Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti 9788874625468, 8874625464

A che cosa serve la letteratura? Perché dedichiamo tempo ed energie a raccontare (o ascoltare) racconti, a inventare e r

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Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti
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Lettere

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Mario Barenghi Cosa possiamo fare con il fuoco?

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Letteratura e altri ambienti

Quodlibet

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Prima edizione: settembre 2013 © 2013 Quodlibet Macerata, Via Santa Maria della Porta, 43 www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Spa presso lo stabilimento l.e.g.o. Spa - Lavis (tn) ISBN 978-88-7462-546-8

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Volume pubblicato con un contributo del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione «Riccardo Massa», Università degli Studi di Milano Bicocca

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Indice

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Premessa

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i. Cosa possiamo fare con il fuoco? Un’ipotesi sulle origini della letteratura

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ii. Come una rete da pesca. Preliminari su letteratura e comunicazione

35

iii. Perché si legge? Pretesto calviniano sulla funzione educativa della letteratura

45

iv. L’avvocato e il romanziere. Su un’edizione commentata dei Promessi sposi

53

v. Silenzi in aula. Breve riflessione sul mestiere dell’insegnante

59

vi. La scuola nell’immaginario letterario

71

vii. Verticale del 1821. Appunti letterari su lingua e dialetto

81

viii. Zingari senza nome. Querimonia tardiva sul politically correct

91

ix. Homo loquens. Un libro sull’origine del linguaggio

99

x. Homo coquens. Come la cottura dei cibi ci ha reso umani

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Nota ai testi

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Premessa

In questo volume si parla di molti argomenti: la funzione della letteratura, la lettura, l’insegnamento, il rapporto fra letteratura e usi linguistici, l’origine del linguaggio e l’evoluzione umana. Nessun capitolo è, in senso proprio, un esercizio di critica letteraria. Costanti sono però il richiamo a un’idea di letteratura come esperienza, da un lato, e dall’altro l’attenzione al rapporto fra la letteratura e i suoi dintorni più o meno immediati. Paraggi e percorsi intorno alla letteratura: ecco ciò che propongono queste pagine. «Paraggio» è voce marinara: designa un tratto di mare prospiciente un lido, e per estensione uno spazio accessibile, un luogo dove si possono fare incontri. Il termine «ambienti», che compare nel sottotitolo, vorrebbe comprendere sia le imputazioni di prossimità e le possibilità d’incontro, sia, in senso più stretto, l’interesse per un approccio alla letteratura capace di dialogare con i recenti sviluppi della teoria dell’evoluzione. Dalla mia formazione ho tratto la persuasione che la categoria di pubblico sia uno strumento prezioso per comprendere i caratteri e il funzionamento dell’esperienza letteraria: quasi tutti gli aspetti della letteratura rinviano, in maniera diretta o indiretta, alla grande questione del rapporto fra lo scrittore e i destinatari. L’idea di ambiente, con tutto quanto essa comporta in termini lato sensu antropologici, costituisce una variante della medesima prospettiva. m.b.

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A mio fratello Carlo, lettore curioso, contagioso, e (come si conviene a un vero sapiens) assolutamente onnivoro

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i. Che cosa possiamo fare con il fuoco? Un’ipotesi sulle origini della letteratura

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1. Tra l’Olimpo e il Caucaso Tutti conoscono il mito di Prometeo, il titano che rubò il fuoco per farne dono agli uomini, e al quale Zeus inflisse una punizione di inaudita crudeltà. Storia antichissima, già narrata da Esiodo, tema di una delle tragedie di Eschilo che ci sono pervenute (il Prometeo incatenato), ripresa nell’antichità da vari autori (fra i quali Ovidio), e quanto mai fortunata tra il secolo dei lumi e l’età romantica; ne scrissero Voltaire, Goethe, Herder, Byron, Shelley; ispirò compositori come Beethoven e Liszt. Il mito ruota intorno al tema della nascita del genere umano, tant’è che in alcune versioni, oltre che «portatore del fuoco» (titolo di una tragedia eschilea perduta) o «donatore del fuoco» (Prometheus the Firegiver è un poema di Robert Bridges), Prometeo è colui che plasma con l’argilla i primi uomini. Così ad esempio nel poemetto di August Wilhelm Schlegel, che attraverso l’eroe celebra la fede nel progresso civile dell’umanità. All’origine della nostra specie, dunque, ci sarebbe un atto di determinazione eroica, un’impresa nobile, grandiosa, luminosa. Se poi ci volessimo soffermare sulle varianti del mito, che in quanto tale è intriso di ambiguità, dovremmo sottolineare l’opposizione fra intelligenza e trasgressione: nella rappresentazione della vicenda di Prometeo l’accento può cadere ora sulla lungimiranza della sua iniziativa, ora sulla disubbidienza alla volontà divina. Ma questo ci porterebbe lontano; e dovremmo anche render conto dell’amaro, sarcastico ribaltamento del mito che Leopardi propone nelle Operette

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morali1. Certo è che il nome «Prometeo» contiene la radice di «imparo» (manqavnw): Prometheus (Promhqeuv~) vale «colui che apprende prima», in opposizione allo sventato fratello Epimeteo, che agisce d’impulso, senza riflettere (e si rende conto di quello che ha fatto solo «dopo»). Non meno significativo è l’aggettivo che è stato tratto dal nome, a riassumerne la cifra morale: «prometeico» designa l’atteggiamento audace e fiero di chi non esita a sfidare forze superiori per una causa magnanima. Diversamente da «titanico», per lo più quantitativo («immane, enorme, colossale»), non ha connotazioni di impulsività velleitaria, irriflessa o gratuita; l’audacia è tutt’uno con la coscienza, la volontà di insorgere nasce da un’intenzione lucida e consapevole. Fatto sta che l’origine dell’umanità viene rischiarata da un bagliore insieme fisico e mentale, materiale e simbolico. Il fuoco, rapito dal fulmine di Zeus, rinvia al fulgore dell’intelligenza grazie alla quale l’uomo è diventato uomo. Ora, una proprietà singolare dei miti è che sotto sembianze immaginose e inverosimili rivelano non di rado una sorprendente plausibilità. Lasciamo perdere i dettagli: la distribuzione dei doni divini tra le specie viventi, il tópos dei fratelli dalle indoli opposte, l’impresa dell’eroe «piroforo», il sadico castigo, la liberazione finale. Limitiamoci a questo solo assunto: l’uomo è diventato quello che è grazie al controllo del fuoco. Sul piano culturale sarebbe un’ovvietà, ma non si tratta solo di questo. Anche in termini filogenetici la tesi è tutt’altro che peregrina. Vari studi sull’evoluzione della nostra specie confermano che l’utilizzo del fuoco deve aver giocato un ruolo decisivo nella divaricazione del destino degli ominidi da quello degli altri primati. Peraltro, raccontare questa storia in termini evolutivi anziché mitologici impone un drastico abbassamento di registro. Per concepire l’idea di impadronirsi del fuoco occorreva un apparato neurologico sviluppato, ma se il 1 Nella Scommessa di Prometeo l’eroe si rende conto che la specie umana, lungi dall’essere il vertice del creato, è una genìa trista e infelice, il «sommo nell’imperfezione» tra i viventi (ovviamente Leopardi è debitore, qui come altrove, di Rousseau).

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i. cosa possiamo fare con il fuoco?

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fuoco ha poi mutato il corso dell’evoluzione è stato soprattutto per gli effetti che ha prodotto sull’apparato digerente: prova ne sia che il nostro pesa in media il 60% in meno rispetto a quello degli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi. Sarà forse questo il senso recondito dell’immagine dell’aquila che divora il fegato di Prometeo, incatenato alla rupe del Caucaso? Un contrappasso ante litteram? E chissà cos’avrebbe pensato, se l’avesse saputo, François Rabelais. Forse ne sarebbe stato entusiasta: perché, detto in termini un po’ brutali, secondo questa ipotesi, a renderci uomini sono stati i progressi paralleli della nostra mente e delle nostre trippe.

2. Perché la letteratura? Vi sono domande così logorate dall’uso che non si riesce a riproporle senza imbarazzo. Se cediamo alla tentazione di farlo è perché si tratta di questioni che in qualche maniera rimangono perennemente attuali. Una di queste – la più vieta, forse – è: a che cosa serve la letteratura? Prima di procedere occorrono un paio di precisazioni. Innanzi tutto il termine «letteratura» va inteso qui in un senso molto lato, che include non solo i testi scritti, ma l’intero dominio della poesia orale, della tradizione fiabesca, del teatro in tutte le sue forme; e non solo le opere compiute, ma le loro componenti, eventualmente di per sé prese. Dicendo «letteratura» comprendiamo insomma un’ampia gamma di oggetti e di fenomeni, che va dall’ideazione mitopoietica alla minuta tessitura verbale. A un estremo, appunto, i miti (mu`qoi): le grandi linee di una storia, ovvero la figura di un eroe, come Ulisse o Fedra, Davide o Mosè, don Giovanni o Faust (senza dimenticare Cenerentola e il conte di Montecristo), cioè uno schema narrativo nel quale un destino si compie, e una forma di umanità si manifesta. La proprietà dello schema consiste nel funzionare come un congegno dinamico, con alcuni elementi fissi e altri variabili od opzionali, e margini anche assai cospi-

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cui di oscillazione o trasformazione. All’altro capo troviamo invece configurazioni testuali che appaiono perfettamente compiute come discorso, nella loro precisa veste linguistica. Liriche, racconti, saggi, drammi, ovvero parti di essi, frammenti anche molto brevi: un passaggio, una citazione, la cui memorabilità è indissolubile dall’esatta dicitura. Un singolo verso, un endecasillabo («Dolce e chiara è la notte e senza vento»), una terzina («Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco/ mi impigliar sì ch’i’ caddi: e lì vid’io/ de le mie vene farsi in terra laco»), una strofa («Dalle squarciate nuvole/ Si volve il sol cadente, / E dietro il monte imporpora/ Il trepido occidente: / Al pio colono augurio/ Di più sereno dì»). O anche meno: una frase, una metafora («The time is out of joint»)2. In secondo luogo, il verbo «servire» designa la ragion d’essere, la funzione (o il complesso delle funzioni), il valore d’uso. Le rivendicazioni di gratuità variamente formulate, specie dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, vanno prese per quel che erano: proteste contro concezioni dell’attività letteraria ingenuamente pedagogiche, scientiste, eteronome o servili. Il paradosso di Oscar Wilde, «All art is quite useless» (Tutta l’arte è completamente inutile), mirava a celebrare il valore intrinseco della bellezza; ma la bellezza serve – eccome. La nostra specie è stata l’ultima a impararlo, anche se ha saputo perseguire il bello in infinite maniere diverse (in confronto, peonie e fagiani, grilli e mughetti sono più ripetitivi). Forse sarebbe più appropriato aggiungere un pronome personale: A che cosa ci serve la letteratura? In quale modo, in quali modi, per quali motivi ci dedichiamo a un uso del linguaggio non strumentale e non contingente, e intessiamo discorsi che poi tramandiamo di generazione in generazione, ora conservandoli in una precisa forma verbale, ora mutandoli nel tempo, anche assai profondamente, ma senza compromettere una riconoscibile fisionomia? Qual è l’utilità intrinseca di tener vivo nella memoria un certo patrimonio 2 Il lettore avrà senza dubbio riconosciuto, nell’ordine, l’incipit della Sera del dì festa, il racconto dell’uccisione di Iacopo del Cassero (Purg., V, 82-84), il finale del secondo coro dell’Adelchi (IV, I, 115-120), la fulminante sentenza di Amleto (I, V, 188).

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di oggetti verbali, siano essi una lirica o un fiaba, una leggenda o un romanzo, un testo sacro o mito? Ebbene, io credo che a questa domanda sia possibile dare una risposta abbastanza precisa. Nuova, no; anzi – temo – leggermente ovvia. Perfino un po’ banale: ma tant’è. La letteratura serve a sopravvivere. Sgombriamo subito il terreno da un facile equivoco. Dicendo che il fine della letteratura è aiutarci a sopravvivere non ci si vuole affatto richiamare al suo valore di risarcimento rispetto alle frustrazioni dell’esistenza reale. È vero, la vita può risultare spesso faticosa, dolorosa, deludente, insulsa; e uno dei pregi della letteratura è di offrire l’occasione – sia pur per brevi intervalli – di dimenticarsene. Per un paio d’ore, o un’ora, o anche meno, mettiamo fra parentesi ciò che siamo e dove siamo, i nostri crucci e i nostri compiti, le nostre insoddisfazioni afflizioni paure, e ci proiettiamo in un immaginario altrove. Se le escursioni nei mondi fittizi dell’invenzione letteraria saranno state particolarmente gratificanti, potremo avere l’impressione che proprio a loro dobbiamo la capacità di sopportare la banalità o lo squallore del resto delle nostre giornate. La letteratura serve – perché no? – anche a questo; a «evadere». Una funzione simile a quella del sonno, se vogliamo. Tutti gli animali alternano, con ritmi diversi da specie a specie, fasi di veglia e fasi di riposo, in cui la volontà si spegne, l’attività della coscienza subisce una netta riduzione, e l’organismo si ritempra, recuperando energie fisiche e psichiche. L’esercizio dell’immaginazione, sotto la guida di un discorso appositamente elaborato a questo fine, ha un valore almeno in parte analogo: una sospensione temporanea dei condizionamenti esterni che agevola un rinnovamento delle risorse interiori. Ma questo non può bastare. Il sonno è un fenomeno biologico (peraltro ben più complesso di come l’abbia presentato qui), mentre la letteratura nasce dall’intenzione, appartiene alla dimensione delle produzioni simboliche – della cultura, insomma. La sua funzione originaria ed essenziale, dunque, dev’essere di aiutarci in maniera più diretta: non per semplice compensa-

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zione, non solo come consolazione, linimento, diversivo. La letteratura serve a sopravvivere, cioè a vivere meglio, come tutto il resto: come i cibi dai quali caviamo nutrimento, come gli indumenti che ci difendono dal freddo e ci consentono di occupare spazi altrimenti inabitabili, come gli attrezzi che ci risparmiano fatica o grazie ai quali possiamo fare cose che non potremmo fare altrimenti e raggiungere lidi in altro modo inaccessibili. Per chiarire la questione è opportuno interrogare il passato più remoto. Non basta risalire alle origini di quella che chiamiamo oggi, da non più di tre secoli, «letteratura» (i poemi omerici, la Torah, l’epopea di Gilgamesh, il Mahābhārata, il Libro dei Morti). Occorre risalire più indietro, oltre l’alba della Storia con la maiuscola, che in sostanza coincide con gli inizi della civiltà della scrittura. E questo non solo perché sappiamo bene che immensi patrimoni di cultura orale sono stati accumulati (e verosimilmente in gran parte dispersi) prima che ci si ponesse il problema di conservarli in forma scritta, ma perché la documentazione dimostra che uno sviluppo impressionante di capacità simboliche precede di molte migliaia di anni gli albori della storia egizia o mesopotamica. I nostri progenitori che hanno affrescato le grotte di Altamira e di Lascaux, intorno a 15000 anni fa, non erano solo «uomini come noi» (questa è una banalità, sapiens a noi identici vagavano per i continenti già da decine di migliaia di anni): erano artisti nel senso pieno della parola, come Raffaello, Masaccio, Picasso, Klee. Ebbene: quali storie raccontavano la sera attorno al fuoco, in quello scorcio d’era glaciale, sulle boscose colline della regione che un giorno sarebbe stata chiamata Périgord? Quali le narrazioni che si tramandavano, generazione dopo generazione, sulle coste via via sempre più temperate e ospitali della futura Cantabria? La maturità dell’arte paleolitica non lascia dubbi sul fatto che una complessità e una raffinatezza analoga doveva essere stata raggiunta, chissà da quanto tempo, anche nel campo dell’espressione verbale. Ma se l’ammirato stupore che suscitano quelle superstiti pitture rupestri non va esente da una buona dose di frustrazione – la cultura che produceva quelle immagi-

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ni ci rimarrà sempre, giocoforza, ignota – nel caso della protopoesia coeva ci ritroviamo nel buio documentale più assoluto. Possiamo solo avanzare congetture. O meglio: possiamo formulare domande. In mancanza di meglio, ragionare su quali siano le domande corrette sarà comunque qualcosa – pur nella certezza che risposte sicure e ultimative ci sono precluse. Una domanda quanto mai appropriata è stata formulata da uno studioso americano, Paul Hernadi, in un saggio di una decina di anni fa3. Quali vantaggi poteva fornire la letteratura dal punto di vista evolutivo? Naturalmente in questo caso la prospettiva è quella dell’intreccio – molto stretto, e da un’epoca probabilmente assai più antica di quanto si potesse sospettare fino a poco tempo fa – tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. In un contesto dove sopravvivere era una faccenda seria, dedicare tempo ed energie all’invenzione di mondi immaginari rischiava di essere uno spreco di risorse. Quale specie poteva permetterselo? Sia pur non immediato, qualche beneficio ci doveva pur essere, se invece di dormire o rilassarsi all’ombra dei faggi (degli abeti, dei lecci, dei baobab) quei bizzarri primati si mettevano a fantasticare su immagini o a raccontarsi storie. Il pregio del contributo di Hernadi consiste soprattutto nei termini in cui imposta il problema. L’interrogativo da porsi – questo il suo punto di partenza – non è «What is literature?», bensì «Why is literature?»: premessa del tutto condivisibile, anche se di per sé non nuovissima. L’autentica innovazione consiste invece nel dislocare la domanda «Perché la letteratura?» sul piano dell’indagine circa l’evoluzione della specie. L’assunto è che la ragion d’essere della letteratura chiami in causa aspetti fondamentali della condizione umana. E di più: che la letteratura, cioè il complesso degli usi creativi – «poeti3

Paul Hernadi, Perché la letteratura: una prospettiva evoluzionistica, «Studi di estetica», III serie, 2001, n. 23, a. XXIX, pp. 11-38 (trad. di Alessandro Bertani e Marco Malaspina). Di questa indicazione sono debitore a Remo Ceserani, che nel volume Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline, Bruno Mondadori, Milano 2010, cita di Hernadi Why Is Literature: A Co-Evolutionary Perspective on Imaginary Worldmaking, «Poetics Today», a. XXIII, n.1, Spring 2002, pp. 11-21.

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ci» – e non immediatamente strumentali del linguaggio, abbia contribuito a renderci umani. Non diversamente, potremmo aggiungere, dallo sviluppo del linguaggio stesso4. O dal controllo del fuoco.

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3. Congetture evolutive La letteratura è un fenomeno antichissimo. Le sue radici affondano in un’epoca troppo lontana perché vi sia una memoria diretta. In quel passato profondo, rispetto al quale gli aggettivi di cui disponiamo (primordiale, ancestrale, atavico) possono apparire comunque inadeguati, gruppi appartenenti al genere Homo che già si erano messi, chissà a quale stadio dell’evoluzione, a investire in maniera straordinaria sulla comunicazione vocale, hanno cominciato, nel loro sempre più intenso e assiduo commercio di parole, a elaborare discorsi sul mondo relativamente autonomi dalle necessità contingenti e immediate. Per quali ragioni? Con quali intenti, e – cosa che più ci importa – con quali conseguenze? In prima approssimazione, la peculiarità degli usi letterari del linguaggio consiste nella simulazione di esperienze. Rappresentare stati reali o immaginari del mondo, rievocare vicende già note e familiari, riferire eventi inauditi o inventarne di affatto nuovi: tutto questo sollecita un esercizio delle facoltà svincolato da costrizioni esterne e quindi relativamente libero. Di tutte le facoltà: cognitive, emotive, espressive, comunicative, la letteratura è stimolo e tirocinio, addestramento e ascesi. La sua funzione è di attivare, di esercitare appunto (e di tenere in esercizio), la capacità di parlare di sé e della realtà circostante, di trasmettere le proprie sensazioni e i propri sentimenti, di interpre4 Un interessante approccio al problema della nascita del linguaggio in chiave darwiniana è proposto da Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico, Laterza, Bari-Roma 2010. A questo tema è stato dedicato il recente convegno Sull’origine del linguaggio e delle lingue storico-naturali. Un confronto tra linguisti e non linguisti, Università di Milano Bicocca, 25-26 giugno 2012.

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tare le reazioni e gli stati d’animo altrui. E, di conseguenza, permette di ridurre la distanza rispetto ai nostri simili, migliorando la capacità di convivere, interagire, cooperare. La letteratura è un’officina e una palestra della lingua e dell’immaginario: e, insieme, una ginnastica virtuale della coscienza. Raccontando storie, ripetendo versi o massime, si impara a condividere ciò che desta orrore o ammirazione, ciò che muove al pianto o al riso, ciò che deve far riflettere o che può divertire; si rafforza il consenso su ciò che è desiderabile o deprecabile, lecito o illecito, bello o brutto; ci si allena a reagire agli avvenimenti nella maniera più appropriata, misurando gli effetti delle scelte possibili; si fa pratica di cognizione, elaborando esempi e modelli di quello che si può apprendere del mondo e degli altri; e, nell’insieme, ci si esercita a partecipare di una comune visione delle cose, facendo tesoro di situazioni e vicende mai esperite personalmente e non di rado del tutto ipotetiche, ma acquisite (o acquisibili) come patrimonio collettivo. Il vantaggio evolutivo offerto dalla letteratura consiste, in sintesi, nel rafforzamento della coesione di gruppo. Questo risultato viene perseguito per diverse vie, su diversi piani. Innanzi tutto perché il discorso privilegia, come oggetto, le relazioni umane: rapporti tra due o più persone, fra uomini e donne, fra genitori e figli, tra anziani e giovani, tra popoli e capi, tra una famiglia e l’altra, e così via (anche il rapporto di un individuo con sé stesso implica sempre un confronto con gli altri). Secondariamente perché la proprietà dell’esperienza letteraria, in qualunque forma essa avvenga, consiste nel distacco (sia pure provvisorio e condizionato) da sé stessi, e nell’identificazione protratta e partecipe con una condizione diversa dalla propria5. Leggere, ascoltare dal vivo qualcuno che recita o racconta, assi5

Molto interessante è la recente scoperta che quando leggiamo si attivano i cosiddetti «neuroni-specchio», ossia la categoria di cellule nervose che appaiono attivarsi quando un soggetto osserva un altro compiere un’azione. Sulle basi neurali dell’atto di leggere, alla luce delle indagini condotte con la cosiddetta fMRI (functional magnetic resonance imaging), cfr. Stanislas Dehaene, I neuroni della lettura, Cortina, Milano 2009 (ed. orig. Les neurones de la lecture, Odile Jacob, Paris 2007).

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stere a uno spettacolo, significa sempre figurarsi al posto di un altro, fingersi altrui. L’adesione emotiva potrà essere più o meno intensa, il grado di immedesimazione più o meno elevato: ma non si concede tempo alla letteratura se non si è interessati (altrimenti uno fa qualcos’altro: va a raccogliere bacche, ad affilare la roncola, a controllare l’e-mail). L’interessamento implica una certa misura di empatia: il che incrementa e raffina la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui, e quindi i problemi e le ragioni degli altri6. In terzo luogo perché la letteratura, nata come fenomeno collettivo («Tutto cominciò con il primo narratore della tribù», esordisce Calvino in Cibernetica e fantasmi7), offre agli ascoltatori l’opportunità di esperire certe emozioni insieme: cioè di condividere tristezza e sollievo, speranze e paure, orrore e meraviglia, commiserazione e ilarità, e, ciò facendo, di convenire sulle circostanze che suscitano tali reazioni. La fruizione individuale, la più frequente oggigiorno, non ha azzerato questa qualità della letteratura: i lettori migliori sono coloro che parlano dei libri che leggono, e del resto gli ambiti della fruizione collettiva sono tuttora diffusi, dalle letture pubbliche alle varie forme di spettacolo. Si potrebbe concludere che la letteratura è un fatto intrinsecamente sociale, ma questa affermazione mi pare poco efficace. Più esattamente, la letteratura adempie a una funzione sociopoietica. Non riflette una socialità data: la istituisce, la forgia. La crea, esattamente come avviene con il linguaggio. Del resto, la letteratura altro non è se non un uso particolare del linguaggio – un uso, si badi, non una forma di linguaggio: 6 Di qui le tesi di Martha Nussbaum, secondo cui la lettura di romanzi giova alla funzione giudiziaria, e la letteratura in genere svolge un ruolo essenziale sul piano dell’etica pubblica in quanto fattore di sviluppo della sensibilità (cfr. Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, a cura di Edoardo Greblo, Mimesis, Milano 2012; ed. orig. Poetic Justice. The Literary Imagination and Public Life, Beacon Press, Boston 1995). 7 Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1994, p. 205 (questo intervento, datato 1967, costituisce per più riguardi la chiave di volta della raccolta Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980).

