Prolegomena a Donato, "Commentum ad Andriam" 3110582805, 9783110582802

Das Buch ist der Begleitband zur neuen Teubner-Edition des Donat'schen Andria-Kommentars und begründet deren Textko

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Prolegomena a Donato, "Commentum ad Andriam"
 3110582805, 9783110582802

Table of contents :
Prefazione e ringraziamenti
Indice
Sigle dei manoscritti
Sigle delle opere di consultazione generale
1. I testimoni. Descrizione e bibliografia
Parte I: Studio della tradizione manoscritta
2. Il Commentum di Elio Donato a Terenzio: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo
3. Studi e stemmi
4. L’archetipo ω ed i suoi testimoni
5. Il Carnotensis (Γ)
6. Il Maguntinus (Σ)
7. La tradizione indiretta
8. Le antiche edizioni
9. La trasmissione del greco
Parte II: Commento filologico-testuale
10. Commento filologico-testuale
Addenda et Corrigenda: ed. Cioffi 2017
Bibliografia
Indici

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Carmela Cioffi Prolegomena a Donato, Commentum ad Andriam

Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte

Herausgegeben von Marcus Deufert, Heinz-Günther Nesselrath und Peter Scholz

Band 129

Carmela Cioffi

Prolegomena a Donato, Commentum ad Andriam

ISBN 978-3-11-058280-2 e-ISBN (PDF) 978-3-11-058465-3 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-058347-2 ISSN 1862-1112 Library of Congress Control Number: 2018935455 Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2018 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: Hubert & Co. GmbH & Co. KG, Göttingen ♾ Gedruckt auf säurefreiem Papier Printed in Germany www.degruyter.com

Prefazione e ringraziamenti I testi vivono separatamente dagli autori che li misero in moto. Accade perciò che talvolta gli autori stessi si comportino verso di loro al modo dei copisti: persino intervengono a inquinare le proprie parole. L’unico “onnipotente” autore è dunque il copista, colui che scrive il testo. L’unico che abbia con esso un rapporto di piena e fisica identificazione, nonché un ruolo fatale nel suo destino. Luciano Canfora

Il presente volume è diviso in due sezioni interdipendenti: la prima è dedicata allo studio della tradizione manoscritta del Commentum all’Andria e della storia del testo fino alla riscoperta di epoca umanistica; la seconda accoglie la discussione dei punti testuali meno pacifici o comunque meritevoli di un commento critico-filologico. Nei primi mesi invernali del 2013 mi sono recata a Jena per consultare gli appunti autografi di P. Wessner: fogliettini, cumuli di note, raccolta delle recensioni che seguirono la sua edizione, un vero e proprio lessico donatiano compilato sfruttando il metodo delle agende telefoniche cartacee, una cursoria collazione del Chisianus H VII 240 (K). Quest’ultima mi colpì subito perché annotata con un colore molto vivace, forse rosso, lucente nonostante il numero di anni che ci separano dai primi del ’900. A Wessner in effetti capitò quanto un editore mai si augurerebbe: la scoperta di un manoscritto di evidente qualità testuale (il Chisianus, per l’appunto), a pochi anni di distanza dalla pubblicazione della sua edizione. Il testo di Donato fu però così ben confezionato dall’editore tedesco, che la notizia non scalfì i risultati raggiunti. La prima volta che mi fu citato K correva l’anno 2009/2010 e mi trovavo a Pisa, nel dipartimento di Filologia latina di via Galvani 1: la voce apparteneva al professore R. Ferri (lui soleva chiamarlo amichevolmente il “Chigi”). Un nuovo testimone può far riaprire un processo, un nuovo manoscritto può essere ragion necessaria e sufficiente per una nuova edizione, soprattutto se provatamente1 di valore: i tempi erano maturi, affermava con tono incoraggiante il prof. Ferri, per migliorare la teubneriana del 1902. L’avvio delle mie ricerche fu però un po’ più largo: all’inizio Donato ed i suoi codici mi interessavano per lo stato di trasmissione dei Graeca nei manoscritti

|| 1 Mi riferisco agli studi di ZWIERLEIN (1970) e M. D. REEVE (1978, 1979). https://doi.org/10.1515/9783110584653-201

VI | Prefazione e ringraziamenti

medievali ed umanistici, solo successivamente maturò l’idea dell’edizione. E probabilmente sarebbe rimasta solo un’idea senza i preziosi consigli di R. Ferri; la sapienza enciclopedica e la non quantificabile disponibilità di E. Stagni; la caparbietà, il rigore scientifico, la materna supervisione di G. Ammannati; l’esperienza esegetica, lo sguardo critico nonché la paziente e faticosa opera di revisione di R. Jakobi. A tutti loro si indirizza un profondo senso di gratitudine. Il dipartimento, dove ho trovato ospitalità in questi ultimi anni, è l’Institut für Altertumswissenschaften di Halle (Wittenberg): qui, nonostante il suono barbaro del mio tedesco, mi è stata data la possibilità di discutere molte conclusioni, qui ho curato soprattutto la constitutio textus. Insieme con R. Jakobi ringrazio quindi tutti i partecipanti del Colloquium Latinum, in particolare M. Beck. Per la pazienza e l’accogliente sorriso sento inoltre doveroso ringraziare la bibliotecaria L. Zimmermann. Per la revisione e l’attenta rilettura del testo ringrazio ancora una volta R. Jakobi ed E. Stagni: insostituibili. Agli editori della collana Untersuchungen zur antiken Literatur und Geschichte sono grata non solo per aver accettato questo contributo ma anche per le molte proposte di correzione; a M. Deufert sono particolarmente riconoscente per aver seguito lo sviluppo di questo lavoro nelle sue diverse fasi e per averne letto e riletto i risultati. Con M. D. Reeve ho avuto l’onore di dialogare prima attraverso i suoi fondamentali articoli, poi direttamente: avere ricevuto la sua approvazione ai primi risultati delle mie ricerche è stato il motivo per non demordere. Grazie anche a P. Brown per gli spunti di riflessione e la segnalazione delle sviste editoriali. Grazie ancora agli amici e colleghi della Scuola Normale (soprattutto A. Zago, A. Gullo. I. Morresi, C. Poloni, T. Ricchieri e S. Poletti); grazie ancora a L. Barchiesi (SNS) e P. Spinesi (UNIPI) per la costante disponibilità. Per la squisita gentilezza vorrei menzionare K. Legutke e F. Ruppenstein (De Gruyter); M. H. Holwerda (Leiden), M. A. Trofaier (Archiv des Schottenstifts), R. Luongo (Biblioteca Vaticana). Il corso di Letteratura latina del prof. G. B. Conte resterà uno dei momenti più belli della mia formazione degli anni pisani. I Prolegomena sono dedicati alla mia famiglia: alla mia carissima mamma, al mio infaticabile papà, al mio simpaticissimo fratello. Senza di loro sarebbe stato difficile. Pisa/Halle Dicembre 2017

Indice Sigle dei manoscritti | XI Sigle delle opere di consultazione generale  | XIII  1  1.1  1.2  1.3 

I testimoni. Descrizione e bibliografia | 1  Testimoni manoscritti del DCA | 1  Codices deperditi | 12  Edizioni antiche | 13 

Parte I: Studio della tradizione manoscritta   2  2.1  2.2  2.3  2.4  2.4.1  2.5  2.5.1  2.6 

Il Commentum di Elio Donato a Terenzio: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo | 17  Sulle tracce del DC | 17  Alter ab illo. Qualche osservazione sul Commento originario | 19  Compilator quidam. La formazione dell’archetipo | 21  La datazione dell’archetipo | 22  Testimoni extra-archetipali? | 23  L’archetipo: qualche fenomeno paleografico notevole | 25  Stringhe di onciale? Il Parisinus lat. 7920 (A) | 26  Conclusioni | 31 

3  3.1  3.1.1 

Studi e stemmi | 33  Acquisizioni bibliografiche presupposte | 33  Configurazioni stemmatiche | 34 

4  4.1  4.2  4.3 

L’archetipo ω ed i suoi testimoni | 36  Il quadro testimoniale del DCA | 36  Errori comuni: l’archetipo ω | 38  L’ordine delle commedie | 39 

5  5.1  5.1.1  5.1.2  5.2  5.2.1 

Il Carnotensis (Γ) | 41  Tracce storiche e testimoni | 41  Sulle tracce di un codex deperditus | 41  I testimoni | 43  Configurazioni stemmatiche | 44  Praef. – An. 27.3. Errori comuni ad AP: Le tracce di Γ | 44 

VIII | Indice

5.2.2  5.2.3  5.2.3.1 6  6.1  6.1.1  6.1.2  6.1.3  6.1.3.1 6.1.3.2 6.1.4  6.1.5  6.2  6.2.1  6.2.2  6.2.2.1 6.2.2.2 6.2.2.3 6.2.2.4 6.2.2.5 6.2.2.6 6.2.3  6.2.3.1 6.2.3.2 6.2.3.3 6.3  6.3.1  6.3.2  6.4  6.4.1  6.5  6.5.1  6.5.1.1 6.5.1.2 6.5.2  6.5.2.1 6.5.2.2

An. 28.1 – An. 300. Errori comuni a AKP: le evidenze di Γ | 44  Γ dopo An. 301. Il codice B | 46 Dublette: B e la doppia redazione di An. 663.3-4 ed An. 666 | 48  Il Maguntinus (Σ) | 52  Scoperta e circolazione | 52  La dubbia circolazione del DC prima della riscoperta del Maguntinus | 52  La scoperta a Magonza | 54  Habebis originale | 55 La lettera di Pier Candido Decembrio | 57 Pizolpasso a Traversari: la difficile opera di trascrizione | 62  Per l’individuazione dei discendenti del Maguntinus | 66  L’alius Donatus: Decembrio e la famiglia Θ | 68  I testimoni ed il testo | 70  Quadro generale dei rappresentanti di Σ | 70  Θ: caratteristische del testo e rapporti stemmatici | 71 Per l’esistenza del capostipite comune | 72 Stratificazioni testuali in C. Esempi di correzioni | 73 Archetipo in movimento: ipotesi storico–filologica | 74 Due copie, un antigrafo: il valore testimoniale di C | 77 I rapporti interni al gruppo Θ | 77 Stemma finale | 79  Il gruppo δ | 80 Evidenze testuali | 80 Sottogruppi di δ. L’esistenza di δ1 | 81 L’indipendenza di δ1 da Θ | 83  K(V) testimone maguntino | 84  L’indipendenza di K (V) da Θ | 85  ΘV e δ1: tre rami indipendenti di δ | 86  L’estratto ambrosiano. La posizione stemmatica di S | 86  Il capostipite comune di Σ ed S. L’esistenza di  | 87  Il gruppo Λ | 89  Caratteristiche generali | 89 Testimoni infedeli. Ope ingenii | 89 Testimoni infedeli. Ope codicum | 92  La macrofamiglia ε | 93 Caratteristiche generali | 93 Elenco delle evidenze testuali | 94

Indice | IX

6.5.2.3 6.5.2.4 6.5.2.5 6.5.2.6 6.5.3 6.5.3.1 6.5.3.1.1 6.5.3.1.2 6.5.3.1.3 6.5.3.1.4 6.5.3.1.5 6.5.3.1.6 6.5.3.1.7 6.5.3.1.8 6.5.3.1.9 6.5.4  6.5.4.1 6.5.4.2 6.5.4.3 6.5.4.4 6.5.4.5 6.5.4.6 6.5.4.7 6.5.5  6.5.5.1 6.5.2.2 6.5.6  6.5.6.1 6.5.6.2 6.5.6.3 6.5.6.4 6.5.6.5 6.5.7  6.5.7.1 6.5.7.2 6.5.7.3 6.5.7.4 6.5.7.5 6.5.7.6

Discussione delle evidenze testuali | 95 Lo stacco di M da ε | 98 Incremento degli errori congiuntivi D β | 98 Da An. 580.3 in poi | 99  I sottogruppi di ε | 99 I testimoni α: costanti e variabili  | 99  L’esistenza del sottogruppo α: M2hft | 99 Il rapporto fra M2 e hft: l’esistenza di β | 100 Ricostruzione del contesto storico | 100 Evoluzione stemmatica di α: i codici qs e p | 101 La qualità testuale di α nel DCA | 103 Dinamiche dei rapporti dei testimoni β | 104 Il codice K ed il gruppo α/β| 106 L’esistenza di ε ed α nella sezione 1| 109 Il rapporto fra ε ed α | 110 Il gruppo μ | 112 Tabella sintetica dei cambi di affiliazione | 112 L’esistenza di un capostipite comune| 113 Da Θ a Λ: primo cambio di affiliazione | 113 Per uno stemma interno a μ| 115 Il passaggio a Λ e la formazione del gruppo ν| 118 Un’evidenza macroscopica ma problematica| 118 La scomparsa di ν ed il cambio di O| 120  Il capostipite comune QJ | 122 Evidenze testuali | 122 Caratteristiche specifiche di Q | 123  I codici Λ di tipo non ε | 123 Un non gruppo | 123 Tracce della presenza di Δ? | 125 Anello comune a GH | 126 Appendice. La contaminazione di H | 126 Anello comune a NY | 129 Il codice Escorial E.III 3 | 131 Il quadro dei cambi di affiliazione | 131 La prima sezione| 133 Il codice di contaminazione: individuazione| 134 Il codice di contaminazione. Configurazione stemmatica| 134 La seconda sezione: cambio di modello?| 137 La terza sezione| 140

X | Indice

6.5.7.7

Conclusioni | 140

7  La tradizione indiretta | 141  7.1  Introduzione | 141  7.1.1  La conoscenza del del DC nel periodo tardoantico | 141  7.1.2  La conoscenza del DC nel periodo medioevale | 143  7.2  Epitoma Donati in Terentium | 145  7.2.1  La fonte di Curulus: discussione delle evidenze testuali | 146  7.3  Donato ai margini di Terenzio | 147  7.3.1  Parisinus latinus 16235 | 148  7.3.2  Il codex Leidensis B. P. L. 191 BF (344) | 149 7.3.2.1 Le mani | 149 7.3.2.2 Il testo di Donato di m1: qualche ipotesi stemmatica | 151 7.3.2.3 Trascrizione degli scoli di m1: casi testuali notevoli| 151 7.3.2.4 Discussione delle evidenze| 153 7.3.2.5 Conclusioni | 154 Il codice Scot. 212 | 155 7.3.3  7.3.3.1 Osservazioni generali | 155 7.3.3.2 Trascrizione | 156 7.3.3.3 Discussione delle evidenze testuali | 157  7.3.4  Un accessus, tre manoscritti | 158  7.3.5  Palatinus 1620 | 160  8  8.1  8.2  8.2.1  8.3  8.4  8.4.1  8.4.2  8.4.3  8.5  8.5.1  8.5.2 

Le antiche edizioni | 161  Introduzione | 161  L’editio princeps | 161  La fonte manoscritta di e2 | 161  L’editio Calphurni | 162  Editio Stephani | 163  Il uetus exemplar. Per un tentativo di identificazione | 165  Elenco e discussione delle innovazioni B STEPHANVS | 166  Conclusioni | 168  Lindenbrogius e Gronovius | 169  Annotazioni gronoviane | 171  Il greco nelle edizioni antiche | 180 

9  9.1  9.2 

La trasmissione del greco | 181  Premessa | 181  Graecum est: corrumpitur! | 182 

Indice | XI

9.3  9.3.1  9.3.2  9.3.3  9.3.4  9.3.5  9.3.6 

Distribuzione e tradizione del greco nel Maguntinus | 184  I graeca testimoniati da ϴ | 184  Il greco nei testimoni Λ | 187  Il greco nel codice G | 189  Il greco di M4 | 192  Terminologia greca | 193  Problematizzazione: analisi filologico testuale | 194 

Parte II: Commento filologico-testuale   10  10.1  10.2  10.3  10.4  10.5  10.6 

Commento filologico-testuale | 201  Prefazione e Prologo | 201  Andria, atto primo | 214  Andria, Atto II | 280  Andria, atto III | 316  Andria, atto IV | 353  Andria, atto V | 377 

Addenda et corrigenda: ed. Cioffi 2017 | 402  Bibliografia | 403  Indici | 413

Sigle dei manoscritti Per l’edizione del Commentum all’Andria sono state collazionate e studiate circa 35 fonti manoscritte e 4 edizioni antiche. Per rendere più agevole la consultazione di questo contributo, propongo di seguito un sintetico specchietto di sigle e segnature, ordinato su mera base alfabetica. Le edizioni sono invece ordinate cronologicamente. Testimoni propriamente donatiani A a B C D F f G h J K M m N n O p Q q ra S s T t U u V X Y

Parisinus Lat. 7920, XI sec. Florentinus Laurentianus 53.9, XV sec. Vaticanus Regin. Lat. 1595, XIII sec. Oxoniensis Bodleianus Canon. Class. Lat. 95, XV sec. Dresdensis ms. D c 132, XV sec. Florentinus Marucellianus C 224, XV sec. Ferrariensis Ariost. II 173 (N. A. 6), XV sec. Vaticanus Regin. Lat. 1673, XV sec. Matritensis II 75 (2 B 4), XV/XVI sec. Londiniensis Burney 171 (plut. 162 D), XV sec. Vaticanus Chisianus H VII 240, XV sec. Caesenas Malatestianus plut. S. XXII. 5, XV3/4 sec. Florentinus Laurentianus 53.8, XV sec. Neapolitanus V B 17 (93; 411), XV sec. Vaticanus Ottobon. lat. 2070, XV sec. Oxoniensis Lincoln. Lat. 45, XV sec. Vaticanus Palatinus Lat. 1629 (a. 1474) Romanus Corsin. 43 E 28, XV sec. Mediolanensis Ambrosianus T 114 sup., XV sec. Mediolanensis Ambrosianus A 144 sup., XV sec. Mediolanensis Ambrosianus L 53 sup., XV sec. Mediolanensis Ambrosianus D 70 sup., XV sec. Vaticanus Lat. 2905, XV sec. Vaticanus Ottobon. Lat. 2023, XV sec. Escorialensis E. III 3, XV sec. Vaticanus Urbinas Lat. 354, XV sec. Vaticanus Regin. Lat. 1496, XV sec. Vaticanus Palat. Lat. 1630, XV sec. Romanus Corsin. 43 G 23, XV sec.

XIV | Sigle dei manoscritti

Z z

Salmanticensis 78, XV sec. Vaticanus Lat. 1513, XV sec.

Testimoni terenziani con annotazioni donatiane H Leid. Par. P cod. Vict. (D) Scot. 212

Londiniensis Add. 11906, XV sec. Leidensis B. P. L. 191 BF, XV sec. Parisinus lat. 16235, X sec. Parisinus lat. 7899, X sec. Victorianus, Laur. XXXVIII 24, X sec. Scotensis-Vindobonensis 212, XV sec.

Antiche edizioni e2 Calph. Steph. Lind.

Roma 1472 Treviso 1477 Parigi 15291 (15412) Francoforte 1623

Sigle delle opere di consultazione generale Con la sigla DCA si indica genericamente il Commento di Elio Donato all’Andria, mentre con DC si abbrevia l’opera intera; nella seconda parte del libro il nome di PAUL WESSNER è citato con la sola iniziale W. Gli autori latini e le rispettive opere sono menzionati preferibilmente secondo il ThlL, mentre per il greco si sono uniformati alle sigle di LSJ. CAT. VAT.

DBI GLK HdA

HLL

HOFM.–SZ.

FPL4 IGI K.-G. K.-St. LT MlatWb MLLM

Les manuscripts classiques latins de la Bibliothèque Vaticane / Catalogue établi par Elisabeth Pellegrin [et al.], Paris, voll. 1–32, 1975–2010 Dizionario bibliografico degli italiani (http://www.treccani.it/ biografie/). Grammatici latini, H. Keil (ed.), 8 voll., Leipzig 1855–1880 Die römische Literatur in der Zeit der Monarchie bis auf Hadrian, M. Schanz – C. Hosius (edd.), München 1935 (Handbuch der Altertumswissenschaft VIII.2) Handbuch der Lateinischen Literatur der Antike, R. Herzog – P. L. Schmidt (edd.), voll. 1.4.5, München 2002, 1997, 1989 (Handbuch der Altertumswissenschaft VIII.1/4/5) Lateinische Syntax und Stilistik, J. B. Hofmann – A. Szantyr (edd.), München 1965 (Handbuch der Altertumswissenschaft II. 2.2) Fragmenta poetarum Latinorum, J. Blänsdorf (ed.), Berlin–New York 2014 Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia, voll. 1–6, Roma 1943–1981 Ausführliche Grammatik der Griechischen Sprache, R. Kühner – B. Gerth (Hrgg.), 2 voll., Hannover 18983 Ausführliche Grammatik der Lateinischen Sprache, R. Kühner – C. Stegmann (+, Hrgg.), 2 voll., Darmstadt 1997 Lexicon Terentianum, P. McGlynn (ed.), 2 voll., London–Glasgow 1963–1967 Mittellateinisches Wörterbuch bis zum ausgehenden 13. Jahrhundert, voll. 1–, München 1959– Mediae Latinitatis Lexicon Minus, J. F. Niermeyer – C. den Kieft (+, Hrgg.), voll. 2, Leiden 20022

XVI | Sigle delle opere di consultazione generale

MUNK OLSEN

NHLL LEUM. LThK LSJ NP OLD RE T&T ThlL TLG TRF

L’étude des auteurs classiques latins aux XIe et XIIe siècles, voll. I–IV: Catalogue des manuscrits classiques latins copiés du IXe au XIIe siècle, B. Munk Olsen (ed.), Paris 1982–2009 Nouvelle histoire de la littérature latine. 4, 5 F. Heim (trad. di HLL aggiornata), L’âge de transition 117–284, Turnhout 2000 Lateinische Laut- und Formenlehre, M. Leumann (Hrg.), München 1976 (Handbuch der Altertumwissenschaft II. 2.1) Lexicon für Theologie und Kirche, 14 voll., Freiburg2, 1957– 1986 A Greek-English Lexicon, H. G. Liddell – R. Scott (+, edd.), revised and augmented edition, Oxford 1996 Die Neue Pauly Enzyklopädie der Antike, H. Cancik – H. Schneider (+, Hrgg.), Stuttgart–Weimar 1997–2003 Oxford Latin Dictionary, P. G. W. Glare (ed.), Oxford 2002 Realencyclopädie der Classischen Altertumwissenschaft, A. F. Pauly – G. Wissowa (+, Hrgg.), Stuttgart 1893–1980 Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, L. Reynolds (ed.), Oxford 1983 Thesaurus Linguae Latinae, Bd. 1–, Leipzig u. a. 1900– Thesaurus Linguae Graecae, University of California/Irvine (www.tlg.uci.edu) Tragicorum Romanorum Fragmenta, vol. I, Schauer M. (ed.), Göttingen 2012

1 I testimoni. Descrizione e bibliografia Quella che segue è una descrizione sommaria ed essenziale dei testimoni usati e/o studiati per l’edizione del DCA, corredata da una bibliografia selettiva. Punto di riferimento per descrizioni sommarie e bibliografia, aggiornata quest’ultima fino al 1979, è CUPAIUOLO 1992 (a cui si rinvia sempre tranne che per il codice B). SOTTILI (1988) 315–316 offre la lista completa delle sigle dei manoscritti conservati (mancano S, P, Leid. e Scot. 212, che non contengono il brano del DCA da lui esaminato, cf. 317–318), inclusi i descripti. Si citerà in bibliografia solo per i singoli codici che menziona al di fuori della lista e dell’apparato al saggio d’edizione.

1.1 Testimoni manoscritti del DCA A

Codex Parisinus Lat. 7920, Bibliothèque nationale de France, s. XI Membr.; f. 1r–2u : uita Terentii; f. 2u–6r: de comoedia; f. 6u–51r: commentum Andriae; f. 51r– 55u: commentum Adelphorum (fino a 65.2). Explicit: (f. 51r) apli (sic!) donati uc oratoris urbis romae commentum terentii andriae explicit.

Vi operano più mani: A trascrive il testo, correggendo inter scribendum; con A2 si indica nell’edizione la mano più recente, del XVI sec., probabilmente da identificare con quella di Pierre Daniel d’Orléans; A3, coeva ad A, riempie le righe 24–27 del f. 53r; A4, del XVI–XVII sec., identificata da WESSNER con quella di Jacques– Auguste de Thou, aggiunge principalmente indicazioni paratestuali, soprattutto per le prime 13 pagine. DZIATZKO (1876) 234–243; DZIATZKO (1879) 675–676, 678–690, 695; SABBADINI (1894) 43, 59, 85, 86; WESSNER (1897) 69–70, 72, 74, 76, 81, 86, 94–96; WESSNER (1902) IV–V, VII–X, XVI, XXIV–XXV, XXXIII, XXXV–XXXVI, XL–XLV, XLVIII–XLIX; WARREN (1906) 33–36, 38; KAUER (1906) 15, 17; WESSNER (1906) 766, 768: BEESON (1922) 284; ZWIERLEIN (1970) 102, 114–115, 125– 126, 133–136, 141, 144, 150–151; REEVE (1978) 609–613; REEVE (1979) 312, 314, 318–320, 323– 325; REEVE–ROUSE (1978) 239–40, 248; T&T 153, 155–6; VILLA (1984) 81; CUPAIUOLO (1992) 115 (s.v. anche 7, 103, 105, 120, 125–127, 131, 138–146, 148, 150, 152–153); HLL 5: 157–158; MUNK OLSEN IV 2009, 107; CIOFFI (2012) 145–147, 150–154, 161–163, 165–166, 168, 177; CIOFFI (2013) 103–104, 108–127; CIOFFI (2014) 113–136; CIOFFI (2015) 347–348; CIOFFI (2017) 4–5 ; ed. CIOFFI XII, XVIII, XX, XXIII. Il manoscritto ed altra bibliografia è disponibile online: http://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc671788

https://doi.org/10.1515/9783110584653-001

2 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

a

Codex Florentinus Laurentianus 53.9, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze, s. XV Membr.; ff. 217; f. 1r–2r: uita Terentii; 2r–4r: de fabula; 4r–5u: de comoedia; 5u–127u: expositio in Terentii comoedias Subscr.: (f. 217u) Liber Petri de Medicis Cos. f. SABBADINI (1894) 48–49; WESSNER (1897) 72, 83, 86–93, 95; ed. WESSNER XXII–XXIII, XXVI– XXX, XXXIII; SABBADINI (1903) 187, passim; BEESON (1922) 302–303, 305; ZWIERLEIN (1970) 104; REEVE (1978) 611, 617–618; REEVE (1979) 319–320; CUPAIUOLO (1992) 109 (s.v. anche 130, 145, 147, 150); CIOFFI (2012) 146, 175–176; CIOFFI (2014) 132; ed. CIOFFI XIII, XVI, XXI. Il manoscritto ed altra bibliografia è disponibile online: http://opac.bml.firenze.sbn.it/Bibliografia.htm?idlist=2&record=670712449899

B

Codex Vaticanus Regin. Latinus 1595, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XIII Membr., codice composito; per la parte donatiana: ff. 1r–20u An. 320–Eun. 454.2; Hec. 430.1–Hec. 774.3. Explicit: (f. 9r): CommE(N)tu(m) tetu (in SETV corr.) andie expllicit SABBADINI (1894) 3, 16, 43–44, 63, 66–68, 71–73, 75, 84–87, passim; WESSNER (1897) 72, 81, 94–96; ed. WESSNER IX–X, XVI, XXIV–XXV, XXXIII, XL–XLIV. XLVIII–XLIX; LEJAY (1903) 169–171; WARREN (1906) 35–42; WESSNER (1906) 766–768; BEESON (1922) 288–89; ZWIERLEIN (1970) 102–103, 115, 125–128, 133–136, 144, 150–152; REEVE (1978) 609–614; REEVE–ROUSE (1978) 239–40; REEVE (1979) 318–320; T&T 153–6; HLL 5: 158; BLUNDELL (1987) 52–55; SOTTILI (1988) 316; CUPAIUOLO (1992) 139; CAT. VAT. 2.1.316–17; CIOFFI (2012) 145, 147, 153–154; CIOFFI (2013) 103; CIOFFI (2014) passim; CIOFFI (2015) 356–357, 361, 363–366, 369, 371–375; CIOFFI (2017) 4–5 ; ed. CIOFFI XII, XX. Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Reg.lat.1595

C

Codex Oxoniensis Bodleianus Canon. Class. Lat. 95, Bodleian Library, s. XV Cart., ff. 168; difetta del primo foglio. La trascrizione è curata da tre diverse mani, rispettivamente: ff. 1r–106u , 107r–144u, 145r–168u. La scrittura è divisa in colonne fino al f. 96. Titul.: Manca nell’Andria; annotazioni di incipit ed explicit non sistematiche per le altre commedie.

In corrispondenza dei ff. 138u–139r si trova un’epistola di Pier Candido Decembrio, indirizzata a Francesco Pizolpasso; lacuna nella zona Phorm. 234–249.2. Per l’Andria, la prima mano è probabilmente responsabile della prima stratificazione di correzioni ed annotazioni variantistiche; oltre questa se ne individuano almeno altre due.

Testimoni manoscritti del DCA | 3

DZIATZKO (1879) 676–693, 695–696; WESSNER (1897) 70–72, 74–81, 86, 90–92, 94–97; ed. WESSNER V, XIII–XV, XVII, XIX, XXV–XXX, XXXIII, XL–XLIV, XLVIII–XLIX; WARREN (1906) 35–36; WESSNER (1906) 766–767; SABBADINI (1894) 46, 52, 63, 66–70, 73–75, 86–87, 89, passim; SABBADINI (1903) 197–200; LEJAY (1903) 170–171; BEESON (1922) 285, 291–302, 305; ZWIERLEIN (1970) 25, 104–112, 116–118, 125–136, 142–145, 150–152; REEVE–ROUSE (1978) 240, 247 n. 31; REEVE (1978) 609–615, 617–618; REEVE (1979) 312, 315–320, 323; T&T 154–5; HLL 5, 158; BLUNDELL (1987) 53, 56–57; REEVE (1991) 123 (rist. 233); CUPAIUOLO (1992) 114 (s. v. anche 7, 125–126, 128–129, 131, 144–148, 150, 152); SOTTILI (1988) 314, 316, 318; CIOFFI (2012) 146– 147, 177; CIOFFI (2014) 113–114; CIOFFI (2015) 350; CIOFFI (2017), 4; ed. CIOFFI XII–XV, XXII

D

Codex Dresdensis, ms. D c 132, Sächsische Landesbibliothek, s. XV Membr.–cart., 126ff.; vi lavorano tre mani. Titul.: (f.1r) AELIVS DONATVS DE P˙ TERENTII VITA DEQ(UE) TRAGOEDIA ET COMOEDIA; (f.4r) AEL˙DON˙COMMENT˙QVINQUE˙TERENT˙COMMED. DZIATZKO (1876) 234–243; DZIATZKO (1879) 678–690, 695; SABBADINI (1894) 56, 63, 66; WESSNER (1897) 70, 75, 77, 96–98; ed. WESSNER III–IV, XVII, XIX, XXIII, XXVIII–XXIX, XXXIII, XLIII; WESSNER (1906) 766; ZWIERLEIN (1970) 133, 149, 151–152; REEVE (1978) 610–611, 613–618; REEVE (1979) 319–320, 324; CUPAIUOLO (1992) 107–108 (s.v. anche 16, 131, 144–145, 150); ed. CIOFFI XVI

F

Codex Florentinus ms. C 224, Biblioteca Marucelliana, s. XV Cart., ff. 205 (204r–205u sono bianchi); ff. 8u–58u: Praefatio+Commentum all’Andria.

Prima del Phormio si trova l’epistola di Pier Candido Decembrio a Pizolpasso; lacuna a Phorm. 234–249.2. Vi opera un’unica mano; due secondo SABBADINI (la seconda opererebbe a partire dal f.146r). WESSNER (1897) 72, 74–78, 81, 84, 92, 94–97; ed. WESSNER XV, XVII, XIX, XXV–XXIX, XXXIII, XL, XLII–XLIV; SABBADINI (1903) 187–199; LEJAY (1903) 170; BEESON (1922) 292–293, 300–301. 305; ZWIERLEIN (1970) 104–105, 130–132, 135, 144, 150–152; REEVE (1978) 609–611, 613, 615; REEVE (1979) 315–320, 323; CUPAIUOLO (1992) 110 (s.v. anche 7, 125–126, 128–129, 131, 145– 148, 150, 152); SOTTILI (1988) 314, 316, 318; CIOFFI (2012) 146–147, 177; CIOFFI (2015) 350; ed. CIOFFI XII–XV

f

Codex Ferrariensis Ariost. II 173 (N. A. 6), Biblioteca Comunale Ariostea, s. XV (< 1477) Cart., ff. 294; vacc. 68u, 139, 201, 251u, 294u. Praefatio e Commentum ad Andriam occupano i ff. 7u–68r. Titul.: Donati grammatici in expositionem Terenti poetae comici comentarii elegantissimi incipiunt Subscr.: A Ludouico Carbone in diamantino recognitus 1477 mense Nouembri.

4 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

Il testo è scritto da un’unica mano; sporadicamente si possono riconoscere gli interventi a testo di Carbone, soprattutto per l’integrazione del greco: f. 12r, 18r, 56r, 61u. SABBADINI (1894) 59; WESSNER (1897) 72; ed. WESSNER XVIII–XIX, XXXIII; REEVE (1979) 311, 319–320; VILLA (1984) 219; CUPAIUOLO (1992) 108–109 (s.v. anche 16, 131–132, 134–135, 145, 150); CIOFFI (2012) 146, 150–157, 159–173, 178–179; ed. CIOFFI XV–XVI Per la scheda del manoscritto si veda: https://manus.iccu.sbn.it//opac_SchedaScheda.php?ID=51396

G

Codex Vaticanus Regin. Lat. 1673, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart., 215ff.; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 6u–54r. Titul. (posticcio, cf. ed. Calph.): Donati grammatici in sex P. Terentii Afri Comoedias examinata interpretatio.

I graeca sono suppliti da due mani diverse da chi trascrisse il testo latino; la fonte del greco per l’Andria è molto buona. SABBADINI (1894) 56–57, 63, 66, 80 e passim; WESSNER (1897) 97–98; ed. WESSNER XXIII, XLIV; T&T 155; REEVE (1979) 315–318, 320; BLUNDELL (1987) 54; CUPAIUOLO (1992) 118–119 (s.v. anche 16, 131–132, 134–135, 150); CAT. VAT. 2.1.356–7; ed. CIOFFI XVI, XX. Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Reg.lat.1673

H

Codex Londiniensis Add. 11906, British Library, s. XV Membr., ff.85; An. ff. 5r–19u

Il Comm. di Don. non è continuo ma è disposto in interlinea ed ai margini. DZIATZKO (1879) 696; SABBADINI (1894) 58; WESSNER (1897) 98; ed. WESSNER XXIV; REEVE (1978) 610, 616–617; REEVE (1979) 311, 315–318, 320; REEVE–ROUSE (1978) 247, n. 32; VILLA (1984) 269–270, 348; CUPAIUOLO (1992) 111 (s.v. anche 131–132, 134–135, 150); ed. CIOFFI XVI

h

Codex Matritensis II 75 (2 B 4), Biblioteca de Palacio, s. XV–XVI Cart., ff. 251; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 8u–56u. Titul.: (f. 1r) Aelii DonatII grammatici clarissimi in Publi Terentii comoedias examinata interpretatio. Lege feliciter. ed. WESSNER XXIV, XXXV; REEVE (1979) 311, 319–320; CUPAIUOLO (1992) 112 (s.v. anche 16, 131–132, 134–135, 150); CIOFFI (2012) 146, 150–157, 159–173, 178; ed. CIOFFI XV–XVI. Il manoscritto è disponibile anche online:

Testimoni manoscritti del DCA | 5

http://fotos.patrimonionacional.es/biblioteca/ibis/pmi/II_00075/index.html

J

Codex Londiniensis Burney 171 (plut. 162 D), British Museum, s. XV Cart., ff. 205; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 6r–46u. DZIATZKO (1879) 696; SABBADINI (1894) 58; WESSNER (1897) 98; ed. WESSNER XXIV; REEVE (1978) 611, 616–617; REEVE (1979) 311, 315–320; CUPAIUOLO (1992) 111 (s.v. anche 7, 125–126, 128–131, 134, 150, 152); CIOFFI (2012) 162–163; ed. CIOFFI XVI–XVIII

K

Codex Vaticanus Chisianus H VII 240, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart., ff. 143 + 1. Intorno al f. 6 è caduto un bifoglio, causando fra l’altro la perdita della praefatio e del prologus (fino ad An. 25.1). Prologus 25.1 + Commentum ad Andriam: 7r–33u.

La prima mano, responsabile della trascrizione del Commento all’Andria, è stata identificata da REEVE (1979) 313–314 con quella di Jacopo Ammannati. WARREN (1906) 31, 33–42; KAUER (1906) 14–15, 17; WESSNER (1906) 765–768; ZWIERLEIN (1970) passim; REEVE (1978) 609–612, 614, 617; REEVE–ROUSE (1978) 240; REEVE (1979) 310–321, 323, 325; T&T 155–6; HLL 5, 157–158; BLUNDELL (1987) 51, 53, 55–56; REEVE (1989) 23, 28–29 (rist. 2011: 163, 158); CUPAIUOLO (1992) 117 (s. v. anche 7, 125–128, 131, 135, 142, 147–148, 150, 152); Cat. Vat. 1.376–77; CIOFFI (2012) 146–147, 150–154, 161, 163, 165–166, 168, 177; CIOFFI (2013) 103–104, 108–127; CIOFFI (2014) passim; CIOFFI (2015), passim; CIOFFI (2017) 4–5; ed. CIOFFI XII, XV–XVII, XXIII. Il manoscritto si trova online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Chig.H.VII.240

Leid. Codex Leidensis B. P. L. 191 BF (344), Bibliotheek der Rijksuniversiteit, s. XV. Cart.–membr., ff. 157. Si tratta di un manoscritto terenziano, contenente varie annotazioni tratte da Elio Donato, a vario grado rielaborate. REEVE (1979) 322–323; VILLA (1984) 247, 270, 343–44; REEVE (1987) 5 e n. 2 (rist. 2011, 223); CUPAIUOLO (1992) 111 (s.v. anche 105, 127, 150, 152); ed. CIOFFI XXI

M Codex Caesenas Malatestianus plut. S. XXII. 5, Biblioteca Malatestiana, s. XV Membr., ff. 164 ; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 5u–39u. SABBADINI (1894) 19, 50–53, 82; WESSNER (1897) 72, 83–84, 96; ed. WESSNER XXI, XXVIII– XXIX, XXXIII, XLIV; SABBADINI (1903) 197; REEVE (1978) 613; REEVE (1979) 319–322; REEVE– ROUSE (1978) 240; BLUNDELL (1987) 54, 58–59; T&T 155; CUPAIUOLO (1992) 107 (s. v. anche 16, 131–132, 135, 145, 150); CIOFFI (2012) passim ; ed. CIOFFI XV–XVI, XX. Il manoscritto e altra bibliografia è accessibile online:

6 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

http://catalogoaperto.malatestiana.it/ricerca/?oldform=mostra_codice.jsp?CODICE_ID=281

m Codex Florentinus Laurentianus plut. 53.8, Biblioteca Medicea Laurenziana, s. XV (1459) Cart., ff. 119r; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 3u–32u. Subscr.: mathias lupius plebanus areolensis scripsit pro bibliotheca sua geminianensi m° quadringentesimo quinquagesimo nono die uii aprelis SABBADINI (1894) 57–58; WESSNER (1897) 83, 91; ed. WESSNER XXII–XXIII, XXVI–XXIX; ZWIER(1970) 104; REEVE (1979) 319–320; CUPAIUOLO (1992) 109 (s.v. anche 130, 145, 150, 152); CIOFFI (2012) 146, 176; CIOFFI (2014) 132; ed. CIOFFI XIII, XVI Il manoscritto è disponibile online: http://opac.bml.firenze.sbn.it/Bibliografia.htm?idlist=2&record=670612449889 LEIN

N

Codex Neapolitanus V B 17 (93; 411), Biblioteca Nazionale, s. XV Membr., ff. 137; Praefatio–Commentum ad Andriam: ff. 4r–32r. SABBADINI (1894) 45, 54–55, 65–67, 70–72, passim; WESSNER (1897) 72, 83–85, 92, 96; ed. WESSNER XI, XVII, XXVII–XXX, XXXIII; BEESON (1922) 303; REEVE (1978) 610–611, 613; REEVE (1979) 315, 319–320, 322; GERMANO (1987) LXIV–LXV; CUPAIUOLO (1992) 114 (s.v. anche 7, 131– 132, 145, 150); ed. CIOFFI XVI

n

Codex Vaticanus Ottobon. lat. 2070, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart., ff. 120; Praefatio–Commentum ad Andriam: ff. 3r–26r. SABBADINI (1894) 58; WESSNER (1897) 83; ed. WESSNER XXIII, XXVI–XXIX, XXXIII; ZWIERLEIN (1970) 104; REEVE (1979) 319–320; CUPAIUOLO (1992) 117–118 (s.v. anche 130, 145, 150); Cat. Vat. 1.799–80; CIOFFI (2012) 146, 176; CIOFFI (2014) 132; ed. CIOFFI XIII, XVI Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Ott.lat.2070

O

Codex Oxoniensis Lincoln. Lat. 45, Lincoln College, s. XV Membr., ff. 217; Praefatio–Commentum ad Andriam: ff. 6u–55r. Inscr.: uespasianus librarius florentinus fecit scribi florentiae. Titul.: claudii donati honoratissimi gra(m)matici prefatio super terentuo et primo in andria incipit feliciter.

Notevole l’estesa interpolazione alla fine del commento al Prologus dell’Andria (ff. 9u–10u): Sunt qui ... redeamus ad Donati commentum, che trova riscontro anche nei codici a, m ed n.

Testimoni manoscritti del DCA | 7

DZIATZKO (1879) 663, 678, 696; SABBADINI (1894) 49, 63, 65–66, 69–70 e passim; WESSNER (1897) 72, 83, 86–93, 95; ed. WESSNER XXII–XXIII, XXVI–XXX, XXXIII, XLIII; WESSNER (1905) VI; WESSNER (1906) 766–767; BEESON (1922) 291–292, 297, 299, 301–303, 305; ZWIERLEIN (1970) 104–112, 149–152, 174–179; T&T 155; REEVE (1978) 609, 611–615, 617–618; REEVE (1979) 310, 312, 315–320; VILLA (1984) 292; BLUNDELL (1987) 54, 58–59; CUPAIUOLO (1992) 114–115 (s.v. anche 130, 143, 145, 147, 150, 152); CIOFFI (2012) 146, 176; CIOFFI (2014) 132; ed. CIOFFI XIII, XVI, XXI

P

Codex Parisinus lat. 7899, Bibliothèque nationale de France, s. X Membr.; Praefatio+Commentum ad Andriam: ff. 3r–35r

Si tratta di un testimone terenziano con annotazioni marginali e sopralineari tratte prevalentemente da Don. La mano che trascrive le annotazioni donatiane dovrebbe risalire al s. X, mentre quella del testo è del s. IX. SABBADINI (1894) 90; ed. WESSNER XXXIX–XL; KAUER (1911) 144–145, 323–335; WESSNER 1921, 428–432, 449–455; MARTI (1961) 151, 154; REEVE–ROUSE (1978) 247, n. 29; T&T 154; HLL 5: 157–158; VILLA (1984) 36–37, 81, 383, 394–395; CIOFFI (2012) 145; CIOFFI (2013) passim; CIOFFI (2015) 356, 375–376; ed. CIOFFI XII, XXII Il manoscritto con ottima descrizione e bibliografia si trova online: http://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc340017

Par. Codex Parisinus latinus 16235, s. X Manoscritto terenziano; l’Andria occupa i ff. 3u–18u, di Donato contiene gli scoli ad An. 28– 51. MUNK OLSEN II, 634–635; III.2 136; IV.1, 24, 29, 107–108; IV.2 158, 188, 394 Il manoscritto è disponibile online: http://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc76708t

p

Codex Vaticanus Palatinus lat. 1629, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart., ff. 230; Praefatio+Commentum ad Andriam: ff. 1u–49u Subscr.: Finis scene prime Ambros Umbsich per Famianti del magnifico Capitano Bartholomeo Coglioni de Bergamo in casa de Innocentii Cotta o uero nel hosteria de la Spada nel luego de Porta Romana et anchora a Lodi al tempo della rehedificatione del Castello chiamato de Porta Giobia del signore duca con Milano. Scripsi a di XXVII de Agosto 1474 a hora XXIII pocho innanti a l’ultima guerra de Bresia. WARREN (1906) 31–32; WESSNER (1906) 765–766; REEVE (1979) 311, 319; CUPAIUOLO (1992) 118 (ma anche 131–132, 134, 147, 150); Cat. Vat. 2.2.274–276; CIOFFI (2012) 155, 160, 162–163, 169; ed. CIOFFI XV–XVI Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Pal.lat.1629

8 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

Q

Codex Romanus Corsin. 43 E 28, Biblioteca dell’Accademia dei Lincei, s. XV Cart., ff. 298; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 6u–57u Subscr.: finis Donatus in Andriam. WARREN (1906) 31–32; WESSNER (1906) 765–766; REEVE–ROUSE (1978) 240; REEVE (1979) 311, 315–322; BLUNDELL (1987) 53; T&T 155; CUPAIUOLO (1992) 115–116 (s.v. anche 125, 128–129, 134–135, 147, 150, 152); ed. CIOFFI XVI–XVIII.

q

Codex Mediolanensis Ambrosianus T 114 sup., Biblioteca Ambrosiana, s. XV (1472) Cart., ff. 213; Praefatio–Commentum ad Andriam: ff. 7r–55u. Subscr.: 1472 Indict. 5 pridie idus Augusti. Theate rescriptum est. Sit laus deo.

Al f. 111u, dopo il commento all’Eunuco, una mano annota hic deest una comoedia, seguita da una seconda che aggiunge uidelicet Εαυτοντειμωρουμενος. DZIATZKO (1879) 696; SABBADINI (1894) 57, 66, passim; WESSNER (1897) 72, 85, 96; ed. WESSNER XVIII, XXXIII; REEVE (1978) 611; REEVE (1979) 319, 321–322; CUPAIUOLO (1992) 113–114 (s. v. anche 125–126, 128–131, 134, 145, 150, 152); ed. CIOFFI XII, XIV–XV.

ra

Codex Ambrosianus A 144 sup., s. XV cart. 172 ff. Il Commentum di A. Donato (fino a Phorm. praef. II falso duplicis eius amore) è contenuto nei ff. 1r –149u SABBADINI (1894) 55; WESSNER (1897) 72, 83; ed. WESSNER XVIII, XX, XXVIII, XXXIII; REEVE (1979) 319, 321–322; CUPAIUOLO (1992) 112 (ma anche 16, 131, 145, 150); CIOFFI (2012) 149, 162– 163, 169

S

Codex Mediolanensis Ambrosianus L 53 sup., Biblioteca Ambrosiana, s. XV Cart.–membr.; si tratta di un codice miscellaneo, contenente, per quel che riguarda Donato, solo gli excerpta donatiani sulla commedia (ff. 96u–99r) e la praefatio I (f. 99r); il testo di Evanzio occupa i ff. 93u–96u. SABBADINI (1903) 185–199; WESSNER (1905) III–IV; WESSNER (1906) 765; KAUER (1906) 15; BEESON (1922) 303–4; MARTI (1961) 150; REEVE–ROUSE (1978) 249; T&T 154–6; REEVE (1979) 311, 319–320, 322–323; GERMANO (1987) XLVIII; HLL 5: 158; VILLA (1984) 247; CUPAIUOLO (1992) 112–113 (s.v. anche 7, 105, 122, 125–127, 131, 139, 142, 147, 150, 152); ed. CIOFFI XVIII

s

Codex Mediolanensis Ambrosianus D 70 sup., Biblioteca Ambrosiana, s. XV Cart., ff. 252; Praefatio–Commentum ad Andriam: ff. 49u–92r.

Testimoni manoscritti del DCA | 9

DZIATZKO (1879) 696; SABBADINI (1894) 56, 65–66, 70 e passim; WESSNER (1897) 72, 83; ed. WESSNER XVIII, XXXIII; REEVE (1978) 611; REEVE (1979) 319–320; CUPAIUOLO (1992) 112 (s.v. anche 131–132, 145, 150); CIOFFI (2012) 151, 153–155, 157, 159–160; ed. CIOFFI XV

Scot. Codex Vindobonensis Scot. 212, Schottenstift, s. XV (1452 dub. REEVE) Cart; ff. 93. Si tratta di un manoscritto terenziano con sporadici scoli marginali e/o interlineari, la maggior parte dei quali riconducibili a Donato. La sezione dell’Andria occupa i ff. 3r–17u. VILLA (1984) 110, 247, 284–285, 445; CUPAIUOLO (1992) 119 (ma anche 105, 131–132, 150); ed. CIOFFI XXI Il manoscritto, con relativa bibliografia, è disponibile online: http://manuscripta.at/m1/hs_detail.php?ID=1795

T

Codex Vaticanus Latinus 2905, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart., misc., ff. 133; Praefatio–Commentum ad Andriam: ff. 27r–76r. Subscr.: (f. 76u) afri donati oratoris urbis commentum terrentii andriae explicit.

WESSNER non collaziona direttamente il codice; la ricollazione mi ha permesso di correggere numerosi errori del suo apparato. SABBADINI (1894) 19, 46; WESSNER (1897) 72, 77–79, 81, 84, 94–96; ed. WESSNER XIII, XVII, XIX, XXV, XXVIII, XXX, XXXIII, XL–XLIV, XLVIII–XLIX; SABBADINI (1903) 187–198; LEJAY (1903) 170–171; WESSNER (1905) III–IV; WARREN (1906) 35–36; KAUER (1906) 15; BEESON (1922) 289, 291–296, 298–301, 305; ZWIERLEIN (1970) 25, 104–105, 118, 125–127, 129–132, 134–136, 142–145, 150–152; REEVE (1978) 609–613, 615; REEVE (1979) 312, 318–320, 323; REEVE–ROUSE (1978) 240, 247 n. 31; BLUNDELL (1987) 53, 56–57; CUPAIUOLO (1992) 117 (s.v. anche 7, 125–126, 128–129, 131, 145–148, 150, 152); SOTTILI (1988) 316, 318; Cat. Vat. 2010, 3.2.20–22; CIOFFI (2012) 146–147, 172, 177; CIOFFI (2013) 116–117; CIOFFI (2014) 114; CIOFFI (2015) 358–359; ed. CIOFFI XII, XIV–XV https://digi.vatlib.it/mss/detail/Vat.lat.2905

t

Codex Ottobonianus Lat. 2023, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV. Cart.; Praefatio + Commentum ad Andriam (leggibile fino al v. 127): ff. 6u–20u. Subscr.: L. Anconae MCCCCLXIIII pridie kalendas ianuarias B scripsit. SABBADINI (1894) 52, 55, 65–68, 70–75, 82; WESSNER (1897) 72, 83, 96; ed. WESSNER XX–XXI, XXVIII–XXIX, XXXIII, XLIV; WESSNER (1906) 766; REEVE (1978) 613, 616; REEVE (1979) 319– 320; CUPAIUOLO (1992) 117 (ma anche 16, 131–132, 134–135, 145, 150); CAT. VAT. 1.751–752; CIOFFI (2012) 146, 150–156, 159–163, 165–167, 169–173, 178; ed. CIOFFI XV, XX. Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Ott.lat.2023

10 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

U

Codex Escorialensis E. III 3, Real Biblioteca, s. XV Cart., ff. 268; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 8r–65u. DZIATZKO (1879) 695; SABBADINI (1894) 58; WESSNER (1897) 98; ed. WESSNER XXIV; REEVE (1979) 311, 315, 320; CUPAIUOLO (1992) 108 (s.v. anche 16, 131–132, 142, 150); CIOFFI (2015) 376; ed. CIOFFI XVI–XVII

u

Codex Vaticanus Urbinas Lat. 354, Biblioteca Apostolica Vaticana, s.XV Membr., ff. 211. Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 5r–43u.

Ho collazionato il manoscritto solo per An. I, 1 verificando l’ipotesi della dipendenza dall’edizione Calfurniana. SABBADINI (1894) 57, 66; ed. WESSNER XXIII–XXIV, XXXV; REEVE (1979) 310, n. 2; CUPAIUOLO (1992) 119 (s.v. anche 16, 131, 135, 150), CAT. VAT. 2.2.568–569; ed. CIOFFI XXI Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Urb.lat.354

V

Codex Vaticanus Reginensis lat. 1496, s. XV Membr. ff. 271. Membrane e dettagli nella realizzazione delle lettere iniziali si lasciano ricondurre all´officina di Vespiano. In corrispondenza di An. III 2, 1, in luogo di un graecum non trascritto si trova un segno di rimando ed al margine si legge la seguente nota: spatium hic in medio duorum uerborum. Inscriptio (f.1): DONATI GRAMMATICI EXCELLENTISSIMI IN PRIMA COMOEDIA AFRI TERENTII INCIPIT. SABBADINI (1894) 19, 44–46, 62–3, 66–75, 84 e passim; WESSNER (1897) 72, 81–82, 84, 86, 92, 95–96; ed. WESSNER X–XII, XIV, XIX, XXIX–XXX, XXXIII, XL–XLIV, XLIX; LEJAY (1903) 170– 171; WESSNER (1905) III–VI; WARREN (1906) 34–35, 37–41; WESSNER (1906) 766–767; BEESON (1922) 289–303, 305; REEVE (1978) 609–615, 617–618; REEVE (1979) 312–321, 323; ZWIERLEIN (1970) 25, 98, 106–110, 112, 119–132, 134–136, 142–144, 148–153; T&T 155; GERMANO (1987) LXIV–LXV; BLUNDELL (1987) 53, 55–56; CUPAIUOLO (1992) 118 (s.v. anche 7, 125–128, 131, 143, 145–148, 150, 152); CIOFFI (2014) 114; ed. CIOFFI XVI–XVII Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Reg.lat.1496

Vict. Victorianus Laurentianus XXXVIII 24, s. X Codice terenziano con qualche nota marginale riconducibile al DC. Per quel che riguarda l´Andria gli scoli riguardano la zona An. III 2, 24–V 5. 7

Testimoni manoscritti del DCA | 11

SABBADINI (1894) 21, 23–26, 30, 34, 59, 90; ed. WESSNER XXV, XXXVIII–XXXIX; KAUER (1906) 16; LINDSAY (1927) passim; MARTI (1961) 151, 154; REEVE–ROUSE (1978) 247 e n. 29; T&T 156; HLL 5,158

W Corsinianus 43 G 13 Il manoscritto risulta illeggibile. WARREN (1906) 31–33; WESSNER (1906) 765–766; REEVE (1979) 311, 319–320; CUPAIUOLO (1992) 116 (ma anche 131–132, 147, 150); VILLA (1984) 229

x

Codex Palat. Lat. 1630, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart., ff. 204; Praefatio + Commentum ad Andriam: ff. 18r–29r. SABBADINI (1894) 49, 65–66, 70, 72–75 e passim; WESSNER (1897) 72, 83, 96; ed. WESSNER XX, XXVIII–XXIX, XXXIII, XLIV; REEVE (1978) 616, 618; REEVE (1979) 319; CUPAIUOLO (1992) 118 (ma anche 131–132, 145, 150); CIOFFI (2012) 155, 157, 159–160, 162–163, 167, 169; ed. CIOFFI XVI (ma la sigla compare ex abrupto) https://digi.vatlib.it/mss/detail/Pal.lat.1630

Y

Codex Romanus Corsin. 43 G. 23, Biblioteca dell´ Accademia dei Lincei, s. XV Cart., ff. 1+296+1; Praefatio+Commentum ad Andriam: ff. 10r–67u. Al f. 292u si trova una nota che si ripete quasi identica al f. 293u: nomen meum non pono quia laudari nolo. BLUNDELL (1987) 52, 54, 58–59; WARREN (1906) 31–32; WESSNER (1906) 765–766; REEVE (1978) 616; REEVE (1979) 311, 314–315, 319–320, 322; CUPAIUOLO (1992) 116 (ma anche 16, 131–132, 147, 150); ed. CIOFFI XVI

Z

Codex Salmanticensis 78, Bibliotecad de la Universitad de Salamanca, s. XV Cart., ff. 69; Praefatio + Commentum ad Andriam: 6u–57r. Contiene tutto il Commentum all’Andria e solo parte di quello all’Eunuchus (fino al v. 233 circa).

Nota sull’identità del compratore del codice, f. 1u: Apud Valentiam emit Alfonsus Palentinus pro pretio 19 florenorum auri Aragoniae. REEVE (1991) 123–128 riconosce nella mano trascrittrice quella di Angelo Decembrio Ho collazionato il codice solo per il testo di An. 1, 1, ma non compare fra i manoscritti adoperati per la constitutio textus e dunque citati in apparato: questo a ragione dello stato del testo gravemente alterato da interpolazioni.

12 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

T&T 156, n. 14; REEVE (1978) 618; VILLA (1984) 392; REEVE (1991) 123–124, 128–9 (= 233–4, 238 rist.); SOTTILI (1988) 316, 318; CIOFFI (2012) 146–147; ed. CIOFFI XXI

z

Codex Vaticanus Lat. 1513, Biblioteca Apostolica Vaticana, s. XV Cart. – membr., ff. IV–190; Praefatio +Commentum ad Andriam: ff. 5u–44u.

Notevole l’informazione leggibile al f. 146r, in base alla quale i passi greci presenti sarebbero stati suppliti da un altrimenti ignoto Martino. SABBADINI (1894) 45, 50, 65–67, 70–72, 74 e passim; WESSNER (1897) 72, 83; ed. WESSNER XX, XXVIII–XXIX, XXXIII; REEVE (1978) 613; REEVE (1979) 319–320; CUPAIUOLO (1992) 116–117 (ma anche 16, 105, 131–132, 145, 150); ed. CIOFFI XV Il manoscritto è disponibile online: https://digi.vatlib.it/mss/detail/Vat.lat.1513

1.2 Codices deperditi Codex Cuiacii È citato da LINDENBROGIVS nella prefazione all’edizione del 1623: Donati duo exemplaria habuimus et illa Pithoeorum accurata diligentia ad Mss. codd. Antonii Contii et Iacobi Cuiacii Antecessorum Bituricensium collata; quorum auxilio in hoc commentario plurimae lacunae suppletae aliaque infinita errata integritati suae restituta sunt. SABBADINI (1894) 85–87; ed. WESSNER XVI–XVII, XXX, XXXIII, XXXV–XXXVI, XL, XLII– XLIV; LEJAY (1903) 170; WESSNER (1905) VI; KAUER (1906) 15; WESSNER (1906) 766–767; BEESON (1922) 289; ZWIERLEIN (1970) 22, 82–84, 86–89, 98, 107, 109–110, passim; REEVE (1979) 315– 318, 324–326; REEVE–ROUSE (1978) 239, n. 17; T&T 153–4, 155; HLL 5, 158; CUPAIUOLO (1992) 121, 139; CIOFFI (2012) 145; ed. CIOFFI XVII

Codex Hulsii È così chiamato un codice adoperato da WESTERHOVIVS, che secondo WESSNER sarebbe particolarmente vicino al gruppo chiamato . A tal riguardo sono particolarmente scettica; per l’Andria in corrispondenza di 116.1, WESSNER segnala in apparato un’annotazione, non altrove attestata: HEM perculsi ac metuentis. La sua fonte mi pare indecidibile e, soprattutto alla luce dell’alta frequenza di formulazioni parallele per spiegare l’esclamazione in esame, è verosimile che non ci sia alla base alcuna fonte manoscritta. SABBADINI (1894) 88; ed. WESSNER XVII, XIX, XXXIII, XXXVI; ZWIERLEIN (1970) 41, 82, 162; REEVE–ROUSE (1978) 239, n. 17; CUPAIUOLO (1992) 121

Edizioni antiche | 13

1.3 Edizioni antiche Quelle di seguito elencate sono le quattro edizioni collazionate in modo sistematico: la loro selezione è svolta sulla base dell’accertata conoscenza di una fonte manoscritta; per l’analisi delle evidenze testuali emerse (cf. pp. 161ss.) e2 editio Romana 1472 Il primato della prima edizione a stampa del Commentum è conteso fra Venezia (siglata “e” in bibliografia) e Roma, e con ogni probabilità è la prima (nota come “e” in bibliografia) a precedere la seconda di alcuni mesi. La loro interscambiabilità è resa possibile dall’estrema somiglianza del loro testo, dovuta, secondo WESSNER (1902, XXXIV) alla dipendenza da una medesima fonte manoscritta. I graeca sono nella maggioranza dei casi omessi o suppliti ope ingenii (SABBADINI 1895, 333). DZIATZKO (1876) 234–243; SABBADINI (1894) 70, 76–79, 85 e passim; WESSNER (1897) 72, 86, 96; ed. WESSNER XXVIII–XXIX, XXXIIII–XXXIV; WESSNER (1906) 766; ZWIERLEIN (1970) 25– 26; REEVE (1978) 610–611, 613–618; REEVE (1979) 311, 318–320, 322; T&T 155; HLL 5, 158; BLUNDELL (1987) 60; CUPAIUOLO (1992) 131, 133–134, 141, 145; CIOFFI (2012) 146, 151; ed. CIOFFI XVII, XXI L’edizione è disponibile online: http://data.cerl.org/istc/id00353000;http://data.cerl.org/istc/id00353500

Calph. editio Taruisiana 1477 L’edizione trevigiana, approntata da GIOVANNI CALFURNIO, presenta un testo conflato: segue prevalentemente l’editio princeps, ma se ne stacca talvolta per seguire una fonte manoscritta interna a , individuabile più precisamente in . SABBADINI (1894) 19, 59, 81–83 e passim; ed. WESSNER XXIII, XXXIV–XXXV; ZWIERLEIN (1970) 79, 176; T&T 153 n. 2, 155; REEVE (1979) 310–311; HLL 5, 158; CUPAIUOLO (1992) 131, 135; CIOFFI (2012) 146, 150–151, 153–155, 160, 165; ed. CIOFFI XVII, XXI L’edizione è disponibile online: http://data.cerl.org/istc/it00073000 http://data.cerl.org/istc/it00075000

Steph. editio Parisina 1529 (15362, 15413) L’edizione dello STEPHANVS riveste un ruolo di spicco nella ricostruzione di molti loci testuali del Commentum, soprattutto per quanto riguarda il ripristino dei graeca. Egli stesso nella praefatio parla di un uetustum exemplar, non ulteriormente specificato, che egli avrebbe adoperato per sanare molti punti del testo donatiano

14 | I testimoni. Descrizione e bibliografia

(per la possibile identificazione di questo manoscritto con uno dei testimoni a nostra disposizione, cf. pp. 165ss.). DZIATZKO (1876) 234–243; DZIATZKO (1879) 676–677; SABBADINI (1894) 83–85 e passim; WESSNER (1897) 96; ed. WESSNER XV–XVI, XXXV; SABBADINI (1903) 197; LEJAY (1903) 169; WESSNER (1905) V–VI; REEVE–ROUSE (1978) 239 con n. 17; ZWIERLEIN (1970) 1, 26–28 e passim; REEVE (1979) 310, 315–318, 324–326; T&T 153, 155; HLL 5: 158; CUPAIUOLO (1992) 121, 137–139; CIOFFI (2012) 146, 151, 154–155, 160, 165; CIOFFI (2015) 347–348; ed. CIOFFI XVII, XX, XXI

Lind. editio Francofurtensis 1623 LINDENBROGIVS confeziona un testo che dipende in modo sostanziale dal predecessore; i punti di stacco sono dovuti al ricorso ad una fonte manoscritta, facilmente identificabile con A (di cui non esita a lasciare stringhe insensate di greco, sulla cui ricostruzione aveva dichiarato resa lo stesso STEPHANVS). Interessante aspetto di un esemplare di questa edizione oggi a Leida sono le annotazioni di GRONOVIVS, tratte da una collazione in cui si erano purtroppo frammiste le lezioni del codice deperditus Cuiacii e quelle del codice A. Lezioni diverse da quelle che già conosciamo e che non siano riconducibili alla tradizione nota, per l’Andria, non emergono. Inoltre, la suddetta edizione è corredata da una appendice in cui in parte sono discusse alcune lezioni, in parte ne sono annotate delle altre, precedute dalla sigla Reg. excerpta / Ms. R.: si tratte di varianti che LINDENBROGIVS traeva evidentemente dal Parisinus 7899. SABBADINI (1894) 19, 57, 84–88; WESSNER (1897) 96; WESSNER (1902) IX, XV–XVII, XXXV– XXXVI, XL; LEJAY (1903) 169–170; WESSNER (1906) 767; ZWIERLEIN (1970) 29; REEVE–ROUSE (1978) 239 n. 17; T&T 153–5; REEVE (1979) 310, 315, 324–326; HLL 5, 158; CUPAIUOLO (1992) 121, 137, 139–140; CIOFFI (2012) 146, 171, 180; CIOFFI (2013) 127–128; ed. CIOFFI XVII, XXI

| Parte I: Studio della tradizione manoscritta

2 Il Commentum di Elio Donato a Terenzio: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo 2.1 Sulle tracce del DC Il Commentum alle commedie di Terenzio, così come ci è pervenuto, deve risalire in ultima istanza proprio al grammatico Elio Donato, attivo a Roma nella metà del IV sec. d. C. (RE V 2, 1545–1547; NP 3, 775; HLL 5, 143–158 [= NHLL V, § 527]; HOLTZ 2010, 18–46).1 L’informazione si ricava da un passaggio dell’orazione Contra Rufinum (1, 16) di S. Gerolamo, suo allievo, in cui si delineano le caratteristiche dei Commentarii esegetici (gr. ὑπόμνημα) e si individua nella loro sostanza collettanea non un vizio, ma il comune denominatore di genere: una conclusione provata da un rilevante campione di interpreti, citati per aver prodotto opere esegetiche lungo un arco cronologico che, partendo dal periodo arcaico, approda a quello imperiale. Tra questi è esplicitamente menzionato Elio Donato, suo maestro: Num diuersae interpretationis et contrariorum inter se sensuum tenebitur reus, qui in uno opere quod edisserit, expositiones posuerit plurimorum? Puto quod puer legeris Aspri in Vergilium ac Sallustium commentarios, Vulcatii in orationes Ciceronis, Victorini in dialogos eius, et in Terentii comoedias praeceptoris mei Donati, aeque in Vergilium, et aliorum in alios, Plautum uidelicet, Lucretium, Flaccum, Persium atque Lucanum. Argue interpretes eorum quare non unam explanationem secuti sint, et in eadem re quid uel sibi uel aliis uideatur enumerent.2

Sulla base di questo stesso paragrafo, di cui sopra si cita solo uno dei punti di interesse, si riesce a ricostruire con lucidità quello che dovette essere il metodo impiegato da Donato, e da tutti gli altri per i rispettivi autori, nella compilazione di simili contributi: spiegare Terenzio con Terenzio (secondo le norme alessandrine), giovandosi però delle interpretazioni degli esegeti più antichi, in un dialogo continuo che certo non è sempre esente da spunti polemici.3 L’indagine sull’identità dei precedenti interpreti di Terenzio, in uso a Donato, è condotta da WESSNER (1905), con conclusioni persuasive e condivisibili: in prima linea Donato dovette ricorrere all’opera di Emilio Aspro, della quale

|| 1 Per una sintesi utile dei problemi posti in questo capitolo, cf. MARTI (1961) 150–151. 2 Ed. LARDET 1982 (CCSL 79). Sempre di LARDET si veda anche il relativo commento (cf. LARDET 1993, 83). 3 Cf. Don. An. 56.2; id. ibid. 85.1; id. ibid. 483.1. https://doi.org/10.1515/9783110584653-002

18 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

suppone una conoscenza diretta e dalla quale avrebbe poi attinto molte delle annotazioni attribuibili (per via spesso solo ipotetica) a Celso, Probo, Acrone.4 D’altronde è lo stesso Donato a parlare del suo approccio ai testi ‘antichi’, del suo scopo e soprattutto del ‘come’ adoperava le sue fonti: lo dice infatti in una lettera inviata a L. Munazio e fortunatamente ritrovata nel Parisinus Latinus 11308.5 Qui fa riferimento al perduto commento a Virgilio, rende esplicito il fatto di aver esaminato studi precedenti, per poi filtrarne solo le informazioni più importanti; teme che a causa di quest’opera di selezione venga accusato di negligenza e trascuratezza, ma è disposto a correre il rischio pur di non riempire le pagine di osservazioni superflue. E continua: Quid igitur adsecuti sumus? Hoc scilicet, ut his adpositis quae sunt congesta de multis, admixto etiam sensu nostro, plus hic nos pauca praesentia quam alios alibi multa delectent. Ad hoc etiam illis de quibus probata transtulimus, et attentionem omnium comparauimus in electis, et fastidium demsimus cum relictis.6

Le dichiarazioni sopra riportate, anche se concettualmente chiare, all’analisi specifica risultano di una qualche vaghezza linguistica, che dà quindi ansa a posizioni divergenti fra i moderni: ZETZEL (1975) 337–338, preferendo un’interpretazione letterale, riduce drasticamente il contributo personale di Donato; simile analisi si lascia però viziare da categorie moderne e, polarizzandosi intorno all’idea di compilazione ex multis, non tiene nel giusto conto altri ed altrettanto importanti punti dell’epistola (a questo proposito si veda JAKOBI 1996, 4, n. 14). Più in generale, HOLTZ (2010) 30 fa osservare che un’epistola prefatoria risponde a ben precise regole di genere, tra cui l’ostentazione di umiltà: questo, se non esclude, certo invita ad usare prudenza nel leggere ogni espressione in chiave strettamente personale.7

|| 4 Cf. rispettivamente HLL 4, 251–253; HDA 2, 722 –727; HDA 2, 734–740. Per Probo, si veda anche DEUFERT (2002) 187ss. A proposito di fonti esplicitamente menzionate, resta ancora dubbio il passo ad Eun. 689.2: at ego † edesionum sequor [...]. 5 Su Munazio cf. RE XVI 1, 536 (11); circa il Parisinus Lat. 11308, cf. FUNAIOLI (1930) 10; MUNK OLSEN II, 819. Sull’argomento si veda almeno MURGIA (1974) 257–277. 6 BRUGNOLI–STOCK (1997), ma s.v. anche HARDIE (19662); SABBADINI (1913) 425–426. 7 Recentemente è ritornato su questa epistola anche MÜLKE, soprattutto per gli aspetti polemici relativi al metodo epitomatorio, cf. MÜLKE (2008) 106; si veda anche VICTOR (2013) 353.

Alter ab illo. Qualche osservazione sul Commento originario | 19

2.2 Alter ab illo. Qualche osservazione sul Commento originario Che il commento a Terenzio, così come pervenuto nei quaranta e più manoscritti che lo tramandano, la maggior parte dei quali di età umanistica, sia una versione rielaborata o comunque non esattamente corrispondente all’originaria opera di Donato è facilmente intuibile anche solo provando a ricostruire mentalmente i vari stadi della sua trasmissione, come li delineano SABBADINI (1894) 4–15 e lo stesso WESSNER (1902) XLIVss., così riassunti da ZETZEL (1975) 340: “the commentary was excerpted, presumably into the margins of manuscripts of Terence; our present version is a recompilation from two manuscripts containing such excerpts”. La compilazione risulta difettosa: manca infatti il commento all’Hautontimoroumenos e gli scoli al Phormio, oltre a presentarsi in doppia serie in corrispondenza dei versi 350–440, sono in generale più radi e brevi. Una tale stratificata trasmissione non solo ha permesso l’alterazione del testo originario, ma ha anche comportato la perdita di materiale esegetico, che talvolta si rintraccia per via indiretta. Da questo punto di vista uno dei casi notevoli interessa la uaria lectio di An. 536, che Prisciano prende in esame in due passi di Institutiones XVIII, chiamando in causa lo stesso Donato: ‘Ausculta pauca: et quid ego te uelim et tu quod quaeris scies’ nec enim aliter stat iambus, qui est quaternarius, quod etiam Donati commentum approbat. Prisc. Inst. XVIII (GLK III, p. 281) ‘Ausculta pauca: et quid ego te uelim et tu quod quaeris scies’ sic enim habent antiqui codices teste Donato commentatore eius. Prisc. Inst. XVIII (GLK III, p. 320 = p. 52 Ross.) ausculta paucis et ‘paucis’ et ‘pauca’ legitur. Don. An. 536.1

Il grammatico menziona una doppia lezione (pauca e paucis) in corrispondenza del suddetto passo dell’Andria; in entrambi i casi la preferenza è accordata a pauca, ma con due diverse e complementari argomentazioni: nel primo passo è addotta una ragione metrica e nel secondo una filologica.8

|| 8 La variante pauca, tradita per tradizione diretta dal solo codice p (codex Parisinus latinus 10304), è stata rivalutata nelle edizioni terenziane più recenti (KAUER–LINDSAY, MAROUZEU, POSANI, VICTOR), mentre gli editori precedenti sposavano l’ametrica paucis (BENTLEY, KLOTZ, SPENGEL, etc.), quindi invertendo, con BENTLEY, ego te, oppure espungendo, con SPENGEL, il primo et.

20 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

Nel DC di queste motivazioni non c’è traccia; in merito ad An. 536 si fa solo menzione della presenza di una uaria lectio, secondo il noto modulo et legitur,9 senza alcun accenno alla preferibilità dell’una rispetto all’altra. L’uso priscianeo di approbo, però, sembra indicare un’esplicita presa di posizione, non la mera menzione della variante a titolo informativo: o, quindi, Prisciano aveva accesso ad una versione del DC meno lacunosa di quella pervenuta oppure, in via abbastanza improbabile, Prisciano sta forzando il testo donatiano, trovando nella sua necessità di menzionare la seconda variante una sorta di conferma al suo dubbio metrico.10 Peraltro, la questione circa l’attribuzione a Donato delle argomentazioni metriche e filologiche non è banale e presenta varie complicazioni: è un dato indiscutibile che l’attenzione ai problemi metrici nel DC è del tutto assente e questa sistematica assenza lascia pensare che anche nell’opera originaria avesse un ruolo, se non nullo, certo molto ridotto (JAKOBI 1996, 7). Ne discende che è più prudente attribuire a Prisciano l’osservazione metrica e riferire a Donato la sola approvazione della scelta di pauca (così per esempio HOLTZ 2010, 63, n. 19) – che comunque, e questo è un punto essenziale, non è estraibile sulla mera base del nostro scolio.11 Non è invece possibile, a mio avviso, svincolare da Donato il riferimento agli antiqui codices sia per la formulazione priscianea, meno ambigua della precedente, sia perché è difendibile sulla base di qualche parallelo (per esempio ad Eun. 307.5: ‘qui uir sies’ in ueteribus inuenitur; Hec. 665: in ueteribus codicibus sic est [...]); l’idea di GRANT (1986) 64, ma già di ZETZEL (1975) 341, che si tratti di una mera illazione di Prisciano è quanto meno indimostrabile.12 Tra i testimoni di una versione più ampia del DC occupa un posto di rilievo anche il Bembino (Vat. Lat. 3224, IV–V d. C.), a cui margini, specificamente in corrispondenza di Phorm. 1–59, si rintracciano alcune annotazioni, risalenti al VI

|| 9 Cf. JAKOBI (1996) 30–42. 10 Diversamente WESSNER ritiene perfettamente compatibili la testimonianza priscianea e le corrispondenti note donatiane (1902, XIV). 11 Il problema delle conoscenze metriche possedute dal famoso grammatico si è molto dibattuto: c’è chi, prendendo spunto anche da Servio, taccia Donato di totale ignoranza metrica, cf. RIBBECK (1861) 180; TIMPANARO (2001) 115–117; GAMBERALE (1970) 194–198; DEUFERT (2002) 249– 250; altri, invece, fanno spesso riferimento al passo di Rufin. In metra Terentiana, p. 20 D’Al. (= GL VI 565, 1): laddove, però, nell’edizione di KEIL compare il nome di Donato nella lista di quanti avrebbero parlato dell’esistenza di precise regole metriche in Plauto e Terenzio, con maggiore prudenza PAOLO D’ALESSANDRO pone il testo dei manoscritti fra cruces (cf. XXIV, n. 30). 12 Cf. JAKOBI (1996) 39.

Compilator quidam. La formazione dell’archetipo | 21

d.C., le quali presuppongono l’esegesi donatiana, ma mostrano in modo evidente di attingere ad un Donato più ricco: queste note rappresentano un’evidenza macroscopica a favore dell’esistenza, in quella data, di una versione o più versioni del Commentum, se non complete, comunque più vicine all’originale di quanto non lo sia il nostro archetipo (ω); e con ogni probabilità queste versioni non esistevano come commento continuo, ma circolavano ai margini del testo di Terenzio.13 Il caso del Bembino ha creato, nella bibliografia sull’argomento, un ottimo ‘precedente’ perché anche nel caso di codici più tardi, ma con qualche lezione migliore rispetto ad ω, si tentasse di individuare versioni a vario grado più complete di ω.14

2.3 Compilator quidam. La formazione dell’archetipo Le tappe, che hanno portato alla formazione di ω (ovvero l’archetipo effettivo della nostra tradizione), caratterizzato dalla perdita (forse imputabile già a stadi precedenti) del commento all’Hautonimorumenos, sono state ricostruite da TEUBER (1881, 1891), SABBADINI (spec. 1894) e WESSNER (1902) XLIV–XLIX e risultano un’acquisizione bibliografica di unanime consenso.15 Il compilatore, che decise di ripristinare un commento continuo, doveva avere a sua disposizione almeno due versioni diverse dell’opera donatiana, una più ampia ed una più breve: questo renderebbe ragione non solo della doppia fila di scoli conservataci in corrispondenza di Phorm. 350–440, ma anche delle annotazioni ‘doppie’ ad uno stesso verso, ossia scoli che risultano ripetersi a vicenda, anche se in versioni di diversa ampiezza.16 È però evidente che per ‘versioni’ si intende già un qualcosa di diverso dal Commentum originario, di rielaborato, parafrasato o compendiato: che dal mero assemblaggio di questo materiale si siano poi create delle contraddizioni interne non è difficile da giustificare, ed impone una forma aggiuntiva di prudenza al filologo tentato di intervenire sul testo per risolverle.17

|| 13 Si tratta di note acquisizioni bibliografiche, cf. in particolare LÖFSTEDT (1912) 43–63; ZETZEL (1975) 342–347; GRANT (1986) 61–65. 14 Per questo aspetto specifico, cf. pp. 23ss. 15 Si veda, per esempio, REEVE (1986) 154–155, HLL 5, 154 ss.; VICTOR (2013) 343ss. In questo contesto di unanime consenso eccepisce però KARSTEN (1912–13). 16 Per un esempio concreto, cf. An. 28.1–2. 17 A proposito della formazione e della doppia redazione, cf. anche JAKOBI (1996) 6 e VICTOR (2013) 353–358.

22 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

2.4 La datazione dell’archetipo Controversa è senza dubbio la datazione dell’archetipo ossia la data in cui si sarebbe formato il testo da cui discende la nostra tradizione. WESSNER (1902) XLV parla di un prototypon exemplar e lo colloca nel sec. VI– VII: con ciò sembra aderire ad un’idea di USENER (1868, 496), il quale aveva individuato nel Bembino (A) il terminus ante quem di ω, per la semplice considerazione che gli scoli ai margini di A sembravano presupporre il DC.18 Molto diversa è invece la posizione di LÖFSTEDT (1912, 43–63), per il quale le annotazioni in A, da ritenere materiale autentico, presuppongono il DC in una versione diversa da ω, più ampia e qualitativamente superiore. Questa osservazione ribalta la tesi di USENER e costituisce un’acquisizione decisiva negli studi donatiani; se però il ruolo di A come terminus ante quem decade, non decade anche la possibilità teorica che ω si sia formato nei secc. VI–VII. WESSNER rianalizza la questione nel 1927, in un contributo principalmente orientato a verificare il rapporto fra l’archetipo ed il materiale donatiano presente ai margini del codex Victorianus (Flor. Laur. XXXVIII 24: D) di Terenzio, collocabile nel sec. X d.C.: secondo la sua analisi il testo delle annotazioni esibite da D è riconducibile ad ω, rispetto al quale quindi fungerebbe da nuovo termine ante quem.19 Di diverso avviso è LINDSAY, che non solo ritiene che il materiale donatiano di D non si possa giustificare sulla base del testo così come ricostruito sulla base della tradizione diretta, ma esplicita anche la convinzione che l’attuale forma del DC sia solo un patchwork successivo a Lupo di Ferrières (cf. LINDSAY 1927, 193), dunque al sec. IX d.C. La menzione di Lupo come riferimento cronologico è dovuta sostanzialmente ad un’epistola (= ep. 103, 4 MARSHALL), da lui inviata a Papa Benedetto III, che si presta a due interpretazioni, non riducibili: petimus etiam Tullium de oratore et XII libros ‘Institutionum oratoriarum’ Quintiliani. Qui uno nec ingenti uolumine continentur; quorum utriusque auctorum partes habemus uerum plenitudinem per uos desideramus obtinere. Pari intentione Donati commentum in Terentio flagitamus.

Da questo passaggio alcuni deducono che Lupo avesse bisogno di un Commentum in Terentium intero, essendo il suo solo parziale, esattamente come lo

|| 18 Con prototypon exemplar, poi variato, poco sotto, da scholiorum compilationem, WESSNER non sembra però riferirsi ad ω, bensì ad una fase precedente, ad un Ω ancora privo di un numero importante di corruttele comuni a tutta la tradizione manoscritta. 19 WESSNER (1927) col. 447: “Überblickt man das Ganze, so kann kein Zweifel darüber bestehen, daß der Exzerptor durchaus von dem erhaltenen Donatkommentar abhängt”.

La datazione dell’archetipo | 23

erano anche il De oratore ciceroniano e le Institutiones di Quintiliano.20 Questa lettura permette peraltro un’ulteriore suggestione: che il defectus in oggetto riguardi l’Hautontimorumenos, e che quindi la copia di Lupo fosse estremamente vicina al nostro archetipo.21 Altri, fra cui WESSNER, sembrano invece intendere che Lupo si limiti a richiedere un Commentum, perché, più semplicemente, non ne aveva uno: Der Kommentar Donats war um die Mitte des 9. Jahrh. im Franchreich nur dem Name nach bekannt. Lupus von Ferrières wendet sich in einem Briefe an Papst Benedikt III (855–858) mit der Bitte um Übersendung des “Donati commentum in Terentium”; es darf angenommen werden, daß der Bitte entsprochen wurde und das gewünschte Werk in der 2. Hälfte des 9. Jahr. nach dem Norden kam.22

Su questo punto sono d’accordo anche REEVE–ROUSE (1978) 235–249, secondo i quali il fatto che Lupo non avesse una copia del Commentum, nonostante la sua sfera di influenza, presuppone che non circolasse in centri come Tours, Fleury, Micy, Orléans, Auxerre, Sens. Se ebbe modo di ottenerlo, e se proprio il Papa gli fu d’aiuto in tal senso, non è verificabile, mentre è solo suggestiva la possibilità che il codice donatiano Parisinus lat. 7920 (= A, XI sec.), proveniente per l’appunto da Fleury, possa essere in qualche modo legato a lui e a quella richiesta. Indipendentemente da quale delle due possibili spiegazioni si sposi, si evince però un dato notevole: Lupo, parlando di Commentum in Terentium, sembra riferirsi ad un commento continuo, e non a dei meri excerpta.23

2.4.1 Testimoni extra-archetipali? La discussione circa la dipendenza o l’indipendenza degli scoli di D (il Victorianus) da ω ha occupato a più riprese tanto LINDSAY (1925) 28–36; (1926) 103–105; (1927) 188–194 quanto WESSNER (1902) XXXVIIIss.; (1927) 443–448:24 il primo ha posto enfasi sui casi in cui gli scoli di D presupporrebbero una fonte migliore di ω, il secondo ha giustificato questi stessi casi testuali senza ricorrere all’ipotesi di fonti extra-archetipali. || 20 BEESON (1922) 284–285. 21 Ricordo però che anche questa resta un’assunzione non dimostrabile perché non è precisabile in quale fase della complicata storia tradizione si sia perso l’Hautontimorumenos, e non è neppure precisabile se sia un defectus nato proprio in ω. 22 In merito alla citata epistola, cf. anche VON SEVERUS (1940) 37; BISCHOFF (1975) 84. 23 Su questo punto sono molto equilibrate le osservazioni di HLL V, 156–157. 24 In merito alla presunta posizione extra-archetipale del Parisinus 7869, cf. CIOFFI (2013) 95–125.

24 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

Le argomentazioni portate da WESSNER per giustificare varianti testuali apparentemente migliori sono persuasive; del resto, almeno per l’Andria, le annotazioni sono troppo brevi (varianti testuali, integrazioni di una o più parole per rendere il testo di più immediata usufruibilità) e quindi non rendono possibile una qualsiasi analisi rigorosamente stemmatica (sugli errori comuni a D ed ω, cf. GRANT 1986, 68). Nell’intervento di WESSNER però risulta trascurato uno dei casi più interessanti nell’ottica dell’indipendenza di D da ω: ad An. 720, il ramo callopiano, notoriamente costituito da due famiglie (δ e γ), è per l’appunto scisso fra la lezione dolorem (δ) e laborem (γ);25il Vittoriano, a testo, esibisce dolorem, mentre dell’esistenza della lezione alternativa il lettore viene avvertito da una breve nota: uel ‘laborem’ secundum Donatum. Nel DCA, però, questa informazione non emergerebbe, dunque, osserva LINDSAY, l’annotatore vedeva una versione di ω diversa dalla nostra.26 Di questo problema tratta diffusamente GRANT (1986), 67–68 e sulle sue conclusioni si può concordare; in generale, si deve ammettere che una simile evidenza non può essere discussa in maniera incontrovertibile né nell’uno né nell’altro senso: la variante laborem era ben nota alla tradizione manoscritta terenziana, dunque la si ricavava con facilità (come peraltro dimostrano gli stessi codici donatiani, cf. n. 26), e anche solo questa constatazione rende possibile un ampio ventaglio di ipotesi utili a spiegare una simile annotazione senza pensare a qualcosa di diverso da ω. Più verosimilmente, invece, discendono da una fonte francese, ma indipendente da AK, ed in generale dalla tradizione nota, le glosse del Bernensis 276 (ossia le postille donatiane trascritte da Guido de Grana, attivo fra Parigi e Orléans nel XIII secolo):27 queste sono le conclusioni di REEVE–ROUSE (1978) 235–249; ma si veda anche REEVE (1986) 153. Testualmente infatti le annotazioni si mostrano alquanto eclettiche, e solo in pochi casi emerge qualche miglioria rispetto al testo pervenutoci.

|| 25 Per un quadro esaustivo della tradizione terenziana, cf. T&T (REEVE), 412–420. 26 In realtà sarebbe da precisare che laborem, non è del tutto assente nella tradizione donatiana, perché la sua presenza si constata – in corrispondenza del lemma ad An. 719.2 benché in modo non sistematico – nel ramo Maguntino ovvero Σ, per probabile collazione con il testo di Terenzio stesso. I codici in questione sono CF e un conspicuo gruppetto Λ (Mpxz G e β, mentre Ya testo legge laborem e supra lineam è annotato dolorem). Per le sigle, cf. pp. XIII–XIV. 27 Cf. STAGNI (2006) 221–287.

L’archetipo: qualche fenomeno paleografico notevole | 25

Lezione superiore An. 153 uoluntate Steph. (uoluntas Bern. 276): uoluptate ω Errore congiuntivo con Σ An. 79.2 certam legem Γ: certamen certam legem Σ Bern. 276 Errori di Σ evitati An. 93.3 collisus Γ Bern. 276: collis Θ: col(l)isio Λ; An. 346.4 immo Γ Λ Bern. 276: omnino Θ Errori di Γ evitati An. 875.1 an Σ Bern. 276: ain Γ; An. 79.2 cum uno Σ Bern. 276: om. Γ Accordi in errore si individuano con uno dei due rami in cui si divide lo stemma del DCA, ossia Σ, ma si tratta pur sempre di una condivisione soltanto parziale, dove, per utilizzare il lessico della filologia tedesca, i Bindefehler non possono dirsi anche Trennfehler. Quello che si registra ad An. 79.2 rappresenta il caso fra i più interessanti: contro il corretto certam legem di Γ, il Bernensis esibisce la stessa diplografia di Σ (certamen certam legem), ma si tratta pur sempre, come notavo, di un errore solo congiuntivo e non anche separativo, per cui non ci sono elementi per escludere che la ripetizione fosse nata già in ω e poi evitata ope ingenii da Γ. L’unico caso di lezione effettivamente superiore nell’Andria si trova al v. 153, in corrispondenza di un errore estremamente comune (uoluntas–uoluptas), e, nello specifico, emendabile sulla base del contesto. Se non rappresentasse un ramo indipendente attestato nel XIII sec., certamente segnerebbe la presenza di un ramo contaminato.

2.5 L’archetipo: qualche fenomeno paleografico notevole Il contributo dell’analisi strettamente paleografica, ovvero dell’individuazione di errori propri di determinate tipologie grafiche, utili quindi a caratterizzare anche temporalmente l’archetipo, deve spesso confrontarsi con la consapevolezza che molti errori imputabili con sicurezza, per esempio, alla scrittura insulare (BEESON 1922, spec. 288–289), potrebbero non essere propri di ω, ma ereditati da stadi precedenti. Uno dei fenomeni grafici più affascinanti di questa tradizione è la presenza di stringhe in maiuscola in corrispondenza di segmenti in greco: questa evidenza macroscopica è testimoniata in modo quasi esclusivo dal codice A (XI d. C.), ed è stata sfruttata in termini ricostruttivi e di datazione soprattutto da GRANT (1986, 68): la sua ipotesi si sviluppa dall’interpretazione dalle tracce di scrittura maiuscolizzante ivi presenti come residui di scrittura onciale; trattandosi di forme

26 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

residuali, e, precisamente, di un fenomeno conservativo e non innovativo, approda alla conclusione che la versione del DC, successiva al riassemblaggio, avesse avuto una fase tarda di onciale.

2.5.1 Stringhe di onciale? Il Parisinus lat. 7920 (A) Come noto,28 la trascrizione del greco nel Medioevo (e fino al 1450 circa) risulta per un copista occidentale un’operazione molto complicata, data la perdita totale perfino della semplice competenza alfabetica.29 Proprio per questa ragione, molti graeca del Commentum non possono più essere recuperati: o perché corrotti fino a diventare irriconoscibili o, peggio, per la decisione dei copisti di ometterli del tutto; il copista di A è invece virtuoso: anche se è palese che non sia cosciente del senso di quanto trascrive, si sforza di riprodurre i graeca così come li doveva vedere nel suo antigrafo, li fotografa. In circa una decina di casi, però, in prossimità delle lettere greche, anche il latino sembra subire una qualche distorsione: in un continuum grafico coerente una o più parole o anche singole lettere sono trascritte in una forma genericamente maiuscolizzante. Questa vera e propria Besonderheit è, a mio avviso come anche per GRANT (1986), non un’innovazione di A, ma una situazione testuale che doveva caratterizzare già ω: è quindi un fenomeno di conservazione. Tale conclusione è dimostrabile attraverso l’analisi puntuale del comportamento complessivo della tradizione manoscritta in corrispondenza delle stringhe oncializzanti di A: 1) An. 546.1 nam in secundo λήμματι negat, quod prius dixit λήμματι negat] transp. post dixit B || λήμματι Steph.: ANM M A TN A: ANMMATH B: ahmmath Θ: om. sp. rel. K Λ: ἀναλλαγή M4: λήμματe WESSNER || NEGAT AB: om. KΛ: negat ex en g at corr. C2.: ne g at FT: n g at q

|| 28 Questo paragrafo presuppone una conoscenza, anche solo superficiale, dello stemma del DCA, per cui si veda pp. 34–35. 29 Su questo fenomeno e sulle conseguenze che esso comporta, cf. pp. 181ss.

L’archetipo: qualche fenomeno paleografico notevole | 27

Fig. 1: A, f. 33u

Fig. 2: B, f. 4r

La stessa difficoltà si ravvisa nel codice C (f. 23r), dove a risultare trascritto in forma traslitterata e trattato come fosse una citazione abbreviata non è solo il greco, ma lo stesso verbo negat, come dimostra la seguente riproduzione: ·a·h·n·m·m·at g r ne ·g·at. 2) An. 149.1 ἀποσιώπησις uel ἔλλειψις ἀποσιώπησις M4: ΑΠωϹΙωΠϹΙϹ A: aposiopesis P: om. sp. rel. K Σ (αποσιόπασισ G2: αποσιοωπασις t: prothesis ν: aposiopasis H) || uel] VεL A: om. PK || ἔλλειψις M4 in marg.: ΕΜΙΥΙϹ A: eclipsis Σ: om. sp. rel. PK

3) An. 591 perimus ‘nam’ παρέλκεται ut nam] NA(M) A: NA B || παρέλκεται M4: ΝΑRΕΛΚΗΤΑΕ A: ΠΑRΕΛRΗΤΑΕ B: om. sp. rel. K Σ

Fig. 3: A, f. 34u

Fig. 4: B, f. 4u

28 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

4) An. 435.2–3 Et est εὐφημισμός antiquorum pro ῾nihil’. 4.3 NIHIL PRORSUS Et est] om. ϴ

Fig. 5: A, f. 28u

5) An. 28.1 prologi uel Θεῶν ἀπὸ μηχανῆς

Fig. 6: A, f. 8u

6) An. 45.1 nam ἀξίωμα sententia

Fig. 7: A, f. 9u

7) Ad. 43 ... sententia ‘Πάμφιλος ἔχοι†νιων πωλουμενον’ et alibi ‘γαμεῖ Пάμφιλος’ [...]’ et alibi A: om. cett.

Fig. 8: A, f. 54u

L’archetipo: qualche fenomeno paleografico notevole | 29

Le prime tre evidenze, unitamente alla settima, dichiarano inequivocabilmente un imbarazzo testuale che coinvolge tutti i testimoni: ad An. 546.1 il verbo negat è riprodotto in maiuscola anche da B (quindi, direi, da Γ)30 e lo stesso Θ tradisce una stessa difficoltà nella segmentazione del testo: negat non solo è riprodotto lettera per lettera, ma è trattato proprio alla stregua di un graecum, ponendo delle pause (spesso rappresentate da puntini) fra le singole lettere come quando si riproducono sequenze di iniziali in luogo di parole intere nelle citazioni;31 ed eloquente è anche il silenzio, nello stesso punto, di  Λ. Ad An. 149.1 il uel che congiunge i due graeca è scritto in una forma maiuscolizzante in A, ed è probabile che così si trovasse anche nel capostipite Γ, tanto da non essere poi riconosciuto come latino da K e P, che quindi lo omettono;32 Σ, invece, questa volta si dimostra più attento e lo trascrive senza alterazioni:33 non ci sono elementi per escludere che il uel oncializzante si trovasse già in ω. Eloquente è anche il passaggio ad An. 591, dove in AB il nam non solo è scritto in maiuscola, ma la sua riconoscibilità risulta compromessa anche per un copista molto interventista come B: si può ipotizzare che il nam, che Γ eredita in questa forma già da ω, subisca un ulteriore grado di “grecizzazione” nell’anello comune ad AB, mentre in Γ la sua forma dovette consentire una corretta segmentazione ancora a K (o a uno dei suoi anelli intermedi).34 Da questa lettura discende inoltre che, nei restanti casi in cui il fenomeno isola il solo A, sarebbe antieconomico parlare invece di innovazione, anche perché negli altri punti in elenco il riconoscimento della stringa latina non avrebbe richiesto una particolare competenza linguistica e sarebbe perciò risultato agevole per qualsiasi copista, come si intuisce, per esempio, ad An. 435.2–3, un’evidenza macroscopica. Qui si dovrebbe parlare di un fenomeno di vera e propria ‘inerzia trascrittiva’, risalente, in termini ipotetici, ad una fase di cambio grafico (da una scrittura maiuscola ad una minuscola), che gli altri rami e gruppi hanno facilmente normalizzato, mentre A, con la sua copia pedissequa, restituisce così come doveva leggerlo, in ultima analisi, in ω.

|| 30 Per le sigle rimando agli stemmi delle pp. 33–34. 31 Un approccio singolare, ma spiegabile, cf. p. 184ss. 32 Se per K l’omissione dei graeca è costante, per P è meno usuale. 33 Non si dimentichi comunque che un ruolo importante in simili casi poteva essere ricoperto dalle glosse latine annotate immediatamente sopra i graeca in una data in cui il greco era non solo ancora leggibile ma anche compreso (la tradizione dei Saturnalia di Macrobio è da questo punto di vista esemplare), e che in molti casi sono sopravvissute al greco stesso. 34 Per la presenza di un anello comune ad AB e, in generale, per lo schema interno a Γ, cf. pp. 46ss.

30 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

Tutte le evidenze elencate rendono molto plausibile la conclusione in chiave di conservazione, ma resta indecidibile la determinazione della fase della trasmissione in cui tale fenomeno sarebbe nato. All’analisi paleografica, per quanto ridotte, le sezioni maiuscolizzanti in A sono da ricondurre al tema grafico della cosiddetta onciale, anche se è da ammettere che non si può parlare di onciale pura: sarebbe più giusto leggerla come una forma mista di minuscole e maiuscole, tipicamente adoperata per le note marginali in manoscritti tardoantichi (secc. IV–VI d.C.), che certamente è una scrittura graficamente molto contaminata benché genericamente ‘oncializzante’.35 Di conseguenza o i residui oncializzanti risalgono ad una fase pre-archetipale (ipotesi 1),36 quando ancora il DC circolava unitamente al testo di Terenzio ed era stato trascritto per l’appunto con un’onciale di glossa, oppure è da supporre l’esistenza di un archetipo in onciale (ipotesi 2), successivo al riassemblaggio delle note in forma di commento continuo: in entrambi i casi è evidente che non può essere il copista di A il responsabile diretto di un simile lascito, perché, come emerge dall’analisi condotta sopra, si tratta di un problema che riguarda tutta la tradizione, e dunque che ci restituisce una situazione già ben presente in ω.37Le pericopi in maiuscola sono da imputare piuttosto a chi si occupò della conversione del DC in scrittura minuscola: laddove, infatti, il copista, per ignoranza del greco o perché ormai già era troppo sfigurato per poterlo individuare con chiarezza, non fu in grado di distinguere la stringa latina da quella greca, si limitò a fotografare quello che vedeva; e non è da escludere che, in qualche caso, soprattutto quando la stringa latina in maiuscola segue il graecum, si possa parlare di un vera e propria inerzia trascrittiva. Si può inoltre ipotizzare che in ω ci fosse un

|| 35 Per un’analisi della varietà grafica riservata alle annotazioni marginali, e la pertinente bibliografia, si veda il recente articolo di CONDELLO (2009) 111–132. Nella bibliografia si parla di quarto d’onciale (LOWE) o onciale di glossa, su cui si veda ancora CONDELLO (2009) 120, n. 30. Per un buon parallelo grafico, si vedano i marginali che corredano il testo delle Bucoliche nel Florentinus Laurentianus Plut. XXXIX, 1 (in particolare ff. 3r–8r). 36 GRANT (1968) 68–69: “When the scribe of A departed from his usual minuscule form of writing and wrote a few Latin words in uncials in the immediate proximity of Greek words, he may have been preserving a feature in the transmission of the text which went back to before the compilation of the surviving commentary. It has been pointed out that notes were taken from the original commentary and added to the margins of Terence Mss. A scribe who did this will have written the notes in minuscule”. 37 GRANT (1986) 68, non tenendo conto della restante tradizione nei medesimi punti in cui A fa registrare simili stranezze grafiche, rischia di essere un po’ fuorviante: “That an ancestor of our Donatus Mss was written in uncials may be indicated by a feature of the earliest surviving MS with a continuous commentary separate from the text of Terence, A”.

Conclusioni | 31

numero maggiore di zone interessate da simili incostanze grafiche rispetto a quelle visibili grazie allo spirito conservativo del copista di A. Dopo l’intervento di LÖFSTEDT (1912) 43–63 e la generale postdatazione di ω al VIII–IX sec., la tesi di un archetipo in onciale è diventata meno ovvia, anche se ancora sostenibile, come fa GRANT (1968) 69: notoriamente il declino dell’onciale si colloca nel VI d.C., anche se qualche traccia di onciale all’inizio del IX sec. sembra ricavarsi dal codice Salmasianus (Par. lat. 10318) dell’Anthologia latina (ma, si ammetterà, che si tratta di un genere letterario diametralmente opposto al Commentum.38 In quest’ottica diventerebbe comunque necessario postulare un Ur-archetipo, Ω, successivo alla ricompilazione ed in onciale, proprio in ragione del fatto che A si limita a registrare una ‘incoerenza’ grafica già di ω, dove, ripeto, tale fenomeno doveva essere già ben visibile (il che comporta un’altra conseguenza sul piano ricostruttivo, non certo accessoria, ossia che la base grafica di ω fosse in minuscola). La prima ipotesi, che cioè l’onciale risalisse ad una fase precedente la compilazione stessa, al contrario, è più economica, e non impone la presenza di un Ur-archetipo:39 Donato fu copiato ai margini di Terenzio probabilmente nel VI sec., in una scrittura maiuscola di tipo misto; quando si ricompose la versione continua, il responsabile della stesura di ω, lasciò le zone dubbie nell’onciale che visualizzava

2.6 Conclusioni Le conclusioni di REEVE–ROUSE (1978) 247 per quanto riguarda il processo di formazione di ω riescono persuasive: la circolazione donatiana in epoca medievale e, in particolare modo, in zona francese dovette avvenire prevalentemente in forma di glosse ed in posizione marginale o interlineare; questo è quanto si può dedurre dalla discrepanza quantitativa fra manoscritti con glosse di derivazione donatiana (cf. REEVE 1986, 153) e manoscritti (di cui non resta traccia) contenenti il commento in forma continua: le glosse venivano copiate direttamente da manoscritti terenziani a loro volta già glossati e solo più tardi, fra la fine

|| 38 Circa la sua datazione c’è ancora qualche significativa oscillazione, cf. LOWE (1950) 593, BISCHOFF (1965), II, 252ss., SPALLONE (1982) 1–71. È evidente però che si tratta di un’opera tipologicamente molto distante dal DC. Circa l’uso dell’onciale in epoca medievale, precisamente nell’VIII sec., cf. LOWE–RAND (1922) 17. 39 Nell’edizione e nella configurazione grafica dello stemma o deciso di esplicitare la presenza di un Ur-archetipo per una comodità prettamente logica.

32 | Il DC: fasi di trasmissione e formazione dell’archetipo

dell’VIII e l’inizio del IX sec., probabilmente in Germania e probabilmente in insulare,40 le glosse furono riassemblate da un compilator, nella versione ricostruibile sulla base dei testimoni a noi pervenuti: “This would explain the absence of any traces of indipendent codices of Donatus”. A mio avviso se fra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo è collocabile il capostipite ultimo ricostruibile sulla base dei nostri testimoni, ω, con ogni verosimiglianza un manoscritto in carolina, la compilazione vera e propria, con ciò intendendo la ri-conversione del DC in forma continua, può essere collocata al più tardi fra la fine del VII e l’inizio del VIII.

|| 40 Ipotesi questa del BEESON (1922), a cui REEVE–ROUSE (1978, s.v. in particolare p. 247, n. 31) sembrano aderire non senza riserve.

3 Studi e stemmi 3.1 Acquisizioni bibliografiche presupposte Nel corso della trattazione relativa alla tradizione manoscritta si farà spesso riferimento ad alcuni fondamentali contributi di M. D. REEVE, o come punto di partenza per ulteriori approfondimenti o come vero e proprio spunto di ricerca; in particolare sarà menzionato l’articolo apparso su CPh 74 del 1979 (310–326), in cui si propone, con qualche rettifica rispetto all’intervento su Hermes dell’anno precedente (Hermes 1978, 608–618), la divisione del DC in 8 sezioni, scandite da cambi di affiliazione notevoli: per quello che interessa l’Andria è utile sapere che nella prima sezione è compresa la Vita Terenti fino, per l’appunto, al prologo dell’Andria; la seconda è individuata dal passaggio di K (Vaticanus Chisianus H VII 240 XV sec.) dal Maguntinus al Carnotensis, circoscrivibile esattamente fra la fine del prologo e l’inizio dello scolio An. 28.1, ed in questa è inclusa tutto il restante DCA. Vita–An. 1. 1. 1. (1:3. 1—49. 1 AVFERTE) ϴ, Λ, Α, [S] An. 1. 1. 1–fin. (1: 49. 1 ABITE–261. 17) ϴ, Λ, AK, [B] Eunuchus (1: 265. 1–497. 6) ϴ, Λ, [B], K, V, IE Adelphoi (2: 3.1–185. 19) ϴ, Λ, [A]K Hec. Praef. 3. 5. 8 (2: 189. 1–271.8 dicere) ϴ, Λ, [B], K Hec. 3. 5. 8–5. 1. 2 (2: 271. 8 an–319. 8 seruatus) ϴ, B, K, Δ Hec. 5. 1. 2–fin. (2: 319. 9 NEC POL–342. 5) ϴ, Λ, [B], K, Δ Phorm. Praef.–1. 2. 38 (2: 345. 1–373. 16 EXADVERSVM) ϴ, Λ, K, Δ, I Phorm. 1. 2. 38–2. 1. 47/49 (2: 373. 17–ca. 418), 5. 1. 19/29–fin. (2: 472–484. 9) ϴ, Λ, [V], Δ, I Phorm. 2. 1. 47/49–5. 1. 19/29 (2: ca. 419–472) ϴ, Λ, V, Δ, Oa, I REEVE (1979) 320

Di K, a cui nel 1970 ZWIERLEIN dedicò uno studio monografico41 REEVE esamina la storia della trascrizione, delineandone le tappe essenziali, e verifica il suo valore anche sul piano stemmatico: ipotizza che sia stato scritto a Roma per mano di Jacopo Ammannati, ritiene quindi probabile che, almeno per l’Andria, il suo testo

|| 41 Prima di ZWIERLEIN, l’importanza di K emergeva già in WARREN (1906) 31–42, e richiamata da MARTI (1961) 150. https://doi.org/10.1515/9783110584653002-003

34 | Studi e stemmi

derivi dal Carnotense, dimostra che la sua scoperta permette di alleggerire il quadro testimoniale, a ragione del fatto che un certo numero di codici ne risultano almeno in qualche parte descripti (nello specifico, V di prima mano, ossia il Vaticanus Regin. 1496, XV),42 R (Flor. Riccardianus 669, XV) ed il Flor. Magl. VII 1210. Oggetto di discussione sono anche i cosiddetti codici Λ, la molteplicità di sottofamiglie e fonti, le edizioni antiche (quella di STEPHANVS in particolare), il codex Cuiacii: in merito a questi aspetti la posizione di REEVE sarà menzionata di volta in volta come presupposto per le mie relative ricerche.

3.1.1 Configurazioni stemmatiche STEMMA 1

Donatus

IV

Ω .………………………………………………..…VI

ω…………………………………………………….IX

Γ

η

P A

S

Σ

Λ

|| 42 Per quanto riguarda questo codice, cf. spec. REEVE (1979) 321–322.

