la cabina di regia. Si tocca la cuffia, forse c’è qualche problema con la traduzione. Quando viene il suo turno – il ministro è andato via – Krieger chiede agli astanti: ma forse non ho capito bene, forse la traduzione non era perfetta. Quando voi siete in crisi tagliate i fondi 133

alla ricerca? Rispondiamo tutti, quasi in coro: certo. Krieger si guarda intorno, dice: se mi posso permettere, è sbagliato. In America o in Giappone, quando si entra in una fase di recessione si triplicano i soldi alla ricerca. Si investe nel futuro. Magari qualche ricerca va a buon fine, si ottiene una nuova tecnologia, e la si introduce nel ciclo produttivo. Poi mostra un grafico: gli italiani producono una quantità incredibile di ricerche, tutte ottime. A fronte di queste ricerche però la nostra capacità di sfruttarle, in una scala da uno a dieci, è pari a uno. Gli olandesi producono, al contrario, poche ricerche, ma la loro capacità di sfruttarle è pari a sette. Chiudiamo tutti gli occhi, sconsolati davanti a questa caratteristica italiana. E sogniamo. Tutti. Anche io. I sogni son desideri. Sogno che nessun politico dica: quando sento la parola «cultura» metto mano alla pistola, così che agronomi, genetisti, biologi, astronomi, ingegneri nucleari, insomma tutti quelli che hanno rinunciato al Grande Fratello, possano avere tempo e modo di sperimentare tutto ciò che il futuro annuncia come possibile, senza ricercare l’applauso quotidiano, ma basandosi esclusivamente sulle loro passioni e sono sicuro che, spronati a dovere, inventeranno nuove molecole chimiche capaci di distruggere gli insetti senza contaminare l’ambiente o studieranno la capacità di alcune piante di produrre seme in assenza di polline (apomittica), così da sganciare i contadini dalla industria sementiera e nello stesso tempo migliorare la produzione. Sogno che un politico dichiari coraggiosamente: qui le chiacchiere stanno a zero, valgono più i dettagliati bilanci costi-benefici, e, ancora, sogno un Paese che sap134

pia affrontare il suo secondo atto ogni volta con coraggio e, per farlo, faccia uso di tutta la cultura disponibile, senza steccati, senza limiti parrocchiali da difendere, e alla fine, questo Paese giunga, stremato, ma non importa, al terzo atto, proponendoci a sorpresa una dichiarazione di limite e non di potenza. Sogno che prima o poi al governo arrivi un uomo come Benjamin Franklin. Ossia un onesto scienziato, tanto coraggioso da riferire com’era venuto a conoscenza della Corrente del Golfo. Quando era a capo del servizio postale americano riceveva di continuo delle lamentele. I piroscafi postali per compiere il viaggio da Falmouth a New York ci mettevano due settimane in più di quanto occorreva alle navi mercantili per arrivare da Londra a Rhode Island. Fece delle indagini e il caso volle che un suo cugino, capitano di una baleniera, gli spiegasse l’arcano. C’è una corrente, gli disse, la conosciamo bene perché quando siamo a caccia di balene notiamo che questi mammiferi si tengono lontano da essa e qualche volta la utilizzano per aumentare la velocità. Lo facciamo anche noi con le navi: usiamo la corrente per cambiare direzione e incrociamo i postali che procedono lentamente perché, appunto, navigano contro corrente. Spesso li informiamo: state navigando contro corrente, ma quegli uomini sono troppo intelligenti per dare retta a dei semplici pescatori americani come noi. Così Franklin fece disegnare a suo cugino la carta della corrente e poi la perfezionò lui stesso e pubblicò le carte affinché tutti i navigatori potessero beneficiare di quelle informazioni, ma soprattutto ci tenne a riconoscere il suo 135

debito nei confronti dei balenieri di Nantucket, quei semplici pescatori che gli uomini intelligenti non stavano a sentire. Un po’ come gli uomini che costruivano le cattedrali ogni giorno senza preoccuparsi dell’applauso: è giusto e ovvio e utile che qualcuno riconosca il loro apporto. Sogno che gli spettri mi svegliano durante la notte per ricordarmi che forse quello di cui davvero non abbiamo bisogno è il terzo atto, la linea che va verso l’alto, perché il principe ci ha scelti per via del nostro piede delicato o di altre caratteristiche particolari. Il modello deve necessariamente racchiudere due atti. Quegli spettri dovrebbero ricordarmi, cioè, che terzi atti siffatti fondano una falsa idea di progresso, risolutiva, immediata, senza costi e sprechi. Invece nessuna linea tende ad ascendere verso l’infinito e gli spettri dovrebbero ricordarmi di cambiare atteggiamento: diventare, per tutto il tempo che ho a mia disposizione in questo mondo, una sorta di ottimista tragico. Sogno infine un Paese che abbia il coraggio di dire: era una buona idea ma siamo stati troppo arroganti nel proporla o forse siamo diventati troppo vecchi per portarla avanti, abbiamo fatto degli sbagli ma non sappiamo quali, e qui c’è bisogno di qualcuno che si applichi a mettere le ali alle scorie. Allora, un Paese così di sicuro vedrà arrivare al suo cospetto nuove menti, chimici, agronomi, ingegneri, letterati, artisti pronti a prendere il testimone della buona idea e a lavorare affinché non finisca in cattive mani o venga risucchiato nel buco nero del passato. P.S. Naturalmente sogno che gli archeoagronomi diventino semplicemente agronomi. 136

Nota dell’Autore

Gli scrittori dovrebbero parlare solo d’amore e dei sentimenti che lo disciplinano. I sentimenti sono il primo strumento con il quale conosciamo noi stessi e la realtà che ci circonda e probabilmente sarà l’unico appiglio che avremo quando lasceremo il mondo. Sarebbe altresì auspicabile che gli scrittori parlassero sì d’amore ma in senso lato. Quelli che credono all’amore in senso stretto, infatti, ritengono che l’amore renda la vita migliore. Al contrario chi descrive l’amore in senso lato pensa che l’amore renda la vita possibile. Tra la convinzione che l’amore renda tutto migliore (un pregiudizio che però le canzoni d’amore spesso risolvono, brillantemente) e l’indagine sulle possibilità di miglioramento, è preferibile la seconda. Più ampie sono, infatti, le possibilità messe (più o meno poeticamente) sotto esame, più la nostra curiosità, e la visione che abbiamo del mondo, migliora. In genere gli scrittori costruiscono delle storie per parlare d’amore, in entrambe le sue versioni. È un bene. Tuttavia non sempre i personaggi di cui si narrano le avven137

ture sentimentali (in senso lato) sono credibili. E spesso questi personaggi sono (soprattutto in Italia, per varie ragioni antropologiche) troppo ordinari e modesti per provare ad analizzare le molteplici variabili che, oggi, costituiscono (formano e distruggono) l’amore in senso lato. Nei casi in cui il personaggio non c’è, uno scrittore può (dolorosamente) optare per il saggio personale. In questo genere narrativo la teoria passa (si raffina) attraverso l’esperienza personale. Prima (inconsapevolmente) si vive poi (si spera con più consapevolezza) si teorizza. Il saggio personale, un genere molto in uso nei Paesi anglosassoni, ha origini nobili, tanto nobili da far considerare questo genere narrativo-saggistico una versione degradata rispetto alla sua matrice. Il saggio personale nasce dai dialoghi platonici, che avevano tre caratteristiche, allora, V secolo a.C., particolarmente innovative. Innanzitutto erano volutamente antiretorici. Il Protagora di Platone è scritto facendo largo uso di matrici linguistiche orali. In effetti, il Protagora inizia così: «Ciao Socrate. Che cosa fai? Ma è ovvio. Sei stato a caccia della bellezza di Alcibiade». Dice a proposito di questo incipit Martha Nussbaum (La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 2004): «Troviamo costruita intenzionalmente e con cura, la semplice e disadorna conversazione che potremmo ascoltare nella vita di tutti i giorni e che non troviamo in alcun testo scritto». La seconda caratteristica dei dialoghi è la sostituzione dell’azione drammatica con la ricerca e il ragionamento intorno a una questione. Socrate, si sa, non amava la tragedia. Non credeva possibile che gli dei costringessero i 138

personaggi a obbedire a due obbligazioni in disaccordo fra loro. Per quale motivo Agamennone deve partire per Troia perché i doveri dell’ospitalità sono stati calpestati, e allo stesso tempo uccidere sua figlia? Quindi, Socrate, e Platone attraverso di lui, ricerca una misura condivisa grazie alla quale siamo meglio in grado di comprendere il valore di un bene e soprattutto riusciamo a costruire una scala di riferimento dai cui gradini provare a guardare il mondo. I dialoghi, appunto, si prestano all’arte del ragionamento, condiviso e pubblico, in contrasto con l’azione drammatica, a volte ricattatoria. In terzo luogo vi è il tentativo di coinvolgere in ragionamenti altre persone. Coinvolgere senza ricattare. Ora, a parte forse quest’ultimo elemento, che rimane ambiguo e difficile da definire una volta per tutte, queste caratteristiche dei dialoghi passano immutate attraverso i secoli e le ritroviamo in Galileo Galilei (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo), negli illuministi – di sicuro Voltaire disprezza il terzo punto –, in Hume e in molti altri. Naturalmente i personaggi dei dialoghi sono costruiti in funzione della teoria o del ragionamento che si vuole portare avanti. Detta in breve, sono speculari alla loro funzione. Non hanno anima. Che cosa fanno prima di arrivare nei conciliaboli e discutere? Amano, odiano, sono soggetti a variazioni d’umore? Non è dato sapere. Gli inventori del saggio personale hanno cercato di ovviare a questa carenza, sostituendo i personaggi dei dialoghi, con un unico personaggio che coincide con l’autore. Conosciamo dunque lo stato d’animo dell’autore e possiamo provare a capire come nascono le convinzioni espresse. 139

Il saggio personale è un ibrido e come tutti gli ibridi ha pregi e difetti. Tra i pregi c’è sicuramente il tentativo di usare due sonde conoscitive, una esterna rivolta all’ambiente, l’altra interna rivolta al proprio personale io. Quando le sonde funzionano a dovere e parlano tra loro, possiamo conoscere la filiera che ci porta a produrre e a vendere un prodotto, in questi casi, un’idea, una tesi. Tra i difetti, di sicuro va considerato il tentativo da parte dell’autore di rendersi simpatico, insomma di stabilire una complicità con il lettore. Se si entra rapidamente (con piccoli escamotage narrativi) nella psiche dell’autore e se ne condivide l’esperienza, poi è più facile passare all’elaborazione di una tesi. E magari condividerla. Questo problema è irrisolto da quegli scrittori che tentano il saggio personale, non sono uscite altre e più risolutive indicazioni in proposito. Il lettore deve fidarsi dello sguardo, non neutrale, ma personale dell’autore. E lo scrittore deve cercare di essere onesto, chiaro, serio e preciso con se stesso. Niente trucchi da quattro soldi, direbbe Raymond Carver. Fatto sta che le suddette sono due delle ragioni per le quali alcuni lettori, con specifiche formazioni, filosofiche o scientifiche, a volte non tollerano il saggio personale. Che cosa mi importa, dicono, delle ossessioni di Pascale? Meglio sarebbe che Pascale affrontasse con più chiarezza e in modo più approfondito le sue argomentazioni e non sottraesse spazio al confronto, raccontando di sé. Si può rispondere a queste legittime obiezioni in due modi. Il primo: siamo frutto di molte variabili e non si può più pensare al prodotto finito senza considerare anche il 140

lavoro necessario per ottenerlo. Questo è un problema moderno (gli ultimi lavori di John Maxwell Coetzee sono decisivi sull’argomento) che per essere messo a fuoco necessita di nuovi (e credo sperimentali) contributi narrativi. Oppure, una via più semplice: il saggio personale è un ottimo strumento divulgativo. Racconta, senza annoiare troppo, teorie il cui studio richiederebbe un notevole spreco di energie. Quando il saggio personale riesce bene nel suo intento, però, fa da apripista. Mette curiosità al lettore, lo invita a salire gradini e a scalare pareti più ardue, con più coraggio. Si può partire da un saggio divulgativo, purché chiaro e preciso, e andare avanti con letture diverse e più impegnative. Il saggio personale poi comprende continui apporti e integrazioni e quindi si avvale di misurazioni di volta in volta più precise. È necessario dire che questo libro nasce ampliando un precedente piccolo saggio, Abbasso i Tuareg!, pubblicato sul secondo numero di «Limes» del 2009 intitolato Esiste l’Italia? Dipende da noi. Lucio Caracciolo e Alfonso Desiderio avevano letto il mio Scienza e sentimento (Einaudi, Torino 2008) e mi chiedevano di riprendere alcune argomentazioni. Quel saggio era dunque una ripresa di Scienza e sentimento e questo libro, a sua volta, può essere considerato la seconda parte di una trilogia che ho intenzione di portare a termine. Da un punto di vista bibliografico vanno ricordate per prima cosa le poesie. Le onde, In morte di Majakovskij e Amare gli altri è una pesante croce, di Boris Pasternak, sono pubblicate nella raccolta Poesie (Einaudi, Torino 141

2001). La signorina Felicita ovvero la Felicità di Guido Gozzano è tratta da Tutte le poesie, edito da Mondadori (Milano 2006). Il brano (Looking for) The Heart of Saturday Night di Tom Waits è tratto dall’album The Heart of Saturday Night del 1974. La canzone La cura è scritta e cantata da Franco Battiato e appartiene all’album L’imboscata (1996); mentre Luci a San Siro, di Roberto Vecchioni, è tratta dal primo album del cantautore, Parabola, del 1971. L’espressione «parole amebe» di Uwe Porksen è tratta dal volume Plastik Wörter. Die Sprache einer internationalen Diktatur, Klett-Cotta, Stoccarda 1988. Nel caldo cuore del mondo. Lettere sull’Italia (liberal libri, Roma 1999) è una singolare raccolta di epistole di Alfonso Berardinelli, Geno Pampaloni, Sandro Veronesi e Andrea Zanzotto che discutono sull’identità italiana. Il contributo di Berardinelli citato nel testo s’intitola Siamo un popolo di esteti e retori. Le riflessioni di Vonnegut sui modelli si ritrovano nel volume Un uomo senza patria, pubblicato da minimum fax (Roma 2006). Per quanto riguarda David Mamet, il riferimento è a I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (minimum fax, Roma 2002). Giardini, di Robert P. Harrison, è edito da Fazi (Roma 2009). Il volume di Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, è stato pubblicato dal Mulino (Bologna 2006). Il trattato pedagogico Gennariello, di Pier Paolo Pasolini, è ora in Lettere luterane (Garzanti, Milano 2009). L’intervista a Paolo Poli, Io, gran bugiarda da ottant’anni, è di Giancarlo Dotto, uscita sulla «Stampa» il 21 marzo 142

2009. Quanto espresso da Luciano De Crescenzo si ritrova nel suo La Napoli di Bellavista. Sono figlio di persone antiche (Mondadori, Milano 1979). Il volume di Vandana Shiva, Ritorno alla terra. La fine dell’ecoimperialismo, è pubblicato da Fazi (Roma 2009). Dal libro di Clifford D. Conner, Storia popolare della scienza (Marco Tropea, Milano 2008) è tratta la storia della Corrente del Golfo. Il trattato di Bruce D. Smith, The Emergence of Agriculture, è stato pubblicato da W.H. Freeman & Co (New York 1994). Il saggio di Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Nuova edizione accresciuta è pubblicato da Einaudi (Torino 2006). Gli indiani ci hanno dato. Gli apporti del Nuovo Mondo alla civiltà europea, di Jack Weatherford, è edito da Mursia (Milano 1993). Il pane selvaggio, di Piero Camporesi, è uscito per i tipi di Garzanti (Milano 2004). Anna Meldolesi, Organismi geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato è stato pubblicato da Einaudi (Torino 2001). Il saggio di José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse è edito da SE (Milano 2001). La citazione di Parise è tratta dal libro di Silvio Perrella, Fino a Salgarèda. La scrittura nomade di Goffredo Parise (Rizzoli, Milano 2009). Da Pensato & mangiato. Il cibo nel vissuto e nell’immaginario degli italiani del XXI secolo di Daniele Tirelli (Agra Editrice, Roma 2006), un libro completo e ossessivo nella sua precisione enciclopedica, ho preso alcuni riferimenti, come quello al pane alterato (il pane di ieri che piace tanto ai mistici), alla new age, e soprattutto le informazioni riguardanti le modalità produttive e simboliche del tè ver143

de, grazie alle quali ho potuto elaborare l’associazione tè verde-Berlusconi. Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, di Gianfranco Viesti, è edito da Laterza (Roma-Bari 2009). Il saggio di Benjamin M. Friedman, Il valore etico della crescita. Sviluppo economico e progresso civile, è pubblicato da Università Bocconi (Milano 2008); il titolo originale è The Moral Consequences of Economic Growth. Per quanto riguarda Serge Latouche, si può fare riferimento al volume L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Devo a Roberto Defez, biologo, responsabile del Sagri e del sito www.salmone.org, e Giovanni Carrada, biologo, scrittore, divulgatore scientifico e autore della trasmissione Super Quark, alcune indicazioni e informazioni utili. Dalle letture mensili della rivista «Darwin», costituita dal (fantastico) trio, Corbellini, Bangone, Meldolesi, si possono ricavare molti approfondimenti. I dati sulla produzione dei cereali durante i secoli sono tratti dal quaderno di «Darwin», La scommessa degli Ogm (anno 5, novembre 2008). Continuerò a non capire perché i responsabili delle pagine culturali e scientifiche non si servano di questi studi così precisi, approfonditi e analitici. A questa rivista va aggiunta anche la rivista «Le Scienze», versione italiana, e soprattutto il sito di Dario Bressanini, capace di ricostruire le fonti e di capire così dove nascano i miti e le leggende delle quali ci alimentiamo impedendo alla nostra immaginazione di decollare e di aprirsi. La dichiarazione di Agassi alla moglie, Steffi Graf, è 144

consultabile su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=ob_eU-J99HU), così come, sul sito www.liberidaogm.org, è visibile l’intervento di Mario Capanna a Uno Mattina.