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cruciale è l’aspetto pragmatico, cioè il comportamento del destinatario, non le qualità intrinseche del discorso8. Fra le tante questioni connesse all’origine della letteratura, una delle più rilevanti concerne appunto il rapporto con le origini della lingua. In linea di principio sembra ragionevole supporre che le forme letterarie o proto-letterarie di discorso debbano emergere molto tardi rispetto allo sviluppo di un linguaggio articolato. Ma l’affascinante ipotesi di una genesi «materna» della comunicazione verbale induce a correggere almeno in parte questo assunto9. Se riteniamo attendibile che l’evento decisivo per la nascita del linguaggio umano sia stata la necessità delle madri ancestrali di surrogare con la voce il contatto fisico con i piccoli, allora dobbiamo comprendere, tra le primissime forme di messaggi vocali, anche modulazioni simili a nenie o cantilene. Beninteso, associare parole a una melodia è un’operazione successiva, e tutt’altro che ovvia; ma se lingua e canto fossero germogliate nella medesima dimensione di esperienza, l’avvento di usi riconoscibilmente letterari del linguaggio andrebbe considerato piuttosto come l’esplicazione di una potenzialità intrinseca originaria che non come una rivoluzionaria innovazione. Forse il piacere o il bisogno di condividere parole e storie ha la stessa radice del piacere e del bisogno di ripetere suoni, ritmi, frasi musicali. La letteratura, dicevamo, è un insieme di artefatti verbali che hanno come fine la sopravvivenza del gruppo, e del singolo in quanto parte del gruppo. Noi, oggi, abitanti di un pianeta sovrappopolato di sapiens che non di rado fanno poco onore al nome introdotto nel 1758 da Linneo nella tassonomia del Systema naturae – noi, dicevo, oppressi dai fastidi quotidiani, afflitti o disgustati da quanto ci tocca vivere, e troppo spesso dimentichi delle fatiche e delle pene sopportate dai nostri antenati 8

Come ha dimostrato Franco Brioschi, confutando le posizioni (fra gli altri) di Roman Jakobson, ciò che rende letterario un testo non è il modo in cui è costruito, la sua configurazione obiettiva, bensì il modo in cui i destinatari lo recepiscono (cfr. La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura, Il Saggiatore, Milano 1983). 9 È l’ipotesi che formula Dean Falk in Lingua madre. Cure materne e origine del linguaggio, presentata nel cap. ix del presente volume.

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anche prossimi, possiamo pensare che la letteratura ci serva a «sopravvivere» nel senso che ci allontana dalle cose, concedendoci una tregua dal commercio obbligato col prossimo. Ma si tratta di un capovolgimento paradossale. La funzione primigenia della letteratura è e continua ad essere quella di ancorarci alla realtà, incentivando l’intesa con i nostri simili; e questo avviene tramite l’esercizio della parola e il rafforzamento della presa del linguaggio sul mondo. È questa capacità della lingua di afferrare, di sceverare, di mordere il dettaglio e di abbracciare l’insieme, è questa grip sul contesto più o meno ravvicinato in cui viviamo che l’esperienza letteraria coltiva e corrobora. In ultima analisi, anche la letteratura è una forma di adattamento all’ambiente – all’ambiente umano, in primo luogo. Beninteso, un adattamento tutt’altro che passivo. Al contrario. Quando e come si sia dischiusa ai nostri remoti progenitori la prospettiva di dedicare una parte del loro tempo e delle loro risorse fisiche e mentali a pratiche interattive di tipo proto-letterario, naturalmente, è assai difficile a dirsi. Un presupposto indispensabile era comunque che l’evoluzione della specie fosse giunta a consentire adeguati margini di risparmio energetico. Per mettersi a immaginare storie occorreva uno stato di relativo benessere: non patire i morsi della fame, non essere stremati dalla fatica, non doversi dedicare a una digestione lunga e difficile. La digestione, appunto. Una suggestiva tesi formulata di recente attribuisce al controllo del fuoco un ruolo-chiave nell’evoluzione umana. La cottura dei cibi avrebbe prodotto grandi benefici: in primo luogo, nel risparmio del tempo necessario a digerire. L’adattamento al consumo di cibi cotti (anche vegetali, beninteso) sarebbe così antico da aver mutato in maniera rilevante il nostro organismo10. Da secoli l’uomo si compiace di distinguersi dagli altri animali, qualificandoli come «bruti»: ter10 Questa la tesi sostenuta dal libro di Richard Wrangham L’intelligenza del fuoco, di cui si parla qui nel cap. x. Sintomatico è inoltre che da qualche anno sia entrata in circolazione l’idea dell’intestino come «secondo cervello» (peraltro sulla base di considerazioni estranee al presente discorso).

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i. cosa possiamo fare con il fuoco?

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mine significativo, che ha la stessa radice di «grave» (bar-), «pesante». Una pesantezza mentale, un appiattimento sulla materialità delle cose, cui si usava contrapporre lo slancio verso l’alto dell’umano spirito. Orgogliosi del nostro fervido attivismo neurologico, non ci siamo curati di apprezzare in modo adeguato i benefici prodotti da un sistema di alimentazione più efficiente. Con lo stomaco vuoto la mente lavora male: o meglio, lavora benissimo, ma per un solo fine – sfamarsi, appunto. Di contro, con lo stomaco zavorrato di cibo il riposo è indispensabile: questo accade sia agli erbivori, costretti a mangiare per gran parte del loro tempo perché assumono alimenti poco nutrienti, sia ai predatori, che fanno pasti (quando gli va bene) abbondanti ma assai distanziati. Quei sagaci ominidi, invece, avevano trovato il modo di nutrirsi a sufficienza e digerire abbastanza in fretta per godere di frequenti surplus di energie mentali. Merito di Prometeo? Be’, volendo la si può raccontare anche in quel modo; fatto si è che, a pasto ultimato, intorno al fuoco sul quale era stato cotto il cibo e che forniva luce, calore e sicurezza, qualcuno, profittando di quella non usuale condizione di benessere psicofisico, cominciò a immaginare e a rappresentarsi cose nuove. Cose, in maniera nuova: avvenimenti, azioni, condizioni mentali ed emotive, stati del mondo ispirati bensì dall’esperienza empirica, ma non vincolati ad essa; elaborazioni di fatti accaduti e di stati d’animo già attraversati, o sfiorati, o anche solo possibili; assetti del reale non esperiti ancora. Eventualità, ipotesi: alcune realizzabili, altre no, ovvero realizzabili in dimensioni puramente virtuali, e tuttavia in qualche maniera idonee a cementare la coesione del gruppo, e quindi ad aumentare le probabilità di sopravvivere. E cominciò a porsi nuove domande. O meglio – giacché porsi domande è proprio di tante specie animali, chiunque abbia un cane o un gatto riconosce bene i momenti in cui si sta chiedendo qualcosa11 – cominciò a dedicarsi in maniera 11 Mi permetto un consiglio leggermente frivolo: digitare in un motore di ricerca, o direttamente nel sito di Youtube, le parole Pussy vs Printer.

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cosa possiamo fare con il fuoco?

sistematica a interrogarsi sul possibile. Per esempio: che cos’altro potremmo fare con il fuoco? Ecco, a me piace credere che la letteratura sia nata insieme a domande di questo tipo. Che cosa possiamo fare ancora con il fuoco? E, in un certo senso, la letteratura rappresenta anche un modo di rispondere, anche se non in maniera diretta. La letteratura – tale la sua peculiarità, potremmo azzardare, in termini di convenienza evolutiva – addita vie per formulare risposte. Fornisce utensili per ordinare le esperienze; suggerisce riferimenti; crea tipologie e paradigmi. Costruisce un repertorio di schemi (schémata) per orientarsi nel mondo. Un’opera letteraria (o un complesso di opere: una cultura, una tradizione) è una specie di cassetta degli attrezzi. Un armamentario simbolico per affrontare gli eventi: occasioni ed emergenze, pericoli e sfide, fatti ineludibili, combinazioni inattese. Da questo punto di vista, trovo che abbia ragione chi ritiene che la letteratura, a dispetto delle apparenze superficiali e delle diagnosi luttuose, possa occupare tuttora una posizione cruciale nel mondo contemporaneo12. Come è avvenuto in passato: agli inizi stessi, forse, dello sviluppo dell’intelligenza simbolica, quando una popolazione di sapiens africani (sapiens 2.0, ha detto qualcuno) intraprese, con un successo che non tardò a risultare travolgente, la nuovissima strada della coevoluzione tra natura e cultura. Un’epoca da cui ci separano decine e decine di millenni: molto, molto più della distanza che intercorre fra noi e quei nostri antenati del magdaleniano, misteriosi e geniali, che dipingevano tori e bisonti nelle grotte calcaree franco-cantabriche, al fioco lume di lucernette di pietra scavata, con un po’ di grasso animale come combustibile e un rametto di lichene come stoppino.

12 Si vedano ad esempio il volume di Carla Benedetti, Disumane lettere. Indagine sulla cultura nella nostra epoca, Laterza, Bari-Roma 2011 (che estende le sue considerazioni al «sapere umanistico» in generale), o anche, per certi versi, il recente contributo di Antonio Scurati, Letteratura e sopravvivenza. La retorica letteraria di fronte alla violenza, Bompiani, Milano 2012.

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ii. Come una rete da pesca Preliminari su letteratura e comunicazione

Come si svolge, secondo quali dinamiche e modalità, la comunicazione fra l’autore e il lettore? Quando la comunicazione letteraria può dirsi «riuscita»? La prima cosa da tener presente è che la letteratura non rappresenta solo una forma di comunicazione. La letteratura, beninteso, è anche comunicazione, ma tanto non basta a definire la sua natura. Non sono cioè le peculiarità con cui la comunicazione letteraria si realizza a giustificare l’esistenza di quella che chiamiamo (faute de mieux) «letteratura». D’altro canto, non si può negare che l’opera letteraria comprende sempre una trasmissione di significati; tant’è che riferendosi al rapporto fra autore e lettore la teoria letteraria fa volentieri ricorso alla parola «dialogo» – termine che andrà considerato un po’ più d’una semplice metafora. Partiamo da un principio che si può considerare pressoché assiomatico: i significati di un’opera letteraria sono inesauribili. Almeno potenzialmente, l’opera letteraria ha una capacità illimitata di significare. La famosa definizione di Calvino – «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire»1 – potrebbe essere generalizzata. Letterario è il discorso che, nelle intenzioni di chi lo produce quanto nelle aspettative di chi ne fruisce, si presume non finisca mai di comunicare. Il che non significa ovviamente che questo avvenga sempre. Sul piano dei fatti, spesso l’intento fallisce – mentre l’imputazione di «classicità» deriva da una riuscita ampia e duratura. 1 Perché leggere i classici (1981), ora in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1994, p. 1818.

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cosa possiamo fare con il fuoco?

Le peculiarità comunicative della letteratura dipendono essenzialmente dal fatto che quello letterario è 1) un discorso scritto, 2) un discorso di ri-uso. In quanto scritto, il discorso letterario dà luogo a una modalità unilaterale di comunicazione, a un’asimmetria comunicativa. Autore e destinatario si collocano su piani differenti: all’uno tocca il possesso esclusivo della parola, l’altro ne è privo. Può bensì interrompere il contatto, smettendo di leggere, ma non può interloquire. L’accesso alla parola è riservato a uno solo dei soggetti della comunicazione; e non occorre rammentare le critiche tempestivamente mosse da Platone contro questo limite intrinseco all’uso scritto, di contro al fecondo scambio del dialogo vivo. In secondo luogo, la comunicazione avviene in absentia. Autore e lettore non comunicano in maniera diretta, l’uno di fronte all’altro: il circuito comunicativo viene (per dir così) diviso in due semicircuiti, il primo dei quali sul versante della produzione (dall’autore al testo), il secondo sul versante della ricezione (dal testo al lettore). In altri termini, la comunicazione letteraria è differita, dilazionata nel tempo, disseminata nello spazio. Il discorso letterario appartiene poi alla categoria dei discorsi cosiddetti di ri-uso: nozione, questa, introdotta dalla summa retorica di Heinrich Lausberg, e quindi ripresa ed elaborata sul piano teorico da Franco Brioschi2. Il ri-uso comprende i discorsi che non si esauriscono in una circostanza determinata di enunciazione, cioè in riferimento a un contesto specifico, bensì hanno (in linea di principio) una validità durevole. Così ad esempio i testi sacri, le formule rituali, le norme di legge, i proverbi. La loro efficacia non si limita a un particolare tempo e luogo, come avviene per la maggior parte degli enunciati orali (e anche per un buon numero di testi scritti), 2

Cfr. F. Brioschi, La mappa dell’impero, cit. Ricordo che Brioschi ricorre per la prima volta al termine «ri-uso» in un saggio del 1978 (Teoria e insegnamento della letteratura). Sull’argomento cfr. anche il volume collettivo Sul ri-uso. Pratiche del testo e teoria della letteratura, a cura di Edoardo Esposito, Franco Angeli, Milano 2007. Il riferimento a Lausberg riguarda naturalmente Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969 (ed. orig. Elemente der literarischen Rhetorik, Hueber, München 1949).

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ma rimane intatta e disponibile per ogni futura situazione che i parlanti riterranno appropriata. Entro l’universo del ri-uso, il discorso letterario si distingue poi per alcuni importanti aspetti. Senza analizzare la questione in dettaglio, possiamo limitarci a segnalare due aspetti: a) il corpus dei testi letterari ha un elevato grado di apertura, cioè si può ampliare indefinitamente (cosa che non avviene nel caso dei testi sacri, e avviene in maniera molto limitata e regolata nel caso di un corpus legislativo); b) la disparità di status fra gli interlocutori non è rigida, e non è garantita da poteri istituzionali (come l’ordinamento giudiziario rispetto alla pronuncia di una sentenza, la Chiesa o lo stato civile rispetto alla celebrazione di un matrimonio). In genere, possiamo affermare che la letteratura si trova ai confini tra il ri-uso tradizionale (che ha forti connotati di fissità rituale) e una pratica più libera e mondana, laica, e meno formalizzata: ai confini (ma qui il discorso rischierebbe di portarci lontano) del dominio del gioco3. Ciò premesso, possiamo tornare al problema dell’inesauribilità del significato. Vi sono tre maniere di concepire come inesauribile il significato dell’opera letteraria. La prima, che ha avuto largo corso nella riflessione novecentesca sulla letteratura, si potrebbe così formulare: la polisemia propria del discorso letterario dipende da una costitutiva, intrinseca ambiguità. Se i significati si possono moltiplicare indefinitamente è perché la letteratura fa del linguaggio un uso diverso da ogni altra forma di discorso. Com’è noto, siffatto quid differenziale è stato ricercato nella tessitura dei significanti, con esiti non di rado notevoli sul piano della concreta disamina critica, ma deludenti su quello della teoria. Illustrare (secondo una celebre espressione di Jakobson) in quanti e quali modi il testo letterario riesce a proiettare rapporti di tipo paradigmatico sul3 Per questo argomento, così come per altri toccati qui, mi permetto di rinviare al mio volume L’autorità dell’autore, Unicopli, Milano 2000 (1a ed. Milella, Lecce 1994).

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l’asse dei rapporti sintagmatici serve bensì a capire come è fatto il testo, ma non a giustificare la sua letterarietà. Come ha dimostrato a suo tempo Franco Brioschi, non esiste in realtà alcun artificio formale o alcuna somma di artifici formali che basti di per sé a rendere letterario un discorso. La letterarietà non è una qualità incorporata nel testo, ma il risultato del comportamento del lettore. Non di meno, prima che si giungesse a questa consapevolezza teorica, fiumi d’inchiostro erano scorsi per celebrare l’autoreferenzialità dell’opera letteraria: la quale, nell’indefinita varietà dei suoi significati possibili, finiva per significare essenzialmente – e forse esclusivamente – il proprio stesso esistere. Nel frattempo aveva preso forma una seconda concezione, che puntava con intransigente risolutezza sul ruolo del destinatario. Se il discorso letterario è polisemico, ciò non dipende dalla sua configurazione formale, ma dalla circostanza pragmatica della ricezione. Il testo è fatto per essere letto, e ogni lettura è singolare, individuale, contingente. Se noi ammettiamo che il lettore, di fronte al testo, sia libero di interpretarlo come crede (tesi che trovava conforto, fra l’altro, nelle pagine di Valéry), allora è lui il vero produttore dei significati. Il punto d’arrivo di questa idea si trova nella tesi della morte dell’autore, annunciata verso la fine degli anni Sessanta da Roland Barthes4. «La naissance du lecteur», scrive Barthes, «doit se payer de la mort de l’auteur». Da un lato la consacrazione del lettore, dall’altra la soppressione (potremmo dire, con un bisticcio, l’esautorazione) dell’autore. Una tesi, come si vede, quanto mai perentoria; ma difficilmente difendibile sul piano teorico. Altro è riconoscere l’importanza del ruolo del lettore, altro è attribuirgli responsabilità smisurate: di fatto, l’estensione indebita delle prerogative del lettore finisce per tradursi in una libertà vuota, fasulla, mistificante. Ma non credo sia il caso di insistere su questo punto. Al di là delle for4 Cfr. Roland Barthes, La morte dell’autore (1968), in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988 (ed. orig. La mort de l’auteur, in Le Bruissement de la langue, Éditions du Seuil, Paris 1984).

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zature polemiche, quella della morte dell’autore è stata più che altro una spettacolare invenzione retorica, volta a sancire il principio che di un’opera letteraria non può darsi un significato concluso e univoco, definito una volta per tutte: sul che possiamo, credo, tranquillamente convenire. Siamo così alla terza concezione. Il significato del discorso letterario scaturisce dalla collaborazione fra autore e lettore. Non è vero che tutti i possibili significati ravvisabili in un’opera siano stati previsti o predisposti (consapevolmente o no) dall’autore, in maniera tale che il lettore li possa soltanto riscoprire: la lettura non è una semplice operazione di decodificazione, ma un intervento attivo, che contribuisce alla produzione del senso. D’altro canto, non è vero neppure che i significati possano proliferare ad arbitrio del lettore, senza riguardo per le intenzioni e le volontà dell’autore del testo. La soluzione, ovviamente, sta nel mezzo: il significato dell’opera è il risultato di una cooperazione fra autore e lettore. Il lavoro della scrittura dev’essere integrato dal lavoro della lettura – che, come ogni lavoro, costa fatica5. L’autore produce il testo, prefigurando certi significati; il lettore, seguendo le istruzioni che il testo fornisce, li realizza, li rende attuali. S’intende: a proprio modo, applicando principî soggettivi (se non idiosincratici) di selezione, enfatizzazione, ordinamento, sintesi. Un po’ come fa il musicista che esegue una partitura. Una breve parentesi. «Collaborazione», «cooperazione», sono termini che potrebbero insinuare l’idea di una tranquilla sintonia, d’un pacifico e costruttivo sodalizio: ma non sempre è così. Il rapporto fra autore e lettore può essere complicato, controverso: conflittuale, perfino. La metafora «edificante» – oltre che edilizia – della costruzione di significati dovreb5

Cfr. Vittorio Spinazzola, La fatica di leggere (1986), in Critica della lettura, Editori Riuniti, Roma 1992. Il titolo del saggio riprende ovviamente un celebre, cruciale passaggio manzoniano: «– Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, t. II, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Mondadori, Milano 2002, p. 6).

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be essere quindi sostituita da termini diversi, desunti dal linguaggio del commercio, della diplomazia, dalla teoria dell’evoluzione. Quella che si svolge fra autore e lettore non è tanto una cooperazione, quanto una contrattazione, una negoziazione, un compromesso; un coordinamento, se vogliamo, ma da intendersi soprattutto nel senso di convergenza e trattativa, cioè di adattamento reciproco. E va da sé che tali procedure si realizzano in un regime di spiccata contingenza: il negoziato semantico (se così si può dire) avviene in un tempo, in un luogo, in un contesto che sono sempre determinati e condizionanti. Come ha scritto Wolfgang Iser, ogni lettura si traduce in una sorta di performance of meaning6. Sarebbe errato, peraltro, pensare che in gioco siano soltanto dei significati. Che cosa significa infatti, rispetto alla letteratura, l’espressione «comunicazione riuscita»? Che cosa, esattamente, ha da «riuscire»? Ricordo che il discorso letterario non è un atto linguistico. Tutt’al più si può dire che contiene o, più esattamente, che simula degli atti linguistici: ma non costituisce, di per sé, un atto linguistico specifico, descrivibile nei termini di Austin7. La letteratura, in altre parole, non costituisce una forma di comunicazione. Anche se l’autore indubbiamente desidera (intende) trasmettere una certa quantità di informazioni, comunicare non è il suo fine principale. Lo dimostra il fatto che il discorso letterario non mira a produrre sui lettori 6 Cfr. Wolfgang Iser, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Il Mulino, Bologna 1987 (ed. orig. The Act of Reading. A Theory of Aesthetic Response, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1978). Nella ormai cospicua bibliografia sull’argomento, le pietre miliari in Italia rimangono i contributi di Umberto Eco (Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979), Vittorio Spinazzola (La democrazia letteraria, Edizioni di Comunità, Milano 1984; Critica della lettura, cit.; La modernità letteraria, Il Saggiatore-Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2001); Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, La Nuova Italia, Firenze 1996. Indagini sulla lettura di tipo psico-sociologico, che comprendono l’utilizzo di metodi quantitativi, sono condotte invece da Aldo Nemesio, esponente italiano del centro di ricerca IGEL (Internationale Gesellschaft für Empirische Literaturwissenschaft). 7 Cfr. il saggio di John R. Searle, The Logical Status of Fictional Discourse, «New Literary History», n. 6, 1975, poi in Expression and meaning. Studies in the theory of speech acts, Cambridge University Press, Cambridge 1979. Una traduzione italiana è apparsa su «Versus» n. 19-20, gennaio-agosto 1978.

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un effetto univoco e determinato: a meno che non si voglia considerare tale una risposta estetica di consenso (che ogni autore sicuramente desidera), ossia il riconoscimento ammirato del valore dell’opera. Ma questo, appunto, non è un fatto semantico: è un’imputazione assiologica, compatibile sul piano dei significati con una quantità di soluzioni negoziali differenti. Insomma, l’autore può benissimo realizzare scopi comunicativi diversi da quelli che coscientemente o no si prefiggeva, e la comunicazione si dirà comunque «riuscita», perché è stato raggiunto l’obiettivo di interessare il lettore. Ciò avviene perché il discorso letterario è bensì strutturato in maniera tale da riuscire intelligibile solo con riferimento a un contesto, ma le condizioni pragmatiche della sua ricezione – e dunque il contesto o i contesti a cui i lettori possono fare riferimento – sono impregiudicati, indefinitamente variabili e modificabili. E la vitalità di un’opera non in altro consiste, se non nella sua capacità di «funzionare» – di significare – in relazione a contesti storici, psicologici, culturali diversi e sempre nuovi: nella sua capacità infine, di dire, a seconda dei casi, cose diverse. L’autore e il lettore devono «intendersi», certo. Ma il terreno di tale intesa non è mai definito a priori; anzi, un autore apparirà tanto più significativo, quanto più numerosi e variegati risultano i terreni sui quali l’intesa si realizza. Dunque, un autore è tanto più o tanto meglio «inteso», quanto più viene «fra-inteso», cioè inteso al di là dei significati intenzionali che aveva in mente. Al di là, ovvero al di sopra, al di sotto, accanto – il meccanismo non muta: la comunicazione letteraria si pone sempre come un «intendere oltre». Beninteso, con questo non si vogliono affatto legittimare i travisamenti testuali o gli arbitrî esegetici. Esistono, eccome, interpretazioni sbagliate, erronee, inaccettabili. E tuttavia «errare» – nel senso di viaggiare, muoversi – rientra nel destino delle opere letterarie. La letteratura è fatta di discorsi «erranti», come i cavalieri; di monumenti, come macigni, erratici; e di tradizioni, che oltre a non rimanere mai immobili, spesso si diramano in rivoli molteplici e divergenti.