δ

Acquisizioni bibliografiche presupposte | 35

δ

V(K)

δ1

Θ

QJ

μ

STEMMA 2

Donatus

IV

Ω ........................................................ VI

ω ......................................................... IX

Γ

η

P A

S B

Σ

K Λ δ

Θ

μ

(usque ad An.75.1)

4 L’archetipo ω ed i suoi testimoni 4.1 Il quadro testimoniale del DCA La tradizione manoscritta del DC non può vantare testimoni antichi: essa consta complessivamente di circa quaranta manoscritti quasi esclusivamente umanistici, ma non unicamente, almeno per l’Andria. Il manoscritto più antico, P (Parisinus 7899) risale al X sec., ma copre soltanto la zona An. praef. – An. 300, ed il suo contributo è alquanto diseguale da un punto di vista quantitativo; del X secolo è anche il Parisinus 16235, che conserva solo pochissimi scoli, precisamente relativi alla zona An. 28–51; seguono A (Parisinus Latinus 7920), appartenente all’XI sec., decisivo non solo per la qualità testuale ma anche in quanto testimone completo (per l’Andria), e B (Vaticanus Regin. Lat. 1595) del XIII sec., il cui testo ha inizio solo ad An. 320.43 Fatta esclusione del Par. 16235 (un codice terenziano del X sec. con un estratto minimo dal DCA), il cui ruolo stemmatico resta per ovvie ragioni indecidibile, tutti e tre i codici elencati, insieme al più tardo K (Chisianus H VII 240), costituiscono il ramo Γ dello stemma e, in ultima analisi, sono i rappresentanti di uno dei due perduti subarchetipi: il Carnotensis.44 Secondo la ricostruzione di M. D. REEVE, infatti, il testo di K, per l’Andria e fino ad Ad. 65, dovrebbe essere stato tratto dal Carnotensis, rinvenuto a Chartres nel 1447.45 Se – ipotesi avanzata in via dubitativa da REEVE (T&T 1986, 155) – anche A discendesse da quel codice, a rigore stemmatico, il capostipite comune ad APKB, cioè Γ, potrebbe coincidere con il codex di Carnotum. La restante tradizione manoscritta, costituita da codici risalenti al XV sec., è da ricondursi invece all’altro codice deperditus, ritrovato nel 1433, ad opera dell’Aurispa, a Magonza, e perciò detto Maguntinus (Σ).46 I più importanti sottogruppi di questo ramo sono Θ e Λ: la famiglia Θ, così chiamata da REEVE (1979, 315) dovrebbe meglio rappresentare il codex deperditus in questione perché – e

|| 43 P gode di poche menzioni nell’apparato del WESSNER, qualcuna anche sbagliata; cf. KAUER (1911) 144–54 e 323–35; WESSNER (1921) 428–32 e 449–455; CIOFFI (2013) 101–132. A si interrompe a Ad. 65; B è un codice miscellaneo che contiene solo parti del Commentum e solo nei ff. 1–20: An. 320.3–Eun. 454.2 e Hec. 430.1–Hec. 774.3. 44 Per quanto riguarda il rapporto di K con il Carnotensis, cf. REEVE (1979) 313–315. 45 In realtà dovremmo citare anche il codex Cuiacii, per il quale rimando a WESSNER (1902) XVI ma soprattutto a REEVE (1979) 324–326. 46 BEESON (1922) 299–302 si figura una situazione stemmatica molto diversa, ma cf. REEVE–ROUSE (1978) 247, n. 31. https://doi.org/10.1515/9783110584653-004

Il quadro testimoniale del DCA | 37

ribadisco che questa affermazione è valida solo per le due sezioni in cui cade l’Andria47 – non mostra segni di contaminazione con l’altro (il Carnotensis, scoperto con ogni probabilità dopo che il capostipite Θ era stato scritto). Quanto a Λ, pur essendo testualmente evidente l’appartenenza al medesimo capostipite da cui discende Θ, è pur vero che nell’Andria e probabilmente in altre sezioni, come per la lacuna in Hecyra (REEVE 1979, 319), ebbe modo di attingere a K o ad un manoscritto assai simile.48 Nella sez. 1 e solo per la praefatio, fra i rappresentanti del Maguntinus, o comunque di afferenza maguntina, compare anche un estratto del XV sec., il codex Ambrosianus L 53 sup. (S), posseduto dal Pizzolpasso.49 È appunto nella sez. 1 che i testimoni di Σ appaiono nettamente più numerosi rispetto alla sez. 2: i principali sottogruppi sono costituiti da δ, ricostruibile a partire da K (ovvero dal suo descriptus V), e δ1 (capostipite di QJ e μ),50 nonché dal gruppo Θ. Nell’allestire l’edizione del DCA, sono stati presi in considerazione anche gli estratti di Donato presenti in Vienna Scot. 212, il cui testo è di tipo Λ:51 data la loro rarità, unitamente al fatto che il gruppo Λ risulta già ben rappresentato, sono stati collazionati solo per completezza ma, nell’edizione, se ne tiene conto in pochi casi. Le note del Leidense (B. P. L. 191 BF.) presentano una complessa situazione testuale a causa della molteplice stratificazione delle mani, due delle quali di particolare interesse: la prima (m1) annota un testo donatiano di un particolare gruppo di manoscritti Λ, caratterizzati per essere contaminati con un testimone di tipo Γ, ossia α;52 m2, invece, mostra di aver a disposizione un testo Θ (come già aveva intuito REEVE 1979, 322). Tranne eccezioni, motivate da situazioni testuali molto vessate, anche per questo codice ho preferito sottoporre qui una trascrizione parziale costituita dalle porzioni testuali più interessanti, soprattutto da un punto di vista variantistico; in merito alle annotazioni del Victorianus (D) e alla testimonianza del Bernensis 276, entrambe già molto discusse ed indagate (rimando a pp. 24ss.).

|| 47 Per la divisione del DC in 8 sezioni, cf. REEVE (1979) 323. 48 Cf. CIOFFI (2015) 356ss. 49 SABBADINI (1903) 185ss.; REEVE (1979) 323. 50 Per μ, che indica l’accordo dei codici O a m n, si tenga conto che è un gruppo che fa parte di δ fino ad An. 75.1 circa, per poi confluire in Λ (cf. REEVE 1979, 319–320). Per quanto riguarda QJ, invece, il passaggio a Λ avviene subito dopo le prefazioni, quindi ad An. 1. 51 La loro collocazione stemmatica è ulteriormente precisabile, come vedremo. 52 In merito alla dimostrazione dell’esistenza di questo gruppo, cf. CIOFFI (2012) 145–186; qui pp. 99ss.

38 | L’archetipo ω ed i suoi testimoni

Quanto alle edizioni (cf. pp. 161ss.), mi limito qui a dire che l’editio princeps è la Veneta del 1471; dalla princeps dipende l’edizione calfurniana,53 che comunque mostra di avere a disposizione una fonte manoscritta vicina al gruppo α; le edizione dello STEPHANVS e del LINDENBROGIVS sono note alla bibliografia donatiana soprattutto per il problema delle loro fonti manoscritte, a cui loro stessi fanno riferimento: spesso è in dubbio il codice usato (STEPHANVS), talvolta l'uso diretto o indiretto della fonte manoscritta (LINDENBROGIVS), spesso non è chiaro in quali punti l'editore utilizzi i manoscritti ed in quali congetturi.54 Nei capitoli che seguono si tenterà di dimostrare la validità degli stemmi proposti nell’edizione del Commento all’Andria e sotto riprodotti, iniziando la discussione dalla sez. 2, quindi dalle configurazioni stemmatiche 2 e 3 (cf. pp. 34ss.).

4.2 Errori comuni: l’archetipo ω Si propone di seguito una selezione, puramente esemplificativa, degli errori riconducibili in ultima istanza ad ω, e rappresentativa dei testimoni delle diverse sezioni:55 A(P) η (S Σ) [An. praefatio] I 6 filius ω, secl. Muretus I 10 proscaenio] in prohemio ω II 1 in fabula] in fabulis ω

|| 53 La sigla adottata dal REEVE per la princeps è ‘e’. Nel mio apparato uso la sigla ‘e2’ per indicare l’editio Romana del 1472 che sembra esserne fedele riproduzione. Quanto all’edizione del Calfurnio la prima è del 1476 (ma ha avuto una circolazione limitatissima, cf. SABBADINI (1894) 81–82 e la seconda è del 1477. Le sue fonti sono note già a REEVE (1979) 311: „Calphurnius’ edition conflates e and a manuscript like f“. 54 La prima edizione dello STEPHANVS (abbreviato anche con Steph.) risale al 1529. Ricordo che l’edizione in questione va menzionata per almeno due motivi: la fitta presenza di graeca ed il fatto che l’editore dica, nella prefazione, di avere utilizzato un antico manoscritto, un’informazione a cui REEVE dà credito (cf. REEVE 1979, 316–317), ma la cui identificazione resta tutt’altro che certa (cf. WESSNER 1902, XV–XVI). Quanto al LINDENBROGIVS, la prima edizione risale al 1602. Essa segue in modo alquanto pedissequo quella dello STEPHANVS, ma è interessantissima per vari motivi: in primis, perché, grazie a questa edizione, possiamo tentare di recuperare qualche lezione del perduto Cuiacianus (per la questione del Cuiacianus rimando a WESSNER (1902) XVI e XXXV–XXXVI (praefatio) e a REEVE (1979) 324–26. 55 Per quanto riguarda le sigle, si veda lo schema orientativo di pp. XI–XII. Trattandosi di errori di ω, ne consegue che il ripristino del testo (presumibilmente) corretto è di natura congetturale.

L’ordine delle commedie | 39

[An. 1–320.3] An. 1.7 attulit] appulit ω An. 27.3 ἔξω agendae] exagendae ω An. 99.1 post sed lacuna in ω An. 115.2 aculeis] acuneis ω An. 119.3 Simo nisi] Simonis ω [An. 320.4 – An. 981] An. 331.1 propter id] postulare ω An. 457.3 in omni] in una ω An. 473.6 obstetriciam] hoc extra etiam ω An. 616.1 cum ω, seclusi An. 720.3 Probus] probe ω

4.3 L’ordine delle commedie Sull’ordine, con cui dovevano susseguirsi le commedie in ω, è stato scritto a varie riprese;56 i due rami della tradizione su questo punto risultano perfettamente divisi: in AK le commedie sembrano seguire un criterio alfabetico, quello che nella tradizione terenziana è attestato dalla classe δ del ramo callopiano; mentre in Σ si susseguono secondo un ordine, per così dire, cronologico, quello che ci testimonia il Bembino (A) di Terenzio;57 in B sono traditi solo tre parziali spezzoni del DC che si susseguono nell’ordine Andria, Eunuchus, Hecyra: chi ritiene probabile o addirittura certo che anche l’ordine in B fosse riconducibile in ultima analisi ad un criterio cronologico, naturalmente è portato a rigore di stemma a ritenere innovante l’ordine alfabetico (AK) e originario quello di Σ.58 In termini generali, si può trarre poco dalla successione in cui le diverse commedie sono state scritte, soprattutto in una tradizione come quella donatiana, dove è scontata la tendenza a riscrivere Donato adocchiando qualche manoscritto terenziano: questa comunicazione, come ha oscurato in diversi punti il testo di Terenzio così come era noto a Donato, potrebbe aver ugualmente condizionato l’ordine di copia del commento alle diverse commedie. In altri termini, se

|| 56 LEO (1883) 324; UMPFENBACH (1870) XL; WESSNER (1902) XXIV–XXV; MARTI (1961) 150; ZWIERLEIN (1970) 114; REEVE (1979) 314, REEVE (1986) 155, HLL 5, 157; CIOFFI (2014) 126. La testimonianza di Prisciano (GLK III 423), che talvolta si vede addotta dai sostenitori dell’ordine alfabetico, può essere ritenuta meramente indiziaria ma sicuramente non probante. 57 A me interessa mettere in evidenza che si tratta in entrambi i casi di un ordine che trova riscontro nei manoscritti terenziani, ma la questione è certamente più complessa, cf. HLL 1, 250; RIOU (1973) 88, n. 1; GRANT (1973) 88–103; VILLA (1984) 1–3; REEVE (1986) 416. 58 A tal proposito si veda anche HLL 5, 157.

40 | L’archetipo ω ed i suoi testimoni

anche, nonostante il suo stato parziale, si ammettesse per B un ordine cronologico, e quindi maguntino, sarebbe un dato poco influente sia in termini stemmatici sia per quanto riguarda la decidibilità dell’ordine in cui dovevano figurare le commedie commentate in ω: in una fase successiva ad AB, fase in cui all’Andria seguivano gli Adelphoe, qualcuno potrebbe aver deciso di adeguare l’ordine di successione delle commedie a quello esibito dal manoscritto terenziano disponibile nel suo scrittorio. Si tratta di un criterio altamente reversibile. A mio avviso, in termini stemmatici tanto l’ordine alfabetico quanto quello cronologico possono considerarsi parimenti possibili.

5 Il Carnotensis (Γ) 5.1 Tracce storiche e testimoni 5.1.1 Sulle tracce di un codex deperditus Anche se francese, Jean Jouffroy59 era un brillante dotto ed ottimo studioso dell’antichità: così scrisse Giovanni Aurispa nell’epistola verosimilmente databile al 25 gennaio del 1449 (ep. 96, SABBADINI 1931, 119),60 in cui si conserva traccia di un’informazione molto preziosa, precisamente che Jean Jouffroy, giunto a Roma (fra 1448 e 1449), aveva avuto modo di incontrare Aurispa, e che in questa occasione gli comunicò della sua scoperta di un Commentum Donati in tris Plauti comoedias, dove Plauti non può che essere un errore per Terenti (cf. SABBADINI 1931, 119, n. 4).61 Monachus ille (scil. Jouffroy) qui primo Commentum Donati in Virgilium in Italiam apportauit, nuper Romam cum cardinale Burgundiae uenit. Is est et doctus et solers antiquitatis indagator, quamuis Gallus; dicit se inuenisse in tris Plauti comoedias Commentum etiam Donati, a me solicitatus misit in Galliam pro illis.

Probabilmente qualche tempo dopo l’incontro, Aurispa esplicita a Jouffroy la sua richiesta di ricercare quel codice, per trarne una copia: da ep. 104 (SABBADINI 1931, 125) sembra infatti supponibile che l’attività di trascrizione si sia svolta nell’anno 1450, mentre nell’anno 1451 Aurispa, rivolgendosi al Panormita, lascia intendere che l’acquisizione è ormai avvenuta.62 Iam dum scieram Carnuti in Gallia, Donatum in Terentium in biblyotheca ecclesiae maioris esse. Eum curaui ut transcriberetur mihique huc Romam transmitteretur, quod iam factum est et eum codicem hic habeo et dedi operam ut transcriberetur: quod cum erit factum, et cito fiet, originalem ad te mittam non dono, sed ut tu et alii copiam habeant.

L’insistenza sulla necessità della trascrizione prima di mettere il testo in circolazione presso quanti ne avevano avanzato richiesta è probabilmente da cercarsi nel non felice destino che aveva subito il primo manoscritto di Donato, che lui

|| 59 Cf. SABBADINI (1914) 200–201. 60 Cf. anche SABBADINI (1914) 223 e SABBADINI (1971) 194, n. 53. 61 Su questa ricostruzione si mostra sostanzialmente d’accordo anche MANFREDI (2003) 20; per altra bibliografia, soprattutto in merito agli spostamenti di Jouffroy, cf. MÄRTL (1996), ma anche DESACHY (2012). 62 Cf. BERTOLDi (2004) 150–152. https://doi.org/10.1515/9783110584653-005

42 | Il Carnotensis (Γ)

stesso ebbe modo di scoprire nel 1433 a Magonza, disperso nella rete di amici non sempre solleciti rispetto alla riconsegna. Il 5 febbraio dello stesso anno (ep. 105, SABBADINI 1931, 126–127), Aurispa aggiorna il Panormita circa la sua volontà di produrre una copia del testo di Donato inviatogli, in modo da poterlo prestare senza incorrere nel rischio di una seconda perdita, al contempo identificando espressamente in Guarino, in Marsuppini e nello stesso Panormita i responsabili della precedente disavventura della sua copia maguntina: Superiore hebdomada item ad te scripsi ac certiorem feci me iam Commentum Donati in Terentium habuisse, quod Carnoti ut rescriberetur curaui. Facio item transcribi ut ipsius copiam secure amicis facere possim, ne forte denuo mihi eueniret quod Guarinus, Carolus et tu mihi fecistis.

Se del codice di Magonza (cf. pp. 52ss.) caratteristica precipua sarà stata la difficoltà di lettura, del Carnotensis un aspetto caratterizzante sembra essere il suo stato lacunoso: “When Jouffroy discovered it, however, it lacked part of Hecyra and had a ‘defectus’ in Phormio” (così REEVE 1986, 155). In effetti nel 1447 (probabilmente, come ricostruisce SABBADINI, nel mese di gennaio)63 il Valla rende nota a Tortelli l’informazione ricevuta da un amico, ovvero di un Donatus, rinvenuto presso Carnotum, ma non integro (ep. 40, BESOMI 1984, 311 = ep. 64, SABBADINI 1891, 116): Nunc partim fatigatus scribendis hoc die ternis litteris ad totidem cardinales, partim (papaeque apud SABBADINI) non aliud scribo quam quod ab amico ut scriberem iniunctum est, ut queras a domino Columnensi, siue quis alius es[t qui] Donatum super Terentium habet, nunquid integer Donatus reperiatur et an super omnes comoedias scripserit. Nam hic amicus meus apud Carnotum uidit hunc auctorem, sed sine tertia comoedia Eautontemerou[menos] et non integra quinta Ekura, itemque cum defectu in sexta, quae dicitur Phormion.

Anche se è dubbia l’identità dell’amico che gli avrebbe imposto di scrivere al Tortelli per sapere, presso Prospero Colonna (?) o chiunque altro avesse un Donato su Terenzio, se il testo del DC in circolazione fosse integro e riguardasse tutte le commedie, è plausibile tuttavia che si tratti proprio di Jouffroy, suo allievo a Pavia, come pure suppone BESOMI (1984, 300–301). In via ipotetica, dunque, Tortelli nel 1441 aveva a disposizione un Donato all’Eunuco, e lo mette a disposizione del Valla; ancora nel 1447 non ha accesso lui stesso al DC completo, ma sa (o si presume che sappia) a chi ricorrere per averlo.

|| 63 Per la datazione ed altre considerazioni, cf. BERTOLDI–MANFREDI (2004) 148, n. 158 e 150 (anche n. 163), 151.

Tracce storiche e testimoni | 43

Ritornando all’epistola 40, delle tre informazioni ricavabili, solo una può assumere una funzione individuante (come già notava SABBADINI 1894, 52–53): l’assenza del commento all’Hautontimorumenos è, come noto, un difetto già d’archetipo; il difetto del Phormio potrebbe riferirsi semplicemente alla netta diminuzione degli scoli oppure, in ultima analisi, alla doppia fila di note parallele che caratterizza Phorm. 350–440;64 la lacuna dell’Hecyra, invece, che occupa la sezione 4 (= Hec. 458.4–728.1), è propria di un gruppetto di manoscritti, Oare xp mn, a cui si possono aggiungere anche M e D, in cui il testo lacunoso è recuperato con il ricorso a seconde fonti; e non è da escludere, pur in assenza di indizi in tal senso, che lo stesso sia accaduto per i restanti sqtfWh (cf. REEVE 1979, 319). Si badi inoltre al fatto che la prima menzione del DC nell’epistolario del Valla risale almeno al 1441 (ep. 14 BESOMI), dove esplicita di avere a disposizione solo la parte riguardante l’Eunuchus,65 e questo trova conferma nelle sue opere: solo in quelle del periodo romano, successive al 1448, si rintraccia la presenza di menzioni DC che vanno oltre l’Eunuchus. 66

5.1.2 I testimoni È di REEVE (1979, 313–314) il merito di aver legato il testo di K al codex di Carnotum, come già anticipato: la sua ricostruzione individua in K la copia del codice che Aurispa aveva promesso al Panormita; la prima mano, delle quattro distinte, sarebbe di Jacopo Ammannati (su cui cf. DBI 2, 1960, 802ss.). Per l’Andria e fino a Ad. 65.2 il codice A si oppone testualmente da solo a tutta la restante tradizione manoscritta, presumibilmente (almeno per l’Andria) di derivazione maguntina; la presenza di significativi accordi in errore condivisi da AK indica che K, da An. 28.1 fino alla fine della commedia, afferisce al ramo di A. Quando quest’ultimo, poco dopo gli Adelphoe, cessa, viene meno il termine di paragone sulla base del quale poter stabilire il ruolo stemmatico di K: “How much of K after Ad. 1, 1, 40 (= Ad. 65.2) derives from the Carnotensis becomes one of the main problems in the tradition” (REEVE 1979, 314; cf. anche Id. 1986, 155). Inoltre,

|| 64 Per il termine defectus da intendersi come lacuna, cf. RIZZO (1973) 236–237. 65 Quorum sunt duodecim comedie Plauti recenter inuente, Donatus in Terentium, cuius tantum Eunuchum uidi, Victorinus, Cornelius Tacitus, et siqui sunt alii. 66 Il materiale tratto dal DCA è soprattutto di tipo etimologico; per la discussione anche cronologica, cf. CESARINI MARTINELLI (1996) L–LI, 26–28.

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da un punto di vista stemmatico, è imprecisabile la posizione del codice di Carnotum all’interno del ramo Γ, ovvero se sia da identificarsi con Γ stesso o rappresenti un qualche anello più basso.67

5.2 Configurazioni stemmatiche 5.2.1 Praef. – An. 27.3. Errori comuni ad AP: Le tracce di Γ Nella zona di testo che si estende dalla praefatio e giunge fino alla fine del prologo (An. 27) il capostipite Γ è rappresentato dai soli AP, mentre K, per lo più ricostruibile sulla base del suo descriptus V, in questa sezione è testimone pienamente maguntino (cf. pp. 84ss.); a ciò si aggiunge che P non garantisce una presenza costante e non in pochi casi A funge da unico rappresentante dell’intero ramo Γ. La porzione praef. – An. 27.3 è molto breve ed AP sono portatori di una qualità testuale molto alta, riducendo così drasticamente la possibilità di poter selezionare errori veramente individuanti: prescindendo da un correggibile laborem di An. 2, citerei due casi interpretabili come congiuntivi ossia An. 15.2 (uitium rei corrotto in uitium re in A ed in uitio in P, forse indice di un comune problema) ma soprattutto An. 26.2 dove, a fronte di un corretto ex, A e P tradiscono una comune difficoltà (nec P: nocebit A). L’appartenenza di AP a Γ diventerà chiara a partire da An. 28.1.

5.2.2 An. 28.1 – An. 300. Errori comuni a AKP: le evidenze di Γ L’afferenza di K al ramo A è dimostrata da ZWIERLEIN (1970) 113–115 e confermata da REEVE (1979) 311, 318 con la precisazione del punto di passaggio, da fissare ad An. 28.1: si tratta dunque di un’acquisizione che mi limiterò a ribadire con alcune delle più importanti evidenze testuali. Lo stesso valga per l’afferenza di P al ramo di AK, che ho ampiamente discusso in CIOFFI (2014) 101–132 rendendo qui inutile ripetermi.

|| 67 Per l’ordine delle commedie, cf. pp. 39ss.; per la possibilità che anche A derivi dal Carnotensis, cf. REEVE (1986) 155.

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Errori significativi AKP An. 88.2 adiecit] adiciet AKP An. 148.2 text. interpolatus in AP (fort. K)68 An. 199.1 inultum] om. AKP An. 212.1 scilicet] scit AKP An. 235 post quid add. Pamphilus AP, sp. rel. K An. 236.4 ut] et AKP || hominem] homines AKP || ut2] in AKP Errori di KP contro A An. 63.1–2 figura] figurate KP || his δ: ut A: una cum K: una cum his PΛ An. 96.3 fortuna Aθ: unam fortunam K: una fortuna P: me fortunatum Λ An. 129.3 ad lacrimas] om. KP: lacrim(a)e A θ Errori di AK contro P69 An. 42.1 penes te etiam P] poeneste AK An. 69.4 parcaeque etiam P] parteq; A: partes K An. 230.2 mire etiam P] muri A: miri K

L’appartenenza di P ad ω, già discussa da WESSNER senza però entrare nei dettagli testuali, è una tesi molto plausibile data la sua condivisione di tutti gli errori d’archetipo e data quindi l’assenza di lezioni superiori ad ω non imputabili a correzioni congetturali: l’unico caso questionabile (An. 144.3), benché non estraneo alla portata di un congetturatore, è sollevato da una lettura imprecisa di KAUER.70 La condivisione di errori significativi con AK (si veda in particolar modo An. 199.1, An. 235, ma anche la configurazione testuale in più punti alterata di An. 236.4) rende probabile la riconducibilità di questi tre testimoni ad un unico capostipite nominato Γ. Più difficile definire il rapporto fra i tre testimoni all’interno del gruppo data la porzione di testo ridotta e l’alta qualità di cui questo ramo è portatore; soppesando le evidenze testuali si deduce una più stretta affinità fra K e P, a favore della quale sembrano parlare soprattutto la comune omissione di An. 129.3 nonché alterazioni testuali come An. 63.1–2 e 96.3.71

|| 68 Si tratta dello spezzone testuale ita tum ab illo ut ab eo, che A e P esibiscono in due punti del testo diversi benché ravvicinati (per l’analisi dettagliata, cf. CIOFFI (2013) 103–104. 69 Non si evidenziano accordi in errore di rilievo che coinvolgono AP contro K. 70 Tutta la tradizione legge scribi in luogo di sciri, che KAUER vedrebbe però in P; dalla copia del codice visionabile online propenderei per leggere scribi anche in P benché in questo punto la scrittura risulti sbiadita. 71 Per la discussione approfondita di questa ipotesi stemmatica, cf. CIOFFI (2013) 145–183.

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Γ

P A K

5.2.3 Γ dopo An. 301. Il codice B Già a partire da An. 245.5 gli scoli presenti in P subiscono una drastica riduzione fino poi a diventare rarissimi, e quindi scomparire, con l’avvicinarsi della fine della quinta scena del primo atto (≈ An. 300). La presenza di Γ è però sempre individuabile sulla base degli errori congiuntivi AK: cf. An. 265.1 (feminae AK), An. 269.1 (sunt] om. AK), An. 299.2 (abeat] habea A: abea K). Con An. 320.3 il quadro testimoniale viene incrementato dal codice B del XIII sec.; la sua appartenenza a Γ era stata ipotizzata in modo dubitativo da REEVE (1986, 155), che di fatto lasciava aperta la possibilità che B costituisse un ramo dello stemma del tutto indipendente da AK e da Σ. Come per P, rintracciare errori AKB non è semplice a ragione del testo molto buono esibito dai tre; a questo si aggiunge poi che il copista di B è particolarmente propenso ad interventi congetturali di vario tipo. Complessivamente, B condivide tutti gli errori d’archetipo e non si registrano casi di inspiegabile superiorità; non si individuano casi di superiorità effettiva neppure rispetto ad AK ad eccezione di An. 854, comunque spiegabile in termini di emendamento ope ingenii; con il Maguntinus, inoltre, non sono emersi accordi meritevoli di attenzione.72 Ci sono però delle evidenze testuali valorizzabili nell’ottica dell’afferenza di B a Γ, benché non sempre limpidi ovvero svincolabili da una forte azione interpretativa. L’ordine dei casi presentati nell’elenco che segue tiene conto del grado della significatività effettiva degli errori condivisi; i primi coinvolgono AKB, l’ultimo (An. 900), il cui peso stemmatico è duplice (in quanto definisce sia l’appartenenza di ABK ad una medesima famiglia sia la più stretta parentela fra A e B), coinvolge i soli AB:

|| 72 Per la discussione approfondita della configurazione stemmatica di B, cf. CIOFFI (2014) 111– 131.

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An. 875.1 an una sit] ain unde sit AKB An. 655.6 erant] cino te A: cisnote K: om. sp. rel. B An. 329.3 non sinat scripsi: non om. sp. rel. A: om. sp. rel. B: non sunt in exilium ire sunt K: non sinat audire Σ An. 324.2 ne–e.] om. sp. rel. AK: om. nul. sp. B73 An. 900 pater–purgem] om. AB

È chiaro che ogni caso di quelli elencati è stato sviscerato a fondo, prima di essere selezionato, tenendo conto del fatto ovvio, ma di cui spesso ci si dimentica, che gli errori apparentemente AKB potrebbero invece essere stati ereditati da ω e corretti da Σ: sarebbe però di certo improponibile pensare che configurazioni testuali alterate come An. 875 potessero essere corrette da Σ senza sbavature o più semplicemente che Σ potesse essere stimolato a correggere un testo che dà un senso in sé abbastanza plausibile. Tra le omissioni notevole per rilevanza stemmatica è soprattutto An. 900, che persuade a fissare un anello comune AB: non solo infatti la caduta di testo non può essere poligenetica, ma il fatto che sia evitata anche da K ci dovrebbe rassicurare, per logica stemmatica, sull’autenticità della pericope. Per altri errori propri di AB, cf. An. 352.2 (addito] audito AB, An. 348.4 idem2] om. AB).74 Γ

A B K

|| 73 Preciso che questo caso ha soltanto una potenziale congiuntività: si tratta infatti del testo di una citazione, di cui B omette anche il nome dell’autore. L’omissione potrebbe in sostanza essere avvenuta indipendentemente, soprattutto se si considera la tendenza di B all’omissione a scopo di sintesi. 74 Circa la possibilità che gli errori AB siano stati corretti da K, testimone tardo, per contaminazione, valga la considerazione che non ho individuato tracce testuali passibili di questa lettura e che, benché il fenomeno contaminativo affiori spesso con qualche difficoltà, la sua presenza avrebbe comunque permesso a K di aggirare molti errori singolari, cosa che invece non accade.

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5.2.3.1 Dublette: B e la doppia redazione di An. 663.3–4 ed An. 666 663.3 Et ‘inter’ modo praepositionis non habet significationem; est enim auctiua particula, ut (Plaut. Merc. 833) ‘interfectus, interemptus’. 663.4 Vel ‘inter’ modo pro ‘per’, ut (Verg. Aen. 7, 30–32) ‘hunc inter fluuio Tiberinus amoeno u. r. et m. f. h. in mare pror.’. 3. inter] me AB || post modo add. nominis non exigit additamentum Λ || praepositionis non habet significationem scripsi: pronuntiabat habetur significatio AB, inter cruces Wessner: pronomine hoc non habetur significatum K: pro non mediocri significat θ: pro non mediocri significatione Λ, post auctiua transp. || auctiua KΛ: tactiua A: adactiua B: actiua θ || ut] uel BB2|| interfectus] om. B2 || interemptus uel potius intereptus B: intercepit AB2: interceptus K Σ 4. modo (sic B)] modus AK B2 || pro per Wess. (duce Schopen*): post ω (pro post β) || ut B Σ: utili AB2: ut in K: ut ille Wessner || hunc (sic B)] uno AB2 K || fluuium ABB2|| Tiberinus] tibi o(mn)is AB: thyberinus β || amoeno] am(m)ixtio AB: annectat K || u.–h.] rem c. h. AK: Rem sp. rel. e. h. B: R. sp. rel. CT: per sp. rel. F: mult. uar. codd. Λ || pror. Wess.: pro hoc AB: proruat K: prorupit (vel prorumpit) Σ

Il testo dei testimoni Γ: trascrizioni et me modo pronunciabat habetur uel intercepit uel inter modus post utili uno inter fluuium uel significatio est enim adactiua particula uel interfectus intereptus uel inter modo pro ut hunc inter fluuium tibi omnis ammixtio Rem e h in mare pro h. B, f. 6r. Et ine (uel me) modo pronuntiabat habetur significatio est enim tactiua particula ut interfectus intercepit uel inter modus post utili uno inter fluuium tibi omnis amixtio rem e h in mare pro hoc. A, f. 37u.–38r. Et inter modo pronomine hoc non habetur significatum est enim auctiua particula ut interfectus interceptus uel inter modos post ut in uno interfluuio tiberinus annectat rem e h in mare proruat K, f. 27r.

In corrispondenza di An. 663.3–4, in punto in cui è in discussione il valore del prefisso inter (particella intensiva o preposizione?), in una zona già molto alterata e corrotta, il codice B presenta una doppia versione dello spezzone testuale successivo a particula ed esteso fino a fluuium; la prima versione (d’ora in poi B2) è dislocata dopo habetur ed è segnata nella sua parte incipitaria e finale da una l tagliata (= uel), la prima delle quali forse derivata da un ut (cf. ut interfectus ...). La problematicità di questa stringa ripetuta non risiede nella ripetizione stessa, bensì nella diversa qualità testuale delle due versioni: B2, quindi il testo dislocato, mostra di condividere gli stessi errori di A, ovvero ut hunc letto come

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utili uno (errore paleograficamente spiegabile in minuscola carolina)75 ed intercepit in luogo di interemptus; alla seconda occorrenza, non dislocata (= B), il testo si legge in una fattura migliore: evita tanto il primo quanto il secondo degli errori evidenziati. L’errata lettura intercepit, non correggibile ope ingenii, è, come detto, solo di A e B2, quindi a rigore stemmatico la sua genesi potrebbe non risalire a Γ, bensì all’anello comune AB. La seconda zona di criticità, in corrispondenza di ut hunc, crea difficoltà anche a K, ma gli esiti sono diversi: quest’ultimo legge infatti ut in uno, così tradendo l’informazione preziosa per cui lo stato testuale di Γ gli consentiva di riconoscere ancora, magari conservato attraverso qualche stadio intermedio, l’ut; con molta probabilità, quindi, in Γ era ancora possibile una corretta segmentazione del testo (una volta separato ut la leggibilità di hunc non sarebbe risultata del tutto compromessa come in utili). Alla luce di queste costatazioni, ad un’ipotesi contaminativa, che certo balenerebbe ad una prima analisi, va preferita un’altra spiegazione: il testo, di cui sono testimoni A e B2, si genera nell’anello comune AB; probabilmente il copista, accortosi della non brillante trascrizione, annota una seconda lettura a margine; A, o già il suo antigrafo, ignora del tutto la rilettura marginale, mentre l’antigrafo di B, o qualsiasi anello che potrebbe essere intercorso fra il capostipite AB e B, ha la prontezza di sostituire correttamente il testo, ma probabilmente conserva a margine anche la prima lettura, che, come spesso accade in casi simili, finisce poi per essere inglobata a testo, fuori posto. Allo stesso modo si può spiegare quanto accade nel seguito: 666.1 AT TIBI DI DIGNVM FACTIS EXITIVM duint ‘at’ principium increpationi aptum, ut Vergilius (Aen. 2, 535) ‘at tibi pro scelere’ et Horatius (epod. 5, 1–2) ‘at o deorum quicquid in caelo regit terras et h. g.’ [...] 667.2 dic mihi semper τὸ ‘dic mihi’ iniuriosum est, ut ille (Verg. ecl. 3, 1) ‘dic mihi, Damoeta, c. p.?’ 667.3... 1. dignum exitium inter alterum at tibi atque et1 transp. B (scil. in loc. illius pro scelere, cf. infra) || at] ad A: om. BK (ut rest. s.l.): ast T: ac F || principium–scelere ante 667.3 iter. B (quae sub nota B2 signaui) || increpationi V2: increptationis ω || ut (sic B2)] om. B || Vergilius (sic B)] irem AB2 || at tibi (sic B)] at tili A: atuli B2 || pro scelere Verg.: pro se nox celere AB2: per sene

|| 75 WESSNER vorrebbe riconoscere in utili uno le tracce di un ille, perdutosi nell’altro ramo; in realtà questa stringa corrotta si spiega bene a partire da un testo come quello stampato (ossia ut hunc), poiché in un contesto di minuscola ed in scriptio continua la lettera h poteva senza dubbio essere interpretata come nesso li, dando origine a utili; uno è chiaramente la conseguenza di questa cattiva segmentazione, con c banalmente confusa con o. Citazioni virgiliane prive di rimandi all’autore sono molto comuni, cf. Don. Ad. 2.2, ibid. 10, 2, al.

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scelere K: pro s(c)euo scelere Σ: om. B || caelo] celorum θ || post regit add. in θ: add. et Λ || terras et] om. B || h.] ah θ: humanum B || g.] genus B

Il testo dei testimoni Γ: trascrizioni At tibi di Principium increpationis aptum Virgilius at tibi dignum factis exicium et horacius at o deorum quicquid in celo regit humanum genus dic mihi semper to dic mihi iniuriosum est ut ille dic mihi dameta cuium pecus Eho interiectio est intentionem audientis exposcens dic mihi principium increpationis aptum ut irem atuli pro se nox scelere B, f. 6r. Et actibus dignum factis exicium dum intus ad principium increpationis aptum irem attili por se nox scelere et oratius at odetrum quia idest in celo regit terras et h g A, f. f. 37u.–38r At tibi dignum factis exicium dauit ut principium increpationis aptum ut uirgilius at tibi persene scelere et oratius ut deorum quicquid in celo regit terras et h g K, f. 27r.

Il testo del codice B soffre in questo punto di diverse perturbazioni: in primo luogo la macroscopica ripetizione del testo successivo ad aptum, ed esteso fino a scelere, dopo lo scolio 667.2 mihi (= B2); la prima occorrenza (quella non dislocata) di questo stesso spezzone testuale è a sua volta interessata da un’alterazione dovuta alla dislocazione di una parte in origine lemmatica (dignum factis exicium dopo at tibi). Questo stato testuale riduce la porzione di testo B e quindi la possibilità di un confronto vero e proprio con B2, benché comunque emergano dei punti di particolare interesse: come accadeva nel caso visto sopra, mentre il testo dislocato (B2) condivide degli errori significativi con A, il testo non dislocato li evita; inoltre anche qui il ruolo di K risulta essenziale per l’ipotesi ricostruttiva: A e B2 condividono la lettura irem per Vergilius, atuli/attili per at tibi, entrambi errori che sarebbero nati nell’anello comune AB ed evitati da K, il quale esibisce il testo corretto, esattamente come B; il seguito della citazione, invece, oltre che in A e B2, è corrotto anche in K e complicato da un’interpolazione in B, ed è probabile che lo fosse già in Γ. Si deve perciò immaginare che il copista responsabile della trascrizione del codice-anello AB, giunto a scelere, si fosse accorto che quanto aveva trascritto era privo di senso, perciò lo riscrive a margine, forse espungendo con uacat o con dei semplici trattini sottoscritti la precedente lettura: la seconda lettura gli riesce meglio, ma non è comunque in grado di leggere il corretto scelere in luogo di se nox celere, evidentemente irriconoscibile già in Γ, come anticipato; A, nel trarre la sua copia, comprende che in quel punto il testo era stato espunto in favore di quello

Configurazioni stemmatiche | 51

marginale, e si limita alla sostituzione, mentre B (ovvero l’antigrafo di B) corrompe ulteriormente il quadro già complicato: opera la sostituzione delle due stringhe (il testo marginale prende il posto di quello espunto) ma per prudenza non solo riporta a margine quanto sostituito, ma sceglie di lasciare dello spazio bianco in corrispondenza di se nox celere, in attesa di controllare la citazione virgiliana, intuibilmente errata. B, poi, non solo non comprende la funzione dell’annotazione extra-testuale, portandola a testo dopo 667.2 (= B2) ma supplisce lo spazio bianco con una sezione di lemma terenziano (= B), e non è precisabile se si tratti di una sorta di supplemento intenzionale o un’ulteriore involontaria alterazione. Anche qui si può perciò parlare di un complesso stato testuale, caratterizzante già Γ e ulteriormente corrotto dall’anello AB, e dunque da B. Nell’ipotesi, a mio avviso minoritaria, di un’attività contaminativa di B, non ci sarebbero elementi per individuare una fonte di contaminazione esterna a Γ, il cui testo, come dimostra K, doveva essere invece molto meno sofferente di quanto appaia in A: in altri termini, B, dovendo correggere errori nati dopo Γ, ovvero nel subarchetipo da cui discende anche A, non sarebbe stato costretto a contaminare con l’altro ramo, ma solo ad attingere ad una fonte sopra il subarchetipo AB, ma pur sempre di afferenza Γ. Si può perciò concludere, se l’interpretazione data è giusta, che le evidenze macroscopiche ad An. 663.3–4 nonché ad An. 666.1 aggiungono valore all’ipotesi dell’esistenza di un anello intermedio AB e, per proprietà transitiva, dell’appartenenza di B a Γ.

6 Il Maguntinus (Σ) 6.1 Scoperta e circolazione 6.1.1

La dubbia circolazione del DC prima della riscoperta del Maguntinus

Il 6 agosto del 1433 Giovanni Aurispa, a Basilea per partecipare al concilio, annuncia la scoperta di diversi testi classici, tra cui i Panegyrici Latini e, per l’appunto, il DC, consegnandola ad un’epistola indirizzata a Iacopino Tebalducci ed oggi conservata nell’Archivio Mediceo di Firenze:75 In queste iorne passate sono andato fino a Cologna et da Cologna ad una terra, la quale si chiama Axi [...]. A Nicolai, lu quale honorai et hebe sempre per mio patre, ve prego me accomandate prima, da poi le dirrete che lu mio andare verso Cologna non è stato sensa fructo, però che io ho trovato in una bibliotheca a Magunza un codice in lu quale si è un Panigyrico de Plinio a Traiano, de lu quale non lesse mai più suave cosa et in eodem codice sunt Panigyrici aliorum autorum ad diversos Caesares. Ho trovato ancora un commento de Donato supra Terentio, lu quale nullo erudito lesse mai sensa grande voluptate. In Cologna trovai io Consulto de Arte dicendi, rem quandam singularem. Habemus hic Plinium cuius titulus est Phisica Plinii, sed tractatus est in medicinis.

Il Commentum de Donato supra Terentium, indicato nella lettera, sarà d’ora in poi chiamato Maguntinus, perché per l’appunto rinvenuto a Magonza. Se prima di quella data un DC su Terenzio (continuo) circolasse, è allo stato dei recenti studi alquanto incerto o perlomeno dubitabile; SABBADINI (1903, 185ss.; 1914, 206ss. = 1971, 153–158) aveva avanzato la possibilità di una conoscenza del DC prima della riscoperta del codice Maguntino, peraltro testimoniataci da un frammento conservato nel codice S (Mediolanensis Ambrosianus L 53 sup.),76 posseduto dal Pizzolpasso,77 e tratto –stando alla sua ricostruzione– da un codice di Donato scoperto in Francia da Nicolas de Clamanges in una data anteriore al 1433.

|| 75 In merito a Giovanni Aurispa, cf. DBI 4, 593–594. Per bibliografia più recente rispetto ai lavori di SABBADINI, e qui presupposta, cf. anche SOTTILI (1966) 42–63; ZACCARIA (1974/5) 187–212; FRANCESCHINI 1976; SOTTILI (1988) 287–328; Id. (2001) 15–30; CACIOLLI (1994) 599–647. La lettera fu pubblicata prima da KEIL (1870) e poi da SABBADINI (1931) 81–83. 76 La sigla S per SABBADINI indicava non l’Ambrosiano, ma il suo antigrafo (cf. SABBADINI 1914, 210). 77 Per Pizzolpasso, cf. la relativa voce aggiornata in DBI 84. https://doi.org/10.1515/9783110584653-006

Scoperta e circolazione | 53

Buona parte della verosimiglianza di questo quadro storico–filologico dipende dalla datazione della lettera che Nicolas de Clamanges scrive al Pietramala (ep. V), ove la conoscenza del DC è presupposta: SABBADINI la colloca quasi 40 anni prima della scoperta aurispina. CECCHETTI però, nel suo studio, dimostra che nell’epistola in oggetto i passi donatiani risalgono ad una versione successiva, collocabile intorno al 1430.78 Nonostante la correzione, non risulta definitivamente compromessa l’ipotesi che Clamanges, il quale aveva notoriamente accesso alle biblioteche di gran parte della Francia,79 potesse aver aver trovato ed utilizzato un codice donatiano diverso dal Maguntino, un codice x rinvenuto pochi anni prima dello spartiacque del 1433, ma anzi il ricorso ad un qualche testo donatiano già intorno al 1430 è un’ipotesi piuttosto concreta: citazioni dal DC, non tràdite sotto forma di aggiunte, si ravvisano in un autografo di Clamanges, il manoscritto Reims (Bibliothèque municipale, 628: ff. 162u–163), datato agli anni 1425–1428, e testimone di una redazione non definitiva:80 quicquid praeter spem euenerit omne id deputare in succo; supra quo Donatus in commentario. Bona inquit sententia monet tum maxime sapienti metuendum quo tempore maxime securus est stultus.

A risultare invece indebolita è la tesi (SABBADINI 1914, 212 = 1971, 157) per cui Pizzolpasso avrebbe ottenuto da Clamanges il codice, da cui sarebbe stato tratto S, intorno agli anni 1422–23, quando si recò in Guascogna come vescovo di Dax:81 come mettono in evidenza REEVE–ROUSE (1978) 248–249, se è vero che Pizzolpasso, che viaggiò moltissimo, poteva essersi procurato il manoscritto in una data qualsiasi prima del 1443 ( “the archbishop, who travelled extensively, could have acquired it at any time before his death in 1443”), è altrettanto vero che non c’è alcun legame documentabile fra il codice di Clamanges ed il frammento ambrosiano (S), come notano ancora REEVE–ROUSE (“SABBADINI did not actually show that it cannot derive from the Maguntinus, which went through his [scil. Pizzolpasso] hands in 1436”).

|| 78 CECCHETTI (1982); ma cf. anche BOZZOLO (1984) 117–118. 79 Molto utile MONFRIN (1991) vol. I, IXss. e 82ss. 80 Sulla datazione c’è un sostanziale accordo bibliografico (cf. in particolare CECCHETTI 1982, 131–133, 165, SANTONI 1987). Circa le citazioni da Donato, cf. anche BOZZOLO–ORNATO (1992) 19. Ho consultato il manoscritto in rete, dando la trascrizione del passaggio sopra citato. 81 Ricordo che Pizzolpasso ottenne la carica di vescovo di Milano il 7 giugno del 1435. Per altre pertinenti informazioni, si veda anche JACK (1958) 160–161.

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Per quanto riguarda appunto S, a mio avviso la porzione che interessa l’Andria è troppo breve per considerazioni stemmatiche pienamente persuasive o anche soddisfacenti: data la condivisione di non banali errori Σ, accompagnata però da qualche lezione superiore (alcune messe in evidenza anche da REEVE–ROUSE 1978, 248), pare supponibile, più che l’indipendenza, un rapporto di fratellanza rispetto a Σ (per la discussione dettagliata, cf. pp. 86ss.).

6.1.2

La scoperta a Magonza

“Ho trovato ancora un commento de Donato supra Terentio, lu quale nullo erudito lesse mai senza grande voluptate” (ep. 66, SABBADINI 1931, 81 = SABBADINI 1971, 159–160 = SABBADINI 1914, 214 = SABBADINI 1890, 64):82 così, si è già notato, scrisse Giovanni Aurispa a Jacopino Tebalducci nel 1443 (anno non indicato espressamente, ma di pacifica acquisizione bibliografica), una data che segna in modo direi definitivo la rinascita dell’interesse per il lavoro esegetico di Elio Donato e la sua circolazione. Il codice in oggetto prende per l’appunto il nome di Maguntinus. La notizia della scoperta dell’Aurispa dovette avere facile diffusione ed anche le richieste di prestito della sua copia maguntina non tardarono; subì molti ritardi, invece, l’opera di trascrizione:83 dalle lettere successive si deduce che in molti o si limitarono a copie parziali o abbandonarono il progetto, con l’ulteriore conseguenza che ci furono gravi dilazioni temporali anche nella riconsegna a chi di quella copia era pur sempre il proprietario. Forse del 1439 è l’epistola che Aurispa spedisce al Panormita (ep. 76), ed in cui si affronta precisamente il citato problema: Si ex animo commentum Donati in Terentium postulares, non nebuloni negocium commisisses, cum tot frugi et extimati homines isthinc ad nos uenerint. misisses praeterea ueteri amico et tui cupidissimo quicquam in illius antiquissimae beniuolentiae monumentum [...]. Sed audi quid in re est. fateor uelle me quicquam rerum abs te; sed quasi ita fortunatum sit, Donatus ille transcribi fato non potest, quippe quem cupidissimi codicum nouorum et doctissimi diutissime tenuerunt et nequiuerunt explere. Karolus solum id transcripsit quod tu habes,

|| 82 Le epistole sono citate secondo la numerazione e l’edizione di SABBADINI (1931). Per il quadro storico ricostruito ricostruito dallo studioso, cf. SABBADINI (1894) 17ss. 83 Per chiarezza, parlerò di copia dell’Aurispa, riservandomi poi di entrare nel merito del problema, bibliograficamente noto, circa la possibilità che Aurispa avesse portato in Italia il manoscritto originale. A REEVE–ROUSE (1978) 248 rimando anche per l’analisi dei passi delle epistole di Clamanges testualmente più interessanti; osservazioni equilibrate sullo stato bibliografico anche in RUIZ ARZÁLLUZ (2010) 14–15.

Scoperta e circolazione | 55

caetera, me saepe rogante saepe etiam postulante, non complet; studeo tamen omni cura ut transcribat; quod cum factum fuerit, habebis originale.

Karolus ovvero Carlo Marsuppini aveva approntato una trascrizione di una parte del DC, non sappiamo quanto ampia, e quest’ultima era già nelle mani del Panormita; perché completasse l’opera, lo stesso Aurispa si ripromette di fargli pressione: una volta finito, sarebbe stato nelle condizioni di prestare la sua copia al Panormita.84 Evidentemente il Marsuppini dovette detenere a lungo il codice preso in prestito, tanto da compromettere (o contribuire a compromettere) il rapporto con il Panormita, il quale, ancora nel 1444, non aveva ricevuto quanto promessogli; riscrisse quindi all’Aurispa perché facesse da intermediario e gli estorcesse il codice del Commentum: Procurabis, si me amas si a me amari uis, Commentarios Donati ad Terentium extorquere ab Aretino (scil. il Marsuppini) tuo, olim meo (ep. 87). Se l’Aurispa riuscì a riottenerne il suo apografo maguntino non è chiaro, si può però supporre che ad un certo punto andò perso: in un’epistola del 1451 (ep. 104, cf. p. 41) si esplicita con insistenza che, prima di inviare il testo ricavato dal testimone di Carnotum agli amici che ne avevano fatta richiesta, ne avrebbe tratto una copia onde evitare il danno procuratogli in precedenza: anche se il testo è complicato da molti sottintesi, si può supporre che si riferisca per l’appunto alla perdita del Maguntinus.

6.1.3

Habebis originale

L’espressione habebis originale, contenuta nell’epistola 76, è stata a varie riprese oggetto di discussione: se con ‘originale’ Aurispa intendesse riferirsi precisamente al manoscritto prelevato da Magonza, sarebbe un dato di tradizione notevole. Già SABBADINI, però, sembra non avere una posizione coerente su questo punto, e se nell’edizione del carteggio scrive (1931, 96, n. 4) “dalla parola ‘originale’ sembrerebbe che l’A. si fosse portato da Magonza proprio il codice antico e non un apografo”, nel 1888–1890 (421; cf. anche 19712, 165, 180) dimostra di non essere di questa idea; RIZZO (1973) 319 esclude la possibilità che con ‘originale’ si possa intendere qualcosa di diverso da ‘antigrafo’ o ‘modello’: approda a questa

|| 84 In merito al Marsuppini, cf. DBI 71, 14–22; per il Panormita, cf. DBI 7, 400–406. Per la corrispondenza fra Aurispa ed il Panormita, cf. RESTA (1987) 395–416.

56 | Il Maguntinus (Σ)

conclusione principalmente per ragioni di lessico ‘interno’ all’epistolario (o. è impiegato ancora nell’epistola 104 laddove è indubbio che si intenda una copia e non l’antico codice). A favorire questa interpretazione è anche il confronto con il comportamento tenuto dall’Aurispa in corrispondenza di un altro codice, contenente il Consulto de arte dicendi (ep. 66): il manoscritto originale di quest’opera si trova tuttora a Colonia, mentre ad essere importata fu solo una copia. Alle stesse conclusioni giunge anche SOTTILI: se, però, nell’intervento del 1966 (55), seppure in forma dubitativa, è ancora contemplata l’ipotesi che l’Aurispa stesso avesse avuto accesso al codice di Donato per poi lasciarlo nelle mani di Cusano, nel 1973 (311–312) lo esclude: Aurispa si sarebbe limitato, dopo la scoperta, a diffondere la notizia, lasciando ad altri il compito di recuperare il testo. L’attenzione si sposta inevitabilmente su Cusano: è infatti Cusano a godere di rapporti di amicizia tali da rendergli accessibili molte biblioteche, ed è anche colui che diede il Donato riscoperto da Aurispa a Pizzolpasso perché lo facesse trascrivere (in un codice copiato da Decembrio, che non si può identificare con l’assai incompleto S, come vedremo), secondo quanto ci testimonia una lettera inviata dallo stesso Pizzolpasso a Decembrio del maggio/giugno 1437 (SABBADINI 1888–90, 411 = 19712, 171–172; cf. anche Id. 1905, 26ss.).85 Habet uir iste peritus Theutonicus, de quo praemisimus, libros copiosos in graeco etiam cum latino et uocabulorum et uerborum et omnis grammaticae seriosissime litteris uetustis descriptos. Is est a quo Donatum in Terentium tuleramus in patriam. Anhelamus ad aliquorum uel saltem alicuius utilioris transcriptionem; sed nemo comperitur hic idoneus.

Il così definito “uomo teutonico” non è altri che il Cusano, grazie a cui, esplicita Pizzolpasso, è stato possibile portare in Italia il testo di Donato sopra Terenzio; aggiunge inoltre che desidera avere la trascrizione di alcuni dei testi a carattere grammaticale in possesso del Cusano, o perlomeno di qualcuno più utile, ma nessuno sembra essere all’altezza di simile incarico. Secondo la ricostruzione di SOTTILI (1982) 287–328, Cusano avrebbe prelevato il codice consegnandolo poi a Pizzolpasso, dal Pizzolpasso a Basilea ne ebbe una copia Aurispa in una data precedente al 16 Maggio 1435, perché la affidasse poi a Guarino;86 Pizzolpasso diede l’incarico della trascrizione a Decembrio: di quest’ultimo deteniamo una lettera, la cosiddetta ‘epistola apologetica’,87 con cui si attesta del processo di trascrizione della sezione pertinente il Phormio; però,

|| 85 Su Cusano, con bibliografia aggiornata, cf. THURNER (2002); su Decembrio e la sua biblioteca, si veda il recente articolo di PETOLETTI (2016) 147–190. 86 Cf. DBI 60, 357–369. 87 Il testo di questa lettera sarà approfondito nel paragrafo successivo.

Scoperta e circolazione | 57

dalla corrispondenza del Pizzolpasso con Traversari, scoperta in tempi relativamente più recenti da SOTTILI (1982) 287–328, si ha ragione di sospettare che Decembrio non abbia proseguito il lavoro di trascrizione estendendolo alle restanti sezioni del DC.88 Spostato l’asse della questione su Cusano, la domanda di partenza ha ancora la sua validità: il uir Theutonicus consegnò a Pizzolpasso direttamente il codice che era riuscito, con abili giochi diplomatici, a prelevare, oppure si trattava già di un apografo?89 Se infatti Cusano consegnò l’originale a Pizzolpasso, quest’ultimo ad Aurispa avrebbe affidato una copia perché incaricasse a sua volta Guarino di riprodurla e correggerla, mentre a Decembrio avrebbe affidato precisamente l’originale: questo è un dato inevitabile sulla base del già citato passaggio della lettera del 1437 in cui Pizzolpasso ammette con Decembrio che il codice, da cui fu tratto il Phormio, era di proprietà del Cusano, spettava a lui. A mio avviso una risposta definitiva sulla questione non si può avanzare, ma ritengo assai probabile che Cusano, subito dopo aver avuto accesso al Maguntino, ne abbia tratto una copia fedele o quasi fedele, ed è la sua copia ad essere stata messa in circolazione. L’analisi dei passaggi epistolari, con scelte lessicali spesso non definite o precisabili, porta a conclusioni altrettanto poco pacifiche: WESSNER (1897) 74 era convinto che Decembrio avesse sulla sua scrivania il codice antico e non una sua copia, e che le difficoltà enfatizzate nella lettera apologetica a Pizzolpasso consistessero anche di fatti materiali, ma, prima di lui, DZIATZKO (1879) 675ss. interpretava quelle stesse espressioni su un piano meramente testuale e di senso. Ad un’analisi puntuale dell’epistola, quando viene lamentata la condizione del testo non si trova nessun elemento riferibile o univocamente riferibile alla indecifrabilità della tipologia grafica, ed è del tutto assente qualsiasi accenno circa lo stato materiale del codice: entrambi aspetti che altrimenti ci si attenderebbe di vedere affrontati nel caso di un codice medievale. 6.1.3.1 La lettera di Pier Candido Decembrio Nel codice Florentinus Riccardianus 827, che ci conserva la corrispondenza di Decembrio, si individua un’epistola molto significativa, la stessa trascritta anche in due testimoni della tradizione donatiana: nel manoscritto C (Codex Oxoniensis

|| 88 Si avrà modo di riprendere queste questioni nei paragrafi successivi. 89 Da Sottili non è ricavabile in modo inequivocabile (cf. SOTTILI 1966, 54–55; Id. 1988, 312–313), ma sulla base delle osservazioni di p. 314 (1988), si capisce che del Maguntinus doveva essere stata tratta solo una copia, quella consegnata ad Aurispa, mentre l’altra doveva essere per l’appunto quella decembrina.

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Bodl. Canon. Class. Lat. 95) ed in F (codex Florentinus Marucellianus ms. C 224) afferenti al gruppo Θ (uno dei principali rappresentanti del Maguntinus),90 in entrambi copiata all’inizio del Commentum al Phormio. Il mittente è Pier Candido Decembrio, mentre il destinatario è Pizzolpasso: quest’ultimo, ottenuta finalmente una copia del DC grazie a Cusano, aveva affidato a Decembrio l’incarico di trascriverla.91 Fornisco i passaggi essenziali della lettera basandomi sul testo edito da SABBADINI (1888–90) 401–452 (= 19712, 167–8); poiché da lui ignorato, ho aggiunto in nota le varianti del codice F.92 Petrus Candidus Francisco Pizzolpasso Mediolanensi archipraesuli Quod prius mihi ex Donato tuo placuit excerpsi Phormionis partem ex Apollodoro traducti inuerso nomine, ut idem putat. Cuius laboris tempestiui admodum primicias ad te mitto; facile ex his cognosces quae deinceps sim exaraturus. Nihil est enim tam arduum tam obstrusum, quod labori obstet intenso. Quid enim his commentariis scriptum fallacius, quid ineptius? Et tamen litterarum amor me cogit elicere quod paternitati tuae utile atque iocundum futurum putem. Scio quamplurimos lecturos ea quae ad te mitto nec secus reprehensuros barbariem quandam ueteris scripturae et modo litterarum apices modo imperfectos rerum sensus derisuros, quasi haec meae culpa sit negligentiae. At uero si manum calamo, si mentem his infinitis erroribus addiderint, si insudauerint carie uetusti operis, ut ipse facio, et plerunque Tyresiam consuluerint, ut ego, cum dubito uehementer, erunt profecto modestiores in reprehendendo; et quae minus perfecte traducta sunt a nobis conferent his quae tolerabiliter fuere transcripta nec quid uideant erroris restitisse sed quid deinceps sit elimatum magnipendent. “Diagoras enim cum Samothraciam uenisset”, ut inquit Cicero, “Atheus ille qui dicitur, atque ei quidam amicus: ‘Tu, qui deos putas humana negligere, nonne animaduertis ex tot tabulis pictis quam multi uotis uim tempestatis effugerint atque in portum salui peruenerint?’ ‘Ita fit’, inquit, ‘illi enim nusquam picti sunt, qui naufragia fecerunt in marique perierunt’.”Cic. nat. deor. 3, 89 Sic aequum est a te responderi his, Francisce praesul dignissime, qui minutius aliorum mendas consectantur. Si quis forte tibi dixerit: Tu qui Candidum tuum credis tam diligenter ab antiquis scripta transferre, nonne uides quot in locis frigide, quot inepte ac ieiune Donati libros transcripserit? Ita fit enim, inquies: ea siquidem uides, quae neutiquam ab illo alias interpretari queunt, sed, ut inerant, scripturae fuere mandanda. Ceterum nusquam uides quae eius opera correcta, iugi labore atque industria sunt emendata.

|| 90 Due informazioni queste che saranno affrontate e problematizzate nei paragrafi successivi. 91 L’epistola è nota bibliograficamente come ‘lettera apologetica’; una volta che Decembrio ebbe inviato il testo del Phormio a Pizzolpasso con l’annessa epistola, quest’ultimo incaricò il suo scrivano Lodrisio Crivelli a che allestisse a sua volta una copia, accompagnata dalla lettera (cf. WESSNER 1897, 74; SOTTILI 1988, 313). 92 La lettera si trova in corrispondenza del f. 178u. SABBADINI si è basato su C (cod. cit.) ed R.

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Haec autem non ideo tibi scribo, pater optime, ut excusem meas ineptias, sed ut animum meum uotis tuis obsequentem noris et ut scias nullam rem tam examussim esse factam, quae culpa aut reprehensione possit carere. mihi post tuo transp. CF || placuerit F || primicias ad te] prouincias tibi F || Et tamen] uerum F || culpe F || si mentem] mentem F || his] iis F || addeiderunt Fa.c. || atheus Cic.: acheus CFR || ei] eius CF || ac ieiune] ieiune F || uideas F || quae] om. F || correpta CF || tibi scribo] scribo CF || fictam F [= Quanto per primo dal tuo Donato mi piacque, l’ho selezionato: la sezione del Formione, tradotto da Apollodoro con un altro nome, come lui pensa. Di questa fatica estremamente tempestiva a te mando le primizie; sulla base di quelle facilmente riconoscerai come sia quanto in seguito continuerò a trascrivere. Nulla è tanto arduo e astruso, che possa essere d’ostacolo ad un impegno inteso. Cosa infatti è scritto in modo più fallace e senza senso di questo commento? E tuttavia l’amore per le lettere mi costringe a trarne quanto penso possa risultarti utile e gradito. So che moltissimi leggeranno le cose che ti mando e non diversamente avranno da ridire su una certa barbarie della vecchia scrittura e rideranno ora degli apici delle lettere ora del significato impreciso, come se la colpa fosse della mia negligenza. Ma invero se prenderanno il calamo fra le mani e porranno mente a questi infiniti errori, se faticheranno fino a sudare per lo stato corrotto di un’opera antica, come io stesso faccio, e per lo più consulteranno Tiresia, come faccio io quando ho forti dubbi, certamente nel muovere rimproveri saranno più moderati; e confronteranno quanto da noi è stato trascritto in modo non perfetto a quanto ha avuto invece una trascrizione tollerabile, e daranno gran valore non a quanto di errato è rimasto ma a quanto poi è stato limato. Come dice Cicerone: “Una volta che Diagora (quello noto come Ateo) ebbe messo piede in Samotracia, un amico gli dice ‘Tu che pensi che gli dei non si prendano cura delle faccende umane, forse che dalle tavole dipinte non riesci a capire quanti hanno evitato la forza della tempesta pregando e sono giunti sani e salvi nel porto?’ ‘così è; infatti quelli che non sono stati raffigurati da nessuna parte, sono quelli che fecero naufragio e morirono in mare’.” Così sarebbe giusto che tu, Francesco, degnissimo presule, rispondessi a quelli che con pignoleria vanno a caccia degli errori degli altri; se per caso qualcuno ti verrà a dire: “Tu che credi che il tuo Candido traduca con tanta attenzione antichi testi, non vedi in quanti punti ha trascritto i libri di Donato in modo insulso, fiacco e spoglio?” Dirai “così è”, senza dubbio, se dai un’occhiata alle parti che da lui non potevano essere interpretate in nessun altro modo e dovettero essere trascritte per come erano. Ma per il resto non si vede in nessun punto ciò che è stato corretto per opera sua, che ha emendato con impegno assiduo e faticoso. Non ti scrivo questo, ottimo padre, per scusare la mia incapacità, ma perché tu riconosca che il mio animo ubbidisce ai tuoi voti e perché sappia che nulla è fatto con tanta esattezza, che possa essere privo di una qualche colpa o rimprovero]

Decembrio invia al Pizzolpasso le primizie della trascrizione, e dice di aver scelto di copiare per primo il Phormio e “per ora nient’altro”; la trascrizione non solo è molto faticosa, ma ci sono dei punti non emendabili. Lo stato in cui è ridotto il testo preoccupa Decembrio nella misura in cui potrebbe compromettere la sua fama di ottimo latinista. Gli preme chiarire che il problema non dipende da lui,

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ma dal testo stesso, e che per capirlo bisognerebbe cimentarsi concretamente nella trascrizione: criticare il lavoro degli altri è un facile vizio umano. Sul piano della storia della copiatura di testi e della loro trasmissione in epoca umanistica, questa lettera è altamente significativa: la stessa RIZZO (1973) 171–173 mette in evidenza un aspetto non marginale, ossia che per un latinista come Decembrio la trascrizione, anche se tratta da un solo codice, era sempre intesa come un’operazione profondamente filologica, intesa non solo alla riproduzione meccanica del proprio esemplare, ma anche alla sua correzione. Per il nostro percorso ricostruttivo l’importanza di questa testimonianza è intuibile non solo, come vedremo, per la ricostruzione della famiglia Θ, ma anche per le informazioni disseminate a più riprese circa lo stato del suo antigrafo: alcune scelte lessicali sono troppo vaghe per essere ancorate alla tesi che l’osticità derivasse dalla tipologia grafica e sono piuttosto incanalabili nella direzione di un problema di indecifrabilità di contenuti (arduum, abstrusum, fallacius, ineptius, frigide, ieiune); anche il riferimento alla ‘scrittura’ (cf. RIZZO 1973, 212),93 che meglio si renderebbe con la parola ‘testo’, è riferibile alla qualità stilistica–linguistica del commento e di nuovo non a problemi paleografici, soprattutto se si tiene conto del contesto: Decembrio sta immaginando che altri, ottenuta la sua trascrizione parziale, inizieranno a esercitare non poche critiche; dunque è chiaro che barbariem quandam ueteris scripturae non è da riferirsi all’antigrafo di Decembrio, bensì alla copia che lui ne aveva tratto. L’unica vera scelta lessicale apparentemente poco armonizzabile con questa tesi è l’oscura espressione litterarum apices; RIZZO (1973) 108, basandosi su un passo del Valla, interpreta apex come segno di abbreviazione, ma per quanto riguarda il passo di Decembrio ammette (1973) 171, n. 3 che l’espressione non è chiara e propone due possibili letture: o con apex si intende il ‘segno di abbreviazione’ o la ‘lettera’ vera e propria; la prima implicherebbe che Decembrio, dinanzi ad abbreviazioni per lui incomprensibili, si fosse limitato a riportarle così come le visualizzava; la seconda farebbe invece riferimento alla scrittura vera e propria, ai tratti delle lettere. Per quanto mi riguarda mi sentirei di concordare con la prima delle due interpretazioni, ma con una precisazione ulteriore: le abbreviazioni non vanno intese qui in senso paleografico bensì come la caratteristica del testo di Donato nel rendere parole intere per mezzo di lettere puntate tanto nelle sezioni lemmatiche quanto nelle citazioni. È da ritenersi altamente probabile che, per chi si trovi per la prima volta dinanzi ad un testo del genere, le letterine puntate possano essere

|| 93 “Come lectio è un modo di leggere, così scriptura è un modo di scrivere; quindi non necessariamente una lezione manoscritta, ma anche una congettura”.

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un elemento di disturbo, soprattutto nei casi in cui non ci sono dei chiari marcatori di citazione (nel DC non è costante la menzione dell’autore e ancor meno dell’opera e del numero del libro). Questa lettura dà senso anche al litterarum, che nell’interpretazione di apices come segni abbreviativi appartenenti ad una certa tipologia grafica, non avrebbe ragion d’essere. Si consideri inoltre, e si ritornerà su questo aspetto, che il Maguntinus doveva esibire come lettere puntate, e talvolta in modo del tutto irriconoscibile, anche i graeca: ci si può figurare la difficoltà di un copista, anche del calibro di Decembrio, nel dover ricondurre ad unità di senso delle lettere puntate, probabilmente corrotte, senza avere a disposizione alcun criterio utile al riconoscimento anche solo della loro natura. I problemi quindi sembrano riguardare la fattura testuale, i contenuti, frasi incomprensibili, lettere oscure prive di unità semantica; e proprio a ragione di un pessimo stato testuale prende forza l’insistenza di Decembrio sui suoi sforzi di emendare lì dove possibile (a questo proposito è illuminante un passaggio finale: ea siquidem uides, quae neutiquam ab illo alias interpretari queunt, sed ut inerant, scripturae fuere mandanda). Altre considerazioni di interesse si leggono nella corrispondenza di Pizzolpasso con Ambrogio Traversari, in particolare nell’ep. 2 e 3 della serie riscoperta da SOTTILI (1988) 323ss., cronologicamente molto vicine: nella prima il vescovo di Milano parla di un exemplar corruptum e perplexum, mentre nella successiva, con un rimando alquanto evidente, adduce come motivo della mancata comprensione la scripturae perplexitas: non sarebbe stato opportuno affidare la trascrizione se non a lui o qualcuno del suo livello (si sta parlando di Decembrio) a causa della complessità del testo che può essere compreso o letto a mala pena da pochissimi (per la citazione più diffusa dei testi,cf. infra). Poiché si affronta non solo un problema di comprensione ma anche di lettura, e si àncora questo problema alla scripturae perplexitas, è inevitabile la suggestione che ci sia un problema squisitamente paleografico e che quindi il manoscritto non possa che essere l’antico codice scoperto a Magonza, ma resta pur sempre una suggestione: da un punto di vista logico, non è il solo Decembrio ad accusare difficoltà, ma molti dotti del tempo, addirittura lo stesso Guarino contattato dall’Aurispa, per cui è impensabile che tutti avessero accesso ad un unico e solo manoscritto in contemporanea; in secondo luogo, la perplexitas è comunque un concetto applicabile soprattutto a quello che doveva essere lo stato dei graeca in un codice medievale come pure il Maguntino doveva essere: non sarà un caso se per la trascrizione si era pensato in primis a due dei grecisti più famosi del tempo, Decembrio e Guarino, appunto; in relazione al linguaggio l’aggettivo perplexus lo si adopera per nomi difficili (talvolta rese latine di parole greche) o

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per espressioni ambigue (cf. ThlL X 2, 1651, 38ss); e lo stesso Donato adopera perplexitas per indicare ambiguità di senso, precisamente sintattiche, cf. Don. Phorm. 7.2: ceruam uidere fugere et sectari canes ambiguitas per accusatiuum perseuerans usque ad ultimum de industria, ut etiam ipsa perplexitas odiosa sit. Concludo perciò che nessun elemento descrittivo dello status del testo di DC diffuso dopo il 1433 è strettamente interpretabile in senso paleografico o codicologico, al punto da rendere formulabile o avallare l’ipotesi che fosse stato portato in Italia il manoscritto originale; le espressioni che apparentemente sembrerebbero toccare fatti di tipologia grafica sono tutti contestualmente deboli e altrimenti giustificabili. Decembrio quindi non si lamenta per la scrittura incomprensibile, ma per lo stato di corruzione del testo.94 6.1.3.2 Pizzolpasso a Traversari: la difficile opera di trascrizione Notizie sul lavoro di trascrizione di Decembrio, su come procede il suo lavoro, e sui suoi punti di difficoltà, che si specificano soprattutto come un problema di ricostruzione dei graeca, si leggono nella corrispondenza fra il Pizzolpasso e Traversari, illuminante anche per rintracciare la rete di scambi dell’Aurispa. Il 10 settembre del 1436 l’arcivescovo di Milano sente di dover motivare la sua scelta di assegnare l’incarico a Decembrio (SOTTILI 1988, 323): Donatum in Terentium transcribit Candidus, uir antiquitatis studiosissimus et apprime doctus, manu propria. Nam adeo corruptum et perplexum est exemplar ut non nisi ex uiro intelligentissimo colligi recte possit et qui saltem aliquanto gustauerit litteras Grecas. Sed Aurispa noster dudum ex me recepit Basilee Donatum in Terentium similem Guarinoque Veronensi, uiro litterarum Latinarum et Grecarum erudito, credidit transumendum;95 qui iuxta ipsius Aurispe antiqua ad me rescripta iam olim absolutus esse debet, cum tamen nuper ad nos rescribens, eciam interpellatus, cum de aliis, de exclusione uerbum nullum facit. Habebimus absolutum ex Candido et illum.

Il testo del DC è a tal punto astruso e complesso che soltanto una persona molto dotta, con una qualche competenza anche di greco, sarebbe stata capace di avere successo, e Decembrio aveva evidentemente le suddette qualità. Peraltro, proprio con la necessità di un un dotto con competenze non solo, in generale, di filologo accanito ma, in particolare, di grecista, deve essere giustificato il ricorso dell’Au-

|| 94 Come notava già RIZZO (1973) 171, n.2. 95 Transcribendum?

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rispa a Guarino di Verona per allestire una copia del Donato che proprio Pizzolpasso gli aveva inviato.96 Stando a precedenti comunicazioni di Aurispa, Guarino doveva aver completato l’opera già da un bel po’, eppure in più recenti lettere è lo stesso Aurispa a non fare più parola della chiusura del lavoro, facendo così sorgere gravi dubbi.97 Un contatto fra Pizzolpasso e Guarino, in ogni caso, dovette avvenire proprio in prossimità della scoperta aurispina del 1433, ed anzi il Guarino, nel parlare delle scoperte dei classici giacenti nei nascondigli della Gallia e della Germania (in istis Germaniae Gallieque latebris infinita quaedam librorum copia iacet), esplicita a Pizzolpasso il desiderio di avere un Donato a Terenzio (cf. SOTTILI 1982, ep. 2, p. 137): Cupio tua opera, reuerende pater, habere Donati commentum in Terencium et Pompeium Festum. Nulli proinde parcam impense.

Questa epistola è di molto discussa datazione, la cui precisazione sarebbe cruciale al fine di stabilire se il Donato di cui era venuto a sapere Guarino sia non altri che quello Maguntinus o, se, piuttosto, non fosse a conoscenza di un altro Donato, da cui Pizzolpasso aveva tratto o fatto trarre l’estratto ambrosiano (S):98 SOTTILI suggerisce una data di qualche mese precedente la scoperta dell’Aurispa, e dunque in chiaro riferimento all’excerptum donatiano di S, non solo per circostanze temporali (“Der Brief passt sehr gut in die erste Zeit von Pizzolpassos Aufenthalt in Basel, etwa ab Mitte März 1432”), ma anche perché altrimenti il fatto che Guarino si rivolga a Pizzolpasso piuttosto che direttamente all’Aurispa sarebbe difficile da giustificare. Di contro HELMRATH, sulla base delle circostanze storiche, colloca la lettera di Guarino dopo il 1433: secondo lui, dunque, davvero Guarino doveva aver saputo (da Aurispa?) che Pizzolpasso aveva ricevuto da Cusano un Donato derivante dal Maguntino (certo più completo di S), forse prima ancora che lo stesso Pizzolpasso o direttamente Cusano facesse arrivare un’altra

|| 96 Credidit transumendum è una formulazione ambigua, che si presta a due letture (“pensò che dovesse essere passato a Guarino” o “lo affidò Guarino da copiare”); ad ogni modo è probabile che si voglia intendere la concreta consegna a Guarino e non la mera intenzione, come più lucidamente si deduce dalla simile fraseologia dell’ep. 3 (SOTTILI 1988, 327), di cui cf. infra: habuit transcribendumque credidit. 97 Cosa si intenda con exclusio (= expulsio, remotio, cf. ThlL V 1273, 33ss.), è intuitivo, ma sarebbe stato più appropriato conclusio: l’innovante exclusio potrebbe derivare dall’influsso di explicit? 98 SOTTILI (1982) 129–149 (spec. n. 95); SABBADINI (1915) 152ss.

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copia ad Aurispa (o che questa copia fosse tratta da quella di Cusano o di Pizzolpasso).99 Guarino comunque non dovette ricevere nulla se, nel 1442, scrivendo ad Alberico Maletta (SABBADINI 1915, 2, 450) ripete la richiesta già inoltrata anni addietro: cupio habere Donatum in Terentii comoedias, quem Mediolani esse fama est.100 E proprio questa epistola potrebbe costituire la riprova che Guarino sapesse che nell’ambiente di Pizzolpasso circolava un altro codice, indipendente da quello dell’Aurispa: se infatti Guarino ebbe proprio dall’Aurispa la copia del Maguntinus consegnatagli dal Pizzolpasso, come si evincerebbe dalla corrispondenza di quest’ultimo, non avrebbe avuto senso nel 1442 inoltrare una nuova richiesta, a meno di pensare, certo, che non stesse facendo riferimento ad un Donato completo rispetto a quello ricevuto, solo parziale o difettoso: ma questo non si estrapola da nessun punto. O forse –non si può escluderlo– Aurispa, ottenuta la copia dal Pizzolpasso, per cause non ricostruibili non aveva avuto modo di consegnargliela, nascondendo la cosa al Pizzolpasso stesso. Il 27 ottobre del 1436 (SOTTILI 1988, 327–328: ep. 3) Pizzolpasso riscrive al Traversari e lascia chiaramente intendere che Decembrio non si sente nella condizione di proseguire la stesura del DC se non alla condizione che gli venga recapitata una seconda copia, da confrontare con l’antigrafo già in suo possesso; proprio in ragione della richiesta di Decembrio di avere un altro DC, Pizzolpasso palesa l’intenzione di rivolgersi all’Aurispa perché gli metta a disposizione la copia che si supponeva Guarino avesse nel frattempo approntato o, al limite, la sua stessa copia; ma da Aurispa probabilmente non riuscì ad ottenere nulla, neppure dopo la probabile intercessione del Traversari, a cui aveva spiegato che, se voleva avere un Donato decente, doveva esortare egli stesso Aurispa a cedere il suo DC a lui o al Decembrio stesso, che poi ne avrebbe tratto una terza copia (ut eliciat tertium qui ualere possit). Secondo SOTTILI (1988, 313), incrociando vari indizi, Guarino non dovette concludere molto (ammesso, aggiungerei, che avesse mai ricevuto un antigrafo da trascrivere) e per questo Aurispa non rispose mai alla pressione del vescovo di Milano. Riporto un passaggio dell’epistola 3, di interesse non solo intrinseco, ma che avrà enormi conseguenze, nell’analisi di SOTTILI, anche per la storia della tradizione:

|| 99 HELMRATH (1982) 53. 100 SOTTILI (1988) 313: “Guarino non ne fece nulla o non avrebbe richiesto il Commento proprio a Milano anni più tardi”.

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Postea quam, dulcissime frater, dedi responsum ad epistolam tuam, diligenciam feci apud Candidum nostrum ut aliquid ex Donato in Terentium reportaremus, a quo demum iam plusculis diebus exegi licet uoluntario, sed fastidienti propter incorepcionem incredibilem conmentarii Phormionem, sicut potuit absolutum, ceu uidebis, precedente appollogia sua ad me pro racione more atque mendarum. Eum itaque digestum per folia quatuor et triginta papiri ultra primam paginam appologie, ut uel porcionem aliquam impetraueris quesiti tui, pro iucunditate tua, uelut scripsisti, pro studiosissimo et desideratissimo Nicolao Nicolai nostro mitto tibi cum presentibus. [...] Candidus uero constituit non ulterius procedere: quoniam, uir ipse bene doctus prospiciensque sibi et aliis, cernit non posse consequi honorem, adeo inuoluta, intricata et corrupta sunt que supersunt et perplexe nimis conscripta. Sunt enim eciam conmedie quatuor. Ceterum non fugit laborem, sed non uidet elici posse fructum optatum nisi forsan alium simul Donatum cum isto teneret quem habemus in manibus. Nam prout intimaui diligencie tue, Aurispa noster dudum alium Donatum super eadem materia Basilee habuit transcribendumque credidit Guarino Veronensi tamquam doctissimo et aptissimo ea scripta recuperare et bonam exinde elicere frugem.

Nella caratterizzazione dello stato del testo la rosa semantica resta vaga e, di nuovo, sembra sollevare problemi di sintassi (inuoluta, intricata ... perplexe) e di corruzioni testuali; il riferimento alle quattro commedie, reso un po’ ambiguo dalla punteggiatura, è a mio avviso interpretabile come un’ulteriore argomentazione atta a giustificare la richiesta di Decembrio: vuole un’altra copia perché la trascrizione è complicatissima e peraltro, oltre al Phormio, ci sono bene altre quattro commedie da copiare. Circa la richiesta di Decembrio, SOTTILI (1988) 319, in modo un po’ troppo interpretativo, solleva il dubbio che l’insistenza ad avere la copia guariniana non avrebbe avuto senso, se avesse saputo che il manoscritto da cui era stata tratta, il Maguntino, era lo stesso; avanza quindi la possibilità che il Donato affidato all’Aurispa non dipendesse dall’esemplare di Magonza. In realtà, se ci si attiene alle parole della lettera, semplicemente viene riferito che Decembrio si decise a non proseguire oltre, che lo stato del testo era troppo rovinato, che l’unico modo per ottenere dei buoni risultati sarebbe stato forse avere a disposizione un altro Donato. Ed è Pizzolpasso, riferendo per di più il pensiero di Aurispa, non Decembrio, a parlare della copia che doveva essere in mano a Guarino, peraltro caratterizzando anche questa come di complicata lettura e comprensione. Sembra che si stia parlando di copie molto simili: probabilmente erano entrambe trascrizioni (quasi) diplomatiche, e Decembrio (il forsan non è casuale) semplicemente sperava che rispetto alla sua ce ne fosse una seconda migliore, o che un loro confronto l’avrebbe in qualche modo aiutato.

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6.1.4

Per l’individuazione dei discendenti del Maguntinus

La presenza della lettera di Decembrio prima del Phormio nei manoscritti C e F fungeva per WESSNER (1897) 73 da garante della particolare vicinanza di questo gruppetto di codici con l’esemplare di copia del Pizzolpasso (nella sua interpretazione, da individuare nel Maguntinus stesso); WESSNER però, al pari di SABBADINI, ignorava la corrispondenza di Pizzolpasso con il Traversari, ed in particolare la richiesta di Decembrio di ricevere un codice di collazione (condicio sine qua per continuare l’opera di trascrizione): alla luce dei dati a sua disposizione, era comprensibile supporre che Decembrio proseguì con le restanti commedie (“...wissen wir nicht, ebensowenig, ob Decembrio später auch noch die übrigen Theile des Commentars umgeschrieben hat; die Absicht dazu hat er wohl gehabt, und es ist nicht unwahrscheinlich, dass er sich seiner Aufgabe völlig entledigt hat”). SOTTILI, invece, sapendo non solo della condizione imposta da Decembrio, ma anche del fatto che la seconda copia sarebbe dovuta essere quella confezionata da Guarino, mai concretizzatasi, trae la conclusione che a rigore dalla copia del Pizzolpasso, probabilmente apografo del Maguntino, Decembrio trascrisse solo il Phormio. Tra i manoscritti donatiani l’unico a conservare il solo Phormio è il Riccardianus 669 (R), un codice composito del XV sec.: il DC occupa i fogli 134r– 177r e, secondo SABBADINI, la mano della trascrizione per “conoscenza del greco, sicurezza nelle forme latine, scrupolosità nella riproduzione dell’archetipo” sarebbe addirittura quella di Decembrio stesso (SABBADINI 1888–1890, 421), un’ipotesi non condivisa da SOTTILI, che parla invece in termini di apografia (cf. SOTTILI 1988, 314).101 C ed F, due codici donatiani, che afferiscono alla famiglia Θ, hanno il DC in forma completa: dato, come anticipavo all’inizio, il loro stato di testimoni dell’epistola decembrina nonché testimoni del DC non solo per quello che riguarda il Phormio, ma anche per le restanti commedie (fatto salvo, come ovvio, per l’Hautontimorumenos), è lecito sollevare la domanda circa l’effettiva estensione della trascrizione di Decembrio: ovvero se il restante testo di C ed F sia stato tratto dalla stessa copia affidata al Decembrio, se quindi Decembrio, cambiando idea, continuò lui stesso la trascrizione o, in linea generale, se il testo di C F, al di fuori del Phormio, è riconducibile al Maguntino. Ed è nuovamente SOTTILI (1988) 314 ad insinuare a questo proposito pesanti dubbi circa la ricostruibilità stessa del Maguntino: venendo meno la copia che avrebbe dovuto trarre Decembrio, l’unico testo donatiano maguntino sarebbe testimoniato dalla copia che a Basilea

|| 101 Si veda la descrizione di BALDI (2010) 156–157.

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Pizzolpasso dice di aver consegnato ad Aurispa, copia che non si sa in che misura possa essere stata tratta da quell’esemplare illeggibile. Per rispondere a quest’ultima domanda, SOTTILI confronta con il testo WESSNER, di cui amplia notevolmente le collazioni, uno spezzone di commento ad An. 959, che Pizzolpasso cita nella prima lettera indirizzata a Traversari (SOTTILI 1988, 314), e che dovrebbe essere stato tratto dal Maguntinus. Le evidenze testuali emerse parlano di una stretta vicinanza testuale dell’estratto donatiano (d’ora in poi EsPiz) dell’ep. 1 al relativo testo di Θ:102 1. EGO DEORVM V. P. S. E. A. omne quod habemus aut mutuum est aut proprium. Mutuum est, quicquid ad tempus habemus nec postmodum nostrum futurum est, ut uilla, domus, uxor, filii et cetera in hunc modum, proprium, ut uirtus animi, est bonum sempiternum, quod proprie de diis dicitur; non enim aliunde uenerunt, sed apud se ipsos sunt semper. Et Epicurum secutus hoc dixit. 2 Proprie ergo de diis ‘sempiternum’ dixit, nam inter sempiternum et perpetuum hoc interest, quod sempiternum ad deos, perpetuum proprie ad homines pertinet. 3 ego deorum u. p. s. e. a. hanc sententiam totam Menandri de Eunucho transtulit (= frg. 146 K–A.). Et hoc est quod dicitur (prol. 16) ‘contaminari non decere fabulas’. An. 959.1–3 1. uirtus] om. ΘEsPiz. || quod2–2. sempiternum] om. C || 2. dixit] dicitur EsPiz. || inter – quod] om. B EsPiz.

Si può prescindere dalla lacuna ad An. 959.3 (inter sempiternum et perpetuum hoc interest quod), risalente con ogni probabilità al suo esemplare, ed elegantemente gestita: non credo che si possa considerare significativa l’omissione B EsPiz. perché trattandosi di una sezione fortemente ripetitiva, soprattutto sul piano lessicale, stesse stringhe di testo in lacuna sono spiegabili in via poligenetica. Nel caso specifico, inter – quod è un’unità fraseologica ridondante al punto che avrebbe potuto indurre tanto Pizzolpasso quanto B (manoscritto segnato dalla necessità di sintesi) ad una intenzionale omissione; inoltre cade fra due sempiternum: Pizzolpasso poteva avere un testo lacunoso dopo inter, che rimasto pendens viene a sua volta eliminato, ma si può anche supporre che l’attaccatura della sua lacuna iniziasse subito dopo sempiternum (quel dicitur di EsPiz. in luogo di dixit ha un sapore di aggiunta ope ingenii). Di contro, l’evidenza essenziale è invece offerta dall’omissione, del tutto gratuita e non generabile per via meccanica, di uirtus prima di animi: la sua caduta è un errore fortemente congiuntivo fra l’estratto e la famiglia Θ, per cui il dubbio

|| 102 Sono sottolineati i punti sensibili del testo. Il confronto è sviluppato sulla base dell’apparato della mia edizione ed è finalizzato a rendere meglio comprensibile il ragionamento sugli errori Θ EsPiz. Per un’analisi dettagliata, cf. SOTTILI (1988) 314.

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che Pizzolpasso stesse citando da un codice diverso da Θ se non anche dal Maguntinus è cassabile. E, di conseguenza, se è vero che la copia ceduta all’Aurispa era “simile” a quella in possesso del Pizzolpasso, anche quella aurispina doveva essere di afferenza maguntina. Per il resto, le questioni sollevate da SOTTILI sono di certo estremamente interessanti e importanti da un punto di vista speculativo, ma in assenza di prove concrete e alla luce delle informazioni disponibili, non ho ragione per abbandonare l’idea che Pizzolpasso del DC ebbe solo una trascrizione diplomatica in senso lato, da cui ne fece trarre un’altra per passarla ad Aurispa, mentre consegnò la sua a Decembrio, il cui compito chiaramente non era quello di limitarsi alla trascrizione, ma di capire, interpretare e correggere il testo, farne una copia intellegibile. Né quindi ho motivo di pensare che l’interruzione del lavoro di Decembrio e, supponibilmente, del Guarino, abbia pregiudicato del tutto qualsivoglia tentativo di mettere in circolazione un DC maguntino che non fosse solo una copia diplomatica: i testimoni maguntini più puri, ossia il gruppo Θ,103 ed in particolare modo C, sembrano confermare che ci fu ad opera di qualcuno un’intensa fatica di diuinatio. Certo il quadro presenta dei presupposti e non è privo di incertezze, una delle quali riguarda per l’appunto il frammento ambrosiano detenuto dal Pizzolpasso, che alla prova testuale, pur in una porzione limitatissima, mostra almeno una lezione di netta superiorità rispetto a Σ.

6.1.5

L’alius Donatus: Decembrio e la famiglia Θ

Dall’epistola 3 (SOTTILI 1988, 328) si ricava non solo l’informazione della richiesta di Decembrio che gli venisse messo a disposizione un altro Donato, ma si comprende anche che Pizzolpasso si era già attivato presso l’Aurispa per riottenere la copia che lui stesso gli aveva consegnato a Basilea; all’analisi linguistica sembra anche verosimile che Pizzolpasso volesse riottenere la trascrizione e non la copia della stessa, quella che Guarino avrebbe dovuto stilare, e su cui SOTTILI nutre giusti dubbi. Aurispa da parte sua aveva risposto positivamente al Pizzolpasso benché di fatto non gli avesse ancora inviato nulla: proprio per questa ragione Pizzolpasso chiede a Traversari di intercedere (qua de re si cupis haberi quandoque opus non contempnendum huiusmodi commentationum Donati, qui forsan habebis bonam

|| 103 Come vedremo il gruppo Λ è molto contaminato ed emendato.

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manum ad hoc, fac stimules litteris et amicis Aurispam ipsum quo remittat ad me uel ad Candidum ipsum, me absente, Donatum illum ...). Se Pizzolpasso ovvero Decembrio ottenne la seconda copia di Donato, da poter confrontare con quella in loro possesso, così da rendere forse più agevole il procedere del percorso di copiatura, non è noto, perché non sono rintracciabili notizie pertinenti. Tuttavia, la risposta a questo dubbio è a mio parere ricavabile dalle caratteristiche testuali della famiglia Θ, ovvero il gruppo di codici che, in linea teorica, dovrebbero discendere dall’apografo di Decembrio. Per delineare la mia ipotesi, anticipo qui alcune considerazioni sul testo di Θ, che saranno approfondite nel prossimo paragrafo. Il codice C (Oxoniensis Bodleianus Canon. 95) ha come elemento distintivo rispetto ai restanti codici della sua famiglia una serie di correzioni e/o integrazioni tanto interlineari che marginali; la mano che le apporta potrebbe essere la stessa, ma non è questo un dato pacifico; con C2 si deve intendere semplicemente un differente momento temporale rispetto a C. Le letture importate in C in un secondo momento rispetto a quello della stesura si ritrovano in un’alta percentuale di casi a testo negli altri codici della famiglia: questa configurazione è da imputarsi allo status particolare di Θ, ossia quello di subarchetipo in movimento. La qualità delle lezioni di C2, riscontrabili spesso ma non sistematicamente in TFq, non è particolarmente brillante: in alcuni casi sembra trattarsi di congettura, in altri casi sembra che si tratti di veri e propri tentativi di rilettura di punti problematici. Tenendo conto che fra il Maguntinus e Θ esiste almeno un’ulteriore copia (o anello), come si dimostrerà, che corrisponde stemmaticamente a δ, per tenere organicamente insieme i diversi dati storici e testuali, è delineabile la seguente ipotesi: da Cusano fu messa a disposizione del Pizzolpasso una copia del Maguntinus, che potrebbe coincidere con δ;104 con altrettanta probabilità Decembrio non lavorò direttamente su δ, ma, prima di iniziare il lavoro editoriale, ebbe modo di trarre da δ una sua propria copia di lavoro, su cui eventualmente intervenire, correggere e annotare prima di produrre il testo definitivo:105 nulla impedisce che questa copia di lavoro sia per l’appunto il deperditus Θ, che ricostruiamo sulla base di CFT(q) – mi riferisco come ovvio all’Andria.

|| 104 Oppure questa sigla potrebbe indicare una copia di Cusano da cui ne fu tratta una per Pizolpasso, e un’altra per Aurispa. 105 Ribadisco che si evince chiaramente ed in più punti che il compito di Decembrio non era quello della semplice trascrizione (per la quale qualunque scrivano sarebbe stato all’altezza della commissione), ma quello di produrre una vera e propria edizione.

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Se si prende in esame la stratificazione testuale presente in C, la tipologia e la qualità degli interventi di C2, i rapporti che C+C2 intrattengono con gli altri componenti del gruppo, si può ulteriormente avanzare dal punto di vista ricostruttivo: C potrebbe essere stato tratto interamente dalla copia di lavoro di Decembrio, ossia Θ, ed a favore di questa, che è pur sempre una suggestione, mi pare si possa portare una nota che C esibisce a testo, subito dopo il lemma di An. 728.1, non condivisa dagli altri componenti del gruppo, e che tradisce nell’antigrafo l’opera di un copista attento: nota in testu solum iurandum debere esse. Ritengo probabile, dato il tenore dello scolio donatiano interessato da questa annotazione, che con testu ci si riferisca al testo di Terenzio, e non al testo del DC, ma è pur sempre vero che una simile osservazione se in C è già inserita nel corpo dello scolio, probabilmente era stata scritta in una zona extra testuale nell’antigrafo, probabilmente lo stesso Θ: ad ogni modo, si può leggere in piena coerenza rispetto all’ipotesi di un Θcome copia di lavoro di Decembrio.106 Ad un certo punto, poi, forse anche su pressione del Traversari, arrivò una seconda trascrizione del Maguntino, l’alium Donatum di cui parla la lettera: non è possibile stabilire se, quando ormai fu messa a disposizione la seconda trascrizione, per la stesura fosse ancora responsabile Decembrio o se avesse già rinunciato, fatto sta però che la copia diplomatica II dovette essere collazionata con la copia I, per noi identificabile in Θ. Dopo questa operazione si passò a correggere anche C; tutti gli altri testimoni, che presentano le correzioni e le interpolazioni di C2 già a testo, furono verosimilmente tratti da un Θ post collationem. La famiglia Θ è quindi la risultante di un lavoro di edizione, dubitativamente condotto anche per le altre commedie da Decembrio ma probabilmente basato sulla sua copia di lavoro, consistente nella collazione di due copie diplomatiche del Maguntinus.

6.2 I testimoni ed il testo 6.2.1

Quadro generale dei rappresentanti di Σ

L’identificazione del gruppo di testimoni discendenti dal Maguntinus (= Σ) dipende, come già accennato nel capitolo precedente, dall’ipotesi che i codici che contengono la lettera di Decembrio, nello specifico C F per il DCA, siano stati tratti

|| 106 Si può di contro far notare che l’annotazione potrebbe risalire anche prima di Θ, ma un simile interesse filologico difficilmente avrebbe animato un semplice copista o chi fosse stato incaricato di approntare una veloce copia diplomatica.

I testimoni ed il testo | 71

dall’apografo o copia di lavoro di Decembrio, in ultima analisi riconducibile al Donato di Pizzolpasso. Posto quindi il loro testo come termine di paragone, si rendono identificabili i testimoni Σ e ricostruibili le ramificazioni interne.107 Praefatio–An. 74.4 Σ = δ + Λ

sez. 1

Praefatio–An. 27 δ= V + Θ+ δ1 δ1 = μ + QJ108 An. 28–An. 74.4 δ = Θ+ μ

sez. 2

An. 75–fine Σ = Θ+ Λ Per quanto riguarda il piano strettamente testuale, l’esistenza di Σ si lascia dimostrare dai seguenti errori distintivi:109 An. praef. II. 1 et amabat] adamabat Σ (amabant μ) An. praef. II. 2 post poeticae add. artis uel Σ An. 17.2 quorum–17.3 plurimum] post 18.1 dixit transp. Σ An. 25.2 hanc A: bene Σ An. 54.1 quidam– magister2] AK α: om. Σ An. 107.1 sic–frequens] om. Σ (–α) An. 412.1 et Simo – Byrria] om. Σ

6.2.2

Θ: caratteristische del testo e rapporti stemmatici

Con la sigla Θ, M. D. REEVE indicava la fonte di CFO, nella zona 6 (cf. p. 33ss.); per quanto riguarda le due sezioni in cui l’Andria si divide, è da intendere come il capostipite di CTF(q). WESSNER, nella sua edizione, si basa in modo prevalente su A; laddove A presenti lezioni insensate o il suo testo sia intaccato da una qualche sofferenza, l’editore cede spesso alla tentazione di stampare quanto tradito da Θ, con il rischio di accettare a testo migliorie di qualcuno che, nel trascrivere, apportò contributi personali al testo.

|| 107 Quando parlo di sezioni, si faccia sempre riferimento a REEVE (1979) 320. 108 QJ alla fine delle prefazioni (III 6 inueniuntur) cambiano affiliazione, alleandosi con Λ. 109 Gli elenchi sono sempre strettamente selettivi.

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Sono infatti circoscrivibili non rari casi di interpolazioni, talvolta costituite da un’unica parola, talvolta da sezioni testuali piuttosto ampie, di cui offro qualche esempio: ad An. 210.4 il lemma opitulor sembra una costruzione ad hoc di Θ110; ad An. 88.1 Θ sembra aggiungere un’intera stringa testuale a causa di un altrimenti problematico sed; ad An. 146.4 l’ut prima del corrotto Sosie sembra un’aggiunta intenzionale per far quadrare il testo; ad An. 329.3, WESSNER stampa il testo Θ, ma il fatto che sia l’unico testo a reggere, in questo punto, non significa certo che sia autentico. Purtroppo l’interpolazione è evidente solo quando il ramo Γ non esibisce un testo problematico, diversamente, data la quasi totale inaffidabilità di Λ, è inferibile soltanto dall’analisi del fatto linguistico (come ad An. 329.3) o di contenuto, con il rischio di sospettare troppo o troppo poco. 6.2.2.1 Per l’esistenza del capostipite comune [sez. 1] praef. I tragica] traica Θ praef. II Chremetis alteram filiam] Chremetis altera filia Θ: alteram Chremetis filiam Λ An. 1.4 animo] animis Θ An. 4.1 rerum] post mihi transp. ε V: om. Θ An. 18.1 singulis] singularibus μ: singulariter Θ [sez. 2] An. 83.1 dicitur] om. Θ An. 156.1 est –156.4 iniuria] om. Θ An. 372.1 ostendit – 372.3 det] om. Θ An. 459.1 in hac scaena] om. Θ

La dimostrazione filologica dell’esistenza di una fonte comune, da cui CTF(q) sono derivati, non è problematica: spesso questi testimoni cadono nei medesimi errori, molti dei quali definibili come distintivi. Nella sezione 1, laddove la quantità dei testimoni Σ è certo più cospicua, il valore relativo degli errori propri di CTFq ha un peso maggiore proprio perché risulta più agevole la ricostruzione del testo Σ, e di conseguenza l’individuazione di errori Θ ereditati da Σ o suoi propri; nella sezione 2, invece, soprattutto dopo il passaggio di μ a Λ, non si può escludere che, in una percentuale x di casi, le innovazioni o le corruzioni che isolano CTF(q), pur non condivisi da Λ, costituiscano comunque un’eredità maguntina o di uno stadio anteriore a Θ, a ragione del forte grado di contaminazione che interessa Λ. || 110 OPITULOR è infatti del solo Θ e non necessario.

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6.2.2.2 Stratificazioni testuali in C. Esempi di correzioni Su C è evidente una notevole stratificazione testuale, in cui si vogliono qui distinguere due momenti: la stesura del testo (C) ed una seconda fase, propriamente di correzione (C2); la relazione che intercorre fra C e C2 assume una particolare importanza non solo da un punto di vista filologico, ma anche per la ricostruzione delle caratteristiche di Θ.111 C trascrive in non pochi casi delle vere e proprie uoces nihili, dovute a gravi problemi lettura, non circoscritti all’unità semantica della parola, ma anche alle singole lettere, e che probabilmente fotografano una situazione già dell’antigrafo: An. 641.2: molestus] molestes C, An. 720.5 nos] oos C; An. 808 adnotant] antant; An. 832: dum] dem C. C2 interviene a correggere sia gli errori singolari di C rispetto all’intera tradizione manoscritta sia singolari rispetto al proprio gruppo: in entrambi i casi tende ad essere recuperata la lezione propria del gruppo Θ (ricostruibile sulla base di FTq): An. 487.1 timent nimis] nimis timent (C2, timen C); An. 665: interrogat] ut (C2, quod C) te roget Θ; An. 380.6: adeo] ad et A: adeon Θ(om. C, rest. C2); An. 820.1 officium] offensionem C: officionem C2FTq. In rari casi si stacca dal gruppo apportando una correzione che ripristini il testo corretto e, in queste poche eccezioni, si può parlare di un intervento ope ingenii (ci sono dei casi fortunati in cui il controllo sul testo e quindi le iniziative congetturali risultano evidenti, come ad An. 22.1: inquietus quietus Θ(C) V: non quietus C2), ad An. 181.3: ciendo PΣ (commouendo C2): sciendo AK. Sporadicamente all’errore singolare di C, a fronte di lezione giusta nel resto del gruppo, segue una correzione altrettanto singolare, così come ad An. 211.5: loquatur loquitur C: loqueretur C2 (anche questa raggruppabile nella categoria degli interventi congetturali di C2). Si danno anche degli esempi in cui gli interventi di C2 importano sì la lezione di Θ, ma obliterano le buone letture di C: ad An. 487.1 la lezione buona senes viene corretta in senex; ad An. 237.5 C è l’unico con Γ a conservare la lezione d’archetipo leuandum (leuandum BC: leuiandum AK) mentre C2 immette la banalizzazione legendum propria di Σ (dunque, oltre che in TFq è presente anche in Λ); 112An. 188.2 siuerit ΓΛ CT: sciuerit C2: sciuerat q: om. F; ad An. 229.3 C2 sembra correggere temptet (lezione giusta, tradita anche da Fq, mentre la lezione di T si presta ad una lettura problematica) in tentet.

|| 111 Si presuppone che un numero x di correzioni sia stato apportato inter scribendum. 112 Potrebbe verosimilmente trattarsi di doppia variante del Maguntinus, dovuta ad un intervento attivo del copista.

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Non si evidenziano infine casi in cui C2 mostri particolare vicinanza con Λ, tranne forse ad An. 313.2 prodat] om. A: protraat C2: prodat protrahat Λ, da cui non si può trarre alcuna informazione eccetto che della circolazione di una doppia lezione in Λ in corrispondenza di punto per giunta lemmatico. Nonostante l’intensa opera di revisione a cui C e, come cercheremo di dimostrare, Θ stesso sono stati sottoposti, non ci sono elementi che permettano di parlare di contaminazione con fonti diverse dal ramo Maguntino stesso.113 L’unica traccia che sembrerebbe contraddire questa constatazione, e che perciò merita di essere discussa, si trova ad An. 36.5, dove, a fronte del corretto dominatu, di cui è latore solo Λ insieme a μ (che, ricordo, in questa sezione discende da un capostipite condiviso con Θ), AK leggono dominabatur, CTFq dominatum, e C2 trascrive a margine, facendo precedere da aliter la lezione dominabatur presente apparentemente solo in AK: a mio avviso questa particolare distribuzione delle varianti si può spiegare supponendo che dominabatur sia lezione (errata) di ω e che già in Σ si sia prodotta come la doppia variante (dominabatur come lezione tradita e dominatu come congettura); la duplice lettura si sarebbe trasmessa anche a Θed annotata per eccesso di scrupolosità da C2. 6.2.2.3 Archetipo in movimento: ipotesi storico–filologica La configurazione variantistica, finora presentata, porta ad avanzare, come ipotesi più ovvia, che FTq dipendano da C+C2, ovvero che ne siano descripti: un caso da manuale in cui l’apografo presenta a testo le correzioni che nel padre si trovano ai margini o in interlinea. Nel caso specifico questa ipotesi, pur teoricamente possibile, non sarebbe però capace di rendere ragione di una serie di evidenze testuali dove FTq evitano un discreto numero di errori singolari di C, non corretti da C2 né tantomeno risolvibili (perlomeno alcuni) per mera opera congetturale:114 An. 267.3 iniugendis] siu(n)gendis C An. 278.4 ita] om. sp. rel. C: a(n)i(m)a T An. 281.6 cui] eici C An. 282.1 uocandi] inuocandi C An. 282.2 mortuae] motae C: morte C2 An. 338.4 animo] om. C

|| 113 Almeno per l’Andria credo che la contaminazione con il Carnotensis in Θ e discendenti sia escludibile; diversamente lascia intuire REEVE (1986) 155: “the remaining witnesses probably derive from a manuscript like C into which readings from the Carnotensis and numerous alterations had been introduced”. 114 L’elenco è puramente esemplificativo.

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An. 449.1 deriuet] de sp. interp. et C An. 652 nosti–cognoueris] om. C

L’indipendenza di FTq da C è facilmente dimostrabile anche solo prendendo in esame le omissioni che interessano C ma non anche il resto dei componenti del gruppo: in un’ipotesi di descriptio casi come An. 652 andrebbero spiegati solo ed esclusivamente con il ricorso ad una seconda fonte manoscritta da parte di un anello intermedio fra C e FTq, che gli avrebbe consentito di supplire il testo; ma la contaminazione se è ammissibile laddove il testo presenta dei problemi evidenti, tali da indurre la consultazione di altre fonti, si spiegherebbe molto meno bene in casi come An. 338.4 dove animo, assente in C, non è essenziale né grammaticalmente né per il senso dello scolio –a meno che non si ammetta la possibilità di una contaminazione puntuale e pervasiva, il cui esito però avrebbe lasciato tracce più evidenti. Esclusa questa ipotesi, quindi, c’è un altro modo per spiegare il fatto che in C siano immesse solo in un secondo tempo delle lezioni specificamente Θ (in quanto occorrono a testo solo in FTq): considerare Θ un subarchetipo in movimento, corretto non solo ope ingenii ma probabilmente ricollazionato con il suo antigrafo o qualcosa di testualmente molto simile, con l’intento di produrne una migliore lettura. A questo punto non escluderei una suggestione ricavabile dagli scambi epistolari fra il Pizzolpasso ed il Traversari, a cui già accennavo nel capitolo precedente: il fatto cioè che fossero state messe in circolazione più copie diplomatiche del Maguntinus, almeno due (una del Pizzolpasso e l’altra dell’Aurispa), sfruttabili al fine di una collazione: si ricorderà che proprio Decembrio aveva avanzato la richiesta di avere un altro Donato per collazionarlo con la sua copia e produrre un terzo testo apprezzabile.115 Posto quindi che Θ rappresenti la copia che il Pizzolpasso aveva consegnato a Decembrio, si può supporre che C sia stato trascritto prima dell’arrivo di una seconda copia maguntina; arrivata la seconda trascrizione, il copista avrebbe deciso prima di apportare le sue correzioni sull’antigrafo Θ, e poi importarle anche su C il cui testo era stato già allestito; da Θ corretto e collazionato con la seconda copia, sarebbero stati tratti TFq.

|| 115 Pizolpasso esortava così il Traversari (SOTTILI 1988, 328): fac stimules litteris et amicis Aurispam ipsum quo remittat ad me uel ad Candidum ipsum, me absente, Donatum illum cum quorum utroque accu〈e〉t se ut eliciat tercium qui ualere possit.

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In questa ricostruzione diventa sensata la presenza di una serie di varianti immesse in C e segnalate con aliter: esclusa una percentuale di casi in cui è prudente pensare che si tratti di varianti già di Σ, è supponibile che la maggior parte siano nate in sede di collazione della copia I con la copia II; l’indicatore di variante aliter (talvolta si trova anche uel) non si spiegherebbe altrettanto bene se invece si supponesse che quella di C2 fu una mera rilettura del proprio antigrafo non senza iniziative private di correzione. Segue qualche esempio:116 An. 276 acuit Steph.: argute ACTF: arguit KC2 (aliter praep.) q Λ An. 382.1 sic agere Γ: se agere CT: suadere C2 (aliter praep.) Fq Λ An. 599.3 sit] est K (corr. K2) B F: esset C (uel sit C2) An. 601.1 pretii C: aliter preci C2 An. 663.1 pronuntiandum] pronun(c)tiat dum CT: pronun(c)tiat Dauus C2 (aliter praep.) F: pronun(c)tiat Λ An. 707.3 amoliri] amolitur Θ (“aliter” C2, emolitur C) An. 820.1 officionem Θ (“aliter” C2, offensionem C) An. 830 te] aliter re C2 An. 853.2117 deest – propter2 Λ: propter BK: deest (aliter dicitur C2) p(otes)t C: deest post F

Partiamo da An. 707.3: a fronte del testo corretto in tutta la tradizione, FTq leggono amolitur, che, benché sbagliata, è la lettura più vicina al testo corretto (amoliri), mentre C ha emolitur; C2 interviene per ripristinare amolitur ma lo segnala con aliter: si intuisce quindi che anche la seconda trascrizione, migliore nella lettura della a, doveva soffrire allo stesso modo di un errato scioglimento della desinenza (lo scambio it(ur) in luogo di i(r)i si spiega bene in termini paleografici). Altre varianti di sapore paleografico, che tradiscono cioè dei problemi di lettura, si leggono ad An. 830, 853.2, 601.1. Per inciso, tracce di una lettura difficoltosa emergono in C (e talvolta anche in T) con una certa frequenza: An. 49.1 antecedit ex –dis C2 An. 74.3 contra] quam C (corr. C2) An. 75.2 quaerens ex quaeris C2 An. 83.6 deest] de eo CT (corr. C2) An. 315.4 quoniam ex quā corr. C2 An. 319.1 spectat C (in expetat corr. C2)

|| 116 Oltre a correzioni e varianti, si ritrovano a testo anche vere e proprie note concepite per restare in zona sopralineare, cf. per esempio An. 7.1 cariosi] a carie dictum s.l. C2 117 Il codice A manca in questo punto.

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Ritornando alle varianti, i restanti casi, pur se etichettati come varianti da C2, sono probabilmente frutto di rimaneggiamenti congetturali: ad An. 663.1 si individua un problema effettivo di Σ circa la lettura di pronuntiandum; contro CT che leggono pronuntiat dum, che non dà senso sintattico, C2 ed F aggirano intelligentemente l’errore con pronuntiat Dauus; il Dauus con cui viene corretto dum è probabilmente opera di un copista attivo sul testo, qualcuno che nella seconda trascrizione aveva già avuto modo di apportare qualche rattoppo testuale. Una distribuzione di varianti come ad An. 382.1 o 276 riproduce situazioni nate probabilmente già prima di Θ, se non nell’archetipo stesso. 6.2.2.4 Due copie, un antigrafo: il valore testimoniale di C In base a quanto finora detto, si può quindi concludere che Θ è un archetipo in movimento, ovvero una copia diplomatica del codice di Magonza, in cui in un momento imprecisabile sono state immesse per collazione le letture di una seconda trascrizione diplomatica derivata dallo stesso antigrafo, ed in cui, in non isolati casi si è intervenuto per via meramente congetturale: gli interventi personali dei copisti possono essere avvenuti a vario livello, ed in modo per noi non più controllabile; si può però sospettare che il testo della seconda trascrizione di Donato contenesse a sua volta già qualche emendamento ope ingenii. Una conseguenza diretta di questa ricostruzione è la preziosità testimoniale di C, il quale, nella sua prima stesura, tolti gli errori singolari, ci consegna il testo della prima trascrizione di Σ; l’accordo totale o parziale di C2 con uno dei testimoni Θ, invece, dovrebbe a rigore restituire il testo della seconda trascrizione – naturalmente questo vale in linea teorica, ma bisogna usare non poca prudenza perché è probabile che su questa seconda copia già qualcuno avesse provato ad operare qualche miglioria. Θ––––––+II apografo Σ––Θ2

C

C2TF(q)

6.2.2.5 I rapporti interni al gruppo Θ All’interno del gruppo Θ, nella zona dell’Andria in cui q fa parte di Θ (precisamente da An. praefatio fino ad An. 552.3), è riconoscibile senza troppe difficoltà un anello che più strettamente accumuna Fq rispetto a C/C2 T, che si distingue

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non solo per la tendenza ad estendere le sezioni lemmatiche, ma anche per un discreto numero di errori congiuntivi:118 An. 245.1 queritur] irascitur Fq An. 289.1 quod–289.2 dexteram] om. Fq An. 310.1 lectori] lectoribus Fq An. 310.2 ulteriorem] ullipie C2T: ulpie C: uulnere Fq An. 313.1 salutem] saltem Fq An. 347.1 certa–est1] om. Fq An. 347.2 periturum] periculo Fq

D’altro canto, benché Fq siano molto simili in termini testuali, ci sono evidenze che escludono la dipendenza reciproca:119 per l’indipendenza di q da F, bastano poche omissioni di F non condivise da q: An. 44.3 immemor1 – beneficium] om. F, An. 75.1 subdistingue – quaeritans] om. F, An. 84.1 heus – rogabam] om. F; lo stesso valga per l’indipendenza di Fda q, su cui sarebbe superfluo insistere visto che F, a differenza di q, non subisce alcun cambio di modello (An. 552.3), cf. An. 410.4 tria – dabitis] om. q, An. 429.1 aut1 – uideri] om. q, An. 436.2 ad1 – laudem] om. q. La particolare predisposizione interventista di Fq rende meno intuitiva l’interpretazione degli errori congiuntivi CT, benché, e questo è un dato non secondario, se non si ammette la parentela dei codici CT, omissioni come ad An. 81.2 non si possono essere state sanate da Fq solo ope ingenii: bisogna pensare ad una fonte di contaminazione, forse costituita dallo stesso Λ. An. 81.2 obsequi] om. CT An. 82.1 falsis] falso CT An. 102.4 placeret] taceret CT An. 142.2 in] om. CT An. 194.2 sphinx] spinx Fq: pinx CT An. 304.2 timore] timere CT An. 315.1 ratione] nomine CT An. 319.1 quoniam] quam CT An. 447.2 mire] misere CT An. 783.4 primum prius CT An. 879.3 debili] debilius CT An. 928.3 Simonem] sermonem CT An. 955.2 post animi add. est CT

|| 118 Quello esibito è solo un campione esemplificativo. 119 Si suppone l’assenza di processi contaminativi non essendoci indizi in tal senso.

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A dispetto di un numero interessante di accordi in errore fra C e T, la presenza di un legame più stretto fra i due non è intuitivo perché un buon numero di errori, che risultano essere di CT, potrebbero essere stati corretti dal tramite condiviso da Fq, e quindi appartenere già a Θ; ma è anche vero però che svariate migliorie di F(q) si spiegherebbero male in questa prospettiva se non con una costante e capillare opera di revisione: ad An. 928.3 il testo con sermonem ha perfettamente senso, Fq non avrebbero avuto motivo di intervenire. Problematico è anche ricavare informazioni utili dal rapporto di T con C2: se la ricostruzione di un capostipite Θ in movimento è vera, ossia se si ipotizza un archetipo ricco di varianti e correzioni, la presenza quanto anche l’assenza delle lezioni di C2 in T non può tradursi in termini stemmatici; potrebbe semplicemente indicare che T ha tenuto o meno conto di certe varianti o anche correzioni. E questo spiega bene anche le oscillazioni nei suoi accordi in errore: talvolta preserva la lettura corretta insieme a C, contro innovazione di C2Fq (An. 890.2: conciliatione C2Fq: consolatione CT); in altri casi si accompagna in innovazione a C2TFq contro C, il cui testo è comunque errato (An. 172.1 subsistit C2TFq: subscribit C; An. 381.8: et est in hac C: et haec C2TFq); in certi casi è l’unico capace di leggere correttamente laddove gli altri hanno degli evidenti problemi (An. 183.2: uix T: om. sp. rel. C: iure C2Fq); infine si individuano situazioni in cui C2T si accordano in errore contro CFq o contro C ed Fq (cf. An. 380.6: euenere CFq: euenire C2T). L’ipotesi più economica per razionalizzare lo stemma interno a Θ consiste nel supporre che tanto C2 che TFq discendano da Θ post correctionem; che a monte di Fq ci sia un ulteriore codice in cui sono nate aggiuntive alterazioni testuali, testimoniate da entrambi; in assenza di evidenze perspicue dell’esistenza di un rapporto più stretto fra C (+C2) e T, per le ragioni che ho messo sopra in evidenza, riterrei più prudente supporre una loro indipendemente discendenza da Θ. 6.2.2.6 Stemma finale Θ––––––––––––+II apografo––Θ2

C1

C2

T

Fq

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6.2.3

Il gruppo δ

Per δ si intende il capostipite alla cui formazione concorrono ΘK (V) QJ e μ. Il codice K manca della praefatio e di molta parte del commento al prologus, tranne che della sua pericope testuale finale, a partire, quindi, da An. 25.1: dopo il f. 6 è infatti caduto il bifoglio mediano contenente l’ultima parte degli excerpta de comoedia (p. 30, 9 W.), le praefationes all’Andria ed il commento al prologo fino An. 24.7 cognoscite, per questo motivo si adopera il suo descriptus V (il cui status di descriptus di K, come vedremo, è dimostrabile anche in questa porzione di testo); QJ nel prologus e nella sez. 2 fanno parte del gruppo Λ, e già M. D. REEVE aveva segnalato il cambio di affiliazione nella zona della praefatio, che evidentemente ha interessato il loro comune progenitore poiché entrambi mostrano di condividere in entrambe le sezioni un notevole e significativo numero di errori/innovazioni (cf. REEVE 1979, 319); μ fa parte di δ nella sez. 1 e nella sez. 2 fino a 74.2, per poi confluire in Λ. Θ è il gruppo di codici, che, ad eccezione di q che confluisce in Λ ad An. 552.3, tanto nella sez.1 quanto nella sez. 2 funge da garante per l’individuazione di Σ nella misura in cui si ritiene vera l’individuazione dei modelli e la ricostruzione delle tappe di trascrizione esposte nel capitolo precedente. δ

δ1 Θ μ QJ V CFTq

Oamn

6.2.3.1 Evidenze testuali An. praef. I 1 nunc] non ΘV μ QJ An. praef. I 4 reliquorum] relique ΘV μ QJ An. praef. I 10 comoedia] eo media ΘV μ QJ An. praef. I 10 praeter] om. ΘV μ QJ An. praef. II 1 post peregrinam add. per eam (vel eum) ΘV μ QJ An. praef. II 2 fabulae est ΘV μ QJ An. praef. II 2 etiam] om. ΘV μ QJ An. praef. II 3 egressam] ingressam ΘV μ QJ An. praef. II 3 non] om. ΘV μ QJ

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ΘV μ QJ dipendono quindi da Σ, ma per una via indipendente rispetto a Λ, ovvero si distinguono da quest’ultimo esibendo una serie di errori fortemente significativi tali da permettere che si postuli la presenza di un capostipite a loro comune, δ: anche se Λ si caratterizza per un comportamento particolarmente interventista, in alcuni casi (come ad An. praef. I 4, An. praef. II 2 o anche An. 8.5) resta altamente improbabile l’ipotesi che si tratti di errori non nati in δ, ma riconducibili in ultima analisi a Σ, quindi corretti da Λ: si tratta infatti di innovazioni testuali che non compromettono il senso del testo, e che quindi non stimolerebbero la correzione; o di omissioni di particelle che risulterebbe difficile ripristinare a meno di una capillare opera di contaminazione. Rispetto a queste evidenze, quindi, l’ipotesi più economica è per l’appunto l’esistenza dell’anello δ, la cui presenza si lascia individuare anche nel prologus, ossia dopo il passaggio di QJ al gruppo Λ, esattamente alla fine della praefatio: An. 8.5 unum] om. ΘV μ An. 16.4 post hoc add. loco ΘV μ An. 22.1 quiesce] quiescere ΘV μ

6.2.3.2 Sottogruppi di δ. L’esistenza di δ1 All’interno del gruppo δ si distingue un sottogruppo, chiamato δ1, costituito da QJ μ ed individuato da una serie di innovazioni squisitamente congiuntive: An. praef. I 3 seueri] seriue A: serii S: parci V: serti Θ: diserti QJ μ: serue Λ An. praef. I 5 asperatus] asperatur Θ: exasperatus μ: exasperatus aduersatur Q: aduersatur J (aliter asperatur) An. praef. I 8 distincta] detincta Θ: detenta QJ μ: descripta V An. praef. I 9 ante adhibetur add. non QJ μ An. praef. III 3 seni] senis QJ μ

Subito all’inizio della praefatio la tradizione manoscritta mostra di avere una difficoltà in merito alla lettura di seueri: soprattutto sulla base di A, sembra ricostruibile per l’archetipo un seri con ue sopra il rigo, malamente interpretato o ignorato dai vari testimoni; più nello specifico, Θ legge serti, mentre μ QJ leggono diserti: è chiaro che diserti è una congettura, probabilmente la più ovvia, del capostipite comune μ QJ per un insensato serti di δ. Particolarmente interessante è la rielaborazione a cui sottopongono An. praef. I 9: a fronte di in nullis con ogni probabilità δ aveva in illis (così Θμ QJ, ma non V, che presenta un testo corretto ma emendato probabilmente per via congetturale); il comune capostipite di μ QJ, che mostra di essere vigile sul testo, recupera il senso negativo richiesto dal contesto interpolando non prima di adhibetur – una negazione che, se già fosse sorta prima di δ1, Θ non avrebbe avuto motivo per non accogliere.

82 | Il Maguntinus (Σ)

Naturalmente, è necessario dimostrare anche che non esiste una dipendenza reciproca fra QJ e μ, con l’ovvia constatazione che con gruppi di manoscritti che presentano spiccate attitudini a manipolare il testo, soprattutto lì dove non regge, non si può spesso condurre un ragionamento lineare come il metodo maasiano impone. Ad escludere la dipendenza di QJ da μ intervengono quei casi in cui QJ si associano in errore con Θ piuttosto che condividere la correzione (innovante e migliore, se non addirittura giusta) di μ: è questa la situazione di An. praef. III 1: Donato sta spiegando il contenuto del primo atto ed afferma Primus actus in Andria narrationem Simonis ... continet. Pur essendo questa un’osservazione ineccepibile, VΘQJ leggono un insensato similis, a fronte di testo corretto in μ, ovvero Simonis, – che certo QJ avrebbe accettato di trascrivere se avesse avuto modo di vederlo: nell’ipotesi di dipendenza di QJ da μ, infatti, bisognerebbe supporre, ben poco economicamente, che nel subarchetipo δci fosse la forma corrotta similis, che solo μ riesce brillantemente a correggere (forse anche solo ope ingenii) ripristinando il corretto Simonis; successivamente, QJ, pur leggendo Simonis, scrivano similis, ripetendo così l’errore del comune subarchetipo δ. Un caso simile, quindi, si spiega bene all’interno dello stemma sopra delineato: δ cade nell’errore, sia Θ che δ1 non lo correggono; ad intervenire ripristinando la lezione giusta è invece μ. Per altre evidenze che escludono la dipendenza di QJ da μ, cf. An. praef. II 2 Vergilius] Vergilius et Terentius μ; An. praef. III 5 disputatio est] inu. ΘQJ (est post Simonis μ); An. praef. II 5 ducentibus] educentibus Λ ΘQJ: adducentibus μ.120 Di contro si registrano anche un discreto numero di innovazioni migliorative di QJ evitate da μ, anche se, di nuovo, questo esclude la dipendenza solo in via teorica; di particolare importanza è il passo di An. praef. I 7: il capostipite δ doveva presumibilmente presentare la lettura quod pronunciata, così riportata da Θμ nonché deducibile da V; QJ risolvono l’impasse sintattica nel modo più economico possibile, ovvero eliminando il quod: se μ fosse disceso da QJ non avrebbe avuto alcun motivo di intervenire sul testo, ed in ogni caso non avrebbe certo ripristinato la lezione insensata dei restanti componenti del gruppo δ; di uno stesso ragionamento è passibile il caso testuale di An. praef. II 2: in luogo di narratiue, δ legge narratione, che QJ correggono, come anche V, in narrationis, facendolo dipendere da originem che immediatamente precede; se μ fosse stato

|| 120 Lo stacco di V, che ha ducentibus, si giustifica come una congettura non particolarmente difficile dato che il participio si riferisce alle donne e il significato richiesto è per l’appunto quello di sposare.

I testimoni ed il testo | 83

descriptus di QJ non avrebbe avuto ragione di correggere il sensato genitivo, peraltro ripristinando la lezione difficilior propria di δ. Si può dunque ritenere valido lo stemma sopra delineato. 6.2.3.3 L’indipendenza di δ1 da Θ Per quanto detto circa la ‘nascita’ di Θ ed il dubbio circa la sua identificazione con la copia ceduta dal Cusano al Pizzolpasso o la copia di lavoro di Decembrio, diventa in questa sede indispensabile dimostrare che δ esista veramente, ossia che V e δ1 non possano essere ricondotti a Θ. Si tratta di una porzione testuale ridotta ed il quadro delle evidenze è particolarmente complicato perché i dati ‘verticali’, il testo ereditato, sono oscurati dalla presenza ‘attiva’ del copista, come tipico per tradizione umanistiche. Con molta difficoltà, quindi, si riescono a selezionare degli errori distintivi di Θ, tali che, se δ1 ne fosse discendente, non sarebbe stato nelle condizioni di sanarli. Se però nella praefatio e nel prologo mancano prove decisive in tal senso, nella zona dell’Andria laddove μ non è ancora confluito in Λ (fino ad An. 75), si registrano più chiare prove dell’indipendenza dal testo di Θ e, di conseguenza, dell’esistenza di un anello comune δ. Nella zona del prologo (An. 3.3–4.1) Θμ omettono lo spezzone 3.3 Pollio – 4.1 Vergilius; la caduta di testo può essere poligenetica, ma di nostro interesse è che è più economico pensare che la lacuna si sia formata indipendentemente nei due testimoni, piuttosto che pensare che δ1 la derivi da Θ mentre QJ la ripristinino per contaminazione. A partire dal prologo (dunque da An. 1) QJ passano a Λ e δ1 viene quindi ad essere rappresentato solo da μ: in questa sezione, e precisamente ad An. 12.5, V e Θ cadono apparentemente nello stesso errore, leggendo cioè dictam in luogo di dicunt (orationem in sententiis dicunt esse), mentre μ esibisce la lezione giusta. Anche questo errore non è dirimente su un piano stemmatico: nulla vieta che dictam sia nata già in δ, per poi essere corretta da μ (la cui tendenza all’intervento sul testo è già stata messa più volte in evidenza). Alla fine del prologo è V (ovvero K) a cambiare del tutto affiliazione, diventando un testimone del Carnotensis: precisamente in questa sezione si registrano casi interpretabili a favore di un capostipite δ. O, infatti, date le configurazioni testuali di An. 28.6 (προτατική est scripsi: ΠΡΟΤΑΤΙΚΑ E(st) A: om. nul. sp. Θ: prostatica est μΛ (προτακτικα M4m), 49.2 (nam– dicturus est2 om. Θ), μ si preoccupa di supplire il testo omesso con il ricorso ad un altro codice, oppure non può dipendere da Θ. E sembra essere quest’ultima l’ipotesi più economica, altrimenti ci si aspetterebbe un numero molto maggiore di correzioni rispetto a testo palesemente erroneo di Θ.

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Ho lasciato per ultimo un caso a mio avviso non banale, offerto ad An. 3.3. Rispetto all’etimologia greca di poeta la tradizione si distribuisce in questo modo: ἀπὸ τοῦ ποιεῖν M4tJxG2: ΑΠΟ ΤΟΥ ΝΟω A (in ποιεῖ corr. P. Daniel): om. sp. rel. ΘΛ (ἁποιεω idest facio f2: παρά τοῦ ποιεω ῶ z): πασητησ V: a potu poro pois μ

Θ, come sua tendenza, omette e lascia spazio; non si comportano allo stesso modo V e μ, che di prima mano trascrivono il graecum in una forma particolarmente corrotta. Mentre per alcuni codici Λ che danno anche in altre occasioni prova di un certo dominio del greco, soprattutto se di seconda mano, è da preventivare il ricorso a congettura o addirittura alla consultazione di altre fonti, nel caso di μ e V, i quali danno prova di non capire nulla del greco trascritto, né la consultazione di altre fonti né tantomeno la diuinatio possono essere presi in considerazione; semplicemente, si trovano a trascrivere quello che leggono nel proprio antigrafo, che certo non si può identificare in Θ. Questa evidenza, pur con la dovuta prudenza, costituirebbe da sola la prova dell’indipendenza tanto di μ quanto di V da Θ(QJ fanno qui parte di Λ). La soluzione alternativa, cioè che il greco sia stato recuperato da δ1 e nuovamente corrotto da μ è poco economica, a maggior ragione perché anche V lo riporta (ramo indipendente come vedremo tanto da δ1 quanto da Θ): l’accordo di V con μ nella presenza del greco rende plausibile pensare che già δ lo testimoniasse, e che proprio da δ lo traesse δ1, che quindi si dimostra indipendente, ripeto, da Θ.

6.3 K(V) testimone maguntino Data la grave lacuna di cui soffre K in questa sezione (cf. REEVE 1979, 311) non si può escludere che l’afferenza al Maguntinus sia propriamente di V, che V in questa sezione non sia descriptus di K e che quest’ultimo fosse un testimone pienamente Γ. Fortunatamente, però, ci resta qualche scolio della parte finale del prologus dove K, insieme a V, mostra di accordarsi in errore con Σ: ad An. 25.2 K condivide con Σ l’errata lettura di bene in luogo di hanc; nella stessa sezione K omette est con δed in luogo di quasi esibisce queso con Σ. Se ne deduce quindi che K stesso, come indicatoci da V (REEVE 1979, 312–3), è a tutti gli effetti un codice Σ. Analizzando le evidenze testuali è infatti possibile affermare che K nella sezione della praefatio e del prologus discende sì da δ, ma per una linea indipendente tanto da Θ che da δ1: non condivide infatti errori congiuntivi né con Θ né

K(V) testimone maguntino | 85

con δ1; o, più precisamente, non condivide con i singoli sottogruppi errori tali che non possano essere interpretati come un’eredità del comune capostipite δ; mancano inoltre accordi in errore Θδ1 contro V. Si rilevano con Θ gli accordi innovanti su cui è necessario discutere: An. praef. II 3 obscure] ob VΘ: propter QJ: om. μ An. 13.2 quae–andriam] om. VΘ An. 12.5 dicunt] dictam VΘ An. 16.1 ante manibus add. cum VΘ

Gli accordi VΘ, che talvolta l’apparato registra, sono dati forvianti a causa della tendenza interventista dei testimoni di δ1. Ad An. praef. II 3, per esempio, δ ha chiaramente un problema di lettura che interessa obscure, rispetto al quale VΘpresentano ob, QJ propter e μ omette insieme ad una importante porzione di testo successiva; è evidente che ob, che apparentemente isola in errore i soli VΘ, doveva essere già di δ, infatti propter di QJ si spiega proprio come glossa ad ob, visto dunque anche dal capostipite di QJ; se μ omette, inoltre, è perché certamente non leggeva il sensato obscure, ma qualcosa che non lo persuadeva testualmente; l’errato ob accomuna VΘ solo apparentemente. In merito ad An. 12.5 (ricordo che qui QJ sono già parte di Λ), si è già discusso poco sopra (cf. p. 83). I restanti due accordi sono di una certa rilevanza: il primo ad An. 16.1 (〈cum〉 manibus VΘ) a mio avviso andrebbe spiegato supponendo che in δ il cum si trovasse in una posizione extra – testuale, ed in questa direzione si può interpretare la dislocazione esibita da C (manibus cum luto) e poi corretta in un secondo momento; l’ultimo caso si registra ad An. 13.2, dove sia V che Θ, ma non anche μ omettono il lemma quae–Andriam: un’omissione non poligenetica, apparentemente congiuntiva, ma non di univoca interpretabilità. Un’omissione di un’unità testuale in sé conclusa potrebbe essere stata intenzionale (attesa di controllare un manoscritto di Terenzio?) e segnalata dallo spazio lasciato in bianco, da qualcuno semplicisticamente eliminato, per altri invece stimolo per il recupero.

6.3.1

L’indipendenza di K (V) da Θ

Dimostrare l’indipendenza di V da Θ è più agevole: è rinvenibile un discreto numero di errori Θ, in cui V non cade, alcuni dei quali correggibili solo supponendo il ricorso ad ulteriori fonti manoscritte: la prima evidenza, già nota dal cap. 6.2.3.3, è un forte indizio di indipendenza perché V trascrive il greco di prima mano ed è chiaro che non ha idea di quanto trascritto: ciò esclude la contaminazione o

86 | Il Maguntinus (Σ)

il ricorso ad altre fonti pseudo–etimologiche, non essendo pensabile che qualcuno, che ignori del tutto il greco, si proponga di provare a recuperarlo da altre fonti; se lo trascrive vuol dire che lo vedeva nell’antigrafo e l’antigrafo non può essere Θ, a meno di pensare, in un’ipotesi assai più complessa e non economica, che il recupero sia avvenuto fra Θ e V e ricorrotto da V. An. 3.3 ἀπὸ τοῦ ποιεῖν M4tJxG2: ΑΠΟ ΤΟΥ ΝΟω A (in ποιεῖ corr. P. Daniel): om. sp. rel. ΘΛ (ἁποιεω idest facio f2: παρά τοῦ ποιεω ῶ z): πασητησ V: a potu poro pois μ An. 3.3 Pollio – 4.1 Vergilius] om. Θμ An. 4.1 rerum] post mihi transp. ε V: om. Θ

6.3.2

ΘV e δ1: tre rami indipendenti di δ

Resta da verificare l’ultima possibilità: l’esistenza di un più stretto rapporto Θδ1 contro V, tale da denunciare la presenza di un vero e proprio anello in comune. Questa possibilità teorica non è supportata dalle evidenze testuali; più specificamente, gli errori condivisi da Θδ1 non hanno valore distintivo: il testo giusto esibito da V, più che essere poziore, è verosimilmente prodotto di una correzione o manipolazione (così spiegherei praef. I, 9 o anche An. 25.3 nonché Lanuuio di An. 1.5); talvolta il testo Θμ può ritenersi poligeneticamente corrotto (come An. 3.2 e 13.1). Praef. I, 9 nullis] illis Θδ1 An. 1.5 Lanuuino] Laniumo A: Lanuuio V: Lauino Θμ: lauinio Λ An. 3.3 Pollio – 4.1 Vergilius] om. Θμ An. 13.1 fuerant] suerant A: fuerunt Θμ An. 16.3 ne] om. Θμ An. 25.3 est1] om. Θμ: post aduerbium transp. K(V)

6.4 L’estratto ambrosiano. La posizione stemmatica di S La praefatio ed il prologus appartengono ad una sezione stemmatica diversa rispetto al resto dell’Andria, ovvero la sez. 1 (cf. REEVE 1979, 311). Il motivo, per cui REEVE individua uno stacco fra la fine del prologo e l’inizio del commento all’Andria vero e proprio (An. 28) si spiega sulla base di importanti cambi di affiliazione all’interno del ramo Maguntinus, la cui rosa di testimoni è qui infoltita da K (=V) e QJ (ma solo fino alla fine della prefazione). Γ invece è rappresentato integralmente soltanto da A, su cui quindi grava un peso stemmatico enorme, talvolta diviso con P.

L’estratto ambrosiano. La posizione stemmatica di S | 87

Solo per la praefatio I, inoltre, abbiamo a disposizione un codice ambrosiano (Ambrosianus L 53 sup.), un possesso del Pizzolpasso, e in via ipotetica legato alla figura di Nicola de Clamanges: ciò emerge dalle ricerche di SABBADINI (1911) 541–3 (= Id. 19712, 153–4), ormai superate. M. D. REEVE (1979, 323; 1986, 154 e 156) ne fa un fratello di Σ, e le poche evidenze testuali valorizzabili mi permettono di essere d’accordo con questa ipotesi.

Σ

6.4.1

S

Il capostipite comune di Σ ed S. L’esistenza di 

Non sono rintracciabili errori A(P) S, ma si individuano casi importanti che congiungono in errore SΣ(/δ).121 An. praef. I 2 maiori] maiore Sδ An. praef. I 3 ante actus add. in se S, ex se δ An. praef. I 6 acta] om. SΣ An. praef. I 6 aedil.] edilę A: edile et S ΘQJ: edili et μ: edilibus et Λ An. praef. I 6 uel A: et SΣ

In un caso come questo, dove la sezione testuale è estremamente esigua, è comprensibile la necessità di prendere in considerazione anche accordi in errore che, in altre circostanze, si sarebbero trascurati; nell’elenco ho ammesso anche casi di mero accordo Sδ quando penso rappresentino, in linea teorica, errori SΣ, assenti in Λ perché corretti ope ingenii.122 Degli accordi in errore più interessanti è da annoverare l’omissione di acta al paragrafo 6 nonché lo scioglimento di edil. in edile et: qui, anche se A presenta anch’esso una forma errata, è comunque verosimilmente più vicina alla lezione

|| 121 È evidente che do anche gli accordi Sδ quando è supponibile che lo stacco di Λ sia per congettura. 122 Appare chiaro che la correggibilità di un errore da parte di Λ indebolisce il valore dell’errore stesso, si potrebbe cioè affermare che l’errore è assente anche nell’altro ramo, A, perché anche lì è stato corretto, ma è altrettanto noto che mentre A è un codice assolutamente non interventista, Λ invece ha spiccata tendenza tanto alla congettura quanto alla contaminazione.

88 | Il Maguntinus (Σ)

originaria, perché priva dell’interpolato et, che isola, congiungendoli in errore, SΣ; lo stesso ragionamento vale per l’interpolazione di in / ex se prima di actus ad An. praef. I 3, che sorprendentemente è evitata da Λ: constatando l’oscillazione che coinvolge la preposizione in S e δ, è da ritenersi probabile che in Σ fosse stato annotato qualcosa supra lineam (un sex in riferimento agli atti, che tenesse però conto anche dell’alter exitus?); Λ lo ignora mentre gli altri lo trascinano a testo adattandolo alla sintassi come meglio credono; è certo infatti che fra S e δ non esista alcun legame che vada oltre la condivisione di errori ereditati da archetipi precedenti: ad An. praef. I 7 (pronuntiataque est ‘Andria Terenti’) δ legge (o sembrerebbe leggere) quod pronunciata in luogo di pronunciataque: se S, visualizzando lo stesso errore, fosse stato ‘stimolato’ a correggere il testo, si sarebbe limitato ad eliminare il quod pendente, mentre molto difficilmente avrebbe ripristinato la forma archetipale con coordinazione enclitica. Ciò, ma si potrebbero addurre altri esempi, basta a sgombrare ogni dubbio. La vera aporia riguarda la posizione di S rispetto a Σ, e, in ultima analisi, l’individuazione del Maguntinus stesso: lezioni distintamente superiori di S rispetto a Σ sono assenti, presenti sono invece degli errori singolari di S. In linea teorica, S potrebbe tanto dipendere da Σ quanto avere con quest’ultimo un mero rapporto di fratellanza – il che si traduce nel postulare la presenza di un comune progenitore, η. L’elemento discriminante a favore di questa seconda possibilità è costituito dalla presenza di riconoscibili lezioni poziori di S rispetto a Σ, che non possono essere frutto di correzioni ope ingenii, in altri punti del materiale premesso al DCA in tutta la tradizione, e in particolare in Evanzio: Euanth. de fab. I 3 (= 162, 15 C.) instructis AS] constructis Σ Euanth. de fab. I 3 (= 162, 16 C.) cantaretur AS] cantare(n)t Σ Euanth. de fab. II 2 (= 164, 5 C.)) est subducta AS] subducta est Σ Euanth. de fab. II 2 (= 165, 2 C.) quinquepartito AS] quinquepartita Σ Euanth. de fab. II 3 (= 165, 3 C.) cunabulis AS] incunabulis Σ (amabilis F: incunabilis T) Euanth. de fab. II 3 (= 165, 5 C.) pro nuper AS] pernuper CFT: parumper uel nuper cett. Euanth. de fab. II 3 (= 165, 5 C.) est AS] om. Σ Euanth. de fab. II 5 (=165, 17 C.) ciuium AS] omnium Σ

Se il codice scoperto a Magonza sia stemmaticamente rintracciabile in η oppure in Σ, resta problematico da stabilire, soprattutto per una questione di datazione: sappiamo che a possedere S fu Pizzolpasso, che tra l’altro dovette avere accesso anche ad uno dei primi apografi del Maguntinus; tanto la testimonianza del Bernensis 276 che lo stesso Clamanges sembrano rendere molto concreta l’ipotesi che in Francia circolasse un DC, la cui posizione stemmatica non sarebbe molto diversa da η.

Il gruppo Λ | 89

6.5 Il gruppo Λ 6.5.1

Caratteristiche generali

Sotto la sigla Λ si raggruppa un numero cospicuo di manoscritti, tutti posteriori al 1450, tutti discendenti di Σ. I suoi componenti non sono solo recentiores, ma anche deteriores: si tratta infatti di testimoni fortemente interpolati e manipolati oltre che radicalmente contaminati. Si potrebbe parlare di una doppia contaminazione: il capostipite Λ ha chiare tracce di contaminazione con un codice derivante dal ramo Carnotensis (cf. CIOFFI 2015, 356–378) e i singoli gruppi o codici mostrano spesso di avere a disposizione almeno un secondo modello, con cui non esitano a confrontarsi. In via del tutto ipotetica si potrebbe anche supporre che la formazione di Λ e la sua stratificazione testuale sia in ultima analisi imputabile allo stesso Aurispa, il quale, ricordo, nel suo epistolario lamenta la mancata restituzione della sua copia maguntina, messa in circolazione fra i tanti che l’avevano richiesta senza essersi prima riservato di trarne una trascrizione per sé: probabilmente la sua va perduta, riesce a procurarsene un’altra, qualitativamente non brillante, e così decide di correggerla con la versione carnotense. Peraltro proprio nell’inventario della biblioteca aurispina si contano diversi esemplari del Commentum in Terentium donatiano.123 6.5.1.1 Testimoni infedeli. Ope ingenii Le innovazioni del gruppo Λ sono non solo molto numerose ma incidono spesso in modo grave sull’assetto originario del testo, rendendo lecito parlare di vera e propria riscrittura; una categoria di intervento molto frequente è per l’appunto l’interpolazione, soprattutto laddove il testo tradito è di evidente problematicità. Isolo semplicemente due casi alquanto esemplificativi della categoria: † pronuntiabat habetur significatio †; est enim auctiua particula ut Wessner pronuntiabat habetur significatio est en– auc– part– ut A pronuntiabat habere, postea multum uar. B: pronomine hoc non habetur significatum est en– auc– part– ut K: pro non mediocri significat est en– auc– part– ut Θ:

|| 123 Cf. FRANCESCHINI (1979) 55ss.

90 | Il Maguntinus (Σ)

nominis non exigit additamentum est en– auc– part– adeo ut pro non mediocri significatione sit sed quia maiorem habere non potest ut Λ An. 663.3 quam † ea quae dicimus Wessner quam ea quae dicimus A quam ea quae discimus K quam ea quae dicimus discimus B quam ea quae diximus Θ an de industria idest scientia et prouidentia (uel prudentia) ea (siue et) enim que dicimus (uel discimus) et (uel ut) scimus operatione genita et industria quadam scimus Λ An. 795

Il primo riguarda la trattazione del prefisso inter che compone il verbo interturbare: tutta la tradizione, dunque già ω, accusa un problema prima della sezione est enim auctiua particula; probabilmente già Σ (data la presenza del mediocri sia in Θ che in Λ) aveva condotto qualche intervento sul testo, senza però staccarsi troppo da quanto tràdito; Λ, invece, riscrive lo scolio inglobandone il pro non mediocri significat, derivatogli da Σ. Che si tratti di interpolazione ope ingenii è evidente dalla qualità del latino nonché dal contenuto stesso della riflessione grammaticale: da un punto di vista lessicale, additamentum non è mai adoperato nel Commentum né tantomeno si tratta di un termine del linguaggio “grammaticale”;124 da un punto di vista propriamente contenutistico, la suddetta interpolazione è quantomeno inaccettabile; stemmaticamente poi è inverosimile pensare che Λ abbia conservato o recuperato da solo una porzione di testo archetipale. Il secondo caso si sviluppa secondo le medesime modalità. Tutti i codici (ABK Θ) presentano un testo evidentemente corrotto, che fatta astrazione dagli errori singolari si consegna come segue: naturalis et ingenita actio quam ea quae dicimus ut … In corrispondenza della relativa pendens, il gruppo Λ presenta un’altra massiccia interpolazione:125 naturalis et ingenita actio an de industria idest scientia et prouidentia (/prudentia) ea (/et) enim que dicimus (/discimus) et (/ut) scimus operatione genita et industria quadam scimus. Trattandosi di una definizione relativa ad un’actio naturalis et ingenita, lo stimolo ad interpolare è molto forte, tanto più se proprio in questo punto il testo tràdito non ha senso: all’azione naturale viene opposta dai codici Λ la possibilità di un’azione intenzionale, fino ad approdare, attraverso snodi logici poco perspicui, alla conclusione che le cose che sappiamo sono frutto di un processo sia ingenito sia intenzionale. In sostanza, il gruppo Λ assorbe il tradito quam ea que dicimus in un ragionamento del

|| 124 Cf. SCHAD (2007) 15. 125 Tra parentesi si leggono le varianti più diffuse.

Il gruppo Λ | 91

tutto gratuito che ha come poli dell’antitesi la natura e l’industria: sia per i contenuti, sia per ragioni stemmatiche, non può che trattarsi di una estesa interpolazione del suddetto gruppo. Per quanto riguarda i casi di aggiunte (o interpolazioni) alquanto invasive, andrebbero annoverate altre confezioni testuali, come in corrispondenza di An. 44.3, An. 83.4, An. 455.2, An. 463.2, An. 512.1, An. 769.4, An. 854.2. Molto numerose sono le aggiunte di una o due parole; di seguito fornisco un elenco di casi rispondenti a questa tipologia: An. 33.1 ante i(d est) add. quas i. t. i. Λ An. 63.4 post superioribus add. dedere Λ An. 268.1 partitudinis] partus et egritudinis Λ An. 324.3 post sensus add. talis Λ An. 333.2 post quasi add. Birriam Λ An. 349.3 post posuit add. hoc Charino dixit Λ An. 363.3 post fugerit (fuerit codd.) add. dilatio Λ An. 380.5 post Pamphile add. resistere Λ An. 426.1 post sententia add. posuere Λ126 An. 494.1 post fuerat add. Dauum Λ An. 716.5 post persona add. hic ostendit Λ An. 720.5 post capere add. opinamur Λ An. 754.3 post scilicet add. qui Λ Ibid. post deriuantis (deriuatum Λ) add. per istud Λ An. 785.2 post praesentem add. Dauum Λ An. 806.2 ante ordine add. bono Λ

La constatazione della capacità interpolativa di Λ ha un risvolto fondamentale dal punto di vista della constitutio:127 non sono rari i casi in cui Λ sembra avere un testo più sensato rispetto alla restante tradizione o lezioni con un qualche significato lì dove gli altri tradiscono dei gravi problemi riconducibili all’archetipo. Per il 99, 9 % dei casi, fidarsi del loro testo significherebbe non stampare il testo dell’archetipo. Alla tendenza interpolativa se ne affianca una seconda: quella alla banalizzazione.

|| 126 Il verbo in questo caso non è necessario (Donato utilizza indifferentemente sia ‘x pro y posuit/posuere’ sia soltanto ‘x pro y’ (cf. Ad. 1.1). Ad ogni modo Donato per ueteres avrebbe usato ponebant (cf. An. 433) e non posuerunt: il perfetto suggerisce una scelta precisa e puntuale, operata da Terenzio in circoscritti punti del testo. 127 Naturalmente questa “costante” caratterizza anche l’approccio di Λ nei confronti del testo terenziano (e dunque le sezioni “lemmatiche” e le citazioni da Terenzio).

92 | Il Maguntinus (Σ)

Uno dei primi esempi di questa tipologia si incontra subito nelle primissime pagine del DCA, precisamente ad An. 30.1: lì dove il testo dei restanti recita sed coquina medicinae adulatrix est, Λ semplifica il concetto di adulatrix in famulatrix; nella medesima zona, poco sopra (An. 29), productio è riscritta nella formula, leggermente più banale, di adiectio syllabica. Anche di simili casi non mancano esempi, per cui mi limito a menzionarne solo alcuni altri: An. 28.3 illis] aliis Λ An. 77.3 quanta] alia Λ An. 236.1 indicenti] inducenti Λ An. 236.3 pro suasore] persuasorie Λ An. 299.1 tetulerit] detulerit Λ An. 306.2 infinitum est] indefinitum est Λ An. 338.3 bis] boni Λ An. 399.2 permansit] remansit Λ An. 618.2 summonere] monere Λ An. 695.3 de] pro Λ An. 759 sequens ne] ne sequentem Λ An. 790 intercessione] interuentu Λ An. 801 ut2] hi Λ An. 839.2 quaeritur] creditur Λ An. 948 plurimum] multum Λ

6.5.1.2 Testimoni infedeli. Ope codicum Sintetizzo qui i punti essenziali di questa acquisizione, per la cui trattazione approfondita rimando a CIOFFI (2015) 356–378. La scoperta, lo studio, la collazione sistematica del codice K ha permesso di comprendere meglio anche la stratificazione contaminativa di cui soffre Λ: sono infatti isolabili molte evidenze testuali in cui l’accordo in errore di K con Λ non potrebbe altrimenti giustificarsi che in termini contaminativi. I casi testuali notevoli per la formulazione della suddetta ipotesi si individuano in corrispondenza di An. 180.1, ibid. 79.2, ibid. 36.3, ibid. 398.5. Sia K che Λ sono codici tardi, posteriori al 1450, per cui la responsabilità di questo processo contaminativo a rigore potrebbe cadere tanto su K o su un suo antenato prossimo, verosimilmente l’antigrafo, che su Λ; anche in questo caso però è pensabile che sia Λ ad avere a disposizione K o, meglio, un codice simile a K e non il contrario: così ci lasciano supporre la particolare configurazione testuale di Λ ad An. 447.2 nonché i casi in cui Λ esibisce le stesse innovazioni non solo di K ma anche di P, codice quest’ultimo certamente più antico rispetto alla formazione di Λ, cf. An. 63.2.

Il gruppo Λ | 93

Se il codice di contaminazione sia K non è precisabile, ma lo ritengo poco verisimile: ricordo che Aurispa, preoccupato di perdere anche la copia del Carnotensis, ne fece trarre una seconda per sé e poi la mise in circolazione, e la circolazione del testo del Carnotensis (riscoperto intorno al 1446), come ammette lo stesso SABBADINI, proseguì in maniera più spedita rispetto a quella maguntina, non secondariamente perché meno ostico alla lettura del primo; sicuramente si può dire che all’interno dello stesso Λ si individuano gruppi di manoscritti o singoli codici che hanno a loro volta a disposizione un modello di tipo carnotense.128

6.5.2

La macrofamiglia ε

6.5.2.1 Caratteristiche generali Pur con un certo grado di rischio (dovuto alla radicata contaminazione che caratterizza Λ), grazie alla presenza di rilevanti errori in comune è circoscrivibile un largo gruppo di manoscritti riconducibile ad un medesimo subarchetipo, qui siglato ‘ε’. Questo gruppo, caratterizzato da una forte instabilità interna, si può dire inizialmente costituito da Mhf(t)129 QJ px, a cui si aggregano s, ν (=Onm) e Da. Dal momento che le affiliazioni mutano spesso e l’unità del gruppo è altrettanto spesso intaccata dalla contaminazione, preferisco presentare una lista di passi in ordine di comparsa, in cui non necessariamente si dà ogni volta l’accordo di tutti i testimoni che abbiamo menzionato, ma dove la ricostruibilità di ε sembra comunque dimostrabile. Preciso inoltre che alcuni dei manoscritti in elenco formano a loro volta delle microfamiglie ben circoscrivibili.130

|| 128 L’unico caso che, per certi versi, potrebbe complicare la ricostruzione sollevando il sospetto che anche K possa essere un codice contaminato, si registra ad An. 302.1 quaerit A: quatenus K Σ. Essendo un’evidenza isolata, lo si potrebbe archiviare come un’eccezione, probabilmente imputabile ad una doppia lezione; in quest’ultimo caso si deve però ammettere che la concorde scelta di una variante palesemente errata non è del tutto comprensibile. Probabilmente, invece, si tratta di un errore poligenetico, innescato dal una tipologia grafica carolina, in cui il nesso ri è stato letto come una n. 129 Il codice t è citato fra parentesi perché risulta leggibile solo per la sezione An. praef.–An. 127. Anticipo inoltre che M (+M2) hft formano a loro volta un sottogruppo di ε, a cui in diversi punti del DCA si aggregheranno anche altri testimoni (spec. q ed s). 130 L’elenco seguente costituisce soltanto un campione di evidenze rappresentativo. Allo stesso gruppo dovrebbe appartenere anche r(a), che per l’Andria, non avendo a disposizione la riproduzione, ho verificato solo per punti critici: il suddetto testimone, dichiaratamente Λ, sembra in ogni caso essere vicino al gruppo α. Questi dati ricevono conferma, per il Commentum all’Eunuchus, dalla mia collega C. Poloni, che ha gentilmente messo a mia disposizione le sue collazioni

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6.5.2.2 Elenco delle evidenze testuali An. 28.2 com(o)ediae] com(m)ode Mfht Qa.c. J An. 38.1 malum] malo Mf QJ x || dicendum post magis transp. Mfht QJ x p An. 49.3 et] e. M J x p An. 56.2 alunt] aliud Mhft J x: alit Q An. 69.2 audiendi] om. Mfht QJ x p D An. 72.2 integra aetas est] aetas est Mfth J x p An. 74.2 bene] recte p: om. Mfth QJ x D An. 175.6 ac – lenitas]1 om. M QJ x p D Omn a An. 192.1 responsio] reprehensio Mfh QJ p D Omn a s : reprehensione x An.193 pro egro– aegrotum] om. M (signo adp., rest. M2m) QJ p D a s: ad deteriorem plerumque partem applicat. Non hercle intelligo ν An. 206.1 persona Mfh QJ || et1] se D: seq(ui) QJ: serii s: sequi Mfh x p n a: sequitur m An. 208.2 nobis transp. ante quam Mfh QJ (s.l.) x p D Omn a s An. 210.2 timui] timeo Mfh QJ x Onm || sp. rel. ante male M p An. 218 de armario] om. M (at M2m post Cicero rest.) QJ x p D Omn a s An. 228.1 ut ad ὀικονομίαν facetiae aliquid addant ut ad ὀικονομίαν P: ut adeoΙΚΟΝΟΜΙΑΝ A: om. rel. sp. Θ: ut ad sp. rel. KΛ (sp. post aliquid transp. Mfh J x p D a s) An. 234.4 ueniant] ueniat CT: inueniant Mhf J x p s: inueni Q An. 234.5 aut] nam Mhf J x p s m: aut nam Q An. 237.1 de hiis] om. M QJ x p Omn a s, rest. M2 An. 248.3 in] om. Mhf D x p QJ Onm a s An. 267.2 post salue add. pluraliter Mhft QJ x D p Omn a s An. 270.3 leuius] melius Mf J x D p Omn a s: aliter melius h: minus Q An. 279.1 ordinem] amorem Mhf x D p Omn a s: ad amorem Q, J (s.l.) An. 310.3 permissio] promissio Mhf J x Omn a s An. 315.2 aut] om. M QJ Dx nm || quid nisi nihil impetres] om. M QJ Dx nm An. 319.2 beneficium] om. M J x p D Omn a s, rest. M2m: om. sp. rel. Q An. 320.1 apud– 320.2 c. om. M (rest. M2) QJ x D p Omn a s An. 331.1 nullus (–llius snQ) est Mhf QJ x p D s An. 375.1 enim] om. Mhf QJ Dx sp Oa H || etiam hoc] inv. Mhf Dx QJ p Oa An. 399.4 imperasse] impetrasse Mhf QJ x p D Onm a s An. 443.4 immatura aetas h: immatura M QJ x p D Onm a s: aetas immatura N f U Y GH: etas minatur z An. 476.3 per quos (quas QJ) omnes Mhf QJ x p Om a s An. 509 si meo] sine eo Mhf QJ x p D Onm a s U: si sine eo z GH: in eo NY || ait] dixit zNYU GH M: om. hf QJ x p D Onm a s An. 510.2 uere] quasi hf QJ x p D Onm a s: quare cett. An. 583.3 eos] om. hf J x p D Onm a s: sum Q

|| ed i risultati dei suoi primi studi: almeno per il primo atto dell’Eunuchus il capostipite di r(a) e W, suo fratello, discenderebbe in ultima analisi dallo stesso subarchetipo da cui trae origine il capostipite del gruppo M2hfq.

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An. 600.2 ut] ad α QJ x p D Onm a s An. 627.4 aestimauerint] estimaueri(n)t GHNYU: extimauerit M: existimauerit hf QJ x p D Onm a z An. 681 tradidi] reddidi M2 QJ x p D Onm a An. 703.1 post sensus add. hic hf QJ x p D Onm a An. 720.1 confirmantis] comminantis hs p: commirantis J x Onm a: coniurantis Q An. 727 nobis post respondet transp. hf QJ x p D Onm a An. 827 pro mittas] om. QJ D Onm a An. 834 per] om. fhq (add. h2 s. l.) QJ x p D mn q (post oro exhib. per Q x p D q mn) An. 854 iam sibi] sibi iam hf J Oa D: sibi sq An. 891.5 loquimur] loquitur M GH NY U z, dixit seu (sed D) loquitur fhmq QJ x p D Onm a s An. 941.1 et] om. fhq QJ x p Onm a s An. 941. 2 ipse] ipsi QJ x p D a An. 959.1 uilla domus post filii exhib. fhq QJ x p D Onm a

6.5.2.3 Discussione delle evidenze testuali An. 1 – An. 72.2 A partire da An. 1.1 fino ad An. 72.2 è individuabile un gruppo di manoscritti Λ accomunati da una serie di errori, alcuni dei quali molto significativi. Il suddetto gruppo si compone dei seguenti codici: Mhf(t) QJ xp.131 Tra gli errori che rendono plausibile la presente suddivisione, notevole risulta essere l’omissione di audiendi ad An. 69.2: non ci sono condizioni contestuali che possano avere favorito la caduta poligenetica del gerundivo e, d’altro canto, non è neppure possibile supporre che l’omissione di audiendi risalga al subarchetipo Λ, recuperato per contaminazione o congettura da tutto il resto dei manoscritti di questa famiglia: anche senza audiendi il testo è perfettamente comprensibile e grammaticalmente corretto (... ideo, ut gratam exspectationem faciat simulque auidum lectorem nominis audiendi reddat). E proprio da An. 69.2 si rintraccia anche la partecipazione di D al suddetto gruppo. An. 73 – An.476.3 Dopo An. 72.2 al gruppo ε si aggrega verosimilmente anche la microfamiglia μ: come si dimostrerà in seguito, μ si compone di Oamn; fino al verso 72, la loro afferenza stemmatica è di tipo δ, poi confluiscono in Λ (con l’ulteriore allontanamento di a da Omn). Successivamente al passaggio da δ a Λ, emergono accordi in

|| 131 Q è molto propenso alla congettura nonché alla contaminazione, per cui non inficia la sua appartenenza al suddetto gruppo il fatto che non condivida una certa percentuale di errori.

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errore di Mhft px QJ con Omna: in altri termini, il punto di confluenza di μ in Λ si concilia con l’emergere di un certo numero di errori MhftpxQJ–Omna, per cui è economico pensare che, all’interno di Λ, Omn rientrino nella famiglia ε. Fra il cambio di affiliazione (fra i vv. 75 e 77) e l’emergere del primo significativo errore condiviso con ε si interpongono un certo numero di scoli, ma questo non sorprende perché fra il vv. 77 e 175 la presenza di ε è latente; quando la si rintraccia, ovvero ad An. 175.6 con l’omissione potenzialmente poligenetica ac– lenitas), poi confermata dall’innovante reprehensio in luogo di responsio (192.1), il gruppo comprende finalmente anche Oamn. Tra le evidenze più significative, è da menzionare la situazione testuale di An. 206.1132: ENIMVERO DAVE N. persona aut ab altero commendatur aut se ipsam populo commendat aut et

ab altero commendatur et a se ipsa, ut hic Daui et per Simonem supra descripta est. persona aut AΘ: persona K Mfh QJ: aut persona cett. || commendat] commendatur μ Mfh J x p s || et1] se D: seq(ui) QJ: serii s: sequi Mfh x p anm: sequitur m

In corrispondenza del primo et il gruppo ε insieme con mn (qui gli unici rappresentanti di ν perché O presenta un’omissione) ed a, presentano un bizzarro sequi, mentre D ed s esibiscono rispettivamente se e serii. L’errore non può essere ascritto a poligenesi; se si suppone che risalga a Λ, bisognerebbe ammettere anche che una parte dei codici Λ l’abbia corretto per contaminazione con un manoscritto esterno a Λ stesso perché è chiaro che ripristinare et a partire da sequi è ben poco fattibile per via meramente congetturale. Vero è che pensare ad una correzione per contaminazione di una parte di Λ, piuttosto che ad un errore che accomuni significativamente i codici in questione, è meno economico, soprattutto alla luce di altri errori, a vario grado significativi, condivisi dai medesimi codici. In una sezione di testo di poco successiva a quella ora esaminata, cioè An. 218, i codici ε condividono l’omissione di de armario, recuperato poi dal gruppo di manoscritti chiamato ‘α’, per contaminazione.133 La natura poligenetica dell’errore è da escludere, di conseguenza anche questo caso si presenta come molto interessante in prospettiva stemmatica: sebbene infatti si trovi all’interno di una citazione ciceroniana, è difficile pensare che si tratti di omissione del capostipite

|| 132 Il testo che si propone è quello stampato dal WESSNER (1902) ad loc., ma nella mia edizione si è preferita una diversa confezione testuale, cf. p. 258. O soffre di un’omissione in questo punto. 133 Per α, cf. pp. 99ss.

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Λ, e che quindi gli altri codici (GH U z NY) la recuperino da un manoscritto ciceroniano, perché altrimenti avrebbero corretto anche il palesemente insensato sine/siue. Non meno notevole è il caso di An. 208.2 con una del tutto gratuita trasposizione di nobis prima di quam, innovazione in cui cadono per l’appunto Mfh QJ x p D Omn a s. Ancora, ad An. 228.1 il gruppo ε si rende autore di una trasposizione particolare: la lacuna del graecum ὀικονομίαν non è esibita, come dovrebbe, dopo ad, ma solo dopo aliquid: comunque lo si giustifichi, l’innovazione è fortemente congiuntiva.134 Quasi nella stessa sezione testuale, precisamente intorno ad An. 192.1, anche s inizia a mostrare accordi in errore con ε: il primo errore rilevante si individua ad An. 206.1, ma già prima si stabilisce una certa continuità nella condivisione di innovazioni/errori meno significativi (An. 192.1 reprehensio in luogo di responsio, l’omissione di ad An. 193, spiegabile anche in termini di poligenesi); si ipotizza dunque che anche questo codice, da 192.1 inizi a dipendere dal capostipite ε. An. 481 – An.580 La presenza del gruppo ε sembra quasi non rintracciabile a partire da An. 481 fino a An. 580 (con l’omissione di eos ad An. 583.3). Le uniche due evidenze indicative di una qualche continuità non sono molto forti: ad An. 509 ε si distingue per avere sine eo in luogo del corretto si meo, lì dove GHz leggono si sine eo e NY in eo, ma l’ evidenza di per sé poco probante perché si poteva essere eliminato dai singoli testimoni ope ingenii; in corrispondenza di questo stesso punto i codici ε (ad eccezione di M, che legge dixit) omettono il verbo ait: il problema è la non dimostrabilità che l’errore nasca proprio in ε, ossia che si possa escludere che l’omissione fosse già di Λ; anzi, il fatto che NYUGH e, stranamente, M, leggano dixit farebbe propendere per l’ipotesi di un defectus d’archetipo supplito nel modo più banale possibile da NYUGHz e M, probabilmente per iniziativa indipendente (per ulteriori osservazioni su questo punto. La seconda evidenza, ad An. 510.2, è più interessante: WESSNER ripristina uere in luogo del tradito e non accettabile quare, lezione di ω; dal quare di ω, ε (ormai privo di M) si stacca per via congetturale con quasi.

|| 134 Anche su questo caso è possibile verificare la maggiore indipendenza di Q, che omette lo spazio dopo aliquid nonché dopo ad, e di ν che elimina lo spazio e procede ad interpolare.

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6.5.2.4 Lo stacco di M da ε Quanto al dixit di M, non si tratta di una traccia isolata in questa sezione testuale, e quindi l’innovazione, congiuntiva rispetto a NUYGHz, non è di fatto archiviabile come un’eccezione: lo scolio spiega che citarsi in terza persona, usando il proprio nome e non un pronome, è una scelta altamente enfatizzante, comparabile con Verg. Aen. 12, 10: Vergilius, cum Turnus incusaretur, ait “nulla mora in Turno”. La frase contenente la citazione potrebbe reggere sintatticamente anche senza ait (o, perlomeno, non sarebbe certo un caso eccezionale per il DC che una citazione venga introdotta senza uerbum dicendi, cf. An. 503, 533.6, al.); ne consegue che la decisione di M di supplire dixit, esattamente come NYUGHz, non si può semplicisticamente ridurre ad un fenomeno poligenetico, soprattutto perché il verbo viene supplito nello stesso punto e nello stesso tempo verbale dei restanti codici. Se ne può concludere che M, all’incirca a partire da An. 509, si stacca dal gruppo ε: quando infatti ε sancisce nuovamente con forza la sua presenza con l’omissione di eos, M non mostra alcuna sofferenza testuale, e lo stesso vale per le evidenze successive; gli accordi di M (testo) con i codici ε cessano, ma alcune lezioni di ε sono ripristinate in M dalla seconda mano, il correttore che attinge da un codice di base ε contaminato con un optimus codex.135 Sia il caso di peccatorem/precatorem che estimau–, exist–, in cui M si accorda con il gruppo di partenza, non mettono a rischio questa ipotesi di un cambio di modello di M, essendo esposti all’insidia della poligenesi (per il primo potrebbe trattarsi di un caso di doppia lezione, stemmaticamente poco influente). 6.5.2.5 Incremento degli errori congiuntivi D β Parallelamente alla difficoltà di tracciare la presenza di ε ed allo stacco di M, si individua anche, all’interno di ε, una più stretta vicinanza di D al gruppo β (= hftq, cf. infra): ad An. 484.1 D aggiunge magis prima di quam accordandosi in innovazione con α; An. 486.1 aeui ut] que ut Λ (atque ut βD); An. 499.2 credon] taces βD; An. 502.2 istud] illud βD.136 Rispetto agli errori congiuntivi che interessano D e β, numericamente rilevanti, i pochi separativi non comprometterebbero la possibilità di un vero e proprio passaggio di D a β/α: quest’ultimo doveva infatti avere una quantità di interventi in zona marginale o sopralineare, la cui ricezione poteva essere negletta. In

|| 135 Cf. An. 600.2 dove M di prima mano ha ut; M2 introduce la lezione ε ad. 136 Ho citato solo qualche caso, ma l’elenco è abbastanza ricco: cf. An. 481.1 Q.Q.] QUAECVMQVE βD; An. 489.3 exceptis] exemptis β D; An. 490.6 post puellus add. et Λ (– β D); An. 491.1 ILLIS] ILLI β D || QVAE] QVI AB K β D: Q T.

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un’ipotesi, invece, di contaminazione sarebbe problematico giustificare la tipologia delle innovazioni comuni esibite a meno di supporre un processo di correzione capillare 6.5.2.6 Da An. 580.3 in poi La ricomparsa del gruppo compatto ε, privo però di M, è verificabile in coincidenza dell’omissione di eos ad An. 583.3. La disgregazione a cui si assiste per le due scene precedenti è probabilmente da imputarsi ad un problema nel capostipite ε: si potrebbe pensare ad un ε lacunoso, che costringe i vari codici a cercare un secondo modello da cui attingere le due scene mancanti (D o il suo modello è costretto a ricorrere a β; i restanti codici si procurano un codice Λ qualsiasi; M non solo passerebbe ad un nuovo manoscritto Λ per questo punto lacunoso, ma per tutto il seguito dell’Andria); a questa possibilità si potrebbe però contrapporre l’ipotesi che lo stacco di M avviene in modo del tutto indipendente da ε e che la più stretta vicinanza di D a β sarebbe solo indice di una più intensa opera di contaminazione; l’assenza inoltre di tracce individuanti il suddetto gruppo non è di per sé indice della disgregazione dello stesso, ma solo di una qualità testuale di ε adiaforicamente Λ.

6.5.3

I sottogruppi di ε

6.5.3.1 I testimoni α: costanti e variabili 6.5.3.1.1 L’esistenza del sottogruppo α: M2hft Un sottogruppo di ε è costituito da α, sigla con cui si intende il manoscritto da cui discendono hf(t) nonché le correzioni importate da M2 in M, ed ancora, in seguito a cambi di affiliazione, i testimoni q s; p e, forse, D (come visto in precedenza), si limitano probabilmente ad avere un codice α come seconda fonte manoscritta. La caratteristica principale di questo gruppo è la presenza di tracce chiare ed inequivocabili di contaminazione con un testo quale quello di K, e dunque di nuovo con il ramo Carnotensis. Più precisamente α doveva essere un codice Λ, afferente ad ε, di cui qualcuno si era sforzato di migliorare la qualità testuale ope codicis.137 Questa ricostruzione permette di spiegare nei su citati codici la presenza di spezzoni testuali di non dubitabile qualità testuale, omessi o corrotti in modo irrecuperabile da Σ, di cui è dunque latore solo Γ:

|| 137 Per una discussione dettagliata dei dati testuali, rimando a CIOFFI (2012) 145–183.

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An. 54.1–2 quidam – magister2 A K M2 f h t (magister2 om. M2 f h t)] om. Σ || is quoque A K M2 t: isque f: om. Σ An. 62.1 traxerit A hft: traxit M2: traxerat K: duxerit δ: om. Λ An. 164.1–2 uoluntas–animus AK M2 f h (t): om. Σ An. 614. 1 Nos – 2 faciam A K B: om. Σ (sed de M2 f h q s, cfr. seqq.) || ablatiuo casu A K B: ablatiuus casus me Σ (post me add. sed nos quid faciam ueteres autem nec addebant et nota faciam ablatiuo casu M2 f h q s Calph.)

6.5.3.1.2 Il rapporto fra M2 e hft: l’esistenza di β M2 sembra esibire di α uno stadio più arcaico, mentre hft in più punti tradiscono qualche iniziativa innovante: in altri termini, anche se M non discende da α come hft, ma semplicemente è corretto sulla base di α, è possibile stabilire la presenza di un anello comune ad hft, dove sono stati concepiti ulteriori emendamenti o interventi di vario genere. Un caso di particolare rilievo in tal senso si legge ad Ad. 592.1–595.2 (cf. CIOFFI 2012, 157–160), dove la configurazione testuale diβè interpretabile come chiaramente innovante rispetto a quella registrata da M2. A rigore non si potrebbe escludere la dipendenza di β da M2, con la conseguente sparizione di α (che verrebbe appunto a coincidere con M2). A rendere altamente improbabile la dipendenza di β da M2 soccorrono i seguenti casi testuali, in cui β mostra di avere recuperi di testo proprio del Carnotensis laddove M2 tace: An. 142.1 (ex coniectura A K f h t: om. Σ), An. 218; An. 44.1. 6.5.3.1.3 Ricostruzione del contesto storico La storia di α si lascia parzialmente tracciare grazie a documentati rapporti fra Aurispa, Malatesta Novello, il possessore di M, e Ludovico Carbone, detentore di f. Il 23 agosto 1457 Malatesta Novello scrive a Cosimo dei Medici affermando di non potergli inviare il DC a Terenzio a causa della peste, ma che avrebbe provveduto appena possibile; la lettera è estremamente interessante perché Malatesta ci descrive il suo codice come molto mendoso, ragion per cui si era risolto a contattare Aurispa affinché gli facesse “tanta copia del suo ”.138 Se Malatesta inviò effettivamente il codice promesso a Cosimo e se l’Aurispa riuscì poi ad ottemperare alla sua promessa, sono entrambe questioni che appartengono al campo della congettura (si vedano le ricostruzioni di ROSSI 1893 e DE LA MARE 1985, 202–203 e 569–570, da me discusse in CIOFFI 2012, 174ss.; ed ancora FRANCESCHINI 1976, 117).

|| 138 SABBADINI (1890) 423–4 (= ZAZZERI 1887, 438–441). Per ‘copia’, cf. RIZZO (1973) 192–194.

Il gruppo Λ | 101

A mio avviso, dato il lavorio di correzioni a cui fu sottoposto M, resta una supposizione plausibile che l’Aurispa mise a disposizione il suo codice a Malatesta, così come non si può però neppure escludere che Cosimo, stanco di attendere l’Aurispa, se lo sia procurato o se ne sia procurato uno da altre fonti. Poco noto è anche l’eventuale scambio di manoscritti fra Aurispa e Carbone – la cui mano nel codice f è chiaramente individuabile in alcune integrazioni di citazioni o congetture (per lo più errate) di graeca – anche se il loro rapporto risulta storicamente ben documentabile (Carbone conosceva molto bene Nardo, il genero dell’Aurispa, di cui era geloso per la libera accessibilità alla biblioteca dell’umanista, cf. CIOFFI 2012, 174ss.). Si può quindi concludere che, benché non siano determinabili il movimento dei prestiti e della concretizzazione delle richieste rivolte all’Aurispa, quest’ultimo ebbe probabilmente un ruolo non secondario nella formazione del gruppo α. 6.5.3.1.4 Evoluzione stemmatica di α: i codici qs e p Lo stacco di q dal gruppo Θ, con conseguente passaggio ad α, era stato già individuato da M. D. REEVE (1979) 320: il cambio di modello avviene in corrispondenza di un cambio di mano, e precisamente ad An. 552.3, e da questo punto in poi le evidenze testuali parlano di un testo di indubbia afferenza al predetto sottogruppo. Più complicata la decifrazione del comportamento di altri due codici, nello specifico s e p:139 il primo marca la sua presenza all’interno del gruppo ε ad An. 192.1 e lo si ritrova ad An. 614.1–2 come codice pienamente α perché in questo punto esibisce lo stesso recupero extra–maguntino e le stesse alterazioni testuali proprie di α (cf. anche CIOFFI 2012, 153). 614.1 NEC QUID NUNC ME FACIAM S. nos ‘quid faciam’, ueteres autem ‘me’ addebant. 614.2 Et nota ‘faciam 〈me〉’ ablatiuo casu. 614.3 ATQUE ID AGO id quaero, hoc est: ut inueniam quid faciam. 1. Nos–faciam Γ: om. Σ 2. ablatiuo casu Γ: ablatiuus casus me Σ || ante 3. atque me add. sed nos quid faciam ueteres autem nec addebant et nota faciam ablatiuo casu M2 fhqs

L’ ipotesi che quello di s sia un vero e proprio cambio di modello anziché mera contaminazione sembra formulabile soprattutto sulla base della configurazione testuale di An. 783.3 dove in luogo della stringa aut certe per tempus tempestiue, hfq (quindi β) e s leggono ex tempestiue, un’innovazione estremamente significativa, difficilmente spiegabile ricorrendo all’ipotesi di un processo contaminativo:

|| 139 Per l’elenco dei casi più significativi, cf. infra.

102 | Il Maguntinus (Σ)

la contaminazione è infatti orientata al recupero e non alla detrazione di testo, a maggiore ragione se sensato, per cui tutt’al più avrebbe innescato la conflazione dei due testi. Le restanti evidenze, consistenti per lo più in aggiunte in comune con i canonici componenti β, sono meno forti data la non escludibile trasmissibilità orizzontale. Stabilire il punto di cambio di modello di s (o già del suo antigrafo) risulta non agevole proprio in ragione della predetta qualità degli accordi in errore, che fanno registrare un incremento in termini di frequenza a partire da An. 460. Dei casi di accordo più significativi prima di 614.1–2 merita attenzione An. 608.1 perché a fronte dell’omissione completa della stringa id est sine ἀρετῇ nel Maguntinus, s insieme con hq esibisce non solo il corretto id est sine ma lascia anche spazio, originariamente concepito per il greco: la trasmissione di spazio bianco non è un fenomeno attribuibile a contaminazione, a maggior ragione perché s non avrebbe potuto più sapere che lì c’era del greco.140 Alla fine del DCA si nota un importante decremento degli accordi di s con hfq, ed è probabile che proprio intorno a An. 915.2 sia da segnalare lo stacco definitivo da α laddove s riporta la lezione inferendum di ω in luogo di ponendum di α (anche in questo è ovvio che è da mettere in conto un certo margine di incertezza dovuto alla natura variantistica dell’errore evitato). An. 471.2 quas] qu(a)e hf sx QJ: quos O An. 600.3 in] non non s: non hf An. 608.1 idest– ἀρετῇ] i(dest) sine aue TH A (ἀρετῇ sscr. m. rec.): om. sp. rel. K: om. nul. sp. Σ (id est sine sp. rel. hqs: id est sine z) An. 614.1 post faciam add. de est h, est sq An. 643.2 infirmationem] confirmationem hfs p, M2 (aliter praep.): etiam firmationem T An. 684.2 obicitur] subicitur hfq p, s (s. l.): subiungitur s (in textu) An. 699.3 post esse add. et hfq, add. ut s An. 720. 7 post et add. in fhs An. 783.3 Aut–tempus] ex hf s: et q An. 803.3 magis] magni hfs An. 862.1 si] om. Oa: sub hfs

Per s, pur con qualche riserva, l’ipotesi di un cambio di modello ha ragion d’essere e certamente il passaggio risulta già avvenuto ad An. 614; per p le evidenze sono molto meno limpide. Questo testimone, che segna la sua presenza nel gruppo ε ad An. 175.6, intorno ad An. 625 fa registrare un più alto indice di errori propri di β: si tratta però accordi principalmente in innovazione ovvero letture e/o varianti la cui trasmissione per contaminazione è certo immaginabile, per i

|| 140 Il codice z, per esempio, che evidentemente sta contaminando non ha lo spazio bianco.

Il gruppo Λ | 103

quali non escluderei la circolazione già all’interno del gruppo ε; l’unica eccezione, ad An. 842.5, potrebbe spiegarsi come un’omissione nata indipendentemente tanto in p quanto in β. Molti inoltre sono gli errori, squisitamente β, da lui evitati. An. 643.2 infirmationem] confirmationem hfs p, M2 (aliter praep.): etiam firmationem T An. 650.1 hic] om.βp An. 684.2 obicitur] subicitur hfq p, s (s. l.): subiungitur s (in textu) An. 842.5 enim] om. β p

L’ipotesi contaminativa spiegherebbe bene anche degli strani comportamenti di p lungo tutto il commento, e già ad An. 69.4, in una sezione testuale dove è ormai evidente la sua afferenza a ε: proprio in questo punto i codici ε soffrono della caduta di mortis, recuperata per contaminazione da α;141 a differenza di tutti i componenti ε, p sembra non intaccato dal problema dell’omissione: questa constatazione vista alla luce delle altre tracce di concordanza in errore/innovazione con α, può volere dire, semplicemente, che p, ovvero il suo antigrafo, aveva a disposizione una seconda fonte vicina a β, fonte che spesso avrà guardato, molto più spesso di quanto sia portato in evidenza dagli accordi in errore. 6.5.3.1.5 La qualità testuale di α nel DCA Scandagliando il passaggio dei codici q s ad α, si è dato per presupposto che la responsabilità del cambio di modello sia dei due suddetti codici. Se questo è vero, indubitabilmente, per q (ex codice Θ), è meno automatico per s e, per certi rispetti, per p o D, che pure si erano visti mostrare innovazioni β: è infatti contemplabile l’ipotesi che sia α a subire un’involuzione, passando ad un modello Λ testualmente vicino a s o anche a p e D. Dirimente per la questione ora posta è la qualità delle lezioni rispetto alle quali α (β) si stacca da Λ: se α continua ad avere lezioni superiori a Λ nonché al Maguntinus anche nelle zone successive all’aggregazione di s e laddove anche altri codici sembrano conoscere un codice α, allora se ne conclude che il modello di α resta lo stesso ed il cambio d’affiliazione è operato dai codici sopra citati.

|| 141 Il fatto che mortis sia annotato in M margine e sia omesso a testo, rende sicuro il fatto che si debba parlare di testo ‘recuperato’).

104 | Il Maguntinus (Σ)

Anche se, negli atti interessati dalle nuove aggregazioni, non ci sono eccezionali recuperi testuali di α, resta però costante la sua tendenza ad evitare una certa quantità d’errori specificamente Λ, nonché dello stesso Maguntinus: 142 An. 618.2 summonere Γ Θβ: monere Λ An. 684.2 ipsam Γ β: om. Σ An. 747.1 tertia Γα: om. nul. sp. Σ An. 748 mysis] om. B Σ (–α) An. 753.1 praeter–rogo] om. Λ (–α) || praeter Ter.: om. Γ α Θ An. 754.3 superius] om. Λ (–α) An. 839.2 quaeritur] queritur Θ: quare B: creditur Λ (–β) An. 851.2 exitum] extremum Σ (–β) An. 975.3 admonitio] commonitio Σ (–α)

Poiché, sebbene in misura ridotta, la contaminazione con un codice Γ, o con un qualsiasi altro codice superiore al Maguntinus, sembra constatabile fino alla fine dell’Andria, si ha ragione di pensare che sia s a compiere il ‘salto’ di modello, e non il contrario. La riduzione delle lezioni ottime in α può essere motivata in vario modo: è, per esempio, plausibile pensare che α sia stato sottoposto ad una intensa opera di collazione solo per la prima parte del DCA, mentre poi sia stata eseguita solo per determinati luoghi testuali. È fondamentale, ad ogni modo, che ci siano evidenze inequivocabili del suo perdurare. 6.5.3.1.6 Dinamiche dei rapporti dei testimoni β β non solo è un codice contaminato, in quanto discendente da α, ma presenta chiare tracce di interventi congetturali; e sebbene sia difficile stabilire quali congetture siano nate in β e quali gli derivino da α (a causa dello status particolare del codice M, dove non è detto che M2 abbia registrato ogni variante che avrebbe avuto a disposizione), è verosimile che una certa percentuale sia stata introdotta solo in β. Questo codice doveva quindi presentare un intenso lavorio sia a margine che in interlinea, il che renderebbe ragione dell’impossibilità di stabilire un qualche stemma interno al suddetto gruppo basandosi sulle ‘innovazioni’: il rischio che le doppie lezioni falsino i dati (potenzialmente utili a fini stemmatici) è più che

|| 142 In apparato utilizzo la formula “y] x Λ (–β)”, il che significa, in assenza di ulteriori precisazioni, che β ha la lezione giusta.

Il gruppo Λ | 105

contemplabile.143 Un caso come An. 718.2 (enumerat] denumerat hq) di per sé non può perciò essere portato a favore di un più stretto rapporto di hq, perché in β poteva leggersi tanto enumerat quanto denumerat, con la differenza che quest’ultimo sarebbe stato scelto indipendentemente da h144 e q. Il punto di partenza per delineare un ipotetico stemma interno a β deve necessariamente essere costituito dagli errori a vario grado significativi, di cui fornisco un breve elenco: quest’ultimo contiene le diverse combinazioni di errori che congiungono hfsq. β= hfsq An. 668.2 to f: id hqs An. 682 se] om. hf An. 707.5 ante domino add. in sq An. 714 a Glycerio] om. hqs An. 741.2 non2] om. sq An. 752.1 ipse] om. sq An. 752.1 et] etiam fsq An. 803.1 magis] magni hfs An. 879.4 ante imperium add. et hfs

Variantistica An. 663.1 cum admiratione] cum (om. s) pronuntiatione (admiratione smqm) sq An. 702. 2 palam] Pamphilum hsq: Pamphilum palam f

Ci sono due evidenze particolarmente significative a fini stemmatici: si tratta di An. 668.2 e di An. 714. Nel primo caso f è il solo codice ad avere il corretto graecum, mentre hsq leggono id, che ha un’origine dichiaratamente congetturale. Una configurazione simile si spiega bene pensando che β avesse τὸ, copiato correttamente da f, ma incompreso da un anello hsq, che quindi gli sostituisce id con una funzione probabilmente ‘enfatizzante’, oppure semplicemente da intendersi come oggetto generico di scio.145 Si può certo pensare che β leggesse id e che f recuperi τὸ per un ulteriore processo di contaminazione; ma, ammessa anche

|| 143 E di fatto è così: gli accordi in “innovazione” sono del tutto sfuggenti e non riconducibili a delle costanti. 144 Tra l’altro, proprio h è un codice con un discreto numero di varianti trascritte dalla stessa mano che scrive il corpo del testo: molte verosimilmente doveva trovarle già in β. 145 È probabile che fra β e l’anello hsq ci sia stato un ulteriore stadio dove τὸ è stato omesso in lacuna: a questo punto si spiegherebbe ancor meglio il tentativo congetturale dell’anello hsq, semplicemente finalizzato a supplire, in qualche modo, la lacuna.

106 | Il Maguntinus (Σ)

questa possibilità, mi spiegherei male perché f non lasci l’id: che abbia la prontezza di capire che id sia stato congetturato per τὸ è poco convincente; che decida di espungerlo non vedendolo nel suo esemplare di collazione non è impossibile, ma certo difficile. Se poi nell’anello β ci fosse stato solo dello spazio bianco, la presenza del congetturale id nei soli hsq resterebbe significativa. Il secondo caso di un certo peso si trova ad An. 714: sia h che sq omettono a Glycerio, ma non f; l’omissione non può essersi originata per poligenesi, per cui risulta alquanto significativa e parla a favore di un anello comune hsq. Si potrebbe obiettare che f recuperi il testo omesso per contaminazione, e l’obiezione sarebbe sicuramente valida, ma questa evidenza, unita alla prima, ben più forte, legittimano l’ipotesi di un anello hsq contro f. Ci sono degli errori che congiungono hf contro sq, ma sono meno discriminanti di quelli appena esaminati (cf. An. 682). Verosimilmente più sicuro è l’anello sq, data la condivisione di una certa percentuale di errori non banali (cf. An. 707.5; An. 741.2). Alla luce di queste considerazioni, proporrei la seguente ipotesi stemmatica, in via del tutto ipotetica:

f h

s

q

6.5.3.1.7 Il codice K ed il gruppo α/β Si è già notato in vari punti che in alcune zone in cui il gruppo α (/β) supplisce del testo omesso o nel Maguntinus o nel solo Λ, il testo recuperato presenta (in qualche caso) delle innovazioni rinvenibili in un solo altro codice della tradizione donatiana: K. Considerata la stratificazione di α (codice di base Λ, contaminato con una fonte qualitativamente superiore allo stesso Maguntinus) e considerata anche l’attitudine di α alla congettura, l’esistenza di errori K–α può essere significativa anche se numericamente ridotta: ricordo infatti che la trasmissione di errori in processi di contaminazione non è impossibile, ma certo è difficile.

Il gruppo Λ | 107

Dunque, alla luce delle evidenze emerse lungo tutto il DCA è effettivamente supponibile che la fonte di contaminazione di α sia molto vicina a K anche se non si può identificare con K. Elenco euidenze An. 28.4 enim] om. K β An. 49.4 eam] eandem K α An. 117.1 efferunt] efferre K β An. 145. 6 non hoc] hic non K α sed quod] si quod K: si quidem α An. 320.1 apud1] om. Kα amantem] autem amantem K: amentem Θ: amat amantem α An. 324.4 Hoc – odi] om. Kβ(rest. fm) An. 395.1 speres] speras K β An. 429.1 post uideri (uidere h1.) add. et K β An. 490.3 imperaret A β: impararet K: imperet B Θ: imperabat Λ (–β) An. 499.2 credon AΘβ: credens K Λ An. 504.2 occipitio B: hoc cipitio A: occipitione Kβ: occipio Θ: occipite Λ (etiam M2, ut uid.) An. 549 illa B β: om. AK ΘΛ An. 572.3 secedere] decedere K α (–f) An. 642.2 diceret A Θβ: adiceret K Λ An. 655.1 pro praeterea K: propterea A Θα An. 665 non credat B Θα: h_ credat A: credat K: om. Λ An. 710.1 qui] om. K β An. 900 pater] patere K α (–qf; h s.l.) An. 934.1 et] om. K β

Discussione delle euidenze Il primo caso di un certo interesse si legge in corrispondenza di An. 49.4 laddove Donato spiega schematicamente l’evoluzione della fisionomia etica di Panfilo, ancorando la delusione di Simone all’involuzione tangibile della sua condotta (ad eam rem ualet, ut ostendat, quam iustus dolor patri sit spe decepto). Eam è stato omesso dal gruppo Λ,146 tranne che dal gruppo α; il dato estremamente interessante è che il suddetto gruppo recupera non il corretto eam, ma eandem, un’innovazione registrata solo da K.

|| 146 L’eccezione di p più che essere imputata a congettura, deve essere giustificata in un’ottica contaminativa. Per U rimando al prossimo capitolo.

108 | Il Maguntinus (Σ)

Parimenti interessante il recupero testuale in corrispondenza di An. 145.6: la stringa testuale mire–habeat è caduta, per cause poligenetiche, in parte dei manoscritti Λ, e – verosimilmente147 – anche il manoscritto Λ da cui discende α doveva soffrire della lacuna; il testo viene quindi ripristinato, ma con delle innovazioni che, ancora una volta, sono proprie solo di K.148 Ad An. 320.1, a causa di un salto meccanico, la pericope testuale 320.1 ... apud – 320.2 c. è caduta nella maggior parte dei manoscritti Λ (sostanzialmente ε), e verosimilmente anche nel manoscritto Λ da cui deriva α. Il testo recuperato presenta non solo l’omissione di apud, come K, ma anche un’innovazione che cade in un punto dove sempre K presenta una strana lettura: l’amat di α si spiegherebbe molto bene a partire da un testo simile a K, autem amantem; si noti, inoltre, che nell’immediato seguito α continua a staccarsi dal proprio gruppo di afferenza, ossia Λ,149 che in luogo di facultas legge possibilitas, mentre α, per l’appunto, ha la lezione corretta. Diverse sono invece le ultime due evidenze, ma non meno indicative. Ad An. 504.2 Donato fa derivare il verbo occipere dal sostantivo occipitio; i manoscritti A Θ sembrerebbero fornirci l’informazione che occipitium era scritto nella forma ablativale, come normale in dipendenza da dicitur ab …; i codici Λ conservano l’ablativo ma in una forma non esatta (leggono infatti occipite, probabilmente per interferenza etimologica: R. Restano però delle lettere di scarto, cioè due n (una minuscola e l’altra maiuscola, prima e dopo il primo μὴ), a cui è difficile dare un qualche senso e che si possono attribuire in ultima istanza a delle dittografie (salvo leggervi con SAEKEL 1914, 9 un με). In accordo con questo testo, Donato starebbe classificando l’uso di ne e l’imperativo come un grecismo e corroborerebbe questa asserzione (non poco impegnativa) con degli esempi, dei meri calchi sintattici; e certamente si riesce a capire perché come esempio adduce μὴ λιτάνευε, ma il successivo ‘non combattere’ non ha alcuna anche lontana motivazione: perché, se aveva bisogno di un secondo esempio, non scegliere un sinonimo di ‘pregare’? Verosimilmente spinto da questo ragionamento Jacobs tentò di appianare i problemi leggendo il nome di Menandro nella stringa MNMACOR. In questo intervento si può scindere il dubbio sano dalla congettura un po’ goffa: il dubbio è che Donato stia citando un qualche passo di Menandro, ma che si possa leggere Menander in MNMACOR è da escludere sia perché, come fa notare JAKOBI (1996) 92, n. 237, non rispetterebbe l’usus donatiano di menzionare prima l’autore e poi allegare la citazione, sia perché è veramente difficile immaginare che il nome di Menander, per quanto in prossimità di una stringa greca, possa essersi corrotto in modo così artificioso.224 Il dubbio che si tratti di Menandro, però, attraversa tutte le edizioni di frammenti del comico greco,225 ma è alquanto inutile, anche da un mero punto di vista || 223 Per simili categorie di errori, un buon punto di riferimento è RONCONI 2003, 75–123. 224 Il nome Menander conta circa 46 occorrenze in tutto il Commentum. 225 Si veda in particolare SAEKEL (1914) 9.

Distribuzione e tradizione del greco nel Maguntinus | 197

indiziario, far notare la frequenza di questa costruzione in quello che resta delle sue opere: si tratta di una forma di comando praticamente richiesta dall’interazione comica. Anche MAYER (1999) 164 ne tratta in una breve nota e, per quanto non entri nel merito del problema, solleva una seconda ed importante questione: se quello è Menandro, Donato starebbe quindi suggerendo che Terenzio ha tradotto ad litteram un passo greco, dall’Andria o dalla Perinzia (le due commedie che sappiamo confluite nell’Andria latina)? Essendo questa una congettura labile, non credo sia il caso di trarne conseguenze sulla poetica terenziana, che costringerebbe ad affrontare il vessato quanto studiatissimo problema della contaminatio. Bisogna però notare che, se si conduce un’analisi lessicale-stilistica, λιτανεύω è un termine estraneo alla lingua comica e di uso prevalentemente epico (cf. LSJ ad loc., ma già KÖRTE 19592 29). Per μὴ μάχου le congetture sulla possibile derivazione menandrea sono anche più audaci. Gli ultimi versi degli Epitrepontes sono traditi, malamente, solo da un papiro, C (= P. Cairensis 43227): proprio qui, in corrispondenza dei versi 952-954, Habrotonon invita Carisio a smetterla di ‘lottare’ perché suo figlio è stato concepito da una donna sposata (μὴ μάχου/ γλυκύτατε τῆς γαμετῆς γυναικός ἐστί σου/ τέκνον γάρ, οὑκ ἀλλότριον). In corrispondenza di μ. μ., KÖRTE (19592) in apparato cita Donato, facendo intendere che il secondo imperativo negativo sarebbe una citazione da questo passo degli Epitrepontes, ma palesando dei dubbi sul primo: “... quorum alterum μὴ μάχου legitur apud Menandrum Epitr. 632, prius quoque Menandri esse potest, sed λιτανεύειν in comoedia Graeca numquam legitur”. L’idea non ha avuto molto seguito: nel commento di GOMME-SANDBACH si precisa soltanto che il fatto che μὴ μάχου venga citato dopo il verbo λιτανεύω non ha alcuna rilevanza ossia implicazione lessicale. Sarebbe meramente ozioso motivare il perché della non percorribilità di questa strada data l’alta frequenza del verbo μάχομαι e quanto di Menandro non è più a nostra disposizione. Ritorniamo dunque a riconsiderare la possibilità che si tratti di meri esempi, una linea pienamente sposata da JAKOBI, che si mostra soddisfatto del testo tradito, giustificando μὴ μάχου come un Paradebeispiel, un esempio preconfezionato per la categoria ‘imperativo negativo alla greca’, secondo una tecnica consueta ai grammatici antichi (ma anche moderni). Anche questa tesi presenta qualche punto di debolezza: non esiste alcuna tradizione grammaticale o anche un solo altro parallelo, che spieghi l’uso di ne + imperativo come grecismo, ad

198 | La trasmissione del greco

eccezione di questo passo, e risulta non meno strano che, a fronte di altre occorrenze in Ter. ed in generale nella lingua latina arcaica,226 Donato lo segnali solo qui (cf. LT I, 389) e sia, soprattutto, il solo a segnalarlo; Servio, per esempio, ad Aen. 6, 95 e 7, 202 si limita a parafrasarlo nella variante ‘normativa’ e ad Aen. 544 parla di arcaismo: ne saeui ne irascere: Terentius ne saeui tanto opere. Et antique dictum est: nam nunc ‘ne saeuias’ dicimus, nec imperatiuum iungimus aduerbio imperantis227 (nota a cui fa eco Don. An. 858). L’affermazione di Donato è dunque sbagliata: si tratta, stando a KARAKASIS (2005, 84), di forme sintattiche presenti fin agli albori del latino, che, cadute in disuso nel latino classico e/o post classico, sono rianalizzate dai grammatici latini come dei grecismi.228

|| 226 A questo proposito, si veda anche BENNETT (1910) 362. 227 PENNEY (1999) 253 nota che in Virgilio si conserva la differenza di impiego che caratterizza la lingua arcaica (ne + imp. ha infatti un valore prevalentemente inibitivo). 228 Uno stesso errore sembra compiere Servio con non umquam ad Aen. 2, 247; per altri casi, cf. KARAKASIS (2005) 84–87.

| Parte II: Commento filologico-testuale

10 Commento filologico-testuale Di seguito si propone una discussione sistematica di casi testuali problematici: dove non specificato, il testo e l’apparato sono tratti dalla mia edizione. I nomi degli studiosi asteriscati si trovano in corrispondenza di congetture ricavate dall’edizione di WESSNER 1902 (d’ora in poi solo “W.” nel corpo del testo). I passi in oggetto sono numerati sulla base dei versi (forma continua) della commedia, accompagnati dal numero dello scolio relativo. Le parti spurie, in edizione segnalate per mezzo del corsivo, per questioni tipografiche saranno qui sottolineate.

10.1

Prefazione e Prologo

An. praef. I 3 continetque actus amatorum adulescentium † ex patriã prior. d. † callidi serui, ancillae astutae, seueri senes, adulescentulae liberales. ex patriã prior. d. A, cruc. sign. Jakobi 1996, 169, n. 475: ex patribus piorum S (et patrum piorum. 〈Sunt ibi〉 Steph., post piorum lac. stat. Reiff.*): ex partibus (hic patrum add. Λ) priorum Σ

A fronte di una pericope testuale sofferente, immediatamente successiva ad amatorum adulescentium, W. accetta due interventi: legge con STEPHANVS et patrum piorum e pone con REIFFERSCHEID una lacuna immediatamente dopo il testo emendato: et patrum piorum *** callidi serui. Il testo così confezionato pecca sul piano metodologico: non si dovrebbe apportare una qualsivoglia correzione, anche paleograficamente ineccepibile, in corrispondenza di un punto dove si individua poi una lacuna, poiché le due categorie di intervento rischiano di elidersi a vicenda. In subordine, anche sul piano del significato propriamente detto, si individuano elementi di debolezza: il concetto di pii patres, in ambito comico in generale, e nello specifico per l’Andria, non è calzante. Ha ragione dunque JAKOBI (1996, p. 169, n. 475) a preferire le cruces nei pressi della pericope mal tràdita, con ciò implicando un guasto di una qualche estensione, che rende per noi inintellegibile il rapporto fra la serie di nominativi elencati e l’inizio della proposizione continetque.230

|| 230 Seueri si legge nell’accessus riportato dal gruppo ζ (cf. p. 158). https://doi.org/10.1515/9783110584653-010

202 | Commento filologico-testuale

An. praef. 1.6 Haec prima facta est, acta ludis Megalensibus M. Fuluio M.’ Glabrione [Q. Minucio Thermo L. Valerio] aedil. curul. egerunt L. Atilius [Latinus] Praenestinus et L. Ambiuius Turpio. Modos fecit Flaccus Claudi [filius] tibiis paribus [dextris uel sinistris]. Et est tota Graeca, edita M. Marcello C. Sulpicio consulibus. facta] acta S || acta] om. η || M.] Marco S FTq ε || post Fuluio exhib. edil. ω (edilę A: edile et S ϴ QJ: edili et μ: edilibus et Λ), ante curul. transp. Haemmerlin || M’. Muretus: int. A: M. η || Glabrione] glabrio ne A: gabrione uel glabrione codd. η || Q. Minucio Thermo L. Valerio rest. Heurgon 1949, 106–8, Linderski 1987, 87, cum Dziatzko (cf. seqq.) delend.: Q. Minucio Valerio del. Dziatzko 1866, 65: que minutio ualerio A: q. (quanto Cq: quinto FT) minucio (numitio mutio F) termonii L. Valerio δ: numicio Valerio Λ : quinto minucio terentium l ualerio S || aedil. curul. Dziatzko 1866, 65: curulibus A Λ: curuli S ϴ δ1: edili curuli V || egerunt A Λ : egere Sδ: egit Dziatzko 1866, 65 (praeeunte Kohl 1865, 65) || L. Atilius scrip. Dziatzko 1866, 65, qui una cum Praenestinus et del.: La(c)tilius latinus ω || Ambirauius A || filius ω, secl. Muretus || dextris uel sinistris secl. Dziatzko 1865, 595s. || uel A: et η || C. Muretus: et ω || consulis A

Il testo delle didascalie è notoriamente problematico data la presenza di informazioni non conciliabili e, soprattutto, contraddittorie sul piano cronologico. La loro fonte ultima, come discusso da DEUFERT (2002) 93–97, deve essere individuata nel perduto de actis scaenicis di Varrone, che doveva contenere i dati relativi non solo alle prime rappresentazioni ma anche alle successive: verosimilmente Varrone si preoccupava di aggiornarli ogniqualvolta una stessa opera veniva messa in scena e quindi ripetuta. Quando il de actis fu riscoperto (in tarda età imperiale) interessò in un primo momento per la compilazione dei dati riguardanti le prime rappresentazioni e solo in un secondo momento le diverse entries furono ampliate tramite ricollazione con l’opera varroniana. La contaminazione acritica di informazioni in un primo momento separate, quindi riversate nella compilazione delle didascalie terenziane, giustificherebbe lo stato in cui queste ci sono pervenute.231

|| 231 Cf. DEUFERT (2002) 96: “Als wohl in späthadrianischer oder frühantoninischer Zeit den Stücken des Plautus und Terenz die didaskalischen Angaben (wohl zusammen mit den argumenta) vorangestellt wurden, hat ein römischer Gelehrter Varros de actis scaenicis ausgewertet. Wahrscheinlich war dieser Grammatiker bestrebt, nur die Erstaufführung in seiner Didaskalie zu verzeichnen, und hat die Angaben in der Form angeordnet, die sich aus der Übereinstimmung der Didaskalien für den Stichus im Ambrosianus und für die Adelphoe und den Hautontimorumenos im Bembinus ergibt. Diese erste, vielleicht bereits teilweise fehlerhafte Fassung der Didaskalien wurde von späteren Gelehrten erneut mit Varros Schrift kontaminiert und um die Angaben der Wiederaufführungen erweitert. Als letzte Stufe der Verderbnis sind die absurden Harmonisierungsversuche, etwa die Verbindung der ‚Impresarios’ verschiedener Aufführungen eines Stückes durch das pluralische Praedikat egere, zu werten: hier wurde die Existenz verschiedener Aufführungen nicht mehr erkannt”.

Prefazione e Prologo | 203

Gli edili curuli Lo studio fondamentale delle didascalie terenziane è stato condotto da DZIATZKO (1865) 570–598; (1866) 65–92 e gli interventi successivi sull’argomento presuppongono, sostanzialmente tutti, un confronto con le sue conclusioni, sia per sposarle sia per prendere le distanze.232 L’acquisizione principale, che ha poi avuto delle importanti implicazioni testuali, consiste nel pensare che nelle didascalie pervenute sia confluito del materiale riferibile a rappresentazioni successive delle stesse commedie: questo spiegherebbe la presenza di vari doppioni e di varie indicazioni in altro modo difficilmente gestibili. Si può altresì supporre che le didascalie originali contenessero informazioni relative non solo alla prima rappresentazione di una commedia, ma anche a quelle successive; i copisti avrebbero poi tentato di ricondurre tutti i dati delle loro fonti alla prima rappresentazione, e per questo si sarebbero create imprecisioni cronologiche, doppioni, e simili disordini non altrimenti riducibili. Entrando nel merito della didascalia all’Andria, di cui peraltro Don. è testimone unico, prima di sollevare problemi metodologici non banali, è bene descrivere i punti di criticità. In primo luogo non si può accettare la presenza della seconda coppia di edili curuli (Q. Minucio e un certo Valerio), poiché il sistema romano prevedeva che l’incarico fosse affidato a due sole persone, per cui è da ritenersi un’informazione secondaria, ovvero riconducibile ad una successiva rappresentazione dell’Andria (di cui l’alter exitus può figurare come prova tangibile), avvenuta fra il 143 ed il 134 a.c.: è DZIATZKO (1866) 64–65 ad approdare a questa conclusione, la quale si traduce, in termini ecdotici, nella loro espunzione. Su questo punto c’è un esteso accordo bibliografico (cf. HLL I, 235). La problematicità della stringa Q. Minucio Valerio non si esaurisce però in questa ricostruzione. Non è infatti chiaro se si tratti di un unico nome oppure di due: nel primo caso si tratterebbe di una strana ‘trinominia’, nel secondo andrebbe postulata la caduta del prenome di Valerio. Questo punto, altrettanto critico, era sfuggito a DZIATZKO soprattutto perché nel 1866 la tradizione donatiana, zona Andria, era sostanzialmente rappresentata dal codice A, che effettivamente legge la stringa Q. Minucio Valerio. L’estensione

|| 232 La bibliografia sull’argomento è abbastanza ricca: fino al 1963 si può consultare MARTI (1963) 16–17 e poi chiaramente HLL I, 235–236 e HLL V, 155–156; interessanti osservazioni circa la genesi della conflazione di dati in DEUFERT (2002) 94–97; per il rapporto fra le didascalie donatiane e la tradizione diretta terenziana, cf. MOORE (2012), 57ss.

204 | Commento filologico-testuale

delle collazioni ha permesso di delineare un quadro più ricco e complesso: sulla base di Sδ, in questo punto specifico, si riesce a recuperare anche il prenome di Valerio: Q. Minuncio Termonii (?) L. Valerio. HEURGON (1949) 106–108 rispolvera per la prima volta, e su basi manoscritte, la stringa L. Minucio Thermo L. Valerio, oscurata dalla corruzione di Thermo L. in Termonii l; lo stesso però preferisce stampare L. Minucio in luogo del tràdito Q. Minucio, per una ragione che sfugge anche a J. LINDERSKI (1987) 87, che giustamente individua in L. M. T. un vero e proprio nome fantasma. È di nuovo LINDERSKI (1987) 83–88 a trarre le conseguenze di questa revisione testuale sul piano della datazione e, in generale, prosopografico: se infatti secondo BROUGHTON (1951) 437 L. Valerio poteva essere identificato con L. Valerio Flacco console del 131 e la sua carica di edile collocata dubitativamente nel 135, LINDERSKI la ritiene, sulla base di buone argomentazioni, una forzatura, proponendo per Valerio e Minuncio una collocazione temporale da fissare nella seconda metà del II secolo.233 Il ripristino onomastico della seconda coppia di edili, così come proposto da HEURGON, con la dovuta rettifica, costituisce un miglioramento ulteriore rispetto a DZIATZKO,234 di cui però si conserva la sostanza delle conclusioni. L’individuazione, nella didascalia, di informazioni imprecise, non comporta sul piano testuale, come conseguenza immediata, la loro espunzione, e qui si solleva per l’appunto un problema metodologico notevole: in linea teorica non è escludibile che Don. si limiti a riassumere o parafrasare una didascalia in cui le informazioni doppie (la seconda coppia di curuli, per esempio) erano già presenti, ed in tal caso l’espunzione non avrebbe alcuna legittimazione trattandosi di un errore, per così dire, d’autore. Questa possibilità è però abbracciata da pochi perché presuppone una certa acriticità di Don. rispetto alla sua fonte; fra quanti però la ritengono verosimile è da annoverarsi soprattutto WATSON (1905) 125–157, che sposta il problema da Donato alla fonte manoscritta di Donato. Per quanto i tagli praticati da DZIATZKO siano troppo netti, pensare che Donato, pur trovandolo nelle sue fonti, avesse potuto trascrivere un dato palesemente problematico (come lo sono, su un piano istituzionale, i quattro nomi di edili curili) non è convincente; in aggiunta, se si analizza la tradizione manoscritta, si ricava qualche traccia significativa per avallare l’ipotesi interpolativa (l’interpolazione sarebbe stata probabilmente stimolata da quel prima, che di per

|| 233 Per la gens dei Minucii, cf. MORA (1999) 121–122. Per altre indicazioni bibliografiche, cf. MARTI (1963) 15–16; HLL V, 236. 234 Ribadisco che le conoscenze della tradizione manoscritta in quella data avrebbero reso difficile qualsiasi altra soluzione se non fidarsi di A.

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sé indica l’esistenza di almeno una seconda rappresentazione): questa traccia è da individuare nella dislocazione, di cui tutti i testimoni danno chiara notizia, della qualificazione aedil. rispetto alla sua ulteriore precisazione, ovvero curul., probabilmente innescata da un testo marginele o sopra lineare aggiunto e portato malamente a testo: *Fulvio aedili(bus)235 M.’ Glabrione Q. Minucio Thermo L. Valerio curul.

L’espunzione sarebbe dunque economica e motivata da un’evidenza macroscopica della tradizione manoscritta, ma certo resta un margine di ragionevole dubbio come osserva TANSEY (2001) 22–43: L. Valerio potrebbe corrispondere a L. Valerio Flacco, edile all’epoca della rappresentazione dell’Haut., e quindi facilmente reperibile ed interpolabile; al contrario, Q. Minucio Thermo non ha altre occorrenze e, se fosse effettivamente un’interpolazione, sarebbe non solo antica, ma di sorprendente qualità. In ultima analisi, quindi, se non si accetta l’espunzione di DZIATZKO (op. cit.) si è costretti a postulare una corruttela particolarmente grave, in un passo in cui Don. separava cronologicamente le due coppie di edili curuli.

Ambivio Turpione e Atilio Prenestino Di Ambivio Turpione è noto il ruolo di impresario teatrale ed attore (Cic. Cato 48, Tac. dial. 20, 3; Ter. Haut. 46, Id. Hec. 13, Don. Phorm. 315); non è altrettanto chiara, invece, la funzione di Atilio Prenestino, citato con Turpione in tutte le didascalie eccetto che nell’Hecyra ove è invece nominato un certo Sergio Turpione; secondo l’ipotesi avanzata da DZIATZKO sarebbe l’esecutore di una rappresentazione successiva delle opere di T. ed un po’ confusamente citato qui: andrebbe quindi espunto. L’espunzione in questo secondo caso mi sembra meno fondata sia su un piano metodologico che di contenuto: il nome di L. Atilio Prenestino compare tanto nelle didascalie di Terenzio quanto in altri specchietti didascalici delle praefationes di Don. ([Eun.], Ad., Phorm.) il che lascia presupporre che, indipendentemente dal fatto che possa ritenersi un’informazione giusta o sbagliata, sia da ricondurre ad una fonte comune ad entrambi; Don. questa volta, trovandoli nella sua fonte ed in mancanza di ovvie contraddizioni istituzionali, avrebbe potuto inglobare entrambi nella didascalia senza batter ciglio.

|| 235 L’oscillazione è spiegata benissimo con il testo stampato da DZIATZKO (op. cit.).

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A mio avviso, però, in questo caso potrebbe non trattarsi di un doppione, ma di due personaggi con ruoli distinti: come nota BARSBY (Eun. ad loc.), Ambivio Turpione non è citato in qualità di impresario teatrale ma di attore. A favore di questa lettura giocano vari indizi: in primo luogo Don., in corrispondenza della praefatio dell’Eun. parla di Ambivio Turpione e di un certo Minucio Protimo (proprio lì dove la corrispondente didascalia ci parla invece di Atilio) come di agentibus etiam tunc personatis ed è linguisticamente indubitabile che si faccia riferimento a due attori; in secondo luogo, in un manoscritto degli Adelphoe, come mette in evidenza FRANKO,236 il nome di Minucio Protimo, attore tragico (cf. excerpta de comoedia, p. 26.7), appare nuovamente, ma questa volta in luogo di Ambivio Turpione, seguito poi da Atilio. Che si tratti di attori e non di impresari è quindi un’ipotesi non peregrina, per cui la doppia menzione è meno inaccettabile di quanto supposto. Quanto a filius, l’espunzione può ritenersi pacifica: si tratta di una semplice interpolazione banalizzante (cf. Didas. in Ter. Eun. 7, in Hec. 6–9, in Phorm. 7).

[tibiis paribus dextris uel sinistris]237 L’ultimo problema riguarda il riferimento ai flauti ‘di destra o di sinistra’, una distinzione non priva di problemi come emerge già nella diffusa spiegazione che Don. elabora del de comoedia (8, 11) ed applica caso per caso nelle didascalie: agebantur autem tibiis paribus, id est dextris aut sinistris, et imparibus. Dextrae autem tibiae sua grauitate seriam comoediae dictionem praenuntiabant, sinistrae [Serranae] acuminis leuitate iocum in comoedia ostendebant. Vbi autem dextra et sinistra acta fabula inscribebatur, mixtim ioci et grauitates denuntiabantur. Se si confrontano le indicazioni musicali delle didascalie della tradizione diretta con le informazioni estrapolabili da Donato,238 diventa evidente la problematicità della tesi per cui esistessero flauti pares sia destri che sinistri: infatti quando si adoperavano le tibiae pares non poteva esserci un cambio di tono all’interno della stessa rappresentazione, quando invece si adoperavano quelle impares, sì: in sostanza, come suggerisce Moore, tibiae pares e tibiae dextrae sono definizioni sinonimiche (cf. MOORE 2012, 62).

|| 236 Cf. FRANKO (2014) 422. 237 DZIATZKO (1865) 596. 238 A questo proposito è molto chiara la tabella compilata da MOORE (2012) 57.

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DZIATZKO ipotizza che Donato (o la sua fonte)239 nel tentativo di ancorare le varie tipologie di tibiae alle varie tipologie di contenuto delle commedie elaborò la teoria espressa nel de comoedia, estendendola poi anche alle singole didascalie: poiché ‘le tibiae dextrae sono appropriate per commedie dal tono serio, le sinistre per quelle dal tono frivolo’, ne segue che all’Andria, una commedia ‘mista’, si adattano entrambe le tipologie di flauti. Naturalmente nel tempo si sono susseguite varie altre ipotesi:240 WATSON (1905) 125–157 riconduce gli errori dell’antico esegeta ad un problema di fonti, nello specifico Donato avrebbe adoperato un manoscritto in cui si era verificata una trasposizione di informazioni (‘a transfer of items’, p. 148) e che l’avrebbe poi indotto ad interpretazioni sbagliate; GOLDBERG (2005) 69–75 ritiene che il problema di base fosse la commistione di informazioni relative a momenti diversi della rappresentazione della stessa commedia. Indipendentemente dalle spiegazioni e dalla distinzione elaborata da Don. e frutto con ogni evidenza di una sovrainterpretazione, il dextris uel sinistris della didascalia in oggetto si spiega come interpolazione sulla base del su citato passo del de comoedia: in questo punto, infatti, non è individuabile alcuna necessità di spiegare il concetto di paribus, trattandosi di una sezione descrittiva, concepita come elenco di nudi dati riguardanti la rappresentazione; inoltre la specificazione è assente in tutte le restanti didascalie del DC.