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Ho accennato poco fa al concetto di «interessamento». Credo che valga la pena indugiare un poco su questo tema. L’intento dell’autore è di interessare il lettore: il che non vuol dire solo catturare la sua attenzione, ma altresì coinvolgerlo, renderlo partecipe. Interessare, in questo caso, significa chiamare in causa, mettere in mezzo: far sì che l’interlocutore si interessi, accetti le regole del gioco, e collabori (fra l’altro) alla realizzazione del significato. Il lettore, interessato, cioè attratto nell’orbita della finzione, sarà poi disposto a provare diletto, commozione, meraviglia, divertimento, eccetera: a condividere, o almeno a prendere in considerazione, i ragionamenti e le parole del narratore e dei personaggi; a immergersi nella situazione narrata, in una dialettica di identificazione immaginativa e straniamento autocosciente che ora non è il caso di prendere in esame (e che d’altronde muta, per definizione, da opera a opera). Ma questo è solo il primo aspetto dell’interessamento. Da un lato l’autore si accattiva l’attenzione del lettore, in modo tale che il lettore accetta di far parte del mondo dell’opera. Dall’altra, il lettore deve appropriarsi l’opera: o, se si preferisce, l’opera deve entrare a far parte del mondo del lettore – dev’essere interiorizzata, incorporata in una esperienza. Si verifica in tal modo una sorta di duplice inclusione, di assimilazione reciproca. E questo comporta anche, sul piano semantico, un’attualizzazione di significati inevitabilmente, irrimediabilmente plurimi. Come si diceva all’inizio: l’opera letteraria ha una capacità indefinitamente aperta di significare. L’idea di inesauribilità del significato può essere rappresentata da tre immagini. Tre infatti sono le principali maniere di concepire come inesauribile il significato di un’opera letteraria. La prima vede il testo come una specie di cornucopia o, meglio ancora, come una miniera. L’inesauribilità si identifica con una intrinsecamente inesauribile ricchezza: per quanto profondo si scavi, si trovano sempre significati (valori) nuovi. In questa luce il testo appare non tanto come un oggetto, quanto come un luogo, dove i significati hanno dimora: den-

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tro il testo si può scoprire soltanto quello che (sia pur nascosto o sepolto) c’era già. Ovviamente tale concezione ha risvolti irrazionalistici e misticheggianti, se non decisamente orfici: alla letteratura viene attribuita una peculiarità esclusiva, che le conferisce un rango d’eccezione nell’universo del discorso. Questa posizione, prediletta da molti sinceri appassionati, mi è sempre risultata indigesta, perché le sue implicanze vagamente sacrali tendono a spingere il discorso fuori controllo. Il rapimento estetico – a scanso di equivoci – è una cosa serissima, e quella di «genio» è una categoria che non intendo affatto opportuno bandire dalle argomentazioni critiche. Non di meno, per capire come la letteratura funziona è bene evitare le scorciatoie. E non indulgere, quindi, al ripristino di anacronistiche «aure», di cui è stata fatta da tempo giustizia. Una seconda concezione vede il testo come una specie di magnete, che cattura i significati più diversi senza mai nulla perdere della sua virtù attrattiva. In questo caso l’inesauribilità riguarda una forza, non un dato. La calamita, cioè il discorso letterario, potrebbe anche costituire un oggetto intrinsecamente opaco e impenetrabile: quello che conta è la sua disposizione a racimolare e accumulare altri oggetti, crescendo indefinitamente su di sé. Anche in questo caso, tra la letteratura e gli altri usi della parola si istituisce una differenza qualitativa di principio, cosa che mi mette sempre un po’ a disagio. Inoltre suggerisce derive interpretative e associative metodologicamente insidiose. L’ipotesi che in un’opera letteraria possa albergare una speciale forza magnetica rischia di incentivare l’utilizzo improprio (magari non del tutto consapevole) di mastici e adesivi di dubbia provenienza. La terza e ultima immagine è quella della rete. «Rete» è parola oggi pressoché inflazionata, data la frequenza del suo uso nel campo della telematica; ma qui va intesa nel senso arcaico, materiale e artigianale, come rete da pesca. L’autore lega, o annoda, certi significati; il lettore, i lettori – noi – andiamo a pescare. O per essere più precisi: l’autore ci consegna delle istruzioni per costruire una rete, e noi ci ingegniamo

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di seguirle meglio che possiamo. Quindi gettiamo la rete – quella rete particolare, non un’altra – nelle acque che ci competono: acque più o meno profonde, più o meno agitate, limpide o torbide, e variamente pescose. E va da sé che reti diverse pigliano pesci diversi nelle stesse acque, così come la stessa rete piglia, in acque diverse, diversi pesci. L’opera, secondo questa concezione, non è un luogo o un contenitore, prezioso finché si voglia; né una calamita: e neanche un oggetto, semplicemente. In realtà la rete è anche un oggetto, che ha una certa configurazione, è composto di un certo materiale, ha maglie fatte così e così, e che in quanto tale può essere contemplato o analizzato, o – se occorre – restaurato (di questo si occupa la filologia), esattamente come un tessuto o un tappeto: e infatti, pure dei tappeti si dice che vengono «annodati». Ma quello che importa è che questo oggetto viene usato: è uno strumento che serve per pescare. Poco fa ho usato un’espressione imprecisa: in realtà la rete non può essere gettata in acqua, perché a rigore non può venire mai tirata in secco. Quando leggiamo, siamo sempre «imbarcati» (embarqués), o meglio, siamo sempre nell’acqua. Dall’acqua non si esce: sia essa lago o palude, ruscello o oceano, fiume o fognatura. Il discorso letterario serve anche a farci capire in quali acque ci troviamo immersi (cosa che per definizione, salvo i casi di stretta contemporaneità e vicinanza, inevitabilmente sfuggiva all’autore del testo). E se questo avviene, la comunicazione letteraria è comunque riuscita; volente o nolente l’autore che nuota o galleggia con noi.

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iii. Perché si legge? Pretesto calviniano sulla funzione educativa della letteratura

Qual è la funzione educativa della letteratura, ammesso che ne abbia una? La questione è evidentemente complessa: non è facile dare una risposta che sia insieme plausibile e non scontata. Anziché affrontarla in maniera diretta proverò quindi a prenderla di scorcio, modificando leggermente la prospettiva. La domanda a cui cercherò di rispondere non sarà «Qual è la funzione educativa della letteratura oggi?», bensì «A quali condizioni la letteratura può esercitare una funzione educativa?». L’argomento, seppure affine, non è evidentemente identico. Inoltre mi prenderò la libertà di lasciar cadere la specificazione temporale: non mi pare che oggi la questione si ponga in termini radicalmente diversi dal passato. Qui si potrebbe aprire un’ampia discussione; sarà per un’altra volta. Quali, dunque, le condizioni perché la letteratura possa esercitare una funzione educativa? A costo di essere un po’ brutale, risponderò in questo modo: la letteratura può esercitare una funzione educativa solo se non si prefigge di farlo. Lo scrittore che tramite la letteratura si proponga di fare opera principalmente, direttamente educativa, non fa buona letteratura: né, in linea di massima (ma questo esula dalle mie competenze), buona pedagogia. La letteratura deve in primo luogo funzionare in quanto letteratura, iuxta propria principia. Questa è la condizione preliminare perché possa assolvere a qualunque altra funzione, ivi compreso contribuire all’educazione, individuale o collettiva che sia. Detto in altre parole, la letteratura deve innanzi tutto soddisfare le esigenze dei lettori. Da ciò consegue immediatamente un’altra domanda: Che cosa si aspettano i lettori dalla let-

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cosa possiamo fare con il fuoco?

teratura? Che cosa cercano nelle opere letterarie? O, più semplicemente: Perché si legge? Una precisazione. Quella di «letteratura» è un’idea relativamente recente, che conta meno di tre secoli. In precedenza avevano corso altre categorie: si parlava di «generi» particolari (come la tragedia o l’epica), ovvero di humanae litterae, ma non c’era un termine per designare, all’interno nell’indistinto dominio del sapere umanistico, l’insieme delle espressioni artistiche verbali, incluso in un sistema complessivo delle arti1. L’estensione dell’idea di letteratura impone di restringere il campo. D’ora in avanti, quindi, con la parola «letteratura» mi riferirò alla letteratura d’invenzione: che rappresenta un settore importantissimo e probabilmente centrale della produzione letteraria, ma è ben lungi dall’esaurirla. Tornando alla nostra ultima domanda, vorrei richiamare un piccolo episodio avvenuto più di vent’anni fa. A quell’epoca collaboravo con la rivista di Goffredo Fofi «Linea d’ombra», che aveva sede a Milano. Una volta, chiacchierando di non ricordo più quale argomento, capitammo su questo semplice quanto fondamentale quesito. Perché si legge? Perché leggiamo? «Leggo», disse Goffredo, «perché io sono io». Per una frazione di secondo pensai che si trattasse di una risposta tautologica, del tipo «leggo perché sono un lettore»: e non sarebbe stata affatto una frase priva di senso (l’interesse per la lettura dipende da fattori soggettivi e imponderabili, o cose del genere). Ma mi sbagliavo; e infatti Goffredo proseguì: «… perché sono io e non un altro: perché sono un uomo e non una donna, perché ho cinquant’anni e non ottanta o novanta o quindici, perché sono un essere umano e non un animale…». Sto citando a memoria; non mi pare che l’elenco fosse molto più lungo di così. Tuttavia non sarebbe difficile continuare, e completarlo. Perché vivo qui e non altrove; perché vivo in quest’epoca, e non cent’anni fa, o duemila; perché ho avuto certe 1 Cfr. Franco Brioschi, Tradizione e modernità, in Manuale di letteratura italiana, a cura di F. Brioschi e Costanzo Di Girolamo, vol. III (Dalla metà del Settecento all’Unità d’Italia), Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 5-22.

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iii. perché si legge?

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esperienze e non altre; perché, infine, vivere significa scegliere, ogni scelta implica rinunce, e dunque il cammino che noi percorriamo è fatto anche della tante alternative escluse, dietro ognuna delle quali c’è una vita possibile. Leggere consente di aprire spiragli su alcune di queste possibilità, evadendo temporaneamente dalla nostra identità effettiva. Il termine «evadere» non gode generalmente di buona fama. «Letteratura di evasione» è una qualifica, anche quando non sprezzante o liquidatoria, certamente limitativa. Senza discutere questo assunto, vorrei sottolineare però che evadere è un’aspirazione quanto mai legittima per chi si senta in prigione; tutto dipende, semmai, da quanto giustificato è quel sentimento. E comunque, la letteratura (guai a dimenticarselo) serve anche a divertirsi. A distrarsi: a svagarsi. Tutte le varianti sinonimiche contengono l’idea di «volgersi altrove», distogliendo la mente dallo stato presente delle cose. Il principio è tutt’altro che banale. Una delle qualità della letteratura – «poche, ma insostituibili», come diceva Calvino nel Midollo del leone2– è di sottrarci ai limiti e ai condizionamenti della realtà. Su questo orizzonte prendono forma anche le proiezioni utopiche: ben oltre, quindi, l’effimero diversivo di un passatempo. Proviamo a dirlo in maniera più appropriata. La letteratura consente di estendere il campo dell’esperienza attraverso l’esercizio dell’immaginazione. L’immaginazione ci proietta oltre i confini dell’io, permettendoci di assaporare, di esperire e (per dir così) di esplorare virtualmente stati d’animo, turbamenti, affezioni, trasporti, modi d’essere e di sentire che non corrispondono alle nostre condizioni o inclinazioni reali, e a volte ne sono lontanissimi. Così la nostra vita si moltiplica: grazie alla lettura ci è offerta l’opportunità di vivere più vite in una. Gli studiosi che si sono occupati di teoria della lettura non hanno mancato di segnalare un’ambigua parentela tra l’esperienza della lettura e la fantasticheria. In entrambi i casi si cerca sollievo, consolazione o sollazzo (gli ultimi due termini deriva2

Italo Calvino, Una pietra sopra, in Saggi 1945-1985, cit., p. 21.

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no dalla medesima radice, con un interessante slittamento semantico dall’idea di conforto a quella di piacere) – si cerca, dicevo, un ristoro nella dimensione dell’immaginario. Ma il fantasticare è un’attività tanto facilmente appagante, quanto insidiosa. La coscienza ne trae talvolta beneficio, talaltra no: il rischio è di offuscare o smarrire il contatto con il reale, perdendosi tra le nuvole o costruendosi mondi paralleli. La differenza, naturalmente, è che le opere letterarie non sono chimere o sogni ad occhi aperti. Hanno la consistenza e l’oggettività di un discorso: sono testi, tessuti di parole, dove l’invenzione più sbrigliata si deve comunque misurare con le esigenze di una comunicazione intersoggettiva. Chi può negare, d’altronde, che anche l’attività della lettura possa produrre effetti deleteri? La rappresentazione letteraria si è occupata largamente di questo tema. La storia del romanzo moderno inizia con le avventure di un «cattivo lettore», don Quijote; ma potremmo ricordare anche Emma Bovary, o il Gian dei Brughi del Barone rampante. Lasciarsi rapire dalle invenzioni letterarie è pericoloso: il piacere di leggere è suscettibile di indurre una sorta di trasognata, ipnotica malìa, che a sua volta può degenerare in allucinazione o delirio. Altro che ristoro: anziché arricchirsi o corroborarsi l’ego s’indebolisce. Il facile appagamento è scontato da guasti e scompensi profondi, che possono portare alle conseguenze più rovinose. Quali, dunque, le condizioni perché la lettura non produca questi effetti negativi? Il più autorevole studioso di teoria della lettura, Vittorio Spinazzola, parla di un equilibrio fra «divertimento» e «ricreazione», cioè tra il momento centrifugo dell’uscita da sé e il momento centripeto del ritorno a sé. Leggere significa proiettarsi oltre i confini del proprio io, identificarsi con figure d’invenzione, fingersi partecipi di mondi immaginari; ma significa anche saper recuperare la propria identità, confrontando la propria esperienza con gli esempi e i modelli forniti dalla finzione letteraria. Potremmo dire, in breve, che il buon lettore è colui che riesce ad attivare un dialogo tra la realtà empirica e la realtà fittizia, tra il mondo della vita vissuta e i

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mondi possibili della letteratura: e così facendo espande, approfondisce, sviluppa la propria comprensione delle cose e la propria conoscenza di sé. Su due fenomeni, in particolare, mi sembra opportuno soffermarsi. Il primo è l’invenzione dei personaggi. I personaggi letterari consentono – come ha scritto Giacomo Debenedetti – di «battezzare» le grandi congiunture esistenziali: di rendere evidenti delle situazioni esemplari, che – una volta narrate o messe in scena – divengono conoscibili, riconoscibili, identificabili3. Al livello più elementare questa funzione si esplica nella trasformazione di nomi propri in nomi comuni. Sono i casi di Tartufo e Perpetua, di Sosia e don Giovanni, di Anfitrione, di Gradasso: per via antonomastica, la letteratura rimedia all’inopia verborum della lingua e incrementa il catalogo dei tipi umani con nuovi vocaboli. Com’è noto, la lessicalizzazione può riguardare anche la categoria degli aggettivi (erculeo, faustiano, amletico, pantagruelico, rocambolesco) e in qualche caso coinvolge i nomi degli scrittori (boccaccesco, orwelliano, kafkiano). Ma va da sé che la dimensione più rilevante è l’esperienza soggettiva del singolo lettore: che potrà specchiarsi in questo o quell’aspetto del carattere o della storia di Elizabeth Bennett, di Anna Karenina, di Gertrude, di Rastignac, di Marlowe, di Swann, di Zeno, di Josef K. E di Quinto Anfossi, di Cosimo Piovasco di Rondò, di Pin; perfino (perché no?) di Qfwfq. Quello che la letteratura offre, in buona sostanza, è un repertorio personificato di modelli di esperienza; e i personaggi costituiscono un vocabolario che rende più variegato e preciso il nostro discorso sul mondo. Il secondo fenomeno consiste nella compiutezza della forma, e perciò nella potenziale compiutezza di senso, propria della rappresentazione letteraria. Questo aspetto è ben espresso in una brillante battuta di Groucho Marx: «Piuttosto che vivere, preferisco guardare un film o leggere un romanzo: lì 3 Giacomo Debenedetti, Personaggi e destino (1947) in Saggi critici. Terza serie, Marsilio, Venezia 1994, p. 113 (1a ed. Il Saggiatore, Milano 1959).

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almeno c’è una trama». La nostra esperienza empirica è composta da un flusso ininterrotto e disordinato di avvenimenti, atti, parole, incontri, sensazioni, stati d’animo, che è facile percepire come insignificanti e confusi. Una delle ragioni principali è che a noi sfuggono completamente i termini della nostra vita, la nascita e la morte; possiamo solo in via congetturale avanzare ipotesi su quanto gli antefatti abbiano determinato il nostro destino, e non ci è concesso di valutare a posteriori esiti e ripercussioni del nostro operato. E naturalmente i giorni e gli anni, i minuti e le ore passano per noi senza tornare indietro: del passato non resta che un labile, instabile insieme di tracce memoriali, che non necessariamente (anzi, quasi mai) compongono un insieme organico o coeso. «Le cose sono davvero ciò che sembrano essere», ha scritto un’antropologa danese, Kirsten Hastrup: «caotiche, paradossali e inesaustive»4. Un’opera letteraria, invece, ha un inizio e una fine; comprende un numero limitato di personaggi e di eventi; li oggettiva in un tessuto verbale che possiamo percorrere e ripercorrere a nostro piacimento; li designa una volta per tutte, attribuendo agli uni e agli altri maggiore o minore rilievo. Tutto questo ci permette di interpretare le vicende narrate, di discuterle e di dar loro un senso. Un senso che, beninteso, non necessariamente sarà univoco o definitivo. Al contrario: un’opera è per definizione aperta a letture sempre nuove, perché sempre nuovo è il quadro esistenziale sullo sfondo del quale viene letta. Ma la compiutezza della forma consente, volta per volta, l’imputazione di significati: dai quali potrà poi discendere un po’ di luce anche su quell’opaco guazzabuglio, su quel futile e affannoso tramestio che nella maggior parte dei casi rischia di apparire la vita vissuta – almeno finché non ci si impegni a ragionarci su. Ecco: la letteratura è il modo più 4 Traggo questa citazione da Ugo Fabietti, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Bari-Roma 2005, p. 248. In verità questa lapidaria massima della Hastrup è riferita specificamente alla dimensione sociolinguistica, e ha come bersaglio le concezioni troppo rigide di codice grammaticale (A Passage to Anthropology. Between experience and theory, Routledge, London 1995, p. 34).

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«divertente» di cominciare a ragionarci su. Ma non il meno serio; né il meno fruttuoso. Anzi. Ragionando sulla «coevoluzione» di natura e cultura, lo studioso americano Paul Hernadi ha avanzato l’ipotesi che l’esercizio della simulazione immaginativa abbia fornito un vantaggio evolutivo alla nostra specie. Il presupposto è sempre identico: i fenomeni letterari – come i sogni, l’ipnosi, gli stati di trance – ci pongono offline rispetto all’esistenza normale; la differenza consiste nel fatto che tale condizione è assunta liberamente e volontariamente. Tuttavia si tratta di una scelta che implica comunque dei costi, ai quali deve corrispondere una qualche utilità. Nel contesto di una lotta per la sopravvivenza che concede pochi intervalli di tregua, devono esserci ragioni forti per non dedicare interamente il proprio tempo e le proprie energie ad attività produttive e riproduttive. La risposta è che l’esercizio offline delle facoltà affina le capacità di utilizzarle online: «Ciò che rende la trasformazione culturale molto più rapida dell’evoluzione strettamente biologica è […] l’abilità umana di contemplare e condividere verbalmente delle alternative immaginarie all’esperienza ordinaria e ai comportamenti abituali». Al pari della conservazione narrativa dei ricordi o della trasmissione verbale delle emozioni (cioè dei resoconti che rendono gli altri partecipi delle proprie esperienze vissute) l’invenzione di situazioni possibili accresce la flessibilità emotiva e cognitiva, rendendoci più adatti a comprendere e a fronteggiare le necessità che si presentano. Inoltre, «i mondi alternativi evocati dalla lettura tendono anche a risvegliare in noi desideri profondi di cambiare il mondo sociale che ci circonda, o di cambiare noi stessi adattando il nostro essere personale al cosmo circostante»5. Susan Sontag ha espresso idee simili – ma con maggiore pathos – nel discorso tenuto nel 2003, in occasione della consegna del Premio per la Pace alla Buchmesse di Francoforte: «Cosa saremmo se non potessimo provare simpatia per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi? Cosa saremmo se 5

Paul Hernadi, Perché la letteratura?, cit., pp. 28 e 32.

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non riuscissimo a dimenticare noi stessi, almeno parte del tempo? Cosa saremmo se non fossimo capaci di imparare? Di perdonare? Di diventare diversi da quelli che siamo?»6 Ma tornando alla rappresentazione letteraria della figura del lettore conviene richiamare alla mente un brano di Se una notte d’inverno un viaggiatore. In questo romanzo, com’è noto, allo svuotamento o alla vanificazione dell’immagine dell’autore (che si traduce in un repertorio di forme possibili di anonimato) fa riscontro una fortissima personalizzazione dell’attività della lettura, esemplarmente incarnata (ma tutt’altro che esaurita) dal personaggio della Lettrice, Ludmilla. Ora, nel cap. viii l’alter ego di Calvino, Silas Flannery, riassume in una sorta di massima il funzionamento virtuoso della lettura: «Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro»7. Lettura, dunque, come dialogo, interazione cooperativa, costruzione di senso. Ecco le condizioni perché – tornando alla questione da cui siamo partiti – la letteratura possa assolvere anche a una funzione educativa. Ma tutto questo può avvenire solo se il lettore assume nei riguardi del testo l’atteggiamento appropriato. Un atteggiamento in cui curiosità esplorativa e disponibilità alla fascinazione, riflessione ed empatia, spontaneità ingenua e controllo critico, incanto e raziocinio riescano a stare in equilibrio. Buon lettore, buona lettrice è chi concilia l’impulso a identificarsi nelle figure e nelle situazioni immaginarie evocate dall’opera con la capacità di mediarle, considerandole come termini di un’interrogazione. Quali domande sollecita ciò che sto leggendo circa la mia visione del mondo, le mie idee, la mia esperienza vissuta? quali risposte? 6

La letteratura è libertà, ora in Nello stesso tempo. Saggi di letteratura e politica, a cura di Paolo Dilonardo e Anne Jump, Mondadori, Milano 2008, p. 168 (ed. orig. At the Same Time: Essays and Speeches, Farrar, Straus and Giroux, New York 2007). 7 Italo Calvino, Romanzi e racconti, a cura di Claudio Milanini, Mario Barenghi e Bruno Falcetto, vol. II, Mondadori, Milano 1992, p. 793.

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iii. perché si legge?

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E qui si pone un altro ordine di problemi. Nel processo di formazione del lettore interviene, inevitabilmente, la scuola. Purtroppo l’insegnamento scolastico della letteratura tende spesso a relegare l’allievo in una posizione passiva. Anziché incoraggiarlo a indagare e interrogare l’opera, gli si chiede di riconoscere nell’opera ciò che altri vi ha già trovato prima di lui. Il sintomo più vistoso di questa perversione educativa è costituito dalle tante edizioni commentate in cui il commento fagocita il testo, sovraccaricandolo di una torva pletora di discorsi secondari. Sul testo, degradato a pretesto didattico, pullula una vegetazione parassitaria di considerazioni storiche, linguistiche, ideologiche, sociologiche, narratologiche. Non c’è più spazio per porre domande: le risposte sono già tutte lì. O peggio, ci sono le domande, tante domande: alle quali bisogna rispondere (dalla 1 alla 5, per lunedì prossimo), e s’intende che la risposta giusta è una sola. Così, velato, offuscato, occultato dagli apparati critici, nonché affaticato e sgualcito dall’accumulo di domande forzose, il testo perde ogni freschezza. Non si presta più ad alcun dialogo: diviene l’oggetto di un compito ingrato ed esoso, inservibile ad altro che a ottenere un voto. Il fatto è che non si dà apprendimento vero, quanto a capacità di lettura, se non si lascia uno spazio adeguato all’interpretazione spontanea, ingenua, genuina dell’allievo. E questo comporta dei rischi (immagino che ci sia un’intera letteratura sul rischio pedagogico). Proponendo un testo, l’insegnante non dovrebbe affrettarsi a spiegarlo. Dovrebbe aspettare l’autonoma reazione degli allievi; e costruire la spiegazione a partire da quella reazione, in modo da coinvolgere gli allievi non come passivi destinatari terminali di un allotrio esercizio interpretativo, ma come protagonisti di una ricerca8. Naturalmente, così facendo si accetta anche di correre il rischio di una reazione inadeguata. Non tanto perché «sbagliata» (non è que8 Su alcuni cruciali problemi della didattica della letteratura (in particolare, della poesia) si è soffermata Angela Borghesi in Veleni e contravveleni della poesia. Berardinelli e i contemporanei, ora in Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 219-233.