An. praef. II 1 ... ipse deluditur seruo. Periculumque Charini et Pamphili et totus error in fabula usque ad eum finem est ductus, dum Athenas ueniens Andrius quidam Crito rem aperiat et nodum fabulae soluat. post seruo lac. susp. Jakobi || in fabula Kauer (1911, p. 146, n. 3): in fabulis ω: inextricabilis Leo (1895, p. 211): inenodabilis Rabbow*

Lo stile delle prefazioni è un po’ secco e in alcuni punti molto sintetico, per cui spesso può sorgere il sospetto di perdita di informazioni. Dopo aver menzionato Simone, il suo piano delle false nozze, e i molteplici inganni con cui viene raggirato dal servo, si fa cenno, ex abrupto, alle peripezie di Carino e Panfilo, fino poi a toccare la peripezia che informa la commedia stessa: W. scandisce il passaggio da Simo ... deluditur seruo al periculum dei due

|| 239 Per MOORE (2012) 57ss. l’equivoco è nato in una fonte comune a Donato e Diomede. 240 GOLDBERG (2005) 69–75; WATSON (1905) 125–157; RABBOW (1897) 324–5.

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giovani con una pausa debole (una virgola), mentre JAKOBI suggerirebbe di individuare proprio in questo punto una lacuna; quest’ultimo intervento è forse eccessivo perché gli elementi della trama, anche se ridotti all’essenziale, sono tutti ricordati, ma certo un’interpunzione debole crea qualche imbarazzo sintattico di troppo, per cui mi sono decisa a chiudere il primo periodo dopo seruo, facendo iniziare con periculumque un’altra e separata proposizione; la concordanza al maschile di periculum ... error è tollerabile. Non accettabile è invece il tràdito fabulis, che andrebbe banalmente corretto in fabula designando così la trama dell’Andria o l’Andria stessa: in Don. si fa spesso riferimento all’immagine del nodo (nodum erroris) per indicare il complicato intreccio in cui la trama si avviluppa a causa di una serie di fraintendimenti (Don. An. 404.1: haec scaena nodum innectit erroris fabulae et periculum comicum [...]; Id. Ad. praef. II 13–14: quo facto multiplici errore completur fabula). I tentativi tesi al ripristino di una forma aggettivale sono estremamente discutibili: inenodabilis di RABBOW non solo non è attestato nel DC ma è di impiego raro in latino ed afferisce ad un registro tragico o particolarmente elevato (cf. ThlL VII 1 1294, 46ss.); quanto a inextricabilis, proposto da LEO nella prima edizione (1895) 211 di Plautinische Forschungen, e da lui stesso messo in discussione nella seconda (1912), è comunque una forma paleograficamente lontana da fabulis, difficilmente difendibile anche se in combinazione con error ripristina una nota iunctura virgiliana (nel DC lo si trova ad Eun. 1085.2 in nesso con labore).

An. praef. II 2 et originem narratiue reddat spectatoribus auctor, 〈r〉em praesentem ibi exhibiturus, ubi finis est fabulae. spectatoribus] spectatores sperent μ || auctor 〈r〉em scripsi: auctor 〈r〉emque iam Jakobi (sc. exhibeat): auctorem AP2 (ex actorem corr.) μ: auctoremque cett. || praesentem ibi] finem fabule integre μ || ibi Jakobi (GFA 2017, 25): scilicet ibi Reiff.*: sibi ω || exhibiturus P ϴ (exibitus C) J: exhibitur A: exhibiturum C2 μ : exhibeat QV Λ

L’intervento di JAKOBI ripristina, nel modo più economico possibile, un testo sensato – peraltro è difficile capire come W. riuscisse a difendere auctoremque praesentem ... exhibeat. Tuttavia, per forza stemmatica e per ragioni anche stilistiche, preferirei stampare il participio futuro in luogo del banalizzante exhibeat – scelta che permetterebbe di giustificare anche meglio la posizione artificiosa di auctor, e che a mio avviso rispecchia un andamento sintattico frequente nel DC (cf. per esempio An. 642.2).

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An. praef. II 2 Hunc enim ordinem et circulum poeticae uirtutis non modo secuti sunt tragici comicique auctores. ordinem Σ: orbem Γ || post poeticae add. artis uel Σ

Presi in valore assoluto ordo ed orbis sono varianti sostanzialmente adiafore; in un contesto relativo all’arte poetica, orbis non aggiungerebbe alcuna informazione rispetto a circulus, con cui quindi formerebbe un’endiadi; il nesso orbem sequi o tenere non trova però paralleli, diversamente da ordinem, che invece ha discrete occorrenze con entrambi i verbi: cf. Seru. Aen. 8, 525: ordinem tenuit qui nobis apparet; Id. ecl. 1, 19: ordinem narrationis plenum non teneat, al.; Id. Aen. 1, 755: et responsio hunc ordinem sequitur; Id. Aen. 7, 137, al. Alla luce di questi dati, e ritenendo probabile che orbem si sia generato da ordinem per influenza del successivo circulum, preferirei stampare eccezionalmente la lezione del ramo Σ.

An. 1.5 proposuerat quidem poeta noster, ut in prologis argumenta narraret, sed hoc imputat Luscio Lanuuino aduersario, quod eum non permisit facere quod proposuerat, maledictis suis ad respondendum eundem prouocans. quod1 scripsi: qui ω

Ter. è costretto a rinunciare alla funzione ‘narrativa’ del prologo per difendersi dalle accuse mossegli da Luscio di Lanuvio, ed è proprio questa l’accusa che lancia all’avversario: di averlo costretto a rinunciare al prologo così come lo aveva inizialmente concepito, per rispondere alle sue provocazioni. W. stampa il tràdito qui, ma lascia intuire in apparato qualche perplessità: cita infatti l’intervento proposto da RABBOW, consistente nel supplire aliter euenit immediatamente dopo sed, per dare un senso all’hoc, sintatticamente pendente. Ma è chiaro che, quello di RABBOW, rappresenta un intervento solo diagnostico. La problematicità del qui non è eludibile, soprattutto perché hoc non può che avere una funzione anaforica (così come, subito prima, l’hoc ad An. 1.2) e perché manca nel testo precisamente il capo d’accusa di cui Luscio è imputato. All’idea di una lacuna credo si possa preferire un emendamento banale, correggere qui in quod, che per quanto possa risultare non del tutto convincente a causa della ripetizione che si viene a creare con il quod subito dopo, non solo gode di piena plausibilità paleografica (l’errore è favorito anche dal contesto: dopo il nome di Luscius, la ripresa per mezzo di un pronome maschile si innesca

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quasi automaticamente), ma il quod esplicativo permette di riaccordare la sintassi (hoc ... quod) e restituire al testo il capo d’imputazione altrimenti assente. Per la costruzione di imputo con quod ed indicativo, cf. ThlL VII 1, 731, 78ss.

An. 3.1 POPVLO VT PLACERENT ‘ut’ ‘ne non’ significat: modo non est 〈...〉 coniunctio. post est lac. agnouit Jakobi (1996, 72, n. 186), qui praepositiua sed subiunctiua suppl.

Il testo costituito da W. (modo enim est coniunctio) è problematico: JAKOBI (1996) 72, n. 186 individua due punti critici: il primo è costituito dall’assenza di paralleli per il nesso modo enim in Donato, risultante da una correzione operata da W. sul tràdito modo non; il secondo consiste nel significato dello scolio stesso: affermare che ‘in questo contesto ut abbia il valore di una congiunzione’ è alquanto superfluo perché è evidente che non possa assumere un valore avverbiale. Se, dunque, da una parte la spiegazione di ut come ne non è usuale (An. 277.2, 349.3, 409.1, al.), il seguito, in cui sembra contemplarsi una contrapposizione fra la funzione di ut come congiunzione e quella avverbiale, non ha senso. La proposta di JAKOBI si sviluppa sulla base di Don. ars mai. p. 647, 9–10 H. (ordo coniunctionum in hoc est, quia aut praepositiuae coniunctiones sunt ut at ast aut subiunctiuae ut que autem, aut communes ut et igitur ergo) e Don. Phorm. 200.1 (‘nam’ aut subiunctiua coniunctio est superiori dicto quod ait ‘quid agam’ aut ἀναστροφή est ‘nam quod’ pro ‘quodnam’), suggerendo quindi di conservare non e creare un’opposizione modo non est x sed y che riguardi non la potestas delle congiunzioni, ma l’ordo. L’analisi risulta persuasiva, ma resta difficile stabilire quanto testo sia da integrare ed in che termini precisamente si sviluppasse la spiegazione, per cui mi limiterei per prudenza a porre un segno di lacuna dopo est.

An. 3.3 QVAS FECISSET FABVLAS bene ‘fecisset’, non ‘scripsisset’. Vnde et poetae [a faciendo] dicti sunt ἀπὸ τοῦ ποιεῖν. Sic Vergilius ‘Pollio et ipse facit noua carmina’. et1] om. V Λ || poetae] poeta δ || a (om. μ) faciendo ω, deleui || dicti sunt AP Λ: dictus ϴ μ: dictus est V || ἀπὸ τοῦ ποιεῖν M4tJxG2: ΑΠΟ ΤΟΥ ΝΟω A (in ποιεῖ corr. P. Daniel): om. sp. rel. ϴ Λ (άποιε ω idest facio f2: παρά οῦ ποιε ω ῶ z): πασητησ V: a potu poro pois μ unde [poeta] a faciendo dictus est ποιητής Sabbadini (1894) 125 unde et poetae ἀπὸ οῦ ποιεῖν 〈id est〉 a faciendo dicti sunt Stephanus

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L’etimologia di poeta è ampiamente diffusa per cui la presenza del graecum in molti manoscritti, che solitamente lo omettono, è un dato che si può giustificare anche con il ricorso a fonti alternative. Così come tràdito il testo presenta una fattura non pienamente accettabile: l’etimologia latina a faciendo non è sintatticamente armonizzata con l’etimologia greca; da questo aspetto erano stati disturbati anche STEPHANVS e SABBADINI, il primo dei quali ripristina quello che è l’ordine che ci si sarebbe attesi: l’indicazione dell’etimologia o paretimologia greca seguita da glossa latina banalizzante (cf. Don. Ad. 581: ... Cratinus ἀπὸ τοῦ κράτους, id est a potentia; Eun. 424.3) La posizione di a faciendo fa però sorgere il sospetto che si tratti propriamente di una banale resa latina di ἀπὸ τοῦ ποιεῖν, nata supra lineam e portata a testo già in archetipo: si tratterebbe quindi di un’interpolazione. È vero che con l’eliminazione di a faciendo si rende più implicito il nesso facere = ποιεῖν, ma data la sua diffusione Don. avrebbe potuto farne a meno senza difficoltà e senza alcun rischio in termini di intelligibilità.

An. 4.2 intellegit [et] quod ‘credimus’ plerumque falsum est ... et del. e2

L’espunzione della et ad opera dell’editio princeps non è da mettere in discussione; probabilmente di tratta di una quasi dittografia innescata dalla desinenza it.

An. 5 OPERA ABVTITVR utimur fructibus rei, quae †amantibus saluo usu nobis subministratur, abutimur, quando deperdimus et rem et fructum. Nam usui est ager domus, abusui oleum uinum et cetera eiusmodi. utimur] abutitur μ || fructibus] fruct. sp. postp. (us eras.) A: fructibus eius μ || †amantibus Wess.: amanentibus P: amantibus Aδ: a(b) amantibus Λ: a mancipibus Rabbow coll. Tert. apol. 11: manente Wieling || saluo usu] salua οὐσίᾳ Rabbow* Schoell* || rem] re A || usui P (fort.)] usi A V: usio β: usus μ: usus uel usi codd. Λ : usu ϴ || ager domus e2: agendo usus A: agendo usu(s) Σ || abusui e2: abusio ω

Terenzio, nello scrivere la sua commedia, pensava che il suo unico compito sarebbe stato quello di ‘piacere’ al popolo, eppure si ritrova a dover difendere le sue opere, individuando nel prologo il luogo adatto per la sua apologia. Il verbo abutor, altrove attestato in accezione negativa (come a Phorm. 413), nel presente contesto proemiale sembra assumere una connotazione più neutra, equivalente a

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operam consumere (ThlL I 240, 27ss.); Donato opera una distinzione fra utor ed abutor insieme con i rispettivi usus ed abusus: si può parlare di ‘uso di qualcosa’ se, questo qualcosa, nell’ essere utilizzato, non si consuma del tutto; altrimenti, quando l’uso di un oggetto porta alla sua perdita totale, si parla di abusus. Questa distinzione è alquanto frequente, cf. Boet. in top. Cic. 2, 17 Or.–B.: non potest esse usus earum rerum quae utendo pereunt, sed potius abusus; ma anche Isid. orig. 5, 25, 28: VSVFRVCTVS AVTEM VOCATVS quia solo usu habetur eius fructus, manente apud alium iure. Lo scolio accusa un problema in corrispondenza della relativa quae ... subministratur: amantibus, tràdito da Aϴ e Λ (con la preposta aggiunta di ab), che non dà senso; nemmeno la lettura amanentibus di P si può dire difendibile, ma certo consente di recuperare il verbo manere, che trova un prezioso riscontro anche nel relativo scolio del codice Vittoriano (D): utimur fructibus manentium rerum.241 Degli emendamenti proposti per sanare il passo la soluzione degli editori antichi, manente saluo usu, con ciò intendendo il ‘permanere della possibilità d’uso’ è particolarmente interessante, lo è ancor di più se si considera che paleograficamente la corruzione di quae manente in quae amentibus / amantibus è spiegabile: ci sono altri casi di corruzione della desinenza singolare dell’ablativo (cf. curulibus in An. praef. I 6), si sarebbe creato un problema di distinzione delle parole e si sarebbero innescati ulteriori stadi di corruzione che hanno portato il verbo manere ad essere oscurato in amare. Difficile da accettare è però l’intera giuntura manente saluo usu laddove il manente usu sarebbe stato pienamente soddisfacente (cf. Isid. orig. 5, 25, 28: manente ... usu): manente e saluo in sostanza esprimono entrambi lo stesso concetto, dunque o saluo era in origine una glossa per manente, concepita quando ancora il verbo era intellegibile, o amantibus/amanentibus aveva in questo contesto tutt’altra funzione o significato. Per questi dubbi, lascerei con W. la crux.

An. 14 FATETVR TRANSTVLISSE 〈‘se’〉 scilicet. Quare ergo se onerat … 〈se〉 scilicet scripsi: deest ‘se’ Schoell*: sed ω

W. accetta il tràdito sed, facendo quindi slittare ergo in terza posizione (cf. HOFM.– SZ. II 512), con un pesante quanto inefficace sed quare, che manca di un effettivo termine di opposizione.

|| 241 Per P, però, preciso che presuppongo corretta la lettura di KAUER (1911) 147 perché è difficile appurarla sulla riproduzione.

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Prendendo spunto da un’idea di SCHOELL* si deve invece rintracciare nel sed una criptocorruttela per scilicet, successiva alla caduta della nota a carattere parafrastico, in cui si faceva notare la necessità di supplire il soggetto per l’infinitiva (notoriamente inespresso in molti passi di Terenzio, cf. An. 245, id. ibid. 870; Hec. 62): il ripristino non solo è molto economico in termini paleografici, tanto più dopo un primo –se della desinenza dell’infinito, ma trova il conforto di molte formulazioni parallele, in cui l’elemento verbale omesso è esplicitato con scilicet: cf. Ad. 8.1, ibid. 12.1, ibid. 118.2, al.

An. 17.1 FACIVNTNE INTELLEGENDO ‘ne’ quidam corripiunt et cum interrogatione pronuntiant, quidam producunt. Quorum alii ‘ne’ pro ‘nonne’ accipiunt, id est ‘non’, alii ‘ne’ pro ‘ualde’ ... id est non] obliq. litt. scripsi

Le ipotesi interpretative per ne sono sostanzialmente le due canoniche: ne come forma affermativa equivalente a νή o ne come negazione; in quest’ultimo caso Don. sottolinea che ne è impiegato in luogo del più comune nonne (come avviene generalmente nella lingua arcaica, cf. HOFM.–SZ. II 462). All’interno di questa presentazione, dopo l’equivalenza di ne e nonne, viene specificata l’ulteriore corrispondenza con non: un’aggiunta, a mio avviso, del tutto gratuita, estrapolata da passi come An. 335.1 (ueteres ... ‘ne’ pro ‘non’ dicebant), dove però essa è espressa in modo coerente rispetto al testo ed al contesto in esame.

An. 24.7 COGNOSCITE per 〈...〉. 24.8 COGNOSCITE sic dixit ‘cognoscite, ut pernoscatis’ ... per ω (cum seq. lemmate iunctum): pro U: per〈cognoscite〉 Postgate 1908, p. 224 ante cognoscite lac. stat. Wess. (iudicate suppl. Rabbow*) || cognoscite] noscite Λ || sic–cognoscite] om. μ || siem Σ: sim AP

La tradizione dello scolio An. 24.7 soffre di una qualche lacuna: dopo il lemma, i manoscritti leggono unanimemente percognoscite sic (pernoscite sic Λ). W. in luogo di per stampa pro, trovandolo in V, e con il rimanente cognoscite crea il lemma dello scolio 24.8; pone quindi una lacuna dopo pro. Il testo terenziano è strutturato in modo da differenziare i tre verbi anche semanticamente: malefacta sua ne noscant ... rem cognoscite, ut pernoscatis: il primo implica una conoscenza che si recepisce da terzi, ma di cui non si è consapevoli, il secondo implica una

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consapevolezza attiva di un certo fatto, la terza implica una conoscenza molto approfondita.242 Se ci si attiene al testo di U (pro noscite), come fanno gli editori dell’HYPERDONAT, sarebbe difficile spiegarsi il motivo dell’affermazione donatiana visto che è vero che noscere è simplex uerbum rispetto a cognoscere, ma è altrettanto vero che la forma composta già ai tempi di Ter. aveva del tutto surclassato la semplice; logico sarebbe stato quindi il contrario noscite pro cognoscite.243 Se invece si segue il testo dei manoscritti, sarebbe comunque difficile gestire cognoscite percognoscite (o pernoscite Λ) perché, comunque, si scadrebbe nella tautologia. La decisione di W. di stampare il pro, tràdito dal solo U, ma di chiara natura congetturale,244 e poi segnalare una lacuna, è certamente discutibile sul piano metodologico; in assenza di soluzioni persuasive, quindi, preferisco stampare il tràdito per e segnalare il problema che, verosimilmente, si può identificare nella caduta di una porzione di testo.

10.2

Andria, atto primo

An. 28.3 VOS ISTAEC I. A. A. molliter retenturus et separaturus Sosiam imperat, ut remaneat. separaturus p: speraturus AK FTq: speratus Cμ : experturus Λ (expectaturus β)

L’Andria si apre con Simone che impartisce agli altri servi l’ordine di andare via, trattenendo però Sosia (Sosia, adesdum: paucis te uolo); lo scolio ad An. 28.3 spiega, per l’appunto, che Simone ordina al liberto di restare (remaneat) per parlargli.245 A fronte di diverse ma insensate oscillazioni nella tradizione manoscritta, spiegabili come cattiva interpretazione di un’abbreviazione, separaturus, testo di

|| 242 A tal proposito si veda la ricca nota di ARAGOSTI (2015) 131, n. 146. 243 Nel DC infatti scoli strutturati in questo modo (= x pro y) implicano sempre che il primo elemento sia difficilior (per svariate ragioni) rispetto al secondo, come ire pro uenire (Don. Ad. 361.2), ma cfr. anche Don. Ad. 47.2, id. Ad. 127.4; la y può comprendere, comunque, una spiegazione più ampia, di due o tre sinonimi. 244 Ricordo che U, per lo meno la seconda fonte del codice in questione, e V godono di un rapporto stemmatico particolarmente stretto, quindi si può dire che la congettura è testimoniata da un unico manoscritto. 245 Il maneat stampato da W., e dagli editori precedenti, è evidentemente un errore di stampa o un’imprecisione: la tradizione ha unanimemente remaneat.

Andria, atto primo | 215

W. ma anticipato dal codice p e già presente nelle edizioni a lui precedenti, risulta una soluzione economica e soddisfacente alla luce del senso generale della nota, anche se altre attestazioni di separare, non solo in senso tecnico–grammaticale, contemplano la specificazione di colui/coloro da cui ci si separa (cf. Ad. 382.1; An. 778.1; Eun. 498.2; al.), che sarebbe stata utile anche qui, soprattutto a rendere meno oscuro il seguente illis.246

An. 28.5 ABITE concitatius legendum est, quia et respectantes properat et discernit a Sosia. et1 KΣ: om. A β || respectantes A δ: res peccantes K: respicientes Λ || properat (properant K) et (ex A)] improperat et Heraeus (1903, 266): properanter Stephanus

Simone ha fretta di parlare con Sosia, perciò allontana tutti gli altri servi. Donato consiglia di leggere con una qualche concitazione l’imperativo abite per rendere anche sul piano performativo l’ansia di Simone di allontanare quanti indugiano a guardare, separandoli da Sosia. Il verbo propero con l’accusativo della persona che si vuole frettolosamente mandare via non è un uso del tutto pacifico: non gode di molte attestazioni, e per lo più si trova con oggetti inanimati (cf. ThlL X 2, 1986, 1ss.); il passo di Stat. silu. 1, 2, 266 (heia age praeclaros Latio properate nepotes) è solo formalmente vicino al respectantes properat di Donato: in Stazio il properate sottintende un verbo quale parere, mentre in Donato il properat è da intendersi come properantes facit. L’insoddisfazione verso il testo tràdito induce l’editore francese a stampare properanter discernit ma non mi sembra una soluzione persuasiva perché la frase subirebbe un forte appesantimento; anche il tentativo di HERAEUS (1903) 266 è debole perché mancano paralleli di un qualche interesse (inoltre impropero con l’accusativo sembra attestato soprattutto nella Vulgata e nei Vangeli, cf. ThlL VII 1, 697, 30). In assenza di soluzioni migliori da stampare è il caso di non allontanarsi troppo dal testo tràdito: propero aliquem all’altezza di Donato è forse lingui-

|| 246 La tradizione è unanime quanto alla desinenza –us, che quindi sembra suggerire la presenza di un verbo parallelo a retenturus, e la stessa congiunzione et sembra confermare questa lettura. Se non ci fossero stati questi due elementi a limitare la possibilità di correzione, si sarebbe potuto pensare anche a separatim (“sul punto di trattenere in disparte Sosia, gli ordina ...”), ovviando alla lieve difficoltà che separaturus sembra creare.

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sticamente accettabile. A meritare di essere rivista è però la scelta di W. di omettere et prima di respectantes: di fronte a due lezioni ugualmente accettabili,247 un accordo KΣ ha maggiore peso stemmatico rispetto ad un accordo Aβ.

An. 28.6 ... Sosiae persona προτατική est. προτατική est scripsi: ΠΡΟΤΑΤΙΚΑ E(st) A: om. nul. sp. ϴ: prostatica est Λ (προτακτικα M4m)

Considerata sia l’omissione di K, segnalata dallo spazio lasciato in bianco, sia il residuo di greco in A, è più che lecito pensare che Donato (o perlomeno il nostro archetipo) presentasse protatica nella forma greca.

An. 32 NIHIL ISTAC OPVS EST A. mire ait: arte non opus est †artibus. non] n(atur)(a)e ϴ (esse C, exp. et n(atur)e s.l. scr. C2): mature μ : nunc Λ | opus] om. Fq | est2] om. δ | artibus Γ μ Λ , cruc. signaui | ante artibus add. sed opus est ϴ (est artibus ineunte lin. C: sed opus est artibus in marg. post opus2 add. et est artibus exp. C2: sed oper(e) artibus T) Eugr. An. 32: hoc igitur tangit Simo, cum laudat seruum Sosiam, cum dicit opus esse non arte, sed his potius rebus, quas in eo semper agnouit, fide et taciturnitate.

Prima di rivelargli il piano delle falsae nuptiae, Simone vuole la garanzia che il liberto sia dalla sua parte ma il suo discorso è, come spesso accade in questa scena, alquanto vago e ricco di perifrasi linguistiche e concettuali. Quando Sosia, un po’ sorpreso, gli chiede cosa pretenda di più dalla sua specchiata ars (probabilmente culinaria), Simone rilancia spiegandogli che non si richiede la sua ars consueta ma altre due più importanti artes: la fedeltà e la capacità di mantenere un segreto. Il testo dello scolio ad An. 32 non è perspicuo: si intuisce che potrebbe trattarsi di una parafrasi, il cui sviluppo è oscurato da un danno testuale, identificabile in una lacuna: AK hanno un testo insensato, Λ e μ lavorano con lo stesso testo di AK, tentando però di dargli una qualche parvenza logica, ϴ presenterebbe qualcosa di meno scopertamente rielaborato, corretto grammaticamente, ma comunque di poca efficacia contenutistica.

|| 247 La posizione del primo et cadrebbe meglio dopo respectantes, ma si tratta di un problema non insormontabile: basta infatti sottintendere illos dopo quia; inoltre la maggiore vicinanza di respectantes rispetto a properat si giustifica su un piano di contenuti: i servi stanno a guardare e quindi li sollecita.

Andria, atto primo | 217

AK: mire ait: arte non opus est artibus ϴ: mire ait: arte n(atura)e opus sed opus est artibus μ: mire ait: arte mature non opus artibus Λ: mire ait: arte nunc non opus est artibus

Da questa semplificazione schematica emerge che ϴ è il solo gruppo a conservare la stringa sed opus est da opporre al precedente non: a rigore di stemma ed alla luce delle caratteristiche dei testimoni in esame è facile concludere che si tratti di un’interpolazione. Che ϴ non legga esattamente non è poco significativo: non, che si ritiene lezione d’archetipo, oltre che in AK doveva circolare anche in Σ (cf. il testo di Λ), per cui non si esclude che la congiunzione fosse nota all’interpolatore, quindi da collocarsi in un passaggio sopra ϴ, prima che in ϴ finisse per essere corrotta. Nemmeno andrebbe dimenticato che il testo terenziano gioca sicuramente una certa suggestione. Il testo confezionato da W. (arte non opus sed opus est artibus), che recupera il non da Γ e prosegue poi con il testo ϴ, risulta derivare da una non troppo metodica fusione di configurazioni testuali testimoniate in due distinti rami. Che poi la formulazione donatiana si costruisse intorno all’opposizione non ... sed, è altamente probabile se si confronta Eugr. ad An. 28 (cum dicit opus esse non arte, sed his potius rebus), ma questa testimonianza non costituisce un elemento a favore della pericope in più esibita da ϴ, alla portata di chiunque sapesse un po’ di latino; tutt’al più può indicare che il non di Γ è da considerarsi autentico. Preferisco quindi evidenziare il problema del passo nel corpo stesso dello scolio, ponendo una crux prima di artibus, lì individuando il probabile punto di corruzione del testo.248

An. 35.1 EGO POSTQVAM TE E. A. P. commendatio personae 〈honestae〉 quam serui, ne contra filium leui seruo aliquid committi indecore uideatur. personae honestae Jakobi (GFA 2017, 26), Cioffi: personae Γδ: personae potius Λ Eugr. ad An. 28: Primum ne quid turpe dominus aduersus filium seruo mandare uideatur, siquidem ille filius hic seruus est, obiecta persona serui est, non illa uulgaris neque in condicione

|| 248 Nelle altre due occorrenze di mire ait in Don. (An. 539.1, ibid. 632.1) seguirebbe la citazione della pericope su cui interessa attirare l’attenzione, talvolta costituita anche solo da una parola. Data l’incertezza del testo è difficile stabilire il punto focale del commento di Don. (si potrebbe in linea ipotetica pensare anche ad una riflessione lessicale su arte (mire ait ‘arte’ ...). Su un piano metodologico sarebbe anche preferibile eliminare qualsiasi genere di interpunzione, che pure ho deciso di conservare nell’edizione prospettando una lacuna dopo opus est.

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uiuentis neque in turpi officio seruientis, sed cuius animus et integritas fuerit per officia completa liberalis. Hoc igitur tangit Simo, cum laudat seruum Sosiam, cum dicit opus esse non arte, sed his potius rebus [...]. sed quoniam apud seruum, bonum dumtaxat, potuit esse consideratio, quod dominus maior sibi nescio quid aduersus minorem dominum imperauerit [...].

Simone ricorda a Sosia di come si sia comportato correttamente con lui, rendendolo da schiavo liberto (vv. 35–36: ego postquam te emi, a paruolo ut semper tibi/apud me iusta et clemens fuerit seruitus / scis. Feci ex seruo ut esses libertus mihi ...). Lo scolio 35.1 coglie il fine ultimo del discorso di Simone, quello cioè di legittimare in un certo senso la sua decisione (lett. “affinché non sembrasse turpe affidare ad uno schiavo superficiale un’iniziativa contro il figlio”). Partendo dal testo di W. (commendatio personae quam serui) e soprattutto dall’identificazione che l’editore propone in nota di Simone in personae, ritiene del tutto improbabile che sia il padrone a raccomandare se stesso agli occhi del pubblico;249 individua quindi una corruttela in prossimità di quam, che egli propone di emendare in nequam. Anche se il quam privo di un’esplicita comparazione è giustamente ritenuto privo di effettiva difficoltà,250la sostanza della nota, osserva RANK, non deve riguardare la rappresentazione del padrone bensì quella del servo. Entrambi i problemi (di contenuto e di grammatica) sono aggirabili o diversamente risolvibili: quanto al primo, si tratta semplicemente di una questione di prospettiva, quanto alla difficoltà grammaticale costituita dal quam nel senso di potius quam, si tratta di un uso contemplato dalla grammatica latina (cf. HOFM.– SZ. II 593) e rinvenibile anche in altri passi del DC (cf. An. 187.2: ‘antehac’ pro ante haec consuetudine quam ratione dicitur). La logica, che sottende l’osservazione dello scolio in esame, si ricava da Eugrafio, che evidentemente la leggeva nel DC: per evitare che il padrone potesse affidare allo schiavo qualcosa di turpe a discapito del figlio – evidentemente quello era pur sempre il figlio e questo lo schiavo – viene presentato (agli occhi di tutti) il personaggio del servo, non quello volgare né nella condizione di mero essere vivente né nel vergognoso compito del servo, ma il cui animo e la cui integrità si fosse manifestata in tutti i suoi incarichi alla maniera di un uomo libero. Se ne deduce, quindi, che Simone loda lo schiavo, per evitare di incorrere nell’accusa di essersi comportato in modo del tutto indecoroso, affidandosi ad un servo non moralmente integerrimo per un’iniziativa che comunque avrebbe leso il figlio. || 249 RANK (1925) 136–137. 250 Di contro, cf. KARSTEN (1911–1912) 7, n. 1.

Andria, atto primo | 219

Che nel contesto donatiano la commendatio sia da intendersi nel significato di lode, approvazione nei confronti del servo, sembra intuirsi proprio da Eugrafio (cf. cum laudat seruum Sosiam).251 Se ne trae dunque la seguente conclusione: il padrone loda lo schiavo come se fosse un uomo libero e virtuoso (cf. Eugr. ... integritas liberalis) per il motivo esplicitato sia da Donato tanto da Eugrafio, cioè perché il padrone non poteva affidare una questione che coinvolgeva il padroncino ad un semplice servo, un personaggio che solitamente non brillava per qualità morali. Si pone quindi la necessità di integrare un aggettivo (/sostantivo) che si contrapponga al serui, in modo da recuperare un concetto importante dell’argomentazione donatiana, di cui ci sembra testimone Eugrafio. Concetto che si rischia di cancellare del tutto se si ricorre all’espunzione del quam. L’integrazione che si propone è honestae: la giuntura persona honesta ha delle occorrenze significative, dove la contrapposizione si gioca proprio tra la persona onesta e categorie umane vicine agli schiavi, per esempio il lenone (cf. Ad. 198.1: honestiori personae haec querela sufficeret ‘abduxit meam’, at leno bene addidit ‘me inuito’). Honestae avrebbe anche il vantaggio di essere ripreso e contrario all’interno della negativa che segue: ... leui seruo.252 Si legga quindi: commendatio personae 〈honestae〉 quam serui, ne contra filium leui seruo aliquid committi indecore uideatur.

An. 36.3 moderata aequalitas, cui contrarium Vergilius ait ... (a)equalitas ω: aequalis Stephanus: aequa talis Rabbow*: aequa leuis Wess.

Non ci sono motivi cogenti per abbandonare il testo tràdito: Simone insiste sul modo con cui ha sempre trattato il liberto, ossia quasi come un suo pari, per cui in aequalitas vedrei il concetto giuridico dell’isotimia (ThlL I 1003, 26) dando invece a moderata un valore restrittivo (ThlL VIII 1219, 1ss.), nei limiti del consentito, poiché Sosia è pur sempre un liberto.

|| 251 W. in apparato annota scilicet Simonis. In Donato si trova la definizione commendatio personae senza ulteriori specificazioni, ma in quei casi si tratta di una ‘formula’ cristallizzata, una sorta di ‘etichetta’ esegetica per indicare genericamente l’azione del ‘lodare’ (cf. An. 1.1); qui però il contesto si sviluppa diversamente: poiché seruus è specificato, a rigore dovrebbe essere specificato anche il corrispondente termine comparativo. 252 È la soluzione più economica. La riabilitazione morale dello schiavo favorirebbe una contrapposizione fra seruus ed homo liber, ma è difficile la sua traduzione in termini testuali data la presenza di persona.

220 | Commento filologico-testuale

An. 42.3 Ergo ‘aduersum 〈te〉’ dixit pro ‘apud te’. 〈te1〉 Λ: om. ω || dic(it) A || te2] om. μ

Di fronte ad una distribuzione di questo tipo, si può pensare quasi automaticamente di espungere il te – probabile interpolazione di Λ sulla base e del parallelismo con il successivo apud te e del verso terenziano stesso. In realtà, se sul piano stemmatico l’espunzione appare contemplabile, sul piano testuale la presenza del te dopo aduersum appare meglio armonizzarsi con il seguente apud te. A conforto di quest’ultima possibilità, si può osservare come l’usus donatiano tenda alla ripetizione di singole parole o anche sintagmi (Ad. 431.1: uerum facias ‘quid facias’ pro: ‘quid faciat’ unus quisque scilicet). Quella di Λ pare dunque una congettura, ma accettabile.

An. 46 ITA FACIAM hoc est: uno uerbo dicam. Et quod uerbum promisit? 〈illud〉 ubi dicit (An. 168) ‘nunc tuum est officium, h. b. u. a. n.’. promisit] promittit Λ: promit Bentley* || add. Rabbow* || ubi] cum Λ

Dopo una lunga premessa, Sosia chiede al padrone di circoscrivere il discorso e di esprimere uno uerbo la sua richiesta. Simone gli promette che farà proprio così; la richiesta però necessita di un’altra lunga premessa, per essere poi espressa solo al verso 168. A dispetto dei vari tentativi di emendamento, lo scolio ad An. 46 è accettabile così come tràdito ad eccezione di un correlativo per ubi, da integrare con RABBOW.

An. 52.2 LIBERIVS uiuendi deest ‘ei’. deest ei] de e(ss)et A: dic ei ϴ: om. μ : dub. an melius deest ‘et’ Wess. An. 51–54 Nam is postquam excessit ex ephebis, Sosia, 〈et〉 liberius uiuendi erat potestas (nam antea qui scire posses aut ingenium noscere, dum aetas metus magister prohibebant? – SO: Ita est) Sosia– 52 potestas secl. Dziatzko || et add. Umpfenbach: ac Guyet || erat Kauer: fuit Σ Marouzeau, huic Kauer in app.: ubi Fleck.2

I versi 51–54 sono problematici, e del v. 52 è la scansione metrica a presentare non poche difficoltà: c’è chi sposa l’espunzione proposta da HERMANN (1848,

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444), la maggioranza interviene sul tràdito fuit (cf. MARTI 1961, 162): delle ipotesi di correzione su questo punto ha riscosso particolare successo erat di KAUER (1930), ma interessante è anche la proposta più di FLECKEISEN2, se non altro economica perché ubi renderebbe non più necessaria l’integrazione della congiunzione et/ac, che molti suppliscono per rimandare l’apodosi della temporale al verso 58; resta invece isolata l’idea di FRANKLIN (1919, 162–164), che suggeriva di intendere Sosia come didascalia, atta ad indicare che i versi successivi nam antea qui scire posses etc. fossero una battuta del servo, giustificando quindi l’interpolazione liberius ... potestas come conseguenza del trascinamento a testo dell’indicazione paratestuale. Ritornando al DC, lo scolio, così come tràdito, si limiterebbe al suggerimento di un’integrazione logico–sintattica, non problematica, compatibile rispetto al testo di Terenzio e non estranea al modus operandi di Don. (cf. Phorm. 56.3: habenda est gratia deest ‘ei’). Si deve riconoscere però che l’idea di W., leggere et in luogo di ei, benché sia soltanto una suggestione, paleograficamente economica, merita di essere menzionata in apparato.

An. 54.1 DVM AETAS METVS MAGISTER PROHIBEBANT quidam iungunt ‘metus magister’ †is quoque†. Potest enim intellegi, tamquam si diceret: quid est metus? magister. quidam – magister2 AK α : om. Σ || is quoque cruc. sign. Wess., fort. delend.

Simone continua a raccontare a Sosia di come Panfilo non gli abbia mai dato particolari problemi, neppure nell’età più delicata, il passaggio, cioè, dall’ephebia all’adolescenza: quando si è piccoli (ephebus), l’ingenium (inteso come ‘predisposizione naturale’) non solo non è ancora pienamente formato, ma è anche condizionato da una serie di circostanze e di persone che possono avere un’influenza coercitiva, in particolar modo il magister; è solo quando ci si libera da questi condizionamenti che la vera personalità ha il sopravvento. È dunque questa la riflessione parentetica di Simone. L’elenco dei diversi condizionamenti si compone di tre elementi legati asindeticamente: due sostantivi astratti (aetas metus) ed uno (magister) concreto. Il dislivello astratto–concreto, unitamente all’assenza di congiunzioni, apre varie possibilità interpretative: aetas e metus sono di fatto in asindeto, ma questa ovvietà non è estendibile anche a metus magister, più ambiguo, laddove magister potrebbe fungere da attributo di metus (“la maestra paura”) oppure costituire l’ultimo termine del trittico, a pari grado con i due sostantivi astratti. Il dibattito esegetico doveva essersi aperto abbastanza presto se ad An. 54.1 Don. parla di

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alcuni che legherebbero magister a metus, ma la natura di questa di questa iunctio resta dubbia (= metus magistri con genitivo oggettivo oppure metus est magister e dunque “la paura maestra”). La comprensione dello scolio, o quantomeno della sua prima parte, è ostacolata da una pericope testuale (is quoque) non riducibile a qualcosa di sensato. W. non trova alcuna soluzione né tantomeno è persuaso della correttezza delle soluzioni proposte da altri, perciò la pone fra cruces. Presupposto che la stringa problematica sia da legarsi alla prima proposizione (metus magister iungunt) e non alla seconda (potest enim intellegi) – enim slitta oltre la seconda posizione solo quando questa è occupata da concorrenziali particelle enclitiche (HOFM. – SZ. II 508) – in presenza di testo totalmente insensato, l’ipotesi più ovvia da formulare è che si tratti di un graecum corrotto fino a diventare irriconoscibile. Seguendo questo ragionamento, se si suppone che l’esegeta abbia voluto meglio definire la modalità con cui alcuni congiungono metus e magister, la scelta cadrebbe su ἀσυνδέτως o per ἀσύνδετον:253 ‘alcuni legano metus magister asindeticamente’ (a questo proposito si potrebbe addurre come parallelo Ad. 593: quod peccatum a nobis est ortum corrigo si diceret ‘peccatum a nobis est’, participium faceret; iam quia ‘ortum’ addidit, nomen est: numquam enim eadem pars orationis iungi nisi per ἀσύνδετον potest). Questa ricostruzione ha però ha qualche limite logico ma ancora prima terminologico: l’individuazione di un asindeto farebbe di metus e magister due sostantivi coordinati ma tra loro indipendenti, mentre il verbo iungere nel lessico grammaticale si applica a vere e proprie coppie non separabili, che presentano cioè una qualche forma di interdipendenza (aggettivo + nome, aggettivo + genitivo, verbo + oggetto).254 Di conseguenza il concetto di asindeto e di iunctio non si coordinano bene. Un altro problema sorge per quanto riguarda il rapporto che questa frase intrattiene con quanto segue: se, infatti, si congiungono metus e magister asindeticamente, ne deriva che essi sono su uno stesso piano (= metus et magister); ma Donato, che con enim marca la continuità di pensiero con quanto espresso in precedenza, ammette che magister possa essere inteso come una specificazione di metus: magister costituirebbe una sorta di elemento appositivo rispetto a metus. Sorgerebbe quindi la necessità di postulare una lacuna in cui venga detto ‘altri invece li separano: si può infatti …’255, ma sa-

|| 253 cf. LAUSBERG (1998) 315–316; JAKOBI (1996) 118–119. È bene dire, come sottolinea JAKOBI, che in Donato la parola ἀσύνδετον sembrerebbe non essere mai usata nella forma translitterata. 254 cf. SCHAD (2017) 229ss. 255 Per il concetto di separatio in ambito grammaticale, cf. SCHAD (2007) 357.

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rebbe certo un intervento di non specchiata metodicità. Forse, più economicamente, si potrebbe correggere l’enim in autem, errore molto frequente, ma resta pur sempre sconsigliabile modificare un punto tràdito per renderlo coerente con un intervento congetturale. Posto che lo scolio abbia una sua ‘unità’ e che le due proposizioni (quidam ... quoque e Potest ... magister) non si elidano ma propongano lo sviluppo coerente di un’unica ipotesi, is quoque definirebbe il legame fra metus e magister che permette poi la successiva interpretazione tamquam si diceret … Ci sono almeno due etichette grammaticali in grado di adempiere a questa funzione: la prima, non brillante, porterebbe a spiegare il rapporto metus magister in termini parentetici, tipograficamene traducibile come segue: aetas metus (magister). Si tratterebbe di κατὰ παρένϑεσιν256, di cui si trova un esempio in Don. Eun. 780.5: qui malum alii ‘malum’ κατὰ παρένϑεσιν suauiter infertur).257 La debolezza dell’emendamento in primo luogo consisterebbe nell’eccessiva lontananza paleografica dal residuale is quoque e secondariamente anche nell’usus di Donato, che, nel parlare di parentetiche, impiega per lo più il verbo inferre (cf. Eun. 780.5; Phorm. 337.2; al.). Nettamente superiore sarebbe il ripristino della figura dell’efesegesi: in Don. si trovano infatti sei occorrenze e l’analogia testuale con il passo terenziano in esame è di una certa forza (si veda in particolare Don. Phorm. 135.3: uentum est ἐφεξήγησις quomodo factum est? ‘uentum est: uincimur: duxit’ a commento del trittico factumst; uentumst, uincimur; per le altre occorrenze: id. Hec. 446; id. Phorm. 40.3; id. ibid. 680.3; id. Ad. 33.1; id. An. 794.2). Questa idea è seducente e meriterebbe uno spazio in apparato. Vero è però che parimenti suggestiva è l’ipotesi che is quoque sia semplicemente una glossa inglobata a testo, forse di un lettore che faceva riferimento a qualcosa di contingente, di un qualche maestro, per esempio, che stava spiegando Terenzio con il supporto del commento donatiano: se si elimina la stringa is quoque, infatti, il testo acquista coerenza ed ha senso compiuto. Anche se non mancano ipotesi ricostruttive alquanto persuasive (con particolare riferimento alla figura dell’“efesegesi”), mi sono decisa prudentemente per le cruces.

|| 256 Cf. LAUSBERG (1998) 385. 257 In questo caso, l’elemento parentetico, malum, è da intendersi come accusativo d’esclamazione. Ci sono tuttavia dei casi di ‘parentesi’ più vicini al passo che qui si discute (cf. Seru. auc. Aen. 9, 697: THEBANA DE MATRE parenthesis est).

224 | Commento filologico-testuale

An. 55.3 Naeuius in bello Punico (= frg. 52 FPL4) ‘plerique omnes subiguntur sub suum iudicium’ Naeuius] nec unus A || punito A || plerumque Γ || omnem A F: omne K || subiguntur A Lindenbrogius: subigunt KΣ: subiungunt Stephanus || sub] ad δ || suum KΣ (prob. Mariotti 2001, 74): unum A pler. edd. subiguntur KLUSSMANN VAHLEN MARIOTTI BARCHIESI MOREL STRZELECKI BÜCHNER BLÄNSDORF subiungunt SPANGENBERG unum BARCHIESI MOREL STRZELECKI BÜCHNER BLÄNSDORF suum KLUSSMANN VAHLEN MARIOTTI LUISELLI uanum MÜLLER

La iunctura plerique omnes è definita da Donato come un arcaismo. Segue poi una sezione in cui si attacca quanti interpretano plerique omnes come due distinte parti del discorso, interpungendo quindi dopo plerique: si ribadisce infatti che per gli antichi plerique omnes era ritenuta un’unica parte del discorso. A questo punto è citato un frammento di Nevio allo scopo di provare che il sintagma è d’uso antico: plerique omnes subiguntur sub unum iudicium. La maggior parte degli editori neviani accettano il testo così come stampato da W., pur offrendo per lo stesso differenti interpretazioni: SPANGENBERG, per esempio, ritiene trattarsi di una sezione meta–poetica, in cui cioè il poeta giustifica la sua scelta di cantare la prima guerra punica; KLUSSMANN pensa invece che sia uno stralcio tratto dal discorso di Regolo; MARIOTTI suppone che il contesto della citazione descrivesse l’assoggettamento di una popolazione ad un re o in ultima analisi al popolo romano, e in questa direzione porterebbero alcuni passi di Livio dove ricorre il nesso sub (/in) ius iudiciumque + specificazione di chi li assoggetta, cf. Liu. 41, 22, 4: Perseus per id tempus, quia quidam Dolopum non parebant et, de quibus ambigebatur rebus, disceptationem ab rege ad Romanos reuocabant, cum exercitu profectus sub ius iudiciumque suum totam coegit gentem; Liu. 36, 39, 9: nisi illi cogantur in ius iudiciumque populi Romani, ne Boios quidem quieturos; Liu. 39, 24, 8: Athamanes quoque uenerunt legati, non partis amissae, non finium iacturam querentes, sed totam Athamaniam sub ius iudiciumque regis uenisse. Da un punto di vista strettamente testuale, il punto di maggiore divergenza fra gli editori si verifica in corrispondenza dell’oscillazione suum/unum. Che W. scelga unum dipende soprattutto dalla fiducia che egli attribuiva in modo indiscusso al codice A, fiducia condivisa anche dal LEO (1905) 54, n. 3: ῾Der Parisinus hat ‘unum’, auf die jüngere Überlieferung mit ‘suum’ sind wir glücklicherweise nicht angewiesen’.

Andria, atto primo | 225

Mutato il quadro della tradizione manoscritta, e considerata soprattutto la presenza di suum anche nel codice K, la decisione di preferire unum diventa attaccabile. Dal punto di vista della logica stemmatica, la presenza di suum sia in K sia nel Maguntinus implica l’isolamento di A in lectio singularis.258 Pur essendo infatti vero che A, da solo, presenta il verbo nella forma supponibilmente corretta, cioè subiguntur, è anche vero che la caduta del tratto indicante (u)r è un fenomeno estremamente triviale, per cui non crea alcun problema la possibilità che in K e nell’altro ramo sia caduto poligeneticamente; diverso è invece il caso di suum/unum: se infatti si ammettesse la correttezza di unum, avremmo un secondo errore K Σ, a rigore spiegabile anch’esso in termini di poligenesi, ma meno banale del primo; si creerebbe inoltre una concordanza in doppio errore tale da indurre a pensare ad un contatto orizzontale e dunque alla contaminazione: quest’ultima è un’ipotesi stemmaticamente problematica, non economica, soprattutto a fronte della difendibilità di suum. Né aiuta questa discussione ragionare in termini di utrum in alterum: è infatti parimenti possibile, presa la stringa subiguntur sub suum/unum, che si sia verificato il passaggio dall’una all’altra lezione. Suum è dunque sostenuto dallo stemma, da un punto di vista metrico restituisce uno schema noto nella bibliografia sui saturni, inoltre crea un bell’effetto allitterante, caro alla poesia arcaica latina; è inoltre difendibile sulla base di analoghe formulazioni afferenti al lessico storiografico. Vnum è privo del sostegno della tradizione e crea qualche difficoltà in più perché costringerebbe il verso ad uno schema metrico poco attestato, benché presenti un qualche interesse poetico per la contrapposizione con plerique.259 L’unico problema sollevato da suum è di tipo grammaticale: non sarebbe cioè rispettata la ‘regola’ dell’identità di soggetto, ma questo ostacolo è aggirabile se si considera che usi di suum nel senso di eius/eorum sono eccezioni contemplate, cf. Ter. Hec. 660, Cic. Att. 6, 2, 5; in generale HOFM. –SZ. II 175: “… ist zu beachten, dass suus im Lat. wie im Griechischen von Anfang an nicht nur auf den Subjekts– , sondern auch auf den Objektsbegriff bezogen werden konnte im Sinne von ‘zugehörig’, ‘eigen.’ [...] Dies begünstigte in der Umgangssprache sein übergreifen auf objektiv gefärbte Nebensätze [...]˝.260 Soppesati i pro ed i contra di entrambe le varianti, il piatto della bilancia pende a favore di suum.

|| 258 D’altronde A tradisce qualche incertezza già con il nome di Naevius. 259 MARIOTTI (2001) 74; LEO (1905) 54. 260 A tal proposito si veda anche MARI (2016) 47–68.

226 | Commento filologico-testuale

An. 56.2 AVT EQVOS ALERE AVT CANES AD VENANDVM sic et equos ad uenandum alunt, quomodo canes. Quod multi docti improbant, ut dicant separata esse et ‘ad uenandum’ extra rationem esse pro ‘[ad] uenatum’, ut (Aen. 4, 117) ‘uenatum Aeneas unaque m. D.’ rationem esse] natū ÷ A: rationem KΣ: orationem Lind. || ad4 secl. Wess. An. 55–57 quod plerique omnes faciunt adulescentuli, ut animum ad aliquod studium adiungant, aut equos alere aut canes ad uenandum, aut ad philosophos

La spiegazione più economica per i versi 56–57 è probabilmente quella di leggere nell’infinito equos alere un’apposizione epesegetica a studium, poi variata prima con un gerundio e poi con un sostantivo, comunque in funzione appositiva (ad uenandum e ad philosophos). Certo è che lo svolgimento sintattico non è di immediata perspicuità e già nell’esegesi antica doveva aver sollevato qualche divergenza interpretativa: Donato sembrerebbe intendere che alere si riferisca, per ἁπò κοινοῦ, sia ad equos che a canes, e che ad uenandum indichi appunto la finalità dell’allevamento di cavalli e cani; di contro, la maggior parte dei dotti non sposava questa soluzione, sostenendo che alere equos e canes ad uenandum siano separati e che quindi Ter. sia caduto in un’incongruità grammaticale avendo usato ad uenandum in luogo di un più appropriato [ad] uenatum: anche se la loro tesi è riassunta in modo drastico, è probabile che i docti sottintendano un verbo di movimento (ferre, portare) per canes ad uenandum, per cui si renderebbe grammaticalmente necessaria una costruzione supina (cf. HOFM. – SZ. II 381), esattamente come in Virgilio (Aen. 4, 117). W. stampa ad uenatum, creando così un’incoerenza logica fra osservazione grammaticale e citazione virgiliana; nelle note di appendice, invece, propone giustamente l’espunzione di ad: il senso dell’accusa mossa da questi docti emerge solo se letta alla luce della regola per cui la finalità è resa dal latino con il supino e non con ad e il gerundio (cf. per esempio Prisc. GLK II 411, 17: quid enim est ‘uenatum’ aliud nisi ‘ad uenandum’, ‘quaesitum’ nisi ‘ad quaerendum’? Virgilius in IIII Aeneidos: ‘Venatum Aeneas unaque miserrima Dido / In nemus ire parant’, id est ‘ad uenandum’).

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An. 61.2 VT NE QVID NIMIS sententia non incongrua seruo, quia et peruulgata. Et non refertur ad personam domini dicentis, sed de qua dicitur. Et2] om. A || domini dicentis KΣ: domi iudicentis A: modo dicentis Rabbow* (prob. Wess.) || post sed cruc. stat. Wess. || de qua scripsi: de quo ω

Simone sta elogiando l’arte della moderazione di suo figlio, e il liberto Sosia, per mantenere viva la facies dialogica di questi versi, dimostra approvazione con una sententia a carattere generalizzante: la regola più utile che un uomo deve perseguire nella vita è ‘mai esagerare’. Donato sottolinea che questa frase, pur di matrice nobile ed antica, è comunque adatta al servo, perché ormai è un concetto pienamente assorbito dalla sapienza popolare. Lo scolio presenta due punti di sofferenza: il primo riguarda la stringa di testo che segue personam, laddove W. accetta solo parzialmente una congettura di RABBOW, il secondo si individua nella zona successiva al sed, dove l’editore appone addirittura una croce. Bisogna, innanzitutto, dire che la strada sincretistica percorsa da W. non è contemplabile perché il primo emendamento del RABBOW è sviluppato in funzione di un secondo e presuppone un’interpretazione dello scolio affatto personale (Et non refertur ad personam modo dicentis, sed quotidie dicitur): lo scolio è praticamente riscritto per significare che la sententia del servo non si riferisce al personaggio che sta parlando ora (il padrone) ma si dice quotidianamente (perché ha valore universale). A mio avviso, non c’è alcun motivo per non stampare il testo ad personam domini così come tràdito da KΣ e presupposto, a ben vedere, anche dalla stringa corrotta di A; inoltre persona seguito dalla specificazione del ruolo del personaggio ha molti paralleli in Don., cf. Ad. 234: Nam non conuenit personae lenoniae damna contemnere; Ad. 287: uolunt quidam et hunc Syri personae adiungendum; Ad. 419.1: ... artificiose igitur poeta subiecit ex persona serui, unde illum ad amaritudinem prouocet. Data dunque per difendibile la prima parte della proposizione (‘e non si riferisce al padrone che parla’), diventa possibile comprendere anche quanto segue: Donato sta spiegando che la sententia pronunciata dallo schiavo deve essere letta in riferimento a Panfilo (oggetto della narrazione) e non a Simone, altrimenti sarebbe stato alquanto sconveniente data la posizione pur sempre di subordine occupata da Sosia. Correggendo quindi quo in qua, in ripresa del femminile persona, si ripristina un testo pienamente sensato.

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Fig. 36: A, f. 10u

An. 57.3 Aut si ‘ad philosophos’, separanda erit locutio ... Ad philosophos in quanto epesegetico rispetto ad aliquod studium, e dunque rispetto ad un sostantivo neutro astratto, è classificato come uitium. Altrimenti, a detta di Donato, andrebbe costruita diversamente la frase ovvero con ad philosophos in rapporto asindetico ma parallelo ad ad aliquod studium. Anche se la protasi ellittica si ad philosophos sembrerebbe un di più, acquista senso se ri ripete e negatiuo quanto detto sopra, ossia: si ad philosophos 〈uitium non est〉. Questa formulazione si può comparare perlomeno con Don. Ad. 959.2.

An. 63.2 HIS SE DEDERE plus est ‘dedere’ quam ‘consentire’, quemadmodum in hostium potestatem †hostes† se dedunt. hostes] cruc. signaui: ciues Jakobi (coll. Sall. Iug. 91.5) || dedunt Λ: deducunt A: dederunt K: dedere ut δ

L’espressione impiegata da Ter. per descrivere il rapporto di Panfilo di fronte ai propri amici è plasmata sul linguaggio militare: dedo segna infatti la sottomissione ai nemici. Anche se qui risulta metaforicamente trasposto a descrivere un generico atteggiamento accondiscendente, conserva comunque una forza ed una sfumatura negativa, che un verbo come consentire, per esempio, non ha. A rendere più concreta la metafora bellica, Don. aggiunge una sorta di esempio, che secondo quanto stampa W. si sviluppa come segue: ... quemadmodum in hostium potestatem hostes se dedunt. Si tratta del testo tràdito, confezionato sulla base di Λ: dedunt infatti è la lezione dei recentiores (probabile congettura), da cui non ci si può staccare se si interpreta la proposizione introdotta da quemadmodum come un esempio generalizzante ovvero un exemplum fictum. La natura fittizia della proposizione introdotta da quemadmodum si perderebbe qualora si accettasse di stampare la forma del perfetto di do, così come sembra ricavarsi dagli altri rami della tradizione, e supponibilmente lettura di ω: dederunt (magari compendiata o comunque frutto di erronea individuazione di un compendio all’altezza della

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seconda d). Il perfetto trasformerebbe l’esempio in citazione: non mancano nel DC casi in cui quemadmodum venga per l’appunto impiegato nella funzione di marcatore citazionale (cf. Ad. 914.7: sic dicit q. supra; per q. supra con o senza citazione, cf. An. 29.4, id. Eun. 433.2; id. ibid 952.1, al.; An. 24.7: q. in Hecyra [‘...’]; Phorm. 215.2 q. Vergilius ‘...’). Se si abbraccia questa prospettiva, è però necessario intervenire su dederunt (tràdito da K e, come detto, probabile lezione d’archetipo) per leggere dediderunt, altrimenti la citazione stessa non avrebbe alcun senso: Don non sta commentando dare ma dedere. Da questo ragionamento si può dunque concludere che la soluzione più economica e testualmente efficace consiste nell’accettare il dedunt di Λ, con la chiara consapevolezza che si tratta di un emendamento. La confezione di questa coda esegetica presenta ancora un altro problema, ossia la ripetizione di hostes, che può risultare fastidiosa: ci si aspetterebbe, all’interno di un Paradebeispiel, un’opposizione canonica (i ciues che si consegnano ai nemici, per esempio), priva di particolari effetti retorici. Il poliptoto hostes hostibus non sarebbe privo di attestazioni, ma si tratta di contesti in cui a mio avviso non è negabile l’intenzionalità retorica: cf. Sen. benef. 2, 12, 2: quo (scil. more) hostes uicti hostibus iacuere; Liv. 34, 13, 6: nec iusta pugna hostes cum hostibus conferetis manus. I dubbi circa l’accettabilità di hostes si infittiscono anche a causa del precedente hostium: le cruces hanno funzione diagnostica perché non ci sono argomenti dirimenti per decidere se hostes vada semplicemente espunto, se nasconda invece homines, omnes, ciues, oppidani (con i primi due che avrebbero il vantaggio di essere più vicini paleograficamente alla forma tràdita). JAKOBI suggerisce ciues sulla base di un passo sallustiano che l’exemplum sembra vagamente ricordare: si tratta di Sall. Iug. 91.5: ad hoc pars ciuium extra moenia in hostium potestate coegere, uti deditionem facerent.

An. 64.1 EORVM OBSEQVI S. ‘commodis eorum’ scilicet. commodis eorum Zeunius: com(m)odior ω: commodiorum Steph.

Il testo dei manoscritti è evidentemente corrotto; W. decide di stampare la soluzione dello STEPHANVS probabilmente perché è molto economica; tuttavia mi riesce difficile spiegare il genitivo: commodum ha senso come glossa epesegetica di studium, e quindi si richiederebbe il dativo plurale (si trovano molti paralleli scoli così strutturati, cf. Ad. 70.1, ibid. 119.1, ibid. 351.2). La soluzione di ZEVNIVS, dunque, risulta più persuasiva.

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An. 64.2 EORVM OBSEQVI STVDIIS talem esse Pamphilum adiuuat argumentum fabulae, simul et Charinum. Pamphilum] Pamphilus A: Pamphilem K || adiuuat] id iuuat K || simul et] si aud et A: si audiet (Rank 1925, 138–139)

Panfilo è dipinto da Simone come un ragazzo morigerato: riusciva a farsi apprezzare dagli amici, a coltivare i loro stessi interessi ma senza lasciarsi troppo soggiogare dagli altri. Ad An. 64.2 Donato sembra dirci che una tale caratterizzazione di Panfilo è funzionale rispetto all’argumentum fabulae (‘giova al racconto’), ed aggiunge, un po’ ex abrupto, che a trarne vantaggio è anche Carino. Rispetto a questa osservazione sollevò qualche dubbio già HARTMAN (1895) 128, che però lo risolse con un minimo sforzo interpretativo: se Panfilo infatti non fosse stato di carattere così mite, probabilmente sarebbe nata una qualche rissa fra i due ragazzi. Con questa spiegazione sono sostanzialmente d’accordo, ed anzi aggiungerei che sembra entrare in gioco la categoria del ‘verisimile’: se Panfilo non avesse avuto la fama di essere una persona comprensiva, sarebbe stata alquanto inverisimile la richiesta avanzatagli da Carino di annullare il matrimonio in nome dell’amicizia (sul buon carattere di Panfilo si ritorna spesso nell’Andria, cf. per esempio An. 98, ibid. 466, ibid. 487). Per quanto l’eccesso di sinteticità rischi di rendere la formulazione criptica, non c’è bisogno di intervenire sul testo, come fa RANK: la sua correzione prende spunto dallo stato testuale del solo A (propone di leggere si audiet in luogo di simul et), peraltro con ripercussioni stemmatiche di un certo rilievo: creerebbe un forte accordo KΣ in innovazione, non spiegabile in termini di poligenesi.

An. 69.2 INTEREA MVLIER quaedam sic dixit 〈non〉 quasi ignoraret nomen eius paulo post ‘Chrysidem’ nominaturus, sed ideo, ut gratam expectationem faciat simulque auidum lectorem nominis audiendi reddat, ut Vergilius [paulo post nominaturus] ait (Verg. Aen. 2, 57–58) ‘ecce manus i. i. p. t. r. p. paulo2–nominaturus2 deleui, post post add. Sinonem Jakobi, fort. recte

Ε’ stato messo in evidenza come Ter. fin dal titolo stesso abbia creato volutamente delle ambiguità iniziali sul ruolo e l’identità di Criside e dunque anche di Glicerio (cf. AUHAGEN 2009, 256–257); questa ambiguità continua ad essere sviluppata anche nel racconto di Simone, e si fa forza su noti espedienti retorici quali appunto la Retardierung: l’anziano padre menziona l’etera già al v. 69, designandola va-

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gamente come mulier quaedam e costringendo lo schiavo a riferirsi a lei come Andria; il nome viene esplicitato poi al v. 85. Per questa tecnica Don. individua un parallelo nell’episodio di Sinone, così come lo struttura Virgilio (Aen. 2, 57–58): anche in questo caso infatti si fa riferimento a Sinone al v. 57 come “il giovane dalle mani legate dietro la schiena” e si esplicita il suo nome solo dopo più di venti versi (79).261 Donato spiega quindi che Simone non si era dimenticato del nome di Criside, visto che lo nomina poco più tardi, ma il ritardo serve a creare attesa nel lettore, come il passo di Virgilio preso in considerazione; da un punto di vista testuale l’espressione paulo post nominaturus è comprensibile rispetto a Terenzio, ma, così come tràdita, è poco perspicua quando viene ripetuta in riferimento a Virgilio: il secondo paulo post nominaturus resta un po’ pendens perché non è perspicuo il contesto citazionale e, nello specifico, di chi si sta parlando. A fronte di questa difficoltà oggettiva si può scegliere di integrare il nome di Sinone, come propone Jakobi. A mio avviso però, se per Terenzio paulo post è tollerabile perché fa riferimento ad un intervallo di 15 versi, in Virgilio i versi sono più di 20, per cui il paulo post rischia di diventare una forzatura; lo stimolo ad interpolare lo stesso giro di frase potrebbe essere sorto dalla necessità di meglio legare i due esempi tentando quindi di spiegare, ripetendo ad litteram la fraseologia precedente, i termini del confronto con Virgilio.

An. 77.3 ITA VT INGENIVM EST OMNIVM H. quanta defensio Chrysidis, ut quae antea fecerit, ipsius sint, quae postea peccauerit, naturae hominum adscribantur! h. scripsi: hominum h. (hoc K) AK: hominum Σ: hominum deinde questum cepit μ: hominum o Zwierlein

Su proposta di ZWIERLEIN (1970) 32 si potrebbe pensare di stampare o prima di quanta (= o quanta defensio); l’integrazione sarebbe in realtà indotta dalla presenza di h. (= hoc K) testimoniata dai soli AK, ed interpretabile come corruzione del semplice o. La presenza di o enfatizzante si può prendere in considerazione sul piano linguistico (nel DC sono contemplate entrambe le possibilità, con prevalenza di esclamative senza o, ma cf. Ad. 261.5: o miram amplificationem! [...]), ma preferisco tuttavia offrire una spiegazione alternativa in merito alla genesi

|| 261 Cf. Seru. Aen. 2, 57: ideo autem ‘iuuenem’ dicendo nomen suspendit, quo gravior narratio fieret, si ordine suo referrentur quae gesta sunt.

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della lettera h., apparentemente doppione abbreviato del tràdito e terenziano hominum, in un ramo dello stemma: in K, più raramente in A, si trovano spesso casi di doppi lemmi o doppie citazioni, in due diversi formati, sia estesi che puntati (un caso esemplificativo per K si individua ad An. 56.2: unaque m. D. Wess.: una Q M D A TF: una q m d miserrima dido K: u μ: u q m d cett.). La spiegazione per simile fenomeno è semplice: alle letterine puntate, in uso a Don. per abbreviare le citazioni, corrisponde la tendenza dei copisti al loro scioglimento, per recuperare la citazione nella forma estesa (operazione particolarmente facile e naturale quando il testo citato è il passo di Terenzio in esame, soprattutto se è vero che in certe fasi il commento fu trasmesso ai margini delle commedie), ed è pensabile che, almeno nei primi stadi di questo processo, la parola corrispondente all’iniziale da trascrivere per intero fosse esplicitata sopra la lettera stessa, in interlineo. A partire da questa configurazione si spiega la doppia citazione: non sempre i copisti successivi avevano la prontezza di capire che si trattasse della stessa parola e riportavano perciò tutto a testo, creando doppioni di diverso formato. Stante questa spiegazione, mi limiterei a stampare l’hominum del lemma come semplice h.

An. 81.1: PERDVXERE ILLVC SECVM inuitum isse Pamphilum his uerbis significat; ‘perducuntur’ enim necessitate coacti. Hoc etiam uerbum iudices pronuntiare solent. Panfilo non entrò nella casa di Criside spontaneamente, ma vi fu condotto dagli amici: questa è la tesi sostenuta da Simone. Secondo Don. la non volontarietà dell’azione sarebbe veicolata dalla scelta lessicale e dall’uso della diatesi passiva. La coda dello scolio, in cui si direbbe che perducere è un verbo appartenente al lessico giuridico, è stampata da W. così come tràdita; diversamente, già SCHOELL proponeva di leggere ludiones in luogo di iudices, mentre KARSTEN (1904, 309ss.), non spiegandosi il motivo per cui i giudici sarebbero soliti pronunciare il verbo perducere, integra apud prima di iudices: si presuppone quindi un accusato che tenta di difendersi facendo appello ad una causa di forza maggiore; in questo intervento è seguito da RANK (1925, 139–140).262 Letto come una dichiarazione di de–responsabilizzazione l’uso ‘giuridico’ del verbo acquista senso, ma è pur vero che si tratta pur sempre di un mero cambio di prospettiva: il verbo perducere poteva essere adoperato dai giudici in riferimento all’accusato per giustificare una pena ridotta (quia perducti sunt etc). || 262 A proposito di questo passo si veda anche HARTMAN (1895) 129ss.

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Quanto a pronuntiare, che Don. impiega per lo più in senso tecnico (cf. JAKOBI 1996, 8ss.), si trova attestato con iudices in almeno un passo tratto da Don. Eun. 331.2: et est ‘liquet’ uerbum iuris, quo utebantur iudices, cum amplius pronuntiabant, obscuritate commoti causae magis quam negotii simplicitate) La decisione di riproporre il corsivo di W., quindi alludendo all’origine spuria della nota, resta la più sensata nonostante qualche parallelo lessicale di un certo interesse.

An. 81.4: VNA ‘simul’, ut (Eun. 373) ‘una cibum capias’. et uel ut codd. Λ: id est A C2T: uel K: et C || capias s: capimus ω: capturus Goetz*: capturum in append. Wess.

La citazione di Eun. 373 (cibum una capias) è stata oscurata dalla congettura di GOETZ*, accettata a testo dal W. (una simul, idest: una cibum capturus), ma rinnegata nelle note a favore di un non molto lontano capturum. Lo scolio infatti si sviluppa chiaramente come spiegazione di una avverbiale, impiegato con il valore di simul; la presenza del verbo capio è dunque dirimente per l’individuazione di un passo in cui una è per l’appunto adoperato con la stessa funzione: Eun. 373. La compresenza di questi due elementi (una ed il verbio capio) illumina la confezione dello scolio scrostandola dai danni della tradizione. L’inversione di una e cibum doveva caratterizzare già l’archetipo ed in ultima analisi non si può escludere che sia da imputarsi a Don.

An. 83.4–5 HABET OBSERVABAM MANE utrum Pamphilum an 〈...〉? 5 MANE aduerbialiter 4 utrum Pamphilum an (om. CT) Γ CT: om. Fq Λ || post an exhib. illorum seruulos (cf. Ter. An. 83) Fq Λ, lac. signaui 5 MANE] om. AKCT An. 82–85 Egomet continuo mecum: ‘Certe captus est: Habet’. Obseruabam mane illorum seruolos uenientis aut abeuntis: rogitabam: ‘Heus puer, dic sodes, quis heri Chrysidem habuit?’Nam Andriae illi id erat nomen.

Simone, pur di sapere se il figlio è tra quelli che frequentano Criside, non si esime dallo spiare il ragazzo in segreto: segue l’andirivieni di servi uscenti dalla casa della meretrice fermandoli per chiedere informazioni.

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Lo scolio ad An. 83.4 è problematico tanto sul piano strettamente esegetico quanto su quello della tradizione manoscritta, e così come confezionato da W. (habet obseruabam mane utrum Pamphilum an illorum seruulos?) deriva dalla conflazione di due testi: habet obseruabam mane utrum Pamphilum an AK habet obseruabam mane utrum Pamphilum CT (= ϴ) habet obseruabam mane illorum seruulos Λ

Questa scissione solleva molti dubbi: se infatti, tenendo conto di entrambe le pericopi testuali, la caduta del secondo spezzone in AKϴ fosse stata imputabile ad un salto meccanico, la conflazione avrebbe avuto una sua ragion d’essere: la scissione fra manoscritti più affidabili da una parte e gruppo per eccellenza interventista dall’altra sarebbe stata, in ultima analisi, casuale.263 Ma, a partire da un testo quale quello di W., non si capisce perché sia caduta la coda dello scolio, illorum seruulos, in AKϴ, mentre Λ l’avrebbe conservata omettendo invece il resto; il sospetto nei confronti di Λ trova forza nel fatto, non secondario, che il suo testo (habet. Obseruabam, mane illorum seruolos) ripete semplicemente An. 83. Dal quadro ora delineato si deduce che la stringa di AKϴ è l’unica riconducibile con sicurezza ad ω, e che lo scolio doveva svilupparsi come un’interrogativa disgiuntiva, il cui primo membro è occupato da Panfilo ed il secondo risulta assorbito da una più o meno estesa lacuna, che non si esclude coinvolgesse proprio i servi. Il dubbio esegetico ha una sua plausibilità: nelle moderne edizioni si interpunge unanimemente dopo abeuntis, facendo di illorum seruolos l’accusativo retto da obseruabam, ma è anche vero che in un manoscritto privo di interpunzione i versi potevano essere gestiti in modo diverso, cioè interpungendo dopo mane e facendo di illorum seruulos l’oggetto di rogitabam. habet. Obseruabam mane. Illorum seruolos uenientis aut abeuntis rogitabam: “Heus puer …

Gestendo la sintassi in questo modo si comprende quanto sia lecita la domanda: ‘osservavo di mattina’. Chi? Panfilo o i servi? La domanda, accennata in AKϴ, ha dunque un senso. Intersecando il piano esegetico e quello della tradizione manoscritta, si è costretti a porre un segno di lacuna dopo an: è chiaro che il secondo termine della

|| 263 Ma anche in questo caso, non sarebbe proprio tutto pacifico: un saut du même au même porta alla caduta del secondo spezzone testuale e non del primo, come sarebbe avvenuto, presumibilmente, in Λ.

Andria, atto primo | 235

disgiuntiva non possono che essere i servi, ma è anche chiaro che il testo di Λ non è altro che un’interpolazione o, meglio, un’estensione indebita del lemma, mentre la parte di testo che seguiva an è irrimediabilmente perduta.264

An. 85.1 Est autem si audes, ut ‘scilicet’ scias 〈licet〉, nam delirant, qui σῶος ζῇς interpretantur ‘sodes’. delirant Jakobi (1996, 96): deliberat ω (delirat H)

W. accetta l’emendamento di e2 – ma la lezione risulta essere presente in almeno un codice di tipo Λ – e stampa delirat per l’insensato deliberat. Con questo intervento è costretto a riportare al singolare anche il seguente interpretantur (sic AKCT). Poiché quest’ultimo verbo è attestato al plurale nei codici più fededegni della tradizione e poiché deliberat è sicuramente corrotto, è più economico – come osserva JAKOBI (1996) 96, n. 249 – correggere deliberat in delirant piuttosto che adeguare interpretantur alla lezione che si corregge. Andrebbe anche osservato che, nei casi di polemiche esegetiche, Donato sembra preferire il plurale, cf. Don. Hec. 424.3 (Nam qui iungunt et sic legunt, errant et non intellegunt, id. Phorm. 160.1, al.).

An. 85.4, 88.1 85.4 85.4 … et simul celebrat nomen comoediae dicendo (v. 70) ‘ex Andro commigrauit’ et nunc ‘Andriae illi id erat nomen’. 86 ... 88.1 QVID SYMBOLAM DEDIT 〈...〉 sed subdistingue ‘quid’ ut sit uox quaerentis, quid dicat de Pamphilo. 85.4 nomen] nomen non ϴ || sch. 86 ante 85.4 in ω, transposui 88.1 ante sed lac. signaui || quid3 om. ϴ W.: 86 ... 85.4 … et simul celebrat nomen comoediae dicendo (v. 70) ‘ex Andro commigrauit’ et nunc ‘Andriae illi id erat nomen’. 88.1 quid symbolam dedit non ‘quid symbolam dedit ?’, sed subdistingue ‘quid’ ut sit uox quaerentis, quid dicat de Pamphilo.

|| 264 Donato poteva aver scritto an seruos, an seruulos, an amicorum seruulos, qui etc. Neppure sarebbe metodologicamente corretto integrare un testo guidati dall’idea che il seguito della disgiuntiva dovesse contenere un elemento tale da favorire un salto saut du même au même: trattandosi di una lacuna d’archetipo, la causa della caduta poteva non essere meccanica. Neppure sarebbe da escludere un guasto più esteso, tale da coinvolgere anche la stringa MANE aduerbialiter: la nota di commento appare infatti di una qualche ovvietà, inoltre aduerbialiter, che nel DC compare circa otto volte, è di tipo interpretativo: non descrive avverbi di fatto, ma parole o gruppi di parole che assumono una funzione avverbiale (cf. Don. Eun. 536.1; id. Phorm. 368.3).

236 | Commento filologico-testuale

An. 88 – 89: ‘Eho, quid Pamphilus?’ ‘Quid? Symbolam | dedit, cenauit’

Per Simone è molto difficile fare indagini su Panfilo senza destare sospetti: nei versi riportati l’anziano prova ad inscenare il suo dialogo con i servi degli amanti di Criside. La sua tecnica è quella di chiedere di Panfilo fingendo noncuranza. In ω ad An. 85.4 segue erroneamente An. 88.1 anziché An. 86: nella mia edizione l’ordine risulta normalizzato. An. 88.1 è interessato da un chiarimento in merito alla corretta distinctio uerborum con lo scopo di aiutare il lettore a orientarsi meglio sui manoscritti:265 non bisogna dunque leggere quid symbolam dedit come se fosse un’unica domanda, ma è necessario interpungere dopo quid, formando così la prima interrogativa; il quid, così isolato, potrebbe essere pronunciato dallo stesso Simone, a ripresa del precedente quid Pamphilus. Questo in sintesi sembrerebbe il contenuto del citato scolio, la cui confezione testuale, così come ipotizzata da W., risulta discutibile perché si lascia descrivere come un ennesimo tentativo di armonizzare differenti versioni testuali: quella di AK Λ con quella offerta da ϴ. [85. 4] nomen. [88.1] quid symbolam dedit sed subdistingue AK Λ [85. 4] nomen. [88.1] non quid symbolam dedit, sed subdistingue ϴ

W. combina il testo tràdito da AK Λ alla stringa non symbolam dedit del solo ϴ, il gruppo di manoscritti che, in base alla ricostruzione di W., e diversamente dalla restante tradizione, soffrirebbe della caduta del lemma. Nel DC, negli scoli che trattano la distinctio di un determinato passo, non è d’uso citare come ‘non’ bisogna interpungere, ma si presenta direttamente la scelta interpuntiva preferibile oppure – e questo accade non di rado – sono poste sullo stesso piano due diverse possibilità.266 Inoltre la formulazione non ‘quid symbolam dedit’, sed ... è alquanto sciatta: probabilmente Donato avrebbe, con più eleganza, invitato il lettore a non legare (iungere) quid con dedit, ma a separarlo in modo tale che etc. Chiaramente con la sua ricostruzione W. riesce a ricavare un termine da opporre al sed distingue, altrimenti problematico; ma il sed privo di una esplicita

|| 265 Ricordo che la distinctio è un momento fondamentale dell’esegesi. Per la classificazione delle tipologie di distinctio, cf. Don. ars mai. 612, 2 H.; per la discussione del metodo distinguendi donatiano, cf. JAKOBI (1996) 16–18. 266 L’unica eccezione si trova a Phorm. 298.2: il non, pur integrato dal W., è abbastanza certo; tuttavia si tratta di una pericope testuale più ambigua di quella che si esamina nel caso specifico, e quindi necessitante di un’ulteriore specificazione; a Ad. 259.2 si tratterebbe invece di una sezione spuria.

Andria, atto primo | 237

opposizione, pur potendo essere spia della caduta di una pericope testuale in AK Λ, non deve implicare l’accettazione acritica del testo di ϴ, che è un gruppo di manoscritti non estraneo alle interpolazioni o a configurazioni testuali definibili come ‘rabberciamenti’. A mio avviso deve essere avanzata un’altra possibilità testuale per lo scolio 88.1, e dunque un’altra ipotesi per la genesi del testo di ϴ: lo scolio 85.4 si conclude con nomen e l’abbreviazione per nomen è, in termini paleografici, molto simile a non; inoltre il nomen dello scolio 85.4 fa parte di una citazione da Terenzio (Andriae illi id erat nomen). Questo suo status particolare è ancor più rilevante per la genesi di quel non: le citazioni, soprattutto le ultime parole delle citazioni, sono per lo più puntate. Se in qualsiasi altro anello precedente ϴ nomen fosse stato scritto in questa forma, cioè ‘n.’, a maggior ragione il non di ϴ potrebbe essersi originato da una semplice dittografia, dove la seconda n. sarebbe stata sciolta in non da ϴ, forse proprio per creare un puntello all’avversativa che segue. Molto eloquente è, a questo proposito, la configurazione del testo in T:

Fig.37: T, f. 35r

In ϴ, quindi, non è caduto alcun lemma, ma, semplicemente si è originato un non di troppo prima del lemma. D’altronde se si pensa al testo di ϴ, così come ricostruito da W., a rigore il salto meccanico da dedit a dedit2 (o da symbolam a symbolam2 etc. etc.) non avrebbe potuto che comportare la caduta della seconda pericope testuale e non della prima, esattamente come accade nei restanti codici; in ultima analisi, se la caduta fosse stata innescata proprio dall’estrema somiglianza di nomen e non, comunque si sarebbe dovuta verificare la caduta della negazione.267 Che il sed incipitario sia problematico, è innegabile: pur non mancando, infatti, casi in cui sed introduce riflessioni un po’ ex abrupto (con un’accezione un po’ indebolita, cf. K–S. II, 76–77), la particella dovrebbe comunque scandire un || 267 A meno di pensare ad un recupero di una pericope marginale in archetipo: possibilità alquanto remota perché implicherebbe che questa pericope marginale si sia mantenuta in uno status marginale per vari passaggi, per essere poi accolta a testo solo da ϴ.

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passaggio di pensiero, all’interno di un discorso coerente. Nel nostro caso, poiché il sed segue immediatamente il lemma, si potrebbe difendere solo se si ritiene possibile ricavare dal lemma stesso il suo termine d’opposizione. Nel DC ci sono scoli in cui il lemma diventa parte essenziale del commento, in cui cioè il sed instaura un dialogo proprio con le parole di Terenzio citate nel lemma, come per esempio ad An. 798.5: PAVPER VIVERE sed ‘cognatorum n. c.’ est; Eun. 380.2–3: NE NIMIVM CALIDVM periculosum. 3. Sed melius ‘callidum’ legitur (cf. JAKOBI 1996, 40–41); Eun. 163.3: num ubi meam benignitatem sed ille benignus est.268 Ma in tutti questi casi è chiaro che si tratta di un’opposizione che riguarda i contenuti; l’unico caso in cui sembra riguardare la diortosi risulta alquanto dubbio. Salvare quindi il sed problematico alla luce di questi passi sarebbe una forzatura. Restano due le strade percorribili: o pensare che prima di sed sia effettivamente caduto del testo, in cui si diceva di non legare quid a dedit (ma, per le ragioni sopra esposte, non può trattarsi del non quid symbolam dedit di ϴ, la cui confezione tradisce una qualche forma di rabberciamento) o lo si dovrebbe espungere in quanto generatosi forse per dittografia del sub– successivo. Da un punto di vista metodico è preferibile la prima delle due ipotesi, perché l’espunzione di un elemento fastidioso sembra un intervento di comodo, che rischia di eliminare un problema di testo oggettivo, non improbabile indice di lacuna.

An. 90.1 COMPERIEBAM N. A. P. uide, si non patris uerba sunt et de rebus ueneriis circa filii mentionem agentis. filii ω: filium Rank (1925) 141–142

Simone sta raccontando lo svolgimento delle sue indagini per capire in che relazione si trovasse Panfilo con Criside. Dagli amici di Panfilo viene a sapere che suo figlio non intratteneva nessun particolare rapporto con la meretrice (v. 90: comperiebam nihil ad Pamphilum quicquam attinere). Lo scolio 90.1 mette in evidenza come è discreto Simone pur trattando una questione delicata, ‘venerea’.

|| 268 Qui il sed si giustifica solo se letto in stretto rapporto con il lemma ed il testo terenziano: Fedria fa notare a Taide quanto sia stato accondiscente nei suoi confronti e le chiede, quindi, perché ora è così preoccupata, se non pensi che la sua benevolenza si sia ad un tratto interrotta (num ubi meam/benignitatem sensisti intercludier?); il sed quindi oppone il sensisti all’est: Taide potrebbe anche pensare che Fedria non sia più benevolo, ma lui lo è di fatto.

Andria, atto primo | 239

HARTMAN (1895) 130, seguito da KARSTEN, si è pronunciato per l’espunzione del sopra citato testo in quanto contenutisticamente banale; per RANK, invece, la problemacità non riguarda il contenuto bensì la forma, infatti propone di emendare filii in filium per una presunta difficoltà individuata nella costruzione circa filii mentionem: “praepositionis ‘circa’ frequentissimus est usus apud Donatum. Quadragies quinquagiesve obvia fit vocula sed omnibus locis non nisi cum uno solo accusativo vel rei vel personae coniuncta”. Questa osservazione relativa all’uso di circa non è del tutto vera, infatti un caso di reggenza simile si trova a Ad. 152.3: seruat propositum circa aetatis ueniam. Inoltre la correzione di filii è ben poco economica se si considera che si dovrebbe far dipendere mentionem da agere. Di questo problema RANK è cosciente ma lo giustifica adducendo Liu. 7, 1, 3: Principio anni et de Gallis, quos primo palatos per Apuliam congregari iam fama erat, et de Hernicorum defectione agitata mentio. Il passo di Livio, anche a voler prescindere dall’uso del frequentativo agito, non può costituire un parallelo atto a giustificare il sintagma mentionem agentis: in quel caso si indica la messa in circolazione delle notizie relative ai Galli e alla defezione degli Ernici; inoltre agito, come messo in evidenza da OAKLEY a Liu. 6, 1, 11, è usato in senso tecnico, come verbo delle deliberazioni senatoriali. Di contro, il testo tràdito è, a ben vedere, difendibile: agentis regge de rebus ueneriis;269 circa filii mentionem è un’informazione essenziale, atta ad indicare che Simone riesce a mantenere un certo contegno anche quando menziona il figlio all’interno di un discorso sulle res uenereae.270 Si fornisce la traduzione dello scolio, così come tràdito: … vedi se non sono parole degne di un padre anche quando, nel punto in cui si menziona il figlio, sta trattando di questioni veneree!

An. 99.2 Et excusatio est, non esse stultitia falsum sed ‘〈fama〉 impulsum’. post falsum lac. stat. Wess.: et non dicit adductum suppl. Rabbow* || suppleui

|| 269 ago con de e ablativo equivale, sostanzialmente, al tedesco beschäftigen (sich) mit, cf. OLD 89.23. 270 Fino a quel momento, infatti, non si era fatta menzione del figlio; d’altronde sarebbe stato molto incauto da parte di Simone chiedere specificamente di Panfilo perché era sua intenzione non far scoprire la sua vera identità. Per il significato di circa in questo contesto, cf. ThlL III 1086, 75ss.

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Cremete, indotto dalla buona fama che Panfilo si era guadagnato presso il popolo, di sua iniziativa raggiunge Simone per accordare le nozze fra Panfilo e sua figlia Filomena. Don. individua nell’esplicitazione del motivo che avrebbe spinto Cremete a siglare tale accordo, ossia la fama, una sorta di scusa per il comportamento, un po’ avventato, del senex. Lo scolio ad An. 99.2 manca di un termine di opposizione: a falsum corrisponde per opposizione impulsum, mentre stultitia non è bilanciato da alcunché. Dunque, con pace del W., è da supporre che vada individuata una zona lacunosa prima di impulsum; considerata, inoltre, la struttura sintattica che soffre dell’assenza di un ablativo, ed in ragione dell’essenzialità concettuale di fama, ci sono elementi che rendono plausibile la sua integrazione a testo.

An. 105.3 O FACTVM BENE animaduerte ubique a poeta sic induci comicas mortes, ut cum ad necessitatem argumenti referantur, non sint tamen tragicae. nam aut meretrix sumitur aut senex aut de duabus simul uxoribus una uxor. Itaque huiusmodi obitus aut mediocri tristitia excipiatur aut etiam gaudio. excipiatur ω: excipiuntur P. Daniel

Un evento tragico, quale può essere la morte, in commedia è sempre funzionale al racconto, inoltre poiché coinvolge sempre o una prostituta o persone anziane o solo una delle due mogli, è solo parzialmente triste, anzi talvolta può essere accolta anche con gioia. W. accetta l’emendamento del Daniel (excipiuntur) sull’unanimemente tràdito excipiatur; KAUER (1911) 151 difende la lezione tradita da tutti i codici (e dunque anche da P), intendendo come parentetica la proposizione nam … uxor e giustificando il congiuntivo in coordinazione con la consecutiva sic induci ut. Questo anche a ragione del fatto che KAUER intendeva l’huiusmodi come strettamente legato alla parentetica (ove si elencano le possibili ‘morti comiche’): l’ipotesi è indubbiamente interessante, ma non priva di problemi. Non mancano in Donato parentetiche introdotte da nam (cfr. Ad. 61.3), ma far dipendere itaque … excipiatur dalla consecutiva è un’evidente forzatura: excipiatur è troppo lontano dall’ut consecutivo, mentre itaque marca l’inizio di una nuova movenza sintattica atta a riassumere le osservazioni precedenti (cf. HOFM.– SZ. II 513–4); quanto ad huiusmodi non è vincolante in nessun senso (‘una morte di questa tipologia’, cioè della tipologia definita poco prima). Nonostante queste obiezioni al testo del KAUER, l’excipiatur è difendibile se lo si intende come un congiuntivo indipendente, con valore esortativo: “dunque si

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accetti una morte di questo genere reagendo con solo un po’ di tristezza se non addirittura con gioia”. L’esortazione sarebbe infatti al lettore di Terenzio (che s’immagina un po’ turbato dal racconto di un funerale in una commedia), lettore con cui Donato già ha stabilito una comunicazione vivace e diretta per mezzo dell’imperativo iniziale animaduerte. Accettare la congettura del Daniel (facilior rispetto al testo tràdito) porterebbe ad un appiattimento sintattico non necessario.

An. 106.1 METVI A CHRYSIDE[M] ‘metuo illum’ dico, qui mihi ipse aliquid facturus est, ‘metuo ab illo’, cuius causa possum aliquid mali pati, etiamsi ipse in me nihil mali consulat. metuo2 Wess. in app.: timeo ω,Wess. in textu

Questo scolio accusa due problemi: il primo relativo al lemma, il secondo relativo alla pericope tràdita timeo ab illo. Nel corpo del testo, stando alla tradizione, si svilupperebbe un’opposizione semantica fra metuo con accusativo e timeo con ab e l’ablativo; il dubbio sollevato dal W. in merito alla necessità di correggere timeo in metuo merita di essere concretizzato in un emendamento: metuo e timeo sono entrambi costruibili con accusativo ed ab + ablativo, ma, se si lasciasse a testo timeo, l’opposizione delle due costruzioni sembrerebbe suggerire una vera e propria opposizione d’uso sintattico: mentre metuo si costruisce con l’accusativo, timeo invece con ab e l’ablativo. Quanto al lemma, benché con ogni probabilità chrysidem sia la lettura di ω, più che di variante, si deve parlare di vero e proprio errore da scriptio continua (chrysidemetuo).

An. 106.3 BEASTI M. A. C. artificiose, quod gaudium subiecit, ne mors in comoedia luctu, 〈ut〉 in tragoedia, personaret. mors] mortis Schopen* || luctu Rank (1925) 143–144: luctus ω || add. Schopen* || tragedie A: tra sp. postp. F

La morte di Criside ed il suo funerale immettono un elemento di inevitabile tristezza all’interno della commedia, per cui Donato ne tenta, a varie riprese, una giustificazione: la strategia a cui ricorre l’esegeta è quella di metterne in evidenza i risvolti comici, fino ad enunciare le caratteristiche generali che deve avere una ‘morte comica’, ed anche la scelta di beo in un contesto del genere è da intendersi

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come deliberata, per sfumare un evento normalmente non felice con il rischio di uno sconfinamento di genere (da commedia a tragedia). Il verbo persono si costruisce con l’ablativo del suono che si produce (cf. OLD 1357.1, ThlL X.1 1733, 12ss.), e così lo si trova costruito anche da Don., cf. Ad. 773: qui aduersum temulentum tantae grauitatis oratione personat).271 Nello scolio in esame, però, da personaret sembrerebbe dipendere luctus, di difficile gestione sintattica: la sua problematicità aveva indotto già SCHOPEN ad emendare mors in mortis facendo di luctus il nominativo soggetto di personaret (‘per evitare che in commedia risuonasse il dolore della morte’). La proposta avanzata da RANK, consistente nell’emendare luctus in luctu, è non solo efficace ma anche molto economica.

An. 110.1 SIC COGITABAM [ac] si dixisset ‘hoc cogitabam’, sensum tantum cogitationis dicere debuit; sed quia ‘sic cogitabam’ dixit, ipsum gestum cogitantis exponit. Et dicitur μίμησις. Et–μίμησις α: Et–MIMεCIC; A: et dicitur postp. sp. KPΣ (idem postp. sp. T: om. nul. sp. ): Est igitur μίμησις Wess.

W. emenda il tràdito Et dicitur in est igitur, probabilmente perché infastidito dalla ripetizione del verbo dicere. Il testo tràdito, però, non solo ha senso, ma risponde di più alla consuetudine donatiana dove et dicitur, seguito o meno da figura, si trova in coda ad uno scolio per precisare la figura retorica che interessa il passo in esame: cf. Phorm. 125.2 (LEX EST alia causa narrationi interponitur. Et dicitur παρένϑεσις).

An. 113.1 HAEC EGO PVTABAM ‘putare’ est eius, qui simplicitate pectoris aberrauerit. Cicero (Lig. 30) ‘non putauit, lapsus est’. putare – aberrauerit] obliq. litt. scripsi || pectoris] cordis P || aberrauerit Γ Λ: oberrauit C: oberauuerit TFq || contra ante Cicero fort. supplendum? || non – est sic ω: lapsus est, non putauit Cic.

|| 271 Personare è usato in modo assoluto in Don. Eun. 530 (nam apparet inter haec uerba pulsatam ianuam personare).

Andria, atto primo | 243

Simone non coglie subito il particolare rapporto che lega Panfilo a Glicerio: pur avendo constatato di persona che il ragazzo si mostrava particolarmente affettuoso nei confronti di lei, pensava che un tale comportamento si potesse giustificare alla luce della sua nota benevolenza d’animo. Putare è un verbo legato al lessico agricolo: propriamente indica l’atto con cui gli alberi sono privati del fogliame non più produttivo (cf. ital. ‘potare’): così lo spiegano gli esegeti ed i grammatici antichi, cf. Seru. auc. Aen. 2, 522: aut certe ‘putabant’ cogitabant: unde et arbores putari dicuntur, quia diu deliberatur, quid eis adimi debeat, quid relinqui. Putare est et discernere et in partes redigere, inde ‘disputare’; Isid. orig. 17.5 Putare est uirgam ex uite superuacuam resecare, cuius flagellis luxuriat; ‘putare’ enim dicitur ‘purgare’, id est ‘amputare’. Dal discernere concreto passa poi a designare anche quello astratto, e dunque assume il senso di ‘pensare’, ‘ponderare’. Nel DC questa parabola semantica gode di buone attestazioni, tutte formulate in maniera sostanzialmente simile (cf. ad An. 442.1, ad Ad. 796.2, al.) ed il verbo si segnala per avere una sfumatura positiva (putare est enim falsa et cassa a ueris et utilibus resecare). Il passo che qui si prende in considerazione costituisce sotto molti aspetti un’eccezione: putare è infatti considerato negativamente, ossia come un allontanamento dalla semplicità del cuore; a questa osservazione segue poi una citazione da Cicerone (Lig. 10, 30) problematica sia per il testo in sé272 che per la sua connessione logica con l’affermazione precedente: in Cicerone viene rappresentata la possibilità di un’argomentazione sulla non volontarietà di un errore, motivandolo sulla base di una non oculata riflessione (ignoscite iudices, errauit, lapsus est, non putauit). Si deduce, perciò, che nel contesto della Pro Ligario il putare ha comunque un valore positivo. Confortata dalle oscillazioni testuali circa aberrauerit, dalla mancanza di paralleli nel DC, dove invece, come messo in evidenza, per putare si segue la tradizione etimologica normativa, nonché dal sapore vagamente cristianeggiante della formulazione, e dal fatto che si crea contraddizione con la citazione ciceroniana, sono propensa a ritenere spuria la sezione ‘putare’–aberrauerit. Va però anche notato che nel passo relativo di Ter. putare indica un processo mentale sbagliato, in opposizione, di nuovo, a Cicerone, per cui non è inverosimile pen-

|| 272 Problematicità che intacca spesso le citazioni, e dunque spiegabile all’interno dei noti errori citazionali.

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sare che l’interpolazione precedente abbia innescato un più vasto danno testuale, all’interno del quale il passaggio della Pro Ligario serviva a costituire un parallelo per oppositionem.273

An. 118.4 FORTE VNAM ASPICIO ADVLESCENTVLAM et hic duo sunt: aetas et forma, quibus additur pudor, quod meretrix non est. forma post adulescentulam add. Rank (1925) 144–145 Eugr. ad loc.: aspicio adulescentulam forma et hic similiter duo tetigit, et aetatem, quod adulescentulam dixit, et uultum, quod formam posuit.

Continua il racconto di Simone e la narrazione si concentra ora sulla scena del funerale di Criside: è proprio in questa occasione che Simone vede per la prima volta Glicerio nonché il particolare affetto del figlio nei confronti della ragazza. Il primo aspetto evidente è la particolare bellezza della fanciulla, mista però ad un velato pudore: … forte unam aspicio adulescentulam, forma…–SO: Bona fortasse? –SI: et uoltu, Sosia, adeo modesto. Lo scolio 118.4 registra una qualche discrasia fra lemma e commento: i due aspetti di cui Donato parla, cioè l’aetas e la forma, non sono individuabili nel lemma così come ci è tràdito: l’età è ricavabile dall’uso di adulescentula, ma manca nel lemma l’accenno alla bellezza fisica (forma). Accettare l’intervento suggerito da RANK, cioè rendere coerente il lemma rispetto al commento, prendendo spunto anche da Eugrafio, significherebbe accettare la tesi per il cui la lemmatizzazione sarebbe stata concepita solo ed esclusivamente in funzione del commento, e non a scopo puramente orientativo.274 || 273 L’aggiunta di contra o di qualsiasi parola in grado di segnalare un’opposizione, in una zona dove si individua un problema macroscopico come un’interpolazione, sarebbe ametodico, ma l’usus donatiano sembrerebbe richiederla, cf. Don. Eun. 297.1. 274 Intervenire sulle sezioni lemmatiche è sempre un’operazione rischiosa soprattutto perché non è chiara la loro funzione rispetto al corpo del commento: in merito a questo aspetto il dibattito vede fronteggiarsi due tesi diverse, ovvero quella di ERBSE (1953) 1–38 e quella di VAN THIEL (1989) 9–26, nate nel processo editoriale che ha portato alle ben note edizioni degli scoli dell’Iliade. Il primo riteneva che il lemma servisse semplicemente per indicare le parole o la frase presa in considerazione nel commento: di conseguenza lemmi eccessivamente lunghi, contenenti testo non pertinente, sono da espungere come estensione indebita avvenuta nel processo della tradizione. Il secondo, invece, assegnava al lemma una funzione soprattutto orientativa: serviva al lettore per orientarsi sul testo dell’autore per ritrovare il punto interessato dal commento. Naturalmente il problema è molto complesso ed articolato, ma penso che le argomentazioni di VAN THIEL siano molto persuasive (cf. anche JAKOBI 2005, 10]).

Andria, atto primo | 245

An. 120.1 ADEO MODESTO A. V. ‘modestus’ ad probitatem uultus et morum pertinet, ‘uenustus’ ad naturam corporis. Atque adeo uultum sibi fingere multi possunt, formam nemo. Adeo delendum esse suspicio

Dopo una riflessione generale relativa alla diversa pertinenza di modestus e uenustus si aggiunge una seconda considerazione priva di un particolare legame logico-casuale con la prima, che da un punto di vista funzionale si può dire precisi la differenza sostanziale fra volto e forma fisica. Adeo potrebbe spiegarsi, in ultima analisi, in funzione enfatizzante rispetto all’intero enunciato (cf. ThlL I 612, 58ss.), e come tale è difendibile; certo è però che mi sfugge la necessità di porre enfasi su una frase tutto sommato secondaria, logicamente scollata dalla considerazione che la precede: il sospetto che adeo si sia originato a causa dell’adeo del lemma mi pare quindi lecito e meritevole di segnalazione in apparato.275

An. 127.3 Et bene ‘funus procedit, nos sequimur’ dixit quasi: post ipsum morituri. Vnde et ‘exsequiae’ dicuntur. Et1] om. P || dixit] inquit Λ || moritur C: moribus T || et2] om. ϴ

Il cadavere di Criside viene portato presso il sepolcro; Simone segue il funerale. Lo scolio 127.3 fornisce due informazioni: la prima riguarda un’interpretrazione secondaria e un po’ bizzarra della frase nos sequimur (sc. funus): ‘come se avesse detto: destinati a morire dopo di lui (= dopo il funerale?)’; la seconda informazione riguarda l’etimologia di exequiae.276 RANK (1925) 145, seguendo di nuovo le argomentazioni di KARSTEN, ritiene che quasi post ipsum morituri sia una aggiunta non donatiana, ed invidua inoltre una corruttela in ipsum, da restituire nella forma ipsi, attribuendo a post valore temporale (= postea). Contro l’idea di interpolazione si può obiettare che Don. ha una spiccata tendenza all’uso del participio futuro e che anche in altri scoli si possono riconoscere movenze sintattiche simili (cf. Don. Hec. 521: bene ‘ad me’ quasi litigaturum; id.

|| 275 Che con l’espunzione atque verrebbe a trovarsi davanti ad una semiconsonante non è un argomento dirimente perché, almeno stando alla tradizione, Don. presenta anche casi come Don. Ad. praef. I 4 (atque disiuncti), Don. Ad. praef. III 7 (atque contractior), etc. 276 Cf. MALTBY (1991) 216; ThlL V 2, 1846, 46ss.

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Phorm. 252.1: bene ‘adire’ quasi terribilem et pugnaturum; id. Eun. 592.1: et proprio uerbo quasi de nuptura dixit ‘accersitur’). Resta tuttavia un margine di problematicità in ipsum, che dovrebbe riferirsi al funus, laddove sarebbe stato più ovvio scrivere ipsam (“come a dire ‘moriremo dopo di lei’” e non ‘dopo di lui’ ossia dopo il funerale). Conserverei tuttavia ipsum perché Don. sta offrendo per l’appunto un’interpretazione metaforica del nesso terenziano nos sequimur (scil. funus), dove funus è di fatto l’oggetto del verbo.

An. 128.5 Et ‘sepulchrum’ dixit futurum [ut in quinto], non quod iam esset; ‘sepulchrum’ enim a sepeliendo dictum. Vergilius proprie (Aen. 6, 232–233) ‘at pius Aeneas i. m. s. i. s. a. u.’ ut in quinto ω (sic A ϴ: om. PK Λ ), om. iam uett. edd.: ut in VI (Aen. 6, 177) Schoell*

Isidoro (orig. 15, 11) opera una distinzione lessicale fra sepulchrum, tumulus e monumentum: sepulchrum deriverebbe da sepultum, tumulus fa invece riferimento alla tumens tellus, monumentum focalizza l’attenzione sulla finalità del luogo della sepoltura, cioè quella del ricordare. Quanto a sepulchrum, lo stesso Donato offre al lettore varie possibili etimologie: An. 128.2: sine pulchra re, An. 128.3: sine pulsu, An. 128.4: animae a uiuis sepeliri; poi continua facendo notare che, in questo passo terenziano, è usato impropriamente: Simone sta raccontando a Davo del corteo funebre per Criside, ad un certo punto dice ‘giunsi al sepolcro’, ma in quella fase della narrazione non c’era un sepolcro perché Criside non era stata ancora seppellita: infatti sepolcro si dice derivare dall’atto del seppellire. Subito dopo futurum, un ramo del Maguntinus, ϴ, ed un importante rappresentante dell’altro ramo, A, presentano una pericope di testo che, così com’è tradita, è priva di senso: ut in quinto; la stessa è omessa da KP e Λ. Ora, poiché l’ut in quinto è tràdito sia in A che in ϴ, dovrebbe risalire all’archetipo; resta vero però che l’omissione KP Λ non è congiuntiva: ognuno potrebbe aver eliminato l’ut in quinto indipendentemente, essendo questo un corpo testuale privo di senso.277 Partendo dalla costatazione che l’ut in quinto doveva essere in archetipo (lo si deduce dalla distribuzione della pericope nei due rami dello stemma), bisognerebbe interrogarsi sulla sua autenticità e sull’informazione che una pericope testuale di questo genere, in questo punto del testo, poteva veicolare. || 277 In casi di questo tipo si affacciano anche altre ipotesi: la stringa ut in quinto poteva per esempio trovarsi in archetipo in posizione interlineare, arbitrariamente accolta da alcuni e negletta da altri; la sua assenza in Λ potrebbe anche spiegarsi in termini di contaminazione con K (anche se di norma la contaminazione porta all’aggiunta di qualcosa o alla sostituzione).

Andria, atto primo | 247

Escluderei in prima istanza l’ipotesi che la stringa contestualmente insensata derivi dalla corruzione di un graecum: lavorare sui sinonimi greci di ‘sepolcro’ non porta a dei risultati soddisfacenti perché è evidente che il problema sollevato non riguarda una particolare sfumatura linguistica del sostantivo bensì un problema che viene a svilupparsi su un piano meramente narrativo. La forma ut in quinto senza (apparentemente) ulteriori specificazioni non potrebbe che essere un riferimento interno all’Andria stessa; il problema, però, è che in questa commedia (come, d’altronde, anche nelle restanti commedie terenziane) non compare nessun altro riferimento ad un sepolcro o simili; inoltre, dal punto di vista dell’usus, Donato, quando si riferisce alla divisione in atti o in scene, è solito specificarlo con la terminologia specifica (per scaena ed actus, cf. Don. Ad. praef. 3, 5; id. An. praef. 3, 1–2). Se il riferimento fosse ad un’altra opera o ad un altro autore,278 sarebbe consequenziale pensare che sia caduto sia il nome dell’autore che la citazione stessa; e lo stesso quinto potrebbe essere erroneo se si pensa che quinto non sia che la resa letterale di un numerale facile a corrompersi. Si aprono così diverse possibilità, ma la particolarità o, meglio, l’improprietà del sepolcro terenziano (una sorta di ὕστερον πρότερον in un’ampia accezione) sembra essere condivisa, in modo molto stringente, solo da un passo virgiliano, individuato da SCHOELL (Aen. 6, 176–177: haud mora, festinant flentes aramque sepulchri / congerere arboribus caeloque educere certant) e così commentato da Servio (ad loc.): aramque sepulcri … et aram, quae ante sepulcrum fieri consueuit, intellegere non possumus, ut ‘stant manibus arae’, cum nondum facta sit funeratio, quae praecedit sepulcrum. Probus tamen et Donatus de hoc loco requirendum adhuc esse dixerunt. Die Erklärung ist […] umstritten; schon Probus wußte nach Servius nichts Sicheres: de hoc loco requirendum adhuc dixit. Freilich der Sinn steht fest: gemeint ist die pyra, wie 215 zeigt, wo die Erzählung zu dieser Stelle zurückkehrt. […] Aber wie kommt ara zu dieser Bedeutung? […] es gibt dem Wort, um es von einer gewöhnlichen ara zu differenzieren, die nähere Bestimmung sepulchri: Grabaltar.279 NORDEN (1957) 186–187

|| 278 Ho provato a verificare l’uso di sepulchrum negli autori più citati da Donato: forse l’unico caso di una certa attinenza è il frg. 50 J. di Ennio: Neque sepulchrum quo recipiat habeat portum corporis etc. Il problema è costituito dalla quasi impossibilità di ricondurre ut in quinto a ut Quintus, anche perché Donato non cita mai Ennius come Quintus o Q. Ennius. 279 Sono citati poi una serie di brani passibili della medesima interpretazione (Ov. trist. 3, 13, 20; id. met. 8, 480). L’altare che fa da sepolcro è riconducibile, in ultima analisi, al simonideo βωμὸς δ’ ὁ τάφος.

248 | Commento filologico-testuale

Il passo di Virgilio fa riferimento alla morte di Miseno: i compagni, scoperto il cadavere, allestiscono, con dei rametti, l’altare del sepolcro. Servio nota che per aram non si può intendere l’altare solito, quello che si trova davanti al sepolcro, perché non è stata fatta alcuna processione funebre, nessun ‘rito’, precedente la sepoltura. Su questo punto però – continua Servio – sia Probo che Donato ritengono che la questione non sia del tutto pacifica. Il problema del passo è estremamente vicino a quello che si pone per Terenzio: in Virgilio si parla di aram sepulcri sebbene non ci sia ancora un sepolcro (e non c’è un sepolcro perché non è avvenuta ancora la funeratio); in Terenzio si parla di un andare al sepolcro sebbene il sepolcro sia ancora da farsi (il sepolcro implica, come già avvenuta, la sepoltura del cadavere, cosa non ancora verificatasi nel punto della narrazione di Simone). Le situazioni sono simili, l’uso di sepulchrum è improprio in entrambi i casi, ed in entrambi i casi ha evidentemente sollevato dei problemi negli interpreti antichi. Il residuale ut in quinto potrebbe essere quindi traccia di un testo più ampio in cui veniva discussa o perlomeno descritta la presunta improprietà terminologica facendo riferimento ad un caso analogo in Virgilio: Et ‘sepulchrum’ dixit futurum ut 〈Vir.〉 in sexto 〈‘aramque sepulchri’〉, non quod iam esset; ‘sepulchrum’ enim a sepeliendo dictum. Vergilius proprie ‘at pius Aeneas i. m. s. i. s. a. u.’.

Il dubbio sollevato da W. in merito a questo passo riguarda la sua non totale armonizzazione rispetto a quanto segue, cioè a Vergilius proprie, che farebbe piuttosto pensare che l’autore citato in precedenza non sia Virgilio. Questo non costituisce un vero problema: la seconda citazione è introdotta senza un nesso linguistico evidente, per cui non sembra problematico gestire le due citazioni con una logica oppositiva: anche Virgilio lo usa impropriamente in un passo ma propriamente in un altro. Il vero ostacolo a questa ricostruzione è invece dato dall’allontanamento del quod relativo dal termine a cui si riferisce, cioè sepulchrum: si dovrebbe in sostanza spostare l’esempio virgiliano dopo esset. La posizione di ut in quinto ha un effetto fortemente limitante rispetto a qualsiasi tentativo di integrazione proprio in ragione della posizione del relativo. A mio avviso, considerata appunto la posizione di questa stringa, i limiti imposti dal relativo, il probabile rimando ad un altro passo nonché la parallela (e forse molto nota) problematicità del passo virgiliano (Aen. 6, 177), messa in evidenza da Servio, non escluderei che in ut in quinto vada ravvisata l’annotazione di un lettore (ut V. VI), scritta tachigraficamente supra lineam e trascinata a testo: Virgilio sarebbe stato scritto in forma puntata (V.), quindi facilmente confuso con il numerale seguente che ne avrebbe generato o la caduta o la corruzione in altro

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(per esempio IN); la corruzione di un numerale è un fenomeno di elevata frequenza statistica. Alle cruces preferisco dunque l’espunzione.

An. 130 AD FLAMMAM ACCESSIT IMPRVDENTIVS inuenit affectum ... Sic Vergilius (ecl. 5, 20; 22–23) ‘exstinctum n. c. f. D. ... cum complexa s. c. m. n.’ flebant post D. fort. restituendum

Al fine dell’intellegibilità del rapporto commento–citazione, è difficile non pensare all’integrazione del verbo f(lebant) (cf. Verg. ecl. 5, 21) nel passo di Virgilio, usato qui come parallelo; se infatti è comprensibile che del v. 21 sia stata omessa la parentetica (uos coryli testes et flumina nymphis), il senso della citazione necessita appunto di un verbo, e questo a dispetto dell’alterazione metrica.

An. 139.2 QVID FECI QVID C. αὔξησις a maioribus ad minora. minoribus ... maiora ΓΘ: maioribus ... minora Λ

Il trittico feci commerui peccaui sembra essere inteso nel DCA come una αὔξησις ad minora poiché si attribuisce a facere, etimologicamente legato a facinus, il valore di ‘compiere un delitto’: questa interpretazione si estrapola con chiarezza dallo scolio 139.3 (... ‘feci’ quasi facinus dixit ... ‘commerui’ minoris culpae est, ‘peccaui’ multo minoris uel leuioris). Diventa perciò intuitivo che per restituire coerenza all’interno degli scoli ad An. 139 si debba stampare il testo di Λ a maioribus ad minora, in luogo di un più ovvio a minoribus ad maiora, letto da Γϴ e quindi, a rigore di stemma, da ω. Quella di Λ è una correzione ope ingenii, mentre la lettura di ω si spiega come un banale errore polare (come spesso accade per coppie antonimiche: si veda per esempio ad An. 435.5). In merito alla figura retorica dell’αὔξησις ad minora, cf. An. 236.5 (peruersa αὔξησις a maioribus descendens ad minora per amplificationem accusationis).

An. 146.4 SEDVLO quomodo ‘sedulo’ si negabat? An ‘sedulo’ σπουδαίως [id est simpliciter]? σπουδαίως scripsi (CQ 2017, coll. CGL 1907, 251): Sosi(a)e ω (ut Sosie ϴ): studiose Kauer (1911) 153: ὡσεὶ ἁπλῶς Rabbow* Schoell* || deleui (cf. Cioffi 2017) || idest] uel P || simpr in simpx corr. C

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W.: SEDVLO quomodo ‘sedulo’ si negabat? An ‘sedulo’ ὡσεὶ 〈ἁπλῶς〉 id est simpliciter? ὡσεὶ Rabbow: Sosie Γ Λ : ut sosie ϴ || ἁπλῶς add. Schoell || idest] uel P

Cremete, il padre della fanciulla promessa sposa a Panfilo, scopre che quest’ultimo ha un’amante e sfoga la sua rabbia con Simone, il quale si limita a negare (ego illud sedulo negabam). Gli antichi facevano derivare sedulo da sine dolo, quindi si potrebbe tradurre ‘sinceramente’, ‘senz’inganno’. Da qui la domanda dello scolio 119.4: come è possibile che dica sedulo se di fatto nega la verità? Non si può certo negare il vero con sincerità. Se si mantiene questa etimologia, la frase non ha senso, quindi è necessario proporne un’altra. In questo punto, tutti i manoscritti presentano, con minime differenze, il seguente testo: An sedulo Sosie (ut Sos– ϴ) id est simpliciter?

Sosie non ha chiaramente senso e WESSNER decide di stampare un testo risultante da un doppio intervento: la correzione di Sosia in ὡσεὶ (RABBOW) e l’integrazione dello SCHOELL, ἁπλῶς, immediatamente dopo. Un doppio intervento che presuppone dunque una mega corruttela innescata dal graecum. È chiaro che il testo così confezionato nasce in stretta connessione con il seguente id est simpliciter, ma è difficile individuarne un senso plausibile; inoltre sembra non cogliere la necessità (in alcun modo eliminabile) di offrire una lettura alternativa a quella presupposta nell’interrogativa (“perché dice ‘senza inganno’ se nega la verità?”).280 KAUER, giustamente, non è d’accordo con questo assetto testuale e propone di correggere il tràdito Sosia in studiose, sulla base di due glosse del Commentarius antiquior (cfr. SCHLEE, 133 e 139): ad Phorm. 453: sedulo] id est bono studio, sedulum studiosum dicimus, sine dolo ut Hieronymus ad Phorm. 1001: sedulo] studiose

Questa lettura lo costringe, però, a rivedere il significato di simpliciter che costituisce l’ulteriore coda esplicativa di ‘studiose’, attribuendogli il significato di geradeaus, rückhaltlos. Ora, prescindendo da quest’ultima considerazione lessicale, la proposta del Kauer merita attenzione: la nota a Phorm. 453, infatti, fa riferimento ad un contesto dialogico molto interessante, per certi aspetti affine a quello dell’Andria: || 280 An è molto indicativo in tal senso (cf. Ad. 32; Ad. 217.2).

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CRA: Ego, quae in rem tuam sint, ea uelim facias. Mihi si hoc uidetur: quod te absente hic filius egit, restitui in integrum aequomst et bonum, et id impetrabis. Dixi. DE: Dic nunc, Hegio. HE: Ego sedulo hunc dixisse credo; uerum itast; quot homines, tot sententiae; suos quoique mos. Phorm. 449–454

Egione sostiene che Cratino ha parlato sedulo, il che, secondo lo scolio, significa che ha parlato con impegno, con ardore. Anche qui sedulo dà una ben determinata caratterizzazione ad un verbo di dire. Ed a maggior ragione si adatterebbe il significato di studiose al sedulo dell’Andria, perché indicherebbe lo sforzo e la fatica con cui Simone nega le accuse di Cremete.281 Questa serie di dati favorirebbe l’emendamento del KAUER; restano però due punti problematici: la glossa successiva, id est simpliciter, crea una discrasia molto forte con il concetto immediatamente precedente e continua ad essere di difficile interpretazione nonostante lo slittamento semantico tentato dallo studioso tedesco: simpliciter in Donato, quando occorre in riferimento a verbi di dire, implica spiegare una qualche espressione in senso letterale (cfr. Phorm. 988.3: An simpliciter, quia qui resistit nec sequitur collo trahentem obtorto, repandum se facit et uentrem proicit, cum in uentrem feritur, currit et sequitur?); parlare simpliciter, inoltre, si oppone in modo netto al parlare εἰρωνικῶς. L’appiattimento semantico che ne consegue (sedulo – studiose – simpliciter) appare troppo artificioso: se, infatti, studiose coglie l’impegno di Simone nel confutare Cremete, il simpliciter non può nascere separatamente dall’equivalenza sedulo = sine dolo, proprio quella che Donato fa notare non adatta a questo contesto. Il secondo punto dolente riguarda la genesi dell’insensato Sosie a partire da un innocuo avverbio come studiose. Questi due problemi indeboliscono fortemente la soluzione di KAUER, a meno, certo, di pensare che la coda id est simpliciter sia seriore, apposta da un copista che evidentemente non aveva ben compreso il nodo problematico della questione: vero è però che intervenire duramente su

|| 281 Inoltre non si tratterebbe di una mera sovrainterpretazione degli scoliasti; sedulo contempla anche il significato di ‘attentamente’, ‘con zelo’, ‘diligentemente’, cf. OLD 1726.2. È peraltro ben nota allo stesso Donato in quanto presupposta, come ad Ad. 413.3: Et sedulo sine dolo, id est instanter, quia neglegentes dolosi dicuntur). Un altro dato, di cui tener conto, è quanto si dice allo scolio immediatamente precedente (il 119.3): EGO ILLVD SEDVLO quanto affectu pater factum quod viderat negabat! Con l’espressione quanto affectu si anticipa l’interpretazione di sedulo = studiose.

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id est simpliciter282 sulla base della sua incongruenza non con il testo tràdito ma con un emendamento, suona poco metodico.283 In base a queste osservazioni, la soluzione di Kauer resta interessante, ma non risolutiva. La mia proposta si basa sulla constatazione che sedulo nei glossari è reso dal greco σπουδαίως (cf. CGL 1907, 251), il cui ripristino in luogo dell’insensato Sosie ha due enormi vantaggi: permetterebbe di rendere coerente lo scolio sul piano dei contenuti, in quanto ha lo stesso significato di studiose (cf. LSJ, s.v. σπουδαίως), ma, a differenza di studiose, giustificherebbe molto meglio il corrotto Sosie, una sofferenza già d’archetipo. Inoltre, è pur vero che si ripropone, esattamente come per studiose, il problema della gestione della glossa id est sempliciter, ma proprio il graecum ne favorisce l’espunzione senza le riserve metodologiche sopra esposte perché ne illumina la genesi: questa coda incongruente sarebbe nata come un tentativo di resa (errata) della stringa greca, poi trascinata a testo.

An. 154 QVI IGITVR RELICTVS EST OBIVRGANDI LOCVS mire ‘obiurgandi’, tamquam non incensior patre in filium uideretur; nam supra commotus plus per ἀποσιώπησι significauerat. non incensior Rank (1925) 145–148: inincensor AP: incensor K: incensus Σ: mitis censor Kauer (1911) 154: ignoscentior Rabbow (prob. Wess.) || patre Rank (1925) 145–148: pater ω

Il ricorso al piano delle falsae nuptiae è topico: serve al personaggio del pater per appurare le vere intenzioni del giovane figlio dinanzi al concretizzarsi del matrimonio; nell’Andria, in modo un po’ eccezionale, Simone già sa che il figlio non vuole affatto prendere moglie, ma ha bisogno comunque di ricorrere alle falsae nuptiae perché, per poterlo punire, non può basarsi su una sua supposizione: ma ha bisogno di un rifiuto oggettivo ed evidente. Nei versi che qui ci interessano Simone sta appunto spiegando allo schiavo che, senza le falsae nuptiae, allo stato attuale delle cose, non sarebbe possibile trovare un modo per obiurgare il figlio senza incorrere in un mero processo alle intenzioni: se, per esempio, gli si facesse notare che non è corretto intrattenere

|| 282 Bisogna però ammettere che id est simpliciter si armonizzerebbe molto bene con la logica dello scolio se fosse apposto subito dopo il primo sedulo: quomodo sedulo, id est simpliciter, si negabat? 283 Un altro modo per salvare l’id est simpliciter richiederebbe la costituzione di un nuovo lemma con sedulo. Ma una glossa di questo tipo non farebbe altro che rendere esplicito un dato semantico già acquisito con la domanda quomodo-negabat.

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quel rapporto con Glicerio, potrebbe rispondere che, fino alle nozze, è giusto che abbia il suo spazio di libertà; il vero problema sorgerebbe nel caso in cui questo rapporto compromettesse le nozze stesse. In Terenzio la battuta qui igitur relictus est obiurgandi locus è senza dubbio di Sosia, ma se si legge lo scolio, così come W. lo ripristina seguendo RABBOW (tamquam ignoscentior pater in filium uideretur), sembra che sia il padre stesso a porsi la domanda: ‘scelta particolare quella del verbo obiurgare, come se il padre sembrasse più accondiscente nei confronti del figlio; infatti, poco sopra, il fatto di essere turbato era stato meglio veicolato per mezzo della reticentia’. Con questo assetto, il comparativo ignoscentior sembra avere come secondo termine di paragone ‘logico’ uno stato precedente in cui Simone sembrava maggiormente scosso, ma, a meno di pensare ad un errore interpretativo donatiano (come per esempio accade ad An. 346), questo assetto testuale non è difendibile; ad ogni modo, per la coerenza interna dello scolio, la possibilità di una diversa distribuzione delle battute per Donato è da escludere: pur essendo vero, infatti, che supra nel DC può far riferimento anche a battute molto lontane (con intervalli di anche 500 versi), in questo caso l’ἀποσιώπησις non può che indicare il v. 149, dove Sosia interrompe la sua frase dopo gnatum, e di fatto proprio qui Donato segnala la presenza di una ἀποσιώπησις; né, comunque, nei versi precedenti sarebbe individuabile un qualche fenomeno linguistico simile per Simone. In altri termini, il testo confezionato dal W. porta a delle conclusioni e a delle interpretazioni del tutto opposte a quanto recita il testo terenziano, per cui non è accettabile. Lo scolio si compone di tre parti: mire obiurgandi, tamquam […], nam […], ed apparentemente le ultime due sono legate da un più stretto nesso causale–epesegetico. Nonostante la maschera linguistica, che sembra individuare un legame logico–sintattico ben definito fra le tre parti, da un punto di vista contenutistico il senso di questa osservazione è sfuggente, come lo stesso RANK (1925) 148 notava: ‘Quonam vinculo logico nunc tres scholii partes iunguntur? Mire obiurgandi, tamquam ignoscentior (uel mitis censor) pater videretur’. Sed ex unico hoc verbo obiurgandi bis supra iam a patre indignato usitato minime cognoscimus eum ignoscentiorem vel mitem censorem factum esse.’ Ci sono dunque tre nuclei problematici ed è quindi opportuno iniziare dalla pericope meno sofferente (scandita dal nam) per tentare la ricostruzione di un senso globalmente coerente: è infatti un dato indubbio che commotus per ἀποσιώπησι sia il servo e non il padrone. Sul piano linguistico–semantico la ricorrenza in Don. del nesso plus significare ci permette di non prendere in considerazione un’ipotesi linguisticamente

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possibile ma problematica come può essere quella di intendere plus commotus284 come un comparativo perifrastico, cf. HOFM.–Sz. II 165–166; plus significat può avere come soggetto sia l’espressione o la parola che si sta commentando (Ad. 951.6) sia l’autore (o eventualmente il personaggio coinvolto) come si evince da Ad. 49.1 (plus autem significat quam si diceret ‘solus is est carus mihi’). L’ultima proposizione dovrebbe quindi intendersi come segue ‘infatti sopra, in uno stato di agitazione, (sub. Sosia) era stato più espressivo facendo ricorso alla reticenza’. L’aposiopesi come mezzo comunicativo più forte ed incisivo delle parole è un dato esegetico–interpretativo acquisito, cf. Phorm. 110.2 ἀποσιώπησις, quae succurit, quotiens uerba rebus minora sunt. Da questa lettura si ricava anche una seconda informazione: che in ultima analisi, non essendoci segnalazioni di cambi di soggetto, il soggetto della prima proposizione è pur sempre Sosia e che ci si stupisce che qui, al v. 154, Sosia parli di obiurgare quando invece prima non aveva trovato una parola commisurata alla gravità del comportamento di Panfilo. La soluzione più semplice ed economica consiste, come suggeriva RANK, nel leggere incensior patre: mentre Simone adopera il verbo obiurgare, Sosia lo omette, inizialmente, in aposiopesi, così dimostrando di essere più arrabbiato dello stesso Simone, perciò il fatto che ora Sosia dia una veste verbale all’idea della punizione che si meriterebbe Panfilo desta stupore, come se ormai, rispetto a 149, non fosse più arrabbiato di Simone nei confronti del ragazzo. Incensus adoperato come aggettivo nel senso di arrabbiato, irritato ha buoni paralleli (anche se non nel corpus donatiano), cf. ThlL VII 870, 37ss. Sosia è un liberto fedele a Simone, che fino ad allora l’ha trattato bene ed affrancato, per cui non desta stupore che possa disattendere le aspettative sulla figura del servo sempre pronto ad aiutare il padroncino; inoltre si tenga anche conto che si parla pur sempre di un’impressione–interpretazione senza riscontro reale, come appunto suggerisce il nesso tamquam + congiuntivo, cf. Ad. 579.2: Et mire se negat hominem, tamquam homo corde sit, non corpore; Eun. 569.3).

An. 181.1 SPERANTIS IAM AMOTO METV ista singula sunt. pronuntianda ante sunt add. Karsten (1911–12) 26

|| 284 Supponendo quindi un’inversione.

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La fattura dello scolio non è perspicua e la probabilità che sia da individuare una lacuna diventa forte soprattutto alla luce di diversi paralleli in cui l’uso di singulus si inserisce all’interno di riflessioni circa l’enfasi che dovrebbero acquisire singole parole o nessi, ricorrendo ad una particolare intonazione, cf. Eun. 467.4, 943.3, 986.1; Hec. 516.3; Phorm. 294.4. Non è però possibile stabilire se sia caduto, come suppone KARSTEN (1911–12) 26, il solo verbo pronuntio o se in lacuna sia da suppore un testo più ampio, che avrebbe spiegato il particolare effetto della battuta su un piano performativo o la particolare espressione facciale che doveva accompagnarla.

An. 200.3 Ergo sic intellege, quasi dixerit: ‘ea condicione’. dixerit KP Σ: diceret A: dicerit C (corr. C2)

Non ci sono motivi per stampare diceret del solo A come fa W. Tanto per ragioni stemmatiche quanto per il rispetto della consecutio, il perfetto dixerit è una lezione di netta superiorità, cf. Eun. 653.3, Hec. 742.2 (λιτότης est et ita intellegendum, quasi dixerit [...]; al.).

An. 204.2 Ergo cum admiratione ‘bona uerba’ inquit ‘rogo te’. admiratione Γϴ: admonitione Λ: adiuratione dub. Wess.

Simone minaccia lo schiavo, prima in maniera più velata, poi senza troppi giri di parole: Davo deve astenersi da qualsiasi iniziativa che danneggi il piano matrimoniale di Simone, altrimenti la pagherà a caro prezzo perché proprio in questo non tollererebbe di essere raggirato. Davo, con evidente ironia, cita una formula di derivazione religiosa (in merito alla quale si veda soprattutto BAGORDO (2011) 44–45, con cui invita il padrone ad abbassare i toni, a mostrare, per così dire, rispetto, come se l’insinuazione fatta nei suoi riguardi l’avesse profondamente indignato. Lo scolio 204.2 indica il modo con cui bona uerba r. t. sarebbe stato pronunciato: ebbene, proprio sulla modalità la tradizione si divide fra admiratio ed admonitio, quest’ultima stampata con qualche dubbio da W. A rigore di stemma si dovrebbe preferire admiratione, mentre admonitione di Λ ha tutte le caratteristiche di una banalizzazione; di conseguenza, basta dimostrare la difendibilità della lezione di Γϴ perché la si accolga a testo.

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Nel DC l’ammirazione, dunque lo stupore, è prevalentemente quello di chi si indigna (cf. Ad. 96.2: hoc cum admiratione indignantis est pronuntiandum; An. 843.1: cum admiratione uel magis cum indignatione); in taluni casi il senso di indignazione non è esplicitato, ma è comunque chiaramente presupposto (cf. Ad. 259.2: cum admiratione pronuntiabitur; An. 663.1: ‘Dauus’ cum admiratione pronuntiandum). Quello di Davo, dunque, benché artefatta, è comunque il senso di stupore di chi si indigna di fronte alle accuse mossegli: in questo senso admiratione mi pare pienamente accettabile.

An. 205.1–3: 1. NEQVE TV HAVT DICES TIBI NON PRAEDICTVM duae negatiuae unam consentiuam faciunt; tres negatiuae pro una negatiua accipiuntur, ut hic ‘neque haud non’. Sallustius (Hist. 4, frg. 31R.) ‘haud impigre neque inultus occiditur’. 2 Vera ergo lectio est ‘neque tu haud dicas’, quod plurimi non intellegunt 〈qui〉 ‘hoc dicas’ legunt. – 3 NEQVE TV HAVT DICAS TIBI NON P. uera lectio ‘neque haut dicas’ –: est enim quintum παρέλκον. Plautus in Bacchidibus (frg. 9 L.) ‘neque 〈id〉 haud subditiua gloria oppidum arbitror’, Sallustius (Hist. 4, frg. 31R.) ‘haud impigre neque inultus occiditur’. 1 haud secl. Vogel* coll. Floro 1, 38, 18 (Rex … dimicans inpigre nec inultus occiditur), sed cf. Heraeus (1891) 501sq. || impigre ϴ: inpigro A: inpingere ut uid. K: impune uel impugne codd. Λ || neque] post haud2 transp. β || multus A 2 tu haud AK: haud tu Σ || quia ϴ || plurimum ϴ || intelligitur ϴ: intelligentes Steph. || post intellegunt suppl. qui Prete (prob. Jakobi 1996 p. 37, n.105), cum Wess. || post neque suppl. id Ritschl || haud G: hoc ω || arbitror oppidum Λ || Sallustius – occiditur AK: om. Σ (cf. Jakobi 1996, 36–37) || multus A: uultus K

Solo grazie al DC viene preservata in questo punto la fattura corretta del v. 205: neque tu haud dicas tibi non praedictum, una perifrasi enfatica con cui Simone chiude le sue minacce (‘perché tu non dica che non ti era stato preannunciato’). La tradizione diretta, infatti, banalizza haut in hoc eliminando la negazione che ad una prima lettura poteva apparire di troppo; nel DC c’è traccia anche di questa variante, che probabilmente aveva acceso un certo dibattito esegetico, come si intravede sia nell’atteggiamento ‘difensivo’ assunto da Don. nei confronti di Terenzio sia dall’esplicita accusa verso quanti accolgono hoc in luogo di haut. La conservazione di haut è argomentabile, secondo Don., sulla base della regola che in latino la doppia negazione afferma ma la triplice negazione nega, per cui quello di Terenzio sarebbe solo un enfatico giro di parole in luogo di un’unica negazione (ma questa lettura, vera su un piano astrattamente grammaticale, dif-

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ficilmente si può accettare per il senso richiesto da questo passo); a questa giustificazione segue una seconda: si può intendere neque haud come una forma pleonastica (παρέλκον) per il semplice neque (e così la si interpreta oggi nella letteratura sul passo in questione: fra tutti cf. HOFM.–SZ. II 453). Come esempio della predetta regola delle negative, si cita un passo di Sallustio (Hist. 4, frg. 31 R.) – haud imprigre neque inultus occiditur – a sua volta di non pacifica interpretazione: se in–pigre fosse da leggere nel suo senso etimologico ‘non con pigrizia’, allora haud non impigre indicherebbe qualcuno che si lascia uccidere senza opporre resistenza, ma che stranamente viene vendicato; più logico sarebbe invece prendere in come prefisso rafforzativo, in modo che risulti invece descritta una morte eroica. È stato messo in evidenza che uno stesso problema intacca anche Liv. 32, 16, 11: oppidani primo haud (sic B ψ: om. L2: ut φ: haud ita EUSSNER) impigre (pigre WHITTE, EUSSNER: segniter H. J. M) tuebantur moenia; dein fessi uolneratique aliquot cum et muri partem euersam operibus hostium cernerent, 〈...〉 ad deditionem inclinarunt (cf. BRISCOE ad loc.). Se il tràdito haud impigre significasse ‘senza coraggio’ (come per esempio in Sall. Iug. 101.6) il testo risulterebbe logicamente difettoso: gli Eretriani avrebbero difeso le mura della loro città in modo svogliato, per poi arrendersi; verosimilmente, invece, dovremmo avere prima una fase di strenua difesa e poi la resa. Per risolvere il problema, alcuni editori di Livio optano per l’espunzione di haud, così come aveva proposto VOGEL per il frammento di Sallustio citato da Don. Su questa questione mi sembra definitivo il contributo di HERAEUS (1886) 713– 720; (1891) 501–507, avallato anche da LÖFSTEDT (1959) 2, 215: il prefisso in– in alcuni composti aggettivali, e soprattutto se preceduto da particelle negative, perde il suo valore originario di negazione, per cui imprigre non sarebbe altro che una variante di pigre (molto utile e ricco ThlL VI 3, 2565, 1ss.) Ad ogni modo, come si concili il frammento di Sallustio con il discorso di Don. circa le negazioni è abbastanza oscuro: l’ipotesi più economica è che Don. stesse esemplificando il caso della doppia negazione che afferma, presupponendo per in– un valore negativo; Sallustio starebbe parlando di una morte non eroica che però viene vendicata: ‘viene ucciso senza opporre resistenza e vendicato’. Altrimenti si dovrebbe pensare che la citazione sia scattata per l’apparente triplice negazione haud … neque in–ultus, che però di fatto all’analisi grammaticale–sintattica non risulta una triplice negazione: neque coordina impigre e inultus, non si può leggere unitamente all’haud che ha senso solo in relazione ad impigre. La relazione fra regola delle negative e citazione esemplificatrice si capisce con affanno; se a questa oggettiva difficoltà si aggiunge il fatto che la citazione si trova ripetuta dal solo ramo Γ alla fine dello scolio 205.2 ovvero dopo la citazione di Plauto, merita allora di essere presa in seria considerazione l’ipotesi che

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l’esempio sallustiano dovesse essere stato impiegato originariamente solo per rendere conto della figura del παρέλκον. La prima occorrenza è dunque spiegabile come un’interpolazione stimolata dall’assenza di passi esemplificativi per la ‘regola’ delle negazioni nonché da una molto probabile cattiva lettura del passo sallustiano; la seconda occorrenza, cassata da W., e tradita solo da Γ, è invece più tollerabile: l’assenza in Σ si spiega con l’eliminazione deliberata di un doppione testuale. Lo scolio poi prosegue agganciando una considerazione di tipo filologico (205.3): neque haud dicas è la lezione originaria e sbagliano quanti invece preferiscono leggere neque hoc dicas. W. la stampa in corsivo probabilmente perché la ritiene spuria. Questa nota non è conciliabile con la riflessione sulle negative perché viene presa in considerazione solo la porzione neque haud e non neque haud non: sembrerebbe dunque più adatta per la spiegazione del nesso neque haud in chiave perissologica, così come si svolge nello scolio 205.2. Benché, comunque, uera ergo lectio sembri costruita sulla base di 205.2 uera lectio …, difficilmente si può archiviare come spurio lo spunto polemico quod plurimi non intellegunt, che sembra coerente con altri passi del DC in cui si fa menzione dell’altrui opinione, spesso accompagnata da considerazioni personali polemiche o consensuali, cf. Ad. 310.2, Ad. 679, Eun. 86, al. (a questo proposito cf. JAKOBI 1996, 37 n.105). Alla base di questo stato testuale è da individuarsi, con molta probabilità, una doppia redazione non perfettamente armonizzata, le cui fasi sono esemplificate da JAKOBI (1996) 37.

An. 206.2 ENIMVERO DAVE N. persona aut se ipsam populo commendat aut ab altero commendatur aut et ab altero et a se ipsa, ut hic ... persona aut Aϴ: persona K ε (ut uid.): aut persona Λ || aut1–commendat post commendatur exhib. ω, correxi || ipsa ϴ || commendat] commendatur ε || et1] ex A: om. T: sequi ε || post altero2 add. commendatur ϴ || et2] om. C W.: ENIMVERO DAVE N. persona aut ab altero commendatur aut se ipsam populo commendat aut et ab altero commendatur et a se ipsa, ut hic ... … persona aut ab altero commendatur aut se ipsam populo commendat aut et ab altero commendatur et a se ipsa ϴ … persona aut ab altero commendatur aut se ipsam populo commendat aut et ab altero et a se ipsa AK Λ

Quando l’assetto testuale apparentemente migliore è esibito dal gruppo ϴ si è sempre legittimati a dubitare che sia quello originario; in questo caso specifico

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sarebbero gli unici codici a conservarci il terzo commendatur, un’aggiunta molto facile per un copista attento all’andamento sintattico della frase. Lo stemma lascia quindi aperta una possibilità più elegante sintatticamente, in grado di dare ragione del testo corrotto di ω: in conseguenza di un salto innescato da aut, già in fase prearchetipale, sarebbe caduto lo spezzone se ipsam populo commendat, poi recuperato a margine, probabilmente con parola segnale: ω (o anche qualcuno prima) lo trascina a testo ma nel punto sbagliato ossia dopo ab altero commendatur (situazione specchiata da AK Λ). A differenza degli altri, ϴ disturbato dall’assenza di un verbo in diatesi passiva a reggere i due ab ed ablativo, di sua iniziativa lo supplisce, esibendo quindi il testo apparentemente più sensato e sintatticamente accettabile.

An. 221.2 mire a διηγηματικῷ ad μιμητικὸν transit. Entrambi i graeca sono ripristinati dall’editore francese STEPHANVS, i codici presentano la corrispondente forma latina, e per il latino si decide W., in modo non del tutto coerente con passaggi del DC analoghi, dove la coppia diegesi – mimesi è stampata univocamente in greco (mi riferisco a Don. Hec. 131.5: et sic in μιμητικὸν ad διηγηματικῷ transeundo; id. ibid. 805.1). Tracce di una scrittura in greco per l’aggettivo διηγηματικός sono rinvenibili proprio ad Hec. 131.5: nonostante in questa sezione il testimone più prezioso, A, sia assente, perlomeno in C e V (cf. W. ad loc.) lo stato della tradizione è tale da rendere probabile la ricostruzione di un graecum. Si tratta di un dato intuibilmente prezioso perché costituisce un buon precedente per le altre due menzioni del carattere diegematico, che i codici ci restituiscono soltanto nella forma latina (come noto, questo non è determinante: oltre alla latinizzazione a cui i graeca erano soggetti, soprattutto in casi come questo dove la conversione dalla forma latina a quella greca risultava automatica, bisogna immaginare che a monte di questa tradizione, in uno stadio antico, in corrispondenza delle figure grammaticali e retoriche greche fossero state apposte le relative glosse latine, che in fasi successive, con il progressivo deperimento delle stringhe di greco, sono state pienamente integrate a testo). Per l’aggettivo μιμητικός le evidenze sono invece meno problematiche: in greco è menzionato sicuramente in corrispondenza di Eun. 244.1. Tanto per ‘diegematico’ quanto per ‘mimetico’ Don. ha quindi fatto uso della terminologia greca; è chiaro che questo non ha un’immediata implicazione su tutte le loro occorrenze nel DC, perché non è possibile stabilire a posteriori se l’esegeta sia stato coerente in questa scelta, per cui accettare il testo di W. o a quello di STEPHANVS risponde ad un mero criterio di preferibilità.

260 | Commento filologico-testuale

An. 223.2/224.2 223.2 CHRYSIDIS PATREM †fama est […] 224.2 FABVLAE † redit ad narrationem. cruces statui

La sezione del commento relativa ai versi 223–4 è interessata da almeno due problemi, entrambi dovuti alla difficoltà di individuare un effettivo nesso logico fra lemma e spiegazione ad esso corrispondente: se si conserva il testo tràdito, a 223.2 si potrebbe pensare a fama est come un’indicazione di tipo sintattico: al 224 infatti Terenzio fa ricorso ad un infinito perfetto, parallelo a 221 ciuem esse ..., la cui reggente si trova al v. 220; in teoria, quindi, la proposizione di 224 poteva essere interpretata come manchevole di una principale. Questo ‘difetto’ sarebbe aggirato da Don. sottintendendo fama est. Meno giustificabile è il commento a 224.2 laddove si indica, in corrispondenza di fabulae, un ritorno alla narrazione, ossia alla diegesi: l’interruzione della parte mimetica e il ripristino della modalità diegematica (narrationem) avviene in corrispondenza di 223 ibi tum ... Chrysidis patrem (cf. 221.2). Entrambi gli scoli sono quindi problematici e l’intervento di JAKOBI, che prevede l’inversione dei due commenti, ripristina certo un assetto migliore, ma non si può tacere che fama est come glossa a fabulae è attaccabile nonostante il parallelo serviano di Aen. 5, 578: in Ter. fabulae è impiegato nel senso di nugae (‘fantasie’ in senso dispregiativo, dunque ‘frottole’); in Virgilio fama est serve a segnalare una narrazione mitica, una storia da cui il poeta prende le distanze (equivalente in sostanza a relata refero); nel commento di Servio, anche se è inequivocabile la sinonimia istituita tra fama e fabula, si contempla però per entrambe un senso un po’ diverso da quello richiesto da Terenzio, di semplice racconto non sempre coerente logicamente: fama est bene se fabulosam rem dicturus excusat: nam re uera nisi quae de gigantibus legimus, fabulosa acceperimus, ratio non procedit. 223.2 CHRYSIDIS PATREM redit ad narrationem … 224.2 FABVLAE fama est. JAKOBI Una seconda proposta di correzione arriva dall’HYPERDONAT e consiste nel leggere in fama il nome Phania, che è appunto il padre di Criside, qui taciuto (con la tecnica della Retardierung onomastica tipica di Terenzio) ed esplicitamente menzionato solo alla fine della commedia (cf. An. 928). L’idea è interessante, anche se le motivazioni addotte non sono persuasive perché si fossilizzano sul codice V: più semplicemente, la corruzione che da Phania porta a fama è non solo paleograficamente banale, ma anche documentabile nello stesso DCA (cf. ad An. 934.1). Resta però uno scarto grammaticale nell’uso dei casi non archiviabile: per scoli

Andria, atto primo | 261

propriamente glossematici è uso nel DC non spezzare la continuità fra lemma e relativa glossa, per cui in questo caso o si stampa Phaniam oppure l’emendamento non è accettabile. I problemi che pongono le due note, forse fra loro interdipendenti, tradiscono una sofferenza testuale che non sembra pienamente risolta dalle proposte avanzate, quindi preferisco adottare le cruces. Ragionando in termini speculativi, redit ad narrationem sembra essere una precisazione adatta al punto di incipit della sezione mimetica (An. 221.2); per il lemma fabulae, invece, ci si attenderebbe un commento di tipo lessicale, proprio perché acquista un’accezione particolare (cf. ThlL VI 26, 52ss.).

An. 229.1 SANE POL ‘sane’ multum, [alias] ualide; namque ualidus est qui multum rerum necessariarum habet ad salutem. [alias] ualide Wess.: alias pro ualide P (alias in fine lin., pro ualide in marg.): alias ualide Λ: alios A: alias K ϴ

Si tratta di un caso molto problematico da spiegare stemmaticamente, sebbene il testo costruito dal W. sia convincente. La tradizione – fatta eccezione di P che merita un discorso a parte – è sostanzialmente scissa in questo modo: i discendenti del Carnotensis ed un ramo del Maguntinus, ϴ, notoriamente il più importante, presentano alias che non dà senso; ualide, che si rende necessario a guardare la ripresa che segue (namque ualidus …), affiora solo nel gruppo Λ, dove convive però con alias. P è quindi l’unico codice optimus ad avere ualide, il problema è che si tratta di un’aggiunta marginale dislocata, con in più un molto sospetto pro.285 In generale e nel DC alias non introduce un semplice sinonimo, ma crea un’alternativa oppositiva (An. 346.4 ‘quin’ modo pro ‘immo’, alias ‘quare non’; Phorm. 225.2 noxiam nunc culpam, alias rem;286 ma soprattutto Hec. 459.4: sane hercle h. u. o. id est ‘satis’, ‘ualde’; nam qui sanus est, et ualidus est), e di certo un’opposizione multum–ualide è difficile da difendere. Più probabile che alias sia una glossa, un’annotazione erroneamente interpretata nei vari rami: o presuppone la presenza di una variante supra lineam in corrispondenza di ualide oppure potrebbe essere proprio la variante di ualide, originatasi come variante di lettura || 285 Pro ualide non sembra nascere in P come interpolazione intenzionale per completare alias: il segno che accompagna l’aggiunta indica infatti che questa dovesse essere collocata dopo namque, dove non avrebbe alcun senso. 286 Spesso alias viene opposto a nunc.

262 | Commento filologico-testuale

(essendo le due parole facilmente interscambiabili in scriptio continua, soprattutto in scrittura onciale). Quindi in Γ alias sostituisce ualide, nel subarchetipo Σ convivono entrambe, e la selezione sarebbe operata dai due rami; che entrambe fossero presenti già in ω non solo è ipotizzabile, ma trova un prezioso e concreto indizio nel codice P: pro ualide è un’annotazione aggiunta sì secondariamente, ma questo non vieta che si trovasse già in archetipo.287

Fig. 38: f. 9r

An. 229.2 TEMVLENTA producit primam syllabam ‘te’. producit ΓΛ: produc ϴ

Non c’è ragione di stampare produc con ϴ, come invece fa W.; producit si difende bene sia a rigore di stemma che per il parallelo di An. 496.4; la forma imperativa ha solo un’occorrenza ad Eun. 292.3.

An. 231.1 TAMEN 〈EAM〉 ADDVCAM redit ad illud quod 〈…〉 coacta. reddit ϴ || illum ϴ: aliud β || quod Γ: quia in ϴ: quod in Λ: quamuis Rabbow (prob. Wess.) || post quod lac. signaui, deest ex. gra. dixit ‘adduci iubes’, Archylidis cum Lesbia amicitia coacta … || coacta Γ: quo acta ϴ: cohata (cum praec. in coalesc.) uel sim. Λ || post coacta add. est Σ An. 228–231 Audiui Archylis, iam dudum; Lesbiam adduci iubes. Sane pol illa temulenta est mulier et temeraria, nec satis digna cui committas primo partu mulierem. Tamen eam adducam.

|| 287 Su questo punto qualche incertezza ricostruttiva è lecita: Λ potrebbe infatti aver attinto (dunque contaminato) dalla zona K.

Andria, atto primo | 263

231 tamen–adducam] interrog. fec. Ashmore Lind. Shipp

Glicerio è prossima al parto ed ha perciò bisogno di un’ostetrica; Archilide ha chiesto a Miside, in modo coercitivo, di recarsi a tale scopo da Lesbia; Miside in un colorito monologo non trattiene i suoi dubbi circa la scelta dell’ostetrica, una vecchia ubriacona, secondo uno stereotipo caro alla commedia. Lo scolio 231.1 prende in esame l’affermazione tamen eam adducam del verso 231 ma il suo contenuto è poco perspicuo: quamuis coacta è posto al culmine di un giro di frase tipico di quando si vuole fare riferimento ad un passo ben preciso, e W. lo pone fra virgolette come se fosse un’effettiva citazione, benché in Ter. non si legga nulla di latamente simile: “respicere uidetur u. 228, ubi tamen ‘quamuis coacta’ non legitur”, osserva KARSTEN. Questa confezione testuale è un tentativo disperato di dare senso ad una pericope tràdita in una forma non unanime nei vari rami, ed in tutti in modo insoddisfacente: quamuis è una congettura di RABBOW, accettata dal W., a fronte del quod di AKP Λ e del quia di ϴ; coacta, invece, è la lezione del ramo Γ, e probabilmente di ϴ, a fronte di inco(h)ata est di Λ, imputabile forse a congettura. Prima di stabilire il nesso sintattico che legherebbe redit ad illud a quanto segue, è necessario stabilire se il tamen eam adducam costituisca, per lo scolio, un ritorno all’obbligo di portare lì Lesbia (coacta) o, più in generale, un ritorno a quello che aveva detto all’inizio del monologo (incohata). La questione è decidibile su basi stemmatiche: qui la superiorità di coacta non è da mettere in discussione: si delinea così uno scolio utile a mettere in relazione An. 228 adduci iubes e An. 231 tamen adducam, che chiaramente lo riprende. Il testo di Γ però non regge a meno di integrare est dopo coacta, così come Σ, incorrendo inevitabilmente nel rischio di una banalizzazione, tanto più che il senso stesso dello scolio continuerebbe ad essere poco soddisfacente, al limite del lapalissiano. A questo si aggiunge una considerazione di usus da tenere in particolare considerazione: nel DC, il nesso ad illud quod (le sue varianti contra/propter illud quod) ricorre, in moltissimi casi, seguito da un verbo dicendi, come accennavo sopra, e accompagnato da citazione, secondo le seguenti formulazioni: ad/contra/propter illud quod ait /dixerat+citazione (cfr. ad Ad. 61.3; ibid. 139.1; ibid. 280.1; ibid. 640; al.). Lo stesso illud spesso svolge la funzione di etichetta introduttiva di citazione (cf. 51.1: necessario positum ‘is’ pronomen, ἀναφορᾷ ad illud ‘gnati uitam’; An. 279.1: non ordinem reddidit: ‘ferum’ enim reddidit ad consuetudinem, qua etiam ferae mansuescunt, ‘neque amor’ ad illud ‘inhumanum’). Confrontandoci con questi dati sembra intuibile la necessità di una citazione, che espliciti il legame tra il verso 231 in esame (tamen eam adducam) ed il verso

264 | Commento filologico-testuale

228 (adduci iubes), con la conseguenza di dover postulare per An. 231.1 una lacuna. Se in lacuna fosse solo la citazione del segmento di An. 228 che qui interessa, si potrebbe pensare ad integrare adduci iubes subito dopo illud, ma l’intervento non risolverebbe comunque il quod coacta e non farebbe che spostare il problema del tràdito quod coacta. A mio avviso, dunque, risulta difficile non leggere quod a ripresa di illud, ripristinando il nesso ad illud quod; lo stesso participio coacta in coda a questo scolio sembra difettare di un ablativo che lo specifichi: dopo quod è da individuarsi una lacuna comprendente un probabile uerbum dicendi e la spiegazione del perché doveva per forza chiamare Lesbia (e. gr.: tamen 〈eam〉 adducam redit ad illud quod 〈dixit ‘adduci iubes’, Archylidis amicitia cum Lesbia〉 coacta).

An. 236.1 HOCINE EST HVMANVM FACTVM A. I. hic inducitur adulescentis animus circa nuptias, ut ex magnitudine metus ingens gaudium comparetur in fine fabulae cognita Glycerio. metus Rabbow*: eius ω: aestus RANK (1927) 10–11

Il testo tràdito, per evidenti motivi di senso, non può essere accettato: l’elemento debole del periodo è l’eius che o può essere interpretato come una criptocorruttela oppure si deve pensare legato ad un sostantivo caduto per un qualche motivo. A fronte di questa situazione testuale, il significato complessivo dello scolio è chiaro: le nozze con Filomena, presentate come inevitabili ed imminenti, mettono a dura prova Panfilo; la fabula, però, si conclude nella piena unanime gioia a partire da uno stato di forte paura. W. stampa l’emendamento del RABBOW, metus, ma, più di recente, è ritornato su questo scolio anche RANK, proponendo aestus. Se da un punto di vista semantico si adattano entrambi al contesto (indicando, in linea generale, uno stato d’ansia e d’agitazione), la congettura di RANK è più debole dal punto di vista paleografico: se si pensa alla scriptio continua, la proposta di RABBOW è quasi palmare: magnitudinemetus letto come magnitudinem eius (lo scambio i/t è molto facile tanto in una scrittura maiuscola quanto in minuscola).

An. 236.7 HOCINE EST OFFICIVM ‘officium’ dicitur ab ‘efficiendo’, ab eo, quod quaeritur, quid efficere [in eo] unum quemque conueniat pro condicione personae. in eo seclusi: post quaeritur transp. Rabbow*

Andria, atto primo | 265

Ad. 69.2: ‘officium’ autem dicitur quasi efficium ab efficiendo quod unicuique personae congruat.

Panfilo è infuriato perché Simone gli ha combinato il matrimonio con Filomena senza il minimo preavviso: un comportamento del genere non è certo degno di un padre (“è questo il comportamento che un padre deve tenere nei confronti di un figlio?”). Donato discute l’espressione officium patris dando l’etimologia della parola officium, ripresa poi ad Ad. 69.2 ove si presenta con qualche variazione nella sola formulazione (‘officium’ autem dicitur quasi ‘efficium’ ab efficiendo quod unicuique personae congruat). Lo scolio dell’Andria, stando al testo unanimemente tràdito dai manoscritti, presenta qualche difficoltà: ‘officium deriva dal verbo efficere, dal fatto che si chiede ‘cosa a ciascuno in base alla propria condizione risulta opportuno fare in esso’. La difficoltà del passo è stata giustamente individuata nel sintagma in eo, che non ha palesemente senso lì dove si presenta nel testo: l’espressione efficere in eo (‘portare a compimento in lui’) è invece un sintagma attestato eminentemente nel linguaggio cristiano. Considerando dunque che il testo dei manoscritti è problematico, W. accoglie la proposta di RABBOW, cioè spostare in eo dopo quaeritur, interpungendo dopo eo.288 Si avrebbe dunque il seguente testo: officium dicitur ab efficiendo, ab eo, quod quaeritur in eo, quid efficere unum quemque conueniat pro condicione personae. Con la trasposizione il testo sembra apparentemente sensato, ma in eo continua a risultare sovrabbondante nell’economia dello scolio e privo di una reale sensatezza (‘… dal fatto che si chiede/si cerca in quello cosa a ciascuno convenga fare in base alla propria condizione’): il senso di in eo continua a essere sfuggente: non si cerca nell’officium ciò che è opportuno che ciascuno faccia, ma l’officium è di per sé il fare ciò che è opportuno in base al proprio ruolo Poiché in eo non aggiunge alcuna informazione utile alla comprensione dello scolio, poiché risulta, anzi, problematico da spiegare, e visto anche che il nesso efficere in eo è particolarmente diffuso in testi cristiani, non è impensabile che la soluzione migliore consista nella sua espunzione. Una soluzione, l’espunzione, che ci permetterebbe di evitare anche la ben poco elegante ed economica ripetizione ab eo … in eo, non adatta allo stile secco di un commento esegetico.

|| 288 In Donato il nesso quaeritur in eo non ricorre mai, segue direttamente l’interrogativa indiretta.

266 | Commento filologico-testuale

An. 239.1 NONNE … OPORTVIT quam de stomacho repetitum est ‘oportuit’! quam] o quam Σ: om. P

La variante può essere ritenuta sostanzialmente adiafora: o aggiunge semplicemente maggiore enfasi all’osservazione dell’esegeta. La tradizione è nettamente divisa e sarebbe preferibile intendere o come un’aggiunta di Σ piuttosto che come un’omissione di Γ.

An. 239.3 2 Et de more ‘praescisse me ante’. 3 〈PRAESCISSE ME ANTE〉 ‘praescisse’ proprie ad eum refertur 〈...〉 hoc est Pamphilus.. 3. praescisse me ante suppl. Wess. || precisse A || eum] reum coniec. Rank (1927) 12–13, an potius deum? || post refertur lac. agnou. Wess., dubit. an suppl. qui queritur || hoc–Pamphilus fort. secludendum || Pamphilus A: Pamphili K ϴ: Pamphilo P: ad Pamphilum Λ

Panfilo è in preda all’ira perché pretendeva che il padre lo informasse in tempo del suo proposito (praescisse me ante) e che non gli comunicasse delle nozze solo il giorno prima della loro celebrazione. Ad An. 239.3 si legge un’annotazione contenutisticamente discutibile e malamente tràdita: ‘praescisse si riferisce propriamente a lui, vale a dire Panfilo’.289 Che a voler essere informato relativamente alle nozze, con più largo anticipo, fosse Panfilo, è un dato chiaro e totalmente fuori discussione, per cui non si capisce il motivo di una simile esplicitazione; in secondo luogo, la stessa formulazione lascia perplessi, infatti, al limite, sarebbe bastato dire praescisse proprie ad Pamphilum refertur, senza troppi giri di parole; un altro elemento, che non si accorda con il contenuto effettivo dello scolio, è l’avverbio proprie, che solitamente introduce riflessioni condotte su un piano linguistico–lessicale (cf. Ad. 27.2, ibid. 99.1, ibid. 130). A questo si aggiungono due problemi di tradizione: assenza del lemma (per cui praescisse si lega senza stacco a 239.2) ed un sospetto quadro variantistico che interessa la coda dello scolio (lì dove si dovrebbe spiegare quello che è ovvio, cioè chi si intende per eum). W. sceglie di stampare la versione (rabberciata) di Λ, ad Pamphilum, che dà una coerenza sintattica rispetto ai restanti e più fededegni gruppi, dove il nome di Pamphilus si legge in una forma che necessita un qualche intervento.

|| 289 La traduzione presuppone la correzione in Pamphilum, naturalmente.

Andria, atto primo | 267

Neppure W. doveva essere molto soddisfatto della confezione ultima a cui era approdato se in apparato si chiede se non sia caduto qualcosa dopo eum, pensando a un qui queritur – che però non risolve nessuno dei problemi del passo né tantomeno quello del senso. Oltre KARSTEN, che si limita a definire lo scolio come inutile e quindi spurio, su questo scolio ritorna anche RANK nel 1927, con una proposta di un certo interesse. Egli ritiene che eum possa considerarsi una sorta di criptocorruttela per reum: il rapporto che si viene a creare fra Panfilo e Simone è molto simile a quello di un reus ed un accusator, infatti l’accusato, per potersi difendere in sede processuale, deve conoscere il capo d’accusa prima del processo. L’emendamento è suggestivo, paleograficamente ineccepibile, ma non mi persuade fino in fondo: 1.) Donato, facendo riferimento al monologo di Panfilo, parla di deliberatio in qua duae partes sunt (263.3), per cui il rimando all’ambito giudiziario–processuale sarebbe anche in parte giustificato; il problema è che il ruolo del reo non pertiene, in questo caso, a Panfilo, bensì al padre: principium ab inuectione est, in qua primo ut hominem accusat, deinde ut patrem (263.4); 2.) in secondo luogo, il passo di Cicerone addotto (Cic. Quinct. 9: Id accidit praetoris iniquitate et iniuria, primum quod contra omnium consuetudinem iudicium prius de probro quam de re maluit fieri, deinde quod ita constituit id ipsum iudicium ut reus ante quam uerbum accusatoris audisset causam dicere cogeretur) propone, sì, un parallelo per così dire ‘situazionale’ ma l’analogia non raggiunge il piano linguistico; 3.) non si risolve il problema del proprie: la proprietas è, nel DC, un fatto meramente linguistico: scelta lessicale adatta ad un particolare contesto o fatta in ottemperanza a iuncturae acclimatate (espressioni idiomatiche); non si adopera quindi in caso di analogie meramente situazionali.290 Dal ThlL (X 2, 818, 45ss.) si constata che, escluse alcune occorrenze portatrici di un significato neutro (‘sapere prima’ come qui o come Don. ad Eun. 110) e le poche che si riferiscono agli dei pagani (ThlL X 2, 819, 31ss.) praescisco è un verbo di impiego prevalentemente religioso, tipicamente impiegato per indicare una caratteristica propria del Dio cristiano, la praescientia. D’altro canto però l’aggettivo praescius, almeno a partire da Virgilio, entra a far parte del lessico poetico latino per descrivere detentori di poteri profetici (Verg. Aen. 6, 66; Ovid. fast. 6, 95; Sen. Ag. 319, ma anche Tac. ann. 6, 21, 3) nonché le stesse divinità (Ovid. met. 9, 418, Lucan. 2, 3; ThlL X 2,822, 21ss).

|| 290 Ad. 239.2; Ad. 295.1; Ad. 499.2, cf. JAKOBI (1996) 109.

268 | Commento filologico-testuale

Sulla base di queste considerazioni ritengo verosimili due ipotesi ricostruttive: la prima, che salverebbe la natura per così dire autentica dello scolio, comporta l’individuazione di una lacuna dopo refertur, che probabilmente riprendeva con una relativa l’altrimenti insensato eum, specificando la denotazione profetica–religiosa del verbo (ex. gr. ad eum qui diuina quadam potestate futurum scit), in un qualche modo poi ricollegato con Panfilo; la seconda ipotesi consisterebbe invece nel leggere in eum il residuo di deum, con due gravi conseguenze: ritenere spurio lo scolio ed interpolata la coda hoc est Pamphilum, probabilmente aggiunta dopo la corruzione di deum in eum. E per inciso, che il riferimento a Panfilo sia un’interpolazione mi sembra un’ipotesi valida anche nella prima delle ricostruzioni proposte perché il quadro variantistico sembra proprio delineare una situazione in cui una semplice glossa o aggiunta supra lineam venga calata a testo e solo da alcuni manoscritti resa compatabile al contesto: se si ammette la caduta di testo dopo refertur, diventa facile pensare che qualcuno sia stato stimolato ad interpolare il riferimento a Panfilo per non lasciare in sospeso eum. La prima ricostruzione è a mio avviso preferibile.

An. 241.1 QVID CHREMES transit a patre nunc et ad socerum. Redit τὸ ‘quid’ non ad Chremetem, sed ad aliud transeuntis [dicitur] 〈est〉 et non considerantis, quid dicat. et ad socerum Γ Λ: ad socerum ϴ: ad socerum. et Wess. || reddit T || to Γ ϴ: om. nul. sp. Λ || ad2] om. ϴ || aliud scripsi: illum ω || dicitur secl. Rabbow*: post Chremetem transp. Steph. || est add. Steph. (D teste Wess.): om. ω || non] cum C2: enim TFq W.: QVID CHREMES transit a patre nunc ad socerum. Et redit τὸ ‘quid’ non ad Chremetem, sed ad illum transeuntis [dicitur] est et non considerantis, quid dicat.

Dopo le accuse rivolte al padre, Panfilo non risparmia neppure il suocero per l’improvvisa e ingiustificata riapprovazione del matrimonio: Quid? Chremes, qui denegarat se commissurum mihi gnatam suam. Il quid non ha un vero e proprio significato, ma funge da mera pausa argomentativa, che scandisce il passaggio ad un altro pensiero (cf. HOFMANN 19533, 67; MÜLLER 1967, 47; RICOTTILLI 1978, 218ss.): così lo spiega anche Don. nel passo in esame, benché lo stato della tradizione appaia in più punti sofferente: transit a patre nunc et (om. ϴ) ad socerum redit ῾to quid’ non ad (om. ϴ) Chremetem, sed ad illum transeuntis dicitur et non considerantis quid dicat.

Andria, atto primo | 269

Se si interpreta et come semplice congiunzione si dovrebbe integrare un verbo che regga ad socerum, e che non si può ricavare dal seguito; da qui discende la decisione di W. di trasporre et prima di redit. A mio avviso si può difendere et lì dove tràdito interpretandolo come etiam. La seconda parte dello scolio è certo più ostica: non si capisce da chi dipendano i due genitivi, inoltre è disturbante la ripetizione a così poca distanza del verbo dicere. W. quindi espunge dicitur con RABBOW, ed accoglie una lezione da lui attribuita a D (ma che io ritrovo per la prima volta solo nell’edizione dello STEPHANVS): la scelta è condivisibile perché non solo altre gestioni della frase scolio porterebbero ad ipotesi ricostruttive meno economiche ma è anche possibile diagnosticare il motivo dell’interpolazione di un dicitur in quel punto. Una volta caduto est per aplografia, si sarebbe percepita la necessità di aggiungere un qualche verbo, soprattutto se la nota fosse stata così sintatticamente segmentata da far chiudere il primo periodo dopo redit (come a dire che ritorna a parlare del suocero dopo aver esaurito le accuse contro il padre —ipotesi di lettura che però non risulta possibile alla luce del testo di Terenzio).291 In merito al testo stampato da W. individuerei un punto ancora migliorabile in illum, in ultima analisi giustificabile in relazione a Cremete, ma che mi riesce difficile difendere in un giro di frase a carattere tipizzante e generalizzante come questo. In ragione del fatto che il quid segna una pausa, precedente un cambio argomentativo, preferirei correggere illum in aliud, forte anche di Phorm. 147.3 (animaduerte τὸ ‘quid’ secundum morem cotidianum tum dici, cum fit transitus a mentione alterius rei ad alteram).

An. 242.2 〈...〉 putauerat nuptias, et Chremem mutare sententiam. putauerat AK: parauerat Σ

Dopo una nota sull’uso di id e subito dopo la citazione della frase a cui id si riferisce, ω legge putauerat nuptias et Chremem mutare sententiam, da cui non si ricava un senso compiuto, neppure se in luogo di putauerat si preferisse il parauerat di Σ. La scelta fra le due lezioni è problematica perché non solo hanno uno stesso peso stemmatico, ma in assenza di senso non è possibile discutere la maggiore pertinenza dell’una o dell’altra. Ritengo tuttavia superiore putauerat, in quanto tràdito dai testimoni più affidabili, mentre parauerat appartiene ad un

|| 291 Per redit nel senso di ‘riferirsi a’, cf. Don. Phorm. 43.2.

270 | Commento filologico-testuale

ramo notoriamente più interventista, e non risulta improbabile che venga (più o meno intenzionalmente) restituita una iunctura particolarmente frequente. W., che a testo stampa parauerat, segnala una possibile lacuna prima del verbo; di contro gli antichi editori non sembrano percepire alcuna difficoltà, almeno fino a ZEVNIVS, che propone putauerat 〈ueras〉 nuptias: sed Chremem. L’intuizione dell’editore settecentesco è interessante, ed anche senza un ulteriore intervento sulla congiunzione il suo testo acquista un significato accettabile. In assenza di criteri minimi per stabilire l’entità del guasto, preferisco però seguire W. nella segnalazione della difficoltà, non risolvibile per mera via congetturale, citando la possibile integrazione di ueras in apparato.

An. 250.1 ... quid mulieris uxorem habes? mulieris Ter.: hominis ω

Panfilo crede che Cremete abbia veramente cambiato idea e che sia disposto a concedere di nuovo la mano di sua figlia, sebbene fosse al corrente della sua relazione con Glicerio. La conclusione che si trae è che Filomena sia un vero e proprio mostro, per il quale Cremete non riesce a trovare un altro possibile marito. La costruzione di (ali)quid con genitivo partitivo trova varie attestazioni in Ter., tra cui Hec. 643 (quid mulieris) come fa notare lo stesso Don. Questi subito dopo attira l’attenzione sulla lieve scoordinazione di genere monstrum – ea, per cui come parallelo si cita Eun. 695 dove compare monstrum hominis. Il passo di Hec. 643 è mal citato:292 in luogo del corretto mulieris si legge unanimemente hominis. Si tratta di un caso dove è complicato stabilire se l’errore nasca nella tradizione o se piuttosto sia da imputarsi allo stesso Donato: ammesso che Don. l’avesse citata nel modo giusto, sulla corruzione potrebbe aver giocato un ruolo importante il successivo hominis del passo dell’Eunuco. Nondimeno mi pare possibile che hominis in luogo di mulieris, alla presenza del successivo uxorem, si delinei come errore polare (per un altro errore polare, si veda poco sotto ad An. 251.2).

|| 292 Che ci si riferisca all’Hecyra si può ritenere sicuro dall’uso di alibi (‘altrove’ rispetto a Terenzio visto che non risultano citati altri autori). Tale precisazione era necessaria perché un’interrogativa molto simile (quid hominis uxoremne habes) si attribuisce a Cecilio Stazio (frg. 280 W.), ma alcuni (tra cui RIBBECK) ritengono che si tratti di qualcosa di spurio.

Andria, atto primo | 271

An. 250.3 ALIQVID M. A. EA dum ‘monstrum’ dicit, ‘ea’ subiunxit tamquam non uerbis sed sententiae seruiens. dicit scripsi: dixit K Σ: dixerat A (prob. Wess.)

Già JAKOBI (1996) 83, n. 218 aveva avanzato seri dubbi su questo scolio, in cui sarebbe da ravvisare un’annotazione di qualche studente con velleità grammaticali: certo è che Don. non avrebbe impiegato dum in nesso con il piuccheperfetto indicativo, bensì con il presente indicativo (cf. Don. Ad. 891.2: dum dubitat et inquirit, inhaesit pronomi, id. Hec. praef. 2, 9, al.)293 Le strade percorribili sono quindi due: o si lascia il testo così come tràdito, ma si segnala la sua natura spuria, oppure è necessario intervenire sulla forma del verbo dicere. A mio avviso questa risulta essere la scelta più economica: il dixerat stampato da W. è infatti lectio singularis di A, mentre l’archetipo leggeva verosimilmente dixit (K Σ), forma la cui interscambiabilità con il corrispondente presente è sempre statisticamente alta. Arginato l’imbarazzo grammaticale, pur con le dovute e giuste riserve espresse da JAKOBI (op. cit.), non avanzerei altri interventi.

An. 251.2 Plautus in Pseudolo ‘itur ad te’ et Vergilius (Aen. 9, 423–4) ‘simul ense recluso ibat in Euryalum’ proprie me ω, correxi

La posizione di proprie a fine scolio è quantomeno non usuale, come mostrano le occorrenze interne (An. 128.5, Ad. 794.4, al.).

An. 257.1 AVT VLLAM CAVSAM L. S. F. duo sunt in defensione: aut uera aut ad tempus 〈ac〉commodata. sunt scripsi: tempora ω: temptantur Rank (1927) 14–15: patent Rabbow (prob. Wess.) || defensione e2: defensionem ω || 〈ac〉commodata Heraeus (1903) 266: commodata Γ Fq: commendata CT Λ

|| 293 Di solito note con analoghe formulazioni prevedono cum + congiuntivo piuccheperfetto seguito dal perfetto (cf. An. 627.1: cum dixisset ... intulit).

272 | Commento filologico-testuale

Con un minimo di preavviso Panfilo avrebbe potuto trovare una qualche scusa, debole quanto si voglia, per evitare il matrimonio. Due, secondo Don., sarebbero le strategie in caso di difesa: dire la verità o dire quanto si adatta al momento. Il punto sofferente dello scolio è la pericope (forse un’unica parola), che segue il numerale duo: la tradizione manoscritta ci trasmette unanimemente tempora, che non dà senso. I tentativi di emendamento sono caratterizzati dallo sforzo di trovare un verbo piuttosto che un sostantivo; W. accetta la non troppo brillante congettura di RABBOW, patent, lontana dalla stringa che ci consegna la tradizione e con un significato non esattamente adatto a questo contesto. RANK (1927) 14–5, ritornando su questo passo, propone temptantur, ma la sua argomentazione rischia di non essere molto convincente perché i paralleli non sono esattamente stringenti benché il guadagno paleografico sia ovvio: all’esame dei paralleli addotti (Cic. Verr. 2, 27: neque nunc tam isti mihi Verrem defendere uidentur quam in Verre defensionis temptare rationem; id. Verr. 2, 5, 4: eadem nunc ab illis defensionis ratio uiaque temptatur) emerge la necessità di un sostantivo come argumentum, ratio o uia in nesso con tempto. Si veda anche Ad. 529.1: honestum temptet afferre argumentum; Hec. 383.6: temptat temporis longiquitate extenuare peccatum; Eugr. Phorm. 348. A fronte di emendamenti poco persuasivi è invece da notare che lo scolio, senza tempora, ha comunque pienamente senso e la sua formulazione (duo con apposizione che lo specifichi) rispecchia un uso non estraneo al DC (cf. in particolare Ad. 186.5: duo sunt quae fieri in placando solent: aut loqui aut tacere; An. 118.4, al.). Considerata la forza di questi paralleli si può sposare l’idea che tempora sia materiale sopralineare, il cui trascinamento a testo ha prodotto la caduta di sunt (duo sunt è infatti un nesso usuale, come si evince dai paralleli): la sottintesa genesi interpolativa di tempora può forse essere illuminata da un passo di Ad. 86.2, che si sviluppa in modo molto simile (omnis accusatio duo tempora recipit: praeteritum ab ante gestis et praesens ab his quae obiciuntur). Secondariamente si potrebbe giustificare tempora anche come vera e propria corruzione di sunt dovuta all’influenza retroattiva del successivo tempus. In merito al secondo intervento, la correzione di commodata in accomodata proposta da HERAEUS, si giustifica sulla base di un parallelo stringente del DCA, ossia An. 960: accommodata ad tempus, nonché Don. Phorm. 57.1: accommodatis praesertim ad uultum uerbis.

Andria, atto primo | 273

An. 267.2 ... difficile est inuenire aliud uerbum, quod sic declinetur: ‘salue’ et ‘saluere’, quippe huius uerbi per modos rara est declinatio saluere A: saluare ϴ: saluete K Λ (prob. Wess.)

In termini stemmatici un accordo Aϴ ha maggiori probabilità di rispecchiare l’archetipo che non K Λ; è inoltre noto che il verbo salue difetti non solo nelle persone ma anche nei modi e proprio a quest’ultima difettosità sembra far riferimento nel seguito (per modos), per cui non ci sono motivi per preferire qui saluete a saluere.

An. 268.1 LABORAT EX DOLORE duplicem laborem Glycerii esse dicit: unum partitudinis, alterum curae et sollicitudinis Pamphili nuptiarum. partitudinis] partus et egritudinis Λ (prob. Zwierlein 1970, 149)

La strategia adottata da Miside è enfatizzare lo stato di spossatezza fisica e psicologica della padroncina, di cui Panfilo, se non in tutto, è certo la principale causa. In corrispondenza di partitudinis, il gruppo Λ presenta la variante partus et egritudinis, che ZWIERLEIN (1970) 149 ritiene genuina e superiore rispetto al testo della restante tradizione: partitudinis sarebbe, perciò, una variante d’archetipo che, sorta in corrispondenza di aegritudo, finisce per sostituire l’originario partus et egritudinis; la genuinità della lezione Λ sarebbe garantita dalla sua presunta superiorità: creerebbe una struttura perfettamente parallela rispetto al successivo curae et sollicitudinis, difficilmente imputabile ad un interpolatore.294 L’efficacia del testo di Λ è fortemente intaccata da almeno quattro considerazioni: nel DC sono rinvenibili esempi in cui lo sviluppo sintattico per cola paralleli è evitato (cf. per esempio An. 289.3: fidei et foederis membrum et manum conuentionis); lo stimolo all’interpolazione potrebbe essere stato solleticato dall’idea di creare un efficace parallelismo sintattico rispetto a cura et sollecitudo; sul piano propriamente stemmatico si tratta di una lectio singularis del solo Λ; partitudinis è difficilior: ci sono poche attestazioni e molte appartengono proprio al DC (cf. ThlL X 1, 531, 10–13). Ci sono dunque buone ragioni per continuare a stampare il testo dei manoscritti principali.

|| 294 Contrariamente a quanto afferma ZWIERLEIN: “Durch diese Version erhalten wir eine so erlesene Entsprechung zu dem Gegenglied curae et sollicitudinis … (das durch et angeschlossene zweite Nomen expliziert jeweils das erste), daß man sie einem Interpolator –der hier gewiß nichts vermißt haben würde – nicht zutrauen kann”.

274 | Commento filologico-testuale

An. 268–9 268.4 SOLLICITA EST DIE [TVM AVTEM HOC TIMET] sollicitudo rerum incertarum magis, [in hunc sunt constitutae n.] hic certior metus est et grauior [...] 269.2 An timet in negotio † [...] 269.5 tum autem hoc timet ‘tum’ praeterea: tertiam sollicitudinem habere Glycerium ostendit, ne deseratur a Pamphilo. 268.4 post 269.5 in ω, transposui || post die add. cum autem hoc (hic K) timet K Λ, om. iam Steph. || incertarum Steph.: inceptarum ω || et] quia Fq || in–n. del. Wess. ut uid. 269.5 tum praeterea —timet K Λ: om. Aϴ || ostendit Λ: om. K An. 268–270: Laborat e dolore, atque ex hoc misera sollicita est, diem/quia olim in hunc sunt constitutae nuptiae. Tum autem hoc timet, / ne deseras se. Eugr. ad loc.33. laborat ex dolore: maxima enim adulescenti efficitur concitatio, si se propter amorem intellegat patrem. Deinde adiecit sollicitudinem, cuius causam ponit, quod olim constitutae sint nuptiae et uereatur, ne illam deserat Pamphilus […]

Panfilo ha raggiunto un punto delicato nella catena argomentativa: basterebbe poco per indurlo a scegliere o l’amore per Glicerio o il rispetto per il padre, perciò Miside tenta di muoverlo a pietà, descrivendo in modo compassionevole la situazione in cui versa Glicerio: la povera fanciulla soffre fisicamente per i dolori del parto, è in ansia (sollicita est) perché ha saputo che proprio in quel giorno Panfilo si sarebbe sposato; inoltre (tum autem) ha paura di essere abbandonata. Gli scoli citati prendono in esame An. 268–269, ma la zona di commento pertinente mostra più di un problema di trasmissione: l’attuale scolio numerato 268.4 è tràdito in ω dopo l’attuale 269.5, inoltre il testo di 269.5 unitamente al lemma di 268.4 sono trasmessi solo da K Λ (si veda il testo sottolineato nella trascrizione che segue): KΛ 295 tum autem hoc timet ‘tum’ praeterea: tertiam sollicitudinem habere Glycerium ostendit, ne deseratur a Pamphilo. sollicita est die cum autem hoc timet sollicitudo rerum incertarum magis, in hunc sunt constitutae n. hic certior metus est et grauior. Aϴ tum autem hoc timet sollicitudo rerum incertarum magis, in hunc sunt constitutae n. hic certior metus est et grauior.

W., che ignorava K, espunge la pericope assente in Aϴ e trasmessa solo dai deteriores: è supponibile che, se l’editore avesse anche solo visto che il secondo lemma dello scolio (sollicita est ...) si estendeva in realtà fino a timet, e non fino a

|| 295 La presenza in Λ di testo omesso da K (si veda ostendit) non esclude l’azione del processo contaminativo: Λ infatti non ha accesso a K, ma ad un testimone simile a K.

Andria, atto primo | 275

die come stampa, probabilmente non avrebbe rinunciato a quella stringa di testo. Già ZWIERLEIN (1970) 149, ma anche KARSTEN, ritengono autentico il testo atetizzato da W.296 Da un punto di vista stemmatico, una stringa di testo tràdita solo da K Λ, in un punto in cui Aϴ compiono un errore facilmente spiegabile con la poligenesi, non pregiudica l’autenticità della porzione testuale,297 dunque gli elementi discriminanti per una qualsiasi decisione editoriale dipendono esclusivamente dall’analisi contenustica. Lo scolio 269.5 inizia con un commento di tipo grammaticale (tum = praeterea),298 per poi spiegare tum autem hoc timet ne deseras in questi termini: ‘Glicerio mostra di avere un terzo motivo di preoccupazione (sollicitudinem), la paura di essere abbandonata da Panfilo’; tertiam instaura un dialogo con 268.1, dove si parla di duplicem laborem: in quel caso (268.1) con labor si designano sia il dolor fisico che la sollicitudo dell’animo, sebbene labor sia in prima istanza una fatica del corpo, fisica (cf. ThlL VII 2, 790, 4ss.); qui con sollicitudo si designano sia i dolori del corpo che quelli dell’animo (ansia e timore), sebbene propriamente sollicitudo sia un problema che riguardi solo l’animo (cf. An. 261.4: sollicitudo est, quae inhaeret mentibus). Dopo aver spiegato in cosa consista la tertia sollicitudo, lo scolio torna proprio sul concetto di sollicitudo, affermando che si ha ansia per eventi che ancora non si sono verificati, mentre in questo caso quella di Miside è una paura non solo piuttosto grave ma anche piuttosto concreta: l’accusa velata è di improprietà linguistica. Non ci sono elementi interni che possano definirsi portatori di sospetto quanto all’autenticità o meno del testo in esame: la struttura "osservazione grammaticale + osservazione di contenuto" è tipica del DC; sul piano sintattico, la struttura sollicitudinem ... ne è attestata fin da Cicerone (cf. HOFM. – SZ. II 535); la riflessione grammaticale (tum = praterea) è rinvenibile anche ad Eun. prol. 4 (tum praeterea ut ‘tum canit Hesperidum’), così come è altrove attestato il sintagma habere ostendit (cf. Hec. 86.1: τὸ ‘hinc’ magnum dolorem ostendit habere Philotim), e d’altronde, data la loro limitata ricorrenza, è poco plausibile che qualcuno se ne ricordi per creare qui un’interpolazione ben camuffata. Un problema si potrebbe || 296 Peraltro W. in apparato indicherebbe che l’omissione è anche di V. Questa informazione è sbagliata: V (f. 27r) presenta infatti lo stesso testo di K (essendone descriptus in questa sezione), con ostendit aggiunto a margine, evidentemente recuperato in un secondo momento da Λ. 297 Pur ammettendo, infatti, che Λ si trovi ad avere quel testo per contaminazione, il fatto che sia tràdito dal solo K a fronte di omissione di tutti gli altri è ininfluente: si tratta, come ho sottolineato, di un’omissione poligenetica. 298 Cf. Don. Eun. 4.2: TVM praeterea, ut ‘tum canit Hesperidum’.

276 | Commento filologico-testuale

al limite individuare nell’uso di sollicitudo per intendere il labor del parto, ma si rischia così di scadere in un’analisi eccessivamente razionalistica. Se si accetta la seconda atetesi di W. (in hunc sunt constituae n.), non si resta comunque privi di perplessità: prima si commenterebbe in termini contenustistici An. 269 tum autem hoc timet poi vi si attaccherebbe in coda una nota sulla differentia fra sollicitudo e metus, laddove, considerando che il focus del lemma è il timor e non più sollicitudo, sarebbe stato meglio difendibile uno sviluppo inverso (metus ... sollicitudo). In altre parole la riflessione sull’uso di sollicita ha più senso a commento di An. 268: non sarebbe difficile figurarsi il motivo per cui questa nota a carattere lessicale sia stata trasposta dopo 269.5 da An. 268 visto che proprio allo scolio 269.5 si fa menzione della sollicitudo e lì sarebbe stata lecita un’implicita accusa nei confronti di Terenzio, il quale riferisce lo stadio d’ansia a qualcosa di certo come poteva essere la data del matrimonio. Pur con la trasposizione della stringa sollicitudo ... grauior dopo An. 33.4 non si mette però in dubbio che in hunc constitutae n. vada espunto: si tratta verosimilmente di un’interpolazione stimolata da hic, che spezza la sintassi della nota, costringendo a ricavare il verbo est, quindi in ἀπὸ κοινοῦ, dalla proposizione che segue. Ancora più difficile stabilire il significato e la pertinenza della pericope an timet in negotio, che si legge nei codici subito dopo constitutae di An. 269.1: W. in apparato sembra attribuirla all’iniziativa del compilatore e la lascia precedere e succedere da un segno di lacuna. Non avendo la possibilità di ricostruire i confini del guasto benché possa essere intuitiva la sua pertinenza, preferisco conservarlo lì dove tràdito conservando le due zone di lacuna individuate dal precedente editore, cf. Ad. 171.2, Ad. 217.2, Ad. 277.4.

An. 281.6 VT MEMOR ESSES SVI bene praeterito, ἐμφατικῶς, quoniam quae praeterita sunt, in recordatione magis lacrimabilia et miserabilia sunt, ut Vergilius:(Aen. 2, 677–678) ‘c. p. I., cui pater et c. q. t. d. r.?’; idem alibi (Aen. 9, 300) ‘per caput h. i., p. q. p. a. s.’ ἐμφατικῶς Jakobi (1996) 66, n. 169: et frater A: et futuro ϴ (T: quam fut-): usus est Λ: om. K: effert Rabbow (prob. Wess.)

Miside tenta di ridestare in Panfilo il ricordo della padroncina, suscitando in lui un senso di colpa: Glicerio merita di essere ricordata da Panfilo (…hanc meritam esse ut memor esses sui). Donato nota che Terenzio nella completiva ha adoperato l’imperfetto e non il presente (= ut memor sis sui), ed afferma che questa scelta è funzionale alla carica

Andria, atto primo | 277

emotiva del passo: buona la scelta dell’imperfetto, poiché le cose che sono passate, nel ricordo diventano più degne di lacrime e misericordia, come in Virgilio (Aen. 2, 677–678: cui paruus Iulus, | cui pater et coniunx quondam tua dicta relinquor; ibid. 9, 300: per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat).299 Dall’apparato emerge con chiarezza che i manoscritti presentano una difficoltà dopo praeterito; il solito gruppo Λ sembra esibire il testo più sensato (bene praeterito usus est) riuscendo a ingannare ZWIERLEIN (“Nur die Variante von V2 ergibt guten Sinn”).300 Se, per assurdo, si potesse supporre che usus est fosse lezione d’archetipo, A (K)301ϴ si troverebbero congiunti in un errore significativo contro Λ: un vero e proprio ‘assurdo stemmatico’, che farebbe tracciare uno stemma molto diverso da quello finora supposto (con Λ unico rappresentante di un ramo della tradizione, contro l’altro ramo costituito da A (K) ϴ). Inoltre non si spiegherebbe bene neppure la genesi dell’errore: come da un banalissimo usus est si sia approdati a et frater (A) o et futuro (ϴ). L’effert di RABBOW è paleograficamente vicino alla lezione Aϴ, ripristina un senso apparentemente soddisfacente, ma, come notato da JAKOBI (1996) 66, n. 169, effert non compare mai nel DC con il significato di usus est.302 Di contro l’emendamento da lui proposto ἐμφατικῶς303 merita di essere preso in considerazione perché risponde non solo ai criteri di usus donatiani ma rende anche ragione della sofferenza testuale. La presenza di un doppio avverbio in un punto in cui è omesso il predicato è superabile se si isola con una pausa ἐμφατικῶς, in modo da costituire un puntello per la spiegazione successiva.

An. 284.1 IAM FERME MORIENS ‘ferme’ aduerbium est aestimantis. aestimantis Rank (1927) 20–21: festinantis ω

Criside, ormai vicina alla morte (iam ferme moriens), fa giurare a Panfilo di non abbandonare mai Glicerio.

|| 299 Nei passi di Virgilio non si tratta propriamente dell’uso di un verbo al passato, ma di riferimenti (quondam e ante) al passato ‘sovrabbondanti’, tesi a incrementare la carica patetica. 300 Ricordo che V2 corrisponde alla lezione del gruppo Λ. 301 K omette perché evidentemente non riesce a dare un senso a quanto visualizza. 302 Effero, in merito a discorsi di natura linguistica, è adoperato da Donato come sinonimo di pronuntio (cf. ThlL V 2, 144, 28ss.). Questo si conferma anche nel DC. 303 L’avverbio ἐμφατικῶς compare in corrispondenza di Eun. 67.1; ibid. 626.1; Phorm. 112.3.

278 | Commento filologico-testuale

Il primo scolio ad An. 284 è una nota di tipo grammaticale: ‘ferme’ sarebbe l’avverbio di chi si affretta. Nell’edizione di KARSTEN, questa notula è considerata come spuria, non essendo ferme mai connesso con il verbo festinare né nel DC né altrove304 RANK (1927) 20–21 incalza sull’impossibilità di difendere festinantis (ferme non è mai connesso, né da grammatici né da esegeti, al concetto di velocità che si estrapola da festinare; in Donato ferme è per lo più glossato con facile); aestimantis è proposto sulla base di An. 460.3: Et ‘ferme’ facilitatem significat, quia sunt aduerbia aestimationis. Questa soluzione è molto sensata: festinantis non solo non si può difendere perché sono assenti paralleli che lo rendano plausibile, ma, anche nel caso si volesse pensare ad un’estrapolazione indebita sulla base di Terenzio, rispetto al contesto in oggetto non palesa alcuna attinenza; a ciò si aggiunge che la confusione di E ed F è tipica di molte tipologie grafiche, iniziando dalla capitale, per cui la corruzione (a)est– in fest si giustifica bene anche sul piano paleografico.

An. 286.5 MI PAMPHILE uide redditam uoci morientis densis interuallis interruptam orationem utpote lasso anhelitu interueniente. interruptam K Λ: interfunctam A: intersumptam ϴ

Il testamento di Criside sul letto di morte rappresenta una sezione dell’Andria del tutto particolare, un vero e proprio microcosmo tragico all’interno del corpo comico. Lo scolio citato mette in luce un aspetto che si può ricondurre in ultima analisi alla categoria della mimesi, del realismo, questa volta tradotto sul piano performativo: le parole di Criside sono necessariamente piene di pause, di silenzi, come è tipico di chi, ormai prossima alla morte, fa fatica anche a prendere fiato per proferire il suo pensiero. L’oratio di Criside è interrupta da densi intervalli, così come vogliono K e Λ e come sembrano indicare i pertinenti paralleli del DC (Eun. 1011: ut risu interrumpi uerba puellae uiderentur; Phorm. 208.1: callidae interrogationis interrumpimus argumentum).

|| 304 Varr. ling. 7, 5, 92: ‘ferme’ dicitur quod nunc ‘fere’; utrumque dictum a ‘ferendo’, quod id quod fertur est in motu atque aduentat.

Andria, atto primo | 279

Di contro W. stampa con ϴ la lezione intersumptam, che rappresenta un vero e proprio hapax, (cf. ThlL VII 1, 2290, 50ss.), ma per tale scelta credo che manchino i presupposti: il verbo interrumpere per flussi verbali gode di buone attestazioni (cf. ThlL VII 1, 2273, 55ss.), inoltre sarebbe stemmaticamente superiore (sempre che non si sospetti contaminazione da parte di Λ); sul piano paleografico, la confusione fra R  S  F è comunissima in molte tipologie grafiche, anche precedenti il IX sec., per cui in termini di utrum in alterum è ammissibile che da una lezione quale interruptam, sia poi sorta tanto interfunctam quanto intersumptam, su cui peraltro si può sollevare il dubbio che si tratti di un rabberciamento. L’unico punto a favore di questo hapax potrebbe essere costituito, al limite, dalla categoria filologica della banalizzazione, ma si ammetterà che qui non è, per ovvie ragioni, applicabile, altrimenti qualsiasi lezione corrotta e senza senso, pur senza falle grammaticali, dovrebbe a rigore costituire un hapax, ossia una lectio difficilior.305

An. 291.4 NE ABS TE HANC S. quasi ipsam 〈non〉 amans. 〈non〉 amans scripsi: amantem ω

Panfilo ricorda a Miside della promessa strappatagli da Criside sul letto di morte, quella, cioè, di non abbandonare Glicerio (ne abs te hanc segreges neu deseras). Lo scolio 56.4 chiosa hanc in questo modo: “come se questa stessa gli fosse amante”. L’esplicitazione è strana perché che Glicerio fosse l’amante di Panfilo è un dato indubbio e chiaro a tutti, ed infatti lo STEPHANVS non tarda ad emendare amantem con in manu tenens, indirizzando quindi il commento sul valore del dimostrativo hanc. Nella stessa direzione si muove RANK (1927, 21), il quale ritiene che lo scolio stia cercando di spiegare per l’appunto l’utilizzo di hanc per una persona assente, e propone astantem, più economico di in manu tenens (per l’uso di adsto, cf. Eun. 945: fingit se nescire quod astet Pamphilus). In realtà, considerata anche l’estensione del lemma (ma è chiaro che questo non ha valore discriminante), la nota potrebbe non riguardare l’hanc, ma semplicemente estrapolare, dalla richiesta di non abbandonare Glicerio, la possibilità che Panfilo non la ami. In base a questo ragionamento si potrebbe perciò pensare al seguente testo: quasi ipsam 〈non〉 amans, supponendo che in seguito alla caduta accidentale del non, il participio amans sia stato corrotto (o volutamente corretto) in amantem in conseguenza dell’ipsam che immediatamente precede.

|| 305 Già HERAEUS (1903) 266 aveva sollevato qualche dubbio a tale proposito.

280 | Commento filologico-testuale

An. 295.2 AMICVM TVTOREM PATREM potest enim et maritus esse et non amicus; sed 〈ad〉 affectum mariti rettulit ‘amicum’. 〈ad〉 Rabbow*

Nella trattazione di BAEHRENS (1912) 233ss. relativa ai diversi aspetti dell’ἀπὸ κοινοῦ si fa riferimento (335–336) alla costruzione del doppio accusativo con refero, e per avvalorarla si portano diversi paralleli tratti dal DC: oltre il passo in esame, che lo studioso leggerebbe senza l’integrazione di RABBOW, vengono addotti anche Hec. prol. 2, 16 e Hec. 695, dove i codici leggono rispettivamente nam ideo fortunam euentum rettulit e quo uult Pamphilum referri non solum illius sed etiam uxoris culpam, entrambi luoghi testuali già emendati prima di W. (ad nel primo caso è integrato da WESTERHOFIVS e nel secondo da STEPHANVS). La tesi di BAEHRENS è dubbia e in alcuni passaggi discutibile (cf. HOFM.–SZ. II 42ss.) e, nello specifico, è fortemente indebolita tanto dalla presenza di paralleli interni al DC in cui rettulit è costruito con ad e accusativo (cf. Don. Ad. 57.1: ‘pudore’ ad filios rettulit, ‘liberalitate’ ad parentes; id. Ad. 72.3: ... τὸ ‘praesens’ et ‘absens’ non ad locum aliquem sed ad custodem monitoremque rettulit; al.) quanto dalla costatazione che l’indice di caduta di particelle minime come ad, soprattutto in contesti di stringhe sillabiche simili, è molto alto. Non ci sono perciò ragioni per non accettare l’intervento di RABBOW.

10.3

Andria, Atto II

An. 301.1 cum fere solam Hecyram Terentius [ex] unius comoediam adulescentis effecerit. ex ω, deleui: et Rabbow* || comoedia ϴ

Delle sei commedie pervenuteci, l’Hecyra è l’unica a non presentare una doppia azione ovvero un doppio intrigo amoroso; questa singolarità è messa in evidenza in vari passi del DC, tra i quali la praefazione al Phorm. praef. 1, 9: argumentum quoque non simplicis negotii habet nec unius adulescentis ut in Hecyra; di questo aspetto si occupa anche Evanzio nel de fab. 3, 9: nam excepta Hecyra, in qua unius Pamphili amor est, ceterae quinque binos adulescentes habent. La bibliografia relativa alla cosiddetta duplex comoedia, e come si ponga in rapporto con la contaminatio, è particolarmente ampia (rimando a LEFÈVRE 2008, 58–63); la domanda generalmente più dibattuta riguarda l’origine ovvero l’originalità della doppia trama: si suppone infatti che non sia un’innovazione di Ter., ma che il poeta latino la importasse dal modello greco, già doppio (si vedano per

Andria, Atto II | 281

esempio le Bacchidi di Menandro). Peraltro, la dialettica originalità–modello interessa anche il verso 6 del prologo dell’Haut. (duplex quae ex argumento facta est simplici).306 Nello specifico, Don. ad An. 977.2 sembra dirci che l’introduzione di Carino sia imputabile in toto a Ter.: et audacter et artificiosissime binos amores duorum adulescentium et binas nuptias in una fabula machinatus est–et id extra praescriptum Menandri [...]. Tale premessa è essenziale al fine di comprendere la scelta di espungere il tràdito ex senza accogliere et, correzione di RABBOW, accettata da W. e divenuta vulgata. Il testo dell’archetipo è sgrammaticato (ex ... comoediam) e a Θ risulta facile correggere l’accusativo in ablativo: se si accettasse il testo Θ, però, Don. starebbe dicendo che l’Hecyra è la sola commedia di Terenzio scritta sulla base di un modello con un unico adolescente. Dunque i restanti modelli greci si componevano tutti di una doppia trama? Un’informazione del genere sarebbe suggestiva, ma poco coerente con quanto Don. ci dice negli altri punti del commento: la stessa doppia soluzione dell’An., per Don., è un’iniziativa terenziana (cf. supra ad An. 977) contro Menandro. La correzione di RABBOW non mi persuade: se et avesse valore di semplice congiunzione mancherebbe qualcosa da coordinare con unius adulescentis, ciò comportando la segnalazione di una lacuna (exempli gratia: 〈simplicis negotii〉 et, cf. Phorm. praef. I 9); se avesse il valore rafforzativo di etiam, il senso della frase resterebbe comunque oscuro. La soluzione più economica è, a mio parere, l’espunzione: ex potrebbe essere un’aggiunta non intenzionale, indotta dalla frase simile di poco precedente, ovvero Andria ex duorum p. g. c. Per la costruzione di efficere con doppio accusativo, cf. Don. Hec. 507.2: etiam me cum l. belle et illum ex inuidia iracundiorem et hunc ad se ducentem, quod propter Pamphilum dicebatur, effecit.

An. 301.2 QVID AIS B. D. N. I. H. P. N. has personas Terentius addidit fabulae (nam non sunt apud Menandrum) ne † ΟΠΙΘΕΛΤΟΝ† fieret Philumenam spretam relinquere †sancte† sine sponso Pamphilo aliam ducente. NEΟΠΙϴΕΛΤΟΝ A: ne ἀπίθανον Nencini (1891) 36 (prob. Fraenkel 1968, 240): ne παθητικόν RABBOW*: om. sp. rel. KΣ (ἐπίθετον rest. M4 etiam ‘ne’ rubr. litteris rescrib.: ne sp. rel. β): ne ὄπις ϑεατῶν Schoell (1912) 40 || relinqueres K: relinqueret uel relinqueres codd. Λ || sancte – sponso (–sa ante corr.) A, cruc. statui (scilicet pro sancte ?): authiphine sponso K: sane sine

|| 306 A questo proposito LEFÈVRE (1994) 132–133.

282 | Commento filologico-testuale

sponsa ϴ: aut sine sponso Λ: sine sponso Westerh.: sancienti Schoell (1912) 10–11: ἀνυμφῆ Hyperdonat

Che Terenzio avesse costruito la sua Andria sulla base di due commedie menandree (Andria e Perinzia) è noto: è lui stesso, infatti, a sottolinearlo nel prologo (v. 9); di contro, però, è molto discusso il margine di libertà che il poeta latino si sarebbe arrogato rispetto ai due modelli, e sicuramente una traccia importante della sua autonomia creativa si individua nei primi versi di questo secondo atto, che metteno in scena il dialogo fra Carino e Birria, due personaggi — secondo Don. — assenti in Menandro (informazione, questa, ormai comunemente accettata nella bibliografia terenziana, per quanto non manchino analisi atte a dimostrare che il procedimento della ‘doppia commedia’ fosse già menandreo, e dunque sollevando un ragionevole dubbio circa il passo in questione).307 Come motivi Don. l’iniziativa terenziana è di non univoca ricostruzione: il testo ha vari punti di problematicità (in particolare la zona successiva a relinquere), ma a comprometterne la comprensione è soprattutto lo stato di corruzione avanzato del graecum, da cui dipende il senso stesso dello scolio. L’unico elemento chiaro è che l’aggiunta dei due personaggi è in stretta relazione con un altro personaggio, Filomena, la fanciulla rifiutata da Panfilo. Gli unici codici a presentare delle lettere greche sono A, che conserva in onciale anche il ne (un fenomeno tipico di questo codice, cf. pp. 26ss.), e M4, che evidentemente congettura su una stringa di greco simile a quella conservataci da A (per la fonte di M4, cf. CIOFFI 2013, 171–173). Tra le antiche edizioni divenne vulgato il testo dello Steph. (ne τραΓικώτερον), che però è molto lontano da quanto tràdito e inoltre pone l’accento su una motivazione a carattere psicologico–emotivo, o riconducibile ad una generica polarità tragico–comica, che, pur se non da escludere, non è l’unica strada percorribile. Nella stessa direzione, con un più marcato accento sull’aspetto psicologico, sembra muoversi RABBOW con παϑητικόν: la congettura è accettata dal W., che, con ogni probabilità, ignorava il contributo di NENCINI (1891) 36, ma messa in dubbio da FRAENKEL: la stringa di A è difficile da spiegare a partire da παϑητικόν. Indipendentemente da considerazioni paleografiche, il punto debole di π. (di cui non si hanno paralleli in D.) è che in latino (ThlL X 1, 704, ss.) è attestato con il significato attivo di ‘atto a suscitare delle forti sensazioni’ (T. Don. Aen. 1, 70), mentre per la logica dello scolio, se si volesse restare

|| 307 Rimando alla bibliografia essenziale: SANTI (2011) 39ss.; LEFÈVRE (2008) 100; DUCKWORTH (1952) 189; NORDWOOD (19652) 143.

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all’interno di questa interpretazione emotiva, ci sarebbe bisogno di un aggettivo con il senso di ‘triste’, ‘pietoso’ (ex. gr. οἰκτρόν). La proposta di NENCINI (ne ἀπίϑανον) ha riscosso alquanta fortuna (cf. anche FRAENKEL 1968, 240)308 perché tiene conto tanto dell’usus donatiano quanto del dato paleografico, ma è da ammettere che i passi portati a suo sostegno non sono particolarmente stringenti: semplicemente testimoniano l’ampio uso di questa definizione nel DC. La categoria del πιϑανόν in Don. si associa spesso all’οἰκονομία: T. evita l’inverosimile cercando di costruire azioni coerenti rispetto ai personaggi ed in se stesse (cf. JAKOBI 1996, pp. 154–155); per esempio ad Eun. 446.1 Gnatone si diffonde su una generica considerazione sui meccanismi dell’amore e a tale proposito D. nota: hic uersiculus personam militis et Gnathonis continens pro oeconomia inducitur, qua uerisimile fit facile militem ferre posse anteponi sibi Phaedriam. Al limite, nel caso in questione, si potrebbe ammettere che l’aggiunta di un doppio finale sia orientata a rendere l’azione comica più verosimile: in modo, cioè, che risulti credibile che Filomena sopporti di essere rifiutata da Panfilo. Sul problema ritorna SCHOELL (1912) 40 con una proposta che non ha riscosso particolare successo bibliografico: ὄπις ϑεατῶν, che, pur non avendo paralleli in Don., sarebbe una variante ironica rispetto alla nota formula omerica ὄπις ϑεῶν (Il. 16, 388, al.): l’ipotesi è molto suggestiva, anche il senso dello scolio sarebbe rispristinato senza sfasature (‘per evitare che fosse una sorta di vendetta degli spettatori il fatto che Filomena rimanesse in uno status di rifiuto ...’), inoltre la ricostruzione paleografica sarebbe di fatto palmare. Il punto dolens è dato da un’analisi un po’, se si vuole, razionalistica: perché gli spettatori avrebbero dovuto vendicarsi? La vendetta degli dei avviene per la violazione di qualche legge, dunque quale legge avrebbe violato Filomena? Nel ripristino delle stringhe di greco, il criterio paleografico è di difficile applicazione; nella maggior parte dei casi ci si aiuta con contesti simili e più sicuri o con evidenze più stringenti. In questo caso, come detto, la soluzione più persuasiva è certo quella di NENCINI, ma non esistono paralleli forti (anche perché si tratta di un punto particolarmente singolare) e sicuri. Sarei dunque d’accordo con ARNOTT (vol. II, Perinth. test. Iv) a stampare la stringa di A fra cruces. Non secondario è il problema che coinvolge la stringa di testo intorno a sine sponso, rispetto alla quale i codici tradiscono non poco imbarazzo:309

|| 308 Il testo di NENCINI è accettato anche da K.-A.; preferisce invece stampare fra cruces ARNOTT (vol. II, Perinth. test. Iv). 309 Per l’interpretazione stemmatica di questo scolio, cf. CIOFFI (2015) 356ss.

284 | Commento filologico-testuale

sancte sine sponsa (in –so, corr. A2) A: authiphine sponso K: sane sine sponsa ϴ: aut sine sponso Λ:

Sine sponso è una correzione di WESTERHOVIVS, l’apposizione in asindeto lascerebbe intuire che non si tratta di una precisazione meramente sovrabbondante rispetto a spretam: di fatto Filomena è stata rifiutata a favore di Glicerio, ma con l’introduzione di Carino resterà perlomeno non priva di uno sposo. L’emendamento è sensato, il problema però consiste nello spiegarsi l’avanzata corruzione del testo a partire da una stringa di latino apparentemente innocua. Se si prescinde da KΛ, il confronto fra A e ϴ rende lecito supporre che in una fase prearchetipale si leggesse scilicet sine sponso e che poi nell’archetipo il compendio per scilicet si era prestato (o si poteva prestare) a fraintendimenti: in casi molto incerti, non è ametodico fidarsi del codice meno interventista per partire da una stringa apparentemente più corrotta, ma certo più autentica, e non sfugge che sancti potrebbe essere non altro che un errato scioglimento di un compendio per scilicet (scł), estremamente simile a quello per sancti, errore — quest’ultimo — che si potrebbe attribuire già all’archetipo, su cui Θ interviene maldestramente trasformandolo in sane. In archetipo dunque si doveva leggere qualcosa come spretam relinquere sancti sine sponso etc. Contro questa ricostruzione sembra parlare il testo di K, la cui lezione, vagamente ellenizzante, ha fornito una suggestiva interpretazione a NICOLAS (HYPERDONAT)310: partendo dal presupposto che il codice più fededegno, in questa circostanza, sia K, riconosce nella stringa insensata, l’aggettivo ἀνυμφῆ (rarissimo al femminile), attestato al maschile in un frammento di Menandro (frg. 877 K.–A., 8–9); sine sponso sarebbe dunque una glossa di ἀνυμφῆ. L’ipotesi è interessante, ma non mi persuade per i seguenti motivi: la rarità dell’aggettivo nella forma femminile; la capacità che si presupporrebbe in un copista (fosse pure in data alta) di riconoscere il graecum e glossarlo; il fatto che non ci sia traccia di forme vagamente ellennizzanti in A (il codice che solitamente ci riporta tutto, a maggior ragione quando non capisce il senso di ciò che trascrive). Inoltre, anche se è vero che in K si produce una uox nihili, che di per sé esclude la possibilità di un intervento ope ingenii e sembra piuttosto da interpretare come segno di autenticità, non è detto che l’intervento intenzionale di un lettore/copista si sia verificato nell’antigrafo di K, per poi essere da questi corrotto in modo da non dare più senso.311 || 310 https://HYPERDONAT.hypotheses.org/194 311 Non prendo in considerazione il testo Λ per ragioni già esposte (cf. CIOFFI 2015, 356ss.).

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A mio parere la lezione di K è mera conseguenza di un’errata divisione delle parole che il copista, forse, trovava già nel suo antigrafo: la s è associata a relinquere e questo comporta che la stringa rimanente sia totalmente mal compresa: di sancti resterebbe (in teoria) aucti (che Λ prova a correggere in aut); K però inizia da questo punto in poi ad aggiungere delle forme aspirate vagamente grecizzanti312: authi in luogo di aucti; mentre sine, letto evidentemente fine, è reso, per qualche bizzarro motivo, con la forma phine.313 In ogni caso, credo che il testo di K sia da considerarsi singolare e lontano dal conservarci un dato di tradizione. Stando alla mia ricostruzione diventa necessario porsi un’ulteriore domanda circa la natura della stringa scilicet sine sponso: presupposta l’accettazione di scilicet a testo, sine sponso ... ducente diventa una semplice precisazione di spretam. Scilicet, impiegato ad introdurre degli ulteriori dettagli dopo un’informazione generale, nel DC fa registrare un’alta frequenza, cf. Ad. 583.2 (nam Varro docet semper lacum portis additum scilicet ob usum iumentorum exeuntium et introeuntium), 729.2, An. 208.4 [al.]; nel caso specifico, si adatta bene all’andamento della frase. Ma è fuori di dubbio che scilicet è altrettanto spesso la spia della presenza di una glossa, così come pare supponibile in questo caso, dove, ripeto, la specificazione che Filomena resterebbe, senza Carino, priva di un marito è terribilmente allitterante nonché superflua rispetto all’ablativo seguente: il ruolo di Filomena si ridurrebbe a quello di mulier spreta perché Panfilo sposa un’altra. Sono quindi dell’idea che scilicet sine sponso sia una glossa a spretam (atta a stabilire un immediato riferimento al rifiuto di Panfilo) e come tale meriterebbe di essere espunta. Contro questa suggestione si scontra però un problema di tipo metodologico: la sospetta natura glossematica si basa a sua volta su una ricostruzione, e a rigore di metodo, appunto, sarebbe particolarmente imprudente espungere una stringa di testo sulla base del senso che per essa si è ricostruito. Da qui discende la presenza delle cruces a testo.

An. 305.2 QVONIAM NON POTEST ID FIERI Q. V. I. V. Q. P. consolatio, ad id quod fieri non potest, 〈id quod fieri potest〉 suadens. add. Rabbow, praeeunte Hartmann (1895) 137

|| 312 La confusione di s ed f è molto comune in alcune tipologie di scrittura, soprattutto corsive. Nel caso che sia una modifica volontaria, la mia ipotesi è che il copista di fronte a un latino insensato potrebbe aver pensato trattarsi di una parola greca e trovato il modo di segnalarlo (o simularlo) con l’uso delle aspirate (si pensi per esempio a qualche caso grafico da manuale medievistico: author in luogo di auctor, per esempio). 313 In K non sarebbe l’unico caso di trascrizione ‘eccezionale’.

286 | Commento filologico-testuale

Eugr. ad loc.: hic autem posita est, ut uoluntas ab eo quod fieri non potest consolatione suscepta ad id quod fieri potest conuertatur, ne id desideret quod fieri non potest.

L’integrazione del RABBOW, sulla base di Eugrafio, è giustamente accettata da W.: ha il pregio di dare un senso alla spiegazione donatiana che, altrimenti, sarebbe in contraddizione con quanto afferma Terenzio (cioè di volere ciò che è possibile avere) e, inoltre, è efficace anche paleograficamente: la lacuna si spiega benessimo come salto dal primo al secondo potest.

An. 307.2 QVI ISTVM AMOREM AB. A. A. T. legitur ‘ex corde eicias’. amorem Θ: amor est K: a Λ || ab. – t.] om. K || ab] a. uel ex codd. Λ (cf. codd. Ter. ad loc.) || a1] animo Fq: e. uel a. codd. Λ || a2] a CT: remoueas Fq: a. uel r.(e) Λ || t] r CT: r tuo ε: tuo Fq Λ || post legitur add. et Λ, fort. recte || eicias] om. sp. rel. A: dicas K

La tradizione di questo scolio, nella parte lemmatica e per quel che riguarda il ramo Σ, è complicata da un’evidente contaminazione con il testo di Terenzio di tradizione diretta. Nonostante questo, il DC per il v. 307 è testimone di una variante di cui altrimenti non si avrebbe traccia tanto nella tradizione diretta che in quella indiretta, a favore della cui autenticità sembra esprimersi il rispetto del criterio metrico (eicias sarebbe da scandire come trisillabo).314 La situazione problematica interna a Γ non è tale da far pesare la variante eicias sul solo ramo Σ, infatti il dicas di K sembra a tutti gli effetti uno sforzo di lettura del copista di fronte ad una stringa di latino sofferente, però spiegabile in termini paleografici come corruzione di eicias. Il modulo donatiano, che tipicamente segnala una variante, è legitur et (più rara la forma in aliis, cf. An. 236.6)315. In questo caso, invece, et è lezione presente soltanto nel sottogruppo Λ, supponibilmente non ereditata da ω, ma aggiunta per iniziativa privata: nel testo si percepisce il bisogno della congiunzione, favorita peraltro anche dall’usus donatiano. Gli unici tre casi (Ad. 200, Eun. 265.2; Phorm. 247) su circa una settantina, che eccepiscono, difficilmente possono fungere da paralleli: negli ultimi due infatti, non si tratta di una variante testuale, ma di una variante che attiene alla pronuncia; il primo caso invece è abbastanza oscuro e non sembra che Donato stia citando un testo alternativo a quello più

|| 314 BENTLEY la accoglie a testo. 315 Si veda JAKOBI (1996) 19–26.

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diffuso.316 A questi elementi si aggiunge anche che non sarebbe affatto difficile spiegare come sia caduto et trovandosi praticamente prima di un ex. L’interpolazione di Λ merita perlomeno un fortasse recte in apparato.

An. 310.2 SED PAMPHILVM VIDEO ‘sed’ inceptiuum est pro: ‘atque eccum Pamphilum’, ut Sallustius (Hist. frg. dub. 4, cfr. et 5 Ram.) ‘sed Metellus in ulteriorem H.’ non discretiuum, ut si dicas: sapiens sed miser; hoc enim discretiuum erit. sed2–erit] om. A || sed ω (om. K): ac Macr. Sat. 3, 13, 6: at Non. (III 1, 389 Maz.) || Metellus] om. K || ulteriorem Wess.: ulteriore K: ul(l)ipie C2T Λ: ulpie C: uulnere Fq || H.] hi F: om. T

La citazione da Sallustio ha avuto una storia editoriale controversa a causa della lezione ullipie tràdita in luogo di ulteriorem da Σ, a cui non faceva da contrappeso il codice A, che omette gran parte dello scolio; gli editori di Sallustio si sono per lo più lasciati ingannare dalla correzione di Fq ossia uolnere (cf. Hist. 2, frg. 68, 70 Maur.).317 Lo stesso passo è riutilizzato da Don. a Phorm. 192.2, e sempre per offrire un esempio di sed non avversativo ma in funzione di particella di transizione: la tradizione però legge unanimemente prouinciam in luogo di Hispaniam e solo una parte dei codici trasmette ulteriorem, altrimenti omesso. A W. è da attribuire il merito di aver corretto il vulgato in uolnere con in ulteriorem, forte probabilmente dell’analogia con Phorm. 192.2, dove però conserva prouinciam in luogo di H(ispaniam). L’intuizione di W. trova conferma nel codice K, unico rappresentante di Γ in questo punto del testo, per cui non dovrebbero più sussistere dubbi. Quanto poi a prouinciam in luogo di H.(ispaniam) di Phorm. 192.2 è evidente che non costituisce alcun serio ostacolo a quanto finora detto: si può tanto giustificare come un lapsus di Don. quanto come una glossa finita a testo in sostituzione della lezione originaria. In questo frammento è da riconoscere anche l’incipit di una citazione alquanto ampia (Hist. 3, 10 Ram. = 2, frg. 60 Rey.), di cui sono testimoni principali Nonio III 1, p. 389 Maz. e Macr. sat. 3, 13, 6, in cui si parla dei festeggiamenti di Metello successivi alle sue vittorie militari (At Metellus in ulteriorem Hispaniam

|| 316 Se avesse voluto suggerire un’alternativa testuale, si sarebbe limitato al solo tradier/darier. A me sembra piuttosto che il suo problema sia di ordo, ma a noi la questione sfugge perché non sappiamo cosa leggesse Donato (è ben nota la problematicità testuale posta dai lemmi). 317 Con estrema probabilità gli editori (tanto sallustiani quanto donatiani) trovavano uolnere non direttamente nei codici citati, bensì nell’editio princeps (e2) che recepisce spesso testo Θ, mostrando particolare vicinanza proprio a Fq, cf. pp. 161ss.