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sto il discorso), quanto perché troppo tiepida o distratta. E naturalmente esiste anche la possibilità che la proposta cada, almeno in apparenza, nel vuoto. Silenzio: nessuna risposta, zero feedback. Chiunque abbia insegnato lo sa: sono momenti difficili. Ma la posta in gioco è alta. L’alternativa è tra affrettarsi a colmare il vuoto, iniziando a sciorinare nozioni precostituite (ancorché corrette, e non necessariamente pedantesche: possono essere perfino brillanti), ovvero seguire un’altra strada. E cercare così – per dirla in una parola – di restituire alla letteratura una funzione. Educativa, anche. Tempo fa mi sono imbattuto in una massima di W.H. Auden: «Un vero libro non è quello che noi leggiamo, ma quello che legge noi». Forse questo è l’obiettivo principale che si dovrebbe porre chi si trova a insegnare letteratura – in qualunque luogo, a qualunque livello. Persuadere chi ascolta che in un’opera letteraria si possono trovare molte cose: cose divertenti, affascinanti, sorprendenti, commoventi, istruttive: e a volte anche, quando meno ce lo aspettiamo, si può trovare una pagina della nostra autobiografia9. Ma tutto questo non lo si può imporre. Non si possono pretendere risultati immediati, né rapidi. In un’intervista del 1981, Calvino ha dichiarato la propria estraneità ai propositi pedagogici: «In me non c’è pedagogia. Se qualcosa s’impara dalla letteratura, e credo che s’impari qualcosa che dipende dalle forme dell’immaginario, dai modelli con i quali si osserva il mondo, si tratta di una cosa lentissima, di un’influenza sulla sensibilità, sui rapporti col mondo». E, ovviamente, nulla che possa essere generalizzato, cioè tradotto in termini teorici astratti. «Altrimenti», conclude Calvino, «non varrebbe più la pena di scrivere romanzi e racconti»10. 9

Su quest’ultimo tema – ma anche su altri toccati in questo intervento – ho tentato una messa a punto teorica nell’articolo La débâcle delle parentesi, ovvero L’involontario tracollo dell’incredulità, in «Modernità letteraria», n. 3, 2010, pp. 27-43. 10 Si veda l’intervista a Philippe De Meo, «La Quinzaine», n. 346, 16-30 aprile 1981, ora in Italo Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Mondadori, Milano 2012, pp. 426-431 (citazione a p. 428).

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iv. L’avvocato e il romanziere Su un’edizione commentata dei Promessi sposi

Quando il giudice lo invita a tenere la sua arringa, l’avvocato rimane immobile e trasognato, come se pensasse ad altro. Si alza, lentamente, solo dopo uno spazientito richiamo: ma a prendere la parola ancora esita. La sua incertezza è più che giustificata. Il risultato del dibattimento è stato disastroso: l’unica testimonianza a favore, benché umanamente persuasiva, è stata respinta con decisione dal giudice per un errore di forma, e stralciata dal verbale. L’avvocato, che ormai da anni frequenta più le bettole che le aule dei tribunali, ingenuamente sicuro del fatto suo aveva rifiutato di patteggiare contro un avversario temibilissimo, sleale, oltre che agguerrito: uno degli studi legali più prestigiosi di Boston, che difende un grande ospedale privato, di proprietà della Curia. Poi, trovandosi a corto di testi e di prove, se n’era pentito; ma non aveva più potuto sottrarsi al processo. La causa, ora, appare perduta. Non so bene per quale motivo, rigirandomi fra le mani un’edizione scolastica dei Promessi sposi, mi sia venuto in mente il finale di un film di Sidney Lumet che parla di tutt’altro argomento. Forse qualcuno l’avrà riconosciuto, perché si tratta di uno dei migliori court-room movies della storia del cinema: Il verdetto (The verdict), uscito nel 1982, tratto dall’omonimo romanzo di Barry Reed, e insignito l’anno seguente di cinque Golden Globes (e altrettante nomine per l’Oscar): migliore film nella categoria drammatica, miglior regia, migliore sceneggiatura (David Mamet), miglior attore non protagonista (James Mason, nel ruolo del legale della contro-

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parte), e naturalmente miglior interprete maschile (Paul Newman, nel ruolo dell’avvocato Frank Galvin). Certo, il Manzoni aveva a cuore, e come, i problemi della giustizia. Ma qui la questione è un’altra. A metterla a fuoco, con una semplicità e una limpidezza sorprendenti, sono le parole che Frank Galvin profferisce dopo quella lunga esitazione: e che di colpo rovesciano i termini del quesito su cui la giuria è chiamata a pronunciarsi. Il suo punto di partenza è il nostro senso della giustizia, e il timore di smarrirlo fra i dubbi, i pregiudizi, i luoghi comuni, le delusioni, e anche (sottinteso decisivo) fra i cavilli dei codici di procedura penale. Ma oggi voi siete la legge. Voi siete la legge… Non i libri, non gli avvocati, o le statue di marmo e gli ornamenti del tribunale…tutte queste cose non sono altro che i simboli del nostro desiderio di essere giusti1.

Ecco il punto che occorre tener fermo. Paul Newman scandisce la frase in tono sommesso, quasi dolente, senza alcuna enfasi, a metà fra il monito e l’implorazione. Voi siete la legge: You are the law. Se stessimo parlando della Storia della colonna infame ci potremmo fermare qui. Ma poiché parliamo dei Promessi sposi, anzi, di un’edizione scolastica dei Promessi sposi, dobbiamo fare un passo ulteriore, dal Massachusetts contemporaneo alla fosca America del futuro immaginata da Ray Bradbury nel 1953. Nella sequenza finale di Fahrenheit 451 il fuggiasco Guy Montag, già esponente del servizio di vigilanza nazionale incaricato di bruciare i libri (tutti i libri, i libri in quanto tali), incontra un gruppo clandestino di intellettuali idealisti, guidato da un certo Granger. Ciascuno di loro s’è assunto il compito di imparare a memoria un’opera, o una parte di un’opera, letteraria o filosofica, al fine di perpetuarne, prima e più che il ricordo, l’esistenza stessa. «Ti piacerebbe, uno di questi giorni, Montag, leggere la Repubblica di Platone?» 1 Traggo la citazione dal sito web Internet Movie Script Database: cfr. http://www.imsdb.com/scripts/Verdict,-The.html.

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iv. l’avvocato e il romanziere

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«Ma certo!» «Sono io la Repubblica di Platone. Vuoi leggere Marc’Aurelio? Il professor Simmons è Marc’Aurelio». «Molto lieto» disse Simmons. «Piacere» disse Montag. «Voglio presentarti Jonathan Swift, autore di quel malvagio libro politico, I Viaggi di Gulliver! E quest’altro è Charles Darwin, e questo è Schopenhauer (…)»

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L’uomo diventa libro. Anzi, viceversa: i libri, per scampare alla distruzione ed essere trasmessi alle generazioni future, devono diventare uomini. Questo avverrà anche a Montag, che decide di entrare nell’organizzazione. Granger si volse al Reverendo: «Abbiamo un Libro dell’Ecclesiaste?». «Uno solo. Presso un certo Harris, a Youngstown». «Montag», e Granger strinse forte la spalla di Montag. «Sii prudente. Abbi cura della tua salute. Se dovesse succedere qualcosa a Harris, tu sei il libro dell’Ecclesiaste. Vedi come sei diventato importante da un minuto a questa parte?»2

You are the Book of Ecclesiastes. Come nel film di Lumet, nel romanzo di Bradbury (e nella fortunata trasposizione cinematografica che ne fece Truffaut nel 1966) il valore da preservare si incarna negli individui. Il valore: il testo. A questo punto possiamo prendere in considerazione il nostro oggetto. Che è piuttosto ragguardevole, anche dal punto di vista fisico: formato 24x17, pagine LXIV + 990, un chilo e mezzo di peso (circa il triplo di una normale edizione tascabile). Il volume è presentato come I promessi sposi, ma oltre al testo manzoniano c’è altro: molto altro. Innanzi tutto un profilo dell’autore, corredato di cronologia e presentazione delle opere minori; quindi una sintetica introduzione al romanzo, che comprende una sinossi dell’intreccio, suddivisa per capitoli. La sezione seguente dell’apparato è la più originale, nel vasto panorama dell’editoria scolastica manzoniana: 2 Ray Bradbury, Fahrenheit 451, trad. it. di Giorgio Monicelli, Mondadori, Milano 1989, pp. 178-179.

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cosa possiamo fare con il fuoco?

consiste in un’antologia della pittura secentesca, con una trentina di tavole di artisti noti e meno noti (Velázquez, Caravaggio, il Pitocchetto, il Cerano, Procaccini, Crespi) a illustrazione della vita del secolo. Cavalieri, armati, gente del popolo, frati, monache; e ritratti, scene di battaglia, scene di umile vita quotidiana, immagini dell’epidemia di peste, miracoli. Non manca, naturalmente, San Carlo Borromeo, in più situazioni; l’immagine più curiosa è Il gioco della morra del senese Antiveduto della Grammatica. Alla morra, ricordate?, giocano due dei bravacci di don Rodrigo nell’osteria del paese, prima della notte degl’imbrogli, «gridando tutti insieme (lì, è il giuoco che lo richiede)»: un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran «sei» che n’era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi […]3

A questo punto termina la numerazione latina; comincia il testo. Senonché il testo viene accompagnato e – per dir così – scortato da una fitta schiera di materiali paratestuali, che lo inquadrano, lo attraversano, lo fiancheggiano, quasi lo dovessero sostenere: come un tutore ortopedico, o come l’impalcatura di un edificio pericolante. Ci sono, in primo luogo, le note a piè di pagina, di prammatica in una versione scolastica: né meglio né peggio di altre, meno estese di quelle che normalmente corredano le edizioni della Commedia ma di ampiezza comunque compresa fra le 10 alle 30 righe, in corpo ridotto. In secondo luogo, il testo è intercalato da stralci di letture critiche, della misura di una pagina (su fondo grigio chiaro, con riquadro): uno o due per capitolo, per un totale di 50. Al termine di ogni capitolo c’è poi una «analisi del racconto», che di volta in volta si sofferma sulle tecniche narrative, sulla caratterizzazione dei personaggi, sullo spazio romanzesco, sui temi dell’opera, sulla costruzione dell’intreccio, e così via, con dovizia di sche3 Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Salvatore Silvano Nigro, t. II, Mondadori, Milano 2002, p. 133.

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iv. l’avvocato e il romanziere

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mi grafici. Ricorrenti i confronti con il Fermo e Lucia, ma non sono gli unici; ad esempio, dopo il primo capitolo c’è un paragone con l’incipit di Ivanhoe. Non basta. Ad ogni capitolo segue una «Guida alla rilettura del capitolo», lunga un paio di pagine (nessuno si azzardi a sospettare che gli studenti leggano solo quelle!), che riassumono la vicenda e ne commentano gli aspetti salienti. Possiamo passare al prossimo capitolo? Macché. Dulcis in fundo, ci sono le «proposte operative», ossia una serie di esercizi, variamente concepiti, e articolati sotto le rubriche «Conoscenze», «Competenze», «Capacità». Il romanzo, cioè i 38 capitoli del testo manzoniano corredati da questo sontuoso corteo esegetico-didattico, termina a p. 900. Il libro ne comprende però quasi un centinaio in più. Cinquanta sono dedicate a un’ulteriore analisi del racconto, con «schede di sintesi generale» (sistema dei personaggi, spazio, tempo, temi, tecniche espressive); un’altra trentina ai «percorsi tematici», suddivisi in «modi espressivi» e «luoghi». Quindi un glossario, che comprende termini linguistici e retorici (apostrofe, iperbole, metafora…), narratologici (fabula, prolessi, straniamento…), filosofici (etica, finalismo, giansenismo…); quindi, se Iddio vuole, arrivano la bibliografia e l’indice. Poco fa ho ironizzato sulle dimensioni del volume; ma non si può negare che in questo libro trovino posto davvero molte cose. Un commento all’opera; un’antologia della critica manzoniana; un corso di analisi del testo narrativo; un eserciziario sull’universo romanzesco; un modulo interdisciplinare, da condurre in tandem con l’insegnante di storia dell’arte… C’è posto per tante, tantissime cose. Ma per lo studente no. Se il testo manzoniano appare compresso, schiacciato, a tratti perfino occultato dalla congerie dei discorsi accessori, il lettore, per parte sua, viene sostanzialmente estromesso dal libro. C’è già tutto, è già tutto lì: informazioni, interpretazioni, raffronti. Qualora lo studente, leggendo, venisse colto da una riflessione qualsiasi, sarebbe tuttavia pressoché certo che da qualche parte dell’apparato – nelle analisi, nelle schede, nei riassunti; prima, dopo o in mezzo ai capitoli; o magari fra le

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righe degli esercizi – quell’idea è già formulata, con una competenza critica per lui inarrivabile, con superiore precisione terminologica, con riferimenti culturali a lui ignoti. Cosa ci sta a fare il lettore? Questi Promessi sposi non sono rivolti ai lettori (la nobile aspirazione del povero don Lisander), perché sono già, intrinsecamente, letti. Sono cibo non solo precotto, ma già masticato, omogeneizzato, pronto per essere estruso nelle forme testuali prescritte dal Ministero, e scrupolosamente sunteggiate nella tipologia di p. 981: Tema, Saggio breve, Analisi testuale, Recensione, Intervista, Relazione, Lettera, Testamento – (chiedo scusa) Lettera, Articolo. Non vorrei essere frainteso. E non vorrei nemmeno infierire contro una particolare edizione (che nella fattispecie è quella curata da Gilda Sbrilli per l’editore fiorentino Bulgarini): il discorso è generale e riguarda quasi tutte le edizioni commentate dei Promessi sposi. Le quali si fondano, senza alcun dubbio, su una gran mole di notevole, pregevole, rispettabilissimo lavoro. Il punto è che il risultato di tale lavoro è qualcosa che non dovrebbe essere messo in mano, mai, a degli alunni della scuola media superiore. Perché li espelle dall’universo della lettura. Perché rischia di farne dei non-lettori per il resto dei loro giorni. Perché li trasformerà in cittadini paghi e inconsapevoli di una futura Italia Celsius 233 (l’equivalente di 451 gradi Fahrenheit, la temperatura a cui la carta brucia). Questo lavoro può servire agli insegnanti; ma a loro soltanto: e a molte condizioni. La prima, appunto, è guardarsi bene dall’usare questo libro come libro di testo, perché così facendo si riducono essi stessi ad appendici del libro di testo, secondo il processo perfettamente descritto dalle pagine di Marx sull’operaio alienato dalla macchina. La seconda è di riflettere sulle parole di Frank Galvin alla giuria e su quelle di Granger a Guy Montag. Voi siete la legge. Voi siete il libro dell’Ecclesiaste. Voi siete i Promessi sposi. Voi siete la letteratura. Il senso di un’opera letteraria non sta nelle note a piè di pagina, nei riassunti, nelle schede di analisi, nelle performances ermeneutiche degli spe-

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cialisti, e meno che mai nei questionari a risposta chiusa o aperta, o nelle «tracce» ministeriali (non di rado mostruose neoplasie testuali). Il senso della letteratura sta dentro di voi. Nella vostra capacità di leggere e di mettervi in gioco durante la lettura. Di suscitare nei giovani quelle domande che rimangono inerti pedanterie se sciorinate da pletorici e invasivi apparati, e che sono invece cultura viva e vitale quando nascono in maniera spontanea dall’esperienza della lettura. Voi siete i Promessi sposi. Voi siete le Illusioni perdute, e la Linea d’ombra, e Gente di Dublino – voi siete Una questione privata e Menzogna e sortilegio, voi siete Orgoglio e pregiudizio e Anna Karenina, e Pastorale americana, e 1984. (Impararli a memoria, s’intende, è facoltativo). La terza condizione sarebbe di non considerare i Promessi sposi come un libro obbligatorio, inesorabile, insostituibile – anche se non ignoro che qui entrano in gioco altre responsabilità, diverse da quelle dei singoli insegnanti. La quarta, se si è scelto di leggere i Promessi sposi, è di usare il tempo a disposizione in classe per leggere i Promessi sposi, senza sostituire l’analisi dell’opera del Manzoni – succede, lo giuro – con la proiezione del pur glorioso sceneggiato di Sandro Bolchi del 1967. Non che faccia danno vedere attori veri, che recitano veramente (e che cast: Tino Carraro, Lilla Brignone, Elsa Merlini, Massimo Girotti, Lea Massari, Franco Parenti, Salvo Randone…): il divario, rispetto alle fìkscion televisive odierne, è abissale. Ma in classe può essere utile soprattutto per correggere gli errori d’interpretazione del regista e del suo prestigioso sceneggiatore Riccardo Bacchelli. Provate a far recitare ai ragazzi la scena del perdono dopo aver letto con attenzione il quarto capitolo dei Promessi sposi. A proposito: vi siete mai chiesti perché le iniziative teatrali hanno tanto successo, nelle scuole? Perché agli studenti non si chiede, anche, di studiare Stanislavskij. L’arringa di Frank Galvin dura pochi minuti. Ma coglie nel segno: la giuria gli dà ragione. E non solo: ha compreso così bene il significato delle sue parole, che il portavoce chiede al

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giudice se esistano vincoli nella determinazione dell’indennizzo (la causa riguardava la riduzione di una paziente allo stato vegetativo per un errore dei medici del St. Catherine Laboure Hospital). Il giudice è costretto a rispondere di no: nessun vincolo, se non il vostro buon senso, fondato sulle prove. Your good judgement, based on the evidence. Il testo e il vostro buon senso. Altro non serve.

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v. Silenzi in aula Breve riflessione sul mestiere dell’insegnante

Sono ormai più di vent’anni che insegno. Quando io avevo l’età degli studenti che si laureano oggi, la frontiera più avanzata della tecnologia delle comunicazioni, tra gli usi quotidiani, era il telefono a tastiera, che da non molto aveva soppiantato quello a disco rotante. Un altro mondo, davvero; è dunque necessario interrogarsi su quello che si è combinato in tutto questo tempo, e cominciare a renderne conto. Se parlerò più di scuola che di università, benché sia all’università che io insegno, è perché credo che l’università debba sempre misurarsi con la dimensione della scuola, in tutti in sensi del vocabolo. Non è un caso che il termine «scuola» abbia due accezioni differenti. C’è la scuola di base, la scuola dell’istruzione di massa, che è il fondamento della cultura di una nazione, fatta di maestri e di scolari, di professori e di alunni (e anche del resto del personale), e di tante materie diverse, di libri di testo, di programmi, di circolari ministeriali, di edifici dalle pareti scrostate. Ma «scuola» è anche, in un altro senso, un obiettivo del lavoro universitario: quando un gruppo di ricerca acquista una certa coerenza e consistenza, quando acquista un certo peso specifico nella comunità intellettuale, si comincia a parlare di scuola; e si parla, anche qui, di «maestri». Ecco la domanda da cui vorrei partire: che cos’è un maestro? Ora intendo la parola in senso lato: un insegnante, un buon insegnante. Ebbene, se mi chiedo quali siano le condizioni fondamentali perché un insegnante sia un buon insegnante, mi do due risposte, che sono almeno in apparenza in contraddizione tra di loro. La prima: un insegnante, per riuscire a insegnare

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qualcosa, deve essere una figura umanamente credibile. La seconda è che deve essere consapevole di avere una funzione giullaresca. Qui credo che ci sia una contraddizione utile. Quando uso il termine «credibile», non intendo «qualcuno in cui credere»; non lo uso come sinonimo di «autentico», o simili. Una piccola digressione. L’autore di cui mi sono occupato più a lungo, Calvino, aveva in uggia quella che una volta gli è capitato di chiamare la «melassa di umanità», cioè l’insistenza sulla sfera affettiva, sui sentimenti, sul calore del cuore. All’umanità ci si arriva poi sempre, è inevitabile; così come dell’autobiografia: dall’autobiografia non ci si può mai svincolare del tutto. E proprio per questo, secondo Calvino, è bene diffidarne. Vorrei tenermi alla larga, insomma, dalla retorica sulle qualità umane degli insegnanti (non dico che non ci debbano essere: dico che non sempre è utile parlarne). Quando affermo che un insegnante deve essere credibile intendo semplicemente che deve apparire come qualcuno cui vale la pena di dare credito. Lo studente deve vederlo come qualcuno che potrebbe avere qualcosa di interessante da dirgli. Senza questa mossa preliminare non si riesce a combinare assolutamente niente. Però l’insegnante deve essere anche consapevole di un’altra cosa, cioè che nel momento in cui insegna è come se fosse su un palco, è come se fosse in scena. Nel Medioevo c’era una consapevolezza molto acuta del fatto che chi trasmette sapere assomiglia a un giullare. Molti predicatori, soprattutto appartenenti agli ordini mendicanti ma non solo, erano usi catturare l’attenzione e la simpatia dei fedeli con facezie e aneddoti brillanti, a volte superando la misura. Dante riprova con severità le degenerazioni istrionesche delle omelie, imputandole a colpevole vanità: «Ora si va con motti e con iscede/ a predicare, e pur che ben si rida,/ gonfia il cappuccio e più non si richiede» (Par. XXIX, vv. 115-117)1. Anche gli insegnanti, naturalmente, possono correre il rischio di eccedere in questo senso. Ma molto più comune 1 Su questo tema cfr. Carlo Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, Olschki, Firenze 2009.

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v. silenzi in aula

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mi sembra l’eccesso opposto, cioè il deficit di autocoscienza scenica, che si traduce nell’incapacità di stabilire un contatto con l’uditorio. L’insegnante è anche qualcuno che recita un ruolo, che interpreta una parte: diciamo pure, che si mette una maschera. Non tutte le maschere servono a dissimulare o a nascondere: ci sono anche delle maschere che servono a comunicare, a mettere in moto dei meccanismi, delle interazioni dinamiche tra le persone. O, più esattamente: a seconda dell’onestà delle intenzioni e dall’appropriatezza delle circostanze, le maschere occultano o svelano, offrono adesione o traggono in inganno. Quando si insegna non si insegna soltanto con le parole: si comunica a tutti i livelli. Questo è vero molto più nella scuola che non all’università, ma anche all’università non si insegna soltanto con quello che si dice. Anche il modo in cui ci si ferma in corridoio quando si è interpellati da uno studente per una curiosità estemporanea contiene un messaggio, lo si voglia o no. So che la maggior parte del mio lavoro di insegnante consiste nel produrre parole, ma non è mai soltanto con le parole che comunico. Lo sanno molto bene i miei colleghi pedagogisti (io insegno in una Facoltà di Scienze della Formazione): nel momento in cui si rivolge agli studenti l’insegnante comunica con la mimica, con i gesti, con la postura del corpo – c’è tutta una letteratura sulla dimensione corporea dell’insegnamento. Io vorrei oggi sottolineare un altro aspetto, cioè il silenzio. Questa è un’esperienza che ho avuto quando ho cominciato a insegnare, nella scuola superiore. Salito per la prima volta in cattedra mi sono reso conto molto rapidamente che ero abbastanza ben preparato per dire quello che mi competeva di dire, ma non avevo la benché minima idea del contesto in cui mi muovevo. Ho dovuto impararlo sulla pelle degli studenti che ho avuto; mi auguro di non aver fatto troppo danno nel frattempo. Chi appartiene alla mia generazione si è dovuto costruire da solo, empiricamente, questo tipo di competenza. Dicevo dunque che insegnare vuol dire usare la parola, però non c’è solo la parola, c’è il silenzio. È come la poesia: la poesia è fatta di parole, in apparenza, ma in realtà è fatta dai

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rapporti tra le parole e le pause: il «verso» è questo, non una sequenza lineare e ininterrotta di parole, ma una cadenza, un ritmo che prevede che a un certo punto si torni indietro (versus). La poesia, infine, è fatta di ritmo. Ma qualcosa del genere è vero anche per una lezione in classe. Credo che oggi ci sia una grande paura del silenzio. Un indizio interessante sono i libri di testo. Ovviamente i testi che ho più presente sono le antologie letterarie, che sono veramente un monumento alla paura di insegnare. Oltre al testo che si dovrebbe leggere c’è una presenza debordante di altre cose: apparati, cappelli introduttivi, note, prefazioni, profili, esercizi, letture critiche, tanto che il testo quasi non si trova più. Le antologie, e anche le edizione commentate, sono a volte degli oggetti assolutamente mostruosi, patologici: il sintomo (editoriale e culturale) della paura del silenzio che assilla gli insegnanti. Una delle più interessanti esperienze che ho avuto come insegnante è stata la percezione della differenza tra il silenzio attivo e il silenzio inerte. Ci sono dei momenti in cui, ad esempio, uno si rende conto che una certa cosa, invece che dirla, è meglio cercare di farla dire agli studenti. I quali non la diranno mai bene come è scritto nella nota a piè di pagina o nella scheda critica dell’antologia, ma non è questo il punto; l’importante è che siano loro a dirla, anziché l’insegnante o il libro. Allora, invece di parlare, si interpella la classe, si fa la domanda e si aspetta. Segue un momento di silenzio. Non è detto che la risposta arrivi; anzi, può darsi che l’operazione fallisca, cioè che non venga fuori una reazione non dico adeguata, ma una reazione quale che sia. A volte invece gli studenti rispondono; e a volte rispondono anche in maniera diversa da come ci si aspettava, introducendo nuovi elementi o diversi punti di vista. Questi ovviamente sono momenti bellissimi per uno che insegna. Silenzio attivo e silenzio inerte: il silenzio può essere teso, pregnante, può essere il silenzio dell’attesa, che è un generatore di energia, oppure può essere il silenzio della domanda che cade nel vuoto, che non risveglia alcun interesse. Insegnare, secondo me, vuol dire anche correre il rischio di fallire. Le antologie della letteratura italia-

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v. silenzi in aula

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na in cui i testi che bisognerebbe leggere sono letteralmente ingessati dagli apparati critici sono un’assicurazione a vita contro il vuoto di parole. Ma la barriera anti-silenzio, nata dalla paura dell’insuccesso, preclude a priori anche la possibilità del successo – del vero successo educativo. Ora mi sposto dalla scuola all’università, e al legame fra didattica e ricerca. Quando comincia la ricerca? Vorrei citare il finale della lezione inaugurale che Roland Barthes tenne al Collège de France nel 1977. Qui si parla anche di età. Dice Barthes: «C’è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ne viene in seguito un’altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si chiama ricercare. Viene forse – e qui parlava evidentemente di se stesso – l’età di un’altra esperienza, quella di disimparare, di lasciare lavorare il rimaneggiamento imprevedibile che l’oblio impone alla sedimentazione dei saperi, delle culture, delle credenze che si sono attraversate». Nell’ultima frase del testo c’è una parola su cui è bene soffermarsi brevemente. «Sapientia: aucun pouvoir, un peu de savoir, un peu de sagesse, et le plus de saveur possible»2. Cioè: «Sapienza: nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza, e tutto il sapore possibile». Il nesso etimologico tra sapere e sapore non è andato del tutto perduto nella lingua parlata: basti pensare all’espressione «sa di…», ad esempio «sa di fragola, sa di ginepro» nel senso di «ha il sentore di fragola, di ginepro». E c’è anche un racconto di Calvino che si intitola così, Sapore-sapere (è il racconto più noto con il titolo di Sotto il sole giaguaro). Ma insomma, la cosa fondamentale è che il sapere, per avere valore, non dev’essere insipido3. 2 Cfr. Roland Barthes, Leçon [1978], Éditions du Seuil, Paris 2002, p. 46. La versione italiana (Einaudi, Torino 1981, trad. di Renzo Guidieri) è ora pubblicata insieme a Sade, Fourier, Loyola (ivi, 2002). 3 Naturalmente il nesso fra la sapienza, che dà senso alle cose, e il sale, che dà sapore alle vivande, è di origine antica: a Plinio il Vecchio risale l’espressione (divenuta proverbiale) cum grano salis, e la formula Accipe sal sapientiae è nel rito del battesimo. Tuttavia l’equazione sapore/ sapere è particolarmente frequente nella cultura barocca. Secondo il Vico, i primi uomini «dissero “sapere” il gustare, e “sapere”, propiamente, è delle cose che dan sapore, perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con bella metafora fu detta “sapienza”» (Principi di scienza nuova, II, VII, in Opere, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano 1990, t. I, p. 770).

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A me sembra interessante questa successione temporale di cui parla Barthes nell’iter professionale di chi fa il mestiere di insegnante. C’è una fase in cui si insegna ciò che si sa; c’è una fase in cui si insegna ciò che non si sa; c’è una fase in cui si comincia a disimparare, nel senso che il sapere si spersonalizza. Se la ricerca scientifica attraversa una fase iniziale di forte personalizzazione (il contributo che il ricercatore dà al progresso del sapere), c’è anche una fase successiva in cui il sapere, diffondendosi e consolidandosi, tende a diluire o a dissolvere questo stigma individuale. È chiaro che qui la mia prospettiva umanistica è diversa da quella scientifica: il sapere diventa sedimento, humus. Ci sono delle acquisizioni che perdono il valore nominale e ciò che è stato scoperto diventa patrimonio comune, non nel senso di un’indifferenziata spalmatura, ma – come dice bene Barthes – diventa il rimaneggiamento del dato, che è legato alla sedimentazione del sapere, delle culture, delle credenze. Ed è chiaro che in questo caso protagonisti diventano gli esponenti della generazione successiva. A questo punto insegnare vuol dire più che altro imparare; in questa fase del «disapprendimento» insegnare vuol dire imparare dai giovani molto più che trasmettere loro conoscenze. Il progresso del sapere funziona così. Non intendo progresso nel senso di «ascesa»; questo forse si può dire in campo scientifico, ma in campo umanistico no. Non esiste un progresso nella conoscenza della letteratura, quello che avviene è una trasformazione, non un andare «avanti». Il sapere in questo ambito assomiglia a un albero che vive e cresce, e cresce finché ha vita, altrimenti secca. Ebbene, non si dà progresso del sapere senza questa capacità di passare il testimone. Qui non intendo «testimone» nel senso della persona che testimonia, ma nel senso dell’oggetto che si passa nella staffetta, un passaggio di testimone, un pegno che passa da una mano all’altra. Perché arriverà bene il momento in cui qualcuno degli studenti di oggi parlerà da una cattedra; e magari dirà «quand’ero giovane io, l’ultimo grido della tecnologia delle comunicazioni erano Facebook e Twitter». E gli ascoltatori, i giovani di allora, sorrideranno di compatimento. Come è giusto.

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vi. La scuola nell’immaginario letterario

Nel corso di una serie di conferenze, divenute poi uno dei principali testi di riferimento degli studi sulla narrativa, E.M. Forster introduce l’analisi del personaggio romanzesco proponendo un confronto tra homo sapiens e homo fictus1. Da un lato la gente reale, gli esseri umani in carne ed ossa, dall’altro la gente che si trova nei libri, personaggi dei romanzi: uomini sempre, e perciò sostanzialmente affini ai primi, eppure contraddistinti da alcune peculiari caratteristiche. Rispetto a homo sapiens, homo fictus appare molto meno preoccupato di soddisfare alcuni fondamentali bisogni fisiologici, come mangiare e dormire, o di svolgere attività necessarie alla sussistenza materiale, come lavorare. In compenso dedica molto tempo e molte energie alla coltivazione dei rapporti personali: l’amore, naturalmente, ma non solo; il suo campo d’azione privilegiato è la vita di relazione, ivi includendo le infinite ripercussioni sulla sua intimità psicologica. Ebbene, noi potremmo partire da questa domanda: quale ruolo ha l’istruzione nella vita di homo fictus? Studia? Va a scuola? Quali rapporti intrattiene con gli insegnanti? e con i compagni, se ci sono? La letteratura degli ultimi due secoli e mezzo – l’ambito comunemente definito come modernità letteraria – offre un repertorio piuttosto vasto di personaggi e ambienti legati alla scuola: maestri, istitutori, collegi, istituti. Certo, anche i secoli precedenti avevano dato il loro contributo. Ben attestata fin 1 E.M. Forster, Aspetti del romanzo, trad. it. di Corrado Pavolini, Il Saggiatore, Milano 1963 (quindi Garzanti, Milano 2000); ed. orig. Aspects of the novel, Arnold, London 1927. Al personaggio sono dedicati i capitoli III e IV.

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dall’antichità è la figura del pedagogo: ad esempio Davo, il pedagogo di Cleostrato nell’Aspis di Menandro, o Lido, il pedagogo di Pistoclero nelle Bacchidi di Plauto. Il dato più interessante, naturalmente, è che si tratta di figure comiche: donde una tradizione che avrà duratura fortuna, arrivando a Voltaire (il Pangloss di Candide) e a Calvino (l’abate Fauchelafleur del Barone rampante). Del resto, come insegna Auerbach, nelle età premoderne l’infanzia e l’adolescenza sono ammesse alla rappresentazione letteraria solo in chiave comica. Il serio-tragico è appannaggio esclusivo del mondo adulto, nonché dei personaggi di elevata condizione2: mentre a Roma (come già ad Atene) il paedagogus è un servo, anche se più qualificato di altri. Abbastanza scontato dunque che in un intreccio da commedia non gli possa toccare se non un ruolo secondario, di sostegno, e che il testo pigi sul pedale del ridicolo. Le cose cambiano profondamente con l’avvento del romanzo. I protagonisti sono quasi sempre giovani, talvolta giovanissimi; l’età evolutiva e i processi di formazione acquistano un’importanza senza precedenti; l’istruzione scolastica diventa per la prima volta un tema letterario di rilievo. Di norma, diciamolo subito, i romanzi dànno della scuola un’immagine negativa. La cosa non può stupire, se si pensa che il romanzo, in quanto forma simbolica della modernità, inscena un fondamentale conflitto: da un lato un eroe giovane, portatore di ideali, speranze, illusioni, dall’altro un mondo reale, duro e prosaico, che frustra le attese, impone compromessi, induce al cinismo e alla rassegnazione. Il gran tema dello scontro fra l’eroe e la società si articola così in una serie di antitesi: autonomia individuale/ norma sociale, interiorità psicologica/ oggettivazione, indole naturale/ ruoli e comportamenti. Il protagonista del romanzo, e in particolare di quel cruciale genere che è il Bildungsroman, è un individuo alla ricerca della propria identità; spesso è un trovatello, un orfano (si pensi, tanto per fare un 2 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhäuser, Einaudi, Torino 1956 (ed. orig. Mimesis. Die dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Francke, Bern 1946).

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vii. la scuola nell’immaginario letterario

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esempio, a Grandi speranze di Charles Dickens), o tutt’al più un provinciale inurbato, privo di riferimenti stabili (Le illusioni perdute di Balzac); le figure paterne, quando ci sono, appaiono di norma evanescenti, inadeguate, screditate. Lo stesso vale, in linea di massima, per gli insegnanti; l’eroe romanzesco è tendenzialmente un autodidatta. Di qui l’immagine poco positiva della scuola, deputata a realizzare l’integrazione del ragazzo nell’ordine sociale, indipendentemente non solo dai suoi desideri soggettivi di auto-affermazione, ma anche dalla legittimazione intrinseca di quell’ordine («a scuola bisogna sapere la lezione: non essere convinti della sua verità»3). Di pari passo con il romanzo va l’autobiografia. È stato detto che l’autobiografia moderna ruota a ben vedere intorno a un unico, ossessivo tema: il rapporto dell’individuo con l’autorità, ovvero «il problema di un mondo privo di autorità» (D’Intino)4. Nessuna sorpresa che l’autorità scolastica appaia particolarmente destituita di prestigio: di norma, la scuola costituisce una delle componenti più conservative del sistema sociale con cui l’eroe autobiografico si scontra. Quanto mai eloquenti, da questo punto di vista, sono le pagine che l’Alfieri dedica ai suoi studi «pedanteschi e mal fatti» presso l’Accademia di Torino, la scuola (anzi, la «scoluccia») dove tirava innanzi, «asino, fra gli asini, e sotto un asino». Memorabile su tutti l’episodio delle «papaveriche» lezioni di filosofia, con la platea degli allievi intenti a ronfare davanti a un professore poco più sveglio di loro: nella prima mezz’ora si scriveva il corso a dettatura del professore; e nei tre quarti d’ora rimanenti, dove si procedeva poi alla spiegazione fatta in latino, Dio sa quale, dal catedratico, noi tutti scolari, inviluppati interamente nei rispettivi mantelloni, saporitissimamente dormivamo; né altro suono si sentiva tra quei filosofi, se non la voce dei professore languente, che dormicchiava egli pure, ed i diversi tuoni dei russatori, chi alto, chi basso, e chi medio; il che faceva un bellissimo concerto (Vita, II, IV)5 3

Franco Moretti, Il romanzo di formazione [1986], Einaudi, Torino 19992, p. 5. Franco D’Intino, L’autobiografia moderna. Storia, forme, problemi, Bulzoni, Roma 1989, p. 52. 5 Vittorio Alfieri, Opere, a cura di Francesco Maggini, Rizzoli, Milano 1940, vol. II, pp. 43-44. 4

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Del resto la satira L’educazione (1795) dello stesso Alfieri ci ricorda che in una casa nobiliare il precettore appartiene tuttora al rango dei servitori, e (particolare non trascurabile) non dei meglio pagati. Poco vale all’aspirante maestro, cui il Conte ha chiesto di occuparsi dei sei figli (il Contino, i due Abatini, i tre Cavalierini) protestare che il cocchiere guadagna il doppio di lui:

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– Ma, Signor, le par egli? a me, tre scudi? Al cocchier ne dà sei. – Che impertinenza! Mancan forse i maestri, anco a du’ scudi? Ch’è ella in somma poi vostra scïenza? Chi siete in somma voi, che al mi’ cocchiere Veniate a contrastar la precedenza? (vv. 22-27)6

Se la mediocrità della retribuzione dell’insegnante (precettore, professore, pedagogo, maestro) è un motivo che ricorre nella letteratura di ogni tempo, l’inadeguatezza degli insegnanti rispetto al loro compito formativo è un autentico tópos della tradizione autobiografica. Del resto, il processo della maturazione implica un’opposizione (più o meno veemente ed esplicita) all’assetto sociale e al sistema vigente di valori, e la scuola, insieme alla Chiesa, è la prima istituzione in cui il protagonista s’imbatte. Sintomatica l’osservazione di uno scrittore contemporaneo, Luigi Meneghello. In Fiori italiani (1976), autobiografia in terza persona di un’educazione sotto il fascismo, la scarsa ostilità del protagonista S. verso maestri e professori viene presentata alla stregua di un’anomalia di sviluppo: «si può dire che a S. venne a mancare quasi del tutto l’esperienza dell’odio per gli insegnanti, senza della quale forse uno non può essere un uomo completo»7. Fiori italiani è anche una galleria di figure di insegnanti, ciascuno attentamente caratterizzato: dalla maestra di paese, Prospera Moretti (che compare anche nel più famoso libro di Meneghello, Libera nos a malo) ai docenti dell’Università di 6

Ivi, vol. I, p. 765. Luigi Meneghello, Opere, a cura di Francesca Caputo, Rizzoli, Milano 1977, vol. II, p. 266. 7

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vii. la scuola nell’immaginario letterario

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Padova, fra i quali si annovera anche Concetto Marchesi. Ecco, a titolo di campione, il ritratto di Giulio Fasolo, professore di lettere dei primi anni del ginnasio: Qual era veramente il ruolo dell’uomo che fu professore di S. per tre anni al ginnasietto? Baby-sitter intellettuale? Zia putativa con la barba (a due cuspidi, castana)? Forse l’immagine più soddisfacente è quella del pastore. Li pasturava, e loro facevano bèee bèee in italiano e in latino. Alec, alopex… «E queste» disse «sono parole che poi nella vita non troverete mai più». […] Insegnava senza solennità, senza formalità e senza retorica. Non aveva l’aria di far lezione, teneva lì i ragazzi a brucare i latinetti, a leggere pezzi di testo, a recitare poesie o parafrasarle per iscritto. Correggeva i compiti di latino come uno che cerca di abituarti alle buone maniere: senza alcuna tentazione di contraddire le usanze correnti, ma anche senza alcun entusiasmo didattico. Pareva piuttosto inteso a smorzare che ad accendere. Di questo S. gli restò grato per sempre8.

Ma tornando brevemente alla narrativa ottocentesca, l’immagine di scuola che prevale è quella del collegio. Un mondo chiuso, dunque, un’istituzione totale, simile a un carcere: un luogo dove si impara più d’ogni altra cosa ad essere sorvegliati e puniti. Si pensi ad esempio al collegio dove viene rinchiuso David Copperfield. Gli insegnanti si dividono in deboli e despoti: da un lato figure scialbe, ottuse, totalmente destituite di autorità, dall’altro tiranni che esercitano un autoritarismo brutale, al limite del sadismo. Prototipo di questi ultimi è il direttore di Salem House, Mr Creakle. Ecco come entra in scena: Il corso delle lezioni cominciò regolarmente il giorno dopo. Ricordo che mi fece una grande impressione sentire il lieto vocio della scuola trasformarsi improvvisamente in un silenzio mortale alla comparsa, dopo la colazione, del signor Creakle, che sostò sull’ingresso guardando in giro su noi, come un gigante dei racconti delle fate che passasse in rassegna i suoi prigionieri. Tungay era a fianco del signor Creakle. Non c’era ragione, pensai, di gridare «Silenzio!» in tono così feroce, perché i ragazzi erano tutti muti, immobili e impietriti. Il signor Creakle fu visto parlare e Tungay udito in questi termini: 8 Ivi, p. 264. Francesca Caputo ha allestito di recente un’agile quanto utile antologia di pagine meneghelliane dedicate al tema dell’educazione: Maestri, Rizzoli BUR, Milano 2009.

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– Questo è un nuovo semestre, ragazzi. Badate a ciò che v’accingete a fare, in questo nuovo semestre. Vi avverto di venir ben preparati alle lezioni, perché io vengo preparato al castigo. Io non soglio esitare mai. E inutilmente vi sfregherete: non cancellerete mai i segni che vi lascerò addosso. Ora cominciate tutti il vostro lavoro! Finito questo terribile esordio e scomparso balzelloni Tungay, il signor Creakle s’avvicinò al mio posto, dicendomi che se io ero famoso per i morsi, anche lui era famoso per i morsi. Allora mi mostrò la bacchetta, e mi chiese che ne pensassi, come dente. Era aguzzo quel dente, eh? Valeva un paio di denti, eh? Aveva una bella dentatura, eh? Mordeva, eh? Non mordeva, eh? Ad ogni domanda, me ne assestava, con grande energia, un colpo che mi faceva contorcere; così che subito fui investito della cittadinanza di Salem House (come disse Steerforth), e subito pure fui in lagrime9.

David Copperfield esce giusto alla metà del secolo XIX (1849-1850). Dell’inizio del XX è il romanzo breve di Musil Die Verwirrungen des Zöglings Törless (1906), noto in Italia con il titolo I turbamenti del giovane Törless, anche se la traduzione più appropriata sarebbe Gli smarrimenti dell’allievo Törless (si vedano le versioni inglese e francese, rispettivamente The Confusions of Young Törless e Les désarrois de l’élève Törless). Törless, per inciso, significa «senza porta»: cognome appropriato per un eroe introverso e alla ricerca della propria identità, che non viene mai chiamato con il nome di battesimo. L’ambiente è un collegio militare rigido ed esclusivo. Sullo sfondo di una rappresentazione molto critica del sistema educativo in auge nell’impero asburgico si svolgono le inquietanti esperienze del protagonista: al centro della trama, le sevizie e gli abusi perpetrati sul debole Basini da due efferati persecutori, Reiting e Breitenberg. Siamo quindi più che mai immersi in un clima concentrazionario, come nel romanzo di Dickens: qui però in primo piano sono i rapporti fra i compagni anziché i rapporti tra gli allievi e gli insegnanti, in una luce peraltro non meno sinistra. 9 Charles Dickens, David Copperfield, trad. di Silvio Spaventa Filippi, Sonzogno, Milano 1933, p. 89. Fra le numerose traduzioni del romanzo dickensiano ce n’è anche una firmata da Cesare Pavese (e più volte ristampata da Einaudi).

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vii. la scuola nell’immaginario letterario

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Se invece vogliamo un esempio di immagine comica di collegio conviene rientrare in Italia e spostarsi di un anno: nel 1907 comincia infatti la pubblicazione su rivista del Giornalino di Gian Burrasca, firmato da Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli). Le varie figure di insegnanti che s’incontrano nella storia sono tutte ridicole, sia nella scuola ordinaria sia nel Collegio Pierpaolo Pierpaoli, dove il protagonista Giannino Stoppani viene a un certo punto relegato per le sue ardite marachelle. In un libro per ragazzi tutto imperniato sull’opposizione tra mondo infantile e mondo degli adulti, a quella categoria particolarmente squalificata di adulti che sono gli insegnanti toccano beffe, dileggi, e all’occorrenza anche una buona dose di legnate: dalla strofetta derisoria che Giannino scrive con l’inchiostro rosso sul collettone inamidato del compagno davanti («Tutti fermi! Tutti zitti! che se vi vede Muscolo siete tutti fritti!») alla bastonatura degli indegni dirigenti del collegio, la signora Geltrude e il signor Stanislao, durante la scena della seduta spiritica. Al direttore del Collegio-Convitto principe di Gorgonzola, che incontriamo in Panche di scuola, seconda parte dell’Altrieri di Carlo Dossi (1868), non tocca una sorte così grama. Nemmeno si può dire tuttavia che il suo ritratto sia particolarmente lusinghiero, a cominciare dalla testa calva, «fregata quasi con chiara d’uova». Il prof. cav. Giosuè Proverbio, «rotondo come una mortadella», appare sulla soglia dell’edificio, florido e soddisfatto, con «le gambe aperte, le mani in saccoccia, scuotendo e riscuotendo soldoni», simile a un albergatore di campagna: «non gli mancàvano che il berretto, il bianco grembiale e, in giro, nell’aria, un profumo d’arrosto»10. Nessuna sorpresa che come educatore non valga gran che: è lui stesso a darcene contezza, nel sermoncino di benvenuto al nuovo giovane illustre ospite. Certo, lo si capisce a occhio, voi siete un buon bimbo… Le scappatelle non mèttono conto. Dunque, lasciate fare al tempo e a noi… Noi, dal 10

Carlo Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, Garzanti, Milano 1996, p. 46.

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signor contino Guido Etelredi caveremo fuori qualchecosa di… di bello; ne caveremo un, un… – e, con quel bocchino che mòstrano i bachi da seta guardàndosi attorno, cercò il che cosa per l’aria. Pur non trovando: – Che porta! – riattaccò con un’alzata di spalle. – Voi, Etelredi, avete anche il diritto di non far nulla… Siete ricco, voi – e sospirò. – Lo potess’io! –11

Ma naturalmente in Italia il rapporto fra letteratura e scuola conosce la sua espressione più significativa nell’opera di Edmondo De Amicis. Dal nostro punto di vista, il dato più rilevante di Cuore (1886) è il suo intento di rappresentare un’immagine articolata e complessiva della società. Non un universo separato, retto da leggi e consuetudini proprie, ma uno specchio fedele della realtà nazionale all’indomani dell’unificazione. Dall’immagine della classe di Enrico Bottini emerge una grande varietà di condizioni sociali, di provenienze geografiche, di situazioni familiari, di disposizioni psicologiche, di qualità morali, anche di condizioni fisiche (rilievo notevole ha il tema della disabilità). Un vero microcosmo, che tuttavia non appare mai separato dalla realtà esterna: numerose scene sono ambientate fuori dalle mura scolastiche, sia in esterni (la strada, dove si gioca a palle di neve e dove transitano le rassegne militari) sia in interni diversi (le abitazioni dei compagni, il teatro dove avviene la consegna dei premi). Ad esse vanno naturalmente aggiunti i famosi racconti mensili, deputati a celebrare in chiave eroica i medesimi valori che ispirano il «progetto formativo» di un istituto elementare del Regno nell’anno di grazia 1881-82: l’amor di patria, il rispetto per i genitori e per l’autorità, il senso del dovere, la capacità di sopportazione, lo spirito di sacrificio, la difesa dei deboli, la generosità, l’onestà, la fratellanza. Va da sé che all’interno della scuola la virtù viene puntualmente premiata, e le deviazioni altrettanto puntualmente punite: da un lato diligenza, serietà, laboriosità, solidarietà, impegno assiduo, dall’altro pigrizia, insensibilità, egoismo, fino all’estremo di perversione rappresentato dall’«infame» Franti. Centralissima è la figura del maestro Perboni, guida autorevo11

Ivi, p. 50.

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vii. la scuola nell’immaginario letterario

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le, capace di coniugare fermezza e comprensione, sollecitudine e severità: il miglior maestro insomma che un cucciolo di homo fictus si possa augurare. Tra le figure di contorno andrà poi sottolineato il ruolo del vecchio maestro del padre di Enrico, protagonista di un episodio che suggerisce l’esistenza di una vera e propria catena educativa, idealmente chiamata a trasmettere di generazione in generazione gli istituti della civiltà borghese. Non è facile sottovalutare l’importanza del libro di De Amicis: l’intento di contribuire alla costruzione dei cittadini della nuova Italia attraverso la proposta di un chiaro paradigma etico e educativo – tra l’altro, su un orizzonte culturale rigorosamente laico – è perseguito con assoluta lucidità. Ma proprio le figure degli insegnanti (a cui naturalmente bisognerebbe aggiungere la maestrina dalla penna rossa) ci richiamano alla memoria un dato di non minore rilievo. Oltre a Cuore, De Amicis ha dedicato altri libri al mondo della scuola: Il romanzo di un maestro (1890), Amore e ginnastica (1892), La maestrina degli operai (1895). Ciascuna di queste opere meriterebbe un discorso a sé; in particolare, Il romanzo di un maestro si direbbe l’esatto opposto di Cuore. All’ideale educativo messo in scena nel romanzo per ragazzi subentra un disilluso realismo. La scuola appare un’istituzione in crisi, inadeguata ai compiti che le sono assegnati, carente per organizzazione e per strutture; e il personaggio del maestro, Emilio Ratti (il confronto tra i cognomi è istruttivo), lungi dall’imporsi come depositario ed interprete dei valori fondativi della società, appare privo di qual si voglia «aura». E nessun risarcimento morale compensa la mediocrità delle sue condizioni economiche. In realtà quest’opera si riallaccia ad un altro filone romanzesco, recente ai tempi di De Amicis ma assai vitale e suscettibile di grandi sviluppi nel secolo successivo, ossia il «romanzo dell’impiegato». Da una fortunata pièce teatrale di Vittorio Bersezio è stato tratto addirittura un neologismo, travet: voce piemontese, in origine cognome di un personaggio (Le miserie d’Monsù Travet, 1863), passata per antonomasia a designare il modesto burocrate frustrato, esponente di un ceto piccolo-

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borghese appena superiore alla classe dei proletari. Schematizzando alquanto, il romanzo dell’impiegato si svilupperà nel Novecento lungo due direttrici: una metafisico-esistenziale e una comico-satirica. Se la prima toccherà vertici assoluti (Svevo, Tozzi, Kafka) all’interno della seconda troverà posto una delle esperienze più significative della comicità letteraria italiana contemporanea, che per di più riguarda direttamente il nostro argomento, cioè la serie di romanzi «scolastici» di Domenico Starnone (Ex cattedra, 1985; Il salto con le aste, 1989; Fuori registro, 1991; Sottobanco, 1992), ironica e vivace raffigurazione della scuola post-sessantottesca, in preda a una sorta di inerte frenesia o di alacre immobilismo, e insieme gustoso campionario di figure e figurette di professori, chi più chi meno tutti risibili, anche (anzi, soprattutto) i meglio intenzionati, i più aperti e democratici. Ma, come ammonisce Starnone, «nelle storie di scuola che ci fanno ridere o sorridere c’è sempre un fondo buio che ci deve allarmare»12. In questa rapida carrellata ci siamo nel frattempo resi conto che la scuola può essere rappresentata essenzialmente da due punti di vista: quello dell’allievo e quello degli insegnanti. Non si tratta di una distinzione di poco conto. Per chi la frequenta il tempo della scuola è progressivo, lineare, e misura il segmento più o meno lungo di un percorso che coincide con la formazione dell’individuo. Per chi ci lavora, invece, il tempo della scuola è ciclico, ripetitivo, quando non immobile o stagnante. Detto molto all’ingrosso, nell’Ottocento prevale il punto di vista del giovane in formazione, cioè dell’allievo (c’è qui, come dicevamo, tutta la tradizione del Bildungsroman), mentre nel Novecento il ruolo principale della storia è spesso interpretato dall’insegnante. E in quest’ultimo caso affiora l’insidia del ripiegamento, della chiusura autoreferenziale: il rischio che l’immagine letteraria della scuola sia affidata a opere che parlano di scuola rivolgendosi di preferenza (se non esclusivamente) a chi 12 I libri «scolastici» di Starnone sono ora raccolti in un unico volume: Ex cattedra e altre storie di scuola, Feltrinelli, Milano 2006.

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vii. la scuola nell’immaginario letterario

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nella scuola lavora: insomma, romanzi di insegnanti destinati ad insegnanti. Su questa strada non si può andare molto lontano; gli esempi non mancano. I casi più interessanti di rappresentazione letteraria contemporanea della scuola, a mio avviso, sono invece quelli in cui la scuola, anziché esser posta come spazio separato, come realtà a sé stante, viene permeata o addirittura invasa dalla realtà esterna, in maniera tale che non ci si possa dimenticare nemmeno per un istante del mondo di fuori. Due esempi che ormai appartengono al canone della narrativa novecentesca sono Le parrocchie di Regalpetra (1956), libro d’esordio di Leonardo Sciascia, e Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (1964). Il primo è qualcosa a metà fra la cronaca, il romanzo e il saggio: attraverso la lente dell’esperienza d’un maestro di paese prende forma una vivida immagine della Sicilia alla metà degli anni Trenta. Il secondo è la storia di un maestro elementare che, istigato dalla moglie, abbandona l’insegnamento per aprire una piccola fabbrica di scarpe (è l’epoca del boom economico, Vigevano pullula di calzaturifici); ma i rapidi guadagni non gli risparmieranno frustrazioni nuove e sorprese amarissime, tanto che alla fine riprenderà il suo antico ruolo nelle aule scolastiche. Dovendo azzardare una generalizzazione, direi che oggi come oggi il terreno letterariamente più fecondo è costituito dalle realtà di frontiera. Un buon esempio è Maggio selvaggio di Edoardo Albinati (1999), che narra l’esperienza di un insegnante nella scuola del carcere di Rebibbia. Rispetto alla scuola che ci è più familiare, qui la situazione è decisamente anomala: i rapporti di età e di esperienza sono scompaginati, gli allievi sono spesso più anziani del maestro, i ruoli di docente e di discente possono risultare reversibili. Interessante, come nel caso (pur diversissimo) di Cuore, o degli stessi libri di Starnone, l’adozione di una forma diaristica, evidentemente congeniale all’universo scolastico. La scuola, infatti, è prima di ogni altra cosa un luogo dove si vive, o meglio si convive, giorno per giorno: sì che il vero, grande tema dei romanzi di scuo-

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la, a ben vedere, altro non è se non la possibilità di conciliare la dimensione della quotidianità con la tensione verso un obiettivo. Una scommessa, infine, sul senso del tempo: nel quale le differenti prospettive degli insegnanti e degli allievi possono bensì incontrarsi, intrecciarsi, confrontarsi, convergere – mai sovrapporsi, però, né confondersi.

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vii. Verticale del 1821 Appunti letterari su lingua e dialetto

L’ateneo dove insegno, l’Università Bicocca di Milano, sorge in un luogo che ha avuto una funzione non trascurabile nella storia linguistica del nostro Paese. L’area dove è situato fa parte della zona dove un tempo sorgevano gli stabilimenti della Pirelli, della Breda, della Marelli, della Falck, gli insediamenti della grande industria milanese: e dove per svariati decenni migliaia e migliaia di lavoratori sono quotidianamente confluiti per recarsi in fabbrica. Qui migliaia e migliaia di nativi dialettofoni hanno cominciato a parlare la lingua nazionale. Non solo perché spesso dovevano comunicare con compagni di lavoro che parlavano un dialetto diverso, ma perché dovevano discutere di argomenti tecnici o sindacali per i quali l’italiano si offriva naturalmente come lo strumento più appropriato. Insomma, anche se d’acchito non sembra, questo è un luogo davvero adatto per affrontare il tema della nostra giornata di studi. Secondariamente vorrei proporre un salto all’indietro un po’ più lungo, un paio di secoli circa, per mettere a fuoco un altro momento significativo del lungo confronto storico tra italiano e dialetto. Qui, e ora intendo qui a Milano – anche se i limiti della città correvano svariati chilometri più a sud: la Bicocca è ancora al di qua dell’abitato di Greco, dove solo per congettura Renzo indovina di essere abbastanza vicino a Milano – qui, dicevo, centottantanove anni or sono, nei primi mesi del 1821, sono avvenuti alcuni fatti che mi pare abbiano una notevole valenza simbolica. All’inizio dell’anno, il 5 gennaio, muore Carlo Porta, il massimo esponente – per unanime consenso critico – della

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poesia meneghina. Due mesi dopo, all’inizio di marzo, l’amico Tommaso Grossi gli dedica una poesia, naturalmente in milanese, dal titolo In morte di Carlo Porta. È un componimento di una certa estensione: sedici sestine, per un totale di 96 versi. A mio avviso, una delle più convincenti prove che mai il milanese abbia dato come lingua poetica. In generale l’opera del Grossi si colloca nel filone patetico del romanticismo, e questa poesia non fa eccezione, se non per una singolare intensità e autenticità di accenti. La scomparsa dell’amico suscita un dolore sbigottito e incredulo, che turba l’animo e confonde la vista: L’è mort? l’hoo propi de vedè mai pù?… Gh’è di moment che me par minga vera; Passand de cà Taverna guardi sù Sul poggioeu de la stanza in dove l’era, E in del trovà quij gelosij sarà Me senti a streng el coeur, a mancà el fiaa. No poss minga vedè on tabarr niscioeura A voltà in vuna di do port del Mont, O che comenza appena a spontà foeura Di strad che gh’è lì intorna intra i duu Pont, Senza sentimm a corr giò per i oss On sgrisor che me gela el sangu adoss. L’è mort? l’è propi mort? Cossa voeur dì Sta gran parola che fa tant spavent? «Ch’el gh’è pù». Pù nè chì, nè via de chì? El gh’è pù el Porta, propi pù nient? Nient!… me gira el coo… capissi nò, Donch come l’è che ghe voeuj ben ancamò?1

(vv. 61-78)

E tuttavia l’afflizione è arginata da una certa qual riservatezza, di pudore emotivo: una riluttanza a dare piena voce all’effusione dei sentimenti, che mi pare corrisponda a un tratto molto tipico di una certa milanesità. Ad esempio nell’ultimo 1 Tommaso Grossi, Poesie milanesi, nuova ed. accresciuta a cura di Aurelio Sargenti, Interlinea, Novara 2008, pp. 238-239.

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vii. verticale del 1821

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verso citato, dove l’elemento affettivo si fa particolarmente esplicito (voeuj ben), si può notare che la metrica impone una sinalefe in ottava sede, tra la vocale nasalizzata di ben e la prima sillaba di ancamò: sì che l’indicazione temporale sfuma e dissimula il moto dell’animo, senza però attenuarne l’intensità. Molto significativo è poi il finale. Dopo essersi interrogato sulla dottrina cristiana della vita eterna, il poeta prende congedo dal caro defunto. È, o dovrebbe essere, il momento più grave e doloroso; senonché la solennità del distacco viene smorzata dal ricorso a una formula quanto mai prosaica e colloquiale: «Basta, Carlo, un quaj dì se vedaremm»2. La spiccia locuzione familiare taglia corto e impedisce alla commozione di prendere il sopravvento; ma al lettore non sfugge che l’arrivederci equivale a un addio. Tutto questo per dire che all’altezza del 1821, e non solo grazie a Carlo Porta, il milanese ha raggiunto livelli di efficacia ed espressività poetica molto alti. Eppure gli scrittori battono di preferenza altre strade; così, in particolare, il nostro Grossi. In una lettera del 29 gennaio Alessandro Manzoni annuncia all’amico Claude Fauriel che l’autore di Ildegonda ha avviato le ricerche per un poema d’un genere nuovo in Italia: «Son intention est de peindre une époque par le moyen d’une fable de son invention, à peu-près comme dans Ivanhoe. Il placera les personnages dans la première Croisade»3. Proprio in quel torno di tempo il Manzoni, per parte sua, leggendo un libro di Melchiorre Gioia s’imbatte nella grida del 15 ottobre 1627, la stessa che l’Azzeccagarbugli mostra trionfante a Renzo («grida fresca; son quelle che fanno più paura»4). Secondo una testimonianza tarda ma attendibile, proprio da questa grida germina l’intera idea del romanzo, al quale il Manzoni si dedica con fervido impegno nella primavera di quell’anno. Il manoscritto della prima stesura, nota con il nome di Fermo e Lucia, reca in testa la data 24 aprile 1821. 2

Ivi, p. 240. Alessandro Manzoni, Lettere, a cura di Cesare Arieti, Mondadori, Milano 1970, t. I, p. 227. 4 A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 53. 3

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Ecco dunque il quesito a cui dobbiamo rispondere. Per quale motivo il Manzoni e il Grossi, pur avendo a disposizione uno strumento espressivo di comprovata maturità come il milanese, optano per l’italiano? Perché rinunciano ad usare una lingua che conoscono bene, che padroneggiano in tutte le sue sfumature, per cimentarsi in un idioma del quale occorre ancora in buona misura definire i connotati? Naturalmente gli scritti linguistici manzoniani offrono risposte articolate e precise, e tanto più significative, perché i pregi del dialetto non sono affatto misconosciuti: ogni dialetto (com’io credo, e del milanese poi ne son certo) ha molti modi espressivi, calzanti, i quali […] danno in iscorcio tutta una sentenza, coi quali uno significa il suo sentimento, la misura del suo sentimento, ne fa sottintendere le relazioni più sottili, rappresenta, per dir così, un momento dell’animo suo, in modo che a farlo con altre parole, non dico ci vorrebbe un discorso, ma dico che un discorso non ci arriverebbe5.

Ma io vorrei inseguire una strada diversa. Vorrei ricercare la risposta implicita consegnata al romanzo che comincia a prender forma, abbastanza rapidamente, in quei primi mesi del 1821. E il dato essenziale è che il Manzoni romanziere mostra di sapere benissimo che cosa si può fare con le parole, e quante cose le parole possono fare. Pochi scrittori, credo, hanno avuto una consapevolezza così acuta della potenza e della duttilità del linguaggio. Dal punto di vista della pragmatica, I promessi sposi offrono un formidabile repertorio di casi. Il linguaggio può servire a riferire i fatti e a distorcerli, a ragionare e a mentire, a chiarirsi le idee e a gettar fumo negli occhi; può esser usato per confortare e per offendere, per consigliare e per fuorviare, per adulare e per ammonire, per sfogarsi e per confondersi. E potremmo continuare a lungo. Con una precisazione, però: un repertorio non è un’enciclopedia. Nei Promessi sposi manca il linguaggio dell’effusione 5 A. Manzoni, Lettera ad Antonio Cesari, in Scritti linguistici inediti, a cura di Angelo Stella e Maurizio Vitale, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, Milano 2000, t. I, p. 68.

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vii. verticale del 1821

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amorosa, com’è noto. E manca il linguaggio della seduzione: Manzoni non è Laclos. Malvagità e depravazione, nei Promessi sposi (la critica lo ha messo in luce da tempo), sono poco eloquenti. Anche il linguaggio dell’inganno ha poco respiro (Manzoni non è Shakespeare). Raggiri e sotterfugi – l’innocente stratagemma di Agnese, le maligne insinuazioni del conte Attilio, la trappola del sedicente Ambrogio Fusella spadaio – mirano a bersagli penosamente vulnerabili: una zitella attempata e permalosa, un giovane montanaro ubriaco, un vecchio nobiluomo vanesio. Largo corso ha invece il linguaggio (infido sempre, spesso deleterio, a volte esiziale) dell’autoinganno. Dalle ubbìe del padre di Lodovico al fantasticare di Gertrude fino al rovinoso delirio della peste, il romanzo ne inscena una serie, ordinata in forma di climax. Ma soprattutto il Manzoni aveva chiarissimo in mente un altro dato fondamentale a proposito del funzionamento del linguaggio. Un linguaggio, in primo luogo, serve a includere e a escludere: cioè a comunicare o a negare la comunicazione, a superare steccati, diaframmi, barriere, ovvero a innalzarli (dal latinorum di don Abbondio allo spagnolo di Ferrer, fino alla stessa lingua scritta, in un mondo dove l’analfabetismo è la condizione più diffusa). Più in generale, il linguaggio è un dispositivo di regolazione delle distanze. La distanza tra chi parla e chi ascolta; la distanza tra gli interlocutori e gli eventuali astanti; la distanza tra il discorso e il suo oggetto. In termini pragmatici, le articolazioni sociolinguistiche del sistema (le distinzioni diatopiche, diastratiche, diamesiche, diafasiche) si traducono nella disposizione a distribuire virtualmente collocazioni e ruoli. Potremmo parlare, forse, di una funzione apostatica o (meglio) diastatica del linguaggio: l’aspetto performativo che determina e commisura la posizione reciproca dei fattori della comunicazione. Determinazione e modulazione delle distanze avvengono sia lungo l’asse verticale (alto/ basso), sia lungo l’asse orizzontale (lontananza/ contiguità): il divario può essere cioè spaziale, quantitativo, ovvero (se implica una differenza di grado o di valore) gerarchico.

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Da questo punto di vista I promessi sposi forniscono un’esemplificazione magistrale della capacità del linguaggio di orchestrare distanze. Superfluo, credo, esemplificare. Basterà un rapidissimo prelievo contrastivo, tratto dal discorso del narratore. Un dettaglio descrittivo: la polenta sul focolare della casa di Tonio, nel sesto capitolo, che viene qualificata nelle differenti stesure del romanzo in due diversi modi. Il Fermo e Lucia parla di «una bigia polenta di fraina (o se volete di poligonum fagopyrum)»6; I promessi sposi, di «una piccola polenta bigia, di gran saraceno»7. La situazione è identica; scenario e gesti non mutano. Ma la posizione reciproca del narratore, del lettore e dei personaggi cambia radicalmente. Il racconto del Fermo e Lucia inquadra l’interno domestico dall’alto: narratore e lettore, esponenti di una élite culturale, sogguardano senza troppa partecipazione una condizione di indigenza che non li riguarda. Nei Promessi sposi la stessa scena è vista in orizzontale, secondo una prospettiva affine (anche se non identica) a quella dei familiari di Tonio che, seduti alla mensa, attendono con gli occhi fissi sull’esiguo paiolo. La fraternità dello sguardo narrativo sarebbe peraltro compromessa se i personaggi cominciassero a esprimersi in una lingua diversa dall’italiano: ogni battura in dialetto produrrebbe (per ragioni geografiche, sociali, culturali) un effetto straniante, e quindi un nuovo allontanamento. Evidenti prove e contrario si trovano nell’opera di Antonio Fogazzaro. I personaggi popolari di Piccolo mondo antico, che parlano in comasco, sono figurine comiche di contorno, del tutto prive della dignità coscienziale non dirò di Renzo o di Lucia, ma anche delle anonime donne della casa di Tonio, menzionate fuggevolmente per un’unica frase: Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferia di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: «volete star servito?» complimento che il con6 Alessandro Manzoni, Fermo e Lucia, a cura di S. S. Nigro, Mondadori, Milano 2002, p. 125. 7 A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 113.

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vii. verticale del 1821

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tadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone8.

Il punto è che nel gioco delle distanze determinate dal linguaggio il dialetto ha un ruolo ben preciso. Il dialetto, per dirla nei termini più sintetici, è la lingua della prossimità data. Presuppone, se non necessariamente confidenza o intimità, vicinanza e dimestichezza. Per questo in ambito letterario il suo campo d’elezione è la lirica, dove continua a compiere eccellenti prove anche ai nostri giorni (una scoperta recente è per me una poetessa come Franca Grisoni, che scrive in un dialetto lombardo-orientale, il bresciano di Sirmione). Ma questo è anche, inevitabilmente, un limite. Ecco il motivo per cui il Manzoni sceglie l’italiano. Il suo progetto esige la possibilità di inscenare situazioni linguistiche molto differenziate; di presentare realtà strane, lontane dall’esperienza del lettore ottocentesco, e tuttavia suscettibili in qualche caso di rivelarsi nella sostanza sorprendentemente vicine. O, per converso, di trattare casi quotidiani e in apparenza banali in una luce nuova: perché non sempre i bravi hanno il ciuffo, e le storie di untori non sono un’esclusiva del secolo decimo settimo. Potremmo dire, generalizzando un po’, che nel romanzo il dialetto può entrare solo come ingrediente, più o meno accessorio: come spezia, o tutt’al più come farcitura, mai come alimento principale. Fermo restando, s’intende, che all’interno della rappresentazione anche il dialetto può trovare spazio, come dimostrano Gadda, Pasolini, e molti altri. Un bell’esempio in cui il dialetto è messo a tema, in quanto componente dell’idioletto di un personaggio, ci è offerto da Giorgio Bassani. La giovane Micòl, che conosce i nomi botanici di molte essenze esotiche o pregiate come la washingtonia gracilis, usa le voci dialettali per gli alberi da frutto: così le mele erano «i pum», i fichi «i figh», le albicocche «il mugnàgh», le pesche «il pèrsagh». Non c’era che il dialetto per parlare di 8

Ivi, pp. 113-114.

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cosa possiamo fare con il fuoco?

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queste cose. Soltanto la parola dialettale le permetteva, nominando alberi e frutta, di piegare le labbra nella smorfia fra intenerita e sprezzante che il cuore le suggeriva9.

Abbiamo parlato di una funzione diastatica del linguaggio. Un dato decisivo e a mio avviso inquietante dell’universo comunicativo odierno è l’illusione di immediatezza. Le tecnologie consentono una trasmissione di dati straordinariamente rapida ed efficace, ma questo non riduce le possibilità di mistificazione; al contrario, le accresce vertiginosamente. Tanto per intenderci: l’abbondanza di informazioni disponibili non ci rende per ciò stesso meglio informati, o più capaci di sceverare le notizie attendibili da quelle false. Skype e Facebook non ci mettono al riparo dai malintesi o dagli equivoci più di quanto non facciano la comunicazione telefonica o epistolare. Il fatto che da luoghi anche lontani o lontanissimi ci possano raggiungere in maniera quasi istantanea quantità enormi di parole e di immagini non aumenta automaticamente la nostra capacità di comprendere realtà diverse dalla nostra; anzi, l’effetto è spesso di fomentare vecchi pregiudizi, quando non di crearne di nuovi. Il fatto che i nostri dirigenti politici si esprimano sovente in maniera grossolana o sguaiata non rende meno complessi i problemi che sarebbero chiamati a risolvere, né più trasparenti i meccanismi del potere, né più veridici i loro discorsi10. Per questo l’esperienza manzoniana continua ad apparirci esemplare. Perché comunicare è un’operazione complessa, anche se non sempre ce ne accorgiamo: sia quando padroneggiamo la situazione con disinvoltura, sia quando non riusciamo a farlo – e indipendentemente dal fatto che ne siamo consapevoli o no.

9

Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, ora in Opere, a cura di Roberto Cotroneo, Mondadori, Milano, p. 409. 10 Queste pagine sono state scritte durante l’ultimo governo Berlusconi (l’aggettivo «ultimo» ha anche valore di auspicio). Nel discorso politico italiano il turpiloquio seguita peraltro a proliferare, anche se in modi e forme diversi (come dimostra il caso di Beppe Grillo).

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vii. verticale del 1821

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A volte, discorrendo di lingua e dialetto, si incappa nel luogo comune della semplificazione (diciamo così) schematico-difensiva. Bisogna difendere i dialetti, proclamano alcuni; bisogna difendere l’italiano, ribattono altri. Quello che la letteratura ci insegna, mi pare, è che bisogna difendere qualcosa di più fondamentale, al di qua di tale dicotomia: cioè la consapevolezza delle varietà degli usi linguistici, della loro ragione e pertinenza, e la capacità di servirsene su uno spettro il più possibile esteso. Ciò che occorre salvaguardare e promuovere è la potenza semantica e pragmatica della lingua. «Lingua», nel senso in cui ne parliamo comunemente, è un traslato metonimico; così come «mano», termine che può essere inteso anche nelle accezioni di «stile», di messa a punto, di «giro» di carte, e simili. Ora, un corrispettivo di «manualità», riferito alla lingua, non esiste – né in senso metaforico, né come tropo. Ma come le mani possono accarezzare e percuotere, maneggiare un piccone e suonare un’arpa, annodare una gassa e fabbricare un orologio, suturare una ferita e falsificare una firma, dipingere un affresco e potare un fruttifero (mugnàgh, pèrsagh, eccetera), così anche con la lingua si possono fare infinite cose diverse. Bisognerebbe, davvero, cercare di non dimenticarsene. E non stancarsi, soprattutto, di insegnarlo.

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viii. Zingari senza nome Querimonia tardiva sul politically correct

A Milano si continua a parlare di sgomberi. Mentre le cronache cittadine riferiscono le travagliate vicende del Triboniano, che si aggiungono a quelle di vari altri campi nomadi, all’Università Bicocca è annunciato un importante convegno sul tema «La condizione giuridica di rom e sinti in Italia» (16-18 giugno 2010)1. Immagino che gli organizzatori abbiano ragionato a lungo prima di scegliere il titolo: sul quale, a rigore, non ci sarebbe nulla da eccepire. Non di meno, merita una piccola riflessione la coppia di sostantivi, «rom e sinti». In altre epoche si sarebbe detto «zingari»; ma questo termine è stato da tempo proscritto in nome del politically correct. Impensabile riproporlo in questa sede, o in qualunque altra che si proponga di affrontare la questione senza pregiudizi – con senso civico, chiara coscienza e volontà buona. Eppure qualcosa non torna. Per quanto rilevanti e storicamente fondate, le differenze tra sinti e rom non sono tali da far premio sulle analogie, specie rispetto all’insieme della società. Il problema – o se vogliamo il fascio di problemi, l’insieme dei problemi – è uno, non due. D’altronde, rom e sinti (che in Francia chiamano manouches) non esauriscono l’universo delle popolazioni nomadi (o semi-nomadi o ex nomadi) d’Europa; altre se ne potrebbero menzionare, come i «camminanti» siciliani, i kalé della penisola iberica, i romanichals del Nord. In altre parole, «rom e sinti» è un’endiadi forzata: l’ab1 Gli atti sono apparsi l’anno seguente, in due ponderosi tomi: cfr. La condizione giuridica di rom e sinti in Italia, a cura di Paolo Bonetti, Alessandro Simone e Tommaso Vitale, Giuffrè, Milano 2011.

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binamento lessicale dipende solo dalla necessità di evitare una parola interdetta. Una conferma arriva dal testo di presentazione del convegno, che ricorre all’espressione organica (ancorché plurale) «gruppi zigani», usata anche in altri documenti dall’ASGI (l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione). «Zigano», al pari di «gitano», è vocabolo antico, appropriato e – almeno al mio orecchio – elegante (come «zingaro», del resto); però non è mai entrato nell’uso corrente, né mi pare vi siano stati tentativi seri di introdurlo. Di solito si parla di «rom», anche quando sono implicate altre comunità; o si usa il termine più approssimativo di «nomadi»2. Naturalmente, in questo come in altri casi il dato linguistico ha solo valore di indizio. Quando sono in gioco questioni così complesse, così gravi, è vero più che mai che sono i fatti che contano: le azioni, non le parole. Tuttavia trascurare le parole è sempre sbagliato. Nel linguaggio si esprimono una cultura, una sensibilità, una mentalità, da cui poi discendono decisioni e comportamenti; e i discorsi in parte riflettono dei modi di pensare, in parte li guidano, li instradano, li plasmano. Che cosa è successo, nel nostro caso? Che a un certo punto, qualche anno fa, si è ritenuto che il vocabolo «zingaro» fosse intrinsecamente offensivo, e perciò vitando: e oggi, infatti, viene evitato. Ma nella sua funzione denotativa non è stato sostituito: il che equivale, comunque la si pensi, a un impoverimento del discorso. Volendo diventare più rispettoso, il nostro modo di esprimerci si è fatto anche meno preciso e, tendenzialmente, più ipocrita. Non che le cose cambierebbero di colpo se per quella nazione senza stato che conta in Europa circa otto milioni di 2 «Zigano» deriva, tramite il francese, dall’ungherese cigány, ma ha un antecedente in greco bizantino, che è anche all’origine anche di «zingaro»: il termine appare desunto dalla denominazione attribuita a una setta gnostico-manichea, athínganoi (letteralmente, «intoccabili»): cfr. Federico Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del diverso nella lingua italiana e nei dialetti, Milano, Garzanti 2004, p. 156. Alle varie diciture dialettali registrate da Faloppa si potrebbe aggiungere la voce milanese stròlegh (lett. «astrologo»). «Gitano» invece, più semplicemente, da «egiziano», come l’inglese gipsy o il greco guvftoi.

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viii. zingari senza nome

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persone venisse adottato un termine collettivo accettabile – per esempio, «romaní». Le «cose», tanto per essere chiari, non cambiano tanto facilmente. L’esempio più istruttivo continua ad essere, a mio modesto avviso, il destino della parola «negro», primo scalpo lessicale di cui si è fregiato in Italia il politically correct. La storia è nota. In inglese, e in particolare nell’inglese d’America, si usavano due termini per designare gli afroamericani: black e negro. Poiché il secondo veniva usato con un’accezione spregiativa (specie nella variante fonetica nigger), da un certo punto in poi si è imposta, come unica forma decente, black. Gli italiani che si occupavano di Stati Uniti – americanisti, giornalisti, traduttori – hanno deciso di introdurre anche da noi il doppione lessicale, traducendo black con «nero» e mettendo al bando «negro». Le obiezioni sarebbero potute essere numerose. Negro, in inglese, è un ispanismo, cioè una voce straniera, diffusa nei secoli della tratta degli schiavi. In italiano «negro» è il precursore diretto (e italianissimo) di «nero»: anzi, come forma più vicina all’etimo latino, rappresenta la variante preferita dalla tradizione letteraria (fra le «negre chiome» cantate dai poeti, quelle della leopardiana Silvia3). Inoltre, è un fatto che in molti dialetti italiani l’evoluzione fonetica ha conservato l’occlusiva velare: in milanese, tanto per fare un esempio, «nero» si dice négher, e basta. Molti italiani, specie nel Nord-Ovest, portano il cognome Negri, Negro, Negroni, Negretti, o Negrini, in Emilia (dove cominciano i Neri, che la fanno da padrone in Toscana e Lazio). Ancora. Alla fine dell’Ottocento, per la precisione al 1883, risale la fondazione da parte dei missionari comboniani del periodico «Nigrizia» (insostituibile strumento di conoscenza della realtà africana) e fin dagli anni Trenta uno dei più importanti movimenti di emancipa3 «Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,/ da chiuso morbo combattuta e vinta,/ perivi, o tenerella. E non vedevi/ il fior degli anni tuoi;/ non ti molceva il core/ la dolce lode or delle negre chiome,/ or degli sguardi innamorati e schivi» (A Silvia, vv. 40-46: cfr. Giacomo Leopardi, Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, Mondadori, Milano 1987, p. 78).

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zione politico-culturale di area francofona aveva preso il nome di négritude, «negritudine». Perché mai attribuire implicazioni razziste a quella innocua g? Non voglio sottovalutare le difficoltà di traduzione. Ma si sarebbe potuto benissimo mantenere «negro» come equivalente di black e usare come spregiativa la voce straniera nigger, invece di inoculare un germe razzista nel termine italiano corrente. Naturalmente è vero che la parola «negro» veniva (e viene tuttora) usata come insulto anche in Italia: così nel proverbiale, ignobile «sporco negro». Ma l’insulto sta nell’aggettivo, non nel sostantivo. O meglio: sta nell’intenzione. L’impiego di nomi collettivi a fini oltraggiosi è un fenomeno ben noto. Per rendere un improperio più contundente, più sanguinoso, si cerca di colpire la progenie, la nazione, il gruppo, la categoria. E siccome noi siamo animali sociali, il meccanismo funziona. Funziona sempre: con qualsiasi parola. «Sporco italiano» non è un complimento; ne dovremmo dedurre che la parola «italiano» è ingiuriosa? Eppure con «negro» e «zingaro» è andata esattamente così. In un caso l’ostracismo ha scavato un semivuoto lessicale; nell’altro ha imposto un parassitario doppione. Ma non si è affatto depurato il linguaggio, né in un modo né nell’altro. Semmai è vero l’opposto: volendo inventare un termine alternativo decente, si è svilito quello in vigore etichettandolo come intrinsecamente offensivo: laddove prima era flessibile, buono per tutti gli usi. E, si badi: senza precludere, nell’uso vivo, l’eventuale degradazione dell’allotropo che si vorrebbe corretto. Qualcuno pensa forse che «sporco nero» sia un progresso rispetto a «sporco negro»? Non era il vocabolario che doveva essere ripulito: erano – sono – le coscienze4. 4

Più sensibile alle ragioni del linguaggio politically correct il citato libro di Faloppa (Parole contro, cit., pp. 122-126), comunque pregevole, anche per l’accurata bibliografia. Va ricordato, peraltro, che valori simbolici negativi interessano nel nostro immaginario non solo la parola «negro» (o «nero»), ma l’intero campo semantico dell’oscurità e dell’assenza di luce: e qui c’è davvero poco da fare, se non accettare l’idea che uno stesso termine possa avere accezioni diverse.

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Diciamolo meglio. L’errore di fondo, l’equivoco culturale che inficia gran parte del politically correct consiste nella presunzione di misurare la decenza o l’accettabilità di un discorso al livello del lessico. Un abbaglio clamoroso, nonostante la bontà dei propositi: un’ingenuità; in alcuni casi, un’autentica sciocchezza. E questo non perché le connotazioni delle singole parole siano prive di importanza. Al contrario: proprio perché ne possono avere moltissima. Il punto è che i valori semantici che una parola può sprigionare dipendono dal contesto in cui la parola è inserita: dalla frase, dal discorso, dai toni, dagli accenti. Non occorre aver letto Bachtin per sapere che, nella viva prassi linguistica, qualunque ingiuria, anche la più grossolana, può assumere coloriture bonarie, complici, ammirative, affettuose. Piccolo esercizio da scuola d’arte drammatica (liberamente ispirato al metodo Stanislavskij): pronunciare una frase acconcia – exempli gratia: a fijo de ’na mignotta – variandone il tono, cioè nell’ordine, 1) come uno studente al compagno che gli ha appena riferito di aver trovato nel cestino della cartaccia la soluzione di un compito di matematica, 2) come due amici in vacanza che finalmente si ritrovano dopo che avevano temuto di essersi perduti per le vie del Cairo, 3) come un tifoso all’amico che contro ogni ragionevole aspettativa gli ha trovato due biglietti gratis per il derby, 4) come una fidanzata al fidanzato dopo un litigio, nell’atto di riconciliarsi… Potremmo facilmente continuare. Il punto è che la valutazione morale e/o politica dovrebbe riguardare il concreto atto di comunicazione, cioè l’enunciato, all’interno di una determinata situazione. Irrigidire le parole, cristallizzandone le accezioni negative, è inutile e controproducente: significa aggravare le potenzialità discriminatorie del linguaggio, anziché combatterle. E, di contro, ideare voci «corrette», in molti casi, è davvero futile. Prendiamo una frase come «Barack Obama è il primo presidente nero della storia americana». Vero? Sì, naturalmente. Ma solo all’interno di coordinate storico-culturali precise, molto strette, e intimamente deprecabili (ancorché difficili da

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eludere). Obama ha la pelle piuttosto chiara: «nero», in senso cromatico, non lo è di certo. Lo è solo all’interno di una logica contrastiva simile a quella del gioco degli scacchi, dove vige l’opposizione bianco/ nero, e dove quindi in certi casi i pezzi «neri» possono tranquillamente essere di una tinta fra il bruno e il nocciola, poco più scuri di pezzi «bianchi» color crema, come il legno d’acero o di frassino. Quello che conta, sia nel caso degli scacchi sia in quello del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti, è l’antitesi concettuale, non l’aggettivo. Perché mai considerare «nero» un individuo nato da madre bianca? Il razzismo di fondo si annida nel presupposto non dichiarato che la differenza corre tra chi ha entrambi i genitori «bianchi» (naturalmente anche sul termine «bianco» ci sarebbe da discutere), cioè tra chi è bianco-bianco, e tutti gli altri. Questa idea poggia su secoli di discriminazione, oppressione e pregiudizi, che, prima di condizionare le singole parole, definiscono un intero universo mentale. Pensare di uscirne per via di cosmesi lessicale o fonetica è ingenuo; e stracciarsi le vesti per quella g che distingue nero da negro mi pare una bizzarria – anche se, Vangelo alla mano, sintomatica (Mt VII, 65). Un altro esempio istruttivo è quello dell’espressione vu’ cumprà. Qualche decennio fa, all’inizio del flusso migratorio in Italia, si pose il problema di come chiamare gli stranieri, per lo più provenienti dai paesi berberi o dall’Africa sub-sahariana, che vendevano per strada accendini, braccialetti e altra cianfrusaglia. «Marocchino» parve disdicevole: e il vocabolo salpò per altri lidi, facendo fortuna ai banconi dei caffè. «Vu’ cumprà» ebbe sorte peggiore: bollato come intollerante (e quindi intollerabile) diventò quasi un emblema degli atteggiamenti ostili verso i migranti, comunque declinati: sprezzante sussiego, rancoroso fastidio, derisione razzista. Ora, non dico che «vu’ cumprà» fosse un modo di dire particolarmente felice. Ma in fondo non era diverso da «sciuscià». Anzi, era costruito esattamente allo stesso modo: una locuzione sostantivata desunta da un «grido» di piazza – nella fattispecie, dall’espressione con cui i ragazzini napoletani, improvvisatisi lustrascarpe (shoe shine!), si rivolge-

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vano ai militari alleati (donde il celebre Sciuscià di Vittorio De Sica, anno Domini 1946). E quando oggi mi capita di sentire un mio connazionale ringhiare «extracomunitari di merda» mi domando cosa ci abbiamo guadagnato a proscrivere quella parola. Un insulto è sempre un insulto: chi vuole insultare, lo fa con qualunque vocabolo. Anche con un termine ingombrante ed eufemistico come «extracomunitario», sette sillabe di burocratese puro: per di più sgradevolmente impreciso (non occorre ricordare che anche un biologo di Melbourne, un ingegnere di Nuova Dehli, un manager di Shangai sono extracomunitari). Un discorso non troppo diverso si potrebbe fare a proposito di parecchi usi linguistici intesi a raggiungere la parità fra uomo e donna. Ad esempio, circa la consuetudine (stavo per dire: il vezzo) di omettere l’articolo determinativo davanti ai cognomi femminili, come se un articolo determinativo implicasse una degradazione. Anche qui è bene fare una precisazione d’ordine linguistico. Quello che conta, anche nella morfologia, non sono i fenomeni isolati, ma i tratti oppositivi. Un paio di secoli fa si premetteva sempre l’articolo al cognome: «il» per il maschile, «la» per il femminile: il Foscolo, il Leopardi, come la Serao o la Deledda (questo in italiano: in molti dialetti si volgeva al femminile anche il cognome, come in russo). Poi, gradualmente, si è cominciato a semplificare, omettendo l’articolo per i cognomi maschili: e così si è passati da un’opposizione maschile/ femminile all’opposizione presenza/ assenza di articolo. Ora, in tutta franchezza a me sfugge il vantaggio di dire o scrivere «Marcegaglia» o «Camusso» anziché «la Marcegaglia», «la Camusso»: di sicuro si dà un’informazione in meno, cioè, di nuovo, si rende il discorso più impreciso. Analogamente, nella maggior parte dei casi (non in tutti) a me sembra un’ingiustificata lungaggine dire «le studentesse e gli studenti» anziché «gli studenti» e basta. Certo, non è senza motivo che sia la forma maschile, e non quella femminile, a valere, quando occorre, per entrambe. La lingua è lo specchio della coscienza: negli usi linguistici nulla (o quasi) è casuale, e nulla è innocente. Non c’è dubbio alcuno che in

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questo impiego anfibio del plurale traspaia una prevaricazione della componente maschile su quella femminile. Ma anche la lingua, come la storia, ha le sue astuzie: e a me, maschio nato nel sesto decennio del XX secolo, sembra significativo che il plurale femminile sia scevro di ambiguità, mentre il plurale maschile possa valere tanto per un gruppo omogeneo quanto per uno composito, svolgendo cioè la funzione che in altre lingue tocca al genere neutro. Anche sul piano della grammatica l’identità maschile risulta, rispetto a quella femminile, più incerta e labile. Con questo, non si può negare che vi siano oscillazioni fondate e casi controversi: a volte la logica suggerirebbe una soluzione, l’orecchio (o l’abitudine) un’altra. La Camusso è «segretario» o «segretaria» della CGIL? In nome della parità tra i generi, il femminile dev’essere dissimulato o sottolineato? Nella prima ipotesi si metterà in evidenza un dato semantico, cancellando la distinzione morfologica. Dato che il femminile «segretaria» è stato usato storicamente per designare mansioni subordinate, mentre al maschile «segretario» è occorsa la ventura di indicare ruoli direttivi, si estende anche al soggetto femminile la forma a cui è riconosciuto maggiore prestigio (cioè il maschile). Nella seconda ipotesi si rispetta la morfologia e si punta su un riscatto del sostantivo femminile. Certo, alla Marcegaglia va meglio (sarà un caso?): «presidente» è invariabile5. Ancora: si usa dire «dottoressa», «infermiera», «senatrice»: quanti dicono normalmente «avvocata» o «ministra»? E quando aumenterà il numero delle colleghe chiamate a ricoprire la massima carica degli Atenei entrerà forse nell’uso la parole «Rettrice»? La distinzione tra sostantivi maschili e femminili ha dei margini di arbitrarietà. E tra parentesi, non sarà inutile ricordare che – diversamente da quanto a volte si pensa – in italiano anche il femminile è suscettibile di uso neutro, «non marcato» (si vedano termini come guida, guardia, recluta, sentinella, vittima, spia). 5 All’epoca della stesura di queste pagine, Emma Marcegaglia era presidente di Confindustria.

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viii. zingari senza nome

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Tornando al programma del convegno sulla condizione giuridica di rom e sinti mi accorgo che i colleghi di Giurisprudenza usano i termini «moderatore» e «moderatrice». Da italianista non posso fare a meno di compiacermene: sia perché così si evita una voce inglese superflua, sia perché le diciture chair o chairperson, come rimpiazzi politicamente corretti di chairman, mi sono sempre parse abbastanza stucchevoli (anche se lontane da un’aberrazione come chercheure al posto di chercheuse, non rara, mi dicono, in Québec). La battaglia per la parità dei diritti è una battaglia decisiva per il futuro della nostra civiltà, e di sicuro occorre combatterla anche sul terreno del linguaggio. Ma non in maniera ottusa e settaria. Non idoleggiando una «correttezza» che è stolto e futile ricercare nei singoli vocaboli. Non trasformando in feticcio delle banalità morfologiche. Non ingessando il nostro modo di parlare. E questo per almeno una buona ragione: sarebbe davvero imprudente concedere agli avversari più o meno dichiarati (e più meno consapevoli) un’esclusiva sulla spontaneità di eloquio. Razzisti, maschilisti, xenofobi hanno già dalla loro una serie di vantaggi: l’inerzia mentale, l’istintiva attrazione per le semplificazioni sommarie, il peso di diffidenze e paure ataviche. Ebbene: sostenere la causa del progresso civile e democratico infliggendo alla lingua una serie di puntigliose regolette, prescrittive o inibitorie, non può che produrre un effetto perverso: regalare agli oppositori il vantaggio di un’apparente schiettezza e genuinità espressiva. L’ultima cosa, davvero, che ci si dovrebbe augurare.

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ix. Homo loquens Un libro sull’origine del linguaggio

Ma come abbiamo fatto a non pensarci prima? In campo scientifico ci sono teorie che, una volta acquisite, risultano talmente ovvie da suscitare stupori retrospettivi. Certo, ci diciamo, non può che essere così, non ci sono dubbi; pensare che le cose stiano altrimenti sarebbe, più che un errore, una stravaganza. Eppure quello che un giorno arriva a sembrare ovvio, in precedenza, non lo era affatto. Anzi. Da sempre scienziati e filosofi si interrogano sull’origine del linguaggio. La questione è diventata attualissima negli ultimi anni, sull’onda delle ricerche in materia di evoluzione. Più si indaga sui nostri remoti progenitori, più appare chiaro che il linguaggio deve aver giocato un ruolo decisivo nella complessa vicenda del differenziarsi delle specie ominidi all’interno dell’ordine dei primati, e del successivo impetuoso affermarsi del genere sapiens. Da un certo punto in poi la comunicazione verbale ha conosciuto un formidabile sviluppo, che dando luogo a un’articolazione più stretta e più complessa dei rapporti sociali ha garantito un vantaggio evolutivo straordinario: così siamo diventati «i signori del pianeta»1. Il problema è: da dove ha preso avvio tutto questo? Per quale motivo, a un certo punto della loro storia, gli ominidi hanno investito tanto sull’interazione vocale? Che cosa può averli indotti a una trasformazione così rilevante del loro compor1 Tale l’ultimo titolo dell’illustre paleoantropologo americano Ian Tattersall, The Masters of the Planet. The Search for Our Human Origins, Palgrave Macmillan, New York 2012 (I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo, trad. it. di Allegra Panini, Codice, Torino 2013).

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tamento? Da quali aspetti dell’esperienza primordiale ha tratto impulso l’attività linguistica? Che ci siano di mezzo il bipedismo e la postura eretta è assunto non nuovo e (presumo) difficilmente controvertibile; del resto, gode di largo credito l’ipotesi che la stessa origine della specie umana sia legata alla necessità di adattarsi a un ambiente più arido, dove la diradata vegetazione precludeva ai grandi primati un’esistenza esclusivamente arboricola. Però, nel momento in cui si doveva indicare una motivazione per lo sviluppo del linguaggio, il riferimento più frequente – a quanto mi risulta – riguardava l’attività della caccia. Benché profano (non sono uno studioso di evoluzione, né un biologo o un paleontologo) ho sempre trovato questa spiegazione del tutto inadeguata. Certo, organizzare una battuta di caccia richiede un qualche accordo tra i cacciatori, specie se l’obiettivo è una preda di grossa taglia. Ma anche i lupi, le iene, le leonesse cacciano in branco, e non hanno sviluppato un linguaggio paragonabile a quello umano (anche se è probabile che comunichino tra loro molto più di quanto finora siamo riusciti a intendere). Inoltre la caccia non è mai stata, verosimilmente, l’unica fonte di cibo per la nostra specie: doveva essere un’attività specializzata, riservata agli elementi più robusti del gruppo. Perché mai si sarebbe dovuta diffondere a tutti? e svilupparsi tanto oltre i limiti di un settore tutto sommato ristretto qual è quello venatorio? Potenza del pregiudizio. La risposta che veniva fornita a un quesito cruciale sulla nostra natura ha puntato per molto tempo su una dimensione dell’esperienza che era appannaggio maschile: difficile pensare che sia un caso. E torna alla mente la teoria aristotelica, ripresa nel Medioevo da Tommaso d’Aquino, secondo cui il principio attivo della riproduzione dei viventi dipende dal maschio. È il maschio infatti, e lui solo, secondo Aristotele, a fornire la causa efficiente della generazione (lo sperma), mentre alla femmina compete il ruolo passivo di contribuire con la materia (il sangue). Ebbene, una teoria sulla nascita del linguaggio umano decisamente più persuasiva di quella ingenuamente (o spudorata-

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ix. «homo loquens»

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mente) maschilista della caccia è stata formulata di recente dalla paleoantropologa americana Dean Falk2. Questa, in breve, la sua tesi. Una delle conseguenze del bipedismo fu senza dubbio una maggiore difficoltà per il piccolo di tenersi aggrappato alla madre, come avviene tra i gorilla o gli scimpanzè, sia a causa della postura eretta, sia perché i piedi non sono prensili come le mani. Di conseguenza, le madri avranno dovuto sostenere i piccoli per evitare che cadessero. Ma questo limitava molto la loro attività. Quindi, per adempiere ad alcune funzioni fondamentali, come la raccolta del cibo (erbe, radici, frutti) si trovarono costrette a introdurre una prassi nuova, dagli effetti dirompenti: quella di posare il piccolo a terra. Di qui la necessità di surrogare il contatto fisico diretto con un’altra forma di prossimità. E ricorsero alla voce. Come ben sa chiunque abbia posseduto cani o gatti – o meglio, cagne e gatte – il contatto vocale madre/ cucciolo tra i mammiferi è frequente, e anche piuttosto articolato. Ma le scimmie antropomorfe non ne hanno sempre bisogno: tant’è che presso una specie ciarliera come gli scimpanzè la madre non parla con il piccolo, perennemente aggrappato a lei. Dunque il cambiamento fu enorme. E straordinarie le conseguenze: perché il rapporto tra madre e piccolo è la forma primaria (la matrice, il paradigma) della socializzazione. Altro che concertare le mosse per uccidere un cervo o un bisonte. Quello che mi pare convincente, nella teoria di Dean Falk, è l’adeguatezza della causa all’effetto. Lo sviluppo del linguaggio presso la specie umana trae origine dalla necessità delle madri ancestrali di rassicurare i piccoli, di tenerli sotto controllo, di sorvegliarli, di accudirli a distanza. Gradualmente consolidandosi l’innovazione comportamentale, il contatto delle voci è divenuto parola, comunicazione verbale, codice linguistico. Dal rapporto madre/ prole si è esteso poi all’insieme della comunità, nessuno escluso (tutti sono stati cuccioli), 2 Lingua madre. Cure materne e origine del linguaggio, trad. di Paolo A. Dossena, Bollati Boringhieri, Torino 2011 (ed. orig. Finding Our Tongues. Mothers, Infants & the Origin of Language, Basic Books, New York 2009).

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dispiegando potenzialità imprevedibili: giacché grazie al linguaggio è possibile esprimere e condividere emozioni, trasmettere informazioni ed esperienze, impartire disposizioni, confrontare asserzioni, in una misura che la comunicazione non verbale non può consentire. L’effetto è un incremento poderoso della coesione sociale. Impareggiabile è infatti la forza sociopoietica del linguaggio: letteralmente, con le parole si costruisce un intero mondo sociale – quindi, il mondo. Sia pur in chiave simbolica, molte culture hanno rappresentato questa profonda consapevolezza: si pensi all’incipit del Vangelo di Giovanni (’En ajrch/` h\n oJ lovgo~, «In principio era il Verbo») o alla festa della rivelazione della parola celebrata dai Dogon (la popolazione saheliana studiata da Marcel Griaule). Un aspetto decisivo, mi pare, consiste nel carattere fortemente interattivo del luogo dove avrebbe cominciato a svilupparsi il linguaggio, cioè la dimensione delle cure materne. C’è una differenza molto grande tra un messaggio unilaterale (per esempio «Attenzione, c’è un leopardo», distinto da «Attenzione, c’è un falco»), preciso finché si vuole ma svincolato da feedbacks, e un meccanismo di domanda e risposta («Dove sei? / Sono qui, non muoverti»), che richiede, produce, alimenta un adattamento reciproco. Sia chiaro: l’interazione è molto intensa in numerose specie; abbiamo di sicuro molto ancora da imparare, moltissimo, sul modo in cui gli animali comunicano, e non solo con mezzi vocali; non c’è vita sociale senza adattamento reciproco. Ma la «novità» umana potrebbe essere davvero consistita nell’utilizzo della voce come mezzo privilegiato, a partire dall’infanzia, per risolvere un imperioso problema quotidiano di contatto e intesa reciproca, da cui dipendeva la sopravvivenza. Divenuta in certe condizioni impossibile la prensilità tattile, si inventò una forma di prensilità vocale, che risultò così efficace da evolversi in linguaggio. Lo scenario proposto dall’antropologa americana, non occorre precisarlo, è una ricostruzione congetturale che riguarda avvenimenti verificatisi alcuni milioni di anni fa. Ma la sua

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argomentazione attinge, oltre che alla documentazione paleontologica (un’importante variabile è l’allungamento del tempo per il quale i piccoli necessitavano di cure), allo studio del comportamento delle grandi scimmie, e alle ricerche sul modo in cui le madri di oggi si rivolgono normalmente agli infanti. Da qualche tempo è stato introdotto il termine di «maternese» per designare quel linguaggio elementare, semplificato, «puerile», composto in gran parte di suoni ripetuti (bisillabi come mamma, pappa, e simili), contraddistinto da marche timbriche (il tono più soave, il registro più acuto), di norma accompagnato da espressioni, smorfie, gesti particolari, nonché intrecciato o alternato a fenomeni d’ordine ritmico o melodico. Uno dei pregi maggiori della teoria della Falk è di render conto del fatto che sia il linguaggio, sia la musica hanno nella nostra psiche risonanze straordinariamente profonde. C’è un punto nascosto del nostro sistema neurologico che serba traccia delle emozioni di un indifeso cucciolo di primate, solo in mezzo all’erba, tutto proteso ad ascoltare la cantilena sommessa della madre, che ha perso di vista (e di cui forse teme di perdere anche la traccia olfattiva). Un curioso, ma doveroso corollario è che la tesi della Falk riporta in auge l’antica idea vichiana di una comune genesi della parola e del canto. Il Vico partiva dall’idea che l’emissione di vocalizzi è più semplice rispetto alla fonazione articolata: tant’è che i balbuzienti, che s’inceppano quando devono parlare, sovente cantano senza difficoltà. Così i nostri progenitori, in origine privi di favella, «dovettero dapprima, come fanno i mutoli, mandar fuori le vocali cantando; dipoi, come fanno gli scilinguati, dovettero pur cantando mandar fuori l’articolate di consonanti»3. Merita inoltre di essere sottolineato che quanto sostiene Dean Falk è a mio avviso perfettamente compatibile con un’altra suggestiva ipotesi, avanzata una decina d’anni or sono da Michael Corballis: la connessione originaria fra 3

G.B. Vico, Principi di scienza nuova (II, II, 5), in Opere, cit., t. I, p. 622.

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parola e gesto4. Anche l’idea di fondo di Corballis, come quella della Falk, implica un capovolgimento concettuale. Quando riflettiamo sulle scaturigini del linguaggio umano tendiamo infatti a figurarci un’apparizione ex nihilo, una crescita inopinata: qualcosa di simile a una specie di vegetale, che – chissà come, chissà da quale seme – a un certo punto germoglia e inizia a svilupparsi. E naturalmente ci imbattiamo quasi subito in una serie di ardui interrogativi. Da dove viene tutto ciò? Qual è il progetto che presiede alla nascita dell’albero della lingua? Per quale arcana predestinazione assume proprio questa forma, perché le foglie sono così e non altrimenti? Di fatto, immaginare il linguaggio come un’entità che sorge in maniera autonoma offre molti argomenti ai sostenitori dell’innatismo (con tutti gli immaginabili risvolti di tipo religioso). Corballis traccia uno scenario diverso. All’origine ci sarebbe stata una comunicazione gestuale e mimica che coinvolgeva l’intero corpo, a cominciare, naturalmente, dalle mani. In questa fase le emissioni vocali avrebbero giocato un ruolo subalterno di rafforzamento e accompagnamento rispetto ai movimenti corporei (mani, dita, braccia), alle espressioni del volto, alla postura. In seguito la voce avrebbe acquistato progressivamente rilievo, passando da una funzione ausiliaria e complementare a un ruolo sempre più autonomo. Detto in altri termini, il linguaggio verbale si sarebbe sviluppato non per accrescimento, ma per sottrazione. I nostri antenati avrebbero gradualmente convenuto che la voce poteva bastare, in qualche circostanza: e poi in qualunque circostanza: sì che al gesto e alla mimica facciale abbinati ad un verso sarebbe subentrato il solo verso, definito in maniera sempre più chiara, sempre meglio articolato. All’origine del linguaggio ci sarebbe insomma una specie di sineddoche comunicativa, resa possibile – se vogliamo tentare una sintesi tra Michael Corballis 4

Michael Corballis, Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, trad. di Salvatore Romano, Cortina, Milano 2008 (ed. orig. From Hand to Mouth, The Origins of Language, Princeton U.P., Princeton 2002).

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e Dean Falk – dalla dimestichezza con la dimensione vocale, a sua volta suscitata dalla sostituzione, esperita nell’infanzia, del contatto sonoro a quello corporeo. Chissà, forse un giorno parleremo, anziché di homo habilis, di homo loquens: ammesso che si riesca a identificare con ragionevole accuratezza le tappe di questa avvincente storia evolutiva5. Nel frattempo mi permetto di avanzare un modestissimo parere sul gran tema del bipedismo. Per quali ragioni i nostri progenitori si sono risolti a camminare su due zampe? Io mi figuro che la soluzione più valida sia la meno nuova, e la più semplice: cioè la sopravvenuta impossibilità della fuga sugli alberi come via maestra di difesa. Personalmente, trovandomi a passeggiare in luoghi dove pascolavano greggi che avrebbero potuto comprendere un montone di cattivo umore, non mi sono mai sentito del tutto a mio agio senza un bastone in mano. Ma questa, s’intende, è solo la supposizione di un primate sedentario, non molto coraggioso, meno aggressivo della media della specie. E quindi grato, nonostante qualche inevitabile senso di colpa, a Moonwatcher (così è chiamato il personaggio nello screenplay di 2001: Odissea nello spazio) per aver avuto quell’idea con l’osso del facocero. Sono certo che a me non sarebbe mai venuta in mente6.

5 Dallo stato attuale delle ricerche sulla materia Telmo Pievani ricava interessanti considerazioni filosofiche nel volume La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Cortina, Milano 2011. 6 Ricordo che la sceneggiatura di 2001: A Space Odyssey (1968) è firmata, oltre che dal regista Stanley Kubrick, da Arthur C. Clarke. Anche in questo caso la mia fonte è il website Internet Movie Script Database (http://www.imsdb.com/scripts/2001-A-SpaceOdyssey.html).

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x. Homo coquens Come la cottura dei cibi ci ha reso umani

Di che cosa si nutre un centauro? Primo Levi, che anche quando scriveva racconti fantastici non deponeva l’habitus mentale di scienziato, non aveva dubbi. Dal momento che ha corpo di cavallo, un centauro non può che essere erbivoro; ma avendo testa e bocca di uomo manca di un apparato masticatorio adeguato, e quindi dovrà dedicare gran parte del suo tempo ad alimentarsi1. Così i centauri. E noi? Che cosa ci dicono l’anatomia e la fisiologia umana della storia di homo sapiens? Rispetto ai nostri parenti più prossimi, le grandi scimmie, abbiamo una bocca piccola, una dentatura modesta, deboli muscoli mandibolari, e un apparato digerente molto più piccolo di quello di un primate delle nostre dimensioni. Per elaborare cibi vegetali occorrono infatti molari larghi, uno stomaco capiente, un intestino molto sviluppato (in particolare, un lunghissimo colon). La misura del nostro apparato digerente è per certi aspetti più prossima a quella dei carnivori; ma noi non abbiamo né la dentatura né la mandibola di un carnivoro, e se assumiamo troppe proteine subiamo effetti tossici che possono anche risultare letali. In breve, homo sapiens non è mai stato prevalentemente carnivoro; ciò nonostante, ha un organismo non più adatto a nutrirsi di soli vegetali – frutti, erbe, radici. Almeno così come in natura si presentano: crudi, cioè. Non a 1 Cfr. Quaestio de Centauris, in Storie naturali (1967); ora in Opere, a cura di Marco Belpoliti, introduzione di Daniele Del Giudice, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 505-516.

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caso, il controllo del fuoco e la cottura degli alimenti sono fenomeni comuni a tutte le culture, incluse quelle che si sono sviluppate dove cuocere i cibi è oltremodo faticoso e complesso (come nella regione artica). Una spiegazione che ha avuto negli scorsi decenni notevole fortuna è quella dell’uomo cacciatore. Le modificazioni della specie umana sarebbero dipese dal fatto che a un certo punto i nostri progenitori hanno cominciato a integrare la propria alimentazione con un apporto sistematico di carne. Richard Wrangham, docente di antropologia biologica a Harvard, ha proposto un’interpretazione diversa e oltremodo affascinante2. Il nocciolo del suo discorso è che le peculiarità della nostra specie si possono spiegare solo supponendo un antichissimo adattamento evolutivo ai cibi cotti. Non l’esercizio della caccia, bensì la pratica di cuocere gli alimenti ha trasformato il nostro organismo. Quando si parla di cibi cotti e cibi crudi il pensiero va immediatamente, inevitabilmente, a Lévi-Strauss e al suo saggio del 1964 Le cru et le cuit (Il crudo e il cotto). Il piano su cui si muove Wrangham è diverso; o per dir meglio, è diversa la dimensione temporale in cui la sua proposta si colloca. Ad esser messi in questione infatti non sono tanto i caratteri della cultura umana, o delle culture umane, bensì l’intera filogenesi della specie. Alla sua ipotesi Wrangham arriva combinando le evidenze disponibili sulla morfologia dei nostri progenitori più remoti con i risultati di osservazioni e sperimentazioni circa il comportamento alimentare di umani e scimpanzé, i tempi di digestione di vegetali e carni (crudi e cotti), il rapporto tra calorie acquisite e dispendio energetico necessario all’assimilazione (tra l’altro, il cervello è un organo che consuma molto: l’incremento della massa cerebrale non può 2 Cfr. Catching Fire. How Cooking Made Us Human, Basic Books, New York 2009, apparso in italiano con il titolo L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo, trad. di Daria Restani, Bollati Boringhieri, Torino 2011. La modifica del titolo potrebbe suggerire qualche considerazione sulla differenza tra lo spirito della lingua (cioè della cultura) italiana e inglese.

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essere avvenuto che in corrispondenza di un bilancio energetico decisamente florido). La conclusione è che cuocere i cibi ha innescato un’ingente serie di trasformazioni, garantendo importanti vantaggi evolutivi. Come recita il sottotitolo originale, siamo diventati umani grazie alla cottura. I cambiamenti hanno investito sia la struttura degli individui, cioè il corpo fisico, sia il corpo sociale. Accendere e conservare il fuoco, così come attendere alla cottura degli alimenti, implica un’adeguata ripartizione dei compiti tra i componenti del branco, e dunque una più stretta interazione, che si ripercuote sul piano emotivo e psicologico: la dipendenza reciproca accresce l’attenzione ai comportamenti e alle reazioni degli altri. Inoltre, poiché i cibi cotti si assimilano più in fretta e forniscono un apporto calorico superiore, la digestione abbreviata e la migliore alimentazione incrementano la disponibilità di tempo da dedicare ad altre attività. Insomma, secondo Wrangham allo stadio dell’evoluzione in cui si è cominciata a praticare in maniera sistematica la caccia (soprattutto di animali di grosse dimensioni), la cottura dei cibi era una prassi acquisita da tempo e le modificazioni decisive si erano verificate già. Secondo questa cronologia, l’incremento del consumo di carne – accessorio e occasionale presso gli scimpanzé – coincide con il passaggio dall’australopiteco all’homo habilis, circa 2,3 milioni di anni fa; mentre il passaggio successivo, dall’homo habilis all’homo erectus, tra 1,9 e 1,8 milioni di anni fa, è legato all’acquisizione della capacità di usare il fuoco e di cuocere gli alimenti. Molto, molto tempo prima che nel variegato panorama della famiglia Homo comparissero i sapiens. Come Dean Falk rispetto all’origine del linguaggio, così Wrangham rispetto alla storia dell’alimentazione ci suggerisce di ridimensionare in maniera drastica il ruolo giocato nella filogenesi umana dall’attività eroica e bellicosa (e prettamente maschile) della caccia, rivalutando in proporzione il ruolo delle donne. Le madri ancestrali, oltre ad accudire con la voce

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i piccoli imprimendo un decisivo impulso allo sviluppo della parola e del canto, dovevano anche provvedere alla cottura dei cibi (anche oggi, di fatto, in tutte le culture la preparazione del cibo tocca in misura prevalente alle donne). Un poco più opinabile mi pare l’idea di Wrangham che l’impegno di cuocere i cibi abbia contribuito a sottomettere le femmine ai maschi. Escluderlo sarebbe imprudente; ma a mio avviso occorre guardarsi dalla tentazione di ipotizzare, anche di sbieco, l’esistenza di stadi primigeni in cui regnava una superiore armonia. Certo è che gli studi sul passato remoto non cessano di riservarci sorprese. Ricordo che all’età di otto o nove anni mi capitò di fare sullo studio della storia una piccola riflessione. I nostri discendenti, pensai, avranno da studiare più di noi; e poi sempre di più, man mano che il tempo passa: perché alla storia che noi studiamo ora continueranno ad aggiungersi avvenimenti nuovi. Un pensierino ingenuo, ovviamente. Ma è interessante che le cose siano andate, nel frattempo, quasi al contrario. Se molta acqua è passata sotto i ponti da quando frequentavo la scuola elementare (i primi fatti sicuramente «storici» che ricordo risalgono all’autunno 1963: il disastro del Vajont, l’uccisione di John F. Kennedy), se cioè da allora la storia si è allungata di qualche mezzo secolo nella direzione dell’avvenire, un’espansione enorme delle nostre conoscenze si è verificata nella direzione opposta. Tanto per fare un esempio, nella cultura neolitica di Vinča, presso Belgrado, sono stati trovati segni che molti interpretano come iscrizioni: il che porterebbe a retrodatare le prime forme di scrittura di un paio di millenni rispetto alla civiltà sumerica. Ma più ancora del passato preistorico, sono i primordi della nostra specie a riservare sorprese. Le scoperte nel campo dell’evoluzione impongono di saldare la storia delle civiltà e delle culture con la biologia, la climatologia, lo studio dell’ambiente; nelle nostre radici antichissime c’è una quantità davvero impressionante di cose da comprendere e da imparare. E su cui meditare: nella speranza di avere su questo pianeta, oltre che un avvincente e suggestivo passato, anche un po’ di futuro.

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Nota ai testi

Questo volume raccoglie una serie d’interventi, quasi tutti compresi fra il 2008 e il 2011. Dal momento che sono legati a occasioni diverse, è inevitabile che non compongano una dissertazione organica. D’altro canto, poiché di «occasioni» si trattava, e non di eventi casuali, messi in sequenza delineano un’area di riflessione della quale ho ritenuto opportuno valorizzare l’intima coerenza. Caratteristica comune di questi testi è l’impostazione piana e in alcuni casi colloquiale: un taglio che ho conservato anche quando rispetto alla versione originale sono intercorse revisioni e modifiche significative. La rielaborazione più profonda riguarda Come una rete da pesca. Preliminari su letteratura e comunicazione, nata come relazione a un convegno sul filosofo americano Donald Davidson, e apparsa negli Atti con il titolo Tutto sta a (fra-) intendersi. Come comunicano l’autore e il lettore in AAVV., Parole fuorilegge. L’idiotismo linguistico tra filosofia e letteratura, a cura di Carlo Montaleone, Milano, Cortina 2002, pp. 151-162. Il tema del convegno, tenutosi all’Università Statale di Milano l’8 maggio 2001, «There’s no such thing as a language», riprendeva una celebre, provocatoria affermazione di Davidson, contenuta nel saggio del 1986 A Nice Derangement of Epitaphs (Una graziosa confusione di epitaffi). A sua volta, il titolo del saggio riproduceva una battuta pronunciata dal personaggio di Mrs. Malaprop, nella commedia del 1775 I rivali (The Rivals) dell’irlandese Richard Brinsley Sheridan, dove il bisticcio è fra «epitaffi» (epitaphs) e «epiteti» (epiteths). Di qui il termine «malapropismo», dal francese mal à propos, che designa uno strafalcione linguistico, di norma comico o grottesco, non tale però da compromettere l’intellegibilità di un enunciato: in termini retorici, una paronomasia involontaria che suscita ilarità. Rispetto all’argomento in discussione, l’unico contributo del mio intervento era di ordine lessicale, e consisteva nella proposta di un sinonimo di «malapropismi» (vocabolo comunque felice ed eloquente, nonché letterariamente qualificato). A mio avviso in un italiano più informale si potrebbe anche dire «trapattonismi». Come sa chiunque si sia mai interessato di calcio, l’eloquio di Giovanni Trapattoni esemplifica esattamente il fenomeno di cui parla Donald Davidson: si pensi a uscite come «volenti o dolenti», o «sia chiaro che questo discorso resta circonciso fra

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noi», o «Noi non mettiamo il carro davanti ai buoi ma lasciamo i buoi dietro al carro». Perché si legge? Pretesto calviniano sulla funzione educativa della letteratura è una versione ampliata della relazione La funzione educativa della letteratura oggi, presentata al Circolo dei Lettori di Torino, 19 marzo 2010, in occasione del convegno Lezioni invisibili. Italo Calvino e l’educazione, organizzato dal CEMEA (Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva). Il testo dell’intervento è apparso in «École», n. 78, settembre 2010, pp. 8-10, e quindi in «Quaderni di “École”», supplemento al n. 78, ottobre 2010, pp. 27-28. L’avvocato e il romanziere. Su un’edizione commentata dei «Promessi sposi» è apparso con identico sottotitolo ma titolo diverso (Paul Newman e don Lisander) su «Allegoria», a. XX, terza serie, n. 57, gennaiogiugno 2008, pp. 197-201. Silenzi in aula. Breve riflessione sul mestiere dell’insegnante deriva dall’intervento a una giornata di studi sul tema L’avventura dell’insegnamento: didattica e ricerca, organizzata da un gruppo di studenti dell’Università di Milano Bicocca e tenutosi a Varenna il 7 novembre 2008. La scuola nell’immaginario letterario è nato come intervento a un convegno tenutosi all’Università di Milano Bicocca nel novembre 2008 ed è apparso, con lo stesso titolo, in AA.VV., L’immaginario della scuola, a cura di Paolo Mottana, Milano-Udine, Mimesis 2009, pp. 193-201. Verticale del 1821. Appunti letterari su lingua e dialetto, inedito, è il testo di una relazione presentata alla giornata di studi sul tema Pluriliguismo e multilinguismo in Italia: italiano, italiani, dialetti, lingue di minoranza d’antico e nuovo insediamento. Per una rilettura degli articoli 6, 3, 21 e 32 della Costituzione, organizzata dal Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione «Riccardo Massa», dalla Società di Linguistica Italiana (Gruppo di Studio sulle Politiche Linguistiche) e dall’Associazione Italiana di Linguistica Applicata, e tenutasi all’Università di Milano Bicocca il 26 febbraio 2010. Zingari senza nome. Querimonia tardiva sul «politically correct» è inedito. Su questo argomento ero intervenuto all’inizio degli anni Novanta con un articolo sul quotidiano «L’Unità», dal titolo Extracomunitari e farisei della lingua. Gli ultimi due testi, Homo loquens e Homo coquens, sono versioni ampliate di interventi apparsi sul sito della rivista online fondata da Marco Belpoliti «Doppiozero» (www.doppiozero.com). Inedito, naturalmente, è il testo iniziale, che dà il titolo al volume. Ringrazio coloro a cui devo le occasioni della maggior parte degli interventi qui raccolti: Emanuele Banfi, Gabriele Iannaccaro, Susanna Mantovani, Carlo Montaleone, Paolo Mottana, Elio Sindoni, Stefano Vitale. Un ringraziamento speciale a Marco Belpoliti, Angela Borghesi, Telmo Pievani e (come sempre) Vittorio Spinazzola.

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Quodlibet Studio

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analisi filosofiche Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione

campi della psiche Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza

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Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi

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campi della psiche. lacaniana Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psicoanalitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicoanalisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di JacquesAlain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici

discipline filosofiche Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psico-analisi Girolamo De Michele, Felicità e storia

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Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen»

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Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762

estetica e critica Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica

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Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione

filosofia e politica Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umananel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine.Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea

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filosofia e psicoanalisi Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi

il pensiero etico e religioso Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia

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letterature omeoglotte Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale I-II. Venti voci per un lessico della postcolonialità Matteo Baraldi e Maria Chiara Gnocchi (a cura di), Scrivere = Incontrare. Mi-grazione, multiculturalità, scrittura Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi (a cura di), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte Beatriz Sarlo, Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 François Paré, Letterature dell’esiguità Matteo Baraldi, I bambini perduti. Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf

lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo

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Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del XX secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti lettere. ultracontemporanea Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese lingua, didattica, società Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina

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scienze del linguaggio

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John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio scienze della cultura Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei “Promessi Sposi”

teoria delle arti e cultura visuale Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento

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