288 | Commento filologico-testuale

post annum ...). Se si prescinde dalla variante incipitaria, la sovrapposizione dei testi è totale (per il commento, cf. MCGUSHIN 1992, I, 225). A questo punto restano due ulteriori problemi: l’oscillazione at/ac/sed e la decisione di W. di porre la porzione testuale pro ... Pamphilum in corsivo. Per il testo del DC è inevitabile stampare sed Metellus: la funzione per così dire ‘di passaggio’ della congiunzione avversativa sed costituisce il punto focale delle due note donatiane nonché il punto d’intersezione fra Terenzio e Sallustio. Molto meno ovvio è stabilire cosa avesse Sallustio, che era appunto noto per l’impiego di sed incettivo, come dimostra Seru. Aen. 10, 411 (‘sed’ modo inceptiua particula est, ut in Sallustio saepius, sicut ‘at’ interdum): ad ogni modo questo dato non è discriminante perché potrebbe tanto confermare l’analisi ed il testo di Don. quanto produrre il sospetto che già nella prima circolazione di Sallustio at si prestasse ad essere sostituito da sed in ottemperanza a questo conosciuto tic sallustiano. Contro l’at di Nonio (e Macrobio)318 si potrebbe tutt’al più argomentare che la loro citazione è più estesa e non orientata ad interessi linguistico–grammaticali, per cui sarebbe stato anche più facile corrompere sed nel semanticamente affine at. Vero è però che l’autorità di Nonio come testimone di frammenti sallustiani non è da sottovalutare, soprattutto perché è questione direi pacifica che egli citasse lo storico in modo diretto.319 Inoltre la consultazione di manoscritti sallustiani, in questo specifico caso, non è escludibile neppure per Macrobio (come si mette in evidenza in La PENNA–FUNARI 2015, 32), nel cui ac, ammesso che sia la sua lettura effettiva, è da riconoscere una banalissima corruzione per at. Se ne conclude perciò che Nonio e Macrobio trovano at nella loro fonte manoscritta, Don. leggeva invece sed nella fonte grammaticale da cui attingeva i passi da citare nel CD: la bilancia filologica pende a favore di at. Più facile invece è giustificare la presenza del corsivo: la stringa pro ... Pamphilum non solo crea un problema di raccordo sintattico dando origine ad un ingestibile ut pro seguito da un’impropria citazione, a cui si attaccherebbe senza evidenti legami logici e sintattici la menzione del passo sallustiano. L’intento dell’interpolazione è ovvio: Don. spiega il valore contestuale di sed senza però dire quale particella si sarebbe normalmente adoperata; l’interpolatore–lettore quindi si preoccupa di spiegare che sed ha lo stesso senso di atque.

|| 318 Gli editori di Macrobio stampano ac, ma due testimoni (PT) leggono at. 319 Sulle citazioni sallustiane in Nonio si veda il contributo di KEYSER (1996) 181–226 con relativa bibliografia.

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An. 310.3 AGE AGE VT L. aduersus haec non habuit, quid loqueretur. Et est permissio reprobantis ea, quae consentit. consentit Steph.: sentit ω

Carino insiste con lo schiavo Birria perché questi faccia qualcosa prima che Filomena vada in sposa a Panfilo. Birria gli consiglia di lasciar perdere e di smettere di parlarne perché così facendo non fa che alimentare la fiamma del suo amore. Panfilo replica che, se Birria fosse innamorato, la penserebbe diversamente. Dinanzi alla resistenza argomentativa del padroncino, Birria non può che ricorrere a quella che in retorica è definita permissio (Her. 4. 39320): concedere all’avversario di pensarla diversamente per quanto non si sia d’accordo (per age age, si veda anche MÜLLER 1997, 114). Così come tràdito il testo di Donato è problematico: Birria non può certo rifiutare le cose che pensa. L’unico modo per difendere il testo dei manoscritti consisterebbe nel dare a sentire il significato che acquisterà nelle lingue romanze, cioè audire, ma all’analisi dei passi che interessano il verbo in oggetto, non si trovano tracce nel DC di questa evoluzione linguistica: interessante ma non decisivo è il passo di Hec. 78.1 (audin quid dicam scirte ‘audis’ modo sentis, intellegis, ut Vergilius (Aen. 1, 19–20) ‘progeniem sed enim Troiano a sanguine duci audierat’) perché non stabilisce una vera e propria equivalenza lessicale fra audire e sentire, ma esplicita solo il passaggio successivo a quello dell’ascolto, cioè il capire. A questa notula, però, si oppongono una serie di passi in cui sentire nel DC è attestato nel comune significato di intellegere (OLD 1737.2). Tra le possibilità d’intervento la soluzione proposta dallo STEPHANVS è non solo economica ma anche efficace: correggere, cioè, sentit in consentit. Birria, con age age, finge di darla vinta sul piano argomentativo al padroncino, sebbene in realtà resti della sua idea: age (nelle sue varianti: age ueniam, age age) è un’interiezione volta ad esprimere un risicato consenso (cf. An. 713, al.). L’emendamento non solo dà senso, ma la caduta del con, soprattutto se in forma di compendio, è un fenomeno di alta frequenza.

|| 320 Permissio est cum ostendemus in dicendo nos aliquam rem totam tradere et concedere alicuius uoluntati.

290 | Commento filologico-testuale

An. 312.3 IPSVM HVNC ORABO H. S. ‘oramus’ quae bona sunt, ‘supplicamus’ in aduersis [malis] uel cum lacrimis. [malis] uel Cioffi: maliuolis Rabbow*

Quella di RABBOW è una congettura diagnostica che illumina un problema testuale effettivo: l’interpretazione di in aduersis malis – peraltro seguito da una disturbante uariatio (cum lacrimis), introdotta da uel. Sul piano linguistico–grammaticale si sarebbe costretti a fare di malis un dativo di persona retto da supplico, quindi a voler dire che le suppliche si rivolgono a persone cattive in circostanze avverse. Ma è evidente che si tratta di una lettura poco difendibile: che le suppliche vengano dirette solo a persone cattive è falso su un piano generale o, se si vuole, logico, inoltre non rispecchia l’uso terenziano (cf. Eun. 811 ed Hec. 500), sempre ammesso che si possa distinguere in modo netto fra personaggi cattivi e buoni.321 Resta quindi solo una seconda possibilità, ossia individuare in aduersis malis un nesso unico, una sorta di iunctura pleonastica: purtroppo però mancano paralleli ed è difficile giustificare la presenza di un simile doppione concettuale per una nota linguisticamente ‘spartana’, il cui unico obiettivo consiste nel mettere in luce la differenza fra oro e supplico. Di contro nel DC il neutro plurale aduersa, in funzione sostantivale, trova il conforto di almeno due occorrenze: Don. ad Hec. 281.4 e 282.2 (cf. anche ThlL I 872, 15ss.). Inoltre nel contesto aduersis avrebbe potuto comprensibilmente stimolare tanto una glossa quanto l’aggiunta di un termine di riferimento. Espungerei quindi malis, continuando però a sospettare che il guasto di cui soffre il testo in questo punto sia più grave ed investa perlomeno anche il uel.

An. 313.2 PRODAT proferat, prolatet, differat. Lucilius in quinto (frg. 18 Cha.) ‘an porro prodenda dies sit’. an porro Don.: an Non. (= p. 577. 29 L)

Il frammento in esame – sostanzialmente non problematico – è citato sia da Donato che da Nonio e per gli stessi motivi, cioè per esemplificare l’uso del verbo prodere.

|| 321 L’argomento per cui si perderebbe il parallelismo con la voce su orare sarebbe invece molto attaccabile: con o senza il riferimento ai ricettori della supplica il trattamento delle due voci resta comunque asimmetrico.

Andria, Atto II | 291

Gli editori di Lucilio (da MARX a CHARPIN) sono soliti stampare il testo nella forma più estesa testimoniataci da Nonio: possisne elabi an 〈porro〉 prodenda dies sit, integrando il testo di Nonio sulla base di Donato. Per quest’ultimo bisognerebbe chiedersi se sia postulabile una citazione originariamente più ampia di quella testimoniataci o se il taglio del frammento, piuttosto che essere dovuto ad una caduta di testo, sia invece intenzionale. Dal punto di vista metodologico, dove la parte di testo, di cui la citazione difetta, non interessa il fulcro del discorso e la citazione è comunque sensata, è preferibile non intervenire.

An. 315.1 ADEON AD EVM consuetudine magis quam ratione dicitur; unum enim 〈‘ad’〉 abundat. ante abundat add. ad Steph.

L’aggiunta di ad si rende necessaria per la perspicuità dello scolio: è infatti citato solo nel lemma e, senza, risulterebbe poco chiaro quale elemento sia sovrabbondante. Cf. An. 315.1: cum sufficeret unum ‘ex’.322

An. 319.1–2 1. AD TE VENIO SPEM SALVTEM A. C. E. eleganter, quoniam demens et improbum est, quod petit, nouissimum posuit ‘consilium’, ut si non possit concedi, uel consilium expetat ad sanandam dementiam. 2. 〈SPEM SALVTEM〉 Cicero (Lig. 30) ‘tu da salutem, qui spem dedisti’. 2. add. Cioffi, Jakobi || da salutem ω: idem fer opem Cic.

La divisione degli scoli nel DC è di problematica evidenza e le oscillazioni fra la fine di una nota e la successiva risultano spesso meramente arbitrarie; il quadro non è facilitato dal fatto che il confine fra le diverse annotazioni è rappresentato dai lemmi, l’anello più debole della catena di trasmissione. In questo caso la citazione ciceroniana nelle edizioni del DC è stampata unitamente allo scolio 319.1, ma si ammetterà che non si individua alcuna pertinenza rispetto all’esegesi del passo: è un’appendice molto debole, che sembra aggiunta sulla mera base delle parole chiave contenute nel lemma: spem e salutem (si noti per inciso che la versione del DCA differisce da quella consegnataci dalla tradizione diretta di Cicerone). Se ne conclude perciò che lo scolio si chiude con dementiam. Il passo della pro Ligario, d‘altro canto, o rappresenta una nuova nota || 322 cf. JAKOBI (1996) 74.

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(in qualche misura decurtata), oppure è da considerarsi un’aggiunta surrettizia eseguita su mera base lemmatica. Fra An. 319 e Lig. 30 non c’è alcuna analogia situazione né vagamente contenutistica: lì Carino che cerca, con uno stile tipicamente ricco di flosculi, di implorare Panfilo affinché non prenda come sposa Filomena, qui la richiesta che Cicerone rivolge a Cesare affinché conceda il perdono a Ligario, una richiesta resa legittima dal fatto che esistono per essa dei precedenti (“concedigli la salvezza tu che gli hai concesso la speranza di ottenerla”). Tuttavia la citazione è motivabile nella prospettiva di un esegeta il cui scopo consiste semplicemente nel volere addurre un parallelo per la sequenza spem salutem, con l’ovvia implicazione che Don. leggesse un testo di Cic. già alterato o comunque non rispondente a quello vulgato. Fra la scelta di segnalare con il corsivo la natura surrettizia del passo ciceroniano e quella di conservarlo facendone però uno scolio indipendente, in termini di economia e di prudenza è preferibile la seconda.

An. 320.1–2 1 NEQVE POL CONSILII L. H. N. A. C. 〈‘neque consilii locus’〉 apud amantem ‘neque auxilii facultas’ apud inopem. 2 NEQVE POL CONSILII 〈L. H. N. A.〉 C. his duobus ostendit etiam sese amatorem. 1 a. c. Wess.: om. A: c. a. K ϴ: c. ε: auxilii copia Λ || neque – locus add. Wess., neque consilii facultas add. Λ (exc. ε) || apud1 – 2 consilii] om. ε (–α) || apud1] om. Kα || amantem] autem (ut uid.) amantem K: amentem ϴ: amat amantem α|| facultas] possibilitas Λ (exc. α) 2 add. Wess.

‘Non ho né la possibilità di elaborare un piano né la disponibilità di un aiuto’, questa la confessione di Panfilo a Carino. La tradizione terenziana mostra delle oscillazioni relative alla sezione ad auxilium (sic Eugr. edd.: auxilii PCED2G2: ad auxiliandum D1p) copiam, ma questo problema sembra non interessare la constitutio del nostro passo. Il testo dello scolio An. 320.1 stabilisce una differenza fra consilii locus ed auxilii copia, ma è supponibile (seguendo lo schema x apud y, x1 apud y1) che sia caduto del testo prima di apud amantem – problema di cui si accorse già Λ. L’integrazione è complicata dal fatto che il secondo polo negativo con annessa specificazione non sembrerebbe citato da Don. ad litteram, perché in luogo di auxilii copia si legge auxilii facultas: il che ci sconsiglierebbe di integrare anche per il primo polo negativo il mero testo terenziano. Anzi, sorge anche il dubbio che la uariatio non intacchi soltanto copia ma anche auxilii, e cioè che auxilii facultas non sia altro che una parafrasi di ad auxilium copiam, e che partendo da questa

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parafrasi banalizzante qualcuno sia poi intervenuto a modificare anche il lemma A(d) A.(uxilium) C.(opiam) in A.(uxilii) C.(opia). Il testo caduto poteva contenere, quindi, una parafrasi di consilii locus, per cui a rigore sarebbe corretto evitare integrazioni e segnalare lacuna non essendo possibile stabilire in che modo la parafrasi si sviluppasse (consilii spatium, consilium etc). Di contro, però, c’è da considerare che facultas potrebbe essere una uariatio non di Don. ma della tradizione, una comune glossa caduta a testo: dunque Don. aveva effettivamente citato Terenzio ad litteram; forse più probabile è che consilii locus, diversamente da ad aux. c., non necessitasse di una parafrasi, per lo meno da un punto di vista sintattico, per cui era giustificata una citazione letterale. L’integrazione di W. sembra dunque giustificabile. Quanto invece alla proposta di ZWIERLEIN (1970), 154 di accettare l’integrazione del W., ma emendare facultas in copia adeguandolo al testo terenziano, sarebbe in sé interessante, ma non traducibile sul piano editoriale perché nasce in stretta dipendenza dal testo confezionato per l’appunto da W., e dunque sviluppata sulla base di quella che resta pur sempre solo un’ipotesi di testo.

An. 324.1323 SPONSAM HIC TVAM A. nulla cunctatione Byrria, sed παρρησίᾳ seruili paratissime narrat. hic tuam] luctuam K (inc.) || a.] amat Σ (amo C, corr. C2) || contatione A: cuntatione K || παρρησίᾳ Steph. (cf. Deufert ap. Cioffi 2015, p. 369sq.): om. sp. rel. AB: fr(atr)i mo(r)e K: facete Σ : facilitate Wess. || seruili K: seruuli AB ϴ: seruili vel seruuli codd.Λ || ante paratissime add. sermone Λ

Carino non riesce a confessare a Panfilo i suoi sentimenti per Filomena ed allora chiede a Birria di fare da suo portavoce; quest’ultimo, senza troppi giri di parole, prorompe in sponsam hic tuam amat. La schiettezza di Birria, soprattutto se confrontata con la verbosità di Carino, cattura anche l’interesse di Donato, che non solo la porta in evidenza ma ne fa una caratteristica propria dei servi. Purtroppo lo scolio, nella sua sezione generalizzante, palesa almeno un punto di estrema problematicità: A e B omettono lasciando dello spazio – il che è indice di un’oggettiva difficoltà di lettura – mentre K, in luogo della lacuna, presenta una stringa di difficile decifrazione; sembra comunque abbastanza certa la stringa more che segue qualcosa interpretabile

|| 323 Per le implicazioni stemmatiche di questo passo, cf. CIOFFI (2015) 344ss.

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come fr(atr)i (?);324 CFT, invece, presentano l’avverbio facete, che ritroviamo anche nell’altro ramo del Maguntino, Λ, ma a differenza di Θ i codici Λ aggiungono il sostantivo sermone (qualcuno more) dopo seruili/seruuli: così il testo acquisterebbe senso, ma è pur sempre il senso che gli ricostruisce Λ, non certo quello di ω. W. stampa facilitate, sentendo quindi necessario un riferimento alla faciloneria con cui Birria risolve l’imbarazzo di Carino; per ZWIERLEIN (1970) 154–155, invece, è richiesto un riferimento all’arguzia del modus narrandi del servo, e all’effetto comico che ne deriva, per cui costruisce il suo testo cercando un appiglio nella tradizione: “Da Byrrias lakonische Antwort in der Tat äußerst witzig ist nach dem vergeblichen Versuch des Charinus, seine Liebe einzugestehen, wird man das in V überlieferte und durch STEPHANVS bezeugte ‘facete’ schwerlich verwerfen dürfen”.325 La sua soluzione di stampare facete 〈et〉 more seruili è a mio avviso molto discutibile in primo luogo perché è il risultato di una conflazione testuale, in cui si presta affidamento ad un ramo notoriamente interventista: facete è probabilmente un rabberciamento mal riuscito; il fatto poi che il testo di Λ trovi un qualche riscontro in K è solo una distorsione innescata, con ogni probabilità, dalla contaminazione. Da un punto di vista concettuale mos seruilis nel DC è riferito al modo di comportarsi dei servi nei confronti del padrone (An. 184.4), e alla loro arroganza quando sono particolarmente allegri (Ad. 286); facete si combina con uerniliter (Ad. 803, [agit]), con comice (An. 463.1), a commento di affermazioni paradossali. A tener conto di facete è certo W. che prova a restituire un senso con un emendamento non troppo lontano dalle tracce presenti in Σ , ma che lascia due problemi irrisolti: in primo luogo, facilitate, pur opponendosi a cunctatio, sarebbe sovrabbondante rispetto a paratissime; inoltre — e probabilmente è questo l’aspetto più delicato — non si riesce a capire l’avanzato stato di corruzione in Γ a partire da una parola priva di particolari complicazioni. L’altro e più autentico appiglio per un’ipotesi di testo è dato dalla stringa di K, da cui sembrerebbe ricostruibile il sostantivo sermone, generalmente attestato anche per indicare un particolare stile o un particolare modo di parlare, caratterizzante un numero limitato di persone (cf. Plaut. Mil. 751–2: quin tu istanc orationem hinc ueterem atque antiquam

|| 324 V, il codice descriptus, leggerebbe statim. 325 In V non ritrovo la lezione facete, cf. n.19.

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amoues? / proletario sermone nunc quidem, hospes, utere).326 Il nesso sermo seruilis non è registrato in Don., ma non sono rare le sue osservazioni sulle caratteristiche linguistiche degli schiavi: adatta ad un servo è la locutio uitiosa (sintatticamente scorretta), l’espressione anacolutica (Phorm. 249.2), la locutio obscura e dunque l’humilitas (Hec. 309.2: Adiciendo ‘causa’ obscurauit elocutionem suam, sed conuenit seruo haec humilitas orationis [...]), la iactantia uerborum (Eun. 926.2: Conuenit ergo seruilibus uerbis et uelut ioco se uerniliter iactanti et rem confectam esse in puella uirgine et non exhiberi Chaereae damnum uel negotium). Il linguaggio dei servi sembra quindi caratterizzabile soprattutto nei termini di un’improprietas sintattica o lessicale, mentre nel nostro caso questa condizione non si dà, si dà invece l’impressione di una laconica schiettezza, che però non appartiene in modo esclusivo ai servi. In base a quanto detto finora, la congettura dello STEPHANVS, παρρησία, con cui l’asse dell’attenzione si sposta non tanto sulla brachilogia quanto sulla prontezza elocutiva, appare degna di qualche ripensamento.327 La παρρησία, originariamente indicante la libertà di parola, già in greco è attestata con il valore di un’attitudine a parlare senza pudori (Plato, Phaedr. 240e); in latino è tradotta con licentia (cf. Quint. 9, 2, 27: quod idem dictum sit de oratione libera, quam Cornificius licentiam uocat, Graeci παρρησίαν) e si combina spesso con un atteggiamento senza remore: molto interessanti a questo proposito Isid. (orig. 2, 21, 31) parrhesia est oratio libertatis et fiduciae plenae ‘occidi non Spurium Maelium’ e Sen. (ira 3, 23, 2) in cui è associata alla procacitas: Demochares ad illum parrhesiastes ob nimiam et procacem linguam appellatus inter alios Atheniensium legatos uenerat. A mio avviso παρρησία non solo sarebbe straordinariamente adatta concettualmente e contestualmente, ma il greco permetterebbe di spiegare lo stato lacunoso e corrotto dei testimoni Γ.

An. 324.6 NE ISTE H. M. S. ‘ne’ ‘ualde’ aut, ut quidam uolunt, ‘o quam’. Lucilius in decimo (frg. 2 Cha.) ‘ne 〈tu〉 in arce bouem descripsti magnifice! Inquit’. ne Γq: neque Σ || tu ante in arce add. Housman (1907) 57 || descripsti Wess.: discripsti K: descripsit C: descripsi cett.: discerpsi Steph. (prob. Lachmann)

|| 326 Di solito K, tranne qualche eccezione iniziale, di fronte al greco lascia spazio bianco, per cui è da ipotizzare che già in archetipo ci fosse una stringa in latino, poi interpretata e rielaborata nei diversi rami. 327 Ringrazio il prof. DEUFERT per avermi suggerito di riprendere in considerazione la congettura dell’editore parigino.

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Βοῦς ἐν πόλει: Paus. 1, 24, 2: κεῖνται δὲ ἑξῆς ἄλλαι τε εἰκόνες καὶ Ἡρακλέους·ἄγχει δέ, ὡς λόγος ἔχει, τοὺς δράκοντας. Ἀϑηνᾶ τέ ἐστιν ἀνιοῦσα ἐκ τῆς κεφαλῆς τοῦ Διός. ἔστι δὲ καὶ ταῦρος ἀνάϑημα τῆς βουλῆς τῆς ἐν Ἀρείῳ πάγῳ, ἐφ’ ὅτῳ δὴ ἀνϑέηκεν ἡ βουλή·πολλὰ δ’ ἄν τις ἐϑέλων εἰκάζοι. Hesyc. lex. p. 341 L.: βοῦς ἐν πόλει χαλκοῦς ὑπὸ τῆς βουλῆς ἀνατεϑείς (Henioch. com. fr. 2) Diogen. Gram. Paroem. (67): Βοῦς ἐν πόλει: ἐπὶ τῶν ϑαυμαζομένων.

Don. è testimone unico del frg. 2 del libro X, citato per l’uso affermativo–rafforzativo di ne. L’assetto testuale è dubbio, ma si comprende che si sta facendo riferimento alla statua rappresentante un bue, collocata sull’acropoli ateniese, e di cui ci parlano varie fonti tra cui Paus. 1, 24, 2). Nonostante la presenza di varie ipotesi circa la sua origine, è probabile che si ricolleghi al toro maratonio che Teseo immolò ad Apollo; vero è che la statua doveva essere a tal punto appariscente che l’espressione ‘il bue sull’acropoli’ diventa un modo per indicare qualcosa di assolutamente meraviglioso. Due sono quindi gli elementi essenziali per la riconoscibilità di questo mito: il bue e la rocca; di conseguenza la lettura Marce (sposata dal W. sulla base del codex descriptus V e delle considerazioni di DZIATZKO) deve essere abbandonata a favore di in arce, che traduce appunto (ἀκρό) πόλις. L’altro dato inamovibile è il valore da attribuire al ne, che deve leggersi necessariamente come particella affermativa (= νὴ) perché è proprio per esemplicarne l’uso in senso affermativo che Donato cita Lucilio (ne ad inizio verso si trova, per esempio, in Plauto, cfr. Asin. v. 412: ne tu hercle cum magno malo mihi obuiam occessisti; Mil. v. 571: ne tu hercle, si te di ament, linguam comprimes); abbastanza certo è anche il verbo describere, unanimemente tràdito sebbene con oscillazioni di persona. Considerando dunque i punti ‘forti’ della citazione, è possibile tracciare qualche ipotesi di significato: si può supporre che chi parla si stia rivolgendo ad un secondo personaggio (reale o fittizio), di cui elogia la magnifica descrizione del bue sulla rocca, oppure stia tessendo un elogio di se stesso, per il modo in cui ha descritto magnificamente il bue sulla rocca. Non è improbabile perciò che si tratti di un contesto meta–letterario, in cui Lucilio polemizzi contro la magnificenza linguistica di qualche suo avversario —lettura che potrebbe trovare diverse conferme (cf. Prob. Vita Persi [KISSEL 2007, p. 44]: sed mox ut a schola magistrisque diuertit (scil. Persius), lecto Lucili libro decimo uehementer saturas componere instituit. Cuius libri principium imitatus est, sibi primo, mox omnibus detrectaturus cum tanta recentium poetarum et oratorum insectatione, ut etiam Neronem illius temporis principem inculpauerit; cf. anche Porph. Hor. serm. 1, 5, 51ss.). Stabilito questo, la metrica del testo risulta difettosa in particolare nel primo piede: a mio avviso, ha ragione HOUSMAN (1907) 57 a leggere descripsti, perché

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spiega l’oscillazione descripsi/descripsit dei codici; a questo punto diventa quasi naturale integrare un tu che ripristini anche uno schema esametrico. Si può certo obiettare che la citazione ametrica potrebbe in ultima analisi imputarsi allo stesso Don., in linea con quanto detto a proposito di altri frammenti, ma in questo caso, trattandosi dell’assenza di un monosillabo, diventa più probabile l’ipotesi di un guasto di tradizione.

An. 328.2 CORDI animo, a cura. post animo nou. schol. stat. Wess. || a cura scripsi: acute K: acuto ω (hic lacun. sign. Wess.): acue τὸ cordi tempt. Wess.

Panfilo tranquillizza Carino: le nozze con Filomena gli sono imposte, non è lui a volerle, e proprio per questo è deciso a trovare un piano per sventarle; come se non fosse del tutto convinto, Carino incalza dicendo che, se proprio non gli fosse possibile evitarle (sed si id non potest aut tibi nuptiae hae sunt cordi…), chiede che almeno vengano differite così da dargli il tempo di andarsene da qualche parte. In una nota a carattere glossematico, Don. spiega cordi con animo; subito dopo si legge acuto, che evidentemente non dà senso. W. si decide a segnalare una lacuna dopo acuto, isolandolo rispetto allo scolio 328.2, come se facesse parte di una annotazione successiva ed indipendente (328.2 cordi animo. 328.3 Acuto 〈***〉); in apparato avanza una proposta molto perspicace in termini paleografici, acue τὸ cordi, con la quale quindi Don. inviterebbe ad enfatizzare cordi, al fine di far notare ancor di più l’assurdità dell’ipotesi di Carino. Nel DC l’enfasi è un elemento che rientra nella sfera della pronuntiatio ed è un motivo esegetico ricorrente. Dall’esame degli scoli che invitano ad acuere specifiche parole nel flusso verbale (Ad. 164.3: re male feceris acuendum est ‘re’ et significanter proferendum: ibi enim sententia est; ibid. 268.2; ibid. 845.1; Eun. 437.2; Hec. 67.2; ibid. 865; Phorm. 70.5), si deduce che l’actio acuendi, quando non motivata sul piano strettamente grammaticale, è richiesta in corrispondenza di parole che hanno una particolare rilevanza nel contesto (per lo più mono– o bisillabi), che se non adeguatamente pronunciate rischiano di essere trascurate. Ora, il passo in questione è giocato sulla Missuerständnis tra Carino e Panfilo: il primo ignora che a Panfilo importa pochissimo delle nozze, e che anzi cerca in ogni modo di evitarle; cordi è di fatto il fulcro comico dell’incomprensione, però l’enfasi che si vorrebbe dare a questa parola grazie ad una particolare tonalità, è resa del tutto inutile dalla ripetizione: appena sente cordi, Panfilo ripete stupito la parola cordi in forma di domanda – si tratta del noto meccanismo delle Echofragen (cf. MÜLLER 1997, 212). Dunque, questa parola risulta già particolarmente

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valorizzata da Terenzio tanto che sarebbe inutile un ulteriore ammonimento di Don. in tal senso. A mio avviso questa sezione testuale va ripensata in altra forma: non c’è nessuna necessità di stabilire l’incipit di un altro scolio in corrispondenza di acuto; credo inoltre molto concreta la possibilità che quell’acuto celi un’etimologia di cor–cordis: cor sta per animo e deriva da x. L’incognita è facilmente risolvibile sulla base di Isidoro, il quale la riconduce a cura (Isid. orig. 11, 1, 118: cor a Graeca appellatione deriuatum, quod illi καρδίαν dicunt, siue a cura). Sul piano paleografico, la corruzione da a cura ad acuto sarebbe facimente spiegabile in un contesto di scriptio continua nonché per la comune confusione di r e t in molte tipologie grafiche; da acuta si sarebbe poi verificato un’ulteriore involuzione in acuto per influsso del precedente animo.

An. 329.3 AVDI nunc iam correptio impatientis, qui non sinat 〈...〉. nunc iam] nunc fort. B: nunctiata C: nuptia T: nunctia Fq || qui inc. B || non sinat 〈…〉 Cioffi: non om. sp. rel. A: sp. rel. post tres uel quatt. euan. litt. B: non sunt in exilium ire sunt K: non sinat audire Σ (post audire add. de exilio Λ)

La tradizione manoscritta denuncia un assetto sofferente immediatamente dopo il non, rispetto al quale tutte le proposte di testo appaiono insoddisfacenti: W. stampa senza troppi scrupoli la pericope di Θ (non sinat audire), ZWIERLEIN (1970, 33) interviene emendando il testo di K (qui non sinat in exilium ire), Karsten integra un non dopo sinat accettando sostanzialmente la lettura di Θ. Prima di entrare nel merito del testo dei manoscritti si rende necessario dare contezza del contesto: Carino ha rivelato (grazie all’intercessione di Birria) di amare la donna che Panfilo, invece, è obbligato a sposare contro sua volontà; alla confessione segue la richiesta di annullare le nozze o almeno di procrastinarle in modo che possa avere del tempo per andare via, ritirarsi da qualche parte. Panfilo, a questo punto, lo interrompe bruscamente dicendo audi iam nunc (= ora ascoltami bene!), facendogli notare di non avere alcuna intenzione di sposare Filomena poiché ama un’altra. Donato commenta l’espressione di Panfilo, che ho appena citato, definendola come una brusca interruzione, tipica di una persona che ha perso la pazienza (correptio impatientis); alla principale viene legata, a questo punto, una frase relativa rispetto alla quale i codici presentano delle importanti divergenze testuali: A, dopo il relativo qui, lascia chiaramente dello spazio (W. calcola 16 lettere); in B, invece, la situazione è meno chiara: la carta è danneggiata proprio in questo punto e, dopo qui, presenta almeno una o due parole e poi uno spazio

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ridotto; K ha un testo insensato (probabilmente da spiegarsi con una parola segnale mal compresa); il testo di Θ è quello meglio conservato, almeno in apparenza, mentre Λ sembra avere una soluzione testuale risultante dalla contaminazione con K. Partiamo dal testo che stampa W. (Θ): già l’ESTIENNE trovava qualche difficoltà rispetto alla stringa qui non sinat audire, tanto da emendare sinat in sustineat. In effetti, il testo avrebbe senso solo se sinere fosse attestato nel significato di patior (lo interrompe perché non sopporta più di ascoltarlo)328, ma non sembra contemplata questa possibilità semantica: s. può anche essere spinto al significato di ‘sopportare’, ma, in ogni caso, significherebbe ‘sopportare che qualcuno faccia qualcosa’ e non ‘sopportare di fare qualcosa’, a meno di volere intendere la frase di Donato in questo senso (opzione del tutto improbabile): non se sinit eum audire (non dare la possibilità a se stesso di ascoltarlo). Anche l’integrazione di KARSTEN è volta ad aggirare questo problema. E per la stessa ragione, ossia la semantica di sino, bisogna cassare anche il testo Λ. Da K ci aspetteremmo delle risposte che di fatto non dà: ammesso che questo codice avesse visto un testo come qui non sinat in exilium ire e che, quindi, sunt fosse nato come variante di sinat, poi trascinata a testo e dislocata,329 è ingenuo credere alla sua autenticità, non solo per ragioni linguistiche, ma interpretative. Panfilo interrompe Carino proprio quando inizia a formulare l’ipotesi di andarsene in un qualche luogo, ma Panfilo non fa alcun cenno all’esilio né quello che dice è in un qualche modo ad esso connesso: gli interessa sottolineare semplicemente che a lui delle nozze con Filomena non importa nulla e che quindi non c’è alcun bisogno di fare appello alla sua gratitudine! In exilium ire non è una stringa autentica, ma si spiega come un tentativo di dare senso ad un testo probabilmente corrotto; è anche possibile che un antenato di K avesse una lacuna dopo sinat e che qualcuno abbia provato a colmarla basandosi anche sullo scolio immediatamente precedente (329.2 [...] ‘aliquo’ dixit, ut exsilium esset incertum) ma senza prestare molta attenzione al testo terenziano. L’unico dato ricavabile da K è proprio la presenza del sinat: se si escludono eventuali rapporti di contaminazione fra K e Σ, la presenza in entrambi si traduce in una probabile presenza del sinat nello stesso archetipo.

|| 328 È chiaro infatti che, poiché è Panfilo ad aver perso la pazienza, non ha senso dire ‘per non permettergli di ascoltare’, ma, al massimo, avremmo dovuto leggere ‘per non permettergli di parlare’. 329 Ripeto che potrebbe essere entrato in gioco un meccanismo di parola segnale o di correzione supra lineam frainteso.

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Ritengo, dunque, il testo di K gravemente corrotto, e quello ΘΛ non autentico, ma risultante da tentativi mal riusciti di supplire una lacuna di cui già doveva soffrire ω.

An. 339 VT METVM IN QVO NVNC EST A. A. E. A. G. ordine locutus est: prius enim metum adimere, sic demum gaudio perfundere. Hic ordo etiam in laude seruatur. laude ω: Plauto Rank (1927, 177) || post seruatur quaedam excidisse puto

Davo è in cerca di Panfilo perché vuole comunicargli una buona notizia: le nozze previste per quel giorno sono solo un piano organizzato da Simone per provare le intenzioni del figlio (una situazione molto comune nella commedia nuova). Con questa informazione scaccerà via il suo timore e lo riempirà di gioia. Donato a commento di quest’ultima frase sembra dire: “Davo parlò con ordine, prima infatti gli sradicò la paura e poi lo riempì di gioia. Questo ordine è osservato anche quando si loda qualcuno”. Quest’ultima considerazione è sibillina: HARTMAN (1895) 138–139 si chiede come interpretare l’ultimo periodo e si spinge a supporre che laude sia la corruzione di un narratione o simili. Le difficoltà che pone il termine laus sono di due specie: in primo luogo è estendibile alla lode una fase di metus ademptio e gaudii perfusio?; in secondo luogo, ammesso che si voglia estendere questo schema anche alla laudatio, per ripristinare un senso coerente, si dovrebbe pensare che l’ordo laudis consista in una prima fase in cui si prosciolga il laudatus dalle infamie e, poi, se ne ricamino le lodi. Ma un’interpretazione del genere è smaccatamente forzata. RANK (1927) 177 individua una criptocorruttela in laude, leggendovi quindi Plauto, secondo il ragionamento per cui scene in cui si comunicano notizie positive sono tipiche della commedia in generale e ne troviamo molti esempi anche in Plauto. Il tutto si ridurrebbe dunque ad un confronto fra Plauto e Terenzio, di cui non mancano esempi in Don. (Ad. 914.6, al., cf. infra). La correzione è suggestiva, paleograficamente ineccepibile, ma non priva di problemi: in primo luogo dovremmo ammettere che venga menzionato un autore non accompagnato da una qualche citazione; la difficoltà non era sfuggita al RANK, che quindi adduce alcuni dei passi in cui si nomina Plauto senza però dare un contesto ben definito: Eun. 694.1 (haec Plautina sunt, cum in iisdem longa sit disputatio); Ad. 914.6 (est autem hoc ‘iube nunc iam’ figura etiam apud Plautum frequentissima). A mio avviso non si può parlare di veri e propri paralleli perché in Ad. 914.6 si parla in modo specifico di ‘figura’ Plautina con relativa esplicitazione dell’idea

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della frequenza d’uso (frequentissima): questo rende non necessaria la citazione; ad Eun. 694.1, forse più utile per la congettura del RANK, Don. riconduce sì a Plauto il modello adoperato da Ter. per la lunga disputatio di questa sezione, ma adopera pur sempre una forma generica haec Plautina, seguita da pertinente motivazione. La formulazione dello scolio dell’An. è troppo oscura, ed è difficile accettare l’emendamento di Rank senza dover postulare una qualche ulteriore lacuna, al limite contenente una citazione ben precisa; d’altro canto un riferimento allo schema della laudatio non mi pare improbabile (prima si escludono i difetti di una persona, poi si elencano anche le sue caratteristiche positive, come in Eugr. ad loc. (ordinem et rationem posuit: prius enim id quod malum est debet excludi, ut id quod bonum [[est]] melius feliciusque teneatur),330 benché si ammetta che, nell’assetto attuale dello scolio, sia da cogliere una mancanza di informazioni: segnalerei quindi la caduta di testo dopo seruatur, in cui sarebbe stato giustificato e precisato l’accostamento.

An. 348.3 HODIE tempus addidit tamquam rem 〈ne〉scienti. nescienti Beck (apud Jakobi GFA 2017, 29, coll. Eugr. An. 347): sciens B: scientis AK Σ: scienti Bentley (prob. Rank 1927, 179) Pa.: Nuptiae mihi … –Da.: Etsi scio? – Pa.: Hodie.

La sinteticità con cui è confezionato lo scolio e lo stesso ipotesto terenziano inteso ad opporre personaggi con diversi livelli di conoscenza sono alla base di tentativi di correzione poco soddisfacenti: la congettura di BENTLEY, sposata più di recente da RANK (1927) 179, non sembra adeguata alla logica dialogica dei versi considerati: ad aggiungere il riferimento temporale (hodie) è Panfilo, il quale continua a parlare nonostante lo schiavo cerchi in tutti i modi di fargli capire che sa già tutto. La sua insistenza non avrebbe avuto senso se avesse avuto la lucidità di capire che Davo non necessitava di essere informato; se gli dà i diversi dettagli è perché pensa (tamquam) che non sia al corrente delle ultime novità. A sostegno di questa interpretazione si può addurre anche il relativo passo di Eugrafio: Pamphilus autem tamquam inscio seruo et adhuc ignoranti ingerit causam calamitatis suae, cum dicit nuptiae mihi etc.

|| 330 Che, a sua volta, non è priva di problemi (nella uituperatio non si dovrebbe, per esempio, seguire lo schema opposto?).

302 | Commento filologico-testuale

An. 352.3 SCIES (sic ϴ: SCIO ΓΛ, prob. Wess.) praeparatio est auditoris ad eam narrationem ... La tradizione terenziana è divisa fra scio e scies, la maggior parte degli editori stampa – a ragione – scio. Purtuttavia il commento di Don. si spiega bene solo a fronte di un testo con scies, che legittima nella prospettiva di chi ascolta l’attesa di ricevere delle spiegazioni.

An. 362.2 SOLITVDO ANTE OSTIVM quasi circumuentum et non consentientem Pamphilum excitat ad gaudium laetitia sua. post solitudo add. est AK || hostium Σ || circumuentum SCHOELL* coll. An. 524.2: conuentum ω || Pamphilum Steph.: filium ω: per silentium Rank (1927) 180

Davo riferisce a Panfilo gli indizi che gli fanno dedurre che quella delle nozze è solo una falsa notizia: davanti alla casa non c’era nessuno, non c’erano ghirlande, non un qualche segno di preparitivi. Inizialmente Panfilo si mostra un po’ scettico (quorsumnam istuc?), ma poi si convince pur con qualche riserva. Don. spiega la dinamica del loro dialogo e la reazione di Panfilo in questi termini: lo schiavo è così tanto felice da indurre alla gioia (quasi senza ragione) anche Panfilo, il quale però si comporta come se si sentisse ingannato e dunque non disposto a cedere alle argomentazioni di Davo. Il nome di Panfilo è un emendamento (facile) dello STEPHANVS sul tràdito filium, che, chiaramente, non si adatta al contesto poiché a parlare è lo schiavo e non Simone. L’errore si può motivare sia a partire da una glossa sopra lineare sia come cattiva lettura del nome Pamphilum (a filium estremamente simile, come si intuisce). Secondo RANK, però, lo scolio avrebbe un problema interpretativo nella definizione di Panfilo come non consentientem perché, a suo parere, l’unico segno di disapprovazione palesato da quest’ultimo sarebbe il silenzio; la proposta è quindi di leggere per silentium in luogo di Pamphilum, nome che si può facilmente dedurre dal contesto senza essere esplicitato: in pratica, Panfilo mostrebbe, tacendo, la sua diversa prospettiva. Chiaramente la congettura è interessante, ma non necessaria: non con–sentire (che per sua stessa natura implica una percezione del tutto interiore, non necessariamente da esternare) fa riferimento allo scetticismo di Panfilo, al suo pensarla diversamente, quindi non c’è alcun bisogno di specificare in che modo lo manifesti: tra l’altro, non è del tutto vero che lui tace, visto che gli domanda nervostamente quorsumnam istuc, con l’ellissi del verbo che è indicativa dello stato d’agitazione di chi sta parlando.

Andria, Atto II | 303

An. 363.3 MANEO ne temperius fugerit. temperius scripsi: temporius Wess.: in (ui B) temporis AB: temporis KΣ || fugerit Wess.: fuerit ω || post fugerit add. dilatio Λ: add. littera K

Davo raggiunge l’abitazione di Cremete e si sorprende nel vedere un’atmosfera da giorno ordinario, senza il via vai di persone tipico di una celebrazione di nozze; per questa ragione decide di restare nelle vicinanze per meglio capire cosa stesse accadendo. Lo scolio 363.3 è tràdito in una forma non difendibile sia per questioni meramente grammaticali che di senso: ne (in) temporis fuerit; per evitare interventi più dispendiosi come un’integrazione che dia senso al genitivo temporis, W. più economicamente lo corregge in temporius, intervenendo poi anche su fuerit: sono entrambe correzioni alquanto economiche, ma non vedo alcuno motivo per non preferire la forma di comparativo più comune, ossia temperius, attestata già in Cicerone (fam. 9, 16, 8: temperius fiat, cetera eodem modo); temporius è più tardo e le sue occorrenze si limitano alla prosa cristiana (cf. Pereg. Aeth. 35, 1 e LÖFSTEDT 1911, ad loc.). Contro la lettura unanime tempor–, mancherebbero argomentazioni stringenti che favoriscano temper– soprattutto perché, dato lo stato della tradizione, è in forse lo stesso sviluppo argomentativo; ma poiché l’economicità delle correzioni si accompagna al ripristino di un senso accettabile, merita di essere proposta a testo.

An. 369.2 Et †si quid si ‘minutos’ sed omnibus† ‘seni’ dixit, ut obsonationis ostenderet causam. si–omnibus cruc. signaui || si quid si Γ (si quid K): quidem si ϴ: quidem sic Λ: quid si e2 || minutes A: minutas K || sed omnibus] sp. rel. sed B: se donibus K: non omnibus Λ || post omnibus add. sed in cenam Λ || dixit] om. Λ || ut] om. Fq

Stando alla ricostruzione indiziaria di Davo, il padrone non starebbe allestendo nessun banchetto matrimoniale perché il servetto inviato a far la spesa aveva comprato una scarsa quantità di cibarie, certo non adatta per una simile festività: in altre parole, quello delle nozze era solo un piano per mettere alla prova Panfilo. Proprio per lo scetticismo di quest’ultimo Davo insiste nel descrivere la povertà del cibo che Simone avrebbe fatto comprare: holera et pisciculos minutos ferre [fere aliquot edd.] obolo in cenam seni.

304 | Commento filologico-testuale

A rigore di grammatica pisciculus è già un diminutivo (ThlL X.1 2201, 74ss.) per cui Don. con qualche pignoleria fa notare che l’aggettivo minutus non aggiungerebbe alcuna informazione a quanto già espresso dal sostantivo; diversamente la specificazione del prezzo è importante perché non c’è corrispondenza diretta fra dimensione e prezzo. Questo è il commento di An. 369.1; lo scolio 369.2 è problematico già nel suo attacco: dopo et Γ legge si quid si, quidem si ϴ, quidem sic Λ, mentre W. (Et quid si ‘minutos’ sed omnibus? ‘seni’ dixit, ut obsonationis ostenderet causam) accetta la correzione della princeps (quid si), che in effetti dà all’interrogativa una movenza non insolita nel DC, tipica quando si pone attenzione ad una particolare scelta linguistica o anche di altra pertinenza, seguita da una spiegazione molto brachilogica, strettamente legata all’effetto o all’informazione che Terenzio vuole veicolare (cf. An. 101: quid si pauperem? At ‘cum dote summa’; An. 364: quid si intus erant? Ideo ait ‘exire neminem’; Eun. 659.2: ... quid si uerberata est ?, al.). Il secondo punto problematico, se si prescinde da qualche oscillazione in AK circa minutos, si individua nella zona sed omnibus, dove B lascia addirittura dello spazio in bianco, segno ovvio di una qualche difficoltà di lettura. Lo stesso testo di W. in questo punto, benché con la correzione della princeps e un certo lavoro di punteggiatura, continua a non essere limpido: soprattutto non si capisce il motivo del richiamo all’aggettivo minutos, che sembra condurre lo scolio nel solco del problema sollevato in precedenza, per poi repentinamente spostare l’asse del discorso su seni. All’analisi complessiva della nota, credo che lo scolio volesse semplicemente puntare l’attenzione sul fatto che il servetto incontrato da Davo dopo la spesa si dice la portasse al vecchio (seni): una precisazione non casuale perché Davo vuole ribadire il motivo e la finalità di quelle cibarie. In ultima analisi lo scolio si giocherebbe sull’opposizione omnibus–seni. Questa ricostruzione resta tuttavia ipotetica, imprudente da tradurre in termini testuali,331 in particolare perché il riferimento a minutos non sembra gestibile ed anzi è lì, in quella zona, che i codici tradiscono non poche difficoltà, quasi che fosse avvenuta una perturbazione meccanica (si noti la strana corrispondenza fra 369.1 sic minutos ed il problematico si minutos di 369.2). Per tutte queste ragioni si rendono necessario le cruces.

|| 331 Ci si dovrebbe rappresentare uno scolio originariamente concepito come segue: Et quid si omnibus? Sed ‘seni’ dixit ... (cf. An. 100.2: quid si taedio multarum filiarum? At ‘unicam’).

Andria, Atto II | 305

An. 383.1 CEDO ‘cedo’ singularis numeri est, ‘cette’ pluralis, ut ‘salue, saluete’. numeri KB ϴ: numerus A: numerus vel numeri codd. Λ

La restituzione dello SCHOPEN non è da mettere in discussione: è infatti sostenuta anche da una serie di loci similes indubbi (cf. ad loc.). Si dovrebbe piuttosto prendere in considerazione la proposta di ZWIERLEIN di stampare numeri e non numerus: numeri non solo è testimoniato da due rami della tradizione (BKΣ), ma corrisponde anche ad un uso tipico della lingua grammaticale: si tratterebbe di Genitiv der Rubrik (K.–S. II 429, HOFM. – SZ. II 74ss.). Numerus di A non è altro che una lectio singularis a carattere banalizzante. Una simile costruzione in Donato trova un buon parallelo ad Eun. 219.3: insomnia uigiliae. Legitur et ‘adiget’, ut sit ‘insomnia’ numeri singularis.

An. 400.2 [...] num diuinat an ‘puerum’ pro quolibet sexu – subolem, hoc est filium significat, ut (u. 219) ‘quicquid peperisset d. t.’ – ut Graeci [pueros] παῖδας? Homerus (Il. 1, 255) πριάμοιό τε παῖδες et Horatius (carm. 1, 12, 25) ‘dicam et Alcidem puerosque Ledae’. num] nam ϴ: aut Λ || an] aut Λ: om. C (rest. C2) || hoc est] om. B: hoc Fq || filium] foetum Λ || pueros KB: pueris A: puerum Σ : del. Schopen* || παῖδας Steph.: ΠΑΙΔc A: ΠΑΙΔΑC B: om. sp. rel. KΣ (παιδα M4) || πριάμοιό τε παῖδες z: priamo eo te p(a)edes AK Σ: priamo *** eotepedes B: om. sp. rel. β || Laede A

Lo scolio in esame si può considerare come una fine difesa del testo di Ter.: al v. 219, Davo aveva reso noto al pubblico che Panfilo e Glicerio erano decisi a riconoscere il figlio che di lì a poco sarebbe nato, indipendentemente dal sesso (quidquid peperisset); al v. 400 Panfilo accenna al neonato chiamandolo puerum: se con puer Panfilo intendesse veramente ‘figlio maschio’, in che modo e quando l’avrebbe saputo? Questo problema doveva essere stato sollevato già dagli antichi lettori di Terenzio, e così ci si spiega che Don. prenda le sue difese avanzando due ipotesi, la più persuasiva delle quali è certo di tipo linguistico: puer in latino si adopera per indicare entrambi i sessi (cf. ThlL X.2 2512, 51ss. e 2514, 17ss.), esattamente come παῖς in greco (a tal scopo cita Hom. Il. 1, 255). Il testo dello scolio ha due punti di sofferenza: uno immediatamente dopo Graeci ed il secondo riguardante l’intera sezione subolem–t. Pueros è difficile da gestire e le possibilità di intervento si riducono a due: o si suppone che sia caduto un verbo di ‘dire’ dopo il greco (la caduta di stringhe latine in possimità dei graeca non è un fenomeno eccezionale) o si deve accordare ragione a SCHOPEN ed espungere pueros come glossa. A sostegno di questa seconda soluzione parlano

306 | Commento filologico-testuale

diversi fattori: l’oscillazione della tradizione manoscritta in corrispondenza della desinenza e la sostanziale sovrabbondanza rispetto al puerum che precede, oltre al problema di raccordo sintattico, che già si è avuto modo di mettere in evidenza. Nella ricostruzione del greco M4 legge παιδα, creando così perfetta corrispondenza con la voce latina che viene discussa; non si può però ignorare che la desinenza plurale (il sigma lunato) sembra individuabile sia in A che in B, per cui sarebbe preferibile conservarlo. In merito a subolem–t. la decisione di stamparlo in corsivo intendendolo come materiale spurio e non solo dislocato è sostanzialmente dettata da tre evidenze: suboles, così come si presenta nello scolio, sembrerebbe essere menzionata nel testo terenziano, dove non ce n’è traccia; hoc est e significat di fatto nello stesso periodo sono grammaticalmente ed interpretativamente insostenibili; non si comprende l’osservazione da un punto di vista meramente concettuale (suboles significa figlio come ad An. 219 dove però suboles non è menzionato?).

An. 404.1 REVISO QVID AGANT AVT Q. C. C. haec scaena nodum inicit erroris fabulae et periculum comicum; facit etiam exsecutionem consiliorum. ante reuiso add. Simo Dauus Pamphilus A || quid – c2] etc B: quid captent consilii Fq Λ || autem AK || q.] quia K || haec B FΛ: hac AK CT q (inc.) || scaena Λ: sententia Γϴ || nodum AB: modum KΛ: nom(en) β || post nodum add. Pamphilus K || inicit edd. uett.: iniecit ω: innectit Sabbadini (1894) 91 (prob. Wess.) || etiam] quam C || consecutionem B AΘ: hac sententia nodum iniecit K: hac sententia modum 〈Pamphilus〉 iniecit erroris fabulae B: haec scena nodum iniecit erroris fabulae Λ: haec scena modum (nomen β) iniecit erroris fabulae

È un momento molto delicato perché Panfilo deve dare una risposta al padre in merito alle nozze, apparentemente stabilite per quel giorno, e a sua insaputa; suo padre crede che Panfilo le rifiuterà apertamente, ma il giovane, messo in guardia dallo schiavo, fingerà di accettarle. La prima battuta spetta a Simone, che in un a parte, dice ‘torno a vedere che cosa fanno e che piani preparano’. Se noi accettiamo la lettura di Aϴ con hac sententia (con questa frase si stringe il nodo dell’intreccio comico etc.), caricheremo su una battuta ‘di passaggio’, funzionale al mero avvio dell’azione, una considerazione di ben più ampio

Andria, Atto II | 307

respiro che, evidentemente, si adatta all’intera quarta scena. Queste considerazioni ci obbligano ad abbandonare la lettura di AKϴ a favore di B Λ.332 Il secondo problema, che ci sottopone lo scolio, riguarda il significato del verbo inicere, che è unanimemente tràdito; e stando al testo dei manoscritti reggerebbe sia nodum che periculum comicum: lo zeugma pare accettabile a W., ma non l’ambito semantico di inicere, a cui preferisce la congettura di SABBADINI, innectit.333 Nodus è un termine non infrequente in Don. quando vuole riferirsi all’intreccio comico (An. praef. II 1: error inenodabilis, ibid. nodum soluat; ma cf. anche Euanth. de com. IV 5, p. 173 C.: epitasis incrementum processusque turbarum ac totius, ut ita dixerim, nodus erroris) e la quarta scena è sostanzialmente di transizione: Davo e Panfilo avvistano Simone, Davo insiste con Panfilo affinché non mostri titubanza ed accetti le nozze: si può quindi dire che prepara lo spettatore all’intrigo nell’intrigo. In altri termini, con II 4 inizia per Don. la così definita ἐπίτασις (de comoed. 4: inuolutio argumenti, cuius elegantia connectitur). Dal punto di vista testuale, il verbo tràdito non mi pare indifendibile per quanto non ci siano paralleli a supporto del nesso nodum inicere: in contesti quali un’orazione, un discorso, un testo generico, inicere può assumere il valore di inserere, inducere (cf. ThlL VII 1, 1614, 76ss.): si veda, per esempio, Cic. inu. 1, 25: aliquid triste, nouum, horribile ... inicere. Con il significato di ‘aggiungere’, ‘immettere’ qualcosa in una certa situazione, manterrei inicit, rispetto al quale innectit potrebbe essere banalizzante; inoltre inicere rende tollerabile lo zeugma nodum ... periculum,334 che con innectit diventerebbe molto più problematico (a meno di correggere in periculi comici, facendo dipendere tutto da nodum: soluzione poco metodica e poco economica). In merito al tempo verbale: Donato suole usare il presente quando deve presentare il contenuto di una scena, la trama etc., per cui mi limiterei ad emendare iniecit in inicit, ritenendo probabile che la e si sia formata per un’errata lettura di una correzione supra lineam: probabilmente la lettera c era stata confusa con la e formando un inieit privo di senso. Qualcuno ha poi ripristinato la c sopra la e che, in una fase ancora successiva, è stata intesa come un elemento da aggiungere, e dunque iniecit. A questo punto resta qualche considerazione su K, perché il nome Panfilo ha un sapore chiaramente congetturale. Se infatti proviamo a rileggere il suo testo,

|| 332 Considerata la distribuzione delle varianti in questo punto è molto probabile che si tratti di una uaria lectio già di ω ma non escluderei neppure una congettura indipendente. 333 SABBADINI (1893) 91. 334 Per la giuntura periculum inicere, cf. Cic. Caec. 42: periculo mortis iniecto.

308 | Commento filologico-testuale

che ha hac sententia in ablativo, è evidente che manca un soggetto. L’interpolazione non è priva di una certa intelligenza (Panfilo si adatterebbe benissimo soprattutto al facit executionem consiliorum), ma l’assenza ingiustificata nel resto dei manoscritti, l’oscillazione ablativo/nominativo di scena/sententia e l’usus donatiano (cfr. Ad. 288.1; Ad. 447.1; Ad. 592.1) ne rivelano la natura non autentica335. L’accordo in errore con Λ in merito a modum è forse non riconducibile a contaminazione essendo possibile un’origine poligenetica.

An. 410.1 NVMQVAM HODIE TECVM ab utili 〈et〉 euentu. et euentu Wess: euentum AK Λ: inuentum Sabbadini (1894) 93

Nel DC sono ben documentabili formulazioni sintetiche come ab utili (Don. An. 25.1, ibid. 389.4, al.), dove si lascia implicito argumentum o causa; lo stesso si può dire per l’espressione ab euentu, adoperata per lo più a caratterizzare e definire una certa tipologia argomentativa o difensiva (Don. Phorm. 1016). Nel caso specifico, Davo esorta Panfilo a fingere di accettare le nozze di buon grado perché solo in questo modo il padre non avrà nulla da rimproverargli: si tratta quindi di un’argomentazione basata sulla categoria dell’utilità/convenienza e più specificamente di ‘circostanza’, come sottolinea, meno laconicamente, Eugrafio: ... quoniam Pamphilus ueluti difficultatem posuerat dicendo ‘〈modo〉 ut possit’, respondit rursum ad euentum, quod pater hodie uerbum non commutaturus sit, si semet dixerit esse ducturum.

An. 412.2 ERVS ME R. R. ad hoc uenit Byrria, ut in errorem concitet Charinum. post ut fort. rursum addendum || in errorem] n errorem A: moerore β || concitet Wess.: conciliet AB: consiliiet K: conculpet Σ

Simone chiede a Panfilo di sposare Filomena quello stesso giorno; Panfilo, persuaso dallo schiavo, fa finta di accettare di buon grado, recitando bene la sua parte al punto da convincere anche Birria, lo schiavo di Carino, mandato lì dal padrone a sorvegliare le mosse di Panfilo. Quindi, alla fine della scena, Birria

|| 335 Tra l’altro, poiché scaena per motivi di coerenza interna allo scolio e esterna (testo di Terenzio) è sicuro, se dovessimo accettarlo all’ ablativo, dovremmo necessariamente integrare un in prima di hac. In ogni caso, poiché ho dimostrato in altri punti, la chiara attitudine di K alla congettura, non credo di dover ulteriormente argomentare contro il suo testo.

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corre dal padroncino a riferirgli che Panfilo aveva cambiato idea, che avrebbe sposato Filomena senza opporre resistenza. Il punto sofferente del testo è il verbo che regge la secondaria: W. stampa concitet, mentre il ramo ABK legge conciliet (consiliiet K); Σ legge conculpet (non altrimenti attestato), da cui si stacca per iniziativa personale β e Q, leggendo conculcet: il verbo conculcare336 è attestato sia nel suo significato proprio (schiacciare) che in senso translato (opprimere) in Cicerone, ma è molto usato soprattutto nel latino tardo. In ogni caso, anche ammessa la possibilità di un nesso come conculcare in errorem, il testo di Donato richiede un semplice rafforzare e non un troppo colorito opprimere. Il verbo conciliare è attestato con la preposizione in nel significato di comparare, acquirere emendo (cf. Plaut. Epid. 654: et sororem in libertatem idem opera concilio mea), che chiaramente non si adatta al nostro testo.337 La congettura di W. ha il pregio di essere paleograficamente molto vicina al testo tràdito, oltre a dare un senso al testo accettabile anche sul piano grammaticale/sintattico.338 Sarebbe però da chiedersi se non manchi un riferimento al fatto che Carino sia spinto in errore, ad una cattiva lettura del comportamento di Panfilo, per la seconda volta (cf. Hec. 513.2: bene rursus in errorem reditur).

An. 423.1 ERVS QVANTVM A. V. E. ‘cadere spe’ dicuntur, qui leuati animo a summo ad inferiora labuntur. animo Σ: om. Γ

Excidere, con l’ablativo di separazione, contempla il significato di ‘subire una perdita’ (ThlL V 2, 1236, 73ss.); nel contesto terenziano Birria riferisce a Davo che il padrone ‘si è perso la moglie’ (uxore excidit). Don. spiega la costruzione di excidere con l’ablativo usando il semplice cadere: sono detti cadere dalla speranza, quelli che, portati in alto, dalla sommità scivolano in luoghi più bassi. Il problema di questo passo è capire se dopo leuati sia necessaria l’aggiunta di animo o se animo sia semplicemente un’interpolazione di Σ, che presenta altre e simili forme di intervento. Il dubbio circa la correttezza di animo, che W. || 336 Cf. ThlL IV 101, 42ss. 337 Tra l’altro, conciliare in errorem è un po’ ossimorico perché conciliare ha una sfumatura per lo più positiva. Non escluderei però che nella corruzione del verbo possa aver agito soprattutto l’accusativo successivo; conciliare aliquem è infatti un nesso ben attestato (cf. ThlL IV 41, 31ss.). 338 Cf. ThLL V 65, 51ss.

310 | Commento filologico-testuale

esprime in apparato, è molto plausibile: la relativa spiega l’espressione cadere spe, dove spe sposta il verbo ‘cadere’ dal piano propriamente fisico a quello meta–fisico, quindi ‘restare delusi’. Nella relativa, quindi, ci si aspetterebbe un riferimento alla dimensione ‘metafisica’: la necessità o meno di animo è strettamente legata al significato di leuare, che, in base al testo proposto da Wess., si trova da solo a bilanciare cadere spe. Leuare di per sé significa ‘sollevare’, ‘liberare’, e viene usato tanto sul piano concreto quanto su quello astratto. Fra i casi più interessanti in cui leuo, pur assoluto, ha un chiaro riferimento alla dimensione dell’anima, si può citare Cic. fam. 9, 11, 1 (nam et oratio tua et amor erga me singularis multum leuaret; cf. ThlL VII 2, 1231, 28ss.), eppure qui, anche se il verbo è usato senza ulteriori specificazioni, oratio, ma soprattutto amor, non lasciano dubbi sul piano astratto del discorso. Di contro, se si provasse a eliminare spe nella principale, e quindi ogni riferimento al piano per così dire astratto, si ristabilirebbe l’equilibrio di cui lo scolio sembra difettare. Spe è però garantito dalla tradizione e dal riscontro sintattico rispetto al testo terenziano. Pur con qualche riserva, data la natura ed il generale comportamento di Σ, in questo caso sembra potersi ritenere genuina la specificazione che segue leuati, omessa da Γ.

An. 429.3 MEMINI VIDERE pro ‘uidisse’. Ennius (Ann. I, frg. 9 Sk.) ‘memini me [quam] fiere pauum’ me memini A || quam ω, om. iam edd. uett., secl. Wess. coll. Don. Ad. 106.2 et Phorm. 74.4, item Charis.. 124, 16B. || fiere Ilberg 1852 (coll. Bob. de nom. et pron. p. 40, 4 P.): fieri ω Don. ad Ad. 106.2: unde id fieret (fieret St.: fieri a. add. C fieri codd.) ‘fieret’ producta prima syllaba. Ennius (Ann. I fr. 17 M. = v. 15 V.2). Don. ad Phorm. 74.4: Et sic dixit ‘memini relinqui’, ut in Andria (429) ‘memini uidere’ et ‘memini me (om. CO) fieri pauum (paruum RV: patruum O) Ennius’ (Ann. I fr. 17 M = v. 15 V2). Charis. ars 124 B: pauos et pauo. Ennius ‘memini me fiere pauum’; at Persius pauo. Tert. anim. 33, 8 (cfr. ib. 34. 1; resurr. 1): Pauum se meminit Homerus Ennio somniante; sed poetis nec uigilantibus credam. Pers. prol. 2: nec in bicipiti somniasse Parnaso memini ut repente sic poeta prodirem (cfr. schol. ad locum)

Andria, Atto II | 311

Hor. epist. 2, 1, 51: Ennius … leuiter curare uidetur quo promissa cadante et somnia Pythagorea (cfr. Porph. ad locum)

Il frammento 9 Sk. (= frg. 11 V.) del I libro degli Annali è molto famoso perché costituisce una testimonianza importante all’interno del discorso sulla metempsicosi, che Ennio conduce parallelamente alla sua dichiarazione poetica: Omero ricorda di essere stato un pavone in una vita precedente. Non scendo nel merito del contenuto del frammento con il rischio di ripetere quanto già – a torto o a ragione – si è scritto.339 Questo passo di Ennio è citato in altri scoli del DC, ed è tràdito anche da Carisio (p. 124B.). In tutti i codici sia di Donato sia di Carisio il frammento si presenta con fieri, che ILBERG emenda giustamente in fiere: la forma attiva è rara, ma ha lasciato qualche traccia soprattutto nella letteratura arcaica, cf. ThlL VI 1, 84, 66 (oltre alle citazioni da Ennio, cf. anche Laeuius apud Gell. 19, 7, 10). Per un editore donatiano la scelta fieri / fiere, più che un fatto grammaticale / metrico, investe il piano metodologico. Fieri è chiaramente un errore già d’archetipo (la normalizzazione in un caso del genere è pressoché automatica), ed è anche chiaro che Donato doveva leggere fiere, per le ragioni spiegate da SKUTSCH (p. 165). Dunque, in questo caso abbiamo la possibilità di sorpassare l’archetipo della tradizione in nostro possesso, recuperando da dati esterni quella che doveva essere, e lo è quasi per certo, la forma in cui Donato leggeva e citava Ennio.340 Più fine il problema posto da pauo, se cioè Ennio avesse adoperato l’accusativo arcaico pauom (sic SKUTSCH) oppure pauum (sic VAHLEN). La questione, indipendentemente da quale sia la soluzione, non coinvolge anche il DC, perché non abbiamo indizi per stabilire in quale forma lo leggesse Donato (e nulla vieta che, ammessa come autentica la desinenza –om, già Donato nel IV la vedesse corrotta in –um o la ricordasse in –um), per cui preferirei rimandare a VAHLEN (1854, pp. 4ss.) e SKUTSCH (1985) 164ss.

|| 339 Cf. SKUTSCH (1985) 164. 340 L’espunzione del quam si rende necessaria e dal confronto con gli altri passi che riportano la citazione e per ragioni di senso / metro.

312 | Commento filologico-testuale

An. 436.2 [...] εἰρωνικῶς ‘uirum’ dixit defessum senem. Modo enim ioculariter dixit ‘uirum’. ‘Vir’ enim modo ad uituperationem cum ironia, modo ad laudem sumitur [ironia]. εἰρωνικῶς V2: hyronikos AK: hironocos B: ironicos Σ || defexum Tq || Modo] non CT || post enim add. uirum Λ || post uirum2 add. dixit Λ || Vir–modo] om. Λ || uir Schopen*: uirum AK ϴ: om. B || ad1–laudem] om. q || ad laudem modo Σ || sine ante ironia add. Steph. || del. Schopen*

Il passo è complessivamente chiaro: uir può essere sia utilizzato ironicamente come ‘titolo’ per ridicolizzare una persona sia semplicemente per lodarla. Il punto problematico del nostro passo è nel secondo ironia che nel contesto in cui è inserito, così come tràdito, non dà senso perché, al limite, sarebbe da intendersi come soggetto del sumitur, ma qui non può avere questa funzione grammaticale perché il soggetto non può che essere lo stesso uir (e questo anche nel caso in cui si scelga, come fanno gli editori antichi, di considerare il tràdito uirum come lemma). Restano, quindi, due soluzioni: o espungere ironia come suggerisce SCHOPEN o accettare l’economica integrazione dello STEPHANVS (cf. apparato), soluzione, quest’ultima, che ha il pregio di creare un parallelo con il precedente cum ironia, ma che credo che non sia la più corretta.341 Ad Ad. 723.1 Donato sta commentando proprio l’uso di uir e dice: NESCIS QVI VIR SIET εἰρωνεία, nam ‘uir’ ad laudem poni solet, ut alibi ‘uirum te iudico’. Ne deduciamo che uir di norma ha un significato positivo, ma può essere anche usato ironicamente per svilire una qualche persona. Questo a mio parere sta a significare che è sì necessario precisare quando uir è adoperato ad uituperationem, e quindi ‘ironicamente’, ma non lo è nel caso in cui uir sia adoperato normativamente. Dunque il 〈sine〉 ironia è una precisazione inutile, ed ironia non deve essere intesa come un’intepolazione (= intrusione volontaria), ma come un marginale portato a testo già in archetipo. Ai margini di molti manoscritti donatiani (ma non è certo una caratteristica precipua solo di questa tradizione, ci sono numerosi casi simili) i copisti tendono a segnalare, con più o meno costanza, le parole notevoli degli scoli nonché la terminologia retorica: ebbene, in questo caso la parola ironia, indicata a margine di questo scolio è stata accidentalmente portata a testo, ma a questo non ben accordata. Do dunque ragione a SCHOPEN sulla nececcità di espungerla.

|| 341 Accetto l’emendamento di SCHOPEN. La riflessione sul duplice utilizzo di uir è generalizzante, per cui mal si adatta citare Terenzio (e quindi uirum all’accusativo). Tra l’altro l’errore è spiegabilissimo dato il precedente uirum.

Andria, Atto II | 313

An. 447.1 SVBTRISTIS VISVS EST ESSE A. M. ‘sub’ temperamentum est plenae pronuntiationis, – ut ‘subridet’ non ad plenum [tristis aut] ridet – ut confessionem eliceret. tristis aut secl. Wess.

Panfilo sembra essere un po’ triste, osserva Simone con il servo. Il prefisso sub, ci spiega Donato, serve ad alleggerire il significato (pieno) dell’aggettivo triste; la stessa funzione ha, per esempio, nel verbo subrideo, indicante un ridere non in senso pieno. Non ci sono altre attestazioni di subtristis in latino (se non molto tarde) né sembra essere mai esistito un subtristeo*, ragione per la quale Donato, al fine di rafforzare la sua osservazione, preferirebbe addurre un parallelo e contrario: subridere (‘sorridere’). Lo scolio diventa di dubbia gestione immediatamente dopo pronuntiationis: se si legge la pericope tradita senza alcuna interpretazione interpuntiva e senza l’espunzione di W., la frase non ha senso, tutt’al più si intuisce che c’è una parentetica in cui si spiega malamente il senso si subridet, seguita poi da una finale. W. pone la parentetica in corsivo (forse ritenendola spuria o solo perché interrompe l’unità dello scolio) ed espunge tristis aut, di cui si farebbe volentieri a meno: questa non è l’unica confezione testuale possibile ma la più convincente a fronte dei rattoppi testuali a cui gli editori precedenti costringevano il testo. A mio avviso la cosiddetta parentetica poteva essere in origine uno scolio a carattere meramente lessicale, sviluppato nelle grandi linee come segue: subtristis non ad plenum tristis ut subridet non ad plenum ridet, la cui natura surrettizia è probabile ma non dimostrabile (l’espressione ad plenum tristis si trova, per inciso, subito sotto ad An. 447.2; per subridere, cf. Tib. Don. Aen. 10, 740, p. 384, 22: subridere non plenum ridentis adfectum demonstrat; neque enim gaudentis esse potuit risus ille). In definitiva, l’assetto dato dal W. è quello meno dispendioso e più ragionevole, ma temo che serva solo a nascondere un problema più vasto.

An. 449.1 PVERILE EST apparet Dauum nunc quaerere, quid respondeat et ad quam causam deriuet auersa suspicione tristitiam Pamphili, quam animo aduertit senex. ad quam ca–] a qua causa Schopen

La correzione di SCHOPEN non è necessaria: ad quam causam è ben attestato nel significato di ‘in base a quale ragione’ (cf. Cic. Phil. 1, 11, 4: ad quam causam etiam Appium illum et caecum et senem delatum esse memoriae proditum est).

314 | Commento filologico-testuale

An. 450.3 Et 〈mene〉 perturbati indicium est, quia se ipsum pronomine ostendit. add. Steph.

Come già aveva intuito STEPHANVS, l’osservazione di ad An. 450.3 è strettamente vincolata all’uso del pronome mene, di cui il testo palesemente difetta.

An. 455.2–3 2 TV QVOQVE PERPARCE NIMIVM et ‘perparce’ et ‘nimium’, cum sufficeret ‘per’; etenim ‘per’ et ‘nimium’ uituperatio est, ut ‘ne quid nimis’. 3 non laudo quia ‘perparce’ et quia ‘nimium’; nam ‘parce agere’ laudis, nimium peccati est. Γ tu quoque per nimium et ‘perparce’ et ‘nimium’ cum sufficeret ‘per’; etenim ‘per’ et ‘nimium’ uituperatio est, ut ‘ne quid nimis’. Quia per laudo nam et quia ‘nimium’; nam parce agere laudis, nimium peccati ϴ tu quoque per nimium et perparce et nimium cum efficeret per et enim per et nimium uituperatione ut nequid nimis quia non per laudo. Nam et quia nimium nam parce agere laudis nimium peccati. Λ tu quoque per nimium 〈faciendo sumptum perparce pernimium〉 et perparce et nimium cum 〈unum〉 sufficeret nimiam uituperationem 〈inducunt per enim et nimium uituperatio est〉 ut nequid nimis. non laudo quia perparce et quia nimium; parce enim agere laudis 〈est〉, 〈sed perparce et〉 nimium peccati.

Davo giustifica la velata tristezza di Panfilo adducendo l’eccessiva negligenza con cui il padre avrebbe preparato il banchetto delle nozze, e pone enfasi su questo aspetto con un linguaggio particolarmente ridondante; Don. a sua volta difende questa scelta terenziana inquadrandola all’interno dello schema della uituperatio. La tradizione manoscritta palesa serie difficoltà di lettura relative all’incipit dello scolio 455.2: al disordine verbale di ΓΘ si oppone una massiccia interpolazione di Λ. L’assetto voluto da W. è di assoluta condivisibilità: il disordine quia per laudo nam o quia non per laudo sembra riconducibile al fraintendimento di una parola segnale.

Andria, Atto II | 315

An. 456.2 COMMOVI supra ‘sollicitaui’† dixit, modo ‘commoui’. supra] pro Schopen* || crucem signaui

La correzione di SCHOPEN ha valore diagnostico: in questo scolio si fa riferimento ad un sollicitaui impiegato nei versi precedenti, di cui in verità non si hanno tracce; il pro darebbe senso, almeno apparentemente, ma non si comprenderebbe il motivo per cui in luogo di commoui avrebbe dovuto usare sollicitare visto che in altri punti questi due verbi sono menzionati ad indicare perfetta sinonimicità (cf. Hec. 676.1: sollicitere perturberis commouere), spezzando la correlazione forte supra–modo: l’intervento è troppo artificioso. La problematicità di questa osservazione può tanto essere indice della sua natura spuria che imputabile ad un perturbamento di una qualche gravità: in casi del genere si impone l’uso delle croci.

An. 457.3–4 3 QVID HIC VVLT VETERATOR SIBI ‘ueterator’ est uetus in astutia et qui in omni re callidus 〈est〉. 4 Et est–astutia] qui in astutia uetus est || et qui] an atque (scil. sine 〈est〉 ) ? || in omni Steph.: una ω || est add. uett. edd.

Davo è un veterano per quanto riguarda la capacità di raggirare il padrone. La particolare accezione di ueterator è spiegata da Don. con due perifrasi esplicative, la cui tradizione non è del tutto limpida. Il primo emendamento si deve a STEPHANVS ed è concettualmente necessario e paleograficamente ineccepibile: furbo “in un’unica cosa” è una definizione alquanto limitativa, mentre è evidente che la nota lessicale prevederebbe l’opposto. Il testo, così come tràdito, solleva un ulteriore difficoltà: il relativo qui risulta sintatticamente pendens, perché nei codici lo scolio si chiude con callidus. Per questa ragione gli editori antichi si risolvono ad aggiungere dopo callidus un est, la cui caduta sarebbe stata facilitata dal successivo et. Questa confezione è soddisfacente ed economica, ma l’assenza di est unitamente alla difficoltà nella zona testuale in omni re rende plausibile una seconda soluzione: individuare in et qui una criptocorruttela per atque, che per l’appunto renderebbe inutile l’integrazione verbale per il secondo colon. Atque nel DC si registra sia in posizione antevocalica che anteconsonantica e può coordinare tanto proposizioni quanto aggettivi (cf. Don. Ad. 664.1: ... ut non sit illiberale, hoc est malum atque inhonestum; Don. Ad. 866.1: ... in hoc ipso, quod ferus atque inhonestus).

316 | Commento filologico-testuale

10.4 Andria, atto III An. 461.2–3 2 Ergo ‘ab Andria est’ hoc est: Andriae est. 3 〈An〉: Andriae fauet, ut cum dicimus ab illo sto, hoc significamus: illi faueo, illi accommodo suffragium? 2 est3 – 3 fauet Wess.: fauet (faue A) Andriae est ω 3. ante ut add. ergo Θ || ut] s.l. K : et β || ante dicimus add. illo K || sto Schoell: est ω || faueo] faueto K: fauet B

Simone ascolta, senza essere visto, il discorso fra Miside e Lesbia, e intuisce che Miside è la servetta di Glicerio, usando l’espressione ab Andria est. I commentatori sono d’accordo col dire che ab Andria est equivale a ab familia Andriae, ab/ex aedibus Andriae; l’uso dell’ablativo di separazione in assenza di verbi di movimento si trova definito come un tratto linguistico tipico della lingua parlata in HOFM.–SZ. II 255; di contro BAGORDO (2001) 90–92. L’assetto del testo nei manoscritti donatiani è con minime varianti in singoli testimoni il seguente: Ergo ‘ab Andria est’ hoc est: Andriae fauet. Andriae est, ut cum dicimus ab illo est, hoc significamus: illi faueo, illi accomodo suffragium?

In base a quanto tràdito, quindi, ab Andria est risulterebbe spiegato da Don. in chiave traslata o metaforica, senza che si faccia il minimo cenno al significato letterale o proprio che l’espressione idiomatica pure ha, che è poi quella effettivamente assunta in questo passo. Peraltro non potrebbe trattarsi di una semplice ripetizione, un residuo della doppia redazione, perché mal si giustificherebbe la presenza della parafrasi Andriae est, seguita da una coda esplicativa che richiede la presenza della costruzione preposizionale (ab Andria est). In via ipotetica si potrebbe anche considerare Andriae est come un corpo estraneo, una glossa, e che dunque lo scolio si sviluppasse come segue Ergo ‘ab Andria est’ hoc est ‘fauet Andriae’. In questa prospettiva però diventerebbe problematico giustificare la presenza di ergo per raccordare due ipotesi esegetiche diverse; inoltre è da ammettere che il fatto che Andriae est sia caduto a testo proprio in quel punto lascia perplessi. L’intuizione brillante di W. consiste nell’invertire le due espressioni: Andriae fauet e Andriae est.342 A partire dal testo come lui lo confeziona, l’alterazione esibita dai manoscritti si spiega molto bene: dal primo Andriae (461.2) l’occhio del

|| 342 Che Donato non potesse spiegare in prima istanza Ab Andria est con Andriae fauet era già stato intuito, ma nessuno aveva dato una soluzione persuasiva al problema (KLOTZ, per esempio,

Andria, atto III | 317

copista si sarebbe spostato al secondo (461.3); accortosi del salto, avrà riscritto est (an) Andriae in una zona paratestuale; chi si è occupato della trascrizione negli stadi successivi, avrà mal compreso il punto di integrazione, supplendo est (an) Andriae dopo fauet; da qui il testo avrebbe poi subito altre alterazioni: la caduta di an e la corruzione di sto in est. An, infatti, non risulta tràdito, ma la sua integrazione mi pare una soluzione inattaccabile sia sul piano paleografico che in relazione all’usus, per cui la giustapposizione di due interpretazioni alternative è spesso sviluppata per mezzo di una particella disgiuntiva ed in forma interrogativa.343 Quanto all’emendamento di SCHOELL, la sua necessità si impone per evitare che la spiegazione segua un andamento tautologico: è un fatto ovvio che un’espressione marcata debba essere spiegata non con se stessa ma con una equivalente e non marcata: An. 461.3, rispetto ad An. 461.2, offre un’interpretazione figurata del nesso esse + ab ed ablativo, da intendersi come ‘favorire’ ‘essere dalla parte di’. Questo significato, in questa gabbia sintagmatica, è attestato con il verbo sum (Cic. de orat. 1, 55: uide ne hoc totum sit a me), ma soprattutto con il suo corrispondente frequentativo sto (cf. Plaut. Rud. 1100: at qui abs te stat, uerum hinc cibit testimonium; Cic. inv. 1, 4: a mendacio contra uerum stare; Apul. apol. 53: libertus eccille, qui caluis eius loci in hodiernum habet et a uobis stat). Per altri esempi, cf. ThlL I 22, 41ss.

An. 463.1–3 1 VTINAM AVT HIC SVRDVS comice et facete. 2 AVT HIC SVRDVS quia †discedere non possunt. 3 AVT HIC S. A. H. M ... W.= utinam aut hic surdus comice et facete: ‘aut hic surdus’ qui audire non possit, ‘aut haec muta’ quae dicere non possit… AK: ‘aut hic surdus’ quia discedere non possunt (sic A: possit K) B: ‘aut hic surdus’ quia discere non (cetera in lac.) Θ: ‘aut hic surdus’ quia dicere non possunt Λ*: ‘aut hic surdus’ ne possit audire aut haec muta ne possit dicere. Edd. uett.: e2: VTINAM HIC SVRDVS. Comice et facete: AVT HIC SVRDVS qui audire non possunt: AVT HEC MVTA FACTA SIT: ne possit dicere.

|| scriveva: AB ANDRIAE EST simpliciter dixit: Ab andria est pro Andriae est. Nam et usu sic dicere solemus: ergo ab Andria est, hoc est, Andriae fauet, Andriae est ergo, ut cum dicimus: ab illo est, hoc significamus: illi faueo, illi accommodo suffragium). 343 Per i casi di duplici possibilità esegetiche introdotte da an, cf. Ad. 217.2; Ad. 267.2: Ad. 321.3.

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CALPHVRNIVS: VTINAM HIC SVRDVS: comice et facete: AVT HIC SVRDVS ne audire possit. AVT HAEC MVTA FACTA SIT: ne possit dicere. STEPHANVS (Lind., Wersterh., Klotz): VTINAM AVT HIC SVRDVS comice et facete, et hic surdus, qui audire non possit. AVT HAEC MVTA facta sit, ne possit dicere.

Simone sta assistendo di nascosto al dialogo fra Miside e Lesbia: parlano di Panfilo e della sua decisione di accettare il bambino concepito dall’amante Glicerio; la situazione è molto rischiosa perché, per la riuscita del piano di Davo, Simone non dovrebbe sapere del neonato. Questo stato di cose spiega perché Davo, scorgendo il padrone che origlia, esclama: ‘magari questo fosse sordo e quella muta’, un desiderio che Donato sembrerebbe commentare così: ‘aut hic surdus di modo che non possa ascoltare’ e ‘aut haec muta di modo che non possa parlare’. I manoscritti presentano dello stesso scolio versioni diverse: il testo di Λ, su cui si basa sostanzialmente W., è quello apparentemente più sensato, ma, data la tendenza di questo gruppo a manipolare ed interpolare, la sua decisione è attaccabile. Partendo da quanto rimane nel ramo Γ e nel gruppo Θ, dall’incrocio del loro assetto testuale, si evidenziano tre punti di sofferenza: il primo riguarda possit ... ovvero possunt; il secondo riguarda il verbo all’infinito che ne dipende; il terzo investe una questione più scivolosa, cioè l’assenza del commento a haec muta, che evidentemente dovrebbe rientrare, come aut hic surdus, sotto l’etichetta comice et facete. Il verbo audire, stampato da W., è tràdito solo da Λ, ed è molto probabilmente un’innovazione congetturale di questo gruppo; AK leggono discedere, B discere, Θ dicere. Come audire, anche discere sembra una congettura: il verbo discere contempla anche il significato di audire, certiorem fieri, animaduerti (cf. ThlL V 1335, 15ss.), ma non abbiamo paralleli per questo uso in Donato: B, in quanto codice molto interventista, ha probabilmente tentato di correggere il discedere insensato del suo antigrafo, dandogli un senso contestualmente coerente; dicere, invece, è chiaramente inadatto in riferimento al padrone. Stando alla versione di AK(B), si sarebbe indotti a ricostruire una spiegazione per certi aspetti diversa da quella proposta da W. sulla base di Λ: come se Donato stesse spiegando perché Davo sia costretto ad augurarsi cose impossibili e non in cosa consista l’augurio, ed in tale ipotesi ricostruttiva discedere potrebbe essere la lezione corretta: non è immediato individuare un senso preciso per questa spiegazione, se non nelle grandi linee, pur tuttavia sorge il ragionevole dubbio che possa averlo avuto: poiché le servette che stanno chiacchierando, ignare di essere spiate da Simone, non possono essere allontanate, allora Davo si augura che Simone diventi sordo e la servetta muta (penso per esempio a qualcosa di simile: “aut hic surdus perché è troppo tardi per farlo andare via / per allontanarle”).

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Che dopo comice et facete debba seguire una motivazione, come lascia intuire il testo alquanto scontato di Λ, non è un dato sicuro: nel DC ci sono occorrenze di simili etichettature seguite dalla relativa spiegazione, altre in cui ci si limita a definire questa o quella battuta come comica senza ulteriori chiarimenti (Don. Phorm. 252.2; id. Phorm. 194.5). Quindi, a rigore, non si può escludere che aut hic surdus sia un nuovo lemma seguito da commento. In un caso del genere non credo che si possa andare oltre la diagnosi del problema ed anche la diagnosi è molto complicata: per quanto vada dato merito a W. per la confezione testuale qui presentata, essa è pur sempre debitrice nei confronti del gruppo Λ, da cui la restante tradizione diverge in due punti, quelli essenziali al fine di comprendere il reale contenuto di ciò che segue la stringa aut hic surdus. Direi quindi preferibile spostare la proposta del W. in apparato. Da un punto di vista diagnostico non è facile capire se la sofferenza del testo sia da imputare ad una lacuna, seguita da ulteriori stadi di corruzione; se, ad essere corrotti, siano invece quia e discedere; se possa effettivamente trattarsi di un commento che non deve essere letto in connessione con comice et facete. Per queste ragioni collocherei una crux prima di discedere, localizzando il problema più grave in quella zona del testo, quindi separando comice et facete da quanto segue.

An. 464.2 〈IVSSIT TOLLI ID EST〉 suscipi. Legitimos filios faciunt partus et sublatio: matris est parere, patris tollere. iussit–idest add. Wess. || suscipi – tollere] om. sp. rel. Λ (–αH), quasi nouam scaenam distinguens || suscipi] om. K || filios legitimos Θ || parere, patris Wess.: pater matris Γ Θ, defend. Köves-Zulauf (1990, p. 37): patris αH haec est fides: suscipi filios legitimos faciunt parentes [Pro ‘parentes’ habet Ms. Huls. et ed. Veneta utraque partus. Forte legendum: Haec fides, suscipi filios legitimos quod faciunt parentes. Sed postquam intellexi, in Ms. Boend., et ed. Du B. pro parentes esse partus, coniicio legendum esse, suscepti filii legitimos faciunt partus]. Et sublatio matris est: patris tollere. ZEVNIVS 1732

IVSSIT TOLLI

IVSSIT TOLLI: haec est fides, suscipi. Filios legitimos faciunt partus et sublatio matris et patris.

KLOTZ 1838 haec est fides suscipiendo filios legitimos faciunt parentes. HARTMAN 1895 (AKB Θ)*

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〈464. 1〉 iussit tollit haec est fides 〈464. 2〉 suscipi legitimos filios faciunt partus et sublatio matris est pat(er) matris tollere 〈464. 3〉 Iupiter… (αH)* (prob. Cal. Steph. Lind.) 〈464. 1〉 iussit tollit haec est fides 〈464. 2〉 suscipi legitimos filios faciunt partus et sublatio matris est patris tollere 〈464. 3〉 Iupiter… Λ* (–αH) 〈464. 1〉 iussit tollit haec est fides 〈464. 2〉 〈464. 3〉 Iupiter…

Non si può affermare che Terenzio sia molto coerente in merito al ruolo che Panfilo avrebbe rispetto al riconoscimento del bambino avuto da Glicerio. Le discrepanze non sono poche: ad An. 219 Davo parla di una decisione unanime dei due ragazzi (quidquid peperisset decreuerunt tollere), ad An. 401 Panfilo ammette di aver promesso di riconoscere il neonato (suscepturum), ad An. 461 si parla di Panfilo come colui che ha dato l’ordine di riconoscere il bambino. A iussit tolli Don. dedica qualche nota esplicativa alla prassi rituale romana: si tratta di uno scolio testualmente problematico, che si stenta a comprendere nell’assetto in cui risulta trasmesso, soprattutto in corrispondenza della stringa successiva al primo matris (est pat(er) matris tollere). La difesa concettuale più che linguistica tentata da KÖVES–ZULAUF (1990) 36–38 è per certi aspetti suggestiva, ma non riesce a eludere una oggettiva intraducibilità o perlomeno osticità verbale dello spezzone in questione: “il padre è della madre, della madre il riconoscere”, con matris che non può che fungere da genitivo di possesso (KÖVES– ZULAUF traduce così: “Legitime Kinder bringen Geburt und sublatio zustande. Die Mutter hat den Vater in der Hand, der Mutter kommt das tollere zu”). Anche a volere riconoscere merito alla sua lettura, alternativa se non di ‘rottura’, in base alla quale si assegnerebbe un ruolo determinante alla madre, responsabile dell’atto concreto di tollere e dunque sollevare/riconoscere il neonato, di certo il testo, così come è, non potrebbe essere difeso neppure alla luce della povera sintassi del DC. L’idea di base della sua tesi, che ridà peso al ruolo materno nella fase dell’agnitio, a mio avviso, sarebbe stata degna di considerazione solo se nello scolio in questione si facesse riferimento specifico all’Andria, dove effettivamente le contraddizioni interne al testo possono dare ansa ad una lettura di questo tipo. Qui però il discorso di Don., che si colora di una terminologia per così dire giuridica (per legitimus, cf. Paul. dig. 23, 2, 65, 1; per altri passi pertinenti, cf. ThlL VII

Andria, atto III | 321

2, 1112, 12ss.), è inserita in un fraseggio tipico di un’asserzione a carattere universale, e risulta ragionevole credere che riproponga il notorio concetto della responsabilità paterna circa il riconoscimento del bambino.344 Di conseguenza continuerei a stampare l’assetto dello scolio così come ristrutturato in modo economico e perciò persuasivo da W.: come si intuisce dal suo testo, la zona di sofferenza è individuata in quel pat(er), pericolosamente vicino ad un verbo che, in nesso con matris, ha enorme plausibilità, ovvero parere. Pat(er), quindi, non è altro che un originario parere, la cui corruzione (estremamente facile se si pensa ad una carolina) avrebbe poi innescato la caduta del pat(ris) successivo, mentre matris è un errore polare per patris, forse ma non necessariamente innescato dalla corruzione di parere.

An. 465.2 Haec res secundum ius ciuile dicitur, in quo cauetur, ne quis re acta apud iudices repetat. Sic ipse in Phormione (u. 419) ‘actum aiunt ne agas’ re acta ω: rem actam V, prob. Wess.

Il codice V, per l’Andria, risulta descriptus di K, per cui i punti di divergenza sono attribuibili per lo più a congettura. Nel caso specifico, a fronte di re acta, accettare la lezione di V, e poi anche dello STEPHANVS, non mi pare necessario: il nostro esegeta sta semplicemente spiegando che il perfetto passivo del verbo agere usato alla forma impersonale indica qualcosa di compiuto, di ormai inamovibile, e che il termine è passato al linguaggio corrente pur trattandosi di un’espressione fondamentalmente giuridica. L’inutilità dell’intervento si basa su due considerazioni: il significato di res acta e l’uso di repetere. Per il primo sintagma siamo avvantaggiati perché il suo uso è precisato a Phorm. 419: acta res est, de qua sententia prolata sit; quanto al verbo repetere, per il contesto in esame possiamo sia prendere in considerazione il senso intransitivo di ‘ritornare’, sia il senso più specifico di sostenere nuovamente un’accusa / una causa presso una corte di giustizia (cfr. OLD 1619.9a) con ellissi dell’oggetto facile da supplire in base al contesto.

|| 344 L’argomento è stato a lungo sviscerato, non sempre con conclusioni condivisibili: non è il caso di entrare qui nel merito della discussione, dove la priorità è di capire il testo evitando, per quanto possibile, di imporgli teorie precostituite. Per osservazioni equilibrate, cf. FAYER I (1994) 180ss.

322 | Commento filologico-testuale

An. 470.2–3 2. Vnde Cicero (Catil. 18) ‘non solum uideam, sed etiam audiam planeque s. [sentiam]’ 3. 〈SENSI〉 quasi ad tactum ... 2. s. [sentiam] 3 〈sensi〉 Cioffi (iam Wess.): s. sentiam Γ: s. Θ: sentiam uel sentiam sententiam codd. Λ

W., che stampa 470.2 sentiam. 470.3 〈sensi〉, avrebbe forse reso meglio ragione della diffrazione delle varianti decidendo di stampare s. in luogo di sentiam: s. sentiam di Γ e probabilmente di ω, se interpretano bene le informazioni di Σ, è una configurazione che presuppone un meccanismo noto in questa tradizione (si veda per esempio la doppia citazione in K a An. 56.2), ovvero la presenza della stessa parola in due forme diverse, una puntata e l’altra scritta per intero, spiegabile sulla base della tendenza dei copisti ad annotare supra lineam le parole intere in corrispondenza dei luoghi del testo dove in origine c’erano soltanto delle forme abbreviate. Nel caso specifico Don. avrebbe abbreviato sentiam con la sola s., la s. sarebbe stata sciolta supra lineam con il corrispondente sentiam, quindi finito a testo, così sostituendo il lemma sensi. Questa ipotesi ricostruttiva perde in economicità se si considera che il passo di Cat. 1, 18 è citato soltanto in questo punto del DC, e che quindi chi ha trascritto interamente il sentiam avrebbe dovuto consultare il testo di Cicerone. Questo è teoricamente vero, ma le Catilinarie sono nel medioevo uno dei testi più diffusi di Cicerone, per cui non sarebbe stato impossibile avervi accesso anche solo mnemonicamente; ed ancora, il passo in questione è interessante sotto il profilo retorico per cui non desterebbe stupore se si potesse trovare repertoriato in una qualche raccolta di exempla.

An. 470.5 Ergo senex 〈dicit〉 se non sensu, non ratione sensisse, sed ueluti calcaribus et stimulis punctum. suppleui || sensisse BΣ: sensisse est AK: sensisse 〈ait〉 Wess. (cf. sequ. Λ) || post punctum add. ait Λ

Davo sta spiando Simone, il quale a sua volta spia il dialogo fra l’ostetrica Lesbia e la servetta: Simone sente che le due parlano del bambino concepito da Panfilo, ma crede che sia tutta una messinscena per ingannarlo. Infatti fra sé, dopo qualche attimo di panico, dice di aver capito; intanto Davo in ascolto si chiede “cosa dice di aver capito questo qui?” (v. 470: Quid hic sensisse ait?). Donato approfitta di questa battuta per riflettere sui vari gradi di conoscenza, nello specifico quella razionale e quella dei sensi, ed aggiunge che Simone “(dice) di aver capito non

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grazie ai sensi né grazie alla ragione, ma come se fosse stato colpito da speroni”. Quindi, il suo tipo di conoscenza non è immediatamente riconducibile né alla sfera sensoriale né a quella razionale. Lo scolio è in sé coerente, ma soffre dell’essenza di un verbo reggente, fatta eccezione del gruppo Λ, che legge ait dopo punctum: anche in questo caso il sospetto che si tratti di interpolazione è abbastanza comprensibile visto che ait è esattamente il verbo adoperato da Terenzio, oltre al fatto che è aggiunto alla fine dello scolio. E’ probabile che l’omissione risalga all’archetipo, infatti l’est di AK non parrebbe la corruzione del verbo reggente, bensì un’errata lettura nel punto di passaggio fra sensissE e sed, mentre, anche solo in termini di statistica,345 sembra abbastanza verisimile che il verbo reggente sia un verbo di dire. Per inciso, le ergo – Sätze nel DC prevedono spesso una ripresa logico–concettuale attuata per mezzo del verbo dicere, cf. Ad. 242.4 (ergo sortem dicit pretium, quo empta est, id est uiginti minas), Phorm. 357.5; inoltre anche paleograficamente la sua caduta è facile da giustificare (si pensi alla sua forma tachigrafica).

An. 473.1–2 1 IVNO LVCINA ‘Iuno’ ab iuuando dicta. – 2 IVNO LUCINA Iunonis filia, Graece Εἰλείθυια [Latina Nixos] dicitur. – ‘Lucina ab eo, quod … 2. Εἰλείθυια Steph.: IAIETIA A: IAΘΠA B: om. sp. rel. K Λ || latina Nixos AK, deleui: latine Nixos B Λ: latini Nixos falso Lind. attrib. Wess. || dicitur Λ: dicuntur Γ: dicunt A (post ras.) Wess. || Lucina Θ (C2, om. CF): Iuno Lucina Γ Λ: iuuare Lucina Schoell*

Gli scoli ad An. 473 (1 e 2) interessano l’etimologia e la caratterizzazione mitologica di Iuno Lucina. La prima etimologia (Iuno ab iuuando) è già varroniana (ling. 5, 67); la considerazione successiva riporta in forma sintetica una variante mitica poco nota: Iuno Lucina sarebbe la figlia di Giunone, chiamata in greco ‘colei che viene’ ed in latino Nixos (sic). E poi si dice ancora che Lucina deriva il suo nome dal fatto che porta alla luce. La prima constatazione è che il testo di 473.2 è stato stampato da W. in corsivo: non è da pensare che con ciò intendesse indicarne la natura spuria, ma far risaltare che interrompe l’unità ideale dello scolio 473.1 in cui si esplicita l’origine etimologica dei nomi Iuno e Lucina, da ricondurre in ultima analisi a Varrone. Ad

|| 345 Il verbo dicere, scritto in forma tachigrafica, è infatti spesso soggetto alla caduta.

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ogni modo il contenuto della nota 473.2 solleva più di un sospetto e lo stesso W. nell’appendice rimanda ad un passo di Ov. met. 9, 293–4. La seconda constatazione interessa l’apparato di W., che in questo punto presenta un errore: stampa infatti Latini, attribuendo questa lezione a LINDENBROGIVS, che legge però latine come nella restante tradizione tranne che in A e K; è invece in corrispondenza di Graece che LINDENBROGIVS legge Graeci. Naturalmente, se si sceglie di stampare il dicunt è necessario sia interpungere dopo Εἰλείθυια sia emendare latine in Latini.346 Lo stesso dicunt è il risultato di una correzione in A: AKB hanno dicuntur a fronte del dicitur di Λ. In Donato, comunque, si trovano paralleli per entrambe le forme e per entrambe le combinazioni: Latini … grece; Graeci … latine; grece ... latine etc. Per quanto riguarda la struttura dello scolio, mi pare intuitivo che il fulcro varroniano 473.1 e 473.2 Lucina ... producat costituisca una sezione unitaria; quanto si frappone fra le due etimologie non è però da ritenersi spurio, ma dovuto ad un fenomeno di errata intersezione, comune a questa tradizione. In merito ai contenuti, lo scolio 473.2 registra una tradizione alquanto rara per cui Lucina sarebbe la figlia di Giunone (RE XIII. 2, coll. 1648–1651): l’identificazione di Εἰλείθυια con la latina iuno lucina è presente in Dionigi di Alicarnasso (4, 15, 5): εἰς μὲν τὸν τῆς Εἰλειθυίας θησαυρόν, ἣν Ῥωμαῖοι καλοῦσιν Ἥραν φωσφόρον. Se però Lucina nel mondo romano si identifica o con Giunone o con Diana, nel mondo greco Εἰλειθυία compare in alcune fonti come la figlia di Era (già in Omero compaiono le Illizie come enti con una propria distinta entità, cf. Il. XIX 118–99), ed in Pausania questa tradizione è attribuita ad una variante cretese (I 8,5): Κρῆτες δὲ χώρας τῆς Κνωσσίας ἐν Ἀμνισῷ Γενέσθαι νομίζουσιν Εἰλείθυιαν καὶ παῖδα Ἥρας εἶναι. Nel mondo romano Lucina non ha una propria autonoma sostanzialità: quando Orazio la cita nel carmen saeculare (vv. 13–15), Lucina è solo uno degli appellativi di Illizia (rite maturos aperire partus| lenis, Ilithyia, tuere matres| siue tu Lucina probas uocari| seu Genetyllis). L’unico testo latino in cui è scherzosamente suggerita la distinzione sostanziale delle due entità è il passo di Ov. met. 9, vv. 281–284 (ed. TARRANT): incipit Alcmene: ‘faueant tibi numina saltem| corripiantque moras, tum cum matura uocabis| praepositam timidis parientibus Ilithyian| quam mihi difficilem Iunonis gratia fecit’. Alcmena si rivolge a Iole augurandole l’assistenza benevola dei numi allora quando invocherà la dea preposta alle partorienti, Illizia, che a lei la gratitudine nei confronti di Giunone aveva reso dura. PETERSMANN commenta dicendo

|| 346 Troppo poco economico emendare Graece in Graeci per le conseguenze che questo comporterebbe.

Andria, atto III | 325

„Ovid hat jedoch an unserer Stelle Juno Lucina offensichtlich in zwei selbständigen Gottheiten aufgespalten, indem er ihre Funktion als Lucina personifiziert, diese mit der griechischen Eileithyia gleichsetzt und der Juno als Partnerin gegenüberstellt.“ Indipendentemente dalle motivazioni letterarie della scelta ovidiana, o anche storico–religiose, da questo passo si può ricavare sì l’informazione che Lucina e Giunone sono due entità distinte, ma non si ricava però alcuna notizia che possa interessare il rapporto familiare fra Giunone e Lucina. Quindi, anche se si ritenesse lo scolio 473.2 interpolato e costruito sulla base di Ovidio non si potrebbe giustificare l’informazione Iunonis filia, totalmente assente nella letteratura latina e rara in quella greca. Sempre in merito a questo scolio, una difficoltà testuale non riducibile si concentra nella zona in cui si parla dei Nixi: questi sono delle divinità (talora maschili e talvolta femminili) che come Giunone/Lucina presiedono al parto, ma non hanno la sua stessa notorietà (PETERSMANN 1990, 157–175; RE XVII 1, 780–781; BÖMER 1977, 368–370). Tracce della loro presenza nel patrimonio religioso latino si leggono in Nonio 80 L. (enixae dicuntur feminae nitendi, hoc est conandi et dolendi, labore perfunctae: a Nixis, quae religionum genera parientibus praesunt); in Festo 182 L. (Nixi di appellantur tria signa in Capitolio ante cellam Mineruae genibus nixa uelut praesidentes parientium nixibus, quae signa sunt qui memoriae prodiderint, Antiocho rege Syriae superato, M.’ Acilium subtracta a populo Romano adportasse, atque ubi sunt, posuisse: etiam qui capta Corintho aduecta huc, quae ibi subiecta fuerint mensae); e, nuovamente, in Ov. met. 9, 293–4 (Fessa malis tendensque ad caelum bracchia magno| Lucinam Nixosque347 pares clamore uocabam) dove la tradizione manoscritta palesa non pochi dubbi circa il nome dei Nixi, e gli studiosi fondamentalmente si dividono soprattutto sul loro genere, cioè se in Ovidio compaiano come divinità maschili o femminili. Resta abbastanza condiviso il fatto che si tratti di divinità che personificano i dolori del parto (nixus). Lo stretto legame fra Lucina ed i Nixi in questo passo, la rarità stessa dei Nixi in altre fonti letterarie e non letterarie sono indizi molto forti a favore dell’ipotesi che ci sia una dipendenza non troppo nascosta fra lo scolio 15.2 Lucina ... latine Nixos e l’ovidiano Lucinam Nixosque. Sulla base di quanto finora detto, individuerei un nucleo originario costituito dal Graecum, ritenuto garanzia d’autenticità, includendovi anche la notizia della relazione parentale fra Lucina/Ilizia e Giunone. Questa scelta è motivata da quanto ho detto sopra: di fatto un interpolatore o inventa o interpola sulla base

|| 347 Si tratta di una correzione di HEINSIVS; i manoscritti oscillano prevalentemente fra nixusque e nexusque.

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di fonti a sua disposizione: la notizia che Ilizia sia la figlia di Giunone non è attestata nel mondo latino né è possibile ri–costruirla sulla base dei pochi passi in cui è citata; non ho ragioni sufficienti per espungerla se non il fatto che è in contraddizione con Terenzio (dove Iuno è Lucina) e con lo stesso scolio precedente. Ma nulla vieta che nel DC originario Donato avesse dato entrambe le varianti del mito. Si individua poi un nucleo secondario costituito da un’informazione parziale o fuorviante, quella relativa ai Nixi: è infatti molto probabile che sia stata estrapolata da Ovidio (non importa qui dire, e sarebbe impossibile, se l’estrapolazione sia o meno indiretta), e verosimilmente stimolata dal fatto che la definizione greca non era originariamente seguita da alcun confronto con il latino.

An. 473.5, 474.1 473.5. FER OPEM propter quod Lucina est. Inde obstetrix, quod opem tulerit […] 474.1 HVI TAM CITO ‘tam cito’, ut celeritatem partus ostendat incredibilem. 473.5 tulerit] tetulerit dub. Wess. (= An. 299.1: … quae opem tetulerit, obstetrix dicitur): 474.1 celeritatem scripsi: felicitatem ω: facilitatem Lind.: uelocitatem Schopen, Klotz

Il primo problema testuale concerne l’etimologia di obstetrix, che Donato fa derivare da opem ferre. Questa osservazione ricorre in due passi: oltre che qui anche ad An. 299.1, con la differenza che nel primo caso si adopera il verbo tetulerit, mentre nel secondo il semplice tulerit. Per quanto W. — e giustamente — si interroghi sulla possibilità di emendare il tulerit del nostro passo sulla base del precedente, è preferibile conservare il testo così come tràdito. D’altronde Don. nell’ars mai. (660, 12 H.) descrive tetulerit ricorrendo alla figura della prosthesis: si tratterebbe in sostanza di un metaplasmo accettabile nel linguaggio poetico (metri ornatusue causa, per l’appunto). In questa nota Don. sta semplicemente dando l’etimologia di obstetrix e non giustificando un testo poetico, per cui non ci sono motivi cogenti per l’emendamento proposto in via dubitativa da W., per quanto si ammetta la facilità della caduta di te– nella stringa tetulerit. Il secondo problema concerne il sostantivo felicitatem. Simone assiste – sebbene non visto – al dialogo in cui le due servette di Glicerio parlano del parto appena avvenuto e, per troppa sapienza (direbbe Donato), non crede a quanto sente: pensa che sia solo un inganno ordito a suo danno. Il suo primo commento alla notizia del parto è infatti ‘così presto?’ (= addirittura ha già avuto un figlio?!). La domanda, molto ironica, mette in evidenza — senza troppi dubbi — che ad essere ridicola nella prospettiva di Simone è l’inve-

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rosimiglianza temporale, la velocità d’esecuzione, per cui è chiaro che il sostantivo felicitas sia da considerare fuori luogo, poiché sposterebbe l’asse del discorso sulla buona riuscita dello stesso. Per far fronte a questo problema LINDENBROGIVS propone facilitas, che però risulta altrettanto debole sul piano lessicale: facilitas in Donato è impiegata soprattutto in un’accezione etica, cioè fare qualcosa senza troppo badare alle conseguenze o ai mezzi per ottenere un certo risultato ovvero come sinonimo di lenitas, clementia, indulgentia (cf. Ad. 861.2, Hec. 248.1); nelle poche accezioni di ‘facilità’ rispetto ad un’azione non è comunque coinvolto il concetto di velocità (cf. Phorm. 300.2), che qui pare invece necessario. Di contro la proposta di SCHOPEN/KLOTZ è contestualmente calzante, ma per l’uso donatiano sarebbe forse più adatto celeritatem (Ad. 319.3, Ad. 538, Ad. 539.2, al.), che in nesso con incredibilis restituisce una clausola molto presente in Cicerone (cf. ThlL III 755, 10ss.), autore ben noto a Donato. Di contro uelocitas è attestato solo ad Eun. 1021.1 (tu iam p. ‘iam’ nimiam uelocitatem significat) e paleograficamente non risulta molto più vantaggioso del primo.

An. 473.6 SERVA ME OBSECRO obstetriciam hanc potestatem Iunoni attribuit, quamquam illam Menander Dianam (frg. 38 K–A) appellet et hoc sentiat in Bucolicis Vergilius (ecl. 4, 10). obstetriciam Schopen*: hoc extra etiam ω || attribuit] adtribuuntur A (ur del. A2) K (inc.): attribuitur B Λ: attribuit 〈Terentius〉 Dziatzko (1876) 237 || et hoc sentiat Λ: om. A: et hic sentiam K: et sentiat hoc Θ: et hoc significat Schopen*

Glicerio, in prossimità del parto, invoca la divinità protettrice delle partorienti: Iuno Lucina. Questa invocazione costituisce una uariatio terenziana rispetto al modello menandreo, dove ad essere invocata era invece Diana–e che fosse questa l’invocazione tipica sembra confermarlo anche Virgilio. In contesti analoghi la preferenza di Giunone rispetto a Diana sembra essere un tratto tipico della letteratura pre–augustea (si veda per esempio Cat. 34. 13–14: tu Lucina dolentibus/ Iuno dicta puerperis); dall’età augustea in poi, e dunque anche in Virgilio, questa sfera di potere è attribuita a Diana (cf. Seru. ecl. 4, 10: modo Lucinam Dianam accipimus: sic Horatius siue te Lucinam probas uocari, seu te penitus [Iunonem]. Terentius Iunonem Lucinam dicit, ut ‘Iuno Lucina, fer opem’; RE X, 1, 1115–1116; EV II, 40–43). L’affermazione et hoc sentiat in Bucolicis Vergilius non richiede d’essere emendata. La gamma di significati che assume il verbo sentire in latino, ed in Donato, ci permette infatti di conservarlo: Donato sta semplicemente dicendo che

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Virgilio nelle Bucoliche con casta faue Lucina vuole proprio ‘significare’ Diana. Nel DC sentire è attestato nell’accezione di significare, cf. per esempio ad Hec. 258.3: ... hoc enim sentit: quamuis natus dea sis, fuge tamen). L’emendamento dello SCHOPEN, obstetriciam per il tràdito hoc extra etiam, è di indubbia intelligenza. Il testo dei manoscritti, così come si presenta non può essere difeso perché non ha senso: a prescindere dalla posizione di etiam, la fastidiosa sovrabbondanza di hoc/hanc … hoc è indice di una qualche sofferenza testuale; evidentemente però questi elementi non erano considerati problematici dagli editori antichi, i quali stampavano il testo trasmesso come se Don. stesse dicendo che hoc (= la protezione data alle partorienti) è attribuita a Giunone impropriamente perché va al di là della sua sfera di potere. Con questa confezione testuale sul piano logico e grammaticale le falle sarebbero molte: se infatti Donato già nella principale avesse chiarito che la protezione delle partorienti è un potere aggiunto, Menandro e Virgilio avrebbero semplicemente confermato questa considerazione e la loro testimonianza sarebbe stata introdotta con nam; sul piano propriamente grammaticale, etiam in terza posizione è difficile da accettare. In breve bisognerebbe intervenire in vario modo per far combaciare il piano logico e quello grammaticale postulando una stratificazione di errori. Rispetto a questa soluzione l’emendamento di SCHOPEN è tanto brillante quanto economico. Il terzo problema è più che altro un’interessante suggestione di DZIATZKO (1876) 237: i manoscritti si dividono nella trasmissione del verbo attribuit, A B Λ lo leggono nella forma passiva, K e Θ in quella attiva. Se si accetta la prima variante, dovremmo emendare i tre accusativi (di cui solo due tràditi), ma l’intervento è ben poco economico; se invece si sceglie la forma attiva, si deve ammettere l’assenza di un soggetto: a risolvere questa apparente sofferenza interviene quindi DZIATZKO con il suggerimento di integrare Terentius: attribuit si sarebbe corrotto in attribuitur in quanto seguito dal Ter. di Terentius, a cui sarebbe stato compattato. A mio parere la corruzione di attribuit in attribuitur non necessita di spiegazioni molto articolate: ammesso che non si tratti di un errore meccanico, a fronte di un attribuit senza soggetto un copista poteva essere stimolato ad intervenire (accordandolo, per esempio, ad hoc); inoltre, l’assenza di un soggetto non è estranea ad altri passi del DC, alla luce dei quali diventa quindi difendibile (cf. Ad. 35.1: plus est quod dixit ‘ego’ quam si diceret ‘parentes’; Ad. 47.1; al.).

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An. 481.2 ADHVC ARC. sic ueteres scribebant ‘adhuc’, quando incerti futurarum rerum ex praesentibus firmum intimabant, quod est genus cautissimae promissionis et certae. Lo scolio non presenta particolari problemi di trasmissione, ma la definizione genus cautissimae promissionis et certae merita qualche nota di commento perché ad una prima lettura appare concettualmente contraddittoria e d’altronde qualsiasi forma di intervento risulta frenata dalla clausola metrica. Adhuc ha funzione limitativa, serve infatti ad ancorare la validità di un’asserzione al presente, non potendo essere sicuri che la situazione resti tale anche in futuro. In questa prospettiva si può leggere come una tipologia di promessa particolarmente cauta perché parte da dati concreti e proprio per questo, cioè per il fatto che non va oltre la descrizione dello stato presente, ha la presunzione di essere certa, ben fondata. Certa deve essere quindi interpretato come ‘definita’ (cf. ThlL III 899, 80ss.).

An. 483.1–2 1. NVNC PRIMVM FAC ISTA VT LAVET imperitiae notantes Menandrum aut Terentium ipsi ultro imperiti inueniuntur, nam et ille ‘λούσατ’αὐτή’ (Men., An. frg. 39 K–A) dicens a consuetudine non recessit, cum λοῦσαι σαυτόν [se lauisse] a toto partem significet, sed Terentius propius ad significationem accessit ‘ista’ dicendo, ne pudenda nominaret […] 2. FAC ISTA VT LAVET ‘ista’ quae ex puerperio sordebant. Quidam ‘ista’ ipsam puerperam dicunt – sic enim et Menander ‘λούσατ’αὐτή αὐτίκα’ (An. frg. 39 K–A) sed imperitiae accusantur, quod non continuo solent post puerperium lauare, sed diebus omissis. 1 imperitiae] ita peritie Θ || imperati C (corr. C2) || et] om. C (rest. C2) || ille–non] om. K || λούσατ’αὐτή Steph.: ΛΟYC ΑΤΑYΤΚΝ A: ΛΟYCΑΤΑYΤHN B: om. sp. rel. Σ || a] om. C || ante cum add. ut α || λοῦσαι – [lauisse] Cioffi: λοῦσαι αὐτήν Sabbadini (1894) 126: lauisse se (om. B) aut non se lauisse ω || a toto partem Schopen*: a parte totum (potum Θ) ω: pro parte totum Sabbadini (1894) 126 || significet α: significant Λ: significantes Γ Θ || et] om. K: sed Λ Wess.: non recessit, †cum lauisse se aut non lauisse a parte totum significantes† … dicens, a consuetudine non recessit, cum lauisse se aut non lauisse, a parte totum significat. Sed Terentius propius ad significationem accessit ista dicendo, ne pudenda nominaret. ED. PRINCEPS 1472 … dicens, a consuetudine non recessit, ut cum lauisse se ait non lauisse, a parte totum significet. Sed Terentius propius ad significationem accessit istaec dicendo, ne pudenda nominaret. CALPHVRNIVS 1477

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… dicens, a consuetudine non recessit, cum lauisse aut non lauisse dicimus, a parte totum significantes. Et Terentius propius ad significationem accessit ‘istaec’ dicendo, ne pudenda nominaret. STEPHANVS 1529 = LINDENBROGIVS 1602 … dicens a consuetudine non recessit, cum lauisse aut non lauisse dicimus, a parte totum significantes. Et Terentius propius ad significationem accessit istaec dicendo, ne pudenda nominaret. ZEVNIVS 1774 … dicens a consuetudine non recessit, ut cum lauisse sit non lauisse a parte totum significet. Sed Terentius propius ad significationem accessit ista dicendo, ne pudenda nominaret. KLOTZ 1838 * SABBADINI 1894: cum λοῦσαι ἀυτήν pro parte totum significet Van LEEUWEN apud Karsten 1912: cum lauisse se aut non lauisse 〈etiam ii dicant, qui manus uel pedes purgauerunt〉 a parte totum significantes KARSTEN 1912: [cum lauisse … significantes] vv. 483–5:348 Nunc primum fac istaec [ut] lauet; post〈e〉 deinde, quod iussi ei dari bibere et quantum imperaui, date istaec] ista P C1 edd. plerr.

Le complicazioni e le implicazioni degli scoli in esame sono numerose. Siamo nel momento immediatamente successivo al parto, Lesbia esce dalla casa di Glicerio e sulla porta ripete i precetti che, come lei stessa ammette, aveva già avuto modo di elencare diffusamente all’interno: nel riepilogo sono menzionati due aspetti essenziali, in primo luogo il bagno e le pozioni da somministrare nella quantità stabilita. Un’oscillazione testuale in corrispondenza di 483 (istaec / ista), che interessa tanto la tradizione diretta che quella indiretta, contribuisce a rendere incerto se l’ordine consista nel lavare ista ossia le pudenda oppure, più genericamente, se sia Glicerio a lavarsi. Nel commentare il verso 483 Don. entra in polemica con degli innominati detrattori di Terenzio nonché dello stesso Menandro:349 si intuisce che sia il commediografo greco che quello latino sono accusati di ignoranza in merito alle pratiche mediche, facendo leva sul fatto che nel post partum era assolutamente vietato lavare la puerpera: era infatti necessario aspettare qualche giorno. Don. ribatte che gli autori di questa osservazione sono, a loro volta, degli ignoranti, perché

|| 348 Cf. POSANI 1990. 349 Molto probabilmente si tratta di Emilio Aspro, cf. WESSNER 1905 e DORN 1906.

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sia il passo di Menandro che quello di Terenzio non vogliono significare che si ordina di lavare tutto il corpo della fanciulla, ma solo la parte che, in conseguenza del parto, risultava insanguinata: le pudenda, per l’appunto. E questa esegesi è coerentemente sviluppata anche nello scolio contiguo. Il testo dello scolio 483.1 è problematico, al punto che W. si risolve per le cruces. La sezione di testo sofferente (cum lauisse … significantes) dovrebbe contenere l’esegesi del passo menandreo con cui si aggira l’accusa d’ignoranza. La seclusio, optata da KARSTEN, non è accettabile per ragioni interne allo scolio stesso: verrebbe infatti a mancare la spiegazione per il passo di Menandro, essenziale ai fini della dimostrazione che a consuetudine non recessit, e parallela a quella data per Terenzio. Prima però di scendere nel merito dello scolio bisogna fare due osservazioni: – ista, che Donato intende come neutro plurale, e che egli sicuramente leggeva nella sua copia di Terenzio, è la lettura solo di una parte dei manoscritti terenziani; – in merito al verbo lauare, Varro ling. 9, 105 nota che nel linguaggio comune (consuetudine) la forma (medio)passiva lauamur è impiegata in riferimento a tutto il corpo, mentre quella attiva —amus è usuale per singole parti del corpo; nel linguaggio comico è ben attestato sia nella forma intransitiva (Plaut. Amph. 802, id. Mil. 251) sia nella forma transitiva (Plaut. Amph. 1102) nonché mediopassiva (Ter. Eun. 595), e, nonostante le oscillazioni della tradizione manoscritta circa la forma che afferisce alla prima declinazione e quella invece di terza, non si evince una costante che consenta di descrivere una differenza semantica o funzionale: cf. ThlL VII 2, 10493, 33ss. Il corrispondente greco λούω (LSJ 1061–62) ha un ambito semantico meno vasto, è adoperato per lo più per indicare ‘lavare tutto il corpo’: per le mani e i piedi, per esempio, si adopera νίζω (LSJ 1715). Proprio a fronte dell’estrema flessibilità di lauare in latino, è facile difendere Terenzio adottando a testo ista e così intendendo le pudenda; la difesa di Menandro risulta invece meno immediata, perché λούω ha proprio il significato di lavare il corpo (nella sua interezza), per cui in nesso con αὐτή non può che indicare lavare la ragazza nella sua interezza. Questo spiega il motivo per cui si percorre una linea apologetica diversa, si fa cioè ricorso alla metonimia: Menandro cita il tutto per indicare solo la parte interessata. Partendo da questa ricostruzione di contenuto, a mio parere molto verosimile, è bene ritornare sul testo così come trasmesso per offrire un’ipotesi di testo adeguata. AB: cum lauisse se (om. B) aut non 〈se A〉 lauisse a parte totum significantes et Terentius K: non et lauisse a parte totum significantes Terentius

332 | Commento filologico-testuale

Θ: cum lauisse se aut non se lauisse a parte potum significantes et Terrentius Λ*: cum lauisse se aut non lauisse a parte totum significant sed Terentius

Così come tràdito, leggiamo un participio plurale (significantes) che dovrebbe quindi avere come soggetto i detrattori (notantes), sebbene l’andamento logico– sintattico richieda un verbo finito, con cui Donato chiude la sua proposta interpretativa in difesa di Menandro, dicendoci quindi perché non recessit a consuetudine. Il problema più grave è però costituito dal troncone testuale lauisse se aut non se lauisse, insensato comunque lo si tenti di legare al resto della frase: a questo proposito la strada intrapresa da SABBADINI mi sembra molto promettente, infatti il non senso se aut non si spiega fin troppo bene come corruzione di un graecum come (σε)αὑτόν350; mentre il se lauisse che lo segue potrebbe essere una glossa latina all’infinito λοῦσαι. A partire da questo testo cum λοῦσαι σαυτόν lauisse a parte totum significantes, anche alla luce di 483.2, la parte di testo sofferente può voler dire solo questo: Menandro rispettò comunque la prassi medica allora comune ‘poiché λοῦσαι σαυτόν351 significa lavare una parte del corpo sebbene sia citato l’intero corpo’. D’accordo su questo, occorre emendare a toto partem perché lo impone la logica stessa della spiegazione: lo scambio di posizione fra parole contigue nel testo e di significato opposto è un fenomeno alquanto frequente. Siamo dunque approdati a questo stadio testuale: cum λοῦσαι σαυτόν lauisse a toto partem significantes. L’ultimo intervento richiesto dal senso e dalla struttura globale del testo riguarda il verbo significare: anche in questo caso si adotta la soluzione di SABBADINI, per altro anticipata dal gruppo α. Si tratterebbe, quindi, di incidere sul testo in tre punti ravvicinati, il che implica l’individuazione di una grave corruttela, innescata sia dall’incomprensione del greco λοῦσαι σαυτόν sia dalla presenza di almeno una traslitterazione o glossa supra lineam poi caduta a testo; questo stato di cose avrebbe quindi scompaginato l’assetto anche sintattico dello scolio. Alla luce di quanto detto, non si ha motivo per lasciare le cruces: con il testo di SABBADINI, migliorato in alcuni punti, si rende perfettamente ragione dei vari stadi di corruzione subiti dallo scolio in esame.

|| 350 Non sarebbe certo il primo caso di un graecum latinizzato in modo tale da diventare irriconoscibile. 351 Non c’è bisogno del riflessivo femminile essendo una considerazione linguistica che prescinde dal personaggio in questione.

Andria, atto III | 333

An. 484.1 QVOD IVSSI DARI BIBERE ET QVANTVM IMPERAVI DATE consuetudine quam ratione dixit pro: date ei potionem. Lucilius in quinto ‘da bibere 〈ab〉 summo’. da] date (uel –re) Θ || bibere ω: biber Lind. (Charis. 158, 1 B.) || ab Porph. ad Hor. carm. 3, 21, 7): e Lind. descende coruino iubente significat se Messalam Coruinum pascere in cuius honorem hanc uetustissimam uini amphoram promere uelit. descende coruino iubente promere languidiora uina: attende elocutionem descende promere pro descende ut promas, ut est illud Lucilianum ‘da bibere ab summo’. Porph. ad Hor carm. 3, 21, v. 7 (ed. Hauthal) Biber ὸ πιεῖν G. Fannius annalium VIII (fr. 2 P.2) ‘domina eius, ubi ad uillam uenerat, iubebat illi biber dari’; Cato quoque Originum (fr. 121 P.2) * sed et Titinius in Prilia (v. 78 R.3): ‘date biber, iracunda haec est’ Charis. ars p. 158.1 B.

Lo scolio ad An. 484.1 è interessante sotto vari punti di vista. Donato, attento al fatto linguistico, pone l’attenzione sulla particolarissima costruzione che prevede la giustapposizione di due verbi all’infinito (dari bibere), ma in funzione subalterna (bibere dipende da dare): la costruzione è molto arcaica e si conserva solo in alcuni sintagmi cristallizzati (HOFM.–SZ. II 345). Sempre Don. riconduce questa iunctura alla Umgangssprache, citando come parallelo Lucilio (frg. 19 Cha.): di questo frammento non è testimone unico, perché è menzionato anche nel Commentum di Porfirione ad Orazio carm. 3, 21, 5–8 (quocumque lectum nomine Massicum | seruas, moueri digna bono die | descende, Coruino iubente | promere languidiora uina), laddove Porfirione interpreta descende ... promere come descende ad promendum. Questa lettura è arbitraria, se non proprio errata (più semplicemente, infatti, promere dipende dal verbo iubeo che precede), ad ogni modo, però, questo commento è utile non solo perché ci testimonia che Porfirione conosce il fenomeno dell’infinito ‘sostantivato’, benché non lo domini completamente, ma anche e soprattutto perché, per esemplificarne l’uso, cita lo stesso frammento di Lucilio addotto da Don. In Don., prescindendo dalle lezioni singolari, il frammento si presenta in questa forma: da bibere summo. Il testo è stampato così nelle prime edizioni donatiane, fino a LINDENBROGIVS,352 che sulla base del passo di Carisio (158.1 B) preferisce leggere: date biber e summo.

|| 352 Molti adottano il date di Θ, che, stemmaticamente in minoranza, è facilmente spiegabile come tentativo di adeguamento al lemma terenziano.

334 | Commento filologico-testuale

Con pace di LINDENBROGIVS, W. e la maggior parte degli editori luciliani stampano il testo esibito dalla tradizione di Porfirione: da bibere ab summo. Sebbene l’emendamento di LINDENBROGIVS non sia assolutamente improbo (e summo ed ab summo, prese in valore assoluto, si equivalgono) la giuntura ab summo è acclimatata in ambito simposiale per indicare la persona che siede più in alto, cf. Plaut. Asin. 890–1: arg.: iube dari uinum; iam dudum factum est quom primum bibi / Dem.: da, puere, ab summo; id. Pers. 771 (per altri paralleli, ThlL I 20, 25ss.). Né, d’altronde, sarebbe possibile conservare a testo summo senza preposizione perché non avrebbe alcun senso, comunque lo si voglia intendere. Direi quindi che l’integrazione di ab è abbastanza pacifica e certamente da adottare anche nel nostro testo perché, senza, verrebbe compromessa l’intellegibilità della citazione.353 Del testo suggerito da LINDENBROGIVS, meriterebbe di essere discussa anche la decisione, che interessa il verbo bibere, di preferire la forma apocopata a quella intera. Carisio (op. cit.) menziona infatti Fannio, Titinio e Catone a testimoniare l’uso dell’infinito sostantivato (parallelo alla forma greca), con anche l’apocope di e. Che si tratti di una caratteristica della lingua d’uso, aborrita dalla grammatica normativa, sembra chiaro anche da (pseudo)Capro (VII, 108 K): bibere, non biber. Ma è anche altrettanto palese che forme minoritarie di questo tipo tendono ad essere fin troppo facilmente normalizzate nel processo di copia. In un caso come quello luciliano, la cui lingua mimetica assorbe molte idiosincrasie del parlato, ed in un caso in cui la scelta fra bibere e biber è del tutto indifferente metricamente, forse andrebbe stampato da biber 〈ab〉 summo. Questo ragionamento, in ogni caso, non avrebbe una ripercussione anche sul DC per la sua stessa natura di citazione: ammesso che biber fosse stata la lezione effettiva di Lucilio, Don. avrebbe potuto già conoscere il passo nella forma normalizzata, ossia con bibere.354 Non ci sono, in sostanza, elementi che possano indurre ad accettare la suggestione che LINDENBROGIVS ricava da Carisio, almeno per il DCA.

|| 353 a/ab si equivalgono, per cui non ci sono argomentazioni che possano favorire in modo inattaccabile la scelta di una delle due. 354 Inoltre il DC non si sta preoccupando della forma apocopata, ma si concentra sull’essenziale del fenomeno sintattico; diversamente Carisio presta attenzione a quello morfologico.

Andria, atto III | 335

An. 487.1 DEOS QVAESO VT SIT SVPERSTES Alias superstites sunt senes et anus, qui aetate multis superstites iam delirant. Vnde et superstitiosi, qui deos nimis timent, quod est signum deliramenti. ‘Superstes’ nunc saluus. alias] alia s. K || superstites] iter. β: superstes K CT || senes] senex Θ (C2, senes C) || qui scripsi: quia ω || aetate] senes Σ || multi KΘ || superstites] supestes Θ || iam] etate Λ: om. Θ || delirant] erant Θ || timent nimis Θ (C2, timen C) || signum est Σ || delimenti Θ || superstes – saluus transp. ante alias Steph. (prob. Wess.) || superstes ΓΛ: superstites Θ W. = Superstes’ nunc saluus. Alias ... quia aetate ... Seru. Aen. 8, 187: uana superstitio superstitio est timor superfluus et delirus. aut ab aniculis dicta superstitio, quia (quae ASF) multae superstites per aetatem delirant et stultae sunt: aut secundum Lucretium 〈I 66〉 superstitio est superstantium rerum, id est caelestium et diuinarum, quae super nos stant ... Isid. orig. 8, 3, 6: alii dicunt (scilicet superstitionem dictam esse) a senibus, quia multis annis superstites per aetatem delirant355

L’ostetrica che esce dalla casa di Glicerio, dopo aver impartito i precetti perché la fanciulla possa riprendersi dal parto, si augura che il bambino riesca a sopravvivere. Donato sta commentando il significato di superstes, stabilendo una relazione semantica tra superstes e superstitiosi (cf. MALTBY 1991, 594): superstites sono anche gli anziani che, sopravvissuti a molti, delirano per l’età; e segno del delirio è il fatto che gli anziani sono quelli che più temono gli dei, ecco dunque spiegata la definizione di superstitiosi. Lo scolio inizia con alias senza che prima preceda un qualsiasi elemento d’opposizione, mentre solo alla fine della riflessione sulla connessione fra superstites e superstiosi leggiamo il nunc superstes saluus est, cioè il significato che superstes assume nello specifico contesto terenziano – contrariamente alla logica che imporrebbe prima la specificazione del valore semantico contestuale e poi possibili altre precisazioni anche lontane dal testo in questione (cf. Phorm. 741). W. accetta perciò l’intervento dello STEPHANVS, il quale traspone il nunc–est prima di alias, ma a mio avviso questa decisione è questionabile e priva di elementi cogenti che parlino contro l’ordine tràdito: anche se in Donato è più frequente l’ordine nunc–alias, non mancano casi d’inversione alias–nunc: se ne trova un esempio ad Eun. 393.2: id ob id alias, at nunc παρέλκεται; un altro ad Hec. 414: ‘dum’ alias dummodo, alias donec; nunc quamdiu; Phorm. 338.3 archivia definitivamente il problema: nemo pro merito satis 〈gratiam〉 refert regi ‘rex’ alias

|| 355 Per il modo in cui Isidoro utilizza Servio, valide osservazioni in SCHLERATH (1992) 293ss.

336 | Commento filologico-testuale

regnator, alias dominus, alias diues significat. sed nunc ‘rex’ rationem habet nominis ad aliquid, dicti ad significandum parasitum. L’opposizione alias ... nunc rende non necessaria l’integrazione di una particella avversativa. Un altro punto problematico di questo scolio consiste nella relazione causale fra l’attribuzione dell’aggettivo superstes agli anziani ed il loro delirare dovuto all’età: "in altri contesti i superstiti sono i vecchi e le vecchie, poiché sopravvivendo a molti per l’età finiscono per delirare". Questa incongruità logica mi ha quindi indotta a correggere il tràdito quia in qui: il quia può essersi originato per semplice dittografia (quia aetate). Questa correzione non risulta ostacolata dalla presenza del nesso causale nei passi paralleli di Servio ed Isidoro perché è evidente che in quel caso il punto di partenza è diverso: è la superstitio e non la definizione di superstes come in Donato, perciò il passaggio logico–causale superstitio ab aniculis quia ... superstites è pienamente accettabile. Concludo quindi che lo scolio in esame merita di essere conservato secondo l’ordine tràdito, ma con una piccola miglioria su quia. Risulta opportuno però notare che, volendo cedere ad un’analisi razionalistica, il contenuto dell’opposizione alias ... nunc non è perfettamente limpido: l’opposizione ha come fulcro superstes, per cui ci si attende che superstes nunc (= in Terenzio) significhi ‘salvo’, mentre in altri casi (alias) significhi altro, esattamente come avviene, per esempio, ad An. 346.4: quin tu hoc audi ‘quin’ modo pro immo, alias quare non; An. 500.2: eho an tute ‘eho’ nunc interiectio est admirantis, alias ad se uocantis, ut ‘ehodum ad me’; Eun. 123.4: Et nunc discretiue dictum est, nam alias ‘bona’ pro magna accipimus et multa. Nel nostro caso, poiché l’opposizione non si verifica sul piano lessicale (‘salvo’ è chi è in vita, per cui è un concetto applicabile sia al bambino che agli anziani), andrebbe cercata altrove: nel testo di Terenzio superstes è attribuito al neonato, mentre lo scolio parla di anziani. E sembrerebbe questo il vero nucleo dell’opposizione:356 saluus qui (in Terenzio) è detto di un bambino, ma in altri contesti è detto anche di anziani, per le ragioni che poi vengono addotte. Naturalmente, per i limiti imposti dalla tradizione di questo testo, non si è legittimati ad intervenire, ma lo sviluppo (e non più la veste formale) dell’opposizione alias ... nunc continuano a palesarsi di una qualche debolezza (ex. gr. deos quaeso ut sit superstes alias superstites ... ‘superstes’ nunc 〈ad puerum refert, idest〉 saluus).

|| 356 Data la fattura dello scolio è sostanzialmente impossibile emendare nel tentativo di ripristinare l’opposizione sul piano lessicale.

Andria, atto III | 337

An. 490.3 PVERPERAE datiuus casus est: ipsi puerperae coram imperaret. post coram add. non Σ (–q β) || imperaret A β: impararet K: imperet B Θ: imperabat Λ W. = ... ipsi puerperae coram non imperabat Eugr. ad loc.: non imperabat 〈coram〉 quid facto opus esset puerperae argumentum est, quo doceat ab Dauo ista uniuersa compleri, siquidem nec coram habere uoluit quae puerperae uidentur esse facienda.

È il momento dell’autoinganno di Simone: assistendo alla scena del parto di Glicerio, crede di poter individuare dei chiari indizi a favore della sua tesi, che cioè si tratta di una scena allestita da Davo per allontanare ulteriormente Cremete dal progetto delle nozze. L’indizio più importante è dato dal comportamento dell’ostetrica di Glicerio, la quale, nell’ottica di Simone, detta i precetti post partum standosene sulla soglia:357 proprio il fatto che la prescrizione siano dettate sulla porta, là dove potevano essere sentire da tutti, conferma nei suoi dubbi Simone, infatti constata: “non dava ordini sul da farsi in presenza della puerpera, ma, dopo essere uscita, dalla strada li urla a quelli che sono dentro” (non imperabat coram quid opu’ facto esset puerperae/ sed postquam egressast, illis quae sunt intu’ clamat de uia). Che motivo ci sarebbe stato per dare informazioni del genere sull’uscio di casa? Se il parto fosse stato vero, l’avrebbe detto dentro, alla presenza della puerpera stessa. Il v. 490 poteva evidentemente creare una qualche ambiguità a causa del dativo puerperae, leggibile sia in connessione con opus … esset sia in dipendenza da imperaret. Donato interviene su questa ambiguità, sostanzialmente costruendo puerperae in dipendenza dal verbo imperare; l’assetto testuale pone però qualche problema, come si evidence da quanto segue: puerperae datiuus casus est: ipsi puerperae coram imperaret Γ puerperae datiuus casus est: ipsi puerperae coram non imperet Θ puerperae datiuus casus est: ipsi puerperae coram non imperabat Λ (prob. W.)

Per ragioni stemmatiche, andrebbe privilegiato il testo di Γ, il quale non solo è perfettamente sensato, ma è anche la versione difficilior delle tre possibili: imperaret è un congiuntivo potenziale, che trasforma quella che in Simone era una

|| 357 Quello che Lesbia fa sulla soglia è infatti solo un riepilogo, ma Simone non ha la lucidità di capirlo.

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costatazione nella corrispondente ipotesi: “potrebbe impartire gli ordini direttamente alla puerpera”, ma non lo fa: segno che è una messinscena; il verbo è poi corrotto in Θ, e già probabilmente in Σ,358 costituendo questo lo stimolo per la manipolazione di Λ; e già in Σ era stato interpolato il non, che si ricavava facilmente da Ter. Coram, d’altronde, sempre avverbiale in Terenzio, assolve qui ad una funzione di rafforzativo rispetto al pronome ipse, indicando cioè la presenza fisica della persona (cf. ThlL IV 943, 22ss.), un’insistenza necessaria perché è il nerbo del ragionamento di Simone. Non credo ci sia bisogno di argomentare oltre la piena difendibilità del testo di Γ, da cui risulta che Don. parafrasa, chiarendola, l’affermazione sarcastica di Simone. Se coram fosse preso nell’accezione di palam, acquisterebbe ben altro peso il non tràdito solo da Σ, perché emergerebbe la necessità, per una compiuta sensatezza della parafrasi, di creare un’opposizione fra ipsi puerperae e palam, ma non è questo il caso.

An. 496.1 INTERMINATVS SVM NE F. pro ‘minatus sum’. Plautus in Aulularia (v. 558) ‘interbibere sola si u.’ minatus] nun(c)tiatus K Λ: ualde minatus Schopen coll. Eun. 80: an non comminatus? dub. Wess.: an potius eminatus coll. Isid. orig. 5, 26, 17 ? || interbibere A Θ codd. Plaut.: int huunc K: interhibere B: inte(r)mine Λ (interminet β) || si ui Plaut.: sibi ω

Fin dall’inizio della commedia (An. 159–160) Simone palesa il timore che Davo ordisca qualche piano per aiutare Panfilo ad evitare le nozze; con un processo alle intenzioni arriva addirittura a minacciarlo di morte (An. 200). Ora (An. 496) è sicuro, da una serie di indizi, che quello di mostrargli il bambino avuto da Glicerio e Panfilo sia solo uno stratagemma (poco studiato) di Davo e gli ricorda le sue precedenti minacce (interminatus). Donato commenta interminatus appiattendolo sul semplice minatus — per lo meno secondo quanto tràdito; a suffragare la sua interpretazione cita poi Plaut. Aul. 558 interbibere sola si uino. Prescindendo dalle divisioni della tradizione, che in ultima analisi si riducono ad un variante poco sensata di K, con ogni probabilità trasmessa a Λ per contaminazione, il sospetto che lo scolio non contemplasse in origine una mera

|| 358 Naturalmente l’accordo in errore di B Θ sarà frutto di mera poligenesi.

Andria, atto III | 339

equivalenza lessicale fra interminor e minor è forte, e già SCHOPEN cerca di risolvere il problema con l’integrazione di ualde prima di minatus, in modo da far risaltare il valore rafforzativo di inter, sulla base di qualche parallelo come lo scolio ad Eun. 80 dove peraltro è citato proprio lo stesso passo dell’Aularia: intercipit ‘intercipit’ quasi totum capit. Plautus in Aulularia (558) ‘quae sola interbibere, si uino scatat, Corinthiensem fontem Pirenem potest’. L’idea di fondo di SCHOPEN è giusta: stando alla nota all’Eunuco in Donato la particella inter (molto usata da Terenzio e, prima, da Plauto) in funzione di preverbio ha una forza auctiua (cf. An. 663.3), per cui si comprende la sua decisione di rendere il valore rafforzativo integrando ualde. W. invece si chiede se non sia piuttosto da stampare comminatus sum: comminor è però attestato solo una volta in Plauto (Aul. 417) e poi dopo solo a partire da Livio (cf. ThlL III 1889, 21ss.). Il verso 558 di Plaut. Aul. è citato anche da Isid. orig. 5, 26, 17, all’interno di una generale interscambiabilità fra la preposizione inter ed e (a questo proposito cf. anche HOFM.–SZ. II 232–234): Interneciui autem significatio est, quasi quaedam hominis enectio. Nam praepositionem ‘inter’ pro ‘e’ ponebant. Naeuius (TRF I, frg. 50): ‘Mare interbibere’; et Plautus (frg. 71 M.): ‘interluere mare’, idest ebibere et eluere.359Questa testimonianza potrebbe avere una certa suggestione anche per il nostro passo benché presti un aiuto ricostruttivo più ridotto di quanto immaginabile: a differenza di ebibere ed eluere, eminor (con la sua variante sostantivata eminatio) è attestato solo in Plaut. Capt. 791: eminor interminorque ... (cf. ThlL V 2, 496, 31), e se dunque il suo stato di lectio difficilior spiegherebbe bene la sua corruzione in minor, il fatto che non abbia altre attestazioni al di fuori del passo ora citato non è coerente con la funzione che dovrebbe assumere all’interno dello scolio, dove il pro dovrebbe in qualche modo indicare la maggiore pregnanza contestuale o perspicuità di eminor rispetto ad interminor, alla luce di un uso acclimatato per cui sarebbe ad An. 496 più comprensibile del primo. Le diverse possibilità contemplate sono insoddisfacenti; il parallelo plautino induce a pensare che il prefisso inter– sia interpretato come rafforzativo, per cui si sentirebbe in un qualche modo la necessità di una pertinente esplicitazione avverbiale (esattamente come fa SCHOPEN). Preferirei però non intervenire su quanto tràdito per il ragionevole dubbio che la coda plautina, da cui dipende la lettura in chiave rafforzativa, possa essere stata aggiunta secondariamente.

|| 359 Cf. anche THIERFELDER (1932) 172–175.

340 | Commento filologico-testuale

An. 498.3 quid]

QVID. T.

‘propter quid’ aut ‘propter quam rem’ aut ‘quomodo’ [aut per

t. scripsi: credas AKΛ: credam Θ || aut per quid secl. Schopen

W. stampa lo scolio intervenendo solo sulla sua coda (aut per quid), in base ad un suggerimento di SCHOPEN che anch’io ritengo da accettare. Lo scolio però palesa un altro punto di sofferenza, cioè la sezione lemmatica: all’analisi del testo terenziano pertinente (SIMO: ... quid taces? DAVUS: Quid credas?) mi sembra evidente che il quid da interpretare in funzione di accusativo interno (propter quid) non può essere il secondo, bensì il primo: “per quale motivo te ne stai zitto?”. La genesi della corruzione si spiegherebbe bene con un lemma puntato (quid t.), su cui nelle fasi successive si è intervenuto per ripristinare la forma completa, confondendo però la t. con c.: dunque la t., letta c., ha dato luogo a credas anziché a taces.

An. 505.3 NIHIL IAM MVTIRE Ennius (frg. 27, p. 79 FPL4) ‘nec dico nec facio 〈mu〉’ (unde et mutos dicimus) quod Graeci φθέγγεσθαι. mu add. Lind. (coll. Char. ars 314, 4 B.) || quod Graeci] om. sp. rel. Θ || φθέγγεσθαι Steph.: фΕΕΝΤΕСАr A: ФΘЕΝΤΕСΘАІ B: om. sp. rel. K Σ Varr. ling. 7, 101: a quo idem (sc. Ennius) dicit id quod minimum est: ‘neque, ut aiunt, 〈mu, add. Crusius〉 facere audent’. Lucil. XI frg. 16 Ch.: ‘Mu’ pro ‘muttire’. Lucilius saturarum libro XI: ‘Non laudare hominem quemquam neque mu facere inquam’. Charis. ars p. 314, 4 B: ‘Mutmut non facere audet’, ut apud Apuleium Platonicum (= Apul. de prouerbiis, frg. 5 Blänsd.)

L’integrazione del LINDENBROGIVS è senza dubbio persuasiva: dopo facio manca una parte essenziale della citazione, a cui si aggancia lo sviluppo dello scolio in chiave etimologica (Vnde et mutos dicimus). Questo elemento mancante non può che essere ‘mu’: mu facere o dicere è un modo di dire molto attestato (e usato da Ennio almeno in un altro passo), atto a significare il ‘non fare quasi nulla’ (= stare quasi completamente in silenzio), cf. ThlL VIII 1554, 27ss. Da un punto di vista paleografico è facile giustificare la caduta di mu, probabilmente non compreso.360

|| 360 L’espressione è proverbiale, cf. OTTO (1890) 230–231.

Andria, atto III | 341

An. 510.2 PRORSVS pro ‘uere’ positum putatur, ego pro eo quod est ‘omnino’. Sunt qui coniunctionem uelint esse. uere Wess. (cfr. Ad. 844.2): quare ω (quasi ε) || putatur Γ: putant Σ || ego Steph.: ergo ω || uelint] uolunt K Λ Wess.: PRORSUS 〈quidam ‘prorsus’〉 pro uere positum putant

Due sono gli interventi sostanziali che interessano il passo: di questi solo uno risulta effettivamente necessario. Iniziamo dal non necessario. W. accetta, immediatamente dopo il lemma, l’integrazione proposta da STEPHANVS (quidam ‘prorsus’), resasi evidentemente necessaria in seguito alla decisione di stampare il putant di Σ. Il problema di fondo è appunto questo: non si ha motivo di accettare putant a fronte di putatur di Γ, che rende assolutamente non necessaria l’integrazione di un soggetto che si contrapponga ad ego.361 È vero infatti che la forma passiva (tre attestazioni in Don., di cui una nel DC ad Ad. 191.2) è più rara rispetto a quella attiva, ma proprio per questo poteva facilmente stimolare una correzione. Diverso il problema relativo a uere: qui l’emendamento di W., suggerito da Ad. 844.2 è abbastanza obbligato: la tradizione (quasi unanimemente, ad eccezione del quasi di ε) presenta uno strano quare; se rileggiamo la battuta di Davo interpretando il prorsus come qua re, il senso del testo non sarebbe compromesso (‘per questo voglio che …’). Il problema però consiste nel fatto che prorsus non può assumere questo significato: è una particella per lo più enfatizzante, il cui valore causale sarebbe chiaramente frutto di una sovrainterpretazione contestuale. Di contro, uere proposto da W. sulla base di Ad. 844.2 (‘prorsus’ autem recte, certe ac uere significat) è una restituzione efficace ed anche paleograficamente ineccepibile: il p(ro) abbreviato è facilmente confondibile con una q, dunque è molto facile che un q uere venga letto come quere e quindi quare.

An. 510.3–4 3 OPINIONEM TVAM HANC ‘hanc tuam’ cum taedio eius dixit, hoc est: nimis molestam, nimis suspicacem, nimis accusatricem – 4 Sic dixit ‘hanc tuam’, ut ille

|| 361 Andrebbe notato che in questo caso ego è dissociato dal verbo puto, che quindi si deve ricavare da quanto precede, diversamente invece accade ad An. 410.5, Ad. 87.2, ibid. 752.2, Eun. 786.2, Hec. 440.3, ibid. 711.2.

342 | Commento filologico-testuale

de apibus ‘uere suo’ (Verg. georg. 4, 22) et ‘solemque suum, s. s. n.’ (Verg. Aen. 6, 640) – ut in Adelphis (Ad. 754) ‘iam uero omitte, Demea, tuam istam iracundiam.’ ut2 Schopen*: et ω

Davo cerca di scagionarsi dall’accusa di aver architettato il ‘finto parto’: un’opinione (sententiam) di cui sembra essere persuaso Simone. Donato coglie nell’espressione hanc tuam sententiam la seccatura dello schiavo effettivamente innocente. Seguono una serie di esempi che dovrebbero offrire dei paralleli per la sfumatura negativa del nesso dimostrativo+possessivo: di fatto, però, delle tre citazioni, soltanto quella tratta dagli Adelphoe può costituire un vero e proprio parallelo (anche se istam ha una sfumatura più marcatamente dispregiativa che non hanc), i due passi virgiliani, invece, oltre a non presentare la struttura dimostrativo + possessivo, non sono certo passibili di una lettura negativa (l’uso di suum ad Aen. 6, 640, pone e poneva qualche problema interpretativo, ma di tutt’altro genere che quello esibito qui; cf. Seru. ad loc.). La loro natura spuria mi pare molto probabile anche perché è difficile immaginare qualsiasi altra pertinenza rispetto al v. 510. Discutibile è invece la decisione di WESSNER di non intervenire su et: il passo degli Adelphoe è infatti addotto come parallelo, ed in casi del genere si instituisce un confronto tramite la congiunzione ut, benché si ammetta che l’analogia si possa salvare anche leggendo et come etiam.362

An. 524.1,2 1 NON IMPVLIT ME haec nunc omnino ut crederem ‘non impulit’ non persuasit, non perfecit, ut crederem Glycerium peperisse. 2 ... Mire autem cautum capi inducit senem ut crederet, quod Glycerium 〈non〉 peperisset. 1 ut–Glycerium] obliq. litt. scripsi || ut KΛ: om. AΘ: et B || crederem] crederim Θ || Glycerium peperisse] om. B || periisse C: properisse T 2 non ante peperisset add. Λ, prob. Hartman (1895) 146

Simone mostra in vari punti dell’Andria (e già al v. 164), con vari affondi di tipo ‘metateatrale’, di essere molto prevenuto nei confronti del servo Davo: la convinzione che quest’ultimo escogiti un piano per indurre il fallimento delle nozze di Pamfilo con Filomena lo porta ad una condizione di eccessivo sospetto, i cui effetti sono rappresentati proprio nel III atto dell’Andria. Quando viene casualmente a sapere che Glicerio ha dato alla luce un bambino, ed il padre è Panfilo

|| 362 Cf. Don. Ad. 26.3, ibid. 237.2, ibid. 304.3, al.

Andria, atto III | 343

(An. 471ss.), si autoconvince sulla base di una serie di indizi che si tratta di un finto parto: Davo ha organizzato la scenetta, insieme con le servette di Glicerio e l’ostetrica, perché di fronte alla nascita del bambino Simone avrebbe dovuto deporre le armi: Cremete non avrebbe mai e poi mai accettato una simile situazione. All’inizio lo schiavo stesso, Davo, non aveva compreso l’interpretazione del padrone; ma quando finalmente capisce che questi, per il troppo sospetto, si era autoingannato, decide di volgere la situazione a suo favore: gli chiede di accordargli fiducia, gli confida che, sì, il parto era tutta una finzione (inuentum est falsum), ma non voluta da lui, bensì da Glicerio, che così facendo sperava di vincolare a sé Panfilo in modo definitivo. A questo punto (An. 524) Simone resta da solo, riflette tra sé ed afferma: “non mi ha indotto a credergli del tutto” (non impulit me haec nunc omnino ut crederem). Nel DCA il verso 524 si trova commentato sotto due profili: il primo si può classificare come ‘lessicale’, ossia si spiega il significato di impulit; il secondo riguarda propriamente il contenuto: sorprende in effetti che Simone, sempre pronto a muovere forti accuse contro Davo e la sua affidabilità, dica ora di con credergli del tutto, con ciò implicando che crede ad una parte di quanto ha raccontato. Il problema che intacca i due scoli è costituito in entrambi i casi da un’esplicitazione, sostanzialmente identica tranne che nella costruzione sintattica (ut crederem Glycerium peperisse e quod Glycerium peperisset), che, così come ci viene consegnata dai manoscritti, crea un’evidente contraddizione di senso. Ad An. 524.1 la coda infinitiva con cui si fa concludere il trittico sinonimico non solo è superflua, ma offre del passo terenziano relativo una lettura del tutto sbagliata: in Ter. si evince con chiarezza che lo schiavo non ha mai messo in discussione la natura fittizia del parto. Il sospetto che si tratti di un’interpolazione è alimentato da almeno due indizi: la completiva si sviluppa in prima persona, quindi prendendo spunto dal lemma ovvero riproducendolo; in secondo luogo il secco andamento asindetico (spesso a trittico) di note a carattere lessicale trova buoni paralleli in Don. (cf ad An. 313.2 prodat proferat prolatet differat). Per l’interpolazione un ruolo non secondario è probabilmente giocato dai seguenti versi (472, 497, 506, 512). L’assetto dello scolio ad An. 524.2 si può difendere se si intende come soggetto di inducit non Davo, bensì Terenzio stesso: in tal modo Don. segnalerebbe attraverso la categoria del mirum la particolarità situazionale costruita dal poeta, che rappresenta il vecchio a tal punto cauto e sospettoso, da credere (cadendo in un autoinganno) che Glicerio non avesse veramente partorito. In questa prospettiva la coda dello scolio acquista coerenza e si può dunque conservare, se si accetta di integrare non con il gruppo di codici umanistici Λ.

344 | Commento filologico-testuale

Per inducere detto del poeta, cf. Don. Ad. 174.1: conuenienter poeta auidiorem maleficiendi inducit seruum [...]. La costruzione di credere seguito da una completiva introdotta da quod non trova paralleli nel DC, ma l’impiego di quod esplicativo dopo verbi di dire o di pensiero non è un fenomeno isolato nel latino tardo (HOFM.–SZ. II, 576–577) e per questo teoricamente difendibile.363

An. 532.2 ECCVM IPSVM OBVIAM 〈CHREMEM〉 continuo mutauit declinationem: [ut] ‘iubeo Chremetem’. obuiam 〈chremem〉 Westerh., obuiam secl. Craig (1926) 200, Kauer–Lindsay (ad loc.): obuiam ω (om. C, rest. C2), Ter. codd. γ: obuiam chremem Ter. codd. δ

Panfilo ha promesso che non si sarebbe sottratto alle nozze, per cui a Simone non resta che cercare Cremete e convincerlo a ritrattare la sua scelta. Proprio mentre lo nomina (An. 527: Chremem), ecco che si intravede per l’appunto il potenziale suocero: siamo ad An. 533, con l’entrata in scena di Cremete si chiude la seconda scena del terzo atto. Alla successiva (An. 534) Simone lo saluta con una formula ricercata, che finisce poi in aposiopesi (iubeo Chremetem ..., sottinteso saluere). Proprio il verso 533 vede la tradizione terenziana scissa in modo netto: uno dei due rami callopiani legge eccum ipsum obuiam (δ) e l’altro un ametrico eccum ipsum obuiam Chremem (γ), che ha dato lo spunto ad alcuni editori, primo fra tutti a BENTLEY, per espungere obuiam conservando Chremem a ragione della presunta ambiguità di ipsum: l’ultimo termine utile del discorso di Simone, a cui ipsum poteva riferirsi, sarebbe stato infatti gnatum ad An. 530 (quindi Panfilo) e non Chremem di An. 527 (per un quadro sintetico degli interventi relativi, cf. MARTI 1961, 167). Don. in corrispondenza di An. 532 nota l’oscillazione fra la forma Chremem e Chremetem, da cui si può desumere che anche l’esegeta leggesse perlomeno Chremem. Meno ovvio è stabilire se Don. avesse a disposizione un testo con obuiam Chremem, che senza batter ciglio avrebbe poi citato nel lemma, o se invece obuiam sia stato interpolato successivamente, ovvero annotato da qualcuno in corrispondenza del nome di Chremem a modo di variante, e poi finito a testo so-

|| 363 Certo è difficile sfuggire al sospetto che si tratti di una coda spuria però l’aggiunta del non per dare coerenza alla nota rappresenta un intervento alquanto economico o, comunque, più economico rispetto al ritenerla spuria. Lo scolio inoltre si sviluppa così da necessitare un chiarimento circa il contenuto della convinzione di Simone.

Andria, atto III | 345

stituendolo. Se fosse vera questa ipotesi, allora si dovrebbe accettare l’espunzione di obuiam e l’integrazione di Chremem, così come suggerito da CRAIG (1926) 200 e, in maniera meno esplicita, da KAUER–LINDSAY nel pertinente apparato. Nella costituzione del testo si sarebbe certo facilitati se si potesse attribuire a Don. un qualche dominio della metrica antica, ma questo come noto è un punto molto dibattuto e sono molti gli indizi che si possono portare a dimostrazione del contrario (su questo punto si veda cf. RIBBECK 1861, 180; TIMPANARO 2001, 115–117; GAMBERALE 1970, 194–198; DEUFERT 2002, 249). Dall’assenza quindi delle conoscenze metriche, laddove il criterio metrico è l’unico utile per il riconoscimento di una difficoltà testuale, discende che per Don. un testo come ipsum obuiam Chremem sarebbe stato pienamente ammissibile. Per queste ragioni integrerei Chremem con WESTERHOVIUS, conservando, per il resto, quanto tràdito. L’espunzione di ut, suggerita da W., si spiega a partire dal valore dell’avverbio continuo, che alla luce del riferimento di Don. al verso di Ter. immediatamente successivo non può che indicare la contiguità per l’appunto: non quindi ‘continuamente’, ma ‘subito dopo’ (si veda per esempio An. 483.3 non continuo solent post puerperium lauare, Eun. 721.4, al.). Ne discende perciò che ut non ha alcun senso prima della citazione di iubeo Chremetem e l’espunzione è del tutto legittima (lo stimolo interpolativo per chi non avesse compreso l’esatto senso dell’avverbio e si trovasse perciò a gestire una citazione senza i pertinenti marcatori è fuori da ogni dubbio).

An. 535.4 TVN AN ILLI INSANIANT tu insanis ... tun Klotz: tu B Θ: om. AK: tune Λ

La tradizione manoscritta terenziana oscilla fra la forma apocopata tun e tune, ripristinata quest’ultima da Λ non senza un probabile ricorso al testo di Terenzio. La situazione più fedele, alla luce dell’assenza di AK, dovrebbe perciò essere testimoniata da B Θ, che omettono la particella interrogativa: verosimilmente sarebbe risultata più facile l’omissione di ne se scritto in forma apocopata n.

346 | Commento filologico-testuale

An. 565 NISI PERICVLVM FECERIS temptamentum. Cicero (Div. in Caec. 27) ‘†autem† tute tui p. f.?’; idem Terentius (Eun. 476) ‘fac periculum in l.’. autem ω, cruc. signaui: sed Cic.: quando Jakobi GFA 2017, 30 (coll. Eugr. An. 564, Anonym. De attr. et pers. p. 215,14 R.): aut Wess.: an potius at? || tui] tuN A: t. Θ || p. f. ex Cic.: p. p. AK: q. f. Σ || l.] litteris Σ Non. 577 L; [Ascon.] ad Cic. loc. cit., p.195,6 St.: Tute tui periculum. Ἀπὸ τῆς πείρας, tentamentum dicit; hoc est: quando tute ipse tentasti, quando uel exercuisti uel protulisti?; Eugr. Ter. An. 564 [‘periculum’ temptamentum, ut Cicero (Div. in Caec. 8, 27) ‘quando tu tui periculum fecisti?’]; Anonym. de attr. et pers. p. 215, 14 R.: quando tute tui periculum fecisti?

Per spiegare il significato di periculum, a cui nel contesto di An. 565 Don. dà l’accezione di temptamentum, viene citato un passo della Div. in Caec. (27) di Cicerone (quo tempore aut qua in re non modo ceteris specimen aliquod dedisti, sed tute tui periculum fecisti?). Il testo citato però presenta un punto di criticità proprio nell’incipit: i codici ci trasmettono unanimemente autem, a fronte del sed (indubbio) della tradizione cicerioniana. Il quadro variantistico è complicato dalla testimonianza di Eugrafio e del trattato Anonym. de attr. et per. (215, 14 R.), che nel citare lo stesso passo leggono quando in luogo di sed – variante questa che con ogni probabilità è nata da una parafrasi del passo ciceroniano, per poi godere di una certa diffusione nella tradizione indiretta. JAKOBI propone di leggere quando anche in Don.: essendo attestata in Eugrafio, il cui commento presuppone quello di Don., è intelligente pensare che quando fosse l’effettiva lettura di Don. A mio avviso risulta però problematico spiegare la genesi di autem da quando, e la presenza in Eugrafio potrebbe in ultima istanza essere spiegata anche in altro modo (interpolazione, glossa caduta a testo, consultazione di altre fonti). Vero è che autem non avrebbe senso anche se estraniato dalla citazione: Cicero autem + citazione implica che la testimonianza di Cicerone è portata contro e non a sostegno dell’equivalenza periculum = temptamentum, ipotesi questa da scartare. Considerando che in Cicerone si legge sed, non sarebbe del tutto opinabile la possibilità che Don. l’avesse citato con una mera variante sinonimica at, poi corrottosi in autem.364

|| 364 Ricordo che, se si considera la scrittura tachigrafica, at poteva essere facilmente letto sia come aut che come autem.

Andria, atto III | 347

A fronte dunque della varietà e pari persuasività delle diverse ipotesi, e per l’irriducibilità del problema, ritengo più prudente apporre le cruces.

An. 596.4–5 4 PORRO ENITERE ‘porro’ in futurum, deinceps. 5 Futuri temporis aduerbium aut hortantis ut (Verg. Aen. 9, 190) ‘〈percipe〉 porro, q. d.’ 5. aut hortantis Wess.: adorantis AΘ: adhortantis KB: hortantis Λ || add. Wess. || porro q. d. Schoell* (coll. Seru. ad loc. cit.)] porro q q q ω: porro Quirites Lind., Laberio (mim., frg. 91 P.) attrib. Schopen* (cf. Macr. sat. 2, 7, 5)

Per la confezione testuale di 596.5 W. è debitore nei confronti di SCHOELL, che per primo individua il testo della citazione donatiana in Verg. Aen. 9, 190: percipe porro quid dubitem et quae nunc animo sententia surgat, dove porro è adoperato all’interno dell’esortazione che Niso rivolge ad Eurialo perché vada a chiamare Enea; e proprio a commento della funzione di porro in questo passo Servio commenta porro hortantis est. Questa nota permette quindi a W. di emendare la zona dello scolio dopo aduerbium, rispetto alla quale la tradizione manoscritta presenta un punto di sofferenza, con conseguente diffrazione variantistica: da adorantis, adhortantis, hortantis W. ricostruisce aut hortantis, emendamento che non ho ragione per non accogliere perché dal punto di vista paleografico la corruzione di aut in ad è spiegabile ed altre soluzioni risulterebbero meno economiche. D’altro canto si percepisce la necessità di una congiunzione per allegerire aduerbium dalla reggenza del doppio genitivo. Poiché la funzione di porro tanto nel testo di Ter. quanto nel testo di Virg. collima,365 e così anche l’esegesi dei commentatori, ritengo felice l’intuizione di Schoell circa il testo che qui si sta citando, nonostante lo stato corrotto in cui si presenta. La funzione per così dire ‘esortativa’ di porro ha senso soltanto se lo si legge in stretta relazione con l’imperativo, e così anche come avverbio finalizzato a indicare la necessità di proseguire una certa azione, per cui il percipe, se la ricostruzione è giusta, è ineliminabile. In merito alle altre ricostruzioni, il testo proposto da LINDENBROGIVS (porro, Quirites!) è una formulazione ellittica abbastanza diffusa (Apul. met. 8, 29; Priap.

|| 365 Nel DC di porro si registrano sostanzialmente tre funzioni: ad introdurre una prospettiva futura (cf. An. 22.2: in futurum dixit); può avere una funzione esplicativa (cf. An. 278.1: coniunctio est expletiua); può essere un avverbio d’ordine o di tempo (cf. Ad. 335.2: porro enim ordinis et temporis aduerbium est, non coniuctio). Per il vario impiego di porro enfatico in contesti esortativi, cf. ThlL X 2, 2769, 15ss.

348 | Commento filologico-testuale

26,1; Tert. adu. Valent. 14, 3), traducibile con ‘avanti, Romani!’, che trova la sua resa più compiuta in un frammento attribuito a Laberio (Ribbeck 361: porro Quirites! Libertatem perdimus) estrapolato da Macr. sat. 2, 7, 5, che SCHOPEN riconoscerebbe nel porro q. q. q. di Don. L’idea non sarebbe inverosimile: anche se p. accompagna un vocativo ed il verbo è implicito, si tratta pur sempre di una formula di incoraggiamento/esortazione, ma il suo punto debole è proprio dato dall’assenza, nello scolio pertinente del DCA, dell’autore citato: l’omissione si può tollerare per Virgilio, ma non per un autore meno frequentato come Laberio; se, invece, qui non si stesse facendo riferimento ad alcun autore in particolare e si stesse citando la sola formula porro, Quirites, risulterebbe difficile spiegarsi il motivo della sequenza di q. puntate. Di quelle avanzate la confezione testuale W.–SCHOELL mi sembra preferibile.

An. 597.3 IRRITATVS EST ira commotus, ut in Phormione (240) 〈‘ita sum irritatus’〉. Ducitur autem uerbum a canibus qui restrictis dentibus R litteram imitantur. suppl. Jakobi, qui ante ducitur lacun. stat. || R scripsi: hanc ω

All’etimologia di inritare nel DC si fa cenno in almeno un altro scolio, in corrispondenza di Ad. 282.2: [Et] proprie de lenone, quem irritari dicit ut canem; nam irritari proprie canes dicuntur. Lucilius de littera R (l. I fr. 27 M.) ‘irritata canis quam homo quam planius dictat’. Di contro nel passo del Formione, a cui si rimanda, si legge solo una nota a carattere lessicale e non anche etimologico (irritatus prouocatus et in iram impulsus ...). Lo scolio ad An. 597.3 pone due ordini di problemi: in primo luogo, il mero riferimento al Phormio senza che il passo interessato sia citato non trova molti riscontri nel DC: accennare ad un’altra commedia senza ulteriori precisazioni è usuale laddove il parallelo istituito riguarda non punti specifici del testo, ma la trama, i personaggi e simili. Un’eccezione si individua solo in corrispondenza di Ad. 389.3: soffermandosi sull’ambigua funzione grammaticale del sostantivo dementia, Don. instaura un parallelo con l’Eunuco, limitandosi a dire sic et in Eunucho. W. crede che il passo dell’Eun. non precisato sia da individuarsi in Eun. 525. Posto che la nota ad Ad. 389.3 vada così conservata, è da ammettere che l’assenza della citazione può in qualche modo essere giustificata: potrebbe addirittura costituire un argomento a favore di chi sostiene che l’ordine con cui Don. commentò le commedie terenziane seguiva un criterio cronologico e non alfabetico, ovvero Don. si riferirebbe ad un passo dell’Eunuco già commentato, in cui il problema era stato già segnalato e per cui non si poneva la necessità di una precisazione. Lo stesso discorso non si può ritenere valido per l’Andria, perché se ne trarrebbe

Andria, atto III | 349

l’implicazione ben poco economica dell’esistenza di un commento al Phormio precedente quello all’Andria. Per queste ragioni sono d’accordo con JAKOBI nell’integrare il passo del Phormio a cui si fa senza ombra di dubbio riferimento qui. Il secondo punto di sofferenza è dato dalla proposizione seguente, dove si dà la spiegazione paraetimologica del verbo irritare e si fa cenno ad un hanc litteram senza che la lettera in questione sia stata precedentemente esplicitata. Si può di conseguenza supporre che la lacuna individuata subito dopo Phormione avesse inghiottito anche una seconda porzione testuale, in cui si faceva cenno per l’appunto alla lettera R. Ma questa ipotesi non mi persuade perché l’attacco ducitur autem uerbum a canibus presuppone che il fulcro del discorso riguardi ancora il verbo, e soprattutto, non avrebbe avuto senso anticipare l’informazione per la quale i cani quando ringhiano tendono ad imitare il suono di questa lettera se prima non si fosse detto che inritare si dice propriamente dei cani (informazione contenuta per l’appunto in ducitur ...). Probabilmente in hanc è da individuare una criptocorrutela per R, innescata da un’iniziale errore di lettura di H in luogo di R, attestato in tipologie grafiche tanto maiuscole quanto minuscole. O, al limite, si può pensare che la caduta della R, lasciando conseguentemente litteram spaiata, abbia abbia dato lo spunto per l’interpolazione del dimostrativo.

An. 615 ALIQVAM PRODVCTAM M. et ‘productam’ 〈et ‘producam’〉 legitur. Significat autem differam, protendam, prolatem. productam Γ C (fort. C2, P. T) F: producam uel productam Λ | et1 –legitur scripsi (praeeunte Jakobi 1996, 44, 119): et prod. – leg. AK Θ: leg. – et prod. – BΛ | productam AK: producam BΣ W.: aliquam producam m. et ‘productam’ legitur.

Questo scolio è problematico sia per la variante di cui si fa testimone sia per la sua stessa tradizione; inoltre a peggiorare il quadro interviene qualche errore d’apparato.366 In corrispondenza di An. 615, Donato sembra informarci dell’esistenza di una doppia lezione producam e productam. Sulla base di questa testimonianza, si è dedotta l’esistenza di un non altrimenti attestato producto (frequentativo di produco, cf. ThlL X.2 1644, 74). Nella sua edizione, STEPHANVS corregge productam in productem, e questa correzione ha avuto un enorme successo fra gli editori terenziani: l’edizione K.–L., per esempio, la accoglie a testo. || 366 Mi riferisco alle lezioni che W. attribuisce alla famiglia Θ.

350 | Commento filologico-testuale

Del 1990 è l’articolo di VICTOR (1990) 161, in cui si argomenta contro l’esistenza di questo verbo, da considerarsi una variante carolingia sorta da un triuial miswriting. Indipendentemente dall’esistenza o meno di producto, l’assetto dello scolio deve essere rivisto: secondo l’apparato del W. a leggere productam nel lemma sarebbero solo A e B, ma, alla luce dei miei dati, productam è non solo di Γ, ma anche di Θ e di una parte di Λ: productam è perciò lezione d’archetipo. Ne discende che nella sezione del commento dovrebbe trovarsi di contro la variante producam, così come testimoniato da B Σ, ma non da AK, che anche a testo ripetono productam. Benché apparentemente minoritario productam del commento poteva essere già, di nuovo, d’archetipo, poi corretto dai testimoni più interventisti. Si suppone quindi in archetipo la seguente configurazione: aliquam productam m. et ‘productam’ legitur. L’ipotesi di JAKOBI (1997, 44 e n. 119) si sviluppa sulla base di una constatazione stilistica in senso largo: egli nota che nel DC quando si dà un’informazione di variantistica, si adopera sempre lo schema legitur et ‘x’ (l’ordo tràdito da BΛ) e mai et ‘x’ legitur (l’ordo di AKΘ); il legitur è invece posposto quando si citano entrambe le varianti (cf. An. 536.1); questo lo induce a postulare una lacuna dopo productam spiegabile con un semplice salto du même au même.367L’eventuale soluzione di accogliere a testo l’ordo di BΛ si tradurrebbe comunque in una forzatura stemmatica. Se productam fosse veramente da cassare come variante carolingia, lo scolio perderebbe la paternità donatiana e, a questo punto, anche il problema dell’ordo potrebbe giustificarsi in questa prospettiva, ma le argomentazioni di VICTOR si basano per lo più su una pregiudiziale diffidenza verso materiale scoliastico; non ci sono stringenti argomentazioni per pensare che sia un’invenzione degli scoliasti successivi.

An. 616.1 EHODVM BONE VIR QVID AIS grauis interrogatio et inuehentis [cum] pro iracundia. Et hoc ironia prosequitur, cum omne genus contumeliae leue in eum ducimus, in quem ferimur iracundia. et ω: est Wess. || inuehentis Wess. (coll. An. 872.4): mirantis Klotz (dub. Wess. coll. An. 137.1, Eun. 654): imminentis Γ: minantis Σ || cum seclusi: 〈in〉 eum Wess. Γ: grauis interrogatio et imminentis cum pro iracundia

|| 367 La proposta di JAKOBI è la seguente: ALIQVAM PRODVCTAM M. 〈et ‘productam’〉 et producam legitur.

Andria, atto III | 351

Θ: grauis interrogatio et minantis cum pro iracundia Λ: grauis interrogatio et minantis cum iracundia

La riuscita del piano di Davo dipendeva da un presupposto: che Cremete restasse fermo nella sua decisione di non concedere sua figlia a Panfilo; il fatto che questi cambi idea, riallacciando il rapporto con Simone, segna la rovina del ragazzo. La scena quinta del terzo atto inizia proprio con un monologo di Panfilo in preda all’ira, interrotto dall’improvviso arrivo di Davo. Appena lo vede, Panfilo esclama: ehodum, bone uir, quid ais? Donato coglie l’ironia della formulazione, e ci dice che la domanda in realtà tradisce molta rabbia: si tratta di un’interrogatio grauis di qualcuno che inveisce contro di lui a causa dell’ira’. La situazione testuale dello scolio è alquanto problematica: l’inuehentis stampato da W. è un suo emendamento sulla base di un passo parallelo (An. 872.4: et ‘quid ais’ non est interrogantis sed inuehentis); mentre in eum è il risultato di una correzione + integrazione a fronte del tràdito cum. In apparato W. propone, in via ipotetica, mirantis (soluzione già adottata da KLOTZ). Imminentis non è difendibile: immineo ha un’implicita nozione di minaccia (ThlL VII 1, 459, 52ss.), ma nel DC si associa ad eventi/accadimenti, con un senso per lo più neutro di ‘qualcosa che sta per accadere, qualcosa di prossimo’; con minantis di Σ il testo guadagnerebbe sensatezza, ma non sfugge il suo sapore congetturale; pur volendo prescinderne, ci si imbatte in due ordini di problemi: in primo luogo, se la lezione d’archetipo fosse stata veramente minantis, non ci spiegheremmo la sua corruzione in imminentis nel ramo Γ (essendo, la prima, lectio facilior); in secondo luogo, quid ais non è propriamente una minaccia, ma una domanda sarcastica.368 Passiamo dunque agli emendamenti che sono stati proposti. Nonostante i dubbi del W. mirantis è da cassare per motivi di stemma (sarebbe pur sempre una correzione che prende spunto da minantis, una lezione non d’archetipo) e di contesto: i paralleli offerti (An. 137.1: quid ais non interrogantis est sed mirantis; Eun. 654: quid ais hoc admirantis est potius quam interrogantis) a sostegno di questo emendamento non sono persuasivi perché commentano sì la stessa espressione, ma questa nei rispettivi contesti assume una sfumatura ben diversa da quella richiesta qui: in Eun. 654 è pronunciata da Fedria, stupita da quanto le ha appena detto Pytias (l’eunuco aveva violentato la fanciulla che il soldato aveva dato in

|| 368 Minantis si trova a Don. Phorm. 420.1 in corrispondenza di un imperativo (SINE MODO); stesso discorso vale per comminor, lo si adopera cioè in contesti dove è chiara la minaccia (cf. Don. Ad. 173).

352 | Commento filologico-testuale

regalo al padrone); in An. 139 si tratta dello stupore di Sosia nell’apprendere dal padrone che Panfilo aveva un’amante. Dunque quid ais indica mero stupore. Al contrario, il verbo inuehere ha un ottimo parallelo, di forte analogia situazionale, proprio ad An. 872.4, in un dialogo acceso fra padre e figlio (PA: Quis me uolt? Perii! pater est || si: quid ais, omnium …?). Facile è inoltre immaginare come da inuehentis si sia originato imminentis (il segmento NV sia in maiuscola che in minuscola può essere letto come una m; da lì poi la successiva catena di errori è conseguenziale). Discutibile è invece la correzione della congiunzione et per mitigare la uariatio, a mio avviso tollerabile. L’aspetto meno convincente del testo di W. è comunque il successivo 〈in〉 eum: l’osservazione di Donato è ‘generalizzante’ per cui è assolutamente inutile aggiungere in eum: inuehentis non necessita di alcuna altra specificazione; il pronome dimostrativo eum resta totalmente inerte in questo testo, perché non è poi ripreso o specificato da alcun relativo in eum qui … Direi quindi che il cum tràdito vada ripensato in un’altra prospettiva: si tratta, con ogni probabilità, di una variante, supra lineam, nata in corrispondenza del pro (una variante chiaramente banalizzante): pro in questo caso assume la funzione di propter (cf. ThlL X 2, 1434, 7ss.); molto probabimente a qualche copista risultava sospetto o non adeguato, per cui annotò, in zona sopralineare, un risolutivo cum, caduto poi irrimediabilemente a testo (esattamente come accade ad An. 876.1).

An. 619.1 TV REM IMPEDITAM ET PER. multum progressus est ‘impeditam’ dicens: modo ‘perditam’ dixit. dicens Zeunius: dicere ω

W. stampa la lezione d’archetipo, probabilmente intendendo progressus come genitivo in dipendenza da multum. L’emendamento di ZEVNIVS non ha solo il pregio di essere paleograficamente ineccepibile, ma ripristina un tratto stilistico della sintassi del DC, ossia la tendenza a costruzioni participiali (cf. An. 386.1: amicam pronomine significat dicens ‘ab illa’; ibid. 498.1: ... probat dicens Dauo ‘quid taces’; ibid. 606.2; al.).

Andria, atto IV | 353

10.5

Andria, atto IV

An. 625.4–5 4 … ut Cicero (Verr. 2, 2, 53) ‘quam facile serpat iniuria …’ 5 Idem (Ad. 304) ‘hocine saeclum! O scelera, o g. s., o h. i.!’ 5 item Λ

La testimonianza dei manoscritti in merito all’oscillazione item/idem è quanto mai priva di affidabilità, per cui si può operare solo sulla base di criteri interni: se dopo un autore come Cicerone risulta citato Terenzio, introdotto da idem, è evidente che non si può fare a meno di correggere in item (come ad An. 565) senza incorrere in sospetti certo più gravosi in termini di constitutio (penso, per esempio alla lacuna).369 In questo caso è lo stesso gruppo Λ ad individuare il problema, correndo ai ripari. In questo caso però, a mio avviso, il fatto che la citazione di Terenzio sia isolata e resa indipendente tramite l’individuazione di uno scolio è sufficiente ad evitare di accettare il testo Λ.

An. 637.4 HIC VBI OPVS EST falso pudore. falso scripsi: saluo ω: subaudi Teuber*

Fuorviato dallo schiavo Birria, Carino pensa che Panfilo abbia cambiato idea in merito a Filomena, che ora voglia sposarla: il suo rivale non ha pudor, ovvero quando si deve vergognare, non si vergogna; quando invece non dovrebbe vergognarsi, si vergogna. Il senso della nota ad An. 637.4 è alquanto sfuggente, ma l’ipotesi di intervento prospettata da TEUBER non mi sembra molto brillante. Gli interventi possibili per migliorare l’assetto testuale sono, a mio avviso, due: il primo consisterebbe nell’intendere saluo pudore come una continuazione ideale di opus est leggendo come segue ‘qui dove è necessario avere un intatto senso di pudore’, integrando eventualmente scilicet prima di saluo, aiutando così la glossa ad assumere la confezione tipica di uno scolio meramente orientativo rispetto al testo (cf. Ad. 139.4, ibid. 364, An. 212.1., al.); la seconda forma di intervento, più economica e più persuasiva per il senso che si restituisce, consiste nell’emendare saluo in falso: nella prospettiva di Carino, Panfilo fa mostra di un falso senso di

|| 369 Idem potrebbe anche essere la spia di un’originaria successione di scolii in cui 5 veniva subito dopo 2 o al massimo 3. In generale, considerata la stratificazione degli scoli, intervenire in un punto di raccordo o all’inizio di uno scolio è sempre estremamente rischioso.

354 | Commento filologico-testuale

rispetto/vergogna poiché non ne dà prova allorquando sarebbe necessario; da un punto di vista paleografico, è molto facile giustificare questo tipo di corruzione in una scrittura carolina, o comunque corsiveggiante, dove s e f sono molto simili.

An. 639.2 Et unum 〈ad〉 abundat add. Steph.

La proposta dello STEPHANVS è lasciata da W. in apparato. Credo che l’aggiunta sia da accettare per rendere più chiaro lo scolio, anche perché si tratterebbe di un’aplografia molto facile in termini di genesi dell’errore. Anche l’usus donatiano sembra favorire questo intervento.

An. 642.2 INPRVDENS est defensio ab imprudentia: etenim nisi bonae esset conscientiae, numquam diceret ‘te perdidi’ purgaturus. diceret] adiceret KΛ

Escludere dalla discussione le varianti tràdite dai soli KΛ può rivelarsi poco metodico, sebbene nell’introduzione si sia mostrato come tali accordi siano dovuti per lo più alla contaminazione. Lo scolio ad An. 642.2 prende spunto dal tentativo di Panfilo di spiegare a Carino che non era sua intenzione ingannarlo, che egli voleva effettivamente evitare le nozze con Filomena, ma che il piano è fallito perché si è affidato imprudentemente allo schiavo. Donato coglie proprio nell’imprudentia la vera via di difesa di Panfilo: di certo, osserva, se non fosse stato onesto, non avrebbe mai detto ‘ti ho rovinato’ per non aggravare ulteriormente la sua posizione. Al posto del semplice diceret K e Λ presentano adiceret: è inutile dire che adicere implicherebbe un’aggiunta rispetto a qualcosa di essenziale che sia stato già detto; in questo caso te perdidi non è preceduto da nessun’altra argomentazione o affermazione, si tratta del verbo principale seguito dal complemento oggetto. Questa considerazione, alla luce del fatto che Donato usa adicere quasi esclusivamente per degli elementi della frase in sovrappiù, permette di conservare la lettura di AB Θ.

An. 650.1 QVANTAS MIHI SVIS CONSILIIS ironia dixit ... cum ante ironia add. Jakobi

Andria, atto IV | 355

Nel DC prevale il nesso cum ironia in funzione avverbiale (= ironicamente), soprattutto nella formulazione cum ironia dicit (cf. An. 703.1, 787.1). Non manca però qualche parallelo per l’ablativo strumentale in assoluzione della medesima funzione (cf. ad An. 315.4 ‘nihil’ ironia uidetur dictum). Il testo tràdito risulta quindi conservabile.

An. 652 HAVT ISTVC DICAS SI COGNORIS nosti enim, sed si cognoueris, non ita dicas. nosti] nescis Schopen* Schopen pro ‘nosti’ coniecit ‘nescis’, palaeographice parum uerisimiliter, nec ratio tum perspicitur particulae ‘sed’. Puto Donatum scripsisse ‘nosse enim 〈te putas〉, sed …’ Karsten 1912 Cette remarque semble opposer la connaissance que le personnage croit auoir et celle qu’il deurait auoir s’il auait saisi l’éuolution HYPERDONAT

Delle imminenti nozze Carino attribuisce la colpa a Panfilo; quest’ultimo dice di essere vittima dei raggiri del servo, e sottolinea che Carino non gli attribuirebbe nessuna responsabilità se solo conoscesse bene tanto lui quanto il suo amore per Glicerio. Lo scolio ad An. 652, così come tràdito, sembra essere privo di senso: commentando infatti le parole di Panfilo haut istuc dicas si cognoris, Donato scrive: ‘infatti lo sai (nosti), ma se l’avessi conosciuto (cognoueris), non parleresti così’. Secondo SCHOPEN e poi KARSTEN, il testo necessita di un qualche intervento perché non ci sarebbe una vera opposizione fra noscere e cognoscere, ma la sua proposta, tesa a contrapporre il ‘pensare di sapere’ al ‘sapere’ oggettivo, prevederebbe non solo l’integrazione di un verbo di pensiero, ma anche l’intervento su nosti. Il commento, benché risulti a prima vista un po’ spiazzante, ha senso solo se si può dimostrare un’effettiva opposizione semantica fra noscere ed il suo composto cognoscere: “infatti sai che non m’interessa sposare Filomena perché te l’ho detto io (v. 330), ma se tu avessi veramente capito quanto ti dissi, non parleresti così”. Nel DC una simile differenza è contemplata in modo chiaro in corrispondenza di Eun. 933: mature, ut quom cognorit perpetuo oderit, laddove Don. commenta (Eun. 933.2): suauiter non ‘nouerit’ sed ‘cognouerit’ dixit, quod est plene ac perspicue 〈nouerit〉, da cui si deduce non solo che il preverbio con (〈cum, cf. WALDE-HOFMANN 176–177) è latore di un valore aggiuntivo di tipo rafforzativo, ma che Don.

356 | Commento filologico-testuale

percepiva il diverso grado semantico fra verbo semplice e composto.370 Un altro parallelo potrebbe individuarsi in un’annotazione ad Hec. 162.3: cognouit considerauit diligentius et attentius. Nam cognoscere est diligenter et attente considerare, ma qui la situazione è complicata dal fatto che, per quanto il lemma donatiano sembri prendere in considerazione soltanto il cognouit, il testo terenziano recita et illam et hanc quae domi erat cognouit satis, per cui può sorgere il sospetto che la relativa nota donatiana non nasca a commento del solo verbo ma dell’intera stringa c. satis. Indipendentemente da come si interpreti questo secondo passo, ritengo che Eun. 933.2 sia abbastanza forte per permettere qui di conservare il testo tràdito.

An. 661 INSTARE VT DICEREM ME DVCTVRVM ‘orare’: quartum nihil potest esse.

PATRI SVADERE ORARE

‘instare’ ‘suadere’

quartum AK (prob. Westerh.): quarto Σ: quando Steph. || nihil potest esse Θ: nihil potestate K: nihil potuerit A: non plus dicere potest Λ W.: INSTARE VT DICEREM ME DVCTVRVM PATRI SVADERE ORARE ‘instare’ ‘suadere’ ‘orare’: quarto nihil potest esse.

L’accumulo di verbi sinonimici è una caratteristica plautina, non estranea a Terenzio. Anche se di non brillante confezione, lo scolio ad An. 661 sembra voler dire che non sarebbe stato possibile aggiungere un quarto uerbum precandi oltre orare, instare, suadere; benché si possano nutrire delle perplessità circa il contenuto dello scolio (l’accumulo sinonimico non è infatti ristretto o necessariamente ristretto a tre verbi), non si può interpretare quel quartum in altro modo ed in definitiva non ho motivo per stampare quarto di Σ in luogo del quartum di AK. Il secondo punto debole della nota consiste nel verbo reggente: stampare il potest esse di Θ sarebbe un ennesimo cedimento ad una lezione banalizzante, se non si potesse supporre una medesima lettura per K, estrapolabile dal corrotto potestate. Un margine di dubbio è lecito: la sofferenza testuale doveva essere già d’archetipo; lo stesso Λ, se avesse letto nihil potest esse, l’avrebbe probabilmente accolto senza porsi il problema di rielaborare il testo; la ricostruzione tentata sopra per K è possibile, ma non certa. Se si volesse dare ragione ad A, intendendo la sua lettura quella più vicina all’originale, si dovrebbe pensare ad un potuerit come

|| 370 In Ter., per esempio, l’opposizione si verifica fra nosco e pernosco, cf. An. 503: SIMO: te noram ... DAVVS: non satis me pernosti, in generale cf. ThlL X 1, 1598, 73ss.

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un congiuntivo potenziale, quindi integrando esse, che, a questo punto, Θ avrebbe aggiunto per iniziativa privata. Si potrebbe lavorare anche con il verbo pono, paleograficamente vicino a possum, quindi proponendo ponitur o positum est. Si tratta comunque di possibilità teoriche: non essendo chiaro il fulcro dello scolio è difficile persuadersi della superiorità di una qualche scelta.

An. 663.3–4 3 Et ‘inter’ modo praepositionis non habet significationem; est enim auctiua particula, ut ‘interfectus, interemptus’ ut (Plaut. Merc. 833) ‘interfectus, interemptus’. 4 Vel ‘inter’ modo pro ‘per’, ut (Verg. Aen. 7, 30–32) ‘hunc inter fluuio Tiberinus amoeno u. r. et m. f. h. in mare pror.’. 3 inter] me AB || post modo add. nominis non exigit additamentum Λ || praepositionis non habet significationem scripsi: pronuntiabat habetur significatio AB, inter cruces Wess.: pronomine hoc non habetur significatum K: pro non mediocri significat Θ: 〈adeo ut〉 pro non mediocri significatione 〈sit sed quia maiorem habere non potest〉 Λ, post auctiua transp. || auctiua KΛ: tactiua A: adactiua B: actiua Θ || ut] uel BB2|| interfectus] om. B2 || interemptus uel potius intereptus B: intercepit AB2: interceptus K Σ 4 modo (sic B)] modus AK B2 || pro per Wess. (duce Schopen*): post ω (pro post β) || ut B Σ: utili AB2: ut in K: ut ille Wess. || hunc (sic B)] uno AB2 K || fluuium ABB2|| Tiberinus] tibi o(mn)is AB: thyberinus β || amoeno] am(m)ixtio AB: annectat K || u.–h.] rem c. h. AK: Rem sp. rel. e. h. B: R. sp. rel. CT: per sp. rel. F: mult. uar. codd.Λ || pror. Wess.: pro hoc AB: proruat K: prorupit (uel prorumpit) Σ W.: 3 Et ‘inter’ modo † pronuntiabat habetur significatio †; est enim auctiua particula, ut ‘interfectus, interemptus’. 4 Vel ‘inter’ modo pro ‘per’, ut ille (Verg. Aen. 7, 30–32) ‘hunc inter fluuio Tiberinus amoeno u. r. et m. f. h. in mare pror.’ Pronuntiabat habetur significatio (in textu). Dub. An pronuntia: ut augeatur sigKARSTEN 1911–1912

pronominis hoc non habet significationem HYPERDONAT371

La nota si sviluppa a partire dal verbo interturbat, pronunciato forse da Panfilo. Prescindendo per ora dal problema della sezione testuale posta fra cruces da W., nello scolio 39.3–4 inter è sottoposto ad una duplice interpretazione: potrebbe avere un valore intensivo (un buon parallelo si trova ad Eun. 80: intercipit || 371 “Dans notre reconstruction du texte, Donat voudrait dire que ‘inter’ ici ne doit pas être construit comme un adverbe qui signifierait ‘inter hoc’ et donnerait à la phrase le sens de ‘il jette le trouble là-dedans’, mais bien avec un sens de préverbe intensif: ‘il jette un trouble complet’. A défaut d’assurer notre reconstruction du texte la suite de ce lemme et le lemme 4 en assurent le sens”.

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proprie ‘intercipit’ quasi totum capit), ma potrebbe anche essere equivalente a per come in Virgilio Aen. 7, 30, dove non a caso Servio annota: hunc inter per hunc. Questo è il senso globale che interessa il prefisso. In merito alla pericope rispetto a cui W. non trova una soluzione soddisfacente, è importante in primo luogo semplificare le varianti tradite tentando per le singole famiglie una reductio ad unum: Λ presenta un’evidente interpolazione, per cui dal suo testo si può prescindere; AKB e Θ si caratterizzano per porzioni di testo che non danno senso, con la differenza che Θ, come spesso accade, lascia tracce di qualche sforzo di intervento ricostruttivo, più o meno goffo. Ne risulta che per eventuali emendamenti bisogna partire da Γ, tralasciando B2 (per il quale cf. supra): a ben vedere il testo di ABK presenta un’unica e vistosa differenza che interessa il primo verbo reggente, tràdito come pronunciabat da AB, come pronomine da K. Tanto la prima variante quanto la seconda hanno uguale peso stemmatico. Ad una prima analisi linguistica emerge che nella stringa insensata pronuntiabat/pronominis habet(ur) significatio è riconoscibile un sintagma molto adoperato nel DC, cioè habere significationem (cf. An. 484.2: duo uerba iniuncta nullum habent significatum; Hec. 150.4, ibid. 692.1: negatiuam habet significationem), che non si hanno ragioni per ritenere non autentico. L’unico elemento poco difendibile a meno di qualche acrobazia testuale è pronuntiabat: la riflessione che Donato sta conducendo sul preverbio non può essere associata ad un altro, distinto, aspetto come la pronuntiatio e i suoi possibili effetti sul significato. Più probabile che un ‘x’ ignoto si sia corrotto in pronuntiabat, per probabile influsso del pronuntiandum dello scolio precedente 663.1, mentre pronominis ha un sapore più marcatamente congetturale (di K si possono menzionare altre lezioni imputabili a congettura, cf. An. 404.1). Se si segue lo schema logico concettuale dello scolio, si approda ad un verisimile emendamento per quel tràdito pronuntiabat/pronominis: se inter in questo brano ha valore intensivo (modo ... enim auctiua particula), mentre di solito svolge la funzione di preposizione, allora manca la definizione tecnica grammaticale che inter avrebbe in questo preciso caso, la quale non può che essere praepositionis. Donato starebbe dunque dicendo che inter non ha il significato della preposizione “tra” (che farebbe assumere al verbo interturbat il senso di “interrompere”), ma aumenta l’intensità semantica del semplice turbare, dunque da leggersi come ualde turbare. Se si confrontano i due dati già messi in luce (la presenza del sintagma habere significationem e la necessità che venga specificato il significato che inter assume nei contesti diversi da quello in esame) è ricostruibile, con una qualche verosimiglianza, il seguente testo:

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Et ‘inter’ modo praepositionis non habet significationem; est enim auctiua particula, ut ‘interfectus, interemptus’

Una limpida ricostruzione della genesi degli errori della tradizione sarebbe impossibile, tuttavia non escluderei che la gran parte dei problemi sia da ricondurre ad una banale glossa sopralineare, pro nunc, che doveva rendere esplicito il significato di modo. Trascinata a testo non solo avrebbe innescato la caduta di un certo segmento testuale autentico, ma in AB si sarebbe poi corrotto in pronuntiabat, forse anche per influsso del seguente habet, mentre nell’altro ramo viene letto come pro non (mediocri dovrebbe essere invece un’interpolazione di Σ). Per quanto riguarda gli altri dettagli, nel DC sono attestati tanto significatio quanto significatum, ma in iunctura con habere è impiegato di preferenza il primo (cf. Don. Hec. 150.4, ibid. 629.1, Phorm. 362.4, al.). Sul valore auctiuus di alcuni prefissi preposizionali, cf. per esempio ad Hec. 268, ibid. 520.2, Phorm. 203.1, al.; SCHAD (2007) 47. Quanto agli emendamenti che sono stati proposti finora non risultano convicenti perché presuppongono che Donato leghi la funzione intensiva di inter alla sua più marcata pronuntiatio: anche se nel DC non mancano casi in cui Donato esplicitamente inviti ad adiuuare il significatum con la pronuntiatio, non ci sono paralleli per i preverbi. Inoltre con questa lettura sarebbe ben più difficile giustificare modo: Donato spesso utilizza modo per richiamare l’attenzione sulla funzione o sul significato di una qualche particella del discorso in quel determinato contesto. Se invitasse a pronunciare inter per adiuuare il significato intensivo, modo sarebbe inutile. Per l’altra e più piccola correzione del testo, stampata da W. e riguardante ille, cf. supra.

An. 667.2 DIC MIHI semper τò ‘dic mihi’ iniuriosum est, ut ille (Verg. ecl. 3, 1) ‘dic mihi, Damoeta, c. p.?’ iniuriosum] iniuriose T

ZWIERLEIN (1970) 154–155 noterebbe un punto di debolezza nel tràdito iniuriosum, in luogo del quale propone curiosum. La congettura troverebbe poi un parallelo interessante in Hec. 356.2: Et τὸ ‘dic mihi’ curiosius interrogantis est. Vergilius (ecl. 3, 1) ‘dic mihi, Damoeta, cuium pecus?). Prescindendo dai dati forniti a sostegno di presunte discrepanze di tradizione, non esatti già in W., iniuriosus ricorre nel DC circa sette volte; il parallelo più stretto a difesa di questo passo si legge ad An. 598.1 quiescas pro ‘quiesce’

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imperatiui modi, ne iniuriosum uideretur: l’imperativo è un modo verbale che dona alla frase, quasi inevitabilmente, una sfumatura offensiva. Dunque la formulazione categorica dic mihi risulta spesso, come certamente qui, offensiva (non a caso in latino viene mitigato integrando forme come quaeso, sodes etc.). In questa prospettiva iniuriosum è inamovibile; di contro si potrebbe pensare di correggere curiosius di Hec. 356.2 in iniuriosius, salvo poi considerare che il nesso curiosius interrogare dà senso e che i due scoli possono coesistere senza innescare particolari contraddizioni. L’altro intervento da lui proposto, stampare Vergilius sostituendo ille, non è necessario, perché nel DC è usuale riferirsi a Virgilio con il pronome dimostrativo (cf. An. 820.4).

An. 668.2 ... non ad deceptionem, sed ad defatigationem reddidit defetigationem AK

Stando al ThlL V 1, 285, 80ss. la giusta grafia prevederebbe defatig- e non defetig. Nel DC non ci sono altre occorrenze di defatigatio, ma tanto a Phorm. 49.4 che ad Hec. 232.2 occorre il verbo defatigare. Inoltre, per quanto il peso stemmatico dell’una o dell’altra variante in casi simili non possano influenzare troppo la decisione dell’editore, in assenza di altri criteri l’accordo di BΣ contro AK dovrebbe restituirci la lezione dell’archetipo.

An. 681 RESTITVE IN QVEM ME A. L. sensus hic est: omnia mihi integra et salua redde, qualia tibi tradidi consulturo uel cum nihil promisissem patri. consulturi A: consulto Θ: consulturus Zeunius, fort. recte

Panfilo prega Davo di restituirlo allo stato di partenza, allorquando non aveva ancora promesso al padre di sposare Filomena, seguendo forzosamente il suo consiglio. ZEVNIVS vorrebbe correggere consulturo in -rus, così da accordarlo con Panfilo, un emendamento che parte dal presupposto che qui consulere abbia il valore di consilium petere. Stando al ThlL IV 576, 71ss. c. ha di norma senso attivo, indica cioè l’atto di ‘deliberare’, ‘meditare’ ‘dare consigli’, ma si contemplano anche occorrenze dove è impiegato con l’accezione di interrogare, consilium petere (cf. ThlL IV 581, 22ss.). Nel DC si attesta il sostantivo deverbativo consultor nel valore semantico di “colui

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che è spezializzato nel dare consigli” (cf. ad Eun. 128.1, Ad. 127.2 ... quia a consulendo consilia dicuntur et consultores, ibid. 967.3). Dall’esame delle occorrenze del verbo nel DC si ricava un senso attivo che oscilla fra consilium dare e prouidere (in questo caso costruito frequentemente con il dativo); cf. Ad. 77.1, ibid. 109.4, ibid. 328.2, 524, al. Concluderei perciò che, nel caso specifico, è preferibile conservare il testo tràdito, lasciando consulturo in accordo con il dativo tibi (scil. Davo).

An. 698.1 RESIPISCO SPIRITVM reuocat sensim. sensim Zeunius: sensus ω

Miside nell’Andria funge da messaggera di Glicerio e si rappresenta come emotivamente partecipe dello stato d’animo della fanciulla: ai vv. 690ss. riferisce a Panfilo che Glicerio vuole vederlo: se veramente la ama, deve raggiungerla. Di fronte a simile richiesta, come già in altre occasioni, Panfilo ribadisce che nulla potrebbe tenerlo lontano da lei se non la morte, così da eliminare ogni margine di dubbio e permettere a Miside di riaversi. Il verbo resipiscere può tanto far riferimento, in senso proprio, all’atto di riprendersi, quanto, in senso metaforico, al rinsavire. La nota ad An. 698.1, così come tràdita, è problematica perché è difficile individuare il relativo significato: sensus (la comprensione, il significato?) richiama il respiro/lo spirito? Un netto miglioramento è segnato dalla lettura di ZEVNIVS, il quale corregge sensus in sensim (lentamente), così da far acquisire all’annotazione un pieno valore lessicale, e rende ragione, attraverso l’avverbio sensim, della suffissazione incoativa -sco.

An. 703.1 SCIO QVID CONERE sensus est: scio quidem quid coneris, sed an efficere possis nescio. scio – conere Wess.: consilium quaero ω

Sulla scena troviamo Carino, Davo e Panfilo; quest’ultimo è intenzionato a far fallire le nozze ad ogni costo, anche a rischio che il padre scopra le sue reali intenzioni; Davo dice di avere un piano, e Panfilo afferma (ironicamente) di sapere quale piano stia tramando. Il testo presenta un problema circa la distribuzione delle battute, che interessa nello specifico il v. 702, e di cui anche Don. è cosciente: scio quid conere potrebbe essere una battuta imputabile tanto a Carino quanto a Panfilo, e, se

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fosse stata pronunciata effettivamente da quest’ultimo, sarebbe da leggere in senso sarcastico dato che la strategia del servo era risultata fino a quel momento fallimentare. Ad ogni modo, passando a Don. ed allo scolio sopra citato, appare evidente che il contenuto del commento mal si concilia con il lemma tràdito, ossia consilium quaero (“sto cercando l’idea giusta”): battuta di Davo di poco precedente, An. 702. La nota deve invece far riferimento alla battuta di Panfilo (o di Carino) scio quid conere, di cui rappresenta una parafrasi esplicativa. Di conseguenza non si può aggirare la necessità di un intervento migliorativo (come già proponeva ZEVNIVS) che interessi la sostituzione del lemma. Di contro HYPERDONAT preferisce attribuire la battuta consilium quaero non a Davo, ma a Carino, così il contenuto dello scolio assumerebbe coerenza rispetto al lemma.

An. 707.4 PROINDE hinc uos amolimini ... Et ideo impedientibus se ‘amolimini’ hic 〈dicit〉, non ‘abite’. hic Θ: hinc Γ Λ (post vel ante amolimini exhib.) || add. Schoell* (qui hic om.): dixit ante amolimini add. Λ

Il testo dell’archetipo per la coda finale della nota doveva presentare verosimilmente la seguente fattura: Et ideo impedientibus se amolimini hinc, non abite. W. stampa il testo così come restituito da SCHOPEN, che leggerebbe amolimini dicit (l’assenza di un verbo di dire era stata comunque già percepita da Λ, che per l’appunto integra un dixit): si recupera sostanzialmente dicit da hi(n)c, eseguendo un intervento che dal punto di vista paleografico è ineccepibile perché la forma abbreviata di dic(it) è facilmente corrompibile nel dimostrativo e viceversa. Nel caso specifico prima di obliterare hinc per recuperare il verbo andrebbero contemplate altre due possibilità: la prima è che hinc vada conservato come indicatore di moto da luogo e virgolettato insieme con amolimini in quanto parte della citazione terenziana (hinc uos amolimini); la seconda è che hinc sia da correggere in hic con Θ e costituisca così una particella circostanziale (“qui”, “in questo contesto”). Nella scelta fra le due opzioni è discriminante l’ordo uerborum: amolimini hinc favorisce infatti la seconda delle letture proposte come possibili (‘amolimini’ hic). Hic a mio avviso ha pienamente senso in quanto crea un’(indiretta) opposizione con un altro punto dell’Andria, ovvero il v. 28, là dove Simone invita i servi ad andare via (uos istaec intro auferte, abite). L’estrema somiglianza paleografica fra hic e dic(it) avrebbe innescato la caduta del secondo: si tratterebbe di una banale aplografia, non priva di paralleli (cf. ad Hec. 342.1: hic 〈dicit〉).

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An. 708.3 QVID TV HINC QVO TE AGIS admonitio discedentis, ut solet; nam a quo discedere desideramus, admonemus eum [ubi uadat uel quo eat] idem facere. Per interrogationem admonet Dauus Charinum, ut ipse abscedat Charinus, qui nunc ultimus remanet. discedentis] discedendi Schopen (1821) 28 sq.|| desideramus] uolumus B || eum] cum CT || ubi (quo B Schopen 1821, 28sq.) uadat –eat] post interrogationem transp. Schopen, seclusi || idem Wess.: iđ A: id BK Σ || facere] facete Bentley* || et] ante ipse add. Wess. || abscedat] discedat C (corr. C2): abscedat uel discedat codd. Λ Eugr. ad loc.: immo etiam narrationis mihi incipit initium Dauus seruus domino discedente cum animaduerteret Charinum etiam nunc stantem uolens eum depellere, quo celerius ipse quae essent agenda compleret, astute interrogauit, cum omnes irent, ‘quid tu’? ‘quo hinc te agis’?: non enim uere audire uoluerat, sed 〈tan〉tum ut impedimentum ad interrogationem discederet. At ille tamquam interrogari se credens coeperat nescio quid narrare, cum dixit, ‘uerum uis dicam?’, unde iratus uehementer Dauus, quod sibi narrare nescio quid ille uellet, cui hoc astute dictum fuerat ut discederet, ‘immo etiam narrationis mihi incipit initium’: cum enim iam discessionem tuam complere debueris, nescio quid narrare coepisti.

An. IV 2 vede sulla scena Miside, Davo, Panfilo e Carino: ormai sono nuovamente imminenti le nozze, e non sembrano esserci soluzioni. Nella generale paura che non ci sia modo di impedire il matrimonio tanto voluto da Simone, ecco che Davo annuncia a tutti di avere un piano, il secondo: in cosa consista, non lo dice, perché non ha tempo di perdersi in parole, e quindi invita tutti a lasciarlo in pace. Miside e Panfilo vanno via, Carino resta – come suo solito-a lamentarsi. Davo vede che Carino non si allontana e gli chiede “e tu? che direzione prendi?”. Lo scolio 25.3 è focalizzato proprio su queste ultime domande di Davo. Nulla, in questo caso, mette in evidenza i nodi problematici dello scolio quanto la traduzione letterale del testo di W.: quid tu hinc quo te agis si tratta dell’ammonizione tipica di chi si allontana, come si suole; infatti a colui, da cui desideriamo allontanarci, ricordiamo in che direzione procede o dove va. Per mezzo di una domanda e con un effetto comico Davo rivolge la medesima ammonizione a Carino, perché lo stesso Carino se ne vada, visto che è l’ultimo a rimanere ancora lì.

Dunque, uno dei problemi più evidenti del passo è la sezione admonemus eum ubi uadat uel quo eat: il verbo admonere significa ricordare qualcosa a qualcuno o esortare qualcuno a fare qualcosa o, come in questo caso, cioè seguito da un’interrogativa indiretta, ha un senso prescrittivo: dire come qualcosa deve essere fatto (cf. ThlL I 764, 77). Dunque dal testo così come stampato si capisce che Davo ricorda a Carino dove deve andare, mentre in realtà Davo si limita a chiedergli dove deve andare, non perché fosse interessato a saperlo, ma per ricordargli di andarsene via.

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L’unico modo per salvare ubi uadat uel quo eat in quella posizione ci porterebbe a sottindendere un uerbum interrogandi (‘lo ammonisce chiedendogli dove se ne va’), ma questa sarebbe una forzatura inaccettabile: un’ellissi del genere non sarebbe in alcun modo motivata. Oppure, con SCHOPEN, si dovrebbe trasporre l’interrogativa indiretta (ubi–eat) dopo interrogationem. A meno di intervenire sul verbo (che però è reso intoccabile dalla tela di rimandi interni allo scolio: admonitio ... admonemus etc), l’intervento più logico risulta essere l’espunzione: ubi uadat uel quo eat sembra essere a tutti gli effetti un’interpolazione, probabilmente stimolata da quo hinc te agis del testo terenziano, di cui lo scolio non fa esplicita menzione: Donato si limita ad etichettare la domanda di Davo come admonitio, il copista sente il dovere di aggiungere in cosa consista l’admonitio, senza però accorgersi di stravolgere il senso della frase. A favore della sua natura spuria parla, oltre alla complessiva insensatezza del testo, l’inutile endiadi ubi uadat uel quo eat, a cui si aggiunge la problematicità sintattica della prima interrogativa indiretta (ubi uadat): ubi è usato da Donato anche nelle interrogative indirette, ma indica pur sempre uno stato in luogo, non un moto a luogo: cf. Don. Ad. 364 (scilicet ‘scire ubi siet’); id. An. 800, al.; il nesso ubi uado è frequente negli scrittori medievali. Ci sono perciò i presupposti per l’espunzione, da preferirsi anche alla poco economica e comunque problematica trasposizione di SCHOPEN, anto più se collegata ad altri emendamenti più o meno necessari come quo per ubi. Altro passaggio essenziale per ristabilire il testo riguarda la correzione di BENTLEY (facete in luogo di facere): l’intervento, oltre che non necessario, non è neppure esattamente conforme alla dinamica dialogica sviluppata da Terenzio: le domande di Davo sono solo velatamente o, per meglio dire, apparentemente umoristiche, il servo è solo ansioso di liberarsi di Carino. La facetia, semmai, è innescata dalle parole successive narrationis incipit mi initium. Donato sta osservando che chi vuole allontanarsi da qualcuno, lo fa in modo indiretto: chiedendo cioè a questo qualcuno dove ha intenzione di andare. E Davo adotta proprio questo espediente con Carino. Lo scolio è quindi giocato su un doppio livello: c’è prima una generalizzazione e poi l’applicazione al caso specifico dei principi di questa generalizzazione. A conferma di questa soluzione è utile anche ricordare un passo di Ad. 433.3, che spiega la finalità di certe interrogative tipologicamente affini a quella qui in esame: TV RVS HINC ABIS qui consuetudinis memor est, animaduertit has interrogationes non inquireni causa poni, sed admonitionis loco esse apud eos, quos uelimus abscedere. Sic igitur interrogat, ut hortetur, et sic pronuntiat, ut et fiat et amplietur, quod facit.

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Si propone quindi di ritornare alla lettura dei manoscritti, interpungendo dopo facere ed espungendo ubi uadat uel quo eat.

An. 709.3 Ab eo hoc quasi ab iocante pronuntiandum est, nam sic ille ‘impudens’ respondet. iocante] iocantem C: an potius iurgante? || ille V: illi ω

Miside riferisce a Panfilo che Glicerio desidera vederlo: ha saputo delle imminenti nozze ed è preoccupata; intanto Davo dice di aver trovato una soluzione al problema, ma chiede a Panfilo e Carino di andar via perché non ha tempo di parlarne: Panfilo corre da Glicerio, Carino è meno convinto e si chiede cosa ne sarà di lui (= Quid me fiet?); a questo punto Davo si irrita e gli dà dell’impudente (‘ma come! Non ti basta che io faccia tardare le nozze!’). Don. commenta l’affermazione di Carino dicendo che quid me fiet ‘deve essere pronunciato da lui con fare giocoso’, infatti, in tal modo, si giustificherebbe perché l’altro gli risponda ‘impudente’. Nello scolio successivo si puntualizza che il termine ‘impudente’ è utilizzato in modo proprio da Terenzio, perché il motivo dell’‘impudenza’ di Carino consiste nel fatto che egli sembra fare una richiesta insolita ed eccessiva. HARTMAN è insoddisfatto del senso del testo, individuando il punto debole in iocante: non vede un nesso fra l’atteggiamento scherzoso di Carino e l’impudentia di cui è accusato da Davo. Consiglia quindi di leggere poscente, sulla base dello scolio successivo. Su questa correzione nutro qualche dubbio: come si deduce da An. 710.1, l’accusa di impudentia non è legata al fatto che Carino avanzi una richiesta (dunque al mero poscere), ma alla pretesa eccessiva della stessa (insolita et multa poscenti), dunque, se si accetta di correggere in poscente, si richiederebbe l’integrazione di un avverbio o un complemento oggetto che caratterizzi la richiesta in termini di eccesso. Il fatto che iocante sia insoddisfacente è un’osservazione esatta in termini generali: nelle domande di Carino non si riesce a cogliere l’ironia o la leggerezza tipica di chi si vuole beffare dello schiavo, ma solo un’eccessiva insistenza, un pretendere troppo. Se dunque questo scolio si deve leggere in continuità con 710.1, proporrei di correggere in iurgante: oltre alla maggiore vicinanza paleografica, è molto verisimile, dato il contesto, che Carino si chieda cosa ne sarà di lui con un tono di rimprovero nei confronti di Davo, il cui precedente piano è fallito; ed è altrettanto verosimile che Davo gli dia dell’impudente perché Carino lo rimprovera sebbene egli si stia impegnando per far procastinare le nozze.

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Bisogna però ammettere la possibilità di leggere 709.3 prescindendo da 710.1, prendendo spunto dalla constatazione che Donato definisce l’uso di impudens in questa battuta come ‘proprio’, il che presuppone che ne esista almeno un’altra lettura: ‘impudente’ infatti indica anche un atteggiamento inverecondo, poco rispettoso, tipico di chi si prende beffe di qualcuno (ThlL VII.1 707, 40ss.). Il fatto che Davo dia dell’impudens a Panfilo potrebbe quindi anche significare che il servo non riesce a prendere sul serio le domande disperate di Carino e che, di conseguenza, nella prospettiva del servo, Carino stesse dicendo cose futili, non pertinenti. Iocante andrebbe inteso e difeso non nel senso di dire cose scherzose/ironiche, ma di dire cose inutili, quasi allo scopo di fargli perdere tempo. Uno scolio di Eun. 348.5 commentando l’espressione alias res agis, offre un ottimo parallelo per quest’ultimo significato: aut non intendis ad id quod dico significat, ut nulla sit in eo attentio – nam hinc natum est ‘agite amabo’ – aut nugatorias res agis, hoc est iocaris.

An. 726.1,7 1 EX ARA SVME H. V. T. ‘ex ara’ Apollinis scilicet, quem Λοξίαν Menander uocat [...] 7 EX ARA S. U. uerbenae sunt omnes herbae frondesque festae ad aras coronandas uel omnes herbae frondesque ex loco puro decerptae. Verbenae autem dictae ueluti herbenae. Menander (frg. 44 K.-A.) sic ἀπὸ Λοξίου μυρρίνας †χχηησαιετεινε† Λοξίαν Meineke (1841) 710, dub. Dziatzko (1876) 239: asiaion A: aſ Λ B: as(s)ion Σ: asi sp. rel. K: Ἀγυιαῖον Meineke (1841, 84, ‘fortasse’): ήλιον uett. edd. [...] 7 sic Menander Λ: om. B || ἀπὸ Λοξίου Saekel (1914) 13: κολεξιασ A: om. nul. sp. B: om. sp. rel. KΣ: κοΔΕξΙΑC Lind.: ἀπὸ δεξιᾶς Bentley: ἀϕ᾿ἑστίας Jakobs (apud Meineke 1823, 21): ἀπὸ δ᾿ἑστίας Zeunius: ἀπὸ Λοξία Meineke || σὺ μυρρίνας Clericus (1709) 16: om. nul. sp. B: om. sp. rel. KΣ: σὺ μυρρίναις Dziatzko: CYMYPPYNAC Lind. ||†χχηησαιετεινε† A: om. nul. sp. B: om. sp. rel. KΣ: XXHCΔΙΕΥΕΥΕΙΝΕ Lind.: λαβοῦσ’ ὑπότεινε Saekel (prae. Mein.): ἐπὶ γῆς διάτεινε Dübner: χρῆσαι γύναι Dziatzko Seru. Aen. 12, 120: abusiue tamen iam uerbenas uocamus omnes frondes sacratas, ut est laurus, oliua uel myrtus. Terentius ‘ex ara sume hinc uerbenas’, nam myrtum fuisse Menander testatur, de quo Terentius transtulit.

Davo, per compiere il suo piano, ha bisogno che Cremete veda il bambino, dunque chiede a Miside di prendere un po’ d’erbe dall’altare (uerbenae) e stenderle sull’uscio in modo da porci sopra il neonato.

Andria, atto IV | 367

Le uerbenae sono delle erbe aromatiche usate nelle cerimonie sacre, per cui Donato prima istituisce una sorta di legame paraetimologico uerbenae-herbenae, poi cita Menandro. Sotto il nome di uerbenae, però, Servio preferisce non raggruppare tutte le erbe consacrate: prendendo spunto dalla citazione di questo passo di Terenzio (ex ara sume hinc uerbenas), fa notare che il poeta latino con uerbenae sta traducendo un passo di Menandro dove però è nominato il mirto. E proprio il mirto è la pianta che con ogni probabilità veniva menzionata nel frammento di Menandro citato ad litteram da Don.: si veda la pericope greca tradita da A (κολεξιασσυμυρρ ινασχχησαιετενε), dove, nonostante la non pacifica ricostruzione ed interpretazione, è pur sempre isolabile μυρρίνας. La sua parte iniziale fa verosimilmente riferimento ad Apollo, e di fatto sembrerebbe potersi leggere uno dei suoi appellativi caratteristici: Λοξίας. Un qualche riferimento ad Apollo doveva pure esserci visto che Don., negli scoli precedenti (726. 2–3) parla proprio dell’altare di questa divinità. 726.1 e 726.7, dovrebbero quindi essere tra loro coerenti, ma, stando al testo stampato da W., nel primo caso Apollo risulta definito Ἀγυιαῖον (= protettore delle strade)372, appellativo ripristinato da MEINEKE373 e da allora unanimemente accettato; nel secondo caso ci si riferisce alla stessa divinità con Λοξίας.374 Sul piano letterario Λοξίας ha attestazioni sicure in Menandro, benché sia molto più diffuso in tragedia che in commedia;375sul piano paleografico, a fronte di un abbastanza certo ἀπὸ Λοξίου a 726.7, meriterebbe di essere rivista la lettura ad An. 726.1, dove la ricostruzione di Ἀγυιαῖον è questionabile: asiaion A: as(s)ion Θ Λ (-N: acri or; -U: Aσιον): as sp. rel. K: as ΛΙΟΗ B)

|| 372 Cf. Eu. Phoen. v. 631 (MASTRONARDE ad locum). 373 Cf. MEINEKE (1839) 84. A proprosito del suo frg. 40 (= 44 K.-A.), KÖRTE scrive: “quamquam e Donato 7 et Servio verba ἀπὸ Λοξίου σὺ μυρρίνας satis certo restituta sunt, tamen miramur, quod Dona. 1 Apollinem non Λοξίαν sed Ἀγυιαῖον appellat – hoc cognomen in corruptis litteris latere perspexit Meineke”. 374 Per una breve sintesi, cf. KÖRTE, frg. 40. 375 Cf. Menander, Samia, v. 474 e relativo commento di ALAN H. SOMMERSTEIN.

368 | Commento filologico-testuale

Fig. 39: B, f. 6r

Fig. 40: K, f. 28u

In base al greco tràdito, infatti, la proposta di MEINEKE ha lo stesso grado di probabilità della lettura che sembrerebbe suggerirci il successivo passo menandreo, cioè Λοξίαν. Nel subarchetipo Γ doveva leggersi ancora del greco, come testimoniato da B e dallo spazio lasciato da K; A,376 invece, ne tenta una traslitterazione; in Σ il processo di traslitterazione era già avvenuto. Il codice di riferimento, quindi, non può essere A, che in questo punto prende un’iniziativa ‘singolare’, ma B, che preserva lo stato più antico del testo. Confrontando il testo di A e B, Γ poteva avere qualcosa come: as. ΑΙΟΝ. as. ΑΙΟΝ Γ: assion Σ può essere il risultato di un processo di corruzione e traslitterazione a cui è stato sottoposto Λοξίαν: Λ e A si confondono quasi sempre nella maiuscola greca, O poteva facilmente essere letto come sigma lunato e quindi traslitterato in s; ξ poteva essere resa da X latina, a sua volta potenzialmente interpretabile come Λ.377 E questo accompagnato da ulteriori e successive corruzioni. Con questa nuova interpretazione si risolve, senza eccessive spese, l’aporia evidenziata poc’anzi, e si rende ancor più certa la lettura proposta da SAEKEL per la parte iniziale del frammento 40.

|| 376 La lettura di MEINEKE sembra vicina al testo tràdito da A (e, in minor misura, a quella di B); però bisogna sottolineare che la trascrizione del greco da parte dei copisti latini è soggetta a corruzioni spesso non ricostruibili, per cui la lezione più vicina alle lettere tradite, può non essere quella giusta. Cf. RONCONI (2003) 75–123. 377 Cf. Seru. Aen. 6, 89 (s.v. Λοξίας in app.); per la confusione X/Λ cf. RONCONI (2003) 82.

Andria, atto IV | 369

An. 730.2 ‘Noua religio’ in seruo et subita. est Zeunius

ZEVNIVS vuole leggere est in luogo di et, ma la correzione forse non è necessaria: qui si vogliono separare i due aspetti dell’asserzione di Miside, ossia che la nuova religio interessa il servo, ed è ‘improvvisa’ (nunc ... incessit).

An. 747.2,748 747.2 ... qui rei principium rationemque ignorat. 748 EHO MYSIS ‘eho’ interiectio est [uel principium] animaduersionem in se poscentis aut repente cernentis. secl. Zeunius

Principium può essere impiegato nel DC per descrivere la particolare funzione svolta da una parola o da una qualche formulazione specifica per segnalare l’inizio di una domanda o di una preghiera (cf. Don. Hec. 585.3: principium hoc aliquid precantis est feminae; Hec. 269: facete principium interrogantis est ...) o veicolare un certo effetto o stato emotivo (Don. Phorm. 937.2: principium aliquid per iracundiam dicturi). Se non fosse posto sullo stesso piano di interiectio, dunque, risulterebbe sostanzialmente accettabile: eho è la parola da cui prende principio chi vuole attirare l’attenzione su di sé. Un elemento di forte disturbo è sollevato dal fatto che risulta accostata ad una definizione grammaticale specifica, interiectio, mentre principium è una definizione molto generica, che si applica per lo più a movenze fraseologiche variabili. Inoltre in nessuna delle occorrenze di eho nel DC è possibile individuare un qualche parallelo in suo favore (cf. An. 184.2, ibid. 500.2, ibid. 667.1, ibid. 951.2, Hec. 267.2). A queste osservazioni di contenuto si aggiunge una brillante intuizione di ZEVNIVS per la ricostruzione della genesi della corruttela: principium è menzionato nello scolio poco sopra (rei principium) ed è quindi probabile che poi, per un qualche guasto meccanico, sia stato ripetuto poco dopo, prima di animaduersionem.

An. 754.1 MALEDICIS cum contemptu loqueris, conuicium facis. Apparet ergo ‘maledicis’ lentius dictum esse, cum dixerit ‘dic clare’. lentius Σ: lenius Γ

370 | Commento filologico-testuale

Il piano di Davo per permettere l’annullamento delle nozze fra Panfilo e Filomena consiste nel portare a conoscenza Cremete del bimbo avuto da Panfilo con Glicerio. Per la sua realizzazione ha bisogno dell’aiuto della serva Miside, a cui però non ha tempo di spiegare le sue intenzioni per l’improvviso sopraggiungere di Cremete: la serva quindi si trova improvvisamente messa sotto accusa da Davo per aver posto il bimbo davanti alla soglia di casa sebbene fosse stato proprio lui ad ordinarglielo. Si sviluppa quindi una scena particolarmente vivace: da una parte la serva, che non si è accorta della presenza di Cremete ed ignora la finzione messa in atto dal suo interlocutore, dall’altra Davo che prova a veicolare le sue parole in modo che Cremete venga a conoscenza che il bambino è di Panfilo. Ad An. 752ss. Davo le chiede chi abbia mai messo il bimbo lì e Miside non fa in tempo a rispondere: le sue parole, che facevano presagire un’accusa nei confronti del servo, sono interrotte da una grave minaccia da parte di quest’ultimo. Alla minaccia segue poi una battuta di dubbia attribuzione (male dicis), che i codici insieme a Don. fanno pronunciare a Miside, mentre gli editori nella maggior parte dei casi attribuiscono a Davo. Senza entrare nel merito del testo dell’Andria, è bene ribadire che la nota di Don. acquista coerenza interna solo nel caso in cui l’esegeta leggesse maledicis come risposta di Miside alla minaccia di Davo nel senso di “parli con disprezzo”. Lo scolio continua mettendo in relazione male dicis al dic clare, ma non è chiaro in che termini, perché la tradizione si divide circa la trasmissione dell’avverbio. W. stampa lentius, tràdito dal solo Σ, mentre Γ legge lenius. Lentus in ambito retorico e pseudo-retorico dà indicazioni sull’aspetto performativo, del tono di voce dell’oratore (cf. ThLL VII 2 1165, 10ss.), e spesso la lentezza fa coppia con un modo di parlare pacato e di bassa tonalità. È evidente che questa accezione si armonizza molto bene con il successivo cum dixerit ‘dic clare’ (male dicis doveva venire pronunciato a voce piuttosto bassa poiché poi lo schiavo le chiede di parlare in modo chiaro), tanto che lentius sembra inamovibile.

An. 755.1 MIRVM VERO 〈uero〉 saepe ad ironiam refertur. add. Wess.

All’interno del contesto terenziano l’espressione mirum uero è analizzabile come ironica, ma è probabile che per Don. l’ironia fosse veicolata dalla particella avverbiale uero, come desumibile da Eun. 89.2 (Nam ‘uero’ironiae conuenit, ut (Verg. Aen. 4, 93) ‘egregiam uero laudem et s. a. r.’), ibid. 894, ibid. 908.3.

Andria, atto IV | 371

An. 767.1 QVID CLAMITAS clamitauit enim Dauus, ut [puer] audiret Chremes puer Γ: puerum Σ, del. Hartman: an potius Pamphili esse ante puerum addendum? (cf. et Jakobi GFA 2017, 31)

La riuscita della nuova messa in scena organizzata da Davo presuppone che Cremete sia nella condizione di ascoltare il dialogo: quando quindi si giunge alla domanda più importante (di chi è il bambino) Davo finge di non aver capito, chiede a Miside di ripetere ed alza la voce. W. stampa il testo così come tràdito da Σ, ma già HARTMAN (1895) 149–150 aveva notato che lo scolio difetta sul piano logico e riteneva puerum da espungere: secondo la sua interpretazione, uno scoliasta avrebbe introdotto puerum pensando che Davo gridasse per svegliare il bambino inducendolo a piangere; più in generale si potrebbe dire che l’interpolazione è ‘stimolata’ dall’assenza di un oggetto retto da audiret. È vero che il testo, che accoglie la correzione di HARTMAN, parrebbe un po’ scialbo, ma l’espunzione è un intervento plausibile perché si possono intuire le ragioni per cui sarebbe stato interpolato puerum. Diversamente si dovrebbe ricorrere ad un intervento che preveda un’integrazione: la più logica sarebbe Pamphili esse prima di puerum (‘perché ascoltasse che il bambino è di Panfilo’), una confezione testuale che si armonizza bene anche con il testo di Terenzio: Miside infatti non adopera il semplice clamo ma il frequentativo clamito, per cui si intuisce che Davo alzi la voce da prima di An. 767 e può darsi che nella performance il tono di voce subisse un’impennata proprio lì dove essenziale: ad An. 765 in corrispondenza di Pamphili.

An. 782.1,2 1 IOCVLARIVM in malum e contrario: pro graui et molesto ac nimio. 2 〈IOCVLARIVM〉 ‘iocosum’, ergo κατὰ ἀντίφρασιν. addidi || 2. iocosum Γ: iocoso Θ: iocularium Λ || ergo] ego A (corr. A2): igitur Θ || κατὰ ἀντιϕρασιν z: cat(h)a antifrasin ω W. = e contrario: pro graui et molesto ac nimio iocosum. ergo κατὰ ἀντίφρασιν

La confezione testuale che W. dà al testo in questo punto non è soddisfacente: interpretando nimio come avverbio, lo lega a iocosum, intendendo poi il seguito come frutto di un’interpolazione (in questa prospettiva sarebbe risultato più coerente stampare κατὰ ἀντιϕρασιν nella forma latinizzata trasmessa dall’archetipo).

372 | Commento filologico-testuale

Nimio si deve intendere necessariamente come aggettivo,378 costituendo un trittico insieme a grauis e molestus, utile ad esplicitare il significato contestuale assunto da iocularium ad An. 782.1; con iocosum inizia una nuova movenza sintattica, traducibile in un nuovo scolio, dove prima si dà una glossa sinonimica di iocularium (forma che si può dire attestata solo qui in luogo di un più usuale iocularis, cf. ThlL VII 2, 286.18ss.), quindi indicando che in Ter. viene usato con valore antifrastico, per dire esattamente il contrario. I due scoli 782.1 e 782.2 sono quindi paralleli, alla stregua di molte altre note di commento del DC, cf. An. 28.1 e 28.2 per esempio.

An. 787.2 NON TE CREDAS D. L. Vergilius (Aen. 9, 581) ‘non Diomedis equos n. c. c. A.’ Cremete ritiene che Miside, vittima del piano di Davo, non voglia dire la verità, che cioè il bambino sia di Panfilo, e crede quindi nella buona fede di Davo. Al verso 787 Davo osserva, parlando di se stesso in terza persona, che è inutile pensare di ingannare “un Davo” (ne credas Dauom ludere), e proprio in corrispondenza di questa frase nel DCA si legge una citazione dall’Eneide (9, 581), la cui affinità con le parole di Terenzio è difficile da individuare: non Diomedis equos nec currum cernis Achillis aut Phrygiae campos: ‘nunc belli finis et aeui his dabitur terris’. Il verso virgiliano non presenta alcuna vicinanza contenutistica con il testo terenziano; Servio (ad Aen. 9, 581) si limita a dire che sia Diomede che Achille sono due nomi di personaggi risultati vittoriosi su Enea; Tiberio C. Donato (in Aen. 10, p. 366. 22) fa osservare che il verbo cernis deve essere letto per tre volte; Cassiodoro (inst. 2, 3, 15 = Isid. orig. 2, 30, 8) cita questo verso fra i casi di a differentia argumentum. È evidente che nessuna delle citate spiegazioni può adattarsi al non credas (etc.) di Terenzio, né è possibile individuare uno stesso movimento sintattico (il congiuntivo da una parte e l’indicativo dall’altro stabiliscono una differenza sostanziale da questo punto di vista). L’ipotesi che si tratti di una pericope spuria, non ascrivibile a Don. è, nello stato in cui lo scolio è tràdito, molto concreta, come mi suggeriva JAKOBI; inoltre trova conforto nel fatto che fra i due passi c’è una vaga affinità di superficie: in entrambi i casi viene negato qualcosa (in Virgilio la presenza di oggetti che rimandano alla guerra ed in Terenzio la possibilità di ingannare Davo). Proprio questa lontana somiglianza potrebbe aver ‘stimolato’ l’annotazione del passo virgiliano. || 378 Non ci sono casi di nimio avverbiali nel DC.

Andria, atto IV | 373

An. 788.1–2 1. NIHIL POL FALSI DIXI MI SENEX bene ‘senex’, quia quasi alienior est et ignotus. 2. MI 〈S.〉… 1. post ignotus add. Mysidi Λ (in text. Wess.)

Il piano di Davo ha avuto successo: Cremete crede che Miside stia nascondendo la verità, e cioè che il bambino avvistato non sia di Panfilo e Glicerio. Miside, rivolgendosi a lui, dice “o vecchio, ma io non ho detto nulla di falso!”. Donato nota che appellarsi a Cremete con o senex è una scelta motivata dall’estraneità di Cremete rispetto alla schiavetta. Dopo ignotus il solo gruppo Λ legge Mysidi, specifica cioè a chi risulta ignoto Cremete. Considerata la tendenza di questo gruppo a compiere aggiunte, nonché per ragioni stemmatiche, Mysidi va considerato come testo interpolato; d’altronde, senza Mysidi il testo è perfettamente comprensibile.

An. 790 ἀποσιώπησις tertia, quod alienae personae intercessione reticetur. Fiunt autem ἀποσιωπήσεις, id est reticentiae, modis tribus: aut enim tacet per se ipsum et ad aliud transit et est prima, aut tacet nec ultra aliquid dicet et est secunda, aut alterius interuentu personae silet et est tertia post quod add. quaedam Wess. || reticetur Λ: reticeuntur A: reticeantur B: recitentur K: reticent Θ: reticentur Wess. || enim tacet A B Θ: om. K Λ: enim tacet 〈quis〉 Schoell* || aliud Schopen* (cf. Phorm. 121.2): alium ω

Come evidente, il testo è sofferente in almeno tre punti; di questi è inutile discutere la correzione di alium in aliud di SCHOPEN perché è pienamente condivisibile. Più discutibile la scelta di W. di integrare quaedam: a mio avviso è più economico stampare la forma impersonale reticetur con Λ (benché sia probabilmente una correzione ope ingenii) che integrare un soggetto indefinito. Ancora qualche incertezza testuale emerge anche per la sequenza dei tre verbi privi di un soggetto (tacet … transit ... silet), rispetto ai quali W. in apparato cita l’intervento di SCHOELL; ma anche in questo caso non si tratta di un’integrazione necessaria, soprattutto sulla base del parallelo serviano ad Aen. 1, 135: ergo ἀποσιώπησις est, hoc est, ut ad alium sensum transeat, ideo abruptum et pendentem reliquit).

374 | Commento filologico-testuale

An. 795 VT FERT N. naturalis et ingenita actio, quam ἔμφυτο dici scimus, ut Vergilius (georg. 2, 204) ‘et 〈cui〉 putre solum – namque h. i. a’ quam – dicimus] an de industria idest scientia et prouidentia ea enim que discimus et scimus operatione genita et industria quadam scimus Λ || quam ἔμφυτο scripsi: quam ea Γ Θ: om. Λ: cru. ante ea segn. Wess.: quam αὐτοφυῆ Schoell: quam extemporalem Wess. (cf. Quin. inst. 10, 7, 16) || dici scimus scripsi: dicimus A: discimus K: dicimus discimus B: diximus Θ: discimus et scimus Λ || ut] om. B || h. i. a. AK: h. imitamur arando B: hoc imitamur arando vel h. i. a. codd. Λ quam–dicimus (Λ)] an de industria idest scientia et prouidentia (uel prudentia) ea (et β) enim que dicimus (discimus Mhsqf2 JGOa DYpzx: scimus H: diximus fa.c.) et (uel ut) scimus (discimus H) operatione genita et industria quadam scimus ?

Dopo diverse e fallimentari messe in scena Davo costringe Miside a dire quanto serve senza averla avvisata prima: il motivo di questa scelta risiede appunto nel fatto che quanto si fa per natura è sempre più verisimile di quanto si simula. Lo scolio ad An. 795 è per l’appunto focalizzato sull’espressione ut fert natura (traduco lo scolio così come tràdito da ΓΘ): “si tratta di un’azione naturale ed ingenita, che quelle cose che diciamo/sappiamo; così Virgilio” etc. Il testo, così com’è, non ha senso: nello specifico sembra che sia caduto qualcosa nella relativa, tanto da renderla incomprensibile. W. non trova altra soluzione se non porre una croce prima di ea. Diversi sono stati i tentativi di dare un senso al testo: in primis lo stesso Λ, che, in questo punto presenta un’estesa interpolazione (stampata poi da quasi tutti gli editori prima del W.: STEPHANVS, KLOTZ etc); Schoell si pone sulla strada dell’individuazione di un graecum corrotto (αὐτοφυῆ): il sospetto è più che lecito in un quadro di corruzione simile, ma questa possibilità ricostruttiva si scontra con la prima persona plurale (dicimus o affini), con cui non si può far riferimento ad altri se non ai Latini (nell’HYPERDONAT si accetta la congettura di SCHOELL, ma la relativa traduzione tradisce l’imbarazzo di questo punto). W. propone extemporalem in apparato, sulla base di Quintiliano (inst. 2, 4, 27; 4, 1, 54; 10, 6, 1, al.; ma anche Petron. 6, 1, 1; e si veda anchr Tac. de orat. 6,6) dove l’aggettivo è spesso usato per contrapporre discorsi pronunciati sul momento, senza una minima organizzazione precedente, ai discorsi artificiosamente costruiti: (Quint. inst. 4, 1, 54) adeo ut, etiam si reliqua scripta atque elaborata sint, tamen plerumque uideatur tota extemporalis oratio, cuius initium nihil praeparati habuisse manifestum est. Con extemporalis, anche se il testo assume una qualche coerenza di contenuto, persisterebbe comunque la difficoltà di spiegare la genesi di un punto di sofferenza testuale particolarmente vistoso partendo da un aggettivo tutto sommato innocuo. Non si possono trarre delle informazioni

Andria, atto IV | 375

utili neppure dal parallelo virgiliano (georg. 2, 204): Virgilio sta parlando della scelta del suolo per la semina del grano, e nella parentetica, afferma che il lavoro dell’uomo compiuto attraverso l’aratura non fa che imitare il lavoro compiuto dalla natura. A mio avviso la frase compromessa doveva svilupparsi come relativa e contenutisticamente serviva a definire l’azione ‘naturale’ e ‘congenita’; che l’unità concettuale fosse in greco mi pare suggerito dallo stato della trasmissione: la cattiva lettura e conseguente corruzione di un graecum renderebbe ragione delle numerose difficoltà dei manoscritti. Quanto al verbo, che si stampa per lo più nella forma dicimus, è evidente che l’oscillazione fra le forme dicimus/discimus/scimus troverebbe piena giustificazione come corruzione del nesso sintattico dici scimus — questo chiaramente permetterebbe la presenza di un graecum senza troppe forzature. I latini traducevano natura con φύσις (cf. CGL 6, p. 728; si tratta di una traduzione molto diffusa); tra gli aggettivi, legati a φύσις, ed adatti in questo contesto, troviamo: ἔμφυτος (innato, cf. GOETZ, 575), αὐτοφυής (spontaneo, cf. GOETZ, 475); tra i possibili sostantivi potrebbe essere preso in considerazione εὐφυία (che traduce solitamente il latino ingenium, cf. GOETZ, 532 e 576). A fronte del concetto di ‘innato’, αὐτοφυής, che con il valore di ‘farsi da sé’, appartiene principalmente al lessico religioso, ἔμφυτος esprime un più generico concetto di “innato, naturale” (ed in greco è spesso associato a concetti astratti come l’amore, il desiderio etc.). Togliendo le cruces leggerei quindi quam ἔμφυτο dici scimus.

An. 797.1 QVAE SESE INHONESTE O. ‘optare’ est unum de duobus 〈...〉. Vergilius (Aen. 1, 425) ‘pars optare l. t.’ lac. statui: eligere suppl. Λ (cf. Seru. Aen. 1, 425; id. ibid. 3, 109) || ante Vergilius add. ut Λ

Criside preferì una vita agiata, basata su guadagni non onesti, ad una onesta ma povera. La glossa al verbo optare ha qualche punto di criticità: il testo ricostruibile per l’archetipo (ovvero quello trasmesso da ΓΘ: optare est unum de duobus. Vergilius etc.) soffre di una lacuna: si percepisce l’assenza di una glossa verbale sinonimica che regga unum (così come comune nel DC, cf. Don. Ad. 87.1: [...] DESIGNAVIT ‘designare’ est rem nouam facere in utramque partem, et bonam et malam; Ad. 113), mentre non è indispensabile l’ut come marca linguistica per introdurre citazioni.

376 | Commento filologico-testuale

Λ ci trasmette il testo apparentemente più corretto,379 ma data la sua generale propensione a rielaborare, anche gratuitamente, sarebbe del tutto ingenuo credere che sia una confezione autentica. La consonanza con Servio (Aen. 1, 425 nonché ibid. 3, 109) non è liquidabile come casuale, ma neppure si può dire indicativa di una dipendenza diretta trattandosi di una glossa sinonimica (optare = eligere) di una certa preventivabile diffusione (cf. Isid. orig. 9, 3, 41). Vero è, però, che l’interpolazione di cui si fa autore il gruppo Λ nel contesto del DCA non risulta sensata e perciò accettabile: in relazione a Virgilio il commento di Servio si propone semplicemente di offrire un parallelo sinonimico, mentre in Donato sembra individuarsi, sullo sfondo, la presenza di una differentia, dove optare si preciserebbe come l’atto di scegliere fra un ventaglio di possibilità limitato (precisamente due, se si considera il passo relativo dell’Andria). Se questa ricostruzione è esatta, allora la citazione da Virgilio non può corroborare la tesi, ma piuttosto essere addotta come esempio negativo, perché Aen. 1, 425 optare non si riferisce ad un numero limitato di scelte.380 Il nerbo del problema è quindi l’asserzione limitativa, unum de duobus, che ha senso certamente in riferimento a questo passo dell’Andria ma non è applicabile altrove nello stesso corpus terenziano. A rigore d’analisi non sarebbe neppure irragionevole prospettare che unum de duobus sia un’aggiunta, fatta sulla base del testo di Terenzio a cui lo scolio si riferisce, che da una posizione supra lineam già in archetipo, sarebbe stata poi erroneamente trascinata a testo a sostituzione della glossa semantica. Come conseguenza dei dubbi fin qui sollevati si possono ricostruire due ipotesi di testo: l’interpolazione di Λ potrebbe avere una ragion d’essere, soprattutto in presenza di un accordo con Servio, ma allora è necessariamente da individuarsi una seconda sofferenza testuale, precisabile come lacuna, in cui il senso di optare come eligere unum de duobus avesse validità solo per An. 797 (e. gr.: optare est 〈modo〉381 unum de duobus 〈eligere〉); ma questa possibilità si scontra con un criterio generale di metodo: si è costretti a un secondo intervento, che di fatto è conseguenza dell’accettazione di un testo non tràdito. Meno audace, ma più persuasiva, è l’individuazione di una lacuna dopo duobus, contenente non

|| 379 In effetti Terenzio lo impiega come sinonimo di eligere, ma anche di uelle, quaerere, cf. LT I 448–449. Anche se qui optare ha precisamente il senso di ‘scegliere’, che la scelta si ponga fra due (stili di vita) è del tutto casuale. 380 Ad esempio optare est unum de duobus 〈eligere. Aliter〉 Vergilius etc. 381 Cf. Don. An. 639.1, ibid. 731, al.

Andria, atto V | 377

solo il verbo che reggeva unum, ma anche i termini in cui si sviluppava per contrasto o continuità il rapporto con Aen. 1, 425.

An. 801 ESTNE HIC CRITO S. C. sobrini sunt consobrinorum filii, -nam sic dicit Menander 〈...〉 (frg. 46 K.-A.); uerum ut alii putant, de sororibus nati, ut sint sobrini quasi sororini. post Menander lac. sign. Schopen*, huc rett. frg. 619 (K.-A.) Nauck || uerum] uel B || ut] aut CT: hi Λ || sint] sunt uel sint codd. Λ || post sororini add. dicti Λ

Miside riconosce Critone: si tratta di un parente di Criside. Lo scolio ad An. 801 affronta la questione etimologica legata a sobrinus: alcuni ritengono che con questo termine si debbano designare i figli dei cugini; altri ritengono che siano i figli delle sorelle. Entrambe le etimologie sono molto diffuse. Ad essere problematico è il fatto che a sostegno della prima ipotesi sia citato Menandro, senza però che ne segua la citazione. L’espressione sic dicit resta per così dire pendente, fino a quando SCHOPEN decide di individuare una vera e propria lacuna dopo Menander: W. lo cita in apparato ma non accoglie l’intervento, che a mio avviso è molto verosimile: gli unici casi, in cui Menandro è menzionato senza essere seguito da citazioni di sorta, sono relativi a osservazioni del pertinente contenuto; quando si tratta di definizioni o elementi più circoscritti, Donato allega il passo parallelo (peraltro Cugini, Ἀνεψιοί, è il titolo di una commedia di Menandro, cf. P. Oxy. XXVII 2462).

10.6

Andria, atto V

An. 820.3 SATIS I. S. S. S. bene negaturus filiam purgat prius officium suum de fide promissi et ultro accusat ipse. promissi edd. uett.: promissis Γ: promissa Σ

Cremete, dopo aver appreso (grazie ai maneggi del servo) che Panfilo ha avuto un bambino da Glicerio, non è più intenzionato a tenere fede alla promessa fatta a Simone, di concedere, cioè, sua figlia. Il problema testuale che interessa lo scolio ad An. 820.3 non è particolarmente grave, ma è necessario fare alcune precisazioni. Che la lezione da stampare sia promissi e non promissa è facilmente intuibile: promissi è lectio difficilior, lezione corrottasi in Γ e banalizzata in promissa dal Maguntinus. Dall’apparato del W., però, si dedurrebbe che promissi sia una

378 | Commento filologico-testuale

lezione tràdita, e silentio, dal codice B. Questa informazione non è esatta: in B la lettura è promisis, come in AK. A prescindere da questo, promissi è praticamente reso sicuro da An. 823.2 ad fidem promissi, dove ABK hanno la lezione giusta ed il Maguntinus nuovamente banalizza in promissam.

An. 846.2 SALVE BONE VIR ironia maior est quam increpatio; cum enim omne genus criminis aliquis superauerit, tunc exclusi ironia laudamus. superauerit BK: supreuerat A: separauerit Θ: superauerint Λ: spreuerit cod. Hulsii (apud Westerh.)

Simone crede che Davo abbia finto che Panfilo avesse avuto un figlio da Glicerio per trarre in inganno Cremete, e raggiungere così lo scopo finale: far in modo che il matrimonio con Filomena fosse annullato (An. 820–841). Lo scambio verbale fra Simone e Davo (entusiasta per la riuscita del suo piano) nelle prime battute è segnato da una forte ironia: Simone si rivolge a Davo appellandolo bone uir. La prima considerazione da fare è che criminationis presente in A è una semplice glossa a crimen, utile a specificarne il significato: crimen infatti può essere sia l’accusa che il fatto in sé (cf. ThlL IV 1193, 52ss.). Il testo, pur se comprensibile nelle linee generali, presenta nondimeno un forte punto di sofferenza nel verbo della subordinata: W., non soddisfatto dalle lezioni dei manoscritti, stampa una lezione riportata dall’editore WESTERHOVIUS e tratta dal codice Hulsiano (cf. p. 12). Secondo questa versione del testo, si dovrebbe tradurre: “l’ironia è più potente del rimprovero; quando qualcuno è indifferente ad ogni tipo d’accusa, allora vinti (impediti) lo lodiamo ironicamente”.382 Il testo ha pienamente senso, ma accettare la lezione di un solo codice, di dubbio valore, sarebbe lecito solo se le lezioni della restante tradizione fossero inaccettabili, e non è questo il caso. Nonostante qualche fraintendimento di lettura, la probabile lezione d’archetipo doveva essere superauerit, che dà al passo una sfumatura leggermente diversa: Donato starebbe dicendo non che l’ironia è l’unico modo per esprimere la propria rabbia contro chi è indifferente ad ogni tipo

|| 382 HYPERDONAT 1996–: “SALVE BONE VIR: l’ironie a plus d’effet que la réprimande. Car quand quelqu’un traite par le mépris tous les griefs qu’on peut lui faire alors, puisqu’il nous rejette, nous le félicitons ironiquement”. Passo che viene commentato in questi termini: “Le personagge imcriminé repousse toute forme de critique, pour se faire entendre il faut donc faire son éloge, mais de manière ironique pour qu’il percoive le reproche; l’ironie est donc bien dans ce cas plus efficace que la réprimande”.

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d’accusa, ma contro chi ha superato ogni tipo d’accusa. In assenza della testimonianza di K a W. va però riconosciuta una qualche ragione nella scelta di non fidarsi di B, tendente a rimaneggiare, e, ancor di più, di Λ. La conferma dell’inamovibilità di superauerit viene data anche da un passo ad An. 616.1 dove per l’appunto si sta spiegando la stessa espressione bone uir, adoperata sempre in senso molto ironico: … et hoc ironia prosequitur, cum omne genus contumeliae leue in eum ducimus, in quem ferimur iracundia. L’ironia è il mezzo migliore per muovere dei rimproveri nei confronti di qualcuno, quando riteniamo lieve ogni genere d’accusa nei suoi confronti. Se ne deduce, quindi, a rigore di logica, che ogni tipo di rimprovero sarebbe troppo ‘lieve’ perché questo qualcuno è andato oltre ogni limite: non c’è un rimprovero adatto per quello che ha fatto. Questo passo favorisce in modo decisivo la scelta di superauerit. Anche exclusi con superauerit sembra potersi meglio comprendere: anche se excludo contempla un’accezione retorica (refellere, refutare), in questo caso andrebbe inteso nel senso di impediti, vinti, continuando idealmente la metafora innescata dal verbo superare (cf. ThlL V 2, 1270, 55ss.) Questa lettura sembra favorita anche dalle dinamiche della commedia: in effetti Davo, con il suo ultimo piano (far ascoltare a Cremete il suo dialogo con una servetta in cui faceva non solo esplicito ma anche voluto riferimento al bambino concepito da Panfilo e Glicerio) aveva mandato completamente a monte le nozze. E di questo piano nonché del trucco adoperato da Davo, Simone era perfettamente cosciente. Dunque ormai Davo, fino ad allora appellato come furcifer, carcer, etc., aveva superato qualsiasi tipologia di rimprovero, per cui meglio elogiarlo ironicamente.

An. 847.1 OMNIA APP. S. I. quia infecta sunt, dicit parata esse. dicit parata esse scripsi: dicit parata s. Schoell: de paratis ω … An forte ‘legitur apparata et non parata quia etiam infecta sunt in rerum paratarum numero’ (i.d. parandi verbum nil nisi consilium significat, apparandi rei perfectionem) HARTMAN 1895, 151 Scholium corruptum. Correctio Schoellii, quam recepit Wessnerus ‘q. i. sunt, dicit parata sunt’ non placet. Estne lacuna sic supplenda ‘de paratis loquitur per ironiam?’ KARSTEN 1912, 99, n.3 “Donat met couramment ‘parata’ en lieu et place d’‘apparata’, ainsi dans les exemples virgiliens qu’il donne en regard des vers 656, 2 et 690, 2. Peut-on supposer qu’il ne lit pas le même texte que nous, et qu’il a des formes de ‘parare’ là où les éditeurs de Térence éditent

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‘apparare’? Ou avons-nous une preuve de plus que, dans le cadre de rapprochements textuels, ce qui compte, plus que l’identité de forme, c’est l’appartenance à un même réseau lexical ?” HYPERDONAT

Davo è estremamente felice per l’evoluzione della vicenda: grazie a Critone e alle sue dichiarazioni, oltre che alle sue strategiche intuizioni, il matrimonio di Panfilo con Filomena sembra ormai lontano. Purtroppo viene colto nella sua manifestazione d’entusiasmo proprio dal padrone, Simone, al quale, dopo qualche imbarazzante tentennamento, dice: omnia apparata sunt (intendendo dire che i preparativi del matrimonio da lui desiderato sono pronti). Donato nota che il verbo apparare è stato opportunamente utilizzato: poiché infatti non c’è nulla di compiuto, dice parata sunt. Come si può notare dall’apparato, la seconda parte dello scolio è alquanto dubbia: il testo tràdito è infatti de paratis (che evidentemente non ha senso),383 corretto in dicit parata sunt da SCHOELL. Sebbene l’emendamento sia brillante, resta, nel testo così stampato uno scarto problematico: dicit384 infatti introdurrebbe una citazione, ma di fatto parata sunt non sono stricto sensu le parole di Terenzio. Le strategie di difesa della correzione di SCHOELL, intoccata proprio perché palmare, sono varie: gli autori dell’HYPERDONAT si chiedono se parata non sia una variante che effettivamente Donato leggeva nel suo testo (sebbene non ci sia pervenuta); notano inoltre che un medesimo problema sorgeva allo scolio An. 656.2: lì Donato sosteneva che apparari con il dativo (della persona) implica sempre un effetto negativo, e adduceva un passo di Virgilio in cui però si legge unanimemente parari.385 Dovremmo dunque pensare che anche per il testo virgiliano Donato avesse a disposizione un manoscritto con una variante isolata? Il caso di An. 656.2 andrebbe separato da quello in esame perché Donato poteva trovare apparare e parari a tal punto interscambiabili semanticamente da non percepire l’aporia che abbiamo notato; inoltre in poesia il verbo simplex è preferito al compositum, e dunque per Donato quel parari di Virgilio poteva essere automaticamente inteso come apparari.

|| 383 Sarebbe interessante, a tal proposito, capire come lo intendesse KLOTZ, che lo stampa senza evidenziare problemi. 384 Ho controllato le molte occorrenze di dicit quando questo è utilizzato per citare Terenzio, e le citazioni sono tutte coerenti con il testo terenziano. 385 Tra l’altro non si legge nulla d’affine in Servio.

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In questo caso o bisogna pensare che si tratti di una variante o di un errore mnemonico di Donato (però sarebbe ben strano ...). Poiché si sta cercando di giustificare un testo “emendato”, e che nonostante l’emendamento conserva degli elementi problematici, forse andrebbe rivista proprio la proposta di correzione. Il dicit può, sì, chiaramente introdurre una citazione, ma anche solo la parafrasi (procedimento a Donato estremamente congeniale) delle parole dell’autore che si sta citando. Basterebbe dunque leggere non parata sunt ma parata esse per risolvere l’aporia. Dell’efficacia palmare dell’emendamento di SCHOELL non si perde nulla: l’abbreviazione per sunt e quella per esse possono essere simili in molte tipologie grafiche. Purtuttavia, è da ammettere che continuerebbe a rimanere un po’ nascosta la logica del commento: "ha detto che sono preparate perché non sono ancora state completamente portate a termine". C’è di fatto un gioco sottile fra il verbo parare ed il verbo inficere: parare può indicare l’atto di predisporre e/o procurare quanto serve per il compimento di una qualche azione, ossia ‘preparare’ (cf. ThlL X.1 415, 15), facere indica l’attuazione del fine. È una differenza abbastanza fine, ma è l’unico modo per rendere ragione del testo dello scolio a meno di intervenire sul quia o di postulare una lacuna dopo sunt.

An. 851.3 ANNE EST INTVS PAMPHILVS causa irae uehementioris inuenta. uehementioris Zeunius : uehementior ΓΛ: uehementiarum Θ

Vehemens si trova di norma in iunctura con ira (all’interno del DC, cf. Ad. 796.1: iracundiam uehementem; ibid. 467; ibid. 142.1; An. 889.1; al.), mentre i manoscritti ci trasmettono un nesso inconsueto, quasi un’ipallage causa ... uehemens. La soluzione di ZEVNIVS, che restituisce un genitivo e così dunque la comune giuntura, è ancora una volta brillante per la sua economicità.

An. 854.2 ... Ita loquitur, quasi haec sit causa, cur sit Pamphilus ingressus, quod quasi ei lis intendatur a Critone hospite ducendae uxoris, cum ciuem Atticam uitiauerit. cum Zeunius: quam ω

La sintassi del passo presenta un complesso sviluppo ipotattico e la traduzione permette l’individuazione nella catena argomentativa di un punto debole costi-

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tuito dal quam, seguito da un’apposizione sensata solo se in riferimento a Glicerio: “parla così come se fosse questo il motivo per cui Pamfilo è entrato in casa, ovvero come se Critone gli avesse tirato contro l’accusa di prendere come moglie colei che aveva violentato pur essendo una cittadina a tutti gli effetti”. Il punto è che l’accusa che Critone muoverebbe a Panfilo acquista pienamente senso solo se la uxor qui citata sia Filomena, mentre la ciuem Atticam violentata sia Glicerio, e dunque il quam è necessariamente da emendare, perché non c’è identità fra l’uxor e la ciuis Attica. Questo ragionamento si accorda perfettamente anche con la trama della commedia: mentre Panfilo sembra ormai condannato a sposare Filomena, arriva Critone e rivela che in realtà Glicerio ha pieni diritti di cittadinanza, da qui l’accusa implicita: “come se gli volesse muovere l’accusa di prendere moglie, dopo aver violentato (o sebbene avesse) una cittadina attica”. L’impasse si risolve con un nuovo e brillante intervento di ZEVNIVS, che emenda quam in quum (〈cum), tanto paleograficamente impeccabile quanto contenutisticamente risolutivo.

An. 855.3 〈ELLUM〉 quasi ‘en illum’; est enim, ut alii 〈uolunt〉, pronomen, ut alii, aduerbium demostrantis. Nam pronomen huiusmodi ueteres sic proferebant: ille ollus ellus. 〈uolunt〉 Λ: om. ω || ut2] at Zeunius || sic] om. Θ

L’origine ed il valore di ellum, con cui Davo indica Critone, non è pacifica: ellum può essere tanto la forma arcaica del pronome illum quanto una forma rafforzativa di illum ottenuta dalla fusione con la particella dimostrativa ecce (cf. WALDEHOFMANN 400, ThlL V.2 397, 55ss.) Lo scolio ad An. 855.3 ripropone ed integra il contenuto di 855.2 (ellum ueteres quod nos ‘illum’ dicimus, uel ‘ellum’ uel ‘ollum’ dicebant. Quamuis ‘ellum’ quidam ‘ecce illum’ uelint intellegi, tamquam pro ipso domum Glycerii ostendat Dauus dicens ‘ellum’). Oltre alla vicinanza di contenuto, si nota anche una qualche somiglianza nel fraseggio: questo è importante al fine di restituire uolunt ad 855.3 per confronto con 855.2 (uelint intellegi): l’integrazione, anticipata da Λ, è necessaria perché diversamente alii resterebbe pendente. Anche se, in linea teorica, con alii D. potrebbe aver utilizzato anche putant (Phorm. 525.2), o legunt (Ad. 260.5), nonché dicunt (Ad. 904.2), uolunt guadagna

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maggiore plausibilità se si considera che An. 855.3 non è altro che la sostanziale riproposizione di An. 855.2.386 La correzione di ZEVNIVS è interessante, ma non necessaria: un buon parallelo per la struttura ut alii ... ut alii si trova in corrispondenza di Phorm. 525.2: ... ut alii putant meretrix uendita ut alii dies lenoni.

An. 861.1 mora.

AUDI OBSECRO

plerumque a uerberandis uel indulgentia † loquitur uel

uel–loquitur Σ, cruc. sign. W. (qui inuocatur uel imploratur in app. tempt.): om. Γ plerumque a uerberandis uel mora ABK plerumque a uerberandis uel indulgentia loquitur uel (ϴ: om. Λ) mora

Dopo il racconto dell’arrivo di Critone e delle sue affermazioni, Simone, che già nutriva moltissimi dubbi su Davo, si decide a punirlo, e chiede perciò a Dromone di legarlo mani e piedi. Davo prende tempo, vuole spiegarsi, e dunque implora di essere ascoltato: audi obsecro. Lo stato dello scolio relativo a questa richiesta di ascolto è fortemente compromesso, ma si intuisce che a. ob. è definita come una preghiera solitamente inoltrata da chi deve essere punito per chiedere indulgenza o perlomeno una dilazione. La situazione esibita dalla tradizione manoscritta è ben poco rassicurante: il ramo ABK presenta infatti una lacuna, probabilmente innescata da un salto meccanico, che rende lo scolio incomprensibile; il Maguntinus, invece, ha un testo apparentemente più completo, ma comunque non soddisfacente.387 Il sospetto teorico che uel indulgentia loquitur di Σ sia un’interpolazione è indebolito da due considerazioni: la lacuna di Γ si spiega bene proprio a partire da un testo quale quello tràdito dal Maguntinus; inoltre è improbabile che si possa intervenire aggiungendo pericopi di testo se il senso complessivo sfugge. Dunque si può accordare ragione a W. che individua in loquitur il punto corrotto dello scolio, come anche ammette HERAEUS (1903) 266: come osserva quest’ultimo, è probabile trattarsi di una ripetizione del loquitur subito precedente (An. 860.2: ... contra nuptias loquitur), benché sia estremamente scettica circa la possibilità di accogliere la lezione sopralineare di V, ossia petitur.

|| 386 Preciserei, comunque, che l’ellissi del verbo in casi del genere non sarebbe impossibile. 387 Non riesco a capire come invece possa essere stato accettato senza troppi problemi nell’ edizione di BUREAU.

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Proprio in ragione della ricostruita genesi dell’errore credo non ci siano le premesse per eliminare la crux: le proposte di W. in apparato sono tutte ragionevoli, e non mancano passi paralleli che potrebbero suggerire oltre a inuocatur ed imploratur anche rogatur (cf. Ad. 472.1: ‘obsecrare’ iratos rogare), peraltro già proposto da WESTERHOVIVS. Inoltre, anche se si esaminano le costruzioni verbali del DC, in cui compaiono anche indulgentia e mora, non si ricavano informazioni decisive (exprimere di An. 138.1 sarebbe interessante, ma si adatta bene, per il senso globale dello scolio, solo ad indulgentia).

An. 862.1 ... et supra dictum est (An. 213) ‘ut, si libitum fuerit, causam ceperit, quo iure quaque iniuria’ ut ω: aut V, Ter.

Normalizzare un testo, riducendo l’eccezione al noto o alla norma è sempre un’operazione che richiede prudenza. I codici di Terenzio leggono la particella disgiuntiva aut e non, con Don., ut; la corruzione si spiegherebbe facilmente (l’aut non inteso come parte della citazione si corrompe in segnale di citazione, ut per appunto), a maggior ragione perché aut ad An. 213 è letto anche da Don. Tuttavia la correzione risulta qui sconsigliata perché il verso in Terenzio è intaccato da una qualche sofferenza di tipo logico sintattico, che per alcuni celerebbe un sostanziale problema di testo (addirittura FLECKEISEN2 confeziona un testo per il quale prende spunto proprio dall’ut di Don.: si senserit (perii!) ut ei libitum fuerit ...).

An. 863 SI QVICQVAM INVENIES mentitum me occidito hic plus 〈quam〉 supra (v. 199) dixit; ibi enim ‘uerbera’ [dixit], nunc ‘occidito’. hic–occidito] om. C || add. Wess. || supra] hic transp. Wess.: post uerbera exhib. ω || ibi Wess.: tibi ω || dixit deleui

Al verso 199 Simone aveva minacciato lo schiavo di atroci punizioni nel caso avesse anche solo tentato di far fallire le nozze programmate: uerberibus caesum te in pistrinum, Daue, dedam. Al verso 863 Davo si richiama a quella minaccia, ordinando al padrone di ucciderlo (occidito) se convinto che gli aveva mentito. Donato nota che l’imperativo usato da Davo è molto più forte del uerbera di 199.

Andria, atto V | 385

Lo scolio, così come stampato, si deve a W.; i manoscritti infatti hanno, senza eccezioni, un testo problematico, che recita in questo modo: hic plus dixit tibi enim uerbera supra dixit nunc occidito. W. corregge tibi in ibi e traspone supra dove è più logico trasporlo, cioè dopo plus, integrando quindi quam. Interviene quindi in più punti, ma questa confezione testuale ripristina il senso che ci si aspetterebbe. A mio parere, però, si può progredire ancora da un punto di vista testuale individuando il motivo della perturbazione testimoniata dai manoscritti: un’errata interpretazione di una parola segnale.388 Evidentemente, in un qualche stadio della tradizione, un copista dovette recuperare il supra che era caduto, scrivendolo a margine con annessa parola segnale, cioè il dixit; successivamente il supra dixit, frainteso, fu trascinanto a testo dopo uerbera. Non solo quindi occorre trasporre supra, ma anche espungere il secondo dixit.

An. 865.3 An ‘quadrupedem’ pro ceruo ac fugitiuo ponit? Sic Vergilius (Aen. 7, 500) ‘saucius at quadrupes n. i. t. r.’ ceruo] seruo F Λ (cfr. Festus, p. 460 L.) || ponit Γ FT: posuit C Λ

Lo scolio ad An. 865.3 presenta varie possibilità esegetiche per la parola quadrupedem: si può intendere “mani e piedi”, può far riferimento ad una particolare tipologia di nodo, può voler porre sullo stesso piano lo schiavo e le bestie. L’ultima delle intepretazioni, posta come le altre in forma interrogativa, motiverebbe il quadrupes tramite l’accostamento al cervo: il cervo (quadrupes per eccellenza, cf. Isid. orig. 12. 1, 4)389 ha la tendenza a scappare, e così il servo in quella situazione. Una parte della tradizione manoscritta presenta seruus e non ceruus: prescindendo dal piano puramente stemmatico (stemmaticamente seruus è una lezione assolutamente minoritaria), è evidente che seruus non dà molto senso all’interrogativa, che rasenterebbe la tautologia; che ceruus sia la lezione giusta è provato e dal passo virgiliano390 menzionato a suffragare l’interpretazione, e dal passo citato da W. in apparato, in cui Festo spiega che i cervi, data la loro velocità, sono chiamati ‘fuggitivi’:

|| 388 Per il meccanismo della parola segnale e i fraintendimenti a cui è sottoposta, cf. MAGNALDI (2000). 389 Ma in molti altri passi in cui si parla di quadrupedes il cervo è menzionato. 390 Dove per l’appunto si parla del ceruus saucius, vittima d’Ascanio.

386 | Commento filologico-testuale

Fest. 460 L: Seruorum dies festus uulgo existimatur Idus Aug., quod eo die Ser. Tullius, natus seruus, aedem Dianae dedicauerit in Auentino, cuius tutelae sint cerui; a quo celeritate fugitiuos uocent ceruos.

Meno condivisibile è la decisione di W. di stampare posuit per ponit. Per quanto siano due varianti adiafore, ponit è testimoniato dai manoscritti più fededegni: Donato usa spesso la forma al passato, ma non mancano casi in cui, per contesti specifici e scelte linguistiche specifiche, utilizzi il presente: Ad. 301.1; Ad. 693.5, al.

An. 868 NE SAEVI tanto opere ‘ne’ imperatiuo magis quam coniunctiuo adiungit, ut Vergilius (Aen. 6, 544) ‘ne saeui magna sacerdos’ adiungit scripsi: adiungitur ω Seru. Aen. 6, 544: NE SAEVI] ne irascere: Terentius ‘ne saeui tanto opere’ et antique dictum est: nam nunc ‘saeuias’ dicimus, nec imperatiuum iungimus aduerbio imperantis

Don. ha modo di parlare della costruzione di ne accompagnato dall’imperativo per esprimere un comando negativo già ad An.543, definendolo come un grecismo (per la problematicità di questa interpretazione cf. KARAKASIS 20072, 85–86). Nel passo in esame si parla genericamente di mera frequenza d’uso senza ulteriori specificazioni, per poi rimandare ad Aen. 6, 544, laddove Servio prende per l’appunto in esame tale costruzione bollandola come un ‘arcaismo’. Indubbiamente sarebbe metodologicamente scorretto pensare ad integrare qui antique: nulla vieterebbe la compresenza in Don. di entrambe le interpretazioni, ma è chiaro che un’integrazione del genere avrebbe un peso enorme da un punto di vista linguistico sbilanciato rispetto alle argomentazioni da addurre a sostegno dell’integrazione. Vero è, però, che adiungitur sembra necessitare di una qualche precisazione quanto meno contestuale: per mitigare la sua forza prescrittiva e renderla descrittiva proporrei di leggere adiungit in luogo di adiungitur, riferendo l’osservazione al solo Terenzio. Adiungitur si sarebbe generato a causa del seguente ut.391

|| 391 L’integrazione del nome Terentius sarebbe invece troppo invasiva, anche supponendo, in linea teorica, che fosse stato scritto in forma abbreviata.

Andria, atto V | 387

An. 875.5 ITA PRAEDICANT artificiose pro dicunt posuit: adeo in hac re uehementer commotus senex hoc ipsum repetit ‘praedicant’ per iracundiam. senex Λ: Chremes Γ Θ

Alla richiesta di una conferma sulla presunta ‘cittadinanza’ di Glicerio, Panfilo prende le distanze: ita praedicant. Donato fa notare che la scelta di praedico è artificiosa e continua “ed infatti il vecchio fortemente scosso da questa situazione ripete la risposta di Panfilo per rabbia”. La tradizione manoscritta si divide in merito a senex: ABK Θ hanno Chremes, Λ ha senex. La possibilità che Don. avesse a disposizione un manoscritto con una diversa organizzazione delle battute non sarebbe da escludere, in linea teorica, però diventa significativo che nei restanti scoli pertinenti o attigui non si faccia riferimento alcuno a Cremete. È quindi da supporre che o Chremes fosse un problema sorto già in ω e senex una miglioria di Λ oppure che in archetipo coesistessero entrambe, con un originario senex glossato erroneamente con Chremes. È chiaro che con questa ricostruzione si può aderire al testo stampato da W.

An. 876.1 Et confidentia modo pro audacia et pro improbitate, ut in Phormione ‘homo confidens’ – aliter ac supra ‘confidens’ pro costanti et graui. et pro Wess.: est cum pro A: est cum B CF: est tamen pro K Λ || post improbitate add. ponitur Λ || ac Zeunius: hic ω

Simone chiede a Panfilo se sia vera la notizia che Glicerio goda a pieno titolo dello status di ciuis; la risposta di Panfilo è molto evasiva: si limita ad ammettere che questa è la voce che circola (ita praedicant). Il padre si adira profondamente per quella che ritiene un’affermazione impudente da parte del figlio. Donato commenta il passo discutendo il raggio semantico di confidentia, oscillante fra l’audacia e l’improbitas. In corrispondenza del secondo pro la tradizione accusa qualche problema: non solo è tràdito est, impossibile da conservare senza apportare ulteriori interventi, ma si individua nello stesso punto la compresenza di una doppia variante (cum/pro), che ha dato luogo a diverse configurazioni testuali. Sul piano del contenuto, se si stampa cum, l’esegeta darebbe alla confidentia un valore quasi dissacrante (non si tratta di un’azione solo eccessivamente coraggiosa, ma anche improba, che lede cioè determinati vincoli sacri come quelli

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padre-figlio); con pro si fornirebbero semplicemente due sinonimi di confidentia, così come nel seguito si fa con confidens. Dirimente è invece la decisione di intervenire o meno su est. La conservazione di est comporta la scelta di cum: un parallelo interessante per l’idea di concomitanza si individua per esempio ad Eun. 1079.13 (fatuus est insulsus hoc pro aceruo uitiorum cum quadam uultus improbitate prolatum est, quo magis res in medio posita esse uideatur) ma la nota è retta da profero, e non si tratta di un caso di compresenza semantica. La sequenza ‘x’ modo pro ‘y’ est cum è di fatto priva di paralleli, anche se in linea teorica tollerabile. Di contro la struttura ‘x’ modo pro ‘y’ et pro ‘y’, parimenti accettabile sul piano linguistico ma nello specifico meno economica (in quanto presuppone la correzione del verbo in congiunzione), troverebbe conforto in casi come An. 487.3: Et ‘quando’ pro ‘quoniam’ et pro ‘quia’ intellegimus; Phorm. 313.1: amicos aduocabo ‘amicos’ et pro testibus et pro aduocatis ueteres posuerunt. Direi, quindi, di preferire pro correggendo est in et (intervento innocuo). Un secondo problema intacca il parallelo e contrario di An. 855: anche volendo interpungere dopo aliter, dunque legando hic a supra interpretando come una formulazione un po’ pleonastica (= diversamente, qui sopra), non si trovano paralleli utili in tutto il DC, la cui consuetudine linguistica è di riferirsi a sezioni testuali precedenti con il semplice supra. In questa prospettiva l’intuizione di ZEVNIVS, correggere hic in ac, segna un netto miglioramento rispetto a quanto tràdito: hic (〈hac 〈ac) non solo si giustifica sul piano paleografico, ma aliter ac (atque) è un nesso pienamente aproblematico (cf. ad Eun. 752, Ad. 728.2).

An. 879.1 VT PRAETER CIVIVM M. ‘praeter’ pro: contra ciuium m. Nunc enim ‘praeter’ ‘contra’ significat. praeter pro A Θ: idest B: praeter K Λ || ciuium m. scripsi: ciui mo. B: ciuium AK Θ: om. Λ || an ut sit contra ante ciuium supp. dub. Wess. || Nunc–significat (fiğ A)] om. B A Θ: … praeter pro contra ciuium. Nunc B: … praeter idest contra ciui. mo. K: … praeter ciuium. Nunc Λ: … praeter contra. Nunc

La passione per Glicerio ha a tal punto soggiogato la mente di Panfilo da costringerlo ad agire contro le usanze della città, contro la legge, contro la volontà del padre (= vv. 879–880: praeter ciuium morem atque legem et sui uoluntatem).

Andria, atto V | 389

Donato commenta l’uso di praeter, parafrasando l’espressione praeter ciuium morem con contra c. m. La seconda parte dello scolio è ridondante, per cui W. ritiene che sia seriore. Nonostante la brevità e la banalità dello scolio, la tradizione manoscritta presenta delle divergenze evidenti.392 In casi del genere è bene partire dal testo del codice meno interventista, A, il cui assetto testuale rispecchia molto probabilmente quello d’archetipo, dato il suo accordo con Θ. Ad avvalorare questa tesi è la possibilità di spiegare, a partire da una simile configurazione testuale, i rimaneggiamenti dei restanti codici. Dunque lo scolio andrebbe stampato nella versione tradita da AΘ.

An. 897.2 QVID VIS ONERIS IMPONE IMPERA exsecutus est translationem oneris dicendo ‘impone’ ‘impera’. impera ω, fort. delend.: et feram edd. uett., fort. delend.

Panfilo fa ricorso ad un linguaggio metaforico, attivando in filigrana l’immagine bellica della resa (tibi, pater, me dedo). Il riferimento bellico viene poi affiancato da una seconda immagine, onus imponere non solo perifrasi di imperare ma da imperare subito dopo glossato. La metafora di un peso con cui si carica una seconda persona è attivata dal nesso onus imponere, secondo Donato: in questa prospettiva impone sarebbe pienamente sufficiente, invece è seguito dal verbo impera, verso cui già gli editori antichi nutrivano qualche sospetto. W. stampa et ‘feram’ (pronunciato da Panfilo subito dopo, u. 898) in luogo di impera, prendendo spunto dagli antichi editori: l’idea è particolarmente interessante in quanto feram meglio si legge in continuità metaforica con onus imponere; anche se la correzione appare un po’ forzosa, inoltre il riferimento al feram del verso successivo avrebbe richiesto una particella che fungesse da marcatore (infra o simili). Mi sorge perciò il sospetto che impera sia semplicemente da espungere, aggiunto sulla base del lemma secondo noti meccanismi interpolativi.

|| 392 Nella mia riflessione non cito il codice B perché rimaneggia lo scolio in più punti.

390 | Commento filologico-testuale

An. 911 IN FRAVDEM INLICIS inligas, unde Vergilius (ecl. 8, 73–74) ‘terna tibi haec primum t. d. c. l. c.’; licia enim [hic] sunt quasi ligia. hic ω (dicta D, prob. Wess.), deleui Isid. orig. 19, 29, 7: Licia sunt quibus stamina ligantur, quasi ligia Seru. ecl. 8, 73–74: bene utitur liciis, quae ita stamen implicant, ut haec adulescentis mentem implicare contendit Philarg. expl. in Verg. ecl. 8, 73–74: Licia englemen quasi ligia per quae ligantur stamina

Simone, pur disposto a confrontarsi con Critone, non riesce a trattenere le sue considerazioni poco benevole: lo dipinge infatti come un impostore, che seduce gli animi inesperti di due giovani ingannandoli con false promesse. Lo scolio 8 verte sull’espressione in fraudem inlicis: il verbo inlicere è glossato con inligare, e la sovrapponibilità dei due verbi sembra essere giustificata sulla base della parola licium (corda): un filone etimologico (ricostruibile, oltre che da Donato, anche da Filargirio e Isidoro) fa discendere licium dal verbo ligare (licia quasi ligia). Quella dello scolio ad An. 911 resta un’illazione gratuita, ma non è del tutto insensata: in linea generale inlicere è un annodare metaforico rispetto ad inligare, che invece è piuttosto concreto. Il punto testuale problematico dello scolio, così come stampato da W., è segnato da dicta: i codici presentano unanimemente hic, mentre dicta è la lezione di D, un codice Λ, contaminato, ma non privo anche di qualche interessante congettura.393Dicta darebbe senso ma non è necessario all’interno di osservazioni etimologiche ovvero paraetimologiche (cf. An. 726.4 uerbenae quasi herbenae ... sunt; Ad. 90.1 Mulciber quasi Mulctiber a mulctando), inoltre sul piano metodologico stampare congetture di codici Λ è sconsigliabile, a meno che non ci siano ragioni stringenti che inducano a farlo. Il tràdito hic farebbe riferimento al testo di Virgilio dove licium, benché in ambito magico-sacrale, è comunque impiegato nel senso comune di filo, per cui la delimitazione del rapporto etimologico con il verbo ligare al solo passo in questione è di difficile difesa (cf. ThlL VII 2, 1374, 12ss.), tanto più che hic potrebbe essersi originato da una dittografia dell’abbreviazione del precedente enim. Considerando inoltre che il testo avrebbe perfettamente senso senza hic credo che l’intervento più ragionevole sia l’espunzione.

|| 393 Non è il primo caso in cui W. accetta a testo una congettura del suddetto codice.

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An. 912.2 LACTAS quasi teneros animos. Lactare est dulcedine aliqua tenere, ad persuasionem inducere, unde et delectare et oblectare dicimus. ad persuasionem] ac persuasione Wieling (apud Westerh.)

Critone è un impostore, seduce (lactas) i giovani con promesse e con tentazioni. Il testo tràdito dà senso; la congettura di WIELING resta interessante perché permette di istituire un parallelismo con dulcedine aliqua ed inducere specificato dalla modalità con cui qualcuno viene indotto meglio che dalla finalità trova buoni paralleli (cf. Fest. 103 L.: lacit decipiendo inducit; lax etenim fraus est); tuttavia ad persuasionem trova perfetta corrispondenza in An. 648.2 (‘lactare’ est inducere in aliquam uoluntatem) e diventa quindi inamovibile.

An. 921.3 Et quaere, an conueniant haec uerba pro Pamphilo uenienti. Immo enim conueniunt; nam quanto magis dissimulat fauorem, tanto plus acquirit ad ea, quae loquitur. uenienti (scil. Critoni)] ueniam petenti Teuber*

Quaere è una correzione di W. molto condivisibile sia sul piano paleografico che sulla base dei paralleli (Ad. 660.3, Phorm. 471.2). Il tràdito uenienti, che sottintende Critone, è stato messo in dubbio da TEUBER, ma a torto: se si sottintende Critone e se si prescinde da un’interpretazione troppo letterale, si riconoscerà in uenire + pro un sintagma di sapore latamente giuridico per indicare lo schierarsi a favore di qualcuno. Prima di raccontare la verità circa la storia passata di Glicerio, Critone si esprime in un tono non propriamente favorevole nei confronti di Panfilo, di qui si giustifica la domanda del DCA che sollevano il citato problema di convenienza.

An. 926.1 ITANE VERO OBTVRBAT si subdistinguitur, ‘interstrepit’ accipe, sin distinguitur, ‘euertit’ intellegas. subdistinguit ω, correxi: subdistinguis Zeunius || distinguis ω, correxi: distinguis Zeunius

Per indicazioni relative alla (sub)distinctio le formulazioni comunemente attestate nel DC prevedono o l’uso dell’imperativo (Don. An. 815.3; id. Hec. 668.3) o della perifrastica passiva (Don. Eun 357.4; Don. Phorm. 96.2) nel caso in cui esista una soluzione da preferire rispetto alle altre; oppure, in caso di due o più ipotesi

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interpuntive, si attesta l’uso di perifrasi con potest ... (sub)distingui (An. 926.1), alii/quidam uolunt ... –ere (Eun. 653.2) o melius (et simil.) –ere. Fatta eccezione della nota in oggetto, l’unica altra attestazione di un periodo ipotetico si trova in corrispondenza di Don. Hec. 345.4: etenim ‘erat’ 〈si〉 distinguimus, bis audiendum ... Il dato essenziale che si ricava dal quadro sopra delineato è che la distinctio o la subdistinctio non sono mai lette in relazione a Terenzio o al limite al personaggio, bensì sono operazioni che si legano all’atto della lettura, e sono quindi compito del lettore. Per queste ragioni, l’uso della terza persona singolare non sembra potersi giustificare. Del problema si era accorto già ZEVNIVS, che preferisce portare la terza persona alla seconda, così da armonizzare il soggetto dell’apodosi con quello della protasi. La corruzione sarebbe nata dall’influenza retroattiva della catena verbale immediatamente successiva. A mio avviso però è preferibile, e forse anche più economico, pensare che in entrambi i casi si tratti di una terza persona singolare passiva: nella soluzione di ZEVNIVS il problema è di tipo logico: il significato che si vuole dare ad un verbo è la condizione per la scelta interpuntiva e non viceversa (ovvero: si accipis ... subdistingue). Con la formulazione mediopassiva, questa impasse logica non si crea.

An. 930.1, 2 1. ‘Rhamnusium’: Piraeus, Sunium et cetera huiusmodi, maritima 〈τῆς〉 Ἀττικῆς proprie intellegenda sunt. 2. Rhamnus pagus Atticae est. 1 rhamnusium se Rhamnusium] rĀnusi ’uerserā nusiū A: rĀ s (del., ut uid.) rannusium B: ramnisium se Ramnusium K: panusium seranusium C: rhamnusium F || Piraeus, Sunium scripsi (coll. Eun. 290.5): Piraeum Rhamnus ω Wess. || post Piraeus transp. 2 Rhamnus–est 〈et〉 Λ || et – 2 Rhamnus] om. Θ || 〈τῆς〉 Ἀττικῆς scripsi: AICE A: om. sp. rel. K: Atticae BΛ W.: ‘Rhamnusium’: Piraeum, Rhamnus et cetera huiusmodi maritima Atticae proprie intellegenda sunt.

Fania era di Ramnunte, un demo attico nei pressi di Maratona, come spiega anche Don. Dalle evidenze della tradizione manoscritta si ricava o, perlomeno, si può supporre, che Attica fosse scritto in greco: benché BΛ esibiscano una forma latina, mentre Θ salta questo spezzone testuale, A legge AICE e K omette, indizi – questi ultimi due – che parlano a favore di un originario graecum, preservato anche da ω: sarebbe infatti alquanto improbabile supporre che A grecizzi una parola che trovava in latino (data non solo l’attitudine di questo codice a non operare interventi testuali di alcun genere, ma anche il fatto inconfutabile che il copista di A non aveva la minima conoscenza della lingua e dell’alfabeto greco) e sarebbe strano pensare ad una casuale omissione di K in quello stesso punto (K

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omette quando trova del greco o quando il testo pone delle difficoltà non superabili).394 A fronte di questi dati, quella di Γ è a tutti gli effetti una lectio difficilior da stampare. In merito poi all’uso del neutro maritima seguito da genitivo partitivo di un toponimo, cf. ThlL VIII 401, 74ss. Il secondo intervento proposto per questo scolio riguarda il tràdito Piraeum Rhamnusium in luogo del quale leggerei Piraeus, Sunium. Lo stimolo alla correzione è innescato da una difficoltà oggettiva di tradizione del passo relativa alle desinenze topografiche ed un parallelo particolarmente pertinente, Eun. 290.3, dove Don. parla del Pireo in coppia con Sunio come del punto di accesso più clemente dell’Attica (Piraeeum, ut Sunium, est Atticae maritimae accessus litoris clementior). Partendo da un testo con la coppia Pirae(e)us Sunium si giustificherebbe bene la genesi di questa difficoltà testuale: la desinenza neutra di Sunium avrebbe non solo favorito l’eco con il precedente Rhamnusium, ma anche influenzato la desinenza –um in luogo di –us; questo poi avrebbe intaccato anche la desinenza di quello che doveva essere, in origine, Piraeeus; mentre la prima occorrenza di Rhamnusius è all’accusativo perché si tratta di citazione da Ter. Già presso gli antichi editori era stato sollevato il problema dell’impiego e della pertinenza di proprie, le cui occorrenze nel DC sono sempre finalizzate a considerazioni di tipo linguistico (cf. JAKOBI 1996, 109ss.). L’unica linea di difesa percorribile è da individuarsi nella contrapposizione implicita fra la funzione geografica propria e impropria delle citate zone: quando si cita il Pireo, Sunio o Ramnunte, si indica propriamente l’intera costa dell’Attica, quella più dolce, e non i singoli demi. Questa spiegazione non sgombra il campo da tutti i dubbi, ma permette di conservare il testo così come trasmessoci dai manoscritti.

An. 931 MVLTI ALII IN ANDRO hoc testimonium ‘caecum’ dicitur […] ‘Manifestus’ est, qui certos testes et praesentes habet, ‘caecus’, in quo multitudinem aut ciuitatem dicimus scire, ut Cicero (Verr. 2, 3, 149) ‘testis est tota Sicilia’ quod tamen audientem consternat Sicilia Don.: prouincia Cic.

Critone racconta a Cremete e Simone il modo in cui ha conosciuto il padre di Glicerio: si trattava di un uomo accolto in casa da un suo parente; non si ricorda

|| 394 Per casi di riferimenti topografici in greco e relativi all’area geografica greca, cf. per esempio Cic. Att. 1, 13, 5: nunc uero, quod a te probata sunt, multo mi Ἀττικώτερα uidentur; ibid. 4, 19, 1, al.

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bene il suo nome (forse ‘Fania’) ma ricorda per certo che diceva di essere di Ramnunte; e di questa affermazione non è lui l’unico testimone, ma molti l’hanno sentito dire laggiù, ad Andro. Commentando il v. 931 (= Eadem haec, Chreme, multi alii in Andro [tum] audiuere), Donato fa una distinzione fra un testimonium ‘manifestum’ ed un ‘testimonium caecum’: il primo sarebbe costituito da testimoni sicuri e presenti; il secondo è costituito da un grosso numero di persone o un’intera popolazione, che noi diciamo essere a conoscenza di un qualche fatto. Come esempio della testimonianza ‘cieca’ viene citato un passo da Cicerone in cui l’oratore si appella alla testimonianza dell’intera Sicilia. A questo punto si cita Cicerone che, però, così come tràdito non trova esatta corrispondenza in nessuno dei passi analoghi, per cui W. menziona genericamente vari possibili luogi del corpus ciceroniano (Verr. 2, 2, 59, 149; Verr. 3, 64, 149; de imp. Pomp. 11, 30). È da credere, più semplicemente, che il testo sia identificabile in maniera univoca in Cic. Verr. 2, 3, 149. Ciò nonostante si preferisce non intervenire sul testo, correggendo Sicilia in prouincia perché nulla vieta che l’errore (un vero e proprio lapsus) sia stato commesso proprio a monte, dallo stesso Don. Vero è però che questa è solo una delle spiegazioni possibili: si potrebbe infatti pensare al consueto meccanismo per cui la lezione originaria viene sostituita dalla sua corrispondente glossa sopralineare. In altre parole il tràdito Sicilia nasce come precisazione paratestuale esattamente sopra l’indicazione topografica generica di prouincia, per poi sostituirlo.

An. 932 CVIAM igitur uetuste 〈‘cuiam’〉, quod omnibus generibus et casibus seruit. uenuste Θ || 〈cuiam〉 Λ: om. Γ Θ

Questo scolio ripropone il problema del confine lemma-commento: nello specifico, benché assente nel ramo Γ e nella famiglia Θ, sembrerebbe necessario anche nel corpo del testo il rinvio a cuiam, diversamente sembrerebbe doversi estendere l’etichetta di uetustas anche ad igitur. Non si è vincolati ad accettare cuiam lì dove tràdito da Λ perché è chiaro che si tratta di un’interpolazione congetturale, ma a favore della posposizione si possono citare: Don. Hec. 656.1 (aut esse me cum nuptam uetuste ‘me cum nuptam’dixit) e Id. Phorm. 770 (dum aliud aliquid uetuste ‘dum aliud aliquid’).

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An. 933.1 ARRIGE AVRES P. translatio a pecudibus, quibus intendit† accipiendam esse uocem. cruc. statui, cf. Seru. auc. Aen. 1, 152.

Alla fine del racconto di Critone, Cremete esclama (con sommo stupore di tutti): Certe mea est!, riconoscendo in Glicerio la sua seconda figlia. Simone e Panfilo non credono a quanto sentito, chiedono di ripetere. Il v. 933 arrige aures, Pamphile! è una battuta di dubbia attribuzione: lo stesso Donato si chiede se a pronunciarla sia Simone o lo stesso Panfilo (in una sorta di ‘sdoppiamento’ comico). L’espressione arrigere aures è addotta dai grammatici latini come esempio di cacemphaton, per l’ambiguità innescata dal verbo arrigere: Cacenphaton est uitio conpositionis inuerecunda suspicio, ut ‘arrige aures’, Pamphile! (Prisc. GL II 451, 3); Seru. auc. Aen. 1, 152: arrectis auribus translatio a mutis animalibus, quibus aures mobiles sunt. an aures pro audiendi sensu posuit, secutus Terentium qui ait ‘arrige aures, Pamphile’?; Seru. Aen. 12, 618: aures ad audiendas sollicitas: Terentius ‘arrige aures, Pamphile’!; Pomp. Comm. Don. part. tert, I, p. 32 Z. (con relativo commento in ZAGO 2017, vol. II pp. 242–243): Cacenphaton dicitur obscaena enuntiatio [...] Fit autem in una parte orationis, ut est illud apud Terentium: arrige aures Pamphile: potest et obscenam rem sonare. Anche Donato ad An. 933.1 si sofferma su questa particolare immagine, dicendo trattarsi di una translatio a pecudibus: cioè questa espressione pertiene propriamente al regno animale perché – verosimilmente – sono gli animali, e non gli uomini, a tendere le orecchie verso l’alto quando sono intenti ad ascoltare. Ho detto ‘verosimilmente’ perché il testo dopo aver segnalato la metafora mostra diversi punti di sofferenza che, a mio avviso, ne compromettono la comprensione:395 translatio a pecudibus, quibus intendit accipiendam esse uocem (= con cui [uerbis?] intende che bisogna ascoltare). Il primo problema è posto dal quibus, eccessivamente ambiguo in quella posizione perché si possa salvare sottintendendo uerbis, come si intuisce da W. Questi peraltro sembra leggere intendit nel significato di ‘intende dire’, ma è molto improbabile: non solo nel Don. per “significare” fa ricorso a significo / intellego, ma intendere nelle pur numerose occorrenze non assume mai questo valore nel DC (si attesta prevalentemente in senso giuridico di intendere litem / iniuriam, cf.

|| 395 Diversamente da me, WESSNER non sembra nutrire particolari dubbi (in apparato si limita a segnalare che con quibus si intendono le parole).

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An. 820.2, ibid. 854.2, al.). L’equivalenza intendo = animaduerto è propria del latino tardo e cristiano (cf. ThlL VII 1, 2117, 31ss.). Esclusa questa interpretazione, i. sarebbe forse da connettere con la spiegazione di arrigere, di cui è sinonimo. Da questo stato testuale in cui la translatio è insolitamente non spiegata, il relativo è problematico ed il senso del verbo si può solo intuire, emerge l’impossibilità di difendere il testo così come tràdito. Sulla base dei passi sopra riportati, da cui si deduce che arrigere aures è una metafora tratta dal mondo animale perché gli animali rizzano le orecchie per ascoltare meglio, è comunque possibile ricostruire in via ipotetica lo sviluppo del nostro scolio: alla translatio a pecudibus doveva seguire il verbo intendere in relazione alla tensione delle orecchie degli animali, per poi approdare al suo significato traslato di accipere uocem. Già Zeunius aveva definito un simile sviluppo logico-esegetico per la nota in esame, tanto da proporre un testo interessante, forse il più economico possibile: quibus intenduntur 〈aures〉 ad accipiendam [esse] uocem. Data comunque l’assenza di criteri ricostruttivi certi o perlomeno di un contenuto certo, preferisco limitarmi alla segnalazione del problema.

An. 941.1,2 1 NODVM IN SCIRPO QVAERIS ‘scirpus’ palustris res est et leuissima. Lucilius in primo (frg. 23 Cha.) ‘nodum in scirpo, in sano facere ulcus’ 2 […] – Plautus (Aul. 595) ‘scirpo induitur ratis’ 1 scirpo (sic etiam Fest. 444L)] stripo K: scyrps Θ: sirpea codd. Plaut.: scirpea Fest. 168L.

Quando risulta ormai acclarato che Glicerio è la figlia di Cremete, quest’ultimo avanza un’obiezione se non banale, certo poco pertinente, per cui Panfilo commenta “cerchi il nodo nel giunco”. Quest’ultima è un’espressione proverbiale, di discreta attestazione (OTTO 1890, 312–313), che si potrebbe tradurre in italiano con “cercare il pelo nell’uovo”. La tradizione del frammento di Lucilio non pone particolari problemi: l’insano presente nei codici, più che essere un errore nella segmentazione delle parole, è da ricondurre ad uno stadio genericamente precarolino, ossia in una fase grafica in cui, pur iniziando a diffondersi la convenzione di separare le unità di senso, la preposizione continuava ad essere legata alla parola successiva per una sorta di proclisi grafica. Da un punto di vista metrico si riconosce una sezione esametrica difettosa, che ha dato luogo a diversi tentativi di integrazione (per un prospetto dei quali rimando a KRENKEL 1970, 124); per quanto attiene a Don., i tagli delle citazioni sono spesso condotti sulla base della pertinenza contenustica, per cui non è necessario individuare un punto di lacuna.

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Alla citazione da Lucilio segue una sezione (941.2) che si sofferma sulla descrizione del giunco ed interrompe la continuità logica di 941.1, poi completata dalla citazione plautina (Aul. 595): scirpo induitur ratis (il servo deve andare in soccorso al padrone in preda alla passione amorosa come un salvagente, una nave di giunco, per chi inizia appena a nuotare). L’aggettivo scirpea faceva evidentemente difficoltà: i manoscritti di Plauto leggono scirpea; Festo cita il passo sia con scirpea (in corrispondenza del lemma nare: 168 L.) sia con scirpo (in corrispondenza del lemma scirpus: 444 L.), Donato avrebbe scirpo, che comunque dà senso, benché lectio facilior. Senza la testimonianza di Festo 444 L., di particolare importanza anche per il contesto in cui la citazione è inserita, al nostro particolarmente vicina (scirpus est id, quod in palustribus locis nascitur leue et procerum, unde tegetes fiunt. Inde prouerbium est in eas natum res, quae nullius impedimenti sunt ‘in scirpo nodum quaerere’), sarebbe stata traducibile in termini testuali l’idea che la banalizzazione fosse intervenuta in un secondo momento rispetto a Don.: scirpea poteva infatti essere corretto in scirpo per una semplice opera di normalizzazione; ma resta probabile che Don. avesse attinto ad una fonte di exempla già difettosa.

An. 951.2 EHO M. C. ‘eho’ admiratio〈nis〉 est 〈uel〉 intentionis ad id, quod dicturi sumus. m. c. scripsi: hinc AK Σ: hic B || admiratio〈nis〉 scripsi: 〈non〉 admirationis Schoell* (coll. An. 500.2): admiratio ω: adhortatio Schopen* (coll. Don. Eun. 130.1) || uel addidi: sed add. Schoell*, dub. Wess. an potius admira〈tionis interiect〉io est, 〈sed〉

Dopo che Cremete ha confermato a Panfilo la fattibilità del matrimonio nonché l’ammontare della dote, decide di correre dalla figlia, appena riconosciuta, per presentarsi: suppone infatti che Glicerio non lo conosca neppure, e proprio per questo chiede a Critone di andare con lui: Eho mecum, Crito! Nam illam me credo haud nosse. Donato spiega il valore dell’interiezione eho, e sembra dirci che in questo caso serve a richiamare l’attenzione di qualcuno su quello che si sta per dire. Il problema è che il testo donatiano, così come tràdito, non ha senso: “eho qui è ammirazione, di intenzione a ciò che stiamo per dire”.396

|| 396 Circa l’uso di eho in Ter. si può consultare MÜLLER (1997) 105–106.

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L’elemento che maggiormente disturba dal punto di vista della coerenza interna dello scolio, ma anche rispetto ad altri passi paralleli, è il sostantivo admiratio. Nel DC eho è classificato o fra le interiezioni di stupore o di intentio ovvero di richiamo all’attenzione: An. 500.2: eho an tute ‘eho’ nunc interiectio est admirantis, alias ad se uocantis, ut (I 2, 13) ‘ehodum ad me’; An. 667.1: eho dic mihi ‘eho’ interiectio est intentionem audientis exposcens; Hec. 267.2: eho num quid nam accusat uirum ‘eho’ interiectio est ponentis aurem propiorem; nam illa quaerit, quae solent de maritis puellae matribus queri. Nello scolio in esame, hinc (AKΣ, dunque ω; di contro hic B) sembra indicare che si prende in considerazione la funzione di eho all’interno del contesto di An. 951, e da questo dato sono poi discesi vari tentativi di dare un senso allo scolio, creando un’opposizione fra admiratio e intentio: l’intervento di SCHOELL, poi stampato da W., prevede l’integrazione di non e di sed, con preventiva correzione di admiratio in admirationis. Di fatto la risultante confezione ha il senso che ci si aspetterebbe qui, ma indubbiamente è un’operazione filologica troppo chirurgica né mi pare si risolva la disturbante contrapposizione hic/dicturi sumus: hic richiama al contesto specifico, l’uso della prima persona plurale sembra invece condurre l’osservazione ad un piano prescrittivo ossia di valore generico, non legato al contesto specifico. Non è migliore lo sforzo di SCHOPEN, che corregge admiratio in adhortatio sulla base di Eun. 130.1: hoc agite amabo: ‘hoc agite’ pro aduerbio corripientis est positum aut certe pro adhortatione audientiae praebendae. L’individuazione di un qualche problema in admiratio è condivisibile, ma adhortatio fa difficoltà come etichetta di eho: nel passo che SCHOPEN offre come parallelo, Donato sta commentando l’espressione hoc agite, che ragionevolmente e coerentemente, è definita ‘esortazione’, diversamente qui; la proposta tentata dal W. in apparato presuppone che la corruzione del testo sia più estesa e sostanzialmente fa leva su alcuni paralleli tratti dal DC, dove eho è grammaticalmente incasellata come interiectio (〈non〉 admirationis 〈interiectio〉 est, sed …). Per il testo proposto si deve partire dalla considerazione che tanto admiratio quanto intentio sono pertinenti (cf. soprattutto An. 500.2) e quindi da conservare; secondariamente ci sono altri due elementi decisivi per la constitutio: all’interiezione eho di An. 951 non si può negare la funzione di richiamo all’attenzione, mentre quella di sorpresa è secondaria e del tutto cassabile; lo scolio, nello stato in cui è tràdito, sembra precettivo e non descrittivo, come suggerisce per l’appunto la coda generalizzante. In ragione di questi dati individuerei in hinc una

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criptocorruttela per una parte lemmatica puntata, m.(ecum) c.(hremes): mc poteva essere stato letto inc; quest’ultimo, non dando senso, sarebbe stato corretto in hinc. Integrerei poi, subito dopo est, un uel, la cui caduta non necessita di particolari spiegazioni trattandosi di un fenomeno comprensibilmente frequente.

An. 967.3 Id est: ut facilius mala quam bona nuntientur. Ad hoc ergo dixit, quod ille prior rescierit quod esset uinctus, quam ipse cognitam Glycerium cognosceret. rescierit Schopen* (cf. Hec. 189.4; ibid. 867.1): dixerit (uel sci s.l.) A: scierit BK Σ || ipse Steph.: is Γ Θ: quod Λ || cognitam post cognosceret exhib. Λ

La fama del male è più veloce di quella del bene: Panfilo viene infatti a sapere della punizione dello schiavo prima che Davo abbia notizia dell’agnizione di Glicerio da parte di Cremete. La sofferenza dello scolio si individua nel verbo rescierit, così restituito da SCHOPEN: la tradizione manoscritta sembra tradire la presenza in archetipo di una doppia lezione, di cui c’è traccia in A. In linea teorica, non ci sarebbe motivo di intervenire su scierit, con cui lo scolio risulterebbe certamente sensato, ma è opportuno non prendere le distanze dalla correzione di SCHOPEN perché nel DC ad Hec. 189.4, 867.4 si individua una netta differenza semantica fra rescisco e scio: il primo implica il venire a conoscenza di avvenimenti oggettivamente ignoti, per mezzo di altri, il secondo si impiega per fatti personali e per verità che potevano anche essere note in precedenza, apprese da sé, senza essere informati da terzi (Hec. 189.4: hoc ubi senex resciuit scimus quae ad nos deferuntur, rescimus celata; Hec. 867.4: resciscere est recognoscere et uix inuenire, quod quis nescierit; Hec. 868.1 neque resciscent neque scient resciscunt ad quos pertinet; 868.2 Et resciscunt quae nesciunt, sciunt quae neglegunt; 868.3 Et resciscimus ex alio, scimus etiam per nostram opinationem).

An. 976 TVVS EST NVNC C. Lucilius in septimo (frg. 7, 6 Cha.) ‘nunc, praetor, tuus est; meus, si discesserit horno, Gentius.’ septimo AK: VII° B: 7° CF: 9° T: secundo Λ || horno] homo Θ || Gentius L. Mueller: gentilis Lind.: gentili codd. Apul. Apol. 10, 12 Helm: e[t]quidem C. Lucilium, quamquam sit iambicus, tamen improbarim, quod Gentium et Macedonem pueros directis nominibus carmine suo prostituerit.

400 | Commento filologico-testuale

Sciolto il nodo della commedia, Carino chiede a Panfilo di non pensare solo a se stesso, ma di prestare attenzione anche a lui: ormai ha conquistato la fiducia di Cremete (tuus est), per cui qualsiasi sua richiesta sarà ascoltata. Donato commenta l’espressione tuus est con una citazione da Lucilio (frg. 7, 6 Cha.). Tutti gli editori di Lucilio accettano la correzione di MÜLLER ovvero Gentius, il nome di un fanciullo amato da Lucilio, in luogo di un poco sensato gentili. Che Lucilio parlasse nelle sue Satire dei propri amasi, e che uno di questi si chiamasse proprio Genzio, ci è testimoniato anche da Apuleio in un passo dell’Apologia che ho riportato sopra (“a questo punto, sebbene poeta satirico, tuttavia dovrei disdegnare anche Lucilio visto che ha prostituito Genzio e Macedone nel suo componimento, nominandoli direttamente”); inoltre la correzione è paleograficamente ineccepibile. Se invece si accetta la più banale congettura del LINDENBROGIVS, bisognerebbe gestire diversamente la frase: nunc praetor tuus est meus, si discesserit horno, gentilis (= ora il tuo pretore, se partirà oggi, diventa mio concittadino).397 L’elemento discriminante per la scelta dell’una o dell’altra versione, è sicuramente il contesto terenziano: al v. 976 Terenzio adopera tuus est nel significato “essere nelle tue mani”, “essere in tuo possesso” (cf. Plaut. Curc. 431, detto di un pesce che ha abboccato all’amo). Naturalmente quest’espressione può assumere anche una sfumatura erotica, quale quella implicita in Lucilio. Non ci sono dubbi che il testo restituito da Müller con Gentius abbia maggiore pertinenza rispetto a quello risultante dalla ricostruzione di gentilis, dove tuus perderebbe tutta la sua pregnanza, oltre ad avere un significato totalmente diverso rispetto a quello del testo base terenziano: il “tuo pretore” in tal caso indicherebbe il pretore che si trova sul tuo territorio, il quale diventerà “mio concittadino” nel caso che si decida a partire. La congettura di MÜLLER è impeccabile, e da stampare, ma non è il caso, in assenza di qualunque altro riferimento o evidenza, di alterare ulteriormente il testo. Qualche plausibilità in più può avere emendare discesserit in discesseris ma non è necessario: a partire può essere tanto il pretore398 quanto Genzio.

|| 397 Questo è di fatto il testo stampato da BUREAU, che, anzi, preferisce la lezione homo di Θ alla più preziosa horno: è inutile dire che homo è una mera banalizzazione dei copisti, e dunque da escludere senza troppe remore (per l’uso avverbiale di hornus, cf. Pomp. GLK V 242, 1; per le occorrenze, cf. ThlL VI 3, 2972,65ss.) 398 La figura del pretore come minaccia per una qualche relazione amorosa si trova per esempio in Prop. 2, 16, 1–2.

Andria, atto V | 401

An. 977 ATQVE ADEO LONGVM EST ILLVM EXPECTARE quia et audacter et artificiosissime binos amores duorum adulescentium et binas nuptias in una fabula machinatus est (et id extra praescriptum Menandri, cuius comoediam transferebat) idcirco aliud in proscaenio, aliud post scaenam rettulit, ne uel iusto longior fieret uel in eandem propter rerum similitudinem cogerentur. in eandem] in andem A: in eadem T || post eandem add. καταστροφήν Schopen* || bini amores ante propter add. Ritschl (1845) 599 || cogerentur] congerentur A Θ

Con il ritrovamento dei genitori di Glicerio (il padre è proprio Cremete…!) non ci sono più impedimenti che ostacolino il suo matrimonio con Panfilo; e intanto Carino può proporsi come marito di Filomena. Già all’inizio del secondo atto Donato aveva fatto notare che Carino è un personaggio che non compare in Menandro, e dunque introdotto da Terenzio per evitare che la commedia portasse con sé un velo di tristezza: il fatto che Filomena, strenuamente rifiutata da Panfilo, rimanesse senza marito. Naturalmente Terenzio fa chiudere la commedia lasciando intravedere il matrimonio di entrambi, ma senza rappresentare né l’uno né l’altro: la commedia si conclude con Davo che rivolto agli spettatori chiede di non aspettare lo svolgersi dei relativi foedera e quanto canonicamente seguirebbe. Donato osserva che la scelta di lasciare intravedere lo svolgimento dei fatti successivi, senza rappresentarlo, è vincolato all’audace scelta di Terenzio di raddoppiare, rispetto all’originale menandreo, tanto gli amori che le nozze: proprio perché sono coinvolte due coppie Terenzio voleva evitare che la commedia diventasse troppo lunga e due amori/matrimoni estremamente simili fossero costretti in un’unica commedia. Il senso dello scolio è chiaro, per quanto il testo sia complicato dall’assenza di alcune esplicitazioni nella finale negativa: sia fieret che cogerentur sono privi di un soggetto, e per il secondo RITSCHL propone di integrare bini amores prima di propter; mentre SCHOPEN aggiungerebbe il graecum καταστροφήν dopo eandem. Entrambe le proposte non mi sembrano necessarie: il soggetto di cogerentur si deduce facilmente dalle righe precedenti (binos amores etc), così come il sostantivo da legare a eandem ed al contempo soggetto di fieret è ricavabile poche parole prima, cioè fabula.

Addenda et Corrigenda: ed. Cioffi 2017 S. XLI S. XLVI An. 64.1 An. 119.3 An. 214 An. 236.3 An. 245.3 An. 250.3 An. 330.2 An. 372.2 An. 429.1 An. 461.3 An. 461.3 An. 464.1 An. 464.2 An. 618.2 An. 721.1 An. 723.2 An. 804.1 An. 978.1

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Indici Si tratta di indici essenziali: nel primo si registrano soltanto nomi di persone e concetti pregnanti, sigle o passi di particolare interesse; nel secondo si elencano i punti del DCA oggetto di analisi critico-filologica.

alter exitus 88, 203 Ammannati, Jacopo 5, 33, 43, 183 An. 28–34 – Parisinus latinus 16235 148 archetipo 43, 45s., 66, 73, 77, 79, 81, 91, 97, 124, 141, 144, 147, 154 – del DC 17, 21ss., 25, 30s. – tipologia grafica 31 – defectus, lacuna, omissione di 23, 42, 97, 235 (n. 264), 246, 323, 375s. – scrupolosa riproduzione 66 – errori, lezione di 38, 73, 124, 217, 229, 271, 277, 281ss., 299, 311, 350ss., 360, 362 – in movimento 69, 74ss., 111, 116 – problemi di 30, 91, 252, 356 – forme greche 193ss., 216, 295 (n. 326), 371 – interpolazione di 211 – inversione 233 – recupero marginale, annotazione, variante di 237, 262, 273, 312, 399 Aurispa, Giovanni 36ss., 41ss., 52, 54ss., 61ss., 67ss., 75, 89, 93, 100s., 145s. – ep. 6 Agosto 1433 (a Tebalducci) 52 – ep. 25 Gennaio 1449 41 – ep. 76 al Panormita 54 – ep. 104 41, 55, 56 – ep. 105 42 Bade, Josse 163 barbariem ... ueteris scripturae 58, 60 Bembino (Vat. Lat. 3224) 141, 231 – ordine commedie 39 (+ n. 57), 40 – scoli 20ss., 194 Bernensis 276 – postille di Guido de Grana 24s., 37, 141ss. calliopiana (recensione) 24, 344 Carbone, Ludovico 3s., 100s.,

https://doi.org/10.1515/9783110584653-013

Carnotensis (Chartres 1447) 33s., 36s., 41ss., 55, 74, 83, 89, 93, 99s., 110, 113s., 145ss., 261 – rappresentanti 36, 43 codex Cuiacii 14, 34, 36, 38, 169s. codices antiqui 19s., 32 Colonna, Prospero 42 compilator (compilatore) 21, 32, 276 Consulto de arte dicendi 56 contaminazione 197, 202, 225, 308, 390 – ϴ ed il Carnotensis 37 – di B? 51 – di K? 47, 299 – di Λ 72, 76, 87, 92ss., 246 (n. 277), 262, 274 (n.295), 275 (n. 297), 279s., 286, 294, 338, 354, – di O? 115 – di H 126ss. – di C? 77 – di ϴ? 74 (n. 113) – condizioni per la contaminazione 75 – di Fq? 78 – capillare 81 – recupero di lacuna? 83, 101s. – di greco? 86 – doppia 89 – cambio di modello o contaminazione? 108 (n. 147), 132 – trasmissione di varianti 102 – trasmissione di errori? 106 – altamente improbabile 78 – sistematica 130 (+ n. 167) – di U 133ss. – di QJ 83 – di α 109ss. Curulus (Curlo) – Epitoma Donati 145ss. Cusano, Niccolò (uir Theutonicus) 56ss., 63s., 69, 83

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Daniel, Pierre – correttore di A 1 Decembrio, Angelo 11 Decembrio, Pier Candido 2s., 56ss., 60ss., 64ss., 68ss., 75, 83 descripti (codices) 34, 44, 80, 83s., 116, 124, 130, 134, 136 diplomatica (copia, trascrizione) 65, 68, 70ss. Dublette (codice B) – An. 663.3–4, An. 661.1 48

– annotazioni 14, 170, 174 Guarino Veronese 56s., 61, 63ss., 68 Hautontimoroumenos (commento a) 19, 23 (n. 21), 43, 66 Hecyra (commento a) 42s. Hugo Primas, di Orlèans 144 Isidoro di Siviglia 142 Jacques-Auguste, de Thou 1 Jouffroy, Jean 41s.

Facio, Bartolomeo 145, 149s. Gerolamo (allievo di E. Donato) – Contra Rufinum I, 6 17 – Quaestiones Hebraicae 141 graeca (graecum, greco) 4, 10, 13, 26, 29s., 38, 61s., 101, 144, 157s., 161, 164, 169, 172, 180ss., 252, 305, 323, 331s., 392, – caduta/corruzione di parole latine 185, 250s., 305, 332, 374s., – competenza 62, 84, 284, – convivenza di graeca e forma traslitterata corrispondente 193 – corruzione 195, 222, 247, 282s. – di M4 192, 306 – di prima mano? 189 – dislocazione 186, 192 – distribuzione nei testimoni umanistici 188s. – forme maiuscolizzanti 184 – grecismo 196s. – horror graecarum litterarum 181 – lessico retorico 193 – monstra morfologici 194 – nel DC 194 – perturbamenti di ordine 186 – residui 216, 282 – restituzione 158, 211, 259, 295, 368, 375, 392s. (+n. 394), 401 – sub specie citationis 29, 184 – tipologie di corruzione 181 – traslitterazione 187 Giovanni, di Salisbury 144 Godescalc, d’Orbais 144 Gronouius

Lattanzio (pseudo) – schol. Theb. 5, 728 142 lectio 60, 109, 136 – uaria 19, 20, 307 (n. 332) – difficilior 109, 279, 339, 377, – singularis 128, 136, 165, 171, 179, 225, 271, 273, 305, – facilior 163 (n. 196), 351, 397, littera canina (R) 144 Lindenbrogius 12, 14, 38, 161, 163, 169ss., 179ss., 324, 327, 330, 333s., 340, 347, 400 Lupo, di Ferrieres – epistola a Papa Benedetto III 22s. Maguntinus (Magonza 1433) 24, 33, 36s, 40, 42ss., 46, 52ss., 57s., 61, 63ss., 73ss., 77, 84, 86, 88, 102ss., 106, 110, 125, 132, 138, 145, 166, 184ss., 225, 246, 261, 294, 377s., 383 Maletta, Alberico 64 Marsuppini, Carlo 55 Medioevo – circolazione del DC 31 Menandro (commediografo greco) 196s., 281ss., 328, 330s., 367, 377, 401 – Menander 195s. Messio, Arusiano 142 Nicolas, de Clamanges 52ss., 87s., 141 onciale – stringhe oncializzanti 26s., 30s.

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ope ingenii 46, 49, 67, 73, 75, 77s., 82, 87s., 90, 97, 109, 116, 120, 147, 159, 163, 166, 172, 177s. – editio princeps 13, 38, 158, 161ss. ordine – degli scoli 167, 186 – delle commedie 39s. – delle parole 130 originale – Commentum donatiano 19, 21 – ep. 76 (Aurispa, Giovanni) 55 Panormita (Becadelli, Antonio) 41ss., 54s., 141, 145s. Parisinus Latinus 11308 – lettera a L. Munazio 18 Phormio – doppia serie di scoli 19 Pietro, di Blois – quinque lineae amoris 144s. Pithou – codex Cuiacii 170 – restituzione dei graeca 196 Pizolpasso, Francesco 52s., 56ss., 61ss., 71, 75, 83, 87s., 141 – codice Mediolanensis Ambrosianus L 53 sup. 52 – epistola 1 (An. 959.1–3) 67 – epistola Maggio/Giugno 1437 56 Plauti (da leggersi Terenti?) 41 Prisciano 141 – citazione di An. 536 19s. – titoli delle commedie di Terenzio 39 prototypon exemplar 22

scripturae perplexitas 61s., 65 Stephanus 158s., 161ss., 165ss., 170ss., 179s., 211, 229, 259, 269, 279s., 289, 294s., 302, 312, 314s., 321, 335, 341, 349, 354, 374 stringhe latine maiuscolizzanti – Ad. 43 28 – An. 28.1 28 – An. 45.1 28 – An. 149.1 27 – An. 546.1 26 – An. 591 27 Superiore hebdomada 42, 145 Tebalducci, Iacopo 52, 54 Tortelli, Giovanni 42 – commento all’ Eunuco 42 Traversagni, Lorenzo Guglielmo 155s. Traversari, Ambrogio 57, 61s., 64, 66ss., 70, 75, 141 uacat (espunzione) 50, 120 uetus codex / exemplar 13, 163, 167, 179, 184 usus (donatiano) 129, 195s., 220, 223, 239, 244 (n. 273), 247, 263, 277, 283, 286, 308, 317, 327, 354 Valla, Lorenzo 42s. – citato nelle glosse di Leid. B.P.L. 191 BF 149 – ep. 40 (a Tortelli) 42s. – prima menzione del DC 43 Victorianus (D) – glosse 20, 22ss., 37

Raynerus, de Capella 158 Rufino 20, 141

Elenco dei passi del DCA discussi An. praef. I 3 An. praef. I 6 An. praef. II 1 An. praef. II 2 An. 1.5

201 202 207 208s. 209

An. 3.1 An. 3.3 An. 4.2 An. 14 An. 17.1

210 210 211 212 213

416 | Indici

An. 24.7 An. 28.3 An. 28.5 An. 28.6 An. 35.1 An. 36.3 An. 42.3 An. 46 An. 52.2 An. 54.1 An. 55.3 An. 56.2 An. 565 An. 61.2 An. 63.2 An. 64.1 An. 64.2 An. 69.2 An. 77.3 An. 81.1 An. 81.4 An. 83.4–5 An. 85.1 An. 85.4 An. 88.1 An. 90.1 An. 99.2 An. 105.3 An. 106.1 An. 106.3 An. 110.1 An. 113.1 An. 118.4 An. 120.1 An. 127.3 An. 128.5 An. 130 An. 139.2 An. 146.4 An. 154 An. 181.1 An. 200.3 An. 204.2 An. 205.1–3 An. 206.2 An. 221.2 An. 223.2

213 214 215 216 217 219 220 220 220 221 224 226 346 227 228 229 230 230 231 232 233 233 235 235 235 238 239 240 241 241 242 242 244 245 245 246 249 249 249 252 254 255 255 256 258 259 260

An. 224.2 An. 229.1 An. 229.2 An. 231.1 An. 236.1 An. 236.7 An. 239.1 An. 239.3 An. 241.1 An. 242.2 An. 250.1 An. 250.3 An. 251.2 An. 257.1 An. 267.2 An. 268–9 An. 281.6 An. 284.1 An. 286.5 An. 291.4 An. 295.2 An. 301.1 An. 301.2 An. 305.2 An. 307.2 An. 310.2 An. 310.3 An. 312.3 An. 313.2 An. 315.1 An. 320.1–2 An. 324.1 An. 324.6 An. 328.2 An. 329.3 An. 339 An. 348.3 An. 363.3 An. 369.2 An. 383.1 An. 400.2 An. 404.1 An. 410.1 An. 412.2 An. 423.1 An. 429.3 An. 436.2

260 261 262 262 264 264 266 266 268 269 270 271 271 271 273 274 276 277 278 279 280 280 281 285 286 287 289 290 290 291 292 293 295 297 298 300 301 303 303 305 305 306 308 308 309 310 312

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An. 447.1 An. 449.1 An. 450.3 An. 455.2–3 An. 456.2 An. 457.3–4 An. 461.2–3 An. 463.1–3 An. 464.2 An. 465.2 An. 470.2–3 An. 470.5 An. 473.1–2 An. 473.5 An. 473.6 An. 474.1 An. 481.2 An. 483.1–2 An. 484.1 An. 487.1 An. 490.3 An. 496.1 An. 498.3 An. 505.3 An. 510.2 An. 510.3–4 An. 524.1,2 An. 532.2 An. 535.4 An. 596.4 An. 597.3 An. 615 An. 616.1 An. 619.1 An. 625.4–5 An. 637.4 An. 639.2 An. 642.2 An. 650.1 An. 652 An. 661 An. 663.3–4 An. 667.2 An. 668.2 An. 681 An. 698.1 An. 703.1

313 313 314 314 315 315 316 317 319 321 322 322 323 326 327 326 329 329 333 335 337 338 340 340 341 341 342 344 345 347 348 349 350 352 353 353 354 354 354 355 356 357 359 360 360 361 361

An. 707.4 An. 708.3 An. 709.3 An. 726.1,7 An. 730.2 An. 747.2 An. 748 An. 754.1 An. 755.1 An. 767.1 An. 782.1,2 An. 787.2 An. 788.1–2 An. 790 An. 795 An. 797.1 An. 801 An. 820.3 An. 846.2 An. 847.1 An. 851.3 An. 854.2 An. 855.3 An. 861.1 An. 862.1 An. 863 An. 865.3 An. 868 An. 875.5 An. 876.1 An. 879.1 An. 897.2 An. 911 An. 912.2 An. 921.3 An. 926.1 An. 930.1, 2 An. 931 An. 932 An. 933.1 An. 941.1,2 An. 951.2 An. 967.3 An. 976 An. 977

362 363 365 366 369 369 369 369 370 371 371 372 373 373 374 375 377 377 378 379 381 381 382 383 384 384 385 386 387 387 388 389 390 391 391 391 392 393 394 395 396 397 399 399 401

Indice delle figure Fig. 1: A, Parisinus Lat. 7920, f. 33u .................................................................................... 27  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 2: B, Vaticanus Regin. Lat. 1595, f. 4r ............................................................................ 27 © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 3: A, Parisinus Lat. 7920, f. 34u .................................................................................... 27  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 4: B, Vaticanus Regin. Lat. 1595, f. 4u ........................................................................... 27  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 5: A, Parisinus Lat. 7920, f. 28u .................................................................................... 28  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 6: A, Parisinus Lat. 7920, f. 8u ..................................................................................... 28  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 7: A, Parisinus Lat. 7920, f. 9u ...................................................................................... 28  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 8: A, Parisinus Lat. 7920, f. 54u .................................................................................... 28  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 9: n, Vaticanus Ottobon. Lat. 2070, f. 6r ...................................................................... 114  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 10: O, Oxoniensis Lincoln. Lat. 45, f. 14r ...................................................................... 115  © Oxford, Lincoln College Fig. 11: a, Ms. Plut. 53.9, f. 11r ........................................................................................... 116  © Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Fig. 12: K, Vaticanus Chisianus H VII 240, f. 9u ................................................................... 116  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 13: O, Oxoniensis Lincoln. Lat. 45, f. 25u ...................................................................... 121  © Oxford, Lincoln College Fig. 14: U, Escorialensis E. III 3, f. 23r ................................................................................ 132 © Madrid, Real Biblioteca Fig. 15: U, Escorialensis E. III 3, f. 22u ................................................................................ 132 © Madrid, Real Biblioteca Fig. 16: U, Escorialensis E. III 3, f. 44u ................................................................................ 132 © Madrid, Real Biblioteca Fig. 17: U, Escorialensis E. III 3, f. 43u ................................................................................ 132  © Madrid, Real Biblioteca Fig. 18: U, Escorialensis E. III 3, f. 36u ................................................................................ 132 © Madrid, Real Biblioteca Fig. 19: U, Escorialensis E. III 3, f. 37r................................................................................. 132 © Madrid, Real Biblioteca Fig. 20: U, Escorialensis E. III 3, f. 30u ............................................................................... 132 © Madrid, Real Biblioteca Fig. 21: U, Escorialensis E. III 3, f. 31r ................................................................................ 132  © Madrid, Real Biblioteca

https://doi.org/10.1515/9783110584653-014

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Fig. 22: K, Vaticanus Chisianus H VII 240, f. 29u ................................................................. 135  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 23: U, Escorialensis E. III 3, f. 55r ................................................................................ 135  © Madrid, Real Biblioteca Fig. 24: U, Escorialensis E. III 3, f. 51r ................................................................................ 137  © Madrid, Real Biblioteca Fig.25: Leid., Leidensis BPL 191 BF, f. 7u ............................................................................ 150  © Leiden, University Libraries Fig. 26: Leid., Leidensis BPL 191 BF, f. 23r .......................................................................... 150  © Leiden, University Libraries Fig. 27: K, Vaticanus Chisianus H VII 240, f. 9u ................................................................... 153  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig.28: Leid., Leidensis BPL 191 BF, f. 9r ............................................................................ 153 © Leiden, University Libraries Fig.29: Scot.212 (Hübl 218), f. 3r ....................................................................................... 156 © Vienna, Archiv des Schottenstifts Fig. 30: A, Parisinus Lat. 7920, f-33u .................................................................................183  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 31: C, Oxoniensis Bodleianus Canon. Class. Lat. 95, f. 18r ............................................ 185  © Oxford, Lincoln College Fig. 32: T, Vaticanus Lat. 2905, f. 52r ................................................................................. 185  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 33: C, Oxoniensis Bodleianus Canon. Class. Lat. 95, f. 9u ............................................. 185  © Oxford, Lincoln College Fig. 34: G, Vaticanus Regin. Latinus 1673, f. 16r ................................................................ 190  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 35: G, Vaticanus Regin. Latinus 1673, f. 16r ................................................................. 190  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 36: A, Parisinus Lat. 7920, f. 10u ................................................................................ 228  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig.37: T, Vaticanus Lat. 2905, f. 35r ................................................................................. 237  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 38: P, Parisinus Lat. 7899, f. 9r .................................................................................. 262  © Parigi, Bibliothèque nationale de France Fig. 39: B, Vaticanus Regin. Lat. 1595, f. 6r ........................................................................ 368  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Fig. 40: K, Vaticanus Chisianus H VII 240, f. 28u ................................................................ 368  © Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana