Principi di microbiologia medica [3 ed.]
 9788808187055

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Principi di

MICROBIOLOGIA MEDICA III edizione a cura di

Guido Antonelli • Massimo Clementi Gianni Pozzi • Gian Maria Rossolini

Autori*

Guido Antonelli, Sapienza Università di Roma

Cristina Costa, Università degli Studi di Torino

Patrizia Bagnarelli, Università Politecnica delle Marche

Maria Grazia Cusi, Università degli Studi di Siena

Emanuela Balestra, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Giovanni Delogu, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

Giovanna Batoni, Università di Pisa

Dario Di Luca, Università degli Studi di Ferrara

Elisabetta Blasi, Università degli Studi di Modena-Reggio Emilia Elisa Borghi, Università degli Studi di Milano Filippo Canducci, Università degli Studi dell’Insubria Pietro Cappuccinelli, Università degli Studi di Sassari Rossana Cavallo, Università degli Studi di Torino Massimo Clementi, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano

Lucilla Dolzani, Università degli Studi di Trieste Pier Luigi Fiori, Università degli Studi di Sassari Marisa Gariglio, Università degli Studi del Piemonte Orientale Carlo Garzelli, Università di Pisa Massimo Gentile, Sapienza Università di Roma

Francesco Iannelli, Università degli Studi di Siena Santo Landolfo, Università degli Studi di Torino Fabrizio Lombardo, Sapienza Università di Roma Antonella Lupetti, Università di Pisa Fabrizio Maggi, Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana Nicasio Mancini, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano Aldo Manzin, Università degli Studi di Cagliari Anna Marchese, Università degli Studi di Genova Donata Medaglini, Università degli Studi di Siena

Emilia Ghelardi, Università di Pisa

Stefano Menzo, Università Politecnica delle Marche

Roberta Colicchio, Università degli Studi di Napoli Federico II

Giovanni Gherardi, Università Campus Bio-Medico, Roma

Maria Milici, Università degli Studi di Palermo

Maria Pia Conte, Sapienza Università di Roma

Anna Giammanco, Università degli Studi di Palermo

Giuseppe Miragliotta, Università degli Studi di Bari

Giuseppe Cornaglia, Università degli Studi di Verona

Alessandra Giordano, Sapienza Università di Roma

David Modiano, Sapienza Università di Roma

*Autori, in ordine alfabetico, che hanno partecipato alla realizzazione della terza edizione.

XX

Autori

Giulia Morace, Università degli Studi di Milano Adriana Mosca, Università degli Studi di Bari Rachele Neglia, Università degli Studi di Modena-Reggio Emilia Mauro Nicoletti, Università degli Studi G. D’Annunzio, Chieti-Pescara Laura Pagani, Università degli Studi di Pavia Chiara Pagliuca, Università degli Studi di Napoli Federico II Concetta Ilenia Palermo, Università degli Studi di Catania Lucia Pallecchi, Università degli Studi di Siena Samuele Peppoloni, Università degli Studi di Modena-Reggio Emilia Carlo Federico Perno, Università degli Studi di Roma Tor Vergata Vincenzo Petrarca, Sapienza Università di Roma Alessandra Pierangeli, Sapienza Università di Roma

ISBN 978-88-08-18705-5

Maurizio Pocchiari, Istituto Superiore di Sanità, Roma Brunella Posteraro, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Gianni Pozzi, Università degli Studi di Siena Giammarco Raponi, Sapienza Università di Roma Paola Rappelli, Università degli Studi di Sassari Maria Carla Re, Università degli Studi di Bologna Laura Rindi, Università di Pisa Elisabetta Riva, Università Campus Bio-Medico, Roma Roberta Rizzo, Università degli Studi di Ferrara Gian Maria Rossolini, Università degli Studi di Firenze Salvatore Rubino, Università degli Studi di Sassari Paola Salvatore, Università degli Studi di Napoli Federico II

Francesco Santoro, Università degli Studi di Siena Carolina Scagnolari, Sapienza Università di Roma Guido Scalia, Università degli Studi di Catania Serena Schippa, Sapienza Università di Roma Daniela Scribano, Università degli Studi G. D’Annunzio, Chieti-Pescara Sonia Senesi, Università di Pisa Rosa Sessa, Sapienza Università di Roma Giuseppe Teti, Università degli Studi di Messina Enrico A. Tonin, Università degli Studi di Trieste Antonio Toniolo, Università degli Studi dell’Insubria Maria Trancassini, Sapienza Università di Roma Ombretta Turriziani, Sapienza Università di Roma

Valeria Pietropaolo, Sapienza Università di Roma

Maurizio Sanguinetti, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

Pietro E. Varaldo, Università Politecnica delle Marche

Mauro Pistello, Università di Pisa

Iolanda Santino, Sapienza Università di Roma

Carlo Zagaglia, Sapienza Università di Roma

Indice generale

Prefazione alla terza edizione Introduzione alla Microbiologia medica

XIX XX

A BATTERIOLOGIA MEDICA

1 Classificazione dei batteri

Alessandra Giordano, Giammarco Raponi, Antonio Toniolo Tassonomia convenzionale (fenotipica) Metodi chimici: analisi di costituenti batterici Test biochimici per l’identificazione batterica Test fisici Tassonomia genotipica: ibridazione DNA/DNA, analisi dell’rRNA, sequenziamento genico Nomenclatura Albero filogenetico dei batteri

2 Cellula batterica

Anna Marchese Componenti fondamentali Citoplasma e cromosoma Membrana citoplasmatica Parete Componenti accessori Pili Flagelli Glicocalice e capsula Plasmidi

3 Metabolismo batterico

Valeria Pietropaolo, Maria Trancassini, Mauro Nicoletti Fonti di energia per i microrganismi

A-1

A-4 A-5 A-6 A-6

Fermentazioni batteriche Respirazione batterica Respirazione anaerobia

4 Genetica e genomica batterica Francesco Iannelli, Francesco Santoro Il genoma batterico Il mobiloma batterico Plasmidi Batteriofagi Elementi genetici trasponibili Evoluzione del genoma batterico Mutazioni Ricombinazione genetica Trasferimento genico orizzontale Sequenziamento genico e genomico 5 Riproduzione e crescita

A-6 A-8 A-8 A-12 A-13 A-13 A-15 A-17 A-22 A-22 A-23 A-23 A-24 A-25

A-26

Rosa Sessa Crescita e divisione Misura dell’accrescimento nei batteri Curva di crescita batterica Fase di latenza Fase esponenziale Fase stazionaria Fase di morte Colture continue Fattori che influenzano la crescita dei microrganismi Spora batterica Stadi morfologici di formazione della spora Struttura della spora Regolazione della sporulazione Caratteristiche delle endospore Trasformazione delle spore nelle cellule vegetative Importanza delle spore

A-28 A-31 A-34 A-36 A-36 A-41 A-41 A-42 A-42 A-46 A-46 A-47 A-49 A-54 A-58 A-58 A-59 A-59 A-60 A-60 A-61 A-61 A-61 A-61 A-62 A-63 A-64 A-64 A-64 A-65 A-65

VI

Indice generale

6 Patogenicità e virulenza

Paola Salvatore, Carmelo Bruno Bruni, Roberta Colicchio Interazione ospite-parassita dal punto di vista ecologico Infezioni latenti e stato di portatore Virulenza Patogenicità e virulenza nell’era post-genomica Versione molecolare dei postulati di Koch Fasi del processo patogenetico Adesione e colonizzazione delle superfici Biofilm batterici Invasione, crescita e moltiplicazione del parassita nell’ospite Cambiamenti adattativi della virulenza Tropismo Fattori di virulenza Endotossine Superantigeni Tossina difterica Tossina tetanica e tossina botulinica Enterotossine Quorum sensing Isole di patogenicità Sistemi di trasporto delle cellule batteriche

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A-67

A-68 A-70 A-71 A-73 A-74 A-75 A-75 A-77 A-79 A-80 A-81 A-81 A-85 A-87 A-88 A-89 A-91 A-92 A-94 A-94

7 Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche Giuseppe Teti Significato delle difese antimicrobiche Difese a livello delle superfici Microbiota normale Barriere anatomiche e chimiche Sistema immunitario Riflessività del sistema immune Due tipi di immunità Immunità adattativa Meccanismi effettori del sistema immune Immunità innata

8 Diagnosi batteriologica

Antonella Lupetti, Mario Campa Diagnosi diretta Raccolta del materiale biologico Invio del campione Esame batterioscopico diretto Esame colturale Identificazione

A-98 A-98 A-99 A-99 A-100 A-102 A-102 A-103 A-106 A-109 A-109 A-125 A-125 A-125 A-126 A-127 A-127 A-134

Antibiogramma Diagnosi rapida Diagnosi indiretta Determinazioni sierologiche

9 Farmaci antibatterici Gian Maria Rossolini, Lucia Pallecchi Definizioni e classificazione dei farmaci antibatterici Antibatterici che agiscono bloccando la sintesi del peptidoglicano Antibatterici che agiscono danneggiando le membrane batteriche Antibatterici che agiscono bloccando le DNA topoisomerasi batteriche Antibatterici che agiscono bloccando la trascrizione Antibatterici che agiscono bloccando la sintesi proteica Antibatterici che agiscono bloccando la sintesi dei folati Antibatterici che agiscono con meccanismi diversi Metodiche per la valutazione dell’attività dei farmaci antibatterici in vitro La resistenza ai farmaci antibatterici Meccanismi di resistenza dovuti a inattivazione del farmaco Meccanismi di resistenza dovuti a modificazione del bersaglio molecolare del farmaco o a vicariamento della sua funzione Meccanismi di resistenza dovuti a impermeabilità o efflusso attivo Un particolare meccanismo di resistenza agli antibiotici: la tolleranza dei biofilm batterici Resistenza intrinseca e resistenza acquisita

10 Il microbiota umano Maria Pia Conte, Donata Medaglini, Serena Schippa L’uomo come habitat Ruolo del microbiota umano Microbiota umano e infezioni opportuniste Microbiota intestinale Microbiota vaginale Microbiota della cute Microbiota del tratto respiratorio

A-135 A-135 A-138 A-138 A-141

A-141 A-142 A-142 A-143 A-145 A-146 A-149 A-150 A-150 A-151 A-153

A-155 A-157

A-157 A-158 A-160

A-161 A-162 A-162 A-163 A-165 A-166 A-167

Indice generale

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11 Batteri sporigeni

Emilia Ghelardi, Sonia Senesi Genere Bacillus Bacillus anthracis Bacillus cereus Genere Clostridium Clostridium tetani Clostridium botulinum Clostridium perfringens Clostridium difficile

12 Corynebacterium

Iolanda Santino Corynebacterium diphtheriae Morfologia Patogenicità Diagnosi Indagini sierologiche Sensibilità e resistenza agli antibiotici Vaccini Altri corinebatteri di interesse medico

13 Stafilococchi

Pietro E. Varaldo Staphylococcus aureus Identificazione di laboratorio Tipizzazione Costituenti cellulari e strutturali Sostanze solubili (esotossine, esoenzimi) Colonizzazione Azione patogena e significato clinico Sensibilità e resistenza agli antibiotici Stafilococchi coagulasi-negativi Staphylococcus epidermidis Staphylococcus haemolyticus Staphylococcus saprophyticus Staphylococcus lugdunensis

14 Streptococchi

Pietro E. Varaldo Streptococcus pyogenes Genoma Identificazione di laboratorio Costituenti cellulari e strutture di superficie Prodotti esocellulari Azione patogena e regolazione dei fattori di virulenza Habitat Manifestazioni cliniche

A-168 A-168 A-168 A-171 A-171 A-172 A-174 A-176 A-178 A-179 A-180 A-180 A-180 A-182 A-183 A-183 A-183 A-183 A-186 A-187 A-187 A-187 A-187 A-188 A-189 A-189 A-190 A-192 A-192 A-192 A-192 A-193 A-194 A-195 A-195 A-195 A-196 A-197 A-198 A-199 A-199

Sensibilità e resistenza agli antibiotici Vaccini Streptococcus pneumoniae Genoma Identificazione di laboratorio Capsula e tipizzazione Costituenti cellulari, strutture di superficie, patogenicità Habitat Manifestazioni cliniche Sensibilità e resistenza agli antibiotici Vaccini Streptococcus agalactiae Altri streptococchi beta-emolitici Streptococcus suis Streptococchi “viridanti”

15 Enterococchi

Pietro E. Varaldo Specie Ecologia Enterococchi e alimenti Identificazione di laboratorio Patogenicità degli enterococchi e patogenesi delle infezioni Manifestazioni cliniche, infezioni nosocomiali Sensibilità e resistenza agli antibiotici

16 Enterobacteriaceae

Laura Pagani Fisiologia e struttura Caratteristiche comuni a tutta la famiglia Enterobacteriaceae Antigeni maggiori delle Enterobacteriaceae Resistenza antimicrobica Escherichia coli Antigeni Patogenesi Patologie principali Shigella Antigeni Patogenesi Patologie principali Yersinia Yersinia enterocolitica Yersinia pseudotuberculosis Yersinia pestis

VII

A-200 A-201 A-201 A-201 A-201 A-202 A-202 A-203 A-203 A-203 A-204 A-204 A-204 A-205 A-205 A-207 A-207 A-207 A-207 A-208 A-208 A-209 A-209 A-211 A-211 A-211 A-211 A-216 A-218 A-218 A-218 A-218 A-221 A-221 A-221 A-222 A-222 A-223 A-223 A-224

VIII

Indice generale

Altre Enterobacteriaceae Klebsiella Enterobacter Serratia Proteus Providencia, Morganella Citrobacter Diagnosi di laboratorio Esame colturale Identificazione biochimica Identificazione molecolare Identificazione sierologica Sensibilità agli antibiotici Profilassi e controllo

17 Salmonella

Salvatore Rubino I fattori di virulenza di Salmonella

ISBN 978-88-08-18705-5

A-225 A-225 A-225 A-226 A-226 A-227 A-227 A-227 A-227 A-227 A-227 A-227 A-228 A-228 A-229 A-230

18 Pseudomonas aeruginosa

e altri bacilli gram-negativi non fermentanti Lucilla Dolzani, Enrico A. Tonin Pseudomonas aeruginosa Patogenesi Pili, flagello e LPS Produzione di fattori extracellulari Processi infettivi da Pseudomonas aeruginosa Identificazione Antibiotico-resistenza Pseudomonas putida, Pseudomonas stutzeri, Pseudomonas fluorescens Pseudomonas otitidis Acinetobacter baumannii Fattori di virulenza Processi infettivi da A. baumannii Antibiotico-resistenza Burkholderia cepacia complex Fattori di virulenza Terapia antibiotica Stenotrophomonas maltophilia

19 Vibrioni

Pietro Cappuccinelli Vibrio cholerae Caratteristiche generali Meccanismi di patogenicità Patologia Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, prevenzione, controllo

A-232 A-232 A-233 A-234 A-234 A-235 A-237 A-237 A-238 A-238 A-239 A-239 A-239 A-240 A-240 A-241 A-241 A-242 A-243 A-243 A-243 A-244 A-245 A-246 A-246

20 Campylobacter

Pietro Cappuccinelli Caratteristiche generali Patogenicità Manifestazioni cliniche Diagnosi microbiologica Epidemiologia, prevenzione e controllo

21 Haemophilus

Elisabetta Blasi, Rachele Neglia, Samuele Peppoloni Classificazione Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Identificazione diretta Coltura e identificazione Indagini sierologiche Epidemiologia Terapia e profilassi

22 Bordetella

Elisabetta Blasi, Rachele Neglia, Samuele Peppoloni Classificazione Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, terapia e profilassi

23 Brucella

Elisabetta Blasi, Rachele Neglia, Samuele Peppoloni Classificazione Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia Terapia e profilassi

24 Neisseria

Paola Salvatore, Carmelo Bruno Bruni, Chiara Pagliuca Morfologia e identificazione Meccanismi di virulenza e patogenicità Diagnosi di laboratorio Epidemiologia e prevenzione della malattia meningococcica Epidemiologia della malattia gonococcica

A-248 A-248 A-249 A-249 A-250 A-251 A-252 A-252 A-253 A-253 A-254 A-254 A-255 A-255 A-256 A-256 A-258 A-258 A-258 A-260 A-261 A-261 A-263 A-263 A-265 A-265 A-266 A-266 A-267 A-268

A-268 A-270 A-278 A-280 A-287

Indice generale

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25 Micobatteri

Giovanni Delogu, Carlo Garzelli, Laura Rindi Classificazione e caratteri generali Mycobacterium tuberculosis Epidemiologia Caratteristiche generali Patogenesi Vaccino Terapia Mycobacterium leprae Mycobacterium ulcerans Altri micobatteri Diagnosi microbiologica di infezione da micobatteri Esame microscopico Esame colturale Identificazione Diagnosi molecolare Farmaco-sensibilità Test fenotipici per M. tuberculosis Test molecolari per M. tuberculosis Micobatteri non tubercolari Diagnosi immunologica di infezione tubercolare Test tubercolinico Test IGRA

26 Spirochete

Elisabetta Riva, Giovanni Gherardi Genere Treponema Treponema pallidum subsp. pallidum Genere Borrelia Malattia di Lyme Febbre ricorrente: patogenesi e manifestazioni cliniche Genere Leptospira Patogenesi e manifestazioni cliniche Epidemiologia Diagnosi di laboratorio Terapia e prevenzione

A-292

A-292 A-293 A-295 A-295 A-297 A-298 A-299 A-300 A-301 A-302 A-302 A-304 A-306 A-307 A-308

28 Rickettsie Iolanda Santino Morfologia Patogenicità Gruppo del tifo Gruppo della febbre maculosa Diagnosi Sensibilità e resistenza Vaccini

29 Clamidie

A-321 A-322

Anna Giammanco, Maria Milici Tassonomia Morfologia, struttura e modalità replicative Caratteristiche metaboliche Genoma Antigeni Coltivazione Spettro d’ospite Sensibilità agli agenti antimicrobici Patogenesi Manifestazioni cliniche Chlamydia trachomatis Chlamydia psittaci Chlamydia pneumoniae Diagnosi Terapia e prevenzione

A-323

30 Helicobacter

A-308 A-308 A-309 A-309 A-310 A-310 A-311 A-313 A-314 A-316

A-328 A-328 A-329 A-330 A-332

27 Micoplasmi patogeni

per l’uomo Paola Rappelli, Pier Luigi Fiori Struttura e morfologia Epidemiologia e diffusione Patogenesi

M. pneumoniae I micoplasmi genitali Diagnosi Controllo delle infezioni

A-333 A-333 A-334 A-334

Giuseppe Miragliotta, Adriana Mosca Classificazione Helicobacter pylori Caratteristiche morfologiche e biochimiche Caratteristiche colturali Epidemiologia e trasmissione dell’infezione Patogenesi dell’infezione e malattie associate Diagnostica Sensibilità antibiotica e terapia

IX

A-335 A-335 A-336 A-337 A-338 A-338 A-339 A-339 A-340 A-341 A-342 A-342 A-343 A-343 A-344 A-346 A-346 A-347 A-347 A-348 A-348 A-349 A-349 A-350 A-351 A-351 A-352 A-352 A-354 A-354 A-354 A-354 A-355 A-355 A-355 A-357 A-357

X

Indice generale

31 Legionelle

Giuseppe Miragliotta, Adriana Mosca Classificazione Caratteristiche morfologiche e biochimiche Caratteristiche colturali Habitat Aspetti patogenetici: fattori di virulenza Quadri clinici Aspetti epidemiologici Diagnostica di laboratorio Sensibilità antibiotica

32 Microbiologia del cavo orale

Giovanna Batoni, Mario Campa L’ecosistema orale Acquisizione della flora orale La placca dentale: un perfetto esempio di biofilm Formazione del biofilm orale Interazioni microbiche nel biofilm orale Omeostasi microbica nella placca dentale Carie dentale e batteri cariogeni Principali gruppi di batteri associati alla carie dentale Determinanti di patogenicità dei batteri cariogeni Modello di sviluppo della carie: la successione batterica nella lesione cariosa Parodontopatie e batteri parodontopatogeni Principali batteri parodontopatogeni Determinanti di patogenicità dei batteri parodontopatogeni Infezioni dell’endodonto Generalità sulle infezioni micotiche del cavo orale Generalità sulle infezioni virali del cavo orale

33 Vaccini in Microbiologia medica Gianni Pozzi Storia naturale dell’infezione Tipi di vaccino Vaccini basati su microrganismi interi Vaccini basati su parti di microrganismi Vaccini a DNA Vaccini basati su vettori transgenici Principali vaccini contro le malattie batteriche

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A-358 A-358 A-358 A-359 A-359 A-360 A-361 A-361

Difterite Tetano Pertosse Tubercolosi Malattie da Haemophilus influenzae, tipo b (emofilo) Malattie da Streptococcus pneumoniae (pneumococco) Malattie da Neisseria meningitidis (meningococco)

A-388 A-389 A-389 A-389 A-389 A-389 A-390

A-362 A-362 A-363 A-363 A-365 A-366 A-367 A-368 A-369 A-370 A-371 A-373

A-375 A-377 A-378 A-381 A-383 A-384 A-385 A-386 A-386 A-387 A-387 A-388 A-388 A-388 A-388

B VIROLOGIA MEDICA

34 Introduzione alla Virologia Guido Antonelli, Massimo Clementi

B-1

35 Struttura e classificazione dei virus animali Elisabetta Riva Morfologia Simmetria cubico-icosaedrica Simmetria elicoidale Struttura del genoma Virus a RNA (ribovirus) Virus a DNA (deossiribovirus)

B-3 B-3 B-5 B-6 B-6 B-6 B-7

36 Replicazione dei virus ed effetti sulla cellula ospite Ombretta Turriziani Ciclo replicativo dei virus Adsorbimento Penetrazione Scapsidazione Espressione e replicazione del genoma Maturazione e liberazione Effetto della replicazione virale sulla cellula ospite Alterazioni morfologiche Alterazioni nella sintesi delle macromolecole cellulari Alterazione della composizione antigene Alterazione del controllo della proliferazione cellulare

B-10 B-10 B-10 B-12 B-13 B-14 B-19 B-21 B-21 B-22 B-22 B-23

37 Patogenesi delle infezioni virali Guido Antonelli, Massimo Clementi Modalità di trasmissione

B-24 B-24

Indice generale

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Eliminazione del virus dall’organismo Prima replicazione del virus e sua diffusione nell’organismo Danni provocati dall’infezione virale all’organismo ospite Potenziale patogeno, virulenza e persistenza Fattori cellulari e/o dell’ospite che influenzano la patogenesi delle malattie da virus Rapporto virus-organismo ospite Progressione clinica delle infezioni virali

38 Oncogenesi virale

Ombretta Turriziani Deossiribovirus oncogeni Poliomavirus e adenovirus Papillomavirus (HPV) Herpesvirus Virus dell’epatite B (HBV) Ribovirus oncogeni Retrovirus Virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 e 2 (HIV-1 e HIV-2) Virus dell’epatite C (HCV)

B-25 B-26 B-29 B-30

B-32 B-35 B-36 B-38 B-38 B-39 B-41 B-42 B-44 B-45 B-45 B-46 B-47

39 Meccanismi difensivi dell’ospite alle infezioni virali Nicasio Mancini Immunità innata Fase 1 - Riconoscimento di molecole estranee all’organismo da parte di cellule dell’immunità innata Fase 2 - Secrezione di citochine con reclutamento e maturazione di altre cellule dell’immunità innata e di cellule dell’immunità adattativa Sistema del complemento Immunità adattativa Immunità cellulo-mediata Immunità umorale Tipologie di infezioni e strategie virali di evasione della risposta immune Infezioni limitate nel tempo o acute Infezioni prolungate nel tempo o persistenti Esempi di meccanismi di evasione delle componenti innate del sistema immune Esempi di meccanismi di evasione

B-48 B-48

B-48

B-51 B-51 B-52 B-52 B-54 B-56 B-56 B-56

B-57

XI

della componente cellulo-mediata dell’immunità acquisita Esempi di meccanismi di evasione della componente umorale dell’immunità acquisita

40 Diagnosi delle infezioni virali Elisabetta Riva, Massimo Gentile Approccio generale alla diagnosi delle infezioni virali Ricerca diretta Metodi rapidi Isolamento virale Indagini sierologiche Saggi funzionali Saggi su membrana Saggi di legame Diagnosi di infezioni congenite e neonatali Conclusioni

B-58

B-58 B-60

B-60 B-61 B-61 B-70 B-73 B-74 B-75 B-75 B-76 B-77

41 Herpesviridae

(herpesvirus umani) Santo Landolfo Struttura degli herpesvirus Replicazione Virus herpes simplex (HSV-1, HSV-2) Proprietà del virus Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici Infezioni primarie Infezioni latenti Epidemiologia Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Terapia e profilassi Virus della varicella-zoster (VZV) Proprietà del virus Meccanismi immunopatogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Terapia e profilassi Virus di Epstein-Barr (EBV) Proprietà del virus: struttura e replicazione Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Terapia e profilassi Citomegalovirus (CMV) Proprietà del virus

B-78 B-78 B-79 B-81 B-81 B-82 B-82 B-83 B-83 B-84 B-84 B-85 B-87 B-87 B-88 B-88 B-88 B-90 B-91 B-91 B-91 B-92 B-92 B-93 B-95 B-95 B-96 B-96

XII

Indice generale

ISBN 978-88-08-18705-5

Meccanismi patogenetici e immunità Epidemiologia e manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Terapia e profilassi Herpesvirus umano 6 (HHV-6) Proprietà del virus Meccanismi patogenetici e immunità Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Herpesvirus umano 7 (HHV-7) Herpesvirus umano 8 (HHV-8) (Herpes virus associato al sarcoma di Kaposi) Herpesvirus animali di interesse medico

B-96 B-96 B-98 B-99

Bocavirus umano (BoV) Parvovirus 4 (PARV4) Bufavirus (BuPV)

B-99 B-99 B-99 B-99 B-100

44 Papillomaviridae

42 Adenoviridae

B-102

Stefano Menzo Classificazione Struttura Replicazione e interferenze con la biologia della cellula Adsorbimento e penetrazione Espressione dei geni precoci e interferenze con il ciclo cellulare Replicazione del genoma virale Espressione dei geni tardivi e assemblaggio dei virioni Interferenze con il sistema immunitario Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Manifestazioni a carico delle vie aeree Cheratocongiuntivite epidemica Infezioni enteriche Cistite emorragica Miocardite Infezioni in soggetti immunodepressi Diagnosi di laboratorio Terapia Vaccini e vettori adenovirali

43 Virus B19 e altri parvovirus Fabrizio Maggi Virus B19 Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Immunità Terapia Virus adeno-associati (VAA)

B-100 B-100 B-100

B-102 B-103 B-104 B-104 B-105 B-106 B-106 B-107 B-108 B-108 B-108 B-109 B-110 B-110 B-110 B-110 B-110 B-111 B-111 B-113 B-113 B-114 B-116 B-116 B-117 B-118 B-119 B-119 B-119

B-120 B-121 B-122

(papillomavirus umani) B-124 Marisa Gariglio Classificazione B-124 Struttura B-127 Replicazione B-128 Meccanismi patogenetici B-129 Manifestazioni cliniche B-131 Infezioni anogenitali esterne B-131 Infezioni dell’apparato genitale femminile B-131 Infezioni della cute B-132 Infezioni del distretto testa/collo B-132 Diagnosi di laboratorio B-133 Epidemiologia B-133 Terapia e profilassi B-134

45 Polyomaviridae

Roberta Rizzo, Dario Di Luca Classificazione Struttura del virione e del genoma Replicazione Patogenesi Sindromi cliniche BKPyV JCPyV MCPyV TSPyV WUPyV e KIPyV Epidemiologia Poliomavirus umani e neoplasie umane Diagnosi di laboratorio Terapia Poliomavirus SV40

46 Poxviridae

Maria Grazia Cusi Classificazione Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici Poxvirus causa di malattia nell’uomo Vaiolo umano e malattia da virus vaccinico Mollusco contagioso Altri poxvirus d’interesse umano

B-136 B-136 B-136 B-137 B-139 B-140 B-140 B-140 B-140 B-141 B-141 B-141 B-141 B-142 B-142 B-142 B-144 B-144 B-145 B-146 B-147 B-148 B-148 B-149 B-149

Indice generale

ISBN 978-88-08-18705-5

Diagnosi di laboratorio Terapia e profilassi Poxvirus come vettori virali per prevenzione e terapia

47 Anellovirus e virus simili

Fabrizio Maggi Torquetenovirus (TTV) Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici - Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia - Immunità Torquetenomidi virus (TTMDV) Torquetenomini virus (TTMV) Virus simili agli anellovirus

B-150 B-150 B-150 B-152 B-152 B-153 B-154 B-154 B-155 B-156 B-156 B-157 B-157

48 Orthomyxoviridae - virus

dell’influenza Guido Antonelli Classificazione e tipi Struttura e morfologia Replicazione Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione – Immunità Diagnosi di laboratorio Epidemiologia Antigenic drift Antigenic shift Influenza aviaria Terapia e profilassi Vaccini Thogotovirus

49 Paramyxoviridae

Mauro Pistello, Maria Grazia Cusi Classificazione Struttura Replicazione Virus parainfluenzali Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Immunità Terapia Virus respiratorio sinciziale Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione

B-159 B-159 B-160 B-161 B-163 B-164 B-165 B-165 B-166 B-167 B-168 B-169 B-170 B-171 B-171 B-172 B-175 B-176 B-176 B-177 B-177 B-177 B-178 B-178

Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Immunità Terapia Metapneumovirus Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Immunità Terapia Virus del morbillo Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Immunità Terapia Virus della parotite Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Immunità Terapia Virus Hendra e Nipah Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia - Immunità Terapia

50 Reoviridae

Rossana Cavallo, Cristina Costa Rotavirus Classificazione e tipi Struttura e morfologia Replicazione Orthoreovirus Classificazione e tipi Struttura e morfologia Replicazione Coltivirus Seadornavirus Orbivirus

51 Flaviviridae

Massimo Clementi, Aldo Manzin Virus dell’epatite C (HCV) Struttura del virione e organizzazione del genoma Proteine del virus Ciclo replicativo Variabilità genetica

XIII

B-178 B-178 B-180 B-180 B-180 B-180 B-180 B-181 B-181 B-181 B-183 B-183 B-184 B-184 B-184 B-185 B-186 B-186 B-186 B-186 B-187 B-187 B-187 B-188 B-189 B-189 B-190 B-191 B-195 B-195 B-195 B-196 B-197 B-198 B-199 B-200 B-200 B-201 B-202 B-202 B-203

XIV

Indice generale

Virus GBV-C (virus dell’epatite G, HGV) Flavivirus Virus della febbre gialla Virus Dengue West Nile Disease Virus Virus dell’encefalite di St. Louis, virus dell’encefalite giapponese e virus dell’encefalite di Murray Valley Virus Zika

52 Caliciviridae

Rossana Cavallo, Cristina Costa Norovirus Classificazione e tipi Struttura e morfologia Replicazione Sapovirus

53 Coronaviridae

Massimo Clementi Classificazione Struttura Strategia replicativa e proteine virali Malattie umane da coronavirus Diffusione dei coronavirus attraverso il passaggio tra specie diverse Patogenesi delle infezioni da Sars-CoV e Mers-CoV Diagnosi e trattamento delle infezioni severe da coronavirus Preparare il mondo all’emergenza i nuovi virus patogeni

54 Togaviridae

Patrizia Bagnarelli Classificazione Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia - Vaccini

55 Picornaviridae Alessandra Pierangeli Classificazione Struttura

ISBN 978-88-08-18705-5

B-211 B-211 B-212 B-212 B-213

B-214 B-215 B-217 B-217 B-217 B-218 B-219 B-222 B-224 B-225 B-226 B-227 B-228 B-229 B-230 B-230 B-230 B-232 B-232 B-232 B-233 B-236 B-238 B-239 B-240 B-240 B-240

Replicazione Enterovirus Poliovirus Enterovirus non-polio Rinovirus Meccanismi patogenetici Epidemiologia, diagnosi e terapia Hepatovirus Meccanismi patogenetici Epidemiologia, diagnosi e profilassi

56 Rhabdoviridae

Filippo Canducci Classificazione Struttura Replicazione Trasmissione e patogenesi Manifestazioni cliniche nell’uomo Diagnosi Aspetti epidemiologici Controllo, profilassi e trattamento

57 Arenaviridae

Concetta Ilenia Palermo, Guido Scalia Classificazione e tipi Struttura e morfologia Replicazione Patogenesi e manifestazioni cliniche – Patogenicità Lassa virus Virus della coriomeningite linfocitaria Junin virus Machupo, Guanarito, Sabia Epidemiologia Diagnosi Terapia e profilassi

58 Bunyaviridae

Concetta Ilenia Palermo, Guido Scalia Classificazione bunyavirus Struttura e morfologia Replicazione Patogenesi e manifestazioni cliniche – Patogenicità Trasmissione ed epidemiologia Diagnosi Terapia e profilassi

B-241 B-243 B-243 B-246 B-248 B-249 B-250 B-250 B-250 B-251 B-253 B-253 B-254 B-256 B-258 B-259 B-260 B-260 B-261 B-263 B-263 B-264 B-266 B-267 B-267 B-267 B-268 B-268 B-268 B-268 B-269 B-271 B-271 B-272 B-274 B-275 B-276 B-276 B-277

Indice generale

ISBN 978-88-08-18705-5

59 Filovirus

Guido Antonelli, Fabrizio Maggi Classificazione Virus Ebola (EBOV) Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici – Immunità – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia – Controllo Virus di Marburg (MARV)

60 Hepeviridae

Patrizia Bagnarelli Classificazione Morfologia e struttura Replicazione Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Diagnosi di laboratorio Epidemiologia Terapia e profilassi - Vaccini

61 Astroviridae

Roberta Rizzo, Dario Di Luca Classificazione Struttura del virione e genoma Replicazione Patogenesi Epidemiologia Diagnosi di laboratorio Terapia

B-278 B-278 B-278 B-278 B-280 B-280 B-282 B-283 B-284 B-286 B-287 B-288 B-289 B-290 B-292 B-293 B-295 B-296 B-296 B-297 B-298 B-298 B-300 B-300 B-301

62 Retroviridae: classificazione e HTLV Maria Carla Re Retroviridae Classificazione HTLV-1 e HTLV-2 Classificazione Struttura e morfologia Replicazione Variabilità genetica Epidemiologia Trasmissione Patologie associate a HTLV-1 HTLV-1 e HAM/TPS Patologie associate a HTLV-2

B-303 B-303 B-303 B-304 B-304 B-305 B-307 B-308 B-309 B-309 B-309 B-310 B-310

Diagnosi Terapia e vaccini

XV

B-311 B-311

63 Lentivirus di interesse umano: HIV-1 e -2 Carlo Federico Perno, Emanuela Balestra Classificazione Struttura e morfologia Genoma e proteine Geni regolatori Tropismo cellulare e recettori virali Replicazione Adsorbimento e penetrazione Trascrizione dell’RNA in DNA Integrazione del DNA Sintesi delle proteine - Maturazione dei virioni Patogenesi Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia Terapia Farmaco-resistenza e monitoraggio dei pazienti Vaccini

64 Hepadnaviridae

Massimo Clementi Struttura Organizzazione del genoma e proteine virali Replicazione Varianti virali Patogenesi HBV e carcinoma primitivo del fegato Manifestazioni cliniche e diagnosi virologica Infezione da HBV a basso livello replicativo e infezione “occulta” da HBV Il vaccino contro l’infezione da HBV Terapia dell’infezione da HBV

65 Viroidi e virus dell’epatite D Aldo Manzin Virus dell’epatite D (HDV) Struttura del virione e organizzazione del genoma Ciclo replicativo

B-312 B-312 B-313 B-314 B-318 B-320 B-322 B-323 B-324 B-325 B-325 B-326 B-327 B-328 B-330 B-332 B-334 B-337 B-339 B-341 B-342 B-343 B-344 B-345 B-346 B-346 B-347 B-348 B-348 B-349 B-351 B-351 B-352 B-353

XVI

Indice generale

Patogenesi e immunità - manifestazioni cliniche Epidemiologia Diagnosi Trattamento

66 Prioni

Maurizio Pocchiari Classificazione Struttura Replicazione Meccanismi patogenetici Manifestazioni cliniche Principali EST animali Malattia cronica debilitante dei cervidi Malattia di Creutzfeldt-Jakob e altre EST dell’uomo Diagnosi Epidemiologia Cenni di terapia Immunità e vaccini

67 Farmaci antivirali

Guido Antonelli, Ombretta Turriziani Inibitori dell’entrata Inibitori della fusione Inibitori dei corecettori Inibitori della scapsidazione Amantadina Rimantadina Inibitori della sintesi degli acidi nucleici virali Inibitori della DNA polimerasi virale Inibitori della trascrittasi inversa (RT) Inibitori della RNA polimerasi-RNA dipendente (RpRd) Inibitori dell’integrasi Inibitori delle proteasi Inibitori del rilascio Nuovi bersagli della terapia antivirale Resistenza ai farmaci e terapia combinata Altri tipi di intervento

68 Sistema interferon

Guido Antonelli, Carolina Scagnolari Proprietà del sistema IFN Induzione dell’IFN

ISBN 978-88-08-18705-5

B-357

Meccanismo d’azione dell’IFN Meccanismi di evasione dal sistema IFN IFN e immunità Applicazioni terapeutiche del sistema IFN

B-359

69 Vaccini antivirali

B-355 B-356 B-356

B-359 B-359 B-359 B-360 B-362 B-362 B-363 B-363 B-364 B-365 B-366 B-367 B-369 B-370 B-370 B-370 B-371 B-371 B-371 B-371 B-371 B-373

Nicasio Mancini I vaccini a virus attenuato I vaccini a virus inattivato L’ingegneria genetica e i vaccini Vaccini epitope-based Principali vaccini antivirali in uso Vaccino anti-morbillo, anti-parotite, anti-rosolia e antivaricella (MPRV) Vaccino anti-poliomielite Vaccino anti-epatite A Vaccino anti-influenza Vaccino anti-epatite B Vaccino anti-rotavirus Vaccino anti-papillomavirus

B-382 B-385 B-386 B-387 B-390 B-391 B-392 B-393 B-394 B-395 B-395 B-395 B-398 B-398 B-399 B-399 B-400

70 Vettori virali nelle biotecnologie mediche Mauro Pistello Vettori retrovirali e lentivirali Vettori retrovirali Vettori lentivirali Vettori adenovirali Vettori adeno-associati Vettori erpetici Vettori poxvirali Vettori da altri virus Applicazione e prospettive dei vettori virali in campo biomedico

B-401 B-401 B-401 B-405 B-407 B-409 B-410 B-411 B-411 B-412

B-375 B-375 B-376 B-377 B-377 B-377 B-378 B-379 B-379 B-381

C MICOLOGIA MEDICA

71 Micologia generale

Maurizio Sanguinetti, Brunella Posteraro Generalità sui funghi Riproduzione dei funghi Classificazione dei funghi Cellula fungina Parete cellulare Ecologia, patogenicità e virulenza dei funghi

C-1 C-1 C-3 C-6 C-10 C-11 C-14

Indice generale

ISBN 978-88-08-18705-5

72 Micologia speciale Maurizio Sanguinetti, Brunella Posteraro Classificazione delle micosi Micosi superficiali Micosi cutanee Micosi sottocutanee Micosi profonde Istoplasmosi Morfologia e identificazione di Histoplasma capsulatum Patogenesi e sindromi cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, prevenzione e controllo Coccidioidomicosi Morfologia e identificazione di Coccidioides Patogenesi e sindromi cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, prevenzione e controllo Criptococcosi Morfologia e identificazione di Cryptococcus neoformans Patogenesi e sindromi cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, prevenzione e controllo Candidosi Morfologia e identificazione di Candida Patogenesi e sindromi cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, prevenzione e controllo Aspergillosi Morfologia e identificazione di Aspergillus Patogenesi e sindromi cliniche Diagnosi di laboratorio Epidemiologia, prevenzione e controllo

73 Farmaci antifungini Giulia Morace, Elisa Borghi Meccanismo d’azione Antifungini sistemici Echinocandine Polieni (Tri)azoli 5-Fluorocitosina Determinazione in vitro dell’attività dei farmaci antifungini e interpretazione dei risultati Farmaco-resistenza e biofilm

C-20 C-20 C-20 C-21 C-23 C-23 C-25 C-25 C-26 C-27 C-28 C-28 C-29 C-29 C-30 C-30 C-31 C-31 C-33 C-34 C-35 C-35 C-36 C-36 C-38 C-39 C-39 C-40 C-40 C-44 C-44 C-46 C-46 C-47 C-47 C-48 C-49 C-50

C-51 C-51

XVII

D PARASSITOLOGIA MEDICA

74 Parassitologia

David Modiano, Vincenzo Petrarca, Fabrizio Lombardo Generalità sui parassiti Protozoi Protozoi intestinali e uro-genitali Amebiasi o “dissenteria amebica” Giardiasi Criptosporidiosi Tricomoniasi Protozoi tissutali: emoflagellati (Leishmania e Trypanosoma) Leishmaniosi cutanea e viscerale Tripanosomiasi africana o “malattia del sonno” Tripanosomiasi americana o “morbo di Chagas” Toxoplasmosi Malaria Metazoi Elminti intestinali Clonorchiasi e opistorchiasi Teniasi Nematodi intestinali Tricuriasi Ascaridiosi Anchilostomiasi Ossiuriasi (“verme dei bambini”) Elminti tissutali Schistosomiasi intestinale da Schistosoma mansoni e schistosomiasi vescicale da Schistosoma haematobium Idatidosi da Echinococcus granulosus Nematodi tissutali Elefantiasi tropicale da Wuchereria bancrofti e Brugia malayi Oncocercosi o “cecità fluviale” da Onchocerca volvulus Dracunculosi da Dracunculus medinensis (“verme di Guinea”) Trichinellosi da specie del genere Trichinella Artropodi Chelicerati Ordine Acarini Zecche dure Zecche molli Scabbia da Sarcoptes scabiei

D-1

D-1 D-3 D-3 D-3 D-6 D-8 D-11 D-12 D-13 D-16 D-18 D-20 D-24 D-32 D-34 D-34 D-35 D-38 D-38 D-40 D-41 D-43 D-45

D-45 D-48 D-50 D-51 D-52 D-54 D-56 D-58 D-58 D-58 D-58 D-59 D-59

XVIII

Indice generale

Insetti Pediculosi Pulci Tunga penetrans Cimici Ditteri Ditteri Nematoceri Zanzare Ditteri Brachiceri Tafani Mosche

ISBN 978-88-08-18705-5

D-61 D-61 D-64 D-65 D-65 D-65 D-65 D-65 D-67 D-67 D-68

E APPENDICE

75 Microbi e microbiologi ieri e oggi:

la storia della Microbiologia Giuseppe Cornaglia Centralità della Microbiologia Dall’epoca classica al Medioevo Dal Rinascimento alle prime evidenze sperimentali Dal secolo dei lumi al secolo della Microbiologia L’affermarsi della teoria dei germi Il secolo della chemioterapia

E-1 E-1 E-1 E-2 E-3 E-4 E-4

L’avvento della doppia elica e della biologia molecolare Il turno dei virus Nuove tecniche, nuovi microrganismi One Health, once again Storia dei microrganismi e storia dell’uomo

E-10

76 Sterilizzazione e disinfezione

E-11

Carlo Zagaglia, Daniela Scribano Sterilizzazione Sterilizzazione mediante calore Controlli di sterilizzazione in autoclave Pastorizzazione Filtrazione Radiazioni Disinfezione Principali disinfettanti e antisettici

E-5 E-6 E-7 E-7

E-11 E-11 E-16 E-16 E-17 E-17 E-18 E-20

77 Emergenza e riemergenza

dei microrganismi patogeni e delle malattie infettive Guido Antonelli, Massimo Clementi Fonti iconografiche Indice analitico

E-24

F-1 F-3

Prefazione alla terza edizione

La terza edizione di Principi di Microbiologia Medica, che vede la luce a circa cinque anni dalla precedente edizione, si presenta fortemente rinnovata. La revisione ha riguardato, anche se in misura diversa, tutte le sezioni in cui è articolato il volume: Batteriologia, Virologia, Micologia e Parassitologia. È stata aggiunta inoltre un’appendice su argomenti di grande rilevanza in ambito microbiologico che spesso non trovano spazio nei programmi di Microbiologia svolti nelle Università italiane. La revisione del testo è rispettosa dell’avanzamento tumultuoso delle conoscenze in ambito microbiologico; inoltre è stata guidata, in questo caso più che nelle stesure precedenti, dalla consapevolezza che la Microbiologia medica è sempre più una disciplina dinamica, in continua evoluzione, anche metodologica e tecnologica, che mantiene e rafforza il rapporto diretto con le discipline cliniche. Nella revisione si è cercato di accentuare, oltre l’azione divulgativa, l’azione formativa della trattazione al fine di ovviare, per quanto possibile, al limite odierno dei testi universitari, che raramente riescono a rappresentare il punto di riferimento assoluto per una disciplina. Anche la terza edizione è caratterizzata da un elevato numero di autori e collaboratori, rappresentanti di una vasta e variegata componente della microbiologia italiana. Tale caratteristica, oltre ad essere garanzia di multidisciplinarietà e di aggiornamento puntuale (di fatto, ove possibile, abbiamo cercato di assegnare i capitoli ai diversi autori sulla base della loro esperienza specifica), rappresenta motivo di grande soddisfazione per noi curatori perché crediamo di aver suscitato l’interesse di diverse componenti della microbiologia italiana intorno a un progetto comune. Ai vari Autori e Collaboratori (a cui va il nostro sentito riconoscimento) deve essere interamente attribuito quanto di nuovo e migliorato il lettore troverà in questa terza edizione. È doveroso anche un ringraziamento ai Docenti che nelle varie università italiane hanno manifestato negli anni passati un lusinghiero interesse per il nostro testo e agli Studenti che, con il loro apprezzamento, ci hanno spinto a impegnarci ancora nel lavoro di revisione. Un ringraziamento e un riconoscimento particolare, infine, all’Editore per averci esortato con determinazione a curare la nuova edizione e per l’impegno editoriale rilevante che ha consentito in breve tempo un sostanziale rinnovamento strutturale del volume con una veste tipografica sempre più funzionale e piacevole. Settembre 2017 Guido Antonelli Massimo Clementi Gianni Pozzi Gian Maria Rossolini

Introduzione alla Microbiologia medica La finalità di questo testo è essenzialmente di aiuto alla didattica e vuole proporsi come supporto alla preparazione microbiologica dello studente dei corsi della Facoltà di Medicina e Chirurgia. La Microbiologia è la scienza che studia i microrganismi (dal greco micros, piccolo, e bios, vita). Per ragioni pratiche, dalla Microbiologia sono gemmate, nel tempo, branche specialistiche che sono sempre più cresciute fino a diventare discipline indipendenti: è possibile oggi distinguere una Microbiologia agro-alimentare, una Microbiologia veterinaria, una Microbiologia industriale, una Microbiologia ambientale e, ovviamente, una Microbiologia medica, la vasta disciplina che rappresenta l’oggetto di questo testo. La Microbiologia medica affronta i temi dei microrganismi patogeni per l’uomo e si articola, a sua volta e in relazione ai tipi di microrganismi studiati, in Batteriologia medica (la disciplina che studia i microrganismi procariotici patogeni per l’uomo), Virologia medica (i virus), Micologia medica (i miceti patogeni) e Parassitologia medica (i parassiti). La Microbiologia medica è oggi una scienza matura ed evoluta in tutti i suoi aspetti. Come per molte altre discipline che si sono sviluppate negli ultimi decenni, il percorso attraverso cui questo evento di crescita si è realizzato è stato forse difforme per i diversi settori che la costituiscono. Malgrado ciò, soprattutto nell’era della medicina molecolare, si è reso vieppiù evidente (in particolare nell’approccio medico), il comune filo conduttore sotteso a tutta la Microbiologia medica. A questo particolare aspetto, che è un elemento caratterizzante della moderna Microbiologia medica, il presente testo ha voluto dare ampia visibilità, cercando di integrare i contributi di scuole e realtà diverse della Microbiologia medica italiana. Il testo è rivolto alla preparazione microbiologica dello studente di Medicina e ha mantenuto un’organizzazione generale di tipo tradizionale. Tuttavia, in linea con le più recenti esigenze didattiche e formative, si è scelto di conferire un taglio più diretto allo studio dei diversi patogeni, anche finalizzando maggiormente le parti definite di Microbiologia generale, rispetto ai testi per studenti di un recente passato. Gli aspetti generali sono stati infatti ridotti all’essenziale, cercando di offrire una visione conoscitiva e applicativa con l’obiettivo di fornire uno strumento concreto alla didattica microbiologica, piuttosto che di produrre l’ennesimo dotto trattato. È indubbio che la Microbiologia medica si sia particolarmente arricchita quando ha utilizzato gli strumenti della Biologia molecolare, della Genetica e dell’Ingegneria genetica per crescere verso nuovi obiettivi. A questi aspetti, che hanno portato a una revisione importante della disciplina (revisione tuttora in corso), viene dedicato in tutto il testo uno spazio molto ampio che può aiutare nella comprensione dell’importanza dello studio dei determinanti di patogenicità, delle interazioni microrganismo-ospite e della risposta immune per definire le strategie diagnostiche, terapeutiche e preventive che competono al medico o al professionista in ambito sanitario. Guido Antonelli Massimo Clementi Gianni Pozzi Gian Maria Rossolini

A

BATTERIOLOGIA MEDICA

Capitolo

1

Classificazione dei batteri

L’origine della vita risale a circa 4 miliardi di anni or sono. L’inizio è stato caratterizzato dalla comparsa dei procarioti, gli organismi unicellulari più semplici. Le successive fasi evolutive dei procarioti, degli eucarioti unicellulari e poi degli eucarioti multicellulari rappresentano il problema biologico più affascinante e difficile da risolvere. La classificazione tassonomica degli organismi monocellulari e dei loro rapporti evolutivi ha contribuito in maniera determinante a delineare la comparsa e la diffusione dei viventi sulla Terra. La tassonomia degli organismi viventi è quella parte della scienza che si occupa di ordinare in modo sistematico e di denominare in maniera univoca gli organismi biologici. Gli organismi sono stati suddivisi tradizionalmente in cinque Regni (linee evolutive) in base alle loro proprietà fenotipiche. Gli studi molecolari degli ultimi decenni – e in particolare quelli sulla struttura dei geni dell’RNA della subunità piccola dei ribosomi – non hanno però confermato l’esistenza di cinque linee evolutive fondamentali. Oggi gli organismi viventi vengono suddivisi in tre sole linee evolutive (denominate domini), che sono rappresentate nell’albero filogenetico di figura 1.1. Due domini raggruppano i procarioti (Bacteria, Archaea), uno gli eucarioti (Eukarya). Le differenze tra batteri, archeobatteri ed eucarioti sono riassunte in tabella 1.1.

BACTERIA

Spirochaetes

ARCHAEA

EUKARYA

Muffe mucillaginose acellulari

Chloroflexi Actinobacteria

Planctomycetes

Firmicutes

Muffe mucillaginose cellulari Alghe rosse

Euryarchaeota

Verrucomicrobia Chlamydiae

• Procarioti ed eucarioti • Tassonomia, i tre domini: Bacteria, Archaea e Eukarya • Colorazione di Gram • Classificazione: Phylum, Classe, Ordine, Famiglia, Genere, Specie • Fenotipo e genotipo

Crenarchaeota

Animali Entamebe

Funghi Piante

Cyanobacteria Proteobacteria

Eteroconti Korarchaeota

Chlorobi

Ciliati, Dinoflagellati

Bacteroidetes

Ameboflagellati

Deinococci Thermotogae Aquificae

Parabasalidi Microsporadi Diplomonadi

Figura 1.1 Albero filogenetico universale ottenuto mediante l’analisi delle sequenze dell’RNA ribosomiale. La radice dell’albero rappresenta la posizione dell’ipotetico precursore universale dei tre domini.

A

2

Batteriologia medica

ISBN 978-88-08-18705-5

Tabella 1.1 Proprietà differenziali degli organismi dei domini Bacteria, Archaea ed Eukarya.

Bacteria

Archaea

Eukarya

Unicellulari

Unicellulari

Unicellulari e multicellulari

Assenza di nucleo circondato da membrana

Assenza di nucleo circondato da membrana

Nucleo avvolto dalla membrana nucleare

Cromosoma circolare

Cromosoma circolare

Cromosoma lineare

Presenza di plasmidi come genoma accessorio

Presenza di plasmidi come genoma accessorio

Assenza di plasmidi

Assenza di proteine associate al cromosoma

Istoni associati al cromosoma

Istoni associati al cromosoma

Lipidi della membrana: glicerolo legato ad acidi grassi lineari

Lipidi della membrana: glicerolo legato ad acidi grassi ramificati

Lipidi della membrana: glicerolo legato ad acidi grassi lineari e presenza di steroli

Peptidoglicano nella parete cellulare

Assenza di peptidoglicano nella parete cellulare

Assenza di peptidoglicano. Quando presente, la parete è formata da chitina (funghi) o da cellulosa (piante)

Inizio della traduzione: formilmetionina

Inizio della traduzione: metionina

Inizio della traduzione: metionina

Habitat ubiquitario

Habitat ubiquitario inclusi gli ambienti estremi

Habitat ubiquitario

Questi tre domini rappresentano il livello più alto della classificazione degli organismi. Ogni dominio è suddiviso in diversi phyla (singolare phylum). La maggior parte dei Bacteria è stata classificata in base a proprietà morfologiche, fisiologiche e metaboliche. Nell’albero filogenetico di figura 1.1 sono riportati solo alcuni degli almeno cinquanta phyla dei Bacteria. Il dominio Archaea contiene invece solo tre phyla: Crenarchaeota, Euryarchaeota, Korarchaeota. Gli Archaea sono microrganismi ambientali e questo domino non contiene alcun patogeno noto. Tracce di rRNA 16S appartenente a tutto il phylum Korarchaeota e a molti microrganismi del phylum Crenarchaeota sono state trovate nelle localizzazioni ambientali più diverse (oceani, laghi, suolo, ghiacci dell’Antartide). I rami del dominio Eukarya suggeriscono che in questi esseri viventi il processo evolutivo sia avvenuto attraverso molte tappe diverse. Oggi si ritiene che gli Eukarya siano organismi derivati dalla fusione di Bacteria e Archaea diversi. In altre parole, gli eucarioti contengono nel loro genoma geni originariamente propri dei Bacteria e degli Archaea. In particolare, gli Archaea hanno contribuito con caratteri implicati nei meccanismi genetici e i Bacteria con alcuni di quelli implicati nei processi metabolici. Nel corso dell’evoluzione è anche probabile che i Bacteria, gli Archaea e gli Eukarya si siano sviluppati ed evoluti col contributo di altri ipotetici tipi cellulari che oggi, forse, sono estinti oppure non sono stati ancora identificati. È anche noto che motore dell’evoluzione sono due forze genetiche:

• il trasferimento verticale di geni da una generazione all’altra, nel corso del quale sono attivi diversi meccanismi di variazione (mutazione, ricombinazione, riproduzione sessuata); • il trasferimento orizzontale di porzioni genomiche, un fenomeno che è stato particolarmente studiato nei Bacteria.

Capitolo 1 • Classificazione dei batteri

ISBN 978-88-08-18705-5

3

All’interno di ogni dominio si definiscono, in ordine gerarchico, una serie di raggruppamenti stabiliti in base alla comunanza di caratteri genotipici e fenotipici:

• • • • • •

Phylum Classe Ordine Famiglia Genere Specie.

In figura 1.2 si riporta, a titolo di esempio, un’immagine e la classificazione del batterio Treponema pallidum, un importante patogeno umano, agente eziologico della sifilide. La specie rappresenta “un insieme monofiletico e coerente di organismi individuali che possiedono un grado elevato di omologia in numerose caratteristiche indipendenti e che è definibile sulla base di proprietà fenotipiche discriminanti”. Questa definizione di specie è universalmente applicabile ai procarioti. Il concetto di specie si è evoluto di pari passo con la disponibilità di tecnologie che hanno consentito di indagare i più diversi organismi. I metodi di indagine più utilizzati in batteriologia sono rappresentati dalla microscopia, dalla biochimica, dall’immunologia, dalla fisica e dalla genetica. Le capacità di queste tecnologie vengono oggi potenziate dall’uso degli strumenti informatici. È chiaro che una definizione precisa degli organismi sia a livello di specie che delle varianti di ciascuna specie (sottospecie, ceppo) si può raggiungere solo impiegando più metodi di studio. Per definire ogni singola specie è pertanto necessario utilizzare sia dati fenotipici (morfologia, proprietà fisiologiche e biochimiche ecc.) sia dati genetici. In ogni specie si possono poi identificare varianti genetiche diverse che, a seconda del fine classificativo, vengono denominate Biovar, Serovar, Patovar, Genomovar ecc. Il criterio più comune di classificazione batterica è basato sull’esame di caratteristiche morfologiche e di colorazione (forma, presenza o assenza di spore, mobilità, colorazione gram-positiva o gram-negativa). Questa classificazione fenotipica ha svolto un ruolo importante nell’identificazione dei principali patogeni umani, anche se non consente di definire i reali livelli di somiglianza tra batteri diversi. Nel 1987 una Commissione Internazionale per la Sistematica dei Batteri ha riconosciuto che sarebbe estremamente utile conoscere la sequenza dell’intero genoma batterico per definire una specie, e con l’avvento delle tecnologie di next-generation sequencing questo approccio è sempre più utilizzato per la revisione della tassonomia batterica. Per caratterizzare isolati batterici nuovi o difficili da identificare, i dati di tassonomia convenzionale vengono oggi integrati con i risultati del sequenziamento dell’rRNA 16S. I termini chemotassonomia e tassonomia molecolare indicano i metodi biochimici e i metodi genetici utilizzati per la classificazione dei batteri.

Dominio

Bacteria

Phylum

Spirochaetes

Classe

Spirochaetes

Ordine

Spirochaetales

Famiglia

Treponemataceae

Genere

Treponema

Specie

pallidum

Figura 1.2 Esempio di classificazione batterica: Treponema pallidum. Nomenclatura binomiale. (Immagine CDC/Dr. Edwin P. Ewing Jr., PHIL 836, 1986.)

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Batteriologia medica

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1.1 - Tassonomia convenzionale (fenotipica) I metodi fenotipici includono tutto ciò che non prevede l’analisi del DNA o dell’RNA, quindi anche la chemotassonomia. Mentre le classificazioni genetiche permettono di disegnare un albero filogenetico basato sul grado di somiglianza genetica, le classificazioni fenotipiche consentono solo di definire schemi classificatori. Le caratteristiche fenotipiche che vengono prese in considerazione comprendono aspetti:

• • • • •

morfologici fisiologici biochimici fisici immunologici.

Gli aspetti morfologici sono rappresentati da proprietà delle cellule (forma, endospore, flagelli, mobilità) e delle colonie batteriche (colore, dimensione). La più semplice distinzione dei batteri si basa sulla struttura della parete, che è diversa nei gram-positivi e nei gram-negativi. Con il metodo di Gram, i coloranti utilizzati nella prima fase della colorazione (violetto di Genziana e iodio di Gram) formano un complesso con i ribonucleotidi intracellulari. Dopo lavaggio con etanolo al 70%, questi complessi vengono estratti dai batteri gram-negativi ma non dai gram-positivi: i gram-positivi pertanto restano violetti, i gram-negativi invece perdono il complesso, si decolorano e assumono il colorante di contrasto che viene applicato successivamente (safranina) e che li fa apparire rossi. Gli aspetti fisiologici e biochimici sono rappresentati, ad esempio, da temperatura e pH ottimali per la crescita, concentrazioni di sali tollerabili dal batterio, fonti di carbonio utilizzate, zuccheri fermentati od ossidati, attività enzimatiche espresse, fattori di patogenicità prodotti (adesine, tossine, esoenzimi), sensibilità ai farmaci antibatterici, relazioni di simbiosi. Figura 1.3 Esempio di procedura per l’identificazione fenotipica di Escherichia coli.

Isolamento di batteri dall’intestino umano

Coltura pura

Colorazione di Gram

Gram-negativi

Non bacilli

Gram-positivi

Bacilli

Anaerobio obbligato

Fermenta il lattosio con produzione di acido e/o gas

Test biochimici

Escherichia coli

Aerobio

Non fermenta il lattosio

Capitolo 1 • Classificazione dei batteri

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Figura 1.4 Contenuto di guanina e citosina in organismi diversi appartenenti ai procarioti o agli eucarioti.

Eucarioti

Protozoa Fungi Algae Plantae Animalia

Procarioti

5

Archaea Bacteria 0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

% G+C

Le proprietà immunologiche si riferiscono agli antigeni superficiali espressi da un certo batterio, all’antigenicità dei fattori di adesione e a quella delle tossine prodotte. Molto spesso gli organismi con alta somiglianza fenotipica hanno anche alta omologia di sequenza del DNA. Come riportato in figura 1.3, l’identificazione fenotipica si ottiene applicando in successione una serie di criteri che vengono interpretati in maniera dicotomica (cioè risultato positivo o negativo del test). Nella tassonomia convenzionale viene anche determinata la percentuale delle basi azotate citosina e guanina presenti nel DNA dell’organismo studiato. Tale determinazione – ottenuta con metodi chimici che individuano la quantità dei diversi nucleotidi nel DNA cellulare purificato – prende il nome di GC ratio. Due organismi appartenenti alla stessa specie devono presentare un contenuto equivalente di GC e un’omologia di sequenza del DNA di almeno il 70%. L’analisi del contenuto di GC nel DNA (diverso nei diversi gruppi di organismi come mostrato in figura 1.4) consente di elaborare alcune generalizzazioni:

• organismi con fenotipi simili molto spesso, ma non sempre, hanno anche una percentuale simile di GC;

• due organismi possono sembrare strettamente correlati dal punto di vista fenotipico, ma non esserlo dal punto di vista del contenuto di GC;

• anche se due organismi hanno la stessa percentuale di GC è possibile che non siano correlati né tassonomicamente né filogeneticamente, a causa della straordinaria variabilità della composizione del DNA.

Metodi chimici: analisi di costituenti batterici L’analisi chimica consente di caratterizzare diversi componenti batterici. È ad esempio possibile identificare peptidoglicani diversi e acidi teicoici diversi nella parete dei batteri gram-positivi, paragonare le proteine cellulari mediante elettroforesi su gel, identificare i polisaccaridi della capsula batterica, identificare i lipidi della membrana cellulare, identificare gli acidi grassi presenti nella parete dei micobatteri e nel lipopolisaccaride dei batteri gram-negativi. Quest’ultimo tipo di analisi consente di riconoscere le diverse specie di micobatteri, dato che in questi batteri la struttura degli acidi grassi è molto variabile. Una volta estratti, gli esteri metilici degli acidi grassi vengono identificati mediante cromatografia gassosa (fig. 1.5).

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Batteriologia medica

Figura 1.5 Acidi grassi e loro analisi mediante cromatografia gassosa.

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Classe Saturo Insaturo Ciclopropano Ramificato Idrossi

ESEMPIO Acido tetradecanoico Omega-7-cis exadecanoico Cis 7-8 metil exadecanoico 13-metiltetradecanoico 3-idrossitetradecanoico

Cellule da coltura batterica

Estrazione degli acidi grassi

Esterificazione

Cromatografia

Confronto dei pattern ottenuti con quelli dei database

Identificazione

Test biochimici per l’identificazione batterica L’identificazione batterica a livello di genere e di specie richiede esperienza, conoscenze specifiche e intuizione. In questo settore è particolarmente importante l’uso di batterie di test biochimici che sono state selezionate dai batteriologi per i diversi “gruppi tassonomici”. Questi test evidenziano attività metaboliche o enzimatiche diverse. I risultati dei test biochimici vengono valutati mediante chiavi dicotomiche di interpretazione e i “pattern biochimici” prodotti dal batterio ignoto vengono paragonati a quelli prodotti da batteri noti dei diversi generi e specie. Database costantemente aggiornati consentono una veloce integrazione dei pattern biochimici, facilitando l’identificazione.

Test fisici La spettrometria di massa con tecnologia MALDI-TOF (Matrix Assisted Laser Desorption Ionization - Time-of-Flight) esamina gruppi di proteine rilevate direttamente nei batteri tramite la ionizzazione laser e la successiva immissione nel tubo di volo dello spettrometro di massa di una miscela composta da proteine batteriche e da un altro composto, chiamato matrice. La miscela viene applicata su una piastrina metallica e ionizzata in seguito a irradiazione con un laser. La matrice assorbe la luce laser e vaporizza insieme al campione, acquisendo una carica elettrica (ionizzazione). Uno o più campi elettrici proiettano gli ioni nel tubo di volo dello spettrometro, dove vengono separati in base al loro rapporto massa-carica (m/z). La quantità di ogni ione viene rilevata alla fine del tubo di volo. Quindi, la spettrometria di massa MALDI-TOF genera un profilo di assorbimento identificato da valori di massa/carica dei peptidi e delle proteine caratteristici della preparazione batterica analizzata, che può essere utilizzato alla stregua di un’impronta digitale per l’identificazione batterica.

1.2 - Tassonomia genotipica: ibridazione DNA/DNA, analisi dell’rRNA, sequenziamento genico La GC ratio definisce con quale percentuale le basi complementari di citosina e guanina sono rappresentate nel DNA, ma non fornisce alcuna informazione sulla sequenza dei nucleotidi. Un metodo di particolare utilità per analizzare le somiglianze genomiche

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Capitolo 1 • Classificazione dei batteri

tra batteri è l’ibridazione DNA/DNA. Questa è una tecnica che consente di misurare il grado di omologia delle sequenze genomiche e, quindi, di differenziare i batteri. A questo fine, si fa ibridare il genoma di un batterio con quello di un altro batterio utilizzato come comparatore. Si richiede un valore di ibridazione ≥ 70% tra i due diversi genomi per attribuire i due batteri alla stessa specie. L’ibridazione DNA/DNA viene considerata il metodo di riferimento per stabilire il grado di relazione genetica tra due specie. Questo test può essere utilizzato quando, nonostante il sospetto che due organismi appartengano a specie diverse, né l’analisi fenotipica né quella dell’rRNA abbiano rilevato differenze significative. Le molecole di rRNA sono presenti in tutti i batteri e contengono domini fortemente conservati e domini variabili con sequenze uniche per ogni singola specie. In figura 1.6 è rappresentata la struttura secondaria dell’rRNA 16S. L’rRNA dei procarioti va incontro a una lenta evoluzione e pertanto rappresenta un ottimo marker per gli studi filogenetici. Il sequenziamento delle regioni variabili Figura 1.6 Struttura secondaria dell’rRNA 16S.

Sequenze: Identiche nel 95% o più di tutti gli organismi Corservate solo nei Batteri Corservate solo negli Archebatteri Corservate solo negli Eucarioti Conservate all’interno di ciascun dominio, variabili tra i domini Regioni la cui struttura varia tra i domini

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Batteriologia medica

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consente di identificare i batteri a livello di genere e di specie mediante il confronto delle sequenze ottenute con quelle depositate nei database internazionali. Il progresso nei metodi di sequenziamento del DNA ha permesso di definire la sequenza di nucleotidi in numerosissimi geni batterici. Gran parte di queste sequenze è stata depositata in database di pubblico dominio. Il confronto delle sequenze di un gene con quelle depositate consente di valutare l’omologia esistente per quel gene fra i batteri in studio. La corrispondenza di una sequenza genica non implica necessariamente che i batteri studiati appartengano alla stessa specie. Quando però le sequenze di tre o più geni di un batterio ignoto, che codificano per funzioni biologiche essenziali, corrispondono a quelle depositate per una certa specie batterica, l’identificazione di questo batterio viene ritenuta certa. Negli ultimi anni si è aperta una nuova era della batteriologia con la pubblicazione dei genomi completi di un ceppo di moltissime specie batteriche, inclusi i principali patogeni (quali ad esempio Haemophilus influenzae, Escherichia coli, Mycobacterium tuberculosis, Mycoplasma pneumoniae, Helicobacter pylori e molti altri). Quando dati di questo tipo saranno più completi, diverrà possibile tracciare precisi rapporti evolutivi tra i diversi batteri. Al momento, questi dati vengono impiegati per identificare con precisione isolati batterici di particolare interesse, caratterizzare determinanti della patogenicità e altri caratteri genetici che ci si aspetta possano guidare lo sviluppo di nuovi farmaci, nuovi vaccini e nuovi reagenti diagnostici.

1.3 - Nomenclatura L’International Code of Nomenclature of Bacteria riporta le regole con cui attribuire un nome corretto alle diverse specie batteriche. Scopo della denominazione ufficiale è quello di riferirsi a ciascun microrganismo con una denominazione univoca. La nomenclatura segue un sistema binario che riporta il genere e la specie di appartenenza. I nomi derivano dal latino o dal greco e vengono scritti in corsivo. Ad esempio: Pseudomonas (P.) aeruginosa, Salmonella (S.) enterica. Ogni volta che si identifica una nuova specie, ne viene depositata una coltura pura presso l’American Type Culture Collection o presso altre collezioni microbiche esistenti in Europa e in Asia. Insieme alla coltura viene anche inviata una descrizione delle proprietà biologiche disponibili al momento del deposito. Da quel momento, il ceppo depositato rappresenta l’isolato standard della nuova specie (ceppo tipo) e servirà come riferimento con cui paragonare altri isolati. Le denominazioni di ogni nuova specie vengono regolarmente pubblicate sull’International Journal of Systematic and Evolutionary Microbiology e, quando ampiamente accettate, sul Bergey’s Manual of Systematic Bacteriology, che rappresenta il trattato ufficiale di tassonomia dei procarioti. Un elenco completo dei batteri classificati può essere consultato agli indirizzi www.dsmz.de/bactnom/genera1.htm e www.bacterio.cict.fr/.

1.4 - Albero filogenetico dei batteri Oltre un secolo di esperienza in batteriologia ci ha regalato una classificazione molto approfondita dei batteri coltivabili, di quelli cioè di cui è possibile ottenere colture pure in vitro e quindi esaminare in dettaglio le proprietà morfologiche, fisiologiche, metaboliche, immunologiche e le caratteristiche di patogenicità. Il dendrogramma della classificazione generale dei batteri, rappresentato in figura 1.7, è stato ottenuto unendo le conoscenze classiche con quelle più recenti della microbiologia molecolare. I phyla rappresentati contengono i patogeni umani finora noti, oltre a batteri di interesse veterinario, agrario e ambientale. Sono anche compresi moltissimi batteri non coltivabili di cui non sono neppure note le proprietà fisiologiche e metaboliche.

Capitolo 1 • Classificazione dei batteri

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Figura 1.7 Albero filogenetico dei batteri. Il dominio dei Bacteria contiene oggi 25 phyla all’interno dei quali sono collocati tutti i batteri patogeni, ma anche molti altri dei quali non sono neppure note le proprietà fisiologiche e biochimiche.

Altri

Altri

Bacillales

Lactobacillales

Clostridia

Mycoplasmas

Bacteroidetes/Chlorobi Firmicutes

Actinobacteria Cyanobacteria Spirochaetales Chlamydiae

Rhizobia Alpha

Bacteria

Altri

Pasteurella

Proteobacteria Bordetella

Xanthomonas Pseudomonas

Neisseria Beta

Gamma

Burkholderia

Enterobacteria Vibrio Altri

Rickettsias

Epsilon

Delta Altri

I patogeni di interesse medico si collocano in diversi phyla. I Firmicutes contengono batteri gram-positivi dei generi Bacillus, Clostridium, Staphylococcus, Enterococcus, Streptococcus e Lactobacillus, oltre ai micoplasmi che sono caratterizzati dalla mancanza di parete e che vengono classificati nella classe Mollicutes. Gli Actinobacteria contengono batteri con parete di tipo gram-positivo dei generi Corynebacterium e Mycobacterium. Il gruppo Bacteroidetes comprende gli anaerobi del genere Bacteroides, oltre ai flavobatteri e agli sfingobatteri. Il gruppo Spirochaetales comprende i batteri spiraliformi dei generi Spirochaeta e Leptospira. Il gruppo Chlamydiae (batteri intracellulari obbligati) comprende i generi Chlamydia e Chlamydophila. I batteri gram-negativi sono compresi tra i Proteobacteria. Questo phylum contiene cinque classi indicate con lettere greche: gli alfa-proteobatteri contengono i generi Brucella e Rickettsia (batteri intracellulari obbligati); i beta-proteobatteri comprendono gram-negativi a metabolismo ossidativo: Burkholderia, Bordetella e Neisseria; i gamma-proteobatteri comprendono Aeromonas, Legionella, Vibrio e la grande famiglia Enterobacteriaceae che contiene alcuni patogeni estremamente frequenti; i delta-proteobatteri non contengono patogeni riconosciuti; gli epsilon-proteobatteri comprendono i generi Campylobacter e Helicobacter, due gruppi batterici con tropismo gastro-enterico. In tabella 1.2 si riporta una lista esemplificativa di alcuni batteri di interesse medico con il phylum, la classe, l’ordine e la famiglia di appartenenza. Sono riportati anche il genere e la specie insieme ad alcune delle patologie prodotte. Data la grande numerosità dei batteri di interesse medico, il lettore viene rinviato ai relativi capitoli per la classificazione precisa di ciascun patogeno.

Altri

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A

A

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Tabella 1.2 Classificazione dei patogeni batterici di particolare interesse medico.

Phylum

Classe, Ordine, Famiglia

Genere e specie

Firmicutes

Bacilli, Bacillales, Staphylococcaceae

Staphylococcus aureus

+

Ascessi, shock tossico, setticemia, tossinfezione alimentare

Bacilli, Lactobacillales, Streptococcaceae

Streptococcus pyogenes

+

Angina streptococcica, scarlattina, malattia reumatica

Streptococcus pneumoniae

+

Polmonite, meningite

Bacilli, Lactobacillales, Enterococcaceae

Enterococcus faecalis

+

Infezione urinaria, endocardite

Clostridia, Clostridiales, Clostridiaceae

Clostridium tetani

+1

Tetano

Clostridium perfringens

+1

Gangrena gassosa

Mollicutes, Mycoplasmatales, Mycoplasmataceae

Mycoplasma pneumoniae

Bacilli, Bacillales, Bacillaceae

Bacillus anthracis

+1

Carbonchio

Bacillus cereus

+1

Tossinfezione alimentare, endocardite

Actinobacteria, Actinomycetales, Mycobacteriaceae

Mycobacterium tuberculosis

NA3

Tubercolosi

Mycobacterium leprae

NA3

Lebbra

Actinobacteria, Actinomicetales, Corynebacteriaceae

Corynebacterium diphtheriae

+

Difterite

Actinobacteria, Actinomicetales, Nocardiaceae

Nocardia asteroides

+

Micetoma, ascessi, infezioni sistemiche

Spirochaetes, Spirochaetales, Spirochaetaceae

Treponema pallidum

NA4

Spirochaetes, Spirochaetales, Leptospiraceae

Leptospira interrogans



Leptospirosi

Spirochaetes, Spirochaetales, Spirochaetaceae

Borrelia burgdorferi



Malattia di Lyme

Chlamydiae

Chlamydiae, Chlamydiales, Chlamydiaceae

Chlamydia trachomatis

–5

Infezioni oculari, infezioni genitali, linfogranuloma venereo

Chlamydophila pneumoniae

–5

Polmonite interstiziale

Proteobacteria

Alpha-Proteobacteria, Rickettsiales, Rickettsiaceae

Rickettsia prowazekii

–5

Tifo, malattia di Brill-Zinsser

Rickettsia conori



Febbre maculosa del Mediterraneo

Alpha-Proteobacteria, Rhizobiales, Brucellaceae

Brucella melitensis



Brucellosi

Beta-Proteobacteria, Neisseriales, Neisseriaceae

Neisseria meningitidis



Meningite epidemica, setticemia

Neisseria gonorrhoeae



Gonorrea

Beta-Proteobacteria, Burkholderiales, Alcaligenaceae

Bordetella pertussis



Pertosse

Beta-Proteobacteria, Burkholderiales, Burkholderiaceae

Burkholderia cepacia



Infezioni dell’ospite compromesso

Actinobacteria

Spirochaetales

Colorazione di Gram

NA2

5

Alcune patologie associate

Polmonite interstiziale

Sifilide

(continua)

Capitolo 1 • Classificazione dei batteri

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Tabella 1.2 Classificazione dei patogeni batterici di particolare interesse medico. (continua)

Phylum

Classe, Ordine, Famiglia

Genere e specie

Colorazione di Gram

Alcune patologie associate

Proteobacteria

Epsilon-Proteobacteria, Campylobacteriales, Campylobacteriaceae

Campylobacter jejuni



Enterite, tossinfezione, artrite

Epsilon-Proteobacteria, Campylobacteriales, Helicobacteriaceae

Helicobacter pylori



Gastrite, ulcera peptica, linfoma

Gamma-Proteobacteria, Pasteurellales, Pasteurellaceae

Haemophilus influenzae



Infezioni respiratorie, otite, meningite

Gamma-Proteobacteria, Pasteurellales Pasteurellaceae

Pasteurella multocida



Setticemia, endocardite, infezioni del sistema nervoso centrale

Gamma-Proteobacteria, Xanthomonadales, Xanthomonadaceaes

Stenotrophomonas maltophilia



Infezioni del paziente compromesso

Gamma-Proteobacteria, Pseudomonadales, Pseudomonadaceae

Pseudomonas aeruginosa



Infezioni respiratorie, infezioni urinarie, infezioni del paziente compromesso

Gamma-Proteobacteria, Enterobacteriales, Enterobacteriaceae

Escherichia coli



Infezioni urinarie, diarrea, sindrome uremico-emolitica, batteriemia

Shigella disenteriae



Dissenteria epidemica

Salmonella typhi



Tifo addominale

Salmonella enterica



Gastroenterite, batteriemia

Klebsiella pneumoniae



Infezioni respiratorie, infezioni urinarie

Proteus mirabilis



Infezioni urinarie

Yersinia pestis



Peste bubbonica

Gamma-Proteobacteria, Vibrionales, Vibrionaceae

Vibrio cholerae



Colera

Gamma-Proteobacteria, Legionallales, Legionellaceae

Legionella pneumophila



Infezione respiratoria (malattia dei Legionari)

Batteri sporigeni. NA, non applicabile. Batteri privi di parete e pertanto non colorabili con il metodo di Gram. Batteri non colorabili con il metodo di Gram poiché possiedono una parete ricca di lipidi e di composizione particolare. 4 Batteri spiraliformi estremamente sottili con parete flessibile, non osservabili in microscopia ottica. 5 Batteri intracellulari obbligati. 1 2 3

Bibliografia essenziale Dehò, G., Galli, E., Biologia dei microrganismi, 2a ed., CEA, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 2014. Rivera, M.C., Lake, J.A. (2004), «The ring of life provides evidence for a genome fusion origin of eukaryotes», Nature, 431, pp. 152-155. Rossello-Mora, R., Amann, R. (2001), «The species concept for prokaryotes», FEMS Microbiology reviews, 25, pp. 39-67. Singhal N. et al. (2015), «MALDI-TOF mass spectrometry: an emerging technology for microbial identification and diagnosis.», Front. Microbiol., 6, p. 791. Vandamme, P.A.R., «Taxonomy and classification of Bacteria», in P.R. Murray, E.J. Baron, J.H. Jorgensen, M.L. Landry, M.A. Pfaller, Manual of Clinical Microbiology, 9a ed., ASM Press, 2007. Woese, C.R. (2002), «On the evolution of cells», Proceedings of the National Academy of Science USA, 99, pp. 8742-8747.

A

Capitolo

2

• Citoplasma • Membrana citoplasmatica • Parete • Pili • Flagelli • Capsula

Figura 2.1 Morfologia delle cellule batteriche. A. Diplococchi; B. streptococchi; C. stafilococchi; D. bacilli; E. coccobacilli; F. fusiformi; G. filamenti; H. vibrioni; I. spirilli; L. sarcine.

Cellula batterica

I batteri sono microrganismi procarioti unicellulari, di piccole dimensioni (da frazioni di μm ad alcuni μm) e distinguibili tra loro per forma, sferica od ovale (cocchi), allungata (bacilli o bastoncini), a virgola (vibrioni), a spirale (spirilli), o molto allungata (fusiformi e filamenti). Talvolta, la lunghezza della cellula può essere breve e in questo caso assume un aspetto intermedio tra i cocchi e i bacilli (coccobacilli). Le disposizioni più frequenti per quanto riguarda i cocchi sono: diplococchi (cocchi disposti a coppie), streptococchi (cocchi uniti a formare catenelle), stafilococchi (cocchi uniti in ammassi), mentre i bacilli possono disporsi a formare lunghe catene o disporsi a palizzata o a lettere cinesi (corinebatteri) (fig. 2.1). Al microscopio ottico la morfologia e la disposizione dei batteri può essere apprezzata utilizzando diversi tipi di preparazioni (a fresco oppure dopo colorazione del preparato). Per poter procedere alla colorazione di un materiale nel quale si vuole evidenziare la presenza di batteri, è necessario deporre una goccia di questo materiale su di un vetrino portaoggetto, lasciar evaporare completamente l’acqua, fissare al calore o con metanolo la preparazione e infine colorare il preparato. Esistono varie colorazioni a seconda che si voglia effettuare una colorazione semplice, che prevede cioè l’utilizzo di un solo colorante (ad es. blu di metilene, safranina o cristalvioletto), oppure differenziale o complessa, che prevede cioè l’utilizzo di più coloranti in tempi successivi. La colorazione differenziale più usata è quella di Gram (fig. 2.2). I batteri gram-positivi incorporano il cristalvioletto (primo colorante) che non viene rilasciato neppure dopo decolorazione con alcol e quindi appaiono viola, mentre nei batteri gram-negativi il decolorante agisce dissolvendo la membrana esterna; il primo colorante (cristalvioletto) viene rilasciato dalla cellula che quindi incorporerà il secondo colorante (safranina) colorandosi di rosa-rosso. L’organizzazione cellulare dei batteri è quella tipica dei procarioti (tab. 2.1 e fig. 2.3). Le numerose differenze strutturali e funzionali con gli eucarioti rappresentano la base della tossicità selettiva dei farmaci antibatterici. La cellula batterica comprende

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B

C

D

E

F

G

H

I

L

Capitolo 2 • Cellula batterica

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Figura 2.2 Colorazione di Gram. Lo spesso strato di peptidoglicano dei batteri gram-positivi trattiene il cristalvioletto anche dopo la decolorazione con alcol; il trattamento decolorante disperde invece la membrana esterna e rimuove il colorante dal sottile strato di peptidoglicano dei batteri gram-negativi.

Colorazione di Gram Fase 1

Ricoprire lo striscio fissato al calore con cristalvioletto per 1 minuto Risultato: Tutte le cellule si coloreranno di viola

Fase 2

Aggiungere soluzione iodata per 1 minuto Risultato: Le cellule rimarranno viola

Fase 3

Decolorare in alcol per circa 20 secondi Risultato: Le cellule gram-positive risulteranno viola, quelle gram-negative incolori

Fase 4

Controcolorare con safranina per 1-2 minuti Risultato: Le cellule gram-positive (G+) risulteranno viola, quelle gram-negative (G –) avranno una tonalità da rosa a rosso

13

G–

G+

tipicamente componenti fondamentali (presenti in tutte le cellule e necessari per la sopravvivenza e la riproduzione della cellula batterica) e componenti accessori (presenti solo in alcuni casi e deputati a svolgere funzioni addizionali non fondamentali che tuttavia, in certe situazioni, possono essere determinanti per la virulenza e/o la resistenza agli antibiotici).

2.1 - Componenti fondamentali Citoplasma e cromosoma Il citoplasma batterico è racchiuso dalla membrana cellulare (fig. 2.4) ed è rappresentato per l’80% da una fase acquosa di consistenza gelatinosa (gel colloidale) in cui sono immerse varie sostanze organiche in soluzione come zuccheri, proteine e lipidi, e inorganiche, come sali di calcio, magnesio, fosfati, solfati e oligoelementi; non sono presenti, a differenza delle cellule eucariotiche, mitocondri, complesso del Golgi, cloroplasti, lisosomi e reticolo endoplasmatico. L’RNA si può trovare in forma solubile (mRNA e tRNA) oppure legato ai ribosomi (rRNA). Nel citoplasma batterico sono presenti numerosi ribosomi che costituiscono il 40% del peso secco e contribuiscono a renderlo basofilo. Il ribosoma batterico ha un coefficiente di sedimentazione di 70 Svedberg (S) (diverso da quello delle cellule eucariotiche che è 80S) ed è composto da due subunità: 30S (formata da 21 proteine e una molecola di RNA 16S) e 50S (formata da 34 proteine e due molecole di RNA: 5S e 23S).

A

A

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Batteriologia medica

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Tabella 2.1 Confronto tra procarioti ed eucarioti.

Caratteristiche

Eucarioti

Procarioti

Gruppi principali

Alghe, funghi, protozoi, piante e animali

Batteri

Dimensioni

> 5 µm

Da 0,5 a 3,0 µm

Organizzazione nucleare

Nucleo con membrana, cromosomi, fuso mitotico, genoma diploide

Nessuna membrana nucleare, cromosoma unico, genoma aploide

Riproduzione

Sessuata e asessuata

Asessuata (scissione binaria)

Strutture citoplasmatiche

La membrana citoplasmatica contiene steroli, sono presenti mitocondri, corpi del Golgi, reticolo endoplasmico; i ribosomi hanno coefficiente di sedimentazione di 80S

La membrana citoplasmatica non contiene steroli (eccetto micoplasmi); sono assenti mitocondri, corpi del Golgi, reticolo endoplasmico; i ribosomi hanno coefficiente di sedimentazione di 70S

Parete

È presente solo nei funghi e nelle piante

Sempre presente ad eccezione dei micoplasmi; è formata da peptidoglicano, proteine, polisaccaridi e lipidi

Movimento

Flagelli complessi (struttura “9 + 2”)

Flagelli semplici a unico filamento

Metabolismo

Limitata variabilità metabolica; reazioni di ossidoriduzione nei mitocondri

Numerose attività metaboliche con diverse fonti energetiche; respirazione aerobia, respirazione anaerobia, fermentazione; reazioni di ossidoriduzione a livello di membrana

Figura 2.3 Rappresentazione schematica di una cellula batterica.

Flagello

Ribosomi Inclusione granulare

Citoplasma Membrana citoplasmatica

Parete cellulare

Nucleo

Capsula

Mesosoma Pili

Il cromosoma batterico (noto anche come cromonema o nucleoide) è un’unica molecola di DNA a doppia elica circolare (fatta eccezione per le Borrelie, il cui genoma è lineare) che occupa il 10-15% del volume della cellula batterica. Non è presente un involucro nucleare a racchiudere il cromosoma. Per poter essere contenuto all’interno della cellula batterica il DNA (la cui lunghezza si stima essere circa 1100-1400 μm) è superavvolto dall’enzima DNA girasi (una speciale topoisomerasi di tipo II) che introduce dei superavvolgimenti negativi nel DNA. Le topoisomerasi di tipo II creano delle interruzioni transitorie su entrambi i filamenti di DNA e poi le due catene vengono risaldate dal lato opposto dell’elica intatta creando così dei superavvolgimenti. I superavvolgimenti del DNA vengono invece rimossi ad opera di un altro enzima, la topoisomerasi I, che introduce un’interruzione in un solo filamento della doppia elica e provoca la rotazione di un filamento attorno all’altro.

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Figura 2.4 Ultrastruttura di Bacillus subtilis. La separazione tra le cellule neoformate non è stata ancora completata, mentre un nuovo setto si sta formando in corrispondenza del piano equatoriale. La membrana citoplasmatica, molto ben definitasi, continua con un piccolo mesosoma vescicolare in corrispondenza del setto in via di formazione, mentre un altro grande mesosoma lamellare è presente in prossimità di una regione dall’apparenza fibrillare contenente il cromosoma.

Membrana citoplasmatica Similmente alle cellule eucariotiche, anche la membrana delle cellule batteriche presenta una struttura trilaminare fosfolipidica dello spessore di circa 80 Å, costituita da un doppio strato (uno interno e uno esterno) simmetrico di natura idrofilica (estremità idrofile dei lipidi di membrana) intercalato da una lamina centrale lipidica costituita dalle catene idrofobe degli acidi grassi. La membrana citoplasmatica è composta per il 60-70% del suo peso secco da proteine e fosfolipidi mentre sono assenti le glicoproteine. Proteine integrali anfipatiche sono inserite nel doppio strato lipidico; proteine periferiche sono debolmente associate alla superficie della membrana. Nella membrana citoplasmatica, eccezion fatta per i micoplasmi, non sono presenti steroli ma sono presenti gli opani, composti policiclici che rinforzano la membrana rendendola più rigida. Le funzioni della membrana citoplasmatica sono molteplici. Essa è una barriera osmotica che per diffusione passiva (meccanismo di trasporto che non richiede consumo di energia e in cui la velocità di assorbimento è direttamente proporzionale alla concentrazione della sostanza sul lato esterno della membrana) permette il passaggio di ossigeno, acqua e piccole molecole idrofobiche tra l’esterno e l’interno della cellula batterica, è sede dei meccanismi di trasporto attivo necessari per l’ingresso delle sostanze nutritive ed è sede dell’apparato per la produzione di energia (sistema di trasporto di elettroni, citocromi, F-ATPasi). L’acqua attraversa la membrana utilizzando canali proteici specifici chiamati acquaporine. Sulla membrana sono presenti enzimi per la sintesi dei lipidi e dei costituenti della parete (peptidoglicano ecc.), proteine che svolgono funzioni di trasporto (proteine carrier o permeasi) e pompe ioniche per il mantenimento del potenziale di membrana. Si conoscono almeno tre tipi di meccanismi di trasporto attivo (trasporto semplice, traslocazione di gruppo e sistemi ABC), che richiedono tutti la partecipazione di proteine specifiche e un consumo di energia. Il trasporto semplice si attua per mezzo di proteine (trasportatori) che attraversano la membrana (fig. 2.5). Il trasportatore è detto uniporter se trasporta un solo tipo di sostanza attraverso la membrana plasmatica, symporter quando trasporta contemporaneamente due molecole attraverso la membrana, entrambe nella stessa direzione, e antiporter se trasporta due molecole attraversano la membrana citoplasmatica ma in direzioni opposte. Un esempio di symporter è quello rappresentato dalla Lac-permeasi (permeasi del lattosio) in Escherichia coli, che trasporta lattosio e protoni all’interno della cellula batterica. L’entrata di protoni all’interno della cellula riduce l’energia della forza proton-motrice che viene ristabilita attraverso le reazioni che liberano energia mentre il lattosio raggiunge una concentrazione tale da essere metabolizzato. Il meccanismo della traslocazione di gruppo è un processo di trasporto durante il quale la sostanza che deve attraversare la membrana citoplasmatica viene modificata

A

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Figura 2.5 Sistemi di trasporto associati alla membrana.

Esterno

Lattosio

H+ + H+ +

Interno – OH– – OH– Lac-permeasi (un symporter)

H+ +

– OH–

H+ +

– OH–

H+

Na+

H+ +

HPO42–

H+

+

Antiporter sodio-protone

– OH–

H+

Symporter fosfato

H+ H+ +

– OH– Uniporter potassio

K+ H+ +

– OH–

H+

– OH– Symporter solfato

+

H+ HSO4– Esterno

H+ +

– OH–

H+

– OH–

+

Interno

chimicamente. I meccanismi di traslocazione di gruppo maggiormente studiati riguardano il trasporto di zuccheri, quali il glucosio, il mannosio e il fruttosio, in E. coli. Il sistema che sta alla base della traslocazione di gruppo è costituito da una piccola proteina HPr e da quattro proteine enzimatiche (Enz I, IIa, IIb, IIc), che a partire dal fosfoenolpiruvato trasferiscono in sequenza un gruppo fosfato venendo alternativamente fosforilate e defosforilate sino alla proteina integrale di membrana, Enz IIc, che fosforila a sua volta lo zucchero. Le proteine HPr, Enz I e IIa sono proteine citoplasmatiche, mentre EnzIIb è una proteina legata alla superficie interna della membrana. EnzII è l’unica proteina del sistema di traslocazione a essere specifica per ogni tipo di zucchero che deve attraversare la membrana. Grazie al sistema fosfotransferasico, una volta oltrepassata la membrana, gli zuccheri sono immediatamente disponibili a entrare in una via metabolica centrale. Il trasporto mediato dai sistemi ABC utilizza proteine periplasmatiche, una proteina transmembranaria che funziona da canale di trasporto e un terzo componente citoplasmatico che fornisce l’energia necessaria, ottenuta per l’idrolisi dell’ATP; da questo deriva l’acronimo ABC (ATP-binding cassette). Nei germi gram-negativi le proteine di legame si trovano nel periplasma, mentre nei gram-positivi sono ancorate alla membrana; sono proteine specifiche e che possiedono un’elevata affinità per il loro substrato (pari o inferiore a 1 μM). Il complesso che si forma tra proteina e substrato interagisce con la proteina transmembranaria e l’idrolisi dell’ATP fornisce l’energia necessaria per il trasporto. La membrana cellulare è la sede delle reazioni che mediano il trasporto degli elettroni e la conservazione dell’energia cellulare derivata dalle reazioni di ossidoriduzione. La separazione di cariche positive (H+) e negative (OH–) genera una forma di energia

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detta forza proton-motrice (PMF) determinante per alcune funzioni cellulari che richiedono energia (trasporto, motilità, biosintesi di ATP). Nella membrana citoplasmatica avviene l’assemblaggio dei lipidi complessi, e alla membrana sono ancorate le carbossipeptidasi e le transpeptidasi che formano il legame peptidico tra precursori del peptidoglicano, la cui sintesi avviene nel citoplasma. I precursori, trasferiti attraverso la membrana mediante il legame con il undecaprenilfosfato (lipide carrier), sono incorporati nelle catene di peptidoglicano in crescita ad opera delle transglicosilasi, che catalizzano la formazione del legame glucosidico tra acido N-acetilmuramico e N-acetilglucosamina. Anche altri componenti della parete, come ad esempio gli acidi teicoici o l’LPS, vengono trasferiti per mezzo del lipide carrier undecaprenilfosfato ai siti di polimerizzazione nella membrana citoplasmatica per migrare in seguito (LPS) nello strato esterno della membrana esterna grazie alle giunzioni di Bayer, dove la membrana citoplasmatica e la membrana esterna si connettono attraverso lo strato di peptidoglicano. Infine, durante il processo di divisione cellulare, la membrana citoplasmatica serve al DNA in replicazione come sito di ancoraggio e accrescendosi separa i due cromosomi neosintetizzati che verranno ripartiti nelle cellule figlie. Nella membrana sono contenute le proteine che formano il septosoma e che partecipano alla formazione del setto interagendo con proteine a localizzazione citoplasmatica.

Parete La parete cellulare è presente in gran parte dei Procarioti, dove circonda la membrana citoplasmatica e conferisce alla cellula forma e rigidità. Al microscopio elettronico è visibile come uno strato omogeneo e denso agli elettroni nei gram-positivi, mentre nei gram-negativi ha un aspetto pluristratificato (fig. 2.6). Queste differenze ultrastrutturali riflettono una diversa composizione che giustifica anche la diversa risposta alla colorazione di Gram. Inoltre la parete ha la funzione di controbilanciare la pressione osmotica del citoplasma (5 e 20 atmosfere nei gram-negativi e nei gram-positivi rispettivamente). Qualora infatti la parete venga distrutta si ha il rigonfiamento del citoplasma e conseguente lisi cellulare, a meno che la cellula batterica si trovi in ambiente isotonico. In questo caso la distruzione della parete porta alla formazione di elementi sferici detti sferoplasti o protoplasti a seconda che conservino o meno residui di parete (fig. 2.7). La parete è formata da strati rigidi di peptidoglicano (mureina). Eccezioni sono rappresentate dagli Archeobatteri (nei quali è presente uno pseudoglicano o pseudomureina), dai Micobatteri (che hanno un peptidoglicano a struttura caratteristica) e dai Micoplasmi (che sono privi di parete). Il peptidoglicano è una struttura rigida, simile a una rete formata da catene polisaccaridiche lineari, unite tra loro mediante legami crociati di natura peptidica (fig. 2.8). I costituenti fondamentali del peptidoglicano (detto anche mucopeptide, mureina o

Gram-positivi

Gram-negativi

Peptidoglicano

Peptidoglicano

Membrana

Membrana Periplasma

A

B

Membrana esterna

Figura 2.6 Schema della parete di un batterio gram-positivo (A) e di un gram-negativo (B). Nei gram-positivi la parete consiste di uno strato unico, spesso e continuo; nei gram-negativi essa è pluristratificata e vi si riconosce uno strato sottile più interno di peptidoglicano e un doppio strato esterno corrispondente alla membrana esterna.

A

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Figura 2.7 Formazione di un protoplasto. La distruzione della parete in ambiente isotonico determina la formazione di un protoplasto che assume forma sferica, mentre il residuo della parete mantiene la morfologia della cellula originale (in questo caso bastoncellare).

Figura 2.8 Rappresentazione schematica del monostrato di peptidoglicano di Staphylococcus aureus, un batterio gram-positivo (A) e di Escherichia coli, un batterio gram-negativo (B). G, N-acetilglucosamina; M, acido N-acetilmuramico; le linee verticali rappresentano le catene peptidiche; le linee orizzontali i legami crociati tra aminoacidi di catene contigue.

A

B

glicopeptide) sono due aminozuccheri acetilati, l’N-acetilglucosamina (NAG) e l’N-acetilmuramico (NAM), sintetizzati nel citoplasma. NAG e NAM formano quindi la porzione polisaccaridica detta anche glicano e sono uniti da un legame β1-4 glucosidico formando catene lunghe dalle 10 alle 80 unità disaccaridiche ripetute. All’acido N-acetilmuramico è legata covalentemente una catena peptidica formata da l-alanina, acido d-glutamico, l-lisina (nei batteri gram-positivi) o acido diaminopimelico (nei batteri gram-negativi) e d-alanina. Nella struttura di base del peptidoglicano, le catene individuali di peptidoglicano si trovano adiacenti e sono tenute insieme, a livello dei tetrapeptidi, mediante legami crociati peptidici. Il legame crociato peptidico tra diaminoacido in posizione 3 e d-alanina in posizione 4 può essere indiretto, mediante un ponte pentaglicinico (gram-positivi) (fig. 2.9) oppure diretto, mediante legame peptidico tra acido diaminopimelico e d-alanina (gram-negativi). Il numero di legami crociati è diverso tra i batteri gram-positivi e gram-negativi: nei primi tutti i residui dell’acido N-acetilmuramico sono legati a una catena tetrapeptidica a formare una parete rigida molto forte, mentre nei secondi i legami sono più scarsi. La parete dei batteri gram-positivi è spessa 15-50 nm e consiste di uno strato spesso e denso agli elettroni costituito per il 90% da peptidoglicano. Il peptidoglicano dei batteri gram-positivi è sensibile all’azione del lisozima (degrada la componente glicanica del peptidoglicano agendo a livello del legame β1-4 glucosidico). Altri componenti della parete dei batteri gram-positivi (fig. 2.10A) sono gli acidi teicoici e lipoteicoici e i polisaccaridi complessi. Gli acidi teicoici sono polimeri di glicerolfosfato o ribitolfosfato (fig. 2.11) solubili in acqua, legati covalentemente al peptidoglicano (rappresentano i principali antigeni di superficie e poiché sono altamente variabili sono

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MurNAc

Scissione da parte del lisozoma β1,4 β

GlcNAc

Disaccaridi di ripetizione dello scheletro β1,4

GlcNAc

L-Ala

L-Ala

D-Glu-α-N-γ

D-Glu-N

L-Lys

L-Lys

D-Ala

D-Ala β1,4

GlcNAc

β1,4

GlcNAc

Lactyl

GlcNAc

Figura 2.9 Struttura del peptidoglicano di Staphylococcus aureus. Il carbossile del gruppo lattico dell’acido N-acetilmuramico è legato a un tetrapeptide costituito (in sequenza) da l-alanina, acido d-glutamico, l-lisina e d-alanina. Il tetrapeptide a sua volta è legato mediante legame peptidico a una catena peptaglicinica a un altro tetrapeptide situato sulla catena polisaccaridica adiacente.

GlcNAc

Lactyl

L-Ala

L-Ala

(Gly)5

D-Glu-N

D-Glu-N

L-Lys

(Gly)5

L-Lys

Legame crociato

D-Ala

D-Ala (Gly)5

(Gly)5

A Gram +

GlcNAc

Lactyl

Lactyl

Tetrapeptide

GlcNAc

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B Acido teicoico Acido lipoteicoico

Gram –

Proteine di membrana

Antigene O Proteine porine

Parete cellulare

Membrana esterna

Lipide A degli acidi grassi Fosfolipidi

Parete cellulare

Lipoproteine Spazio periplasmatico Membrana interna Membrana cellulare

Peptidoglicano Proteine di membrana Fosfolipidi

Peptidoglicano Figura 2.10 Rappresentazione schematica della parete cellulare dei batteri gram-positivi e dei batteri gram-negativi. La parete dei gram-positivi (A) è essenzialmente formata da peptidoglicano in forma pluristratificata e da polisaccaridi anionici rappresentati da acidi lipoteicoici e teicoici, covalentemente legati al peptidoglicano. La parete dei gram-negativi (B) è costituita da un monostrato di

peptidoglicano e dalla membrana esterna. Una lipoproteina covalentemente legata al peptidoglicano àncora la membrana esterna a questa struttura. Lo strato più esterno della membrana esterna è ricoperto dall’antigene polisaccaridico O legato al lipide A. La membrana esterna contiene proteine che si assemblano a formare dei pori che permettono il passaggio di piccole molecole idrofile.

A

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specie-specifici); sono responsabili della carica complessiva della superficie cellulare, legano Ca2+ e Mg2+, trasportandoli, in parte, nella cellula, svolgono la funzione di adesine (batteriofagi), sono altamente antigenici e sono importanti fattori di virulenza. Gli acidi lipoteicoici, ancorati alla membrana citoplasmatica, possono essere secreti e rilasciati nel terreno di coltura e nell’uomo, benché più debolmente, possono svolgere attività endotossica. Le proteine, anche se poco rappresentate, possono svolgere un’importante azione patogena in diverse specie. Ad esempio, la proteina M presente nella parete di Streptococcus pyogenes svolge azione antifagocitaria e, quando associata all’acido lipoteicoico, forma fibrille che mediano l’adesività alle mucose delle vie respiratorie. Un altro esempio può essere la proteina A presente nella parete dello Staphylococcus aureus, che lega il frammento Fc anticorpale inibendo la formazione dell’immunocomplesso e l’attivazione complemento. La parete dei batteri gram-negativi (fig. 2.10B) è costituita da uno strato sottile di peptidoglicano (immediatamente all’esterno della membrana citoplasmatica) al di sopra del quale si trova la membrana esterna. Lo spazio che si trova tra la membrana citoplasmatica e lo strato di peptidoglicano è detto spazio periplasmatico e contiene enzimi idrolitici come proteasi, fosfatasi, lipasi, nucleasi, enzimi che degradano i carboidrati, enzimi che degradano gli antibiotici (come le beta-lattamasi) ed enzimi Figura 2.11 Struttura degli acidi teicoici dei batteri gram-positivi. Nel glicerolo “R” può essere alanina, glucosio o glucosamina. Nel ribitolo R1 può essere glucosio o N-acetilglucosamina; R2 e/o R3 possono essere alanina.

I O=P–OH I O I CH2 I H–C–O–R I CH2 I I I O I O=P–OH I O I CH2 I Residuo H–C–O–R di glicerolo I CH2 I O I O=P–OH I O I CH2 I H–C–O–R I CH2 I O I O=P–OH I O I CH2 I H–C–O–R I CH2 I

Acido glicerol-teicoico

I O=P–OH I O I CH2 I H–C–O–R1 I H–C–O–R2 I H–C–O–R3 I CH2 I O I O=P–OH I O I CH2 I H–C–O–R1 I H–C–O–R2 I H–C–O–R3 I CH2 I O I O=P–OH I O I CH2 I H–C–O–R1 I H–C–O–R2 I H–C–O–R3 I CH2 I O I

Acido ribitol-teicoico

Residuo di ribitolo

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Man –– Abe-OAc Rha

Regione I (antigene O)

Gal

n

Man –– Abe-OAc

Etanolamina

Etanolamina

Rha Gal

β-Gal GluN

Glu

Gal

Glu

Hep

Hep

Regione II (Core polisaccaridico)

KDO

KDO

HM

HM

KDO

β-GluN

GluN

FA

FA

Regione III (Lipide A)

che degradano componenti tissutali e rappresentano fattori di virulenza (ialuronidasi, collagenasi). La membrana esterna è una struttura bilaminare asimmetrica tipica solo dei batteri gram-negativi, composta nello strato più interno da fosfolipidi e nello strato più esterno da lipopolisaccaride (LPS). Il LPS, anche detto endotossina, è formato dal lipide A (fig. 2.12), che è responsabile dell’attività tossica, e da una porzione polisaccaridica costituita da un core polisaccaridico e dall’antigene O. La struttura del lipide A è formata da un disaccaride di glucosamina fosforilata, a cui sono legati attraverso un legame estere-aminico acidi grassi a lunga catena (stearico, palmitico, miristico, caproico e laurico). Attraverso il disaccaride di glucosamina fosforilata il lipide A è legato allo zucchero chetodeossiottonato (KDO), che costituisce, insieme a zuccheri eptosi, glucosio, galattosio e N-acetilglucosamina, lo scheletro della regione del core (composizione costante nella stessa specie). Legato al core si trova la regione dell’antigene O, che protrude all’esterno della membrana e che rappresenta l’antigene di superficie o somatico dei batteri gram-negativi. L’antigene O è costituito da lunghe catene formate da unità ripetute di tre-quattro zuccheri e la cui composizione è estremamente variabile anche all’interno della stessa specie permettendo di distinguere tipi antigenici differenti del polisaccaride O. La membrana esterna dei batteri gram-negativi è parzialmente permeabile a piccole molecole idrofile (di dimensioni inferiori a 700 Da) grazie alla presenza di molte proteine transmembrana tra cui le porine, che si associano in trimeri a formare canali e che permettono il passaggio di molecole attraverso la membrana. Tra le porine maggiormente studiate in E. coli vi sono PhoE (viene prodotta in carenza di fosfato), OmpF e OmpC (Omp = outer membrane protein). Le porine OmpF e OmpC sono codificate rispettivamente dai geni strutturali ompF e ompC. Il rapporto tra i pori formati da OmpF e OmpC cambia in risposta al grado di osmolarità del terreno che circonda la cellula: se la pressione osmotica è bassa viene sintetizzata la porina OmpF, dotata di un poro più ampio, mentre quando la pressione osmotica è più elevata viene sintetizzata la porina OmpC che possiede un poro di dimensioni ridotte. Il regolatore è la proteina OmpR, che quando viene fosforilata (OmpR-P) agisce come attivatore trascrizionale del gene ompC e repressore del gene ompF. Sempre in E. coli è nota la porina LamB, che forma un canale che permette la diffusione facilitata di molecole attraverso un legame specifico. Oltre alle porine nella membrana esterna esistono delle proteine dette recettori TonB-dipendenti, che legano in modo specifico grosse molecole, come ad esempio la vitamina B12 e i complessi chelanti del Fe3+. Anche se risulta permeabile a piccole molecole, la membrana esterna è invece impermeabile a molecole di grandi dimensioni che si fermano nello spazio periplasmico.

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Figura 2.12 Rappresentazione schematica della struttura del lipopolisaccaride di Salmonella typhimurium. Man, d-mannosio; Abe, abequosio; Ac, acetil; Rha, ramnosio; Gal, d-galattosio; GluN, N-acetil-d-glucosamina; Glu, d-glucosio; Hep, l-glicero- d -manno-eptosio; KDO, acido 2-keto-3-deossiottonato; HM, acido β-idrossimiristico; FA, altri acidi grassi (ad es. laurico, miristico, palmitico); P cerchiato, gruppo fosfato.

A

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Figura 2.13 Rappresentazione schematica della parete di Mycobacterium tuberculosis.

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Glicolipidi

Acido micolico

Lipoarabinomannano

Arabinogalattano

Peptidoglicano

Proteine

Nella matrice gelatinosa che compone lo spazio periplasmico sono contenuti vari enzimi idrolitici che hanno la funzione di avviare la scissione delle molecole nutritive o di degradare antibiotici. Vi sono inoltre proteine di legame, che innescano i processi di trasporto dei substrati, e i chemiorecettori, proteine coinvolte nella risposta chemiotattica. Molte di queste proteine raggiungono comunque il periplasma tramite il sistema di trasporto SecYEG. La parete dei micobatteri (fig. 2.13) è composta da tre strati e data la sua particolare composizione ricca in lipidi complessi e cere non si colora con la colorazione di Gram, ma mediante colorazione di Ziehl-Neelsen, che evidenzia le proprietà tintoriali note come acido-alcol resistenza. Esternamente alla membrana plasmatica i micobatteri presentano uno strato di peptidoglicano a cui sono legati arabinogalattani, lipoarabinomannani e lipomannani attraverso ponti disaccaridici e infine una micomembrana. La micomembrana è formata da acidi micolici, acidi grassi a lunga catena (fino a 70 atomi di C); gli acidi micolici più semplici sono formati da due catene, una lunga (distale) e una corta (prossimale), e sono disposti in modo che la testa (polare) rimanga verso la membrana plasmatica mentre la porzione apolare si trovi sul versante più esterno della micomembrana. Gli acidi micolici si possono trovare anche legati ad arabinogalattani o altri zuccheri a formare composti come il trealosio dimicolato, detto anche fattore cordale. Quando i micobatteri crescono in terreno liquido, il fattore cordale causa la formazione di ammassi di cellule disposte in cordoni. Nello strato più esterno della micomembrana vi sono i sulfatidi, cioè glicolipidi solfati.

2.2 - Componenti accessori Pili

Figura 2.14 Cellula di Legionella pneumophila, con in evidenza i pili e il flagello polare.

I pili (fig. 2.14) o fimbrie sono strutture accessorie della cellula batterica di natura proteica (costituite da subunità di pilina), rigide o flessibili, disposte uniformemente intorno alla superficie del battere, che favoriscono l’adesività, permettendo alla cellula batterica di aderire e quindi colonizzare le mucose o le superfici inerti. I pili, detti anche adesine, rappresentano quindi un importante fattore di virulenza, ad esempio per alcuni ceppi di E. coli uropatogeni che riescono a colonizzare e infettare l’epitelio delle vie urinarie, o per Neisseria gonorrhoeae, i cui pili hanno anche una funzione antifagocitaria. I pili sessuali (pili F), codificati da un plasmide F (F da fertility), sono

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Membrana citoplasmatica

Peptidoglicano Membrana esterna Uncino

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Figura 2.15 Modello schematico del corpo basale e del flagello. La rotazione della parte basale del flagello imprime una spinta in avanti al batterio come l’elica a una barca.

Rotore

Filamento

invece più grandi dei pili comuni e sono determinanti nel trasferimento di materiale genetico tra batteri durante la coniugazione.

Flagelli I flagelli (fig. 2.14) sono anch’essi strutture accessorie delle cellule batteriche e forniscono motilità alla cellula permettendogli di dirigersi per chemiotassi verso le sostanze nutrienti (chemiotassi positiva, rotazione antioraria del flagello, movimento rettilineo) e di allontanarsi da quelle tossiche (chemiotassi negativa, rotazione oraria del flagello, serie di capovolgimenti casuali). Le sostanze nutritive o tossiche vengono captate da proteine che trasferiscono il segnale ad altri componenti e attivano la diversa rotazione del flagello. In base alla distribuzione dei flagelli sulla superficie batterica si possono distinguere batteri monotrichi (presenza di un unico flagello a un polo della cellula), amfitrichi (un flagello a entrambi i poli), lofotrichi (ciuffo di flagelli a uno o a entrambi i poli) e peritrichi (presenza di flagelli distribuiti intorno a tutta la superficie batterica). I flagelli sono costituiti di tre porzioni (fig. 2.15): la regione basale, il giunto e infine il filamento, formato da subunità ripetute di una proteina, la flagellina, sintetizzate nel citoplasma e successivamente trasferite all’apice del flagello. Il filamento, che è la porzione che si proietta al di fuori della superficie della cellula batterica nel mezzo circostante, tramite il giunto (costituito da proteine differenti dalla flagellina) si collega alla regione basale, che rappresenta il motore del flagello. La regione basale è formata da una struttura cilindrica costituita da un sistema ad anelli diverso tra batteri gram-positivi e gram-negativi. I primi hanno due anelli collegati alla membrana citoplasmatica, mentre i secondi possiedono inoltre altri due anelli più esterni ancorati al peptidoglicano. L’energia necessaria al movimento è data dalla forza proton-motrice prodotta attraverso proteine associate alla regione basale, come le proteine Mot che fungono da motore, e le proteine Fli, che al contrario fungono da invertitore del movimento rotatorio flagellare.

Glicocalice e capsula La superficie esterna della cellula batterica di molte specie è spesso rivestita di uno strato polisaccaridico detto glicocalice. Se quest’ultimo è organizzato a formare una fitta maglia di strati polisaccaridici è detto capsula (fig. 2.16), mentre se lo strato polisaccaridico è poco aderente o poco denso viene definito strato mucoso. La capsula può essere osservata al microscopio ottico dopo colorazione con inchiostro di china (i batteri che possiedono la capsula saranno circondati da un alone chiaro – colorazione negativa). La capsula è uno dei maggiori fattori di virulenza, agisce come barriera per molecole idrofobiche, favorisce l’adesione tra batteri, alle superfici dei tessuti dell’ospite e alle superfici inerti, ha azione antifagocitaria e ha generalmente caratteristiche antigeniche.

Figura 2.16 Rigonfiamento capsulare mediato dagli anticorpi specifici in cellule di Streptococcus pneumoniae, evidenziato dal test di Neufeld.

A

A

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Plasmidi I plasmidi sono elementi genetici indipendenti dal cromosoma batterico che non codificano per funzioni vitali della cellula, ma portano informazioni genetiche addizionali. I plasmidi sono molecole di DNA circolare a doppio filamento che si replicano autonomamente in quanto hanno una propria origine di replicazione (repliconi). Alcuni plasmidi sono in grado di integrarsi nel cromosoma dell’ospite e vengono chiamati episomi (ad es. il plasmide F di E. coli). I plasmidi sono stati classificati sulla base dei gruppi di incompatibilità (Inc). Per incompatibilità si definisce l’incapacità di plasmidi che possiedono lo stesso meccanismo di replicazione a propagare stabilmente nella stessa cellula ospite. Pertanto, nella stessa cellula possono coesistere due plasmidi che appartengano a gruppi di incompatibilità diversi. Alcuni plasmidi contengono geni che li rendono capaci di trasferirsi ad altre cellule batteriche attraverso un meccanismo specializzato di scambio genico orizzontale detto coniugazione, e vengono definiti coniugativi. I plasmidi trasportano spesso informazioni genetiche accessorie che sono in grado di fornire al battere che li possiede un vantaggio selettivo in particolari condizioni ambientali, ad esempio la capacità di utilizzare fonti di carbonio insolite, di produrre batteriocine, tossine, strutture di adesione (sono codificate a livello plasmidico, ad esempio, le tossine insetticide di Bacillus thuringiensis, la neurotossina di Clostridium botulinum, molte batteriocine, le adesine di patogeni intestinali). Di particolare interesse medico sono i plasmidi R che contengono, oltre ai geni indispensabili per la loro replicazione ed eventualmente il loro trasferimento, geni che conferiscono ai batteri la resistenza verso gli antibiotici (come ad esempio l’enzima β-lattamasi). Si presume che solo parte di una popolazione batterica trasporti plasmidi, assicurando un rapido adattamento dei batteri all’ambiente che li circonda. Uno dei più importanti esempi di adattabilità batterica è rappresentato dalla diffusione di geni di resistenza agli antibiotici, plasmide-mediata, tra batteri di diversi taxa (trasferimento genico orizzontale) in risposta a diverse pressioni selettive.

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Capitolo

3

Metabolismo batterico

I batteri richiedono una fonte di energia e di materie prime necessarie al loro accrescimento, per la sintesi di aminoacidi, carboidrati e lipidi utilizzati per le strutture e le membrane cellulari. A tale scopo, per la crescita batterica gli elementi essenziali sono rappresentati da carbonio, azoto, energia, acqua, ioni importanti come K, Na, Mg, Ca e Cl e componenti enzimatici quali Fe, Zn e Mn. Il ferro è un requisito di crescita importante: infatti molti batteri secernono proteine speciali dette siderofori in grado di concentrare il ferro, che viene poi sequestrato a scopo protettivo dal nostro organismo. I requisiti di crescita come i sottoprodotti metabolici sono degli strumenti idonei per la classificazione dei batteri. Alcuni batteri (Escherichia coli), infatti, sono in grado di sintetizzare tutti i componenti necessari per la crescita e la divisione cellulare. Per altri batteri, come Treponema pallidum, le esigenze di crescita sono talmente complesse da non essere stato sviluppato un terreno di coltura in grado di permetterne la crescita. Con “metabolismo” si intende quell’insieme di reazioni biochimiche che si svolgono a livello cellulare e che sono necessarie alla vita dei microrganismi (produzione e utilizzo di energia, sintesi di materiali per i costituenti cellulari, a partire da fonti nutrizionali reperite nell’ambiente ecc.) per la duplicazione (moltiplicazione) batterica. Il metabolismo può essere suddiviso in due fasi, tra loro strettamente correlate: il catabolismo, comprendente le reazioni esoergoniche che portano alla produzione di energia, e l’anabolismo, comprendente le reazioni endoergoniche che portano alla sintesi di macromolecole complesse a partire da composti semplici (precursori metabolici). Un microrganismo per vivere deve essere in grado di adempiere entrambi questi due processi. Nel catabolismo, molecole più grandi e più complesse vengono degradate a molecole più piccole e meno complesse con conseguente rilascio di energia. Una parte di questa energia viene utilizzata per compiere i processi biosintetici necessari al funzionamento della cellula (componenti della parete cellulare, proteine, acidi grassi e acidi nucleici) e il resto dissipato sotto forma di calore. Nei processi biosintetici (anabolismo) molecole complesse sono formate a partire da molecole più semplici e con consumo di energia. L’energia prodotta o consumata durante i processi catabolici e/o anabolici viene temporaneamente conservata all’interno di legami ad alto contenuto energetico dei gruppi fosfato presenti nelle molecole di adenosina trifosfato (ATP) (fig. 3.1). Il processo metabolico (anabolismo) inizia generalmente con l’idrolisi di gruppi fosfato da parte di molecole di ATP, che rilasciano quindi l’energia immagazzinata, generando molecole di ADP (adenosina difosfato) (fig. 3.2). Il processo inverso, ovvero la fosforilazione di ADP ad ATP, avviene con consumo di energia che il microrganismo reperisce attraverso trasformazioni cataboliche (catabolismo). Da quanto sopra esposto, risulta evidente che l’ATP è il mezzo che interconnette tra di loro i processi catabolici (reazioni che producono liberazione di energia) con i processi anabolici (reazioni biosintetiche che necessitano di apporto di energia) (fig. 3.3).

• Batteri e fonti d’energia • Fermentazione • Respirazione • Metabolismo • Respirazione anaerobica

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Batteriologia medica

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Figura 3.1 Struttura dell’ATP.

NH2 Adenina H -O -O

P

-O O

P

O

N C

-O O

O

P

C

C C

N

N C

H

N

H O

CH O

O

Ribosio

OH OH Adenosina trifosfato (ATP)

P

P

Acido fosforico

H2O +

P ATP

P

P

+

P

Adenosina difosfato (ADP)

Figura 3.2 Processo di conversione dell’ATP in ADP.

Da un punto di vista nutrizionale ed energetico possiamo distinguere i batteri in: • fototrofi; • chemiolitotrofi; • chemiorganotrofi. Brevemente, i batteri fototrofi sono quei microrganismi che ricavano l’energia necessaria per i processi biosintetici direttamente dalla luce del sole, i chemiolitotrofi utilizzano invece nutrienti inorganici come fonte di energia, mentre i chemiorganotrofi ossidano molecole organiche per produrre l’energia necessaria al buon funzionamento della cellula (fig. 3.4). In questo capitolo verrà discusso il metabolismo dei batteri chemiorganotrofi (microrganismi che necessitano di composti organici a base di atomi di carbonio sia come fonte di energia che nutrizionale) in quanto a questa categoria appartengono i batteri patogeni di interesse clinico.

3.1 - Fonti di energia per i microrganismi I batteri chemiorganotrofi, per procurarsi l’energia necessaria per attivare i processi di fosforilazione dell’ADP ad ATP, innescano una serie di reazioni di ossidoriduzione di molecole a base di atomi di carbonio (principalmente il glucosio). L’ATP viene prodotto essenzialmente attraverso due vie metaboliche: • la fermentazione; • la respirazione.

Capitolo 3 • Metabolismo batterico

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CATABOLISMO

ANABOLISMO

FOTOSINTESI

Sorgente di energia

Biopolimeri (es.: proteine)

Luce

Intermedi biosintetici (monomeri es.: aminoacidi)

Apparato fotosintetico

ATP

ATP

ADP

ADP

Calore

Calore Pool intracellulare di precursori

Prodotto finale

Alimenti (extracellulari)

Figura 3.3 Vie metaboliche e loro relazioni.

FOTOTROFI

CHEMIORGANOTROFI

Composto organico ridotto

Composto organico ossidato

Clorofilla e batterioclorofilla

Energia chimica

Lavoro

Figura 3.4 Fonti di energia dei microrganismi.

CHEMIOLITOTROFI

Composto inorganico ridotto

Composto inorganico ossidato

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A

A

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HC HC

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C + N

H C

O O

NH2

CH

R Ossidazione –2H

+2H

H

H

HC HC

C

N

C CH

O O

NH2 +H+

R Riduzione Figura 3.5 Struttura della forma ossidata e ridotta della nicotinamide-adenina-dinucleotide (NAD/NADH).

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Anche se dal punto di vista energetico la fermentazione è meno efficiente della respirazione, questo processo metabolico è utilizzato da numerosi batteri che si trovano a crescere in mancanza di ossigeno atmosferico. Nelle reazioni di fermentazione e respirazione, la molecola che grazie alle sue capacità di ossidazione e riduzione permette il trasferimento di elettroni da una molecola all’altra è rappresentata da una deidrogenasi chiamata nicotinamide-adenina-dinucleotide, comunemente indicata con la sigla NAD, e dal suo derivato ossidato NADH (fig. 3.5). Attraverso molecole trasportatrici come le flavoproteine e i citocromi (presenti sulla membrana citoplasmatica), ioni H+ vengono trasferiti sino a raggiungere un accettore finale. Questo meccanismo, che verrà illustrato in seguito più approfonditamente, rappresenta la base della respirazione cellulare. In funzione del tipo di accettore finale possiamo distinguere una respirazione di tipo aerobio e una respirazione di tipo anaerobio. Nel primo caso l’accettore finale di ioni H+ è rappresentato dall’ossigeno, che è ridotto a H2O, mentre nel secondo caso gli accettori finali sono molecole inorganiche che vengono ossidate a nitrati, solfati e carbonati. Al contrario, nella fermentazione, il substrato viene parzialmente ossidato, per cui rilascia solo una parte dell’energia disponibile. In questo caso, gli accettori finali di ioni H+ sono intermedi metabolici che derivano dall’ossidazione del substrato (fosforilazione a livello del substrato). I processi di fermentazione e di respirazione, che sono alla base della produzione di ATP nei microrganismi, sono delle reazioni di ossido-riduzione che necessitano di una determinata quantità di energia di attivazione e che trasformano il metabolita iniziale in una molecola simile, portando alla produzione di energia. Nei batteri (come in tutti gli organismi viventi) l’innesco di una reazione biosintetica è reso possibile grazie agli enzimi, ovvero catalizzatori organici di origine proteica in grado di abbassare l’energia di attivazione di una reazione in modo che questa possa avvenire senza la necessità di un elevato apporto di energia dall’esterno. Nelle cellule la liberazione di energia avviene attraverso una serie di ossido-riduzioni a cascata in cui il metabolita di partenza viene progressivamente ossidato grazie alla presenza di enzimi differenti. In questo modo l’energia viene liberata in maniera progressiva e controllata, così da evitarne una forte dissipazione sotto forma di calore. Tutte le ossidazioni cellulari avvengono attraverso processi di rimozione degli elettroni e di deidrogenazione (rimozione di ioni H+) e sono accoppiate a una contemporanea reazione di riduzione in cui, tramite enzimi specifici, un altro composto acquisisce l’elettrone ceduto o gli ioni H+ rilasciati dal substrato ossidato. La molecola che dona gli elettroni o gli ioni H+ si ossida e viene definita specie riducente, mentre la molecola che riceve gli elettroni o gli idrogenioni si riduce e viene definita specie ossidante. Questi concetti possono essere rappresentati efficacemente dalla seguente formula: H2D + A = D + H2A dove H2D è la specie riducente che dona ioni H+, A è la specie che riceverà l’idrogenione (specie ossidante), D è la specie riducente che si è ossidata mentre H2A è la specie ossidante che si è ridotta in quanto ha acquisito l’idrogenione.

3.2 - Fermentazioni batteriche I batteri sono in grado di utilizzare numerose sostanze organiche, soprattutto carboidrati, tra le quali la più importante è sicuramente il glucosio. Nella fermentazione, il prodotto terminale dell’ossidazione del glucosio è rappresentato dall’acido piruvico (piruvato), una molecola alla quale vengono convertiti tutti i composti da 4-6 atomi di carbonio. L’ossidazione ulteriore del piruvato rappresenta una caratteristica biochimica che distingue i batteri tra di loro. In ogni caso il piruvato, o un suo metabolita,

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Figura 3.6 Processo di fermentazione del glucosio ad acido piruvico secondo la via di Embden-Meyerhof e Parnas.

Glucosio (C6H12O6) ATP ADP

Glucosio-6-fosfato

ISOMERIZZAZIONE

Fruttosio-6-fosfato ATP ADP

Fruttosio-1,6-difosfato

SCISSIONE

Diidrossiacetonefosfato

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Gliceraldeide fosfato (GAP)

convertito in Ogni GAP cede un protone (ione idrogeno H+) e 2 elettroni al NAD+ NADH che diventa

e libera un secondo H+ nel citoplasma. Un altro fosfato, ceduto da una molecola di ATP si lega originando ATP

ADP

1,3 difosfoglicerato ADP ATP+H2O

Viene ceduto l’ultimo fosfato ADP ATP

Piruvato

funziona da accettore finale di idrogenioni che si accumulano in forma ridotta nel citoplasma batterico. La conversione del glucosio a piruvato avviene attraverso la via di Embden-Meyerhof e Parnas (EMP) (fig. 3.6) e inizia con la fosforilazione del glucosio a glucosio-6-fosfato con il consumo di una molecola di ATP. Successivamente avviene l’isomerizzazione (fruttosio-6-fosfato) e una seconda fosforilazione (con il consumo di una seconda molecola di ATP), che porta alla formazione di fruttosio-1,6-difosfato. Questa molecola viene quindi scissa in due molecole di fosfogliceraldeide (molecola a 3 atomi di carbonio).

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La deidrogenazione delle molecole di fosfogliceraldeide avviene grazie alla riduzione del NAD a NADH. L’energia liberata in questa fase viene utilizzata per fosforilare la fosfogliceraldeide ridotta generando, in questo modo, 2 molecole di acido 1,3-difosfoglicerico. A questo punto avviene la prima fosforilazione a livello del substrato in cui le due molecole di acido 1,3-difosfoglicerico cedono il loro gruppo fosfato all’ADP fosforilandolo ad ATP. Il prodotto della reazione di idrolisi dell’acido 1,3-difosfoglicerico (acido 3-fosfoglicerico) viene isomerizzato ad acido 2-fosfoglicerico e dopo la perdita di una molecola di H2O si arriva alla formazione di 2 molecole di acido 2-fosfoenolpiruvico (PEP). In questa fase avviene una seconda fosforilazione a livello del substrato in quanto entrambe le molecole di acido 2-fosfoenolpiruvico cedono il loro radicale fosfato a due molecole di ATP. Le due fosforilazioni a livello del substrato che avvengono durante la fermentazione del glucosio a piruvato producono un totale di 4 molecole di ATP per molecola di glucosio ossidata, ma due molecole di ATP vengono consumate per trasformare il glucosio in fruttosio-1,6-difosfato, pertanto la resa netta della via EMP è di due molecole di ATP. Il NADH, prodotto nella prima fase metabolica, rappresenta una molecola che deve necessariamente essere ossidata a NAD affinché la fermentazione possa avvenire in continuo. Esistono molti meccanismi di ossidazione del NADH a spese del piruvato e spesso i prodotti di ossidazione di queste reazioni caratterizzano in modo così specifico i batteri da essere utilizzate negli odierni sistemi di identificazione per distinguere tra loro le varie specie batteriche. In particolare, il piruvato può essere decarbossilato ad acetaldeide, che viene successivamente utilizzata per ossidare il NADH (fermentazione alcolica), oppure il piruvato può essere semplicemente ridotto ad acido lattico in modo da ossidare il NADH (fermentazione lattica). La fermentazione lattica può essere omolattica, ovvero tutto il piruvato viene ossidato ad acido lattico (Streptococcus, Lactobacillus ecc.), oppure eterolattica, dove il prodotto finale della fermentazione è rappresentato da una miscela complessa di acido lattico, etanolo e CO2 (batteri lattici, Leuconostoc). La fermentazione formica è tipica degli enterobatteri (Escherichia, Salmonella, Proteus ecc.). Esistono due tipi di fermentazione formica, la fermentazione acido-mista e la butandiolica. I prodotti finali della fermentazione acido-mista sono rappresentati da una complessa miscela di acido lattico, acido acetico, acido succinico e acido formico. In presenza della formico-deidrogenasi, l’acido formico può essere ulteriormente trasformato in H2 e CO2. Nella fermentazione butandiolica, tipica dei generi Klebsiella, Enterobacter, Serratia e alcune specie di Bacillus, il butandiolo si forma per condensa-

Glucosio CO2 Piruvato

Lattato

2,3-Butilenglicole CO2

Propionato

Etanolo CO2

Formiato

Acetato Butirrato

CO2

H2

Figura 3.7 Fermentazioni del piruvato.

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zione di due molecole di acido piruvico. È importante sottolineare che nella fermentazione formica è possibile fosforilare una molecola di ATP durante l’ossidazione del NADH grazie alla presenza dell’acetil-CoA. L’acetil-CoA viene utilizzato per produrre acetil-fosfato, che successivamente dona il gruppo fosfato all’ADP. Nella fermentazione butirrico-butilenica, caratteristica del genere Clostridium (anaerobio stretto), dall’ossidazione del piruvato si ottengono H2O, CO2 e acetil-CoA. Quest’ultimo viene ridotto con produzione di acetone, isopropanolo e butanolo. Nella fermentazione propionica, presente nel genere Propionebacterium, il piruvato viene ossidato, attraverso una serie di reazione biochimiche, ad acido succinico. Questo, interagendo con l’acetil-CoA, produce una molecola di ATP, acido propionico e CO2. In figura 3.7 sono rappresentati in modo schematico i diversi tipi di fermentazione del piruvato.

3.3 - Respirazione batterica La respirazione è un processo in cui si ha una completa ossidazione del substrato organico. Rispetto alla fermentazione, che termina il suo ciclo con la formazione di acido purivico e suoi derivati, nella respirazione vi è la completa mineralizzazione (trasformazione in H2O e CO2) del glucosio attraverso il ciclo dell’acido citrico, conosciuto anche come ciclo degli acidi tricarbossilici o ciclo di Krebs. Questo processo permette di impiegare l’energia prodotta dall’ossidazione del NADH a NAD in processi di fosforilazione ossidativa di un numero considerevole di molecole di ADP. Inizialmente il piruvato, prodotto durante la fermentazione e dopo essere stato decarbossilato e ossidato, entra nella via degli acidi tricarbossilici sotto forma di acetil-CoA con produzione di una molecola di NADH (fig. 3.8). Questa molecola entra nel ciclo di Krebs (fig. 3.9) attraverso la condensazione con una molecola di acido ossalacetico, formando in questo modo acido citrico. L’acido citrico viene quindi sottoposto a una serie di reazioni di ossidazione e decarbossilazione in modo da produrre in successione prima acido α-chetoglutarico e poi succinil-CoA. Durante questa prima fase del ciclo di Krebs sono prodotte 2 molecole di NADH e persi due atomi di carbonio sotto forma di CO2. Successivamente, dal succinil-CoA viene prodotto nuovamente acido ossalacetico con produzione di una molecola di FADH2 e una di NADH. Inoltre, il succinil-CoA subisce una fosforilazione a livello del substrato che porta al trasferimento di un gruppo fosfato al GDP trasformandolo in GTP (il GTP è un nucleoside trifosfato simile all’ATP). La resa complessiva dell’intero processo è la generazione di 2 molecole di CO2, 3 di NADH, 1 di FADH2 e 1 di GTP per ogni molecola di acetil-CoA che entra nel ciclo di Krebs. Il ciclo di Krebs consente quindi al batterio di generare un quantitativo di energia superiore a quello prodotto con la sola fermentazione. Infatti, oltre al GTP prodotto dalla fosforilazione a livello del substrato del succinil-CoA, il NADH e il FADH2 vengono ossidati dalla catena di trasporto degli elettroni.

CO2 +

O—

O C C

CoA-SH

NAD+

O

CH3 Piruvato

NADH

O

S-CoA C

Complesso della PDH

CH3 Acetil-CoA

Figura 3.8 La demolizione ossidativa del piruvato inizia con l’azione della piruvato decarbossilasi (complesso PHD) che decarbossila l’acido piruvico ad acetile generando l’idrogenazione del NAD a NADH. Il coenzima A (CoA-SH) si lega all’acetile generando l’acetil-CoA, che entrerà nel ciclo di Krebs.

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COO— O CH2

C

+ H2O

CH2 HO

COO—

C

COO—

COO—

CH2

CH2

C

COO—

C

O

Citrato

COO—

HC

CH2

COO—

COO—

cis-Aconitato

Ossalacetato NADH

COO—

COO— HO

C

CH2

H

CH2 COO—

H

C

COO—

HO

C

H

COO—

Malato

Isocitrato

COO—

H2O

COO—

CH2

CH

CH2 C

HC COO—

FADH2

C

CH2

CH2

CH2

CH2

COO—

COO—

Figura 3.9 Il ciclo di Krebs. Nella fase 1 si ha la condensazione dell’acetil-CoA con l’ossalacetato che porta alla formazione di citrato. Le fasi 2 e 3 rappresentano reazioni di isomerizzazione che portano alla formazione di isocitrato. Nella fase 4, l’isocitrato viene decarbossilato e ossidato da una deidrogenasi NAD-dipendente (isocitrato deidrogenasi). In tal modo si ottiene l’ossidazione completa di un atomo di C dell’acetato a CO2 e liberazione di NADH. Si forma così l’α-chetoglutarato che, insieme al piruvato e all’os-

GTP

NADH

α-Chetoglutarato

COO—

Succinato

CO2 +

COO—

O

Fumarato

O

S

CoA

CO2 +

NADH

Succinil-CoA

salacetato, avrà un ruolo importante in altri metabolismi. Segue nella fase 5 una nuova decarbossilazione ossidativa che porta alla formazione di succinil-CoA e la produzione di un’altra molecola di NADH. Nella fase 6 avviene la fosforilazione a livello del substrato del succinil-CoA con la sintesi di una molecola di GTP (analogo dell’ATP). Il succinato che ne deriva sarà ossidato due volte (fasi 7-9) rigenerando l’ossalacetato. In queste fasi si avrà la produzione di FADH2 e di NADH.

In questa catena, gli elettroni vengono trasferiti dal NADH e dal FADH2 (donatori primari) a un accettore finale quale l’O2 (respirazione aerobia), che viene ridotto a H2O. Nel meccanismo di trasporto degli elettroni sono coinvolti numerosi enzimi che si attivano in modo sequenziale, per cui inizialmente si attiverà la NADH deidrogenasi, poi le flavoproteine, le proteine ferro-zolfo e, infine, i citocromi (fig. 3.10). La NADH deidrogenasi ossida il NADH a NAD e trasferisce gli ioni H+ a dei trasportatori specifici, le flavoproteine, che si riducono. Queste proteine hanno la capacità di ridursi e ossidarsi in modo reversibile, per cui la forma ridotta delle flavoproteine può

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2 H+ 2 H+

FMNH2

2 e–

Fe/S

2 e–

Cyt b

2 e– Cyt o

Q8

FMN

NADH + H+

Esterno

+

NAD

2H

1/2 O2 + 2 H+

H2O Interno

NADH deidrogenasi Figura 3.10 Catena di trasporto degli elettroni in E. coli.

Tabella 3.1 Resa energetica del metabolismo del glucosio.

Fase metabolica

Molecole di ATP prodotte

Tappe di produzione dell’ATP

Fase iniziale della fermentazione

–2

Fosforilazione del glucosio e del fruttosio-6-fosfato utilizzando 2 ATP presenti nel citoplasma

Fermentazione

4

Fosforilazione al livello del substrato

2 NADH

6

Fosforilazione ossidativa (3 ATP per ogni molecola di NADH)

2 NADH

6

Fosforilazione ossidativa del piruvato ad acetil-CoA

2

Fosforilazione al livello del substrato del succinil-CoA

6 NADH

18

Fosforilazione ossidativa durante il ciclo di Krebs

2 FADH2

4

Fosforilazione ossidativa (2 ATP per ogni molecola di FADH2)

Ciclo di Krebs

Resa netta totale

Coenzimi coinvolti

38

riossidarsi attraverso la cessione dei soli elettroni al complesso dei citocromi. In questi complessi proteici sono presenti delle proteine legate a gruppi prostetici contenenti ferro. Il ferro può subire reversibilmente una serie di ossidazioni da Fe3+ a Fe2+ e di riduzioni da Fe2+ a Fe3+, e quindi può ricevere gli elettroni da un citocromo e trasferirli al successivo. L’ultimo citocromo della catena, tramite una citocromossidasi, trasferisce gli elettroni all’accettore finale che, come si è già ricordato, può essere O2. In tutti i passaggi descritti, avviene la liberazione graduale di energia che viene utilizzata per fosforilare l’ADP in ATP (vedi fig. 3.2). Attraverso questo processo per ogni molecola di NADH ossidata si producono 3 molecole di ATP, mentre il processo di ossidazione del FADH2 è meno efficiente in quanto produce solo 2 molecole di ATP. Quindi per il completo catabolismo aerobio di una molecola di glucosio vengono prodotte 2 molecole di ATP dal processo fermentativo e 36 molecole di ATP dal ciclo di Krebs, con una resa netta globale di 38 molecole di ATP. Il dettaglio del numero di molecole di ATP prodotte in ogni fase del metabolismo aerobio è riportato in tabella 3.1. Il ciclo di Krebs, oltre a essere di fondamentale importanza nel metabolismo bat-

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terico, è anche una fonte di precursori per alcune vie biosintetiche importanti per il corretto funzionamento della cellula batterica. Questo significa che alcuni intermedi prodotti durante il ciclo di Krebs (ad es. il citrato, l’α-chetoglutarato e l’ossalacetato) possono essere utilizzati come precursori per alimentare delle vie anaboliche come la biosintesi di lipidi e degli aminoacidi (in particolare aspartato e glutammato). Inoltre, l’ossalacetato può anche essere convertito in fosfoenolpiruvato (PEP) dalla PEP-carbossichinasi ed entrare nel processo di sintesi del glucosio (gluconeogenesi). Pertanto il ciclo di Krebs è considerato una via anfibolica, ovvero un processo biochimico in cui gli intermedi di reazione prodotti possono entrare a far parte di processi metabolici collocati sia nelle vie cataboliche che in quelle anaboliche. Risulta quindi evidente come il ciclo di Krebs sia di fondamentale importanza per la cellula batterica anche senza voler considerare il suo ruolo nel metabolismo energetico.

3.4 - Respirazione anaerobia Nel panorama microbico esiste un numero elevato di batteri che sono in grado di eseguire un tipo di respirazione aerobia e batteri che possiedono un sistema di trasporto degli elettroni in grado di utilizzare materiali inorganici diversi dall’ossigeno libero per la produzione di ATP (respirazione anaerobia). In base quindi alla respirazione possiamo distinguere microrganismi aerobi obbligati (aerobi stretti), aerobi-anaerobi facoltativi e anaerobi obbligati (anaerobi stretti). Nel caso della respirazione anaerobia gli accettori terminali di elettroni possono essere nitrati, solfati, CO2 e anche alcuni metalli. In particolare, alcuni batteri possono produrre ATP riducendo il nitrato (NO3–) a nitrito (NO2–), attraverso una serie di reazioni note come riduzione dissimilativa del nitrato. Questo tipo di reazione è però poco efficiente in quanto genera poche molecole di ATP e il nitrito che si forma è notevolmente tossico per il batterio. Un altro processo che coinvolge il nitrato è la sua riduzione ad azoto atmosferico (N2), in un processo noto come denitrificazione. La denitrificazione avviene in alcune specie dei generi Pseudomonas, Bacillus e Paracoccus. Microrganismi più specializzati, come i Desulfovibrio, possono ridurre il solfato (SO42–) a idrogeno solforato (H2S, batteri solfato-riduttori), altri possono utilizzare la CO2 riducendola a metano (CH4, batteri metano-riduttori). In generale, la respirazione anaerobia non è efficiente per quanto riguarda la sintesi di ATP come la respirazione aerobia, in quanto durante la fosforilazione ossidativa, con accettori terminali come il nitrato, il solfato e la CO2, si produce un quantitativo di energia inferiore a quello prodotto con la respirazione aerobia e di conseguenza un numero inferiore di molecole di ATP. Tuttavia, in condizioni di anaerobiosi la respirazione anaerobia è più efficiente della fermentazione e permette di produrre ATP mediante la catena di trasporto degli elettroni. Come sopra accennato, i batteri non presentano un metabolismo esclusivamente di tipo aerobio o solo anaerobio ma alcuni microrganismi, a seconda delle condizioni ambientali, possono ricavare energia per la sintesi di molecole di ATP attivando sia la respirazione sia la fermentazione (batteri aerobi-anaerobi facoltativi, batteri microaerofili e batteri aero-tolleranti). I batteri anaerobi obbligati sono batteri che possono vivere solo in assenza di aria e per i quali la presenza dell’ossigeno atmosferico risulta letale. Questi batteri possono trarre energia solo attraverso la fermentazione o attraverso la respirazione anaerobia (in cui gli accettori finali sono la CO2, il NO3– e il SO42–). Ricordiamo tra gli anaerobi obbligati i generi Bacteroides (costituenti principali della normale flora microbica intestinale dell’uomo) e Clostridium. In questi ultimi anni si è osservato che nella flora

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Capitolo 3 • Metabolismo batterico

microbica intestinale esistono batteri definiti ossigeno intolleranti, ossia batteri che non soltanto non si sviluppano, ma muoiono entro breve tempo se vengono posti a contatto con tracce anche minime di ossigeno (Fusobacterium e Peptostreptococcus). I batteri aerobi-anaerobi facoltativi sono batteri che a seconda delle esigenze ambientali possono vivere anche in assenza di ossigeno atmosferico ma la cui moltiplicazione è notevolmente più veloce in sua presenza. Sono batteri che possono utilizzare sia la fermentazione che la respirazione per la produzione di energia. In particolare, i batteri aerobi-anaerobi facoltativi comprendono molti generi di interesse medico (Vibrio, Spirillum, Aerobacter, Salmonella, Shigella fra i gram-negativi; Staphylococcus e molti bacilli fra i gram-positivi). I batteri microaerofili sono batteri che non possono moltiplicarsi in presenza di ossigeno (20%), ma al contrario del gruppo precedente crescono più facilmente a concentrazioni di ossigeno inferiori (2-18%). A tale classe appartengono batteri quali Streptococcus, Lactobacillus e Campylobacter. I batteri aerotolleranti sono batteri che non richiedono ossigeno e non presentano alcun tipo di metabolismo in grado di utilizzarlo, ciò nonostante sono in grado di sopravvivere se esposti all’aria, poiché possono attivare dei processi di tipo esclusivamente fermentativo (Klebsiella, Mycobacterium tuberculosis ecc.).

Bibliografia essenziale Berg, J.M., Tymoczko, J.L., Stryer, L., Biochimica, 7a ed., Zanichelli, Bologna, 2012. Downs, D.M. (2006), «Understanding microbial metabolism», Annual Review of Microbiology, 60, p. 533. Hurst, C.J. et al. (a cura di), Manual of Environmental Microbiology, 2a ed., ASM Press, 2002. Nelson, D.L., Cox, M., I principi di biochimica di Lehninger, 5a ed., Zanichelli, Bologna, 2012. Russel, J.B., Cook, G.M. (1995), «Energetics of bacterial growth: balance of anabolic and catabolic reactions», Microbiological Review, 59, p. 285.

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Capitolo

4

• Il genoma e il mobiloma batterico • Elementi Genetici Mobili • La ricombinazione genetica • Lo scambio genico orizzontale • Il sequenziamento genomico

Genetica e genomica batterica L’informazione genetica nella cellula batterica, come in tutte le cellule, è contenuta nel DNA (acido deossiribonucleico). La scoperta del DNA fu il risultato di studi sulla trasformazione genetica condotti con il batterio patogeno gram-positivo Streptococcus pneumoniae. L’unità fondamentale dell’informazione genetica è il gene e l’insieme dei geni contenuti in una cellula prende il nome di genoma. Il gene è definito come un tratto di DNA codificante per una proteina, attraverso l’RNA messaggero (mRNA), l’RNA ribosomiale (rRNA) e l’RNA transfer (tRNA). Le strutture contenenti il DNA prendono il nome di elementi genetici: nella cellula batterica la maggior parte dei geni sono contenuti nel cromosoma (elemento genetico principale), ma possono anche risiedere in altri elementi genetici come i plasmidi, i profagi e gli elementi genetici trasponibili. Quindi, per genoma batterico si intende tutto il DNA presente in una cellula batterica a prescindere dalla localizzazione cromosomale o meno. Nel genoma microbico, il mobiloma rappresenta l’insieme dei geni veicolati dagli elementi genetici mobili (MGE, mobile genetic elements) che includono plasmidi, profagi, elementi genetici trasponibili di cui fanno parte gli elementi integrativi e coniugativi (ICE, integrative conjugative element). Il cromosoma contiene i cosiddetti geni housekeeping, cioè essenziali per la sopravvivenza del batterio, mentre i plasmidi e gli elementi genetici trasponibili contengono geni come quelli di resistenza antibiotica o di virulenza, che possono conferire un vantaggio selettivo. Il genoma batterico è sottoposto a un processo evolutivo che permette al batterio di adattarsi a un ambiente circostante mutato. I cambiamenti a cui un genoma va incontro avvengono attraverso due meccanismi: le mutazioni e la ricombinazione genetica. I batteri hanno un genoma aploide, con un cromosoma che nella maggior parte dei casi è singolo e circolare. La lunghezza del cromosoma batterico varia a seconda della specie da meno di 200 000 paia di basi (bp) a più di 10 000 000.

4.1 - Il genoma batterico Nel 1995 il TIGR (The Institute for Genome Research, Rockville, MD, USA) ha sequenziato e pubblicato il primo genoma microbico completo di Haemophilus influenzae (Fleischmann, Science, 1995). All’inizio del 2017 le banche dati contengono le sequenze di poco meno di 8000 genomi procariotici completi, in larga maggioranza batterici. Le informazioni per la maggior parte di essi sono reperibili liberamente in banche dati, tra cui quelle delle Microbial Genome Resources del National Center for Biotechnology Information (NCBI, www.ncbi.nlm.nih.gov/genome/). Nel descrivere i genomi batterici va considerato che si tratta di organismi con distanze evolutive grandi. Per esemplificarne la complessità basti ricordare che un batterio gram-negativo è più simile ai nostri mitocondri che ai batteri gram-positivi e che la distanza evolutiva tra questi due gruppi di batteri supera quella tra l’uomo e una qualsiasi pianta o fungo. Il genoma comprende tutti gli elementi genetici che portano l’informazione genetica

Capitolo 4 • Genetica e genomica batterica

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S. pneumoniae G54

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Figura 4.1 Mappa circolare del genoma del ceppo G54 di sierotipo 19F di Streptococcus pneumoniae. Il genoma di questo batterio è di 2 078 953 bp e codifica per 2121 geni. La mappa riporta su quattro cerchi concentrici (dall’esterno all’interno): A. le categorie funzionali dei geni trascritti dal filamento di senso (barrette colorate), B. la posizione di questi geni sul filamento di senso (frecce rosse), C. la posizione dei geni codificati dal filamento di antisenso (frecce blu), D. e le loro categorie funzionali (barrette colorate). Per definizione lo zero della mappa in alto corrisponde all’origine di replicazione del genoma. Lo S. pneumoniae, come anche altri streptococchi, è caratterizzato dal fatto che gran parte dei geni sono trascritti in modo codirezionale con la replicazione del genoma. La sequenza di questo genoma è depositata nella banca dati pubblica GenBank con il numero di accesso CP001015.

di un organismo. Generalmente i cromosomi batterici sono costituiti da una singola molecola di DNA a doppia elica, capace di autoreplicarsi (replicone). Nei batteri, oltre al cromosoma che contiene le informazioni genetiche essenziali (geni housekeeping), possono essere presenti elementi genetici aggiuntivi quali plasmidi, profagi, elementi genetici trasponibili, che sono spesso mobili. Il cromosoma batterico è generalmente unico, aploide e circolare (fig. 4.1; tab. 4.1), mentre gli elementi genetici aggiuntivi sono spesso presenti in copie multiple ed elementi diversi possono coesistere nella stessa cellula. A queste regole generali, che valgono per la grande maggioranza dei batteri, ci sono molteplici eccezioni. Esempi di specie con cromosomi lineari sono gli actinomiceti del genere Streptomyces, spirochete del genere Borrelia o l’alfaproteobatterio Agrobacterium tumefaciens. Cromosomi multipli sono stati ritrovati in diverse specie e includono la spirocheta Leptospira interrogans (lunghi 4 300 000 e 360 000 bp) o il proteobatterio Burkholderia pseudomallei (lunghi 4 070 000 e 3 100 000 bp). In questi casi la decisione di denominare cromosoma ambedue le unità genetiche autonome è basata sulla dimostrazione della presenza di caratteri essenziali su entrambi i repliconi. Una seconda serie di tratti distintivi dei genomi batterici è che sono in genere caratterizzati da geni senza introni, non sovrapposti e che non codificano per poliproteine (tab. 4.1). Nei batteri non ci sono introni dello spliceosoma, sono rari gli introni di gruppo I, mentre gli introni del gruppo II, più frequenti, si comportano esclusivamente come elementi genetici trasponibili e sono quindi parte del mobiloma. Tra i rari esempi di geni che codificano per più di una proteina ci sono il gene che codifica per il citocromo B e C1 di Bradyrhizobium japonicum. Un esempio di utilizzo di geni sovrapposti è Carsonella ruddii che, probabilmente a causa della dimensione ridottissima del genoma, ha un’altissima densità di codificazione con molteplici geni sovrapposti. Le dimensioni dei genomi batterici correlano direttamente con il numero di situazioni diverse alle quali gli organismi sono esposti nell’ambiente e che sono in grado di affrontare. Più sono protette le nicchie ecologiche nelle quali una specie vive, minori

Tabella 4.1 Caratteristiche ti-

piche della maggioranza dei genomi batterici.

Proprietà • Cromosoma unico • Cromosoma aploide • Cromosoma circolare • Cromosoma con dimensioni da 150 000 a 10 000 000 bp • Geni senza introni • Un gene ogni 1000 bp • Geni non codificanti poliproteine • Geni non sovrapposti

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Batteriologia medica

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BOX 4.1 • Genomi degli organuli delle cellule eucariotiche Gli organuli delle cellule eucariotiche, mitocondri e cloroplasti, contengono un proprio cromosoma. In ambedue i casi i cromosomi contengono geni propri per gli RNA ribosomiali, utilizzati comunemente per classificare le cellule da un punto di vista evolutivo. L’analisi di sequenza ha mostrato che entrambi gli organuli provengono da batteri tramite due distinti processi di endosimbiosi avvenuti uno o due miliardi di anni fa. L’analisi dell’rRNA indica che i cloroplasti delle piante si posizionano in un albero filogenetico insieme al gruppo dei cianobatteri. I cloroplasti contengono molecole di DNA circolare a copie multiple di dimensioni tra 120 000 e 160 000 bp. I loro genomi contengono una settantina di

geni, una trentina di tRNA e da uno a tre operoni di rRNA. Molte delle proteine dei cloroplasti sono coinvolte nella fotosintesi e nell’autotrofia. Diversamente i mitocondri, presenti nella maggior parte delle cellule eucariotiche, vengono classificati tra i proteobatteri. I genomi mitocondriali sono molto limitati nelle loro dimensioni, ma variano anche in modo considerevole tra diverse linee di eucarioti. Il genoma del mitocondrio umano è di 16 569 bp e codifica per due rRNA, ventidue tRNA e tredici geni per le proteine della catena respiratoria. Sia i cloroplasti che i mitocondri sono tipici esempi di evoluzione genomica con perdita progressiva di geni e/o trasferimento degli stessi al genoma nucleare.

possono essere le dimensioni del genoma. Un esempio estremo sono le dimensioni ridotte dei genomi di mitocondri e cloroplasti delle cellule eucariotiche (box 4.1) o il genoma dell’endosimbionta degli insetti Carsonella ruddii, lungo circa 160 000 bp o quello del batterio intracellulare umano Mycoplasma genitalium (480 000 bp). I batteri che vivono liberi nell’ambiente, tra i quali Pseudomonas, Bradyrhizobium o Streptomyces, hanno genomi con dimensioni da 6 a 10 milioni di bp che permettono di rispondere a molteplici stimoli esterni e di adattarsi a diverse situazioni metaboliche e ambientali. A prescindere dalla dimensione del genoma, le capacità basilari dei batteri come la replicazione, la trascrizione, la traduzione e il metabolismo energetico di base rimangono pressoché costanti. Quello che varia maggiormente con l’incremento delle dimensioni genomiche è il numero dei sensori degli stimoli ambientali, dei regolatori della risposta genica e delle vie metaboliche aggiuntive. Tutte queste caratteristiche conferiscono molteplici capacità adattative ai batteri con genomi di dimensioni grandi (tab. 4.2). La sequenza del primo genoma di una qualsiasi specie mostra il corredo genico completo e permette di fare luce sui processi metabolici e sulla fisiologia in generale di questo organismo. Queste caratteristiche includono l’identificazione di buona parte delle vie metaboliche, la caratterizzazione delle proteine di superficie che interagiscono con l’ambiente (l’ospite umano), e delle vie anaboliche responsabili per la biosintesi dei molteplici polisaccaridi che caratterizzano la superficie batterica (parete cellulare, acidi teicoici, acidi lipoteicoici, lipopolisaccaride e capsula). La disponibilità di sequenze genomiche complete ha cambiato profondamente la biologia per quanto riguarda le conoscenze scientifiche in generale, ma in particolare per quanto riguarda i campi di applicazioni biotecnologiche, farmacologiche o industriali. Le applicazioni mediche di queste conoscenze genomiche includono la ricerca di nuovi bersagli per farmaci antibatterici utilizzando le conoscenze sulle vie metaboliche, oppure l’identificazione di nuovi candidati come antigeni vaccinali analizzando le strutture polisaccaridiche o proteiche della superficie batterica. La conoscenza di tutte le vie metaboliche, e in particolare di quelle specifiche di un certa specie di batteri o di un certo gruppo di batteri, permette di individuare nuovi enzimi come possibili bersagli per inibizione farmacologica. Nello sviluppo di vaccini ricombinanti a subunità, le sequenze genomiche associate a dati di epidemiologia molecolare hanno cambiato la metodologia di sviluppo dei nuovi vaccini. In questo caso la possibilità di predire quali proteine in un batterio sono in superficie, quali di queste sono conservate e quali sono differenti da proteine omologhe in altri batteri, permette il disegno razionale di un pannello di possibili proteine da sottoporre a screening per la loro efficacia come antigeni vaccinali.

Capitolo 4 • Genetica e genomica batterica

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Tabella 4.2 Esempi di genomi di batteri di interesse medicoa.

Specie

Malattia

Forma del Lunghezza cromosoma del genoma (Mbp)b

Contenuto Proteineb in GC (%)b

Numero genomi completi

incompleti

Mycoplasma genitalium

Infezioni del tratto genitale

Circolare

0,58

31,7

487

5

1

Mycoplasma pneumoniae

Polmonite

Circolare

0,82

40

701

30

33

Chlamydia trachomatis

Infezioni oculari e del tratto genitale

Circolare

1,04

41,2

902

110

34

Treponema pallidum

Sifilide

Circolare

1,14

52,8

1003

2

47

Borrelia burgdorferi

Malattia di Lyme

Lineare

1,22

28,3

1061

6

37

Chlamydiophila pneumoniae

Polmonite

Circolare

1,23

40,6

1064

12

1

Helycobacter pylori

Ulcera gastrica

Circolare

1,63

38,9

1451

86

600

Campylobacter jejuni

Tossinfezioni alimentari

Circolare

1,68

30,4

1652

121

823

Streptococcus pyogenes

Tonsillite

Circolare

1,83

38,5

1740

55

280

Haemophilus influenzae

Epiglottite, otite media, meningite

Circolare

1,85

38

1733

19

125

Streptococcus pneumoniae

Polmonite, otite media, meningite, sepsi

Circolare

2,08

39,6

2050

41

7538

Neisseria gonorrhoeae

Gonorrea

Circolare

2,14

52,4

2178

12

418

Neisseria meningitidis

Meningite e sepsi

Circolare

2,16

51,7

2154

85

723

Corynebacterium diphteriae

Difterite

Circolare

2,45

53,5

2177

16

71

Staphylococcus aureus

Ascessi, infezioni cutanee, tossinfezioni, infezioni ospedaliere

Circolare

2,85

32,8

2827

171

7462

Clostridium tetani

Tetano

Circolare

2,85

28,5

2673

2

9

Enterococcus faecalis

Infezioni ospedaliere

Circolare

3,02

37,3

2932

13

495

Legionella pneumophila

Malattia del legionario (polmonite)

Circolare

3,45

38,3

3020

65

486

Vibrio cholerae

Colera

Circolare

4,03

47,5

3664

33

656

Bordetella pertussis

Pertosse

Circolare

4,05

67,7

3576

294

319 (continua)

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Tabella 4.2 Esempi di genomi di batteri di interesse medicoa. (continua)

Specie

a b

Malattia

Forma del Lunghezza cromosoma del genoma (Mbp)b

Contenuto Proteineb in GC (%)b

Numero genomi completi

incompleti

Clostridium difficile

Colite pseudomembranosa

Circolare

4,19

28,6

3677

28

923

Mycobacterium tuberculosis

Tubercolosi

Circolare

4,38

65,6

4093

208

4981

Yersinia pestis

Peste

Circolare

4,56

47,6

4042

39

267

Salmonella enterica

Infezioni intestinali

Circolare

4,78

52,1

4605

424

6910

Escherichia coli

Infezioni urinarie e intestinali

Circolare

5,17

50,6

5036

338

5372

Klebsiella pneumoniae

Infezioni ospedaliere

Circolare

5,58

57,1

5369

118

1843

Pseudomonas aeruginosa

Infezioni opportunistiche

Circolare

6,58

66,2

6084

105

2198

Streptomyces coelicolor

Produttore di antibiotici

Lineare

9,05

71,98

8152

1



Dati estrapolati al 30 aprile 2017 dalla banca dati GenBank (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/genome/browse/reference/) I valori riportati si riferiscono alla mediana; Mbp: milioni di paia di basi

A livello industriale e ambientale la conoscenza delle vie metaboliche permette di ottimizzare processi di fermentazione industriale, come nel caso della produzione di biodiesel, oppure di ingegnerizzare nuovi processi di bioremediation nei quali il catabolismo batterico viene utilizzato per la bonifica di sostanze tossiche, come nel caso di inquinamento da polifenoli o idrocarburi. Un ulteriore esempio riguarda l’utilizzo di genomi di batteri estremofili per la ricerca di enzimi utili a processi industriali, fra cui ricordiamo l’uso di DNA polimerasi di batteri termofili per la reazione a catena della polimerasi (PCR). Lo scambio genico orizzontale tramite trasformazione, coniugazione o trasduzione è un fenomeno frequente nei batteri e contribuisce all’acquisizione e alla perdita di geni. Poiché i batteri si moltiplicano tramite divisione binaria, il materiale genetico trasferito orizzontalmente si stabilizza immediatamente nella progenie delle cellule riceventi. Sequenziando il genoma di isolati indipendenti appartenenti alla stessa specie si ottengono informazioni sulla variabilità dei singoli geni e operoni, tramite analisi comparativa di questi genomi. L’insieme dei geni conservati in tutti gli isolati di una specie prende il nome di core-genome, mentre la totalità dei geni presenti anche in un solo isolato di una specie prende il nome di pan-genome. La variabilità genomica intra-specie dovuta a scambio genico orizzontale è cosi grande che tra due ceppi della stessa specie le differenze possono ammontare anche al 20% del genoma. Ne deriva che il core-genome rappresenta circa il 60% dei geni presenti in un ceppo, mentre i rimanenti geni possono essere suddivisi in geni essenziali (presenti in tutti i ceppi, ma presenti come forme alleliche), oppure geni aggiunti che danno al ceppo delle caratteristiche accessorie, quale ad esempio la resistenza ad antibiotici. Le possibilità attuali di sequenziare anche centinaia di ceppi diversi di una specie permette di correlare a livello genomico la presenza di singoli alleli, geni o operoni a possibili fenotipi multifattoriali quali aumentata virulenza o propensione a generare specifiche infezioni (ad es. ceppi di Streptococcus pneumoniae associati a carriage rispetto

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Capitolo 4 • Genetica e genomica batterica

a ceppi che danno malattia invasiva). Il sequenziamento del genoma può essere inoltre utilizzato come strumento epidemiologico efficace nel tracciare la trasmissione di una malattia all’interno di un focolaio epidemico, per indagare la presenza di determinanti di resistenza antibiotica e per studiare, a livello di popolazione, la risposta dei microrganismi all’applicazione di pressioni selettive quali la terapia antibiotica o la vaccinazione. Infine il numero crescente di specie batteriche con genoma completo sequenziato permette di utilizzare le informazioni di tutto il genoma per la classificazione tassonomica anziché basarsi sulla sola sequenza del gene per il 16S rRNA.

4.2 - Il mobiloma batterico Il mobiloma rappresenta l’insieme dei geni veicolati dagli elementi genetici mobili (MGE) all’interno di un genoma. Fanno parte del mobiloma i plasmidi, i profagi, gli elementi genetici trasponibili di cui fanno parte gli elementi integrativi e coniugativi (ICE). Questi elementi genetici si trasferiscono tra batteri attraverso i tre meccanismi di scambio genico orizzontale (trasformazione, coniugazione e trasduzione) contribuendo all’evoluzione dei genomi microbici.

Plasmidi I plasmidi sono molecole di DNA circolare a doppio filamento che si replicano indipendentemente dal cromosoma della cellula ospite e contengono dei geni accessori non essenziali per la sopravvivenza del batterio, ma utili in determinate condizioni. La lunghezza dei plasmidi varia da circa 1000 paia di basi a 150 000 paia di basi, e possono essere presenti in poche o molte copie all’interno della cellula (plasmidi a basso o alto numero di copie); inoltre una stessa cellula può contenere plasmidi diversi. I plasmidi possono esistere solo all’interno della cellula batterica, infatti utilizzano gli apparati replicativi cellulari e la loro indipendenza nella replicazione consiste solo nel controllo che è effettuato da geni plasmidici. Alcuni plasmidi contengono geni che permettono loro di essere trasferiti da una cellula batterica a un’altra e vengono definiti coniugativi. Il trasferimento può essere sia tra batteri della stessa specie che di specie diverse, a seconda dell’ampiezza dello spettro d’ospite del plasmide. I plasmidi veicolano geni che influenzano profondamente il fenotipo della cellula batterica e tra questi abbiamo: geni che conferiscono resistenza antibiotica o virulenza e geni che producono batteriocine. Un ceppo batterico che contiene un plasmide di resistenza a un dato antibiotico, a differenza degli altri ceppi della stessa specie che ne sono privi, è capace di sopravvivere in presenza dell’antibiotico. I meccanismi con cui un plasmide conferisce resistenza a un antibiotico sono diversi e tra questi ricordiamo la produzione di proteine inattivanti l’antibiotico, l’alterazione della struttura della membrana cellulare tanto da impedire l’ingresso dell’antibiotico nella cellula, la modificazione del bersaglio del farmaco. I plasmidi R rappresentano un problema clinico notevole in quanto possono essere facilmente trasferiti da specie batteriche anche non patogene a specie patogene, con conseguente fallimento del trattamento antibiotico in varie malattie infettive. Negli ultimi anni, l’uso indiscriminato di antibiotici ha portato alla selezione nella popolazione batterica di un gran numero di plasmidi veicolanti geni di resistenza antibiotica. Alcuni plasmidi possono contenere più geni codificanti resistenza ad antibiotici diversi. Uno dei primi plasmidi multiresistenti fu identificato nel 1975 ed è il plasmide R100, contenente geni di resistenza al cloramfenicolo, alla tetraciclina, alla streptomicina e ai sulfamidici. Oggi, elementi genetici compositi come gli integroni, integrati nei plasmidi, catturano molteplici geni di resistenza e veicolano in contemporanea resistenze a beta-lattamasi ad ampio spettro, fluorochinoloni e aminoglicosidi, rendendo i batteri che li veicolano virtualmente resistenti a tutti i farmaci disponibili. Alcuni plasmidi contengono geni che conferiscono virulenza al batterio che li

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ospita, cioè la capacità di colonizzare, infettare e di dare malattia in un organismo sensibile. Un esempio è rappresentato da Escherichia coli, un batterio commensale che diventa patogeno per acquisizione di plasmidi di virulenza. Infatti, alcuni ceppi di E. coli sono capaci di creare disturbi intestinali quale la diarrea grazie alla presenza di un plasmide codificante un’enterotossina che induce la secrezione di acqua e sali nell’intestino. Altri ceppi possono ospitare un plasmide che codifica per un’emolisina che lisa i globuli rossi. Geni di patogenicità di Bacillus anthracis e dei batteri del genere Salmonella, Shigella e Yersinia sono veicolati da plasmidi di virulenza. Il terzo gruppo è rappresentato dai plasmidi che codificano batteriocine, proteine tossiche per batteri di altre specie o per ceppi differenti della stessa specie. I plasmidi che veicolano geni per le colicine in E. coli conferiscono al batterio la capacità di uccidere gli altri batteri, creando dei pori nella membrana cellulare, degradando DNA e RNA ribosomiale. Inoltre questi plasmidi codificano determinanti di immunità che proteggono il batterio dall’azione delle batteriocine stesse.

Batteriofagi I batteriofagi (o fagi) sono virus che infettano i batteri e il loro DNA costituisce la maggior parte del DNA della biosfera; si stima infatti che per ogni cellula batterica ci siano 10-100 particelle fagiche. I fagi sono generalmente costituiti da una testa (capside) a simmetria icosaedrica, con forma sferica o allungata. Alla testa si attacca una coda che può avere lunghezza variabile a seconda del fago (Siphovirus hanno una lunga coda, Podovirus hanno una coda molto corta). Testa e coda sono raccordate da una serie di proteine che costituiscono il collo del batteriofago. All’estremità della coda si trovano invece le fibre caudali, le quali interagiscono con strutture della superficie batterica che fanno da recettori del fago. L’infezione di una cellula batterica da parte del fago inizia con l’adsorbimento del virione sul batterio, che causa delle modificazioni nella struttura fagica tali da portare all’iniezione del DNA fagico all’interno della cellula batterica. Il DNA fagico guida quindi la sintesi proteica producendo tutti gli enzimi necessari alla replicazione del proprio DNA e le proteine strutturali per l’assemblaggio di nuove particelle fagiche. L’infezione si conclude con la lisi della cellula ospite e il rilascio della progenie fagica (ciclo litico). Alcuni fagi non lisano la propria cellula ospite e il loro genoma si integra all’interno del cromosoma batterico prendendo il nome di profago (lisogenia). Questo comportamento è tipico dei fagi dello Streptococcus pyogenes, nel cui genoma si possono trovare integrati contemporaneamente fino a 8 profagi. Le dimensioni del genoma fagico sono estremamente variabili, si va infatti dalle 5386 bp del ΦX174 di Escherichia coli alle oltre 200 000 bp dei cosiddetti “fagi giganti”. I genomi dei batteriofagi possono codificare per sistemi di metilazione e restrizione del DNA che modificano il DNA fagico proteggendolo dalla degradazione da parte della cellula ospite. Inoltre molti fagi posseggono geni codificanti per tossine batteriche, quali ad esempio la tossina difterica di Corynebacterium diphteriae e le esotossine pirogeniche di S. pyogenes.

Elementi genetici trasponibili Gli elementi genetici trasponibili sono frammenti di DNA che si possono spostare all’interno di una singola cellula da una posizione all’altra del cromosoma o dal cromosoma a un plasmide e viceversa. Questo processo di spostamento di DNA da un punto a un altro del genoma prende il nome di trasposizione e avviene con un meccanismo di ricombinazione sito-specifica in corrispondenza del sito di trasposizione (fig. 4.2). Questo sito contiene specifiche sequenze di DNA riconosciute da enzimi specializzati come le trasposasi o le ricombinasi sito-specifiche. I principali elementi

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Sequenza bersaglio DNA ricevente Integrasi

Taglio

DNA contenente il trasposone

Trasposizione conservativa

Taglio

Replicazione

Trasposizione replicativa

Cointegrato

Riparazione

DNA polimerasi

Risoluzione del cointegrato

DNA ligasi

genetici trasponibili sono le sequenze di inserzione, i trasposoni e gli integroni, gli elementi integrativi e coniugativi. Le sequenze di inserzione (IS) contengono il gene per la trasposasi e, alle estremità, le sequenze invertite e ripetute (IR) lunghe poche decine di paia di basi, necessarie per lo spostamento. I trasposoni, in aggiunta alle IR e al gene per la trasposasi, contengono un numero variabile, a volte grande, di geni che conferiscono fenotipi particolari. Le IS sono degli elementi trasponibili semplici della lunghezza di circa 1000 bp capaci di inserirsi in punti particolari del genoma batterico. Un genoma batterico può contenere varie copie di una stessa IS integrate in posizioni diverse: l’integrazione all’interno di un gene o di un operone (gruppo di geni la cui espressione è sotto il controllo di uno stesso promotore di trascrizione) può portare all’inattivazione del gene o dell’operone stesso. Tra i geni veicolati dai trasposoni ricordiamo quelli che conferiscono resistenza antibiotica, quelli che producono tossine, quelli che codificano fattori di virulenza. Il trasposone più semplice è quello costituito da un gene o da un gruppo di geni fiancheggiati da due identiche IS, la cui trasposasi catalizza lo spostamento dell’intero elemento. Un esempio è rappresentato dal trasposone Tn5, che contiene geni di resistenza antibiotica fiancheggiati da due elementi IS. Un gruppo differente di trasposoni come quelli coniugativi non presenta elementi IS all’estremità ma solo delle sequenze invertite ripetute riconosciute dalle ricombinasi sito-specifiche che catalizzano la trasposizione. Spesso i trasposoni possono diventare di grandi dimensioni grazie alla fusione di più trasposoni tra loro e questo può portare alla nascita di elementi genetici trasponibili codificanti tanti e diversi determinanti di resistenza antibiotica. Durante il processo di trasposizione, la trasposasi riconosce la sequenza del sito bersaglio e produce un taglio a singolo filamento; il trasposone subisce anch’esso dei tagli e si inserisce nella sequenza bersaglio dove il DNA viene risaldato con conse-

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Figura 4.2 Trasposizione. Può essere conservativa o replicativa. Entrambe prevedono dei tagli sfalsati (indicati con le frecce) nei singoli filamenti del DNA ricevente (rappresentato in blu), a livello della sequenza bersaglio, e nel trasposone (rappresentato in arancione), a livello delle IR. Tali sequenze (rappresentate come quadrati) presentano tra loro omologia e permettono l’appaiamento dei filamenti appartenenti alle due diverse molecole di DNA. Nella trasposizione conservativa si ha un ulteriore taglio con perdita del trasposone. La riparazione delle interruzioni del singolo filamento produce duplicazione della sequenza bersaglio. Nella trasposizione replicativa si ha la formazione di una struttura detta cointegrato (riportata in modo semplificato) che contiene il DNA ricevente e due copie del trasposone uniti tra loro. La risoluzione del cointegrato porta all’acquisizione del trasposone nel nuovo sito senza perdita dell’elemento dal sito d’origine.

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guente duplicazione della sequenza bersaglio. Nella trasposizione conservativa il trasposone viene perso dalla sede originaria e acquisito in una nuova sede, mentre nella trasposizione replicativa una copia rimane nel sito originario e una va nel nuovo sito (fig. 4.2). Entrambi i tipi di trasposizione prevedono i tagli a singolo filamento e integrazione del trasposone. Nella trasposizione conservativa il sito bersaglio viene tagliato di nuovo e le interruzioni nei filamenti vengono riparate con formazione di una ripetizione diretta che fiancheggia il trasposone. Nella trasposizione replicativa il processo di riparazione inizia quando il trasposone è legato sia al sito originario che a quello bersaglio e ciò porta alla formazione di una struttura detta cointegrato, che viene poi risolta con il rilascio del trasposone originario e la presenza di una nuova copia del trasposone nel sito bersaglio. Gli integroni sono elementi genetici trasponibili che si inseriscono nel cromosoma batterico e spesso anche in plasmidi o in trasposoni e pertanto sono facilmente mobilizzabili tra specie batteriche diverse. Questi elementi sono costituiti da un gene per l’integrasi e una sequenza specifica di attacco, entrambi coinvolti nel processo di ricombinazione sito-specifica. La particolarità degli integroni è la presenza di una sequenza specifica di DNA che permette l’acquisizione di nuovi geni, detti cassette, da fonti diverse e di esprimerli sotto il controllo di un promotore residente. Spesso i nuovi geni che si inseriscono sono determinanti di resistenza antibiotica o di virulenza e il loro numero può essere grande. Gli integroni sono diffusi in parecchie specie batteriche tra cui Pseudomonas aeruginosa e possono facilmente essere trasferiti in batteri patogeni per scambio genico orizzontale e selezionati dall’uso di antibiotici nella pratica clinica. Gli elementi integrativi e coniugativi sono elementi genetici mobili capaci di auto-trasferirsi e hanno caratteristiche in comune con i plasmidi, con cui condividono il trasferimento tramite coniugazione, e con i batteriofagi, con i quali condividono la capacità di integrarsi in punti specifici del cromosoma della cellula ospite. La struttura degli ICE contiene un’impalcatura composta da tre moduli i cui geni assicurano il mantenimento, la disseminazione e la regolazione. Questi moduli possono essere scambiati tra gli elementi genetici mobili e tra questi ultimi e il cromosoma della cellula ospite. Come i batteriofagi temperati, gli ICE si integrano in un replicone dell’ospite, il cromosoma o un plasmide, il quale assicura il trasferimento verticale alla progenie batterica. Il modulo di mantenimento (o integrazione) contiene un gene che codifica l’integrasi (Int) che promuove l’integrazione dell’ICE nel cromosoma (o nel plasmide). L’integrasi appartiene alla famiglia delle ricombinasi ed è un enzima che catalizza la ricombinazione tra una sequenza specifica attP (phage attachment site), presente nel modulo di integrazione dell’ICE, e una sequenza bersaglio, identica o altamente omologa, attB (bacterial attachment site), presente nel cromosoma dell’ospite. Le integrasi degli ICE più comuni sono tirosine ricombinasi e sono simili alla integrasi del fago lambda (λ) di Escherichia coli. Una forma circolare dell’ICE si integra nel cromosoma mediante ricombinazione tra le sequenze attP e attB e genera due sequenze di giunzione ICE-cromosoma, attachment left (attL) e attachment right (attR). Nel modulo di integrazione spesso è presente un gene codificante per l’escissionasi (Xis) che è richiesta per l’escissione dell’ICE dal cromosoma. L’escissionasi facilita la ricombinazione, catalizzata dall’integrasi, tra le sequenze di giunzione attL e attR. Alcuni ICE hanno degli attB variabili: ad esempio gli ICE Tn5251 di S. pneumoniae e Tn916 di Enterococcus faecalis si integrano in più punti del cromosoma a livello di sequenze ricche di nucleotidi A e T. Altri ICE, come il Tn5253 di S. pneumoniae e l’SXT di Vibrio cholerae, si integrano in un unico punto specifico del cromosoma, il Tn5253 nella porzione 5′ del gene essenziale rbgA e l’SXT nella porzione 5′ del gene prfC. L’inserzione del Tn5253 in rbgA non compromette la vitalità del ceppo batterico che lo ospita in quanto la duplicazione del sito bersaglio, conseguente alla integrazione dell’ICE, ristabilisce la coding sequence del gene. Va detto che in assen-

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za degli attB specifici di integrazione, sia il Tn5253 che l’SXT si integrano altrove nel cromosoma batterico. ICE simili possono contenere moduli di mantenimento differenti, ad esempio il Tn916 e il Tn5397 di Clostridium difficile (entrambi veicolanti il gene tet(M) che conferisce resistenza alla tetraciclina) hanno dei moduli di regolazione e disseminazione con un’identità a livello di sequenza nucleotidica superiore all’80%, ma moduli di integrazione differenti. Tn916 codifica una tirosina ricombinasi (Int) e un’escissionasi (Xis), mentre Tn5397 codifica un’unica grande serina ricombinasi (TndX) che catalizza l’inserzione dell’elemento genetico in un sito specifico del cromosoma contenente al centro un dinucleotide GA. Il modulo di disseminazione (o coniugazione) contiene i geni che codificano le proteine coinvolte nel processo di coniugazione durante il quale, in seguito a contatto cellulare, il DNA dell’elemento genetico mobile viene trasferito dalla cellula donatrice a quella ricevente. Verosimilmente la maggior parte degli ICE trasferisce un singolo filamento di DNA, ad eccezione di alcuni che trasferiscono il doppio filamento di DNA. Anche i moduli di disseminazione sono diversi tra i vari ICE ed elementi diversi possono avere moduli simili, ad esempio i geni della coniugazione dell’SXT sono simili a quelli del plasmide coniugativo F di E. coli. Il sistema di trasferimento di parecchi ICE può essere parassitato dagli elementi mobilizzabili, che sono elementi non in grado di trasferirsi autonomamente ma che possono utilizzare gli apparati di trasferimento degli ICE. In questi casi i moduli di disseminazione dell’elemento mobilizzabile e dell’ICE che lo mobilizza contengono un’origine di trasferimento (oriT) differente. Alcuni elementi incapaci di trasferirsi per coniugazione da cellula a cellula si sono integrati, nel corso dell’evoluzione, all’interno di altri elementi che ne permettono il trasferimento. L’elemento genetico Ωcat(pC194) di S. pneumoniae fa parte dell’ICE composito Tn5253 che ne assicura il trasferimento a diverse specie batteriche. L’Ωcat(pC194), che veicola il gene cat di resistenza al cloramfenicolo, autonomamente è capace solo di mobilità intracellulare. L’elemento si escinde dal Tn5253, produce un intermedio circolare e si integra per ricombinazione omologa altrove nel cromosoma di S. pneumoniae. Vale la pena ricordare che il Tn5251, che veicola il gene tet(M), è un ICE che fa parte anch’esso dell’elemento composito Tn5253, ma oltre ad essere trasferito da quest’ultimo è capace di trasferimento coniugativo autonomo a specie batteriche diverse. Il modulo di regolazione contiene i geni che regolano il trasferimento degli ICE. Il trasferimento del Tn916 e dell’ICE CTnDOT di Bacteroides, che conferiscono resistenza alla tetraciclina, è indotto da concentrazioni subinibitorie di tetraciclina, ma il meccanismo di induzione è differente. La tetraciclina innesca la disseminazione di ICE che conferiscono alle nuove cellule ospiti la capacità di sopravvivere in presenza di concentrazioni dell’antibiotico che risultavano letali prima dell’acquisizione dell’elemento genetico. L’ICE SXT codifica la proteina SetR, che è un ortologo del repressore CI del fago λ che controlla la lisogenia (integrazione del DNA fagico in quello cromosomale). Verosimilmente, come per il fago λ, l’induzione della risposta SOS (sistema di riparazione del DNA danneggiato) da parte della mitomicina C (chemioterapico che induce danni nel DNA) riduce la repressione operata da SetR e induce il trasferimento di SXT di circa 400 volte. Nell’ICESt1 di Streptococcus thermophilus l’espressione di un repressore inattivato dalla risposta SOS ne regola il trasferimento. La risposta batterica globale al danneggiamento del DNA si traduce nella regolazione del trasferimento di vari ICE. L’impalcatura dell’ICE con i suoi 3 moduli funzionali può acquisire geni codificanti funzioni diverse, che possono così essere disseminati nella popolazione batterica. Tra questi ricordiamo quelli che conferiscono resistenza antibiotica e quelli coinvolti nella virulenza. Alla stessa stregua dei plasmidi coniugativi, gli ICE sono molto importanti da un punto di vista clinico, perché responsabili della diffusione di questi geni tra batteri patogeni anche non correlati.

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4.3 - Evoluzione del genoma batterico Un organismo vivente si evolve adattandosi alle mutate condizioni dell’ambiente che lo circonda. I batteri non hanno riproduzione sessuale, ma si dividono per scissione binaria, pertanto la fonte di variabilità del loro genoma è rappresentata dalle mutazioni e dalla ricombinazione genetica. Quest’ultima permette ai meccanismi di scambio genico orizzontale (trasformazione, coniugazione e trasduzione) di concludersi nella cellula ricevente. Tipicamente, le mutazioni producono il cambiamento di poche coppie di basi nella sequenza del DNA, mentre la ricombinazione genetica produce grandi cambiamenti che portano all’acquisizione, perdita, o riarrangiamento di geni, gruppi di geni e porzioni di cromosoma.

Mutazioni La sequenza nucleotidica completa del DNA genomico della cellula costituisce il genotipo, mentre tutte le caratteristiche della cellula che possiamo osservare rappresentano il fenotipo. Le mutazioni sono dei cambiamenti ereditabili della sequenza del DNA e quindi del genotipo a cui possono o meno corrispondere cambiamenti a livello fenotipico. Un batterio isolato in natura viene definito ceppo selvaggio, mentre un batterio che ha subìto mutazioni viene definito mutante. Questi cambiamenti possono conferire dei vantaggi al microrganismo che gli consentono di crescere in determinate condizioni ambientali sfavorevoli per la crescita del ceppo selvaggio (o parentale) e sono selezionabili. Un classico esempio di mutazioni selezionabili è rappresentato da quelle che conferiscono resistenza agli antibiotici. Un mutante antibiotico-resistente è capace di crescere in presenza di concentrazioni di antibiotico sufficienti a inibire la crescita del ceppo parentale da cui il mutante deriva e pertanto può essere selezionato positivamente da una popolazione. Le mutazioni possono essere spontanee o indotte: quelle spontanee derivano da errori durante il processo di replicazione o riparazione del DNA, conseguenza di escissioni o inserzioni di elementi genetici trasponibili o batteriofagi (virus che infettano i batteri); quelle indotte sono la conseguenza dell’esposizione ad agenti mutageni chimici o fisici come il bromuro d’etidio o i raggi ultravioletti. Vengono definite puntiformi le mutazioni che interessano una singola coppia di basi del DNA. L’mRNA, trascritto dal DNA, viene letto da parte dei ribosomi a triplette di basi (codoni), pertanto ogni codone del codice genetico corrisponde a un aminoacido, con eccezione dei codoni di stop. Inoltre, codoni diversi possono codificare lo stesso aminoacido e per questo motivo si parla di codice genetico degenerato. Le mutazioni puntiformi si classificano in: missenso, nonsenso e silenti (fig. 4.3). Un cambiamento missenso modifica un codone del DNA portando alla codifica di un aminoacido differente da quello originario con produzione di una proteina mutata, probabilmente non funzionale. Un cambiamento nonsenso comporta la produzione di una proteina incompleta spesso non attiva. Una mutazione silente, invece, non produce nessuna variazione a livello della sequenza proteica in virtù della degenerazione del codice genetico. Le basi azotate che costituiscono il DNA sono le purine (A, adenosina; G, guanosina) e le pirimidine (C, citosina; T, timidina): il cambiamento da una base purinica a un’altra (ad es. da G ad A) o da una base pirimidinica a un’altra viene detto transizione, mentre il cambiamento da una purina a una pirimidina e viceversa prende il nome di transversione. L’inserzione o la delezione di una singola coppia di basi provocano delle mutazioni denominate frameshift in quanto portano a uno scivolamento del modulo di lettura, con conseguente produzione di proteine con cambiamenti radicali. Le mutazioni per inserzione e delezione possono riguardare anche frammenti di DNA grandi con conseguente inattivazione del gene interessato. Tali cambiamenti possono

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... cta ... gat

gca tgt ata ... cgt aca tat ...

DNA

... cua

gca ugu aua ...

RNA

L

... cua L

A

gca uau aua ... A Y I

C

I

Proteina

... cua L

Mutazione missenso

gca ugc aua ... A C I

Mutazione silente

... cua L

gca uga aua ... A Stop

Mutazione nonsenso

essere dovuti alle sequenze di inserzione, che sono dei frammenti di DNA capaci di inserirsi in punti diversi del cromosoma batterico, oppure a frammenti di DNA che invertono la propria direzione, o infine alla traslocazione (spostamento) di frammenti di DNA da un punto a un altro del cromosoma. Le mutazioni possono essere riparate con un processo che prende il nome di reversione e il ceppo batterico che ne è oggetto viene definito revertante. La reversione può avvenire nello stesso sito in cui la mutazione originaria ha avuto luogo o in un secondo sito e avere effetto di soppressione della mutazione ristabilendo il fenotipo selvaggio. Le inserzioni di frammenti di DNA come le sequenze di inserzioni possono revertire per semplice escissione. Nei batteri il tempo medio di generazione è di circa trenta minuti, pertanto l’effetto di una mutazione del genoma si esprime in tempi brevissimi. Il sequenziamento genomico di batteri patogeni isolati dallo stesso paziente in tempi diversi ha permesso di identificare il tasso di mutazione a cui è sottoposta una data specie batterica durante il corso dell’infezione. Mycobacterium tuberculosis, agente eziologico della tubercolosi, ha un tasso di mutazione pari a 0,5 mutazioni/genoma/anno, mentre l’Helicobacter pylori, causa di ulcera e tumore gastrico, ha un tasso di mutazione di 30 mutazioni/ genoma/anno. Il diverso tasso di mutazione è legato all’efficienza dei sistemi di riparazione del DNA, che è generalmente minore nelle specie più soggette a mutazione. L’esposizione ad agenti mutageni e l’inattivazione del sistema di riparazione del DNA incrementano il tasso di mutazione.

Ricombinazione genetica La ricombinazione genetica è un processo di riarrangiamento del DNA che porta alla fusione di frammenti appartenenti a molecole di DNA differenti. Attraverso questo meccanismo, a partire da un genoma si ottengono nuove combinazioni di geni. I processi di ricombinazione possono portare all’acquisizione di frammenti grandi di DNA contenenti anche un gene intero o gruppi di geni. La ricombinazione è un processo che prevede la rottura e il successivo risaldamento del DNA ed è mediata da enzimi tra cui quelli coinvolti nei normali processi di sintesi e riparazione del DNA. La ricombinazione genetica può essere di tipo omologo o di tipo sito-specifico (figg. 4.4 e 4.5). La ricombinazione omologa viene definita crossing over poiché prevede la rot-

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Figura 4.3 Mutazioni puntiformi. Sono di tre tipi: missenso, se il cambiamento di un codone nel DNA porta alla codifica di un aminoacido diverso nella proteina; nonsenso, se il cambiamento produce un codone di stop; silente, se il cambiamento a livello del DNA non corrisponde a nessun cambiamento nella proteina.

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Figura 4.4 Ricombinazione omologa. Richiede regioni di omologia tra il DNA donatore e quello ricevente. Il processo inizia con il taglio di uno dei filamenti del DNA donatore, il filamento viene scalzato, ricoperto dalle proteine che legano il DNA a singolo filamento (SSB) e dalla proteina RecA che porta alla formazione di un varco nel DNA ricevente (strand invasion) e di una struttura detta heteroduplex. La risoluzione dell’heteroduplex con formazione di molecole di DNA ibride avviene per rottura e risaldatura dei filamenti e a seconda di dove avviene il taglio si hanno molecole ibride ricombinate in punti diversi.

DNA donatore Taglio di un filamento Allontanamento del filamento SSB DNA ricevente RecA

Strand invasion

Formazione dell’heteroduplex

Risoluzione dell’heteroduplex

Figura 4.5 Ricombinazione sito-specifica. Richiede brevi regioni di omologia tra la sequenza bersaglio nel DNA ricevente (rappresentato in blu), e le sequenze invertite ripetute (IR) che delimitano l’elemento trasponibile (rappresentato in arancione). Il processo di integrazione dell’elemento porta alla duplicazione della sequenza bersaglio. Le regioni omologhe sono rappresentate da quadrati.

Sequenza bersaglio DNA ricevente

IR

IR Elemento trasponibile

TTGAGTGTGA

IR

TCACACTCAA

IR Ricombinazione

Sequenza bersaglio

Sequenza bersaglio

tura dei filamenti del DNA e la riformazione dei legami tra gli emifilamenti (fig. 4.4). Il processo inizia con un taglio in uno dei due filamenti del DNA donatore ad opera di una endonucleasi (enzima capace di rompere i legami tra i nucleotidi che costituiscono il DNA); in seguito il filamento tagliato viene separato dal filamento integro ad opera di un’elicasi (enzima che separa i filamenti complementari del DNA) e legato da proteine stabilizzatrici dette proteine SSB (single strand binding protein). A questo punto interviene una proteina detta RecA che lega il frammento di DNA a singolo filamento e forma un complesso che porta alla formazione di un varco nel DNA ricevente permettendo l’appaiamento del filamento donatore con sequenze complementari del DNA ricevente. Questo processo, definito strand invasion, porta all’allontanamento (displacement) di uno dei due filamenti nel DNA ricevente e alla formazione di una

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struttura detta heteroduplex, che rappresenta l’intermedio di ricombinazione. La risoluzione dell’heteroduplex avviene grazie alla rottura del filamento scalzato e di quello donatore, che possono così essere risaldati tra di loro, grazie all’intervento di un enzima, la DNA ligasi, e portare alla formazione di un filamento ibrido di DNA. Affinché il processo avvenga c’è bisogno di regioni di omologia tra DNA ricevente e donatore abbastanza estese. La ricombinazione sito-specifica permette la trasposizione, cioè la traslocazione di frammenti di DNA, da un punto a un altro di un genoma o da un genoma di un batterio a un altro; esempi comprendono l’integrazione degli elementi genetici trasponibili (sequenze di inserzione, trasposoni, integroni, elementi integrativi e coniugativi), dei batteriofagi, l’inversione di frammenti di DNA con funzioni regolatorie. La ricombinazione sito-specifica viene così definita perché avviene in specifici punti del DNA aventi una particolare sequenza riconosciuta da enzimi come le trasposasi o le ricombinasi sito-specifiche, capaci di riconoscere tali sequenze e di produrre la ricombinazione stessa. In questo caso le regioni di omologia richieste affinché il processo avvenga sono generalmente brevi (poche paia di basi). La sequenza bersaglio generalmente è una sequenza palindromica, cioè una sequenza che risulta identica se letta in un senso o nell’altro. La trasposasi (o la ricombinasi sito-specifica) riconosce la sequenza bersaglio e le inverted repeat (IR) presenti all’estremità dell’elemento trasponibile, le taglia e le rilega, producendo ricombinazione con duplicazione della sequenza bersaglio (fig. 4.5). In Salmonella typhimurium, batterio flagellato gram-negativo, la variazione di fase consiste nell’espressione alternata di due proteine flagellari antigenicamente differenti H1 e H2 codificate rispettivamente dai geni h1 e h2. Il controllo di questo meccanismo è effettuato da una sequenza di DNA invertibile di circa 1 kbp fiancheggiata da IR e contenente il gene hin per la ricombinasi sito-specifica. Hin media la ricombinazione tra le IR che porta all’inversione alternata del frammento di DNA. Questo tratto di DNA contiene il promotore dei geni h2 e rh1, quest’ultimo codificante una proteina che reprime l’espressione del gene h1. Quando il promotore risulta orientato nella direzione di trascrizione di h2 e rh1, viene prodotta la proteina flagellare H2 e il repressore rH1 che blocca l’espressione della proteina H1. Se il promotore risulta orientato nella direzione opposta a quella di trascrizione, i geni h2 e rh1 non vengono trascritti, pertanto in assenza di repressore rH1 a partire dal gene h1 si ha produzione della proteina flagellare H1 (fig. 4.6).

Trasferimento genico orizzontale I tre meccanismi attraverso cui si ha lo scambio orizzontale di materiale genetico eterologo tra batteri diversi sono: la trasformazione, la coniugazione e la trasduzione. La ricombinazione genetica rappresenta il processo che permette a questi meccanismi di scambio di concludersi all’interno della cellula ricevente. La trasformazione è un processo durante il quale la cellula batterica acquisisce DNA libero rilasciato nell’ambiente da altre cellule. La trasformabilità è una caratteristica di molte specie batteriche sia gram-positive sia gram-negative. La scoperta della trasformazione batterica ha costituito una tappa fondamentale nello studio della biologia, perché ha portato alla scoperta del DNA come molecola depositaria dell’informazione genetica. Nel 1928, Fred Griffith lavorando con Streptococcus pneumoniae, un batterio patogeno capsulato, si accorse che era possibile isolare su piastra mutanti di S. pneumoniae senza capsula che formavano colonie rugose (rough, R) in contrasto ai ceppi selvaggi capsulati che formavano colonie lisce (smooth, S). Griffith vide che batteri S inoculati nel topo erano capaci di ucciderlo, a differenza dei batteri R. Inoculando i topi con batteri R vivi e batteri S, geneticamente distinti, uccisi al calore, Griffith vide che i topi morivano ed era possibile isolare batteri S. L’esperimento dimostrava che i ceppi

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hin

h2

rh1

A IR

IR

Flagello H2 H2

rH1

P

P

hin

h2

h1

rh1

B IR

IR

Flagello H1 P

h1

H1

Figura 4.6 Variazione di fase in Salmonella typhimurium. È regolata da una sequenza invertibile (rappresentata con linea tratteggiata) contenente un promotore di trascrizione (P) e il gene hin (rettangolo grigio). La ricombinazione tra le IR, mediata dal prodotto del gene hin, produce l’inversione con conseguente cambiamento dell’orientamento (indicato dalle frecce sottili nere) del promotore dei geni h2 e rh1 (rispettivamente freccia blu e grigia). A. Il promo-

tore è orientato nella direzione di trascrizione dei geni h2 e rh1 con conseguente produzione della proteina flagellare H2 (cerchio blu) e del repressore rH1 (cerchio grigio), il quale reprime la trascrizione del gene h1 (freccia rossa). B. Il promotore è orientato nella direzione opposta a quella di trascrizione di h2 e rh1 che di conseguenza non vengono espressi; in assenza di repressore rH1 il gene h1 viene espresso con produzione della proteina flagellare H1 (cerchio rosso).

R erano stati trasformati a S ad opera di un molecola, resistente al calore, proveniente dai batteri uccisi, e in grado di produrre la capsula. Nel 1944 il biochimico Avery scoprì che la molecola che veicolava l’informazione ereditaria era l’acido deossiribonucleico (DNA). In seguito fu dimostrato che il DNA era in grado di codificare e veicolare l’informazione genetica non solo negli streptococchi o nei batteri in generale, ma in tutti gli organismi cellulari. I batteri trasformabili sono quelli capaci di passare in uno stato fisiologico detto competenza durante il quale diventano capaci di assumere DNA eterologo dall’esterno, integrarlo nel proprio genoma ed essere quindi trasformati. Solo alcune specie batteriche possiedono nel loro genoma tutti i geni necessari per lo sviluppo della competenza e tra questi ci sono sia batteri gram-positivi come Bacillus e Streptococcus sia gram-negativi come Neisseria e Haemophilus. Altri batteri non naturalmente competenti per la trasformazione, come ad esempio Escherichia coli, batterio largamente usato negli studi di biologia dei microrganismi, possono essere trasformati artificialmente. I sistemi della competenza per la trasformazione genetica sono tra i sistemi di regolazione dell’espressione genica meglio studiati.

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Un esempio di batterio competente per la trasformazione è lo Streptococcus pneumoniae, nel quale la competenza è regolata da un meccanismo di quorum sensing che risponde alla densità cellulare. Il quorum sensing è costituito da un sistema regolatorio a due componenti di trasduzione del segnale (TCS, two component system), da un feromone peptidico non modificato di 17 aminoacidi, il CSP (competence stimulating peptide), e dal suo apparato di secrezione ComAB. Il CSP viene prodotto dal gene comC, mentre i geni comD e comE codificano i due componenti del TCS, rispettivamente l’istidina chinasi recettore ComD e il regolatore di risposta ComE. I geni comC, comD e comE costituiscono l’operone comCDE. Il CSP, sintetizzato come precursore di 41 aminoacidi, viene maturato e secreto all’esterno della cellula dall’ABC-transporter ComAB prodotto dall’operone comAB. Entrambi gli operoni vengono trascritti a livello basale in una coltura batterica in crescita con conseguente accumulo di CSP nel mezzo di coltura. Quando viene raggiunta la concentrazione critica di CSP, la competenza viene indotta nella coltura batterica. Durante la fase di competenza i geni cosiddetti tardivi coinvolti nel legame, trasporto, processamento e integrazione del DNA eterologo vengono espressi. La cascata del segnale, che porta all’attivazione dei geni tardivi della competenza, inizia con il legame del CSP al suo recettore di membrana ComD. L’interazione tra CSP e l’istidina chinasi ComD porta all’autofosforilazione del recettore stesso a livello di uno specifico aminoacido istidina. A sua volta ComD trasferisce il segnale attraverso il trasferimento del gruppo fosfato al regolatore di risposta citoplasmatico ComE. ComE nella sua forma fosforilata lega con maggiore affinità una sequenza specifica nel promotore degli operoni comCDE e comAB e ne aumenta l’espressione agendo da attivatore trascrizionale. Il CSP attraverso ComE induce l’espressione del gene comX, codificante un fattore sigma alternativo specifico della competenza che promuove l’espressione dei geni tardivi della competenza, riconoscendo una sequenza specifica (cin-box) presente nei loro promotori (fig. 4.7). In S. pneumoniae, il 100% delle cellule in una coltura diventa competente solo per un breve e transitorio periodo di tempo nella fase esponenziale di crescita. Ogni cellula competente di S. pneumoniae lega, attraverso le proteine di legame del DNA, circa dieci molecole di DNA libero a doppio filamento di una lunghezza che arriva fino a 15 000 bp. Il DNA legato alla cellula viene tagliato da un’endonucleasi in frammenti più corti, un filamento viene degradato mentre l’altro filamento viene trasportato all’interno della cellula. Il DNA a singolo filamento viene legato dalle proteine SSB, che lo proteggono dalla degradazione, e forma un complesso con la proteina RecA che ne media la ricombinazione con le regioni omologhe del genoma batterico. Affinché la ricombinazione omologa avvenga è necessario che le regioni che vanno incontro a ricombinazione abbiano una percentuale di omologia abbastanza alta. Invece, il DNA compreso tra le regioni di omologia può essere completamente differente e ciò può portare all’introduzione di nuovo DNA e alla perdita di quello esistente. Questo processo di sostituzione di frammenti di DNA e quindi di uno o più geni prende il nome di sostituzione allelica (allelic replacement), meccanismo che può portare alla produzione di geni e locus genici con strutture a mosaico. La coniugazione è un meccanismo di scambio orizzontale di DNA che richiede un contatto cellulare tra la cellula donatrice e quella ricevente. Con questo processo si trasferiscono i plasmidi, gli elementi integrativi e coniugativi e anche frammenti di DNA cromosomico. La coniugazione plasmidica è stata studiata inizialmente nel plasmide F (fertilità) di Escherichia coli, che è capace di mobilizzare il cromosoma batterico. Ricordiamo che i plasmidi sono molecole di DNA più piccole e distinte dal cromosoma. Nel processo di coniugazione del plasmide F, la cellula donatrice contiene il plasmide F ed è detta F+ mentre quella ricevente non contiene plasmidi ed è detta F–. Il plasmide F come tutti i plasmidi è circolare, contiene i geni che gli permettono di duplicarsi autonomamente dal cromosoma, i geni per le proteine del pilo sessuale e quelli che ne regolano l’espressione. Il pilo sessuale è una struttura di superficie della

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CSP

ComD p ComAB

p

comC comD

ComE

comE

comX recA

comA

comB ComX

cel

lytA

comM Figura 4.7 Quorum-sensing della competenza in Streptococcus pneumoniae. È costituito dal peptide CSP, dal suo apparato di secrezione ComAB, dal suo recettore, l’istidina chinasi ComD, e l’associato regolatore di risposta ComE. Il CSP prodotto dal gene comC viene processato e secreto all’esterno della cellula dall’ABC-transporter ComAB. Il legame del CSP al ComD produce l’autofosforilazione del recettore, il gruppo fosfato (p) a sua volta

viene trasferito al ComE. Il ComE fosforilato induce l’espressione dei geni per il CSP, per il ComD-ComE, per il ComAB e per ComX. ComX è un fattore sigma specifico della competenza che lega una sequenza specifica nei promotori dei geni tardivi della competenza e promuove la loro espressione. I geni e la loro direzione di trascrizione sono indicati da frecce, i prodotti genici da cerchi.

cellula donatrice che riconosce un recettore specifico sulla superficie della cellula ricevente e ne determina l’accoppiamento. Successivamente si ha la fusione stabile tra le due cellule con formazione di un poro nella parete cellulare che permette il passaggio del DNA dalla cellula donatrice a quella ricevente. A questo punto un filamento di DNA plasmidico subisce un taglio a livello di un sito specifico, detto origine di trasferimento, ad opera di una nucleasi che funziona anche da elicasi, srotolando il singolo filamento che può essere trasferito alla cellula ricevente. Questo processo di trasferimento è accompagnato dalla sintesi dei filamenti di DNA nella cellula donatrice su stampo del filamento rimasto e nella cellula ricevente su stampo del filamento neotrasferito. La cellula ricevente, una volta ricevuto il plasmide coniugativo, è capace di trasferirlo ulteriormente e disseminarlo in una popolazione batterica e pertanto ha acquisito le proprietà di donatrice. Plasmidi che non hanno proprietà coniugative possono essere trasferiti grazie a plasmidi coniugativi presenti nella stessa cellula che svolgono in questo modo funzione di helper. Inoltre, un plasmide può essere perso da una cellula batterica che lo ospita con un processo definito curing. Questo evento si può verificare quando viene a mancare la selezione: ad esempio, se un batterio che veicola un plasmide che conferisce una resistenza antibiotica viene cresciuto per parecchie generazioni in assenza di antibiotico, la mancanza di pressione selettiva porta alla perdita del plasmide. Il plasmide F è un episoma, cioè è capace di integrarsi in punti specifici del cromosoma batterico e di replicarsi con esso. Le cellule

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Fago Cellula batterica

Ricombinazione tra il DNA batterico veicolato dalla particella fagica e il DNA cromosomale della cellula ricevente

Adsorbimento del fago alla Moltiplicazione del DNA superficie del batterio e iniezione fagico e frammentazione del DNA fagico nella cellula di quello batterico

Adsorbimento della particella trasducente alla superficie del batterio e iniezione del DNA batterico Assemblaggio della progenie fagica e delle particelle trasducenti e loro liberazione con conseguente lisi cellulare

Figura 4.8 Trasduzione generalizzata. È un processo di scambio genico orizzontale. Durante il ciclo litico un fago può incorporare frammenti casuali del DNA batterico (rappresentato in blu). Queste

particelle trasducenti possono trasferire in una nuova cellula batterica il DNA batterico incorporato che, se trova regioni di omologia, si può integrare nel nuovo genoma cellulare (in verde).

risultanti dall’integrazione vengono definite ad alta frequenza di ricombinazione (Hfr) e possono funzionare da donatrici. Il trasferimento avviene con la stessa modalità appena descritta, ma oltre al DNA plasmidico può essere trasferito anche DNA cromosomico. La lunghezza del DNA cromosomico trasferito dipende dal tempo che le cellule rimangono unite e può interessare l’intero cromosoma. A trasferimento avvenuto si ha la sintesi del filamento complementare e il DNA cromosomico donatore per ricombinazione omologa può essere integrato nel cromosoma della cellula ricevente. La coniugazione con batteri Hfr in vitro può essere interrotta in tempi diversi con conseguente trasferimento di un numero progressivo di geni e pertanto è stata utilizzata per la mappatura dei genomi batterici in era pre-genomica. La trasduzione è invece un processo di scambio genico orizzontale in cui i batteriofagi o fagi, che sono dei virus che infettano i batteri, trasferiscono DNA cromosomale da una cellula all’altra. La trasduzione generalizzata può portare al trasferimento di un frammento qualsiasi di DNA cromosomale, mentre nella trasduzione specializzata solo specifiche regioni del DNA vengono trasferite (fig. 4.8). La trasduzione generalizzata viene operata da batteriofagi virulenti che sono capaci di infettare la cellula batterica con produzione di nuova progenie virale e conseguente lisi cellulare. Durante il ciclo litico le particelle fagiche neoprodotte possono incorporare per sbaglio frammenti di DNA cellulare rimasto libero nel citoplasma batterico con formazione di particelle trasducenti. Queste particelle non sono in grado di condurre un ciclo litico in quanto prive del DNA fagico, ma possono iniettare in altre cellule batteriche il DNA cromosomico che, se possiede regioni di omologia, può ricombinarsi con il DNA cromosomico della cellula ricevente. La trasduzione specializzata è operata da batteriofagi temperati che sono capaci di integrare il proprio DNA nel cromosoma batterico con formazione

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Figura 4.9 Trasduzione specializzata. È mediata da fagi temperati, in grado cioè di integrare il proprio DNA (rappresentato in blu) nel DNA della cellula ospite (rappresentato in rosso e lineare per semplicità). In seguito a induzione il fago si può escindere e produrre progenie. Se l’escissione è imprecisa si può portare dietro frammenti fiancheggianti del DNA batterico (rappresentato da un quadrato) e incapsidarlo nella progenie fagica. Quando uno di questi fagi infetta una nuova cellula, il DNA batterico può inserirsi nel genoma per integrazione del fago o per ricombinazione omologa.

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Induzione del profago Profago integrato nel cromosoma batterico

Escissione precisa del profago

Escissione imprecisa del profago

Infezione di una nuova cellula

Produzione di fagi contenenti DNA batterico

Integrazione del DNA fagico e del frammento di DNA batterico nel cromosoma della cellula ospite

di quello che viene chiamato profago (fig. 4.9). Il DNA del profago è integrato nel cromosoma batterico, ma a volte può escindersi portandosi dietro segmenti di DNA cromosomico adiacenti e iniziare un ciclo litico. Dopo la liberazione della progenie fagica, il fago contenente DNA cromosomico può infettare altre cellule e introdurre in queste il DNA cromosomico, che sarà in grado di ricombinarsi con le sequenze omologhe presenti nel nuovo ospite, che in questo modo acquisisce geni provenienti dalla cellula batterica precedentemente infettata.

4.4 - Sequenziamento genico e genomico La disponibilità della sequenza nucleotidica di molteplici genomi di organismi semplici come i batteri e di organismi superiori ha rivoluzionato le scienze della vita. Questa rivoluzione è stata resa possibile dall’avvento della tecnologia per il sequenziamento del DNA e dall’aumento della capacità di calcolo dei computer che permette l’assemblaggio e l’annotazione delle informazioni ottenute. La prima tecnologia per il sequenziamento del DNA fu sviluppata da Fred Sanger negli anni ’70 del secolo scorso all’UK Medical Research Council e denominata dideoxy chain termination method. Questa tecnologia si basa sull’uso di frammenti di DNA come stampo per la neosintesi di DNA che terminano in corrispondenza di ognuna delle quattro basi del DNA. La tecnica si avvale dell’aggiunta, alla mistura di neosintesi di DNA, di nucleotidi dideossi marcati, privi del gruppo idrossilico in posizione C3 del ribosio e quindi incapaci di permettere l’estensione della catena nascente di DNA, funzionando così da terminatori. La mistura di frammenti neosintetizzati interrotti casualmente dai dideossinucleotidi marcati e quindi di lunghezza variabile è risolta attualmente con elettroforesi capillare e letta mediante laser, che scansiona la fluorescenza emessa dai terminatori incorporati nei frammenti di DNA neosintetizzati.

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La quasi totalità delle sequenze disponibili nelle banche dati fino al 2005 era stata ottenuta con questa metodologia. Oggi la grande maggioranza delle nuove sequenze prodotte e depositate presso le banche dati è ottenuta con nuove metodologie di sequenziamento ad alta processività (Next Generation Sequencing). La prima tecnologia ad alta processività introdotta nel mercato è stata il sequenziamento 454 (2005), la cui produzione è definitivamente cessata nel 2016. La piattaforma di sequenziamento attualmente più diffusa è quella Illumina, oltre a questa sono presenti sul mercato anche le piattaforme Ion Torrent, PacBio SMRT e Nanopore Sensing (tab. 4.3). Le varie piattaforme possono essere classificate in base a diversi criteri: la lunghezza delle sequenze che generano, la quantità e qualità dei dati generati, l’utilizzo di tecniche per amplificare il segnale, il tipo di tecnologia utilizzato per riconoscere le basi. La piattaforma tecnologica denominata 454 sequencing era basata sulla tecnica del pyrosequencing, consistente nella rivelazione di luce emessa dall’enzima luciferasi in presenza di ATP, che viene a sua volta generato da una sulfurilasi che lo produce utilizzando il pirofosfato liberatosi dopo l’incorporazione di un nucleotide trifosfato in una catena nascente di DNA. Ogni nuovo nucleotide aggiunto genera luce, quindi conoscendo la successione dei nucleotidi utilizzati come substrato dalla polimerasi il computer rivela la sequenza del DNA neosintetizzato. La piattaforma tecnologica 454 combina amplificazione di DNA legato a biglie in emulsioni acqua-olio con pyrosequencing delle singole biglie separate in microchip con 1,6 milioni di pozzetti a lettura ottica. La tecnologia Illumina utilizza come stampo il DNA genomico frammentato a una lunghezza di poche centinaia di basi, al DNA vengono legati degli adattatori che permettono il legame con degli oligonucleotidi complementari immobilizzati sulla superficie della flow-cell di sequenziamento. Prima del sequenziamento vero e proprio, c’è un’amplificazione del singolo frammento mediante bridge-amplification (amplificazione a ponte), che produce delle copie identiche del frammento localizzate su di una superficie limitata della cella. La reazione di sequenziamento aggiunge alla catena di DNA in estensione dei desossinucleotidi marcati con dei fluorofori che fungono anche da terminatori reversibili della reazione. La fluorescenza rilevata corrisponde a un singolo nucleotide e la sequenza di DNA viene ricostruita tramite un software che elabora le informazioni luminose. I sequenziatori Ion Torrent e Ion Proton utilizzano la PCR in emulsione (la stessa del pyrosequencing) per amplificare su biglie le librerie di acidi nucleici da sequenziare; le biglie vengono poi caricate nei micropozzetti di un chip. La reazione di sequenziaTabella 4.3 Caratteristiche delle principali tecnologie di Next Generation Sequencing.

a

Tecnologia di Amplificazione Modalità di Lunghezza Sequenziamento del segnale sequenziamento delle reads (bp)a

Tempo di corsa

Output (Gbp)a

Caratteristiche addizionali

Illumina

Sì - Bridge amplification

Sequenziamento per sintesi

75-300

Da 4 ore a 6 giorni

3-6000



Ion Proton

Sì - Emulsion PCR

Sequenziamento per sintesi

100-200

2-4 ore

Fino a 10



PacBio Sequel

No - Single molecule

Sequenziamento per sintesi

Fino a 60 000

30 minuti-6 ore

Fino a 7

Capacità di identificare pattern di metilazione

Oxford Nanopore MinION

No - Single molecule

Sequenziamento tramite nanopori

Fino a 750 000

Fino a 48 ore

Fino a 20

Capacità di identificare pattern di metilazione

Abbreviazioni: bp, paia di basi, Gbp, miliardo di paia di basi

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mento consiste nella sintesi di DNA catalizzata da una normale DNA polimerasi, in cui i nucleotidi vengono aggiunti uno alla volta. L’aggiunta di un nucleotide provoca il rilascio di uno ione H+, modificando il pH nel micropozzetto. La variazione di pH viene registrata da un transistor associato al pozzetto e associata al nucleotide incorporato. Questa tecnologia di sequenziamento non utilizza fluorofori o marcatori radioattivi e si avvale della registrazione di segnali elettrici anziché luminosi, per cui la durata della reazione di sequenziamento è più breve rispetto ad altre tecnologie (tab. 4.3). La metodologia PacBIO SMRT (single molecule real time) si avvale di un complesso sistema di ottica per la rilevazione di segnali luminosi in micropozzetti detti zero-mode waveguides (ZMV). Questi pozzetti misurano pochi nanometri e sono stampati su una pellicola metallica che ricopre il chip di sequenziamento. Sul fondo di ogni pozzetto è fissata la phi29 DNA polimerasi che sintetizza i filamenti complementari al DNA stampo. I desossiribonucleotidi sono marcati con fluorofori che vengono tagliati al momento dell’incorporazione nel filamento nascente di DNA, con emissione di fluorescenza limitata nel tempo, per via della diffusione, e nello spazio, vicino alla DNA polimerasi. Il sistema ottico è in grado di rilevare la cinetica delle fluorescenze emesse nei singoli pozzetti e di associarli a una sequenza nucleotidica. La velocità di incorporazione dei desossinucleotidi da parte della polimerasi è diversa se il DNA stampo è metilato o meno, per cui dai dati generati con sequenziatori PacBIO è possibile identificare i nucleotidi metilati. Inoltre il processo di sequenziamento non si basa su cicli di aggiunta di nucleotidi diversi, ma avviene in tempo reale come una normale replicazione di DNA, permettendo di sequenziare, in tempi relativamente brevi, frammenti molto più lunghi rispetto a Illumina e Ion Proton (fino a 60 000 bp, al momento attuale). L’ultima tecnologia entrata nel mercato del Next Generation Sequencing è stata il sequenziamento tramite nanopori. Questa tecnologia utilizza delle celle di sequenziamento contenenti un array di circa 2000 nanopori costituiti da proteine ingegnerizzate inserite in una membrana semisintetica; il sequenziatore che alloggia le celle, chiamato MinION, è alimentato da un cavo USB collegato a un computer, è lungo circa 10 cm e pesa poco più di 100 grammi. Il DNA da sequenziare viene legato a degli adattatori che formano un complesso con delle proteine motrici (elicasi che aprono il doppio filamento di DNA) le quali guidano e regolano il passaggio del DNA attraverso il poro. Durante il sequenziamento viene applicata una differenza di potenziale ai due lati della membrana, il DNA scorre dentro al nanoporo, provocando un’alterazione del segnale elettrico che viene convertito in sequenza di DNA grazie ad appositi algoritmi. I risultati del sequenziamento possono essere controllati in tempo reale e la corsa può essere interrotta in qualsiasi momento. Con questa metodologia è possibile ottenere sequenze molto lunghe (il record attuale è di circa 750 000 bp), infatti la lunghezza delle letture dipende unicamente dalla lunghezza dei frammenti del DNA caricato nella cella di sequenziamento. Al momento attuale la tecnologia Illumina è sicuramente quella più diffusa e utilizzata per via dell’alta qualità e della robustezza dei dati generati; il metodo Ion Proton ha il vantaggio di essere piuttosto rapido, anche se la qualità delle sequenze è generalmente inferiore a quella ottenuta con Illumina. Le tecnologie PacBIO e a nanopori, pur utilizzando macchinari completamente diversi, sequenziano singole molecole di acido nucleico non amplificato, sono capaci di identificare modifiche del DNA quali le metilazioni e hanno la capacità di ottenere letture di sequenza molto lunghe. Quest’ultima caratteristica è molto utile per ottenere genomi completi, in quanto l’assemblaggio delle sequenze ottenute dai vari sequenziatori è spesso interrotto in zone contenenti porzioni di DNA ripetuto che non possono essere risolte e assemblate da sequenze di lunghezza minore della ripetizione stessa. Le nuove tecnologie di sequenziamento, in rapida evoluzione, producono una grande quantità di dati in tempi molto brevi e a costi relativamente contenuti: attualmente il costo dei reagenti per ottenere la sequenza di un singolo genoma umano è inferiore a 1000 euro, mentre il costo per un genoma batterico è di poche decine di

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Capitolo 4 • Genetica e genomica batterica

euro (www.genome.gov/sequencingcosts). Le prospettive per i prossimi anni indicano che il costo dei reagenti per il sequenziamento del DNA continuerà a scendere, anche se è necessario considerare che i costi variano a seconda della tecnologia di sequenziamento utilizzata. Parallelamente alla capacità tecnica di produzione e lettura delle sequenze, cresce la necessità della loro gestione informatica a partire dal salvataggio dei dati generati fino alle applicazioni bioinformatiche per l’assemblaggio delle sequenze e la loro annotazione. I costi degli esperimenti di sequenziamento saranno in futuro sempre più spostati verso il processamento e l’analisi dei dati, che richiedono personale specializzato e capacità computazionali piuttosto elevate. Come intuibile, la rivoluzione genomica iniziata negli anni ’90 del secolo scorso non accenna a terminare e continuerà a cambiare radicalmente la ricerca scientifica.

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• Riproduzione batterica • Crescita batterica • Spora batterica

Riproduzione e crescita

5.1 - Crescita e divisione La crescita batterica consiste nello sviluppo coordinato di tutti i componenti strutturali della cellula ed è in relazione alla capacità della cellula di sintetizzare i metaboliti necessari all’accrescimento. La crescita implica aumento della massa cellulare e del numero di ribosomi, duplicazione del cromosoma batterico, sintesi di nuova parete cellulare e della membrana citoplasmatica, ripartizione dei due cromosomi, formazione di un setto e divisione cellulare. La maggior parte dei batteri si riproduce mediante un processo asessuato, detto fissione binaria, in cui una cellula batterica si divide in due cellule figlie identiche (fig. 5.1). Il processo di riproduzione è regolato dalla membrana citoplasmatica per mezzo dei mesosomi, che costituiscono il punto di ancoraggio e di separazione dei cromosomi. Durante la divisione cellulare, la molecola di DNA è ancorata al punto di attacco della membrana in cui il cromosoma batterico si replica. Le due molecole di DNA restano ancorate separatamente alla membrana, mentre si ha l’accrescimento della membrana tra i due punti di ancoraggio. L’allungamento della cellula batterica porta all’allontanamento delle due molecole di DNA ancorate in direzioni opposte, mentre nuova parete e membrana cellulare si dispongono a formare un setto tra i due compartimenti (fig. 5.2). Il setto è formato da un’invaginazione della membrana citoplasmatica e dalla crescita, verso l’interno, della parete di peptidoglicano (e della membrana esterna nei gram-negativi). Questo processo richiede trans-peptidasi e altri enzimi. Quando la Figura 5.1 Divisione di una cellula batterica: formazione del setto.

DNA

Capsula

Parete cellulare Membrana cellulare

DNA Ribosomi

Capitolo 5 • Riproduzione e crescita

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Figura 5.2 Riproduzione di una cellula batterica per scissione binaria.

DNA

Replicazione del DNA

Formazione del setto Generazione cellulare

Completamento del setto con formazione di pareti distinte

Separazione della cellula

formazione del setto è completata, la cellula batterica si divide nelle due cellule figlie a completamento della divisione cellulare. Il tempo richiesto per la divisione cellulare costituisce il tempo di generazione; esso può variare con la specie e con le condizioni di crescita (terreno nutritivo, temperatura ecc.). Ad esempio, nel caso di Escherichia coli, in condizioni di crescita ottimali, la divisione cellulare avviene in circa 20 minuti, mentre in Mycobacterium tuberculosis in 24 ore.

Misura dell’accrescimento nei batteri La crescita di una popolazione batterica viene determinata seguendo nel tempo la variazione della massa cellulare o del numero di cellule. La determinazione della massa cellulare può essere effettuata, direttamente, mediante la misura del peso secco, dell’azoto totale, delle proteine o del DNA e, indirettamente, attraverso la misurazione dell’attività metabolica o della torbidità della sospensione batterica. Il numero di cellule di una popolazione può essere determinato sia mediante conteggio totale al microscopio sia attraverso il numero di colonie che si origina da un’aliquota di una sospensione batterica. La conta vitale viene espressa come numero di unità formanti colonia (cfu, colony-forming units); la conta totale non consente la distinzione tra batteri vivi o morti.

5.2 - Curva di crescita batterica In condizioni di crescita favorevoli, il numero dei batteri si accresce raddoppiando a intervalli di tempo regolari. La popolazione batterica aumenta secondo una progressione geometrica 1, 2, 4, 8 ecc., o 20, 21, 22, 23… 2n (n = numero di generazioni) definita

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crescita esponenziale. Partendo da N0 cellule, al tempo t = 0, dopo un numero n di generazioni, al tempo t, avremo un numero di batteri. N = N02n Conoscendo, quindi, il numero iniziale e finale di cellule in una popolazione in crescita esponenziale, è possibile calcolare sia il numero di generazioni, n, sia il tempo di generazione, g: log(N) – log(N0) n = ____________ g = t/n log2 Determinando la popolazione batterica a diversi intervalli di tempo e rappresentando graficamente il logaritmo del numero di cellule in funzione del tempo, si ottiene una curva di crescita batterica come quella rappresentata in figura 5.3. Nella curva di crescita vengono distinte quattro fasi: fase di latenza, fase esponenziale, fase stazionaria e fase di morte.

Fase di latenza Quando una popolazione batterica viene trasferita in un terreno fresco, vi è un periodo iniziale durante il quale i batteri devono adattarsi alle nuove condizioni di crescita. In questa fase si ha un aumento delle dimensioni cellulari e la sintesi degli enzimi necessari per metabolizzare i fattori nutritivi presenti nel terreno; aumenta anche la sintesi di macromolecole, come RNA e proteine, mentre rimane costante la sintesi di DNA. La durata della fase di latenza è in relazione a diversi fattori quali l’origine dell’inoculo (cambiamento di terreno, età dell’inoculo), la natura del terreno (sintesi di nuovi enzimi) e la carica batterica. Al termine della fase di latenza, si osserva un breve periodo di accelerazione durante il quale alcune cellule iniziano a dividersi, seppure non a velocità costante.

Fase esponenziale La fase esponenziale o fase logaritmica corrisponde al periodo di tempo durante il quale il numero dei batteri aumenta in maniera esponenziale. Questa fase dipende sia dalle condizioni ambientali sia dalle caratteristiche genetiche del microrganismo. La velocità di crescita batterica durante la fase esponenziale definisce il tempo di generazione. Ad esempio, nel caso di Escherichia coli, il tempo di generazione in vitro Figura 5.3 Curva di crescita batterica.

Fasi della crescita Latenza Esponenziale

Stazionaria

Morte

9,0

1,0 Conta vitale

8,0

7,0

Torbidità (densità ottica)

0,75 0,50

0,25 6,0

5,0

Tempo

0,1

Densità ottica

Log10 organismi vitali/mL

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Capitolo 5 • Riproduzione e crescita

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è di 20 minuti, mentre nel tratto intestinale è di circa 12-24 ore. Al termine della fase esponenziale si osserva una fase di decelerazione durante la quale fattori ambientali (esaurimento delle sostanze nutritive, variazioni di pH) determinano una riduzione del ritmo di crescita delle singole cellule.

Fase stazionaria Durante la fase stazionaria il numero dei batteri rimane costante per l’instaurarsi di un equilibrio tra le cellule batteriche che muoiono e quelle che continuano a dividersi; quelle che sopravvivono producono acidi e prodotti catabolici che inibiscono ulteriormente la replicazione cellulare. Alcune cellule, in seguito a lisi, rilasciano all’esterno enzimi litici, come proteasi, nucleasi e lipasi, che scindono macromolecole cellulari nei principali costituenti, i quali possono essere così riutilizzati. Questa fase stazionaria è caratterizzata da esaurimento delle fonti nutritive, accumulo di prodotti tossici, diminuzione della quantità di ossigeno e da un pH non idoneo alla crescita.

Fase di morte La mancanza di nutrienti e l’accumulo di prodotti tossici del metabolismo causano la morte dei batteri. In molti casi questa fase è accompagnata dall’attivazione di amidasi e di altri enzimi che determinano la lisi della parete cellulare.

5.3 - Colture continue La curva di crescita batterica descrive l’aumento del numero dei batteri in un sistema chiuso. Per mantenere le colture batteriche in uno stato di crescita esponenziale, per un periodo di tempo indefinito, si ricorre all’impiego di colture continue. L’apparecchiatura utilizzata per ottenere colture continue è il chemostato, strumento che consente di controllare sia la densità di popolazione sia la velocità di crescita di una coltura (fig. 5.4).

5.4 - Fattori che influenzano la crescita dei microrganismi La crescita dei microrganismi è influenzata da numerosi fattori, quali l’ossigenazione, la temperatura, il pH e le sostanze nutritive. In base alla richiesta di ossigeno i batteri vengono classificati in aerobi, anaerobi e microaerofili.

Terreno fresco da serbatoio Aria sterile o altri gas

Regolazione velocità di flusso

Spazio gassoso

Camera di coltura

Scarico contenente cellule microbiche

Figura 5.4 Schema di chemostato per allestimento di colture continue.

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I batteri aerobi sono quelli che crescono solo in presenza di ossigeno atmosferico, che utilizzano come accettore finale di elettroni. Nell’ambito dei batteri aerobi si distinguono batteri patogeni, come ad esempio Corynebacterium diphtheriae e Mycobacterium tuberculosis, responsabili di infezioni delle vie respiratorie, e batteri opportunisti, come ad esempio Pseudomonas aeruginosa, responsabile di diverse patologie. I batteri che crescono in assenza di ossigeno sono detti anaerobi. Alcuni di questi crescono solo in assenza di ossigeno, che risulta tossico, e adottano particolari accorgimenti per escludere completamente l’ossigeno atmosferico: questi sono detti anaerobi obbligati. Altri batteri (ad es. molti streptococchi) possono sopravvivere e crescere in presenza di ossigeno, anche se non lo utilizzano: questi sono detti anaerobi aerotolleranti. Il microbiota che normalmente colonizza il tratto gastrointestinale dell’uomo è costituito per la gran parte da batteri anaerobi. I batteri capaci di crescere in condizioni aerobie o anaerobie e di utilizzare l’ossigeno quando è presente (ad es. stafilococchi) sono detti aerobi-anaerobi facoltativi. Infine, alcuni batteri sono in grado di crescere solo in presenza di piccole quantità di ossigeno libero: essi sono detti microaerofili e comprendono alcune specie patogene (Campylobacter, Helicobacter). In relazione alla temperatura ottimale di crescita i batteri possono essere distinti in tre gruppi: psicrofili, mesofili e termofili. I batteri psicrofili hanno un optimum di temperatura intorno ai 15 °C, ma possono crescere anche a temperature inferiori al punto di congelamento dell’acqua. I batteri mesofili, che comprendono la maggior parte dei batteri patogeni, crescono a temperature tra 20-45 °C, ma hanno un optimum di temperatura a 35-37 °C. I batteri termofili, infine, crescono a temperature più elevate e hanno un optimum di temperatura compreso tra i 45-60 °C o ancora più elevato (termofili estremi). Altro fattore importante ai fini della crescita batterica è il pH. La maggior parte delle specie patogene ha un pH ottimale intorno alla neutralità. Comunque alcune specie batteriche come Vibrio cholerae (8,2-9) e Thiobacillus thiooxidans (2-3,5) crescono a valori estremi di pH. Fondamentale per la crescita dei batteri è la disponibilità di sostanze nutritive. I batteri possono metabolizzare numerose sostanze nutritive mediante i processi metabolici. Alcuni batteri sono in grado di crescere in terreni di coltura costituiti semplicemente da sali, cloruro di ammonio e glicerolo. Altri batteri, invece, hanno esigenze nutrizionali particolari, cioè necessitano di terreni di coltura complessi addizionati di fattori quali sangue, siero, estratto di lievito ecc. Treponema pallidum e Mycobacterium leprae, ad esempio, non possono essere coltivati in vitro perché non sono ancora stati identificati i terreni di coltura e le condizioni di crescita idonee.

5.5 - Spora batterica

Figura 5.5 Spore di Bacillus anthracis.

Alcune specie batteriche, in determinate condizioni, sono capaci di dar luogo a forme di vita quiescenti, metabolicamente inerti, che vengono dette spore. Il fenomeno della formazione delle spore, detto sporulazione, fu descritto per la prima volta da Robert Koch nel 1876; esso si riscontra in un numero limitato di specie batteriche gram-positive appartenenti principalmente ai generi Bacillus (sporigeni aerobi) e Clostridium (sporigeni anaerobi). Poiché le spore sono sempre prodotte all’interno di una cellula vegetativa, vengono dette anche endospore. Si riconoscono per la loro regolare dimensione e forma, per la loro posizione costante nell’ambito delle diverse specie all’interno della cellula e all’osservazione al microscopio appaiono come aree incolori con un’alta rifrangenza (fig. 5.5). Nei batteri del genere Clostridium, a differenza di quelli del genere Bacillus, la spora

Capitolo 5 • Riproduzione e crescita

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I Formazione del filamento assiale

VII Lisi cellulare e fomazione della spora

VI Completa sintesi del coat, aumento rifrangenza e resistenza al calore II Formazione setto

V Sintesi coat

IV Formazione cortex

III Formazione prespora

acquista un diametro superiore rispetto a quello della cellula batterica che l’ha prodotta provocando una deformazione del profilo esterno. La formazione di endospore in natura ha generalmente inizio quando le condizioni di nutrizione diventano sfavorevoli, ad esempio in carenza di carbonio, azoto, ioni inorganici o quando vi è un cambiamento significativo di pH o di aerazione o quando si verificano più condizioni sfavorevoli contemporaneamente.

Stadi morfologici di formazione della spora La formazione di endospore è caratterizzata da una sequenza di cambiamenti morfologici, citologici e metabolici geneticamente regolati e coordinati. Il processo evolve seguendo diverse fasi (fig. 5.6). Inizialmente si verifica una distribuzione del materiale nucleare che si dispone in modo da formare un filamento assiale per tutta la lunghezza della cellula. Si ha la formazione di un setto per invaginazione della membrana citoplasmatica con la costituzione di due compartimenti all’interno della cellula, di cui il minore è quello destinato a diventare la spora (prespora). La membrana citoplasmatica della cellula vegetativa circonda la prespora, la quale risulta così avvolta da una doppia membrana. Fra le due membrane viene sintetizzata una caratteristica struttura sporale molto spessa detta cortex costituita da peptidoglicano, il quale si differenzia da quello della cellula vegetativa perché molti residui di N-acetilmuramico sono sostituiti da lattami dell’acido muramico. Mentre la cortex si sta completando, si ha la formazione di un rivestimento (coat) che circonda la membrana esterna della neospora. Questo rivestimento è costituito da proteine ad alto contenuto di cisteina presenti soltanto nella spora e non nella cellula vegetativa. La spora raggiunge così la completa maturazione con la sintesi di acido dipicolinico complessato con ioni Ca2+ e risulta formata da più strati distinti. Con la maturazione, la spora acquista le sue caratteristiche fisiologiche, quali la diminuzione delle affinità tintoriali, l’aumento di rifrangenza e la resistenza al calore. La spora, ormai completata, viene liberata dalla cellula madre (sporangio), che si disgrega in seguito all’azione di enzimi litici.

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Figura 5.6 Stadi di formazione della spora.

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Struttura della spora L’uso del microscopio elettronico ha permesso una precisa conoscenza della struttura dell’endospora (fig. 5.7). La parte centrale della spora è costituita dal citoplasma, nel quale è presente il materiale nucleare, delimitato da una membrana derivata dalla membrana citoplasmatica che è a sua volta circondata da una parete cellulare formata da peptidoglicano. Questa struttura è avvolta da numerosi involucri caratteristici della spora che, andando dall’interno all’esterno, sono costituiti in sequenza dalla cortex, da due rivestimenti detti coat e dall’esosporio. La cortex è costituita prevalentemente da peptidoglicano, simile a quello della parete cellulare della cellula vegetativa, ma, come detto sopra, non necessariamente identico. Più esternamente si trovano i due rivestimenti o coat, interno ed esterno, costituiti da proteine molto stabili, ricche in legami disulfidrilici. Infine si trova l’esosporio, una membrana la cui composizione chimica è costituita da proteine, polisaccaridi e lipidi.

Regolazione della sporulazione Nel processo di sporulazione si riscontrano, oltre a cambiamenti biochimici, modificazioni a livello genetico. Infatti, alla base del processo di sporulazione vi è una repressione dei geni implicati nella sintesi degli enzimi della cellula vegetativa e una derepressione dei geni sporali. Durante l’inizio delle fasi della sporulazione sono attivati circa 20 particolari loci genetici specifici. La modificazione del fattore sigma dell’RNA polimerasi svolge un ruolo determinante nelle fasi di sporulazione. Il segnale biochimico per l’avvio alla sporulazione è la fosforilazione del fattore trascrizionale SpoOA in grado di attivare l’espressione dei geni coinvolti nel processo.

Caratteristiche delle endospore Le caratteristiche delle endospore derivano sia dalla particolare struttura sia dalla loro composizione chimica. Nella composizione chimica si riscontra un basso contenuto di Figura 5.7 Endospora al microscopio elettronico.

Rivestimento Corteccia Esosporio Core DNA Ribosomi

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Capitolo 5 • Riproduzione e crescita

acqua, in particolare di quella in forma libera, mentre circa più del 15% del peso secco è costituito dall’acido dipicolinico, un composto presente sotto forma di sale di calcio, assente nelle cellule vegetative. La spora presenta una notevole resistenza agli agenti fisici e chimici, e quindi ai vari fattori ambientali come l’essiccamento, le temperature elevate, le radiazioni UV e i disinfettanti. La particolare termoresistenza (molte spore possono sopravvivere a temperature fino a 100 °C) pone, in casi particolari, come nella preparazione di conserve alimentari e nella sterilizzazione del materiale chirurgico, problemi di carattere tecnico ed epidemiologico. Il meccanismo che è alla base della termoresistenza non è stato ancora esattamente chiarito. Si ritiene importante la presenza di dipicolinato di calcio e anche la struttura del peptidoglicano della cortex. La resistenza alle radiazioni, soprattutto ultraviolette, è stata attribuita alla presenza di un efficiente meccanismo di riparazione dei danni provocati sul DNA. Nel citoplasma della spora sono presenti proteine a basso peso molecolare dette SASP (small acid soluble protein). Alcune di esse interagiscono con il DNA e lo proteggono dagli effetti delle radiazioni ultraviolette e degli agenti chimici.

Trasformazione delle spore nelle cellule vegetative Così come il processo di sporulazione è determinato dalla carenza di sostanze nutritive nel mezzo di coltura, la trasformazione della spora nella cellula vegetativa (germinazione) si verifica con il ripristino di condizioni ambientali favorevoli. In questo processo possiamo individuare tre stadi indotti da differenti stimoli esterni: l’attivazione, la germinazione e l’esocrescita. L’attivazione è la fase preliminare alla germinazione vera e propria. Infatti le spore, a volte, anche se poste in condizioni ambientali ottimali, se non attivate, non germinano. La funzione di questo stadio è quella di danneggiare gli involucri esterni della spora. Essa non richiede nessun processo metabolico ma è causata dall’azione di determinati agenti fisici e chimici come il calore o un cambiamento di pH o l’esposizione a sostanze riducenti come il β-mercaptoetanolo. Le spore attivate mantengono ancora le loro caratteristiche come la resistenza al calore, la rifrangenza e il contenuto di acido dipicolinico. L’attivazione è un processo reversibile che può essere inibito dalla presenza di cationi. Una volta attivate, le spore, esposte a particolari sostanze come l-alanina, glucosio e adenosina, sono in grado di germinare. In questa fase la spora quiescente si trasforma in una cellula metabolicamente attiva. Durante la germinazione il 30% del peso secco della spora, costituito da acido dipicolinico, calcio e materiale corticale, viene disperso nel terreno. Quindi la spora acquista la capacità di sintetizzare tutte le piccole molecole per la formazione di DNA, RNA e proteine. Tali fenomeni comportano un aumento della cromatofilia, una diminuzione della rifrangenza e della resistenza agli agenti fisici e chimici. Le spore germinate hanno quindi strutture tipiche delle cellule vegetative, sono sensibili alle influenze esterne e sono metabolicamente attive. In presenza di idonee sostanze nutritive, la spora inizia a rigonfiarsi, producendo nuove proteine, forma una parete cellulare e con la rottura degli involucri sporali si trasforma in una tipica cellula vegetativa. L’esocrescita è caratterizzata dalla ripresa della sintesi di DNA, RNA e proteine.

Importanza delle spore sotto l’aspetto medico Grazie alla resistenza all’essiccamento, ai diversi stress chimici e fisici e alla loro lunga capacità di sopravvivenza in condizioni avverse, le spore sono presenti ovunque. Infatti, l’habitat naturale delle spore è particolarmente esteso: esse possono raggiungere

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qualunque ambiente per mezzo delle polveri e altri veicoli. Le spore, poiché vivono in uno stato di latenza, possono sopravvivere per lunghissimo tempo, addirittura per migliaia di anni, conservando intatta la loro capacità di infettare. Sotto il profilo medico le più importanti specie patogene sporigene sono rappresentate da Clostridium botulinum, Clostridium tetani, Clostridium perfringens e Bacillus anthracis.

Bibliografia essenziale Hutchison, E.A., Miller, D.A, Angert, E.R., «Sporulation in Bacteria: Beyond the Standard Model», Microbiol Spectr., 2014; 2(5), doi: 101128/microbiolspec. Murray, H., «Connecting chromosome replication with cell growth in bacteria», Curr Opin Microbiol, 2016; 34:13-17. Tortora, G.J., Funke, B.R., Case, C.L., Microbiology: An Introduction, XI ed., Boston, Pearson, 2013.

Capitolo

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Patogenicità e virulenza

Nonostante decenni di progressi rilevanti nel trattamento e nella prevenzione, le malattie infettive rimangono una delle principali cause di mortalità, di morbilità e di peggioramento della qualità di vita in tutto il mondo. Con l’avvento degli agenti antimicrobici, si è creduto che le malattie infettive sarebbero state relegate nella storia della medicina, ma, nonostante l’introduzione dei farmaci antimicrobici, i microrganismi hanno sviluppato la capacità di eludere le più sofisticate strategie dell’ospite per garantirsi la sopravvivenza. Affinché un qualsiasi processo infettivo si realizzi, è necessaria l’interazione tra ospite e parassita, per questo la geografia, l’ambiente e il comportamento umano influenzano la probabilità di contrarre l’infezione; così come molti fattori specifici dell’ospite: l’età, le precedenti vaccinazioni e malattie, il livello di nutrizione, lo stato di gravidanza, malattie concomitanti, e forse condizioni emotive, sono tutti fattori che hanno un qualche impatto sul rischio d’infezione, dopo esposizione a un potenziale agente patogeno. L’importanza dei meccanismi di difesa dell’ospite, sia specifici che aspecifici, si dimostra in tutta la sua rilevanza quando questi sono assenti, come si verifica nei soggetti immunocompromessi. L’infezione implica complicate interazioni tra il parassita e l’ospite, che in maniera inevitabile interessano entrambi. Nella maggior parte dei casi, sono richiesti diversi passaggi nel processo patogenetico che conduce allo sviluppo di un processo infettivo, dal momento che l’ospite immunocompetente ha una complessa serie di barriere atte a prevenire l’infezione, e il parassita, efficacemente patogeno, deve utilizzare specifiche strategie per ognuna di queste. Dopo la nascita, la pelle, l’intestino e le mucose che rivestono la bocca, la gola e i sistemi escretori e riproduttivi vengono rapidamente colonizzati da un gran numero di microrganismi non patogeni. Questi microbi commensali, indicati anche come microbiota o flora normale, si stabiliscono e vivono in favorevoli nicchie ecologiche all’interno dell’ospite e in condizioni normali non causano malattia ma anzi svolgono un ruolo benefico, spesso essenziale, per il mantenimento della salute generale dell’individuo (tab. 6.1). Essi includono lattobacilli, Bacteroides, streptococchi viridanti, numerosi enterobatteri e Candida spp. L’uomo ha sviluppato misure di difesa efficaci per sopprimere e distruggere la maggior parte dei microrganismi invasori. Durante l’evoluzione, infatti, si sono sviluppati molti meccanismi di natura meccanica, chimica, cellulare e immunologica in grado di prevenire un’invasione. Un modesto indebolimento di uno, o più di questi sistemi di difesa, sposta il precario equilibrio esistente con i microrganismi di virulenza intermedia, mentre un indebolimento più grave permette anche ai non patogeni di invadere e dare malattia. I patogeni altamente virulenti, invece, causano generalmente malattia ogni qual volta colonizzano l’ospite. Le infezioni che si verificano in seguito a una diminuzione delle difese dell’ospite sono dette opportunistiche e stanno diventando sempre più comuni in conseguenza dell’aumento dell’immunosoppressione da farmaci, da terapia radiante e della diffusione di malattie immunosoppressive.

• Interazione ospite-patogeno • Fattori di virulenza • Adesione e invasione • Esotossine • Endotossine • Quorum sensing e biofilm

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Tabella 6.1 Generi batterici rappresentativi presenti nella flora normale dell’uomo.

Regioni anatomiche

Microrganismi

Pelle

Staphylococcus, Corynebacterium, Acinetobacter, Propionibacterium, Micrococcus

Cavità orale

Streptococcus, Lactobacillus, Fusobacterium, Veillonella, Neisseria, Corynebacterium

Tratto respiratorio

Staphylococcus, Corynebacterium, Streptococcus, Neisseria

Tratto gastrointestinale

Streptococcus, Staphylococcus, Lactobacillus, Bacteroides, Bifidobacterium, Eubacterium, Peptococcus, Peptostreptococcus, Ruminococcus, Clostridium, Escherichia, Klebsiella, Proteus, Enterococcus

Tratto genitourinario

Escherichia, Klebsiella, Proteus, Lactobacillus, Corynebacterium, Staphylococcus, Prevotella, Clostridium, Peptostreptococcus

I progressi medici riguardanti le malattie infettive sono stati ostacolati dal cambiamento della popolazione, attualmente rappresentata da una percentuale sempre più significativa di soggetti immunocompromessi. Agenti infettivi che convivono pacificamente con l’ospite immunocompetente possono causare la morte di individui il cui sistema immunitario non sia integro. L’AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita), sostenuta dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV), ha messo in evidenza microrganismi una volta considerati “minori” come Pneumocystis jirovecii, Cryptosporidium parvum e Mycobacterium avium. Paradossalmente lo stesso impiego degli antibiotici può contribuire a ridurre le resistenze dell’ospite, alterando la normale microflora che è presente, in competizione, sulla cute e sulle mucose.

6.1 - Interazione ospite-parassita dal punto di vista ecologico Dal punto di vista evoluzionistico il rapporto ospite-parassita viene espresso in termini di nicchie ecologiche e di adattamenti a lungo termine. Se un microrganismo non ha un serbatoio nell’ambiente naturale e ha un limitato spettro d’ospite (host range), un’alta virulenza costituirà uno svantaggio: essa infatti potrebbe portare a una selezione contraria perché, eliminando rapidamente l’ospite, impedirebbe l’ulteriore diffusione del microrganismo. Di conseguenza si osserva come microrganismi quali gli pneumococchi, che hanno uno spettro d’ospite estremamente ristretto, mostrino un buon equilibrio fra sviluppo e virulenza: colonizzano, infatti, il rinofaringe degli individui normali con una densità sufficiente a consentire loro la trasmissione ad altri individui, riuscendo in questo modo a persistere; solo quando raggiungono, in numero sufficiente, le vie respiratorie inferiori causano malattia. A volte gli stessi adattamenti che facilitano la sopravvivenza naturale dei microrganismi permettono loro di causare malattia nell’uomo. Un esempio è la capacità del bacillo della malattia dei legionari, Legionella pneumophila, di crescere nei macrofagi umani. In natura questi batteri si sviluppano in associazione con alghe nelle acque correnti ed entrambi vengono ingeriti dalle comuni amebe del suolo; tuttavia Legionella a differenza delle alghe, ha evoluto la capacità di eludere l’armamentario digestivo e microbicida dell’ameba, in modo da svilupparsi all’interno delle amebe e poi ucciderle. Quando i bacilli passano nell’aerosol e vengono inalati dall’uomo sono fagocitati dai macrofagi alveolari e si sviluppano in queste cellule proprio come fanno nelle amebe del suolo. Altri microrganismi possono adattarsi a molteplici ambienti e ospiti: l’ampia famiglia delle Enterobacteriaceae rappresenta un gruppo di specie strettamente correlate, ampiamente distribuite in habitat terrestri come pure nel tratto gastrointestinale dell’uomo e di altri animali.

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Capitolo 6 • Patogenicità e virulenza

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I batteri altamente letali per l’uomo hanno generalmente serbatoi stabili in altri animali, nei portatori o nel suolo: il microrganismo della peste, ad esempio, colonizza i ratti senza ucciderli, mentre le spore del carbonchio rimangono vitali per molti anni nel suolo. Gli organismi animali costituiscono degli ambienti favorevoli per la crescita di molti microrganismi. Essi contengono numerose sostanze nutrienti e fattori di crescita e inoltre forniscono condizioni di pH, pressione osmotica e temperatura relativamente costanti. L’organismo animale non è comunque un ambiente uniforme: ogni distretto differisce, chimicamente e fisicamente, dagli altri. La pelle, l’apparato respiratorio, il tratto gastrointestinale, e così via, sono ambienti caratterizzati da condizioni chimico-fisiche molto diverse, nei quali possono crescere selettivamente microrganismi differenti. Ad esempio, l’ambiente relativamente secco della pelle favorisce la crescita di batteri gram-positivi come Staphylococcus aureus, l’ambiente ricco di ossigeno dei polmoni è particolarmente favorevole per la crescita di Mycobacterium tuberculosis, mentre l’ambiente anaerobico dell’intestino crasso permette la crescita dei batteri anaerobi obbligati appartenenti al genere Clostridium. Le infezioni iniziano frequentemente a livello dei rivestimenti epiteliali delle mucose, presenti in diverse parti dell’organismo (fig. 6.1), quali la bocca, la faringe, l’esofago, gli apparati urogenitale, respiratorio e gastrointestinale. Le mucose sono spesso rivestite da uno strato protettivo di muco, costituito essenzialmente da glicoproteine solubili, che serve a proteggere le cellule epiteliali. Quando entrano in contatto con i tessuti dell’ospite, a livello delle mucose, i batteri possono associarsi a queste in modo più o meno saldo. Se non si associano strettamente, molto spesso vengono eliminati tramite processi fisici. I batteri possono anche aderire alla superficie delle cellule epiteliali grazie al riconoscimento specifico, recettore-mediato, tra patogeno e cellula ospite; in questo caso si verifica spesso una vera e propria invasione del tessuto. Quando ciò accade, la barriera costituita dalle mucose viene intaccata, permettendo al microrganismo di penetrare nei tessuti più profondi. I microrganismi si ritrovano, quasi sempre, in quelle regioni del corpo più esposte all’ambiente esterno, come la pelle, la cavità orale e i tratti respiratorio, intestinale e urogenitale. Sulla superficie del corpo più esposta, la pelle (2 m2), sono presenti numerosi microrganismi commensali. Tuttavia, alle superfici delle mucose è associato un numero maggiore di varietà microbiche; ciò è in parte dovuto all’ambiente umido e protetto delle mucose e all’area totale, molto estesa, che esse ricoprono (400 m2). I microrganismi non sono normalmente presenti nei tessuti più interni, come il sangue, il sistema linfatico e il sistema nervoso centrale (SNC), e anzi, la loro presenza in questi distretti, tipicamente sterili, indica uno stato di malattia infettiva piuttosto grave. Infine, un fattore significativo nelle interazioni ecologiche tra batteri e uomo è dato dalla diversa sensibilità alle malattie infettive degli individui; la sopravvivenza della Figura 6.1 Interazione dei batteri patogeni con le mucose. A. Adesione lassa; B. adesione intima; C. invasione delle cellule epiteliali.

Ancoraggio e adesione

Cellule epiteliali Invasione e transcitosi

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Tabella 6.2 Interazioni tra microrganismi e uomo: definizioni.

Termine

Significato

Batteriemia

Presenza di microrganismi nel circolo ematico

Colonizzazione

Moltiplicazione di un agente patogeno dopo la penetrazione nei tessuti dell’ospite

Microbiota

Flora di microrganismi normalmente presenti nei tessuti corporei sani

Simbiosi

Interazione biologica intima, di lungo termine, fra due o più organismi

Infezione

Crescita di microrganismi patogeni nei tessuti dell’ospite

Infiammazione

Risposta dell’ospite a lesioni o infezioni, caratterizzata da arrossamento, gonfiore e rossore

Malattia

Lesione che compromette le funzioni fisiologiche dell’ospite

Ospite

Organismo che ospita un parassita

Parassita

Microrganismo dannoso per l’ospite

Patogenicità

Capacità di un parassita di infliggere danni all’ospite

Tossicità

Patogenicità associata all’azione di tossine prodotte da un patogeno

Tossoide

Esotossina modificata chimicamente in modo tale da mantenere l’antigenicità pur perdendo il potere tossico

Virulenza

Grado di patogenicità associata a un agente patogeno

specie può dipendere infatti dalla cosiddetta “lotteria darwiniana” che, attraverso una serie di meccanismi diversi, rende alcuni individui più resistenti ad alcuni microrganismi, e altri verso microrganismi differenti. La conoscenza delle interazioni ospite-parassita resta dunque un argomento di cruciale importanza, in continuo aggiornamento (tab. 6.2).

6.2 - Infezioni latenti e stato di portatore La maggior parte dei microrganismi patogeni è completamente eradicata con la scomparsa della sintomatologia clinica, ma alcuni possono persistere nell’ospite dopo la guarigione, in maniera simbiotica (tab. 6.2). Le infezioni che possono in seguito riattivarsi (come può verificarsi, ad esempio, nella tubercolosi o nella sifilide) sono dette latenti (silenti); mentre gli ospiti con infezioni asintomatiche non recidivanti (come ad esempio quelle causate dal bacillo tifoideo o da quello difterico) sono definiti portatori sani del microrganismo. Nelle infezioni latenti il microrganismo permane nel corpo dell’individuo senza che insorga una patologia evidente, ma esso può determinare una malattia mesi o anni più tardi. In alcuni casi è possibile individuare la causa che scatena il riemergere del microrganismo: ad esempio, i farmaci immunosoppressori o citotossici possono riattivare la tubercolosi in un individuo i cui processi immunologici abbiano mantenuto il batterio allo stato latente. Tuttavia, in altri casi non esiste una chiara spiegazione della riattivazione. Il portatore di un microrganismo patogeno è invece un ospite che, pur albergando il microrganismo è in grado di diffonderlo, e risulta immune alla malattia; questo stato talvolta s’instaura senza che si sia verificata la malattia in precedenza. Lo stato di portatore è spesso instabile e termina dopo alcune settimane; tuttavia, a seguito di alcune malattie, come la febbre tifoide e la gonorrea, gli individui possono rimanere portatori indefinitamente, fornendo così un continuo serbatoio per il microrganismo infettante. Può risultare impossibile eradicare solo con la terapia antibiotica i batteri che formano

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Capitolo 6 • Patogenicità e virulenza

un’associazione a lungo termine con un portatore: i portatori di Salmonella typhi, infatti, spesso ospitano questo microrganismo nella colecisti, e per gli individui con calcoli biliari che diventano portatori di S. typhi spesso la colecistectomia rappresenta l’unico modo per eliminare lo stato di portatore. Escherichia coli è presente normalmente in gran numero nel colon: a questo livello i microrganismi non sono patogeni e possono anche essere di beneficio all’ospite che presenta normali condizioni di salute, contribuendo alla sintesi di vitamina K e inducendo un’immunità naturale nei confronti di altri batteri gram-negativi. Soltanto quando E. coli oltrepassa la barriera mucosale e invade altre sedi, esso determina malattia: la penetrazione di E. coli nel peritoneo attraverso una breccia meccanica della parete intestinale, il suo ingresso nella vescica urinaria, o l’invasione del torrente ematico, sono tutti eventi associati a malattia. Alcuni patogeni virulenti come lo streptococco di gruppo A e Neisseria meningitidis sono in grado di colonizzare un numero molto elevato di soggetti per lunghi periodi di tempo senza alcun effetto patogeno. In questi casi gli individui colonizzati possono avere già un’immunità specifica nei confronti di questi microrganismi, oppure l’invasione viene impedita dalle difese non specifiche dell’ospite e, nel frattempo, si sviluppa l’immunità specifica. Alcuni microrganismi, infine, possono rimanere nei tessuti dell’ospite per tutta la vita, determinando danni minimi fino a quando il sistema immunitario dell’ospite è integro, ma provocando gravi malattie sintomatiche se quest’ultimo è compromesso.

6.3 - Virulenza L’esito dell’interazione ospite-parassita dipende dalla patogenicità di quest’ultimo, ovvero dalla capacità del microrganismo di infliggere un danno all’ospite e dare malattia, e dalla resistenza o suscettibilità dell’ospite al parassita stesso. La misura quantitativa della patogenicità è indicata con il termine virulenza, espressa come il numero di cellule che suscitano una risposta patologica nell’ospite in un dato periodo di tempo. Né la virulenza del patogeno, né la relativa resistenza dell’ospite sono fattori costanti: l’interazione ospite-parassita è una relazione dinamica tra i due organismi, poiché ognuno modifica l’attività e le funzioni dell’altro tanto che la virulenza del patogeno e la resistenza dell’ospite variano continuamente. La virulenza racchiude due tra le caratteristiche del microrganismo patogeno: 1’infettività, cioè la capacità di colonizzare e invadere l’ospite, e l’entità della malattia; essa può variare sia tra le varie specie microbiche, che tra ceppi differenti di una stessa specie. Le componenti di un microrganismo che determinano la capacità di causare malattia, senza influenzare di per sé la vitalità, sono dette fattori o determinanti di virulenza. La virulenza è determinata essenzialmente dalla tossicità e dall’invasività del microrganismo (fig. 6.2). Con il termine tossicità si intende la capacità di un microrganismo di svolgere il suo ruolo patogenetico attraverso la produzione di tossine che alterano o inibiscono la fisiologia e le funzioni della cellula o la uccidono: le tossine secrete dal batterio della difterite o da ceppi E. coli enteropatogeni (EPEC) sono, ad esempio, importanti fattori di virulenza, ma non sono necessarie per lo sviluppo di questi microrganismi o per la colonizzazione dei loro ospiti. L’invasività è la capacità di un microrganismo di proliferare nei tessuti fino a raggiungere numeri così elevati da inibire le funzioni dell’ospite: un microrganismo, anche se non produce tossine, può essere in grado di determinare una malattia proprio grazie alle sue proprietà invasive. L’invasività è fortemente influenzata dalle proprietà superficiali dei batteri che possono accentuare la capacità di colonizzare e quindi aumentare la virulenza in due modi diversi: promuovendo la loro adesione a cellule specifiche e/o diminuendo la

ESPOSIZIONE ad agenti patogeni ADESIONE alle cellule ospiti INVASIONE dell’epitelio COLONIZZAZIONE e CRESCITA

TOSSICITÀ

INVASIVITÀ

DANNO AI TESSUTI MALATTIA

Figura 6.2 Principali fasi del processo patogenetico.

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capacità di attrazione sui fagociti. Ad esempio, il più importante fattore di virulenza di Streptococcus pneumoniae è la capsula polisaccaridica che impedisce la fagocitosi batterica, annullando così il principale meccanismo di difesa utilizzato dall’ospite per prevenire l’invasione. I ceppi capsulati di S. pneumoniae sono capaci di causare danni estesi nell’ospite come risultato del loro elevato grado d’invasività; essi crescono nel tessuto polmonare in numero elevato, dove inducono le risposte dell’ospite che portano alla polmonite lobare. I ceppi non capsulati, invece, vengono rapidamente e facilmente catturati e distrutti dalle cellule fagocitiche. La maggior parte dei microrganismi esplica la propria patogenicità mediante una combinazione dei meccanismi di tossicità e invasività. La virulenza è una proprietà poligenica dei microrganismi; in teoria può essere influenzata da un qualunque aspetto della loro fisiologia: la produzione di tossine e le proprietà superficiali, il tasso di crescita, le esigenze nutrizionali, l’efficienza di assorbimento di micronutrienti (come il ferro), la sensibilità alla temperatura e la resistenza ai danni da sostanze ossidanti o all’attacco da parte di enzimi. Inoltre, come avviene negli organismi superiori, l’adattamento di un microrganismo alla sua nicchia ecologica dipende dall’evoluzione di un genoma nel quale si verifichino interazioni equilibrate (co-adattamento) fra i suoi geni, molti, e i loro prodotti. La virulenza di un microrganismo, come la tossicità di una tossina, è generalmente espressa come la dose capace di infettare o di uccidere il 50% degli animali inoculati, e i rispettivi indicatori assumono la denominazione di dose infettiva50 (ID50, Infectious Dose), o dose letale50 (LD50, Lethal Dose). La virulenza è un processo che può essere studiato mediante l’utilizzo di modelli sperimentali murini d’infezione con ceppi patogeni. In figura 6.3 è indicato come anche poche cellule di S. pneumoniae sono sufficienti a provocare un’infezione letale e a uccidere tutti i membri della popolazione saggiata. Al contrario, la LD50 di Salmonella typhimurium, responsabile di gastroenteriti nel topo, anche se meno virulento, è molto più elevata di quella di S. pneumoniae e il numero di batteri richiesti (fig. 6.3) per uccidere il 100% della popolazione è 100 volte maggiore della LD50.

Figura 6.3 Confronto del livello di virulenza di Streptococcus pneumoniae e di Salmonella typhimurium in un modello murino d’infezione.

Microrganismo altamente virulento

Microrganismo scarsamente virulento

(Streptococcus pneumoniae)

(Salmonella typhimurium)

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Percentuale di topi uccisi

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80

60

40

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Numero di cellule inoculate per topo

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Capitolo 6 • Patogenicità e virulenza

È importante tenere presente che l’efficienza d’infezione viene profondamente influenzata anche da numerosi fattori dell’ospite, tra cui l’età, il sesso, il patrimonio genetico, lo stato nutrizionale, la densità di popolazione e una precedente esposizione al microrganismo. Quando i patogeni vengono coltivati in laboratorio, la loro virulenza può diminuire significativamente fino a scomparire. Questi microrganismi sono detti attenuati. L’attenuazione è un fenomeno associato, probabilmente, al fatto che i mutanti non virulenti crescono più rapidamente e sono selettivamente favoriti dai successivi passaggi in terreno di coltura fresco. L’attenuazione si osserva più facilmente quando le condizioni di coltura non sono ottimali per quella determinata specie. Se una coltura attenuata viene re-inoculata in un animale, in alcuni casi si possono isolare nuovamente microrganismi virulenti, mentre in altri la perdita della virulenza è permanente. I ceppi attenuati possono essere utilizzati per la produzione di vaccini.

6.4 - Patogenicità e virulenza nell’era post-genomica Negli ultimi anni sono stati sequenziati i genomi della maggior parte degli agenti patogeni e dei più importanti agenti commensali. L’analisi di queste sequenze genomiche ha rivelato diverse forze coinvolte nell’evoluzione dei patogeni e ha portato alla luce aspetti inattesi della loro biologia. Particolarmente sorprendente è la scoperta che la plasticità/instabilità del genoma e il trasferimento genico orizzontale hanno un ruolo chiave nell’evoluzione degli agenti patogeni; ciò ha portato a una rivalutazione delle definizioni di “patogeno” e di “fattore di virulenza”. Tra le forze che hanno plasmato l’evoluzione dei batteri patogeni particolare importanza rivestono: l’acquisizione di geni (gene gain), la perdita di geni (gene loss) e i cambiamenti nella sequenza genica (gene change). Nel genoma di alcuni batteri patogeni (ad es. Yersinia pestis) sono stati evidenziati tutti e tre i fenomeni. Differenze nell’entità e nella tempistica di questi cambiamenti, in diverse linee di batteri patogeni, hanno determinato varie forme di dinamicità genomica. Fenomeni di ricombinazione genica possono verificarsi tra sequenze strettamente correlate in ceppi correlati, evento comune di patogeni mucosali naturalmente competenti (ad es. N. meningitidis, Haemophilus influenzae e S. pneumoniae). Il trasferimento genico orizzontale, meccanismo che comporta l’acquisizione di nuove sequenze di DNA, predomina in alcuni patogeni (ad es. molti enterobatteri e alcuni stafilococchi e streptococchi). Il sequenziamento dell’intero genoma di molte specie batteriche differenti ha inoltre confermato che il fenomeno della variazione di fase è causa di enorme variazione genotipica e fenotipica. Si tratta di diversi meccanismi mutazionali sfruttati dai batteri per lo “switch genico” che porta all’espressione o meno di geni codificanti per proteine e diversi componenti strutturali batterici (switch on/off). Ad esempio, in Campylobacter jejuni, agente eziologico della campilobatteriosi, una delle malattie batteriche gastrointestinali più diffuse al mondo, la presenza di numerose sequenze ripetute omopolimeriche, in prossimità delle regioni codificanti di diversi geni, può determinare fenomeni di scivolamento (slippage) durante la replicazione del DNA, fornendo un ampio repertorio di strutture esposte sulla superficie della cellula batterica. Bacteroides fragilis, un batterio gram-negativo anaerobio obbligato che normalmente colonizza il colon dell’essere umano, utilizza invece meccanismi di inversione del DNA per modulare oltre 20 loci genici differenti, in cui mappano geni che codificano per proteine della superficie batterica, polisaccaridi e componenti dei sistemi di regolazione. Secondo calcoli della matematica combinatoria, un batterio con soli 20 loci fase-variabili può esistere in oltre 220 differenti forme, ovvero oltre 1 milione di forme. I dati scientifici assunti nell’era post-genomica dimostrano il limite delle precedenti conoscenze circa l’ecologia e l’evoluzione della patogenicità batterica, e hanno aperto accese discussioni e imposto una ridefinizione della terminologia microbiologica

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classica. All’interno di specie batteriche geneticamente variabili, è ormai chiaro che un singolo ceppo simboleggia raramente un’intera specie, soprattutto perché la genomica ha fornito una prova convincente che i ceppi comunemente utilizzati in laboratorio (ad es. E. coli K-12, Salmonella enterica sierotipo typhimurium LT2, Pseudomonas aeruginosa PAO1 e Staphylococcus aureus COL) hanno subìto profondi cambiamenti genotipici e fenotipici durante la loro discendenza dall’isolato ancestrale. Analogamente, i dati sulle sequenze genomiche batteriche contrastano con il semplicistico punto di vista secondo cui un agente patogeno batterico può essere definito unicamente attraverso l’individuazione dei fattori di virulenza e che gli agenti patogeni evolvono sempre dai non patogeni attraverso l’acquisizione di geni di virulenza presenti su plasmidi, batteriofagi e isole di patogenicità. La genomica, quindi, ha contribuito a offuscare la distinzione tra agenti patogeni e non patogeni e tra fattori di virulenza e di colonizzazione. Essa ha determinato una rivoluzione copernicana nel modo di osservare le interazioni ospite-patogeno, il passaggio da una prospettiva antropocentrica verso una prospettiva più ampia che pone le interazioni tra batteri eucariofilici ed eucarioti in un contesto ecologico ed evolutivo più ampio (la così detta prospettiva eco-evo).

Versione molecolare dei postulati di Koch Alla luce delle conoscenze fornite dal sequenziamento del genoma di molte specie batteriche differenti i famosi postulati di Koch, utilizzati per determinare il legame che esiste tra una malattia e il microrganismo sospettato di esserne l’agente eziologico, rappresentano una visione semplicistica dell’interazione ospite-parassita. Infatti, oggi risulta chiaro che la maggior parte dei patogeni causa forme morbose che possono variare dall’infezione subclinica alla malattia grave fatale, a seconda di fattori dell’ospite (ad es. la funzione del sistema immunitario) e di fattori del patogeno (ad es. variazioni ceppo-specifiche nella colonizzazione e fattori di virulenza). Inoltre, alcuni agenti patogeni non possono essere coltivati in laboratorio, mentre altri causano malattia solo in associazione con altri microrganismi. Una versione molecolare dei postulati di Koch è stata messa a punto da Stanley Falkow (Professor Emeritus, Microbiology and Immunology, Stanford University) nel tentativo di dare una definizione più completa del termine “fattore di virulenza”. Questa versione molecolare consta di tre criteri. In primo luogo, il potenziale fattore di virulenza dovrebbe essere presente in tutti i ceppi patogeni di una data specie e assente nei ceppi non patogeni. In secondo luogo, la specifica inattivazione del gene in questione dovrebbe attenuare la virulenza in un adeguato modello animale. Da ultimo, la successiva reintroduzione del gene funzionale dovrebbe ripristinare la virulenza nel modello animale. Tuttavia, allo stesso modo dei postulati di Koch originali, si presentano una serie di difficoltà se i postulati molecolari di Koch vengono applicati acriticamente. Questi si basano sulla fondamentale distinzione tra agenti patogeni e non patogeni, ma spesso i batteri hanno ruoli diversi in circostanze diverse. Ad esempio, i ceppi uropatogeni di E. coli (UPEC) fungono da microrganismi commensali nell’intestino umano ma da patogeni nella vescica umana, mentre i ceppi enteroemorragici di E. coli (EHEC) fungono da microrganismi commensali nell’intestino bovino ma da patogeni in quello dell’uomo. Allo stesso modo, Yersinia pestis è un patogeno di diversi animali ma i fattori di virulenza coinvolti differiscono a seconda dell’ospite. È stato dimostrato come vi sia un evidente conflitto tra il primo postulato di Falkow (fattori di virulenza definiti utilizzando la genomica comparativa) e i restanti postulati (fattori di virulenza definiti utilizzando tecniche genetiche e modelli d’infezione). Infatti, se si applica il primo postulato, vale a dire che tutti i fattori che sono comuni a patogeni e non patogeni non possono essere fattori di virulenza, allora alcuni patogeni non hanno fattori di virulenza. Se invece si ignora il primo postulato, allora molti fattori di virulenza sono presenti anche in stipiti non patogeni.

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Tabella 6.3 Principali fattori di adesione dei microrganismi patogeni.

Fattore di adesione

Esempi di attività

Glicocalice/capsula/strato mucoso

Escherichia coli EPEC: il glicocalice promuove l’adesione all’orletto striato dei villi intestinali Streptococcus mutans: il glicocalice di destrano promuove il legame alla superficie dei denti

Proteine di adesione: M e Opa

Streptococcus pyogenes: la proteina M si lega a recettori presenti sulla mucosa respiratoria Neisseria meningitidis e Neisseria gonorrhoeae: le proteine Opa si legano a recettori presenti rispettivamente sulle cellule dell’epitelio orofaringeo e genitourinario

Acido lipoteicoico

Streptococcus pyogenes: in associazione con la proteina M forma fibrille che facilitano il legame al recettore della mucosa respiratoria

Fimbrie/pili

Neisseria gonorrhoeae: i pili di tipo IV facilitano il legame all’epitelio urogenitale Salmonella spp.: le fimbrie di tipo I facilitano il legame all’epitelio dell’intestino tenue Escherichia coli patogeni: i fattori antigenici di colonizzazione (CFA), costituenti delle fimbrie, facilitano il legame all’epitelio dell’intestino tenue

6.5 - Fasi del processo patogenetico L’utilizzo dei mutanti batterici applicato ai diversi metodi di biologia cellulare e molecolare ha rivoluzionato lo studio della patogenesi batterica. La patogenesi, ovvero la capacità di un microrganismo di indurre malattia, ha inizio con l’adesione del microrganismo stesso alle cellule dell’ospite (tab. 6.3), seguita dalla colonizzazione delle superfici, che può portare a un danno cellulare localizzato, dall’invasione dei tessuti e dalla proliferazione, con conseguente distruzione della struttura tissutale dell’organismo ospite, dalla produzione di esotossine, che possono agire localmente o in punti distanti, e infine dall’induzione di reazioni infiammatorie, allergiche e fibrotiche dell’ospite, che possono causare alterazioni temporanee o permanenti dei tessuti.

Adesione e colonizzazione delle superfici Prima di determinare un danno, un microrganismo patogeno deve poter raggiungere i tessuti dell’ospite e moltiplicarsi: il più delle volte il primo contatto tra l’ospite e il parassita avviene a livello della superficie cutanea o mucosa. Allo scopo di impedire lo sviluppo del processo infettivo durante tale contatto, l’ospite ha sviluppato meccanismi di difesa altamente efficaci che operano a livello dell’interfaccia tra il corpo e il mondo esterno. Molti di questi meccanismi iniziali di difesa non sono diretti nei confronti di una particolare specie di microrganismo. Le barriere meccaniche, inclusi lo spesso strato corneo della cute e le secrezioni ghiandolari, tendono a prevenire l’infezione ad opera di qualsiasi patogeno potenziale. Le barriere chimiche, come l’acidità gastrica e le vescicole, rappresentano un ambiente ostile per la maggior parte dei microrganismi. La normale microflora, composta di organismi non patogeni che colonizzano le superfici mucose, rende più difficile la colonizzazione ad opera di patogeni, a causa della competizione per le risorse ambientali e la produzione di sostanze ad attività antibatterica (batteriocine) (fig. 6.4). Meccanismi comportamentali e neurologici, come ad esempio il vomito e la tosse, aiutano a prevenire le infezioni delle vie respiratorie inferiori. Si è imparato a riconoscere l’importanza di questi meccanismi osservando le malattie che derivano dalla loro compromissione. Alterazioni delle secrezioni bronchiali che si osservano nella fibrosi cistica (FC) conducono spesso a infezioni polmonari croniche da P. aeruginosa. Una lesione cutanea, conseguente alla puntura di un insetto o al morso

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Figura 6.4 Barriere fisiche, chimiche e anatomiche dell’ospite all’infezione da parte di patogeni.

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Il lisozima presente nelle lacrime e in altre secrezioni dissolve le pareti cellulari La flora normale compete con i patogeni La pelle è una barriera fisica, produce acidi grassi antimicrobici e la sua flora normale inibisce la colonizzazione da parte dei patogeni Una repentina modificazione del pH inibisce la crescita microbica Lo svuotamento del tratto urinario inibisce la crescita microbica

Rimozione di particelle, microrganismi compresi, grazie al rapido passaggio dell’aria sulle ciglia nel nasofaringe Il muco e le ciglia che rivestono la trachea allontanano e sospingono i microrganismi fuori dal corpo Le proteine del sangue inibiscono la crescita microbica Il muco e i fagociti nei polmoni prevengono la colonizzazione L’acidità dello stomaco (pH 2) inibisce la crescita microbica La flora normale compete con i patogeni

Figura 6.5 Fotografia al microscopio elettronico di Escherichia coli che mostra la presenza sulla superficie di pili e fimbrie.

di un animale, a ustione o a lesioni da trattamento, a traumi o a incisioni chirurgiche, consente l’ingresso di patogeni o di agenti opportunistici. L’eradicazione della normale flora intestinale conseguente a terapia antibiotica può rendere patogeni microrganismi come Clostridium difficile. L’ospite ha sviluppato anche un sistema di difesa organismo-specifico a livello delle superfici mucose. Nell’epitelio dell’intestino, della mucosa nasale e a livello di altre sedi che confinano con l’ambiente esterno, risiedono macrofagi specializzati e linfociti che rivestono un ruolo importante nel sistema di difesa. Questo tessuto linfoide associato alla mucosa sembra svolgere un ruolo decisivo nell’intrappolare gli antigeni consentendo che questi vengano in contatto con i linfociti a livello della mucosa. In alcune aree questi tessuti sono riconoscibili anatomicamente: tra queste vi sono le tonsille orofaringee e, nel tratto gastrointestinale, le placche di Peyer e l’appendice. L’elaborazione di immunoglobuline di superficie rappresenta il fulcro di questo sistema di difesa, in particolare si tratta di IgA secretorie che prevengono l’adesione e la penetrazione dei microrganismi. I patogeni hanno sviluppato un insieme di strategie per superare questa frontiera ben organizzata tra l’ospite e il mondo esterno: i microrganismi in grado di avviare un processo infettivo spesso aderiscono in maniera specifica alle cellule epiteliali, attraverso interazioni proteina-proteina tra molecole presenti sulla superficie del patogeno e della cellula ospite. Un microrganismo infettante non aderisce a tutte le cellule epiteliali con la stessa efficienza, ma interagisce in maniera selettiva con le cellule della particolare regione del corpo alla quale ha normalmente accesso. Ad esempio, le fimbrie dei ceppi E. coli UPEC che invadono le vie urinarie contengono recettori specifici per i carboidrati (lectine) che si legano agli oligosaccaridi contenenti mannosio presenti nelle glicoproteine dell’epitelio della vescica, impedendo così che il flusso dell’urina ne faccia fuoriuscire i microrganismi. Altre strutture proteiche presenti sulla superficie di questi e di altri batteri patogeni capaci di interagire con le cellule ospiti e di dare inizio al processo di adesione sono i pili, strutture filamentose che si estendono dalla superficie della cellula batterica e presenti in numero variabile (fig. 6.5).

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Neisseria gonorrhoeae, l’agente eziologico della gonorrea, una malattia trasmessa sessualmente, aderisce molto più saldamente alle cellule dell’epitelio urogenitale che a quelle di altri tessuti, attraverso una proteina di superficie chiamata Opa. Opa interagisce in maniera altamente specifica con la proteina CD66 presente sulla superficie delle cellule ospiti ed espressa soltanto nelle cellule epiteliali umane. Quindi, l’inizio del processo infettivo da parte di N. gonorrhoeae è strettamente dipendente da un’interazione ligando-recettore. Questo principio si estende alla specificità dell’ospite. In molti casi, un ceppo batterico che infetta normalmente l’uomo aderisce molto più efficacemente alle cellule umane di un dato tessuto che non alle cellule del corrispondente tessuto in un altro animale, ad esempio il ratto, e viceversa. Gli studi sulle diarree causate da E. coli hanno fornito molte informazioni sulle interazioni tra batteri patogeni e cellule epiteliali delle mucose. La maggior parte dei ceppi di E. coli non è patogena e fa parte del microbiota dell’intestino cieco e del colon. In genere nell’organismo sono presenti, nello stesso momento, diversi ceppi, e molti batteri non patogeni attraversano l’organismo per venire poi eliminati nel materiale fecale. Soltanto alcuni ceppi di E. coli sono enteropatogeni, ovvero possiedono la capacità di colonizzare l’intestino tenue, produrre enterotossine e dare inizio a diarrea e altre malattie. Questi ceppi possiedono specifiche strutture di superficie dette CFA (fattori antigenici di colonizzazione), costituite da proteine organizzate in fimbrie e coinvolte nell’adesione specifica alle cellule dell’intestino tenue. I ceppi non patogeni di E. coli raramente possiedono le proteine CFA. Anche la composizione genetica dell’ospite può influenzare la sensibilità o la resistenza alla colonizzazione batterica. Ad esempio, i sierotipi K88 e K99 di E. coli colonizzano il tratto intestinale di alcuni maialini, ma non di altri o di altre specie, che risultano, infatti, prive di recettori di membrana.

Biofilm batterici Alcune macromolecole responsabili dell’adesione dei batteri alla cellula ospite non sono legate covalentemente alla superficie batterica: esse sono rappresentate generalmente da polisaccaridi sintetizzati e secreti dal batterio. Il rivestimento costituito da polimeri, che forma uno strato denso, ben definito intorno alla cellula, è noto come capsula, la rete a trama larga di fibre polimeriche che si estende dalla superficie della cellula è nota come glicocalice, mentre una diffusa massa di fibre polimeriche, apparentemente staccata dalla cellula, è chiamata strato mucillaginoso (fig. 6.6). Queste strutture possono essere importanti per l’adesione non soltanto ai tessuti dell’ospite, ma anche tra le cellule batteriche stesse. Inoltre, questi strati di natura polisaccaridica possono proteggere i batteri dai meccanismi di difesa dell’ospite come la fagocitosi. Molti batteri patogeni, quali ad esempio E. coli, P. aeruginosa e S. aureus producono un’abbondante matrice mucopolisaccaridica extra-cellulare che prende il nome di slime o glicocalice. Lo slime (letteralmente melma) favorisce l’adesività batterica e la produzione del biofilm. Il biofilm è definito come una comunità (vegetazione) di germi inclusi in un substrato di polimeri organici (EPS: sostanza esopolimerica) che aderisce a una superficie naturale o artificiale (fig. 6.7). Negli ultimi anni si è avuta sempre più ampia dimostrazione che i biofilm batterici rappresentano un importante fattore di morbidità e mortalità nella maggior parte delle malattie infettive. Circa l’80% della biomassa microbica del mondo risiede nello stato di biofilm, e il National Institutes of Health (NHI) stima che oltre il 75% delle infezioni microbiche che avvengono nel corpo umano sia sostenuto dalla formazione di biofilm. Questa struttura è un fattore di virulenza in infezioni quali la carie dentale, le periodontiti, le colecistiti, le osteomieliti, le prostatiti, le cistiti, le endocarditi, l’otite media acuta, la sinusite, la fibrosi cistica e riacutizzazioni infettive delle bronco-pneumopatie croniche ostruttive. Il biofilm svolge, inoltre, un ruolo primario nel promuovere la colo-

Figura 6.6 Colonie di Bacillus anthracis. La presenza della capsula, composta da poli- d -glutammato, conferisce alle colonie batteriche un aspetto mucoso. La capsula è un determinante essenziale della virulenza, protegge i batteri dalla fagocitosi da parte delle cellule del sistema immunitario dell’ospite durante il processo infettivo.

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Figura 6.7 Formazione di biofilm microbico su una superficie organica. 1. Adesione iniziale dei batteri alla superficie organica; 2. colonizzazione irreversibile; 3. produzione di esopolimeri; 4. formazione della vegetazione: biofilm; 5. rilascio dei batteri dal biofilm.

nizzazione di corpi estranei come dispositivi medici impiantabili quali: protesi o cateteri vascolari e urinari, valvole cardiache e protesi ortopediche. Uno dei principali ruoli del biofilm è proteggere i microrganismi dall’azione degli antibiotici mantenendo vitali i germi al suo interno e interferire con i meccanismi di difesa dell’ospite quali la fagocitosi, l’attività degli anticorpi e del complemento. Il lento metabolismo, la ridotta velocità di replicazione delle cellule, la bassa tensione di ossigeno, l’effetto di adsorbimento aspecifico da parte della matrice polisaccaridica, la riduzione del pH e dell’osmolarità sono tutte condizioni che producono una resistenza fenotipica a molte classi di farmaci, tra cui principalmente aminoglicosidi, β-lattamici, fluorochinoloni e glicopeptidi. Una delle principali spiegazioni per l’ampio interesse dimostrato nello studio dei biofilm microbici in ambito biomedico è proprio la continua emergenza e la severa minaccia di batteri antibiotico-resistenti. La formazione di biofilm, come pure la produzione di numerosi altri fattori di virulenza, sono fortemente influenzate da pathway di quorum sensing (QS), termine utilizzato per descrivere come i batteri comunicano tra loro nel tentativo di modificare, in maniera coordinata, l’espressione genica all’interno della popolazione. Numerosi studi hanno dimostrato che l’inibizione di determinati pathway di QS può portare alla formazione di biofilm che presentano differenze morfologiche nella struttura della biomassa. Inoltre, è noto che le comunità batteriche sessili dei biofilm differiscono notevolmente rispetto alle loro controparti planctoniche; esse sono descritte come entità complesse e dinamiche che verosimilmente rappresentano il tentativo evolutivo dei batteri di sopravvivere alle innumerevoli pressioni ambientali. Le caratteristiche del biofilm giustificano le difficoltà incontrate nella terapia di infezioni croniche, quali ad esempio la fibrosi cistica e la bronchite con le sue esacerbazioni. L’uso degli antibiotici ha infatti efficacia solo sulla frazione planctonica dei patogeni in causa e la conseguente diminuzione della carica microbica rende ragione del successo temporaneo della terapia e della remissione dei sintomi. La mancata eradicazione delle cellule batteriche del biofilm mantiene attivo il focus infettivo che resta destinato a perpetuare il quadro clinico. Questo processo spiegherebbe così l’eziopatogenesi delle riacutizzazioni. Appare quindi evidente il motivo delle intense ricerche volte alla scoperta di molecole e agenti biologici capaci di disgregare il biofilm o di impedirne la formazione, tra cui alcune molecole antinfiammatorie, detergenti tipo SDS, antibiotici e sostanze chimiche quali EDTA e N-acetilcisteina (NAC), citrato ferrico di ammonio, analoghi degli acil-omoserina-lattoni (AHL), sostanze naturali come i furanoni alogenati e batteriofagi, che si spera di poter utilizzare con successo in terapia.

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Capitolo 6 • Patogenicità e virulenza

Invasione, crescita e moltiplicazione del parassita nell’ospite Per alcuni microrganismi, la patogenicità è associata unicamente alla produzione di tossine e i patogeni non necessitano di penetrare nei tessuti dell’ospite per esplicare i loro effetti. Tuttavia, la maggior parte dei patogeni, per iniziare il processo infettivo, penetra nell’epitelio mediante un meccanismo definito invasione. Nel punto di ingresso, generalmente a livello di piccole rotture o lesioni della pelle o della superficie mucosa, inizia spesso la proliferazione. L’invasione dei tessuti dell’ospite può quindi essere facilitata dalla produzione di proteine extracellulari che agiscono localmente per facilitare la crescita e la diffusione del patogeno e/o per danneggiare le cellule dell’ospite; tali proteine sono definite invasine. La diffusione dei microrganismi può ad esempio essere facilitata dalla secrezione di enzimi degradativi come la collagenasi (Clostridi), che degrada la trama di collagene che sostiene i tessuti favorendo la diffusione, o di enzimi che piuttosto che favorire la diffusione favoriscono la localizzazione o la protezione, come l’attivatore del plasminogeno (Streptococchi). Vi sono però alcuni batteri che invadono i tessuti anche in assenza di un danno fisico. N. meningitidis e N. gonorrhoeae sono in grado di invadere rispettivamente l’epitelio orofaringeo e genitourinario per endocitosi dalle cellule epiteliali, trasportati al loro interno in vacuoli e liberati nello spazio submucoso, da dove invadono i tessuti sottostanti (in un processo definito transcitosi). H. influenzae penetra nell’organismo passando attraverso le giunzioni delle cellule epiteliali. Le Salmonelle inducono i macrofagi gastrointestinali dell’ospite (contenuti ad esempio nelle placche di Peyer) per essere da loro fagocitate, resistono all’azione dei fagolisosomi e successivamente proliferano passando nel torrente ematico. Anche Shigella ed E. coli enteroinvasivi (EIEC) sono assunti per endocitosi dalle cellule intestinali. Alcuni dei geni che determinano l’invasività nei batteri enteropatogeni sono portati da elementi genetici extracromosomici come plasmidi che codificano per proteine batteriche superficiali. Per altri patogeni, inclusi alcuni batteri (Rickettsia rickettsii e Yersinia pestis) e parassiti (Plasmodium e Trypanosoma), può essere necessario l’intervento di un vettore artropode in grado di provocare soluzioni di continuo che ne permettano l’ingresso in circolo. Se un microrganismo patogeno riesce ad accedere ai tessuti, può crescere e moltiplicarsi dando avvio alle manifestazioni patogenetiche. L’inoculo iniziale raramente è sufficiente per provocare danni all’ospite; per indurre la malattia il patogeno deve potersi riprodurre, e per questo deve trovare le sostanze nutritive e le condizioni ambientali appropriate. La temperatura, il pH e il potenziale ossido-riduttivo sono alcuni dei fattori ambientali che influenzano la crescita di un microrganismo, ma la disponibilità di sostanze nutritive, all’interno dei tessuti dell’ospite, è un fattore estremamente importante. Sebbene per il microrganismo infettante l’ospite possa sembrare un paradiso nutrizionale, non tutte le sostanze necessarie sono presenti in quantità sufficienti. I nutrienti solubili come gli zuccheri, gli aminoacidi e gli acidi organici sono spesso presenti in quantità limitate: sono quindi favoriti i microrganismi in grado di utilizzare composti complessi, come il glicogeno. Non tutte le vitamine e gli altri fattori di crescita sono presenti in quantità sempre sufficiente e in tutti i tessuti. Brucella abortus, ad esempio, può crescere molto lentamente nella maggior parte dei tessuti del bestiame infettato, ma prolifera molto rapidamente nella placenta, provocando aborti. Ciò è dovuto al fatto che nella placenta vi è un elevato contenuto di eritritolo, un nutriente che promuove la crescita di questo microrganismo. Anche alcuni oligoelementi possono essere presenti in quantità così limitata da influenzare la colonizzazione del patogeno. A tale proposito esistono numerose evidenze riguardanti il ruolo svolto dal ferro nella crescita microbica. Alcune proteine specifiche, presenti nell’ospite, come la transferrina e la lattoferrina, legano il ferro molto efficientemente e lo trasportano in tutto il corpo. L’affinità di queste proteine

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per il ferro è talmente elevata che i microrganismi infettanti si possono ritrovare spesso in carenza di ferro; la somministrazione in un animale infettato di sali di ferro solubili, attraverso la dieta o per iniezione, aumenta enormemente la virulenza di alcuni patogeni. Molti batteri, inoltre, producono composti in grado di chelare il ferro, chiamati siderofori, che consentono al microrganismo di ottenere ferro dall’ambiente. Alcuni di questi siderofori, isolati da batteri patogeni, sono composti ad altissima affinità per il ferro, tanto che riescono a rimuoverlo dalle proteine dell’ospite. L’aerobactina, ad esempio, un sideroforo prodotto da alcuni ceppi di E. coli, codificato da geni localizzati sul plasmide Col V, è in grado di rimuovere facilmente il ferro legato alla transferrina. Dopo la penetrazione, il microrganismo spesso rimane localizzato e comincia a moltiplicarsi, producendo un focolaio d’infezione. In alternativa, i microrganismi possono attraversare i vasi linfatici e depositarsi nei linfonodi. Se un microrganismo raggiunge i vasi sanguigni, può essere distribuito nei vari distretti del corpo, concentrandosi, generalmente, nel fegato e nella milza. La diffusione di un patogeno tramite il sangue e il sistema linfatico può determinare un’infezione generalizzata (sistemica) dell’ospite, con il microrganismo che prolifera in vari tessuti. Se invece si verifica una crescita massiva dei microrganismi nei tessuti, essi possono riversarsi in gran numero nel flusso sanguigno, determinando una condizione patologica nota come batteriemia.

6.6 - Cambiamenti adattativi della virulenza L’infezione ha un impatto rilevante sia sui microrganismi sia sull’ospite. È sempre più evidente che il microrganismo si adatta alle modificazioni dell’ambiente attraverso complessi meccanismi regolatori, attivando i fattori di virulenza necessari per l’invasione e la sopravvivenza nei tessuti dell’ospite. Gli adattamenti osservati che influenzano la sopravvivenza in un ospite, e quindi la virulenza, includono i cambiamenti nella formazione di fimbrie e flagelli, nella quantità di altri antigeni di superficie, nella formazione di porine, nella secrezione di tossine ed enzimi, nella chemiotassi e nell’assimilazione di sostanze nutritive. Anche se la maggior parte dei fattori di regolazione ambientale è ancora in gran parte sconosciuta, da lungo tempo è noto che il ferro svolge un ruolo decisivo nel regolare la formazione della tossina difterica e di altri determinanti di virulenza, come la tossina Shiga-like di E. coli enteroemorragico (EHEC), che vengono espressi in un ambiente in cui sia presente una bassa concentrazione di ferro libero, condizione che si riscontra appunto nell’ospite per lo stretto legame del ferro con la transferrina e altre proteine. La temperatura ha un notevole effetto sulla formazione di molte proteine di superficie; le specie di Yersinia, Shigella e Bordetella, infatti, esprimono fattori di virulenza a 36 °C, temperatura cui è probabile che i microrganismi siano esposti al momento dell’infezione. Coltivare Shigella a 30 °C piuttosto che a 36 °C diminuisce in modo notevole la virulenza di questo batterio. Molti di questi fattori di virulenza batterica sono controllati da sistemi regolatori a due componenti: una componente proteica rileva i cambiamenti ambientali e li segnala, spesso mediante fosforilazione, a una seconda proteina che in modo coordinato regola l’espressione di un gruppo di geni, i prodotti dei quali facilitano la sopravvivenza nell’ambiente. Tra i vari meccanismi di regolazione coordinata in corso di caratterizzazione, possiamo menzionare quello sotto il controllo del gene toxR di Vibrio cholerae che coordina la formazione di tossine, fimbrie e varie proteine situate sulla membrana esterna. Insieme ai meccanismi di regolazione genica, che influenzano le quantità dei vari prodotti genici attraverso la repressione o l’induzione immediatamente reversibili, altre importanti strategie adottate dai batteri per meglio adattarsi ai continui cambiamenti microambientali riscontrati nell’ospite nel corso del ciclo infettivo sono rappre-

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sentate dalla variazione di fase, cioè l’oscillazione reversibile tra stati di espressione alternativa di un gene, e dalla variazione antigenica, ovvero la capacità di elaborare versioni strutturalmente differenti dei principali antigeni di superficie. Tali meccanismi consentono alle cellule batteriche di modificare l’espressione dei determinanti di virulenza, favorendo la selezione e la crescita preponderante delle varianti maggiormente patogene per l’ospite.

6.7 - Tropismo Al fine di infettare in maniera efficiente, molti patogeni occupano nell’ospite una nicchia altamente specifica, presentando quindi un tropismo per una particolare sede corporea o tipo cellulare. Il tropismo specie-specifico e tessuto-specifico è spesso determinato dalle adesine espresse sulla superficie delle cellule batteriche, oltre che da capacità intrinseche del batterio. Questa forma di tropismo ha molte implicazioni per il ciclo vitale dell’agente patogeno, per il sistema immunitario dell’ospite e per il processo patologico. Il patogeno Helicobacter pylori, ad esempio, produce l’enzima ureasi, che, scindendo l’urea per formare lo ione ammonio e biossido di carbonio, consente al microrganismo di vivere in un ambiente neutro, nell’ambito dell’epitelio gastrico altamente acido. È noto che il SNC è protetto in maniera unica dalle alterazioni dell’ambiente ad opera della barriera ematoencefalica (BEE), un sistema di giunzioni serrate a livello dei capillari, che resiste all’ingresso di cellule infiammatorie, di patogeni e di macromolecole negli spazi sub-aracnoidei. Tuttavia, alcuni agenti patogeni hanno sviluppato meccanismi altamente specializzati, anche se non ancora del tutto compresi, che consentono di oltrepassare questa barriera. Alcuni batteri capsulati, infatti, provenienti dal torrente circolatorio, possiedono componenti di superficie che consentono loro di attraversare le giunzioni capillari della BEE. Il grado di specializzazione richiesto per questi meccanismi è dimostrato dalla capacità, da parte di alcuni sierotipi, nell’ambito della stessa specie, di causare meningite. Il sierotipo III dello streptococco di gruppo B, ad esempio, è responsabile della grande maggioranza dei casi di meningite causati da questo microrganismo, anche se altri sierotipi provocano una malattia molto più invasiva al di fuori del SNC. Questa differenza sembra essere dovuta soltanto alla disposizione della componente glucidica del polisaccaride capsulare; altri sierotipi dello streptococco di gruppo B, infatti, raramente causano meningite, in quanto le loro capsule pur possedendo gli stessi quattro componenti glucidici, li esprimono con una disposizione strutturale diversa.

6.8 - Fattori di virulenza I batteri patogeni producono una serie di proteine extracellulari che promuovono la patogenesi, ovvero favoriscono lo stabilirsi e il mantenimento della malattia. Queste proteine sono dette “fattori di virulenza” (tab. 6.4). Patogeni diversi producono fattori di virulenza diversi, che spesso, però, hanno caratteristiche molecolari o meccanismi d’azione simili. La maggior parte dei fattori di virulenza sono enzimi che intervengono nella colonizzazione e diffusione e favoriscono la crescita batterica. La ialuronidasi, prodotta da streptococchi, stafilococchi e da alcuni clostridi, è un enzima che promuove la diffusione dei microrganismi nei tessuti dell’ospite, in quanto capace di degradare l’acido ialuronico, un polisaccaride che svolge funzione di collante nei tessuti. Gli streptococchi e gli stafilococchi producono, inoltre, un vasto assortimento di proteasi, nucleasi e lipasi, che servono per depolimerizzare le macromolecole dell’ospite, proteine, acidi nucleici e lipidi rispettivamente. I clostridi producono una collagenasi, o tossina k, che degradando la trama di collagene che sostiene i tessuti favorisce la diffusione dei microrganismi. Alcuni microrganismi producono enzimi fibrinolitici che dissolvono

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Tabella 6.4 Principali fattori di virulenza extracellulari prodotti da microrganismi patogeni umani.

Microrganismo

Fattore di virulenza*

Attività

Bacillus anthracis

Fattore letale (LF) Fattore edematoso (EF) Antigene protettivo (PA) (AB)

PA si lega alla cellula, EF è responsabile dell’edema, LF causa la morte cellulare

Bordetella pertussis

Tossina della pertosse (AB)

Blocca la trasduzione del segnale che parte dalle proteine G, uccide le cellule Aumento di cAMP, inibisce la chemiotassi dei leucociti e la fagocitosi A basse concentrazioni provoca ciliostasi, ad alte distruzione dell’epitelio ciliato, interferisce con la sintesi del DNA

Tossina adenilato-ciclasica Citotossina tracheale Clostridium botulinum

Neurotossina (AB)

Paralisi flaccida

Clostridium tetani

Neurotossina (AB)

Paralisi spastica

Clostridium perfringens

Tossina α (CT) Tossina β (CT) Tossina γ (CT) Tossina δ (CT) Tossina κ (C) Tossina λ (E) Enterotossina (CT)

Emolisi (lecitinasi) Emolisi Emolisi Emolisi (cardiotossina) Collagenasi Proteasi Altera la permeabilità dell’epitelio intestinale

Corynebacterium diphtheriae

Tossina difterica (AB)

Inibisce la sintesi proteica nelle cellule eucariotiche

Escherichia coli enteropatogeni (EPEC)

Enterotossina (AB)

Induce la perdita di liquidi dalle cellule intestinali

Pseudomonas aeruginosa

Esotossina A (AB)

Inibisce la sintesi proteica

Salmonella spp.

Enterotossina (AB) Citotossina (CT)

Induce la perdita di liquidi dalle cellule intestinali Inibisce la sintesi proteica e lisa le cellule ospiti

Shigella dysenteriae

Tossina Shiga (AB)

Inibisce la sintesi proteica

Staphylococcus aureus

Tossina α (CT) Tossina della sindrome dello shock tossico (SA) Tossine esfolianti A e B (SA) Leucocidina (CT) Tossina β (CT) Tossina γ (CT) Tossina δ (CT) Enterotossine A, B, C, D, E (SA) Coagulasi (E)

Emolisi Shock sistemico

Streptococcus pyogenes

Streptolisina O (CT) Streptolisina S (CT) Tossina eritrogenica (SA) Streptochinasi (E) Ialuronidasi (E)

Emolisi Emolisi Esantema da scarlattina Dissolve i coaguli di fibrina Dissolve l’acido ialuronico del tessuto connettivo

Vibrio cholerae

Enterotossina (AB)

Induce perdita di liquidi dalle cellule intestinali

Esfoliazione, shock Distruzione dei leucociti Emolisi Distruzione delle cellule ospiti Emolisi, leucolisi Inducono diarrea, vomito e shock Induce la formazione di coaguli di fibrina

* AB, tossina A-B; CT, tossina citolitica; E, fattore di virulenza con attività enzimatica; SA, superantigene.

i coaguli di fibrina che si formano in corrispondenza di una lesione tissutale per delimitare l’infezione, favorendo quindi l’invasione. Una di queste sostanze fibrinolitiche, prodotta da Streptococcus pyogenes, è conosciuta come streptochinasi. Alcuni microrganismi sintetizzano invece enzimi che promuovono la formazione di coaguli di fibrina, che fanno sì che il microrganismo, piuttosto che diffondere, rimanga localizzato e protetto. Il più studiato di questi enzimi è la coagulasi, prodotta da S. aureus, che

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Tabella 6.5 Struttura e meccanismo d’azione delle principali tossine batteriche.

Tossina

Struttura*

Meccanismo d’azione

Tossina difterica

A+B

ADP-ribosila il fattore di elongazione 2 (EF-2), inibendo la sintesi proteica

Tossina colerica

A + 5B

ADP-ribosila le proteine G; stimola l’adenilato-ciclasi, promuovendo la secrezione di fluidi ed elettroliti nel lume intestinale

Tossina pertossica

A + 5B

ADP-ribosila le proteine G; blocca l’inibizione dell’adenilato-ciclasi

Tossina termolabile di E. coli (LT-1 e LT-2)

A + 5B

ADP-ribosila le proteine G; stimola l’adenilato-ciclasi, promuovendo la secrezione di fluidi ed elettroliti nel lume intestinale

Tossina termostabile di E. coli (STa e STb)

A

Attiva la guanilato-ciclasi, promuovendo la secrezione di fluidi ed elettroliti nel lume intestinale

Tossina botulinica

A+B

Inibisce il rilascio di acetilcolina dalle vescicole presinaptiche a livello delle terminazioni dei motoneuroni stimolatori, in corrispondenza delle giunzioni neuromuscolari

Tossina tetanica

A+B

Blocca il rilascio di glicina, e di altri neurotrasmettitori inibitori, a livello delle terminazioni degli interneuroni inibitori con conseguente rilascio continuo di acetilcolina da parte dei motoneuroni

*A indica la subunità dotata di attività enzimatica; B indica la subunità che media il legame con il recettore sulla superficie della cellula ospite.

induce la formazione di un deposito di fibrina sui cocchi stessi, proteggendoli, quindi, dall’attacco delle cellule ospiti. Le esotossine sono proteine rilasciate nell’ambiente circostante da un microrganismo in crescita che possono diffondere dal focolaio d’infezione verso altre parti del corpo e provocare danni lontano dal sito di produzione (tab. 6.5). La maggior parte delle esotossine ricade in una delle tre seguenti categorie: tossine citolitiche, tossine A-B e tossine superantigeniche. Le tossine citolitiche sono enzimi che attaccano i costituenti cellulari. Vari patogeni producono proteine capaci di ledere la membrana citoplasmatica delle cellule animali, provocandone la lisi e la morte. Anche se agiscono su più tipi cellulari, l’attività delle tossine è particolarmente evidente sui globuli rossi, da qui il nome di emolisine. La produzione di emolisine è facilmente evidenziabile in laboratorio strisciando il microrganismo su una piastra di agar sangue (fig. 6.8). Durante la crescita delle colonie, l’emolisina rilasciata dal batterio lisa gli eritrociti circostanti, creando una tipica zona di emolisi (come ad esempio quelle prodotte da S. pyogenes).

alfa emolisi

beta emolisi

Figura 6.8 Formazione di zone di emolisi intorno a colonie batteriche che producono emolisine, cresciute su agar sangue. Nella piastra a sinistra Streptococcus mitis, un batterio α-emolitico, forma colonie circondate da zone di emolisi parziale; nella piastra a destra, invece, Streptococcus pyogenes di Gruppo A (GAS), un tipico batterio β-emolitico, forma colonie circondate da zone di emolisi complete.

A

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Figura 6.9 Rappresentazione schematica della struttura di una esotossina A-B. Le componenti B si legano ai recettori cellulari; la componente A si trasferisce all’interno della cellula e induce il danno cellulare.

B

B Recettore

B

B

B A

Recettore

Membrana cellulare Citoplasma

È stato dimostrato che alcune emolisine attaccano i fosfolipidi della membrana citoplasmatica della cellula ospite. Poiché il fosfolipide lecitina (fosfatidilcolina) è spesso utilizzato come substrato, questi enzimi sono detti anche lecitinasi o fosfolipasi. Un esempio è dato dalla α-tossina di Clostridium perfringens, una lecitinasi capace di dissolvere i lipidi di membrana causando la lisi cellulare. Poiché la membrana citoplasmatica di tutti gli organismi contiene fosfolipidi, le citolisine dotate di attività fosfolipasica, alcune volte, distruggono le membrane tanto dei batteri quanto delle cellule animali. La streptolisina O, una citolisina prodotta dagli streptococchi, colpisce invece gli steroli della membrana citoplasmatica, in particolare il colesterolo alterando di fatto la rigidità della membrana citoplasmatica. Tra le tossine citolitiche ricordiamo, infine, le leucocidine, agenti litici capaci di lisare i globuli bianchi del sangue riducendo così la resistenza dell’ospite. Le esotossine di tipo tossine A-B, invece, sono costituite da due subunità legate covalentemente: la componente B si lega generalmente a un recettore presente sulla superficie cellulare, in modo tale da permettere il trasferimento della subunità A attraverso la membrana della cellula bersaglio, dove la sua azione provoca un danno cellulare (fig. 6.9). Le tossine superantigeniche, infine, sono molecole che hanno la capacità unica di legare contemporaneamente le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II (MHC II) con i recettori presenti sulle cellule T e formano un complesso trimolecolare che induce fortemente la proliferazione dei linfociti T determinando una forte reazione infiammatoria locale con rilascio di citochine che possono portare a estesi danni vascolari ed epiteliali fino allo shock tossico. Il principale bersaglio dei superantigeni sono le cellule T-CD4+ che indotte determinano un’incontrollata stimolazione della risposta T helper di tipo I. Anche alcune componenti strutturali dei patogeni sono spesso responsabili di molti aspetti patogenetici caratterizzanti l’infezione. I lipopolisaccaridi dei batteri gram-negativi agiscono come potenti endotossine (“endo” in questo caso è riferito al fatto che sono parte della membrana batterica e non un prodotto di secrezione) in grado di causare la sindrome settica. Si ritiene, inoltre, che costituenti della parete cellulare dei batteri gram-positivi, quali acidi teicoici e frammenti di peptidoglicano, possano evocare una risposta infiammatoria simile nell’ospite. Il patogeno anaerobio Bacteroides fragilis possiede un polisaccaride capsulare che promuove la formazione di ascessi da parte dell’ospite (tab. 6.6).

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Tabella 6.6 Caratteristiche differenziali delle esotossine e delle endotossine.

Proprietà

Esotossine

Endotossine

Proprietà chimiche

Proteine secrete dai batteri patogeni (sia gram-positivi che gram-negativi)

Complessi lipopolisaccaridici/lipoproteici della membrana esterna dei batteri gram-negativi e componenti della parete dei gram-positivi, rilasciati in seguito a lisi della cellula

Modalità d’azione

Specifica; generalmente si legano a specifiche strutture o recettori cellulari

Generale

Immunogenicità

Altamente immunogeniche; stimolano la produzione di anticorpi neutralizzanti (antitossine)

Relativamente meno immunogeniche; spesso non in grado di indurre una risposta immunitaria neutralizzante

Potenzialità del tossoide

Il trattamento delle tossine con formaldeide elimina la tossicità, conservando il potere immunogenico

Nessuna

Attività piretica

Non inducono febbre nell’ospite

Spesso inducono febbre nell’ospite

Endotossine I batteri gram-negativi, oltre a possedere una membrana citoplasmatica e uno strato di peptidoglicano, sono caratterizzati dalla presenza di una membrana esterna legata in modo covalente ai tetrapeptidi del peptidoglicano mediante una lipoproteina. Lo strato più esterno di questa è costituito dal lipopolisaccaride (LPS), tossico in molte circostanze, indicato anche con il termine di endotossina, poiché è parte integrante della cellula. Studi su animali di laboratorio hanno dimostrato che, per avere un effetto tossico, in vivo, sono richieste sia la componente lipidica sia parte di quella polisaccaridica dell’LPS, che rende il complesso idrosolubile e immunogenico. Per quanto complessa, la struttura chimica di alcuni LPS è ben conosciuta, in particolare quella delle Enterobacteriaceae (E. coli, Shigella e Salmonella): la porzione polisaccaridica dell’LPS consiste di due frazioni, il polisaccaride interno o core polisaccari-

man rha

abe

Antigene O

gal

Core polisaccaridico P

gln

gln

O HN

O HN

P

Disaccaride difosfato

Lipide A Acidi grassi

Figura 6.10 Struttura del lipopolisaccaride. La porzione polisaccaridica dell’LPS consiste di due frazioni, il polisaccaride interno, o core polisaccaridico, e il polisaccaride esterno, chiamato anche polisaccaride O (antigene O). In Salmonella, dove è stato ben caratterizzato, il core polisaccaridico è costituito da chetodeossiottonato (KDO), eptosio, glucosio, galattosio, e NAG (N-acetilglucosamina). Strettamente connesso al core è il polisaccaride O, che contiene galattosio, glucosio, ramnosio, mannosio, abequosio, colitosio, paratosio o tivelosio. La porzione lipidica dell’LPS, detta Lipide A, è costituita da acidi grassi (caproico, laurico, miristico, palmitico, stearico), legati tramite un legame estere-aminico a un disaccaride costituito da N-acetilglucosamina fosfato. La tossicità del Lipide A risiede principalmente nella sua capacità di attivare il complemento e di stimolare il rilascio di citochine; la frazione polisaccaridica rende, invece, il complesso idrosolubile e immunogenico.

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Figura 6.11 Interazione del lipopolisaccaride (LPS) con il complesso CD14/toll-like receptor 4 (TLR4). L’LPS legato dalla proteina sierica LBP (LPS binding protein) interagisce con il complesso CD14/ toll-like receptor 4 (TLR4). II dominio extracellulare ricco di leucine, LRR (leucine-rich repeats), della famiglia di proteine toll è implicato nel riconoscimento dei patogeni. II lipopolisaccaride stimola l’attivazione di diversi pathway MAPK (mitogen activated protein kinase) e del fattore nucleare κB (NF-κB). L’LPS induce inoltre numerosi mediatori della risposta infiammatoria, come citochine, molecole di adesione, recettori, enzimi infiammatori, AP-1 (activating protein-1), CRE (cAMP response element) e SRE (serum response element).

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TLR4

LPS LBP

LRR CD14 MD-2 Citoplasma

GPI

Toll signalling domain

MAPK Nucleo

Fattori trascrizionali

SRE

AP-1

CRE

NF-κB

dico (costituito da inner core e outer core) e il polisaccaride esterno, chiamato anche polisaccaride O (antigene O) (fig. 6.10). In Salmonella, dove è stato ben caratterizzato, il core polisaccaridico è costituito da chetodeossiottonato (KDO), zuccheri a sette atomi di carbonio, glucosio, galattosio e NAG (N-acetilglucosamina). Strettamente connesso al core è l’antigene O, che contiene galattosio, glucosio, ramnosio e mannosio (tutti zuccheri a sei atomi di carbonio), oltre a uno o più dideossizuccheri, quali abequosio, colitosio, paratosio o tivelosio. La porzione lipidica dell’LPS, detta lipide A, è costituita da acidi grassi (caproico, laurico, miristico, palmitico, stearico), legati tramite un legame estere-aminico a un disaccaride costituito da N-acetilglucosamina fosfato, con legame α (1-6). Il lipide A è parte integrale della membrana esterna, dove sostituisce i fosfolipidi, ed è attaccato al core polisaccaridico tramite il KDO. Il lipide A, verosimilmente, possiede la maggior parte delle più importanti proprietà biologiche associate al lipopolisaccaride e sembra essere direttamente coinvolto nella genesi della sintomatologia delle malattie da batteri gram-negativi (Salmonella, Shigella, Escherichia ecc.), come la febbre, la proteolisi muscolare, la coagulazione intravascolare disseminata e lo shock. La tossicità del lipide A risiede principalmente nella sua capacità di attivare il complemento e di stimolare il rilascio di citochine (IL-1, IL-6, IL-8 e ΤΝF-α) da parte di monociti, macrofagi e altre cellule con funzioni biologiche normalmente coinvolte nella difesa dell’ospite contro i microrganismi invasori. È stato dimostrato, in diversi studi sulle basi molecolari dello shock settico, che l’LPS rilasciato in seguito alla lisi dei batteri gram-negativi è in grado di legare una glicoproteina plasmatica, chiamata LPS binding protein (LBP) (fig. 6.11), essenziale per la rapida induzione della risposta infiammatoria. Il complesso LPS-LBP interagisce, a sua volta, con il recettore CD14 presente su monociti, macrofagi, cellule endoteliali e altre cellule ospiti. CD14 è una glicoproteina ancorata alla membrana cellulare attraverso il glicosilfosfatidilinositolo (GPI). I recettori CD14 espressi in membrana (mCD14) sono organizzati in microdomini chiamati lipid raft, e coinvolti in numerosi processi cellulari tra cui la transcitosi, la podocitosi e la trasduzione del segnale. CD14 esiste anche sotto forma di molecola solubile (sCD14), che sembra avere un ruolo importante

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nell’attivazione, mediata dall’LPS, di cellule CD14 negative come le cellule epiteliali e le cellule muscolari lisce. Il recettore CD14, molecola coinvolta nella risposta immunitaria innata, risulta implicata nell’attivazione dei monociti, nell’interazione dei leucociti con le cellule endoteliali, nella regolazione della morte cellulare programmata o apoptosi nei monociti e nelle cellule endoteliali, e nello sviluppo di alterazioni vascolari come l’aterosclerosi e la coagulazione intravascolare disseminata. Per l’attivazione dei pathway intracellulari di trasmissione del segnale è necessaria l’interazione di CD14 con un corecettore, tra cui il più importante è il TLR4 (Toll-like receptor 4), e con proteine accessorie, come MD-2 (anche nota come Ly96). I TLR sono membri della famiglia di recettori per IL-1 (IL-1R), un sistema di trasduzione del segnale attraverso l’attivazione delle MAPΚ (fig. 6.11), conservato nell’evoluzione, che svolge un ruolo critico nella risposta immunitaria innata e nella risposta infiammatoria contro i microrganismi patogeni. L’LPS mostra un’ampia variabilità tra i diversi ceppi batterici, e per garantire una risposta ad ampio spettro contro i gram-negativi, i recettori dell’LPS sono diretti essenzialmente verso il lipide A, la frazione conservata della molecola, che è anche il frammento minimo necessario per innescare la risposta cellulare. Tuttavia, come accennato in precedenza, la variabilità del core e dell’antigene O possono significativamente influenzare la risposta e il tipo di pathway di trasduzione del segnale. Nella continua lotta tra batteri e sistema immunitario, i patogeni hanno evoluto la capacità di modificare alcune caratteristiche conservate dei pattern molecolari associati ai patogeni (PAMP). Delle modificazioni a carico dell’LPS va segnalata la coniugazione del gruppo fosfato del lipide A, che riduce la sensibilità verso i peptidi antimicrobici cationici e altera il riconoscimento da parte dei recettori LBP/CD14/ MD-2. Un’altra modificazione è la variabilità in lunghezza, numero e disposizione delle catene aciliche, che cambia a seconda delle condizioni di crescita e della specie batterica. In particolare, tale fenomeno è stato ben studiato in Yersinia, che passa da una forma prevalentemente esa-acilata del lipide A, osservata a basse temperature negli insetti ospite, a una forma tetra-acilata del lipide A, alla temperatura degli animali a sangue caldo come ospiti alternativi. Questo permette ai batteri di eludere il riconoscimento da parte del sistema immunitario innato, in particolare il riconoscimento da parte del complesso TLR4/MD-2. Secondo i dati più recenti relativi al riconoscimento dell’LPS, evento che richiede tre differenti recettori extracellulari consecutivi, si ritiene che la LBP si leghi agli aggregati di LPS; successivamente l’LPS in forma monomerica viene trasferito al CD14, che è richiesto a sua volta per trasferire in modo efficiente il monomero di LPS a MD-2, che si trova sia in forma solubile che associata al TLR4. In realtà, CD14 non funge semplicemente da spola della forma monomerica dell’LPS ma è essenziale anche per la scelta del pathway di trasduzione del segnale. La formazione di un complesso trimerico LPS:MD-2:TLR4 è l’evento finale del riconoscimento extracellulare dell’LPS. Infine, riarrangiamenti del complesso MD-2/TLR4 permettono il reclutamento di proteine di adattamento per i domini intracellulari (TIR) del TLR4, innescando la cascata di segnali che porta all’attivazione di geni attraverso la traslocazione di fattori trascrizionali nel nucleo. In particolare questo segnale porta all’attivazione di NF-κB (fattore nucleare κB) e di altri pathway di citochine: NF-κB migra verso il nucleo cellulare e inizia la trascrizione dei geni codificanti per diversi a mediatori dell’infiammazione.

Superantigeni I superantigeni sono una classe di molecole immuno-stimolanti, di natura proteica, prodotte da virus e batteri. Particolarmente potenti sono i superantigeni prodotti da Staphylococcus aureus e Streptococcus pyogenes. Queste tossine posseggono la capacità unica di interagire contemporaneamente con le molecole MHC di classe II e con i

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recettori delle cellule T (TRC), formando un complesso trimolecolare che induce un’abnorme proliferazione di cellule T. Il risultante rilascio di grosse quantità di citochine (IL-1, IL-2, ΤΝF-α, ΤΝF-β, IFN-γ) causa reazioni infiammatorie sistemiche con estesi danni epiteliali, alterazioni vascolari, ipotensione e shock tossico. La famiglia dei superantigeni comprende proteine di grandezza compresa tra 22-29 kDa, altamente resistenti alle proteasi e alla denaturazione termica. Analisi della struttura tridimensionale dei superantigeni rivela una comune architettura molecolare, costituita da un dominio N-terminale e un dominio C-terminale separati da una lunga α-elica che si estende al centro della molecola. Il dominio N-terminale possiede un caratteristico ripiegamento OB che lega oligosaccaridi e oligonucleotidi (oligosaccaride/oligonucleotide-binding fold), mentre il dominio C-terminale possiede un motivo “β grasp” (ubiquitina-like). Una caratteristica presente in molti superantigeni è un “loop disolfuro” altamente flessibile; quest’ansa flessibile è implicata nelle proprietà della enterotossina stafilococcica (SE) e nella capacità dei superantigeni di legare il dominio Vβ del TRC. Un’altra caratteristica comune della famiglia dei superantigeni è la presenza di uno o più siti leganti lo zinco. È stato dimostrato che lo ione zinco è implicato nella formazione di omodimeri, nella creazione di un sito di legame ad alta affinità per le molecole di MHC di classe II e nella termostabilità dei superantigeni. Il bersaglio principale dei superantigeni è rappresentato dalle cellule T CD4+, la cui attivazione induce una risposta T helper di tipo 1 (Th1). I superantigeni interagiscono con il dominio variabile β (Vβ) del TCR, che si trova all’esterno del normale sito di legame dell’antigene, determinando la stimolazione di oltre il 10% delle cellule T, rispetto allo 0,01% di una risposta immunitaria tipica. I meccanismi di interazione dei superantigeni con il TCR non sono conservati e mutazioni dei residui amminoacidici chiave nel sito di legame possono causare l’acquisizione di un nuovo repertorio di riconoscimento del TCR. A differenza degli antigeni convenzionali, i superantigeni non vengono processati dalle cellule presentanti l’antigene (APC) e si legano direttamente alle APC sulla parte esterna delle molecole di MHC di classe II. Un sito generico di legame si trova sulla catena α della molecola di MHC di classe II, mentre un secondo sito, ad alta affinità (circa 100 volte superiore rispetto al generico), il sito zinco-dipendente, si trova sulla catena β. L’esatta dinamica dell’interazione con le molecole di MHC di classe II non è completamente chiara, ma la presenza di più siti di interazione con tali molecole offre a queste tossine ampia variabilità, fornendo a ogni superantigene una modalità differente e unica tra le possibili interazioni, attraverso cui stimolare la funzione immunitaria. I superantigeni sono coinvolti in diverse patologie, tra cui la sindrome da shock tossico, la scarlattina (febbre scarlatta) e le intossicazioni alimentari. Inoltre, crescenti evidenze suggeriscono che i superantigeni possano essere tra i possibili agenti eziologici di malattie autoimmunitarie, anche se il loro diretto coinvolgimento deve essere ancora dimostrato. La loro funzione primaria sembra essere quella di indebolire l’ospite in modo da garantire la proliferazione del microrganismo e lo sviluppo della malattia. I superantigeni stafilococcici comprendono le enterotossine stafilococciche A, B, C (e varianti antigeniche), D, E, G, Q, e la tossina della sindrome da shock tossico (TSST-1). I superantigeni prodotti dagli streptococchi comprendono, invece, le classiche esotossine pirogeniche A e C, e le tossine pirogeniche G-J, SMEZ e SSA. Inoltre, la ricchezza di nuove informazioni, derivate da studi genomici basati su allineamenti di sequenze, ha portato alla scoperta di numerose molecole superantigene-like. Un buon esempio di proteine superantigene-like è rappresentato dalle tossine enterotossine-like (SET) 1-5 prodotte dagli stafilococchi.

Tossina difterica La tossina difterica, fattore importante nella patogenesi della difterite, è una tossina A-B, prodotta da Corynebacterium diphtheriae. Viene secreta dalle cellule batteriche

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Tossina difterica Membrana cellulare

Figura 6.12 Meccanismo d’azione della tossina difterica. Endocitosi mediata da recettore; ADP-ribosilazione del fattore di elongazione EF-2 e arresto della sintesi proteica.

ADP-ribosilazione

Arresto della sintesi proteica

sotto forma di un polipeptide dal peso molecolare (PM) di 62 000 dalton. Il frammento B promuove il legame specifico a un recettore della cellula ospite; dopo il legame, un taglio proteolitico separa i due frammenti, così che il frammento A (PM 21 kDa) possa entrare nel citoplasma. La sua azione all’interno della cellula ospite si esplica attraverso l’inibizione della sintesi proteica, bloccando il trasferimento degli aminoacidi dal tRNA alla catena polipeptidica nascente. In particolare, il peptide A della tossina difterica inattiva specificamente il fattore 2 di elongazione (EF-2), una proteina coinvolta nell’allungamento della catena polipeptidica, catalizzando la sua ADP-ribosilazione (trasferimento di una molecola di ADP-ribosio da un donatore, NAD+, a un accettore finale), modificazione che riduce drammaticamente la sua attività, arrestando la sintesi proteica e provocando la morte della cellula (fig. 6.12). La tossina difterica viene sintetizzata solo da ceppi di C. diphtheriae lisogenici per un particolare batteriofago, il fago β, che porta il gene tox codificante la tossina. I ceppi di C. diphtheriae non tossigenici possono essere convertiti in ceppi patogeni in seguito a infezione con il fago β (processo di conversione fagica). Un altro fattore che influenza la produzione della tossina è la concentrazione del ferro: in presenza di una quantità di ferro sufficiente per una crescita ottimale, non si ha produzione di tossina, mentre quando la concentrazione di ferro si riduce a livelli limitanti per la crescita si osserva la produzione di tossina. Il ruolo del ferro è quello di legarsi a una proteina regolatrice del batterio, cioè agisce come elemento di controllo negativo; il complesso ferro-proteina è in grado di legarsi a sua volta a una regione di controllo del DNA del fago β e di inibire l’espressione del gene della tossina. In condizioni di ferro limitanti, la proteina regolatrice è inattiva e si può avere quindi sintesi della tossina difterica. L’esotossina A di Pseudomonas aeruginosa ha un meccanismo d’azione simile a quello della tossina difterica, in quanto anch’essa è capace di catalizzare la reazione di ADP-ribosilazione della proteina EF-2, arrestando la sintesi proteica.

Tossina tetanica e tossina botulinica Clostridium tetani e Clostridium botulinum sono batteri anaerobi obbligati, normali microrganismi del suolo che, occasionalmente, provocano gravi malattie negli animali producendo due potenti tossine (fig. 6.13). C. botulinum raramente è in grado di crescere nell’organismo animale, ma può crescere e produrre la tossina in alimenti non correttamente conservati, causando paralisi muscolare flaccida e morte per blocco respiratorio. C. tetani cresce, invece, a livello di ferite profonde che ricreano un ambiente anaerobio, e sebbene non vi sia invasione dal sito iniziale d’infezione, produce

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Figura 6.13 Meccanismo d’azione della tossina tetanica e della tossina botulinica.

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C. tetani

Stimolazione continua mediata dal neurotrasmettitore eccitatorio

Neurotrasmettitore eccitatorio Tetanospasmina

Neurotrasmettitore inibitorio

C. botulinum

Blocco del rilascio del neurotrasmettitore inibitorio

Vescicole contenenti ACH

Placca neuromuscolare motoria Fibra muscolare

La tossina blocca il rilascio di ACH dalle vescicole

Blocco dello stimolo

una tossina che può diffondere attraverso le cellule nervose e causare paralisi spastica, con conseguenze mortali. La tossina botulinica è rappresentata da una serie di 8 tossine A-B tra loro correlate, che rappresentano le sostanze più velenose che si conoscano. Delle otto tossine conosciute, almeno due sono sintetizzate a partire da geni localizzati su batteriofagi lisogenici specifici di C. botulinum. La tossina principale è una proteina di circa 150 kDa di PM, che forma rapidamente complessi con proteine botuliniche non tossiche per dare una proteina bioattiva a elevato peso molecolare (circa 106 Da). La tossicità è dovuta al legame della tossina alle membrane presinaptiche a livello delle terminazioni dei motoneuroni stimolatori, in corrispondenza delle giunzioni neuromuscolari, e si esplica attraverso l’inibizione del rilascio di acetilcolina dalle vescicole presinaptiche. Poiché la trasmissione dell’impulso nervoso al muscolo avviene proprio grazie all’interazione dell’acetilcolina con specifici recettori presenti sul muscolo, il muscolo avvelenato dalla tossina non può ricevere il segnale stimolatorio, con conseguente inibizione della contrazione, rilassamento irreversibile dei muscoli e paralisi flaccida. La tossina tetanica è una proteina di peso molecolare 150 kDa, contenente polipeptidi A-B associati. Appena a contatto con il sistema nervoso centrale, questa tossina è trasportata a ritroso, attraverso i motoneuroni, nel midollo spinale, dove si lega in maniera specifica ai lipidi gangliosidici a livello delle terminazioni degli interneuroni inibitori. La funzione dei neuroni inibitori è svolta normalmente attraverso

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il rilascio di un neurotrasmettitore inibitorio, generalmente la glicina, che si lega a recettori presenti sui motoneuroni, bloccando la liberazione di acetilcolina da parte dei motoneuroni, con inibizione della contrazione e rilassamento delle fibre muscolari. La presenza della tossina tetanica a livello delle terminazioni degli interneuroni inibitori blocca il rilascio di glicina e come conseguenza si osserva un rilascio continuo di acetilcolina da parte dei motoneuroni, che porta a una contrazione muscolare incontrollata. L’esito è una paralisi spastica, con il muscolo colpito costantemente contratto. Se sono coinvolti i muscoli della bocca, lo spasmo prolungato limita il suo movimento e provoca il caratteristico trisma o tetano. Se la tossina colpisce i muscoli respiratori, si ha la morte per asfissia.

Enterotossine Le enterotossine sono esotossine che agiscono sull’intestino tenue, provocano generalmente un’abbondante secrezione di fluidi nel lume intestinale, che porta a vomito e diarrea. Le enterotossine sono prodotte da numerosi batteri, compresi microrganismi che contaminano gli alimenti, come S. aureus, C. perfringens e Bacillus cereus, e patogeni intestinali, quali V. cholerae, E. coli e Salmonella enteritidis. La tossina prodotta da Vibrio cholerae, agente eziologico del colera, è l’enterotossina meglio caratterizzata (fig. 6.14). È una tossina A-B e consiste di una componente A, di PM 26 kDa, e cinque subunità B, ognuna di PM 11 600 Da. La subunità B contiene il sito di legame attraverso il quale la tossina colerica si combina specificamente con il ganglioside monosialico GM1 (un glicolipide complesso) presente sulla membrana citoplasmatica delle cellule epiteliali intestinali (enterociti). La tossicità è, però, una proprietà intrinseca della componente A, che una volta internalizzata è capace di attivare l’enzima cellulare adenilato-ciclasi, inducendo la conversione dell’ATP in AMP ciclico. L’AMPc è un mediatore specifico di numerosi sistemi di regolazione all’interno della cellula. Nei mammiferi, esso è coinvolto nel meccanismo d’azione di molti ormoni, così come nella trasmissione sinaptica a livello del sistema nervoso e nelle reazioni Figura 6.14 Meccanismo d’azione della tossina colerica.

V. cholerae Tossina colerica B B Recettore gangliosidico

Diarrea

B A1 A2

B Perdita di nutrienti cellulari Na+

B

Membrana cellulare

H2O

Cl–

A2 A1 ++

Incremento dell’attività adenilatociclasica

· AMPc

K+

HCO3–

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infiammatorie e immunitarie dei tessuti. Sebbene la subunità A della tossina colerica sia direttamente responsabile dell’attivazione dell’adenilato-ciclasi, quest’ultima deve essere prima attivata da una proteina G stimolatoria ADP-ribosilata dalla subunità A. L’aumento dei livelli di AMPc provoca una secrezione attiva di ioni cloro e bicarbonato, da parte delle cellule della mucosa, nel lume intestinale, con conseguente immissione di grandi quantità di acqua e massiva perdita di liquidi che può portare alla morte per disidratazione. Poiché l’enterotossina colerica è in grado di attivare l’adenilato-ciclasi in molti tipi cellulari, le manifestazioni patologiche sembrano essere correlate più allo specifico sito su cui si lega, cioè le cellule epiteliali dell’intestino tenue, che alla capacità di attivare l’adenilato-ciclasi. È stato dimostrato, infatti, che le subunità B purificate, prive della capacità di attivare l’adenilato-ciclasi, possono impedire l’azione dell’enterotossina colerica se somministrate preventivamente; infatti, esse si legano ai recettori specifici per il patogeno sulle cellule della mucosa e bloccano il legame della tossina completa, contenente la subunità A, responsabile della tossicità. L’enterotossina colerica è codificata da due geni, ctxA e ctxB, la cui espressione è controllata da un elemento regolatore positivo, una proteina codificata dal gene toxR. Si tratta di una proteina transmembrana, che controlla non solo la produzione della tossina colerica, ma anche la sintesi di importanti fattori di virulenza, come alcune proteine della membrana esterna e i pili richiesti per un’efficiente colonizzazione dell’intestino tenue da parte del vibrione. Numerose enterotossine prodotte da ceppi di E. coli e di Salmonella enteropatogeni hanno un meccanismo d’azione simile a quello della tossina colerica; anche la struttura proteica sembra essere simile, dato che anticorpi specifici per la tossina colerica sono in grado di inattivare anche queste enterotossine. L’esistenza di una stretta correlazione funzionale e strutturale è rafforzata dal fatto che i geni della tossina colerica mostrano un’omologia di sequenza maggiore del 65% con i geni codificanti le enterotossine termolabili prodotte dai ceppi di E. coli ETEC. Le enterotossine prodotte da alcuni batteri che contaminano gli alimenti possono avere un meccanismo d’azione piuttosto diverso. Ad esempio, la tossina prodotta da C. perfringens è una citotossina, mentre quella di S. aureus è un superantigene capace di stimolare un gran numero di linfociti, provocando reazioni infiammatorie sia intestinali sia sistemiche.

Quorum sensing Alcuni batteri possiedono sistemi di regolazione dipendenti dalla percezione della densità di cellule della stessa specie presenti nella popolazione; questo tipo di controllo è stato definito quorum sensing (QS). Il QS fa parte dei sistemi di controllo globale: complessi sistemi di regolazione coinvolti nei meccanismi di patogenicità e virulenza che permettono a un organismo di rispondere efficientemente ai segnali dell’ambiente, come quello rappresentato, nel caso specifico, dalla presenza di altri microrganismi della stessa specie. I batteri rilevano la presenza di altri batteri nel loro intorno producendo e rispondendo con molecole segnale conosciute come autoinduttori. Queste molecole si accumulano al di fuori delle cellule microbiche e, superata una certa soglia (detta quorum), possono innescare una serie di eventi che si succedono con effetto “a cascata”. I meccanismi chimici sui quali si fonda il QS dei batteri gram-negativi sono differenti da quelli dei batteri gram-positivi. I batteri gram-negativi utilizzano come autoinduttori le molecole di acil-omoserina-lattone (AHL), derivati degli acidi grassi. Queste molecole sono rilasciate dalle cellule e si accumulano nelle colture, in funzione della densità cellulare. Raggiunto il quorum, le molecole di AHL accumulate penetrano all’interno della cellula batterica dove possono interagire con proteine citoplasmatiche capaci di legare il DNA, inducendo una variazione dell’espressione genica. Nel tipico

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circuito LuxIR (sistemi autoinduttori di tipo 1) dei batteri gram-negativi, le proteine tipo LuxI catalizzano la sintesi degli autoinduttori, mentre le proteine tipo LuxR sono fattori trascrizionali che, complessati alle molecole di AHL, regolano l’espressione di geni target. I batteri gram-positivi utilizzano come molecole di trasmissione del segnale piccoli peptidi ciclici con un anello tiolattone chiamati autoinduttori peptidici (AIP). Si tratta di oligopeptidi di circa 8-9 aminoacidi, prodotti nel citoplasma come precursori peptidici, dove subiscono delle modificazioni post-traduzionali prima di essere secreti. Il circuito canonico di QS identificato sia in batteri gram-positivi che gram-negativi è costituito dal sistema regolatore a 3 componenti (3CRS) e vede il coinvolgimento di molecole autoinduttrici (1° componente), che interagiscono con uno specifico recettore di membrana, una proteina chinasi sensore (che rappresenta il 2° componente), e di una proteina citoplasmatica che funge da regolatore della risposta (3° componente), che una volta fosforilata è capace di legare il DNA e regolare la trascrizione di geni target. Alcuni batteri gram-negativi presentano un sistema QS differente (sistema autoinduttore di tipo 3), l’ultimo tra quelli scoperti e probabilmente il più complicato. Tale sistema presenta molte caratteristiche comuni con i sistemi 3CRS, ma può utilizzare gli ormoni dello stress umano come adrenalina o noradrenalina come molecole segnale. La molecola ligando microbica che attiva il recettore del sistema non è stata chiaramente definita, ma è probabilmente simile alle catecolamine. Questi sistemi QS svolgono un ruolo cruciale nella patogenesi delle infezioni da Sighella ed E. coli enteroemorragici (EHEC) e in altri microrganismi enterici gram-negativi. Sfruttando il QS, i batteri sono capaci di mettere in atto attività coordinate. Questa caratteristica fornisce parecchi vantaggi alla popolazione microbica quali la capacità di migrare verso un altro ambiente dove si trovino migliori condizioni di habitat e di nutrienti, l’adozione di nuovi modelli di sviluppo che potrebbero costituire una difesa contro le aggressioni esterne. Grazie al QS i batteri possono regolare diversi fenomeni: la formazione di biofilm, l’emissione di bioluminescenza, l’induzione di fattori di virulenza, la crescita competitiva tra differenti popolazioni, la sporulazione, la coniugazione, i processi di infezione degli organismi superiori, la sintesi di molecole antimicrobiche, la differenziazione di linee cellulari. Inoltre, sempre grazie al QS all’interno della popolazione, i batteri possono modulare la manifestazione di determinate caratteristiche fenotipiche rispetto ad altre, secondo le necessità. Il QS è stato identificato, per la prima volta, nel 1970 come una forma di regolazione della bioluminescenza in alcuni batteri, ed è stato particolarmente studiato in Vibrio fischeri. L’operone lux, che codifica le proteine coinvolte nella bioluminescenza, è sotto il controllo della proteina attivatrice LuxR ed è indotto quando la concentrazione di AHL diventa sufficientemente elevata. La proteina AHL in questo caso è sintetizzata dal gene luxI. In Pseudomonas aeruginosa è ormai chiaro che il QS è una risposta globale che porta all’espressione di un ampio numero di geni quando la densità della popolazione diventa sufficientemente elevata. Questo fenomeno contribuisce alla formazione da parte di P. aeruginosa di biofilm che costituiscono un aspetto molto importante nel processo di patogenicità. La patogenicità di S. aureus comporta la produzione e la secrezione di numerose proteine della superficie cellulare ed extracellulare in grado di danneggiare le cellule o i tessuti dell’ospite o che interferiscono con il sistema immunitario. I geni che codificano questi fattori di virulenza sono sotto il controllo di un sistema di QS che risponde a un peptide prodotto dall’organismo. La regolazione di questi geni è alquanto complessa e coinvolge in parte una molecola di RNA regolatore. Il QS in S. aureus coinvolge anche proteine regolatrici che fanno parte di sistemi a due componenti di trasduzione del segnale e costituiti da due diverse proteine: una specifica proteina chinasi sensore, localizzata nella membrana cellulare, e una proteina regolatrice della risposta, generalmente una proteina di legame al DNA che regola la trascrizione di

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geni di virulenza molti dei quali deputati alla sintesi di tossine (tossina della sindrome da shock TSST1, δ-tossina, tossine esfolianti e alcune enterotossine).

Isole di patogenicità Il sequenziamento dell’intero genoma di differenti specie batteriche e di differenti stipiti della stessa specie ha messo in evidenza l’esistenza nei batteri patogeni di isole di patogenicità. Il termine pathogenicity island o PI è stato coniato, la prima volta, per descrivere, in E. coli, larghi e instabili segmenti cromosomici associati alla virulenza. Più tardi la definizione è stata impiegata per indicare regioni del cromosoma in grado di codificare per uno o più determinanti di virulenza. Le PI hanno grandezza che varia da 1,6 kb per un singolo gene in S. typhimurium, a 35-190 kb per più geni in E. coli UPEC ed EPEC, nonché in S. typhimurium, Yersinia pestis e Y. enterocolitica, H. pylori, V. cholerae e L. monocytogenes. La presenza di sequenze di inserzione (IS) e di geni tipici di plasmidi e batteriofagi nelle PI indica che queste sono a tutti gli effetti da considerare come elementi genetici mobili (o parte di essi) che vanno a costituire zone (“isole”) di DNA eterologo nel genoma batterico. Elementi caratterizzanti le PI sono pertanto: l’assenza nei corrispondenti ceppi avirulenti; il contenuto in GC, che è diverso dal resto del cromosoma; la presenza alle estremità di sequenze ripetute e IS; possono contenere elementi genetici mobili (trasposoni); sono instabili e presentano meccanismi di variazione genetica. In ceppi di E. coli UPEC sono state individuate diverse PI, tra cui una di supporto per geni che codificano per l’α-emolisina e le fimbrie P, e una contenente geni che codificano per altre fimbrie, per l’emolisina II e per il fattore citotossico necrotizzante. Da rilevare inoltre che dalle feci di soggetti affetti da diarrea sono stati isolati ceppi di E. coli EPEC con isole di patogenicità contenenti raggruppamenti di geni di virulenza, nonché responsabili dell’effetto “attaching-effacing”, cioè dell’intimo attaccamento del batterio alle cellule ospiti, della perdita dei villi e del profondo riarrangiamento del citoscheletro cellulare. Geni di virulenza situati sulle isole di patogenicità svolgono un ruolo cruciale nella patogenesi delle infezioni da Salmonella. Le numerose isole di patogenicità identificate nel cromosoma di Salmonella sono indicate come SPI (isole di patogenicità di Salmonella). Il gran numero di SPI identificato in Salmonella è probabilmente indice di adattamento a un complesso stile di vita patogeno. In S. typhimurium, SPI-1 consentirebbe al batterio di penetrare nelle cellule epiteliali dell’ospite, mentre SPI-2 sarebbe richiesta per sopravvivere nei macrofagi. È stato dimostrato che mutazioni in SPI-2, oltre a comportare una notevole riduzione della virulenza, determinano un significativo aumento della sensibilità batterica agli antibiotici. Nel genoma di diversi batteri gram-negativi è stata identificata una tipica PI definita HPI (high pathogenicity island), un’isola funzionale ampiamente diffusa tra i membri della famiglia delle Enterobacteriaceae. Particolarmente caratterizzata è la ΗΡI di Yersinia, che contiene il set completo di geni per la biosintesi e il trasporto del sideroforo Ybt, un sistema ad alta affinità per l’assorbimento del ferro.

Sistemi di trasporto delle cellule batteriche Un aspetto tra i più recenti nello studio della virulenza batterica è rappresentato dai sistemi di trasporto, mezzo utilizzato dai batteri patogeni per bersagliare, direttamente, le cellule ospiti con fattori di virulenza. Questi macchinari molecolari vengono infatti utilizzati dai microrganismi per secernere una varietà di molecole effettrici che influenzano le cellule ospiti, alterandone la fisiologia. La maggior parte dei geni che codificano per le varie componenti dei sistemi di trasporto sono localizzati all’interno di PI o su elementi genetici extracromosomici (plasmidi). Sono state identificate diverse tipologie di sistemi di trasporto e secrezione che possono essere distinti in sistemi dipendenti da Sec (GSP, General Secretory Pathway), a

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Figura 6.15 Rappresentazione schematica dei sistemi di secrezione di tipo I, tipo II e tipo III.

Membrana esterna

Periplasma

Membrana interna ATP

ATP

Sistema di secrezione generale

ADP

ATP Citoplasma

ADP ADP

Tipo I

Tipo II

Tipo III

due passaggi (tipo II), coinvolti nella secrezione di molte tossine, tra cui quella colerica, e nella biogenesi dei pili di tipo IV, e in sistemi indipendenti da Sec, a un passaggio (tipo I, trasportatori ABC; tipo III, omologhi ai flagelli) (fig. 6.15). I procarioti hanno evoluto dei sistemi per la traslocazione all’esterno della cellula di grosse molecole che funzionano grazie all’attività di proteine dette traslocasi, tra le quali particolarmente importante è il sistema Sec (secretorio). SecYEG è una traslocasi associata alla membrana (canale) in grado sia di esportare proteine all’esterno che di inserirle nella membrana nel giusto orientamento affinché svolgano correttamente la loro funzione. L’importanza di questo sistema si può comprendere facilmente in quanto permette alla cellula di esportare enzimi come amilasi, cellulasi che idrolizzano amido e cellulosa a glucosio, tossine e altre proteine dannose per l’ospite. I sistemi di trasporto che coinvolgono una proteina di legame periplasmatica, una proteina integrale di membrana che media l’evento di trasporto, e un terzo componente che fornisce energia mediante idrolisi di ATP, vengono chiamati sistemi di trasporto ABC (ATP-binding cassette). I trasportatori ABC sono fondamentali per qualsiasi sistema vivente e sono coinvolti nel trasporto di una grande varietà di substrati. Nei batteri, essi rappresentano importanti fattori di virulenza perché giocano un ruolo fondamentale nell’assorbimento di sostanze nutritive e nella secrezione di tossine e di agenti antimicrobici, contribuendo alla resistenza farmacologica e antibiotica dei principali agenti patogeni. Diversi trasportatori ABC giocano un ruolo di primaria importanza in processi come la regolazione del volume cellulare e il controllo dell’attività dei canali, e quindi per eseguire funzioni regolatorie accessorie. Nell’uomo, invece, i trasportatori ABC hanno grande rilevanza clinica, visto che un numero sempre crescente di patologie (FC, MDR) è legato a difetti dei trasportatori ABC. Nei procarioti sono stati identificati oltre 200 tipi di trasportatori ABC, costituiti da una famiglia di proteine strettamente correlate. Le proteine di legame periplasmatiche hanno un’affinità di legame per i substrati elevatissima, anche quando sono presenti a basse concentrazioni. Il substrato insieme alla proteina di legame forma un complesso che interagisce con la proteina integrale di membrana per essere trasportato attivamente grazie all’idrolisi dell’ATP. Nei batteri gram-positivi possiamo trovare i sistemi di trasporto ABC in cui le proteine di legame sono ancorate alla membrana citoplasmatica invece di essere mobili come quelle periplasmatiche dei batteri gram-negativi.

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I sistemi di secrezione di tipo III sono stati caratterizzati in maggior dettaglio in diversi patogeni gram-negativi, tra cui Yersinia spp., Salmonella spp., Shigella spp. e ceppi EPEC. I sistemi di secrezione di tipo III sono composti da un complesso di oltre 20 proteine differenti. Tali proteine si assemblano in un canale altamente regolato che attraversa la membrana interna, il periplasma e la membrana esterna, con un meccanismo a “guisa di siringa” munita di relativo ago da iniezione che penetra nella membrana della cellula bersaglio. Tutti e tre i sistemi di secrezione (tipo I, II e III) utilizzano l’energia che deriva dall’idrolisi di ATP. Le proteine dei sistemi di tipο I e di tipο III attraversano senza interruzione sia la membrana citoplasmatica sia la membrana esterna, e le molecole secrete by-passano completamente il periplasma, a differenza di quelle secrete dai sistemi di secrezione di tipo II, che invece si fermano nello spazio periplasmatico prima di essere rilasciate nell’ambiente esterno; per tale motivo tali sistemi sono definiti anche “a due passaggi”. Un’altra caratteristica comune dei sistemi di tipο I e di tipo III è rappresentata dalla secrezione di proteine che non vengono modificate durante il trasporto. Al contrario, le proteine secrete dai sistemi di secrezione di tipo II possono presentare una porzione N-terminale (peptide segnale) che viene rimossa nel periplasma. I sistemi di tipο I sono costituiti da un minor numero di componenti proteiche, rispetto a quelli di tipo III. Inoltre, i sistemi di tipo II e di tipo III presentano un componente simile a livello della membrana esterna, come indicato dall’omologia di sequenza e dalla struttura terziaria. I sistemi di tipo I e II secernono proteine coinvolte in varie funzioni, compresa la patogenesi. Ad esempio, E. coli utilizza il sistema di tipο I per la secrezione dell’α-emolisina, mentre il sistema di tipο II è utilizzato da ceppi EPEC per la formazione dei pili e da ceppi ETEC per l’esportazione. Le componenti dei sistemi di tipο III sono altamente conservate in molti batteri gram-negativi, causa di malattie nelle piante e negli animali. I geni che codificano per diverse componenti dei sistemi di tipo III presentano omologia con quelli che codificano per il macchinario di esportazione flagellare sia nei batteri gram-negativi che gram-positivi. Il processo di secrezione dei sistemi di tipo III è innescato quando il patogeno giunge a stretto contatto con la cellula ospite e, per questo, viene definito processo di secrezione “contatto-dipendente”. Diversi fattori ambientali, come la temperatura, la fase di crescita, la concentrazione salina, influenzano la sintesi dell’apparato di secrezione e delle molecole effettrici di vari agenti patogeni. Quando il patogeno giunge a contatto con la cellula ospite, le molecole di secrezione possono essere riversate sulla superficie del batterio, oppure direttamente all’interno della cellula bersaglio. Le molecole secrete provocano dei cambiamenti nelle funzioni delle cellule ospiti che facilitano la capacità del patogeno di sopravvivere e replicarsi. La semplicità genetica di molti agenti infettivi consente loro di andare incontro a rapida evoluzione e di sviluppare vantaggi selettivi, con il risultato di costanti variazioni nelle manifestazioni cliniche dell’infezione. Inoltre, cambiamenti dell’ambiente e dell’ospite possono predisporre nuove popolazioni all’infezione. Si è creduto erroneamente che le malattie infettive non rappresentassero più un serio problema come una volta. Il progresso che la scienza, la medicina e la società globalmente hanno compiuto nel combattere queste malattie è impressionante, ed è ironico il fatto che mentre stiamo per comprendere la biologia microbica a livello molecolare, le malattie infettive pongano nuovi problemi. Siamo minacciati da nuove malattie e dalla recrudescenza di vecchie piaghe come la tubercolosi, il colera e la febbre reumatica. Gli studiosi di malattie infettive sono stati forse i meno sorpresi di questi sviluppi, in quanto consapevoli dell’incredibile capacità di adattamento e dell’enorme diversità degli agenti patogeni. Per quanto ingegnosi ed efficaci possano essere gli approcci terapeutici, la nostra capacità di sviluppare metodi per contrastare gli agenti infettivi non si è ancora

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Capitolo 6 • Patogenicità e virulenza

confrontata con la miriade di strategie impiegate dall’enorme oceano di microbi che ci circonda. Il loro numero e la velocità alla quale essi si possono evolvere sono impressionanti. Anche se saranno sviluppate nuove strategie vaccinali, nuovi antibiotici e nuove modalità per trattare e prevenire le infezioni, i microrganismi patogeni continueranno a sviluppare, a loro volta, nuove strategie, impegnandoci, ancora una volta, in una sfida continua e dinamica.

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Capitolo

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• Significato e importanza delle difese antimicrobiche • Il microbiota normale come difesa antimicrobica • Le barriere superficiali come difese antimicrobiche • Il sistema immunitario come difesa antimicrobica • Effettori dell’immunità innata • Effettori dell’immunità adattativa

Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche 7.1 - Significato delle difese antimicrobiche L’esistenza di meccanismi di difesa nei confronti delle infezioni fu sospettata sin dall’antichità, quando si osservò che, durante le epidemie, alcuni individui non si ammalavano nonostante contatti stretti e ripetuti con persone infette. A partire dalla fine del XIX secolo fu evidente che questo stato di resistenza o immunità era spesso dovuto a una reazione dell’ospite nei confronti dei microrganismi patogeni. L’immunologia è la scienza che studia i meccanismi fisiologici di difesa nei confronti di agenti dannosi, con particolare riguardo ai microrganismi. I meccanismi di difesa sono numerosi ed eterogenei, ma operano nel loro complesso come un’unità funzionale unica, il sistema immunitario. Non sempre, tuttavia, l’immunità da una malattia infettiva si basa sulla presenza di meccanismi di difesa nei confronti del microrganismo causale. A volte lo stato di resistenza è dovuto alla semplice assenza, all’interno dell’ospite, di condizioni favorevoli alla riproduzione del patogeno. Fenomeni di questo tipo sono spesso alla base dell’immunità di specie, una condizione per la quale una specie-ospite (ad es. l’uomo) è resistente a microrganismi che infettano specie diverse (ad es. gli animali domestici). Le difese antibatteriche, e in generale quelle antimicrobiche, sono fondamentali per la sopravvivenza dell’uomo e di tutti gli altri esseri viventi. Il numero totale di batteri (circa 1014) che normalmente colonizza le superfici supera di un ordine di grandezza il numero di cellule (circa 1013) che costituiscono il nostro corpo. Questi microrganismi commensali (definiti anche microbiota normale o microbiota autoctono) sono essi stessi, come si dirà in seguito, un importante fattore di difesa dell’ospite. Tra i commensali, però, esistono anche specie potenzialmente in grado di causare malattie più o meno gravi (ad es. Streptococcus pneumoniae e Neisseria meningitidis, agenti di sepsi e meningite, o Streptococcus mutans, agente della carie dentaria). Oltre a ciò, l’uomo entra frequentemente in contatto con pericolosi patogeni provenienti dall’ambiente esterno, quali, ad esempio, Mycobacterium tuberculosis o Vibrio cholerae. Nel corso dell’evoluzione il sistema di difesa dell’uomo ha dovuto quindi affrontare un compito immane: eliminare rapidamente i microrganismi potenzialmente dannosi e tollerare al tempo stesso quelli innocui. Ciò è ulteriormente complicato dal fatto che un identico tipo di batterio può essere innocuo o dannoso in base alla densità o alla sede di colonizzazione. Il sistema “decide” rapidamente se intervenire o no, e con quale forza, in base a due ordini di informazioni:

• sono presenti prodotti microbici e, eventualmente, in quale sede? • è presente un danno o un’alterazione dei tessuti del corpo? Le informazioni vengono raccolte e trasmesse da una serie di sensori molecolari (recettori di ricognizione) disposti in maniera strategica all’interno del corpo. Il sistema immune interviene con la massima intensità quando sono presenti contemporaneamente segnali delle due classi, e cioè segnali che indicano la presenza di microrgani-

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Capitolo 7 • Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche

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Tabella 7.1 Difese antibatteriche.

Tipo

Meccanismo d’azione

Sede

Microbiota normale

Antagonismo microbico

Superfici esterne

Difese dell’ospite

Rimozione dei batteri

Superfici esterne

Rallentamento della crescita, uccisione

Superfici esterne e tessuti interni

smi e segnali che indicano un danno alle cellule dell’ospite. Un sistema di controllo di questo tipo – che si può definire binario perché si basa sull’integrazione di due classi diverse di stimoli – mette in grado l’ospite di discriminare facilmente la presenza di patogeni (che per definizione inducono un danno) da quella di microrganismi innocui a livello delle superfici. Un secondo fattore che regola l’intensità della risposta dipende dalla sede nella quale viene segnalata la presenza microbica. I recettori di ricognizione che rilevano la presenza di microrganismi sono particolarmente abbondanti all’interno dell’organismo e meno densi sulle superfici. Ogni tentativo di penetrazione all’interno del corpo (e cioè di invasione della cute o delle mucose) provoca una violenta reazione che termina con l’eliminazione completa dei microrganismi. Di conseguenza, l’interno del corpo è normalmente sterile, cioè privo di microbi. Al contrario, questi vengono relativamente tollerati quando si trovano all’esterno dei tegumenti, e cioè sulla cute o sulle mucose. Questa tolleranza è però solo parziale, dal momento che il sistema di difesa è continuamente all’opera per limitare con vari mezzi il numero di batteri che colonizzano le superfici esterne. L’importanza di disporre di un sistema di difesa a livello della cute e delle mucose, oltre che all’interno del corpo, dipende dal fatto che alcuni patogeni sono in grado di causare malattia semplicemente colonizzando le superfici, anche senza invadere i tessuti (ad es. Vibrio cholerae). Ciò avviene mediante la produzione da parte dei batteri di prodotti tossici (tossine) che possono agire non solo nelle immediate vicinanze, danneggiando le cellule epiteliali, ma anche a distanza. Inoltre, la penetrazione dei tessuti da parte di patogeni invasivi può essere prevenuta impedendo o limitando la colonizzazione delle superfici da parte di questi microrganismi. Da quanto detto risulta chiaro che le difese antibatteriche del corpo sono assicurate:

• dal microbiota normale; • dal sistema immunitario dell’ospite (tab. 7.1). Il microbiota normale agisce solo a livello dei tegumenti (in particolare, a livello della cute e della maggior parte delle mucose), mentre il sistema immune agisce sia a livello delle superfici sia all’interno del corpo. Esamineremo preliminarmente le difese a livello delle superfici e, successivamente, considereremo in maggior dettaglio il sistema immunitario dell’ospite.

7.2 - Difese a livello delle superfici Microbiota normale Il prodotto del concepimento è normalmente sterile in utero. Dopo la nascita, le superfici del neonato vengono gradualmente colonizzate da microrganismi commensali fino alla formazione di un complesso ecosistema (microbiota indigeno o autoctono o normale) costituito da centinaia di specie batteriche (e anche fungine) diverse. Questo processo può richiedere diversi mesi o anni per giungere a piena maturazione.

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Ad esempio, le spirochete orali compaiono solo dopo la pubertà. I membri del microbiota autoctono competono tra loro e con i microrganismi provenienti dall’esterno (o esogeni) per le risorse nutritive dell’habitat. Queste risorse, in condizioni normali, non sono disponibili ai microrganismi esogeni, in quanto tutte le fonti di materia e di energia sono utilizzate pienamente dal microbiota autoctono in un ecosistema maturo. I fenomeni di competizione per il substrato sono, pertanto, un primo meccanismo di antagonismo microbico. Un secondo meccanismo è dato dalla produzione, da parte di batteri, di sostanze in grado di uccidere altri batteri, o di rallentarne la crescita. Un esempio di ciò sono le batteriocine, che agiscono su specie spesso simili a quelle del batterio produttore. Le colicine (batteriocine prodotte da Escherichia coli) possono giocare un ruolo nel prevenire le infezioni da parte di patogeni dei generi Salmonella e Shigella. Le batteriocine hanno in comune tra loro la natura proteica, ma sono, altrimenti, eterogenee dal punto di vista strutturale, funzionale ed ecologico. Da quanto detto, risulta evidente che un formidabile meccanismo di difesa dell’ospite è rappresentato dall’antagonismo microbico operato dal microbiota normale nei confronti non solo dei patogeni esogeni, ma anche nei confronti di membri potenzialmente patogeni del microbiota autoctono (box 7.1).

Barriere anatomiche e chimiche L’integrità strutturale dei tegumenti (cute e mucose) pone una barriera invalicabile per la stragrande maggioranza dei microrganismi. Non esistono specie batteriche capaci di penetrare la cute intatta. Questa possiede, infatti, un epitelio pluristratificato ricco di cheratina che, assieme al sebo, protegge gli strati sottostanti da vari agenti chimici, fisici e biologici e dall’evaporazione. In seguito a un danno (ad es. un’abrasione, un’ustione o una ferita), il derma e il tessuto sottocutaneo possono essere rapidamente colonizzati dai microrganismi che si trovano normalmente sull’epidermide (ad es. stafilococchi) o da microrganismi esogeni, provocando infezioni. La cute è un ambiente relativamente acido (pH 5), secco e iperosmolare, il che lo rende poco abitabile. Le aperture che si trovano normalmente a livello della superficie (pori, follicoli piliferi e sbocco delle ghiandole sebacee) offrono un ambiente relativamente più favorevole. A livello delle ascelle, dell’inguine e dei piedi, la presenza di una relativa umidità favorisce l’impianto di una florida comunità di commensali. Questa è una condizione favorevole anche al potenziale attacco da parte di patogeni (soprattutto miceti). Il piede d’atleta è una dermatite da miceti che si sviluppa nelle condizioni di elevata umidità e temperatura che si creano in un ambiente occlusivo, quale quello creato dalle calzature, soprattutto durante uno sforzo fisico. Oltre che dalla secchezza e dal pH acido, la cute è protetta da diversi acidi grassi contenuti nel sebo, che esercitano una potente attività batteriostatica o battericida, e dal lisozima prodotto dalle ghiandole sudoripare. I tratti respiratorio, alimentare e urogenitale sono rivestiti da mucose. Queste vengono così definite perché sono ricoperte da muco, un fluido denso e ricco di polisaccaridi e glicoproteine. Il muco agisce come una barriera fisica mobile, capace di intrappolare i batteri e sospingerli all’esterno. Nel caso dello stomaco, il muco è un ambiente proibitivo (pH 2) per quasi tutti i microrganismi, con la notevole eccezione costituita da Helicobacter pylori, agente di gastrite e ulcera peptica che riesce a neutralizzare l’acidità locale attraverso la produzione di ammoniaca (un composto fortemente basico) a partire dall’urea, ad opera di una ureasi. Gli epiteli delle mucose sono spesso costituiti da un singolo strato di cellule, e sono quindi più facilmente penetrabili, rispetto alla cute, da parte di alcuni batteri. Prima di attraversare le mucose, i patogeni devono aderire tenacemente ad esse e replicarsi; solo successivamente riescono a penetrare attivamente all’interno delle singole cellule epiteliali o a passare attraverso le giunzioni tra queste. La colonizzazione delle superfici cutanee e, soprattutto, mucose viene fortemente

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BOX 7.1 • Il microbiota normale protegge l’uomo dalle infezioni La microflora intestinale presente durante il primo anno di vita è ridotta rispetto a quella degli adulti. Questo relativo sottosviluppo (sia come numero complessivo di batteri sia come diversità di specie) della flora intestinale non consente adeguati fenomeni di competizione con specie patogene. Ciò spiega l’aumentata frequenza di infezioni da Pseudomonas aeruginosa o da ceppi enteropatogeni di Escherichia coli durante il primo anno di vita. Un esempio analogo è costituito dal botulismo infantile. Nell’adulto il botulismo è causato esclusivamente dall’ingestione di tossina preformata negli alimenti, e non dall’infezione con l’agente causale (Clostridium botulinum), in quanto la normale flora enterica ne impedisce la colonizzazione. Ciò non si verifica, tuttavia, nei primi mesi di vita, durante i quali il botulismo può svilupparsi come conseguenza di una colonizzazione dell’intestino da parte del patogeno, con produzione locale di tossina. In qualsiasi età della vita, l’equilibrio ecologico del microbiota autoctono può essere turbato da fattori esterni. Ciò comporta situazioni di dismicrobismo, cioè un’alterazione delle normali proporzioni delle specie all’interno del microbiota. La dieta può alterare la composizione qualitativa e quantitativa della flora enterica diminuendone il potenziale competitivo nei confronti dei patogeni. La riduzione della flora enterica può spiegare l’aumentata suscettibilità degli individui malnutriti a Vibrio cholerae. L’assunzione frequente di carboidrati semplici (principalmente saccarosio sotto forma di dolciumi e bibite) determina, a livello della placca dentaria, un aumento dei batteri in grado di fermentare questi substrati con produzione di acido lattico. Per alcuni di questi microrganismi, come Streptococcus mutans, il saccarosio è, inoltre, un fattore di colonizzazione in quanto facilita la sintesi di esopolisaccaridi insolubili che promuovono l’aderenza batterica sulla superficie dentaria. L’abbassamento del pH dovuto all’accumulo di acido lattico determina la demineralizzazione dell’idrossiapatite dello smalto e l’insorgenza di carie dentaria.

Nel corso di terapie antibiotiche, soprattutto se ad ampio spettro e/o prolungate, sono frequenti infezioni causate dal micete Candida albicans, principalmente a livello della bocca (mughetto), della vagina (vaginiti) o della zona perianale. Questo fenomeno è legato all’eliminazione, da parte degli antibiotici, di membri della flora normale in grado di rallentare la crescita di C. albicans, tra cui streptococchi, Enterobacter aerogenes, E. coli e P. aeruginosa. Un meccanismo simile è legato all’insorgenza di enteriti (da forme lievi di diarrea a gravi coliti pseudomembranose) nel corso di terapie antibiotiche. Queste condizioni sono generalmente causate dal batterio Clostridium difficile, un membro relativamente resistente agli antibiotici della flora intestinale residente. La vagina è colonizzata da diverse specie del genere Lactobacillus. Queste producono acido lattico come unico prodotto terminale della fermentazione del glucosio che, a sua volta, deriva dal glicogeno presente nelle cellule esfoliate dall’epitelio vaginale. La produzione di acido lattico da parte dei lattobacilli mantiene il pH vaginale a livelli acidi (pH 4 ± 0,5) e difende la vagina dall’attacco di diversi patogeni esogeni ed endogeni che mal tollerano condizioni di acidità. Batteri commensali della vagina, quali alcuni anaerobi obbligati e la specie Gardnerella vaginalis, possono prendere il sopravvento quando diminuisce il numero di lattobacilli (e quindi l’acidità delle secrezioni), causando una condizione infiammatoria nota come vaginosi batterica. Anche le vaginiti causate dal protozoo Trichomonas vaginalis si verificano prevalentemente in presenza di un innalzamento del pH (pH > 4,5). La diminuzione del numero di lattobacilli, che è alla base di queste infezioni, è spesso dovuta a squilibri ormonali con diminuita produzione di estrogeni. Il nesso tra numero di lattobacilli e livelli di estrogeni è dato dal fatto che questi ormoni sono responsabili dell’accumulo nelle cellule epiteliali vaginali di glicogeno che, come si è detto, costituisce il principale substrato energetico per la riproduzione dei lattobacilli e la produzione di acido lattico.

ostacolata dall’attività dilavante delle secrezioni. A causa delle loro piccole dimensioni, i microrganismi hanno un alto rapporto tra area esterna e massa e sono quindi estremamente soggetti a fenomeni di superficie, quali gli spostamenti da parte di correnti di fluidi. L’azione meccanica del muco sospinto verso l’alto dalle ciglia è sufficiente a mantenere la sterilità del tratto respiratorio inferiore. Talvolta i microrganismi riescono a penetrare il muco, ad aderire alle cellule epiteliali e a riprodursi su di esse. Anche in questo caso, tuttavia, essi vengono rapidamente allontanati dal processo di esfoliazione, che consiste nel distacco delle cellule più periferiche degli epiteli. I meccanismi fisici d’allontanamento dei batteri rappresentano un sistema altamente reattivo, capace di adattarsi rapidamente a stimoli provenienti dal microbiota autoctono e dal sistema immune. La quantità di muco prodotto, i movimenti muscolari verso l’esterno e la velocità di esfoliazione aumentano rapidamente in risposta ai pro-

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cessi infiammatori. L’infiammazione delle mucose comporta pertanto un’aumentata efficienza nell’allontanamento dei microrganismi. Viceversa, l’assenza o la riduzione del microbiota normale (come in animali allevati in condizioni di completa sterilità) comportano una forte riduzione della velocità di esfoliazione e del turnover degli epiteli. Le secrezioni della cute e delle mucose contengono sostanze con forte attività batteriostatica o battericida. Le secrezioni mucose sono ricche di lisozima (una muramidasi in grado di scindere il peptidoglicano) che è attivo nei confronti di diversi batteri gram-positivi. La lattoperossidasi delle secrezioni catalizza la formazione di sostanze antibatteriche quale lo ione ipoclorito in presenza di ioni cloruro e acqua ossigenata. Infine, la lattoferrina sequestra gli ioni ferrici rendendoli non disponibili al metabolismo microbico. Si tratta di una strategia molto efficace in grado di rallentare fortemente la crescita batterica, in quanto gli ioni ferrici sono indispensabili per il funzionamento di enzimi-chiave del metabolismo energetico. Le secrezioni sono ricche di immunoglobuline della classe A (ΙgA). Queste molecole sono prodotte da cellule del sistema immune adattativo e hanno l’importante funzione di bloccare l’aderenza dei batteri alle cellule epiteliali legandosi alle molecole microbiche che mediano questo fenomeno (adesine). Inoltre le IgA sono in grado di neutralizzare le tossine prodotte da patogeni che colonizzano le mucose. Va sottolineato, infine, che gli epiteli sono continuamente sorvegliati da cellule del sistema immunitario (ad es. neutrofili, cellule dendritiche e linfociti).

7.3 - Sistema immunitario Lo studio del sistema immune ha grande interesse dal punto di vista pratico perché può consentire lo sviluppo di metodi efficaci e a basso costo (ad es. la vaccinazione) per controllare le malattie da infezione. Nell’ambito delle infezioni batteriche, ciò è diventato particolarmente importante da quando sono emersi i limiti degli antibiotici. È oggi evidente che molti batteri hanno sviluppato resistenza a questi farmaci. Inoltre, anche nel caso di infezioni da batteri sensibili agli antibiotici, spesso non è possibile una terapia efficace a causa del decorso rapido della malattia o di difficoltà nella diagnosi. Da un punto di vista teorico, lo studio delle difese antibatteriche ha un’importanza che travalica l’ambito delle malattie infettive, poiché esso ha fornito nuove prospettive per la comprensione di fenomeni patologici fondamentali (ad es. l’infiammazione) e della patogenesi di malattie gravi e diffuse (ad es. malattie autoimmuni, malattie infiammatorie croniche e tumori). La necessità di un sistema di difesa adeguato ha condizionano fortemente l’evoluzione delle piante, degli invertebrati e dei vertebrati. Il genoma umano, in particolare, è stato modellato da questa pressione selettiva. Ad esempio, forme comuni di polimorfismo genico, quali quelle dei gruppi sanguigni AB0 e degli antigeni del complesso maggiore di istocompatibilità, vengono mantenute nelle popolazioni umane per il valore che hanno in termini di difese antimicrobiche. D’altra parte, i patogeni sono co-evoluti con l’ospite sviluppando metodi per sfuggire al sistema immunitario. È interessante che i commensali abbiano evoluto meccanismi molto simili a quelli dei patogeni per evadere i meccanismi di difesa e per manipolare i processi fisiologici dell’ospite. Ciò indica che la capacità di resistere al sistema immune è un prerequisito fondamentale per qualsiasi tipo di colonizzazione microbica indipendentemente dagli effetti (danno o beneficio) arrecati all’ospite.

Riflessività del sistema immune Il sistema di difesa dell’ospite è in grado di far fronte rapidamente a condizioni mutevoli, quali quelle costituite dal contatto con microrganismi diversi. Per il funzionamento del sistema è fondamentale il passaggio da uno stato di quiescenza a uno stato

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Capitolo 7 • Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche

di attivazione. È poi altrettanto importante che il sistema ritorni nuovamente, il più presto possibile, in uno stato di quiescenza. L’attivazione avviene in due fasi concettualmente distinguibili:

• nella prima, che può definirsi afferente, stimoli specifici generano una serie di segnali di attivazione;

• nella seconda, quella efferente, vengono messi in atto i meccanismi microbicidi. Per la fase efferente è necessaria l’attivazione coordinata di più tipi cellulari diversi. Il livello d’attivazione del sistema di difesa può variare all’interno di una gamma molto ampia; inoltre, l’attivazione può essere localizzata a una parte del corpo o generalizzata. Il sistema è finemente regolato da svariati meccanismi che lo riportano a uno stato di quiescenza ai primi segni che l’infezione è sotto controllo. Questo programma di regolazione è fondamentale, perché un’attivazione continua del sistema immune comporterebbe un peso insopportabile per l’ospite. Una situazione di questo tipo si verifica in molte infezioni croniche (ad es. epatiti da virus dell’epatite C e gastriti da Helicobacter pylori) caratterizzate dalla persistenza di uno stato infiammatorio che a lungo andare può determinare scompensi metabolici irreversibili e l’insorgenza di cancro. Anche un’attivazione breve (pochi giorni) del sistema può provocare danni catastrofici se estesa a tutto il corpo, piuttosto che localizzata. Un esempio di questa situazione è la sepsi, una condizione legata alla presenza di microrganismi nel sangue, che decorre con ipotensione, coagulazione intravascolare disseminata, emoconcentrazione e, conseguentemente, con una ridotta perfusione dei tessuti.

7.4 - Due tipi di immunità È opportuno operare una suddivisione del sistema immunitario in immunità innata (sinonimi: naturale o aspecifica) e immunità adattativa (sinonimi: acquisita o specifica) (box 7.2). La tabella 7.2 riassume le principali differenze tra questi due tipi d’immunità. L’immunità innata viene così definita perché comporta uno stato di resistenza presente fin dalla nascita e quindi indipendente da precedenti contatti con l’agente patogeno. L’immunità adattativa comporta invece una reazione d’adattamento a uno specifico microrganismo. Tale adattamento è acquisito, in quanto indotto da un precedente contatto con l’agente patogeno. L’immunità adattativa è estremamente specifica perché lo stato di resistenza è limitato al patogeno con cui è avvenuto il precedente contatto, e non si estende ad altri patogeni. Ad esempio, chi ha già contratto la parotite è resistente per tutta la vita al virus della parotite, ma è pienamente suscettibile a tutte le altre malattie infettive (ad es. alla rosolia, alla scarlattina ecc.). Al contrario della risposta adattativa, la risposta innata si esplica in maniera simile nei confronti di diversi tipi di agenti. Fenomeni d’immunità innata che sono buoni esempi di questa relativa aspecificità sono le barriere cutanee e mucose, la fagocitosi, il complemento, l’infiammazione e la febbre. Un’altra importante differenza tra i due tipi d’immunità sta nell’intervallo che intercorre tra stimolo e risposta. L’immunità innata è pienamente efficace già dalle primissime fasi dell’infezione e rappresenta la prima linea di difesa contro i patogeni. Al contrario, le risposte adattative necessitano di diversi giorni prima di raggiungere una qualsiasi efficacia. Esse hanno la massima importanza in quelle situazioni in cui l’immunità innata, da sola, non riesce a eliminare completamente i microrganismi. In questi casi l’intervento, a distanza di giorni, del sistema adattativo è quasi sempre risolutivo ed eradica completamente l’infezione. I fenomeni d’immunità innata sono dovuti a tipi cellulari diversi da quelli dell’immunità adattativa (fig. 7.1 e tab. 7.2). Alcune cellule dell’immunità innata sono alta-

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BOX 7.2 • Interfaccia tra immunità innata e immunità adattiva L’immunità innata serve da fondamento per le risposte immuni adattative: queste sono deboli o assenti in mancanza di un’attivazione del sistema innato. Pertanto, il sistema innato è il vero responsabile di una decisione cruciale: se rispondere o no a un microrganismo o a un antigene e con quali modalità. Se il sistema innato decide di rispondere, ciò avviene attraverso un programma abbastanza stereotipato che comporta tre effetti strettamente interconnessi:

• infiammazione; • attivazione dei processi microbicidi; • innesco dell’immunità adattativa. I primi due effetti sono descritti nel testo. Accenneremo qui all’innesco dell’immunità adattativa nei linfociti T, che avviene attraverso due segnali (denominati segnale 1 e segnale 2). Perché si verifichi una risposta adattativa, entrambi i tipi di segnale devono essere trasmessi contemporaneamente a un linfocita T da parte di una cellula presentante l’antigene (APC). L’interfaccia tra questi due tipi cellulari viene definita sinapsi immunologica. I macrofagi, i linfociti B e, soprattutto, le cellule dendritiche possono fungere da APC. La presentazione dell’antigene ai linfociti T comporta la sua parziale frammentazione, l’assemblaggio dei frammenti su molecole del complesso maggiore di compatibilità di classe I o II (MHC I o II) e l’esposizione del complesso costituito dal frammento antigenico e dalla molecola MHC (Ag-MHC) sulla superficie cellulare. Il legame del recettore per l’antigene presente sui linfociti T (TCR) con il complesso Ag-MHC genera il segnale 1. Contemporaneamente la APC (se opportunamente attivata da PRR proinfiammatori, vedi testo e tab. 7.5) esprimerà sulla propria superficie molecole co-stimo-

Figura 7.1 Principali cellule dell’immunità. Sono qui rappresentati alcuni elementi del sangue (leucociti e piastrine) e dei tessuti (macrofagi, cellule dendritiche e mastociti). Oltre ai mastociti, ai basofili e alle piastrine (indicati in figura), anche i macrofagi e le cellule dendritiche contribuiscono alla produzione di mediatori della flogosi o infiammazione. APC, antigen presenting cell o cellula presentante l’antigene.

latorie costituite da CD40, CD80 e/o CD86 (queste ultime due molecole sono anche definite, rispettivamente, B7.1 e B7.2). Le molecole co-stimolatorie vengono riconosciute da recettori complementari sui linfociti T (CD40L e CD28) che impartiscono il segnale 2. Come si è detto, un prerequisito per l’attivazione dei linfociti T è la presenza contemporanea sulla APC di Ag-MHC (che impartisce il segnale 1) e molecole co-stimolatorie (che impartiscono il segnale 2). La presenza del solo segnale 1 è insufficiente all’attivazione dei linfociti T e induce, inoltre, anergia in queste cellule, rendendole cioè incapaci di rispondere a stimoli successivi. Le molecole co-stimolatorie vengono indotte solo in seguito a un’attivazione del sistema innato, in associazione alla produzione di citochine proinfiammatorie. Poiché anche queste ultime hanno un ruolo importante nel favorire la proliferazione dei linfociti T (e nel polarizzarli in senso Th1; vedi box 7.3) è stato proposto che le citochine vengano considerate come il segnale 3. Da quanto detto risulta chiaro che, attraverso la produzione di molecole co-stimolatorie e di citochine, le cellule dell’immunità innata controllano le risposte adattative. Inoltre, l’assenza di molecole co-stimolatorie in condizioni “normali” (cioè in assenza di attivazione dell’immunità innata) assicura l’anergia di linfociti autoreattivi T (cioè con TCR in grado di legarsi a complessi Ag-MHC presenti su cellule normali dell’organismo ospite). Nonostante la maggioranza di queste cellule sia distrutta nel timo, un certo numero sfugge a questo processo ed è potenzialmente in grado di aggredire le cellule dell’ospite (autoimmunità).

Leucociti Fagociti Linfocita B

Linfocita T

Grande linfocita granulare

Monocita

Neutrofilo

Cellule ausiliarie Eosinofilo

Basofilo

Mastocita

Mediatori della flogosi

Anticorpi

Cellula dendritica

Macrofago

APC

Piastrine

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Tabella 7.2 Differenze tra immunità innata e immunità adattativa.

Caratteristiche

Immunità innata

Immunità adattiva

Cellule

Macrofagi, cellule dendritiche, cellule natural killer, mastociti, granulociti polimorfonucleati neutrofili, eosinofili e basofili, piastrine, cellule endoteliali, cellule epiteliali, altre cellule

Linfociti T e B

Recettori di ricognizione

Pattern Recognition Receptors

Recettori per l’antigene

Distribuzione dei recettori di ricognizione

Non clonale

Clonale

Geni codificanti per i recettori di ricognizione

Presenti nella linea germinale

Presenti in linee somatiche

Intervallo tra fase di ricognizione e fase effettrice

Breve: i meccanismi microbicidi sono immediatamente operativi

Diversi giorni

Memoria

+–

+++

Specificità per singoli patogeni

+–

+++

Meccanismi effettori

Fagocitosi, autofagia, apoptosi, citotossicità da natural killer, barriere fisiche, allontanamento meccanico, infiammazione, febbre, complemento, citochine proinfiammatorie

Produzione di immunoglobuline da parte di linfociti B differenziati in plasmacellule Citotossicità (uccisione di cellule infettate) da parte di linfociti T citotossici Produzione di interferone-γ da parte di linfociti T helper di tipo 1 Produzione di interleuchina-4 e -13 da parte di linfociti T helper di tipo 2

mente specializzate, come i fagociti professionali (costituiti da leucociti polimorfonucleati, monociti e macrofagi), le cellule dendritiche e le cellule natural killer. Anche cellule meno “professionali” quali le cellule epiteliali, i fibroblasti e le cellule endoteliali svolgono un ruolo importante nelle risposte innate. I fenomeni dell’immunità adattativa sono mediati dai linfociti T e B. Ognuna di queste cellule (sia quelle dell’immunità innata sia quelle dell’immunità adattativa) presenta recettori di ricognizione diversi per ciascun tipo cellulare (tab. 7.2). In questo contesto, per recettori di ricognizione si intendono quelle molecole che sono in grado di legarsi agli stimoli che innescano la risposta immune (ad es. prodotti microbici) e di trasmettere alla cellula segnali di attivazione. Ai recettori di ricognizione dell’immunità innata si dà il nome di PRR o Pattern Recognition Receptors (recettori di ricognizione di motivi molecolari). I ligandi dei PRR, e cioè le sostanze microbiche da loro riconosciute, vengono denominati PAMP (Pathogen Associated Molecular Patterns o motivi molecolari associati a patogeni). I PAMP possiedono tutti la caratteristica di essere molecole indispensabili per la sopravvivenza del microrganismo e sono pertanto comuni a un vasto numero di specie microbiche diverse e relativamente invarianti. I recettori di ricognizione dei linfociti T e B vengono denominati recettori per l’antigene. Per antigene (Ag) si intende una molecola contro la quale si ha una risposta immune di tipo adattativo (si tratta quindi di una definizione a posteriori). I recettori per l’antigene sono costituiti, nel caso dei linfociti B, da un’immunoglobulina di superficie (sIg) e, nel caso dei linfociti T, da un TCR (recettore per l’antigene dei linfociti T). Mentre i recettori per l’antigene non sono presenti sulle cellule dell’immunità innata, ma solo sui linfociti, alcuni PRR sono presenti sui linfociti, soprattutto sui linfociti B. I recettori per l’antigene sono altamente variabili, al punto che, assieme, essi costituiscono un repertorio di centinaia di migliaia di tipi differenti. In altre

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Tabella 7.3 Varie classi di immunoglobuline.

Caratteristiche

IgA

IgD

IgE

IgG

IgM

Struttura

Dimero (con componente secretoria)

Monomero

Monomero

Monomero

Pentamero

Concentrazione di anticorpi nel siero (% delle Ig totali)

10-15

0,2

0,002

80

5-10

Localizzazione

Secrezioni (lacrime, muco, saliva, latte), sangue, linfa

Superficie delle cellule B, sangue, linfa

Sangue, superficie di mastociti e basofili

Sangue, linfa, intestino

Sangue, linfa, superficie delle cellule B (come monomeri)

Peso molecolare (dalton)

405 000

175 000

190 000

150 000

970 000

Emivita nel siero (giorni)

6

3

2

23

5

Fissazione del complemento

No

No

No





Trasferimento attraverso la placenta

No

No

No



No

Funzione

Protezione a livello delle superfici delle mucose

Non conosciuta anche se la loro presenza sulla superficie delle cellule B potrebbe far pensare a un ruolo nelle fasi iniziali della risposta immune

Reazioni allergiche, possibile espulsione o lisi dei parassiti pluricellulari (elminti)

Aumento della fagocitosi, neutralizzazione di tossine e virus, protezione del feto e del neonato

Efficaci nell’indurre agglutinazione, sono i primi anticorpi prodotti all’inizio delle infezioni

parole, esistono migliaia di sIg o di TCR diversi, ciascuno dei quali è capace di legare un antigene diverso. La variabilità di questi recettori è confinata a una parte della molecola (regione variabile), che è responsabile del legame con l’antigene. I recettori per l’antigene espressi su un singolo linfocita avranno tutti un’identica regione variabile e un’identica specificità per l’antigene. Un determinato tipo di sIg o TCR sarà quindi espresso, tra tutti i linfociti del corpo, solo su uno o pochissimi linfociti e sulla loro progenie (o cloni). Si dice, pertanto, che questi recettori hanno una distribuzione clonale (tab. 7.2). Al contrario, i PRR presenti su una cellula dell’immunità innata sono identici ai PRR presenti su altre cellule del medesimo tipo cellulare. In altre parole, ciascun tipo di PRR sarà assolutamente identico in tutte le cellule di un individuo, in quanto il gene che lo codifica è presente nella linea germinale, cioè nel genoma della cellula uovo fecondata. Al contrario, i geni che codificano per i recettori per l’antigene non sono presenti in forma matura nella linea germinale, che contiene solo frammenti discontinui di questi geni. Questi frammenti vengono assemblati (“riarrangiati”) in maniera altamente variabile durante la differenziazione dei linfociti; di conseguenza, il gene maturo (già riarrangiato) è presente solo nei linfociti (cioè in una linea somatica).

Immunità adattativa L’immunità adattativa si distingue in immunità umorale (mediata da linfociti B) e immunità cellulare o cellulo-mediata (mediata da linfociti T). L’attivazione dei

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Capitolo 7 • Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche

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linfociti B comporta quasi sempre un “aiuto” da parte di linfociti T, che per questo motivo vengono definiti helper o Th. In seguito all’attivazione innescata da uno specifico antigene, i linfociti B si differenziano in plasmacellule che secernono immunoglobuline (Ig o anticorpi) di vari isotipi (classi e sottoclassi) nel plasma e nelle secrezioni (tab. 7.3). Le immunoglobuline prodotte dalle plasmacellule conservano la capacità di legarsi all’antigene che ha originariamente stimolato i linfociti B. Come si è detto, le immunoglobuline hanno importanti funzioni nel controllo delle infezioni. In primo luogo, possono neutralizzare l’attività biologica di prodotti microbici che funzionano come fattori di virulenza. Ciò è spesso sufficiente a far pendere la bilancia a favore dell’ospite. Oltre a ciò, le immunoglobuline potenziano i meccanismi effettori dell’immunità innata, funzionando come opsonine, attivando il complemento, inducendo la degranulazione di mastociti o processi di citotossicità. Ogni isotipo di immunoglobuline ha diverse attività effettrici. Ad esempio, solo le IgE inducono la degranulazione dei mastociti e solo le IgG sono capaci di attraversare la placenta e di proteggere il neonato nei primi mesi di vita. Anche i linfociti T hanno diverse attività funzionali in base alla sottopopolazione di appartenenza (box 7.3). L’attivazione da parte dall’antigene comporta un processo di proliferazione dei linfociti T o B. Naturalmente solo i linfociti dotati di un recettore specifico per un

BOX 7.3 • Linfociti I linfociti T possono essere classificati dal punto di vista funzionale o per la presenza/assenza di particolari molecole (marker). Dal punto di vista dei marker, i linfociti T si dividono in CD4+ e CD8+. I CD4+ vengono attivati da complessi antigene-MHC di classe II e i CD8+ da complessi antigene-MHC di classe I. Da un punto di vista funzionale, i linfociti T dopo essere stati stimolati a proliferare dall’antigene, possono differenziarsi in diverse sottopopolazioni, alcune delle quali prestano “aiuto” al funzionamento di altre cellule del sistema immune (linfociti T helper o Th). I linfociti Th (che sono soprattuto, ma non esclusivamente, CD4+) hanno un’influenza fondamentale sulle attività dei macrofagi e dei linfociti B. I Th si differenziano in due sottopopolazioni, Th1 e Th2, in base alle citochine da loro prodotte. I linfociti Th1 producono in modo predominante interferone-γ, un fattore fondamentale nel potenziare la fagocitosi e il killing da parte dei macrofagi. Pertanto, i linfociti Th1 hanno un ruolo cruciale nelle difese antibatteriche e antifungine, particolarmente nei confronti di quei patogeni che permangono all’interno dei macrofagi. I linfociti Th2 producono interleuchina-4 (IL-4), IL-5 e IL-13 e svolgono un ruolo protettivo nei confronti di parassiti pluricellulari (ad es. elminti) attraverso l’attivazione dei mastociti e degli eosinofili. Inoltre, i linfociti Th2 inibiscono le attività funzionali dei Th1 e hanno quindi un ruolo dannoso nel corso delle infezioni da patogeni intracellulari. Sia i linfociti Th1 sia quelli Th2 sono in grado di favorire la produzione di anticorpi cooperando con i linfociti B. I Th2, ma non i Th1, hanno un ruolo essenziale nella pro-

duzione di immunoglobuline della classe E (IgE). Questo isotipo è particolarmente importante nella difesa contro grossi parassiti come gli elminti e nella patogenesi di fenomeni allergici. La differenziazione in senso Th1 o Th2 viene determinata dal tipo di citochine secrete dalle APC durante la presentazione dell’antigene e nelle fasi successive della proliferazione dei linfociti T. La presenza di interleuchina-12, di interferone di tipo I e, in misura minore, di altre citochine proinfiammatorie come il tumor necrosis factor-α e l’interleuchina-1, induce una polarizzazione in senso Th1. In assenza di queste citochine, o in presenza di interleuchina-4 prodotta dai mastociti, i linfociti T si differenziano in senso Th2. Un’ulteriore sottopopolazione di linfociti T (denominata Treg e precedentemente nota come T suppressor) ha la funzione di inibire l’attività di altre sottopopolazioni T. Queste cellule, che dal punto di vista dei marker sono CD4+, CD25+ ed esprimono il fattore di trascrizione Foxp3, hanno un ruolo importante nel prevenire l’insorgenza di malattie autoimmuni. Infine, i linfociti T citotossici (che sono per lo più, ma non esclusivamente, CD8+) hanno la funzione di uccidere inducendo apoptosi nelle cellule infettate da patogeni di qualsiasi natura. In questo caso lo stimolo che scatena l’uccisione della cellula bersaglio è dato dal legame del TCR con l’antigene microbico espresso sulla superficie della cellula bersaglio nel contesto di MHC di classe I.

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Figura 7.2 Selezione clonale. Gli antigeni si legano esclusivamente a quei linfociti (cellule B) che esprimono il recettore di superficie appropriato: ciò stimola tali linfociti a proliferare e a maturare in plasmacellule (che producono anticorpi) e cellule della memoria (di durata maggiore). Un meccanismo analogo vale anche per i linfociti T.

Antigene

Cellule B

Plasmacellule Cellule della memoria

Sistema circolatorio

Produzione di anticorpi

Anticorpi

determinato antigene andranno incontro a proliferazione. Infatti, sia la specificità sia la memoria (cioè la capacità di “ricordare” precedenti contatti con il patogeno) – tipiche dell’immunità adattativi – dipendono dalla replicazione di un ristrettissimo numero di cellule, selezionato dall’antigene a partire da un vasto repertorio di linfociti, ciascuno dei quali esprime un recettore diverso sulla superficie. A questo fenomeno si dà il nome di espansione o selezione clonale (fig. 7.2). La conseguenza del processo di proliferazione o espansione cellulare è che, a un secondo contatto, il patogeno troverà pre-formato nell’organismo un numero molto maggiore di linfociti specifici per i propri antigeni rispetto a quelli presenti in un ospite naive, cioè mai venuto in precedenza a contatto con il patogeno. Ciò spiega la resistenza alla malattia da parte di individui venuti a contatto con il patogeno in maniera naturale (infezione) o artificiale (vaccinazione). L’espansione cellulare è denominata “clonale” in quanto dà luogo a “cloni” e cioè a popolazioni omogenee per il fatto di derivare da una singola cellula. Tutti i membri di un clone, naturalmente, erediteranno il medesimo recettore. Da quanto esposto, risulta chiaro che i recettori per l’antigene, presenti su linfociti B o T, hanno distribuzione clonale e la memoria dell’immunità adattativi ha le proprie basi cellulari in fenomeni di espansione clonale.

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Capitolo 7 • Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche

Meccanismi effettori del sistema immune Come si è detto, l’eliminazione dei microbi può avvenire semplicemente mediante l’allontanamento fisico dal corpo attraverso il deflusso delle secrezioni verso l’esterno. Inoltre, il sistema di difesa può rallentare la crescita dei microrganismi o ucciderli con varie modalità, delle quali la più importante è la fagocitosi: essa comporta l’ingestione del patogeno e la sua esposizione a sostanze antimicrobiche all’interno di compartimenti intracellulari. Alcune cellule del sistema immune, i fagociti professionali, sono specializzate nello svolgimento di questa funzione. I fagociti professionali sono cellule dell’immunità innata, ma la loro funzione può essere grandemente potenziata dalle cellule dell’immunità adattativa, e cioè dai linfociti B e T e dai loro prodotti (rispettivamente, immunoglobuline e interferone-γ). Alcuni patogeni non possono essere ingeriti (fagocitati) perché troppo grandi (come gli elminti) o perché riescono a bloccare i meccanismi d’ingestione. In questi casi i fagociti possono riversare all’esterno, a ridosso dei patogeni, il contenuto dei loro granuli, che sono ricchi di sostanze antimicrobiche e proinfiammatorie (esocitosi). L’esocitosi da parte di granulociti eosinofili e mastociti ha un ruolo importante nel controllo delle infezioni da elminti, ma non delle infezioni batteriche. Viceversa, l’esocitosi da parte di granulociti neutrofili è efficace come prima arma di difesa nei confronti di alcuni batteri. I cosiddetti patogeni intracellulari riescono a penetrare attivamente in cellule non fagocitarie prima di essere intercettati dai fagociti professionali, oppure, fattisi ingerire da questi, ne sovvertono i meccanismi microbicidi. Contro questi patogeni, che riescono a replicarsi all’interno delle cellule dell’ospite, il sistema di difesa usa la tattica di distruggere le cellule parassitate. Il processo viene definito citotossicità e comporta l’induzione di apoptosi nella cellula bersaglio da parte di vari tipi cellulari tra i quali i più importanti sono le cellule “natural killer” e i linfociti T citotossici. Si tratta di una strategia logica che priva il microrganismo di un “santuario” e cioè di una nicchia favorevole alla riproduzione. Molto spesso è la stessa cellula infettata a “decidere il suicidio” andando incontro ad apoptosi senza aiuti esterni. La cellula apoptosica e i microrganismi intrappolati al suo interno vengono in seguito ingeriti dai fagociti professionali. Citotossicità e apoptosi spontanea sono particolarmente importanti nel caso delle infezioni da virus, da clamidie e da rickettsie. Per questi parassiti intracellulari obbligati, la localizzazione all’interno delle cellule dell’ospite è indispensabile per la riproduzione. Al contrario, nel caso di molti batteri, funghi e protozoi in grado di replicarsi anche in assenza di cellule, il parassitismo intracellulare non è una tappa obbligata, ma piuttosto una strategia per proteggersi dalle difese extracellulari dell’ospite (parassitismo intracellulare facoltativo). Anche nei confronti dei parassiti intracellulari facoltativi l’apoptosi spontanea e quella indotta sono strategie utili di difesa. Infine, poiché la capacità dei microrganismi di produrre malattia è legata alla produzione di particolari sostanze (definite fattori di virulenza), la neutralizzazione di tali fattori ad opera di immunoglobuline (Ig o anticorpi) prodotte da linfociti B è spesso di importanza cruciale per la risoluzione dell’infezione. Esempi di fattori di virulenza sono sostanze che conferiscono ai microbi la capacità di aderire alle cellule dell’ospite (adesine batteriche o anti-recettori virali), di danneggiarle (tossine) o di antagonizzare la fagocitosi.

Immunità innata

■■

Pattern Recognition Receptors (PRR)

L’attivazione del sistema immune innato comporta l’induzione di:

• infiammazione; • meccanismi microbicidi (ad es. fagocitosi e citotossicità); • risposte adattative.

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Questi effetti sono mediati dall’attivazione di recettori di ricognizione, i Pattern Recognition Receptors, in seguito al loro legame con prodotti di microrganismi o di cellule danneggiate (tab. 7.4). Esistono gruppi funzionalmente diversi di PRR. Alcuni recettori si limitano semplicemente a propagare il segnale ad altri recettori. Alcuni PRR stimolano direttamente l’internalizzazione di particelle (recettori fagocitari), la citotossicità (recettori delle cellule natural killer) o la produzione di molecole co-stimolatorie (vedi box 7.2). Probabilmente il gruppo più importante di recettori è quello che induce direttamente la produzione di mediatori dell’infiammazione (recettori proinfiammatori). L’infiammazione ha un ruolo cruciale nelle risposte antimicrobiche in virtù della sua capacità di concentrare i componenti (cellulari e umorali) del sistema immune Tabella 7.4 Principali Pattern Recognition Receptors presenti nei mammiferi.

Famiglia

Membri

Microrganismi o PAMP

Siero o secrezioni Complemento

Superfici microbiche (legame covalente con C3b), microrganismi ricoperti di anticorpi o di lectine

Collectine

SP-A, SP-D, MBL

Vari virus, batteri e miceti

Pentrassine

PTX3, SAP, CRP

Vari batteri e miceti, virus dell’influenza, LPS

Proteine con motivi ripetuti ricchi di leucina

CD14, TLR1, TLR2, TLR4, TLR5, TLR6

LPS (CD14+TLR4+MD2), LTA (CD14+TLR2+TLR6), peptidoglicano (TLR2), flagellina (TLR5)

Scavanger receptors (recettori “spazzini”)

SR-A, SRCL-I, SR-PSOX, FEEL1, FEEL-2, LOX1, gp340, SR-BI, MARCO, CD36

Vari batteri, LPS, LTA

Lectine classiche di tipo C

Recettore per il mannosio, DC-SIGN, L-SIGN, SIGNR1

Vari batteri, miceti e virus

Lectine non classiche di tipo C

Dectina-1

Vari miceti

Integrine

CR3, CR4

LPS, microrganismi rivestiti dal complemento

TLR3, TLR7, TLR8, TLR9

dsRNA (TLR3), ssRNA (TLR7+TLR8), DNA batterico con sequenze CpG (TLR9)

Proteine indotte dall’interferone di tipo I

PKR (chinasi attivata dall’RNA), OAS (2',5' oligoadenilato sintetasi), GCN2 (general control nonderepressible 2), ADAR (adenosina deaminasi agente su RNA)

dsRNA e complessi proteici virali

NLR

NOD1, NOD2, NAIP, Ipaf, NALP3

Acido meso-diaminopimelico (NOD1), muramildipeptide (NOD2), Shigella flexneri (NAIP), flagellina (Ipaf), ATP (NALP3), acido urico (NALP3), tossine formanti pori (NALP3)

RLR

RIG-1, MDA-5

dsRNA virale, RNA poli-fosforilato

Membrana plasmatica

Membrana del fagosoma Proteine con motivi ripetuti ricchi di leucina Citosol

Legenda: CR, complement receptor; CRP, C-Reactive Protein; dsRNA, double stranded RNA; FEEL, Fasciclin EGF-Like, Laminin-type EGF-like, Link domain containing scavenger receptor; gp340, glycoprotein 340; LOX, Lectin-like oxidized LDL receptor; LPS, lipopolysaccharide; LTA, lipoteichoic acid; MARCO, macrophage receptor with collagenous structure; MBL, mannose-binding lectine; MX, myxovirus resistance; NAIP, neuronal apoptosis inhibitor protein; NLR, NOD-Like Receptor; NOD, Nucleotide-binding Oligomerization Domain; PAMP, pathogen-associated molecular pattern; PTX, pentraxin; RLR, RIG Like Receptor; SAP, serum amyloid protein; SIGN, specific ICAM3-grabbing non-integrin; SP, surfactant protein; SR, scavenger receptor; ssRNA, single stranded RNA; TLR, Toll-Like Receptor.

Dominio TIR

TLR8

TLR7

TLR6

TLR2

Dominio LRR

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TLR4

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Fagosoma

TLR1 CARD

NOD

CARD

CARD

TLR9

TLR3

LRR NOD1 NOD

LRR

NOD2

TLR5

Citosol Membrana plasmatica Figura 7.3 Struttura e localizzazione nella cellula dei TLR e degli NLR. TLR, Toll-Like Receptor; NLR, NOD-Like Receptor. I recettori proinfiammatori in grado di segnalare la presenza di determinati prodotti batterici (TLR, NLR) possono essere localizzati sulla superficie (membrana plasmatica), sulla membrana del fagosoma o nel citosol. I TLR possono localizzarsi sulla superficie cellulare e nel fagosoma. Gli NLR si trovano esclusivamente nel citosol. I TLR contengono un dominio extracellulare ricco di leucina (leucin-rich repeats o LRR domain) e un dominio intracellulare simile a quello dei recettori per l’interleuchina-1 (Toll and interleukin 1 receptor o TIR domain). Anche gli NRL hanno un LRR, ma differiscono dai TLR per gli altri due domini (denominati NOD o Nucleotide Oligomerization Domain e CARD o Caspase-Recruitment Domain). Sia i TLR sia gli NLR (in maggioranza) usano domini LRR per riconoscere, attraverso un legame specifico, la presenza di prodotti batterici.

Tuttavia, mentre i TLR usano domini TIR per propagare il segnale all’interno della cellula, gli NLR usano domini CARD o domini simili a quello della pirina (pyrin domains, non mostrato in figura). Sulla superficie cellulare, TLR4 media il riconoscimento del lipopolisaccaride o endotossina, un costituente della parete cellulare di tutti i batteri gram-negativi, mentre le lipoproteine batteriche e l’acido lipoteicoico vengono riconosciuti dall’etero-dimero TLR2-TLR6. TLR5 riconosce la flagellina. Il fagosoma contiene TLR in grado di riconoscere acidi nucleici batterici (DNA ricco di sequenze citosina-guanina non metilate riconosciute dal TLR9, o RNA a singolo filamento riconosciuto dal TLR7) o virali (RNA a doppio filamento di origine virale). I recettori NOD1 e NOD2, della famiglia degli NLR, riconoscono prodotti di degradazione del peptidoglicano, un componente comune a tutti gli eubatteri (rispettivamente l’acido mesodiaminopimelico e il muramildipeptide).

nel sito di infezione, amplificando, nel contempo, i fenomeni di attivazione. Inoltre, i PRR proinfiammatori mediano un’aumentata espressione di molecole co-stimolatorie sulle APC, e quindi l’innesco dell’immunità adattativa, favorendo, in particolare, una polarizzazione in senso Th1. Questo tipo di polarizzazione è fondamentale nelle difese contro i batteri, i miceti e i protozoi unicellulari (vedi box 7.3). Ciascun PRR è in grado di legarsi a specifici prodotti microbici ampiamente conservati tra i principali gruppi di microrganismi (cioè a PAMP come il peptidoglicano, presente in tutti gli eubatteri, o al lipopolisaccaride, presente in tutti i batteri gram-negativi). Assieme, i PRR sono capaci di riconoscere la presenza di qualsiasi tipo di microrganismo, dai virus ai protisti eucarioti. Alcuni PRR sono in grado di percepire segni tipici di sofferenza cellulare (ad es. la diminuzione della pressione osmotica intracellulare) o segni di lisi cellulare, tipica della necrosi (ad es. la presenza nello spazio extracellulare di molecole di ATP). Sofferenza e necrosi cellulare si verificano costantemente nel corso delle malattie infettive e rappresentano, pertanto, utili segnali indiretti della presenza di patogeni. In figura 7.3 viene illustrato come i PRR possano essere suddivisi in quattro gruppi in base alla sede, rappresentata da:

• • • •

plasma e/o secrezioni, in forma solubile; superficie cellulare (membrana plasmatica); membrana degli endosomi e altri organuli intracellulari; citosol.

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Il segnale di attivazione può essere propagato da PRR solubili a PRR espressi sulla superficie cellulare o da un PRR di superficie (co-recettore) a un altro PRR di superficie. I PRR solubili comprendono il complemento, le collectine e le pentrassine. I PRR cellulari si distinguono in recettori Toll-like (TLR), recettori ND-like (NLR), recettori RIG-like (RLR), e in svariati recettori fagocitari. Inoltre, un discorso a parte meritano i recettori sulle cellule natural killer (vedi oltre). I più importanti PRR proinfiammatori sono il complemento, i TLR, gli NLR e gli RLR. Certi TLR sono espressi sulla superficie (ad es. TLR2 e TLR4), mentre altri sono espressi a livello endosomale (TLR7, TLR8 e TLR9). NLR e RLR sono presenti nel citosol. I RLR sono in grado di rilevare la presenza di acidi nucleici virali (RNA a doppia elica o RNA fosforilato) mentre gli NLR rilevano la presenza di prodotti batterici.

■■

Infiammazione

L’infiammazione è la risposta immediata dell’ospite alla presenza di microrganismi o di un danno cellulare di qualsiasi natura. Il significato funzionale dell’infiammazione è quello di mobilizzare molecole e cellule del sistema di difesa concentrandole nel sito nel quale viene rilevata la presenza di una situazione abnorme. La vasodilatazione e l’aumento della permeabilità capillare, tipiche dell’infiammazione, fanno sì che passino dal sangue ai tessuti:

• macromolecole che normalmente non si trovano nei liquidi interstiziali (ad es. componenti del complemento, immunoglobuline);

• leucociti.

Ciò porta alla formazione di un essudato (e cioè un liquido infiammatorio ad alta concentrazione proteica) ricco di neutrofili che, dopo le prime 24 ore, possono essere affiancati da monociti o linfociti. I caratteristici segni dell’infiammazione sono l’arrossamento, l’aumento di calore (dovuto all’iperemia, e cioè all’aumentato contenuto di sangue nel tessuto), il gonfiore (dovuto al passaggio di macromolecole e acqua nel liquido interstiziale) e il dolore. L’infiammazione ha inoltre l’importante funzione di favorire la coagulazione con produzione di fibrina, contribuendo, di concerto con i fagociti, alla localizzazione del patogeno. I mediatori dell’infiammazione sono classificabili in 4 gruppi in base alla natura chimica. Il primo gruppo è costituito da citochine proinfiammatorie, caratterizzate da un’elevata potenza (box 7.4). I mediatori lipidici comprendono le prostaglandine, i leucotrieni e il platelet activating factor (PAF). Le amine biogene (istamina e serotonina) sono piccole molecole liberate da un numero limitato di tipi cellulari (soprattutto BOX 7.4 • Citochine Per il funzionamento del sistema immunitario (sia nell’immunità innata sia in quella adattativa) è fondamentale la produzione di citochine, ovvero piccole proteine (con un peso molecolare in genere inferiore a 20 000 dalton) in grado di trasmettere segnali da una cellula all’altra legandosi a recettori specifici. Le citochine possono agire sulla stessa cellula che le produce (azione autocrina), su cellule vicine (azione paracrina) o, più raramente, su cellule lontane (azione endocrina). L’azione endocrina è il meccanismo che sta alla base dell’insorgenza della febbre, dovuta alla stimolazione dei centri termoregolatori dell’ipotalamo da parte di citochine

proinfiammatorie che vengono rilasciate nella circolazione sanguigna. Alcune citochine – che definiremo primarie (comprendenti il tumor necrosis factor-α, l’interleuchina-1, gli interferon-α/β e l’interleuchina-12) – sono prodotte precocemente nell’infezione e cioè immediatamente dopo l’attivazione di PRR proinfiammatori da parte di prodotti microbici. Altre citochine (definite secondarie, quali l’interferon-γ e l’interleuchina-6) vengono prodotte in seguito a stimolazione da parte delle citochine primarie. Va precisato che i termini “primario” o “secondario” non hanno nulla a che vedere con l’importanza del ruolo biologico di una specifica citochine.

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Capitolo 7 • Risposta dell’ospite alle infezioni batteriche

mastociti e granulociti basofili) in seguito allo “scoppio” e alla fuoriuscita (degranulazione) del contenuto di granuli ricchi di queste amine preformate. Le chinine sono mediatori proteici derivati da precursori inattivi (chininogeni) presenti nel plasma. Nel corso dell’infiammazione i chininogeni sono soggetti a idrolisi parziale ad opera di proteasi e trasformati in chinine biologicamente attive, tra le quali la più importante è la bradichinina. Lo stimolo principale per il rilascio di bradichinina è l’attivazione del fattore di Hageman, un fattore della coagulazione.

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Febbre

La febbre è la manifestazione più eclatante di una serie di alterazioni dei meccanismi di termoregolazione (ad es. brividi, sudorazione, sensazioni di caldo o di freddo) che si verificano spesso durante le malattie infiammatorie. La febbre, che è particolarmente frequente nelle malattie infettive, può essere definita come un aumento abnorme della temperatura corporea che si verifica in seguito a una riprogrammazione dei centri di termoregolazione encefalici. La febbre differisce dall’ipertermia, che è un aumento della temperatura corporea rispetto a quella programmata dai centri termoregolatori, a causa di un’eccessiva produzione o di un’insufficiente dispersione di calore. All’inizio dell’episodio febbrile i pazienti hanno sensazioni di freddo che li spingono ad adottare comportamenti (come quello di coprirsi) che ostacolano la dispersione di calore. Inoltre, i brividi comportano un’iperattività muscolare con produzione di calore. Sensazione di freddo e brividi cessano solo quando la temperatura corporea raggiunge i nuovi valori programmati dai centri termoregolatori. L’aumento di temperatura è un importante meccanismo di difesa in quanto la grande maggioranza dei patogeni cresce in maniera ottimale alla temperatura corporea “normale” di 36-37 °C. Anche un aumento di pochi gradi è in grado di rallentare considerevolmente la crescita microbica. Gli animali eterotermi cercano di sfruttare un meccanismo simile ricorrendo solo a modifiche comportamentali. Ad esempio, in presenza di un’infezione, i rettili elevano la propria temperatura corporea esponendosi a lungo al sole. La febbre è causata da pirogeni endogeni (e cioè dalle citochine proinfiammatorie, soprattutto interleuchina-1, tumor necrosis factor e interleuchina-6) in seguito alla stimolazione delle cellule dei nuclei dell’ipotalamo preposti alla termoregolazione. Pertanto, la febbre è prodotta dalle stesse citochine che innescano l’infiammazione. I pirogeni esogeni sono PAMP (ad es. le endotossine dei batteri gram-negativi e il peptidoglicano) in grado di stimolare la liberazione di pirogeni endogeni. Nel corso delle malattie batteriche vengono classicamente riconosciuti quattro tipi diversi di febbre:

• febbre continua: la febbre rimane elevata per tutto il periodo delle 24 ore, con

oscillazioni inferiori a 1 °C; questo tipo di febbre è tipico del tifo addominale (causato da Salmonella typhi) e del tifo esantematico murino (causato da alcune specie di rickettsie); • febbre remittente: anche in questo caso – che si verifica spesso nel corso di infezioni da batteri piogeni (streptococchi e stafilococchi) – la febbre permane elevata nelle 24 ore, ma con oscillazioni superiori a un grado; • febbre intermittente: la temperatura è normale in parte della giornata; • febbre ricorrente: è causata, ad esempio, da diverse specie di Borrelia; la temperatura rimane normale per lunghi periodi di tempo intervallati da nuovi attacchi febbrili. È segno di un’infezione non del tutto guarita che si riaccende periodicamente.

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Fagociti e fagocitosi

Per “fagocitosi” si intende, in senso stretto, un processo di endocitosi che porta all’internalizzazione di particelle con un diametro uguale o superiore a 0,3 μm. Intesa in senso lato, la fagocitosi comporta anche le fasi successive di uccisione e digestione della particella ingerita (fig. 7.4). Il significato funzionale della fagocitosi è quello di

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Figura 7.4 Meccanismo della fagocitosi. (1) Aderenza del microbo o di altra particella al fagocita e successiva ingestione all’interno della cellula; (2) formazione del fagosoma; (3) fusione del fagosoma con un lisosoma con la formazione di un fagolisosoma; (4) digestione enzimatica del microrganismo o della particella; (5) eventuale eliminazione tramite esocitosi del materiale residuo non completamente digerito.

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Microrganismo o antigene

Fagocita

Fagosoma

Lisosomi

Fagolisoma

Esocitosi

distruggere i microrganismi e di eliminare le cellule apoptosiche dell’organismo. In condizioni normali, 500 miliardi di cellule vanno ogni giorno incontro ad apoptosi (o morte cellulare programmata) durante processi di ricambio degli epiteli, di rimodellamento tissutale o di senescenza. È fondamentale che queste cellule siano rimosse prima che vadano incontro a necrosi secondaria, cioè a un processo associato a perdita dell’integrità della membrana cellulare e allo stravaso di contenuti citoplasmatici a forte attività proinfiammatoria nello spazio extracellulare. Tutte le cellule del corpo, comprese le cellule epiteliali e i fibroblasti, sono in grado di internalizzare microrganismi e altre particelle in processi di fagocitosi. Solo alcuni tipi cellulari, i fagociti professionali, sono tuttavia in grado di compiere questi processi con rapidità, ingerendo diverse particelle al minuto, e digerendole efficientemente. I fagociti professionali comprendono alcuni leucociti del sangue (granulociti polimorfonucleati neutrofili, eosinofili, basofili e monociti), i macrofagi e le cellule dendritiche immature che sono normalmente presenti nei tessuti. I macrofagi e le cellule dendritiche mieloidi derivano da monociti che vanno incontro a un processo di differenziazione nei tessuti dopo aver lasciato il sangue. I monociti, i macrofagi e le cellule dendritiche immature vengono definiti fagociti mononucleati per distinguerli dai fagociti polimorfonucleati. Questi ultimi comprendono i granulociti eosinofili, basofili e neutrofili. Dal punto di vista delle difese antibatteriche, i neutrofili sono funzionalmente più importanti degli altri granulociti. Un processo correlato alla fagocitosi, definito autofagia, comporta la digestione, da parte della cellula, di una porzione dei propri contenuti citoplasmatici. Il significato di questo processo è quello di rimuovere organelli o parti di citosol danneggiati e di promuovere il ricambio dei contenuti cellulari. L’autofagia ha un ruolo importante anche nell’immunità innata in quanto promuove la digestione di porzioni di citoplasma

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contenenti microrganismi. Durante l’autofagia porzioni di citoplasma sono sequestrate in un caratteristico vacuolo a doppia membrana (definito autofagosoma) e digerite in seguito a fusione con lisosomi. L’autofagia sta emergendo come un fenomeno importante nel mediare l’uccisione di patogeni intracellulari quale Mycobacterium tuberculosis.

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Aspetti generali della fagocitosi

I fagociti vengono prodotti nel midollo osseo, passano nel sangue e, di qui, ai tessuti, nei quali possono spostarsi mediante movimenti ameboidi. Presentano varie forme di inclusioni granulari (lisosomi) contenenti sostanze battericide ed enzimi litici, quali lisozima, proteine cationiche, proteasi, fosfatasi, nucleasi e lipasi. I neutrofili (box 7.5) BOX 7.5 • Polimorfonucleati neutrofili I fagociti polimorfonucleati neutrofili hanno un ruolo fondamentale nelle difese antibatteriche. Essi sono elementi terminali, cioè cellule pienamente differenziate, incapaci di riprodursi. Per il loro funzionamento non sono indispensabili processi di sintesi proteica de novo. I neutrofili possiedono quattro tipi di granuli preformati denominati primari (azzurrofili), secondari (specifici), terziari (di gelatinasi) e secretori (vedi tab. 7.6). Essi vanno incontro a un rapido ricambio (si calcola che ogni giorno vadano incontro ad apoptosi e vengano rimpiazzati 100 miliardi di neutrofili). Solo l’1% della popolazione complessiva di neutrofili si trova nel sangue. II resto risiede quasi interamente nel midollo osseo, dal quale può essere rapidamente mobilizzato in presenza di infiammazione. La funzione fondamentale dei neutrofili è perlustrare i tessuti, segnalando la presenza di situazioni che richiedono un’attivazione del sistema di difesa e uccidendo i microrganismi. Svolte queste funzioni, i neutrofili sono incapaci di sopravvivere e la fagocitosi di altri microrganismi dipende dalla disponibilità di nuove cellule. In condizioni normali i neutrofili lasciano il sangue e si spostano nei tessuti (possono muoversi alla velocità di 10-40 micron al minuto). I neutrofili esprimono PRR e recettori per varie citochine proinfiammatorie e chemochine prodotte dai macrofagi residenti e da altre cellule (ad es. cellule epiteliali produttrici di interleuchina-8). In assenza di “segnali di pericolo” i neutrofili vanno incontro spontaneamente ad apoptosi o lasciano l’organismo attraverso le secrezioni. In presenza di segnali di pericolo, i neutrofili bloccano il processo di apoptosi e si dirigono verso il punto in cui è massima la concentrazione del segnale, seguendo un gradiente chemiotattico. I più importanti fattori chemiotattici per queste cellule sono le citochine tumor necrosis factor-α (TNF-α), granulocyte-colony stimulating factor (G-CSF) e granulocyte/macrophage-colony stimulating factor (GM-CSF); le chemochine CCL3 (conosciuta anche come MIP1α) e CXCL8 (conosciuta anche come interleuchina-8); il componente C5a del complemento e i peptidi batterici formilati. Le cellule cessano di spostarsi

in corrispondenza della massima concentrazione dei fattori chemiotattici. Se incontrano microrganismi, li inglobano e riversano nel fagosoma il contenuto dei granuli. Durante la migrazione lungo il gradiente chemiotattico e durante la fagocitosi, parte del contenuto dei lisosomi è riversato all’esterno (esocitosi) in un ordine ben preciso, in base al tipo di granuli (vedi tab. 7.6). Si tratta di un meccanismo importante per amplificare l’infiammazione e richiamare altre cellule, quali i monociti e le cellule dendritiche. Se la fagocitosi non può avvenire (ad es. ad opera di fattori batterici di virulenza o per la presenza di fibre della matrice connettivale o di cellule che ostacolano l’accesso ai microrganismi), ma persistono segnali di presenza microbica, i neutrofili liberano interamente all’esterno i contenuti cellulari con la distruzione della porzione circostante di tessuto. La liberazione all’esterno del contenuto dei granuli, del nucleo e, infine, del citosol da parte dei neutrofili ha la funzione di uccidere i microrganismi a distanza, immergendoli in una specie di zuppa tossica. La formazione di pus (un liquido ricco di batteri, neutrofili e di loro prodotti, comprese abbondanti reti di cromatina) è la conseguenza di questa strategia. Il colore verdastro del pus è dato dalla presenza di mieloperossidasi, un enzima contenente ferro che è abbondante nei granuli dei neutrofili, ma poco rappresentato nei lisosomi dei fagociti mononucleati. La viscosità del pus è legata alla presenza di lunghe fibre di cromatina provenienti dal nucleo dei neutrofili. Con il risolversi dell’infezione, i neutrofili muoiono della loro morte naturale, l’apoptosi. Durante questo processo, essi esprimono sulla parte esterna della membrana un fosfolipide, la fosfatidil serina, normalmente presente solo sul foglietto membranario interno. Ciò segnala ai macrofagi che il corpo apoptotico è pronto per essere fagocitato e assicura la distruzione dell’arsenale dei granuli senza ulteriori danni. La fagocitosi di neutrofili apoptotici da parte dei macrofagi stimola fortemente in questi ultimi l’attivazione di un programma di riparazione dei tessuti e di abbattimento dell’infiammazione. Trovare neutrofili apoptotici sembra, per i macrofagi, un segno inequivocabile che non esiste pericolo.

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BOX 7.6 • Fagociti mononucleati Sono costituiti da macrofagi presenti in vari organi e tessuti, oltre al connettivo, e dai monociti del sangue. Anche le cellule dendritiche immature vanno considerate come fagociti mononucleati, in quanto sono capaci di buona attività fagocitaria. È interessante che questa capacità venga persa durante il processo di maturazione, che mette in grado queste cellule di presentare l’antigene e di esprimere alti livelli di molecole del complesso maggiore di istocompatibilità e co-stimolatorie. Le cellule dendritiche hanno, rispetto ai macrofagi, una limitata capacità di killing. È verosimile che in molte situazioni i microrganismi siano digeriti in maniera incompleta dai neutrofili e dai fagociti mononucleati e passati a cellule dendritiche per la processazione degli antigeni e l’innesco dell’immunità adattativa.

forme specializzate di macrofagi, quali, ad esempio, la microglia del tessuto nervoso centrale, i macrofagi polmonari e le cellule di Kupfer del fegato.

I monociti sono fagociti mononucleati presenti nel sangue che danno origine, dopo differenziazione, ai macrofagi dei tessuti e a una sottopopolazione di cellule dendritiche (cellule dendritiche mieloidi). I macrofagi hanno dimensioni maggiori dei monociti (sino a 10 volte) e sono costituenti importanti dei tessuti reticolo-istiocitari, altrimenti detti reticolo-endoteliali. Questi tessuti rappresentano una forma di connettivo lasso abbondantemente presente nel midollo osseo, nella milza e nei linfonodi. Diversi organi presentano

I macrofagi possono essere attivati, in maggior o minor grado, da vari recettori opsonici e non opsonici o da altri PRR. Con l’eccezione della dectina-1 (vedi tab. 7.4), i recettori non-opsonici inducono solo un grado moderato di attivazione. Alcuni recettori opsonici (ad es. gli FcγR) tendono ad attivare i macrofagi più di altri (vedi tab. 7.5). Alcuni PRR come i TLR e gli NLR hanno una capacità particolarmente spiccata di attivare i fagociti e di indurre la maturazione delle cellule dendritiche.

Figura 7.5 Metodi di riconoscimento del patogeno. TLR, Toll-Like Receptor; PRR, Pattern Recognition Receptor; NLR, NOD-Like Receptor. I prodotti microbici possono essere riconosciuti a livello della superficie delle cellule dell’ospite mediante un legame diretto (riconoscimento non opsonico) o mediato da opsonine (riconoscimento opsonico). In seguito alla fagocitosi, i prodotti microbici possono essere riconosciuti all’interno del fagosoma o del fagolisosoma (riconoscimento nel fagosoma). Anche nel citosol possono ritrovarsi prodotti batterici, che vengono riconosciuti in questa sede dagli NLR. Ciò avviene quando determinati patogeni intracellulari (ad es. Listeria e Shigella spp.) sfuggono dal fagosoma per replicarsi nel citosol. Inoltre la membrana del fagosoma non è perfettamente impermeabile ai prodotti batterici e questi sfuggono frequentemente nel citosol.

I macrofagi hanno scarse capacità di fagocitosi e killing in uno stato di quiescenza. Tali processi possono tuttavia essere esaltati enormemente dal processo di attivazione. Lo stato di attivazione può essere misurato dalla quantità di citochine o di radicali tossici dell’ossigeno prodotti (burst respiratorio, vedi tab. 7.5) e dal potenziale microbicida. Lo stato di attivazione dei macrofagi dipende principalmente dalla produzione di interferone-γ da parte delle cellule circostanti. Questa citochina, che rappresenta un fattore fondamentale delle difese antibatteriche, viene prodotta soprattutto dai linfociti T e da cellule natural killer.

NLR Riconoscimento nel fagosoma

Recettore per opsonine

Opsonina Riconoscimento opsonico

TLR

Riconoscimento nel citosol

PRR di membrana

Riconoscimento non opsonico

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sono ricchi di lisosomi preformati (granuli), mentre i macrofagi (box 7.6) hanno pochi granuli, che tuttavia sono in grado di sintetizzare rapidamente all’occorrenza. I fagociti vengono attratti nei tessuti da stimoli chimici (chemiotassi positiva), rappresentati da prodotti batterici (ad es. peptidi formilati) o mediatori prodotti dal sistema di difesa dell’ospite. Tra questi sono comprese diverse citochine proinfiammatorie, chemochine (citochine ricche di cisteina dotate di forte attività chemiotattica) e fattori del complemento (soprattutto C5a). Queste sostanze fanno sì che i fagociti lascino il sangue e si dirigano verso il focolaio infiammatorio, venendo a contatto con i microrganismi. I fagociti possono aderire ai microrganismi mediante un’interazione diretta dei propri PRR di membrana con i rispettivi PAMP microbici (fagocitosi non opsonici) oppure per l’intermediazione di opsonine e cioè di PRR solubili o di immunoglobuline (fig. 7.5). Le opsonine ricoprono il patogeno rendendolo “più appetibile” da parte del macrofago. Il termine “opsonina” deriva dal greco “opsao”, preparare o condire. Le opsonine funzionano da ponte, legandosi da una parte al microrganismo e dall’altra al fagocita tramite specifici recettori posti sulla superficie di questi ultimi. Tra le opsonine hanno un ruolo preminente le immunoglobuline (che non sono PRR, ma molecole di ricognizione dell’immunità adattativa) e i prodotti dell’attivazione del complemento (tab. 7.5). L’occupazione di recettori non-opsonici od opsonici (esempi di questo secondo tipo sono i recettori per la porzione Fc di IgG o FcγR e i recettori per il complemento o CR) induce la fagocitosi attraverso un processo che comporta l’aggregazione dei recettori in fasci (crosslinking) sul piano della membrana. Questa aggregazione è determinata dal fatto che la particella si comporta come un ligando multivalente. L’ingestione è preceduta dalla riorganizzazione del citoscheletro al di sotto della membrana con polimerizzazione dell’actina ad opera di GTPasi della famiglia Rho. Il risultato di questa riorganizzazione è la formazione di una sorta di coppa che avvolge la base della particella da fagocitare. Ai bordi di questa si accrescono rapidamente degli pseudopodi (le pareti della coppa) fino a ricongiungersi al di sopra della particella. Ciò porta alla chiusura di un vacuolo neoformato contenente il microrganismo (fagosoma) e, successivamente, al suo spostamento verso l’interno della cellula. Il fagosoma va quindi incontro a diversi cicli di fissione e fusione con altri organelli, tra i quali endosomi che si formano normalmente nella cellula per un processo di endocitosi spontanea. In questo processo definito “maturazione” il fagosoma acquisisce proteine presenti sulle membrane di endosomi spontanei o di porzioni del complesso Golgi-reticolo endoplasmatico. I fagosomi si distinguono in precoci o tardivi, in base all’acquisizione di specifici marcatori di maturazione (Rab5 ed EAA1 per gli endosomi precoci; Rab7 e LAMP-1 per gli endosomi tardivi). Durante il processo di maturazione il fagosoma si dissocia dalle proteine del citoscheletro e va incontro a una progressiva acidificazione ad opera di ATPasi vacuolari. Il fagosoma maturo si fonde con lisosomi che riversano in esso i propri contenuti per formare il fagolisosoma, ricco di sostanze microbicide e di idrolisi acide (tab. 7.6). Il processo di acidificazione, iniziato nell’endosoma, continua nel fagolisosoma. Il meccanismo generale di formazione di fagosomi e fagolisosomi è comune a tutti i tipi di fagociti (polimorfonucleati e fagociti mononucleati). Le sostanze contenute nel fagolisosoma sono più che sufficienti per l’uccisione di qualsiasi microrganismo, a meno che questo non riesca a sovvertire il funzionamento del fagocita (box 7.7). Tabella 7.5 Effetti predominanti dell’attivazione di alcuni tipi di Pattern Recognition Receptors.

Fagocitosi (ingestione)

Burst respiratorio

Produzione di citochine proinfiammatorie

Espressione di molecole co-stimolatorie

CR3, Scavanger Receptor, recettore per il mannosio

CR1, vari FcγR

TLR, NLR, RLR, dectina-1 e (in misura minore) vari FcγR

TLR, NLR, RLR (dectina-1?)

Legenda: CR, complement receptor; NLR, NOD-Like receptor; TLR, Toll-Like receptor; RLR, RIG-Like receptor; FcγR, recettore per il frammento Fc delle IgG. Il “burst respiratorio” consiste in un brusco aumento del consumo di ossigeno con produzione di radicali tossici dell’ossigeno.

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Tabella 7.6 Contenuto dei granuli dei neutrofili.

Granuli secretori

Granuli di gelatinasi

Granuli specifici

Granuli azzurrofili

CR1, CR3 (CD11b – CD18), FPR, CD14, CD16

Gelatinasi, leucolisina, lisozima, NRAMP1

Lattoferrina, catelicidina, lisozima, collagenasi, leucolisina, citocromo b558, NGAL

Mieloperossidasi, elastasi neutrofilica, catepsina G, proteinasi 3, azzurrocidina, proteina per l’aumento della permeabilità batterica, defensine

Legenda: CR, complement receptor; FPR, formyl peptide receptor; NGAL, neutrophil gelatinase-associated lipolicalin; NRAMP1, natural resistance-associated macrophage protein 1. La freccia indica l’ordine decrescente di esocitosi dei granuli. Durante il processo di attivazione, come ad esempio durante la migrazione del neutrofilo verso uno stimolo chemiotattico, vengono dapprima liberati i contenuti dei granuli secretori e, nell’ordine, quelli degli altri granuli.

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Killing

L’uccisione dei microrganismi ingeriti può essere opera della semplice acidificazione del fagosoma. Più spesso l’uccisione avviene ad opera di una serie di sostanze presenti nel fagolisosoma classificabili come segue:

• intermedi reattivi dell’ossigeno; • intermedi reattivi dell’azoto; • proteine cationiche, comprese le defensine e la proteina battericida che incrementa la permeabilità (ΒΡΙ);

• idrolisi, comprese serina proteasi e fosfolipasi; • fattori nutriprivi, cioè proteine capaci di sottrarre sostanze nutritive essenziali, quale lo ione ferrico e il triptofano.

L’ingestione del microrganismo ad opera di certi recettori (ad es. CR1 e FcγR) ma non di altri (ad es. CR3 o scavanger receptor) innesca una serie di reazioni a livello del complesso enzimatico nicotinamide adenina dinucleotide fosfato (NADPH) ossidasi, presente sulla membrana dei fagociti e nel fagolisosoma, che culminano nella produzione di intermedi reattivi dell’ossigeno (ROI). In questo processo uno dei cinque componenti del complesso della NADPH ossidasi, il flavocitocromo b559, trasporta un singolo elettrone cedendolo a una molecola di ossigeno con formazione dell’anione superossido (O2–). Questo dà luogo alla formazione di prodotti tossici quali il perossido di idrogeno o acqua ossigenata (H2O2), il radicale idrossilico (OH•) e l’ossigeno singoletto. I fagociti fanno uso di queste forme tossiche dell’ossigeno per uccidere i microrganismi ingeriti. L’attività microbicida dei ROI viene grandemente esaltata dalla mieloperossidasi che in presenza di ioni cloruro forma acido ipocloroso (il componente attivo della varechina), una sostanza a forte attività antibatterica. L’acido ipocloroso reagisce a sua volta con un’altra molecola di H2O2 per dar luogo a una seconda molecola di ossigeno singoletto. In presenza di mieloperossidasi, possono avvenire analoghe interazioni tra ROI e altri alogeni (ad es. bromuro e ioduro). Il risultato è l’ossidazione di costituenti strutturali o enzimatici essenziali per il microrganismo. In questo processo gioca un ruolo importante la perossidazione dei lipidi e di costituenti della cromatina che sono in grado a loro volta di ossidare altri prodotti microbici. L’attivazione dei macrofagi induce inoltre (in grado diverso a seconda della specie: in misura minore nell’uomo e maggiore nei roditori) la produzione di intermedi reattivi dell’azoto (RNI) da parte dell’enzima inducibile NO (ossido nitroso) sintetasi. NO è tossico per i batteri e inibisce la replicazione virale. Esso può reagire con prodotti tossici dell’ossigeno per dar luogo a radicali a base di perossinitrato. Esistono importanti differenze tra i fagociti mononucleati e i polimorfonucleati neutrofili (vedi box 7.5 e box 7.6). I neutrofili hanno vita breve (2-3 giorni) e, all’esame istologico, non si riscontrano in condizioni normali negli organi, con l’eccezione del sangue e del midollo osseo. I fagociti mononucleati, al contrario, vivono per diversi anni nei tessuti, e hanno un ruolo importante nel regolare il funzionamento e la differenziazione delle cellule circostanti.

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BOX 7.7 • Sovversione della fagocitosi da parte dei batteri Alcuni patogeni riescono a evitare di essere ingeriti dal fagocita. Ad esempio, membri del genere Yersinia, compresa Yersinia pestis (agente della peste), usano un sistema di secrezione di tipo III per inoculare nel fagocita proteine che bloccano la polimerizzazione dell’actina, un componente del citoscheletro indispensabile per l’ingestione e quindi la formazione del fagosoma. Una strategia più frequente è l’espressione di strutture di superficie, come la capsula o la proteina M di Streptococcus pyogenes, che impediscono la deposizione di fattori opsonizzanti del complemento. Ciò avviene attraverso il legame preferenziale con componenti del complemento che ne inibiscono l’attivazione, come il fattore H. Inoltre, la capsula ricopre alcuni PAMP che sarebbero altrimenti riconoscibili da parte di PRR solubili o presenti sulla superficie del fagocita. I patogeni dotati di capsula evadono l’internalizzazione da parte dei fagociti e possono resistere all’interno di compartimenti corporei ricchi di complemento come il sangue. Non a caso, la grande maggioranza dei batteri che infettano per via ematogena il sistema nervoso centrale e le meningi sono capsulati (ad es. Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Streptococcus agalactiae). Alcuni patogeni non solo non ostacolano il processo di ingestione, ma lo utilizzano per persistere all’interno di cellule dell’ospite, macrofagi compresi. Ciò è possibile perché questi microrganismi riescono a controllare il proprio fato all’interno del fagocita, spostandosi in compartimenti favorevoli o creandone di nuovi. Esistono due strategie fondamentali: evasione da vacuoli fagocitari e replicazione all’interno di vacuoli modificati. Esempi della prima strategia sono patogeni come Shigella spp. o Listeria spp., che “bucano” la membrana del fagosoma sfuggendo nel citosol, dove si replicano per diffondersi alle cellule vicine. Più spesso i patogeni intracellulari persistono in vari tipi di vacuoli modificati racchiusi da membrana. È il caso di membri dei generi Mycobacterium, Salmonella, Chlamydia, Brucella, Leishmania e Toxoplasma. Queste

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specie adottano differenti strategie per generare un ambiente favorevole alla replicazione, come indicato dalle diverse caratteristiche dei vacuoli che ospitano i patogeni. Ad esempio, i micobatteri impediscono l’acidificazione del fagosoma, che non può quindi interagire con endosomi tardivi o con lisosomi. Pertanto, i vacuoli che ospitano micobatteri contengono marker tipici degli endosomi precoci. I vacuoli contenenti Salmonella, al contrario, presentano marker di endosomi tardivi. Altri patogeni ancora, come Chlamydia spp., intercettano delle vescicole esocitosiche prima che queste riversino all’esterno i propri contenuti secretori; la fusione con queste vescicole è testimoniata dalla presenza di lipidi della rete trans-Golgi nei vacuoli che ospitano Chlamydia. Infine Toxoplasma gondii, Brucella spp. e Legionella pneumophila interagiscono con il reticolo endoplasmico, un ambiente teoricamente ideale per la propria riproduzione. L’IFN-γ riesce a sovvertire le strategie messe in atto dai patogeni intracellulari, conferendo ai macrofagi la capacità di ucciderli. Questa citochina si lega a specifici recettori presenti sul fagocita (IFNGR) inducendo un’aumentata espressione di diversi geni. I più importanti sono quelli che codificano per il complesso della NADPH ossidasi (phox), per la NO sintetasi inducibile (iNOS), per ΝRAMP1 (natural-resistance-associated-macrophage protein 1), per IDO (indoleamine 2,3-dioxygenase) e per la famiglia delle p47GTPasi. Si è accennato nel testo al ruolo di questi prodotti come fattori microbicidi (NADPH ossidasi e iNOs) o nutriprivi (NRAMP1 e IDO). Le p47GTPasi (ne sono state identificate 6 nel topo) hanno destato molto interesse in quanto regolano la maturazione del fagosoma e la fusione dei lisosomi con i fagosomi. Queste funzioni dipendono dalla localizzazione delle varie p47GTPasi in compartimenti cellulari diversi, e dalla loro capacità di controllare il trasporto attraverso la membrana di questi vacuoli di fattori che promuovono i processi di fusione e di maturazione del fagosoma.

Sistema del complemento

Il sistema del complemento è composto da almeno 25 proteine solubili nel plasma e da 7 recettori cellulari. Per effetto di svariati stimoli queste componenti agiscono di concerto per indurre infiammazione, potenziare la fagocitosi attraverso l’opsonizzazione e uccidere microrganismi o cellule dell’ospite infettate attraverso la formazione di pori sulla membrana cellulare (lisi). Il complemento è normalmente inattivo, ma può venire rapidamente attivato in seguito a contatto con microrganismi, superfici estranee o complessi antigene-anticorpo (fig. 7.6). Questi ultimi attivano il sistema tramite la cosiddetta via classica del complemento, mentre il contatto diretto con microrganismi attiva la via alterna. I segnali di attivazione vengono propagati con un meccanismo a cascata: ciascun componente attiva quello successivo scindendolo per proteolisi; a seguito della scissione, ciascuno dei frammenti acquisisce una nuova attività fisiologica o enzimatica. Ad esempio, un

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Figura 7.6 Attivazione del complemento attraverso la via classica e la via alterna. Entrambe le vie portano alla conversione di C3 a C3b che, a sua volta, attiva la sequenza terminale litica C5-C9. Il primo stadio che porta alla fissazione di C3 nella via classica è il legame Ag-Ab, come anche il legame tra polisaccaridi batterici e fungini e alcune lectine (PAMP-lectine). La via alterna, invece, non necessita di anticorpi ed è avviata dal legame covalente di C3b alla superficie di qualsiasi particella priva di inibitori del complemento. Ag, antigene; Ab, anticorpo; PAMP, Pathogen Associated Molecular Pattern.

Via classica

Via alterna C3b

Ag PAMP

Ab LECTINE

Parete cellulare con carboidrati

+ C1

C2

+ C4

P

B

C3b D

C3 a

b

C3a

C3b

Opsonina Istamina C5

C6 C5 a

C7 C8

Edema Infiammazione

Macrofago

C9 Citolisi

Opsonizzazione

frammento di un componente potrà avere azione chemiotattica, mentre l’altro funzionerà da proteasi per scindere il componente successivo nella serie. Le proteine del complemento vengono indicate con numeri preceduti dalla lettera C o con lettere maiuscole. Le principali componenti sono C1-C9, B, D e P. Inoltre fanno parte del complemento altre proteine (ad es. H e I) con funzione inibitoria dell’attivazione. Partecipano al sistema altre proteine con funzione inibitoria normalmente presenti sulla superficie di tutte le cellule dell’ospite (quale il decay accelerating factor o DAF). La via classica di attivazione è composta da C1, C2 e C4; la via alterna da C3, B, D e P, mentre le proteine C3 e C5-C9 costituiscono la via comune. C3 è il componente centrale sul quale agiscono sia la via classica sia la via alterna. C3 a sua volta innesca quasi tutti i meccanismi effettori del complemento. Le proteine del complemento si attivano a cascata, come quelle della coagulazione del sangue, in una sequenza ordinata. Con l’esclusione di C4, l’ordine di attivazione segue la sequenza numerica (ad es. C5 attiva C6, C6 attiva C7 ecc.). Il complemento ha un ruolo fondamentale nelle difese nei confronti di qualsiasi

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tipo di batterio grazie alla sua efficacia nel richiamare i neutrofili e i monociti nel sito dell’infezione (chemiotassi) e nel favorire l’aderenza e l’ingestione dei microrganismi (opsonizzazione). L’attività chemiotattica nei confronti dei neutrofili e dei monociti è mediata da C5a e, in minor misura, da C3a, derivanti dalla scissione, rispettivamente, di C3 e C5. Inoltre, C5a è un potente attivatore dei neutrofili. C3a e C5a determinano la liberazione di istamina, un mediatore dell’infiammazione, da parte di mastociti, basofili e piastrine. C3a e C5a vengono denominate anafilotossine per la capacità di indurre sintomi dell’anafilassi (ipotensione e broncocostrizione) in seguito a inoculazione endovenosa negli animali. L’attività opsonizzante del complemento è mediata in primo luogo da C3b e dai suoi prodotti di trasformazione (iC3b e C3d). Questi componenti si legano alla superficie di molti tipi diversi di microrganismi e interagiscono con specifici recettori (CR1, CR2 e CR3) sulla superficie dei fagociti favorendo l’internalizzazione del microrganismo. La formazione di pori a livello delle membrane è mediata da alcune proteine del complemento (specificamente da C5b, C6, C7, C8 e C9) che formano il complesso litico o complesso di attacco. Tra i batteri, alcuni gram-negativi (tra cui specie del genere Neisseria) sono sensibili all’effetto litico del complemento, mentre i gram-positivi sono resistenti a causa dello spesso strato di peptidoglicano che riveste la membrana. I pazienti con difetti genetici di componenti del complesso litico sono più sensibili a infezioni da Neisseria gonorrhoeae e Neisseria meningitidis, agenti rispettivamente di gonorrea e meningite, ma non a infezioni da altri microrganismi. Al contrario una deficienza di C3, una malattia genetica alquanto rara, determina una marcata suscettibilità a infezioni da parte di diverse specie batteriche. Deficienze genetiche di proteine della via alterna determinano un’aumentata suscettibilità a infezioni da enterobatteri.

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Interferoni

Gli interferoni sono citochine con una spiccata capacità di inibire la replicazione virale. Furono scoperti alla fine degli anni ’50 del secolo scorso in seguito a studi sul fenomeno dell’interferenza virale, in base al quale cellule infettate da un virus sono resistenti alla superinfezione da parte di altri virus. Lo stato di resistenza è legato alla secrezione, da parte delle cellule infette, di interferoni capaci di agire, mediante recettori specifici, sia sulle stesse cellule produttrici sia su cellule vicine. Sono stati identificati diversi interferoni (IFN), suddivisi in due tipi principali (tipo I e tipo II). Gli IFN di tipo I (che comprendono diversi sottotipi di IFN-α, INF-β e singoli sottotipi di IFN-κ, ΙFΝ-δ, ΙFΝ-ε, ΙFΝ-τ, IFN-ζ e ΙFΝ-ω) si legano a un recettore comune (IFNAR), distribuito su tutte le cellule del corpo. Esiste un singolo sottotipo di IFN di tipo II, denominato IFN-γ. Questo si lega a un diverso recettore (IFNGR, espresso prevalentemente su cellule del sistema immune quali i macrofagi). È stato recentemente scoperto un terzo tipo di IFN, costituito da 3 sottotipi di ΙFΝ-λ che si legano a un complesso recettoriale composto da IFNLR e IL10R. Gli IFN di tipo I sono citochine “primarie” nel senso che vengono prodotte in seguito all’esposizione diretta ad acidi nucleici di virus e batteri o al lipopolisaccaride dei batteri gram-negativi. L’IFN-γ è invece prodotto dalle cellule del sistema immune in seguito a stimolazione da parte delle citochine primarie IL-12 e IL-18. Le attività biologiche dei tre tipi di IFN sono solo in parte sovrapponibili e vanno ben oltre alla semplice attività antivirale. Ad esempio, gli IFN di tipo I vengono usati nella terapia di alcuni tipi di tumore e di malattie autoimmuni, rispettivamente come agenti antiproliferativi e immuno-modulatori. Come si è detto l’IFN-γ ha un ruolo fondamentale nel potenziare la fagocitosi e il killing di patogeni non virali. Gli IFN di tipo I hanno, rispetto all’IFN-γ, una maggiore attività antivirale, ma una minore capacità di stimolare l’attività fagocitaria.

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Nel complesso, i vari tipi di IFN agiscono in maniera sinergica per produrre i seguenti effetti:

• • • •

blocco della replicazione virale; attivazione di macrofagi e natural killer; blocco della proliferazione cellulare; potenziamento della presentazione dell’antigene attraverso un’aumentata espressione di molecole di istocompatibilità e co-stimolatorie; • potenziamento dell’apoptosi.

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Cellule natural killer

Le cellule “natural killer” (ΝΚ) sono cellule ad attività citotossica (capaci cioè di uccidere cellule dello stesso organismo) che hanno un ruolo fondamentale nell’immunità innata. Come tali costituiscono una prima linea di difesa, capace di distruggere cellule infettate da virus e da altri patogeni intracellulari senza un precedente contatto col patogeno (e cioè in maniera “naturale”). Oltre all’attività citotossica, le ΝΚ hanno una spiccata capacità di produrre IFN-γ, che, come si è detto, è un fondamentale fattore antibatterico. Come i neutrofili, le ΝΚ sono cellule mature che possono funzionare immediatamente dopo l’attivazione. Da un punto di vista morfologico le ΝΚ sono grandi linfociti granulari, cioè linfociti con citoplasma abbondante, ricco di reticolo endoplasmatico in attiva sintesi proteica e contenenti tipici granuli azzurrofili. Le ΝΚ sono prive di “marker” di superficie tipici dei linfociti T (e cioè TCR o CD3) o dei linfociti B (sIg). Esse invece esprimono CD16 (FcRIII, un recettore a bassa affinità per la porzione Fc degli anticorpi IgG1 e IgG3) e CD56 (una molecola di adesione caratteristica delle ΝΚ). Da un punto di vista funzionale, le NK sono notevoli per la loro capacità (unica tra le cellule del sistema immune) di riconoscere il “sé mancante” e cioè l’assenza di determinate molecole-chiave tipicamente presenti su cellule normali. Infatti, le cellule NK hanno una serie di recettori capaci di legarsi a molecole di istocompatibilità di classe I (MHC I) presenti sulle cellule dell’ospite. La maggior parte di questi recettori ha una funzione inibitoria e blocca cioè l’attivazione delle NK. Questi freni inibitori vengono persi quando le NK vengono a contatto con cellule bersaglio che esprimono bassi livelli di MHC I. Si tratta di un meccanismo utile perché le cellule infettate da patogeni intracellulari (soprattutto virus, ma anche batteri) esprimono ridotti livelli di MHC I. Poiché anche le cellule tumorali presentano spesso questa caratteristica, le NK hanno un ruolo importante anche nelle difese antitumorali. Oltre ai recettori inibitori, le NK presentano diversi recettori eccitatori. Non è ancora del tutto chiara la natura degli stimoli, espressi sulla superficie di cellule bersaglio, capaci di innescare questi recettori stimolatori. È curioso comunque che le varie famiglie di recettori NK contengano sia membri ad attività stimolatoria sia membri ad attività inibitoria. Altri stimoli (più convenzionali) capaci di attivare le NK sono classici mediatori del sistema immune come le citochine proinfiammatorie (soprattutto IFN di tipo I) o la presenza di anticorpi legati alle cellule bersaglio (la cui presenza viene avvertita tramite FcgRIII o CD16). Tramite questo recettore le NK possono esercitare, al pari dei fagociti, un’azione citotossica anticorpo-dipendente (antibody dependent cell-mediated cytotoxicity – ADCC). Le cellule NK attivate da citochine vengono definite LAK (lymphokine-activated killer). Queste cellule hanno un’attività citolitica più spiccata delle NK e sono in grado di lisare un numero maggiore di linee tumorali in confronto alle NK non attivate. Dopo essere entrate in contatto con una cellula bersaglio in grado di attivarla, le NK liberano lungo l’area di aderenza il contenuto di granuli preformati ricchi di perforina e di un gruppo di proteasi noto come granzimi. La perforina forma pori a livello della membrana (in maniera analoga al complesso litico del complemento) e

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BOX 7.8 • Apoptosi e necrosi Le cellule gestiscono un delicato equilibrio tra sopravvivenza e morte scegliendo continuamente se andare incontro a replicazione, alla permanenza in uno stato di quiescenza o all’apoptosi. Poiché la cellula partecipa attivamente all’evento scelto, l’apoptosi (o morte cellulare programmata) è da considerarsi una manifestazione del funzionamento della cellula. Alterazioni di questa funzione possono manifestarsi sotto forma di malattie degenerative (eccesso di apoptosi) o tumorali (difetto di apoptosi). Come si è detto, nel caso di cellule infettate da microrganismi (patogeni intracellulari obbligati o facoltativi) l’apoptosi spontanea o indotta da altre cellule può rappresentare un importante meccanismo di difesa. Va tuttavia notato che in alcune circostanze un eccesso di apoptosi può inibire le difese antibatteriche favorendo la replicazione del patogeno. Questo effetto è legato ai segnali antinfiammatori che si producono quando i macrofagi ingeriscono cellule apoptosiche. Ad esempio, durante la sepsi o altre infezioni batteriche gravi, possono andare incontro ad apoptosi non solo cellule infettate, ma anche un gran numero di linfociti e cellule dendritiche non infettate. Nel fagocitare queste cellule apoptosiche i macrofagi producono citochine antinfiammatorie che possono inibire le attività antibatteriche di altre cellule dell’immunità innata. In particolare, in queste circostanze i macrofagi secernono interleuchina-10 e trasforming growth factor-β (TGF-β) che inibiscono la produzione, da parte di queste stesse e altre cellule, di citochine proinfiammatorie quali il tumor necrosis factor-α, l’interleuchina-1 e, soprattutto, l’interferone-γ. L’apoptosi, a differenza della necrosi (tab. 7.7), non è un

processo passivo: è la cellula stessa che, trascrivendo geni specifici, sintetizzando nuovi enzimi e consumando energia, porta avanti il processo di morte, e alla fine, morendo, emette segnali che possono influenzare il comportamento delle cellule vicine, comprese quelle che la devono ingerire. Anche la morte per necrosi innesca specifiche reazioni nelle cellule vicine, quali il rilascio di citochine proinfiammatorie da parte dei fagociti. Queste reazioni sono, evidentemente, di segno nettamente contrario rispetto a quelle indotte dall’apoptosi. La necrosi si verifica in seguito a gravi e irreversibili danni causati da ipossia, ipertermia, infezione virale, esposizione a vari agenti tossici o per l’attacco da parte del complemento. Al contrario dell’apoptosi, la necrosi comporta una perdita dell’integrità delle membrane degli organelli, incluso il nucleo, con conseguente rilascio del loro contenuto (ATP, proteasi ed enzimi litici) fino alla rottura dell’intera cellula e alla degradazione aspecifica del DNA. L’apoptosi può essere suddivisa in 3 fasi principali:

• induzione (esempi di stimoli induttori sono il TNF, farma-

ci citotossici, radiazioni ionizzanti e ultraviolette, shock da calore, ipossia, infezioni virali);

• esecuzione, e cioè l’innesco di una serie di reazioni en-

zimatiche a cascata in certo modo paragonabili a quelle del complemento o della coagulazione del sangue;

• riconoscimento da parte dei fagociti (come si è det-

to, nei tessuti i corpi apoptotici vengono rapidamente fagocitati dalle cellule circostanti e/o dai macrofagi e degradati all’interno dei lisosomi).

Tabella 7.7 Differenze tra necrosi e apoptosi.

Caratteristiche

Necrosi

Apoptosi

Distribuzione tissutale

Gruppi di cellule

Cellule singole

Reazione tissutale

Infiammazione

Fagocitosi di corpi apoptotici con produzione di citochine antinfiammatorie

Morfologia cellulare

Rigonfiamento cellulare (nelle fasi precoci)

Contrazione della cellula Diminuzione del contatto tra cellule

Membrana plasmatica

Perdita d’integrità, aumento della permeabilità, lisi

Mantenimento dell’integrità della membrana, formazione di bolle (blebbing)

Nucleo

Degradazione non specifica del DNA

Condensazione, frammentazione, degradazione del DNA a intervalli regolari

Proteine

Degradazione non specifica

Degradazione ad opera di specifiche proteasi (caspasi e altre)

Necessità di ATP

No



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consente la penetrazione dei granzimi che causano apoptosi nella cellula bersaglio. Inoltre le NK producono un peptide ad attività antibiotica (granulisina) capace di uccidere alcuni microbi intracellulari. È importante notare che la morte cellulare indotta da NK avviene per apoptosi piuttosto che per necrosi (box 7.8). Quest’ultimo meccanismo comporterebbe la lisi immediata con la possibile fuoriuscita di virus o di altri patogeni intracellulari. Al contrario, durante l’apoptosi, i patogeni rimangono intrappolati all’interno della cellula e distrutti direttamente o in seguito a fagocitosi del corpo apoptotico. Le cellule NKT si differenziano dalle NK per il fatto di esprimere sulla superficie il recettore per l’antigene dei linfociti T (TCR) e di differenziarsi nel timo. Le NKT sono pertanto da considerarsi una sottopopolazione di linfociti T. Esse riconoscono, tramite un ristretto repertorio di TCR, glicolipidi, lipidi e peptidi idrofobici presentati nel contesto di molecole CD1d, le quali presentano somiglianze con molecole MHC di tipo I.

Bibliografia essenziale Akira, S., Uematsu, S., Takeuchi, Ο. (2006), «Pathogen recognition and innate immunity», Cell., 124, pp. 783-801. Azuma, Μ. (2006), «Fundamental mechanisms of host immune responses to infection», J. Periodont. Res., 41, pp. 361-373. Hawlisch, H., Kohl, J. (2006), «Complement and Toll-like receptors: key regulators of adaptive immune responses, Molecular Immunology, 43, pp. 13-12. Strober, W., Murray, P.J., Kitani, A., Watanabe, Τ. (2006), «Signalling pathways and molecular interactions of NOD1 and NOD2», Nature Reviews Immunology, vol. 6. Nathan, C. (2006), «Neutrophils and immunity: challenges and opportunities», Nature Reviews Immunology, vol. 6.

Capitolo

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Diagnosi batteriologica

La diagnosi batteriologica ha lo scopo di identificare l’agente patogeno responsabile di una malattia infettiva e di valutare la suscettibilità antimicrobica del ceppo in esame al fine di suggerire un appropriato trattamento chemio-antibiotico. L’indagine microbiologica può essere anche utilizzata per valutare l’efficacia della terapia, nonché la presenza di portatori sani. Questi potrebbero costituire una fonte di contagio in comunità e, ancor più grave, in ambito ospedaliero. Ad esempio, il chirurgo che risulti a un’indagine microbiologica portatore sano nel vestibolo nasale anteriore di un ceppo di Staphylococcus aureus meticillino-resistente dovrebbe essere bonificato. La diagnosi batteriologica si distingue in diagnosi diretta quando essa è volta a isolare l’agente patogeno e diagnosi indiretta quando essa è tesa a rilevare la risposta immunitaria dell’ospite all’agente infettivo (fig. 8.1).

8.1 - Diagnosi diretta Raccolta del materiale biologico L’attendibilità dell’esame batteriologico dipende da vari fattori, tra i quali molto importante è l’adeguata raccolta del campione. Il prelievo del campione deve essere effettuato prima dell’inizio di una terapia chemio-antibiotica o dopo sospensione della stessa per almeno 48 ore. Il campione deve essere prelevato dal distretto corporeo dal quale sia più facile isolare l’agente patogeno in quella particolare fase della malattia infettiva. La febbre tifoide, ad esempio, ha classicamente un decorso bimodale, essendo caratterizzata da una fase precoce (di una/due settimane) di febbre e costipazione, durante la quale l’emocoltura è positiva nel 90-100% dei casi e la coprocoltura è frequentemente negativa, e da una seconda fase, spesso diarroica, durante la quale Salmonella typhi può essere isolata con sempre maggiore frequenza dalle feci e con minore frequenza dal sangue (30% nella terza settimana). Il sospetto clinico di febbre tifoide, unito alla conoscenza della storia naturale di questa malattia infettiva, suggerisce, pertanto, la ricerca del microrganismo nel sangue durante la prima e seconda settimana di malattia e nelle feci nella terza e quarta settimana. Il prelievo di sangue, l’agoaspirato (aspirato di un essudato o pus) o il prelievo effettuato a mezzo di un tampone devono essere raccolti in contenitori sterili. Il tampone deve essere di dacron o di poliestere. Sia i residui di acidi grassi eventualmente presenti nel tampone di cotone, sia i prodotti tossici che possono essere rilasciati dal tampone di alginato di calcio, inibiscono, infatti, la crescita di alcuni microrganismi. Il prelievo di sangue e l’agoaspirato devono essere effettuati dopo accurata disinfezione della superficie corporea. Il campione può essere prelevato da un distretto corporeo normalmente sterile (ad es., sangue, liquor, liquido sinoviale, bile) o da distretti colonizzati dalla flora microbica locale (ad es., tratto genitourinario, cute). In quest’ultimo caso si deve effettuare il prelievo evitando la contaminazione del campione con i tessuti circostanti. Seguendo questo razionale, ad esempio, la ricerca di Streptococcus

• Diagnosi diretta • Terreni di coltura • Processazione di campioni biologici • Metodiche di identificazione rapida • Diagnosi indiretta

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Sospetta infezione batterica Diagnosi diretta

Diagnosi indiretta

Sangue Feci Urine Biopsie Tampone ecc.

Siero del paziente Metodo immunologico (ricerca di anticorpi verso l’agente batterico) • Saggio immunoenzimatico (EIA) • Saggio radioimmunologico (RIA) • Saggio di immunofluorescenza (IFA) Diagnosi rapida

Esame colturale

Metodo immunologico (ricerca di antigeni dell’agente batterico)

Semina su brodo di arricchimento, terreno solido non selettivo e/o selettivo e discriminativo

• Test di agglutinazione • ELISA • Saggio di immunocromatografia su membrana

Isolamento del microrganismo in coltura pura

Metodo molecolare (ricerca di sequenze genomiche dell’agente batterico) • PCR • Multiplex PCR • Nested PCR • NASBA • SDA • Qβ Replicase • LCR • Ibridazione di una sonda verso l’agente batterico

Identificazione • Biochimica • Immunologica • Molecolare

Antibiogramma

Figura 8.1 Metodi diagnostici per identificare l’agente batterico responsabile di una malattia infettiva.

pyogenes va effettuata con un tampone nelle fosse peritonsillari evitando il contatto con l’orofaringe, così, nel caso di raccolta di un campione endometriale, si deve cercare di limitare la contaminazione con la flora vaginale, mentre il pus va raccolto dalla lesione sottostante e non dalla sua fistola. In ultimo, il campione deve essere correttamente etichettato e accompagnato da una richiesta nella quale si specificano sufficienti informazioni cliniche, il sospetto diagnostico e il tipo di esame che si vuole prescrivere.

Invio del campione La processazione del campione deve essere più tempestiva possibile. Il campione che non venga prontamente processato deve essere messo in un mezzo di trasporto, al fine di evitare l’essiccamento dello stesso e, quindi, la morte dei microrganismi. A tale scopo è indicato l’uso del terreno semisolido di Stuart o di Amies. Qualora si debbano mantenere in vita microrganismi anaerobi, il campione non deve essere esposto né all’ossigeno né all’essiccamento e all’uopo sono disponibili in commercio contenitori adatti. Feci e urine, nel caso non possano essere inoculati negli opportuni terreni in tempi brevi, devono essere conservati a 4 °C per un massimo di 6-8 ore.

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Capitolo 8 • Diagnosi batteriologica

Esame batterioscopico diretto L’esame batterioscopico diretto del materiale biologico è utile per stimare l’idoneità del campione (come nel caso dell’espettorato, vedi oltre, “Coltura dell’espettorato”), per valutare il numero e la percentuale di polimorfonucleati neutrofili, indicativi di un processo infiammatorio, per documentare la presenza di lattobacilli acidofili in un campione vaginale, indicativi di una normale flora microbica locale, nonché per informare precocemente il clinico circa la presenza di funghi, parassiti, inclusioni virali, batteri, dei quali può essere specificata la caratteristica tintoriale dopo colorazione di Gram o di Ziehl Nielsen, la morfologia (cocchi o bastoncelli), la disposizione (in ammassi irregolari, catenelle, diplococchi lanceolati, diplococchi a chicco di caffè), l’eventuale presenza di capsula, spore, granuli metacromatici previa colorazione specifica. Queste caratteristiche possono risultare utili per una diagnosi presuntiva e, comunque, importanti per la prosecuzione del processo diagnostico, nella scelta, cioè, dei terreni di coltura più idonei su cui seminare il campione. Un referto positivo ottenuto, ad esempio, dopo colorazione di Ziehl Nielsen indica la presenza di bacilli alcol-acido-resistenti e non, necessariamente, di Mycobacterium tuberculosis. In caso di negatività dell’esame batterioscopico diretto è necessario ricordare che il limite di sensibilità di questa metodica è di circa 104 batteri/mL di materiale.

Esame colturale Il campione arrivato in laboratorio con richiesta generica per la ricerca di “germi comuni” o specifica per un particolare microrganismo viene seminato sui terreni di coltura appropriati al tipo di richiesta e al tipo di campione. Per ricerca di “germi comuni” si intende la ricerca di tutti quei microrganismi che crescono nei comuni terreni di coltura. In genere, la ricerca per “germi comuni” viene effettuata seminando il campione su terreni solidi. L’inoculo in terreni liquidi è spesso limitato a quei campioni quali, ad esempio, i liquidi corporei e gli aspirati di tessuti profondi, nei quali la carica microbica si presume non sia molto elevata e dai quali l’isolamento, anche di pochi microrganismi, può essere significativo. I terreni possono essere selettivi o non selettivi. I terreni non selettivi sono privi di inibitori e consentono la crescita della maggior parte delle specie microbiche. L’agar sangue, contenente il 5% di sangue (spesso di montone o di cavallo), è il terreno non selettivo più comunemente usato. In questo terreno si mettono in evidenza la β-emolisi (emolisi completa delle emazie presenti nel terreno, che dà luogo a un alone trasparente intorno alla colonia), l’α-emolisi (emolisi parziale, che dà luogo a un alone verde intorno alla colonia per degradazione della bilirubina a biliverdina) e la γ-emolisi (mancanza di emolisi). L’agar cioccolato è un agar nutriente addizionato di emoglobina, per fornire emina o fattore X, e di IsoVitaleX, che fornisce NAD o fattore V, nonché di vitamine e altri nutrienti. Questo terreno viene utilizzato per l’isolamento di specie esigenti da un punto di vista nutrizionale, quali quelle appartenenti al genere Haemophilus. Il terreno è selettivo quando consente la crescita soltanto di alcune specie microbiche mentre inibisce la crescita di altre specie grazie a una o più sostanze chimiche o a uno o più antibiotici contenuti nel terreno. Di seguito sono riportati, come esempio, alcuni tra i terreni selettivi di maggiore impiego in microbiologia clinica: il terreno di Thayer-Martin, l’agar MacConkey, l’agar sale mannite, l’agar SS. Il terreno di Thayer-Martin, un terreno selettivo per le neisserie patogene, è costituito di agar cioccolato, addizionato di vancomicina, colistina, nistatina e trimetoprim lattato. Questo terreno è utile per l’isolamento di Neisseria gonorrhoeae da un campione uretrale, che è un campione polimicrobico. L’agar MacConkey è un terreno non soltanto selettivo ma anche discriminativo. Esso è selettivo per i microrganismi gram-negativi in quanto contiene sali biliari (1,5%) e cristalvioletto, che inibiscono la crescita dei microrganismi gram-positivi, ed è discriminativo in quanto è capace di distinguere i batteri gram-negativi in lattosio-fermentanti

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e non fermentanti. Questo terreno è, pertanto, particolarmente utile per discriminare le specie appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae. L’acidificazione del terreno, infatti, che si verifica in presenza di colonie fermentanti il lattosio, fa virare al rosso l’indicatore di pH presente nel terreno, il rosso neutro. La mancata acidificazione del terreno indica, pertanto, la presenza di colonie non fermentanti il lattosio (appartenenti al genere Salmonella, Shigella e Proteus). Anche l’agar sale mannite è un terreno selettivo e discriminativo. Esso, infatti, contenendo un’elevata concentrazione di cloruro di sodio (7,5%), è selettivo per i microrganismi alofili ed è capace di discriminare le specie di stafilococchi in base alla capacità di utilizzare la mannite. L’acidificazione del terreno che si verifica, infatti, in presenza di colonie fermentanti la mannite (Staphylococcus aureus) fa virare al giallo l’indicatore di pH presente nel terreno, il rosso fenolo. Per facilitare l’isolamento di quei microrganismi la cui crescita è favorita da una minore tensione parziale di ossigeno e, in alcuni casi, anche da un’atmosfera arricchita in CO2, le piastre, ad esempio, di agar sangue e/o agar cioccolato vengono normalmente incubate in una giara in grado di realizzare tali condizioni. Le condizioni di microaerofilia possono essere ottenute anche utilizzando bustine sigillate in un involucro protettivo, contenenti un generatore di CO2 che viene rilasciato al momento dell’apertura dell’involucro all’interno di una busta trasparente contenente le piastre. La busta trasparente viene immediatamente chiusa per consentire il mantenimento dell’atmosfera generata. Le condizioni di microaerofilia possono essere utilizzate anche per consentire la rilevazione dell’emolisina ossigeno-labile di Streptococcus pyogenes in agar sangue. Tutti i terreni sopra menzionati vengono incubati a 37 °C per 24-48 ore. L’identificazione suggerita dai terreni discriminativi va successivamente confermata (vedi paragrafo “Identificazione”). Di seguito sono riportate le indagini colturali che più comunemente vengono effettuate in un laboratorio di microbiologia clinica.

■■

Emocoltura

Nel paziente febbrile, l’emocoltura è l’indagine microbiologica più indicata per evidenziare un’infezione batterica sistemica. L’isolamento di un microrganismo dal sangue è essenziale sia per discriminare un processo infettivo da un processo infiammatorio, sia per guidare il clinico nella scelta della terapia antibiotica più appropriata. Si definisce setticemia la presenza di batteri in circolo che si moltiplicano con una velocità superiore alla capacità di una loro rimozione da parte dei fagociti. Si definisce batteriemia la presenza di batteri in circolo, che può essere transitoria, intermittente o continua. Essa è transitoria quando i microrganismi, spesso facenti parte della flora microbica locale di un certo distretto corporeo, entrano accidentalmente in circolo, ad esempio, in seguito all’utilizzazione dello spazzolino per l’igiene orale. La batteriemia è intermittente quando i microrganismi presenti in un processo infettivo entrano in circolo in modo non costante, ad esempio, da ascesso, empiema, peritonite, artrite settica, cellulite. La batteriemia è continua quando i microrganismi hanno accesso diretto al circolo, come nel caso di endocardite batterica, fistole arterovenose infette. La presenza di batteri in circolo induce febbre e, come detto sopra, l’esame indicato per individuarne l’agente etiologico è l’emocoltura. Dato che la presenza del microrganismo in circolo spesso non è continua, il prelievo di sangue viene effettuato tre volte nel corso della giornata, possibilmente da microcircoli diversi, al fine di aumentare la probabilità di isolare l’agente patogeno. In particolare, poiché l’acme febbrile segue di circa un’ora la fase batteriemica, il prelievo di sangue dovrebbe essere effettuato ai primi segni di incremento della temperatura, ovvero circa 30 minuti prima dell’acme febbrile, cioè quando la carica microbica in circolo è più alta. Ciò nel caso in cui l’acme febbrile sia prevedibile, quando cioè la febbre abbia andamento regolare (ondulante o intermittente). Poiché l’acme è in molti casi imprevedibile, nella pratica clinica, tuttavia, il campione viene raccolto subito dopo il rialzo febbrile. In malattie febbrili acute (meningite, polmonite batterica), dove può risultare neces-

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sario iniziare una terapia chemio-antibiotica empirica immediata, dovrebbero essere effettuati subito due prelievi da due microcircoli diversi. Se l’origine della febbre è sconosciuta due prelievi a distanza di 1 ora consentono di determinare se la batteriemia è continua o intermittente. In caso di mancato isolamento dell’agente patogeno, due-tre set aggiuntivi, ciascuno costituito da due prelievi a distanza di 1 ora, possono essere effettuati nelle successive 24-48 ore. Nei pazienti affetti da endocardite batterica acuta si devono effettuare tre prelievi da tre distretti diversi nella prima-seconda ora di valutazione e poi iniziare la terapia. In caso di sospetta endocardite batterica subacuta si devono effettuare i prelievi in prima giornata come nell’endocardite batterica acuta e, in caso di mancato isolamento dell’agente patogeno, si devono effettuare altri tre prelievi a distanza di almeno 30 minuti l’uno dall’altro nei giorni successivi. Se il paziente ha già iniziato la terapia chemio-antibiotica, il campione può essere prelevato ugualmente, ma devono essere utilizzati flaconi da emocoltura contenenti resine sintetiche o carbone attivato che rimuovono i chemio-antibiotici, così da ridurre gli effetti degli agenti antimicrobici sulla crescita batterica. Il volume totale di sangue è uno dei fattori più importanti per l’isolamento dell’agente patogeno dall’emocoltura. Una quantità di sangue adeguata può essere costituita da 10 mL di sangue nell’adulto (0,5-1 microrganismo/mL di sangue) e 1-5 mL nel bambino, che ha un numero di microrganismi maggiore per mL di sangue. Il campione di sangue per l’emocoltura viene raccolto in flaconi sterili perforabili a chiusura ermetica contenenti terreni nutritivi liquidi addizionati di anticoagulante, nei quali il campione viene diluito secondo un rapporto di 1:10. Nelle emocolture effettuate con sistemi automatizzati (vedi oltre in questo stesso paragrafo) tale rapporto è spesso inferiore. Nei flaconi dotati di un sistema sottovuoto, è opportuno attendere fino alla cessazione spontanea dell’aspirazione del sangue nel flacone, in modo che un adeguato volume di sangue sia stato raccolto. I terreni più utilizzati sono Brain Heart Infusion Broth (BHIB), Columbia Broth, Tryptic o Trypticase Soy Broth. La maggior parte dei flaconi per emocoltura disponibili in commercio contiene l’anticoagulante polianetolsulfonato di sodio che, oltre a inibire la formazione di coaguli, all’interno dei quali i batteri potrebbero essere uccisi per fagocitosi, neutralizza il potere battericida del sangue (complemento) e inattiva concentrazioni terapeutiche di antibiotici, quali aminoglicosidi e polimixina. La crescita di alcuni microrganismi, quali Neisseria meningitidis, Neisseria gonorrhoeae, Peptostreptococcus anaerobius, Gardnerella vaginalis, può essere inibita, tuttavia, da tale anticoagulante. Nel caso in cui si sospetti una batteriemia sostenuta da questi microrganismi, pertanto, l’effetto inibitorio del polianetolsulfonato di sodio può essere neutralizzato dall’aggiunta nel terreno di gelatina all’1% (concentrazione finale). Un sistema utilizzato per ridurre i tempi e aumentare la percentuale di isolamento dal sangue di molti microrganismi, in particolare di microrganismi intracellulari, è il sistema “Isolator”. In questo sistema il campione di sangue viene lisato, a mezzo di saponina, e centrifugato. La capacità del sistema “Isolator” di facilitare l’isolamento microbico, soprattutto di microrganismi intracellulari, sembra sia dovuta proprio alla lisi dei leucociti e all’inattivazione sia dei fattori antimicrobici sierici, sia degli agenti antimicrobici presenti in circolo. Una volta lisati i leucociti, il campione viene centrifugato per 15 minuti e il sedimento viene inoculato negli opportuni terreni. Questo sistema ha lo svantaggio di essere molto laborioso e la manipolazione del campione può essere fonte di contaminazione. Per ciascun prelievo di sangue è opportuno predisporre due flaconi: uno per la ricerca di microrganismi aerobi e uno per la ricerca di microrganismi anaerobi. Dati recenti indicano che l’utilizzazione di due flaconi per la ricerca di microrganismi aerobi aumenta la probabilità di isolamento dei microrganismi dal sangue rispetto all’utilizzazione di un flacone per la ricerca di microrganismi aerobi e di uno per la ricerca di microrganismi anaerobi. L’eventuale sostituzione del flacone per la ricerca

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di microrganismi anaerobi con un ulteriore flacone per la ricerca di microrganismi aerobi può essere effettuata, tuttavia, solo dopo un’accurata valutazione della frequenza di isolamento di microrganismi anaerobi nella popolazione che fa riferimento a quel particolare laboratorio. L’utilizzazione di due flaconi per ciascun prelievo è opportuna perché se uno soltanto di essi si positivizza, cioè vi è crescita batterica, questo può essere indice di contaminazione. Oggi la crescita batterica in tali flaconi viene valutata in sistemi automatizzati in grado di monitorarla a intervalli di pochi minuti. La crescita batterica è determinata in questi sistemi sulla base del rilevamento di CO2 liberata o anche di O2 e H2 consumati dalla crescita dei microrganismi nel flacone. Al fondo di ciascun flacone sono posizionati uno o più sensori ciascuno sensibile a uno dei gas monitorati. Non appena la concentrazione di uno di questi gas si discosta da un valore soglia predeterminato viene generato un allarme acustico e/o visivo. I flaconi vengono incubati a 35 °C finché non si positivizzano e, frequentemente, ciò avviene nelle prime 24-72 ore. Qualora non si siano ancora positivizzati, la loro incubazione viene prolungata fino a 7 giorni e, in alcuni casi, anche per un periodo di tempo superiore, perché alcuni microrganismi, quali, ad esempio, le specie appartenenti al genere Brucella e Haemophilus, possono richiedere un periodo di incubazione più lungo. I flaconi positivi vengono rimossi e da essi si deve effettuare subito un esame batterioscopico diretto. Importante è informare il clinico del risultato dell’esame batterioscopico. Nel caso in cui all’esame batterioscopico diretto, effettuato dal flacone positivizzato, si osservino microrganismi gram-negativi, si può procedere con un’identificazione rapida che viene eseguita nel modo seguente: parte del terreno del flacone da emocoltura positivizzato viene trasferito in una provetta contenente un gel separatore. In seguito a centrifugazione, i microrganismi depositatisi sulla superficie di tale gel vengono risospesi per allestire il kit di identificazione. Nel caso, invece, si osservino cocchi gram-positivi disposti in ammassi irregolari, dal flacone positivizzato si può effettuare il test della coagulasi per l’identificazione rapida di Staphylococcus aureus. Dal flacone positivizzato si devono effettuare subcolture su terreni idonei in base al microrganismo osservato all’esame batterioscopico diretto. La batteriemia viene confermata dal ripetuto isolamento dello stesso microrganismo da campioni diversi, mentre l’isolamento di più microrganismi da un solo campione, sui tanti analizzati, suggerisce una contaminazione. La distinzione tra agenti patogeni e commensali è oggi per lo più didattica, data la sempre più frequente insorgenza di patologie gravi sostenute da microrganismi opportunisti in pazienti immunocompromessi o sottoposti a manovre diagnostico-terapeutiche invasive. Un microrganismo commensale ripetutamente isolato da varie emocolture deve essere considerato, pertanto, l’agente etiologico della patologia in atto.

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Coltura del liquor

Il campione di liquido cerebrospinale viene raccolto per la diagnosi di meningite. Esso viene prelevato per puntura lombare, dopo accurata disinfezione della cute, dagli spazi intervertebrali L3-L4, L4-L5 o L5-S1. Una volta raggiunto lo spazio subaracnoideo vengono aspirati almeno 0,5 mL di liquor, benché sia preferibile un volume maggiore. Il campione deve essere inviato immediatamente al laboratorio mantenendolo a temperatura ambiente. Qualora il campione di liquor, come auspicabile, abbia un volume intorno a 1 mL, esso deve essere centrifugato e concentrato, scartando parte del supernatante. Si lascia un volume di circa 0,5 mL di supernatante dove si sospende nuovamente il sedimento batterico. Da tale sedimento si esegue un esame batterioscopico diretto e si informa immediatamente il clinico sull’aspetto morfologico e la quantità del microrganismo e delle cellule presenti nel campione. Il campione viene, quindi, seminato su terreni di coltura appropriati. È buona norma aggiungere al liquor rimanente una quantità di terreno liquido, quale BHIB, da incubare a 37 °C, col significato di aumentarne la carica microbica. Tale coltura può essere utilizzata, previa

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subcoltura su terreno idoneo, per la ricerca dell’agente patogeno qualora sia fallito il precedente tentativo di isolamento. Le specie che più frequentemente sostengono meningite batterica acuta nei neonati sono Streptococcus agalactiae, Escherichia coli, Listeria monocytogenes, specie appartenenti al genere Klebsiella e altri batteri gram-negativi, nei bambini Haemophilus influenzae tipo B, Neisseria meningitidis e Streptococcus pneumoniae, negli adulti Streptococcus pneumoniae e Neisseria meningitidis. Le specie microbiche che più frequentemente sostengono meningite cronica sono Mycobacterium tuberculosis e Cryptococcus neoformans.

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Coltura dell’espettorato

La raccolta dell’espettorato viene effettuata al mattino, in quanto la stasi delle secrezioni bronchiali aumenta con il clinostatismo della notte. Qualora sia difficile raccogliere secrezioni bronchiali spontanee, si può indurre l’emissione di espettorato mediante aerosol di soluzione salina tiepida al 10%. Un solo campione è in genere sufficiente per fare diagnosi di polmonite batterica. Qualora sia richiesta la diagnosi di infezione tubercolare sono consigliabili, invece, tre-cinque campioni raccolti a intervalli di un giorno, in quanto l’eliminazione dei micobatteri con le secrezioni bronchiali non è costante. Una volta effettuata la diagnosi di tubercolosi polmonare, la raccolta dell’espettorato deve essere eseguita una volta alla settimana al fine di valutare l’efficacia della terapia. Il campione di espettorato può essere contaminato dalla flora microbica del cavo orale o delle vie aeree superiori e ciò può portare all’isolamento di un microrganismo commensale al posto dell’agente etiologico della polmonite in atto, con conseguente insuccesso della terapia chemio-antibiotica. La contaminazione del campione prelevato dalle vie aeree profonde è meno frequente nel caso che esso venga ottenuto mediante broncoscopio a fibre ottiche, come il lavaggio broncoalveolare. Prima di processare il campione di espettorato, è opportuno, pertanto, stimarne il grado di contaminazione, che si può valutare previo esame batterioscopico con colorazione di Gram volto a determinare il numero relativo di cellule epiteliali squamose (indicative di contaminazione salivare), di neutrofili (indicativi di un processo infiammatorio), di cellule epiteliali colonnari ciliate, che originano dalle vie respiratorie profonde, e di cellule infiammatorie mononucleate, che ricordano i macrofagi alveolari. Viene consigliato di valutare il grado di contaminazione del campione secondo il sistema di Bartlett (tab. 8.1) o secondo il sistema di Murray Tabella 8.1 Sistema di valutazione di Bartlett per stabilire la qualità del campione di

espettorato.

Numero dei neutrofili per campo (ingrandimento 10×)

Grado

 25

+2

Presenza di muco

+1

Numero delle cellule epiteliali squamose per campo (ingrandimento 10×) 10-25

–1

> 25

–2

Totale* * Fare la media del numero delle cellule epiteliali e dei neutrofili in circa 20 o 30 campi microscopici diversi (ingrandimento 10×) e poi calcolare il totale. Il valore finale minore o uguale a 0 indica mancanza di infiammazione attiva o contaminazione con saliva. Dovrebbe essere richiesto un altro campione di espettorato.

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Tabella 8.2 Sistema di valutazione di Murray e Washington per stabilire la qualità del

campione di espettorato.

Gruppo

Numero delle cellule epiteliali squamose per campo (ingrandimento 10×)

Numero dei leucociti per campo (ingrandimento 10×)

1

25

10

2

25

10-25

3

25

25

4

10-25

25

5

< 10

25

e Washington (tab. 8.2). Un’eccessiva presenza di cellule squamose indica una contaminazione salivare e rende, quindi, il campione non idoneo alla successiva processazione (tab. 8.1). Nella maggior parte dei laboratori, tuttavia, vengono ritenuti idonei per la coltura i campioni di espettorato classificati nel grado 4 di Murray e Washington, cioè contenenti più di 25 neutrofili per campo (ingrandimento 10×) anche in presenza di più di 10 cellule epiteliali squamose. Nei campioni in cui siano assenti sia i neutrofili che le cellule squamose non si può escludere la presenza di un’infezione, soprattutto nel caso di pazienti neutropenici. Il grado di contaminazione del campione non è rilevante nel caso si sospettino infezioni sostenute da micobatteri, miceti o virus. Il campione di espettorato si seminerà su terreni di coltura che saranno diversi a seconda che il sospetto clinico sia, ad esempio, di polmonite pneumococcica, di infezione micobatterica o di infezione fungina.

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Urinocoltura

La raccolta del campione di urine deve essere eseguita cercando di evitare la contaminazione con la flora del tratto genitourinario. La raccolta di un campione di urine, preferibilmente effettuata al mattino o almeno 3, o meglio, 5 ore dopo l’ultima minzione, deve essere preceduta, pertanto, da un’adeguata detersione del meato urinario e, nella donna, anche del perineo. Al fine di evitare la contaminazione del campione di urina con la flora uretrale, è opportuno raccogliere il mitto intermedio (5-10 mL), cioè raccogliere il secondo getto di urina dopo avere eliminato il primo. La raccolta di urine può avvenire anche a mezzo di aspirato sovrapubico, ma tale procedura è da riservare solo a quei pochi casi dove sia necessario dirimere risultati equivoci ottenuti con urine da mitto in neonati o in bambini in tenera età. La batteriuria viene considerata significativa quando si è in presenza di una carica maggiore o uguale a 105 unità formanti colonie (CFU)/mL. Questo risultato va comunque interpretato in relazione alla sintomatologia e alle possibili interferenze. Così è possibile che il campione sia falsamente positivo nel caso in cui il prelievo non sia stato raccolto in modo corretto. Ciò è rivelato dall’isolamento di flora polimicrobica (tre o più specie microbiche) o di specie microbiche diverse su prelievi consecutivi. L’isolamento di due specie microbiche in concentrazione simile indica una probabile contaminazione, mentre se una delle due specie prevale nettamente sull’altra si segnala solo la specie prevalente. D’altra parte, il campione può risultare falsamente negativo in caso di pollachiuria, elevata concentrazione di urea, elevata leucocituria in presenza della quale numerosi batteri possono essere adesi allo stesso leucocita e, pertanto, contribuire alla formazione della stessa colonia, nonché per la recente somministrazione di chemio-antibiotici. In una giovane donna sessualmente attiva, affetta da sindrome uretrale acuta, la carica anche di 100 CFU/mL è significativa in presenza di una concomitante piuria. Qualora la sintomatologia clinica non sia così eclatante, è

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necessario confermare la diagnosi sottoponendo a indagine campioni di urina raccolti in due giorni consecutivi. In caso di tubercolosi renale, si consiglia di ripetere l’esame per tre-cinque volte a intervalli di un giorno, in quanto l’eliminazione dei micobatteri con le urine non è costante. Qualora il prelievo sia stato raccolto a mezzo di puntura sovrapubica ogni carica batterica è significativa. Il campione di urine si semina su terreni utili per valutare la carica microbica e appropriati per assicurare la crescita delle specie batteriche che frequentemente sono coinvolte in infezioni delle vie urinarie.

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Coprocoltura

La raccolta di un campione di feci è semplice, ma l’isolamento degli agenti patogeni presenti in questo distretto è complicato dall’abbondante flora microbica commensale dell’intestino. Il campione deve essere trasportato al laboratorio entro 1 ora dalla raccolta oppure una quantità di feci di almeno 2 grammi, prelevata con un tampone, deve essere trasferita in un terreno di trasporto (Stuart o Amies). Per l’isolamento di microrganismi patogeni appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae, il campione viene inoculato in un terreno liquido, ad esempio il brodo al selenito F. In tale coltura, detta di arricchimento, il selenito di sodio (4%) inibisce molti batteri della flora commensale dell’intestino tra cui Escherichia coli e altri batteri coliformi, batteri gram-positivi e lieviti. Questa inibizione di fatto consiste nell’induzione di una prolungata fase di latenza di tali microrganismi, mentre le specie appartenenti al genere Salmonella e Shigella, essendo molto meno inibite, dopo una fase di latenza di poche ore, entrano in fase di crescita logaritmica. Si ha, così, un’alterazione del rapporto tra specie patogene e microrganismi commensali, che indubbiamente favorisce l’isolamento delle prime. Tuttavia, dopo 8-12 ore, il selenito F non è più in grado di inibire la crescita dei microrganismi commensali e, pertanto, è necessario effettuare una subcoltura dal selenito F in un terreno selettivo per specie appartenenti al genere Salmonella e Shigella, quali l’agar SS o l’agar HE (Hektoen enteric). L’agar SS inibisce la crescita di batteri gram-positivi e di molti batteri gram-negativi, inclusi i coliformi, grazie all’alta concentrazione di sali biliari (8,5%) e di sodio citrato (8,5%) in esso contenuti. Campylobacter jejuni sottospecie jejuni, che frequentemente sostiene una enterite acuta, viene isolato dal 4 al 35% dei campioni fecali. Questo microrganismo può sostenere anche artrite settica, meningite, proctocolite e, recentemente, è emerso che il 2040% dei pazienti affetti dalla sindrome di Guillain Barré, una malattia demielinizzante acuta dei nervi periferici, era stato infettato da Campylobacter jejuni una-tre settimane prima dell’insorgenza dei sintomi neurologici. L’isolamento di questo microrganismo prevede che un campione di feci venga direttamente seminato su un terreno di coltura selettivo per le specie appartenenti al genere Campylobacter e incubato in microaerofilia (5% ossigeno, 10% CO2, 85% azoto) a 42 °C per 48-72 ore. In molti laboratori la percentuale di isolamento di specie appartenenti al genere Campylobacter ha superato la percentuale dell’isolamento combinato dei classici patogeni enterici appartenenti al genere Salmonella e Shigella. Anche altre specie batteriche possono sostenere sindromi diarroiche o dissenteriche, ma la frequenza di tali agenti patogeni è sufficientemente bassa da precluderne la ricerca routinaria nelle feci. Tra questi microrganismi è opportuno ricordare Yersinia enterocolitica, Yersinia pseudotuberculosis, Escherichia coli enterotossigeno, Escherichia coli enteropatogeno, Escherichia coli enteroinvasivo, Escherichia coli enteroemorragico, Escherichia coli enteroaggregativo, che vanno, invece, ricercati ogni qual volta ci sia una precisa indicazione clinico/epidemiologica. L’identificazione di tali ceppi di E. coli viene prevalentemente effettuata tramite sierotipizzazione, identificazione sierologica di fattori antigenici favorenti la colonizzazione, dimostrazione della produzione di tossine, identificazione dei geni che codificano per i fattori di virulenza. L’aumento del turismo e del commercio di alcuni alimenti, in particolare molluschi

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e crostacei, deve fare pensare anche a infezioni sostenute da specie appartenenti al genere Vibrio, specialmente in certe aree geografiche. In zone non endemiche non è, però, necessario ricercare specificamente gli agenti patogeni appartenenti a tale genere, a meno che non ci sia uno specifico sospetto clinico. In questo caso, un campione di feci deve essere raccolto nella fase iniziale della malattia e immediatamente inviato al laboratorio. Le specie appartenenti al genere Vibrio sono sensibili all’essiccamento, alla luce e al pH acido. Se il campione non viene tempestivamente seminato, pertanto, deve essere inoculato nel terreno di trasporto semisolido di Cary-Blair, nel quale tali specie sopravvivono più a lungo, e refrigerato. Il campione si semina in un terreno liquido, l’acqua peptonata alcalina, che contiene peptone (1%) e NaCl (1%) a pH 8,6. In tale coltura di arricchimento, l’alto valore di pH inibisce la crescita di molti batteri della flora commensale dell’intestino, permettendo la moltiplicazione delle specie appartenenti al genere Vibrio. Tuttavia, dopo 12-18 ore è necessario effettuare una subcoltura dall’acqua peptonata alcalina su un terreno selettivo e discriminativo, quale l’agar saccarosio tiosolfato citrato ai sali biliari (TCBS), in quanto l’acqua peptonata alcalina non è più in grado di inibire la crescita dei microrganismi commensali. Ovviamente, se si presume che nel campione la carica batterica sia elevata, questo può essere seminato direttamente su agar TCBS. Le reazioni differenziali su agar TCBS sono di ausilio per un’identificazione presuntiva di specie. Vibrio cholerae e Vibrio alginolyticus, che fermentano il saccarosio, producono colonie gialle, mentre Vibrio parahaemolyticus e Vibrio vulnificus, che non fermentano il saccarosio, danno origine a colonie blu-verdi. La definitiva identificazione dei ceppi isolati viene effettuata a mezzo di saggi biochimici e sierologici.

Identificazione Una volta che dal campione biologico si sia verificata, sui terreni solidi opportuni, la crescita di colonie batteriche isolate si procede all’identificazione. La determinazione di specie si basa sul profilo di assimilazione degli zuccheri e sulla produzione di specifici enzimi o prodotti metabolici da parte del germe in esame. La fermentazione degli zuccheri viene evidenziata a mezzo di un indicatore di pH presente nel terreno, il quale cambia colore quando il mezzo colturale diventa acido come conseguenza della metabolizzazione dello zucchero. L’utilizzazione metabolica di altri substrati può essere accompagnata da un aumento di pH e un indicatore di pH cambia colore quando il terreno diventa alcalino. La produzione di idrogeno gassoso e/o anidride carbonica durante la fermentazione degli zuccheri è valutata mediante la rilevazione del gas prodotto. La produzione di idrogeno solforato (H2S) da parte di un microrganismo, ad esempio, è rilevata in un terreno contenente ferro ferrico, quale l’agar TSI (triple sugar iron): se viene prodotto idrogeno solforato, il ferro ferrico (Fe3+) reagisce con esso formando solfuro ferrico, il quale precipita conferendo una colorazione nera al terreno. Nonostante siano stati sviluppati centinaia di differenti test biochimici, soltanto una ventina sono abitualmente impiegati in diagnostica e di questi pochi (tre-cinque) sono quelli chiave per un’identificazione certa. Attualmente, nei laboratori di microbiologia clinica, si utilizzano routinariamente kit biochimici miniaturizzati allestiti per sistemi automatizzati dotati di un software e di un sistema esperto, il quale contiene il profilo biochimico tipico di molte specie microbiche. Il software trova la migliore corrispondenza confrontando le caratteristiche metaboliche del microrganismo in esame con i profili metabolici presenti nel sistema esperto e valuterà, quindi, la probabilità con cui il profilo biochimico del microrganismo in esame corrisponde a una particolare specie. Per l’isolamento colturale classico dei micobatteri si rimanda al capitolo specifico. Oggi sono disponibili strumentazioni automatizzate in grado di rilevare, con metodi radiometrici o fluorimetrici, la crescita dei micobatteri in coltura liquida, consentendo una refertazione in tempi molto più rapidi.

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Antibiogramma L’antibiogramma ha lo scopo di saggiare la suscettibilità in vitro di un microrganismo, isolato in coltura pura, verso un pannello di chemio-antibiotici. L’antibiogramma può essere effettuato con metodi manuali o con strumentazioni semiautomatizzate ed è di grande ausilio per assicurare una terapia mirata contro un’infezione batterica. Per approfondimenti su questo argomento si rimanda al capitolo ad esso dedicato.

Diagnosi rapida

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Metodi immunologici

Tecniche immunologiche applicate alla ricerca diretta di antigeni microbici sul materiale biologico consentono di effettuare una diagnosi rapida. Le metodiche più utilizzate sono l’agglutinazione su particelle di lattice, il saggio immunoenzimatico (Enzyme-Linked ImmunoSorbent Assay; ELISA) e il saggio di immunocromatografia su membrana. Anticorpi specifici verso un particolare antigene microbico sono adsorbiti in fase solida (su particelle di lattice nel test di agglutinazione, sulla superficie interna di un pozzetto di una piastra nel saggio immunoenzimatico, su membrana di nitrocellulosa nel saggio di immunocromatografia su membrana). Se l’antigene è presente nel campione, questo si lega all’anticorpo. Se quest’ultimo è adsorbito su particelle di lattice si evidenzia un epifenomeno ben apprezzabile, si ha, cioè, un agglutinato (reazione di agglutinazione positiva). Se invece l’anticorpo è adsorbito sulla superficie interna di un pozzetto di una piastra o su membrana di nitrocellulosa, l’epifenomeno non è altrettanto evidente. Pertanto, in questi casi, è necessario utilizzare un secondo anticorpo verso l’antigene; tale anticorpo viene preventivamente coniugato a un enzima come la perossidasi. Quando si forma il complesso antigene-anticorpo, anche il secondo anticorpo, coniugato alla perossidasi, si legherà all’antigene. Dopo un lavaggio per eliminare gli anticorpi in eccesso, si aggiunge perossido di idrogeno e il substrato cromogeno. La perossidasi riduce il perossido di idrogeno e ossida il substrato cromogeno producendo colore (reazione del saggio immunoenzimatico positiva o reazione di immunocromatografia positiva, rispettivamente). Nel caso in cui l’antigene non sia presente nel campione, esso non potrà legarsi né all’anticorpo adsorbito né al secondo anticorpo coniugato alla perossidasi. Quest’ultimo, quindi, verrà portato via dal lavaggio e, venendo così a mancare anche la perossidasi, l’aggiunta di perossido di idrogeno e del substrato non produrrà colore. Tecniche immunologiche rapide vengono comunemente eseguite sul campione di liquor o sul centrifugato da esso ottenuto per la ricerca degli antigeni batterici di streptococchi di gruppo B, Streptococcus pneumoniae, alcuni sierotipi di Neisseria meningitidis, Escherichia coli (antigene capsulare K1 cross-reagisce con quello di Neisseria meningitidis tipo B) e Haemophilus influenzae tipo B. Sul campione di espettorato è possibile eseguire una reazione diretta di rigonfiamento capsulare, la Quellung reaction di Neufeld, con siero polivalente per la ricerca di pneumococchi. In seguito al legame con anticorpi anticapsulari specifici, si verifica un cambiamento conformazionale degli strati polisaccaridici capsulari di Streptococcus pneumoniae con contestuale cambiamento dell’indice di rifrangenza e rigonfiamento capsulare visibile all’esame batterioscopico diretto.

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Diagnosi molecolare

I progressi verificatisi in biologia molecolare negli ultimi anni hanno aperto nuove frontiere all’identificazione dei microrganismi. Alcune metodiche di biologia molecolare sono state applicate, infatti, con successo in microbiologia clinica. Tra queste si sono sviluppate principalmente metodiche che si basano sull’analisi di componenti proteiche (spettrometria di massa, box 8.1) o delle sequenze geniche dei microrganismi. L’analisi delle sequenze geniche è rilevante soprattutto per identificare i microrga-

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nismi che non possono essere coltivati in vitro, o il cui isolamento con le metodiche classiche è difficile, inefficiente, non riproducibile o troppo prolungato (micobatteri) e anche per la ricerca dei geni di resistenza antimicrobica. Alcune metodiche di identificazione si basano sull’impiego di sonde di acido nucleico, cioè sequenze di acido nucleico a singolo filamento che possono ibridare specificamente con una sequenza complementare presente nel microrganismo in esame. La sonda marcata con enzimi, molecole chemiluminescenti, o radioisotopi può essere rapidamente individuata da sistemi automatizzati. Una sonda può essere costruita per ricercare il DNA o l’RNA. La sonda di DNA può essere utilizzata per fare diagnosi rapida di microrganismi di difficile isolamento direttamente sul campione clinico o per confermare una diagnosi a partire dal microrganismo isolato in coltura. Nel primo caso, il limite di sensibilità di questa metodica è di circa 104-106 copie della sequenza di acido nucleico specifico. Quando la sonda viene, invece, utilizzata sul microrganismo isolato in coltura, il numero di copie della sequenza di acido nucleico specifico è sufficiente per avere un rilevamento efficace. Quando è prevista la fase di amplificazione del DNA (vedi oltre), la sonda può arrivare a diagnosticare persino la presenza di dieci copie (in alcuni casi anche meno) della sequenza nucleotidica ricercata. In microbiologia clinica le sonde vengono ampiamente utilizzate, ad esempio, per l’identificazione dei micobatteri la cui crescita su terreno liquido è stata rilevata da sistemi radiometrici o fluorimetrici. In diagnostica molecolare la metodica più utilizzata è la reazione polimerasica a catena (Polymerase Chain Reaction, PCR). La PCR si basa sulla capacità della DNA Figura 8.2 Reazione polimerasica a catena. L’amplificazione selettiva del segmento di DNA bersaglio si ottiene tramite la ripetizione per molte volte del ciclo di amplificazione. Ogni ciclo consta di una fase di denaturazione (9095 °C) del DNA in singoli filamenti, una fase di appaiamento (55-60 °C) dei primer, che sono sequenze nucleotidiche complementari alle sequenze localizzate alle estremità della sequenza bersaglio, e una fase di estensione (72 °C) durante la quale la DNA polimerasi catalizza la sintesi dei filamenti di DNA complementari alla sequenza bersaglio.

DNA bersaglio

5' 3'

3' 5'

Denaturazione 5'

3'

3'

5' Appaiamento dei primer

5'

3' 3' 5'

5'

3'

3'

5' Estensione

5'

3' 3' 5'

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5' Duplicazione del DNA bersaglio

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polimerasi di copiare un filamento di DNA previo appaiamento dei primer, che sono sequenze oligonucleotidiche fiancheggianti la sequenza bersaglio (fig. 8.2). Quando i due primer si legano ai filamenti complementari fiancheggianti un DNA bersaglio, la sequenza compresa tra i due siti di legame dei primer viene amplificata esponenzialmente dopo ciascun ciclo del processo. Ciascun ciclo consiste di una fase di denaturazione a caldo, in cui il DNA bersaglio a doppio filamento si separa nei due filamenti di DNA, una fase di annealing, in cui il DNA dei primer si appaia al filamento complementare, e una fase di estensione, in cui la DNA polimerasi copia il DNA bersaglio compreso tra i due primer. Alla fine di ciascun ciclo della reazione polimerasica a catena i filamenti di DNA sono duplicati. L’intera procedura si svolge all’interno di strumenti programmabili detti termociclatori. Generalmente, 25-40 cicli sono sufficienti a ottenere una quantità di DNA bersaglio evidenziabile attraverso migrazione elettroforetica. I limiti delle metodiche molecolari sono:

• la facile contaminazione di campioni negativi con il DNA stampo o con il con• • • •

trollo positivo o con un campione eventualmente positivo di un altro paziente analizzato contemporaneamente; l’amplificazione di DNA anche di batteri ormai morti in seguito a trattamento chemio-antibiotico; una possibile cross-reattività con microrganismi diversi; la produzione di risultati falsamente negativi, ad esempio, per la presenza di inibitori degli enzimi usati nel processo di amplificazione; la necessità di utilizzare una coppia di primer specifica per una particolare specie microbica.

BOX 8.1 • Matrix Assisted Laser Desorption/Ionization Time-of-Flight (MALDI-TOF) La spettrometria di massa è una tecnica analitica estremamente sensibile sviluppata nel corso del XX secolo per acquisire conoscenze sulla massa molecolare di composti ignoti e per determinare la quantità di composti noti. Con l’introduzione di un metodo di ionizzazione per desorbimento blando (MALDI-TOF) la spettrometria di massa è divenuta uno strumento efficace per l’analisi delle macromolecole biologiche, consentendo di ampliare notevolmente l’intervallo di massa rilevabile in modo accurato, dapprima limitato a molecole minori di 1500 Da. La ionizzazione della molecola da analizzare è indotta da un brevissimo (ns) ma intenso impulso di luce laser ultravioletta. Per essere efficace, la radiazione ultravioletta deve essere assorbita. Per tale motivo il campione viene co-cristallizzato con una matrice solida che assorbe alla lunghezza d’onda (337 nm) prodotta da un laser ad azoto. L’energia dell’impulso laser è in grado di indurre sia la ionizzazione che la volatilizzazione dell’analita. Questa tecnica di ionizzazione blanda, consentendo l’analisi di molecole biologiche di massa molecolare superiore a 10 kDa, è stata applicata con successo all’identificazione dei microrganismi. Essa prevede che un’aliquota di una colonia batterica opportunamente lisata e co-cristallizata con una matrice organica solida sia ionizzata per desorbimento blando, ottenendo ioni in fase gassosa. Gli ioni che si originano vengono accelerati da un campo elettrico in condizioni di depressurizzazione e discriminati sulla base del loro rapporto massa/ca-

rica rilevato dal tempo impiegato dagli ioni a raggiungere un detector posto all’estremità opposta del tubo di volo (fig. 8.3). Infatti, la velocità di una molecola ionizzata in un campo elettrico è inversamente proporzionale al suo rapporto massa/carica. Lo spettro di massa così acquisito, che è espressione di uno spettro proteico caratteristico della specie microbica in esame, viene analizzato da un software e paragonato con gli spettri di riferimento disponibili in banca dati. In base alla similarità dei picchi proteici del ceppo in esame con uno spettro proteico di riferimento viene identificato in pochi minuti il genere (e/o specie) espresso insieme a un valore numerico (score) che indica l’accuratezza di identificazione microbica. Il processo di identificazione effettuato con questa metodica è molto più rapido rispetto all’identificazione effettuata in base alle caratteristiche biochimiche del ceppo, che richiede almeno 18 ore di incubazione a 37 °C. Inoltre, l’applicazione del MALDI-TOF ha notevolmente ampliato lo spettro di specie microbiche identificabili e tale spettro potrà essere ulteriormente ampliato nel prossimo futuro. L’applicazione del MALDI-TOF in microbiologia clinica, che ha già rivoluzionato la diagnostica batteriologica e micologica, è ancora oggi in fase di sviluppo per le sue potenzialità nella tipizzazione di ceppi appartenenti alla stessa specie nonché nella rilevazione di eventuali resistenze agli antibiotici.

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Figura 8.3 Spettrometria di massa.

Detector

4000

Intensità (a.u.)

A

Tubo di volo

3000

2000

1000

Vuoto

0 2000

4000

6000

8000

10 000

12 000

14 000

16 000

18 000

m/z

Campo elettrico

Impulso di raggio laser UV

Piastrina metallica

Per aumentare lo spettro delle specie microbiche identificabili si può utilizzare la multiplex PCR, che prevede l’uso di coppie di primer multipli entro la stessa provetta di reazione, ciascuna coppia capace di amplificare i frammenti di acido nucleico di un particolare microrganismo. Dalla descrizione iniziale della PCR, oltre alla multiplex PCR, sono state messe a punto altre eleganti metodiche di amplificazione dell’acido nucleico bersaglio, quali la Nested PCR, la 3SR (Self-Sustaining Sequence Replication) o NASBA (Nucleic Acid Sequence-Based Amplification) e la SDA (Strand Displacement Amplification). Alcune metodiche, invece di amplificare la sequenza bersaglio, amplificano la sonda utilizzata per individuare la sequenza genica di interesse, quali la Qβ Replicase e la Ligase Chain Reaction (LCR). La SDA è entrata in uso per la diagnosi di micobatteri del complesso tubercolare (Mycobacterium tuberculosis, Mycobacterium africanum, Mycobacterium bovis, Mycobacterium microti), micobatteri del complesso avium-intracellulare (Mycobacterium avium, Mycobacterium intracellulare), Mycobacterium kansasii, Legionella pneumophila, Mycoplasma pneumoniae, microrganismi appartenenti alla famiglia delle Chlamydiaceae e Neisseria gonorrhoeae. Un’altra metodica molto sensibile di recente introduzione prevede l’utilizzo di cartucce sigillate monouso contenenti tutti i reagenti necessari all’esecuzione della Real-Time PCR al fine di minimizzare il rischio di contaminazione. Tale metodica, entrata in uso, ad esempio, per l’identificazione di M. tuberculosis, consente una valutazione semi-quantitativa del materiale genetico presente nel campione in esame. Tale quantificazione fornisce un indice indiretto della carica microbica in meno di due ore.

8.2 - Diagnosi indiretta Determinazioni sierologiche La diagnosi indiretta di un’infezione batterica con tecniche immunologiche è tesa a rilevare una risposta immunitaria umorale specifica dell’ospite all’agente infettivo.

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Capitolo 8 • Diagnosi batteriologica

Le IgM normalmente sono transitorie e indicative di un’infezione primaria recente, mentre le IgG compaiono più tardivamente, raggiungono un picco 4-6 settimane dopo l’infezione e, spesso, persistono per tempi prolungati. In alcuni casi anche le IgM possono persistere a lungo. È buona norma ricercare le IgG su campioni successivi, il primo prelevato entro cinque-sette giorni dall’inizio dell’infezione e il secondo tre-quattro settimane dopo. Al fine di diagnosticare un’infezione attiva è necessario rilevare un incremento del titolo anticorpale delle IgG di almeno quattro volte nei due campioni successivi. I saggi immunologici tradizionali sono la reazione di fissazione del complemento e la reazione di agglutinazione. La reazione di fissazione del complemento si applica, ad esempio, alla reazione di Wassermann, per la diagnosi di sifilide. Tale reazione si basa sulla capacità del complemento di legarsi a complessi immuni. A tale scopo si usa un “antigene” lipidico non treponemico, la cardiolipina. La cardiolipina purificata è ottenuta dal cuore di bovino e richiede l’aggiunta di lecitina e colesterolo per reagire con la reagina sifilitica. La reagina composta da IgM e IgA si ritrova nel siero dei pazienti non trattati due-tre settimane dopo l’inizio dell’infezione. Il siero del paziente deve essere scomplementato per riscaldamento a 56 °C per 20 minuti, e il complemento rappresentato da siero fresco, spesso di coniglio, deve essere aggiunto alla reazione in quantità scrupolosamente titolata. Le reagine contenute nel siero di pazienti infettati da Treponema pallidum fissano, pertanto, il complemento in presenza della cardiolipina. Si deve accertare che il siero non sia anticomplementare. Per evidenziare l’epifenomeno è necessario aggiungere un sistema rivelatore. Esso è costituito da emazie (spesso di montone) e anticorpi specifici anti-emazie di montone. Il sistema di rivelazione lega il complemento libero (non fissato dalla precedente reazione). Si considera, pertanto, la reazione positiva quando non si ha emolisi e negativa quando si evidenzia l’emolisi. Data la presenza di reagine in numerose affezioni dell’uomo, la reazione di Wassermann può risultare positiva anche in assenza di infezione treponemica, ad esempio in caso di malattie infettive quali malaria, lebbra, morbillo, mononucleosi infettiva, in malattie del collagene, quali lupus eritematoso sistemico, poliarterite nodosa, disturbi reumatici e, persino, in condizioni fisiologiche, quale la gravidanza. La reazione di Wassermann può, d’altro canto, risultare negativa nella sifilide primaria per cui, in caso di sospetta infezione, l’esame dovrebbe essere ripetuto dopo una settimana, un mese e tre mesi. La reazione di agglutinazione si applica, ad esempio, alla reazione di Wright per la diagnosi di brucellosi e alla reazione di Widal per la diagnosi di salmonellosi. L’antigene corpuscolato comunemente consiste di sospensioni di microrganismi, di cellule (ad es. emazie) o di particelle uniformi come il lattice sulle quali siano stati adsorbiti gli antigeni. Per valutare il titolo (vedi oltre in questo stesso paragrafo) degli anticorpi agglutinanti si utilizza una serie di provette in ciascuna delle quali si mette una quantità fissa di antigene e diluizioni scalari di siero in ragione di due. In presenza di siero contenente anticorpi specifici, si formano aggregati di complessi immuni che risultano visibili. In molti casi si osserva il fenomeno paradosso della prezona che consiste nella mancanza di agglutinazione in provette contenenti siero poco o non diluito. Spesso tale fenomeno è dovuto alla presenza di anticorpi bloccanti monovalenti che, legandosi alle cellule, mascherano i determinanti antigenici agli anticorpi agglutinanti. La reazione di agglutinazione risulterà, tuttavia, positiva a maggiori diluizioni di siero. La presenza di anticorpi bloccanti può essere messa in evidenza con anticorpi antimmunoglobuline, i quali, stabilendo dei ponti tra gli anticorpi bloccanti, provocano l’agglutinazione delle cellule (test di Coombs). I saggi immunologici introdotti più recentemente per la diagnosi delle malattie infettive sono il saggio immunoenzimatico (enzyme immunoassay, EIA), il saggio radioimmunologico (radioimmunoassay, RIA) e il saggio di immunofluorescenza (immunofluorescence assay, IFA). Essi utilizzano per l’individuazione di anticorpi un enzima che reagirà con un substrato nel saggio immunoenzimatico, una sonda radio-

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Figura 8.4 Saggio immunoenzimatico.

+ substrato

attiva nel saggio radioimmunologico o un fluorocromo nel saggio di immunofluorescenza. Nel saggio immunoenzimatico, ad esempio, l’antigene può essere adsorbito a un pozzetto di una piastra (fig. 8.4). Se il siero aggiunto contiene l’anticorpo specifico si forma un complesso antigene-anticorpo. Per rivelare l’epifenomeno si aggiunge un’antimmunoglobulina specifica contro tale anticorpo e coniugata a un enzima come la fosfatasi alcalina o la perossidasi. Si effettua quindi un lavaggio per eliminare l’antimmunoglobulina in eccesso e, nel caso essa sia stata coniugata alla perossidasi, si aggiunge perossido di idrogeno e il substrato cromogeno. La perossidasi riduce il perossido di idrogeno e ossida il substrato cromogeno producendo colore. Nel caso, invece, in cui l’anticorpo non sia presente nel campione, esso non potrà legarsi all’antimmunoglobulina coniugata con la perossidasi. Quest’ultima, quindi, verrà portata via dal lavaggio e, venendo di conseguenza a mancare anche la perossidasi, l’aggiunta del perossido di idrogeno e del substrato cromogeno non produrrà alcun colore. Per valutare il titolo anticorpale si effettua la reazione in presenza di diluizioni scalari di siero in ragione di due. Il titolo anticorpale è la diluizione massima del siero alla quale l’epifenomeno della reazione antigene-anticorpo risulta ancora apprezzabile. La diagnosi indiretta è, ovviamente, più tardiva di quella diretta, in quanto si può ricorrere ad essa soltanto quando si sia già sviluppata la reattività immunitaria dell’ospite e non è sempre possibile, come, ad esempio, in caso di anergia del paziente. Le indagini sierologiche diventano di ausilio diagnostico, pertanto, soltanto quando il microrganismo sia difficile da isolare o qualora il suo isolamento sia, per qualche ragione, fallito. L’accertamento indiretto, non comportando l’isolamento del germe, preclude la possibilità di saggiare la suscettibilità dell’agente etiologico verso i farmaci antimicrobici.

Bibliografia essenziale Koneman, E.W., Color atlas and textbook of diagnostic microbiology, Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia, 1997 Lanciotti, E., Microbiologia clinica, 4a ed., Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 2017. Murray, P.R., Baron, E.J., Pfalle,r M.A., Tenover, F.C., Yolken, R.H., Manual of clinical microbiology, ASM Press, Washington D.C., 1999.

Capitolo

9

Farmaci antibatterici

La chemioterapia delle infezioni batteriche è considerata una delle più significative acquisizioni della medicina moderna e ha avuto un ruolo determinante nell’incremento dell’aspettativa di vita della popolazione, modificando la prognosi di molte malattie infettive (ad es. febbre tifoide, polmonite lobare, meningiti batteriche, tubercolosi) e permettendo al tempo stesso il successo di trattamenti medici e chirurgici che implicano un aumentato rischio di infezioni batteriche (ad es. interventi di chirurgia addominale, trapianti di tessuto e organo, chemioterapie antitumorali, terapie immunosoppressive). Il capitolo dei farmaci antibatterici è argomento interdisciplinare. La Microbiologia medica se ne occupa dal punto di vista dei meccanismi di azione dei farmaci antibatterici, dei meccanismi di resistenza ai farmaci che i batteri possono sviluppare, e delle metodiche impiegate in laboratorio per valutare l’attività di questi farmaci allo scopo di fornire informazioni utili al clinico per la scelta della terapia antibiotica.

9.1 - Definizioni e classificazione dei farmaci antibatterici I farmaci antibatterici sono prodotti di origine naturale o di sintesi che inibiscono la crescita batterica a concentrazioni che non risultano tossiche per l’organismo (tossicità selettiva) e che possono essere utilizzati per la chemioterapia delle infezioni batteriche. I prodotti di origine naturale (generalmente derivati da funghi o da altri batteri) sono detti antibiotici, mentre quelli ottenuti per sintesi chimica sono denominati chemioterapici. Questa distinzione, tuttavia, risulta sfumata per il fatto che alcuni di questi farmaci sono generati per modificazioni chimiche di prodotti naturali (antibiotici semisintetici), mentre altri, pur essendo originariamente prodotti naturali, sono attualmente ottenuti interamente per sintesi chimica. Di fatto, il termine antibiotico viene spesso utilizzato come sinonimo di farmaco antibatterico. I farmaci antibatterici vanno distinti dai disinfettanti/antisettici, sostanze provviste di attività antimicrobica che spesso si estende anche ad altri tipi di microrganismi (funghi e virus), utilizzate per la disinfezione di oggetti e superfici (anche corporee). I farmaci antibatterici possono essere classificati secondo vari criteri: struttura chimica, caratteristiche farmacocinetiche, meccanismo d’azione. L’azione antibatterica di ciascun farmaco dipende dall’interazione specifica con uno o più bersagli molecolari a livello della cellula batterica. I bersagli molecolari possono essere enzimi coinvolti nella biosintesi di strutture essenziali per la sopravvivenza e la crescita cellulare, substrati utilizzati in vie metaboliche essenziali, o componenti strutturali responsabili dell’integrità della cellula batterica. I principali bersagli molecolari dei farmaci antibatterici sono illustrati in tabella 9.1. L’azione antibatterica che consegue all’interazione del farmaco con il bersaglio molecolare può avere come conseguenza un arresto reversibile della crescita batterica oppure la morte cellulare. Nel primo caso, la crescita batterica può riprendere se

• Definizione e classificazione • Meccanismo d’azione • Valutazione dell’attività in vitro • Resistenza intrinseca e resistenza acquisita • Principali meccanismi di resistenza

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Tabella 9.1 Principali bersagli molecolari dei farmaci antibatterici.

Bersagli molecolari a livello della cellula batterica

Principali classi di farmaci

Enzimi o substrati coinvolti nella biosintesi del peptidoglicano

Fosfomicina Glicopeptidi

β-Lattamici DNA topoisomerasi di tipo II

Chinoloni

RNA polimerasi

Ansamicine Lipiarmicine

Ribosoma batterico e altri fattori coinvolti nella sintesi proteica

Aminoglicosidi Oxazolidinoni Tetracicline Fenicoli Macrolidi Lincosamine Streptogramine Pleuromutiline Mupirocina Acido fusidico

Enzimi coinvolti nella biosintesi dei folati

Sulfamidici Trimetoprim

il farmaco viene allontanato e si parla di azione batteriostatica. Nel secondo caso, l’interazione del farmaco con il proprio bersaglio molecolare provoca un danno cellulare irreversibile e si parla di azione battericida. L’azione batteriostatica o battericida dipende primariamente dalla natura dei farmaci antibatterici e dalla loro modalità di interazione con il bersaglio, ma può anche essere influenzata dalla concentrazione del farmaco stesso e dalla specie batterica. Di seguito sono descritti i principali antibatterici, classificati sulla base del meccanismo di azione.

Antibatterici che agiscono bloccando la sintesi del peptidoglicano Il peptidoglicano è una struttura essenziale per la maggior parte dei batteri patogeni, mentre è assente nelle cellule eucariotiche. Come tale, la via biosintetica del peptidoglicano rappresenta un bersaglio ideale per farmaci provvisti di tossicità selettiva. I principali farmaci antibatterici che agiscono bloccando la sintesi del peptidoglicano sono la fosfomicina, i glicopeptidi e i β-lattamici, descritti in maggior dettaglio all’interno dei box 9.1-9.3.

Antibatterici che agiscono danneggiando le membrane batteriche La membrana plasmatica batterica ha una struttura generale conservata rispetto alle membrane delle cellule eucariotiche, e per questo motivo è più difficile trovare farmaci antibatterici provvisti di tossicità selettiva che abbiano come bersaglio questa struttura.

Capitolo 9 • Farmaci antibatterici

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I principali farmaci antibatterici che agiscono danneggiando le membrane batteriche sono le polimixine (box 9.4) e la daptomicina (box 9.5).

Antibatterici che agiscono bloccando le DNA topoisomerasi batteriche Le DNA topoisomerasi sono enzimi coinvolti nell’organizzazione spaziale del cromosoma batterico. Due sono le DNA topoisomerasi batteriche importanti come bersagli molecolari di farmaci: la DNA girasi e la DNA topoisomerasi IV, entrambe essenziali per la replicazione del cromosoma batterico. I principali farmaci antibatterici che agiscono bloccando le DNA topoisomerasi sono i chinoloni (box 9.6).

BOX 9.1 • Fosfomicina O

O– P

O

tidoglicano) a partire dall’N-acetilglucosamina e dal PEP. A differenza del PEP, la fosfomicina lega covalentemente l’enzima e lo inattiva irreversibilmente. Ne consegue un effetto battericida.

CH3

O–

Fosfomicina Fosfomicina

La fosfomicina è una molecola di origine naturale con una struttura chimica simile a quella dell’acido fosfoenolpiruvico (PEP), con il quale compete per l’enzima batterico UDP enol-piruvil transferasi (bersaglio molecolare della fosfomicina). Quest’ultimo è responsabile della sintesi dell’acido muramico (precursore e componente essenziale del pep-

La fosfomicina ha un ampio spettro di attività antibatterica (batteri gram-positivi e gram-negativi) e una bassa tossicità. Alcune specie batteriche sono intrinsecamente resistenti alla fosfomicina perché prive dei sistemi di trasporto transmembrana utilizzati dalla fosfomicina per entrare nella cellula batterica (trasportatori del glucosio-6-P e del glicerofosfato).

BOX 9.2 • Glicopeptidi HO

HN H3C

OH O

O

H3C H3C

H O

H N

NH2 O H N

O N H

O HO

O O

Cl

OH H N

N H O

HO

OH

O O H3C

O

O

O

NH2 CH

O

HO

NH

O

che contiene anche una componente lipidica (ed è quindi un lipoglicopeptide). A questa famiglia si sono aggiunte recentemente alcune nuove molecole caratterizzate da una lunga emivita e somministrabili in dose unica (dalbavancina e oritavancina).

CH3

HO

Vancomicina Vancomicina I glicopeptidi sono molecole di origine naturale costituite da una componente glucidica e da una componente peptidica. II capostipite di questa classe è la vancomicina. Altro glicopeptide utilizzato in terapia è la teicoplanina,

I glicopeptidi hanno un’elevata affinità per il dipeptide d-Ala-d-Ala, costituente essenziale dei precursori muropeptidici del peptidoglicano. II legame del glicopeptide con questo bersaglio impedisce sia la reazione di transglicosilazione (responsabile dell’assemblaggio del precursore muropeptidico nella catena nascente di peptidoglicano) sia la reazione di transpeptidazione (responsabile della formazione dei legami crociati tra aminoacidi di catene adiacenti di peptidoglicano). Ne consegue un effetto battericida. I glicopeptidi sono attivi solo sui batteri gram-positivi perché le dimensioni e la natura idrofila di queste molecole ne impediscono il passaggio attraverso la membrana esterna dei batteri gram-negativi, e quindi il raggiungimento del bersaglio molecolare.

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BOX 9.3 • β-Lattamici H N O

O

NH

H S

CH3

N

O

CH3 OH

O Anello Anelloβ-lattamico β-lattamico

luppo di un gran numero di farmaci β-lattamici, che si differenziano tra di loro per spettro di attività antibatterica e/o caratteristiche farmacocinetiche. Le principali sottofamiglie di β-lattamici sono:

• le penicilline (ad es. penicillina G, oxacillina, ampicillina,

ticarcillina, piperacillina), con spettro di attività variabile;

PenicillinaGG Penicillina

I β-lattamici sono molecole di origine naturale che hanno, nella loro struttura, un anello β-lattamico. Il capostipite di questa famiglia di farmaci è la penicillina G, il primo antibiotico utilizzato in terapia. L’anello β-lattamico ha una somiglianza strutturale con il dipeptide d-Ala-d-Ala, con il quale compete per gli enzimi (transpeptidasi) responsabili della formazione dei legami crociati tra le catene del peptidoglicano. A differenza del substrato naturale, l’anello β-lattamico lega covalentemente l’enzima e lo inattiva irreversibilmente, con conseguente effetto battericida. È per la capacità di legare gli antibiotici β-lattamici che gli enzimi bersaglio di questi farmaci sono anche detti penicillin-binding proteins (PBP). L’anello β-lattamico è un nucleo versatile, che può essere incluso in diversi tipi di strutture chimiche per ottenere composti ad attività antibatterica. Ciò ha permesso lo svi-

• le cefalosporine, subclassificate in generazioni: ce-

falosporine di prima e seconda generazione (ad es. cefazolina, cefamandolo) con spettro di attività più ristretto; cefalosporine di terza e quarta generazione (ad es. cefotaxime, ceftriaxone, ceftazidime, cefepime) con spettro di attività più esteso sui patogeni gram-negativi; cefalosporine di quinta generazione (ad es. ceftarolina e ceftobiprolo) con attività nei confronti di Staphylococcus aureus meticillino-resistente;

• i carbapenemi (ad es. imipenem, meropenem, ertape-

nem) provvisti di uno spettro di attività molto ampio, e considerati farmaci di riserva per il trattamento di infezioni da batteri gram-negativi resistenti agli altri β-lattamici;

• i monobattami (aztreonam), attivi solamente sui batteri gram-negativi.

Per efficacia, tollerabilità e versatilità gli antibiotici β-lattamici sono i farmaci antibatterici più utilizzati in terapia antibiotica.

BOX 9.4 • Polimixine Le polimixine (lipopeptidi ciclici costituiti prevalentemente da aminoacidi basici) sono molecole di origine naturale. Le polimixine utilizzate in terapia sono la polimixina B e la colistina (o polimixina E). L’interazione delle polimixine con il bersaglio molecolare, rappresentato dal lipide A del lipopolisaccaride batterico (componente strutturale fondamentale della membrana esterna dei batteri gram-negativi) determina una profonda NH2 O A CH3

N H

H N O H3C

alterazione delle membrane batteriche (inclusa la membrana plasmatica), con conseguente effetto battericida. Lo spettro di attività antibatterica delle polimixine è limitato ai batteri gram-negativi. La discreta tossicità che contraddistingue questa classe di antibatterici ne limita l’uso come farmaci di riserva per le infezioni da patogeni gram-negativi multiresistenti. NH2

O N H

H N

O

H N

O

O

CH

HO HN O

H N N H NH2 O

CH3 O N H

HN

O NH2

Polimixina B Polimixina B

H N

CH3 CH3 O

NH2

Capitolo 9 • Farmaci antibatterici

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BOX 9.5 • Daptomicina La daptomicina è un lipopeptide ciclico che, in presenza di ioni Ca2+, lega la membrana plasmatica batterica e la danneggia irreversibilmente, con un rapido effetto battericida.

dimensioni della molecola non ne consentono il passaggio attraverso la membrana esterna dei batteri gram-negativi. Introdotta solo recentemente nella pratica clinica, la daptomicina rappresenta un farmaco di riserva per la terapia delle infezioni da patogeni gram-positivi multiresistenti (ad es. stafilococchi meticillino-resistenti).

Lo spettro di attività antibatterica della daptomicina è limitato solamente ai batteri gram-positivi, dato che le grandi

O

O O H3C

H N

4

NH O

O

H2N OH H3C H N

H3C O

O

H N

O

NH2 O O

H N

O

OH

O

H

O O

O O

H N O O O H O H

NH O O OH

O NH2

CH3

Daptomicina

R3

BOX 9.6 • Chinoloni

O

COOH R3 X

N

R2

1 R3 R

O

R3

R2 X 1 R

O COOH H3C

N

COOH N H3C

O

O OH

O

O

O

N

OH

O

DNA topoisomerasi IV) mentre lavorano sul DNA, formando un complesso ternario che blocca l’attività dell’enzima quando questo ha tagliato la molecola di DNA. Ne conOH la frammentazione del cromosoma batterico e un segue rapido effetto battericida.

N N N N H3C H 3C Acido nalidixico R3 H 3C Anello chinolonico II capostipite di questa classe di farmaci è l’acido naliAnello Acido nalidixico nalidixico Anellochinolonico chinolonico Acido nalidixico dixico, che ha uno spettro di azione limitato agli entero-

nello chinolonico

X

N

H3C

R3

batteri e che, per le sue caratteristiche farmacocinetiche, è utilizzabile esclusivamente per il trattamento di infezioni urinarie. Nel tempo, sono stati sviluppati nuovi chinoF O O OH O O loni con spettro di attività antibatterica allargato (PseuF domonas aeruginosa, batteri gram-positivi, micobatteri) F N N N OH e/o migliorate caratteristiche farmacocinetiche che ne OH permettono l’utilizzo nella terapia di infezioni sistemiche N N N N N N (ad es. ciprofloxacina, levofloxacina, moxifloxacina, HN Ciprofloxacina HN Ciprofloxacina prulifloxacina). O

HN

O

Ciprofloxacina

Ciprofloxacina I chinoloni sono molecole di sintesi che contengono nella Per la loro versatilità, tollerabilità e possibilità di sommiloro struttura un anello chinolonico. Questi farmaci intera- nistrazione orale, i chinoloni sono farmaci ampiamente giscono con le DNA topoisomerasi di tipo II (DNA girasi e utilizzati nella pratica clinica.

Antibatterici che agiscono bloccando la trascrizione La trascrizione del cromosoma batterico è essenziale per l’espressione genica nella cellula batterica ed è operata dall’RNA polimerasi. I farmaci che bloccano la trascrizione bloccando l’RNA polimerasi batterica appartengono alla classe delle ansamicine e delle lipiarmicine (box 9.7).

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BOX 9.7 • Ansamicine e lipiarmicine Sono molecole di origine naturale che hanno come bersaglio l’RNA polimerasi batterica. Agiscono bloccando la trascrizione, con effetto battericida. Il capostipite delle ansamicine è la rifampicina, attiva nei confronti dei batteri gram-positivi e anche di alcuni gram-negativi, e dei micobatteri. Uno dei principali impieghi clinici di questo farmaco riguarda la terapia delle infezioni da Mycobacterium tuberculosis. Le lipiarmicine sono una nuova famiglia di antibiotici il cui capostipite è la fidaxomicina. Si tratta di un antibiotico a spettro ristretto, provvisto di elevata attività nei confronti di Clostridium difficile e utilizzato per il trattamento della diarrea associata a questo patogeno.

CH3 CH3 O H3C

HO

H 3C OH O O OH OH H 3C CH3 NH O

H3C

N

O O

OH CH3

CH3

O

N N

CH3

Rifampicina Rifampicina

Antibatterici che agiscono bloccando la sintesi proteica La sintesi proteica nei batteri presenta alcune differenze rispetto a quella delle cellule eucariotiche (specialmente a livello di struttura del ribosoma), che hanno permesso di trovare numerosi farmaci che agiscono bloccandola in modo selettivo. I principali farmaci antibatterici che agiscono bloccando la sintesi proteica per interazione con il ribosoma batterico sono gli aminoglicosidi (box 9.8), gli oxazolidinoni (box 9.9), le tetracidine (box 9.10), il cloramfenicolo (box 9.11), i macrolidi (box 9.12), le lincosamine (box 9.13), le streptogramine (box 9.14) e le pleuromutiline (box 9.15). Altri farmaci che inibiscono la sintesi proteica sono la mupirocina (box 9.16) e l’acido fusidico (box 9.17). BOX 9.8 • Aminoglicosidi H2N

H3C H3C

N H

OH

O HO O

H

R1 O NH2 N H R2

O HO

NH2 Gentamicina Gentamicina

Gli aminoglicosidi sono molecole di origine naturale. Strutturalmente sono costituiti da aminozuccheri (molecole idrofile cariche positivamente). L’interazione degli aminoglicosidi con il bersaglio, rappresentato dalla subunità ribosomiale 30S, determina il blocco della sintesi proteica e l’introduzione di errori nella catena peptidica nascente (sintesi di proteine aberranti),

con effetto battericida. Nei batteri gram-negativi l’attività battericida degli aminoglicosidi è potenziata dal fatto che questi farmaci, in qualità di policationi, destabilizzano la membrana esterna. Lo spettro di attività antibatterica degli aminoglicosidi è orientato prevalentemente verso i batteri gram-negativi, ma in combinazione con altri antibiotici (ad es. β-lattamici) sono utilizzati anche per il trattamento di alcune infezioni causate da batteri gram-positivi. I principali aminoglicosidi utilizzati nella pratica clinica sono: gentamicina, tobramicina, amikacina e netilmicina. Alcuni aminoglicosidi (streptomicina, amikacina e kanamicina) sono attivi anche su alcuni micobatteri. La relativa oto- e nefrotossicità e la somministrazione esclusivamente parenterale rendono questi farmaci generalmente non di prima scelta per la terapia delle infezioni.

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BOX 9.9 • Oxazolidinoni O O

H N

N

CH3 O

N F

O

Linezolid Linezolid Gli oxazolidinoni sono molecole di sintesi e rappresentano una delle pochissime nuove classi di farmaci antibatterici di recente introduzione nella pratica clinica. L’interazione degli oxazolidinoni con il bersaglio, rappresentato dalla subunità ribosomiale 50S, impedisce la formazione del complesso di inizio 70S, con conseguente blocco del-

la sintesi proteica in una fase molto precoce, ed effetto batteriostatico. Lo spettro di attività antibatterica del linezolid, il primo rappresentante di questa classe di farmaci, è orientato verso i batteri gram-positivi. Per la relativa tossicità e il costo elevato, il linezolid rappresenta un farmaco di riserva per la terapia delle infezioni causate da batteri gram-positivi multiresistenti (ad es. stafilococchi meticillino-resistenti, enterococchi vancomicino-resistenti). Tedizolid è un nuovo oxazolidinone, caratterizzato da una maggiore potenza e una ridotta tossicità rispetto al linezolid.

BOX 9.10 • Tetracicline H3C H3C H CH3 H H OH

HO

NH2 OH

O

HO

OH

O

O

Tetraciclina Tetraciclina

Le tetracicline sono molecole di origine naturale caratterizzate da una struttura molecolare tetraciclica. Le tetracicline legano la subunità ribosomiale 30S, impedendo l’accesso dell’aminoacil-tRNA al sito A del ribosoma, con

conseguente blocco delle sintesi proteica ed effetto batteriostatico. Lo spettro di attività antibatterica delle tetracicline è molto ampio e comprende batteri gram-negativi e gram-positivi, inclusi i batteri intracellulari. Recentemente è stata introdotta una nuova classe di tetracicline, le glicilcicline (di cui l’unico rappresentante attualmente disponibile è la tigeciclina), che sfuggono ai meccanismi di resistenza alle tetracicline sino a oggi conosciuti e sono utili per la terapia delle infezioni causate da batteri multiresistenti (sia gram-positivi sia gram-negativi).

BOX 9.11 • Cloramfenicolo O

N

HO HO

II cloramfenicolo è una molecola di origine naturale che lega la subunità ribosomiale 50S del ribosoma batterico in corrispondenza del sito peptidil-transferasico e inibisce la reazione di transpeptidazione necessaria per l’allungamento della catena peptidica nascente, con effetto batteriostatico.

O–

Cl

H N

Cl O

Cloramfenicolo

Lo spettro di attività antibatterica è ampio, e comprende batteri gram-negativi e gram-positivi, inclusi i batteri intracellulari. La possibilità di effetti collaterali ematologici gravi (tossicità midollare) ha limitato l’uso di questo farmaco ai soli casi in cui non esistano alternative valide.

A

A

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BOX 9.12 • Macrolidi O CH3

H3C HO

OH H3C O

H3C H3C

OH CH3

no la subunità ribosomiale 50S, inibendo la reazione di transpeptidazione e la traslocazione della catena peptidica nascente dal sito A al sito P del ribosoma. Ne consegue un effetto batteriostatico.

CH3 O

O

O CH3

N HO CH3

O

O

O

Eritromicina

CH3

CH3

OH CH3 CH3

Eritromicina

I macrolidi sono molecole di origine naturale contenenti un anello lattonico a 14, 15 o 16 atomi. I macrolidi lega-

II capostipite di questa classe di farmaci è l’eritromicina, che ha uno spettro di attività antibatterica orientato prevalentemente verso i batteri gram-positivi e include anche i batteri intracellulari. Nel tempo, sono stati sviluppati nuovi derivati con spettro di attività comparabile a quello dell’eritromicina, ma con migliorate caratteristiche farmacocinetiche (ad es. claritromicina e azitromicina). Per la loro buona tollerabilità e possibilità di somministrazione orale, i macrolidi sono farmaci ampiamente utilizzati anche in età pediatrica.

BOX 9.13 • Lincosamine

CH3 O N

Cl

CH3

N H

O

CH3 S OH

HO OH

H3C Clindamicina Clindamicina

Le lincosamine sono molecole di origine naturale assimilabili ai macrolidi per quanto riguarda il meccanismo di azione (legano la subunità ribosomiale 50S inibendo la transpeptidazione e la traslocazione, con conseguente effetto batteriostatico). Come per i macrolidi, lo spettro di attività antibatterica è orientato prevalentemente verso i batteri gram-positivi. Rispetto ai macrolidi, le lincosamine hanno una maggiore attività nei confronti dei batteri anaerobi. La clindamicina è il farmaco di questa classe maggiormente utilizzato nella pratica clinica.

BOX 9.14 • Streptogramine Le streptogramine sono molecole di origine naturale, e comprendono due tipi diversi di molecole (streptogramine di gruppo A e streptogramine di gruppo B) che agiscono legando la subunità ribosomiale 50S in due posizioni differenti, determinando un effetto spesso battericida. Lo spettro di attività antibatterica delle streptogramine è simile a quello dei macrolidi (orientato prevalentemente

verso i batteri gram-positivi). Dalfopristin-quinopristin è l’associazione di streptogramine sviluppata per uso clinico; mantiene attività nei confronti di ceppi batterici gram-positivi multiresistenti (Enterococcus faecium vancomicino-resistente) e viene utilizzata come farmaco di riserva nelle infezioni causate da questi patogeni.

BOX 9.15 • Pleuromutiline Le pleuromutiline sono molecole di origine naturale che legano la subunità ribosomiale 50S del ribosoma batterico in corrispondenza del sito peptidil-transferasico e inibiscono la reazione di transpeptidazione, con effetto

batteriostatico. Hanno attività prevalentemente sui batteri gram-positivi. Retapamulina è la pleuromutilina sviluppata per uso clinico (topico).

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BOX 9.16 • Mupirocina La mupirocina (o acido pseudomonico) è una molecola di origine naturale che presenta analogie strutturali con l’aminoacido isoleucina. Per questa sua caratteristica, la mupirocina compete con l’isoleucina per il sito attivo dell’enzima isoleucil-tRNA sintetasi, impedendo l’incorporazione di questo aminoacido nella catena peptidica nascente (con conseguente blocco della sintesi proteica).

La mupirocina è attiva soprattutto su stafilococchi e streptococchi e viene impiegata, solo per uso topico, per il trattamento di infezioni cutanee e per la bonifica dello stato di portatore nasale di Staphylococcus aureus (anche multiresistente). Alle alte concentrazioni raggiungibili con l’uso topico, l’azione della mupirocina è di tipo battericida.

BOX 9.17 • Acido fusidico L’acido fusidico è una molecola di origine naturale con struttura steroidea. Agisce formando un complesso stabile con il fattore di allungamento EF-G, la guanosina difosfato e il ribosoma, impedendo la traslocazione della catena peptidica nascente e determinando un effetto di tipo

batteriostatico. L’acido fusidico (caratterizzato da uno spettro di attività antibatterica ristretto) viene impiegato soprattutto nella terapia topica o sistemica delle infezioni da stafilococchi.

Antibatterici che agiscono bloccando la sintesi dei folati A differenza delle cellule dell’organismo umano, per le quali l’acido folico rappresenta una vitamina che deve essere fornita con l’alimentazione, le cellule batteriche sintetizzano de novo l’acido folico e non sono in grado di introdurlo dall’esterno. L’acido folico, sotto forma di acido tetraidrofolico è un donatore di unità monocarboniose essenziale nelle vie biosintetiche per le purine, la timidina e alcuni aminoacidi (glicina e metionina). La mancanza di tetraidrofolato ha, come conseguenza primaria, il blocco della sintesi degli acidi nucleici. I principali farmaci antibatterici che inibiscono la sintesi dei folati sono i sulfamidici (box 9.18) e il trimetoprim (box 9.19), che agiscono bloccando due tappe successive della via biosintetica dell’acido tetraidrofolico (fig. 9.1). Nella pratica clinica, sulfamidici e trimetoprim sono quasi sempre utilizzati in associazione perché questo comporta vantaggi in termini di effetto antibatterico (singolarmente sono batteriostatici, mentre in associazione sono battericidi), spettro di attività (che risulta ampliato nelle associazioni) e minor incidenza di resistenze batteriche. BOX 9.18 • Sulfamidici

H2N H2N

O

O

C

OH C OH

PABAPABA PABA

I sulfamidici sono molecole di sintesi e rappresentano i primi chemioterapici O O che sono stati utilizzati per la terapia H H delle infezioni batteriche nell’uomo. I H2N H2N S NS N sulfamidici sono analoghi strutturali dell’acido para-aminobenzoico (PABA) O O N N e competono con quest’ultimo per il sito O CH3 CHattivo O 3 dell’enzima diidropteroato sinteSulfametossazolo Sulfametossazolo tasi (DHPS), responsabile dell’incorpoSulfametossazolo razione del PABA nell’acido diidropteroico (un precursore dell’acido folico).

A

A

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BOX 9.19 • Trimetoprim II trimetoprim è una molecola di sintesi appartenente alla famiglia delle diaminopirimidine, che agisce come inibitore competitivo sulla diidrofolato reduttasi (DHFR) batterica,

Figura 9.1 Schema di azione degli inibitori della biosintesi dei folati.

l’enzima preposto alla riduzione dell’acido diidrofolico ad acido tetraidrofolico (la forma utilizzata in vivo come donatore di unità monocarboniose).

Acido para-aminobenzoico (PABA) + pteridina Diidropteroato sintetasi (DHPS)

Sulfamidici

Acido diidropteroico Varie tappe intermedie Acido diidrofolico Diidrofolato reduttasi (DHFR)

Trimetoprim

Acido tetraidrofolico

Antibatterici che agiscono con meccanismi diversi Vi sono alcuni farmaci antibatterici che hanno un meccanismo d’azione diverso da quelli precedentemente descritti. Il metronidazolo (box 9.20) e l’isoniazide (box 9.21) non sono attivi come tali, ma solo dopo essere stati “attivati” all’interno della cellula batterica. Lo spettro di attività di questi antibatterici dipende quindi dal tipo di batteri in grado di effettuare questa attivazione.

9.2 - M  etodiche per la valutazione dell’attività dei farmaci antibatterici in vitro Per prevedere se i farmaci antibatterici possano essere efficaci per trattare un’infezione, sono stati sviluppati dei saggi di attività in vitro che misurano l’attività dei farmaci antibatterici (antibiogramma). I risultati di questi saggi servono a guidare il clinico nella scelta del protocollo terapeutico più adeguato. Il parametro fondamentale per valutare l’attività di un farmaco antibatterico nei confronti di un determinato ceppo batterico è la concentrazione minima inibente (minimal inhibitory concentration, MIC), che corrisponde alla più bassa concentrazione di farmaco in grado di inibire in vitro la crescita del microrganismo analizzato. La MIC (espressa in µg/mL o mg/L) viene determinata esponendo una coltura batterica a concentrazioni decrescenti del farmaco, in condizioni sperimentali standardizzate. Sulla base di valori soglia (breakpoints clinici) proposti da organismi di riferimento (in Europa l’European Committee on Antimicrobial Susceptibility Testing, EUCAST), i valori di MIC vengono utilizzati per un’interpretazione di tipo qualitativo, ovvero per classificare il ceppo batterico come sensibile, intermedio o resistente al farmaco saggiato. I breakpoints clinici sono stabiliti mediante l’analisi e l’integrazione di molteplici parametri (tra cui le proprietà

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BOX 9.20 • Metronidazolo OH N

O2 N

CH3 N

Metronidazolo

II metronidazolo è una molecola di sintesi con spettro di attività antibatterica ristretto ai batteri anaerobi obbligati e microaerofili. In questi batteri la molecola, che contiene un nitrogruppo NO, viene metabolizzata da enzimi ad attività nitroreduttasica, con produzione di radicali liberi e altre specie chimiche altamente reattive che danneggiano irreversibilmente gli acidi nucleici e le altre macromolecole biologiche, con conseguente effetto battericida.

BOX 9.21 • Isoniazide L’isoniazide è una molecola di sintesi con spettro di attività antibatterica ristretto a Mycobacterium tuberculosis. II farmaco viene metabolizzato all’interno delle cellule micobatteriche dall’enzima catalasi-perossidasi KatG, dando

origine a metaboliti tossici che provocano la morte cellulare (effetto battericida) con un meccanismo ancora non completamente chiarito.

farmacocinetiche e farmacodinamiche del farmaco antibatterico, e i risultati di studi clinici), e sono soggetti a periodiche revisioni e aggiornamenti. Le principali metodiche per la determinazione della MIC di un farmaco antibatterico nei confronti di un ceppo batterico sono:

• il metodo della diluizione (in brodo o agar) (box 9.22); • il metodo della diffusione in gradiente (box 9.23). Un’altra metodica per saggiare l’attività in vitro dei farmaci antibatterici è il metodo di Kirby-Bauer, basato sulla diffusione in agar a partire da dischetti contenenti una quantità nota di farmaco antibatterico (box 9.24). Questo metodo, a differenza degli altri, non consente la determinazione della MIC, pur fornendo un dato attendibile per classificare il ceppo batterico come sensibile, intermedio o resistente nei confronti di un determinato farmaco antibatterico.

9.3 - La resistenza ai farmaci antibatterici L’introduzione dei farmaci antibatterici nella pratica clinica ha avuto un impatto cruciale sulla prognosi di molte malattie infettive, ma è stata seguita, in tempi brevi, dall’emergenza e diffusione della chemioresistenza batterica. Con questo termine si indica, in generale, il fenomeno per cui i batteri possono sopravvivere e moltiplicarsi in presenza di un farmaco antibatterico. Dal punto di vista clinico, si parla di resistenza quando i batteri patogeni non sono inibiti da un farmaco antibatterico nella sede di infezione e il farmaco risulta di conseguenza inefficace. L’espressione di un fenotipo di antibiotico-resistenza è dovuta a un meccanismo biochimico che la cellula batterica mette in atto per bloccare l’interazione del farmaco con il bersaglio molecolare. Ciascun meccanismo biochimico di resistenza è a sua volta dipendente da uno o più determinanti genetici (determinanti genetici di resistenza). I principali meccanismi biochimici di resistenza sono rappresentati da:

• inattivazione del farmaco; • modificazione del bersaglio molecolare del farmaco o vicariamento della sua funzione;

• impermeabilità al farmaco o efflusso attivo, che ne impediscono l’accesso al bersaglio molecolare.

A

A

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BOX 9.22 • Determinazione della MIC con metodo della diluizione I saggi basati sul metodo della diluizione possono essere effettuati in terreno liquido (come schematizzato in figura) o in terreno solido, e consistono nel saggiare la capacità di crescita del ceppo batterico in terreni contenenti diluizioni seriali del farmaco antibatterico. Dopo il periodo di incubazione (di norma 16-20 ore a 35 °C), i terreni vengono ispezionati per la crescita batterica (intorbidamento del terreno liquido o sviluppo di colonie nel terreno

solido). La MIC corrisponde alla più bassa concentrazione di farmaco capace di inibire la crescita batterica in condizioni sperimentali standardizzate di terreno di coltura, quantità di inoculo batterico e condizioni di incubazione. II metodo della diluizione in brodo, essendo adattabile alla miniaturizzazione, ha il vantaggio di prestarsi all’uso anche in sistemi automatizzati.

Inoculo standardizzato del ceppo batterico in terreno liquido contenente concentrazioni scalari di farmaco antibatterico

16

8

4

2

1

0,5

0,25

0,12 mg/L

Incubazione 16-20 ore a 35 °C

MIC 1 mg/L 16

8

4

2

1

Assenza di crescita batterica

0,5

0,25

0,12 mg/L

Crescita batterica

BOX 9.23 • Determinazione della MIC con metodo della diffusione in gradiente II metodo della diffusione in gradiente prevede l’uso di strisce di carta o materiale plastico impregnate con un gradiente di concentrazione di farmaco antibatterico. Le strisce sono applicate su una piastra di terreno solido (inoculata omogeneamente e in modo standardizzato con il ceppo batterico da analizzare), determinando la formazione di un gradiente del farmaco antibatterico nel terreno circostante. Dopo il periodo di incubazione (di norma 16-20 ore a 35 °C), si osserva un alone di inibizione della crescita batterica di aspetto asimmetrico. La MIC viene dedotta dalla concentrazione di farmaco antibatterico indicata nella striscia nel punto di intersezione tra la striscia e il margine dell’alone di inibizione della crescita batterica.

Alone di inibizione

MIC = 8 mg/L

Crescita batterica

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BOX 9.24 • Antibiogramma per disco diffusione con metodo di Kirby e Bauer II metodo di Kirby e Bauer è un saggio di attività basato sull’utilizzo di dischetti impregnati con quantità note di farmaci antibatterici (un singolo dischetto per ciascun farmaco antibatterico saggiato). I dischetti vengono applicati su una piastra di terreno solido preventivamente inoculata, omogeneamente e in modo standardizzato, con il ceppo batterico da analizzare. I farmaci, diffondendo dai dischetti, creano un gradiente di concentrazione inversamente proporzionale alla distanza dal disco. Dopo il periodo di incubazione (16-20 ore a 35 °C) vengono misurati gli aloni di inibizione della crescita batterica intorno ai dischetti. La dimensione degli aloni di inibizione correla con la MIC del farmaco contenuto nel dischetto (aloni di inibizione grandi sono indicativi di MIC basse e viceversa). Facendo riferimento a breakpoint clinici forniti da organismi di riferimento (ad es. EUCAST), le misure degli aloni di inibizione vengono interpretate in modo qualitativo, e il ceppo batterico viene classificato come sensibile, intermedio o resistente ai rispettivi farmaci antibatterici.

Meccanismi di resistenza dovuti a inattivazione del farmaco In questo caso l’espressione del fenotipo di resistenza consegue alla produzione di enzimi capaci di modificare il farmaco in modo tale da pregiudicarne l’interazione con il bersaglio molecolare. Questo meccanismo è frequentemente coinvolto nella resistenza ai β-lattamici, agli aminoglicosidi e al cloramfenicolo. Gli enzimi che inattivano i β-lattamici, denominati β-lattamasi, agiscono idrolizzando l’anello β-lattamico, che rappresenta la componente della molecola indispensabile all’effetto biologico (fig. 9.2). L’anello β-lattamico idrolizzato non è più in grado di interagire con il bersaglio molecolare (le PBP) e, conseguentemente, di inibire la sintesi della parete batterica. Identificate per la prima volta a breve distanza di tempo dall’introduzione della penicillina nella pratica clinica, le β-lattamasi (di cui oggi sono descritte centinaia di varianti) hanno dimostrato una spiccata capacità evolutiva. L’introduzione di nuove molecole β-lattamiche nella pratica clinica, infatti, è stata sempre seguita, dopo un lasso di tempo più o meno lungo, dall’emergenza e diffusione di ceppi batterici produttori di enzimi in grado di inattivarle. Le β-lattamasi appartengono a due famiglie principali: β-lattamasi a serina e metallo-β-lattamasi, a seconda delle caratteristiche del loro sito attivo. Le β-lattamasi a serina sono le più diffuse tra i patogeni di isolamento clinico; le metallo-β-lattamasi sono meno diffuse, anche se sono particolarmente temibili per il loro spettro di attività molto ampio, che può comprendere tutti i β-lattamici a esclusione dei monobattami, e per la loro insensibilità agli inibitori delle β-lattamasi a serina usati in terapia (box 9.25). Nei batteri patogeni gram-negativi, le β-lattamasi rappresentano il più importante meccanismo di resistenza agli antibiotici β-lattamici. I principali problemi di resistenza causati dalle β-lattamasi sono rappresentati da:

• resistenza alle cefalosporine di 3° e 4° generazione negli enterobatteri, mediata

Crescita batterica

Alone di inibizione

A

A

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Figura 9.2 Meccanismo d’azione delle β-lattamasi.

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R

R

C

NH

C

S

β-Lattamasi

O

NH

O

S O

N

HN

O

OH COO–

β-Lattamico attivo β-Lattamico attivo

COO–

β-Lattamico β-Lattamicoidrolizzato idrolizzato

BOX 9.25 • Inibitori delle β-lattamasi O

di ceppi batterici resistenti produttori di β-lattamasi. Per la loro capacità di antagonizzare la resistenza sono anche indicati come resistance breakers.

H OH

O

H2N N

N

O N

O O

O



Acidoclavulanico clavulanico Acido

O

O

O

S O–

Avibactam Avibactam

Gli inibitori delle β-lattamasi sono molecole normalmente prive di attività antibatterica, ma capaci di inibire l’attività delle β-lattamasi e proteggere così i β-lattamici dalla degradazione da parte di questi enzimi. In questo modo possono recuperare l’attività dei β-lattamici nei confronti

Acido clavulanico, sulbactam e tazobactam sono stati i primi inibitori delle β-lattamasi ad essere sviluppati per uso clinico, hanno una struttura con nucleo β-lattamico, e sono attivi su molte β-lattamasi a serina di classe molecolare A. Avibactam è un nuovo inibitore delle β-lattamasi a struttura non β-lattamica e con spettro di inibizione più ampio, che comprende anche alcune carbapenemasi e le β-lattamasi a serina di classe molecolare C.

dalla produzione delle β-lattamasi a spettro esteso (extended-spectrum β-lactamases, ESBL) o delle β-lattamasi di tipo AmpC; • resistenza ai carbapenemi negli enterobatteri, in Pseudomonas aeruginosa e in Acinetobacter, mediata dalla produzione di β-lattamasi attive nei confronti dei carbapenemi (metallo-β-lattamasi e carbapenemasi a serina). Una strategia di successo per superare la resistenza mediata dalla produzione di β-lattamasi è rappresentata dall’uso di molecole in grado di inibire l’azione di questi enzimi. Gli inibitori delle β-lattamasi normalmente non hanno attività antibatterica, ma somministrati in associazione con β-lattamici consentono di proteggerli dalla degradazione da parte di questi enzimi e di mantenerli attivi nei confronti dei batteri produttori di β-lattamasi. I primi inibitori di β-lattamasi utilizzati sono state molecole con nucleo β-lattamico: acido clavulanico, sulbactam e tazobactam (box 9.25). Queste molecole inibiscono varie β-lattamasi a serina di classe molecolare A e sono utilizzate in associazione con le penicilline (ampicillina, amoxicillina, piperacillina) o le cefalosporine (ceftolozano) per ampliarne lo spettro di attività nei confronti di ceppi batterici produttori di β-lattamasi. Più recentemente sono stati sviluppati nuovi inibitori di β-lattamasi con struttura diversa e con uno spettro di inibizione più esteso dei precedenti. Il primo di questi nuovi inibitori approvato per uso clinico è l’avibactam (box 9.25). Gli aminoglicosidi e il cloramfenicolo possono essere inattivati da enzimi che ne modificano la struttura molecolare mediante l’aggiunta di gruppi chimici, impedendo a questi farmaci di interagire con il ribosoma e, quindi, di inibire la sintesi proteica.

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OH

H2N

3’’

OH

H2N O

OH O

OH

6

H2N

ANT

ANT 2’

O

HO

1

4

Figura 9.3 Siti di modificazione degli aminoglicosidi ad opera di enzimi inattivanti di tipo ACC, ANT e APH.

APH

AAC

OH 6’

NH2

AAC

O NH2

155

AAC

3

APH

Gli aminoglicosidi possono subire l’inattivazione ad opera di acetil-transferasi (enzimi AAC), nucleotidil-transferasi (enzimi ΑΝΤ) e fosfo-transferasi (enzimi ΑΡΗ), che aggiungono alla molecola del farmaco, rispettivamente, gruppi acetili, adenili e fosfati (fig. 9.3). Anche il cloramfenicolo può subire l’inattivazione mediante l’aggiunta di un gruppo acetile ad opera di acetil-transferasi (enzimi CAT). Recentemente è stata scoperta una variante di un aminoglicoside-acetil-transferasi che ha acquisito, per mutazione, la capacità di inattivare (mediante acetilazione) anche alcuni fluorochinoloni. Questo enzima, denominato ΑΑC(6’)-Ib-cr, rappresenta il primo esempio di enzima in grado di inattivare farmaci antibatterici appartenenti a due classi diverse.

Meccanismi di resistenza dovuti a modificazione del bersaglio molecolare del farmaco o a vicariamento della sua funzione In questo caso l’espressione del fenotipo di resistenza è conseguente a una modificazione del bersaglio molecolare che ne previene l’interazione con il farmaco antibatterico, o a un vicariamento della funzione del bersaglio molecolare del farmaco. La modificazione del bersaglio molecolare può derivare da eventi di mutazione che riducono l’affinità del bersaglio per il farmaco. Gli esempi più comuni e clinicamente significativi sono rappresentati dalle mutazioni dei geni delle DNA topoisomerasi di tipo II che possono determinare resistenza ai chinoloni, e dalle mutazioni del gene della RNA polimerasi (subunità β) che possono determinare resistenza alla rifampicina. In Streptococcus pneumoniae, la resistenza alla penicillina e ad altri β-lattamici consegue alla produzione di PBP con ridotta affinità per questi farmaci, in seguito a eventi di ricombinazione che portano alla sostituzione di regioni discrete dei geni che codificano le PBP con regioni corrispondenti provenienti da altri batteri (acquisite per trasformazione) e danno origine a mosaici genici che codificano PBP con ridotta affinità per i β-lattamici. Il bersaglio molecolare può anche subire una modificazione biochimica che lo rende insensibile all’antibatterico. Esempi di questo meccanismo di resistenza sono rappresentati da metilazione di RNA ribosomiale a diversi livelli:

• a livello di RNA ribosomiale 23S ad opera di metilasi specifiche (codificate da geni

erm) che conferisce resistenza a macrolidi e lincosamine in batteri gram-positivi;

• a livello di RNA ribosomiale 16S ad opera di metilasi specifiche (codificate da geni

rmt e arm) che conferisce resistenza agli aminoglicosidi in batteri gram-negativi.

A

A

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In altri casi la modificazione biochimica è rappresentata dalla presenza di una proteina che, legandovisi, protegge il bersaglio molecolare dall’interazione con il farmaco. I principali esempi di proteine che proteggono il bersaglio sono rappresentati da:

• fattori di protezione ribosomiale Tet (codificati dai geni tet) che proteggono i

ribosomi dall’interazione con le tetracicline e conferiscono resistenza a questi farmaci; • fattori di protezione Qnr (codificati da geni qnr), che proteggono le DNA topoisomerasi dall’interazione con i chinoloni e conferiscono resistenza a questi farmaci. Un terzo tipo di modificazione biochimica del bersaglio molecolare è quello responsabile della resistenza ai glicopeptidi in alcuni patogeni gram-positivi. In questo caso, l’acquisizione di un cluster di geni (geni van) determina la produzione di precursori muropeptidici del peptidoglicano modificati (in cui il dipeptide d-Ala-d-Ala è generalmente sostituito da un d-Ala-d-Lattato), che possono essere efficacemente utilizzati per la sintesi della parete ma non sono più riconosciuti dagli antibiotici glicopeptidici (fig. 9.4). Questo meccanismo di resistenza è diffuso negli enterococchi (ceppi VRE, vancomycin-resistant Enterococcus) ed è stato recentemente documentato anche in Staphylococcus aureus (ceppi VRSA, vancomycin-resistant S. aureus). Un’ulteriore possibilità è che il bersaglio molecolare non venga modificato, ma il batterio acquisisca un nuovo enzima, insensibile all’inibizione, in grado di svolgere le stesse funzioni biologiche svolte dal bersaglio molecolare bloccato dal farmaco antibatterico (vicariamento del bersaglio molecolare). La meticillino-resistenza negli stafilococchi, ad esempio, è conseguente all’acquisizione di geni mec che codificano per PBP insensibili all’azione di quasi tutti i β-lattamici e in grado di vicariare le funzioni di tutte le altre PΒP. I ceppi di S. aureus meticillino-resistenti sono indicati

Figura 9.4 Meccanismo di resistenza ai glicopeptidi.

Enterococco vancomicino-sensibile Vancomicina

-D-Ala-D-Ala

Inibizione della sintesi del peptidoglicano

-D-Ala-D-Ala

Precursore muropeptidico del peptidoglicano normale

Enterococco vancomicino-resistente Vancomicina

-D-Ala-D-Lac

Precursore muropeptidico del peptidoglicano modificato

Sintesi del peptidoglicano inalterata

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Capitolo 9 • Farmaci antibatterici

con l’acronimo MRSA (methicillin-resistant S. aureus) e sono resistenti a quasi tutti gli antibiotici β-lattamici, fatta eccezione per alcuni nuovi composti (come la ceftarolina e i ceftobiprolo) specificamente sviluppati per agire nei confronti anche delle PBP codificate dai geni mec. Un altro esempio di vicariamento del bersaglio molecolare è rappresentato dalla resistenza a sulfamidici e trimetoprim, che frequentemente consegue all’acquisizione di geni codificanti enzimi DHPS o DHFR con bassa affinità per questi farmaci antibatterici (codificati da geni sul e dfr, rispettivamente).

Meccanismi di resistenza dovuti a impermeabilità o efflusso attivo In questo caso l’espressione del fenotipo di resistenza è conseguente al ridotto accesso del farmaco antibatterico al bersaglio molecolare, che può derivare dal fatto che il farmaco non riesce a penetrare gli involucri della cellula batterica (resistenza per impermeabilità) oppure dalla presenza di pompe di efflusso in grado di espellere attivamente il farmaco fuori dalla cellula batterica (resistenza per efflusso attivo). Una scarsa permeabilità della membrana esterna è alla base, ad esempio, della resistenza intrinseca dei batteri gram-negativi a certi antibatterici (ad es. i glicopeptidi). Una resistenza per ridotta permeabilità può anche essere la conseguenza di eventi genetici che determinano la diminuita/mancata espressione di porine utilizzate da molte classi di antibatterici per oltrepassare la membrana esterna dei batteri gram-negativi. Un esempio paradigmatico a questo riguardo è rappresentato dalla resistenza ai carbapenemi in P. aeruginosa che può manifestarsi come conseguenza di eventi mutazionali responsabili di una diminuita/mancata espressione del canale preferenziale di ingresso di questi farmaci attraverso la membrana esterna (la porina OprD2). I sistemi di efflusso attivo sono in grado di espellere determinate classi di farmaci antibatterici dalla cellula batterica, utilizzando come fonte di energia ATP oppure il gradiente protonico di membrana. In molti batteri, sia gram-negativi sia gram-positivi, esistono dei sistemi di efflusso attivo, codificati da geni cromosomici, in grado di espellere dalla cellula batterica composti strutturalmente molto diversi, incluse classi diverse di farmaci antibatterici (sistemi di efflusso “multidrug”). Tipici esempi di tali sistemi sono le pompe di efflusso di tipo Mex di P. aeruginosa (fig. 9.5) e quelle di tipo NorA di S. aureus. In conseguenza di eventi mutazionali che determinino l’aumentata espressione di questi sistemi di efflusso attivo, i batteri possono esprimere un fenotipo di resistenza a classi diverse di antibiotici. Ad esempio, l’aumentata espressione del sistema MexA-MexBOprM in P. aeruginosa determina una resistenza a vari β-lattamici e fluorochinoloni, mentre l’aumentata espressione del sistema NorA in S. aureus determina una resistenza a fluorochinoloni e cloramfenicolo. Un altro tipo di sistemi di efflusso è rappresentato da sistemi in grado di espellere solamente specifiche classi di farmaci antibatterici (pompe di efflusso specifiche). Questi sistemi, a differenza di quelli multidrug, sono generalmente codificati da geni a localizzazione plasmidica e acquisiti per trasferimento genico orizzontale. Esempi di sistemi di efflusso specifici sono quelli responsabili della resistenza alle tetracicline (codificati da geni tet) e ai macrolidi (codificati da geni mef). Recentemente sono stati identificati anche sistemi di efflusso specifico a codificazione plasmidica in grado di determinare una resistenza ad alcuni chinoloni (codificati dai geni qepA e oqxAB).

Un particolare meccanismo di resistenza agli antibiotici: la tolleranza dei biofilm batterici Oltre ai meccanismi di resistenza precedentemente menzionati, che sono codificati da specifici caratteri genotipici trasmessi alle cellule figlie (resistenza ereditabile), i batteri

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Batteriologia medica

Figura 9.5 Organizzazione del sistema di efflusso MexA-MexB-OprM in Pseudomonas aeruginosa. Il sistema è costituito da tre componenti: una pompa di membrana (MexB), una porina (OprM) e una proteina periplasmatica (MexA) che connette la pompa con la porina. Attraverso questo sistema la cellula è in grado di espellere farmaci penetrati nel citoplasma o nello spazio periplasmatico, impedendo a questi di interagire con il proprio bersaglio molecolare.

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Antibatterico OprM Membrana esterna Parete cellulare

MexA

β-Lattamici Membrana cellulare

MexB

Cloramfenicolo Macrolidi Chinoloni Tetracicline Altri farmaci

possono anche esprimere una ridotta sensibilità ai farmaci antibatterici in relazione a particolari stati fisiologici o modalità di crescita (resistenza non ereditabile). Tale diminuita sensibilità viene anche indicata come “tolleranza” ai farmaci antibatterici, per sottolineare la mancanza di meccanismi genetici di resistenza, ed è riscontrabile nei biofilm batterici (vedi Cap. 6). La tolleranza ai farmaci antibatterici espressa dai biofilm è legata principalmente alla presenza delle cosiddette cellule “persisters”. Queste ultime sono sottopopolazioni di cellule batteriche, presenti soprattutto nella fase di crescita stazionaria, vitali ma con metabolismo estremamente ridotto. In queste cellule, il bersaglio molecolare di molti farmaci antibatterici è presente ma non è attivo, perché la cellula è in stato di quiescenza, e l’inibizione del bersaglio molecolare da parte dei farmaci antibatterici non ha effetto sulla crescita batterica (dato che sono cellule già quiescenti) né sulla vitalità (dato che il bersaglio molecolare è già inattivo).

9.4 - Resistenza intrinseca e resistenza acquisita Quando un fenotipo di resistenza è espresso da tutti (o quasi) i ceppi di una specie batterica, la specie viene detta naturalmente (o intrinsecamente) resistente a quel farmaco antibatterico. La resistenza naturale o intrinseca riflette la presenza di un meccanismo biochimico di resistenza (e di un relativo determinante genetico di resistenza) evoluto a livello della specie. Alcuni esempi: Escherichia coli è naturalmente resistente ai glicopeptidi perché la membrana esterna è impermeabile a questi farmaci; Μycobacterium tuberculosis è naturalmente resistente a molti farmaci per impermeabilità della parete; P. aeruginosa è naturalmente resistente a molti β-lattamici perché produce una β-lattamasi a codificazione cromosomica (enzima AmpC) che viene indotta in loro presenza e li degrada. All’interno di una specie batterica naturalmente sensibile a un dato farmaco antibatterico possono emergere ceppi resistenti. Questa resistenza acquisita riflette una modificazione genetica recente nel genoma del ceppo resistente e costituisce un carattere ereditabile trasmesso alle cellule figlie. Le basi genetiche della resistenza acquisita includono eventi di mutazione/ricombinazione di geni residenti, oppure l’acqui-

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Capitolo 9 • Farmaci antibatterici

sizione di nuovi geni (geni di resistenza acquisiti) mediante fenomeni di scambio genico orizzontale. La resistenza intrinseca, essendo un carattere prevedibile, non pone particolari problemi al clinico nella scelta della terapia antibiotica. Viceversa, la resistenza acquisita può essere la causa di insuccessi terapeutici, qualora venga instaurata una terapia antibiotica senza aver preventivamente saggiato la sensibilità in vitro del patogeno ai farmaci.

Bibliografia essenziale Bryskier, A., Antimicrobial Agents. AntibacteriaIs and Antifiιngals, ASM Press, Washington, 2005. Blair, J.M., Webber, M.A., Baylay, A.J., Ogbolu, D.O., Piddock, L.J. Molecular mechanisms of antibiotic resistance. Nat Rev Microbiol. 2015 Jan;13(1):42-51 Lebeaux, D., Ghigo, J.M., Beloin, C. Biofilm-related infections: bridging the gap between clinical management and fundamental aspects of recalcitrance toward antibiotics. Microbiol Mol Biol Rev. 2014 Sep;78(3):510-43. Mouton, J.W., Brown, D.F., Apfalter, P., Cantón, R., Giske, C.G., Ivanova, M., MacGowan, A.P., Rodloff, A., Soussy, C.J., Steinbakk, M., Kahlmeter, G. The role of pharmacokinetics/pharmacodynamics in setting clinical MIC breakpoints: the EUCAST approach. Clin Microbiol Infect. 2012 Mar;18(3):E37-45. The European Committee on Antimicrobial Susceptibility Testing – EUCAST. http://www. eucast.org/

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Capitolo

10 • Il microbiota • L’uomo come habitat • Ruolo del microbiota umano • Microbiota umano e infezioni opportuniste • Microbiota intestinale • Microbiota vaginale • Microbiota della cute • Microbiota del tratto respiratorio

Il microbiota umano

Una moltitudine di microrganismi assemblati in complesse comunità, in gran parte benefiche, colonizzano tessuti e organi, come la pelle, il tratto gastrointestinale, respiratorio e genitourinario. L’insieme di questi microrganismi è generalmente chiamato microbiota. La composizione e gli equilibri esistenti nell’ecosistema microbico umano sembrerebbero essere il risultato di una selezione naturale che dà forma a una comunità microbica dove coesistono ridondanza funzionale, tra membri tassonomicamente distanti, e diversità genomica. La ridondanza funzionale assicura all’ospite il mantenimento delle complicate reti alimentari, anche nel caso di perdita di un membro della comunità microbica. La variabilità genetica assicura che tutte le nicchie ecologiche presenti nell’habitat umano siano occupate, allenta la competitività tra i microbi e rende difficile l’ingresso di potenziali patogeni. Il microbiota umano è inoltre il depositario di informazioni genetiche (microbioma) che eccedono quelle del genoma umano di un fattore 100 e forniscono agli esseri umani caratteristiche funzionali che non hanno evoluto. Possiamo quindi considerare l’uomo come un superorganismo ibrido comprendente oltre ai batteri, che sono i più numerosi, anche virus e miceti. Non bisogna poi sottovalutare la presenza dei fagi (virus che infettano i batteri), i quali contribuiscono in modo sostanziale alla diversificazione delle popolazioni batteriche. Modellati da millenni di co-evoluzione, ospite e microbi hanno sviluppato relazioni largamente benefiche che possono essere definite simbiotiche (entrambi beneficiano di questi rapporti) o di commensalismo (i microrganismi traggono vantaggio senza danneggiare l’ospite). Tuttavia, ogni specie o ceppo del microbiota interagisce con gli altri membri del microbiota e con l’ospite, così come con l’ambiente esterno e l’effetto di queste interazioni nei riguardi dell’ospite può essere positivo, negativo o neutro. Il termine “amphibiosis”, coniato dall’ecologista Theodor Rosebury, definisce tali relazioni simbiotiche o parassitarie secondo il contesto biologico. L’esposizione dell’uomo ai microrganismi inizia in utero e si espande rapidamente dopo la nascita. In questa finestra temporale il sistema immunitario è permissivo ad essere istruito dai microrganismi colonizzanti. Tale microbiota diventa stabile tra i 2 e 4 anni di età e si assembla attraverso un processo dinamico influenzato dal background genetico e dalla iniziale esposizione a fattori ambientali, principalmente materni, e fattori quali i trattamenti terapeutici e il livello di igiene. Tuttavia, sebbene queste popolazioni siano molto stabili, possono essere sottoposte a perturbazioni ambientali tali da comportare importanti conseguenze per la nostra salute. Si stima che il microbiota umano contenga ben 3,8 × 1013 batteri con 1011 cellule batteriche per grammo di materiale fecale (Sender et al. 2016). Il maggior numero di microrganismi e la più grande diversità microbica si trovano nel tratto intestinale; in particolare nel colon è presente il 70% dei microrganismi totali. La composizione del microbiota consta di un’enorme varietà di specie e ceppi batterici che appartengono comunque a un limitato numero di phyla. Dei più di 50 phyla batterici noti nell’ambiente solamente 4 dominano gli habitat mucosali e cutanei dell’uomo. Firmicutes e Bacteroidetes, la cui abbondanza relativa in un sog-

Capitolo 10 • Il microbiota umano

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getto sano è di circa 70-80%, e Actinobacteria e Proteobacteria, presenti in quantità inferiori. Questo fa supporre che forti pressioni selettive abbiano limitato la diversità durante le migliaia di anni di co-evoluzione tra uomini e microbi. A livelli tassonomici di specie e ceppi la diversità tra gli individui è enorme, tale da paragonare la flora colonizzante a un’impronta digitale.

10.1 - L’uomo come habitat Il corpo umano costituisce un ambiente favorevole per la crescita di molti microrganismi. Offre infatti numerose sostanze di nutrimento e fornisce condizioni di pH, pressione osmotica e temperatura relativamente costanti. L’organismo umano non rappresenta comunque un ambiente uniforme per i microrganismi, al contrario ogni distretto differisce fisicamente e chimicamente dagli altri creando dei microambienti diversi che selezionano alcuni microrganismi rispetto ad altri. Il numero di microrganismi residenti varia quindi nei diversi distretti del nostro organismo (fig. 10.1). La pelle, l’apparato respiratorio, il tratto gastrointestinale ecc. sono esempi di ambienti con caratteristiche chimico-fisiche estremamente diverse nei quali possono crescere selettivamente microrganismi diversi. Ad esempio, nella cute stessa sono presenti diversi microambienti: regioni della cute secche ed esposte presentano relativamente pochi microrganismi residenti, mentre regioni umide quali ascelle, perineo e cuoio capelluto sono colonizzate da una più ampia popolazione microbica. L’uomo possiede eccellenti sistemi di difesa contro i microrganismi e quelli in grado di colonizzare l’ospite hanno sviluppato meccanismi per sfuggire o essere tollerati dal nostro sistema immunitario. La composizione del microbiota umano varia con l’età, lo stato nutrizionale e l’ambiente in cui vive ciascun individuo.

105-6 10 1:320 nelle aree endemiche). Nel test di agglutinazione (reazione di Wright), che dosa gli anticorpi diretti contro l’antigene O, si utilizza una sospensione standardizzata di B. abortus uccisa, perché la correlazione antigenica tra le varie specie è molto elevata. Poiché nelle fasi inziali la sintomatologia delle febbri enteriche è molto simile a quella della brucellosi, il saggio viene spesso eseguito insieme al test di Widal, utilizzato per la ricerca di anticorpi diretti contro la Salmonella. La cross-reattività antigenica con altre specie batteriche (Francisella tularensis, Yersinia enterocolitica, Vibrio cholerae) può rendere difficile l’interpretazione dei risultati ottenuti nel saggio sierologico. A tale riguardo è di aiuto la ricerca, mediante ELISA, degli anticorpi diretti contro le proteine citoplasmatiche, soprattutto nei casi di recidive. Risultati molto promettenti nella diagnosi diretta di brucellosi sono stati ottenuti dalla ricerca di sequenze specifiche di rRNA mediante PCR.

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Epidemiologia

L’importanza della brucellosi in ambito medico rimane globalmente piuttosto alta, con circa 500 000 casi notificati ogni l’anno. Pur essendo una malattia largamente diffusa nelle popolazioni, ha una prevalenza nel bacino del Mediterraneo, nella penisola araba, in America centrale e nel Sud-Est asiatico; inoltre si osserva un’incidenza maggiore in primavera-estate, periodo che coincide con la riproduzione degli animali d’allevamento. Le infezioni nell’uomo correlano infatti con i casi di brucellosi registrati negli animali. Misure di controllo molto efficaci, quali la pastorizzazione del latte, la vaccinazione degli animali d’allevamento (e domestici) e l’abbattimento dei capi infetti,

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Capitolo 23 • Brucella

hanno fatto si che la brucellosi sia oggi una malattia rara in Europa, Nord America, Nuova Zelanda e Australia. L’Italia, come altri Paesi europei dell’area mediterranea, è considerata un’area endemica. Dai dati di sorveglianza epidemiologica degli ultimi anni si rileva, dopo un picco di 1896 casi registrato nel 1996, un costante decremento (456 casi nel 2006, 179 nel 2007, 163 nel 2008). Attualmente, la brucellosi nell’uomo è dovuta principalmente al consumo di latte e suoi derivati, in particolare i formaggi molli, prodotti non industrialmente. Il turismo in aree in cui non ci sono controlli veterinari degli animali suscettibili all’infezione e il fenomeno dell’immigrazione incontrollata hanno riportato all’attenzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) questa zoonosi come una malattia riemergente. La trasmissione non avviene per contagio interumano, ma può verificarsi per via verticale; in particolare, i soggetti immunocompromessi dovrebbero evitare contatti con cani infetti da Brucella canis.

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Terapia e profilassi

Le brucelle sono sensibili a tetracicline, rifampicina, aminoglicosidi, cloramfenicolo, trimethoprim-sulfametossazolo, macrolidi e fluorochinoloni, mentre risultano naturalmente resistenti alle penicilline e alle cefalosporine (eccetto cefotaxime e ceftriazone). L’insorgenza di resistenza ai farmaci antimicrobici è un fenomeno osservato raramente in questi batteri. La terapia di elezione, mirata a controllare i sintomi e a prevenire le complicazioni e le recidive, è basata sull’impiego di doxiciclina in combinazione con rifampicina, gentamicina, streptomicina per un periodo di 3-6 settimane. I pazienti con endocardite richiedono un regime terapeutico più aggressivo che prevede la somministrazione di un aminoglicoside in associazione a doxiciclina, rifampicina e sulfamidici per quattro settimane, seguito da una combinazione di 2 o 3 farmaci per 8-12 settimane. Non esistono ad oggi vaccini per uso umano; per la profilassi degli animali ci sono invece in commercio vaccini contenenti ceppi vivi attenuati di B. abortus. Alcuni dei ceppi presenti nella formulazione, e in particolare il ceppo 19, possono tuttavia causare malattia nell’uomo in seguito a inoculazione accidentale o per contatto (aerosol) con la cute lesionata e la congiuntiva; per tale motivo la vaccinazione è stata interrotta in molti Paesi. Le categorie maggiormente a rischio sono gli allevatori, gli addetti alla macellazione degli animali, i veterinari e i laboratoristi. La brucellosi è una delle più frequenti infezioni contratte nei laboratori di analisi, soprattutto in quelli veterinari, probabilmente per la mancata segnalazione del sospetto clinico. Le brucelle sono agenti biologici di gruppo 3 (agenti che possono causare malattie gravi in soggetti umani e costituire un serio rischio per i lavoratori, l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche) (D.Lgs. 81/08), quindi i campioni d’origine umana e animale devono essere manipolati in laboratori con livello di biosicurezza 2. Le brucelle sono anche incluse nella categoria B in relazione al potenziale impiego come efficienti armi biologiche, soprattutto a causa della loro estrema facilità di trasmissione e alla bassa dose infettante necessaria.

Bibliografia essenziale Galinska, E.M., Zagorski J. (2013), «Brucellosis in humans-etiology, diagnostics, clinical forms», Ann Agric Environ Med, 20 (2), pp. 233-8. Haque, N., Bari M.S., Hossain M.A., Muhammad N., Ahmed S., Rahman A., Hoque S.M., Islam A. (2011), «An overview of Brucellosis», Mymensingh Med J., october, 20(4):742-7. Percin, D. (2013), «Microbiology of Brucella», Recent Pat Antiifect Drug Discov, 8(1):13-17. Seleem, M.N., Boyle, S.M., Sriranganathan N. (2010), «Brucellosis: a re-emerging zoonosis», Vet Microbiol, 140 (3-4), pp. 392-398.

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Capitolo

24 • Neisserie patogene • Malattia meningococcica invasiva • Variazione di fase e variazione antigenica • Epidemiologia della malattia gonococcica • Diagnosi di laboratorio delle infezioni da Neisseria

Neisseria

Il genere Neisseria comprende un’ampia varietà di specie non patogene, tra cui N. lactamica, N. flava, N. subflava, N. mucosa, N. sicca, che si localizzano come commensali nelle prime vie respiratorie. L’importanza clinica di questo gruppo di cocchi piogeni è però legata a due specie patogene, N. gonorrhoeae (gonococco) e N. meningitidis (meningococco), scoperte rispettivamente nel 1879 e nel 1887 da Albert Neisser e Anton Weichselbaum. N. gonorrhoeae e N. meningitidis sono patogeni strettamente correlati a un solo habitat, l’uomo rappresenta infatti l’unico serbatoio naturale. Neisseria gonorrhoeae (fig. 24.1) è l’agente eziologico della gonorrea, una malattia sessualmente trasmessa (STD, Sexually Transmitted Disease) descritta fin dai tempi più antichi (si ritrova, ad esempio, nel papiro di Ebers, che risale a circa il 1550 a.C.): il termine “gonorrea”, che significa “flusso di seme”, viene attribuito a Galeno (130 d.C.). La gonorrea rappresenta, ancora oggi, una delle più frequenti STD ad eziologia batterica nonostante la disponibilità di farmaci antimicrobici sempre più efficaci. N. gonorrhoeae si localizza di solito nelle mucose genitali, ma può talvolta colpire altri siti come il retto, la faringe e la congiuntiva. La trasmissione avviene attraverso rapporti vaginali, anali o anche orali per inoculazione diretta di secrezioni infette da una mucosa all’altra. I sintomi sono solitamente perdite spesso abbondanti (80%) e/o disuria (50%). Nell’uomo, in meno del 10% dei casi, l’infezione può essere asintomatica, viceversa in più della metà delle donne infette la malattia risulta asintomatica. Neisseria meningitidis (fig. 24.2) causa frequentemente infezioni nasofaringee localizzate asintomatiche, così come avviene per le colonizzazioni mucosali delle specie non patogene di Neisseria, assumendo, pertanto, le caratteristiche di batterio commensale del primo tratto respiratorio. Tuttavia, occasionalmente e in condizioni non ancora ben determinate, il meningococco dissemina, può attraversare la barriera mucosale ed entrare nel circolo sanguigno causando batteriemia e setticemia, e successivamente, attraversare la barriera emato-encefalica provocando meningite meningococcica fulminante. La trasmissione interumana avviene tramite l’inalazione di piccole gocce di secrezioni nasofaringee infette: la principale sorgente di infezione è rappresentata dai portatori, raramente la malattia è trasmessa da un soggetto malato.

24.1 - Morfologia e identificazione Figura 24.1 Fotografia al microscopio elettronico di Neisseria gonorrhoeae. Le neisserie sono tipici batteri gram-negativi che si ritrovano spesso in coppia sotto forma di diplococchi appaiati a “chicco di caffè”. N. gonorrhoeae utilizza i pili per colonizzare l’epitelio uretrale e cervicale.

Sulla base delle sequenze genomiche le neisserie sono classificate come α-proteobatteri correlati ai generi Bordetella, Burkholderia, Kingella e Methylomonas e meno strettamente a Vibrio, Haemophilus ed Escherichia coli. Le neisserie sono tipici batteri gram-negativi, non sporigeni, provvisti di pili, le cui cellule, dalla morfologia leggermente reniforme, assumono una forma coccoide e si ritrovano spesso in coppia, sotto forma di diplococchi appaiati a “chicco di caffè”; più raramente formano tetradi o piccoli grappoli. I singoli cocchi sono di piccole dimensioni e hanno un diametro di circa 0,6-1,0 μm. I meningococchi si differenziano dalle altre neisserie in quanto rivestiti da una cap-

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Capitolo 24 • Neisseria

sula di natura polisaccaridica. In base alle differenze antigeniche del polisaccaride capsulare i meningococchi sono divisi in 13 gruppi sierologici. I sierogruppi A, B, C, W-135 e Y causano le forme più gravi di malattia in tutto il mondo, gli altri gruppi colonizzano frequentemente l’orofaringe, ma solo raramente danno infezioni sistemiche. Più di recente il sierogruppo X è stato identificato come una delle principali cause di sepsi e meningite in Africa. I sierogruppi vengono poi ulteriormente suddivisi, in base alle differenze antigeniche delle proteine della membrana esterna, in 20 sierotipi (OMP di classe 2 e 3) e 10 sottotipi (OMP di classe 1) e, sulla base degli antigeni lipo-oligosaccaridici, in 13 immunotipi. Un’ulteriore tipizzazione è possibile sfruttando le proprietà antigeniche delle protessi per l’immunoglobulina Al (IgAI) e dei pili. Un esempio di tipizzazione sierologica è B:4:P1.4:L3,7,9, dove è indicato il sierogruppo (B), il sierotipo (4), il sottotipo (Ρ1.4) e l’immunotipo (L3,7,9). Tuttavia, anche se la caratterizzazione fenotipica può rivelare una stretta correlazione genetica tra i diversi ceppi, la sierotipizzazione non è più adatta per gli scopi epidemiologici moderni. Infatti, gli schemi di tipizzazione classica basati su alcuni geni, che sono probabilmente sotto pressione selettiva, non riescono a identificare tutte le relazioni genetiche cromosomali tra i ceppi di N. meningitidis. Per tale motivo è stata adottata a livello globale una tecnica di tipizzazione molecolare, chiamata Multilocus Enzime Electrophoresis, capace di identificare la variazione allelica che normalmente si verifica in numerosi geni cromosomali costitutivi (hοusekeeping). Questa tecnica classifica i batteri in Tipi Elettroforetici (ET). Ceppi appartenenti al complesso clonale ΕT-37, che spesso esprimono la capsula polisaccaridica di sierogruppo C, ma che possono esprimere anche quella di sierogruppo B, W-135 e Y, sono stati identificati in tutto il mondo. Gli studi epidemiologici con metodiche molecolari hanno dunque rivelato un quadro complesso di pochi cloni patogeni di meningococco diffusi in tutto il mondo. Sembra che le forme invasive di malattia meningococcica siano determinate non solo dall’introduzione di nuovi ceppi batterici virulenti, ma anche da altri fattori che ne favoriscono la trasmissione. Attualmente sono utilizzate altre tecniche molecolari per identificare e stabilire le relazioni tra diversi ceppi, e comprendono la Multilocus Sequence Typing e la Pulsed-Field Gel Electrophoresis, che sono utili sia per identificare ceppi strettamente correlati capaci di generare focolai epidemici, sia per comprendere meglio le caratteristiche genetiche di N. meningitidis. Al momento sono note le sequenze del genoma completo di diversi ceppi di N. meningitidis, tra cui MC58 (sierogruppo B, SequenceType-32), Z2491 (sierogruppo A, ST-4) e FAM18 (sierogruppo C, ST-11). Sulla base del sequenziamento dei diversi genomi oggi è noto che il cromosoma ha dimensioni comprese tra 2,0 e 2,2 megabasi e contiene circa 2000 geni. Il “core” del genoma del meningococco, che codifica per le funzioni metaboliche essenziali, rappresenta circa il 70% del genoma totale. Le neisserie si moltiplicano in maniera ottimale in ambiente aerobio, umido e povero di ossigeno, che contiene il 5-10% di CO2, a temperature comprese tra i 35 e i 37 °C. I gonococchi e alcuni ceppi di meningococco crescono in anaerobiosi se coltivati in presenza di O2. Tutti i membri di questo genere, patogeni e commensali, producono il citocromo C, che ossida un accettore di elettroni artificiale, la dimetil-o-tetrametil-p-feniendiamina, ed è responsabile della positività del test dell’ossidasi; cioè le colonie assumono una colorazione dapprima rosa e successivamente scura (blu o marrone) quando le piastre vengono irrorate con una soluzione all’1% del reagente. Le diverse specie di Neisseria si distinguono in base alla loro caratteristica capacità di utilizzare zuccheri semplici e composti come fonti di energia. Normalmente, i meningococchi fermentano sia il glucosio sia il maltosio, mentre i gonococchi fermentano solo il glucosio.

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Figura 24.2 Fotografia al microscopio elettronico di Neisseria meningitidis. Il meningococco, un diplococco gram-negativo, rappresenta uno dei principali agenti eziologici di meningite batterica.

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Batteriologia medica

Figura 24.3 Colonie di Neisseria gonorrhoeae cresciute su Thayer-Martin Medium. Le colonie appaiono opache e di colore grigiastro. Il Thayer-Martin è un agar cioccolato modificato attraverso l’aggiunta di agenti antimicrobici che sopprimono la crescita di microrganismi contaminanti, permettendo lo sviluppo di colonie di N. gonorrhoeae e N. meningitidis. La crescita è favorita incubando per 24-48 ore a 37 °C in atmosfera arricchita con il 5-10% di CO2.

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Campione rettale

(Ricerca di Neisseria gonorrhoeae)

Terreno agar-cioccolato Terreno Thayer-Martin Crescita non selettiva

Cresce solo Neisseria

Le neisserie possono essere considerate “batteri fastidiosi” in quanto hanno esigenze nutrizionali abbastanza complesse. La crescita dei meningococchi e dei gonococchi è sensibile agli acidi grassi liberi che contaminano il terreno, ma l’effetto inibente di tali composti tossici per i microrganismi può essere eliminato aggiungendo al terreno sangue o amido. Per la crescita e l’isolamento colturale di questi microrganismi si utilizzano terreni arricchiti non selettivi che contengono sangue lisato con il calore; tale terreno è noto come agar cioccolato, a causa del colore marrone scuro, ed è ottenuto riscaldando l’agar-sangue a 80-90 °C. Un altro terreno arricchito non selettivo utilizzato per l’isolamento delle neisserie è il GC-agar (gonococcal-agar), che insieme a diversi nutrienti essenziali al microrganismo contiene anche amido. Uno dei terreni selettivi impiegati per l’isolamento primario è l’agar modificato Thayer-Martin (ΜΤΜ) (fig. 24.3). Questo terreno contiene vancomicina, nistatina, colistina e trimethoprim, i quali sopprimono la crescita della normale flora microbica (gram-positivi, funghi, gram-negativi), ma consentono la crescita e l’isolamento di N. gonorrhoeae e N. meningitidis. Dopo l’inoculo, le piastre vengono incubate in un ambiente umido e in un’atmosfera contenente CO2 ed esaminate dopo 24-48 ore. Le neisserie patogene sono particolarmente sensibili a condizioni ambientali sfavorevoli per la crescita: vanno infatti rapidamente incontro ad autolisi e le colture possono morire in pochi giorni anche a temperatura ambiente.

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Meccanismi di virulenza e patogenicità

Le neisserie sono patogeni esclusivamente umani: lo studio di aspetti importanti della patogenesi come il microambiente batterico, l’induzione di una risposta infiammatoria e immunitaria, come pure la capacità di saggiare mutanti per la loro virulenza o di individuare nuovi antigeni come candidati vaccinali, è stato limitato nel recente passato dalla mancanza di un adeguato modello animale sperimentale. Attualmente, invece, per l’analisi funzionale dei determinanti di virulenza di Neisseria, oltre all’infezione di colture cellulari, è disponibile un modello murino d’infezione, fondamentale per lo studio delle interazioni ospite-patogeno e per l’analisi dei meccanismi patogenetici. Le infezioni causate dalle neisserie patogene sono processi multifattoriali che coinvolgono una serie d’interazioni a cascata, mediate da specifici recettori, tra i batteri e

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le principali cellule epiteliali bersaglio. I batteri sono capaci di aderire alla superficie e spesso penetrare nelle cellule epiteliali e, contenuti all’interno di vacuoli fagosomali, possono passare per transcitosi nei tessuti subepiteliali. Le neisserie patogene interagiscono fortemente con le cellule fagocitiche, come neutrofili e macrofagi, i quali sembrano fornire loro un habitat intracellulare. Sono necessarie almeno tre condizioni affinché si possa stabilire una malattia meningococcica invasiva: l’esposizione a un ceppo patogeno; l’acquisizione del ceppo patogeno, ovvero la colonizzazione della mucosa nasofaringea; l’invasione batterica. Il processo invasivo comprende la penetrazione della mucosa, seguita dall’invasione del circolo ematico e, infine, dall’invasione delle meningi e dello spazio subaracnoideo. Questi processi sono influenzati dalle proprietà del batterio, dalle condizioni ambientali e sociali, da precedenti o concomitanti infezioni microbiche e virali, e dallo stato immunitario dell’ospite. I meningococchi, superate le barriere dell’ospite, si legano alla superficie dei microvilli delle cellule non ciliate della mucosa colonnare del nasofaringe, dove si moltiplicano. Fondamentali, nella fase di colonizzazione, sono le interazioni tra i pili e il recettore CD46 e successivamente tra le proteine dell’opacità, Opa e Opc, con i recettori CD66 e i proteoglicani eparansolfato. Tuttavia la capacità invasiva è una proprietà che differisce tra i diversi stipiti batterici: i ceppi di meningococco acapsulati sono avirulenti, mentre i ceppi di sierogruppo A, B e C sono molto più invasivi degli altri sierogruppi. Il lipooligosaccaride (LOS) dei meningococchi lega diverse molecole dell’ospite che includono le proteine leganti l’LPS (LBP), CD14 e il complesso TLR-4/MD2 (toll-like receptor 4/proteina di membrana 2), presente sulla superficie di monociti/ macrofagi, cellule dendritiche e altre cellule della linea fagocitaria. Tale legame stimola la fagocitosi dei meningococchi, che possono quindi attraversare l’epitelio mucosale all’interno di vacuoli fagosomali. La sopravvivenza dei meningococchi nelle cellule epiteliali può essere favorita dalla secrezione di IgA proteasi e dalle porine PorA e PorB. La mappa fisica e genetica di diversi ceppi di gonococco e meningococco ha permesso di svelare una peculiare organizzazione genomica delle neisserie patogene, che differisce notevolmente rispetto a quella di altri patogeni gram-negativi. Da queste analisi risulta infatti che molti geni correlati funzionalmente, come ad esempio i geni pil, strutturali e accessori (pilS, pilE, pilCi, pilC2, pilD, pilΙ), sono distribuiti su tutto il genoma, allo stesso modo dei geni opa, di cui sono presenti 11 copie nel cromosoma di N. gonorrhoeae. Inoltre, raramente, si trovano in Neisseria geni trascrizionalmente uniti (operoni), anche se esistono alcune eccezioni, come ad esempio il cluster, strettamente organizzato, dei geni capsulari (cps) del meningococco. Un altro aspetto degno di nota del genoma delle neisserie patogene è la presenza di numerose sequenze di inserzione (IS), pseudo-geni e sequenze ripetute che contribuiscono all’espressione dei geni associati alla virulenza. In generale una caratteristica centrale nell’evoluzione di gonococchi e meningococchi è la plasticità del genoma, che determina una variabilità fenotipica; questo dinamismo genetico consente alle neisserie patogene di evadere dall’immunità naturale dell’ospite e in taluni casi anche dall’immunità vaccino-indotta. Non è ancora ben chiaro se la peculiare organizzazione cromosomica delle specie di Neisseria sia correlata con altre caratteristiche tipiche di questo microrganismo, come la trasformazione naturale, la variabilità genetica e di popolazione (clonali, panmittiche). Soprattutto, non è noto se la plasticità genomica trovata nelle specie di Neisseria sia correlata con lo stile di vita del microrganismo, caratterizzato da uno spettro d’ospite estremamente limitato e dalla capacità di causare infezioni persistenti, oppure se semplicemente rifletta il fatto che questi batteri siano giovani in termini di evoluzione e ancora all’inizio di un processo adattativo nei confronti del loro ospite. Oggi è noto che un fattore di cruciale importanza nell’evoluzione e nell’epidemiologia delle specie di Neisseria è rappresentato dagli scambi genetici orizzontali. Esiste

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un continuo flusso orizzontale di materiale genetico che influenza la composizione cromosomale non solo delle specie patogene di Neisseria, ma anche di molte specie commensali. Esistono infatti numerose evidenze di scambi orizzontali di materiale genetico tra specie commensali e patogene di Neisseria, tra meningococchi e gonococchi, e tra diversi ceppi nell’ambito di una determinata specie di Neisseria, responsabili della generazione di geni a mosaico. Lo scambio genetico orizzontale si può immaginare come un meccanismo adattativo a lungo termine che i batteri utilizzano per rispondere ai continui ed enormi cambiamenti ambientali e per assicurare la flessibilità genetica delle specie di Neisseria, anche se risulta difficile fornire una stima precisa della frequenza e dei tempi con cui tali scambi avvengono in natura. Le popolazioni microbiche non solo devono adattarsi agli enormi cambiamenti ambientali cui vanno incontro durante la coevoluzione con l’ospite, ma anche ai ricorrenti cambiamenti microambientali, che si verificano, ad esempio, durante il corso del processo infettivo. Per rispondere a questo, i microrganismi hanno sviluppato idonei programmi adattativi come la variazione genetica e la regolazione genica, due meccanismi genetici compatibili e spesso interconnessi. La variazione genetica consiste in cambiamenti spontanei del DNA, ereditati dalla progenie e spesso reversibili; questi cambiamenti sono casuali e avvengono in loci distinti, e in sostanza inducono la sintesi di prodotti genici alternativi. Come conseguenza, la variazione genetica genera popolazioni eterogenee di un determinato ceppo microbico, in modo tale che una frazione della popolazione stessa possa esibire un appropriato adattamento microambientale. Al contrario, la seconda strategia di adattamento microbico, la regolazione genica, influenza la popolazione batterica nella sua globalità in risposta a un determinato stimolo ambientale, come la temperatura, l’osmolarità, oppure specifiche sostanze; in tal caso i batteri modificano l’espressione genica in maniera coordinata per meglio adattarsi alla nuova condizione. Evidentemente, entrambe le strategie hanno specifici vantaggi per i microrganismi: mentre la variazione genetica protegge meglio una piccola parte della popolazione da un’ampia varietà di imprevedibili cambiamenti, la regolazione genica realizza un preciso processo adattativo per il beneficio dell’intera popolazione. Sebbene Neisseria rappresenti un paradigma della variabilità genetica, i processi di regolazione genica sembrano giocare un ruolo altrettanto importante nella patogenicità di questi batteri. Sono stati infatti identificati sistemi di risposta allo stress, sensibili allo shock termico, alla privazione di nutrienti e alla restrizione di ferro, il cui meccanismo genetico è attualmente in corso di studio. Variazione antigenica e variazione di fase Un’interessante caratteristica di numerose strutture di superficie (pili, Opa, LOS), che svolgono una funzione essenziale nel processo infettivo di Neisseria (tab. 24.1), è data dal fatto che esse sono rappresentate nel genoma da famiglie geniche e vanno incontro a variazione della loro struttura. L’esempio più rappresentativo di variazione antigenica riguarda la subunità maggiore del pilus, PilE o pilina, che si realizza attraverso meccanismi irreversibili di ricombinazione genica, con una frequenza elevata di circa 10–4 per divisione cellulare. Nel genoma di Neisseria sono presenti copie geniche multiple per l’espressione dei pili, non collegate tra di loro, la maggior parte delle quali non sono espresse, copie geniche incomplete (silenti/criptiche) (pilS), mentre solo una o due di queste rappresentano copie geniche espresse (pilE). Le copie pilS costituiscono un repertorio di sequenze diverse e durante la replicazione del cromosoma vengono utilizzate per la ricombinazione con il locus di espressione pilE: ciò genera molecole di pilina antigenicamente differenti. In N. gonorrhoeae questo repertorio è abbastanza grande da produrre potenzialmente oltre 107 varianti della pilina.

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Tabella 24.1 Determinanti di virulenza delle neisserie.

Caratteristiche

Funzione patogena e attività

Pili di tipo IV

Adesine PilE - principale proteina pilinica PilC - proteina associata all’estremità libera del pilus Variazione di fase/antigenica

Coinvolti nell’interazione iniziale con le cellule epiteliali. Possono avere anche effetto antifagocitario. Necessari per l’assunzione del DNA. Mediano la motilità “twitching” e la motilità “gliding” sociale

Proteine Opa

Adesine/invasine Proteine della membrana esterna Variazione di fase/antigenica

Coinvolte nell’adesione intima e nell’invasione delle cellule ospiti

Proteine Opc

Adesine/invasine Proteine della membrana esterna

Coinvolte nel processo d’adesione alle cellule bersaglio

Porine

Proteine della membrana esterna PorA PorB

Formano canali ionici voltaggio-dipendenti. Probabile coinvolgimento nella traslocazione citoplasmatica dei batteri

IgA proteasi (N. meningitidis)

Endoproteinasi della classe serin-proteasi

Attaccano le immunoglobuline A1 dell’ospite umano e LAMP1 (lysosome associated membrane protein)

LOS

Lipooligosaccaride della membrana esterna Variazione antigenica

Componente endotossica delle cellule batteriche. Media l’adesione batterio-batterio (formazione delle microcolonie); elicita la risposta infiammatoria e innesca il rilascio di TNFα

Capsula (N. meningitidis)

Componente di natura polisaccaridica 13 gruppi sierologici Variazione di fase

Protegge i batteri dalle risposte immunitarie dell’ospite

Questa notevole variabilità della struttura primaria della pilina causa profondi cambiamenti dell’immunoreattività, delle modificazioni post-traduzionali e delle funzioni di adesione. Grazie a tale strategia adattativa le neisserie sono in grado, da un lato, di eludere la risposta immunitaria dell’ospite e, dall’altro, di selezionare le varianti biologicamente più attive di talune strutture superficiali, ottimizzando così i processi di adesione e invasione. Diversamente dai geni codificanti la subunità maggiore del pilo, i geni che codificano per le proteine Opa, Opc, PilC e per la capsula (SiaD) sono rappresentati da varianti geniche complete che subiscono frequentemente variazione di fase (on/off switches), ma raramente ricombinano tra loro. Questi switches avvengono attraverso meccanismi di scivolamento della cornice di lettura del DNA, che coinvolgono sequenze nucleotidiche ripetute (omo- o etero-polimeriche) all’interno di sequenze geniche codificanti; la variazione del numero di unità ripetute altera la cornice di lettura e di conseguenza influenza la traduzione di prodotti genici funzionali. La variazione di fase altera casualmente l’espressione, non solo dei geni sopra menzionati, ma di geni codificanti numerose componenti strutturali e funzionali, tra cui: proteine della membrana esterna come le porine (PorA), proteine coinvolte nel metabolismo del lipooligosaccaride (LgtA, LgtG), proteine coinvolte nel metabolismo del ferro (FrpB) e, probabilmente, di altri fattori di virulenza (ad es. tossine del tipo RTX, serin-proteasi), oltre che di fattori che influenzano gli scambi genetici. Questo meccanismo permette di controllare reversibilmente l’espressione di vari determinanti di patogenicità, consente al microrganismo di scegliere tra stili di vita alternativi (commensale o patogeno, intracellulare o extracellulare), e di esprimere nell’ambito della popolazione microbica una piccola frazione con un fenotipo compatibile (con una superficie antigenicamente diversa) con un ciclo infettivo produttivo.

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Pili Similmente ad altri batteri gram-negativi, le neisserie patogene producono pili di tipo IV, filamenti polimerici di circa 6 nm di diametro e di diversi μm di lunghezza, che protrudono sulla superficie della cellula batterica. Essi sono indispensabili nelle fasi iniziali del processo infettivo, in quanto permettono l’adesione dei batteri alle cellule epiteliali. Tali strutture non sono semplicemente delle passive fibre adesive, ma delle macchine dinamiche che partecipano a un sorprendente numero di funzioni (trasferimento genetico; trasformazione, coniugazione e trasduzione fagica, adesione, colonizzazione e motilità batterica). La fibra del pilus di tipo IV è composta principalmente di pilina, PilE, un polipeptide di 18-22 kDa. La pilina è sintetizzata come una proteina precursore, con una sequenza segnale di secrezione non convenzionale, e subisce un caratteristico processing ad opera della pre-pilina peptidasi/transmetilasi, PilD, che porta alla formazione della subunità pilinica matura. La pilina subisce modificazioni post-traduzionali (fosforilazione e/o glicosilazione) che possono influenzare il riconoscimento del recettore. Le subunità piliniche polimerizzano in un’elica cilindrica in cui le code piliniche idrofobiche si impacchettano nel core cilindrico a formare una struttura “coiled-coil”, la quale probabilmente è responsabile della forza tensile delle fibre, mentre le teste piliniche globulari sono rivolte verso l’esterno a formare la superficie del cilindro. Le proteine PilE non sembrano in grado di interagire direttamente con la cellula ospite: l’adesione pilus-mediata si realizzerebbe ad opera di una grossa proteina di 110 kDa, PilC (pilC1 e pilC2) che si assocerebbe agli aggregati di pilina all’estremo libero del pilus, conferendogli specifiche capacità di adesione. La proteina PilC è implicata nell’interazione con un recettore del pilo sito sulle cellule epiteliali e identificato nella proteina regolatoria del complemento CD46, o cofattore proteico di membrana (MCP), in realtà espresso su quasi tutte le cellule umane. È interessante notare che l’adesione pilus-mediata innesca una serie di risposte della cellula ospite che determinano riarrangiamenti del citoscheletro e modificazioni della membrana plasmatica indispensabili per la formazione delle cosiddette placche corticali di adesione, strutture simili a “invasomi” come quelli osservati in seguito all’interazione dei pili di tipo IV con le cellule ospiti nell’infezione da Βartοnella henselae, agente eziologico della febbre da graffio di gatto. I pili di tipo IV di Neisseria mediano, inoltre, la motilità “twitching” e la motilità “gliding” sociale, due caratteristiche modalità di migrazione attiva (non di diffusione browniana), che richiedono la funzione della proteina PilT, e permettono al batterio di muoversi a una velocità di circa 1 μm/s. Proteine Opa All’iniziale fase di adesione pilus-mediata segue una seconda fase caratterizzata dalla perdita dei pili e mediata da proteine della membrana esterna del batterio, responsabili di un attacco più diretto ed esteso delle neisserie alla cellula epiteliale. La seconda classe principale di proteine coinvolte nell’adesione alle cellule ospiti è codificata dalla famiglia dei geni opa. Il repertorio specifico di geni opa è estremamente variabile: i ceppi di gonococco generalmente possiedono 11 loci opa, mentre i ceppi di meningococco hanno in genere 4-5 loci opa. Fino a pochi anni fa la nomenclatura opa/Opa non era standardizzata, e spesso applicata in modo contraddittorio. Le proteine Opa vengono indicate anche come proteine dell’Opacità (così dette perché responsabili dell’aspetto opaco delle colonie), OMP (outer membrane protein) di tipo II, o p.II. Tutti i geni opa sequenziati presentano al 5′ una sequenza ripetuta in tandem [CTCTT]n che causa variazione di fase ad alta frequenza. Durante la replicazione cromosomica, lo slittamento replicativo nella regione del peptide leader provoca che la sequenza di cinque basi possa essere ripetuta un numero variabile di volte. Come risultato, un determinato batterio può reversibilmente esprimere nessuna, una o diverse

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proteine Opa. Inoltre, il trasferimento orizzontale di geni promuove la formazione di loci opa ricombinanti ibridi. Le proteine Opa possiedono 8 foglietti β-transmembrana (relativamente conservati) e 4 loop (tre variabili e uno conservato) esposti in superficie. È sperimentalmente dimostrato che linee cellulari differenti interagiscono con particolari Opa, indicando che l’espressione delle proteine Opa è un determinante del tropismo cellulare. Oggi è nota l’esistenza di due ampie classi di recettori per le proteine Opa. La prima classe di recettori è rappresentata dai proteoglicani eparan-solfato (HSPGs). I recettori HPSGs legano Opa che possiedono loop esposti in superficie ricchi di residui aminoacidici carichi positivamente, come la proteina Opa 30 di gonococco che media un efficiente legame e invasione delle cellule congiuntivali. La seconda classe di recettori Opa è rappresentata dalle proteine CD66-correlate, codificate da diversi geni, e variabilmente espresse su differenti tipi cellulari. Queste proteine sono caratterizzate da alta affinità di legame per le proteine Opa ma con specificità di legame variabile. Il legame delle Opa ai loro specifici recettori innesca una serie di segnali che conducono all’invasione dei batteri attraverso vari pathway, e probabilmente anche a differenti destini intracellulari e/o esiti di infezione. Anche le proteine di classe V della membrana esterna, rinominate Opc per la debole omologia con le proteine Opa, sono coinvolte nel processo di adesione. Il gene opc è presente in molti ma non in tutti i ceppi di meningococco ed è associato con la virulenza. L’espressione di opc in meningococchi non capsulati conferisce ai batteri la capacità di aderire e di invadere le cellule endoteliali indipendentemente dalla presenza di Opa e pili. L’interazione delle adesine/invasine del batterio con i relativi recettori della cellula epiteliale stabilisce un “cross-talk” tra i batteri e la cellula bersaglio in seguito al quale essi vengono inglobati all’interno di vescicole e traslocati alla membrana basale per essere poi esocitati nella sottomucosa ad opera di un processo di transcitosi. Porine In tale stadio del processo infettivo giocano un ruolo critico le più abbondanti proteine della membrana esterna delle neisserie, le porine. Queste proteine di circa 30 kDa formano canali ionici essenziali per la sopravvivenza dei batteri. Alcune evidenze indicano che le porine (PorA e PorB) sono capaci di traslocare nelle membrane delle cellule ospiti, dove funzionano da canali ionici voltaggio-dipendenti, determinando una transitoria variazione del potenziale di membrana, con conseguente alterazione dei segnali cellulari. Sebbene l’esatto ruolo delle porine nel processo infettivo non sia ancora del tutto chiaro, è stato osservato che le porine PorA e PorB sono capaci di “nucleare” le molecole di actina, suggerendo quindi un loro possibile coinvolgimento nella traslocazione citoplasmatica dei batteri infettanti. Altre proteine di superficie Sebbene i pili, le Opa e le Opc rappresentino la più importante e studiata classe di adesine delle neisserie, oggi sono stati descritti altri antigeni coinvolti nell’adesione, soprattutto del meningococco, con la cellula ospite. Tra queste molecole di superficie è stata caratterizzata la proteina NhhA (Neisseria hia/hsf homologue), un auto-trasportatore trimerico che si lega alle proteine della matrice extracellulare, eparan-solfati e laminina, e facilita l’adesione alle cellule epiteliali dell’ospite. Altre molecole coinvolte nei processi di adesione sono la proteina App (proteina di adesione e penetrazione), un’adesina con attività di serin-proteasi auto-catalitica, e la proteina NadA (Neisseria adhesin A), un auto-trasportatore trimerico appartenente alla famiglia oligomerica delle adesine con motivi “coiled-coil”. NadA forma trimeri stabili sulla superficie batterica

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che mediano il legame alle cellule epiteliali; interagisce inoltre anche con la heat shock protein 90, e questo influenza il fenotipo adesivo. La presenza nel meningococco di molteplici adesine con differenti specificità per il recettore suggerisce che esse potrebbero interagire in modo cooperativo sulle stesse cellule bersaglio, o potrebbero agire in diverse fasi durante l’infezione, mediando l’adesione a diversi tipi di cellule in distinti siti anatomici. IgA proteasi Una caratteristica comune delle neisserie patogene è la produzione e la secrezione di una famiglia di endoproteinasi antigenicamente differenti che attaccano specificamente le immunoglobuline di classe A1 dei loro ospiti umani, le IgA proteasi che appartengono alla classe delle serin-proteasi e sembrano svolgere un ruolo importante nella patogenesi batterica. A differenza dei pili e delle proteine Opa, le IgA proteasi sono codificate da singole copie geniche (iga) altamente conservate. Tali proteine vengono prodotte come poli-proteine precursori (Iga) di circa 170 kDa, composte da cinque domini proteici distinti, un peptide leader ΝΗ2-terminale seguito dall’IgA proteasi (IgaP) e dai domini Igaγ, Igaα e Igaβ, che vengono processate per avere il prodotto maturo. Le IgA proteasi, oltre a neutralizzare le IgA secretorie prodotte dalle cellule mucosali, svolgono una seconda importante funzione nel processo patogenetico. Numerose sono, infatti, le evidenze che supportano l’ipotesi secondo cui le IgA proteasi attaccano la principale glicoproteina strutturale di membrana dei lisosomi, LAMPI (lysosome-associated membrane protein), la cui degradazione promuoverebbe la sopravvivenza del batterio all’interno delle cellule epiteliali infettate. Lipooligosaccaride La membrana esterna delle neisserie è caratterizzata da un lipopolisaccaride (LPS) costituito da brevi catene di zuccheri, privo di alcune catene ripetitive dell’antigene O, e perciò definito lipooligosaccaride (LOS). Ne sono stati individuati sei sierotipi in N. gonorrhoeae e dodici in N. meningitidis. Il lipooligosaccaride è composto da glucosio, galattosio, acido 3-cheto-2-desossioctanoico, glucosamina, galattosamina ed etanolamina in proporzioni differenti in base al sierotipo. La catena oligosaccaridica composta da 5 a 10 unità monosaccaridiche è legata al lipide A mediante l’acido 3-deossi-D-manno-ottulosonico. Il LOS delle neisserie rientra nelle strutture della superficie batterica soggette a variazione antigenica. L’enorme eterogeneità strutturale del LOS è dimostrata sia in vitro sia in vivo. Nei portatori sani del meningococco, la maggior parte dei batteri isolati dal nasofaringe (70%) non è capsulata ed esprime una forma breve di LOS, mentre nei soggetti malati il 97% degli isolati da sangue e liquido cerebrospinale (CFS) è capsulato e presenta una forma lunga di LOS. Allo stesso modo, i batteri isolati precocemente durante le infezioni gonococciche hanno una forma breve di LOS, mentre dopo lo sviluppo della risposta infiammatoria predomina un fenotipo batterico provvisto di una forma lunga di LOS. Il LOS può essere modificato dall’aggiunta di residui di acido sialico ad opera di una sialiltransferasi codificata dal batterio. È importante sottolineare che N. gonorrhoeae non sintetizza acido sialico, e il donatore di acido sialico è l’acido citidinamonofosfato-N-acetilneuraminico ospite-derivato (CMP-NANA). Poiché solo alcune varianti del LOS possono subire tale modificazione, e la sintesi di queste varianti è controllata da enzimi fase-variabili, la “sialilazione” del LOS è un fenotipo variabile. I residui di acido sialico, presenti oltre che nel LOS anche nella capsula, aumentano la carica negativa della superficie del batterio e da un lato conferiscono resistenza al complemento e alla fagocitosi ma, dall’altro, inibiscono l’adesione e l’invasione Opa- e Opc-mediata delle cellule ospiti. Al contrario, questi carboidrati non inibiscono l’adesione mediata dai pili

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di tipo IV, probabilmente perché i pili si estendono abbastanza lontano dalla superficie cellulare batterica così che la repulsione elettrostatica tra residui di acido sialico del batterio e la superficie della cellula ospite è trascurabile. Capsula La maggior parte dei meningococchi possiede una capsula di natura polisaccaridica che rappresenta uno dei determinanti chiave della virulenza del batterio. La presenza della capsula impedisce la fagocitosi, la lisi complemento-mediata e maschera le proteine della membrana esterna, rilevante bersaglio della risposta anticorpale dell’ospite, una volta che il batterio ha raggiunto il circolo ematico. Il polisaccaride capsulare è un omopolimero o eteropolimero formato da unità ripetute di monosaccaridi, disaccaridi o trisaccaridi. Ad eccezione del sierogruppo A, la cui capsula è costituita da unità ripetute di N-acetil-mannosammina-1-fosfato ed è codificata da una cassetta genica specifica di questo gruppo, la capsula dei meningococchi appartenenti ai principali sierogruppi è composta da derivati dell’acido sialico (acido N-acetilneuraminico, NANA) (tab. 24.2). La sierotipizzazione è di fondamentale importanza per lo sviluppo di strategie di vaccinazione. I meningococchi hanno, tra l’altro, la capacità di scambiare il materiale genetico responsabile della produzione della capsula e possono quindi passare dall’espressione di una capsula di sierogruppo B all’espressione di una capsula di sierogruppo C o viceversa. Lo switching della capsula può rappresentare un importante meccanismo di virulenza e di evasione dall’immunità protettiva, a causa dell’utilizzo diffuso di vaccini che forniscono una protezione sierogruppo-specifica. La presenza della capsula dipende dalla presenza e dall’espressione di geni deputati alla biosintesi, modificazione e trasporto, localizzati rispettivamente nelle regioni A, B e C, del locus cps del genoma di meningococco. I geni della regione A sono responsabili della sintesi e polimerizzazione del polisaccaride e quindi determinano la composizione biochimica della capsula e il sierogruppo. Le regioni B e C contengono geni responsabili della modificazione e della traslocazione del polisaccaride dal citoplasma alla superficie. Nei meningococchi che esprimono capsule contenenti acido sialico (sierogruppi B, C, W-135 e Y), la regione A comprende i geni siaA, siaB e siaC, necessari per la sintesi di acido sialico attivato (CMP-Neu5Ac), e il gene sierogruppo-specifico siaD, codificante la polisialiltransferasi (fig. 24.4). Studi in vitro hanno dimostrato che lo scivolamento della cornice di lettura e le inserzioni in questa regione dell’elemento mobile IS1301 provocano l’inattivazione reversibile dell’espressione della capsula di sierogruppo B, che può favorire la colonizzazione del naso-faringe. La variazione di fase della capsula ha importanti ripercussioni patogenetiche: la sua assenza nelle fasi iniziali del processo infettivo favorisce l’interazione Opa- e Opc-mediata dei meningococchi con le cellule bersaglio che è fondamentale per l’invasione Tabella 24.2 Struttura del polisaccaride capsulare nei principali sierogruppi di menin-

gococco.

Sierogruppo

Caratteristiche del polisaccaride capsulare

A

Unità ripetute di N-acetil-mannosammina-1-fosfato

B

Unità di acido N-acetilneuraminico, NANA, con legame (α,2-8)

C

Unità di acido N-acetilneuraminico, NANA, con legame (α,2-9)

Y

Residui alternati di d-glucosio e NANA

W-135

Residui alternati di d-galattosio e NANA

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Regione C: trasporto

Regione B: modificazione

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siaA

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siaC

siaD

Regione A: sintesi

Figura 24.4 Descrizione schematica del locus della capsula (cps) di Neisseria meningitidis comprendente i geni necessari per la sintesi, la modificazione e il trasporto della capsula.

cellulare; la sua presenza negli stadi successivi all’invasione protegge invece i batteri dalle risposte immunitarie dell’ospite, sia specifiche che aspecifiche, favorendo la persistenza dell’infezione. A livello molecolare la variazione di fase della capsula coinvolge una ripetizione omopolimerica di residui di citosine nella regione 5′ tradotta del gene siaD: la variazione del numero delle citosine, causata da delezioni o inserzioni, determina lo scivolamento della cornice di lettura e l’interruzione prematura della traduzione, responsabile della mancata espressione della capsula.

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Diagnosi di laboratorio

La malattia meningococcica continua a rappresentare un importante problema di sanità pubblica in Italia e nel mondo, soprattutto perché, nonostante l’affiancamento di tecniche innovative a quelle tradizionali, una diagnosi precoce certa risulta difficile. Il “gold standard” per la diagnosi di malattia meningococcica è ancora oggi l’isolamento di N. meningitidis, tuttavia esistono diversi metodi per il rilevamento di antigeni nel sangue, nel liquido cerebrospinale, nel liquido sinoviale, nelle urine, o con il raschiamento delle lesioni petecchiali in pazienti che hanno un tipico quadro clinico. Con il test di agglutinazione al lattice e con quello di contro-immunoforesi si possono evidenziare polisaccaridi capsulari dei vari sierogruppi nei liquidi biologici. L’isolamento dei meningococchi dalle colture di materiale rinofaringeo non consente la diagnosi di malattia meningococcica, ma la positività di queste colture rappresenta un modo valido per evidenziare i portatori. Le procedure più diffuse e valide per la diagnosi di setticemia e meningite meningococcica sono gli esami colturali del sangue e del liquor. L’emocoltura si esegue aggiungendo 10 mL di sangue a 100 mL di un terreno liquido idoneo (ad es. brodo triptoso fosfato) e sull’insemenzamento di 0,1 mL di sangue sulla superficie di una piastra di agar sangue (o di Thayer-Martin, ovvero agar cioccolato con l’aggiunta di specifici antibiotici). L’esame colturale del liquor si esegue effettuando una rachicentesi e facendo cadere qualche goccia di liquor direttamente sulla superficie di una piastra da coltura e/o in una provetta contenente brodo colturale. È consigliabile inoltre effettuare un arricchimento incubando un campione di liquor come tale, in opportune condizioni, e successivamente eseguire subcolture. Questo procedimento talvolta permette di evidenziare la presenza di meningococchi quando le colture originarie delle gocce di liquor risultano negative. Il liquor deve essere inoltre sottoposto ad analisi chimico-fisica per determinare la quantità di glucosio (bassa), di proteine (elevata), oltre al numero e al tipo di leucociti (di solito predominano i polimorfonucleati). Per identificare i meningococchi è opportuno, infine, eseguire test biochimici (ossidasi- e catalasi-positivi), oltre a prove di fermentazione e immunodosaggi sierologici. Attualmente, per la rilevazione dei meningococchi patogeni, accanto alle metodiche tradizionali, sono disponibili tecniche di amplificazione molecolare che hanno assunto un ruolo determinante nella diagnostica microbiologica. Tra i metodi non colturali utilizzati per la diagnosi di malattia meningococcica, sempre più diffuse sono le metodiche NAAT (Nucleic Acid Amplification Tests) basate sulla PCR, che hanno come

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Capitolo 24 • Neisseria

bersaglio diversi geni, tra cui il gene per l’rRNA 16S, il gene di regolazione conservato, crgA, e il gene ctrA, coinvolto nel trasporto della capsula. Inoltre, in uno studio recente è stato dimostrato il valore diagnostico di un’analisi di PCR che amplifica un segmento della sequenza d’inserzione meningococcica IS1106, che permette di rilevare in maniera sensibile e specifica il DNA di N. meningitidis da campioni clinici di liquido cerebrospinale di pazienti già sottoposti a trattamento antibiotico, situazione in cui l’esame colturale risulta spesso falsamente negativo. Un’adeguata sorveglianza delle meningiti meningococciche richiede la determinazione del ceppo specificamente coinvolto. Accanto alle tradizionali tecniche di caratterizzazione fenotipica dei meningococchi, eseguite su isolati colturali, sono oggi disponibili diverse tecniche di tipizzazione molecolare che possono essere eseguite direttamente su campioni clinici (liquor, sangue ecc.). Tra queste, la Multilocus Sequence Typing, tecnica basata sulla PCR e sull’analisi delle sequenze nucleotidiche, si è dimostrata particolarmente utile sia per gli studi epidemiologici a lungo termine, sia per l’analisi di cluster dei focolai epidemici (quindi sia per la diagnostica che per la sorveglianza della meningite meningococcica). La caratterizzazione genotipica mediante Multilocus Sequence Typing permette di rilevare le relazioni clonali tra i microrganismi e consente di identificare le linee ipervirulente più importanti nell’ambito di ciascun sierogruppo, come ad esempio la linea ipervirulenta (ST-11/ET-37) (Sequenze Type 11/Electrophoretic Type 37), in cui rientrano i ceppi di N. meningitidis più frequentemente causa di malattia meningococcica negli ultimi anni in Europa. Per la diagnosi delle infezioni genitourinarie da Neisseria gonorrhoeae sono disponibili diverse metodiche. Il “gold standard” delle tecniche identificative è ancora oggi rappresentato da tecniche tradizionali, come l’osservazione al microscopio dopo colorazione di Gram e dall’isolamento colturale con successiva identificazione biochimica o immunologica, dotate di elevata sensibilità e specificità, specie nei soggetti sintomatici. Una diagnosi presuntiva di gonorrea può essere formulata sulla base dell’evidenza di diplococchi gram-negativi intraleucocitari (PII) su strisci di essudato uretrale o endocervicale appena raccolto, colorati con il metodo di Gram (fig. 24.5). La diagnosi è dubbia se si osservano solo diplococchi gram-negativi atipici o extracellulari. Nei casi in cui sia possibile, è opportuno eseguire un esame colturale dell’essudato per l’isolamento dei gonococchi e per permettere l’esecuzione dell’antibiogramma sui ceppi isolati, prima dell’inizio della terapia. I terreni Thayer-Martin, Thayer-Martin modificato e Martin-Lewis, che contengono antibiotici in grado di inibire in modo selettivo la maggior parte degli altri microrganismi, sono molto utili per l’isolamento dei gonococchi dall’uretra, dall’endocervice e dalla faringe, dove è presente una ricca microflora residente. Campioni prelevati a livello rettale vengono seminati su piastre di terreno Thayer-Martin modificato, oppure su un terreno equivalente che contenga trimethoprim lattato, che inibisce i microrganismi che sciamano sulla piastra di coltura, come le specie di Proteus. Dopo l’inoculo, i terreni vanno incubati in un ambiente idoneo per 48 ore e le colonie gonococciche sospette devono essere esaminate con la reazione all’ossidasi, la colorazione di Gram, i test di utilizzazione degli zuccheri e le reazioni di agglutinazione utilizzando anticorpi specifici per Ν. gonorrhoeae. Normali brodi di coltura (tryptic soy, Columbia, infusione cuore-cervello) devono essere impiegati per le emocolture e sono inoltre raccomandati per il liquido sinoviale. Data la scarsa resistenza dei gonococchi, è necessario che i campioni vengano coltivati immediatamente dopo il prelievo o che vengano messi in particolari terreni di trasporto. Un altro approccio diagnostico si basa sulla ricerca di antigeni gonococcici nell’essudato uretrale o cervicale tramite il test enzimatico di immunoadsorbimento (ELISA). Metodiche alternative includono, invece, i NAATs e test di ibridizzazione. I test ΝΑAΤ, tra cui ricordiamo la nested-PCR per diversi geni target, sono più sensibili dei metodi colturali, offrono la possibilità di effettuare il test su una più ampia gamma di

279

Figura 24.5 Fotografia al microscopio ottico di N. gonorrhoeae da striscio di essudato uretrale. Colorazione di Gram su un campione uretrale che mostra la presenza di diplococchi gram-negativi sia intracellulari (freccia) sia extracellulari. Nei pazienti sintomatici questa metodica è considerata diagnostica di infezioni sessualmente trasmesse causate da N. gonorrhoeae.

A

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campioni e sono molto meno esigenti in termini di qualità di campione, di trasporto e di conservazione dello stesso. I saggi molecolari mostrano sensibilità elevata (> 96%) in entrambe le infezioni sintomatiche e asintomatiche, e mostrano sensibilità equivalente nei campioni di urina e nei tamponi uretrali nell’uomo e nei tamponi vulvo-vaginali ed endocervicali nelle donne, e soprattutto rappresentano il test di elezione nei soggetti asintomatici. I saggi NAATs hanno mostrato un buon rapporto costo-efficacia nel prevenire le sequele causate da infezioni da N. gonorrhoeae. La maggiore sensibilità di questi saggi molecolari è attribuibile alla loro capacità teorica di produrre un segnale positivo anche da una sola copia del DNA o RNA bersaglio (ad es. RNA ribosomale 16S e 23S). Questa elevata sensibilità ha permesso l’uso di campioni clinici sempre meno invasivi come urine di primo mitto da donne e uomini, tamponi vaginali ed endocervicali per le donne, tamponi uretrali per gli uomini, il che ha, inoltre, permesso di facilitare notevolmente lo screening. Va tuttavia sottolineato che i NAATs per la ricerca di N. gonorrhoeae presentano dei limiti: la sensibilità infatti resta molto elevata (> 96%), ma la specificità non lo è altrettanto, a causa del rischio di falsi positivi, soprattutto per i prelievi ano-rettali e faringei, dovuti a cross-reazioni con neisserie commensali non patogene, oltre che con N. meningitidis. La falsa positività può essere dovuta a sequenze target, non presenti in alcuni sottotipi di N. gonorrhoeae e presenti invece in ceppi di Neisseria commensali. Nella pratica clinica non dovrebbero essere utilizzati come unico saggio diagnostico di routine, ma dovrebbero sempre essere confermati dall’esame colturale. Infine, i test non colturali non forniscono informazioni sulla sensibilità agli agenti antimicrobici, per cui nel caso di risultati positivi viene generalmente richiesto l’antibiogramma dall’esame colturale.

■■

Epidemiologia e prevenzione della malattia meningococcica

L’ambiente naturale del meningococco è il tratto oro-faringeo dell’uomo, dove si impianta il più delle volte senza provocare alcun sintomo (fig. 24.6). Questo stato di portatore può persistere per un tempo indefinito; tale condizione rappresenta la principale riserva di meningococchi e aumenta le resistenze immunitarie dell’ospite. La frequenza di portatori sani nella popolazione è piuttosto elevata (fino al 30% a seconda delle aree geografiche) e può raggiungere il 100% durante le epidemie. I ceppi isolati dai portatori sani possono essere capsulati (raggruppabili) oppure non capsulati (non raggruppabili). La trasmissione interpersonale avviene con l’inalazione di goccioline provenienti da secrezioni orofaringee infette. La trasmissione dell’infezione da paziente a paziente è rara; i portatori più che i pazienti costituiscono i focolai da cui si diffonde la malattia. La frequenza di trasmissione di cloni virulenti e la possibilità di sviluppare malattia invasiva sono più elevate entro la prima settimana successiva all’acquisizione. Sebbene in alcune persone alberghino i meningococchi per molti anni, l’infezione dell’orofaringe è di solito transitoria, e nel 75% dei portatori il germe scompare entro un arco di tempo che va da poche settimane a pochi mesi. La colonizzazione solo raramente porta alla malattia, perché anticorpi specifici e complemento lisano i microrganismi nel sangue e forniscono pertanto una barriera efficace alla disseminazione. Dei sierogruppi più comuni (A, B, C, Y, W-135), responsabili di oltre il 90% delle infezioni da N. meningitidis, i sierogruppi A, B e C sono la principale causa di malattia meningococcica in tutto il mondo. In particolare, in Asia e Africa predominano i sierogruppi A e C, mentre in Europa e in America i più diffusi sono i sierogruppi B e C. Negli ultimi anni si è registrato anche un sensibile incremento di casi provocati dal sierogruppo Y e più raramente in Africa dal siero gruppo X. I focolai epidemici più ampi e frequenti si registrano in Africa nella zona sub-sahariana, nota anche come “fascia della meningite”, una regione che si estende tra Etiopia e Senegal, dove il meningococco di sierogruppo A ha rappresentato una minaccia ricorrente negli ultimi 100 anni.

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Mucosa nasofaringea

Passaggio attraverso la mucosa

Adesione e interazione con l’epitelio nasofaringeo Sopravvivenza nel circolo sanguigno N. meningitidis

Fattori che influenzano la sopravvivenza intravascolare Capsula: protegge dalla batteriolisi complemento-mediata e dalla fagocitosi Acquisizione di ferro mediante transferrina

Sangue

Endotossina e altre componenti cellulari

Produzione di citochine della cellula ospite

Vaso sanguigno

Citochine infiammatorie (fattore di necrosi tumorale α , interleuchina 1β, 6, 8)

Citochine antinfiammatorie (interleuchina 10)

Passaggio attraverso la barriera ematoencefalica

Liquido cerebrospinale

Vaso sanguigno

N. meningitidis

Via alternativa del complemento

Moltiplicazione nello spazio subaracnoideo

Endotelio della barriera ematoencefalica

Liquido cerebrospinale

Figura 24.6 Ciclo infettivo di Neisseria meningitidis.

N. meningitidis

A

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Figura 24.7 Meningite meningococcica nel mondo. In rosso è evidenziata l’area geografica maggiormente colpita da epidemie causate da ceppi di N. meningitidis di sierogruppo A (fascia sub-sahariana).

Cintura meningitica Zone epidemiche Zone endemiche e sporadiche

Figura 24.8 Principali patogeni responsabili di meningite in Italia (2014).

163

105 952

casi/anno

Streptococcus pneumoniae Neisseria meningitidis Haemophilus pneumoniae

N. meningitidis può esprimere la sua potenzialità patogena sotto forma di epidemie, di casi sporadici endemici e di epidemie circoscritte (fig. 24.7). La meningite meningococcica risulta endemica presentando, a livello mondiale, un’incidenza di circa 2 casi ogni 100 000 persone per anno. Secondo i dati forniti dal Sistema di Sorveglianza delle malattie batteriche invasive, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con il Ministero della Salute, in Italia nel 2014, ultimo anno con dati consolidati, sono stati segnalati 952 casi di malattia invasiva da Streptococcus pneumoniae (pneumococco), 163 da Neisseria meningitidis (meningococco) e 105 da Haemophilus influenzae (emofilo), con una media di casi per anno molto inferiore, grazie all’introduzione della vaccinazione dei nuovi nati (oltre 100 casi per anno prima dell’introduzione del vaccino) (fig. 24.8). L’incidenza della malattia invasiva da meningococco è maggiore nella fascia di età 0-4 anni e in particolare nel primo anno di vita in cui l’incidenza supera i 4 casi per 100 000 bambini. Tuttavia, durante i primi tre mesi gli anticorpi materni sono ancora sufficienti per esercitare una funzione protettiva. L’incidenza si mantiene elevata fino alla fascia 15-24 anni (in cui sono rilevati 0,30 casi per 100 000 abitanti nel 2014) e 2564, e invece diminuisce dai 64 anni in su (tab. 24.3). La malattia invasiva viene causata prevalentemente da microrganismi di sierogruppo B di diverso sierotipo (tab. 24.4), seguito dal meningococco C e dal sierogruppo Y. È da notare nel biennio 2015-2016 un aumento di casi di meningococco C in giovani adulti, dovuto a un anomalo aumento di casi nella regione Toscana (tab. 24.4). L’incidenza epidemica può superare quella endemica di oltre 100 volte, aumentando in modo sproporzionato dopo i due anni di età. Un’epidemia comincia come

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Tabella 24.3 Casi di malattia invasiva da Neisseria meningitidis segnalati in Italia nel periodo 2011-2016, suddivisi per

classi d’età (Istituto Superiore Sanità, aprile 2016).

Anno

0-4

5-9

10-14

15-24

25-64

> 64

Totale

2011

41

19

11

32

36

13

152

2012

42

13

8

22

35

18

138

2013

48

11

13

26

51

23

172

2014

46

11

15

18

52

21

163

2015*

38

7

9

35

56

23

168

2016*

7

6

3

9

23

9

57

Totale

222

67

59

142

253

107

*Dati parziali.

focolaio circoscritto in una popolazione demograficamente chiusa, nella quale emerge dai ceppi endemici un ceppo di un unico sierotipo, il “tipo epidemico”. Nei Paesi in via di sviluppo in cui la malattia meningococcica è endemica, il tasso di attacco varia tra 1-3 per 100 000 persone. La mortalità della malattia è significativa (14% dei casi), soprattutto nella forma fulminante e, tra i pazienti che guariscono, un altro 10-15% subisce danni permanenti. I fattori scatenanti la malattia meningococcica sono scarsamente conosciuti, sebbene caratteristiche genetiche del batterio e dell’ospite, oltre a fattori ambientali, siano implicati nella patogenesi. Nella prima metà del secolo scorso, negli Stati Uniti e in Europa la maggior parte delle epidemie è stata causata da meningococchi di gruppo A, mentre dalla seconda guerra mondiale sono stati isolati principalmente meningococchi di gruppo B e C. Sono state identificate epidemie causate da ceppi di Ν. meningitidis appartenenti ad almeno 7 gruppi clonali. Ceppi appartenenti al complesso clonale ET-37, comparso nel 1917, sono stati identificati in tutto il mondo. Nel 1980 è comparsa una variante di ET-37, indicata come ET-15, causa di focolai epidemici in America, Europa e Australia negli anni ’90. Negli ultimi trent’anni, comunque, le epidemie che si sono verificate in Europa e in America non hanno mai raggiunto tassi di incidenza alti come quelli registrati in altre parti del mondo. Nel 1970 è emerso un ceppo di sierogruppo B appartenente al complesso clonale noto come ET-5, causa di focolai epidemici in Europa e in America. Successivamente in Europa, nel 1980, sono emersi ceppi appartenenti a un altro complesso clonale di siero gruppo B, indicato come lineage III (ΕΤ-24 ed ΕΤ-25). Le epidemie si manifestano prevalentemente durante l’inverno e l’inizio della primavera e sono favorite dalla presenza nelle comunità di un vasto numero di individui non immuni, dal sovraffollamento e dallo stress. Il tasso di mortalità fra i casi di meningite meningococcica non trattati è di circa 1’85%; tuttavia, nella popolazione generale la letalità è di circa il 10%. La meningococcemia raramente evolve in meningite, tuttavia essa provoca lesioni metastatiche tromboemboliche, contenenti spesso meningococchi, a carico della cute, delle articolazioni, dei polmoni, dell’orecchio medio e delle ghiandole surrenali. Le petecchie emorragiche cutanee sono un segno caratteristico della malattia meningococcica invasiva. Microscopicamente, queste lesioni sono caratterizzate da danni endoteliali, emorragie e microtrombi nei piccoli vasi, conseguenza di una vasculite innescata da endotossine e citochine e mediata da abnorme regolazione di molecole di adesione sull’endotelio e di neutrofili attivati. I meningococchi si legano all’endotelio dei capillari cerebrali e in seguito a variazione di fase delle fimbrie attraversano la barriera ematoencefalica. I batteri possono anche accedere allo spazio subaracnoideo, all’interno delle cellule fagocitiche dell’ospite, dove l’assenza dei principali meccani-

A

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Tabella 24.4 Casi di malattia invasiva da Neisseria meningitidis segnalati in Italia, suddivisi per sierogruppo, età e anno

(Istituto Superiore Sanità, aprile 2016).

Anno

Sierogruppo

0-4

5-9

10-14

15-24

25-64

> 64

Totale

2011

A

0

0

1

0

0

0

1

B

26

11

4

16

14

5

76

C

6

2

0

5

4

3

20

W

0

0

1

0

3

0

4

Y

2

3

2

2

6

1

16

A

1

0

0

0

0

0

1

B

21

6

3

8

9

8

55

C

5

1

2

7

14

3

32

W

0

0

0

0

1

0

1

Y

2

2

2

3

5

4

18

A

0

0

0

0

0

0

0

B

29

2

2

11

9

3

56

C

8

2

1

3

22

0

36

W

1

0

1

0

1

2

5

Y

3

2

4

3

5

2

19

A

0

0

0

1

0

0

1

B

25

5

4

3

15

3

55

C

4

1

3

5

12

11

36

W

1

1

1

3

1

1

8

Y

3

1

1

1

6

3

15

A

0

0

0

0

0

0

0

B

17

4

3

9

10

5

48

C

6

1

3

15

25

8

58

W

2

0

1

2

0

2

7

Y

2

0

2

4

7

4

19

A

0

0

0

0

0

0

0

B

4

1

1

2

3

2

13

C

0

0

0

5

15

4

24

W

0

0

0

0

1

0

1

Y

1

3

2

0

1

1

8

2012

2013

2014

2015*

2016*

*Dati parziali.

smi di difesa umorali e cellulari favorisce la proliferazione incontrollata dei meningococchi. La liberazione di endotossine determina l’attivazione compartimentalizzata (confinata allo spazio subaracnoideo) di citochine pro-infiammatorie. Il successivo rilascio di prodotti da parte dei neutrofili contribuisce allo sviluppo di una meningite clinicamente manifesta. Nei casi fulminanti si verifica un’insufficienza surrenalica acuta (sindrome di Wa-

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Tabella 24.5 Sintomatologia e complicanze della malattia meningococcica.

Sintomatologia

Complicanze e sequele

Segni di ipertensione endocranica: cefalea, vomito a getto improvviso non accompagnato da nausea, bradicardia, tensione della fontanella bregmatica nei lattanti

Tromboflebite

Segni di irritazione meningea: rigidità nucale e del tronco, posizione a canna di fucile (decubito laterale con testa ripiegata all’indietro, cosce flesse sul bacino e gambe flesse), segni o riflessi antalgici da impegno meningeo (tipo S. di Brudzinski: alla flessione passiva della nuca le gambe si flettono), iperestesia cutanea

Artrite settica Pericardite Endocardite CID (coagulazione intravascolare disseminata) Shock settico

Segni neurologici: compromissione dello stato di coscienza, convulsione, fotofobia e iperacusia o ipoacusia neurosensoriale, riflessi cutanei-addominali ridotti o assenti, riflessi tendinei vivaci e accentuati

Sindrome epilettica: paralisi motorie sordità

Segni neurovegetativi: turbe del respiro e della frequenza cardiaca, dermografismo rosso con persistenza di una striatura rossa quando si sfiora la cute (segno di Trousseau)

Idrocefalo, deficit psichici

Segni infettivi: febbre, artromialgie, prostrazione, petecchie cutanee generalizzate, coagulazione intravascolare disseminata, grave sindrome cardiocircolatoria e renale da shock settico (sindrome di Watherouse-Friderichsen)

terhouse-Friderichsen) che è generalmente associata a una necrosi emorragica bilaterale della corteccia surrenalica. Questa lesione somiglia notevolmente a quella provocata nei conigli dall’inoculazione intravenosa di LPS, dopo stimolazione delle ghiandole surrenali con ACTH o dopo una precedente iniezione di LPS (reazione di Sanarelli-Schwartzman) (tab. 24.5). Lo sviluppo della malattia meningococcica dipende, nella maggior parte dei casi, dallo stato immunitario dell’ospite. L’immunità è di solito tipo-specifica e si sviluppa nella maggior parte delle persone entro i primi due decenni di vita. Anticorpi antimeningococco sono quindi presenti nella maggior parte dei casi e giocano un ruolo importante nella prevenzione della meningite meningococcica. L’immunizzazione naturale può derivare da una colonizzazione faringea durante i primi anni di vita da parte di un ceppo acapsulato o capsulato ma dotato di bassa virulenza, oppure di un microrganismo correlato avirulento come, ad esempio, Ν. lactamica, che è presente frequentemente nelle colture nasofaringee dei bambini e che viene sostituita gradualmente dalla colonizzazione di Ν. meningitidis man mano che i bambini crescono. L’immunizzazione può derivare inoltre dalla produzione di anticorpi gruppo-specifici indotta dal contatto con polisaccaridi capsulari, che presentano reazioni crociate e che derivano da altri batteri. Alcuni ceppi di Βacillus pumilus e di streptococchi di gruppo D producono infatti polisaccaridi che sono antigenicamente correlati a quelli dei meningococchi di gruppo A. Inoltre, l’antigene capsulare Κ92 di Escherichia coli presenta reazioni crociate con il polisaccaride meningococcico di gruppo C e l’antigene K1 di E. coli con quello di gruppo B. In alcuni soggetti possono verificarsi attacchi ripetuti di setticemia e di meningite meningococcica che sembrano associati frequentemente alla carenza di properdina o di uno dei fattori terminali del complemento, C5, C6, C7, C8 o C9. Questi soggetti mostrano inoltre un’aumentata sensibilità alle infezioni sistemiche sostenute da gonococchi ma non da altri microrganismi. Nelle forme non fulminanti la terapia della malattia meningococcica non presenta difficoltà, e il tasso di letalità non è superiore al 5%. La terapia deve iniziare il più presto

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possibile, anche prima dell’identificazione del meningococco. La penicillina G resta il farmaco di prima scelta (anche se in Europa è stata descritta una resistenza di grado lieve), e va somministrata per via endovenosa. Sebbene questo farmaco non oltrepassi la barriera ematoencefalica in condizioni normali, raggiunge rapidamente le meningi quando queste risultino affette da uno stato infiammatorio acuto. Il cloramfenicolo è efficace quanto la penicillina e può essere il farmaco di scelta nei Paesi in via di sviluppo, e deve essere inoltre utilizzato in associazione all’eritromicina in presenza di casi con una chiara anamnesi di reazione anafilattica alla penicillina. Risultano infine efficaci anche le cefalosporine di terza generazione (ceftriaxone, cefotaxima), che vengono spesso impiegate all’inizio della terapia, quando l’eziologia della meningite è incerta, e nei pazienti con infezione da ceppi resistenti alla penicillina. Esistono due metodi per attuare la prevenzione della malattia meningococcica: la chemioprofilassi e l’immunoprofilassi. Per la chemioprofilassi attualmente vengono impiegati la rifampicina, la minociclina, la ciprofloxacina e il ceftriaxone, che possono eliminare temporaneamente lo stato di portatore e minimizzare la diffusione dei meningococchi. Tuttavia, dato che questi farmaci presentano parecchi svantaggi, la chemioprofilassi dovrebbe essere effettuata solo nei contatti di casi sporadici nell’ambito della famiglia, degli asili nido e delle scuole materne. Non vi è alcuna testimonianza che il contatto scolastico o quello del comune personale ospedaliero comportino un significativo incremento del rischio. Per l’immunoprofilassi vengono utilizzati vaccini con polisaccaridi capsulari purificati coniugati con proteine altamente immunogene (anatossina difterica, anatossina tetanica, proteina della tossina difterica). Sono costituiti da polisaccaridi capsulari purificati provenienti da ceppi patogeni di meningococchi di sierogruppo A, C, Y e W-135 che inducono risposte anticorpali battericide gruppo-specifiche dopo iniezione sottocutanea. Sia vaccini monovalenti che un vaccino tetravalente che contiene tutti questi antigeni sono disponibili per prevenire e controllare le epidemie. Hanno la caratteristica di essere efficaci nei neonati, conferiscono una memoria immunologica e una protezione prolungata e hanno inoltre effetto booster. Motivati dal crescente incremento dei tassi di incidenza della meningite meningococcica di sierogruppo C, diversi Paesi europei hanno introdotto nel programma routinario di immunizzazione il vaccino coniugato contro il meningococco C. Tale vaccino garantisce una protezione a lungo termine solo contro le infezioni da N. meningitidis di tipo C. Con l’età adulta il rischio di infezione meningococcica diminuisce e dopo i 25 anni di età l’immunizzazione non è più raccomandata. A febbraio 2010 la Food and Drug Administration (FDA) ha licenziato il vaccino meningococcico tetravalente coniugato. Trattandosi di un vaccino coniugato, e non semplicemente di un polisaccaridico, la sua efficacia nell’indurre una significativa risposta immunitaria si riscontra anche tra i bambini più piccoli nei quali il sistema immunitario è ancora immaturo per sviluppare anticorpi contro i polisaccaridi di membrana. Si può somministrare dai 12 mesi di vita o dai due anni e protegge dai sierotipi A, C, W-135 e Y. L’efficacia degli ultimi vaccini tetravalenti coniugati rappresenta un importante passo avanti per la prevenzione della meningite meningococcica, proprio perché i vaccini quadrivalenti finora disponibili erano indicati principalmente nei soggetti con 2 anni o più, mentre la meningite colpisce maggiormente nei primi mesi di vita. Dal gennaio 2013 l’European Medicines Agency (EMA) ha autorizzato l’immissione in commercio di un nuovo vaccino contro il meningococco di sierogruppo B. Si tratta di un vaccino multicomponente (4CMenB), costituito da tre proteine antigeniche ricombinanti purificate di N. meningitidis sierogruppo B e da vescicole della membrana esterna (OMV) del batterio, indicato per l’immunizzazione attiva di soggetti di età pari o superiore ai 2 mesi contro la malattia meningococcica invasiva causata dal sierogruppo B.

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Epidemiologia della malattia gonococcica

È noto che l’incidenza e la prevalenza della gonorrea sono correlate a età, sesso, inclinazioni sessuali, razza; fattori tutti che influenzano il comportamento sessuale, l’atteggiamento di fronte a una malattia e la possibilità di poter accedere a cure mediche. Costumi e abitudini di vita più liberi, facilità di spostamento fra continenti, migrazioni, ricerca di condizioni socio-economiche migliori, hanno inoltre contribuito in modo decisivo all’espansione di questa come di altre infezioni sessualmente trasmissibili. L’infezione gonococcica sessualmente trasmessa si verifica tipicamente sull’epitelio mucosale dell’uretra maschile o della cervice uterina femminile (fig. 24.9). Il gonococco può anche infettare il retto, la gola e la congiuntiva. La trasmissione avviene generalmente attraverso contatto sessuale diretto, ma sono riportate anche modalità indirette di trasmissione. Nei maschi eterosessuali l’infezione si localizza comunemente nell’uretra anteriore e causa una sintomatologia nel 90% dei casi. Nei maschi omosessuali sono invece frequenti le infezioni ano-rettali e faringee, che sono in genere asintomatiche. Le infezioni asintomatiche dei portatori rappresentano il principale serbatoio della malattia. Nelle donne, oltre alla più comune infezione endocervicale, si possono avere infezioni dell’uretra, del retto, delle ghiandole periuretrali e dei condotti del Bartolini. Circa il 50% delle donne infette non manifesta sintomatologia. La complicanza Figura 24.9 Fasi iniziali del processo infettivo di Neisseria gonorrhoeae.

Pili

Adesione iniziale (pili)

Opa Porine

Membrana plasmatica della cellula ospite

Adesione intima, fagocitosi (Opa)

Fagosoma

Lisosoma Le porine prevengono la formazione del fagolisosoma

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più frequente è l’infezione ascendente delle tube di Falloppio, la malattia infiammatoria pelvica (PID, Pelvic Inflammatory Disease), che si manifesta in circa il 15-20% delle donne infette. La PID può provocare la cicatrizzazione delle tube uterine con conseguente sterilità o gravidanze extrauterine. Nei maschi trattati con la terapia d’uso corrente, raramente si ha l’estensione locale dell’infezione, mentre i maschi non sottoposti a terapia manifestano frequentemente epididimite, prostatite e altre complicanze locali. Nell’1-3% dei soggetti infetti, i gonococchi possono invadere il torrente circolatorio causando infezione gonococcica disseminata (DGI, Disseminated Gonococcal Infection). In questo caso si osservano frequentemente due sindromi: poliartralgie, teno-sinovite e dermatite, oppure un’artrite purulenta. Raramente, invece, si possono manifestare altre complicanze come un ascesso periepatico, un’endocardite o una meningite (fig. 24.10). Un aspetto molto interessante dell’epidemiologia della malattia gonococcica riguarda l’antibiotico-resistenza. La diffusione dei fenomeni di resistenza antimicrobica in N. gonorrhoeae rappresenta da alcuni anni un problema in tutto il territorio europeo e le indagini condotte dallo European Gonococcal Antimicrobial Surveillance Programme (Euro-Gasp) indicano livelli di preoccupazione per molti degli antimicrobici usati nella terapia. Nel 1976 ceppi penicillasi-produttori di N. gonorrhoeae (penicillinase-producing N. gonorrhoeae, PPNG) apparvero quasi simultaneamente in due aree diverse del mondo: in Inghilterra, dove erano stati importati verosimilmente dall’Africa occidentale, e negli Stati Uniti, dove erano arrivati dalle Filippine. I ceppi produttori di penicillinasi si sono poi diffusi in aree del mondo in cui la prostituzione è molto comune. I PPNG rappresentano il 50% di tutti i gonococchi in numerose aree dell’Africa e dell’Asia e nell’ultimo decennio si sono stabilmente insediati anche in Europa e Stati Uniti. La resistenza ai β-lattamici è mediata da elementi genetici extracromosomici come plasmidi, e deriva dalla presenza di un gene codificante una β-lattamasi. Recentemente sono stati isolati in diverse aree del mondo ceppi resistenti ad antibiotici β-lattamici di terza generazione, come il ceftriaxone e il cefixime.

Infezione orofaringea N. gonorrhoeae Infezione anale o genitourinaria

N. gonorrhoeae

Infezione cervicale (sintomatica o asintomatica)

N. gonorrhoeae

Infezione del neonato durante il parto

Faringite Irritazione locale, secrezione purulenta Asintomatica (specialmente nelle donne)

Infezione ascendente della cavità uterina, delle tube di Falloppio (malattia infiammatoria pelvica, infertilità, gravidanza ectopica)

Cecità

Congiuntivite

Figura 24.10 Vie di trasmissione e caratteristiche cliniche dell’infezione da Neisseria gonorrhoeae.

Complicanze sistemiche (1%) artriti, endocarditi, meningiti

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Capitolo 24 • Neisseria

Non di rado sono stati inoltre isolati ceppi di Ν. gonorrhoeae con resistenza alla tetraciclina mediata da plasmidi (tetracicline resistance Ν. gonorrhoeae, TRNG); tali ceppi derivano dall’introduzione del determinante di resistenza streptococcica in N. gonorrhoeae. Il gene di resistenza è infatti localizzato in un plasmide derivato in parte da un plasmide di coniugazione gonococcica. La prevalenza di ceppi resistenti sia ai β-lattamici che alla tetraciclina è stata massima negli Stati Uniti, ed entrambi i plasmidi sono stati individuati stabilmente in gonococchi isolati in Italia e in altri Paesi europei negli ultimi decenni. La percentuale degli isolati che mostrano una diminuzione della suscettibilità al cefixime è ancora molto preoccupante, anche se secondo i dati della Euro-Gasp, si è verificata una leggera flessione osservata dal 2010, dall’8,7% al 7,6% nel 2011. Di pari entità è stata la diffusione di gonococchi con resistenza di tipo cromosomico ai β-lattamici e alla tetraciclina (chromosomally mediated resistant N. gonorrhoeae, CMRNG). In passato studi condotti con tecniche di auxotipizzazione e di sierotipizzazione tramite anticorpi monoclonali hanno dimostrato come in aree urbane di medie dimensioni circolassero da 60 a 100 differenti ceppi di gonococco con nuovi isolati continuamente introdotti. In questa situazione sono state identificate epidemie localizzate sostenute da ceppi PPNG, TRNG, CMRNG, appartenenti a un preciso auxotipo-sierotipo. A causa della notevole variabilità antigenica sia dei pili sia delle proteine Opa, risulta difficile evidenziare un’immunità naturale verso la malattia gonococcica. Frequentemente, infatti, si possono osservare attacchi ripetuti di gonorrea nello stesso individuo. D’altro canto, esistono indagini epidemiologiche che testimoniano la presenza di un’immunità evocata da nuovi attacchi di PID con lo stesso sierotipo di N. gonorrhoeae. Altri dati epidemiologici suggeriscono inoltre l’esistenza di una resistenza naturale alla malattia gonococcica: solo un terzo degli uomini esposti una singola volta a Ν. gonorrhoeae diviene infetto. In condizioni sperimentali, un inoculo di 103 microrganismi sembra essere sufficiente a causare un’infezione uretrale solo nel 50% di volontari maschi. I fattori che possono condizionare uno stato di resistenza all’infezione rimangono però sconosciuti. Tuttavia, componenti della flora uretrale o vaginale, come Candida albicans, Staphylococcus epidermidis e alcuni tipi di lattobacilli possono inibire Ν. gonorrhoeae in vitro e potrebbero fornire una qualche resistenza naturale in vivo. I primi farmaci antimicrobici impiegati con successo nella terapia dell’infezione gonococcica sono stati in realtà i sulfamidici; tuttavia, si è osservata una rapida insorgenza di mutanti sulfamido-resistenti. Questi sono stati allora sostituiti dalla penicillina, che si è dimostrata un farmaco estremamente efficace anche a dosi molto basse. Successivamente è stata proposta, per il trattamento della malattia gonococcica, una serie di schemi terapeutici basati su diverse osservazioni: l’importanza dell’efficacia della dose singola; l’incremento della percentuale di infezioni causate da ceppi di Ν. gonorrhoeae resistenti agli antibiotici, compresi i ceppi PPNG, TRNG e CMRNG; l’alta frequenza di co-infezioni da Chlamydia trachomatis e la gravità delle complicazioni delle infezioni da Chlamydia e gonococchi. I pazienti adulti con infezioni uretrali, endo-cervicali, rettali o faringee gonococciche non complicate sono stati trattati con un regime che associa ceftriaxone a tetraciclina o doxiciclina. Questi schemi assicurano un trattamento adeguato della gonorrea in qualsiasi sede, eliminando anche un’eventuale coesistente infezione da Chlamydia trachomatis. In caso di reazioni allergiche ai β-lattamici si utilizza la spectinomicina. Negli ultimi anni si è osservata anche una diminuzione della suscettibilità dei gonococchi nei confronti dei chinoloni e l’aumento della prevalenza di ceppi QRNG (quinolone-resistant N. gonorrhoeae), per cui, secondo le linee guida del CDC (Centers for Disease Control and Prevention), tali farmaci non sono generalmente raccomandati per il trattamento della gonorrea. Nel caso in cui, prima del trattamento, fosse nota la sensibilità del ceppo ai chinolonici, è consigliabile prescrivere sia la ciprofloxacina che l’ofloxacina in dose unica. Oltre all’efficacia intrinseca di uno schema terapeutico verso ceppi di gonococco

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completamente sensibili ai farmaci, la scelta di un regime terapeutico raccomandato deve tener conto anche degli aspetti epidemiologici della resistenza agli antibiotici, perché l’infezione da parte di un ceppo resistente provoca il fallimento della terapia. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organizatiοn, WHO), una terapia antimicrobica non dovrebbe essere utilizzata quando oltre il 5% dei ceppi mostra resistenza. Data la continua insorgenza di ceppi resistenti ai diversi farmaci impiegati nel trattamento della gonorrea, si sottolinea l’importanza di uno stretto e mirato monitoraggio della sensibilità ai farmaci. Non esiste probabilmente un esempio più evidente della gonorrea che dimostri come la sola terapia specifica non basti, di per sé, a eradicare una malattia contagiosa. Nonostante il trattamento della gonorrea risulti estremamente efficace, il tasso di morbosità assume proporzioni pandemiche. Dato che il periodo di incubazione della gonorrea sintomatica è breve, variando da 2 a 7 giorni, l’individuazione e il trattamento delle persone con cui il paziente ha avuto recenti contatti sessuali riduce la diffusione della malattia. Tuttavia, almeno il 10% degli uomini e il 50% delle donne con gonorrea di recente acquisizione presenta una sintomatologia troppo scarsa per richiedere una terapia. La sempre maggiore facilità di movimento, una maggiore libertà sessuale e la sostituzione dei preservativi con altri metodi per il controllo delle nascite rendono quasi impossibile il controllo della malattia. Il neonato di madre affetta da gonorrea rischia di contrarre l’infezione e necessita di una terapia profilattica. In passato, per la prevenzione dell’oftalmia dei neonati si utilizzava il metodo di Crédé, che consisteva nell’instillazione di alcune gocce di una soluzione di nitrato di argento all’1% negli occhi del neonato immediatamente dopo la nascita. Difatti ormai questa sostanza irritante è stata sostituita da una pomata oftalmica contenente antibiotici β-lattamici (ceftriaxone). Poiché le preparazioni antibiotiche topiche da sole non sono sufficienti per la prevenzione della malattia gonococcica neonatale, è consigliabile una corretta terapia sistemica con antibiotici. La vaccinazione per la gonorrea non è sino ad ora disponibile: un tentativo di vaccinazione effettuato sui soldati americani in Corea, impiegando un vaccino purificato costituito da pili gonococcici, si è rivelato inefficace. L’estrema variabilità antigenica del batterio è una delle cause che ha impedito lo sviluppo di un vaccino contro la gonorrea, ma la ricerca sta facendo notevoli passi avanti anche in questa direzione.

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Capitolo

25 • Caratteristiche generali •M  . tuberculosis: biologia e patogenesi • M. leprae •M  . ulcerans • Diagnostica di laboratorio

Figura 25.1 Parete dei micobatteri. Ultrastruttura dei micobatteri ottenuta mediante microscopia crioelettronica su sezioni vitree. Si noti la presenza della membrana plasmatica (CM) e la micomembrana (MOM) molto simile alla membrana esterna dei batteri gram-negativi (OM). In basso ipotetico modello della micomembrana.

Micobatteri

25.1 - Classificazione e caratteri generali I micobatteri appartengono alla famiglia delle Mycobacteriaceae e sono inclusi, assieme a corinebatteri, nocardie e ad altri batteri, nell’ordine degli Actinomycetales. Del genere Mycobacterium fanno parte importanti patogeni per l’uomo e gli animali e numerosi batteri ambientali, alcuni dei quali in particolari circostanze possono causare patologie nell’ospite immunocompromesso. Il genere comprende oltre 100 specie che si presentano come cellule di forma bacillare, lunghe dai 2 ai 4 μm e con un diametro tra i 0,3-0,5 μm. Storicamente sono sempre stati considerati dei batteri aerobi, tuttavia recentemente è stata dimostrata la presenza di una completa batteria di enzimi coinvolti nel metabolismo anaerobio e si ritiene quindi che possano essere considerati aerobi/anaerobi facoltativi. Sono immobili, asporigeni e presentano una caratteristica parete cellulare, ricca in lipidi complessi, polisaccaridi e glicolipidi, la cui struttura a livello ultramicroscopico evidenziata mediante la tecnica CEMOVIS (cryo-electron microscopy of vitreous sections) ha evidenziato la presenza di una membrana esterna che è stata denominata micomembrana (fig. 25.1). Secondo lo schema proposto, esternamente alla membrana plasmatica troviamo lo strato di peptidoglicano, cui sono legati covalentemente polisaccaridi a lunga catena come arabinogalattani, lipoarabinomannani (LAM) e lipomannani che formano un ponte tra il peptidoglicano e la micomembrana. Quest’ultima, pur avendo lo spessore di una tipica membrana plasmatica, risulta avere una composizione asimmetrica, con lo strato interno composto dai caratteristici acidi micolici, acidi grassi a lunga catena (fino a 70 atomi di carbonio) la cui testa polare è rivolta verso l’interno della cellula e la porzione apolare a lunga catena impilata nella porzione idrofobica della micomembra-

M. bovis BCG

M. bovis BCG

E. coli

M. bovis BCG M. smegmatis

Membrana esterna o micomembrana

Porina

Capitolo 25 • Micobatteri

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Tabella 25.1 Micobatteri non tubercolari che possono essere isolati da campioni clinici.

Gruppo

Specie di significato clinico

Normalmente di nessun significato clinico

Fotocromogeni

M. kansasii M. marinum M. simiae M. asiaticum

Scotocromogeni

M. scrofulaceum M. szulgai

M. gordonae M. flavescens

Non fotocromogeni

M. avium M. intracellulare M. ulcerans M. xenopi M. haemophilum

M. gastri M. nonchromogenicum M. terrae M. triviale M. phlei

A rapida crescita

M. fortuitum M. chelonae

M. smegmatis M. vaccae

na, dove interagisce con la porzione apolare di glicolipidi e altri lipidi fenolici di piccole dimensioni che costituiscono lo strato esterno della micomembrana. Esternamente alla parete sono presenti zuccheri (glicani, mannani, arabinomannani) che in associazione con glicolipidi e proteine costituiscono una struttura simil-capsulare. I componenti della capsula sono in grado di interagire direttamente con strutture dell’ospite e per alcuni è stato possibile dimostrare un’attività biologica che risulta essere essenziale per i micobatteri di interesse nella patologia umana come Mycobacterium tuberculosis. Le caratteristiche della parete fanno sì che i micobatteri non si colorino con la colorazione di Gram ma piuttosto mediante la colorazione di Ziehl-Neelsen, che evidenzia la proprietà tintoriale nota come acido-alcol resistenza (AAR). Tale proprietà consiste nella capacità dei batteri di trattenere, una volta colorati con carbolfucsina, la colorazione rossa anche quando sottoposti a trattamenti decoloranti energici con acidi e alcol. I micobatteri vengono suddivisi in due grandi gruppi, micobatteri a lenta e rapida crescita (tab. 25.1). I micobatteri a lenta crescita comprendono numerose specie di interesse nella patologia umana e animale e tra questi certamente le specie più importanti sono M. tuberculosis, M. leprae e Μ. ulcerans. Alcune specie possono, occasionalmente, causare infezioni croniche granulomatose nell’ospite immuno-competente, mentre l’ospite immunodepresso è esposto alla possibilità di infezioni disseminate da parte di molti micobatteri, che per questo si comportano come batteri opportunisti. Tra questi le specie più frequentemente isolate sono rappresentate dai membri del Mycobacterium avium complex (MAC). I micobatteri a rapida crescita comprendono specie prevalentemente ambientali e non di interesse per la patologia umana, sebbene alcuni di essi possano raramente causare patologia nell’uomo. È il caso, ad esempio, di M. chelonae, che può causare infezioni polmonari croniche, o di M. fortuitum e M. abscessus, che possono causare infezione dei tessuti molli o infezioni disseminate nell’ospite immunocompromesso.

25.2 - Mycobacterium tuberculosis Mycobacterium tuberculosis è l’agente eziologico della tubercolosi (TB), un’antica malattia polmonare cronica che ha accompagnato la storia dell’uomo negli ultimi millenni. Numerosi reperti archeologici come scheletri di oltre 8000 anni fa e mummie risalenti ai tempi degli Egizi hanno evidenziato lesioni ossee compatibili con l’infezione tubercolare. Nel corso dei secoli la TB ha rappresentato una minaccia costante alla salute dell’uomo, in particolare nelle aree urbane e densamente popolate, dove con maggiore frequenza si sono verificati fenomeni epidemici responsabili anche dell’attuale pandemia.

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Tabella 25.2 Caratteristiche dei genomi di micobatteri sequenziati.

Organismo

Dimensioni genoma

%GC

Geni assegnati

M. tuberculosis H37Rv

4 411 532 bp

65,6

3993

M. tuberculosis CDC1551

4 403 837 bp

65,6

4246

M. tuberculosis F11

4 413 077 bp

65,6

3911

M. bovis AF2122/97

4 345 492 bp

65,6

3953

M. bovis BCG Pasteur

4 375 192 bp

65,6



M. microti OV254

± 4 400 000 bp

64



M. canetti

± 4 400 000 bp

64



M. africanum

± 4 400 000 bp

64



M. marinum

6 636 827 bp

65,7



M. ulcerans Agy99

5 631 606 bp

65,7

4281

M. leprae TN

3 268 203 bp

57,8

1614

M. avium 104

± 4 700 000 bp

69



M. avium paratuberculosis

4 829 781 bp

69,2

4350

M. smegmatis

6 988 209 bp

67,4

6776

M. flavescens

± 5 939 000 bp

67

5606

M. vanbaalenii

± 6 460 000 bp

68

6012

M. tuberculosis appartiene al gruppo Mycobacterium tuberculosis complex (MTBC), di cui fanno parte anche M. canettii, M. africanum, M. microti e M. bovis. L’elevata omologia genetica all’interno del gruppo MTBC ha fatto sì che oggi ci si riferisca a MTBC come singola specie, e ai suoi componenti come subspecie. M. tuberculosis e M. africanum sono gli agenti eziologici della TB nell’uomo. M. bovis è l’agente eziologico della TB negli animali da allevamento e selvatici e raramente causa patologia nell’uomo, che si infetta assumendo alimenti contaminati come il latte di bovini infetti. M. microti è l’agente eziologico della TB nei roditori e non è patogeno per l’uomo. Nel 1998 è stato completato il sequenziamento del primo genoma di M. tuberculosis H37Rv (tab. 25.2). Il genoma è costituito da 4 411 529 bp e codifica per 3986 proteine e successivamente sono stati sequenziati i genomi di altre specie di micobatteri. Nell’insieme è stato osservato che M. tuberculosis presenta un maggior numero di geni rispetto a quanto osservato per altri batteri patogeni, possiede un metabolismo più complesso di quanto fosse possibile ritenere in passato e può essere considerato una specie geneticamente stabile con poca variabilità genetica. Analisi di genomica comparativa tra vari ceppi di MTBC hanno permesso di individuare regioni in cui le differenze tra questi sono maggiori e di definire in modo corretto i rapporti genetici e quindi evolutivi tra le varie specie e/o sottospecie. È stato possibile costruire un albero genealogico all’interno di MTBC e dimostrare come le varie subspecie si siano evolute attraverso un processo di delezione genica, in cui frammenti di genoma anche di diverse decine di kb sono stati persi. È interessante notare come questo processo abbia avuto un effetto sull’adattamento all’ospite (o agli ospiti) mammifero. Ad esempio, le tre subspecie che causano la TB nell’uomo, M. tuberculosis, M. africanum e M. canettii raramente infettano in natura gli animali. M. microti è l’agente eziologico della TB nei roditori di campagna, ma è avirulento per l’uomo. È interessante osservare inoltre come M. microti abbia perso per delezione genica un

Capitolo 25 • Micobatteri

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frammento di genoma simile a quello responsabile della perdita di virulenza del ceppo BCG. M. bovis presenta il maggior numero di delezioni geniche e paradossalmente presenta il più ampio spettro d’ospite, sebbene alcuni sottogruppi di M. bovis siano stati più frequentemente associati con alcuni mammiferi (ad es. M. bovis sp. pinnipedi e M. bovis sp. caprae), quasi a suggerire un’ulteriore speciazione all’interno di tali subspecie. I risultati di tali studi hanno consentito di ripercorrere l’evoluzione di MTBC e di concludere che le subspecie che infettano oggi l’uomo sono quelle più vicine geneticamente alla specie ancestrale di MTBC, da cui sono originate le attuali subspecie. Questi dati suggeriscono che la TB sia stata trasmessa dall’uomo agli animali e non viceversa, così come è avvenuto in passato per la maggior parte degli altri agenti patogeni.

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Epidemiologia

Si stima che la TB uccida ogni giorno circa 4000 persone. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) indica in circa 1,8 milioni il numero di decessi all’anno, in 10 milioni il numero di nuovi casi e in circa 30 milioni il numero di pazienti con TB attiva. Il 95% dei casi si registra nei Paesi in via di sviluppo, in particolare nell’Africa sub-sahariana e in alcuni Paesi del Sud-Est asiatico, dove l’incidenza della malattia è nell’ordine dei 100500/100 000 abitanti. È in questi Paesi che la TB rappresenta non solo un drammatico problema sanitario, ma un problema sociale ed economico, che pone un freno allo sviluppo di quelle società. Le nuove migrazioni, l’avvento della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), la comparsa di nuove povertà hanno determinato un riemergere dell’infezione anche nei Paesi industrializzati. Per tali motivi l’OMS ha dichiarato nel 1993 la TB emergenza globale. In Europa l’incidenza della TB si mantiene attorno a 10-30/100 000 abitanti, sebbene nei Paesi dell’Europa orientale questi numeri siano molto più elevati e si sia registrata la comparsa di ceppi di Μ. tuberculosis resistenti ai principali farmaci antimicrobici (MDR-TB o XDR-TB). In Italia la situazione è ancora sotto controllo (incidenza 5-10/100 000 abitanti) e si stima che oltre la metà dei pazienti con TB sia rappresentata da emigrati provenienti da regioni ad alta endemia di TB.

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Caratteristiche generali

M. tuberculosis è senza dubbio uno dei più antichi, complessi ed evoluti agenti infettivi per l’uomo, e ha sviluppato nel corso dell’evoluzione sofisticati meccanismi per evadere la risposta immunitaria dell’ospite o per trarre vantaggio dalla stessa. Una delle principali caratteristiche di M. tuberculosis consiste nella sua capacità di resistere all’azione battericida dei macrofagi, mediante un meccanismo che prevede l’inibizione della fusione lisosoma-fagosoma. Il micobatterio rimane così in un vacuolo non acidificato, in cui sono assenti gli enzimi e le molecole ad azione microbicida, e dove il micobatterio è in grado di replicarsi attivamente (fig. 25.2). Dati recenti dimostrano Figura 25.2 Analisi microscopica di tessuto polmonare isolato da un topo infettato sperimentalmente con Mycobacterium tuberculosis. A. Infiltrato cellulare che si organizza in granuloma. I micobatteri risiedono prevalentemente nella parte centrale del granuloma, all’interno di macrofagi “schiumosi”. B. Macrofagi infettati con M. tuberculosis.

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come M. tuberculosis sia in grado di traslocare dai vacuoli nel citoplasma e qui replicarsi attivamente. Non sono stati ancora identificati le proteine e i fattori di virulenza di M. tuberculosis che intervengono in questo processo, sebbene numerose evidenze sperimentali suggeriscano un diretto coinvolgimento delle proteine codificate dalla regione di differenza 1 (RD1). La regione RD1 è un frammento di genoma di 10,7 kb che codifica per numerosi geni, tra cui in particolare Εsat-6 e cfp10. Tale regione è assente nel ceppo vaccinico M. bovis BCG ed è stato dimostrato come l’attenuazione di quest’ultimo sia dovuta prevalentemente all’assenza di RD1. L’inserimento della regione RD1 nel genoma di BCG ha come risultato un aumento della virulenza del ceppo BCG ricombinante. La regione RD1 comprende un locus genico che codifica per un sistema di secrezione di tipo VII denominato ESX-1. Nel genoma di M. tuberculosis sono presenti un totale di 5 di questi locus (ESX-1-ESX-5) che presentano un elevato di grado di omologia. Il sistema ESX-1 promuove la secrezione di una serie di proteine, tra cui l’eterodimero Esat-6/ CFP10, che media la formazione di pori nelle membrane dei vacuoli del macrofago in cui il micobatterio si moltiplica, consentendo al micobatterio di fuoriuscire nel citoplasma. Anche i sistemi di secrezione ESX-5 ed ESX-3 sono stati direttamente implicati nella virulenza di M. tuberculosis, mentre non è ancora chiaro il ruolo degli altri due sistemi ESX. Così come per molti altri batteri di interesse nella patologia umana, anche per M. tuberculosis la secrezione di proteine e antigeni attraverso la membrana rappresenta un potente ed efficace sistema per interferire con i meccanismi di difesa dell’ospite, per promuovere l’azione patogena e per assicurare la moltiplicazione nei tessuti. Oltre ai sistemi ESX, M. tuberculosis presenta altri sistemi di secrezione come il Sec e il TAT. Il sistema Sec è ad esempio coinvolto nella secrezione della superossido dismutasi, un enzima che consente al micobatterio di rendere meno battericida l’ambiente all’interno del fagolisosoma. È noto che componenti non proteiche della parete cellulare di M. tuberculosis intervengono nel meccanismo di patogenicità e tra questi un ruolo importante viene svolto dagli acidi micolici. Gli acidi micolici sono delle complesse strutture molecolari di acidi grassi a lunga catena. Gli acidi micolici più semplici sono costituiti da due catene, una lunga fino a 60 atomi di carbonio (distale) e una più corta (prossimale). Esistono cinque tipi di acidi micolici che differiscono tra loro per la presenza di gruppi metossi-, anelli di ciclopropano o gruppi chetonici nelle lunghe catene idrofobiche. Gli acidi micolici possono essere organizzati anche in strutture complesse quando legati covalentemente con arabinogalattani o altri zuccheri. Il trealosio dimicolato (TDΙM), anche noto come fattore cordale, è uno dei più importanti ed esercita una potente azione biologica. Presenta un’attività immunostimolatoria ed è strettamente coinvolto nel meccanismo di patogenesi che sfocia con il danno tissutale tipico della TB. Gli acidi micolici legati agli arabinogalattani, oltre a essere coinvolti nella protezione da stress ambientali, contribuiscono alla bassa permeabilità della parete cellulare che conferisce una naturale resistenza ai farmaci e sono coinvolti nella protezione dagli stress ossidativi e nella persistenza nei tessuti dell’ospite immunocompetente. La porzione esterna della parete è ricca in glicolipidi complessi e glicolipidi fenolici, che sono delle cere non polari rilasciate dalla cellula e svolgono un’importante azione biologica. L’interazione del micobatterio con il sistema immunitario, sia nella sua componente innata che acquisita, gioca un ruolo fondamentale nel rapporto ospite-parassita. Alcuni componenti di parete interagiscono con recettori presenti sulla superficie delle cellule del sistema immunitario, tra cui in particolare i recettori Toll-like (TLR). È stato dimostrato ad esempio come il LAM e altre proteine di superficie, interagendo con il TLR2, stimolino l’induzione di processi di infiammatori che promuovono processi necrotici. M. tuberculosis induce inoltre un’intensa risposta cellulare specifica, prevalentemente diretta nei confronti di antigeni attivamente secreti dal micobatterio durante le prime fasi dell’infezione. Ad esempio, le proteine Esat-6 e CFP10 sono due tra gli antigeni più immunogenici di M. tuberculosis, tanto da essere utilizzati come base per la diagnosi

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indiretta di infezione da M. tuberculosis. La risposta immunitaria che si sviluppa a seguito dell’infezione tubercolare coinvolge prevalentemente la risposta cellulo-mediata, dove i linfociti CD4 e CD8 giocano un ruolo importante nella secrezione di citochine proinfiammatorie (IFN-γ, IL-2 ecc.) che possono, a seconda delle circostanze, assicurare il controllo dell’infezione o contribuire ai processi immunopatologici che sfociano nel danno tissutale e quindi nella malattia. Non è stato possibile ad oggi evidenziare dei correlati immunologici di protezione, vale a dire un tipo di risposta immunitaria specifica correlabile con il controllo dell’infezione. L’assenza di tali informazioni rende ancora più difficile lo sviluppo di un nuovo vaccino contro la TB.

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Patogenesi

M. tuberculosis si trasmette per via aerea da un paziente malato con TB polmonare attiva e aperta che attraverso la tosse libera nell’aria i bacilli in piccole particelle che possono persistere nell’ambiente. Si ritiene siano sufficienti pochi batteri per iniziare nel nuovo paziente infettato il ciclo patogenetico di infezione (fig. 25.3). Il bacillo, una volta raggiunto lo spazio alveolare, viene fagocitato dai macrofagi alveolari, dove Figura 25.3 Patogenesi dell’infezione da Mycobacterium tuberculosis.

Replicazione e rilascio di AAR a livello extracellulare. Diffusione ad altri organi

Infezione

Sviluppo della risposta immunitaria specifica. Formazione del granuloma

5-10%

5-10% 90-95%

Alveolo

Riattivazione

5-10% Infezione latente

Immunopatologia INFEZIONE Infezione primaria

Reinfezione

Nascita

Morte

Malattia primaria progressiva

Malattia per reinfezione esogena

MALATTIA

Malattia per riattivazione endogena

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può essere rapidamente ucciso oppure può resistere a tale azione microbicida. Nel primo caso l’infezione non ha luogo e l’ospite non matura alcuna risposta immunitaria specifica. Quando viceversa i bacilli resistono all’azione microbicida dei macrofagi, si ha moltiplicazione attiva all’interno del macrofago e i micobatteri possono infettare anche altri fagociti e cellule epiteliali presenti in prossimità del sito di infezione. Durante questa fase i batteri possono disseminare per via ematogena e linfatica e raggiungere attraverso il sangue qualsiasi tessuto e organo. La moltiplicazione batterica richiama cellule del sistema immunitario che iniziano a infiltrarsi e a organizzare il tipico granuloma attorno al sito di infezione primaria. La presenza di leucociti e la secrezione di citochine e chemochine ad azione infiammatoria inducono la comparsa della tipica necrosi caseosa. Nel 90-95% dei casi la risposta dell’ospite è in grado di circoscrivere e controllare l’infezione, e nell’ospite permane soltanto una lesione nel sito di infezione primaria che prende il nome di complesso primario. In questi soggetti il bacillo non viene completamente ucciso ma persiste nei tessuti dell’ospite prevalentemente in uno stato dormiente. Si stabilisce un equilibrio tra Μ. tuberculosis e il sistema immunitario dell’ospite, in cui da un lato si impedisce la moltiplicazione incontrollata del bacillo e dall’altro il bacillo è in grado di resistere all’azione microbicida del sistema immunitario. Tale condizione è evidenziata dalla presenza di un’intensa risposta cellulo-mediata nei confronti degli antigeni di Μ. tuberculosis, classicamente rilevata dalla reazione della tubercolina (Mantoux). La fase di latenza, clinicamente asintomatica, può perdurare per tutta la vita e può sfociare in circa il 2-8% dei casi in una riattivazione dell’infezione con comparsa di TB attiva, con il rischio di riattivazione più elevato nei due anni successivi all’infezione primaria. In questi casi, così come quando l’infezione primaria non viene controllata, il bacillo si replica attivamente e la risposta dell’ospite non solo non è in grado di controllare l’infezione ma è responsabile del danno tissutale tipicamente associato alla TB. La moltiplicazione del batterio richiama cellule del sistema immunitario, che mediante la secrezione di chemochine e citochine inducono uno stato infiammatorio che causa una necrosi caseosa e danno tissutale che sfocia nella comparsa delle tipiche caverne presenti a livello del parenchima polmonare. È questa la classica forma di TB polmonare, clinicamente evidente e che rappresenta la forma contagiosa dell’infezione. Sebbene nella maggior parte dei casi la TB attiva si presenti a livello polmonare, pressoché tutti gli organi possono essere colpiti (reni, ossa, linfonodi, cute ecc.) e in questi casi si assiste alla comparsa di strutture granulomatose che sono poi responsabili del danno tissutale e quindi della comparsa della patologia. Nei neonati o in soggetti con deficit immunitari importanti si può assistere a una moltiplicazione incontrollata del bacillo, con comparsa di un’infezione disseminata (ad es. TB miliare) che può anche evolvere in meningite tubercolare. In questi casi, in assenza di un opportuno trattamento, l’evoluzione della malattia può essere rapida e ad esito infausto. Non sono chiare le ragioni che determinano lo sviluppo dell’infezione latente piuttosto che dell’infezione attiva, così come non è chiaro perché la vaccinazione non sia efficace o lo sia solo in parte. Non è chiaro inoltre perché l’ospite in taluni casi sia in grado di indurre una risposta protettiva o comunque non patogenica, e in altri sia proprio la risposta immunitaria dell’ospite a causare il danno tissutale e la comparsa dei segni e sintomi associati alla malattia. La scoperta che tra i geni più conservati in M. tuberculosis sono annoverati quelli che codificano per proteine ed epitopi riconosciuti dalla risposta immunitaria adattativa dell’ospite suggerisce che il bacillo si sia evoluto per indurre una forte risposta immunitaria nell’uomo e che questa risposta sia funzionale alla comparsa del danno a livello polmonare e quindi alla trasmissione di M. tuberculosis per via aerea.

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Vaccino

Il bacillo di Calmette e Guèrin (BCG) è ancora oggi l’unico vaccino disponibile contro la TB. Il BCG è un vaccino vivo attenuato, ottenuto da Calmette e Guèrin mediante

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passaggi seriali (231 passaggi nell’arco di 13 anni) in terreno di patata biliata a partire da un ceppo virulento di Μ. bovis. Durante il processo di attenuazione il ceppo BCG ha perso numerosi frammenti di genoma, che prendono il nome di regioni di differenza (RD). Poiché il passaggio dei ceppi è avvenuto anche dopo l’isolamento del ceppo vaccinico da Calmette e Guèrin, si è assistito alla perdita di frammenti di genoma anche in epoche successive, tanto che oggi si conoscono ceppi di BCG con differenze genetiche significative, i quali normalmente prendono il nome dalle case farmaceutiche che li producono. Come detto in precedenza la più importante delle regioni RD è la RD1. A partire dal 1921, anno della prima immunizzazione con BCG, sono state somministrate in tutto il mondo centinaia di milioni di dosi di BCG. Nei Paesi in cui la TB è endemica, il vaccino BCG si somministra subito dopo la nascita per via sottocutanea e dopo un mese si verifica l’avvenuta immunizzazione mediante il test della tubercolina. Nel corso del secolo scorso è stato possibile evidenziare pregi e difetti del vaccino. Il vaccino si è dimostrato sostanzialmente sicuro e il basso costo ha reso possibile l’attuazione di procedure di immunizzazione anche nei Paesi più poveri. Il vaccino BCG si è inoltre dimostrato efficace nel prevenire le forme, spesso fatali, di TB disseminata (miliare) e di meningite tubercolare nei bambini. Studi condotti in Paesi ad alta endemia di TB hanno tuttavia dimostrato come l’efficacia di BCG nel prevenire le forme di TB attiva nell’adulto sia piuttosto scarsa. Diverse ipotesi sono state formulate per spiegare tale fenomeno: l’interferenza di micobatteri ambientali con lo sviluppo di una risposta immunitaria anti-tubercolare, in particolare in aree dove le condizioni igienico-sanitarie sono precarie; lo svanire col tempo della risposta immunitaria indotta dal vaccino, sebbene sia stata dimostrata l’inefficacia di strategie di richiamo (boosting). A questi due aspetti bisogna aggiungere il fatto che BCG, ceppo attenuato ma vitale, non dovrebbe essere somministrato, per ragioni di sicurezza, nei soggetti con infezione da HIV, che come noto rappresentano una popolazione particolarmente a rischio per lo sviluppo di infezioni da micobatteri. Poiché le persone vaccinate con BCG sviluppano una positività alla reazione alla tubercolina, il test Mantoux presenta una bassa specificità nella popolazione vaccinata con conseguenti limitazioni sia nello screening sia nella ricerca di contatti (persone che, vivendo a contatto con un soggetto cui è stata diagnosticata una TB attiva, possono essere state infettate da M. tuberculosis). Questi aspetti limitano fortemente la validità del test della tubercolina come strumento di diagnosi immunologica. Negli ultimi anni, anche grazie a un rinnovato investimento nella ricerca sulla TB, si è assistito allo sviluppo di nuovi vaccini sperimentali. Sono state implementate diverse strategie di vaccinazione: vaccini a subunità, costituiti da due o più antigeni ricombinanti e purificati di Μ. tuberculosis, somministrati con sostanze adiuvanti; ceppi di Vaccinia virus ricombinanti che esprimono antigeni dominanti di Μ. tuberculosis; ceppi di BCG ricombinanti che iperesprimono antigeni dominanti o che sono stati modificati per renderli più immunogenici. Purtroppo i risultati ottenuti con i vaccini più promettenti e in fase di più avanzata sperimentazione non hanno evidenziato livelli di protezione superiori rispetto a quelli osservati con BCG.

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Terapia

La terapia contro le infezioni da Μ. tuberculosis si basa sempre sull’utilizzo di più farmaci contemporaneamente, i quali agendo su processi biologici differenti del bacillo sono in grado di colpire batteri in fasi diverse del ciclo biologico. I farmaci contro Μ. tuberculosis vengono distinti in farmaci di prima linea (isoniazide, etambutolo, rifampicina e pirazinamide) e farmaci di seconda linea (streptomicina, acido para-aminosalicilico, capreomicina ed etionamide). L’isoniazide (idrazide dell’acido isonicotinico) è altamente efficace contro Μ. tuberculosis, e agisce nel processo metabolico che porta alla sintesi degli acidi micolici. Prima di poter esercitare la sua azione a carico degli enzimi codificati dai geni inhA e kasA,

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l’isoniazide deve essere attivata dalla catalasi del micobatterio (KatG). L’isoniazide è battericida su batteri in fase di moltiplicazione attiva mentre è poco attiva sui batteri in fase di dormienza e in una fase non-replicativa. La rifampicina inibisce l’azione dell’RNA polimerasi batterica ed esercita un’azione battericida sia su batteri in rapida crescita che su batteri persistenti. La pirazinamide è un farmaco che deve essere attivato dalla pirazinamidasi in ambiente acido per raggiungere la forma attiva, il cui meccanismo d’azione non è ancora completamente definito, e agisce sulla popolazione batterica presente all’interno dei macrofagi. L’etambutolo interferisce nella sintesi della parete batterica, inibendo la sintesi degli arabinogalattani. Tale azione, pur essendo di per sé batteriostatica, ha il merito di scompaginare la regolare struttura della parete, facilitando l’ingresso degli altri farmaci nella cellula, e ne potenzia l’efficacia, riducendo il rischio di comparsa di farmacoresistenze. Il protocollo terapeutico suggerito dall’OMS prende il nome di DOTS (Directly Observed Treatment, Shortcourse) e consiste nell’assunzione simultanea di tre farmaci (isoniazide, pirazinamide e rifampicina ed eventualmente etambutolo) per i primi 2 mesi e da 2 farmaci (isoniazide e rifampicina) per i restanti quattro mesi. Il trattamento con più farmaci contemporaneamente si rende necessario per evitare la comparsa di resistenze nel corso della terapia. È stato calcolato, ad esempio, che la frequenza di mutanti primari (cellule resistenti all’antibiotico senza che siano mai venute a contatto con questo) è di circa 1 ogni 105 per l’isoniazide, 1 ogni 106 per la streptomicina e 1 ogni 107 per la rifampicina. La lenta crescita del micobatterio e i lunghi periodi di trattamento fanno sì che la comparsa di resistenze ai singoli farmaci possa essere frequente nel caso di terapia con un singolo antibiotico. Viceversa, poiché la probabilità di resistenza ai farmaci è moltiplicativa, l’utilizzo di più farmaci fa sì che la frequenza passi da 10–5 nel caso dell’isoniazide a 10–18 nel caso di somministrazione con i suddetti tre farmaci contemporaneamente. A seconda dei risultati del test di sensibilità ai farmaci eseguito sul ceppo isolato o a seconda della tollerabilità del farmaco da parte del paziente, la combinazione di farmaci può essere modificata e/o integrata. Per una corretta ed efficace terapia è fondamentale seguire correttamente la terapia antibiotica. Purtroppo negli ultimi anni si è assistito alla comparsa di ceppi MDR-TB (Multi-Drug Resistant TB) che sono ceppi di M. tuberculosis resistenti a isoniazide e rifampicina e più recentemente di ceppi XDR-TB (Extensively Drug Resistant TB), che sono ceppi MDR resistenti ad almeno un altro farmaco. Epidemie causate da tali ceppi sono state osservate in Sud-Africa e nei Paesi dell’Est Europa, e sporadici casi sono stati dimostrati anche in Europa e in Italia. La mortalità in pazienti infettati con tali ceppi è molto maggiore rispetto all’infezione con ceppi sensibili, per l’inefficacia dei trattamenti terapeutici disponibili. La comparsa di epidemie veicolate da questi ceppi rende ancora più urgente lo sviluppo di nuovi farmaci contro M. tuberculosis. La maggior parte dei farmaci in uso sono stati sviluppati oltre quarant’anni fa, e le poche molecole attive identificate di recente stentano ad essere inserite nei regimi terapeutici.

25.3 - Mycobacterium leprae Mycobacterium leprae è l’agente eziologico della lebbra o malattia di Hansen. Nel 2015 i casi di lebbra conclamata sono stati circa 200 000, la maggior parte dei quali è stata registrata in India, Brasile e Africa centrale. M. leprae è un bacillo AAR che cresce nei macrofagi, cellule neurali, nella zona plantare di topi atimici e nell’armadillo. Non è mai stato coltivato in terreno di coltura e viene considerato un patogeno intracellulare obbligato. Si ritiene che il tempo di replicazione (stimato in circa 12-14 giorni) sia responsabile del lungo tempo di incubazione e della necessità di adottare lunghi trattamenti terapeutici.

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Il completamento della sequenza del genoma di M. leprae ha permesso di comprendere meglio alcuni aspetti della biologia di questo importante micobatterio. Il genoma di M. leprae è di circa 3 268 203 bp (circa 75% di quello di M. tuberculosis) ma i geni codificati sono soltanto 1606 (40% di M. tuberculosis). Nel genoma di M. leprae sono stati individuati oltre 1100 pseudogeni (geni con inserzioni, delezioni o comunque non codificanti per proteine) e questo numero è assolutamente incoerente con quanto trovato finora nel genoma non solo di altri micobatteri ma anche di altri batteri. M. leprae ha subìto durante l’evoluzione un processo di decadimento genico che ha determinato l’inattivazione della maggior parte del corredo genico. La lebbra raramente uccide il paziente, ma risulta essere fortemente invalidante per i danni prodotti agli arti e altri tessuti periferici. La lebbra è un’infezione granulomatosa cronica e lentamente progressiva che coinvolge la pelle e i tessuti nervosi periferici. È stato infatti dimostrato come M. leprae presenti un particolare tropismo per i nervi periferici. L’infezione è generalmente limitata alle parti più fredde dell’organismo (pelle, naso, tratto respiratorio superiore). Generalmente gli organi interni quali cervello, fegato, milza, reni e ossa non risultano essere coinvolti. Si è solito distinguere due tipi di lebbra: lebbra lepromatosa e lebbra tubercoloide. La lebbra lepromatosa è caratterizzata da una scarsa risposta immunitaria dell’ospite che non è in grado di controllare la replicazione del bacillo. In questi casi l’analisi microscopica dei tessuti evidenzia la presenza di numerosissimi batteri AAR (forma multibacillare). È questa la forma altamente contagiosa di lebbra, fortemente invalidante e che richiede prolungati trattamenti terapeutici (> 2 anni). Nel caso in cui l’ospite sviluppi una buona risposta immunitaria, si assiste alla comparsa della lebbra tubercoloide, caratterizzata dalla presenza di pochi batteri AAR nei tessuti, e da un modesto danno tissutale. La forma di lebbra tubercoloide non è contagiosa e il trattamento si conclude normalmente entro 6 mesi di terapia. Possono comunque presentarsi forme di lebbra intermedie. La diagnosi si effettua generalmente su base clinica e può essere confermata dalla presenza nel reperto microscopico di bacilli acido-alcol resistenti. Il trattamento farmacologico si basa sull’utilizzo di dapsone, clofazimina e rifampicina, somministrati da soli o in combinazione a seconda del quadro clinico.

25.4 - Mycobacterium ulcerans Mycobacterium ulcerans è l’agente eziologico dell’ulcera di Buruli, che dopo la tubercolosi e la lebbra è la terza principale patologia causata da micobatteri in soggetti immunocompetenti. L’infezione è prevalentemente localizzata nell’Africa occidentale, dove in alcuni Paesi raggiunge una prevalenza di 150/100 000 abitanti, sebbene siano stati descritti casi anche in altri continenti. M. ulcerans è un batterio a lenta crescita, tassonomicamente vicino a M. marinum e al gruppo ΜΤΒ complex. È un batterio che non cresce a temperature superiori ai 33 °C, ha un tempo di replicazione di circa 10-14 giorni e si moltiplica sia a livello intracellulare che extracellulare. Il genoma di M. ulcerans è di 5 631 606 bp e codifica per 4281 geni. L’infezione si trasmette per via cutanea in corrispondenza di aree che presentano traumi o microtraumi e il reservoir è rappresentato, oltre che dall’uomo infetto, dal suolo e ambienti in prossimità di aree ricche di acqua. Dopo l’ingresso nei tessuti dell’ospite, M. ulcerans inizia a replicarsi prevalentemente a livello extracellulare e a produrre una tossina, il micolattone. Il micolattone è un polichetone, una tossina rilasciata dal micobatterio in grado di esercitare un’azione citotossica e un’azione immunosoppressiva; rappresenta il principale fattore di virulenza di M. ulcerans ed è responsabile del danno tissutale e dell’immunosoppressione che accompagna l’ulcera di Buruli. L’infezione coinvolge prevalentemente il tessuto grasso sottostante il derma e si presenta clinicamente nelle forme più gravi con estese lesioni di tipo ulcerativo

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che possono interessare qualsiasi parte della cute e che nel caso di coinvolgimento dei tessuti interni degli arti possono richiedere l’amputazione. La diagnosi viene fatta o su base clinica o mediante analisi microbiologica. Il trattamento chirurgico delle lesioni rappresenta la terapia di elezione e può essere in alcuni casi associato a una terapia antibiotica.

25.5 - Altri micobatteri La maggior parte dei micobatteri sono batteri ambientali o saprofiti, che possono essere isolati normalmente dal suolo o dall’acqua. Alcuni di questi micobatteri possono causare importanti patologie nell’ospite umano, in particolare nel soggetto immunocompromesso. In passato venivano chiamati micobatteri atipici, opportunisti o anonimi, mentre oggi si preferisce riferirsi ad essi come Non-Tuberculous Mycobacteria (NTΜ) o Mycobacteria Other Than Tuberculosis (MOTT). Possono causare infezioni croniche a livello polmonare simili a quelle causate da M. tuberculosis nel soggetto adulto; linfoadeniti localizzate nei bambini; infezioni della cute e dei tessuti molli; infezioni disseminate. Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso abbiamo assistito all’emergere di infezioni disseminate in soggetti con AIDS. La riduzione del numero di linfociti Τ CD4 circolanti determinava un’incapacità dei macrofagi di attivarsi e di esercitare un’efficace azione antimicobatterica, che aveva come risultato la comparsa di infezioni disseminate. La tabella 25.3 elenca le principali specie micobatteriche non tubercolari in grado di determinare infezioni nell’uomo e le relative malattie. Tra le specie più frequentemente associate a tali infezioni ritroviamo Mycobacterium avium intracellulare complex, sebbene molte altre specie siano state isolate. Negli ultimi anni, l’introduzione di più efficaci terapie antiretrovirali ha reso molto meno frequente questo tipo di infezioni. I MOTT presentano un genoma più grande rispetto ai micobatteri patogeni come M. tuberculosis, ma conservano, seppure in forme diverse, la loro capacità di resistere e moltiplicarsi all’interno dei macrofagi e/o delle cellule dell’ospite come principale meccanismo di patogenesi.

25.6 - Diagnosi microbiologica di infezione da micobatteri Nelle ultime tre decadi, la riemergenza a livello mondiale e nazionale della tubercolosi e l’incremento di quadri clinici associati a micobatteri non tubercolari hanno dato un notevole impulso allo sviluppo della Micobatteriologia. Inoltre, l’insorgenza di farmaco-resistenza in M. tuberculosis, talvolta multipla, e la farmaco-resistenza intrinseca di molte specie micobatteriche non tubercolari hanno richiesto lo sviluppo e la standardizzazione di test di laboratorio per valutare la farmaco-resistenza degli isolati clinici. La diagnosi di infezione da Μ. tuberculosis, così come per gli altri agenti di infezione, viene classicamente distinta in diagnosi microbiologica o diretta (fig. 25.4) e in diagnosi immunologica o indiretta. La prima viene utilizzata per evidenziare soggetti con TB attiva, mentre la seconda viene utilizzata per evidenziare i soggetti infettati con Μ. tuberculosis, ma non è in grado di distinguere tra soggetti sani (infezione latente) e soggetti malati (infezione attiva). Verranno qui di seguito discussi in dettaglio i principi e le procedure di laboratorio convenzionali e molecolari che consentono la diagnosi di infezione tubercolare e l’accertamento della farmaco-sensibilità di M. tuberculosis, con riferimenti, ove possibile, alle procedure diagnostiche impiegate nelle infezioni sostenute da micobatteri non tubercolari. Verrà infine trattata la problematica relativa all’accertamento dell’infezione tubercolare latente. In generale, la diagnosi microbiologica di infezione da micobatteri è basata sulla loro dimostrazione direttamente nei campioni clinici mediante, come vedremo in detta-

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Tabella 25.3 Principali micobatteri non tubercolari che causano infezioni e malattie nell’uomo.

Specie

Caratteri generali e patogenicità

Mycobacterium avium complex (MAC)

Il MAC comprende varie specie di micobatteri non cromogeni a lenta crescita. Le specie più frequenti in patologia umana sono M. avium e M. intracellulare, che causano tipicamente infezioni polmonari nell’anziano e infezioni respiratorie in pazienti con fibrosi cistica. M. avium è inoltre responsabile di infezioni disseminate in pazienti con gravi deficit immunologici, e di linfoadeniti, infezioni osteo-articolari e teno-sinoviti. M. avium sottospecie paratuberculosis è stato associato al morbo di Crohn, una malattia infiammatoria cronica intestinale

Mycobacterium xenopi

Specie scotocromogena a lentissima crescita, frequentemente isolata in molti Paesi europei fra i quali l’Italia. Determina malattie polmonari in pazienti anziani con mortalità superiore a quella da MAC e infezioni osteo-articolari

Mycobacterium kansasii

Specie fotocromogena a lenta crescita presente nelle acque. Causa infezioni polmonari in pazienti con patologie polmonari predisponenti, tumori, alcolismo e infezioni osteo-articolari

Mycobacterium malmoense

Specie non cromogena a lenta crescita, dotata di maggior virulenza rispetto agli altri micobatteri non tubercolari. Causa infezioni polmonari in pazienti anziani con malattie respiratorie, fumatori e alcolisti. È frequente causa di linfoadeniti

Mycobacterium szulgai

Specie scotocromogena a lenta crescita, isolata raramente ma quasi sempre clinicamente significativa; causa infezioni polmonari in pazienti anziani con infiltrati apicali e cavitazioni e infezioni osteo-articolari

Mycobacterium simiae

Specie fotocromogena a lenta crescita; causa infezioni polmonari in pazienti anziani con altre malattie respiratorie o con esiti di tubercolosi. È intrinsecamente resistente a numerosi farmaci

Mycobacterium scrofulaceum

Specie scotocromogena a lenta crescita; causa linfoadeniti ed è classicamente considerato il principale responsabile della scrofula

Mycobacterium marinum

Specie fotocromogena a lenta crescita. Comune nelle acque dolci e salate e responsabile di infezioni nei pesci. Causa infezioni granulomatose (talvolta sporotricoidi) localizzate tipicamente su avambraccio e mano negli acquariofili. È responsabile del granuloma da piscina

Mycobacterium ulcerans

Specie non cromogena a lenta crescita, responsabile dell’ulcera del Buruli, un’infezione cutanea necrosante che colpisce soprattutto i bambini e costituisce la terza più frequente malattia micobatterica dopo tubercolosi e lebbra. È l’unico micobatterio produttore di una tossina

Mycobacterium abscessus e Mycobaterium fortuitum

Specie a rapida crescita. Causano infezioni polmonari in pazienti con malattie predisponenti, quali neoplasie, precedenti micobatteriosi, fibrosi cistica. Analogamente a M. chelonae e M. smegmatis, determinano anche infezioni cutanee, dei tessuti molli e osteo-articolari

Altri micobatteri

Tra gli altri micobatteri frequentemente associati a malattie nell’uomo da segnalare: Mycobacterium genavense e Mycobacterium celatum, responsabili di infezioni disseminate; Mycobacterium immunogenum, ritrovato in casi di sepsi da catetere in pazienti con trapianto di midollo osseo, leucemici, portatori di pacemaker; M. haemophilum, responsabile di infezioni cutanee e dei tessuti molli

glio più avanti, esame microscopico del campione e isolamento colturale dell’agente infettivo. Nel caso della tubercolosi sono anche possibili test molecolari rapidi, basati su tecniche di amplificazione genica, effettuabili direttamente sul campione clinico, per la ricerca di sequenze specifiche del DNA di M. tuberculosis. I campioni per la diagnosi microbiologica di infezione da micobatteri dipendono dalla localizzazione dell’infezione; nella tubercolosi polmonare e in molte altre micobatteriosi respiratorie essi sono costituiti da campioni di espettorato, lavaggio bronco-alveolare, bronco-aspirato e fluido pleurico; comunque, vista la possibilità di disseminazione dei micobatteri e di una loro localizzazione in sedi anatomiche extrapolmonari, essi possono essere ricercati nel sangue mediante emocoltura, nonché in campioni clinici provenienti da altri distretti anatomici, quali urina, aspirato linfonodale, liquor, midollo osseo, essudati, feci e altri materiali bioptici o autoptici. Se si eccettuano liquor e sangue, i campioni clinici per la ricerca dei micobatteri

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Figura 25.4 Mycobacterium tuberculosis. A. Analisi microscopica di un campione di espettorato colorato con Ziehl-Neelsen e positivo per M. tuberculosis. I micobatteri sono colorati in rosso su sfondo blu. B. Analisi microscopica di una coltura di M. tuberculosis. Si noti la formazione dei tipici clumps di micobatteri che formano le classiche “corde”. C. Colonie di M. tuberculosis in terreno Lowestein-Jensen. D. Colonie di M. tuberculosis in terreno solido 7H11-supplementato.

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sono in genere contaminati da microrganismi della flora microbica del distretto da cui provengono e talvolta contengono abbondante muco; tali fattori potrebbero ostacolare la crescita in coltura dei micobatteri, notoriamente molto più lenta dei comuni batteri contaminanti; è inoltre da tener presente che il numero dei micobatteri nei campioni clinici, in particolare dei bacilli tubercolari, è generalmente basso. Per tali motivi, i campioni clinici ritenuti contaminati devono essere sottoposti a un trattamento di decontaminazione, di fluidificazione per liberare i batteri intrappolati nel muco e di concentrazione. Il trattamento oggi più usato impiega un agente mucolitico, in genere l’N-acetil-cisteina, in associazione a NaOH, a cui i micobatteri sono più resistenti rispetto ai comuni germi contaminanti. Dopo opportuna incubazione in presenza di tali reagenti e neutralizzazione dell’alcalinità della miscela, il campione viene sottoposto a centrifugazione per concentrare i micobatteri vitali; il sedimento così ottenuto viene impiegato per allestire i preparati per l’esame microscopico, le colture per l’isolamento ed eventualmente i test molecolari rapidi.

Esame microscopico L’esame microscopico dei campioni clinici rappresenta un test rapido, semplice e poco costoso, che ha lo scopo di dimostrare le tipiche forme batteriche caratterizzate da alcol-acido resistenza, una peculiare proprietà tintoriale dei micobatteri dovuta alla complessa struttura degli involucri esterni. I micobatteri sono difficilmente penetrabili dai normali coloranti usati in Batteriologia, ma, a colorazione avvenuta, il rilascio del colorante non è più possibile, neanche ricorrendo a energici trattamenti con alcol e acidi. La colorazione convenzionale usata per evidenziare l’alcol-acido resistenza è quella di Ziehl-Neelsen, che prevede l’impiego di fucsina basica fenicata a caldo per facilitarne la penetrazione nella cellula; un’altra colorazione per la dimostrazione

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dell’alcol-acido resistenza è la colorazione di Kinyoun, anch’essa basata sull’impiego di fucsina fenicata, la quale permette di eliminare la fase di riscaldamento grazie a una diversa formulazione della soluzione colorante. In entrambi i casi viene impiegato un colorante di contrasto (blue di metilene) per meglio evidenziare i bacilli alcol-acido resistenti. I micobatteri, osservati con l’obiettivo a immersione a 1000 ingrandimenti, si presentano tipicamente come sottili bacilli rossi su uno sfondo blu, talvolta adesi in piccoli gruppi di pochi elementi. È anche possibile impiegare una colorazione basata sull’impiego di fluorocromi in cui viene impiegata auramina al posto della fucsina. In quest’ultimo caso è possibile effettuare la ricerca microscopica a 400 ingrandimenti, il che permette l’osservazione di una più ampia superficie del preparato per ogni campo microscopico aumentando quindi significativamente la sensibilità dell’esame microscopico. Nella valutazione di un reperto microscopico positivo talvolta è opportuno fornire una stima semiquantitativa della carica micobatterica del campione clinico, in quanto tale valore può essere utile al clinico per monitorare, ad esempio, l’efficacia della terapia. La tabella 25.4 riporta lo schema di valutazione semiquantitativa della carica micobatterica dei campioni clinici. L’esame microscopico del campione clinico, seppur di primaria importanza in quanto permette di individuare rapidamente i soggetti potenzialmente più contagiosi, presenta alcuni limiti, quali soprattutto la scarsa sensibilità (cioè la capacita di discriminare i risultati falsamente negativi). Nonostante i miglioramenti apportati dall’introduzione della colorazione fluorocromica, la soglia di positività microscopica oscilla fra i 2000 e i 10 000 bacilli/mL, così che la sensibilità del test varia approssimativamente tra il 20 e il 65% rispetto all’isolamento colturale. Tali valori di sensibilità risultano fortemente influenzati anche dal tipo di campione; l’espettorato è il campione clinico in cui l’esame microscopico offre i più elevati livelli di sensibilità. Neanche la specificità dell’esame microscopico è esente da limiti ai fini della diagnosi, in quanto, a parte casi particolarissimi, l’esame microscopico non fornisce informazioni riguardo alla specie dei micobatteri evidenziati e, ovviamente, risulta positivo anche in presenza di micobatteri non vitali, come spesso accade nel corso della terapia antibiotica antitubercolare. È inoltre da tener presente che alcuni micobatteri a rapida crescita possono presentare un’alcol-acido resistenza assai debole e che gradi variabili di alcol-acido resistenza si riscontrano anche in altri microrganismi, fra i quali quelli appartenenti ai generi Nocardia e Rhodococcus. Comunque, nonostante questi limiti, l’esame microscopico risulta spesso determinante per la diagnosi di tubercolosi, soprattutto in associazione ad altri dati clinici, e in considerazione che in oltre il 90% dei casi i micobatteri evidenziati microscopicamente nei campioni clinici verranno poi identificati come M. tuberculosis. Tabella 25.4 Valutazione semiquantitativa dell’esame microscopico per la ricerca di bacilli

alcol-acido resistenti (AAR) in strisci colorati secondo Ziehl-Neelsen o Kinyoun.

Numero di bacilli AAR osservatia

Valutazione

0/300 campi

Negativo



1-2/300 campib

Incerto

±

1-9/100 campi

Positivo

1+

1-9/10 campi

Positivo

2+

1-9/campo

Positivo

3+

> 9/campo

Positivo

4+

Gli strisci sono esaminati a 1000×. Conte inferiori a 3 bacilli AAR in 300 campi microscopici non sono considerate positive; in tal caso si consiglia di ripetere l’esame su un nuovo campione. a

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Esame colturale L’esame colturale è ritenuto il “gold standard” della diagnostica micobatteriologica. Infatti, la ricerca colturale dei micobatteri è la metodica dotata di maggior sensibilità e consente di procedere all’identificazione dell’isolato micobatterico e alla determinazione della sua sensibilità ai farmaci specifici. Per l’isolamento in coltura un’aliquota del sedimento ottenuto a seguito del trattamento decontaminate-fluidificante con N-acetil-cisteina-NaOH viene quindi inoculato in specifici terreni di coltura che consentano la crescita micobatterica. Le esigenze nutrizionali dei micobatteri sono relativamente semplici in quanto possono utilizzare ammoniaca e aminoacidi come fonte di azoto e glicerolo come fonte di carbonio in presenza di sali minerali. Alcune rare specie (ad es. Mycobacterium genavense e Mycobacterium haemphilum) richiedono l’aggiunta di fattori di crescita quali micobattina, emina e altri composti del ferro. La crescita micobatterica è stimolata da anidride carbonica e acidi grassi, i quali possono essere forniti in forma di tuorlo d’uovo o di acido oleico, anche se quest’ultimo è tossico ad alte concentrazioni e deve essere neutralizzato dall’aggiunta di albumina. La maggior parte delle specie micobatteriche, compreso M. tuberculosis, cresce alla temperatura ottimale di 35-37 °C; alcune specie (soprattutto quelle che danno infezioni cutanee, quali Mycobacterium marinum, Mycobacterium ulcerans e Mycobacterium haemophilum) crescono in maniera ottimale a temperature di 30-32 °C; altre (Mycobacterium xenopi) a temperature di 42-45 °C. Ai fini dell’isolamento colturale i terreni di coltura per micobatteri possono essere suddivisi in due categorie: terreni organici complessi a base di uovo, quale il terreno di Lowenstein-Jensen, contenente uova intere, fecola di patata, glicerolo, sali e verde di malachite, come inibitore della crescita di altri batteri eventualmente sfuggiti al procedimento di decontaminazione, e reso solido per coagulazione al calore (8590 °C per 30-45 min), e terreni sintetici all’acido oleico-albumina, quali i terreni di Middlebrook, che possono esser sia liquidi che solidi per l’aggiunta di agar. Tali terreni possono essere resi selettivi dall’aggiunta di opportuni antibiotici. La crescita in coltura dei micobatteri, e in particolare di M. tuberculosis, è molto lenta e possono essere necessarie fino a 6-8 settimane di incubazione per evidenziare la formazione di colonie batteriche sul terreno. Rispetto ai classici terreni all’uovo, che, dopo incubazione prolungata, possono dare un maggior numero di risultati positivi, i terreni sintetici agarizzati, essendo trasparenti, permettono un più precoce rilevamento della crescita micobatterica. I terreni liquidi offrono una maggiore sensibilità e permettono una crescita più rapida. Attualmente l’impiego di un terreno solido e di un terreno liquido è considerato indispensabile per un corretto esame colturale. A tale proposito, una pietra miliare per l’esame colturale è stato lo sviluppo negli anni ’80 di un sistema di rilevamento radiometrico della crescita micobatterica basato sull’impiego del terreno liquido di Middlebrook modificato per aggiunta di un substrato (acido palmitico) marcato con il radioisotopo 14C; la crescita micobatterica determina la produzione di CO2 radioattiva nell’atmosfera del flacone di coltura che può essere facilmente misurata e convertita in indice di crescita. Tale sistema ha consentito di abbreviare i tempi di rilevamento dei micobatteri nei campioni clinici di 1-2 settimane; altrettanto consistente è il guadagno in termini di sensibilità. Per ovviare ai problemi relativi all’impiego di radioisotopi, negli ultimi anni sono stati sviluppati vari sistemi di coltura automatizzati, che utilizzano terreni liquidi non radiometrici, capaci di rilevare lo sviluppo batterico in base alla variazione di determinati parametri metabolici, quali ad esempio il consumo di ossigeno con conseguente emissione di fluorescenza da parte di un indicatore presente nel terreno di coltura, la produzione di CO2 rilevata da un sensore colorimetrico, oppure ancora i cambiamenti di pressione che avvengono nello spazio sovrastante il terreno di coltura dovuti al

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consumo di ossigeno e alla produzione di gas. Tali sistemi hanno presentato prestazioni, in termini di rapidità di rilevamento della crescita micobatterica e di sensibilità, paragonabili a quelle del sistema radiometrico e sono oggigiorno largamente impiegati nei laboratori diagnostici di Micobatteriologia.

Identificazione I micobatteri isolati in coltura sono convenzionalmente identificati sulla base di prove fenotipiche che comprendono test colturali, test biochimici e test di inibizione selettiva. Le prove colturali si basano sulle caratteristiche delle colonie che, in base alla morfologia, alla presenza o meno di pigmento, alla velocità di crescita e alla capacità di svilupparsi a varie temperature, possono dare indicazioni preliminari. I test biochimici permettono di evidenziare varie attività metaboliche come la produzione di niacina, la presenza di attività catalasica, la riduzione dei nitrati a nitriti, l’idrolisi del Tween 80 e molte altre. I test di inibizione selettiva servono a valutare se determinate sostanze (cloruro di sodio ad alte concentrazioni, oleato, acido p-nitrobenzoico ecc.), aggiunte al terreno di coltura, sono in grado di inibire lo sviluppo del ceppo micobatterico in esame. Nel caso di Μ. tuberculosis le prove possono essere limitate ai test della niacina, della riduzione dei nitrati e della termoinattivazione della catalasi; nei casi di micobatteri non tubercolari si rende necessaria l’esecuzione di una serie più ampia di test biochimico/colturali. I metodi fenotipici di identificazione richiedono in genere tempi lunghi, in quanto talvolta necessitano dell’allestimento di subcolture; sono stati quindi sviluppati altri metodi di identificazione, più rapidi e altrettanto specifici, basati sulla ricerca di componenti micobatterici sia genomici che somatici. I metodi genotipici di identificazione, di ampia diffusione per la loro accuratezza e rapidità di esecuzione, consistono nella ricerca di sequenze nucleotidiche specie-specifiche nel genoma micobatterico. Tali sistemi genotipici, disponibili anche commercialmente, sono basati sull’impiego di sonde di DNA complementari a sequenze specie-specifiche della regione rRNA 16S, della regione rRNA 23S o della sequenza spaziatrice ITS (Internal Transcribed Spacer) tra le regioni rRNA 16S e rRNA 23S. Le metodiche genotipiche di identificazione consentono di utilizzare microrganismi cresciuti sia su terreno solido che liquido e si completano in quattro fasi: estrazione di DNA dalla coltura micobatterica, amplificazione del gene bersaglio, ibridazione con sonde in fase liquida o immobilizzate su membrana e rivelazione. I metodi di identificazione micobatterica basati sui componenti somatici consistono nell’analisi cromatografica, soprattutto mediante HPLC (High Performance Liquid Chromatography), degli acidi micolici della parete cellulare. I profili cromatografici degli acidi micolici parietali delle varie specie di micobatteri che differiscono per il numero, la posizione e l’altezza dei picchi cromatografici, permettono quindi mediante il semplice confronto con profili di riferimento il riconoscimento delle diverse specie. Esempi di profili cromatografici degli acidi micolici sono riportati in figura 25.5. L’identificazione mediante analisi cromatografica viene in genere eseguita solo in laboratori di riferimento. Figura 25.5 Profili cromatografici mediante HLPC degli acidi micolici di Mycobacterium tuberculosis (a sinistra) e Mycobacterium avium (a destra).

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Diagnosi molecolare Sono oggi disponibili, soprattutto per la diagnosi di infezione tubercolare, test molecolari basati su tecniche di amplificazione genica, quali la PCR (Polymerase Chain Reaction) e la real-time PCR, che consentono di individuare sequenze nucleotidiche specifiche del genoma del bacillo tubercolare direttamente nel campione clinico. Le sequenze genomiche bersaglio più utilizzate sono il gene dell’rRNA 16S, la sequenza di inserzione IS6110 e il gene rpoB; in particolare, l’impiego di quest’ultimo consente il rilevamento, oltre che di M. tuberculosis, anche di mutazioni associate alla resistenza alla rifampicina. Tali test, disponibili anche sotto forma di sistemi commerciali, hanno il vantaggio di essere altamente specifici e di poter fornire risultati entro 1-2 giorni dal prelievo del campione. I loro limiti sono rappresentati da una sensibilità relativamente bassa, soprattutto nei campioni clinici negativi all’esame microscopico, cioè proprio quando il dato molecolare rapido sarebbe effettivamente utile ai fini diagnostici, e dal fatto che non consentono di discriminare i bacilli non vitali, come avviene nel corso della terapia antitubercolare, per cui il campione può risultare falsamente positivo all’esame molecolare anche per mesi, nonostante l’efficacia della terapia antibiotica dimostrata dalla negativizzazione dell’esame colturale. Nel caso delle infezioni da micobatteri non tubercolari, i sistemi molecolari per la rilevazione di sequenze genomiche direttamente nei campioni clinici trovano un impiego limitato, prevalentemente sperimentale, e non sono ancora inseriti nella diagnostica di routine.

25.7 - Farmaco-sensibilità Test fenotipici per M. tuberculosis Il saggio fenotipico di farmaco-sensibilità del bacillo tubercolare comunemente usato è basato sull’osservazione empirica di una correlazione tra la risposta clinica a un dato farmaco antitubercolare e la frequenza di mutanti resistenti a quel farmaco presenti nella popolazione micobatterica in esame. In pratica, se in una popolazione micobatterica è presente più dell’1% di mutanti resistenti a un farmaco, tale popolazione è destinata ad aumentare rapidamente per effetto della pressione selettiva esercitata dal farmaco ed è quindi da considerarsi resistente al farmaco in questione. Quindi, la maggior parte dei metodi per determinare la farmaco-resistenza di Μ. tuberculosis devono essere capaci di determinare la proporzione di bacilli sensibili e resistenti a un dato farmaco (metodo delle proporzioni). La determinazione della percentuale dei mutanti farmaco-resistenti su terreno solido non è raccomandabile perché non in grado di fornire risultati in tempi utili e perché difficilmente standardizzabile. Viene quindi comunemente impiegato un metodo qualitativo su terreno liquido che utilizza un’unica concentrazione di farmaco, definita concentrazione critica, che permette di interpretare un risultato come indicativo di resistenza o di suscettibilità. Il test è basato sul confronto tra la crescita di un isolato di Μ. tuberculosis in un terreno di coltura contenente il farmaco e in un terreno di controllo senza il farmaco, il cui inoculo micobatterico è 100 volte più diluito: una crescita più marcata nel flacone contenente il farmaco rispetto a quella del flacone di controllo indica una percentuale di mutanti resistenti superiore all’1% e il ceppo è quindi da considerarsi resistente. Sono oggi disponibili dei sistemi automatizzati in grado di valutare la farmaco-resistenza degli isolati fornendo risultati in tempi relativamente rapidi, generalmente entro 4-7 giorni. Nella pratica, un isolato clinico di bacillo tubercolare viene saggiato per la sensibilità ai farmaci di prima scelta; nel caso di rilevamento di resistenze, il saggio fenotipico viene esteso ai farmaci di seconda scelta.

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Tabella 25.5 Principali geni di M. tuberculosis associati alla farmaco-resistenza.

Farmaco

Bersaglio probabile

Gene

Funzione del gene

Rifampicina

Sintesi di RNA

rpoB

RNA polimerasi (subunità β)

Isoniazide

Biosintesi di acidi micolici

katG inhA oxyR ahpC ndh

Catalasi/perossidasi Biosintesi acidi grassi Regolazione stress ossidativo Alchil idroperossido C reduttasi NADH deidrogenasi

Pirazinamide

Pirazinamidasi

pncA

Pirazinamidasi/nicotinamidasi

Streptomicina

Sintesi proteica

rrs rpsL

RNA 16S Proteina ribosomiale S12

Etambutolo

Sintesi della parete cellulare

embA, B, C

Sintesi lipoarabinomannano e arabinogalattano

Test molecolari per M. tuberculosis Con la comparsa dei ceppi MDR e con l’insorgenza di farmaco-resistenza anche nei confronti di farmaci di seconda scelta, ogni ritardo nell’accertamento della farmaco-resistenza può compromettere l’esito della terapia. I test molecolari possono essere vantaggiosamente utilizzati quando sia richiesta una determinazione rapida del profilo di sensibilità ai farmaci, in quanto sono basati sulla ricerca di specifiche mutazioni cromosomiche che conferiscono farmaco-resistenza. Nella tabella 25.5 sono riportati i principali geni implicati nella resistenza ai farmaci antitubercolari di prima scelta. Le mutazioni più frequentemente ricercate negli isolati clinici, ma anche direttamente nei campioni clinici positivi all’esame microscopico e/o ai test diagnostici molecolari diretti, sono quelle che conferiscono resistenza alla rifampicina e all’isoniazide, i due farmaci cardine della terapia della tubercolosi. È comunque da sottolineare che, poiché sono note solo alcune delle mutazioni associate a fenotipi resistenti, i test molecolari al momento non possono essere considerati sostitutivi dei test convenzionali e i risultati ottenuti devono essere sempre confermati dai test fenotipici. Nonostante ciò, le tecniche molecolari per il rilevamento delle mutazioni di farmaco-resistenza hanno il vantaggio di essere molto più rapide rispetto ai metodi tradizionali, fornendo risultati nel giro di 1-2 giorni e si sono rivelate particolarmente utili in caso di sospetta tubercolosi MDR. Il sequenziamento nucleotidico delle regioni cromosomiche interessate rappresenta certamente la metodica di riferimento; ad esso si sono affiancate recentemente tecniche che utilizzano la PCR associata a specifiche sonde molecolari in grado rivelare il genotipo mutato o wild-type. Queste metodiche hanno fornito risultati eccellenti sia in termini di rapidità che di accuratezza; richiedono tuttavia strumentazione e reagenti assai costosi. Considerazioni analoghe valgono per i sistemi basati sull’utilizzo di microarray, sistemi di analisi molecolare che, pur avendo il vantaggio di permettere la valutazione contemporanea di molte mutazioni, non sono né di facile esecuzione né di agevole interpretazione.

Micobatteri non tubercolari Nel caso dei micobatteri non tubercolari i test di farmaco-sensibilità sono generalmente ancora ben lungi dall’essere standardizzati e disponibili sotto forma di sistemi commerciali e vengono eseguiti solo limitatamente ad alcune specie e ad alcuni farmaci, soprattutto quando si verifica un fallimento terapeutico nei confronti di farmaci potenzialmente attivi su determinate specie micobatteriche. Ad esempio, nel caso di Mycobacterium avium i farmaci per cui è stata dimostrata una correlazione tra i risultati dei test di farmaco-sensibilità in vitro e la risposta clinica sono limitati ai macrolidi (cla-

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ritromicina e azitromicina); non solo, il test di sensibilità è raccomandato per i ceppi isolati da sangue o tessuti (pazienti con malattia disseminata) e da campioni respiratori clinicamente significativi, o per ceppi isolati da pazienti con precedente terapia con macrolidi. Nel caso di Mycobacterium kansasii il test di sensibilità solitamente non è necessario per impostare la terapia se si tratta di prima infezione, mentre è indicato nei pazienti con fallimento terapeutico o risposta non soddisfacente alla terapia iniziale; in questo caso l’unico farmaco che dovrebbe essere saggiato è la rifampicina. Analogamente, il test di sensibilità per Mycobacterium marinum va eseguito solo per pazienti le cui colture rimangono positive dopo diversi mesi di terapia. Per quanto riguarda i micobatteri a rapida crescita (Mycobacterium fortuitum, Mycobacterium chelonae e Mycobacterium abscessus), il test di sensibilità deve essere eseguito su tutti i primi isolamenti da sangue, tessuti e cute; qualora questi micobatteri siano isolati dall’escreato occorre invece valutarne accuratamente la significatività clinica escludendo che si tratti di contaminanti o colonizzanti.

25.8 - Diagnosi immunologica di infezione tubercolare Sebbene siano stati proposti e sviluppati test sierologici basati sulla ricerca di anticorpi verso vari antigeni di M. tuberculosis, la diagnosi sierologica di tubercolosi ha trovato uno scarso impiego, soprattutto per la sua insoddisfacente specificità e sensibilità. L’approccio immunologico è invece fondamentale per la diagnosi dell’infezione tubercolare latente. È noto infatti che nel 90-95% degli individui che si infettano con M. tuberculosis la risposta immunitaria, prevalentemente di tipo cellulo-mediata, sebbene non riesca a eliminare il microrganismo, ne determina il contenimento in granulomi, dove i batteri entrano in uno stato di dormienza, e l’infezione non progredisce verso la malattia attiva. M. tuberculosis è così in grado di permanere ancora vitale per decenni, salvo poi riattivarsi in caso di inefficienza del sistema immunitario per varie cause, quali ad esempio infezione da HIV, malnutrizione, invecchiamento, trattamenti farmacologici immunosoppressivi e altre ancora. Da oltre 100 anni la diagnosi di infezione tubercolare latente è basata sul classico test tubercolinico, che rimane il più antico test diagnostico ancora in uso. Tale test è oggigiorno affiancato, e sarà presumibilmente presto sostituito, da test in vitro più specifici e sensibili indicati complessivamente col termine IGRA (Interferon-Gamma Release Assay) in quanto basati sul rilascio di interferone-gamma da parte di linfociti di sangue periferico dei soggetti latentemente infetti.

Test tubercolinico Il test tubercolinico è un test di ipersensibilità ritardata basato sulla risposta cellulo-mediata che si instaura nei confronti di antigeni di M. tuberculosis. Originariamente il test impiegava una miscela grezza di antigeni tubercolari, nota come tubercolina di Koch, ottenuta dal sovranatante concentrato e filtrato di colture liquide di M. tuberculosis sterilizzate al calore, la quale poteva generare effetti collaterali anche di notevole gravità negli individui altamente ipersensibili. Oggi si impiega il derivato proteico purificato della tubercolina, denominato PPD (Purified Protein Derivative), una miscela di antigeni del bacillo tubercolare, alcuni dei quali sono comuni a specie micobatteriche non tubercolari e al ceppo vaccinale Mycobacterium bovis BCG. Il test convenzionale (intradermoreazione di Mantoux) consiste nell’inoculazione di 5 U di PPD in 0,1 mL nel derma dell’avambraccio; gli individui che hanno sviluppato una risposta immune cellulo-mediata in seguito a infezione tubercolare presentano dopo 48-72 ore un nodulo, generalmente circondato da eritema, nella sede dell’iniezione; la reazione è considerata positiva quando il diametro del nodulo è maggiore di 5-10 mm, a seconda degli individui in cui viene praticata.

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Il test tubercolinico viene comunemente impiegato come sistema di screening per valutare la prevalenza dell’infezione tubercolare nella popolazione e per individuare i “contatti” infetti di casi di tubercolosi attiva, nonché per selezionare gli individui privi di immunità anti-tubercolare da sottoporre a vaccinazione, quale, ad esempio, il personale sanitario professionalmente esposto al contagio. Il test tubercolinico presenta però alcuni importanti svantaggi: ha una bassa specificità, in quanto può dar luogo a risultati positivi anche in soggetti vaccinati con BCG o venuti a contatto con altri micobatteri non tubercolari. Anche la sensibilità è bassa, in particolar modo in presenza di condizioni che causano deficit immunitari, quali AIDS, immunosoppressione, malnutrizione, tubercolosi avanzata, nonché nelle fasi iniziali (prime 6-8 settimane) dell’infezione tubercolare. Vi sono inoltre varie problematiche inerenti al test; la corretta esecuzione del test cutaneo non è infatti semplice, in quanto richiede l’inoculo in sede rigorosamente intradermica, e nemmeno l’interpretazione è agevole in quanto risente molto della soggettività dell’operatore. Queste caratteristiche rendono il test poco riproducibile, soprattutto se eseguito da personale non adeguatamente istruito. Vi sono inoltre prove che l’intradermoreazione possa agire come una micro-immunizzazione determinando l’attivazione di linfociti T specifici, con la conseguenza che l’intensità della risposta può aumentare in modo artificioso in test seriali (effetto booster).

Test IGRA I test denominati IGRA (Interferon-Gamma Release Assay) si basano sul principio che i linfociti T di individui sensibilizzati con determinati antigeni producono interferone-gamma qualora vengano nuovamente in contatto con questi. La produzione di interferone-gamma da parte di linfociti cimentati con antigeni del bacillo tubercolare è quindi considerata indicativa di una sensibilizzazione immunologica acquisita in seguito a infezione tubercolare. Gli antigeni più utilizzati nei test IGRΑ sono le proteine ESΑT-6 (Early Secretory Antigen Target 6) e CFP-10 (Culture Filtrate Protein 10), codificate da geni localizzati nella regione RD-1 (Region of Difference 1) del genoma di Μ. tuberculosis. La regione RD-1 è presente in tutte le specie del complesso tubercolare ad eccezione del ceppo vaccinale M. bovis BCG, e manca nella maggior parte dei micobatteri non tubercolari, il che rende gli antigeni impiegati nei test IGRΑ altamente specifici dell’infezione tubercolare. I test IGRA vengono eseguiti su un singolo prelievo di sangue periferico; i linfociti vengono esposti in coltura agli antigeni tubercolari specifici sopra menzionati e dopo opportuna incubazione viene dosato l’interferone-gamma rilasciato nel sovranatante di coltura con metodi immuno-enzimatici oppure viene determinato il numero di cellule produttrici di interferone-gamma mediante la tecnica ELISPOT (Enzyme-Linked Immunospot). I test IGRΑ affiancano, o addirittura sostituiscono, il classico test tubercolinico e trovano ampia applicazione, grazie soprattutto alla loro elevata specificità, nella diagnosi di infezione tubercolare latente in pazienti da sottoporre a trattamenti farmacologici immunosoppressivi per trapianti o per terapia di specifiche malattie, allo scopo di valutare l’opportunità di instaurare un trattamento antitubercolare specifico evitando così il rischio di riattivazione dell’infezione latente. In conclusione, il laboratorio di Micobatteriologia svolge oggigiorno un ruolo centrale e insostituibile nella diagnosi e nell’impostazione della corretta terapia delle infezioni micobatteriche, nonché nella diagnosi dell’infezione tubercolare latente. È comunque da sottolineare ulteriormente che i sistemi standardizzati di identificazione degli isolati clinici micobatterici sono limitati a poche specie e non sono disponibili sistemi commerciali di identificazione per la maggior parte delle nuove specie micobatteriche, le quali devono necessariamente essere identificate mediante test sviluppati ad hoc nel laboratorio. Anche i test standardizzati di farmaco-sensibilità sono limitati

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a pochissime specie micobatteriche e a pochi farmaci, rendendo anche in questo caso necessario lo sviluppo e l’allestimento in-house di specifici test di farmaco-resistenza. Le procedure messe in atto nel laboratorio di Micobatteriologia stanno quindi divenendo sempre più complesse e talvolta fuori dalla portata dei comuni laboratori di Microbiologia. Di fatto, solo limitatamente alla tubercolosi, i principali organismi internazionali ritengono necessario centralizzare le procedure diagnostiche per i micobatteri in laboratori specializzati per poter garantire un’alta qualità delle prestazioni, anche legata alla specifica esperienza professionale degli operatori.

Bibliografia essenziale Andersen, P., Doherty, Τ.Μ. (2005), «The success and failure of BCG - implications for a novel tuberculosis vaccine», Nature Reviews of Microbiology, 3, pp. 656-662. Cole, S.T., Brosch, R., Parkhill, J., Garnier, T., Churcher, C., Harris, D. et al. (1998), «Deciphering the biology of Mycobacterium tuberculosis from the complete genome sequence», Nature, 393, pp. 537-544. Cole, S.T., Eiglmeier, Κ, Parkhill, J., James, KD., Thomson, N.R, Wheeler, P.R. et al. (2001), «Massive gene decay in the leprosy bacillus», Nature, 409, pp. 1007-1011. Delogu, G., Provvedi, R., Sali, M., Manganelli, R. (2015), «Mycobacterium tuberculosis virulence: insights and impact on vaccine development», Future Microbiology, 10(7):1177-94. Gengenbacher, M., Kaufmann, S.H. (2012), «Mycobacterium tuberculosis: success through dormancy», FEMS Microbiol Rev., 36(3):514-32. Koneman’s Color AtLas and Textbook of Diagnostic Microbiology, a cura di W. Winn, Jr., S. Allen, W. Janda, E. Koneman, G. Procop, P. Schreckenberger, G. Woods, 6a ed. Lippincott Williams & Wilkins, Filadelfia, 2006. Murray, P.R., Baron, E.J., Jorgensen, J.H., Landry, M.L., Pfaller, Μ.Α., Manual of Clinical Microbiology, 9a ed., ASM Press, Washington, 2007. World Health Organization, Global Tuberculosis Control. Surveillance, Planning, Financing, 2016.

Capitolo

26

Spirochete

Le spirochete sono eubatteri gram-negativi sottili appartenenti all’ordine Spirochaetales, di forma elicoidale a spire strette. L’ordine delle Spirochaetales comprende due famiglie, le Spirochaetaceae, cui fanno parte i generi di spirochete patogene per l’uomo Treponema e Borrelia, e le Leptospiraceae, che comprende il genere patogeno per l’uomo Leptospira (fig. 26.1). Le dimensioni delle spirochete variano dai 5 ai 20 µm in lunghezza, e dagli 0,15 ai 0,5 µm in spessore. Ne consegue che le specie più sottili non sono osservabili al microscopio ottico in campo chiaro ma possono essere osservate soltanto dopo colorazioni atte a ispessire la cellula (impregnazione argentica) oppure ricorrendo all’osservazione a fresco in campo oscuro. La sensibilità all’essiccamento e agli agenti chimici (anche a basse concentrazioni) delle spirochete ne condiziona epidemiologia e modalità di identificazione. Infatti, trattandosi di microrganismi estremamente labili, la modalità di trasmissione da un ospite a un altro avviene esclusivamente per contatto diretto o tramite vettore (artropodi ematofagi, zecche o zanzare) e la loro osservazione a fresco deve necessariamente essere eseguita immediatamente dopo aver raccolto il campione clinico. La struttura cellulare delle spirochete comprende una parete che nell’organizzazione e funzione è simile a quella dei gram-negativi, pur differenziandosi per una maggiore flessibilità e struttura molecolare. La parete cellulare è provvista di peptidoglicano e aderisce alla membrana citoplasmatica. Uno spazio periplasmatico, contenente il peptidoglicano, separa la membrana citoplasmatica dalla membrana esterna (Outer

•T  reponema pallidum e sifilide • Borrelia e malattia di Lyme • Leptospira e leptospirosi

Figura 26.1 Morfologia di spirochete al microscopio elettronico a scansione. A. Treponema pallidum 36 000×. B. Leptospira interrogans. C. Borrelia burgdorferi, agente della malattia di Lyme.

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CC

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Figura 26.2 Struttura cellulare delle spirochete e relativa sezione trasversale.

Outer envelope

Cilindro protoplasmatico

Outer envelope

Parete cellulare

Filamenti assiali Filamento assiale

envelope, OE). All’interno dello spazio periplasmatico si trova l’apparato locomotore, detto assostile, che presenta caratteristiche uniche tra le specie batteriche. L’assostile è infatti costituito da filamenti (endoflagelli, da uno a più in relazione alla specie), simili ai flagelli batterici, che si inseriscono internamente ai poli della cellula batterica e scorrono lungo la spirale del corpo sovrapponendosi nella parte mediana (fig. 26.2). Il movimento delle spirochete è unico tra i batteri, essendo il risultato della contrazione degli endoflagelli con il soma batterico. Gli endoflagelli permettono infatti il peculiare movimento di rotazione intorno all’asse longitudinale, di ripiegamento, di scatto e di progressione a serpentina caratteristico dei membri di quest’ordine. Alle spirochete appartengono anche generi quali Spirochaeta, Cristispina e Serpulina, che comprendono sia specie patogene di vertebrati e invertebrati (Cristispina e Serpulina) sia specie saprofite (Spirochaeta). Nel 1997 tutte le specie di Serpulina sono state riclassificate come Brachyspira, con le due specie B. aalborgi e B. pilosicoli identificate come causa di spirochetosi intestinale nell’uomo.

26.1 - Genere Treponema Le spirochete più importanti e frequenti dal punto di vista clinico sono i treponemi. Molti di essi non sono patogeni e fanno parte della normale flora batterica della mucosa orale e gastroenterica. Treponema denticola e altri treponemi commensali orali possono tuttavia causare gengivite nei bambini e negli adulti e/o periodontite cronica negli adulti quando associati a specifici fattori predisponenti (ad es. scarsa igiene orale, fumo di sigaretta, obesità, diabete e consumo di alcol). Le caratteristiche morfologiche salienti di Treponema sono visibili al microscopio elettronico. L’apparato locomotore

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Tabella 26.1 Caratteristiche delle spirochete importanti dal punto di vista clinico.

Spirochaetales

Dimensioni

Treponema T. pallidum ssp. pallidum T. pallidum ssp. endemicum T. pallidum ssp. pertenue T. carateum

5-20 × 0,2 μm

Borrelia B. burgdorferi sensu stricto B. afzelii B. garinii B. lusitanae B. valaisiana B. spielmanii B. recurrentis

5-30 × 0,5 μm

Numero di flagelli 3

15-20

Metabolismo

Coltivazione in vitro

Anaerobio

Microaerofilo

Malattia

Modalità di trasmissione

No/Sì No

Sifilide



Bejel

Venerea, infezione congenita Contatto diretto

Yaws

Contatto diretto

Pinta

Contatto diretto

Borreliosi di Lyme

Zecche (Ixodes spp.)

Febbre ricorrente epidemica

Pidocchio (Pediculus humanus)

Febbre ricorrente endemica

Zecche (Ornithodorus spp.)

Leptospirosi

Urine di animali infetti



B. hermsii B. turicatae B. parkeri B. caucasica B. hispanica Leptospira L. interrogans

6-12 × 0,1 μm

2

Aerobio



consta di 1-8 flagelli periplasmatici, in genere 3, inseriti alle estremità nella membrana citoplasmatica attraverso un corpuscolo basale articolato in 2 dischi d’inserzione. Treponema pallidum e gli altri treponemi patogeni per l’uomo sono batteri a spirale estremamente sottili (0,15-0,2 × 5-20 µm) con estremità appuntite che, analogamente ad altre spirochete, possono essere osservate soltanto al microscopio in campo oscuro, a fresco, dopo impregnazione argentica o con l’utilizzo di anticorpi specifici antitreponema marcati con sostanze fluorescenti. I treponemi patogeni per l’uomo non sono coltivabili in vitro sui normali terreni di coltura per batteriologia ma possono essere mantenuti per ore in condizioni di anaerobiosi o microaerofilia. Mancando dei geni che codificano per gli enzimi catalasi e superossido dismutasi sono infatti estremamente sensibili ai radicali tossici dell’ossigeno. A causa della loro incapacità di sintetizzare acido tricarbossilico, che li rende dipendenti dalle cellule ospiti per la sintesi delle basi azotate e della maggior parte degli aminoacidi, i treponemi crescono con difficoltà e lentamente su substrati cellulari. Le specie che interessano la patologia umana sono Treponema pallidum, con tre sottospecie – pallidum, endemicum, pertenue – e Treponema carateum. Tali specie sono morfologicamente identiche e producono la stessa risposta immunologica nell’uomo; possono tuttavia essere distinte per le caratteristiche epidemiologiche, per lo spettro d’ospite negli animali da esperimento, e per le manifestazioni cliniche indotte dall’infezione (tab. 26.1). T. pallidum subsp. pallidum è l’agente eziologico della sifilide, malattia a trasmissione sessuale a diffusione mondiale, T. pallidum subsp. endemicum è responsabile della sifilide endemica, detta bejel, T. pallidum subsp. pertenue è responsabile di una forma attenuata di sifilide a localizzazione cutanea, detta yaws, frambesia, pian ecc., e Treponema carateum è l’agente della pinta, malattia caratterizzata da di-

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scromie cutanee. Ad eccezione di T. pallidum subsp. pallidum tutti gli altri treponemi sono trasmessi per contatto diretto non venereo (contatto con lesioni cutanee infette, biancheria infetta, stoviglie infette) e sono presenti nelle zone tropicali. T. pallidum subsp. endemicum è presente nelle regioni desertiche e temperate dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente, T. pertenue nelle aree desertiche e tropicali dell’America Meridionale, dell’Africa Centrale e dell’Indonesia, T. carateum nelle aree tropicali dell’America Centrale e Meridionale.

Treponema pallidum subsp. pallidum Treponema pallidum deve il suo nome al fatto di essere invisibile al microscopio ottico in campo chiaro e osservabile soltanto dopo colorazione con l’impregnazione argentica, o a fresco in campo oscuro. È il treponema patogeno più rilevante per l’uomo e agente causale della malattia venerea detta sifilide o lue. Anaerobio stretto, possiede un genoma costituito da un cromosoma circolare di circa 1000 kb. Analogamente agli altri Treponemi, T. pallidum non può essere coltivato nei normali terreni di coltura abiotici e ciò ne ha limitato nel tempo lo studio dei fattori di virulenza e la preparazione di antigeni per la messa a punto di test sierologici. Sebbene la membrana esterna sia ricca di lipoproteine che mediano l’adesione alle cellule ospiti e alla fibronectina, la maggior parte di esse non è esposta sulla membrana esterna permettendo al treponema di eludere il sistema immunitario (mimesi molecolare). La presenza di un rivestimento di glucosoaminoglicano lo protegge inoltre dalla fagocitosi. L’analisi del genoma ha evidenziato la presenza di almeno cinque emolisine e di una ialuronidasi anche se il danno tissutale e le tipiche lesioni osservate nella sifilide sembrano essere conseguenza della risposta immunitaria dell’ospite all’infezione piuttosto che del danno diretto provocato da emolisine o da altri fattori di virulenza. Non è presente il lipopolisaccaride (LPS).

■■

Patogenicità e manifestazioni cliniche

Come detto, T. pallidum è l’agente eziologico della sifilide, malattia venerea cronica caratterizzata da un decorso clinico che si sviluppa in tre stadi. Fu descritta per la prima volta nel XVI secolo e si ritiene che sia stata importata dalle Americhe dagli spagnoli. Nei Paesi industrializzati, l’incidenza della sifilide iniziò a calare verso la fine del 1800, per poi subire un picco di recrudescenza dopo la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie anche alla disponibilità di metodi diagnostici efficaci e degli antibiotici, la diffusione della malattia subì una nuova riduzione. Recentemente la sua incidenza è di nuovo in aumento sia nei Paesi in via di sviluppo sia in alcuni Paesi europei. Con un’incidenza annuale di circa 12 milioni di nuovi malati nel mondo, la sifilide è oggi, dopo l’AIDS, l’infezione sessualmente trasmissibile con il più alto tasso di mortalità. Il contagio iniziale avviene di solito dalle lesioni infette formatesi a livello dell’apparato genitale e il contagio per via venerea rappresenta il 90% dei casi. La sifilide può anche essere trasmessa mediante secrezioni, sangue, saliva o per via verticale (sifilide congenita) ma è comunque legata (ad eccezione della via transplacentare) al contatto con le lesioni primarie e secondarie infette. Data la sua sensibilità all’essiccamento, alla disidratazione, e ai comuni disinfettanti, T. pallidum non sopravvive al di fuori dell’uomo, unico ospite naturale. La fase primaria (sifilide primaria) è caratterizzata da una o più lesioni cutanee o mucose (sifiloma) che si sviluppano nel punto di penetrazione delle spirochete. Una volta superata la barriera epiteliale, i treponemi si moltiplicano lentamente. Nello spazio di 10-90 giorni dall’infezione iniziale compare una papula che successivamente si trasforma in un’ulcera indolore, con i bordi sollevati, nel cui essudato sono presenti molti treponemi. Le lesioni ulcerose cutanee iniziali della sifilide primaria rivelano la presenza, oltre che di grandi quantità di treponemi, di leucociti polimorfonucleati e macrofagi, all’interno

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Capitolo 26 • Spirochete

dei quali le spirochete resistono. La sifilide primaria interessa generalmente il pene nel maschio e la cervice uterina nella donna. La lesione primaria è accompagnata da linfoadenopatia regionale, che rappresenta il focolaio locale dove le spirochete si moltiplicano. Dall’ulcera le spirochete si diffondono in tutto l’organismo attraverso il sistema linfatico ed ematico. I sifilomi generalmente vanno incontro a cicatrizzazione spontanea entro 2 mesi anche in assenza di terapia, generando nel paziente una falsa guarigione. Circa 10-12 settimane più tardi compaiono le lesioni secondarie (sifilide secondaria), caratterizzate da un’eruzione eritematosa maculopapulare diffusa in tutte le parti del corpo, comprese le mani e i piedi. Tutte le lesioni cutanee umide ed esposte caratteristiche della lue secondaria, dette condilomi lati, contengono grandi quantità di treponemi, sono altamente contagiose e possono trasmettere l’infezione. Le lesioni cutanee sono precedute da una sindrome simil-influenzale, con mal di gola, cefalea, mialgie, febbre e linfoadenopatia. L’esantema, le lesioni e i sintomi della sifilide secondaria di solito regrediscono spontaneamente in 3-12 settimane, e possono portare alla fase asintomatica della sifilide, denominata di latenza o sifilide latente, durante la quale può mancare qualsiasi manifestazione clinica e che può durare anni. Circa il 25% dei pazienti con sifilide non trattata presenta lesioni secondarie recrudescenti, generalmente entro un anno dalle lesioni mucocutanee della sifilide secondaria. Una parte dei pazienti con sifilide latente (circa il 40%) va incontro al cosiddetto stadio della lue terziaria o tardiva, che può coinvolgere qualsiasi organo e tessuto. I sintomi clinici di questa fase si sviluppano dopo un periodo asintomatico che varia da anni a decenni. La lesione istologica fondamentale è la gomma, ossia un focolaio di infiammazione granulomatosa, ricco di cellule epitelioidi, simile al granuloma tubercolare, che va incontro a necrosi trasformandosi in un materiale gommoso. Le lesioni granulomatose possono essere rinvenute nelle ossa, nella cute e in altri tessuti, e le manifestazioni cliniche associate prendono il nome dagli organi maggiormente colpiti. I danni più distruttivi e debilitanti avvengono a carico del sistema nervoso centrale (neurosifilide) e del sistema circolatorio (sifilide cardiovascolare). La tabe dorsale è caratterizzata dalla distruzione cronica e progressiva delle fibre nervose dei nervi spinali, seguita da paralisi generalizzata ed è riscontrabile nell’8% dei pazienti non trattati. Il danno cardiocircolatorio può causare aneurisma dell’aorta. La sifilide si può inoltre trasmettere per via transplacentare, causando uno spettro di patologie vario che va dalla morte del feto allo sviluppo di importanti malformazioni nel neonato o infezioni latenti (sifilide congenita). In genere i bambini infetti nascono senza evidenti sintomi clinici, sviluppando successivamente una rinite seguita da esantema desquamante disseminato. In mancanza di trattamento sono frequenti malformazioni e alterazioni dello sviluppo morfologicamente evidenti.

■■

Epidemiologia

La sifilide è una malattia diffusa in tutto il mondo, e rappresenta negli Stati Uniti, in termini di frequenza, la terza infezione batterica a trasmissione sessuale. La diffusione della sifilide, a causa della sua natura venerea, avviene in forma sporadica coinvolgendo in particolare quei soggetti che praticano rapporti sessuali non protetti o promiscui. La sua trasmissione avviene in seguito a contatto con le lesioni infette della fase primaria e secondaria della malattia, che contengono alte concentrazioni di treponemi. L’incidenza della sifilide è diminuita significativamente negli anni ’40 con l’introduzione delle penicilline, e dagli anni ’50 in poi sono stati osservati aumenti periodici di casi di sifilide, legati in particolare a cambiamenti nelle pratiche sessuali. Dal 2001 al 2010 si è osservato un preoccupante incremento di casi di sifilide, sia negli Stati Uniti che in Europa, con un’incidenza di nuovi casi di sifilide primaria e secondaria (dunque le fasi altamente contagiose) che si è più che raddoppiata, soprattutto tra i maschi omosessuali. Gli ispanici e gli afro-americani residenti nel Sud-Est degli Stati Uniti continuano

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ad essere i soggetti maggiormente colpiti. La maggior parte dei casi si verifica in Africa Sub-Sahariana e in Asia Meridionale. In Europa Orientale e in Russia è stato osservato un drammatico aumento nell’incidenza della sifilide legato a cambiamenti socio-economici e, di conseguenza, a modificazioni delle pratiche sessuali. Allo stesso modo, un aumento allarmante di casi di sifilide è stato osservato anche in Cina. Esistono inoltre malattie non veneree causate da altre sottospecie di T. pallidum. Nessuna di queste malattie è a trasmissione sessuale e tutte vengono principalmente trasmesse per contatto diretto. Il T. pallidum sottospecie endemicum è l’agente eziologico della sifilide endemica (Bejel), malattia dell’età pediatrica presente nelle regioni calde e secche dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente; T. pallidum sottospecie pertenue è il microrganismo responsabile della framboesia (Yaws), malattia presente nelle aree tropicali umide dell’America Meridionale, dell’Africa Centrale e dell’Indonesia. Infine, Treponema carateum causa la malattia della pinta, che colpisce prevalentemente giovani e adulti delle popolazioni indigene nelle aree tropicali degli Stati Uniti Centrali e Meridionali. È da notare che nei pazienti con infezione da virus HIV è stato documentato un incremento dell’incidenza di neurosifilide. Inoltre, pazienti infettati da sifilide presentano un maggior rischio di acquisire un’infezione da HIV per la presenza di lesioni genitali aperte. All’inizio si pensava che potessero essere presenti simili fattori di rischio per queste due patologie infettive, in realtà sono state identificate relazioni epidemiologiche e biologiche più complesse in grado di spiegare l’alta incidenza di casi di coinfezione da sifilide e HIV.

■■

Diagnosi di laboratorio

La diagnosi si basa sull’osservazione della sintomatologia clinica (presenza di lesioni cutanee) e su dati di laboratorio. Per quanto riguarda la diagnosi di laboratorio di sifilide, essendo T. pallidum non coltivabile su terreni di coltura abiotici, si deve fare affidamento sulla rilevazione diretta del microrganismo in campioni clinici, utilizzando principalmente campioni prelevati dall’essudato delle lesioni primarie (sifilomi) e secondarie, in associazione con test sierologici. A causa della natura complessa dell’infezione sifilitica, non esiste un test ideale per la rilevazione diretta di T. pallidum. La selezione del test è dipendente dallo stadio e dalle manifestazioni cliniche della malattia e dal tipo di campione biologico. La rilevazione diretta di T. pallidum dagli essudati delle lesioni mucocutanee può essere effettuata mediante microscopia in campo oscuro (dark-field, DF), dopo impregnazione argentica, oppure mediante immunofluorescenza diretta per antigeni specifici (Direct Fluorescent Assay-T. pallidum, DFA-TP). L’esame microscopico in campo oscuro permette di evidenziare la presenza di spirochete mobili nei materiali clinici a fresco, ma richiede personale esperto del settore. Il test che riesce a identificare il minor numero di batteri è il RIT (Rabbit Infectivity Test), test di non utilizzo pratico, che prevede l’inoculo nel coniglio del materiale proveniente dalle lesioni mucocutanee sospette. Tale metodica raggiunge un livello massimo di sensibilità (100% di sensibilità con solo 25 batteri inoculati), pur richiedendo tempi molto lunghi di refertazione e costi elevati. La ricerca diretta può inoltre essere eseguita tramite rilevazione molecolare di specifiche sequenze geniche di T. pallidum (PCR). Il test molecolare richiede una presenza minima variabile dai 10 ai 50 batteri, a seconda del materiale in cui vengono ricercati e a seconda del target genico che si vuole amplificare. È una metodica quindi sensibile, con costi però elevati, che deve essere affidata esclusivamente a laboratori abituati a eseguire esami diagnostici su DNA. In rarissimi casi la ricerca diretta del treponema per la diagnosi di sifilide secondaria e terziaria può essere effettuata su campioni non genitali (campioni bioptici tessutali cutanei, aspirati linfonodali e liquido amniotico), utilizzando test DFA-TP o test mo-

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Tabella 26.2 Metodi diretti per la diagnosi di sifilide.

Test diagnostico

Metodo

Microscopia

In campo oscuro Impregnazione argentica Immunofluorescenza diretta

Test molecolari

PCR

Campione

Stadio della malattiaa Sifilide primaria

Sifilide secondaria

Sifilide terziaria

E, AL, LA B, CO/P E, AL, B, LA, CO/P

+ – +

+ + +

– + +

E, AL, B, S, P, SI, LCS, LA, CO/P

+

+

+

Abbreviazioni: PCR, Polymerase Chain Reaction; E, essudato dalla lesione; AL, aspirato linfonodale; B, biopsia tissutale; S, siero; P, plasma; SI, sangue intero; LCS, liquido cerebrospinale; LA, liquido amniotico; CO/P, cordone ombelicale/placenta. LA e CO/P sono campioni biologici indicati per la diagnosi di sifilide fetale/congenita. a +, test diagnostico raccomandato rispetto alle varie fasi della malattia; –, test diagnostico non raccomandato rispetto alle varie fasi della malattia.

Tabella 26.3 Test sierologici indiretti per la diagnosi di sifilide.

Test diagnostico

Metodo

Campione

Sensibilità (%)

Specificità (%)

Test sierologici treponemici

FTA-ABS TPHA TPPA EIA e chemioluminescenza Immunoblot Immunocromatografia

S, LCS S S S, P S, P, SI S, P, SI

80-90% 55-90% 85-97% 67-100% n.d. n.d.

100% 96-100% 100% 65-100% n.d. n.d.

96% 96-97% 100% 86-100% n.d. n.d.

95-97% 99% 100% 98-100% 97-100% 93-99%

Test sierologici non treponemici

VDRL, flocculazione RPR, flocculazione USR, flocculazione TRUST, flocculazione

S, LCS S, P S S, P

67-78% 60-86% 80% 70-85%

96-100% 100% 100% 100%

85-95% 98% 95% 98%

96-99% 93-99% 98-99% 98-99%

Abbreviazioni: FTA-ABS, Fluorescent Treponemal Antibody-Absorption; TPHA, Treponema Pallidum-Haemagglutination; TPPA, Treponema Pallidum-Particle Agglutination; EIA, Enzymatic Immuno Assay; VDRL, Venereal Disease Research Laboratory; RPR, Rapid Plasma Reagin; USR, Unheated Serum Reagin; TRUST, Toluidine-Red Unheated Serum Test; S, siero; P, plasma; SI, sangue intero; LCS, liquido cerebrospinale; n.d., non disponibile.

lecolari. La ricerca diretta dei treponemi può inoltre essere eseguita su liquor (ad es. casi sospetti di neurosifilide) utilizzando test molecolari qualitativi (tab. 26.2). Oltre ai test di rilevazione diretta per il T. pallidum, ampiamente utilizzati sono i test sierologici indiretti, che si dividono test non treponemici (non specifici) e in test treponemici (specifici). Questi ultimi vengono utilizzati per la ricerca degli anticorpi anti-treponema nel siero del paziente (tab. 26.3). I test non treponemici rilevano la presenza di anticorpi della classe IgG e IgM (detti anticorpi reaginici) diretti contro antigeni lipoidei (cardiolipina), liberati dalle cellule danneggiate durante le prime fasi della malattia e presenti sulla superficie dei treponemi. Sono stati i primi ad essere sviluppati e sono ancora utilizzati per lo screening e la valutazione dell’attività della malattia in seguito a terapia. L’antigene utilizzato nei test non treponemici è la cardiolipina (di derivazione bovina). La reazione antigene-anticorpo può essere messa in evidenza tramite test di flocculazione su vetrino (ad es.VDRL – Venereal Disease Research Laboratory), che possono essere agevolmente letti al microscopio e resi quantitativi, oppure tramite test analoghi (ad es. RPR – Rapid Plasma Reagin) che si basano sull’agglutinazione di particelle al lattice colorate che facilitano la lettura a occhio nudo della reazione. Le sensibilità e specificità dei diversi test non treponemici è paragonabile: sensibilità di 70-85% per la lue primaria, 100% per la lue secondaria, 85-95% per la lue terziaria. I test non treponemici, oltre a peccare in sensibilità nella diagnosi della sifilide primaria – soprattutto nelle fasi iniziali – e della sifilide terziaria, peccano anche in specificità poiché gli anticorpi reattivi possono essere prodotti anche in altre condizioni morbose non correlate alla sifilide (infezioni virali o parassitarie, malattie febbrili acute, malattie autoimmuni, vaccinazioni e gravidanza), dando luogo a falsi positivi.

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Al contrario, i test treponemici, che utilizzano T. pallidum come antigene, identificano nel siero la presenza di anticorpi diretti contro antigeni proteici specifici del microrganismo e sono caratterizzati pertanto da una maggiore specificità. Inoltre, tutti i test treponemici sono altamente sensibili. I test treponemici comprendono:

• test in immunofluorescenza indiretta: FTA-ABS (Fluorescent Treponemal Antibody-Absorption), che utilizza come antigene un ceppo di T. pallidum fissato su vetrino;

• test di agglutinazione: TPHA (Treponema Pallidum Hemagglutination Assay), TPPA (Treponema Pallidum-Particle agglutination Assay);

• immunoblotting (Western blot-WB), che come i test di agglutinazione utilizzano antigeni ricombinanti;

• test immunometrici: EIA (Enzymatic Immuno Assay) e CLIA (Chemiolumini-

scent Immuno Assay), che utilizzano antigeni ricombinanti e offrono la possibilità di essere gestiti in completa automazione. La metodica CLIA ha dimostrato una specificità del 99% e una sensibilità del 98%.

Negli ultimi anni è stato possibile assistere a un continuo e costante miglioramento delle metodiche sopracitate, grazie anche allo sviluppo di nuovi antigeni ricombinanti e alla standardizzazione dei principi interpretativi del WB. Nella sifilide primaria, i test treponemici possono risultare positivi quando ancora quelli non treponemici non sono reattivi e, in alcuni casi di sifilide terziaria, gli stessi test possono risultare positivi quando quelli non treponemici si sono negativizzati. Sono stati descritti rari casi di falsi positivi con i test treponemici (malattie autoimmuni, borreliosi e ipergammaglobulinopatie) (tab. 26.4). Algoritmi tradizionali utilizzano i test non treponemici come test di screening per la diagnosi di sifilide che, tuttavia, devono essere interpretati tenendo conto della fase della malattia e della popolazione in esame. I risultati positivi ottenuti con i test sierologici non treponemici dovrebbero essere sempre confermati utilizzando un test treponemico. Inoltre, poiché circa il 30% dei pazienti con sifilide primaria risulta negativo ai test non treponemici (principalmente nelle primissime fasi della fase primaria) è fondamentale affiancarli alla ricerca diretta del microrganismo dalle lesioni genitali o all’utilizzo di test sierologici treponemici. Tutti gli individui con sifilide secondaria sono altamente reattivi ai test non treponemici e mostrano alti titoli anticorpali mentre circa un terzo dei soggetti con sifilide terziaria risulta non reattivo ai test non treponemici. Poiché riduzioni significative dei titoli anticorpali in terapia si osservano esclusivamente con i test non treponemici (VDRL e RPR), tali test sono gli unici ad essere indicati nel monitoraggio dell’efficacia terapeutica. I test treponemici sono infatti meno influenzati dalla terapia antimicrobica e circa il 75% dei soggetti infetti permane reattivo per anni nonostante l’efficacia del trattamento. Inoltre, i test treponemici disponibili commercialmente misurano gli anticorpi totali (IgG + IgM anti-Treponema) fallendo quindi la possibilità di distinguere tra malattia Tabella 26.4 Test sierologici per la diagnosi di sifilide e condizioni associate a risultati

falsi positivi.

Test

Condizioni associate a risultati falsi positivi

Test non treponemici

Infezione virale, malattie autoimmuni, malattie acute o croniche, post-vaccinazione, gravidanza, lebbra, malaria, tossicodipendenza, trasfusioni

Test treponemici

Malattie autoimmuni, borreliosi di Lyme, ipergammaglobulinopatie, diabete mellito, cirrosi alcolica, infezioni virali, micosi, tossicodipendenza, gravidanza, neoplasie cutanee

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attiva e malattia inattiva pregressa. Data l’elevata specificità dei test treponemici, l’importanza del loro utilizzo è quindi in genere limitata alla conferma di positivi ottenuti con i test non treponemici. Molti casi di falsi positivi con test non treponemici e treponemici possono essere risolti mediante immunoblot (Western blot). Poiché l’infezione del sistema nervoso centrale (neurosifilide) può essere svelata e trattata con successo prima della comparsa dei sintomi, l’esame del liquido cefalo-rachidiano (CFS) nei pazienti luetici riveste grande importanza ed è raccomandato soprattutto nei seguenti casi:

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sifilide di incerta durata e sifilide tardiva sia sintomatica sia latente; titolo sierico di TPHA > 1/2560; coesistenza dell’infezione da HIV; presenza di sintomi riferibili a interessamento del SNC.

Non esiste un singolo test in grado di diagnosticare tutti i casi di neurolue. La conferma diagnostica di neurosifilide è data dall’associazione di più fattori: alterazioni liquorali, pleiocitosi (> 5 leucociti/mm3) e aumento della proteinorrachia (> 0,45 g/L), che sono generalmente ben correlati con l’attività della malattia. La VDRL è l’unico test il cui uso è stato raccomandato sul liquor. La sua positività, in assenza di significativa contaminazione ematica del liquor, è considerata diagnostica di neurosifilide. Tuttavia la sua negatività non esclude la neurosifilide, essendo stato dimostrato che il 20-30% dei pazienti con neurolue presenta VDRL-CFS negativa. Nessun test di laboratorio è stato comunque approvato come test diagnostico di neurolue.

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Prevenzione e terapia

La prevenzione consiste nell’informazione e sorveglianza delle categorie a rischio (prostitute e omosessuali) e nell’utilizzo di adeguate modalità di protezione durante i rapporti sessuali con partner non sicuri. Non sono disponibili vaccini. Farmaco di elezione è la penicillina, verso cui T. pallidum non ha ancora sviluppato resistenza. La penicillina G-benzatina ad azione prolungata viene raccomandata nelle fasi iniziali della sifilide, la penicillina G (o benzilpenicillina) viene utilizzata per la sifilide terziaria e per quella fetale/congenita. La tetraciclina è considerato il farmaco di seconda scelta, raccomandato nei pazienti allergici alla penicillina. La doxiciclina, farmaco equivalente alla tetraciclina, è preferito, avendo un’emivita più lunga. Anche i macrolidi, come l’azitromicina, possono essere utilizzati nei pazienti allergici alle penicilline, tuttavia sono stati riportati ceppi di T. pallidum resistenti.

26.2 - Genere Borrelia Le borrelie sono tra le spirochete più grandi (circa 0,2-0,5 × 8-30 µm) e questa caratteristica permette di poterle osservare in strisci di sangue di pazienti con febbre ricorrente (non con malattia di Lyme) al microscopio in campo chiaro previa colorazione con i coloranti all’anilina (Giemsa e Wright), oppure al microscopio in campo oscuro (fig. 26.3). La presenza di endoflagelli, situati nello spazio periplasmatico tra il cilindro protoplasmatico e la membrana esterna, in numero variabile a seconda delle specie di Borrelia (7-20), conferisce a questi microrganismi il tipico movimento a torsione. Dal punto di vista della struttura, presentano una membrana esterna simile a quella dei batteri gram-negativi, seppure alla colorazione di Gram si colorino molto debolmente con il secondo colorante. Alcune specie sono coltivabili in microaerofilia su terreni di coltura che contengono N-acetilglucosamina, acidi grassi saturi e insaturi, aminoacidi, vitamine e glucosio (terreno BSK). I microrganismi del genere Borrelia sono trasmessi da artropodi ematofagi e sono causa di due importanti patologie nell’uomo: la febbre ricorrente e la malattia di Lyme (o borreliosi di Lyme).

Figura 26.3 Borrelia burgdorferi. Visione in campo oscuro.

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La malattia di Lyme viene trasmessa da zecche dure, per lo più del genere Ixodes, e si manifesta con presentazioni cliniche variabili, quali anomalie cutanee, reumatologiche, neurologiche e cardiologiche. In un primo momento si riteneva che la malattia di Lyme fosse causata da un’unica specie, la B. burgdorferi, ma è stato successivamente dimostrato che un complesso di almeno 10 diverse specie di Borrelia ne può essere responsabile. La febbre ricorrente è un’infezione caratterizzata da episodi ricorrenti di febbre e setticemia, alternati a periodi afebbrili. Se ne distinguono due forme: la febbre ricorrente epidemica, trasmessa soprattutto da pidocchi, causata da B. recurrentis, e la febbre ricorrente endemica, trasmessa da zecche molli (genere Ornithodoros), causata da circa 15 diverse specie di Borrelia. La moltiplicazione delle borrelie negli artropodi vettori e negli ospiti mammiferi viene regolata mediante una diversa espressione genica di proteine di superficie della membrana esterna, principalmente lipoproteine. Il genoma delle borrelie è insolito tra i procarioti essendo costituito da un piccolo cromosoma lineare, anziché circolare, di circa 1000 kb, a cui si associano plasmidi sia lineari che circolari. Inoltre, a differenza della quasi totalità delle altre specie batteriche, le specie di Borrelia sono caratterizzate da un basso contenuto in GC. Di una certa sorpresa è la presenza nel genoma di un enorme numero di geni (circa 150) che codificano per lipoproteine, facendo pensare a un ruolo essenziale svolto da tali molecole nel ciclo vitale delle spirochete.

Malattia di Lyme La storia della malattia di Lyme ebbe inizio alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, in seguito a un’epidemia di artrite giovanile verificatasi nella contea di Lyme, negli Stati Uniti. Pochi anni dopo, il microrganismo responsabile di questa malattia venne isolato ad opera di W. Burgdorfer, da cui prese il nome la specie. La malattia è causata da diverse specie di Borrelia, delle quali B. burgdorferi è la prima ad essere stata identificata. Le borrelie responsabili della malattia di Lyme sono state suddivise in diverse genospecie, in base al diverso fenotipo degli antigeni espressi sulla membrana esterna (lipoproteine OspA, OspB, OspC, VlsE ecc.) e alla differente specificità d’ospite. In B. burgdorferi i principali antigeni di superficie, OspA e OspB, sono codificati da geni presenti su un grande plasmide lineare e facenti parte dello stesso operone. Una terza importante proteina di superficie, OspC, è codificata da geni presenti su un plasmide circolare. OspA viene espressa dal battere quando si trova nell’intestino medio delle zecche a digiuno, favorendo il legame con specifiche proteine intestinali del vettore. Con il pasto della zecca ematofaga si ha repressione dell’espressione di OspA e la concomitante sovraregolazione della proteina di superficie OspC. Ciò consente alla spirocheta di migrare nelle ghiandole salivari dell’artropode e, dunque, favorire il passaggio dalle zecche ai mammiferi. La presenza di differenti varianti geniche di OspC in ceppi diversi di B. burgdorferi suggerisce un ruolo importante di questo antigene nell’evasione della risposta immune e nell’adattamento di B. burgdorferi alle cellule ospiti umane e ai vettori. La trasmissione di B. burgdorferi all’uomo avviene mediante l’iniezione del microrganismo presente nella saliva della zecca o mediante il rigurgito del contenuto dell’intestino medio. Il microrganismo aderisce ai proteoglicani presenti sulla cellula ospite attraverso il glucosoaminoglicano presente sulla cellula batterica. Dopo l’iniezione da parte della zecca, il microrganismo migra dalla sede di inoculo provocando la formazione della classica lesione cutanea (eritema migrante). L’eritema migrante, caratteristico della prima fase della malattia, è caratterizzato dalla presenza di poche cellule batteriche. La disseminazione avviene per vai ematica e/o linfatica e ha come bersaglio il tessuto cutaneo o muscoloscheletrico e altri organi. Le modalità con le quali le borrelie possono scatenare la malattia di Lyme non sono chiare. L’azione patogena delle borrelie sembra dovuta alla capacità di invadere i tessuti aderendo alle cellule e di eludere l’azione difensiva del complemento e della fagocitosi.

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B. burgdorferi è in grado di dar luogo a un’infezione persistente, grazie alla capacità di perdurare in distretti dell’organismo non facilmente raggiungibili dalle difese dell’ospite (articolazioni e sistema nervoso centrale), alla capacità di eludere gli anticorpi modificando il suo assetto antigenico e alla capacità di rilasciare citochine ad azione infiammatoria. Le manifestazioni cliniche caratteristiche della fase tardiva e cronica della malattia di Lyme sembrano dovute a un’intensa risposta infiammatoria e alla reattività dell’ospite, anche se non si esclude l’azione patogena diretta dei microrganismi. Il quadro clinico della malattia di Lyme è dunque complesso e interessa più organi e apparati, quali cute, articolazioni, sistema nervoso e cuore. La malattia si evolve in due stadi con tendenza alla cronicità. Lo stadio iniziale è caratterizzato dalla caratteristica lesione cutanea denominata eritema migrante, che si forma dopo alcuni giorni (da 3 a 30 giorni) attorno al sito della puntura di zecca. L’eritema migrante inizia come una piccola macula o papula per poi allargarsi nel corso delle settimane successive, con dimensioni sulla superficie cutanea che vanno dai 5 cm a più di 50 cm di diametro. La tipica lesione si presenta con un bordo piatto e rosso e procede verso il centro della lesione con un’area sempre più chiara. L’eritema si riduce e scompare nel giro di qualche settimana, anche se in seguito possono comparire lesioni transitorie. Altri sintomi clinici dello stadio precoce sono malessere, grave affaticamento, cefalea, febbre, brividi, dolori muscolo-scheletrici, mialgie, linfadenopatia, che durano circa 4 settimane. Se non opportunamente trattata, l’infezione può evolvere verso lo stadio tardivo, che comprende la Lyme secondaria e la Lyme persistente. Nella Lyme secondaria si manifestano sintomi clinici sistemici in seguito alla diffusione ematogena dei microrganismi. In assenza di trattamento prevalgono artrite monoarticolare (tipicamente del ginocchio, in circa il 60% dei casi), sintomi neurologici (meningite, encefalite, neuropatia periferica con paralisi del nervo facciale in circa il 10-20% dei casi) e sintomi cardiaci (blocco atrioventricolare, miocardite, in circa il 5% dei casi). Queste manifestazioni tendono a scomparire entro qualche mese e la malattia può evolvere verso la fase di persistenza che può durare da mesi ad anni dopo l’infezione iniziale qualora il paziente non venga opportunamente trattato. Durante la fase della Lyme persistente prevalgono artrite grave a carico delle grandi articolazioni, con possibilità di erosione delle cartilagini, neuropatie di varia gravità (neuroborreliosi) nei pazienti con patologie a carico del sistema nervoso, e una forma di Lyme persistente cronica cutanea detta acrodermatite cronica atrofizzante, la manifestazione clinica più comune in Europa, caratterizzata da gonfiore e depigmentazione della cute. Non esistono casi letali, ma la qualità della vita è compromessa. La diagnosi clinica della malattia di Lyme è complicata dalle diverse manifestazioni cliniche della malattia e dalla mancanza di esami diagnostici di supporto affidabili.

Febbre ricorrente: patogenesi e manifestazioni cliniche Molte altre specie di Borrelia causano nell’uomo la “febbre ricorrente”. Queste specie vengono suddivise in due gruppi: il primo gruppo comprende solo la specie Borrelia recurrentis, trasmessa dal pidocchio e che causa la febbre ricorrente di tipo epidemico, malattia a diffusione più vasta. Il secondo gruppo comprende numerose specie che vengono trasmesse da zecche del genere Ornithodoros, che causano la febbre ricorrente di tipo endemico, malattia limitata all’ecosistema in cui vivono gli artropodi vettori. La febbre ricorrente di tipo epidemico, trasmessa dai pidocchi, è una malattia legata a condizioni ecologiche e sociali (sovraffollamento e scarsa igiene personale) che favoriscono una massiccia infestazione dell’uomo da parte di questi artropodi; sono stati riferiti casi in tutte le parti del mondo tranne che in Australia, Nuova Zelanda e Micronesia. Il pidocchio non trasmette Borrelia recurrentis alle generazioni successive di pidocchi per via transovarica né a un ospite umano attraverso il morso. Infatti, il pidocchio, nutrendosi del sangue di un soggetto infetto, ingurgita un certo numero di borrelie; queste,

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dopo essere penetrate nelle cellule dell’epitelio intestinale, si localizzano nell’emolinfa e vi si moltiplicano. L’emolinfa ricca di microrganismi fuoriesce quando l’artropode viene schiacciato o danneggiato in seguito al grattamento causato dal prurito, causando il passaggio delle borrelie attraverso la cute abrasa. Dal mo­mento che il pidocchio preferisce una temperatura di 37 °C, esso abbandona l’ospite febbrile in cerca di un nuovo ospite: ciò spiega la rapida diffusione dell’infezione durante le epidemie, nono­ stante la breve vita del pidocchio (da 10 a 60 giorni). In passato numerose epidemie di febbre ricor­rente epidemica si sono verificate in Europa, Africa, Asia e America. È stato stimato che durante la Seconda Guerra Mondiale e nel periodo immediatamente successivo si siano infettate circa 10 milioni di persone e che tra il 1900 e il 1950 siano state colpite circa 50 milioni di persone e probabilmente molte di più, non essendo disponibili dati sui casi verificatisi in Russia e in Cina. Le migliorate condizioni igieniche e sociali, nonché l’uso degli antibiotici, hanno fatto praticamente scomparire la febbre ricorrente epidemica; dal 1967 essa è presente solo in Etiopia, in Somalia e in Sudan, sebbene recentemente si siano anche verificate delle epidemie anche in Sudamerica. Le zecche del genere Ornithodoros trasmettono all’uomo varie specie di Borrelia attraverso la puntura (in quanto le borrelie invadono le ghiandole salivari dell’artropode) e spes­so alle generazioni successive di zecche per via transovarica (in quanto le borrelie infettano le uova). La febbre ricorrente ha un periodo d’incubazione di 2-15 giorni o più, con una media di 5-8 giorni; essa è detta così perché si alternano periodi febbrili con intervalli di apiressia. L’esordio è improvviso con brividi e febbre a 39-40 °C che permane elevata per periodi variabili da 3 a 14 giorni. Altri sintomi possono accompagnarsi alla febbre: violenta cefalea occipitale e occipito-frontale, dolore retro-orbitale, mialgia (localizzata soprattutto ai polpacci e alla regione lombare), esantema di tipo rubeoliforme (inizialmente localizzato al collo e alle spalle e poi ai lati del torace e alla superficie interna delle estremità), nausea, vomito, diarrea e insonnia. Gli intervalli tra il primo attacco febbrile e i successivi sono di durata variabile e spesso irregola­re, oscillando tra i 3 e i 36 giorni (con una media di 7). Durante questi intervalli il paziente può essere afebbrile o presentare solo una febbricola. Gli attacchi febbrili hanno la tendenza a diventare più miti e più brevi; il numero di episodi febbrili varia solitamente da 2 a 5, ma può arrivare anche a 12 o più, specialmente in pazienti non trattati. Anche le conoscenze dei meccanismi mediante i quali le borrelie siano in grado di causare la febbre ricorrente non sono completamente chiare. Ad oggi non si conoscono tossine batteriche prodotte dalle borrelie in grado di causare le manifestazioni cliniche della febbre ricorrente. I microrganismi vengono eliminati rapidamente a seguito di una specifica risposta anticorpale anche se alcune borrelie possono persistere all’interno del sistema reticolo-endoteliale. Il fenomeno della ricorrenza degli attacchi febbrili con i cicli periodici febbrili e afebbrili caratteristici della febbre ricorrente deriva dalla capacità delle borrelie di andare incontro a modificazioni antigeniche delle loro molecole di superficie. Un attacco febbrile viene correlato alla comparsa di anticorpi specifici (azione litica, complemento-mediata) in grado di eliminare i microrganismi circolanti, cui seguirebbe il picco febbrile. I successivi picchi febbrili sarebbero dovuti alla comparsa di nuove popolazioni di borrelie. All’interno delle cellule del sistema reticolo-endoteliale, infatti, le borrelie vanno incontro a modificazioni antigeniche e quando ne fuoriescono non vengono più riconosciute dalla risposta anticorpale indotta precedentemente, spiegando gli episodi di recrudescenza e quindi di febbre ricorrente. Dopo parecchi episodi febbrili può ricomparire nuovamente la struttura antigenica originaria. Se l’infezione non viene opportunamente trattata, il ciclo si ripete tendendo a diminuire di gravità e quindi a risolvere spontaneamente, a meno che non si determinino complicanze che portano a morte il paziente. Durante gli episodi febbrili, le borrelie sono presenti nel sangue e possono essere osservate tramite rilevazione diretta al microscopio, mentre sono assenti durante gli intervalli apiretici.

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Epidemiologia

Come detto in precedenza, l’agente della malattia di Lyme, B. burgdorferi, è stato individuato per la prima volta negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70 del XX secolo. L’incidenza della malattia di Lyme è incrementata notevolmente dal 1980 al 2010 e l’infezione risulta particolarmente diffusa in Europa, Asia e Stati Uniti (fig. 26.4). Negli Stati Uniti, dove la borreliosi di Lyme rappresenta la principale malattia trasmessa da vettori, vi sono tre principali focolai di infezione, gli Stati del Nord-Est e medio-Atlantico, il Midwest settentrionale e il Pacifico Occidentale. Le zecche dure sono i principali vettori. Ixodes ricinus è la zecca che ospita e trasmette B. burgdorferi sensu stricto, B. garinii, B. afzelii, Borrelia valaisiana, Borrelia lusitanae principalmente in Europa, ma anche in Asia; Ixodes persulcatus è il vettore più comune che ospita e trasmette B. garinii e B. afzelii in Europa Orientale e in Asia, Ixodes scapularis è il principale vettore di B. burgdorferi sensu stricto nelle zone del Nord-Est, medio-Atlantico e del Midwest Settentrionale degli Stati Uniti, Ixodes pacificus trasmette B. burgdorferi sensu stricto negli Stati Uniti nelle aree del Pacifico. I principali serbatoi negli Stati Uniti sono il topo dai piedi bianchi, che è infestato dalle larve e dalle ninfe delle zecche, e il cervo dalla coda bianca, che è il serbatoio naturale delle zecche adulte. Il topo rappresenta il principale serbatoio animale per la trasmissione della malattia all’uomo, dato che la stragrande maggioranza dei casi di malattia è sostenuta da zecche in stadio di ninfa. Le larve si infettano quando si nutrono dal topo e si trasformano in ninfe in tarda primavera. In questa fase assumono un secondo pasto e l’uomo può rappresentare un ospite accidentale (zoonosi). Le dimensioni molto piccole delle ninfe fanno sì che l’uomo non si accorga di aver subito una puntura di zecca. Le ninfe, quindi, si trasformano in zecche adulte a fine estate e assumono un terzo pasto. Il cervo è l’ospite principale delle zecche adulte, ma anche l’uomo può essere infettato. Pertanto, anche se la malattia può manifestarsi durante tutto l’anno, la maggiore incidenza si manifesta da fine primavera a fine estate. Per quanto riguarda la febbre ricorrente, l’agente eziologico della febbre ricorrente epidemica è B. recurrentis, il pidocchio umano è il vettore e l’uomo è l’unico serbatoio naturale, dal quale i pidocchi si infettano. I pidocchi si infettano ingerendo le borrelie durante il pasto, ma non sviluppano un’infezione generalizzata. L’infezione viene trasmessa all’uomo durante il grattamento che causa lo schiacciamento dell’artropode e la fuoriuscita dell’emolinfa. Dato che il pidocchio è un ectoparassita, ha scarsa mobilità, e sopravvive soltanto per pochissimi mesi; le condizioni che favoriscono la Figura 26.4 Distribuzione geografica di Borrelia burgdorferi.

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Tabella 26.5 Serbatoi e vettori della malattia di Lyme e della febbre ricorrente.

Infezione

Serbatoio

Vettore

Malattia di Lyme

Roditori, cervi, animali domestici, zecche dure

Zecche dure

Febbre ricorrente epidemica

Uomo

Pidocchio umano

Febbre ricorrente endemica

Roditori, zecche molli

Zecche molli

diffusione dell’infezione all’uomo sono il sovraffollamento, la promiscuità e le scarse condizioni igieniche (come nelle guerre e nelle catastrofi naturali). Mentre nel passato le epidemie da febbre ricorrente erano piuttosto frequenti e diffuse, attualmente la malattia è confinata a Etiopia, Ruanda e agli altopiani delle Ande. La febbre ricorrente endemica presenta differenti caratteristiche rispetto alla febbre ricorrente epidemica. Ne sono causa molte specie del genere Borrelia capaci di indurre febbri ricorrenti endemiche localizzate in varie parti del mondo (tab. 26.1). A differenza della febbre ricorrente epidemica, la febbre ricorrente endemica è una zoonosi, in quanto le borrelie vivono di norma in serbatoi animali (roditori e piccoli mammiferi). I vettori sono rappresentati dalle zecche molli del genere Ornithodoros, che, a differenza dei pidocchi nella febbre ricorrente epidemica, sono soggetti a infezione generalizzata, mantenendo le borrelie per tutta la vita e trasmettendole alla prole per via transovarica. Le zecche possono sopravvivere tra un pasto e l’altro per moltissimi mesi (a differenza dei pidocchi) e, annidate nelle fessure delle abitazioni, pungono di notte e contaminano la ferita con la saliva e le feci. Le zecche molli rimangono attaccate durante la puntura soltanto per pochi minuti. La malattia è diffusa in tutto il mondo in relazione alla distribuzione del vettore (tab. 26.5).

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Diagnosi di laboratorio

La diagnosi delle borreliosi si basa sull’evidenza dei microrganismi nel sangue e nei tessuti. Le metodiche di rilevazione diretta delle borrelie comprendono l’esame microscopico, l’esame colturale e i test molecolari, basati sulla rilevazione di sequenze specie-specifiche di acidi nucleici. La scelta nell’utilizzo di tali metodiche dirette dipende dal tipo di infezione, dalla specie coinvolta e dal campione biologico da esaminare (tab. 26.6). Per la diagnosi di febbre ricorrente le borrelie possono essere osservate durante il periodo febbrile mediante microscopia ottica previa colorazione con Wright o Giemsa di preparati di sangue. Tale metodo è caratterizzato da una sensibilità superiore al 70%. La diagnosi di malattia di Lyme può essere eseguita mediante isolamento di B. burgdorferi su terreni di coltura altamente specifici (terreno di Kelly). Tuttavia, ad eccezione dei campioni biologici da lesioni cutanee precoci, la sensibilità dell’esame colturale per la rilevazione della B. burgdorferi è piuttosto bassa (ad es., per la diagnosi di neuroborreliosi la sensibilità dell’esame colturale del LCS è intorno al 20%; l’esame colturale di biopsie o liquidi sinoviali è generalmente negativo). Anche la specie Borrelia hermsii, agente eziologico della febbre ricorrente endemica negli Stati Uniti, può essere isolata mediante esame colturale. Le tecniche molecolari di PCR e Real-Time PCR, basate sull’amplificazione degli acidi nucleici, vengono di norma utilizzate per la diagnosi di malattia di Lyme, essendo in grado di rilevare specifiche sequenze geniche di B. burgdorferi sia nei tessuti che nei liquidi biologici. Tali metodiche molecolari mostrano una sensibilità variabile a seconda del campione esaminato (65-75% su biopsie cutanee, 50-85% sul liquido sinoviale, 25% quando eseguite su LCS). I test molecolari vengono di norma confermati da esami sierologici o colturali. Tutte le metodiche dirette (test microscopici, colturali e molecolari) sono appannaggio di pochi laboratori (principalmente laboratori di ricerca e centri di riferimento) e richiedono personale altamente specializzato.

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Tabella 26.6 Tipi di campioni biologici usati per la diagnosi di malattia di Lyme.

Manifestazioni cliniche

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Campioni per: Rilevazione diretta Sensibilità (microscopia, coltura, PCR) (%)

Test sierologici (sierodiagnosi)

Sensibilità (%)

Fase I (stadio iniziale, da pochi giorni a poche settimane, localizzata) Eritema migrante

Biopsia cutanea

50-70

Siero

20-50

Fase II (Lyme secondaria, da settimane a mesi, precoce, disseminata) Lesioni eritematose cutanee multiple Cardite Neuroborreliosi

Biopsia cutanea Biopsia endomiocardio LCS

50-70 50-70 10-20

Siero Siero Siero/LCSa

70-90 70-90 70-90

Fase III (Lyme persistente, tardiva, da mesi ad anni, disseminata) Artrite Acrodermatite cronica atrofizzante Neuroborreliosi

Liquido o biopsia sinoviale Biopsia cutanea LCS

50-70 50-70 10-30

Siero Siero Siero/LCSa

100 100 100

Determinazione dell’indice anticorpale del rapporto LCS/siero.

I test sierologici per la ricerca degli anticorpi anti-Borrelia rappresentano il metodo di laboratorio più utilizzato per la diagnosi di malattia di Lyme. Tali test sono al contrario sconsigliati per la diagnosi di febbre ricorrente, in quanto gli agenti eziologici di tale malattia vanno incontro a variazioni antigeniche. I test sierologici più comunemente utilizzati nella borreliosi di Lyme si basano sulla rilevazione degli anticorpi in immunofluorescenza (ImmunoFluorescence Assay, IFA) o in immunometria (EIA, CLIA). La sieroconversione con produzione di titoli elevati di IgM oppure un incremento di almeno 4 volte del titolo anticorpale (anticorpi totali o IgG) osservato tra due prelievi successivi di siero (uno nella fase acuta e l’altro nella fase convalescente) rappresentano i criteri necessari per fare sierodiagnosi di malattia di Lyme. Nei casi di neuroborreliosi la presenza di anticorpi nel LCS è dirimente. Per fare una diagnosi corretta è tuttavia opportuno quantificare la produzione di anticorpi intratecali valutando l’indice anticorpale LCS/siero su campioni di LCS/plasma raccolti e testati contemporaneamente. Per la diagnosi di artrite di Lyme, essendo la membrana sinoviale altamente permeabile alle proteine, i titoli anticorpali rilevati nel liquido sinoviale e nel siero sono equivalenti, pertanto è sufficiente testare gli anticorpi anti-Borrelia nel siero dei pazienti. È tuttavia necessario specificare che i test sierologici presentano frequentemente problemi di sensibilità e specificità. Fasi diverse della malattia (ad es. fase acuta), varianti genetiche con diversa distribuzione geografica e cross-reattività con altre spirochete possono infatti influenzare sensibilità e specificità dei test sierologici per la diagnosi di malattia di Lyme. È opportuno pertanto valutare clinica ed epidemiologia della malattia in modo da porre in atto un opportuno iter diagnostico. L’algoritmo diagnostico raccomandato dalla ASTPHLD (Association of State and Territorial Public Health Laboratory Directors) e dal CDC (Centers for Disease Control and Prevention) prevede un approccio in due fasi per la diagnosi di malattia di Lyme: tutti i campioni di siero dovrebbero essere valutati in una prima fase mediante un test sierologico sensibile, come ad esempio il metodo EIA o il test IFA. I risultati negativi dei test sierologici di screening andrebbero considerati come tali senza ulteriori test, mentre i risultati positivi andrebbero sempre confermati con un test di Western blot, che evidenzia la presenza di anticorpi verso le proteine antigeniche specifiche. Allo stato attuale, i test sierologici andrebbero comunque considerati a supporto della diagnosi clinica, e non eseguiti in assenza di anamnesi appropriata o di sospetto clinico di malattia di Lyme.

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Terapia e prevenzione

Per quanto riguarda la terapia, le borrelie sono sensibili agli antibiotici beta-lattamici, quali penicilline e cefalosporine. La febbre ricorrente viene generalmente trattata in modo efficace utilizzando la tetraciclina come antibiotico di scelta, fatta eccezione per le donne in gravidanza e i bambini, o le penicilline. Le manifestazioni precoci della malattia, l’artrite di Lyme e l’acrodermatite vengono trattate efficacemente con l’amoxicillina, la doxiciclina (tetraciclina) o una cefalosporina somministrate per via orale, mentre nei casi di artrite grave ricorrente e di neuroborreliosi si richiede il trattamento con la cefalosporina ceftriaxone per via parenterale, o con penicillina G somministrata per via endovena. I casi di malattia di Lyme tardiva spesso non rispondono a terapia. Per prevenire le infezioni da Borrelia veicolate da zecche occorre evitare la puntura di zecca adottando opportuni vestiti e calzature, adottare repellenti, quando ci si trova in aree a rischio, oppure allontanare prontamente questi artropodi una volta che si trovano attaccati alla cute. Per prevenire la malattia ricorrente epidemica veicolata da pidocchi si consiglia l’uso di spray e il miglioramento delle condizioni igieniche. Per la prevenzione della febbre endemica è anche importante il controllo dei roditori. Vaccini contro la borreliosi di Lyme ottenuti con tecniche di ingegneria genetica sono disponibili negli Stati Uniti ma non in Italia e in Europa, dal momento che negli Usa è presente solo l’agente patogeno B. burgdorferi sensu strictu, mentre in Europa sono presenti tutte le altre genospecie di borrelie.

26.3 - Genere Leptospira La classificazione tassonomica delle leptospire è fonte di grande confusione. Appartengono a questo gruppo spirochete molto sottili e spiralizzate (0,1 × 6-20 µm), con estremità a uncino dalle quali dipartono due flagelli periplasmatici che si estendono per tutta la lunghezza dei batteri, grazie ai quali i microrganismi si muovono con movimento traslazionale o rotazionale. Nella membrana esterna sono presenti lipoproteine che interagiscono con i recettori cellulari delle cellule ospiti. Le leptospire contengono inoltre un lipopolisaccaride (LPS) a bassa tossicità, che permette di distinguere i diversi sierotipi in base al diverso antigene polisaccaridico O. Le leptospire sono state classificate in base a due diversi schemi di classificazione. Lo schema di classificazione più tradizionale raggruppava il genere in base a caratteristiche fenotipiche, reattività anticorpali e alla patogenicità. I ceppi patogeni sono stati collocati nella specie Leptospira interrogans, mentre i ceppi non patogeni sono stati raggruppati nella specie Leptospira biflexa. Ciascuna delle due specie comprende diversi sierotipi classificati in base alla diversità antigenica del LPS (tassonomia sierologica). Il secondo e più utilizzato schema di classificazione prevede la suddivisione delle leptospire in tre gruppi (patogene, intermedie, non patogene) e comprende circa 10 diverse genospecie di leptospire patogene per l’uomo (tassonomia su base genetica). I due schemi di classificazione, entrambi utilizzati in letteratura, mostrano importanti discordanze. Le leptospire sono aerobi obbligati e possono essere isolate da campioni clinici di pazienti infetti, essendo facilmente coltivabili in vitro nei terreni di coltura arricchiti con vitamine (B2, B12), acidi grassi a catena lunga, sali di ammonio e addizionati con siero di coniglio e albumina bovina. Crescono lentamente (tempo di generazione di 11-16 ore) a temperatura ottimale di 28-30 °C. Nel 2003 il genoma di L. interrogans è stato sequenziato e risulta essere costituito da due cromosomi, uno di 4330 kb e l’altro di 359 kb. Le leptospire causano le leptospirosi umana e animale.

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Patogenesi e manifestazioni cliniche

Le leptospire patogene possono causare la leptospirosi, conosciuta anche come sindrome epato-renale, le cui manifestazioni cliniche possono variare notevolmente sia

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Capitolo 26 • Spirochete

nella forma che nell’intensità. La carica microbica, le difese immunologiche dell’ospite e la virulenza del ceppo infettante influenzano la gravità della malattia. In particolare, le leptospire possono causare un’infezione subclinica anitterica, caratterizzata da forme lievi con sintomi simil-influenzali, o una malattia sistemica grave itterica (morbo di Weil), con insufficienza epatica e renale, vasculite generalizzata, miocardite e morte. Grazie alle ridotte dimensioni e all’elevata mobilità, le leptospire possono agevolmente penetrare nell’organismo attraverso la mucosa sana oppure tramite piccole abrasioni cutanee o le congiuntive. Dalle vie d’ingresso le leptospire raggiungono il circolo ematico (fase setticemica), tramite il quale raggiungono gli organi bersaglio a carico dei quali si possono avere le manifestazioni cliniche (meningite, disfunzione renale ed epatica, emorragie). L. interrogans è in grado di moltiplicarsi molto rapidamente e danneggiare l’endotelio dei piccoli vasi. La comparsa degli anticorpi all’ottavo giorno di malattia fa scomparire le leptospire dal circolo e dai tessuti, ad eccezione del rene, dove i microrganismi possono persistere per diverse settimane. I microrganismi possono essere isolati dal sangue e dal LCS durante le prime fasi della malattia e dalle urine nelle fasi tardive. Alcune manifestazioni cliniche associate alla malattia possono essere attribuite a reazioni immunologiche contro le leptospire con formazione di immunocomplessi (meningite e disfunzione renale). La maggior parte delle infezioni umane causate dalle leptospire è clinicamente asintomatica e viene individuata soltanto attraverso la rilevazione di anticorpi specifici. Infatti, più del 90% delle infezioni da leptospire decorre in forma subclinica anitterica, e soltanto il 5-10% va incontro alle forme gravi di leptospirosi itteriche. Generalmente entrambe le forme di leptospirosi seguono un andamento bifasico (fig. 26.5) e la sintomatologia compare di solito dopo 1-2 settimane dall’infezione. Le forme subcliniche anitteriche sono lievi, con sintomi simil-influenzali, caratterizzate da febbre, mialgia, cefalea, dolori addominali e nausea per 4-7 giorni. Durante questa fase i microrganismi determinano una batteriemia e possono essere isolati dal sangue e dal LCS, anche se i pazienti non presentano sintomi meningei. Dopo una settimana si ha remissione completa della sintomatologia oppure l’infezione può progredire alla seconda fase, con l’esordio improvviso di febbre, mal di testa, mialgia, dolori addominali e l’insorgenza di meningite, congiuntivite, adenopatia. Alcune forme di leptospirosi possono sfuggire alla diagnosi ed essere scambiate per infezioni virali. La leptospirosi itterica (morbo di Weil) rappresenta la forma epato-renale generalizzata più grave, ed è caratterizzata dalla perdita delle funzioni renale ed epatica, collasso, emorragie, trombocitopenia e letalità intorno al 10-15%. Nei pazienti con ittero non si evidenziano necrosi epatica o danni permanenti al fegato, e la morte sopraggiunge per grave insufficienza renale, accompagnata da miocardite. La patogenicità e la virulenza delle leptospire sono legate alla loro capacità di essere resistenti all’azione del complemento, alla fagocitosi, e di essere in grado di legare la fibronectina con conseguente invasione dei tessuti. La maggior parte delle leptospire, inoltre, produce enzimi citolitici, come emolisine e fosfolipasi. L’unica tossina è rappresentata dall’endotossina LPS, che, pur avendo basso potere tossico, è in grado, insieme alle lipoproteine della membrana esterna, di indurre un’intensa risposta immunitaria da parte delle cellule competenti dell’ospite, con rilascio di citochine infiammatorie.

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Epidemiologia

La leptospirosi rappresenta una tipica antropozoonosi, ed è ritenuta la zoonosi più diffusa al mondo. La leptospira viene trasmessa da un mammifero all’altro attraverso l’urina infetta, che, a sua volta, può contaminare il suolo e l’acqua. Le leptospire infettano due tipi di ospiti: gli ospiti serbatoio naturale e gli ospiti occasionali. I serbatoi naturali dell’infezione che fungono da serbatoi permanenti per mantenere vitali i microrganismi sono i mammiferi roditori (ratti, topi) e i ricci. Nel serbatoio naturale, l’infezione è asintomatica e le leptospire permangono a livello dei tubuli renali da cui

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Figura 26.5 Fasi delle leptospirosi itteriche e anitteriche. Relazione tra sintomi clinici e presenza di leptospire nei liquidi organici.

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Leptospirosi anitteriche Primo stadio 3-7 giorni (setticemico)

Secondo stadio 1 mese (immune)

Mialgia Mal di testa

Meningite Uveite Esantema Febbre

Leptospirosi itteriche (morbo di Weil) Primo stadio 3-7 giorni setticemico

Secondo stadio 10-30 giorni setticemico

Febbre Segni clinici Presenza di leptospira

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Dolori addominali

Ittero Emorragie Compromissione renale Miocardite

Congiuntivite Febbre Sangue

Sangue Liquor

Liquor Urina

Urina

vengono rilasciate in grandi quantità con le urine. I microrganismi escreti con le urine possono contaminare acque reflue o stagnanti e terreni umidi, dove possono sopravvivere fino a 6 settimane e penetrare negli ospiti occasionali attraverso piccole abrasioni e ferite della cute o attraverso la mucosa orale. Alcuni animali domestici e animali da fattoria (cani, bovini, ovini, suini ed equini) nonché l’uomo possono fungere da ospiti accidentali, contribuendo con la loro urina, o per contatto diretto, a diffondere e amplificare l’infezione (fig. 26.6). La leptospirosi è ubiquitaria e l’incidenza dell’infezione è sottostimata in quanto molti casi asintomatici passano inosservati oppure vengono erroneamente diagnosticati. Inoltre non è possibile determinare la reale prevalenza della malattia dal momento che in molti Stati non vi è obbligo di denuncia dei casi di malattia al sistema sanitario. La maggior parte delle infezioni nell’uomo avviene in seguito a contatto con acque contaminate (ad es. soggetti che praticano attività di canoa, campeggio, pesca) o a contatto per motivi professionali con ambienti contaminati o animali infetti (agricoltori, addetti ai macelli, veterinari, allevatori, fognaioli, pescicoltori). La maggiore incidenza delle infezioni si verifica nei mesi caldi (estate o primavera), quando i microrganismi sopravvivono più a lungo negli ambienti contaminati e le occasioni di contrarre l’infezione sono più frequenti. Le epidemie più gravi di leptospirosi sono state descritte in Paesi tropicali, soprattutto tra le popolazioni povere e/o con scarse condizioni igienico-sanitarie o in seguito a disastri naturali e inondazioni (Honduras, Brasile, Sud-Est Asiatico). Non è stata documentata trasmissione da uomo a uomo, in quanto nell’ospite occasionale non si verifica lo stato di portatore, bensì è necessario che la trasmissione avvenga tra ospite naturale e ospite occasionale.

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Diagnosi di laboratorio

Molto spesso la leptospirosi anitterica passa inosservata e pertanto la diagnosi di laboratorio della forma lieve anitterica non viene eseguita. La ricerca diretta delle leptospire da campioni di sangue, urina e LCS avviene mediante esame microscopico, esame colturale e metodiche molecolari. Per quanto riguarda l’esame microscopico, le leptospire non possono essere osservate al microscopio ottico, né a fresco né dopo

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Neonato

Figura 26.6 Ciclo di trasmissione delle leptospire attraverso l’emissione di urine infette.

Fase acuta

Roditori marsupiali

Urine Portatore adulto

UMANI Stagionale, occupazionale

Acqua Suolo Fango

Acqua Suolo Fango

Mucche

Maiali Urine

Pecore

Eliminatori con l’urina adulti

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Cani

• Malattia acuta • Aborto • Infezione congenita

colorazione con Gram, coloranti all’anilina, o impregnazione argentica, a causa delle loro ridotte dimensioni. Anche l’osservazione a fresco in campo oscuro di campioni biologici è poco accurata a causa dell’esigua quantità di microrganismi nei campioni diretti. Sono state messe a punto metodiche di microscopia a immunofluorescenza diretta e indagini immunoistochimiche su biopsie tissutali, anche se attualmente sono disponibili soltanto nei laboratori di ricerca o nei centri di riferimento. Per quanto riguarda l’esame colturale, i microrganismi possono essere coltivati su terreni arricchiti con acido oleico-albumina (ad es. terreno di Fletcher, il terreno EMJH – Ellinghausen-McCullough-Johnson-Harris), su cui le leptospire crescono lentamente alla temperatura ottimale di 28-30 °C. I microrganismi possono essere isolati dal sangue e dal LCS nei primi 10 giorni e dalle urine da una settimana fino a 3 mesi dopo l’infezione. Per una diagnosi accurata si raccomanda l’invio di più campioni, dato che i microrganismi possono essere presenti a basse concentrazioni. La presenza di inibitori nel sangue e nelle urine possono impedire la crescita delle spirochete. Infine, tra i test di rilevazione diretta, la ricerca degli acidi nucleici da campioni clinici mediante PCR o Real-Time PCR ha dimostrato una sensibilità simile ai test sierologici di riferimento, con il vantaggio di fornire una diagnosi più rapida delle infezioni acute. La sierodiagnosi (ovvero la ricerca degli anticorpi nel siero) rappresenta sicuramente il metodo diagnostico di elezione nei laboratori. Il metodo di riferimento per tutti i test sierologici è il test di agglutinazione microscopica (Microscopic Agglutination Test, MAT), che rileva la presenza di anticorpi (agglutinine) in grado di agglutinare leptospire vive. La presenza di agglutinine nel

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siero del paziente e la reazione di agglutinazione vengono osservate al microscopico in campo oscuro. Generalmente i sieri dei pazienti con leptospirosi presentano alti titoli di agglutinine. Tuttavia, come tutti i test sierologici, questa metodica può presentare problemi di sensibilità (falsi negativi) e di specificità (falsi positivi), oppure non essere utile a fini diagnostici. Va infatti ricordato che la risposta anticorpale può non essere presente anche per diversi mesi dopo l’infezione e che i pazienti infetti trattati con antibiotici possono presentare un basso titolo anticorpale non utile a fini diagnostici. I falsi positivi si possono generare per persistenza prolungata delle agglutinine nel siero anche in assenza di infezione (infezione pregressa) o per cross-reattività con antigeni correlati ad altre infezioni quali la sifilide, infezione da borrelie o infezioni da legionelle. Per confermare la diagnosi sierologica di infezione da leptospira si consiglia di raccogliere due sieri distanziati di circa 10-14 giorni dalla sintomatologia, oppure prelevati durante la fase acuta e durante la fase convalescente della malattia, dimostrando un aumento del titolo anticorpale di almeno quattro volte tra i due campioni. Altri test sierologici utilizzati per la diagnosi di laboratorio di leptospirosi sono l’emoagglutinazione indiretta, l’agglutinazione su vetrino e test di immunoenzimatica (Enzyme-Linked ImmunoSorbent Assay, ELISA) per la ricerca di IgM specifiche, tutti comunque meno sensibili e specifici rispetto alla metodica MAT. In genere questi test vengono utilizzati come metodiche di screening e i casi positivi vengono confermati con la metodica MAT o con l’isolamento del microrganismo.

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Terapia e prevenzione

La leptospirosi in genere non è fatale, soprattutto nella forma anitterica. Le leptospire sono sensibili a molti antibiotici, tra cui i beta-lattamici, i macrolidi, le tetracicline, i fluorochinoloni e la streptomicina, seppure vi siano problemi nel determinare le sensibilità agli antibiotici in vitro a causa della scarsa disponibilità di terreni di coltura adeguati e alla lentissima crescita delle leptospire. Le penicilline per via endovenosa e la doxiciclina sono i farmaci di scelta per il trattamento dei pazienti infetti da leptospire. Inoltre, la doxiciclina può anche essere usata per la profilassi per prevenire l’infezione in persone esposte al contatto con animali infetti o acqua contaminata. Sebbene la leptospirosi sia difficile da eradicare, essendo diffusa tra gli animali domestici e selvatici, la lotta contro i ratti e la vaccinazione dei capi di bestiame e degli animali domestici (suini, cani) costituiscono le misure preventive più efficaci nel ridurre l’incidenza della malattia in questi animali e quindi la conseguente trasmissione all’uomo. Non è attualmente disponibile un vaccino ad uso umano.

Bibliografia essenziale Cutler, S., «Molecular biology of the relapsing fever Borrelia», in R. Sussman (a cura di), Molecular Medical Microbiology, Academic Press, Oxford (UK), 2001. Faine, S., Adler, B., Bolin, C., Perolat, P., Leptospira and leptospirosis, 2a ed., MediSci, Melbourne, 2001. Levett, P.N., «Leptospira», in J. Versalovic (Editor in chief), Manual of Clinical Microbiology, 10a ed, ASM Press, 2011. Radolf, J.D. et al., «Treponema and Brachyspira, Human Host-Associated Spirochetes», in J. Versalovic (Editor in chief), Manual of Clinical Microbiology, 10a ed, ASM Press, 2011. Schriefer, M.E., «Borrelia», in J. Versalovic (Editor in chief), Manual of Clinical Microbiology, 10a ed, ASM Press, 2011. Steere, A. (2001), «Lyme disease», N. Engl. J. Med., 345, pp. 115-125. Wormser, G. et al. (2000), «Practice guidelines for the treatment of Lyme disease», Clin. Infect. Dis., 31 (Suppl 1), pp. S1-14.

Capitolo

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Micoplasmi patogeni per l’uomo

27.1 - Struttura e morfologia I micoplasmi patogeni per l’uomo appartengono alla classe dei Mollicutes, che comprende circa 200 diverse specie distribuite in 4 ordini, 5 famiglie e 8 differenti generi. Le specie associate a infezioni nell’uomo appartengono ai generi Mycoplasma e Ureaplasma. I Mollicutes sono i più piccoli organismi dotati di vita autonoma. A differenza dei virus, posseggono sia DNA che RNA, si moltiplicano per scissione binaria e possono crescere in idonei terreni di coltura anche in assenza di cellule. I micoplasmi sono pleiomorfi, sono cioè privi di una morfologia definita: le specie di Ureaplasma e Mycoplasma associate alle infezioni umane presentano forme coccoidi con un diametro inferiore ai 0,3 μm con l’eccezione di Mycoplasma pneumoniae, che ha una forma allungata della lunghezza variabile di 1-2 μm e un diametro inferiore a 0,2 μm. Le piccole dimensioni si accompagnano a un genoma estremamente ridotto, con basso contenuto in GC e un numero limitato di geni, che ne limita le capacità biosintetiche e l’adattabilità a diverse condizioni ambientali. Il genoma di Mycoplasma genitalium è il più piccolo esistente tra gli organismi capaci di riproduzione autonoma, misura circa 580 kb e codifica per solo 479 proteine. I micoplasmi derivano da un antenato ancestrale appartenente a un gruppo di batteri gram-positivi simili al genere Clostridium, dal quale si sono differenziati mediante un processo evolutivo di tipo degenerativo, in seguito alla perdita di numerosi geni. Altra caratteristica peculiare dei Mollicutes è la mancanza di parete cellulare, da cui deriva il nome (dal latino mollis cutis, che significa involucro molle). L’assenza di parete cellulare è la causa della grande plasticità e del pleiomorfismo di questi batteri, e della loro naturale resistenza agli antibiotici beta-lattamici. Anche la membrana cellulare ha caratteristiche peculiari: a differenza di quella degli altri batteri contiene steroli, che le conferiscono la necessaria resistenza. La membrana plasmatica dei micoplasmi, inoltre, presenta una particolare composizione della porzione esterna del doppio strato lipidico. Essa è infatti costituta da lipoproteine, che sembrano essere l’equivalente funzionale del lipopolisaccaride dei gram-negativi, essendo responsabili dell’attivazione della risposta infiammatoria durante l’infezione. I micoplasmi sono batteri aerobi obbligati o aerobi/anaerobi facoltativi. A causa del ridotto corredo genetico, e della conseguente limitata capacità biosintetica, i micoplasmi dipendono fortemente dall’esterno per l’acquisizione di nutrienti e di molecole preformate. Essi crescono in terreni ricchi, addizionati con numerosi nutrienti tra cui gli steroli, ma molte specie sono a tutt’oggi incoltivabili. La crescita è più lenta rispetto alla maggior parte dei batteri patogeni per l’uomo, e nei terreni solidi formano piccole colonie del diametro oscillante tra 15 e 300 μm. I micoplasmi sono in grado di infettare un’ampia gamma di ospiti, sia animali che vegetali, ma solo un numero limitato di essi è in grado di provocare patologie trasmissibili nella specie umana. Questi appartengono alla famiglia delle Mycoplasmataceae,

• Struttura cellulare dei micoplasmi • Epidemiologia delle infezioni • Meccanismi di patogenicità • Micoplasmi genitali ed extragenitali • Diagnosi delle infezioni

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che comprende il genere Ureaplasma (7 specie) e il genere Mycoplasma (125 specie). Le principali specie patogene per l’uomo sono Mycoplasma pneumoniae, Mycoplasma hominis, Mycoplasma genitalium e Ureaplasma urealyticum. Queste specie di micoplasmi sono spesso commensali delle prime vie aeree, della bocca e dell’apparato urogenitale maschile e femminile, e per questo motivo il loro ruolo come patogeni è talvolta poco chiaro. La gran parte delle infezioni umane da micoplasma interessa l’apparato respiratorio e il tratto urogenitale, ma possono verificarsi casi di localizzazione articolare, con possibile sviluppo di un’artrite reattiva. Più raramente possono verificarsi infezioni neonatali, fra le quali particolarmente severe sono le meningoencefaliti.

27.2 - Epidemiologia e diffusione I micoplasmi patogeni per l’uomo sono diffusi nell’intera popolazione mondiale, anche se le infezioni polmonari sono più frequenti nei climi temperati. I micoplasmi sono spesso commensali delle mucose e per questo motivo il loro ruolo come patogeni è talvolta poco chiaro. L’infezione è in genere limitata agli strati esterni delle mucose, e raramente la sub-mucosa subisce un’invasione batterica. I micoplasmi patogeni per l’uomo vivono in stretta associazione con le cellule della mucosa, dalle quali dipendono per il loro metabolismo. Questi batteri possono avere una localizzazione sia intracellulare che extracellulare. Durante l’infezione, le barriere mucosali e sub-mucosali possono essere superate solo in rari casi, in genere legati a uno stato di deficit immunitario: in questi casi, a seguito della penetrazione degli strati superficiali e raggiungimento del torrente circolatorio, i batteri possono arrivare a colonizzare praticamente tutti gli organi.

27.3 - Patogenesi I meccanismi molecolari di patogenicità sono noti soprattutto per M. pneumoniae, l’agente eziologico di una polmonite atipica, mentre molti aspetti delle infezioni a livello dell’apparato urogenitale sono ancora poco noti. Il prerequisito fondamentale per l’instaurarsi delle infezioni è la capacità dei microrganismi di colonizzare organi e tessuti. Per questo motivo le citoadesine sono considerate molecole di virulenza fondamentali per la colonizzazione e il mantenimento dell’infezione. Per quanto riguarda M. pneumoniae, sono state caratterizzate due adesine, chiamate P1 e P2, il cui ruolo nell’invasione dei tessuti respiratori è stato ampiamente dimostrato. Oltre a queste molecole, i batteri utilizzano ulteriori proteine capaci di mediare l’adesione alle mucose respiratorie. Per quanto riguarda i micoplasmi patogeni per l’apparato urogenitale e responsabili di infezioni a trasmissione sessuale (come U. urealyticum e M. hominis), nonostante sia stata dimostrata la capacità adesiva a una serie di cellule bersaglio, non sono finora state caratterizzate molecole adesive specifiche. In seguito alla colonizzazione mediata dal processo adesivo, l’infezione da micoplasmi provoca danni tissutali sia attraverso meccanismi diretti (produzione di molecole citotossiche) che indiretti (induzione di una forte risposta infiammatoria locale). Per quanto riguarda M. pneumoniae è stata descritta una tossina ad attività ADP-ribosilante simile alla tossina della pertosse. L’effetto di tale tossina comporta, almeno in vitro, una vacuolizzazione cellulare, accompagnata da marcata inibizione del movimento ciliare. M. pneumoniae è in grado di attivare una forte risposta pro-infiammatoria, mediata da diverse molecole, tra le quali le lipoproteine di membrana, che sono capaci di agire da potenti ligandi per i recettori Toll-Like (TLR). La stimolazione dei TLR comporta l’attivazione a cascata della produzione di citochine pro-infiammatorie (IL-1, IL-6 e TNF), che hanno attività citotossica. A questo si aggiunge la produzione da parte dei micoplasmi di reattivi intermedi dell’ossigeno, in grado di provocare danno cellulare

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dell’epitelio respiratorio. È stata anche descritta la capacità di M. pneumoniae di attivare la risposta immune adattativa mediata da linfociti B e T, che comporta una produzione di anticorpi cross-reattivi in grado di legarsi ad autoantigeni dell’ospite. Alcune specie di micoplasmi, e in particolar modo M. hominis, sono in grado di modulare l’espressione delle proteine di superficie Vaa (Variable-adherence-associated antigen) sotto la pressione selettiva della risposta specifica dell’ospite. Questo meccanismo garantisce ai batteri la possibilità di eludere in maniera efficace la risposta immunitaria adattativa. Recenti studi hanno correlato l’infezione da alcune specie di micoplasma all’induzione, progressione e mantenimento di tumori. Questa associazione sembra dipendere dalla capacità dei batteri di indurre e mantenere uno stato infiammatorio massivo nel sito di infezione. A questo si aggiunge la capacità dei micoplasmi a localizzazione intracellulare di produrre nucleasi, che sembra in grado di indurre uno stato di instabilità nel genoma della cellula ospite.

M. pneumoniae M. pneumoniae è un patogeno umano obbligato che infetta frequentemente le prime vie aeree, con sintomi aspecifici di faringite o tracheobronchite. Il batterio può persistere per settimane o mesi dopo l’infezione iniziale, con sintomi generali di interessamento delle prime vie aeree e febbre. In circa il 10-30% dei casi, in genere dopo un periodo di incubazione compreso tra le 2 e le 3 settimane a partire dall’infezione primaria, si può sviluppare una polmonite, spesso preceduta da tosse stizzosa, anche notturna e non produttiva. Il quadro clinico è quello di una polmonite atipica primaria (fig. 27.1), simile a quella provocata da alcuni virus e dal batterio Chlamydia pneumoniae, con i quali M. pneumoniae si può associare, aggravando il decorso dell’infezione. L’andamento dell’infezione è più leggero nei bambini di età inferiore ai 5 anni e negli adulti, mentre l’interessamento polmonare è più frequente nei pazienti di età compresa tra i 5 e i 15 anni. L’infezione ha in genere un decorso benigno, anche se in alcuni casi si rende necessario il ricovero ospedaliero. L’infezione può essere particolarmente grave in individui defedati o immunodepressi e in pazienti affetti da sindrome di Down, e, raramente, può avere un decorso fulminante con interessamento multiorgano. M. pneumoniae è responsabile del 10-20% delle polmoniti acquisite in comunità. Localizzazioni extrapolmonari sono descritte in circa un quarto dei pazienti infetti da M. pneumoniae, anche in caso di infezioni asintomatiche. Le più frequenti e gravi sono quelle a carico del sistema nervoso centrale, quali meningoencefaliti ed encefaliti. Non è ancora chiaro se queste manifestazioni siano il frutto di una diretta invasione di cervello e meningi, se la sintomatologia sia legata a un danno infiammatorio di tipo immuno-mediato, o se ancora sia dovuta alla presenza di anticorpi autoreattivi stimolati dalla presenza del batterio. Altre più rare manifestazioni extrapolmonari comprendono pericarditi, artriti e anemia emolitica.

I micoplasmi genitali I micoplasmi più frequentemente isolati dal tratto genito-urinario dell’uomo appartengono alle specie Ureaplasma urealyticum, Mycoplasma hominis e Mycoplasma genitalium. Essi sono spesso presenti in individui asintomatici, ma sono associati a differenti manifestazioni cliniche, tra cui uretriti non gonococciche, vaginosi batterica, epididimiti, pielonefriti e malattia infiammatoria pelvica. Il più diffuso è Ureaplasma urealyticum, che utilizza a scopo energetico il catabolismo dell’urea, grazie alla sua capacità di produrre l’enzima ureasi. È stato ipotizzato che il metabolismo dell’urea da parte di U. urealyticum svolga un ruolo importante nella patogenesi delle uretriti: l’idrolisi enzimatica dell’urea da parte dell’ureasi batterica provoca localmente un innalzamento del pH dovuto alla produzione di ammoniaca, e questo determina la formazione di cristalli di fosfato di calcio.

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Figura 27.1 Caso di polmonite atipica.

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M. hominis e M. genitalium sono isolati meno frequentemente di U. urealyticum nei tamponi vaginali. Il loro ruolo nell’eziologia delle patologie urogenitali è ancora poco chiaro, anche se è dimostrata un’associazione tra la presenza di questi batteri e diverse patologie. Raramente i micoplasmi urogenitali possono localizzarsi a livello dell’endometrio e delle tube di Falloppio, e sembrano essere correlati a sterilità sia maschile che femminile. Alcuni micoplasmi genitali possono essere trasmessi da madre a figlio durante il passaggio nel canale del parto o, in caso di infezione del liquido amniotico, durante la gravidanza. Le infezioni del neonato sono in genere asintomatiche, ma sono state descritte importanti patologie polmonari e a carico del sistema nervoso centrale, quali meningiti neonatali. I micoplasmi genitali sono strettamente associati a importanti complicanze in corso di gravidanza, quali la rottura precoce delle membrane, il parto pretermine e l’aborto spontaneo. Essi sono talvolta isolati dal liquido amniotico e dai tessuti del feto in caso di aborto spontaneo. Inoltre, M. hominis può essere isolato dal sangue periferico del 10% delle donne che in seguito ad aborto hanno sviluppato una sindrome febbrile. Le complicanze in gravidanza sembrano essere legate all’induzione di una forte reazione immunologica da parte dei micoplasmi, con conseguente rilascio di citochine proinfiammatorie e prostaglandine anche a livello del liquido amniotico. M. hominis può vivere in simbiosi con il protozoo patogeno Trichomonas vaginalis, anch’esso causa di complicanze in corso di gravidanza. Questo peculiare rapporto simbiotico, l’unico descritto finora a interessare due patogeni umani, sembra poter influenzare il potenziale patogenetico dei due microrganismi. È stato dimostrato che M. hominis si localizza all’interno delle cellule protozoarie trovando in esse protezione, con conseguente aumento della resistenza alla reazione immunitaria dell’ospite e ai farmaci antimicrobici. La presenza di micoplasmi all’interno delle cellule di T. vaginalis, inoltre, è in grado di incrementare la risposta proinfiammatoria dell’ospite umano. Conseguenza diretta della simbiosi tra M. hominis e T. vaginalis è la stretta associazione clinica tra le due infezioni: la presenza di T. vaginalis nel tampone vaginale è fortemente suggestiva di una co-infezione da parte di M. hominis e viceversa.

27.4 - Diagnosi

Figura 27.2 Tipiche colonie a “fried egg”, uovo fritto.

I campioni clinici nei quali più frequentemente si ricercano micoplasmi sono quelli provenienti dall’apparato respiratorio e dall’apparato urogenitale. La ricerca può essere fatta direttamente su fluidi organici o su tampone, e più raramente su tessuti o biopsie. L’assenza di parete rende i micoplasmi molto sensibili all’essiccamento e al calore: per questo motivo la ricerca di micoplasmi in un campione biologico deve essere effettuata nel più breve tempo possibile e devono essere utilizzati terreni di trasporto specifici, come i brodi SP4 e 10B. L’esame microscopico non è utilizzato per la diagnosi in quanto i micoplasmi, non avendo la parete, sono difficilmente colorabili. L’esame colturale si esegue su terreni specifici per ciascuna specie. M. pneumoniae cresce lentamente con molta difficoltà, pertanto l’esame colturale non viene eseguito di routine. U. urealyticum e M. hominis possono essere coltivati in terreni liquidi addizionati con i substrati urea e arginina, rispettivamente. Poiché i micoplasmi non provocano un intorbidimento del terreno, la loro crescita viene evidenziata grazie alla presenza di un indicatore di pH nel terreno. Infatti i micoplasmi, a seguito dell’idrolisi dello specifico substrato, determinano un innalzamento del pH che si evidenzia con un cambiamento del colore del terreno di coltura provocato dall’indicatore. In terreni solidi è possibile osservare microscopicamente lo sviluppo di colonie di U. urealyticum e di M. hominis in 2-4 giorni, dopo colorazione con blu di metilene. Le colonie di M. hominis presentano la

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Tabella 27.1 Principali caratteristiche dei micoplasmi clinicamente rilevanti.

Specie

Metabolismo energetico Sito dell’infezione

Sindromi cliniche

Mycoplasma pneumoniae

Complesso: diverse vie biochimiche

Apparato respiratorio

Faringiti, tracheobronchiti, polmoniti

Ureaplasma urealyticum

Urea

Apparato urogenitale

Uretriti, epididimiti, pielonefriti, complicanze in gravidanza

Mycoplasma hominis

Arginina

Apparato urogenitale

Uretriti, epididimiti, prostatiti, vaginosi, complicanze in gravidanza

Mycoplasma genitalium

Glucosio

Apparato urogenitale

Uretriti, malattia infiammatoria pelvica

tipica morfologia a “uovo fritto”, legata alla crescita del centro della colonia all’interno dell’agar (fig. 27.2). Per quanto riguarda i test di identificazione molecolari, basati soprattutto su tecniche di amplificazione del DNA (PCR), sono in commercio diversi kit, in grado di identificare contemporaneamente non solo le diverse specie di micoplasmi, ma anche altri patogeni possibile causa di infezione del tratto respiratorio o dell’apparato urogenitale. Queste tecniche sono affidabili, rapide e sensibili. Per la diagnosi delle infezioni da M. pneumoniae, a causa delle difficoltà di coltivazione, si ricorre generalmente alle tecniche sierologiche. IgG e IgM anti-M. pneumoniae possono essere evidenziate nel siero di pazienti con polmonite da micoplasmi mediante tecniche di ELISA e di immunofluorescenza.

27.5 - Controllo delle infezioni La mancanza di parete cellulare rende i micoplasmi resistenti a tutti gli antibiotici che hanno questa struttura come bersaglio, primi fra tutti i beta-lattamici. Gli antibiotici comunemente utilizzati per M. pneumoniae sono le tetracicline, i fluorochinoloni e i macrolidi, per i quali raramente si osservano resistenze. I micoplasmi urogenitali possono presentare resistenza a eritromicina, fluorochinoloni e macrolidi (raramente alla clindamicina). Occorre infine ricordare che i micoplasmi con localizzazione non polmonare o non urogenitale sono spesso multiresistenti e difficili da eradicare, e per questo la scelta della terapia deve essere guidata da prove di sensibilità agli antibiotici.

Bibliografia essenziale Citti, C., Blanchard, A., «Mycoplasmas and their host: emerging and re-emerging minimal pathogens», Trends Microbiol. 2013; 21:196-203. Dessì, D., Rappelli, P., Diaz, N., Cappuccinelli, P., Fiori, P.L., «Mycoplasma hominis and Trichomonas vaginalis: a unique case of symbiotic relationship between two obligate human parasites», Front Biosci. 2006; 11:2028-34. Meyer Sauteur, P.M., van Rossum, A.M., Vink, C., «Mycoplasma pneumoniae in children: carriage, pathogenesis, and antibiotic resistance», Curr Opin Infect Dis. 2014; 27:220-7. Murtha, A.P., Edwards, J.M., «The role of Mycoplasma and Ureaplasma in adverse pregnancy outcomes», Obstet Gynecol Clin North Am., 2014; 41:615-27. Pereyre, S., Goret, J., Bèbèar, C., «Mycoplasma pneumoniae: Current Knowledge on Macrolide Resistance and Treatment», Front Microbiol., 2016; 7:974. Saraya, T., «The History of Mycoplasma pneumoniae Pneumonia», Front Microbiol. 2016; 7:364. Shimizu, T., «Inflammation-inducing Factors of Mycoplasma pneumoniae», Front Microbiol., 2016; 7:414.

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Capitolo

28 • Rickettsie di interesse medico • Diagnosi di infezione • Tifo • Febbre maculosa delle Montagne Rocciose

Rickettsie

La famiglia delle Rickettsiaceae comprende i generi Rickettsia e Orientia, che hanno la caratteristica comune di essere parassiti intracellulari obbligati, che si ritrovano nel citoplasma delle cellule infette. Precedentemente anche i generi Ehrlichia e Coxiella erano compresi nella stessa famiglia, ma in seguito ad accurati studi di filogenesi molecolare la loro tassonomia è stata cambiata. I dati relativi alle sequenze di DNA che codificano per l’rRNA 16S, la citratosintasi (gltA), la lipoproteina di 17 kDa e le proteine OmpA e OmpB hanno portato alla distinzione delle rickettsie, dal punto di vista filogenetico in tre gruppi: il gruppo del tifo, il gruppo delle febbri maculose e il gruppo del tifo delle boscaglie. La distinzione in gruppi si basa anche su alcune caratteristiche:

• localizzazione intracellulare che dipende dalla motilità di ciascuna specie; • temperatura di crescita ottimale (32 °C per le rickettsie del gruppo delle febbri maculose, 35 °C per quelle del gruppo del tifo e per Orientia tsutsugamushi);

• cross-reazione del siero di pazienti infetti con antigeni somatici di 3 ceppi di Proteus, OX-19 (rickettsie del gruppo del tifo e R. rickettsii), OX-2 (rickettsie del gruppo delle febbri maculose) e OX-K (Orientia tsutsugamushi).

Le rickettsie sono patogeni per l’uomo e altri animali e vengono trasmesse da artropodi vettori (zecche, acari, pulci e pidocchi). Il serbatoio è costituito da piccoli mammiferi, mentre l’uomo è un ospite occasionale, con l’eccezione del tifo esantematico causato da R. prowazekii il cui serbatoio principale è l’uomo. Al genere Orientia appartiene la sola specie O. tsutsugamushi (agente dello tsutsugamushi o tifo delle boscaglie o febbre fluviale giapponese), precedentemente Rickettsia tsutsugamushi, non più compresa nel genere Rickettsia in quanto differisce del 10% nella sequenza dell’rRNA 16S, possiede una serie di proteine che non correlano con quelle del genere Rickettsia e, inoltre, è priva di peptidoglicano e di lipopolisaccaride.

28.1 - Morfologia Le specie appartenenti al genere Rickettsia sono piccoli coccobacilli di dimensioni di 0,3-0,5 µm, pleiomorfi, gram-negativi, con dipendenza metabolica dalle cellule eucariotiche e pertanto parassiti intracellulari obbligati. Contengono sia RNA sia DNA e si moltiplicano per scissione binaria. Si colorano male con il metodo di Gram, meglio con Giemsa o Gimenez. La parete cellulare è tipica dei batteri gram-negativi con uno strato sottile di peptidoglicano e una membrana esterna che contiene il lipopolisaccaride (LPS) con debole attività come endotossina. Inoltre, la cellula è rivestita da uno strato non opaco agli elettroni che sembra derivare dalla cellula che il batterio parassita. Sono in grado di produrre ATP e di sintetizzare RNA e proteine, ma non DNA, da cui l’incapacità di replicarsi in terreni di coltura. Non hanno flagelli e sono rivestite da uno strato mucillaginoso lassamente aderente.

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Capitolo 28 • Rickettsie

28.2 - Patogenicità Le rickettsie sono normalmente ospiti di insetti e di altri artropodi nel cui organismo si riproducono senza recare danno evidente trasmettendosi da una generazione all’altra per via transovarica. In alcuni casi si è evoluta la capacità di moltiplicarsi anche nel vertebrato infestato dall’artropode vettore senza provocare sintomi morbosi evidenti, ma nell’uomo l’infezione è quasi sempre seguita da una malattia clinicamente evidente. Le rickettsie hanno in comune la trasmissione da parte di artropodi vettori e la caratteristica di determinare lesioni cutanee di tipo emorragico in corso di infezione. Il meccanismo dell’azione patogena è piuttosto complesso. Le rickettsie sono in grado di produrre numerosi esoenzimi con attività fosfolipasica, che agiscono provocando lesioni sulla membrana della cellula ospite, ma principalmente la loro azione patogena sembra essere legata alla presenza dell’endotossina costituita dal lipide A del complesso lipopolisaccaridico. Le rickettsie infettano le cellule endoteliali del microcircolo, in particolare dei capillari, spesso aumentandone la permeabilità vascolare per la distruzione delle cellule parassitate e causando emorragie localizzate. I microrganismi liberati dalle cellule sono fagocitati dai macrofagi e inglobati nei fagosomi, ma prima che si formi il fagolisosoma si liberano nel citoplasma della cellula infettata dove si riproducono attivamente. Solo alla comparsa degli anticorpi specifici si ha il rallentamento della loro moltiplicazione.

28.3 - Gruppo del tifo Rickettsia prowazekii, agente eziologico del tifo esantematico o epidemico, della malattia di Brill-Zinsser e del tifo endemico, e Rickettsia typhi, agente eziologico del tifo murino, sono le più importanti rickettsie del gruppo del tifo (tab. 28.1). Alcune di queste hanno una diffusione geografica molto limitata, mentre il tifo murino e il tifo esantematico sono diffusi in tutto il mondo e facilmente esportabili. Il tifo esantematico è una rickettsiosi a elevata mortalità trasmessa all’uomo dal pidocchio degli abiti (Pediculus humanus) infettatosi con il sangue di un uomo malato, che rappresenta perciò il serbatoio naturale principale dell’infezione. È evidente che le scarse condizioni igieniche rappresentano un rischio elevato di diffusione di questa infezione, tanto è vero che tra il 1918 e il 1922 in Russia ci fu un’epidemia che causò oltre 3000 morti. Oggi sono segnalati focolai sporadici in alcune zone dell’Africa equatoriale e dell’America Latina. Negli Stati Uniti sono segnalati rari casi trasmessi dagli scoiattoli volanti (Glaucomys volans), che perciò rappresentano un serbatoio diverso dall’uomo. Le rickettsie, penetrate attraverso le microferite provocate dalla puntura del pidocchio e dallo sfregamento con le unghie nella zona della lesione, passano in circolo e colonizzano gli endoteli del microcircolo, determinando un’endotelite proliferativa generalizzata con formazione di trombi ialini. Il periodo di incubazione è di due settimane e la malattia ha esordio brusco con febbre, cefalea, prostrazione e, dopo 4-6 giorni, comparsa di esantema. La letalità nei casi non trattati varia dal 20 al 60%, mentre nei casi trattati si aggira attorno al 3-4%. La malattia di Brill-Zinsser è una forma attenuata e paucisintomatica che segue un tifo esantematico clinicamente guarito, in cui la rickettsia è presente in forma quiescente nel reticolo endoteliale. Dal momento che i soggetti sono almeno in parte immunizzati, la malattia decorre in modo molto attenuato. Il tifo murino endemico, causato da R. typhi, ha nel ratto il principale serbatoio naturale (talvolta rappresentato anche dal topo domestico) e il principale vettore è la pulce del ratto Xenopsylla cheopis. Un altro vettore per la diffusione della malattia negli Stati Uniti è la pulce del gatto Ctenocephalides felis, che parassita gatti, opossum e procioni. La malattia ha avuto ampia diffusione negli Stati Uniti, ma sono descritti casi

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Tabella 28.1 Schema delle principali rickettsiosi umane.

Gruppo

Organismo

Malattia

Trasmissione

Vettore

Serbatoio

Distribuzione

Tifo

R. prowazekii

Tifo esantematico

Penetrazione attraverso la cute o per inalazione di feci prodotte da pidocchi infetti

Pidocchio

Uomo, roditori

Ubiquitaria

R. typhi

Tifo murino

Penetrazione attraverso la cute di feci prodotte da pulci infette

Pulci

Ratto

Ubiquitaria

R. rickettsii

Febbre maculosa delle Montagne Rocciose

Puntura di zecca

Zecche

Animali selvatici, cani

Emisfero occidentale

R. conorii

Febbre bottonosa del Mediterraneo

Puntura di zecca

Zecche

Animali selvatici, cani

Area mediterranea e Africa

R. australis

Tifo da zecche del Queensland

Puntura di zecca

Zecche

Roditori

Australia

R. sibirica

Tifo da zecche dell’Asia del Nord

Puntura di zecca

Zecche

Animali selvatici

Siberia e Mongolia

R. akari

Rickettsiosi vescicolare

Puntura di acari

Acari

Topi

Stati Uniti e Russia

R. honei

Febbre maculosa dell’isola di Flinders

Puntura di zecca

Zecche

Rettili (?)

Australia

R. japonica

Febbre maculosa del Giappone

Puntura di zecca

Zecche

Roditori (?)

Giappone

R. africae

Tifo da morso di zecca africana

Puntura di zecca

Zecche

Animali selvatici e da allevamento

Africa

Febbre maculosa

sporadici anche nei Paesi asiatici e in Messico. Si trasmette come il tifo esantematico (condizioni favorenti la trasmissione sono le scarse condizioni igieniche e l’aumento dei roditori), ma la sintomatologia è simile alla malattia di Brill-Zinsser con decorso per lo più benigno.

28.4 - Gruppo della febbre maculosa Comprende varie specie che causano forme morbose clinicamente assai simili tra di loro. Di queste, la più importante è la febbre maculosa delle Montagne Rocciose, causata da R. rickettsii, la cui diffusione è limitata negli Stati Uniti e nel Sud America. Anche la rickettsiosi vescicolare, causata da R. akari, è presente soprattutto negli Stati Uniti, mentre la febbre da morso di zecca africana, causata da R. africae, è facilmente diffusibile. Altre rickettsiosi del gruppo della febbre maculosa come il tifo da puntura di zecca dell’Asia del Nord (R. sibirica), la febbre maculosa dell’isola di Flinders (R. honei), la febbre maculosa del Giappone (R. japonica) o il tifo da puntura di zecca del Queensland (R. australis) sono molto più rare e meno diffusibili (tab. 28.1). Le rickettsiosi del gruppo della febbre maculosa sono trasmesse dalle zecche, a eccezione della rickettsiosi vescicolare, in cui l’artropode vettore è rappresentato dagli acari. La febbre maculosa delle Montagne Rocciose e il tifo esantematico sono malattie gravi, tali da mettere a rischio la vita anche in giovani soggetti sani, mentre la febbre maculosa dell’Asia del Nord, come il tifo murino, possono avere esito fatale in soggetti anziani o persone con malattie di base predisponenti.

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Capitolo 28 • Rickettsie

La forma morbosa più importante è la febbre maculosa delle Montagne Rocciose trasmessa dalle zecche dure infette: la zecca del legno, Demacentor andersoni, negli Stati delle Montagne Rocciose, e la zecca del cane, Demacentor variabilis, negli Stati del SudEst e della costa occidentale degli Stati Uniti. La patologia è dovuta a una vasculite che si sviluppa in seguito all’invasione diretta degli endoteli da parte delle rickettsie. L’infezione si sviluppa in circa 7 giorni e normalmente le zecche colpiscono in zone poco esposte come le ascelle o l’area inguinale: all’anamnesi, solo il 50% dei pazienti ricorda la puntura della zecca. I segni clinici caratteristici della malattia sono cefalea, febbre e un esantema centripeto che si sviluppa dopo il terzo giorno di febbre e che si presenta inizialmente con delle macule rosa piccole e irregolari che possono evolvere in papule o petecchie. La febbre maculosa delle Montagne Rocciose può dare inoltre manifestazioni di tipo neurologico e può colpire anche gli organi interni (polmoni e reni). La letalità varia tra il 10 e il 25% e dipende principalmente dall’età dei pazienti. La diffusione dell’infezione è prevalentemente localizzata negli Stati Uniti e nel Sud America. È importante ricordare la febbre bottonosa del Mediterraneo, causata da R. conorii, trasmessa dalla zecca del cane (Rhipicephalus sanguineus). Tale patologia è endemica nel Mediterraneo (Sud Europa e Nord Africa) e in Italia sono riportati circa 1000 nuovi casi l’anno. La diffusione più alta si registra durante la primavera e l’estate quando le zecche sono più attive. La febbre bottonosa del Mediterraneo ha un periodo di incubazione di circa una settimana, per poi manifestarsi con febbre alta, sintomi simil-influenzali e un’escara nera nel sito della puntura della zecca (“tache noire”). Dopo 1-7 giorni dall’inizio della febbre si sviluppa un esantema maculo papulare che colpisce il palmo delle mani e la pianta dei piedi. Normalmente il paziente guarisce in circa 10 giorni, ma nei casi più gravi si possono manifestare patologie a carico del sistema nervoso (6% dei casi).

28.5 - Diagnosi In caso di sospetta infezione da rickettsie, il campione di elezione per l’isolamento del microrganismo è rappresentato principalmente dal sangue, raccolto in tempi il più precoci possibile e prima di iniziare una qualsiasi terapia antimicrobica. Il campione può essere utilizzato per l’inoculo in colture cellulari (la procedura di isolamento deve essere eseguita solo in laboratori specializzati in livello di biosicurezza 3, dal momento che le procedure di manipolazione sono ad alto rischio di contagio per l’operatore) o per la rilevazione diretta del DNA batterico mediante metodiche molecolari come la polymerase chain reaction (PCR). Le rickettsie vengono coltivate in vitro principalmente in colture cellulari Vero, L-929, HELA e MRC5, mentre è sempre più rara la semina nel sacco vitellino di uova embrionate di pollo o l’uso di animali da laboratorio come le cavie o i topi. L’identificazione viene fatta con metodo di immunofluorescenza diretta usando anticorpi monoclonali gruppo-, specie- e ceppo-specifici, oppure con metodiche molecolari. Di uso più comune è l’indagine sierologica: si raccoglie un primo campione di sangue nella fase acuta (possibilmente all’esordio della sintomatologia) e poi un secondo campione a distanza di 1-2 settimane e se non si osserva un aumento di 4 volte il titolo tra primo e secondo campione si procede alla raccolta di un terzo campione a distanza di 3-4 settimane. I test sierologici comprendono: test di immunofluorescenza indiretta (IFA, gold standard), test di immunoperossidasi indiretta, agglutinazione al lattice, test immunoenzimatici (EIA), agglutinazione con ceppo di Proteus vulgaris OX-19 e OX-2 e Proteus mirabilis OX-K, e Western blotting. Solo una parte di questi test è disponibile in commercio e può essere eseguita in laboratori di riferimento, e inoltre non tutte le rickettsiosi possono essere diagnosticate con queste metodiche. Tra quelli citati, il test più diffuso, anche se a bassa sensibilità e specificità, è quello di Weil-Felix (tab. 28.2), che prevede l’agglutinazione del siero del paziente con sospensioni proteiche di P. vulgaris e P. mirabilis.

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Tabella 28.2 Risultati della sierodiagnosi di Weil-Felix.

Malattia

Stipiti di Proteus OX-19

OX-2

OX-K

Tifo esantematico Tifo murino

++++ ++++

+ +

Non reattivo Non reattivo

Febbre maculosa delle Montagne Rocciose

++++ oppure +

+ oppure ++++

Non reattivo

Febbre maculosa del Mediterraneo

++++ oppure +

+ oppure ++++

Non reattivo

Non reattivo

Non reattivo

++++

Febbre fluviale del Giappone (scrub tifo)

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Causata da Orientia tsutsugamushi (precedentemente Rickettsia tsutsugamushi).

Inoltre, è possibile eseguire una biopsia dalla lesione cutanea, preferibilmente una papula contenente una petecchia o il margine di un’escara, su cui effettuare un’indagine immunoistologica. È stata sviluppata con buoni risultati una tecnica di immunofluorescenza diretta su sezioni di tessuto congelate o fissate con formalina, usando un antisiero polivalente coniugato con fluoresceina, reattivo verso R. rickettsii, R. conori e R. akari.

28.6 - Sensibilità e resistenza I test per la determinazione della sensibilità agli antibatterici delle rickettsie non sono standardizzati e l’uso di tetracicline o cloramfenicolo viene suggerito sulla base di dati di letteratura relativi ai risultati clinici a seguito di terapia empirica. Molte classi di antimicrobici ad ampio spettro di azione come le penicilline, le cefalosporine e gli aminoglicosidi sono inefficaci nel trattamento delle rickettsiosi (perché incapaci di penetrare all’interno delle cellule) mentre l’azitromicina e la claritromicina (macrolidi) sono molecole molto promettenti, specialmente per il trattamento dei pazienti più giovani. Recentemente studi effettuati in vitro hanno suggerito anche l’uso di fluorochinoloni nel trattamento della febbre maculosa.

28.7 - Vaccini L’unica rickettsiosi per la quale si rende necessario l’impiego di mezzi di profilassi immunitaria è il tifo esantematico. L’altissima diffusione del tifo esantematico è dovuta principalmente alla presenza di Pediculus corporis, la cui incidenza nelle popolazioni civili in zone di operazioni belliche può essere elevatissima. Il vaccino contro il tifo esantematico è allestito con R. prowazekii uccise provenienti da colture in sacco vitellino di embrione di pollo (vaccino di Cox).

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Capitolo

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Clamidie

Le clamidie, descritte nel 1907 da Halberstaedter e von Prowazek nel corso di studi sul tracoma, sono state a lungo considerate erroneamente virus a causa delle loro piccole dimensioni (non vengono trattenute dalla maggior parte dei filtri sterilizzanti impiegati in batteriologia) e della loro incapacità a crescere in terreni acellulari. Sono in effetti parassiti intracellulari obbligati, in grado di moltiplicarsi solo all’interno dei vacuoli di endocitosi delle cellule ospiti (il cui rivestimento membranoso ne ha ispirato il nome, dal greco chlamýs, mantello), e sono dotate di diverse peculiarità concernenti l’organizzazione strutturale, le esigenze metaboliche e il ciclo replicativo (caratteristicamente dimorfico). Pur nella loro peculiarità, le clamidie sono a tutti gli effetti batteri, caratterizzati dalla forma coccoide, immobili e strutturalmente inquadrabili fra i gram-negativi (anche se alla colorazione di Gram sono preferite quelle di Giemsa, Macchiavello o Gimenez). L’impiego delle colture cellulari ha consentito lo studio delle loro modalità replicative e ha condotto, grazie anche ai risultati delle osservazioni al microscopio elettronico, al definitivo riconoscimento della loro natura batterica; ne ha altresì evidenziato la larga diffusione in natura quali microrganismi parassiti non solo di vertebrati (uomo, altri mammiferi e uccelli), ma anche di invertebrati e amebe.

29.1 - Tassonomia Le clamidie parassite dei vertebrati sono classificate in quattro specie (Chlamydia trachomatis, C. psittaci, C. pneumoniae e C. pecorum), costituenti l’unico genere, Chlamydia, dell’unica famiglia, Chlamydiaceae, dell’ordine Chlamydiales. Questa classificazione non include le clamidie degli invertebrati e delle amebe, né alcuni altri microrganismi simili a clamidie recentemente isolati, ed è unicamente basata su caratteri fenotipici. Sulla base di tali considerazioni, Everett e collaboratori hanno proposto nel 1999 un nuovo inquadramento tassonomico basato su dati molecolari (ad es. sequenziamento dei geni per gli rRNA), che non ha ancora incontrato unanime consenso. Secondo questa riclassificazione, nell’ordine Chlamydiales verrebbero incluse tre nuove famiglie, quelle delle Parachlamydiaceae (clamidie parassite delle amebe a vita libera), delle Waddliaceae e delle Simkaniaceae. Nell’ambito della famiglia delle Chlamydiaceae (accomunate dal possesso di un epitopo lipopolisaccaridico, specifico della famiglia) verrebbe a costituirsi il nuovo genere Chlamydophila, nel quale dovrebbero transitare le specie C. psittaci, C. pneumoniae e C. pecorum e del quale verrebbero a far parte anche tre nuove specie, C. abortus, C. felis e C. caviae, già considerate sierotipi di C. psittaci; nel genere Chlamydia (caratterizzato, oltre che da peculiarità molecolari, anche dalla comune capacità dei suoi membri di produrre glicogeno in quantità rilevabile) rimarrebbe la specie C. trachomatis, unitamente ad alcuni suoi attuali componenti che andrebbero a costituire due ulteriori nuove specie, C. suis e C. muridarum. Anche se è desumibile dalla letteratura la possibilità che alcune manifestazioni cli-

• Ciclo replicativo dimorfico • Parassitismo energetico •C  hlamydia trachomatis •C  hlamydia psittaci • Chlamydia pneumoniae

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niche umane siano correlabili con clamidie di più recente identificazione, le specie C. trachomatis, C. psittaci e C. pneumoniae si confermano le principali patogene per l’uomo e costituiranno esclusivo oggetto della presente trattazione.

29.2 - Morfologia, struttura e modalità replicative Le clamidie si moltiplicano all’interno di cellule eucariotiche permissive, secondo modalità riconducibili a un peculiare ciclo replicativo dimorfico. Le due forme microbiche che caratterizzano tale ciclo sono il corpo elementare e il corpo reticolare. Il corpo elementare (CE) è la forma infettante, capace di resistere in ambiente extracellulare e di avviare il processo replicativo legandosi alla cellula ospite e penetrando al suo interno per endocitosi. Ha piccole dimensioni (200- 300 nm di diametro) e un metabolismo relativamente inerte. Il corpo reticolare (CR) si origina dal CE per progressiva idratazione, subito dopo la sua penetrazione nel vacuolo di endocitosi, e rappresenta la forma microbica metabolicamente attiva, in grado di dividersi per scissione binaria all’interno della cellula ospite. Ha dimensioni maggiori del CE (800-1000 nm di diametro) e possiede una tipica organizzazione cellulare procariotica, con citoplasma ricco in ribosomi 70S e acido nucleico diffuso e fibrillare. È in grado di mantenersi vitale solo all’interno della cellula ospite e torna a trasformarsi in CE a seguito di un processo di disidratazione e condensazione cui va incontro al termine del ciclo replicativo. La parete delle clamidie presenta degli aspetti peculiari. A differenza degli altri batteri gram-negativi, infatti, il peptidoglicano non è riscontrabile, almeno in quantità significativa, e la sua funzione appare vicariata da un complesso di proteine costituto dalla MOMP (Major Outer Membrane Protein) di 40 kDa, da una proteina idrofila di 60 kDa ricca in cisteina e da una lipoproteina di basso peso molecolare, anch’essa ricca in cisteina (CRP, Cysteine-Rich Protein). Numerosi legami disolfurici contribuirebbero a mantenere strettamente interconnesse tali proteine nel CE e ne garantirebbero la resistenza e la rigidità di parete; la trasformazione del CE a CR conseguirebbe alla loro parziale riduzione, che diverrebbe così la principale causa della progressiva idratazione e della relativa lassità di tale elemento. Dei due involucri membranosi delimitanti le due forme microbiche, quello interno ha la composizione tipica delle membrane citoplasmatiche batteriche, mentre quello esterno contiene, oltre alla MOMP, la componente lipopolisaccaridica (endotossina o LPS) tipica dei batteri gram-negativi. La MOMP, parzialmente esposta sulla superficie del microrganismo, oltre a contribuire al mantenimento della stabilità osmotica del CE in ambiente extracellulare, parteciperebbe, nel CR, al controllo dei processi di assorbimento di sostanze nutrizionali diverse, ivi incluso l’ATP, svolgendo funzioni di porina. Il contatto e le interazioni fra i microrganismi in fase di crescita endocellulare e la cellula ospite sono in larga misura garantiti anche da altre specifiche proteine che il CR sintetizza e introduce nella membrana dell’inclusione utilizzando, verosimilmente, un sistema di secrezione di tipo III. Queste proteine, denominate Inc, organizzate in strutture fibrillari, si proiettano dall’inclusione al nucleo e all’intero citoplasma della cellula infetta, e in tale contesto, interagendo in particolare con alcune chinasi cellulari e modificandone le funzioni di segnale, svolgono importanti funzioni quali, ad esempio, la fusione di eventuali vacuoli multipli di endocitosi (endosomi) in un’unica inclusione, l’inibizione del legame fra lisosomi, endosoma e inclusione, il trasferimento di sostanze nutrizionali attraverso la membrana dell’inclusione, la traduzione, sempre attraverso tale membrana, di segnali mitogeni, la modulazione del ciclo cellulare e l’eventuale induzione di apoptosi (vedi fig. 29.2D). Il ciclo replicativo, schematizzato in figura 29.1, inizia con l’attacco del CE alla cellula ospite e con la sua penetrazione all’interno di essa. L’attacco sembra dipendere, più che da recettori dotati di elevata affinità, da un insieme di legami deboli fra

MOMP

CE 0-9 ore Attacco e penetrazione di CE e loro trasformazione in CR

LPS

CE

CRP 9 CRP 60

N

MOMP LPS La trasformazione CE → CR si accompagna a riduzione dei ponti S-S fra MOMP e CRP, aumento della permeabilità di membrana, riorganizzazione del DNA e sintesi di RNA e proteine

9-24 ore Moltiplicazione dei CR

Inc

Inc N

N

24-48 ore Evidenziazione e ingrandimento delle inclusioni

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Capitolo 29 • Clamidie

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N

CRP 9 CRP 60

Le proteine Inc inibiscono la fusione dei lisosomi alle vescicole endosomiali; eventuali endosomi multipli confluiscono in un’unica inclusione

Inizia e si incrementa la neoformazione di CE per effetto di processi di condensazione del DNA, all’interno dei CR, e di ricostituzione dei ponti S-S fra le proteine dell’inviluppo

Solo i CE sono infettanti; se con modalità diverse se ne inibisce la maturazione, ad esempio aggiungendo interferone-γ in corso di infezione, l’infezione stessa può evolvere verso la persistenza

> 48 ore Liberazione N

Figura 29.1 Tempi, fasi ed eventi caratterizzanti la replicazione in vitro di Chlamydia trachomatis.

la componente glucanica della glicoproteina MOMP e la superficie cellulare (il ruolo della MOMP, anche se non del tutto chiarito, è confermato dall’attività neutralizzante esercitata in vitro dagli anticorpi da essa stimolati) o, più in generale, fra eparani policationici sintetizzati dalle stesse clamidie e recettori ubiquitari per i glucosaminoglucani presenti sulla superficie di una grande varietà di cellule. La penetrazione avviene per endocitosi ed è temperatura-dipendente (si manifesta a 37 °C, ma non a 20-22 °C). All’interno dell’endosoma, formatosi dopo la penetrazione del CE, si realizzano le condizioni riducenti verosimilmente necessarie per la trasformazione dello stesso CE in CR. Il CR, legato alla membrana endosomiale e completamente differenziatosi in 6-9 ore, inizia a dividersi e a sintetizzare le proteine Inc necessarie per inibire la fusione lisosomiale e garantire le interazioni con la cellula ospite. La moltiplicazione dei CR prosegue quindi in modo asincrono, con tempi di divisione di circa 2 ore. L’endoso-

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ma, traslocatosi in prossimità dell’apparato del Golgi, va incontro a un progressivo ingrandimento e generalmente alla fusione con altri endosomi eventualmente formatisi in conseguenza della penetrazione nella stessa cellula di CE multipli. Nella cellula si forma una microcolonia di clamidie racchiuse in un’unica grossa inclusione intracitoplasmatica, ben evidente all’osservazione con il microscopio ottico. Circa alla ventiquattresima ora dall’inizio dell’infezione diviene evidente il processo di condensazione e disidratazione dei CR e la loro trasformazione in CE. Alla quarantottesima-settantaduesima ora, il ciclo si completa con la liberazione di 100-1000 CE infettanti per cellula (per endocitosi inversa in C. trachomatis e C. pneumoniae, o per lisi cellulare in C. psittaci). In vivo, ma anche in vitro, quando le cellule riescono a sopravvivere all’infezione acuta, è possibile che si instaurino infezioni persistenti, con periodiche riprese moltiplicative e lunghi periodi di apparente assenza del microrganismo o di sua presenza in sede endocellulare unicamente sotto forma di pochi CR morfologicamente atipici. In vivo, nelle mucose, dove l’attività delle clamidie appare maggiore in cellule in attiva replicazione, è possibile che processi di riattivazione si manifestino al verificarsi di infezioni intercorrenti sostenute da altri microrganismi, come ad esempio Neisseria gonorrhoeae, in grado di causare aumento del turnover cellulare.

29.3 - Caratteristiche metaboliche Sia i CE sia i CR sono incapaci di espletare significative attività metaboliche quando separati dalla cellula ospite, risultando privi di citocromi e flavoproteine e non essendo in grado di attivare vie metaboliche idonee a consentire accumuli netti di ATP o di altre molecole a elevato livello energetico. Sulla base di tali osservazioni, le clamidie sono state considerate parassiti energetici e a questa loro caratteristica è stato primariamente addebitato il parassitismo intracellulare obbligato. In presenza di ATP esogeno, che trasportano al loro interno in virtù di specifiche ADP/ATP traslocasi, esse sono comunque in grado di effettuare regolarmente le sintesi proteiche. In sede intracellulare, disponendo dei precursori forniti dalla cellula ospite, sintetizzano in modo autonomo acidi nucleici e lipidi.

29.4 - Genoma Il genoma delle clamidie è uno fra i più piccoli genomi procariotici (circa 1000 kbp) e oggi è disponibile l’intera sequenza dei genomi di numerose specie. Il contenuto in G+C è di circa il 40%. In C. trachomatis è anche presente un plasmide criptico di 7,5 kpb, verosimilmente responsabile di funzioni essenziali per la crescita microbica, e di interesse pratico in quanto utilizzato quale principale bersaglio di rilevamento dalla quasi totalità dei saggi biomolecolari oggi a disposizione per la diagnosi delle patologie riferite a tale specie. Il sequenziamento del genoma delle clamidie ha fornito un valido strumento per il loro reinquadramento tassonomico, indicando quale principale criterio per la definizione di genere, famiglia e ordine, livelli di omologia dei geni codificanti per l’RNA ribosomiale 16S rispettivamente non inferiori a 95, 90 e 80%. Sorprendentemente, è stata anche riscontrata la presenza di geni coinvolti nel controllo di vie metaboliche potenzialmente idonee alla produzione di ATP, oltre che dell’intero complesso dei geni responsabili della sintesi del peptidoglicano. All’origine dei due principali caratteri che differenziano le clamidie da tutti gli altri batteri (il parassitismo energetico e l’assenza o comunque scarsa presenza di peptidoglicano) non vi sarebbero pertanto sostanziali differenze genetiche ma solo differenze nei livelli di espressione dei geni coinvolti.

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29.5 - Antigeni Le specificità antigeniche delle clamidie, di maggiore rilievo ai fini della protezione, delle interazioni ospite-parassita e dell’immunopatologia, oltre che dell’inquadramento tassonomico, sono connesse con il lipopolisaccaride e con la MOMP. Il lipopolisaccaride (LPS) esibisce un epitopo con specificità di genere (o di famiglia) in quanto presente in tutti i membri del genere Chlamydia (o della famiglia Chlamydiaceae, in accordo con l’inquadramento tassonomico recentemente proposto). Tale epitopo non induce formazione di anticorpi protettivi e può essere sintetizzato chimicamente e utilizzato quale antigene “di gruppo” in saggi commerciali sierodiagnostici. La MOMP è la proteina maggiore della membrana esterna, codificata dal gene omp1, immunodominante e principalmente capace di stimolare la produzione di anticorpi dotati di attività neutralizzante in vitro. Esprime specificità di specie e, particolarmente in C. trachomatis, anche di sottospecie e di tipo (3 sierogruppi e 19 sierotipi). È antigenicamente variabile, maggiormente in C. trachomatis, meno in C. psittaci, e ancor meno in C. pneumoniae, per effetto di mutazioni puntiformi (antigenic drift) e talora anche di più ampie modificazioni (antigenic shift) cui può andare incontro il gene omp1. I diversi sierotipi di C. trachomatis causano in vivo differenti manifestazioni cliniche; gli epitopi con specificità di tipo o di gruppo, rispetto a quelli con specificità di specie, stimolano formazione di anticorpi dotati di più elevata capacità neutralizzante. Ulteriori specificità antigeniche di rilievo, responsabili di significative interazioni con il sistema immunitario dell’ospite, sono anche espresse dalle proteine di membrana ricche in cisteina (CRP), e da proteine correlate allo shock termico (hsp), parzialmente allocate in corrispondenza del complesso degli involucri esterni batterici. Di interesse è infine una lipoproteina di 29 kDa, non esposta alla superficie dei CE infettanti e tuttavia idonea a stimolare la produzione di anticorpi dotati di attività, sia pur debolmente, neutralizzante. Tale lipoproteina è denominata MIP per le forti analogie che essa mostra con una simile proteina, potenziatrice della capacità di infettare i macrofagi, prodotta da Legionella pneumophila, noto parassita intracellulare facoltativo; come in Legionella, essa potrebbe svolgere un ruolo significativo nell’espressione della virulenza batterica.

29.6 - Coltivazione Tutte le clamidie possono essere coltivate nel sacco vitellino dell’uovo embrionato di pollo e in diverse linee cellulari di derivazione animale. Le colture cellulari principalmente utilizzate per la coltivazione delle clamidie sono le HeLa 229 (originariamente ottenute da un caso di carcinoma umano), le McCoy (derivate da fibroblasti L di topo), le BHK21 (Baby Hamster Kidney) e le BGMK (Buffalo Green Monkey); nel caso particolare di C. pneumoniae, la specie, fra le clamidie, più difficilmente adattabile alla crescita in laboratorio, può essere anche utile, se non preferibile, l’impiego delle cellule HL (fibroblasti umani) o HEp 2 (epiteliali umane carcinomatose). Al fine di incrementare la crescita microbica, le cellule sono in genere sottoposte, all’atto dell’infezione, a una centrifugazione per 30 minuti a 3000 g e/o al trattamento con composti policationici (quali il DEAE-destrano o la polilisina), e successivamente, durante l’incubazione, al trattamento con inibitori quali la cicloeximide, la iododeossiuridina o la mitomicina C. I primi trattamenti facilitano l’attacco e la penetrazione dei microrganismi, il successivo blocca le sintesi macromolecolari e la divisione della cellula ospite incrementando verosimilmente la quantità di energia e di metaboliti a disposizione dei microrganismi per la loro crescita. Nelle colture cellulari le clamidie sono generalmente in grado di effettuare un unico

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Figura 29.2 Immagini di cellule McCoy infettate con uno stipite di Chlamydia trachomatis. Le cellule sono state fissate al momento dell’infezione (tempo 0) e dopo 24, 48 e 72 ore, e colorate con colorante di Giemsa (A), liquido di Lugol (B), anticorpi fluoresceinati (C) e colorante di Hoechst 33258. Tutte le colorazioni evidenziano la presenza delle caratteristiche inclusioni, apprezzabili già alla 24a ora, particolarmente rilevanti alla 48a ora, in parte già svuotate alla 72a ora; nei preparati colorati con Hoechst è altresì evidente, a 48 e 72 ore, la presenza di nuclei apoptotici (D).

ciclo replicativo, richiedendo a tale scopo un periodo di incubazione di 48-72 ore. Per l’evidenziazione del loro sviluppo, è sufficiente la dimostrazione dell’avvenuta formazione dei tipici corpi di inclusione facilmente osservabili, con il microscopico ottico, sia in preparati fissati e colorati con il metodo di Giemsa (fig. 29.2A) o con anticorpi fluoresceinati (fig. 29.2C) sia “a fresco”, in campo oscuro, o anche, nel caso particolare di C. trachomatis, produttrice di glicogeno, in campo chiaro, previo trattamento con la soluzione iodo-iodurata di Lugol (fig. 29.2B).

29.7 - Spettro d’ospite È comunemente ritenuto che C. trachomatis e C. pneumoniae siano microrganismi dotati di esclusiva capacità infettante per l’uomo. C. psittaci infetta un gran numero di uccelli e mammiferi, incluso, occasionalmente, l’uomo. C. pecorum, quarto e ultimo componente del genere Chlamydia nella tassonomia ufficiale, sembra poter esprimere capacità infettante esclusivamente nei confronti di bovini e pecore.

29.8 - Sensibilità agli agenti antimicrobici In sede extracellulare, nella forma di CE, le clamidie sono resistenti agli stress meccanici e osmotici e alla lisi da tripsina o da lisozima; sono invece facilmente termo-inattivabili e richiedono, per la loro conservazione, il mantenimento a temperature non superiori a +4 °C. In sede intracellulare, la loro moltiplicazione, quali CR, è inibita da tetracicline, rifampicina, macrolidi e fluorochinoloni. I sulfamidici inibiscono C. trachomatis, ma non C. psittaci, né C. pneumoniae. Il cloramfenicolo ha attività simile a quella dei sulfamidici. La penicillina e l’ampicillina sono solo debolmente attive, come prevedibile sulla base della nota assenza, o comunque scarsa presenza, di peptidoglicano in corrispondenza degli involucri esterni delle clamidie. Un effetto batteriostatico comunque si manifesta, cui si accompagna la comparsa, nelle inclusioni, di formazioni anomale, irregolari e più grandi dei comuni CR. L’effetto è interessante, non solo

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sotto un profilo clinico, in quanto consente l’uso di tali molecole in situazioni particolari in cui ne sia specificamente richiesto l’impiego terapeutico (come ad esempio nel corso di alcune infezioni in gravidanza), ma anche sotto un profilo biologico, in quanto dimostra, nelle clamidie, oltre che il possesso dei geni richiesti per la sintesi del peptidoglicano, e l’effettiva capacità di sintetizzarlo, in misura sia pur limitata, anche la dipendenza da alcune funzioni che esso deve espletare, almeno nei CR, nel controllo e nella regolazione del loro processo divisionale. Altri antibiotici, quali aminoglicosidi, polimixine e glicopeptidi, sono del tutto inattivi nei confronti delle clamidie.

29.9 - Patogenesi A differenza di quanto osservabile in vitro, le clamidie sono in grado in vivo di determinare solo effetti citopatici limitati. In corso di infezione naturale, sono anche limitati gli effetti tossici direttamente addebitabili all’LPS batterico, la cui attività, al riguardo, si valuta sia circa cento volte inferiore rispetto a quella espressa dai LPS di Neisseria o Salmonella. Sono invece molto evidenti, nei siti di infezione, i fenomeni infiammatori locali, principalmente consistenti, in fase acuta, in un’intensa infiltrazione di linfociti B e T, e in fase tardiva o di cronicizzazione, nella presenza di infiltrati prevalentemente formati da linfociti T e da cellule del sistema monocito-macrofagico, e nella successiva comparsa di manifestazioni fibrotiche, eventualmente evolutive verso consistenti compromissioni tissutali. La risposta immunitaria, e in particolare quella cellulo-mediata, sarebbe responsabile di tali fenomeni infiammatori e verrebbe così ad assumere, oltre a un ruolo protettivo, anche un importante ruolo patogenetico, principalmente legato alla produzione di citochine stimolanti la fibrogenesi. Tra i fattori di patogenicità delle clamidie, accanto a quelli condizionanti le loro capacità di adesione, colonizzazione e resistenza alla fagocitosi (eparani, componente glucanica della MOMP, proteine Inc, MIP), vanno sicuramente annoverati anche quelli attivi nella stimolazione dei linfociti T. Fra questi ultimi, oltre alla MOMP e alle proteine hsp, vi è l’LPS, la cui attività tossica avrebbe in tale effetto la sua principale motivazione. Nell’ambito delle citochine prodotte dai linfociti T e dalle stesse cellule epiteliali infette in seguito a legame LPS-recettore CD14, l’interferone-gamma eserciterebbe un ruolo di rilievo nell’evoluzione verso la persistenza dell’infezione batterica, mentre il TNF-α sarebbe il principale responsabile dell’attivazione dei processi di fibrogenesi e cicatrizzazione. Gli anticorpi hanno scarso effetto protettivo e l’infezione può persistere, e subire occasionali riattivazioni, anche in presenza di titoli anticorpali elevati. È anche possibile, anzi frequente, l’evenienza che fra le capacità infettanti del microrganismo e le risposte dell’ospite vengano a stabilirsi equilibri stabili e che le infezioni da clamidie rimangano, per il loro intero decorso, asintomatiche.

29.10 - Manifestazioni cliniche Come già sottolineato, C. trachomatis, C. psittaci e C. pneumoniae sono le tre specie di clamidie principalmente, se non unicamente, patogene per l’uomo. I loro caratteri generali sono sintetizzati in tabella 29.1. Le manifestazioni cliniche da esse determinate non presentano peculiarità in relazione all’incidenza stagionale e sono in genere ubiquitarie; solo tracoma e linfogranuloma venereo variano nella loro distribuzione geografica e appaiono fortemente condizionati dal livello socio-economico delle popolazioni interessate.

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Tabella 29.1 Caratteri generali differenziali delle clamidie di riconosciuto interesse umano.

Carattere

Specie del genere Chlamydiaa C. trachomatis

C. psittaci

C. pneumoniae

Forma del corpo elementare

Rotondo

Rotondo

“A pera”

Forma e aspetto dell’inclusione

Rotonda, reticolare

Variabile, densa

Rotonda, densa

Numero di inclusioni per cellula

Singola

Multiple

Multiple

Glicogeno nelle inclusioni



No

No

Presenza di plasmidi



No

No

LPS con specificità antigenica di

Genere

Genere

Genere

MOMP con specificità antigenica di

Specie e sottospecie

Specie

Specie

Numero di sierotipi (serovar)

19

≥4

1

Ospite naturale

Uomo

Uccelli

Uomo

Vie di trasmissione

Sessuale, per contatto interumano, verticale

Aerea, tramite uccelli (zoonosi)

Aerea, interumana

Sensibilità ai sulfamidici



No

No

DNA: % G+C

39,8

39,3

40,3

b

In accordo con la rivisitazione tassonomica proposta nel 1999, le tre specie andrebbero inquadrate nella famiglia Chlamydiaceae; in tale ambito solo C. trachomatis continuerebbe a far parte del genere Chlamydia, mentre C. psittaci e C pneumoniae transiterebbero nel genere Chlamydophila. b Riferito alle tre specie così come definite in accordo con la proposta tassonomica del 1999. a

Chlamydia trachomatis È considerata la più rilevante in patologia umana. Caratterizzata da uno spettro d’ospite ristretto che risulterebbe esclusivamente limitato all’uomo, infetta preferenzialmente le cellule delle mucose. È suddivisa in 2 biotipi (tracoma e linfogranuloma venereo), 3 sierogruppi e 19 sierotipi. Ai diversi sierotipi sono addebitate differenti potenzialità patogene. I sierotipi A, B, Ba e C sono responsabili di una grave cheratocongiuntivite cronica, il tracoma endemico. Seconda causa di cecità nel mondo dopo la cataratta, fino ad alcuni decenni fa il tracoma era presente anche nel nostro Paese, mentre oggi è quasi del tutto limitato ai Paesi in via di sviluppo. Inizia con un processo flogistico della congiuntiva e della cornea ed evolve con la formazione di processi cicatriziali, panno corneale, che, se non efficientemente trattati, diventano responsabili della perdita della capacità visiva. La trasmissione avviene, in condizioni di grave carenza igienica, tramite passaggio, da occhio a occhio, di secrezioni infette, realizzato con modalità diverse (mani, mosche, cosmetici ecc.). I sierotipi B e Ba, unitamente ai D-K, sono altresì responsabili, prevalentemente in adulti di sesso maschile affetti da uretrite asintomatica, di una forma più blanda di congiuntivite follicolare monolaterale, la congiuntivite da inclusioni o paratracoma. La trasmissione, come nel tracoma, può avvenire con modalità differenti ma, in questo caso, la contaminazione con secrezioni genitali infette è la principale causa dell’infezione oculare. Secrezioni genitali contaminate sono anche all’origine di infezioni oculari cui i neonati possono andare incontro con elevata frequenza (20-50%) in corso di attraversamento di canali di parto infetti (congiuntivite neonatale). I neonati, nel 10-20% dei casi di infezione, possono anche andare incontro a polmonite (polmonite neonatale), che si manifesta in genere al termine della seconda settimana dalla nascita e ha un andamento subacuto.

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I sierotipi D, Da, E, F, G, H, I, Ia, J, Ja e K sono, nei Paesi industrializzati, i più comuni agenti di infezioni genitali trasmesse sessualmente, la cui diffusione è certamente favorita dal fatto che esse evolvono spesso, soprattutto nella donna (fino all’80% dei casi), in modo del tutto asintomatico. Quando sintomatiche, tali infezioni si manifestano comunemente, nell’uomo, con i caratteri di una uretrite scarsamente purulenta (uretrite non gonococcica). Se, come spesso accade, si associa un’infezione da Neisseria gonorrhoeae, l’essudato uretrale apparirà invece all’inizio francamente purulento, e le più blande, ma persistenti, manifestazioni da clamidie potranno evidenziarsi solo dopo trattamento con antibiotici β-lattamici attivi unicamente nei confronti di N. gonorrhoeae; da qui il termine di uretrite post-gonococcica. Occasionalmente l’infezione da C. trachomatis può complicarsi e divenire causa di epididimite o prostatite. Negli omosessuali può causare proctite. Nella donna può dare origine, oltre che a una uretrite, in genere blanda, alla cervicite e alla malattia infiammatoria pelvica, una condizione che può portare a sterilità o predisporre a una gravidanza ectopica. I sierotipi L1, L2, L2a, L3 hanno la peculiarità di invadere diffusamente il tessuto linfatico e divenire responsabili del linfogranuloma sia oculare (congiuntivite oculo-ghiandolare di Parinaud) sia genitale (linfogranuloma venereo). La forma oculare ha il carattere di un’infiammazione congiuntivale associata a linfoadenopatia preauricolare, sottomandibolare e cervicale. La forma genitale si manifesta con una lesione primaria indolore nel sito di infezione che guarisce ma che, se trascurata, può evolvere verso una fase secondaria (caratterizzata da infiammazione e tumefazione dei linfonodi drenanti il sito iniziale di infezione) ed eventualmente una forma terziaria (caratterizzata da fistolizzazioni ed esiti cicatriziali). Il linfogranuloma venereo è una rara malattia a trasmissione sessuale, esclusiva delle regioni tropicali.

Chlamydia psittaci Differenziabile in diversi sierotipi, infetta in natura, oltre che pecore e capre, anche numerose specie di volatili. Da questi ultimi, e in particolare dai pappagalli, viene occasionalmente trasmessa all’uomo e, quando ciò accade, può divenire responsabile di zoonosi, dette ornitosi o psittacosi (dal greco ornithos, uccello, o psittakos, pappagallo). È presente nel sangue e nei tessuti, feci, e piume di uccelli sia sani che malati, e da tutte queste fonti può dare avvio all’infezione umana. Nell’uomo, l’infezione è spesso inapparente o lieve, ma può anche evolvere verso una polmonite grave o verso una forma settica a elevata letalità. Può essere causa di malattia professionale nei veterinari, nei lavoratori degli zoo, nei dipendenti dei negozi di animali domestici, negli addetti alla manipolazione del pollame. La trasmissione è aerogena e la sintomatologia simil-influenzale. Nei casi evolutivi, il microrganismo, presente nel sangue nelle prime due settimane di malattia, diffonde alle cellule del sistema retico-endoteliale del fegato e della milza e raggiunge quindi il polmone, dove dà origine a una polmonite interstiziale difficilmente differenziabile da quelle provocate da virus o da Mycoplasma pneumoniae.

Chlamydia pneumoniae Le prime dimostrazioni dell’esistenza di microrganismi oggi classificati in questa specie, così come le prime segnalazioni circa un loro possibile ruolo nella patologia acuta delle vie aeree, sono state effettuate a Taiwan, negli anni ’70 del secolo scorso, e i relativi isolati sono rimasti per lungo tempo noti, fino agli anni ’80, come stipiti TWAR (Taiwan Acute Respiratory). Inquadrati nella specie C. pneumoniae, se ne è riconosciuta l’appartenenza a un solo sierotipo e se ne è confermato il ruolo nella eziopatogenesi di diverse affezioni comunitarie delle alte e basse vie aeree, quali sinusiti, bronchiti o polmoniti interstiziali, queste ultime anche ad andamento cronico, spesso coinvolgenti

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un solo lobo polmonare, in genere di modesta gravità. Ne è stata altresì accertata la trasmissibilità per via aerea, da uomo a uomo, e la larga circolazione in ambito umano con tendenza prevalente a dare origine a forme infettive lievi o del tutto asintomatiche; in molte aree geografiche il 50% degli individui adulti presenta positività sierologica indicativa di infezione pregressa. Da alcuni anni si vanno raccogliendo indicazioni sieroepidemiologiche su un suo presunto ruolo nell’Alzheimer, nell’aterosclerosi e nella malattia ischemica del miocardio. L’ipotesi, in particolare, di un coinvolgimento di C. pneumoniae nelle due ultime affezioni sembrerebbe avvalorata dalla dimostrata presenza di corpi elementari nell’endotelio coronarico, dalla presenza di microrganismi vitali, o di loro antigeni o acidi nucleici, in frammenti bioptici di placche ateromatose, nonché dalla capacità di C. pneumoniae di moltiplicarsi in cellule muscolari lisce, in cellule endoteliali delle coronarie e in macrofagi. La risposta infiammatoria a un’infezione cronica, facilitata dalla possibilità che il microrganismo instauri persistenza, sarebbe responsabile, in questi due casi, delle manifestazioni patologiche.

29.11 - Diagnosi Per l’accertamento diagnostico delle infezioni da C. trachomatis, l’esame colturale è considerato il gold standard. La sensibilità è condizionata dall’entità del processo infettivo, dalla corretta raccolta del campione (secrezioni congiuntivali, uretrali, cervicali ecc.), dalle modalità di trasporto al laboratorio (che deve avvenire nel più breve tempo possibile e a freddo) e, infine, dall’impiego di adeguate tecniche colturali. Le risposte si hanno in tempi relativamente brevi (48-72 ore). Altra modalità diagnostica, con sensibilità comparabile a quella dell’esame colturale ma più rapida nell’esecuzione, è la ricerca del DNA batterico direttamente condotta nel campione con tecnica PCR o similare; in questo caso, come già detto, la sequenza bersaglio è quasi sempre il plasmide criptico costantemente presente nei sierotipi più diffusi del microrganismo. Ulteriormente utilizzabili, ma dotate di minore sensibilità, sono la ricerca citologica delle inclusioni (fig. 29.3), la ricerca, nei campioni clinici, con tecniche ELISA o di immunofluorescenza, della presenza di antigeni batterici (LPS o MOMP), e infine la valutazione della risposta sierologica. Minore rilievo ha l’esame colturale nella diagnosi delle infezioni da C. psittaci e da C. pneumoniae. Questo è dovuto, nel primo caso, all’elevato rischio che la manipolazione di C. psittaci comporterebbe per lo staff di laboratorio, e nel secondo, per le difficoltà che C. pneumoniae mostra nell’adattarsi alla crescita in vitro. Nelle infezioni sia da C. psittaci sia da C. pneumoniae, gli accertamenti diagnostici sono principalmente di tipo molecolare (amplificazione mediante PCR) o sierologico, questi ultimi affidati alla dimostrazione di significativi movimenti anticorpali o della presenza di IgM, nei confronti degli antigeni di clamidia gruppo- (LPS) o specie-specifici (MOMP); le tecniche più frequentemente utilizzate sono le reazioni di fissazione del complemento e di immunofluorescenza.

29.12 - Terapia e prevenzione Figura 29.3 Endocervicite da Chlamydia trachomatis. Immagine fortemente suggestiva: nel citoplasma di una cellula cilindrica si apprezza un voluminoso vacuolo contenente corpiccioli ematossilinofili. Papanicolaou, 400×.

Le tetracicline sono i farmaci di elezione per il trattamento delle manifestazioni patologiche provocate dalle clamidie e le segnalazioni di resistenze batteriche nei loro confronti sono rarissime. Sono anche utilizzabili, quali farmaci di seconda scelta, i macrolidi e i chinoloni. Per quanto concerne la prevenzione, essa può essere effettuata migliorando le condizioni socio-economiche delle popolazioni (tracoma), stimolando la messa in opera di adeguate misure di igiene personale e sessuale (infezioni oculogenitali da C.

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trachomatis), controllando le importazioni di uccelli e, se richiesto, adottando provvedimenti di quarantena, o di isolamento, atti a ridurre i rischi di contagio, rispettivamente, da animale a uomo e da uomo a uomo (psittacosi), ovvero, infine, ricorrendo a trattamenti chemioprofilattici (complicanze del tracoma, infezioni del neonato da C. trachomatis). Un’immunoprofilassi vaccinale sarebbe auspicabile per il controllo del tracoma nei Paesi in via di sviluppo e potrebbe trarre vantaggio dall’uso di preparazioni antigeniche purificate, derivate ad esempio dalla MOMP, piuttosto che di sospensioni batteriche uccise che, nel passato, hanno dato risultati deludenti, se non addirittura negativi. L’effettiva realizzabilità di un tale vaccino, e l’opportunità stessa del suo eventuale impiego, richiedono tuttavia l’acquisizione di ulteriori, significative conoscenze sul ruolo protettivo, o patogenetico, esercitato dall’immunità nel corso delle infezioni da clamidie.

Bibliografia essenziale Bush, R.M, Everett, K.D.E. (2001), «Molecular evolution of the Chlamydiaceae», International Journal of Systematic and Evolutionary Microbiology, 51, pp. 203-220. Everett, K.D.E., Bush, R.M., Andersen, A.A. (1999), «Emended description of the order Chlamydiales, proposal of Parachlamydiaceae fam. nov. and Simkaniaceae fam. nov., each containing one monotypic genus, revised taxonomy of the family Chlamydiaceae, including a new genus and five new species, and standards for the identification of organisms», International Journal of Systematic and Evolutionary Microbiology, 49, pp. 415-440. Schachter, J., Ridgway, G., Collier, L., «Chlamydial Diseases», in W.J. Hauslert Jr., M. Sussman (a cura di), Topley and Wilson’s. Microbiology and Microbial infections. Systematic Bacteriology, vol. 3, Oxford University Press, New York, 1998. Elwell, C., Mirrashidi, K., Engel, J., «Chlamydia cell biology and pathogenesis», Nat Rev Microbiol, 2016 Jun;14(6):385-400, doi: 101038/nrmicro2016.30. Ward, M.E., Ridgway G., «Chlamydia», in A. Balows, B.I. Duerden (a cura di), Topley and Wilson’s. Microbiology and Microbial infections. Systematic Bacteriology, vol. 2, Arnold. Oxford University Press, New York, 1998, www.chlamydiae.com.

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30 • Infiammazione gastrica • Patogenesi dell’infezione • Produzione di ureasi

Helicobacter

Giulio Bizzozero nel 1893 fu il primo medico a descrivere la presenza di batteri spiraliformi nello stomaco di mammiferi e successivamente, nel 1899, Pel correlò la presenza di disturbi gastrici in alcuni individui con la presenza nel succo gastrico di microrganismi spiraliformi. Tuttavia, soltanto nel 1983 fu stabilita definitivamente la correlazione fra presenza di batteri spiraliformi e ulcera gastrica quando Marshall e Warren dimostrarono, ingerendoli loro stessi, che questi batteri erano causa di infiammazione gastrica. Oltre a questa dimostrazione – che soddisfaceva pienamente i criteri di Koch – fu dimostrata anche l’efficacia della terapia antibatterica, con eritromicina e bismuto, nel ridurre l’infiammazione gastrica. L’agente responsabile, inizialmente denominato Campylobacter piloridis, fu successivamente rinominato Helicobacter pylori, con la creazione quindi di un nuovo genere tassonomico.

30.1 - Classificazione Il genere Helicobacter appartiene all’ordine Campylobacterales, famiglia Helicobacteraceae. Attualmente nel genere Helicobacter si comprendono circa 20 specie, ripartite in due gruppi capaci di colonizzare lo stomaco (specie gastriche) e organi quali fegato e intestino (specie enteroepatiche) (tab. 30.1).

30.2 - Helicobacter pylori

■■

Caratteristiche morfologiche e biochimiche

Come la maggior parte dei microrganismi del genere Helicobacter, Helicobacter pylori è un batterio gram-negativo, spiraliforme, microaerofilo, catalasi- e ossidasi-positivo, ureasi-positivo. È dotato di mobilità grazie alla presenza a un polo di flagelli in numero variabile da 1 a 6. Tabella 30.1 Principali specie del genere Helicobacter.

Specie

Ospite

Patologia

Helicobacter spp. gastriche: H. pylori

Uomo, primati

H. felis H. mustelae

Gatto, cane, topo Furetto

H. acinonychis H. heilmannii

Felini di grossa taglia Uomo, gatto, cane, scimmia, topo

Gastrite, ulcera peptica, adenocarcinoma gastrico, linfoma MALT Gastrite, adenocarcinoma nel topo Gastrite, ulcera peptica, adenocarcinoma gastrico, linfoma MALT Gastrite, ulcera peptica Gastrite, dispepsia, linfoma MALT

Helicobacter spp. enteroepatiche: H. hepaticus

Topo, roditori

Epatite, carcinoma epatocellulare

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Capitolo 30 • Helicobacter

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Caratteristiche colturali

L’atmosfera necessaria per la crescita richiede, oltre a una ridotta tensione di O2 (microaerofilia), la presenza di CO2 (5-10%) e un elevato grado di umidità. La temperatura ottimale di crescita è 37 °C. Sebbene l’habitat naturale sia la mucosa gastrica acida, il batterio sopravvive poco a pH  1,7 × 1013

Virus dell’epatite C

2,7 ore

> 1,3 × 1012

Virus dell’immunodeficienza umana

 9,8 × 109

TTV

4,3 ore

> 2,0 × 1010

Figura 47.2 Replicazione di TTV. Rappresentazione schematica.

Cellule ematopoietiche infettate da TTV

9

Viremia

(102-10 copie di TTV/mL)

Replicazione di TTV

Liberazione di TTV nel sangue

Numero di virioni prodotti ogni giorno: > 2,0 × 1010

Clearance: 2,5 giorni—1

Clearance di TTV dal sangue

Emivita del virione nel plasma: 4,3 ore

virus dell’epatite B, il virus dell’epatite C e il virus dell’immunodeficienza umana (tab. 47.3). Si ritiene infatti che l’emivita di TTV sia di circa 4 ore, che ogni giorno vengano prodotti almeno 1010 virioni e che più del 90% del virus presente nel sangue subisca un turnover giornaliero (fig. 47.2). La risposta anticorpale che segue l’infezione è rapida e robusta. Le IgM compaiono dopo 10-12 settimane, rimangono dimostrabili nel sangue per qualche tempo e poi scompaiono; le IgG, invece, sono prodotte dopo qualche settimana e tendono a persistere per anni o indefinitamente. La produzione di anticorpi non è però sufficiente a contrastare l’infezione; la viremia, infatti, persiste nonostante la presenza di alti titoli anticorpali e, come si è detto, sono molto frequenti le infezioni con ceppi virali diversi (fig. 47.3). Niente si sa sul ruolo della risposta cellulo-mediata. A distanza di anni dalla sua scoperta, TTV è ancora un virus “orfano di patologia”. Il suo ruolo, inizialmente proposto, di agente primario o co-fattore nell’eziologia delle epatiti non è mai stato dimostrato e non del tutto chiaro è anche il significato del virus nella patogenesi di altre malattie, fra cui quelle respiratorie acute e l’asma in età pediatrica. È dimostrato invece che TTV è il maggior componente del viroma, quell’ecosistema di virus straordinariamente complesso e diversificato che colonizza il corpo umano, spesso senza causare danno ma anzi contribuendo alla normale omeostasi dell’ospite (fig. 47.4).

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Diagnosi di laboratorio

Mancando saggi sierologici che consentano la determinazione di anticorpi virus-specifici e sistemi di rilevazione dell’antigene, il solo approccio utilizzabile è la ricerca dell’acido nucleico virale con metodi molecolari d’amplificazione (PCR o real-time PCR). Tuttavia, in considerazione dell’elevata prevalenza del virus, il riscontro della sola presenza di TTV nel sangue o in altri campioni ha scarsa utilità diagnostica. Più utile è quantificare il virus presente e determinare il tipo infettante.

Infezioni singole

(1 sola specie di TTV) ~30% ~70%

Infezioni miste

(2 o più specie di TTV)

Figura 47.3 Infezioni singole e infezioni miste. Prevalenza in soggetti con viremia da TTV.

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Figura 47.4 Rappresentazione schematica della composizione del viroma nel sangue di soggetti sani. In particolare sono riportate le percentuali di prevalenza dei generi e delle specie di TTV.

VIRUS 70%

Herpesvirales Caudovirales Adenoviridae Anelloviridae Polyomaviridae Poxviridae Retroviridae Altri

13% 5% 2% 68% 5% 1% 1% 5%

Alphatorquevirus 97% Betatorquevirus 3%

TTV1 TTV10 TTV12 TTV14 TTV15 TTV16 TTV19 TTV27 TTV28 TTV3 TTV4 TTV6 TTV7 TTV8

3% 5% 5% 2 anni

Immunodepressi

Encefalite post-infettiva

Normali, < 2 anni

Encefalite da corpi di inclusione

Panencefalite sclerosante subacuta

SNC

Rash

SNC

Infezione

–14

–7

0

7 Giorni

14

21

28

1

3

6 Mesi

9

12

1

5

10 Anni

15

20

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Capitolo 49 • Paramyxoviridae

Oltre a fattori genetici e immunologici solo parzialmente definiti, alla patologia concorre un danno virus-mediato, poiché nelle aree cerebrali danneggiate si osservano numerosi corpi di inclusione con particelle virali immature e i pazienti presentano elevati titoli anticorpali nel siero e nel fluido cerebrospinale. Questa malattia ha inizio subdolo ma progressivo con deterioramento mentale, spasticità, rigidità muscolare e coma che sopraggiunge a 1-3 anni dalla comparsa della malattia. La PESS si verifica in genere in soggetti che hanno contratto il morbillo prima dei due anni di età.

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Diagnosi di laboratorio

Data la tipicità della malattia, la diagnosi è eseguita solitamente su base clinica. La diagnosi di laboratorio può tuttavia essere necessaria nei casi atipici. L’antigene virale ricercato è di solito la nucleoproteina, prodotta in modo abbondante dalle cellule infette. L’analisi è condotta mediante immunofluorescenza su cellule di sfaldamento di tamponi e aspirati nasofaringei e sedimento urinario. Dagli stessi materiali e da sangue periferico raccolto nella fase prodromica può essere isolato il virus. Cellule di rene di scimmia o umane o cellule linfoblastoidi sono le più suscettibili all’infezione da virus del morbillo, che tuttavia cresce lentamente ed è difficile da isolare. Il caratteristico effetto citopatico, che si sviluppa normalmente in 8-10 giorni, è costituito da cellule giganti multinucleate con inclusioni intranucleari e intracitoplasmatiche (vedi fig. 49.5). Le shell vial rappresentano una valida alternativa. Gli stessi campioni possono essere impiegati per la ricerca degli acidi nucleici virali mediante RT-PCR. Gli anticorpi (IgM) si sviluppano rapidamente e possono essere facilmente rilevati già alla comparsa dell’eruzione. Nei casi più controversi la diagnosi sierologica è eseguita su doppio campione dove si ricerca sieroconversione o variazione di titolo di almeno quattro volte. Il metodo più utilizzato è l’ELISA ma immunofluorescenza e test di neutralizzazione sono altrettanto validi. La diagnosi sierologica è importante soprattutto nella diagnosi di PESS in cui i pazienti hanno anticorpi a livello sierico 50-100 volte più alti rispetto a sieri di soggetti in fase di convalescenza.

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Epidemiologia – Immunità

Il virus è endemico in tutto il mondo ed è trasmesso mediante goccioline di saliva. Grazie alla vaccinazione di massa delle popolazioni più sviluppate l’incidenza del morbillo è in rapida diminuzione. In aree nelle quali la copertura vaccinale è meno estesa, le epidemie di morbillo tendono a manifestarsi ogni 2-3 anni in dipendenza dal numero di soggetti suscettibili. È necessaria infatti la continua presenza di individui non protetti affinché il virus persista nella popolazione (immunità di gregge). Anche in piccole comunità il virus tende a scomparire per essere riportato dall’esterno quando si raggiunge un numero critico di soggetti suscettibili. L’infezione non ha un andamento stagionale vero e proprio, anche se le ondate epidemiche avvengono di solito nel tardo inverno-inizio primavera. Prevalenza e incidenza per fasce di età dipendono da densità di popolazione e condizioni socio-economiche. Prima dell’introduzione del vaccino nei Paesi industrializzati, l’infezione colpiva prevalentemente bambini di 5-10 anni di età ed era raramente fatale. Nei Paesi in via di sviluppo, l’incidenza massima è a 5 anni di età e, per malnutrizione e mancanza di cure mediche, il morbillo è una delle principali cause di morte infantile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta che a seguito della copertura vaccinale, ormai prossima all’80% nel mondo, la mortalità è diminuita del 78% nel periodo 2000-2008. Nonostante ciò, nel 2014 sono deceduti 114 900 soggetti, il 95% dei quali in Paesi in via di sviluppo e in gran parte con età inferiore a cinque anni. Il vaccino ha determinato una diminuzione del 79% di decessi tra il 2000 e 2014 in tutto il mondo.

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Poiché esiste un solo tipo antigenico del virus, alla malattia segue immunità permanente. Ma mentre sono probabilmente gli anticorpi a proteggere da successive infezioni, è la risposta cellulo-mediata a essere fondamentale nella prima infezione. Infatti, mentre soggetti con deficit nella produzione di immunoglobuline guariscono dall’infezione, nei pazienti con deficit della risposta cellulo-mediata il rash non si sviluppa (morbillo bianco) e l’infezione è molto più grave. In tutti i soggetti, alla fase acuta di infezione e per diverse settimane segue una transitoria riduzione di efficienza del sistema immune dovuta all’infezione diretta di monociti e linfociti B e a uno squilibrio nella produzione di cellule T e citochine coinvolte nella risposta cellulo-mediata. La sostanziale stabilità antigenica e l’esistenza di un solo sierotipo hanno creato le premesse per lo sviluppo di un vaccino molto efficace. Il vaccino utilizzato è vivo attenuato, è stato sviluppato negli anni ’60 del secolo scorso e successivamente migliorato. In Italia sono utilizzati i ceppi Schwartz o Moraten derivati dall’originario ceppo Edmonston B. Inizialmente presente in forma monovalente, è stato sostituito dal vaccino combinato contro morbillo, parotite e rosolia (MMR). Oggi è disponibile anche la versione tetravalente combinata con il vaccino anti-varicella (MMRV). In Italia il vaccino non è obbligatorio ma fortemente raccomandato, viene somministrato al 13°-15° mese di vita ed è seguito da una dose di richiamo a 5-6 anni. A una settimana dalla somministrazione nel 2-5% dei vaccinati si può verificare una lieve sindrome morbilliforme con rash e febbre. Quasi mai si osservano convulsioni ed encefalite. Il titolo di anticorpi sviluppato è più basso rispetto a quello indotto dall’infezione naturale. Non vi sono controindicazioni particolari se non quelle applicate a qualsiasi vaccino attenuato. Il vaccino è efficace anche nella profilassi post-esposizione purché somministrato entro sei giorni.

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Terapia

Non vi sono trattamenti specifici. La ribavirina inibisce il virus in vitro ma il suo beneficio clinico non è certo.

49.8 - Virus della parotite Il virus è stato isolato nel 1945 ed è geneticamente affine al virus parainfluenzale di tipo 2, anche se non vi è alcuna cross-protezione tra i due virus. Esso causa una tra le più comuni malattie dell’infanzia, caratterizzata da ingrossamento di una o entrambe le parotidi (da cui il nome della malattia). La parotite ha un andamento generalmente benigno se contratta in giovane età, mentre può presentare varie sequele nell’adulto.

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Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione

L’uomo è l’unico serbatoio naturale del virus, del quale esiste un solo sierotipo. L’infezione ha inizio con una prima replicazione nelle cellule epiteliali delle vie aeree superiori, quindi si diffonde ai linfonodi locali, dove ha luogo una prima replicazione virale. Attraverso il circolo linfatico, il virus raggiunge linfonodi distali e organi del sistema reticolo-endoteliale. Da qui, dopo un’ulteriore fase replicativa, si ha una fase viremica con la quale il virus si distribuisce nell’organismo per raggiungere le parotidi e altri organi, come testicoli, ovaie, pancreas, tiroide e, talvolta (5-10%), sistema nervoso centrale. Nelle parotidi il virus si moltiplica nelle cellule epiteliali duttali provocando infiammazione locale e, quindi, il caratteristico rigonfiamento. Il coinvolgimento delle parotidi non è comunque sempre presente. Il periodo di incubazione è 2-4 settimane (di norma 16-18 giorni). Segue, nelle forme sintomatiche, l’ingrossamento delle parotidi, che dura 5-7 giorni. Oltre un terzo delle infezioni è asintomatico. Dalla fase finale del periodo di incubazione alla scomparsa dei sintomi il virus è presente in saliva e urine (fig. 49.8).

Capitolo 49 • Paramyxoviridae

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SNC Risposta cellulo-mediata

Parotidi Saliva, urine

IgG

Linfonodi, sistema reticoloendoteliale Linfonodi locali

IgM Viremia

Incubazione

0

3

6

9

12

15

Malattia

18

21

24

27

30

Giorni dall’infezione

Clinicamente, la malattia è preceduta da prodromi aspecifici, quali malessere e astenia, e si manifesta in forma acuta. L’ingrossamento delle parotidi, quasi sempre bilaterale, avviene nel 50% dei casi ed è accompagnato da febbre. Testicoli e ovaie (ma anche altre ghiandole) possono essere interessati, se l’infezione è contratta dopo la pubertà. Nel 20-50% dei soggetti adulti, si può avere quindi ingrossamento di uno o entrambi i testicoli (orchite) che, a causa della mancanza di elasticità della tunica albuginea, è piuttosto doloroso e, se molto prolungato, può portare ad atrofia. L’ingrossamento delle ovaie è segnalato nel 5%, la pancreatite nel 4% dei casi. Il coinvolgimento del sistema nervoso centrale è frequente, ma clinicamente evidente solo nel 10-15% dei casi. La meningite asettica ne rappresenta la patologia più comune; è più frequente nel sesso maschile e può accompagnarsi a encefalite. La meningoencefalite compare di solito a 5-7 giorni dall’ingrossamento delle parotidi ma può svilupparsi anche da parotiti subcliniche. Di solito si ha guarigione completa in una settimana, raramente esita in sordità unilaterale. Nelle forme più gravi di encefalite, la letalità è circa 1%. Infine, l’infezione da virus parotitico può causare, più raramente, la perdita dell’udito in forma transiente e, talvolta, una disfunzione permanente, dovute, probabilmente, al danneggiamento delle cellule della coclea.

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Diagnosi di laboratorio

Nei casi tipici la diagnosi di laboratorio non è necessaria. È bene tuttavia eseguirla in presenza di rigonfiamenti ghiandolari e sospetta meningite. I campioni utilizzati per l’indagine sono saliva, tampone nasofaringeo, sedimento urinario e liquido cerebrospinale raccolti entro pochi giorni dalla comparsa dei sintomi. L’urina può essere positiva fino a due settimane. Il virus può essere ricercato come antigene con sistemi immunoenzimatici o come acido nucleico con metodi molecolari, quali RT-PCR. L’isolamento virale è eseguito su cellule di rene di scimmia sia con sistemi tradizionali sia con shell vial. Con queste ultime il virus può essere rilevato a 2-3 giorni dalla semina mediante anticorpi specifici. L’effetto citopatico consiste in arrotondamento cellulare e formazione di cellule giganti. La ricerca di anticorpi si esegue di solito su due campioni e la diagnosi è confermata in presenza di IgM, presenti dalle fasi iniziali di malattia per circa 4-6 settimane, o di un incremento in titolo di almeno quattro volte. I metodi più utilizzati sono ELISA e immunofluorescenza.

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Figura 49.8 Storia naturale dell’infezione da virus della parotite. Dopo l’iniziale replicazione nelle prime vie aeree, il virus migra ai linfonodi locali, quindi, attraverso il circuito linfatico, si dissemina a tutti i linfonodi e al sistema reticolo-endoteliale. Per viremia il virus si diffonde poi a tutto il corpo dando inizio a un’infezione sistemica. Il virus giunge alle parotidi, dove si replica, causando infiammazione locale e il classico rigonfiamento, segno patognomonico della malattia.

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Epidemiologia – Immunità

Il virus è presente in tutto il mondo come un solo tipo antigenico, è piuttosto stabile ed è trasmesso per contatto diretto o con goccioline di saliva durante il periodo di incubazione e nella fase iniziale della malattia. L’infezione è estremamente contagiosa e ha incidenza massima in inverno e primavera nei climi temperati. Come per il morbillo, si verificano focolai epidemici se l’immunità di popolazione scende al di sotto di un certo livello. In assenza di vaccinazione, il 90% dei soggetti a 15 anni di età ha contratto l’infezione. I soggetti con infezione inapparente sono comunque contagiosi, rendendo quindi difficile il controllo dell’infezione. L’immunità indotta dall’infezione anche nella forma subclinica è permanente. Gli anticorpi contro le proteine strutturali compaiono rapidamente nel siero (alcuni a 3-7 giorni dalla comparsa dei sintomi) e permangono per molti anni, mentre il declino anticorpale è più frequente nei soggetti vaccinati. Anticorpi contro la HN persistono per tutta la vita e conferiscono immunità permanente. Oltre a IgG, vengono prodotte IgA ad attività neutralizzante nelle secrezioni nasali. Gli anticorpi materni proteggono efficacemente il neonato fino a sei mesi di vita. Risposta cellulo-mediata e interferon sono prodotti sin dalle prime fasi di infezione. È disponibile un efficace vaccino vivo attenuato che induce un’infezione subclinica e non contagiosa. È stato sviluppato negli anni ’60 del secolo scorso ed è prodotto su linee cellulari di embrione di pollo. In Italia il vaccino è somministrato in combinazione con in vaccini per morbillo e rosolia (vaccino trivalente MMR; vedi sopra). Non sono segnalate particolari conseguenze post-vaccinali, compresa la meningite asettica inizialmente ritenuta una possibile complicazione. Il vaccino induce anticorpi in oltre il 95% dei soggetti.

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Terapia

Non esiste terapia antivirale specifica.

49.9 - Virus Hendra e Nipah Questi virus hanno caratteristiche molecolari tra loro simili, ma distinte dagli altri paramyxovirus. L’ospite naturale dei virus Hendra e Nipah è il pipistrello. Tuttavia, lo spettro d’ospite non è ristretto. Oltre a pipistrelli di specie e aree geografiche diverse, entrambi i virus possono infettare uomo, gatti, cani, maiali, cavalli e altri mammiferi. Questa singolare promiscuità sembra dovuta al fatto che essi utilizzano come recettore cellulare una glicoproteina (ephrin B2), espressa in molti istotipi cellulari, presente nella maggior parte dei vertebrati e molto conservata a livello evolutivo. Per l’alto grado di pericolosità, gli henipavirus possono essere studiati solo in laboratori di massima sicurezza (livello di biosicurezza 4).

■■

Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione

L’infezione da virus Nipah e Hendra è sistemica e asintomatica nell’ospite naturale. Vengono infettate principalmente cellule epiteliali, ma anche altre possono essere colpite. Il virus Nipah sembra essere più patogeno. L’infezione si manifesta dopo soli 3-5 giorni di incubazione con febbre, cefalea e, nel 25% dei soggetti, difficoltà respiratorie. La progressione è rapida, in 1-2 giorni il soggetto perde lucidità e sopraggiunge il coma. All’esame autoptico la lesione predominante è una vasculite sistemica ma tutti gli organi sono interessati. Si ritrovano grandi quantità di antigene virale in endotelio vascolare, alveoli e bronchioli polmonari e sistema nervoso centrale. L’infezione si può presentare con sintomi modesti come febbre, mal di testa, simil-influenza oppure in forma più grave con sindromi neurologiche o polmonari. In alcuni pazienti, l’encefalite può evolvere in forma cronica, alternando periodi asintomatici a encefaliti ricorrenti

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Capitolo 49 • Paramyxoviridae

che possono ricomparire in forma grave anche a distanza di 2-4 anni dall’episodio iniziale. La mortalità nelle infezioni acute è del 70% circa, nelle croniche del 20%. La mortalità è intorno al 40%.

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Diagnosi di laboratorio

Gli henipavirus crescono su un ampio spettro di linee cellulari; tuttavia, data l’estrema pericolosità dei virus, all’isolamento si preferisce la ricerca dell’antigene o dell’acido nucleico. La ricerca del virus è eseguita su siero, liquido cefalorachidiano e tamponi faringei con test molecolari. La ricerca di anticorpi (IgM e IgG) è condotta su siero e liquor con test immunoenzimatici.

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Epidemiologia - Immunità

Non sono note le modalità di trasmissione da pipistrelli a uomo e altri mammiferi. Nell’infezione acuta gli henipavirus sono abbondanti in secrezioni respiratorie e urine. Nei pochi casi accertati, il passaggio all’uomo è avvenuto per contatto diretto con tessuti o secrezioni di cavalli e maiali infetti. La trasmissione uomo-uomo è probabile, ma non è stata provata. La distribuzione geografica dei virus Hendra e Nipah corrisponde a quella delle specie animali “reservoir” del virus, in Australia (Hendra) e Sud-Est asiatico (Nipah), rispettivamente. I casi di trasmissione del virus Nipah all’uomo, verificatisi in Bangladesh, sono da inputare sia a contatto interumano che al bere linfa di palma da dattero, contaminata da urine di pipistrello infetto. Sembra invece che la trasmissione del virus Hendra all’uomo sia dovuta a un contatto diretto con i cavalli infetti.

■■

Terapia

La ribavirina si è dimostrata attiva in vitro contro entrambi i virus, mancano tuttavia studi controllati relativamente alla sua efficacia clinica. Sono in fase di sviluppo anticorpi neutralizzanti per immunizzazione passiva. Non sono disponibili vaccini per l’uomo ma sono in fase di valutazione vaccini sperimentali con glicoproteine dell’envelope virale, per la profilassi degli animali da allevamento. Le misure di contenimento dell’infezione sono mirate all’isolamento di animali/persone infette con impiego di adeguate misure di protezione.

Bibliografia essenziale Alfonso, C.L. et al. (2016), «Taxonomy of the order Mononegavirales», Arch. Virol, 161, pp. 2351-2360, 1026. Lamb, R.A., Parks, G.D., «Paramyxoviriridae: the viruses and their replication», in D.M. Knipe, P.M. Howley, D.E. Griffin, R.A. Lamb, M.A. Martin, B. Roizman, S.E. Strauss (a cura di), Fields Virology, 6a ed., Lippincott Williams and Wilkins, Filadelfia, 2013. Lealand, D.S., «Measles and mumps», in B. Detrick, R.G. Hamilton, J.D. Folds (a cura di), Manual of Molecular and Clinical Laboratory Immunology, 7a ed., American Society for Microbiology, Herndon, VA, 2006. Piedra, P.A., Boivin, G., «Respiratory syncytial virus, human metapneumovirus, and the parainfluenza viruses», in B. Detrick, R.G. Hamilton, J.D. Folds (a cura di), Manual of Molecular and Clinical Laboratory Immunology, 7a ed., American Society for Microbiology, Herndon, VA, 2006. Samal, S.K., The Biology of Paramyxoviruses, Caster Academic Press, Portland, OR, 2011.

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Capitolo

50 • Rotavirus e gastroenterite infantile • Meccanismi patogenetici • Orthoreovirus • Rotavirus • Orbivirus • Coltivirus • Seadornavirus

Reoviridae

La famiglia Reoviridae è una delle più grandi famiglie di virus e l’unica delle otto famiglie di virus con genoma a RNA a doppio filamento in grado di infettare i mammiferi. Comprende 15 generi, di cui cinque sono in grado di infettare l’uomo e gli animali: Orthoreovirus, Rotavirus, Orbivirus, Coltivirus e Seadornavirus; i restanti infettano le piante, gli insetti o i pesci. I più importanti patogeni umani sono i rotavirus, agenti diffusi in tutto il mondo e frequenti responsabili di gastroenterite acuta infantile. Nei Paesi in via di sviluppo, quali Africa, Asia e America Latina, circa 2 milioni e mezzo di bambini di età inferiore a 5 anni muoiono ogni anno in seguito a episodi diarroici; di questi, almeno 450 000 sono vittime di un’infezione da rotavirus. Nei Paesi industrializzati il tasso di mortalità è molto basso, ma i rotavirus rappresentano comunque un problema sanitario per la frequenza di ospedalizzazione. Appartengono ai tre generi Orbivirus, Coltivirus e Seadornavirus agenti virali trasmessi da vettori artropodi, responsabili di zoonosi che infettano i mammiferi. Nell’uomo le manifestazioni principali sono malattie febbrili e più raramente encefalite. Virus appartenenti a questi generi sono attualmente emergenti nel Sud-Est asiatico e in Cina e pongono problemi di diagnosi differenziale con agenti quali Japanese encephalitis virus e virus dengue presenti nelle stesse aree geografiche; inoltre, sono disponibili poche informazioni sul loro impatto epidemiologico nei Paesi endemici e sulla possibile diffusione verso i Paesi europei. Gli orthoreovirus sono stati associati a infezioni asintomatiche o paucisintomatiche a carico del tratto respiratorio ed enterico principalmente in età infantile, sporadicamente meningite asettica e manifestazioni esantematiche dell’infanzia (tab. 50.1). I Reoviridae possiedono un genoma segmentato con 9-12 segmenti di dsRNA; questo riveste un ruolo importante nella loro rapida evoluzione in quanto favorisce il riassortimento genico in caso di coinfezione tra ceppi di uno stesso genere (tab. 50.2). Il termine “reovirus” (virus respiratori enterici orfani) è stato coniato da Sabin nel 1959, in seguito al loro isolamento dagli apparati respiratori e intestinali umani in assenza di associazioni patologiche note. Il primo isolamento risale al 1951, per cui i reovirus non possono essere considerati virus nuovi, ma piuttosto virus noti da tempo. Sono, infatti, stati utilizzati nei primi lavori in vitro sulla sintesi dell’RNA e il capping in 5′ degli mRNA è stato scoperto su RNA di reovirus.

Tabella 50.1 Reoviridae di interesse umano e patologie correlate.

Genere

Patologie

Rotavirus

Gastroenterite acuta infantile

Orthoreovirus

Infezioni paucisintomatiche intestinali e respiratorie Atresia biliare extraepatica neonatale (?) Sporadicamente meningite asettica e manifestazioni esantematiche

Orbivirus, Coltivirus, Seadornavirus

Zoonosi, trasmesse da artropodi Malattie febbrili e rari casi di encefalite

Capitolo 50 • Reoviridae

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Tabella 50.2 Proprietà dei Reoviridae.

Virione

Icosaedrico, 60-80 nm, rivestito da più di un capside

Genoma

RNA a doppio filamento, lineare, segmentato (10-12 segmenti)

RNA trascrittasi

Associata al genoma

Envelope

Assente (envelope transitorio nella morfogenesi dei rotavirus)

Replicazione

Citoplasmatica

Maturazione

Con lisi cellulare

Variabilità genomica

Elevata per riassortimento genico

Resistenza

Nell’ambiente e a detergenti

50.1 - Rotavirus Classificazione e tipi I rotavirus sono classificati come genere della famiglia Reoviridae. In base alle specificità antigeniche della proteina capsidica VP6 e alla variabilità genetica, i rotavirus sono stati differenziati in almeno 8 diversi gruppi o specie (A-H). Le infezioni umane da rotavirus sono principalmente causate da virus del gruppo A, diffusi agenti di gastroenterite acuta in bambini piccoli e di infezioni intestinali in numerose specie animali; meno comunemente sono causate da virus dei gruppi B o C. I rotavirus di gruppo B sono stati descritti per la prima volta in Cina come agenti di importanti epidemie di diarrea in adulti. I rotavirus di gruppo C sono stati inizialmente descritti nei maiali e più tardi confermati come patogeni umani, particolarmente in bambini con diarrea in numerosi Paesi. I ceppi di rotavirus ADRV-N (New adult diarrhea virus) e B219 rilevati in pazienti adulti con diarrea in Bangladesh e Cina sono stati recentemente proposti come membri di un gruppo distinto da A, B e C e denominato rotavirus H. La specificità di sottogruppo (SG), che è anche determinata sulla base di VP6, è stata utilizzata per caratterizzare le proprietà antigeniche dei vari isolati di rotavirus negli studi epidemiologici. La proteina capsidica interna VP6 consente la classificazione dei rotavirus di gruppo A nei sottogruppi SG I, SG II, SG I + II e SG non-I + II, in base alla reattività con anticorpi monoclonali SG-specifici. Le due proteine capsidiche esterne, VP7 (una glicoproteina o antigene di tipo G) e VP4 (una proteina proteasi-sensibile o antigene di tipo P), inducono indipendentemente la produzione di anticorpi neutralizzanti e protettivi e costituiscono la base per un sistema binario di sierotipizzazione dei rotavirus. In base alle linee guida di questo sistema di tipizzazione, il genotipo G è indicato con un numero immediatamente dopo la lettera G, mentre il genotipo P con un numero in parentesi quadra: GnP[n]. I rotavirus di gruppo A sono rispettivamente distinti in 15 tipi G e in 25 tipi P; 10 tipi G e 11 tipi P infettano l’uomo, gli altri varie specie animali. Il 95% delle infezioni da rotavirus nell’uomo sono causate dai ceppi G1P[4], G2P[4], G3P[8], G4P[8] e G9P[8]. Sono note altre combinazioni G-P e altre nuove se ne producono per il frequente riassortimento genomico che si verifica in caso di infezione doppia di una stessa cellula. Il riassortimento si realizza nell’ambito di ceppi di gruppo A e può coinvolgere due ceppi umani o ceppi umani e animali. Altri meccanismi di variabilità genomica e antigenica dei rotavirus sono rappresentati dall’accumulo di mutazioni puntiformi e dalla possibilità di salti di specie con diretta introduzione nell’uomo di ceppi animali. La glicoproteina non strutturale NSP4 è stata oggetto di ampi studi a causa delle sue molteplici funzioni nella morfogenesi, nella patogenesi e nell’attività enterotossica

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Tabella 50.3 Sistema di classificazione degli 11 segmenti genomici di rotavirus proposto dal Rotavirus Classification

Working Group.

Segmento genomico

Proteine

Valori di cut-off di identità nucleotidica (%)

Genotipo

Nome del genotipo

1

VP1

83

6R

RNA polimerasi-RNA dipendente

2

VP2

84

6C

Proteina del core

3

VP3

81

7M

Metiltransferasi

4

VP4

80

32 P

Sensibile a proteasi

5

NSP1

79

16 A

Antagonista di interferone

6

VP6

85

13 I

Capside interno

7

NSP3

85

8T

Enhancer di traduzione

8

NSP2

85

6N

NTPasi

9

VP7

80

23 G

Glicosilato

10

NSP4

85

12 E

Enterotossina

11

NSP5

91

8H

Fosfoproteina

[Modificata da J. Matthijnssens et al. (2008), «Recommendations for the classification of group A rotaviruses using all 11 genomic RNA segments», Arch Virol, 153, pp. 1621-1629.]

dei rotavirus. L’analisi di sequenza del gene NSP4 di ceppi di rotavirus umani e animali ha rivelato almeno 6 distinti gruppi genetici NSP4, denominati A-F. Nei rotavirus umani sono stati trovati solo i gruppi genetici A, B e C. Più recentemente, il Rotavirus Classification Working Group (RCWG) ha proposto un nuovo sistema di classificazione di tutti gli 11 segmenti del genoma dei rotavirus. Tenendo conto di valori di cut-off delle percentuali di identità nucleotidica, sono stati definiti differenti genotipi per ciascun segmento genomico (tab. 50.3).

Struttura e morfologia Il termine “rotavirus” deriva dal caratteristico aspetto a ruota (dal latino rota) di questi virus, che li differenzia da altri della stessa famiglia. I virioni non presentano envelope, hanno un diametro di 70 nm e sono costituiti da tre strutture capsidiche icosaedriche. Il genoma è costituito da 11 segmenti di RNA bicatenario (dsRNA) (fig. 50.1). I segmenti genomici variano in dimensione da 667 (segmento 11) a 3302 (segmento 1) paia di basi (bp), con una dimensione totale del genoma di circa 18522 bp. Gli undici segmenti di RNA formano quattro gruppi differenti per dimensione sulla base dell’ordine dei pattern di migrazione elettroforetica su gel di poliacrilamide (PAGE). I pattern elettroforetici vengono definiti elettroferotipi (fig. 50.2); vengono riconosciuti quattro segmenti di dimensioni grandi, due di dimensioni medie, tre di dimensioni piccole e due di dimensioni molto piccole. Il segmento che migra più lentamente è definito 1, mentre il più rapido 11. Il caratteristico profilo di migrazione degli undici segmenti su PAGE è ampiamente utilizzato per caratterizzare i rotavirus in feci e colture cellulari. Nei rotavirus animali e umani sono stati descritti tre profili marcatamente distinti (lungo, corto, super-corto). I genomi dei rotavirus generalmente contengono una singola open reading frame (ORF) entro le regioni non codificanti 5′ e 3′ terminali. L’analisi delle proteine codificate da ciascuno degli 11 segmenti ha evidenziato che il genoma dei rotavirus codifica per sei proteine strutturali (VP1, VP2, VP3, VP4, VP6 e VP7) e sei proteine non strutturali (NSP1, NSP2, NSP3, NSP4, NSP5/NSP6). NSP5 e NSP6 sono codificate dal segmento 11 utilizzando differenti ORF. Il capside

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Figura 50.1 Struttura e organizzazione genomica di un rotavirus.

VP2 VP4 VP7 VP6

1

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3

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6

7

8

9

10

VP1

VP2

VP3

VP4

NSP1

VP6

NSP3

NSP2

VP7

NSP4

11

NSP5 + NSP6

VP5 + VP8

esterno è principalmente costituito dalle proteine VP4 e VP7. Lo strato intermedio è costituito esclusivamente dalla proteina virale espressa più abbondantemente, VP6, che definisce le specificità di gruppo e sottogruppo (SG). Lo strato interno è formato dalla proteina VP2, nota come RNA binding protein. Gli enzimi di trascrizione VP1 (RNA polimerasi virale) e VP3 (guanililtransferasi) sono attaccati come complesso eterodimerico all’interno della proteina VP2.

Replicazione I rotavirus infettano in primo luogo gli enterociti maturi delle porzioni intermedia e superiore dei villi del tenue, determinando quindi diarrea. La fase iniziale dell’infezione consiste nell’attacco del virus alla superficie della cellula ospite, seguita dalla penetrazione della particella virale nel citoplasma. Questi eventi dipendono dal riconoscimento di specifici recettori sulla superficie cellulare. Entrambe le proteine del capside esterno VP7 e VP4 sono coinvolte nella fase iniziale del ciclo replicativo virale con funzioni essenziali, tra cui il legame al recettore e la penetrazione nella cellula, rappresentando quindi importanti target di anticorpi neutralizzanti. Sembra che differenti recettori cellulari, uno dei quali costituito da acido sialico, leghino gli antirecettori virali. L’infettività dei rotavirus può essere aumentata significativamente dal pretrattamento proteolitico con tripsina, in quanto il taglio specifico di VP4 (776 aminoacidi) in due polipeptidi, VP8 (aminoacidi 1-231) e VP5 (aminoacidi 248-776), facilita la penetrazione del virus nella cellula. La penetrazione si realizza per endocitosi e le particelle virali sono trasportate nei lisosomi, dove si realizza un parziale denudamento, in quanto l’RNA rimane sempre rivestito. La replicazione dell’RNA virale avviene a livello citoplasmatico. Gli mRNA risultanti fungono da messaggeri per la traduzione nelle proteine virali o come stampi per la replicazione dei genomi della progenie. Dopo la traduzione di una sufficiente quantità di proteine virali, si formano particelle subvirali che contengono una miscela delle proteine strutturali VP1, VP2, VP3 e VP6 e delle proteine non strutturali, oltre a una copia di ciascuno degli 11 segmenti genomici. Durante la formazione delle particelle, una RNA polimerasi-RNA dipendente (replicasi) sintetizza il filamento negativo sullo stampo del filamento positivo, originando un genoma dsRNA che viene avvolto in una particella a doppio strato. La fase successiva è rappresentata dalla maturazione della

A

B

C

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Figura 50.2 Elettroferotipi di rotavirus.

B

B

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particella per aggiunta delle proteine capsidiche dello strato esterno VP4 e VP7 al virione immaturo. Infine, il virione maturo viene rilasciato dalla cellula ospite per lisi. La morte cellulare è preceduta dal blocco della sintesi proteica e del DNA cellulare. Le proteine non strutturali sono coinvolte nella morte cellulare, causando un aumento dei livelli di ioni calcio e alterazioni delle membrane cellulari.

■■

Patogenesi e manifestazioni cliniche – Patogenicità

Tabella 50.4 Meccanismi pato-

genetici dei rotavirus.

Trasmissione fecale-orale, respiratoria (?) Replicazione negli enterociti apicali dei villi intestinali Liberazione di una enterotossina virale Infezione citocida Ridotto assorbimento dei nutrienti con accumulo di carboidrati nel lume intestinale Ripopolazione dei villi con cellule immature secretorie Attivazione del sistema nervoso enterico Diarrea acquosa, vomito Manifestazioni cliniche legate all’età: • neonati: infezioni asintomatiche; • prima infanzia: infezioni sintomatiche; • adulti: infezioni asintomatiche

I rotavirus sono trasmessi per via fecale-orale. Una modesta dose infettante ( 1012 virioni per grammo di feci. Vari meccanismi sono stati coinvolti nell’insorgenza della diarrea. La necrosi degli enterociti maturi infettati e la loro esfoliazione contribuisce alla sintomatologia riducendo la digestione e l’assorbimento di nutrienti. Ciò determina un accumulo di lattosio e di altri disaccaridi nel lume intestinale e quindi un aumento della pressione osmotica con richiamo di acqua. La successiva ripopolazione dei villi da parte di cellule secretorie immature conduce all’insorgenza di diarrea secretoria con perdita idroelettrolitica. Concorrono inoltre alla patogenesi l’attivazione del sistema nervoso enterico e la proteina NSP4. In particolare, un modello murino di infezione da rotavirus suggerisce che NSP4 agisca come un’enterotossina, probabilmente aumentando la concentrazione intracellulare di calcio. Infatti, la somministrazione di NSP4 purificata è in grado di mimare le manifestazioni cliniche inducendo diarrea. L’incremento del calcio intracellulare determina un efflusso di cloro, sodio e acqua con diarrea secretoria. Infine, analogamente alla maggior parte delle infezioni virali, i rotavirus determinano “switch-off” della biosintesi proteica da parte della cellula e sovvertono il macchinario cellulare al fine di produrre la progenie virale, con morte degli enterociti. La percentuale di enterociti maturi infetti nei villi eccede la produzione di nuovi enterociti a livello delle cripte, determinando appiattimento dei villi e iperplasia delle cripte. Le cellule immature delle cripte sono per propria natura secretorie, pertanto anche la rapida rigenerazione delle cellule criptiche concorre alla diarrea acquosa (tab. 50.4). Recentemente, anche per i rotavirus è stato rilevato che l’infezione può non restare localizzata al tratto digerente, ma divenire sistemica con diffusione ad altri organi, tra cui il sistema nervoso. Le possibili implicazioni cliniche di ciò restano da chiarire. Le infezioni da rotavirus interessano soggetti di tutte le età, tuttavia le manifestazioni cliniche variano con l’età. Infatti, i neonati entro i primi mesi solitamente hanno infezioni asintomatiche, mentre i bambini di 6-24 mesi manifestano per lo più un’infezione sintomatica con diarrea, vomito e, sovente, febbre. In neonati e bambini piccoli, i rotavirus possono essere associati a manifestazioni neurologiche; in particolare, in questi soggetti i rotavirus sono la più comune causa di convulsioni associate a gastroenterite. La malnutrizione e la disidratazione sono fattori di rischio di sintomatologia più grave. Gli individui adulti quasi sempre presentano infezioni asintomatiche, mentre forme sintomatiche e talora con protratta eliminazione fecale del virus possono occorrere in pazienti adulti immunocompromessi. Una sintomatologia severa con prognosi infausta può verificarsi a causa di disidratazione e squilibrio idroelettrolitico acuto con shock. Il diverso decorso dell’infezione da rotavirus dipende dalla risposta immunitaria dell’ospite. La risposta immunitaria innata contribuisce a limitare l’infezione, in quanto

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una buona produzione di interferone è associata a una minore durata della sintomatologia diarroica. Successivamente, la risposta immunitaria specifica, umorale e cellulare, è coinvolta nel controllo della replicazione virale e nella protezione dalle reinfezioni. Alti livelli di IgA secretorie virus-specifiche a livello della mucosa intestinale sono considerati un valido marcatore di protezione nei confronti di successive infezioni sintomatiche. Le IgA specifiche raggiungono un picco a 10 giorni dall’infezione e persistono per oltre 2 anni a concentrazioni decrescenti. In effetti, la protezione nei confronti di un successivo episodio di diarrea da rotavirus dura circa 2 anni, tuttavia non è completa e sono necessarie successive reinfezioni per generare una protezione duratura. Questo perché la risposta iniziale è omotipica con produzione quasi esclusiva di anticorpi sierotipospecifici; durante le infezioni successive, sono invece prodotti anticorpi crossreattivi verso più sierotipi e quindi protettivi nei confronti di ceppi con varie specificità G-P. Ciò è dovuto alla presenza di epitopi sia tipo-specifici sia crossreattivi in VP7 e VP4, che inducono anticorpi neutralizzanti. Pertanto, sono necessarie più di due infezioni da rotavirus per conseguire un’effettiva protezione. La ripetuta esposizione durante l’età pediatrica contribuisce a consolidare l’immunità e spiega la rarità delle manifestazioni cliniche a partire dall’adolescenza. Dopo i primi 5 anni di vita, in pratica tutta la popolazione presenta anticorpi circolanti contro i rotavirus. Nell’ospite immunocompromesso, l’infezione da rotavirus può diventare persistente. I meccanismi molecolari alla base di questa relazione virus-ospite sono attualmente poco conosciuti. Sono stati inoltre descritti casi di gravi patologie in pazienti trapiantati di organo solido: in particolare, 200 casi di infezione con 8 decessi correlati con un’incidenza media del 3% (187 infezioni su 6176 riceventi). In questi soggetti l’infezione da rotavirus era associata a gravi complicanze conseguenti a gastroenterite (con necessità di ricovero in terapia intensiva, reidratazione e supporto nutrizionale) e occasionalmente contribuiva a rigetto cellulare acuto. Si ritiene che i rotavirus possano interferire con l’assorbimento e il metabolismo di alcuni agenti immunosoppressivi antirigetto. Recenti studi hanno rilevato un’associazione tra il rischio di sviluppare celiachia in bambini geneticamente predisposti (genotipo HLA associato a malattia celiaca) e frequenza di infezioni da rotavirus. È stato ipotizzato che i rotavirus potrebbero contribuire alla patogenesi della celiachia con un meccanismo di mimetismo molecolare. La proteina VP7 è omologa a un auto-antigene riconosciuto dalle IgA dei soggetti affetti da celiachia in fase attiva che non hanno eliminato il glutine dalla dieta; mentre queste IgA sono assenti nei pazienti che seguono la dieta priva di glutine, nei soggetti sani e nei pazienti affetti da altre patologie autoimmuni. Si ipotizza quindi che quando un soggetto geneticamente predisposto alla celiachia viene infettato da rotavirus, produce anticorpi che riconoscono VP7 e anche una proteina simile presente sulle cellule epiteliali intestinali, scatenando una risposta infiammatoria. Studi molto recenti, tuttavia, non hanno evidenziato una maggiore reattività immunitaria verso i rotavirus nei bambini con celiachia.

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Diagnosi di laboratorio

Il quadro clinico non è sufficiente per distinguere l’infezione da rotavirus da altre cause di gastroenterite. La diagnosi di laboratorio si effettua cercando il virus su campioni fecali, ma nel caso non siano disponibili feci si possono anche usare tamponi rettali e pannolini sporchi. Sono utilizzabili tecniche convenzionali e tecniche molecolari. Il campione deve essere raccolto tra 1 e 4 giorni dall’esordio clinico e conservato a 4 °C. In caso di conservazione a lungo termine, le feci devono essere congelate ad almeno –20 °C per tecniche molecolari. Inizialmente per la visualizzazione diretta del materiale fecale era utilizzata la microscopia elettronica; quest’ultima consente il rilevamento dell’80-90% dei campioni positivi in quanto i virioni hanno una morfologia caratteristica e dimensioni di 70 nm, sebbene la tecnica sia poco rapida e richieda personale esperto.

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Per aumentare la sensibilità si può effettuare l’immunoelettromicroscopia che utilizza un anticorpo specifico per aggregare le particelle virali e consente di discriminare tra i gruppi A, B e C che sono morfologicamente identici. Successivamente sono state sviluppate tecniche immunoenzimatiche (ELISA), più sensibili, e di agglutinazione passiva al lattice (PPAT), meno sensibili. Sono inoltre disponibili saggi immunocromatografici e PAGE; quest’ultimo consente di evidenziare il caratteristico profilo di migrazione degli 11 segmenti genomici. Il saggio molecolare più utilizzato è la RT-PCR, che è altamente sensibile, specifica e di facile esecuzione. Il marcatore più attendibile per la diagnosi di infezione da rotavirus negli uomini è il riscontro del genoma virale nelle feci. Per facilitare l’analisi molecolare si deve effettuare l’amplificazione dell’RNA genomico e/o il sequenziamento di VP4 e VP7 per la genotipizzazione. Più rapide rispetto alla RT-PCR classica sono la real-time RT-PCR e la PCR-ELISA.

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Epidemiologia

I rotavirus sono i più comuni agenti di gastroenterite acuta nei bambini piccoli (6-24 mesi) in tutto il mondo. Ogni anno sono responsabili di circa 450 000 morti in questa fascia di età, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. In Europa, la mortalità è bassa per l’attuazione della terapia reidratante, ma la malattia è comunque molto diffusa con 100 000-200 000 casi l’anno, con ospedalizzazione nel 10-30% dei casi e rischio di trasmissione nosocomiale. I rotavirus sono responsabili del 30-50% dei casi di diarrea nosocomiale pediatrica. L’elevata resistenza dei rotavirus nell’ambiente (settimane) e sulle mani (> 4 ore) e la bassa dose infettante contribuiscono alla notevole diffusione. Gli studi epidemiologici del gruppo A hanno identificato numerose combinazioni di genotipi G e P nell’ambito della stessa o di diverse aree geografiche. Stante la distribuzione ubiquitaria, i rotavirus presentano pattern di distribuzione stagionale diversi a seconda dei vari climi. Nei Paesi con clima temperato, il picco di incidenza si osserva in inverno, mentre nei Paesi in via di sviluppo con clima tropicale o subtropicale l’infezione è possibile lungo tutto l’anno. Almeno 27 genotipi G e 37 P sono stati descritti nell’uomo e in varie specie animali. È stato evidenziato che i ceppi di rotavirus con 6 determinate combinazioni di genotipi G e P – G1P[8], G2P[4], G3P[8], G4P[8], G9P[8] e G9P[6] – sono responsabili della maggior parte delle infezioni da rotavirus. Tuttavia, numerosi studi hanno evidenziato che i pattern di distribuzione dei genotipi G e P sembrano avere peculiarità regionali e locali ed è in crescita il numero di combinazioni inusuali di genotipi. In differenti aree geografiche del mondo sono stati descritti tipi inusuali di G e P, quali G5, G6, G8, G10, G12, P[3], P[9], P[11] e P[14]. Si tratta di ceppi inusuali o simil-animali, quali G5P[6] isolato in Cina e Vietnam, G11P[25] in Nepal, G3P[3] in Thailandia e Italia, G12P[8] in Slovenia, Nepal e Ungheria, G3P[9] in Thailandia e Giappone e G6P[14], G10P[14] in India.

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Terapia e profilassi

La terapia delle infezioni da rotavirus è sintomatica e volta al controllo della disidratazione e della perdita idroelettrolitica. Nei bambini che non sono gravemente disidratati, la reidratazione per via orale è il trattamento di scelta, mentre nei casi di grave disidratazione e shock con incapacità di bere, la reidratazione per via endovenosa è la procedura salvavita preferenziale. La diffusione delle infezioni da rotavirus è risultata indipendente dalle condizioni socio-sanitarie. La possibilità di indurre una risposta anticorpale protettiva ha condotto allo sviluppo di vaccini costituti da ceppi virali vivi attenuati. Nel 1999 il RotaShield®, un vaccino altamente efficace contro i rotavirus, è stato ritirato dopo meno di un anno dall’immissione in commercio negli Stati Uniti, in quanto associato a sporadici episodi di invaginazione intestinale. Si trattava di un vaccino tetravalente costituito da un ceppo di rotavirus di scimmia, naturalmente attenuato per l’uomo e con specificità G3, e

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da tre ceppi dello stesso virus modificati mediante riassortimento genomico al fine di esprimere specificità di tipo G1, G2 e G4. Nel 2006 sono stati brevettati altri due vaccini anti-rotavirus, entrambi a base di virus vivi attenuati, da somministrare per via orale: un vaccino monovalente derivato da un ceppo umano con specificità G1P[8](Rotarix®) e un vaccino pentavalente umano-bovino riassortante con specificità G1-G4 e P[8] (RotaTeq®). Entrambi hanno evidenziato profili di efficacia e sicurezza molto buoni in trial clinici, senza alcun aumento del rischio di invaginazione intestinale. Considerati ugualmente efficaci, forniscono una protezione del 90-100% contro forme gravi da rotavirus e del 74-85% contro la diarrea da rotavirus di qualsiasi gravità. Per entrambi la protezione si estende al secondo anno di follow-up. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di includere la vaccinazione contro il rotavirus nei programmi nazionali di immunizzazione nelle regioni in cui i dati di efficacia mostrano un impatto significativo sulla salute pubblica e con adeguate risorse strutturali ed economiche. I pediatri consigliano di vaccinare tutti i lattanti in buone condizioni di salute iniziando entro i 3 mesi e terminando il ciclo vaccinale entro i 6 mesi (due o tre dosi a seconda del vaccino utilizzato). Il vaccino non è stato studiato in altre età. Sono stati segnalati casi di malattia di Kawasaki dopo somministrazione del vaccino pentavalente, tuttavia sebbene questo effetto avverso sia riportato nella scheda tecnica del prodotto, non sembra che l’incidenza sia superiore rispetto ai bambini non vaccinati. A luglio 2010, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha disposto il divieto di utilizzo a scopo cautelativo dei due vaccini in seguito al riscontro della presenza di minime quantità di particelle virali di porcine circovirus 1 e 2 (PCV-1 e PCV-2); tuttavia, il divieto è stato revocato dopo pochi giorni a seguito di una revisione dei dati in quanto il vaccino continua ad avere un rapporto beneficio/rischio positivo e gli agenti virali non sono noti causare alcuna patologia nell’uomo. Per prevenire le infezioni nosocomiali da rotavirus si consiglia l’isolamento dei pazienti con gastroenterite da quelli con altre patologie e un’attenta igiene personale con frequenti lavaggi delle mani e accurata igiene ambientale, data la capacità di mantenere l’infettività fino a 10 giorni. I rotavirus sono suscettibili alla disinfezione con etanolo al 95%, lisoformio e formalina.

50.2 - Orthoreovirus Classificazione e tipi Gli orthoreovirus infettano invertebrati, piante e vertebrati. In base ai dati di sequenza l’organizzazione tassonomica più recente prevede 5 raggruppamenti di specie (I-V): I. prototipo dei Mammalian orthoreovirus, tra cui il virus Ndelle; II. Avian orthoreovirus; III. Nelson Bay orthoreovirus e virus correlati, tra cui il virus Pulau; IV. Baboon orthoreovirus; V. Reptilian orthoreovirus. Gli orthoreovirus sono raggruppati, in base alla specificità antigenica della proteina σ1, in 3 sierotipi, differenziati sierologicamente mediante test di neutralizzazione e di emoagglutinazione. Ciascun sierotipo è rappresentato da ceppi prototipi isolati dall’uomo: tipo 1 Lang (T1L), tipo 2 Jones (T2J), tipo 3 Abney (T3A) e tipo 3 Dearing (T3D).

Struttura e morfologia Il virione ha un diametro di 70-80 nm, senza envelope, con due capsidi concentrici a simmetria icosaedrica. Il capside esterno è formato dalle proteine λ2, μ1, σ1 e σ3; il capside interno da λ1, λ3, μ2 e σ2. La proteina σ1 è fondamentale per l’infettività virale, in quanto protrude dal capside e funge da antirecettore virale.

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Figura 50.3 Struttura e organizzazione genomica di un orthoreovirus.

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σ1

λ2

λ2

µ1 σ3

µ1

λ2 σ2

σ1 λ3 dsRNA

dsRNA

λ2

µ2

dsRNA

Virione completo (73 nm)

ISVP (64 nm)

Core (51 nm)

L1

L2

L3

M1

M2

M3

S1

S2

S3

S4

λ3

λ2

λ1

µ2

µ1

µNS + µNSC

σ1 + σ1s

σ2

σNS

σ3

La proteina λ1 è il principale componente della transcrittasi virale. La cellula infetta può rilasciare il virus sotto forma, oltre che di virione completo, anche di particella infettiva subvirionica (ISVP) di circa 64 nm o di core di 51 nm. Le ISVP si differenziano per la mancanza della proteina σ3; il core è costituito da λ1 ed è ulteriormente privo di μ1 e σ1. Il genoma virale consta di circa 23 500 bp ed è costituito da 10 segmenti a dsRNA, ciascuno codificante per una o due proteine (fig. 50.3). Oltre alle 8 proteine strutturali (λ1-λ3, μ1-μ2, σ1-σ3) sono codificate anche 4 proteine non strutturali. Le proteine sono indicate con i caratteri greci per indicarne le dimensioni (λ, larghe; μ, medie; σ, piccole) corrispondenti al segmento genomico da cui sono tradotte. I 10 segmenti genomici sono suddivisi in tre classi in base al numero di nucleotidi che li compongono nelle stesse classi di grandezza come evidenziato mediante elettroforesi su gel: large (L1-L3), medium (M1-M3) e small (S1-S4).

Replicazione La prima tappa del ciclo replicativo avviene mediante adsorbimento dei virioni, tramite la proteina σ1, al recettore cellulare, costituito da sialoproteine. In realtà, il legame con gli acidi sialici è a bassa affinità. La molecola di adesione giunzionale A (JAM-A o JAM1) è stata identificata come recettore ad alta affinità per T3D e può mediare l’attacco e l’infezione. Successivamente, si realizza una seconda interazione tra le integrine cellulari β1 e la proteina λ2, che porta alla penetrazione per endocitosi. Dopo acidificazione dell’endosoma, le particelle virali vanno incontro a specifici clivaggi proteolitici, determinando un riarrangiamento del capside esterno con formazione di ISVP. Dopo la penetrazione, la porzione del core diviene trascrizionalmente attiva, per cui comincia la sintesi degli mRNA virali. Il ciclo replicativo si svolge interamente nel citoplasma. I trascritti primari sono in parte tradotti in proteine dal macchinario sintetico cellulare, in parte si associano a proteine virali neosintetizzate. In questa fase i filamenti plus sono utilizzati da stampo per la sintesi di filamenti complementari minus per la formazione di dsRNA. Segue una fase secondaria di trascrizione da parte delle ISVP con ulteriore sintesi proteica tardiva. Nella fase finale di assemblaggio dei 10 segmenti genomici si ha l’acquisizione di tutte le strutture del capside esterno e la fuoriuscita per lisi dalla cellula infetta. All’interno delle cellule infette si evidenzia la presenza di inclusioni citoplasmatiche. Durante l’infezione il virus può indurre un arresto del ciclo cellulare

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G2/M. Al termine dell’infezione produttiva litica, nella cellula si osserva rottura dei filamenti intermedi, inibizione della sintesi del DNA cellulare e della sintesi proteica, induzione di apoptosi.

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Patogenesi e manifestazioni cliniche - Patogenicità

Gli orthoreovirus sono prevalentemente virus respiratori ed enterici. Dopo trasmissione per via orale, i virus aderiscono alla superficie apicale delle cellule M intestinali, che fanno parte del tessuto linfoide regionale e mediano il trasporto transepiteliale di macromolecole dal lume alle placche di Peyer sottostanti. Analogamente, in caso di trasmissione per via aerea, i virus penetrano nel tessuto linfoide per mezzo delle cellule M polmonari. È stato sperimentalmente dimostrato che, in seguito a infezione orale, gli orthoreovirus possono diffondere anche a tessuti extraintestinali e nel sistema nervoso centrale. Manca tuttora una chiara evidenza di coinvolgimento degli orthoreovirus in patologie umane. La maggior parte delle infezioni è asintomatica o associata a lievi sintomi del tratto respiratorio superiore o gastroenterica in pazienti pediatrici. È controverso il ruolo nella patogenesi dell’atresia biliare extraepatica neonatale. Il potenziale patogeno sembra dipendere da fattori quali sierotipo, tempo di infezione e stato immunologico del paziente. Sono stati riportati sporadici casi di meningite asettica e manifestazioni esantematiche dell’infanzia. Particolarmente interessante è la possibilità di un impiego degli orthoreovirus nella terapia antitumorale. I Mammalian Orthoreovirus, in particolare T3D, inducono morte cellulare e apoptosi preferenzialmente in cellule trasformate, ma non in cellule sane non trasformate evidenziando proprietà oncolitiche. I meccanismi alla base della preferenza degli orthoreovirus per le cellule trasformate sono stati oggetto di numerosi studi; sembra che T3D lisi preferenzialmente le cellule tumorali, soprattutto quelle con un pathway Ras di segnalazione attivato, in quanto questo può sensibilizzare le cellule alla replicazione virale. Sono state inoltre descritte tecniche di modificazione genetica degli orthoreovirus per incrementarne le proprietà oncolitiche producendo agenti oncolitici derivati.

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Diagnosi di laboratorio

Può avvalersi di metodi di isolamento virale, sierologici e molecolari.

Epidemiologia

Gli orthoreovirus sono ubiquitari per distribuzione geografica e spettro d’ospite. Studi sierologici hanno evidenziato anticorpi specifici nei confronti dei 3 sierotipi nel 60% della popolazione pediatrica e nel 100% degli adulti. Le infezioni sono endemiche. Il virus è presente nell’ambiente contaminato da rifiuti animali e umani.

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Terapia e profilassi

Stante la mancanza di un’evidente associazione patologica, non è utilizzata alcuna terapia antivirale. La ribavirina ha attività specifica in vitro. Non è disponibile alcun vaccino. Gli orthoreovirus sono stabili in varie condizioni di pH e temperatura; sono resistenti a molti disinfettanti, ma sono inattivati da etanolo 95% e sodio ipoclorito (800 ppm di cloro).

50.3 - Coltivirus Il termine “coltivirus” è l’acronimo del nome inglese del “Colorado tick fever virus” (virus della febbre da zecche del Colorado, CTF); il genere comprende, oltre al virus CTF, i virus California Hare S6-14-03, Salmon River e Eyach, tutti virus trasmessi all’uomo da zecche. I primi 3 virus sono stati riscontrati in Nord America, dove vive

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la zecca del legno Dermacentor andersoni; il virus Eyach è stato isolato in Francia e Germania in “zecche dure” (Ixodidae). Fino al 2000, il genere Coltivirus comprendeva virus associati a zecche (Gruppo A) e virus associati a zanzare (Gruppo B), quali Kadipiro e Banna virus. Tuttavia, nel 2005 l’International Committee on Taxonomy of Viruses, considerando il genoma più grande del Gruppo A (~29 versus 20 kb) e il basso grado di omologia della sequenza aminoacidica della proteina del segmento 1 della polimerasi, ha creato per il Gruppo B il genere Seadornavirus. I Coltivirus presentano caratteristiche strutturali e genetiche proprie della famiglia Reoviridae. Il virione è generalmente nudo con diametro di 75 nm, con due involucri capsidici esterni, un core e un complesso nucleoproteico. Il genoma è specificamente costituito da 12 segmenti di dsRNA e codifica per 12 proteine. I segmenti sono denominati in ordine decrescente di dimensioni (1-12), spesso anche indicati come large (L)1-4, medium (M)1-6 e small (S)1-2; questa designazione corrisponde, rispettivamente, alle proteine del virus CTF VP1-12. Il principale vettore del virus CTF è D. andersoni, sebbene anche altre specie di zecche siano implicate nella trasmissione. Il virus è trasmesso attraverso la saliva della zecca in seguito a un attacco indolore, spesso inosservato, all’ospite. L’incidenza geografica dell’infezione rispecchia strettamente quella di D. andersoni e include principalmente altitudini da 1400 a 3500 metri sul livello del mare. Il virus persiste nel corso dei mesi invernali nel vettore sotto forma di ninfa dormiente o zecca adulta. Le zecche rappresentano sia il vettore sia il reservoir del virus che può persistere per tutta la durata di vita della zecca (1-3 anni). La maggior parte delle infezioni umane avviene in primavera, sebbene la stagione arrivi anche a settembre. La malattia è caratterizzata da febbre a esordio brusco (3840 °C), cefalea, fotofobia, grave mialgia e profonda astenia. Il periodo di incubazione è di 3-4 giorni. La fase sintomatologica iniziale dura circa 2-3 giorni ed è seguita da 2-3 giorni di remissione in cui la temperatura corporea può scendere al di sotto della norma. La recrudescenza febbrile può essere più grave e dura pochi giorni. La convalescenza è al massimo di una settimana nei soggetti sotto i 30 anni di età, fino a tre settimane nei pazienti più anziani. Possono anche essere presenti nausea, vomito e dolori addominali. In misura minore sono stati descritti coinvolgimento del sistema nervoso centrale con rigidità nucale, rash petecchiale o maculopapulare transitorio, lieve epatosplenomegalia. Il riscontro laboratoristico più tipico è la leucopenia, talora è presente anche trombocitopenia. Queste caratteristiche, unitamente alla localizzazione intraeritrocitaria del virus CTF, indicano un tropismo per i precursori ematopoietici, successivamente in grado di differenziarsi in varie linee cellulari ematiche. La viremia persiste fino a circa 17 giorni. È verosimile che la localizzazione intraeritrocitaria del virus serva da protezione alla clearance immunitaria da parte di anticorpi neutralizzanti fino alla morte della cellula. La malattia umana è solitamente benigna e autolimitantesi, per cui non si pratica una prevenzione vaccinale o una terapia antivirale, sebbene la ribavirina per via endovenosa sia risultata efficace. È stato descritto un caso di un bambino con meningite, encefalite con coma e morte. Il quadro clinico non è dirimente. La diagnosi viene posta mediante isolamento virale o dimostrazione di antigeni virali nella frazione eritrocitaria di sangue intero mediante immunofluorescenza, che risultano più sensibili dei metodi sierologici. I metodi molecolari possono risultare particolarmente appropriati, sebbene siano stati pubblicati pochi lavori.

50.4 - Seadornavirus L’analisi dei dati di sequenza e delle proprietà antigeniche dei virus veicolati da zanzare ha condotto nel 2005 alla loro assegnazione a un nuovo genere denominato Seadornavirus (southeast Asian dodeca RNA virus), strutturalmente simile al genere Coltivirus.

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Capitolo 50 • Reoviridae

Il virus Banna (BAV) è il prototipo del genere, che comprende altre due specie identificate come Kadipiro virus e Liao ning virus. I membri di questo genere sono veicolati da zanzare Anopheles, Culex e Aedes e sono endemici nel Sud-Est asiatico, particolarmente in Indonesia, Cina e Vietnam. BAV è associato nell’uomo a manifestazioni simil-influenzali, febbre, mialgie e artralgie. La sintomatologia è considerata quella di una banale infezione virale, come confermato dall’elevata incidenza di anticorpi nella popolazione normale. Tuttavia, il virus è stato isolato da casi di encefalite. I membri del genere sono presenti in regioni tropicali e subtropicali, endemiche per altre patologie virali trasmesse da zanzare, quali Japanese encephalitis virus e virus Dengue. La sintomatologia aspecifica del quadro di encefalite richiede la conferma diagnostica laboratoristica. Sono disponibili tecniche di isolamento virale, sierologiche e molecolari per l’identificazione dei vari seadornavirus.

50.5 - Orbivirus Il genere comprende importanti patogeni di interesse veterinario, con genoma costituito da 10 segmenti di dsRNA, distinti in gruppi e sottogruppi; tra questi soprattutto i virus Bluetongue (agente della lingua blu della pecora), African horsesickness (malattia del cavallo africano) e virus responsabili di malattie emorragiche epizootiche. Alcuni virus sono associati a zoonosi, potendo causare nell’uomo manifestazioni febbrili lievi e, raramente, casi di meningite, quale il virus Kemeroro e isolati correlati. I membri di questo genere sono trasmessi da moscerini Culicoides, zanzare, mosche e zecche, sebbene il vettore non sia noto per alcuni. La circolazione endemica si verifica quasi esclusivamente nel Nord e Sud America, in Africa, India, Australia e Cina, ove vivono i vettori. Sono strutturalmente simili agli orthoreovirus, ma contrariamente a questi sono sensibili a un basso pH.

Bibliografia essenziale Attoui, H., Mertens, P.P.C., Jaafar, F.M., “Banna Virus”, in D. Liu (a cura di), Molecular Detection of Human Viral Pathogens, 1a ed., Taylor & Francis, Boca Raton, 2011, pp. 773-778. Basile, A.J., «Colorado Tick Fever», in D. Liu (a cura di), Molecular Detection of Human Viral Pathogens, 1a ed., Taylor & Francis, Boca Raton, 2011, pp. 779-790. Maneekarn, N., Khamrin, P., Ushijima, H., «Rotavirus», in D. Liu (a cura di), Molecular Detection of Human Viral Pathogens, 1a ed., Taylor & Francis, Boca Raton, 2011, pp. 791-800. Matthijnssens, J., Ciarlet, M., Rahman, M., Attoui, H., Ba’nyai, K., Estes, M.K., Gentsch, J.R., Iturriza-Go’mara, M., Kirkwood, C.D., Martella, V., Mertens, P.P.C., Nakagomi, O., Patton, J.T., Ruggeri, F.M., Saif, L.J., Santos, N., Steyer, A., Taniguchi, K., Desselberger, U., Van Ranst, M. (2008), «Recommendations for the classification of group A rotaviruses using all 11 genomic RNA segments», Arch Virol, 153, pp. 1621-1629. Van Den Wollenberg, D.J.M., Van Den Hengel, S.K., Dautzenberg, I.J.C., Kranenburg, O., Hoeben, R.C. (2009), «Modification of mammalian reoviruses for use as oncolytic agents», Expert Opin Biol Ther, 9, pp. 1509-1520. http://www.epicentro.iss.it http://www.agenziafarmaco.it

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B

Capitolo

51 • Biologia e biologia molecolare dei Flaviviridae • Replicazione e variabilità intra e inter-ospite • Malattie causate da HCV e dai flavivirus • Vettori dei flavivirus

Flaviviridae

La famiglia Flaviviridae comprende tre generi di virus con caratteristiche morfologiche, organizzazione genomica e modalità di replicazione simili, ma con alcune proprietà biologiche distinte: Flavivirus, Pestivirus e Hepacivirus. Di recente è stato proposto di inserire nella famiglia un quarto genere, Pegivirus, che comprende i virus GBV-A, GBV-C (o virus dell’epatite G, HGV) e GBV-D, precedentemente inseriti nel genere Hepacivirus. Mentre i Pestivirus sono d’interesse esclusivamente veterinario, i Flavivirus comprendono importanti virus trasmessi da artropodi vettori: essi hanno uno spettro d’ospite ampio tra i vertebrati e gli invertebrati, e sono causa di malattie importanti dell’uomo (virus della febbre gialla, virus Dengue, virus del Nilo occidentale, virus Zika, diversi virus causa di encefalite umana). Infine nel genere Hepacivirus sono classificati il virus dell’epatite C (HCV), ampiamente diffuso nel mondo e responsabile nell’uomo di patologie epatiche a decorso cronico evolutivo, compreso il carcinoma epatocellulare, e il virus GB (GBV-B): di quest’ultimo (così come degli altri virus GB) non sono ancora chiari l’esatto ruolo patogenetico e l’effettiva capacità di causare malattia nell’uomo. Sono compresi nel genere Hepacivirus anche virus di più recente identificazione che non interessano l’uomo in quanto infettano altre specie animali. Si tratta di virus dotati di rivestimento pericapsidico e di un nucleocapside a simmetria icosaedrica che racchiude una singola molecola di RNA a singolo filamento di polarità positiva, complessata con diverse copie di una piccola proteina basica. Il ciclo vitale dei Flaviviridae è comune a tutti i membri della famiglia nelle sue tappe fondamentali: al riconoscimento e all’attacco del virus alla cellula fa seguito un processo di endocitosi mediata dal recettore. L’internalizzazione e la fusione pH-dipendente del rivestimento pericapsidico virale con le membrane cellulari permettono il rilascio del genoma nel citoplasma e la traduzione del messaggero (mRNA) virale in una singola poliproteina che viene processata da proteasi virali e cellulari, dando origine a proteine strutturali e non strutturali virus-specifiche. Tra queste ultime, una polimerasi virale RNA dipendente utilizza una molecola di RNA a tutta lunghezza a polarità negativa per la trascrizione del genoma della progenie che, completate le fasi di assemblaggio e maturazione delle particelle virali, è rilasciata all’esterno tramite esocitosi.

51.1 - Virus dell’epatite C (HCV) La grande maggioranza delle epatiti non-A/non-B che fino a due decenni fa rappresentavano una seria complicazione delle pratiche trasfusionali in medicina è da attribuire al virus dell’epatite C (HCV). In realtà, l’agente eziologico di tali infezioni è rimasto sconosciuto fino alla fine degli anni ’80. Solo nel 1989, attraverso esperimenti di espressione di librerie genomiche di cDNA derivate dal sangue di scimpanzé infettato da un ipotetico agente causa di epatite non-A/non-B, si riuscì a esprimere una proteina virus-specifica verso cui anticorpi presenti in pazienti con epatite post-trasfusionale erano in grado di reagire in vitro utilizzando un saggio immunoenzimatico. Questo consentì di rilevare nel sangue di soggetti infetti la presenza di anticorpi specifici, di

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monitorare con efficacia le trasfusioni ematiche e di tracciare con più precisione il profilo epidemiologico dell’infezione. Dall’inizio degli anni ’90 le conoscenze sulle caratteristiche biologiche del virus e sulla patogenesi dell’infezione ebbero così un notevole sviluppo, nonostante le difficoltà dovute alla mancanza di modelli di studio in vitro e di modelli animali efficaci.

Struttura del virione e organizzazione del genoma La particella virale è di forma sferica e presenta un diametro di circa 50-80 nm: è costituita da un nucleocapside di simmetria icosaedrica contenente l’RNA virale e la proteina core, ed è rivestita da un envelope in cui sono inserite le glicoproteine virali E1 ed E2. Particelle di HCV si ritrovano in circolo in almeno 3 forme: virioni associati a proteine a bassa e bassissima densità (LDL e VLDL), virioni associati a immunoglobuline e particelle virali libere. Il genoma di HCV è un singolo filamento di RNA a polarità positiva privo di struttura cap, lungo circa 9,6 kb, organizzato in un unico open reading frame (ORF), fiancheggiato al 5′ e al 3′ da due strutture altamente organizzate (fig. 51.1). La struttura di 341 nt presente al 5′ (5′-UTR, untranslated region) è una regione non tradotta del genoma altamente conservata, organizzata in sei domini (I-VI) con struttura secondaria a stem-loop, che svolge importanti funzioni per la replicazione e la traduzione del genoma. Essa contiene una porzione con funzione di IRES (Internal Ribosome Entry Site) per il riconoscimento cap-indipendente della subunità 40S dei ribosomi cellulari; contiene inoltre almeno due siti di interazione con uno specifico micro-RNA epatico (MiR-122), necessario per la replicazione efficiente del genoma virale. La sequenza terminale non tradotta presente al 3′ (3′-UTR) è altrettanto importante: essa presenta una porzione variabile di circa 40 nt, un tratto di poly (U/UC) di

Formazione del mebranous web e del complesso di replicazione

Capside

Glicoproteine dell’envelope

5' UTR

E1

E2

p22

gp35

gp70

RNA polimerasiRNA dipendente

NS4A

5'

C

Fattore di regolazione della replicazione e dell’assemblaggio

Elicasi, proteasi fattore di assemblaggio

Viroporina fattore di assemblaggio

HVR1 IRES

Cofattore proteasi NS3

Autoproteasi fattore di assemblaggio

Inizio traduzione e replicazione

p7

NS2

NS3

p23

p70

PROTEINE STRUTTURALI

p8

NS4B

NS5A

NS5B

p27

p56-58

p68

PROTEINE NON STRUTTURALI E1

Replicazione

3'

3' UTR

E2

Envelope siti di clivaggio proteasi cellulari sito di clivaggio proteasi NS2/NS3 siti di clivaggio proteasi NS3/NS4A

ssRNA+

Nucleocapside

Figura 51.1 Organizzazione strutturale e funzionale del genoma di HCV; rappresentazione schematica della morfologia del virione.

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circa 80 nt e una parte terminale altamente conservata di 98 nt, detta X-tail: tali porzioni interagiscono con una serie di fattori cellulari necessari per la replicazione del genoma virale. L’ORF virale codifica una singola poliproteina di circa 3000 aminoacidi che, a seguito dell’intervento di proteasi virali e cellulari, dà origine a 10 proteine strutturali (C, E1 ed E2) e non strutturali (p7, NS2, NS3, NS4A, NS4B, NS5A e NS5B). Dopo la traduzione, le proteine virali si associano a membrane derivate dal reticolo endoplasmatico e formano strutture vescicolari (il cosiddetto membranous web) all’interno delle quali avviene la replicazione.

Proteine del virus Partendo dall’estremità 5′ del genoma, la prima proteina codificata dall’ORF virale è la proteina del core (C, p22). Essa, grazie a una porzione altamente basica ricca di residui di arginina e lisina, lega l’RNA virale e forma il nucleocapside. Da un punto di vista funzionale la proteina è implicata in una serie di processi che intervengono nel metabolismo dei lipidi, nell’attivazione in trans di oncogeni cellulari (ras), nella modulazione delle proteine p53 e p73 per il controllo dell’apoptosi, nei meccanismi di elusione delle difese dell’ospite. E1 (gp35) ed E2 (gp70) sono glicoproteine coinvolte nel legame con il recettore e nel processo di penetrazione. E2 contiene due porzioni ipervariabili del genoma (HVR1 e HVR2): la variabilità di E2 si origina per mutazioni casuali e selezione di mutanti che verosimilmente funzionano come “falsi bersagli” per il sistema immune inducendo una risposta anticorpale non neutralizzante, favoriscono l’escape immunologico e promuovono la persistenza dell’infezione. E2 contiene una sequenza omologa al sito di fosforilazione della proteina-chinasi PKR e interferisce con i meccanismi d’induzione dello stato antivirale (competendo con eIF2 per la fosforilazione da parte di PKR attivata dall’IFN). P7 è un piccolo peptide di circa 7 kDa: è una proteina integrale di membrana che agisce come una viroporina in grado di regolare il pH, oltre ad avere un ruolo nelle fasi di assemblaggio e maturazione dei virioni. NS2 è una proteina basica di membrana (circa 23 kDa) che, in associazione con la porzione N-terminale di NS3, agisce da cisteinoproteasi causando il taglio proteolitico della giunzione NS2/NS3 (attività di autoproteasi). NS3 (p70) è una proteina multifunzionale, dotata di attività proteasica (insieme a NS4A [p8] forma una serinoproteasi responsabile del processamento del precursore proteolitico), di attività RNA-elicasica e NTPasica. NS4B (p27) è una proteina integrale di membrana che svolge un ruolo importante nella formazione del membranous web e nell’organizzazione del complesso di replicazione di HCV. NS5A è una fosfoproteina di 56-58 kDa e ha molteplici funzioni nell’ambito del ciclo vitale del virus, nella regolazione della replicazione del genoma, nella morfogenesi e nell’assemblaggio delle particelle virali. Inoltre, essa interagisce con una serie di fattori cellulari coinvolti nei meccanismi di trasduzione del segnale, del controllo della trascrizione, della regolazione dell’apoptosi e del controllo del ciclo cellulare (interagendo con la proteina p53). NS5A è in grado di interferire con le risposte innate antivirali dell’ospite, legando e inibendo l’azione della proteina-chinasi PKR, e inducendo l’espressione dell’interleuchina 8 (IL-8): entrambi gli effetti portano all’inibizione dell’attività antivirale degli interferoni. La proteina NS5B (p68) rappresenta la RNA polimerasi-RNA dipendente (RpRd) del virus e, insieme alle proteine NS3/4A, NS4B e NS5A, forma il complesso replicativo del virus.

Ciclo replicativo La scarsa disponibilità di modelli cellulari e animali in cui riprodurre in maniera efficace la replica di HCV ha ostacolato per lungo tempo la conoscenza più approfondita del virus e dei meccanismi patogenetici dell’infezione. L’impiego di modelli di replicazione

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Capitolo 51 • Flaviviridae

in vitro basati sull’utilizzo di repliconi subgenomici e sulla possibilità di produrre virus da cellule transfettate e di infettare scimpanzé con un clone tipo di HCV ha consentito solo in tempi relativamente recenti un rapido sviluppo delle conoscenze delle tappe fondamentali del ciclo replicativo del virus. Le cellule epatiche rappresentano il bersaglio principale del virus, sebbene anche altri tipi di cellule (ad es. le cellule mononucleate del sangue periferico, PBMC) permettano la replica di HCV. Il tropismo del virus soprattutto per gli epatociti, oltre ad essere determinato dalla presenza di molecole di attacco espresse diffusamente da questo tipo cellulare, deriva dalla dipendenza da fattori (i recettori per l’epidermal growth factor, le ciclofiline, il miR-122) e da pathway cellulari specifici (assemblaggio e trasporto delle lipoproteine e dei lipidi) in grado di favorire la replicazione del genoma e l’assemblaggio e la maturazione delle particelle virali. Il primo evento dell’infezione è l’attacco del virus alla cellula, che avviene attraverso un processo multistep di riconoscimento di molecole espresse sulla superficie cellulare. Inizialmente il virus, in forma di particelle lipovirali, lega debolmente molecole di glucosaminoglicani (GAG) e di LDL-R (recettori per lipoproteine a bassa densità), coinvolte attraverso l’interazione con molecole di ApoB e ApoE associate al virione; il legame si stabilizza attraverso l’interazione con almeno quattro fattori coinvolti nell’uptake del virus: i recettori scavenger di tipo I (SR-B1), la molecola CD81 (una proteina di transmembrana della famiglia delle tetraspanine), le claudine di tipo 1 (CLDN1) e le occludine (OCLN). Queste ultime due sono molecole presenti a livello delle giunzioni strette e sono in grado di avviare l’endocitosi all’interno di vescicole intracellulari rivestite di clatrina. All’interno delle vescicole endosomiali avviene il processo di scapsidamento pH-dipendente: l’abbassamento del pH induce un cambiamento conformazionale di E1 ed E2 e la liberazione di un motivo fusogeno delle glicoproteine in grado di fondere l’envelope virale con le membrane cellulari. In seguito allo scapsidamento avviene la traduzione del genoma virale (l’RNA a polarità positiva è funzionalmente un messaggero policistronico) e la sintesi di proteine virali strutturali e non strutturali a partire dalla poliproteina precursore. Le fasi successive della replicazione avvengono all’interno del membranous web derivato dal reticolo endoplasmatico. La RpRd virale sintetizza sullo stampo dell’RNA genomico un filamento di RNA a polarità negativa (negative strand) che inizialmente si organizza come intermedio replicativo a doppio filamento di RNA (double strand). Il negative strand RNA funge da stampo per la sintesi di copie multiple di RNA a polarità positiva (RNA genomico, positive strand). L’interazione tra la proteina core e l’RNA di nuova generazione porta alla formazione dei nucleocapsidi e alla produzione di nuove particelle virali. Queste sono traslocate a livello del reticolo endoplasmatico, acquisiscono da esso il rivestimento pericapsidico nel quale sono inserite le proteine E1 ed E2, la cui glicosilazione viene completata nell’apparato del Golgi. I nuovi virioni sono infine rilasciati dalla cellula per esocitosi (fig. 51.2). Così come il processo di replicazione è correlato all’espressione di geni coinvolti nel metabolismo dei lipidi, anche la formazione di particelle virali è strettamente associata al metabolismo lipidico e all’assemblaggio delle VLDL, che avviene a livello del sistema di secrezione dell’epatocita: infatti, la formazione e la traslocazione di particelle virali nascenti hanno luogo in regioni del reticolo endoplasmatico arricchito di goccioline lipidiche che espongono molecole di ApoE.

Variabilità genetica La notevole plasticità del genoma è una delle caratteristiche principali di HCV ed è correlata alla capacità del virus di evadere la risposta immune dell’ospite e di persistere in forma cronica dopo l’infezione primaria. Essa ha anche implicazioni importanti nelle strategie diagnostiche, terapeutiche e di prevenzione vaccinale dell’infezione. Le sequenze di HCV sono filogeneticamente raggruppate in “cluster” tra loro cor-

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Figura 51.2 Rappresentazione schematica della replicazione di HCV. CLDN1: claudina di tipo 1; GAG: glucosaminoglicano; LDL-R: recettore per lipoproteine a bassa densità; SRB-1: recettore scavenger di tipo I; CD81: tetraspanina.

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Occludine

Lipoproteina HCV

CLDN1 Nucleo

GAG

Assemblaggio e rilascio

LDL-R

SRB-1

Golgi pH

Fusione e uncoating

ER

CD81 Proteine virali

Replicazione RNA

Traduzione e processamento poliproteina

relati (genotipi e sottotipi). Inoltre, nel singolo individuo infetto il virus è presente come una popolazione genomica eterogenea costituita da varianti che formano una quasispecie, in cui una sequenza dominante (sequenza master) è accompagnata da sequenze minoritarie distinte geneticamente ma a essa correlate (fig. 51.3). È possibile evidenziare nel singolo individuo un’elevata variabilità della quasispecie in ogni particolare momento dell’infezione (diversità della quasispecie) e nel corso del tempo (divergenza della quasispecie). La variabilità casuale delle sequenze genomiche è generata dall’attività della RNA polimerasi-RNA dipendente virale che non possiede un’azione di proofreading: nel soggetto persistentemente infettato sono generati ogni giorno almeno 1010-1012 virioni, e il tasso di errore della polimerasi è di 10–3-10–5 per nucleotide per singolo ciclo replicativo. La variabilità non è ugualmente distribuita all’interno del genoma, ma è maggiore nelle regioni E1, E2, p7, NS2 e NS4, mentre è minore nelle regioni non tradotte, nella regione strutturale core, e in NS3 e NS5B: questo perché il ruolo essenziale svolto da alcune proteine virali nella replicazione e nel ciclo vitale del virus limita l’accumulo e la selezione di mutazioni che, se fissate, determinerebbero l’incapacità del virus di sopravvivere. Le regioni in assoluto più variabili sono quelle che codificano le proteine di superficie E1 ed E2, in particolare le porzioni ipervariabili HVR1 e HVR2. Oltre che determinate da mutazioni spontanee, varianti genetiche sono generate e selezionate a seguito della pressione selettiva imposta dalla risposta immunitaria, dall’azione di farmaci e, in generale, da tutte quelle forze che ostacolano l’acquisizione da parte del virus della migliore fitness e della migliore capacità di adattamento ai cambiamenti che avvengono nell’ambiente e nell’ospite. Attraverso il confronto delle sequenze genomiche fra i diversi isolati, HCV può essere distinto in almeno 7 genotipi principali (indicati con i numeri arabi): essi mostrano tra loro una diversità a livello nucleotidico di circa il 30-35%, mentre i numerosi sottotipi (identificati con le lettere dell’alfabeto 1a, 1b, 2a...) differiscono tra loro di circa il 20-25%. Esiste una diversa distribuzione dei genotipi di HCV a livello mondiale: i genotipi 1 e 2 sono prevalenti e sostanzialmente ubiquitari, il genotipo 3 è presente soprattutto nel Sudest asiatico, in Sudamerica e in Europa, il genotipo 4 in Africa e in Medioriente, il genotipo 5 in Sudafrica, il 6 nel Sudest asiatico. La gravità e l’evoluzione clinica della malattia non

Capitolo 51 • Flaviviridae

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Genoma parentale Varianti con mutazioni puntiformi

1° ciclo replicativo

2° ciclo replicativo

Pressione selettiva

Quasispecie

n cicli replicativi

sembrano essere correlate in maniera significativa con i differenti genotipi, anche se è stata osservata una maggiore propensione del genotipo 1 (in particolare il sottotipo 1b) a causare una malattia epatica più aggressiva e una più frequente evoluzione fibrotica e cirrotica. È noto, invece, il diverso profilo di risposta dei genotipi alla terapia antivirale (soprattutto la minore risposta dei genotipi 1 e 4), in particolare alla terapia con ribavirina e interferone.

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Epidemiologia

Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i portatori cronici di HCV nel mondo sono circa 130-170 milioni, e tra 300 000 e 500 000 le persone che ogni anno muoiono a causa delle malattie epatiche associate all’infezione. L’infezione da HCV è diffusa a livello mondiale; tuttavia l’Africa e l’Asia sono le aree a maggiore prevalenza, mentre in America, Europa occidentale e settentrionale e Australia l’infezione è meno presente. Sicuramente le migliorate condizioni sanitarie e la maggiore sicurezza delle pratiche trasfusionali hanno determinato negli ultimi 20 anni una riduzione dell’incidenza dell’infezione e attualmente, almeno in Europa, il principale fattore di rischio per la trasmissione di HCV è diventato l’uso di droghe per via endovenosa. In Italia, si stima che i soggetti con infezione cronica da HCV siano oltre un milione e più di 300 000 i malati di cirrosi. Nel nostro Paese la percentuale di soggetti infettati da HCV è circa il 2% della popolazione generale, con un gradiente che aumenta dal Nord verso il Sud e le isole e con l’età (il 60% dei pazienti con epatite C ha più di 65 anni). Si calcola che ogni anno più di 20 000 persone muoiono in Italia

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Figura 51.3 Generazione ed evoluzione della quasispecie di HCV (modificata da Echevarria et al., 2015).

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a causa di malattie croniche del fegato e si ritiene che HCV sia implicato da solo o in combinazione con altri fattori, quali l’alcol o il virus dell’epatite B, nel 72% dei casi di cirrosi e nel 76% dei casi di tumore primitivo del fegato. Anche in Italia, per quello che riguarda i nuovi casi d’infezione, si è osservata negli ultimi anni una diminuzione dell’incidenza di epatite C acuta, che si è stabilizzata su tassi di 0,2 e 0,3 casi per 100 000 abitanti a partire dal 2009. La diminuzione dell’incidenza ha interessato in particolar modo i soggetti d’età compresa fra i 15 e i 24 anni, mentre la fascia di età maggiormente colpita è quella fra i 35 e i 54 anni, con oltre la metà dei casi tra i soggetti di sesso maschile. HCV si trasmette per via parenterale, prevalentemente per esposizione percutanea e permucosale a sangue infetto. Ridotto ormai da diverso tempo il rischio trasfusionale, l’uso promiscuo di siringhe contaminate rappresenta il principale fattore di rischio tra i tossicodipendenti. Rappresentano altri importanti fattori di rischio i rapporti sessuali non protetti, gli interventi chirurgici e le procedure diagnostico-terapeutiche invasive, l’esposizione percutanea in caso di trattamenti cosmetici (piercing e tatuaggi), il contatto con aghi e taglienti contaminati da sangue infetto (usati ad esempio per le tecniche di agopuntura). Sebbene in misura minore rispetto a HBV, è possibile la trasmissione madre-feto e al momento del parto (trasmissione perinatale). Tutti i soggetti politrasfusi o che siano stati infusi con plasma-derivati in un periodo antecedente l’utilizzo dei saggi per lo screening dei donatori di sangue, gli emofilici e gli emodializzati, e i nati da madre HCV-positiva andrebbero controllati per verificare la presenza dell’infezione. In molti casi non sono da escludere modalità subdole o sconosciute di trasmissione dell’infezione, dal momento che molti soggetti portatori sono del tutto asintomatici e spesso inconsapevoli della loro situazione.

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Patogenesi e immunità – Patologie associate all’infezione

La patogenesi dell’infezione da HCV è piuttosto complessa e deriva dal risultato degli effetti che proteine specifiche e la natura di quasispecie del virus hanno sui meccanismi della risposta immune dell’ospite e sulle diverse attività metaboliche che regolano e influenzano la fisiologia del fegato. HCV è un virus non citopatico che replica efficacemente nel fegato causando la necrosi degli epatociti attraverso una complessa serie di eventi che includono la citolisi immuno-mediata, la steatosi epatica, l’infiammazione indotta da stress ossidativo e le alterazioni metaboliche associate all’insulino-resistenza. La prima linea di difesa nei confronti di HCV è rappresentata dall’immunità innata: nella cellula infettata interferoni di tipo 1 reclutano e attivano cellule natural killer (NK), cellule dendritiche (DC), cellule di Kuppfer, e promuovono l’immunità adattativa. Le cellule NK a loro volta reclutano linfociti T virus-specifici ed eliminano gli epatociti infetti o direttamente attraverso un meccanismo di citolisi, o indirettamente attraverso la secrezione di citochine come IFN-γ e TNF-α. A livello del reticolo endoplasmatico, molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) espongono alla superficie cellulare antigeni virali che sono riconosciuti da cellule T (CTL), la maggior parte delle quali sono rappresentate da linfociti citotossici CD8+ che riconoscono antigeni presentati da molecole MHCI, e in parte sono costituite da linfociti CD4+ che riconoscono antigeni presentati da molecole MHCII. Il rilascio di componenti virali dagli epatociti necrotici è in grado di attivare cellule dendritiche (DC), a loro volta impegnate nell’attivazione di cellule T-helper virus-specifiche e nell’espressione di TNF-α, IL-12 e IFN-γ. I linfociti T effettori rilasciano perforine, granzyme e TNF-α, e attivano il Fas ligando inducendo l’apoptosi degli epatociti infettati. I CTL attivati, oltre che mediante la citolisi, contribuiscono al controllo dell’infezione stimolando la sintesi degli interferoni di tipo 1 (IFN-α/β) (rilasciati anche dalle cellule infette e dalle DC), coinvolti nella clearance virale attraverso la distruzione degli acidi nucleici virali, la soppressione della sintesi proteica e della replicazione del virus, e l’induzione dello stato antivirale intracellulare. È la precoce,

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vigorosa e persistente risposta delle cellule T CD4+ e CD8+ l’elemento fondamentale per ottenere la clearance del virus nella fase acuta dell’infezione, mentre una debole o inefficace risposta T-cellulare e un mancato equilibrio tra espressione di citochine Th1 e Th2 predispongono alla persistenza e alla progressione dell’infezione (fig. 51.4). Tuttavia il virus ha evoluto diversi meccanismi per contrastare l’azione degli effettori delle risposte innate e adattative dell’ospite e consentire quindi la continua invasione delle cellule epatiche e la persistenza dell’infezione. Il virus riduce l’espressione di molecole MHC, o impedisce la presentazione degli antigeni peptidici virali alla superficie cellulare. Inoltre, alcune proteine virali (core, E1, NS3) sono in grado di inibire direttamente le cellule NK e la maturazione delle DC, o di sopprimere la loro azione infettandole direttamente. Studi recenti hanno evidenziato il ruolo dei linfociti T regolatori (T-reg) nel controllo dell’infezione. Le cellule T-reg secernono IL-10 e TGF-β (Transforming Growth Factor di tipo β): entrambi sono in grado di sopprimere le risposte specifiche T-cellulari. L’effetto è particolarmente evidente nei confronti dei linfociti T CD8+ dei soggetti con infezione cronica da HCV, rispetto a quanto si osserva invece nei soggetti con infezione acuta. Anche l’immunità di tipo umorale ha un ruolo nel controllo dell’infezione da HCV. La produzione degli anticorpi da parte dei linfociti B specifici ha lo scopo di neutralizzare l’infezione nel comparto extracellulare e impedire l’infezione di nuovi epatociti. Tuttavia, in corso d’infezione persistente, essi contribuiscono alla patogenesi di alcune manifestazioni extraepatiche della malattia. Come già detto, la variabilità genetica di HCV si esprime anche nella generazione di mutanti del virus in grado di eludere la risposta immunitaria dell’ospite: l’escape immunologico riguarda in particolare quegli epitopi del virus maggiormente coinvolti nei meccanismi di riconoscimento e di attivazione degli effettori delle risposte immunitarie cellulo-mediate e della risposta umorale. Sono state descritte mutazioni nelle regioni del genoma che codificano le proteine di superficie (in particolare nella porzione ipervariabile HVR-1) che generano varianti in grado di eludere il riconoscimento da parte degli anticorpi neutralizzanti e di indurre la produzione di anticorpi “interferenti” diretti contro “falsi bersagli” del virus. La complessità della quasispecie nella regione HVR-1 è inferiore nell’infezione acuta che volge a guarigione, mentre

Forte controllo virale

Bassa pressione selettiva Clearance virale

Debole controllo virale

Alta pressione selettiva Persistenza virale

Risposta immune iniziale (CTL, CD4)

T-reg Varianti del virus eludono il riconoscimento da parte degli Ab

CTL Perdita di attività CTL Non vengono generate CTL efficaci

CD4 Perdita di attività T helper

Non vengono generati nuovi Ab neutralizzanti

Figura 51.4 Ruolo della risposta immunitaria nell’evoluzione dell’infezione da HCV.

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è maggiore nell’infezione persistente, essendo essa il risultato della continua pressione selettiva esercitata dalla risposta immunitaria. La dimostrata capacità del virus di propagarsi agli epatociti limitrofi attraverso un meccanismo di diffusione “cell-to-cell” rappresenta un’ulteriore strategia che il virus adotta per “nascondersi” agli effettori delle risposte immuni dell’ospite. L’infezione da HCV ha un effetto importante su alcune attività metaboliche dell’ospite, contribuendo all’ulteriore danno al fegato, ad esempio inducendo steatosi, infiammazione e stress ossidativo, fibrosi e resistenza all’insulina. Ad esempio, alcune proteine strutturali (core) e non strutturali (NS3, NS5) del virus provocano un aumento dello stress ossidativo, noto per essere un importante fattore di danno epatico. L’infezione da HCV (in particolare da genotipo 3) è inoltre in grado di incrementare il rischio di steatosi, probabilmente impedendo la secrezione delle lipoproteine a bassa densità (VLDL), incrementando la biosintesi di acidi grassi o inibendo la loro degradazione. Il periodo d’incubazione in seguito all’esposizione al virus varia in genere da 4 a 12 settimane. Nella maggioranza dei casi (60-70%) l’infezione acuta è asintomatica e le forme itteriche sono rare anche in presenza di livelli elevati delle transaminasi epatiche (ALT). Negli altri casi il decorso è quello tipico di un’epatite acuta del tutto sovrapponibile a quella causata da altri virus o da altri agenti non infettivi: i livelli di ALT possono raggiungere valori 10 volte superiori alla norma, è possibile la comparsa di malessere, nausea, ittero (nel 10-20% dei casi), dolorabilità all’ipocondrio destro; le urine emesse sono scure (bilirubinuria), le feci sono chiare (acoliche). In caso di evoluzione in guarigione, le ALT si normalizzano e la viremia si negativizza nel corso di 2-3 mesi. In circa il 75-80% dei casi, persistendo l’HCV-RNA in circolo per oltre sei mesi dall’infezione primaria, essa diventa cronica. Il decorso clinico dell’infezione persistente è variabile, in quanto i soggetti infettati possono per lungo tempo non presentare segni e sintomi di malattia evolutiva e avere valori persistentemente normali delle transaminasi epatiche. Una quota variabile di soggetti (circa il 60-70%), viceversa, sviluppa un quadro di epatite con caratteri di attività, soprattutto in presenza di una necroinfiammazione importante: in questo caso i livelli delle transaminasi sono costantemente elevati o fluttuanti nel tempo. Il rischio di sviluppare cirrosi epatica nel corso di 20-25 anni è circa del 15-25%. Una parte dei soggetti (2-4%) con cirrosi scompensata rischia ulteriormente di sviluppare un epatocarcinoma nel corso dei 5 anni successivi, con un’incidenza annua di circa lo 0,3%. HCV (in condivisione con HBV) rappresenta la causa più importante di malattia epatica evolutiva e di trapianto di fegato nel mondo. Il decorso, la gravità e la progressione della malattia cronica possono essere influenzati da diversi fattori: l’età all’acquisizione dell’infezione, l’etnia, il sesso maschile, la concomitante infezione con altri virus epatotropi, la perdita dell’immunocompetenza (come nei soggetti HIV-positivi), l’abuso di alcol, il sovraccarico di ferro, preesistenti malattie metaboliche (obesità, steatosi, diabete mellito e insulino-resistenza), l’esposizione continua a contaminanti ambientali o a farmaci epatotossici. L’infezione cronica da HCV si può accompagnare alla comparsa di una lunga serie di manifestazioni extraepatiche di malattia, che fanno ritenere l’epatite C una malattia sistemica e non esclusivamente d’organo (fegato). Le associazioni sono con malattie ematologiche (la crioglobulinemia mista, l’anemia aplastica, la trombocitopenia, le sindromi linfoproliferative del tipo del linfoma non-Hodgkin), dermatologiche (la porfiria cutanea tarda, il lichen planus), renali (la glomerulonefrite membranosa), endocrine (l’ipotiroidismo e il diabete), oculari (l’uveite e l’ulcera corneale), vascolari (la vasculite necrotizzante e la poliarterite nodosa), neuromuscolari (mialgie, poliartralgie), autoimmuni (la sindrome CREST) e neuropsichiatriche (depressione e deficit psico-intellettivi). Di tutte queste, la meglio definita e più certa è l’associazione con la crioglobulinemia mista, che può interessare fino al 40% dei soggetti HCV-positivi.

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Diagnosi

I saggi di laboratorio per la diagnosi d’infezione da HCV si distinguono in saggi indiretti, che sono in grado di evidenziare la risposta anticorpale verso gli antigeni virali (Ab anti-HCV) e test diretti, che rilevano la presenza del genoma virale (HCV-RNA qualitativo e quantitativo) e degli antigeni del core (HCV core Ag). La ricerca degli anticorpi specifici anti-HCV mediante saggi immunoenzimatici (ELISA) rappresenta il primo approccio nello screening e nella diagnosi d’infezione. Nell’infezione primaria gli anticorpi si positivizzano circa 5-8 settimane dopo il contatto con il virus, persistono per un periodo variabile di mesi e anni dopo la risoluzione dell’infezione, ma restano persistentemente positivi in caso d’infezione cronica. La ricerca del genoma virale mediante saggio di retrotrascrizione e amplificazione mediante PCR (RT-PCR), o con altra metodica molecolare, è impiegata per confermare la positività anticorpale e per dimostrare la presenza di un’infezione attiva (fig. 51.5). La persistente negatività di HCV-RNA nel sangue, in presenza di anticorpi specifici, documenta un’infezione pregressa e risolta. Nei soggetti che guariscono dall’infezione acuta, gli anticorpi circolanti conferiscono immunità non duratura e probabilmente non proteggono dalla re-infezione con genotipi virali diversi. La ricerca di HCV-RNA nel sangue si rende indispensabile in alcune condizioni cliniche: nell’infezione acuta, quando gli anticorpi anti-HCV non si sono ancora positivizzati; nei nati da madre HCV-positiva, nel cui sangue gli anticorpi materni possono persistere per diversi mesi e non indicare un’infezione acquisita dal neonato; negli emodializzati, negli immunocompromessi (compresi i pazienti con infezione da HIV) e nei pazienti affetti da crioglobulinemia mista, nei quali la comparsa degli anticorpi può essere ritardata, la loro presenza mascherata (formazione di immunocomplessi, interferenza con fattore reumatoide), oppure gli anticorpi possono essere del tutto assenti. Non esiste una correlazione documentata e certa tra la viremia e la gravità del quadro istologico o la progressione della malattia, per cui la ricerca di HCV-RNA in un soggetto in cui si sospetta un’infezione persistente, in presenza o anche assenza di indici di alterata funzionalità e di danno epatico (transaminasi elevate), viene utilizzata non a fini prognostici ma per una più corretta gestione del paziente ed eventualmente per indicare l’opportunità del trattamento antivirale. La valutazione della carica virale (viral load) mediante saggio quantitativo (qRT-PCR) con sensibilità analitica ≤ 15 IU/mL trova indicazione solo nei pazienti candidati al trattamento, per monitorare la risposta in corso di terapia e valutare il calo significativo della viremia rispetto ai valori basali pre-trattamento e nel successivo follow-up. La persistente negatività di

Infezione acuta

Infezione cronica

ALT HCV-RNA

HCV-RNA

HCV-Ag

HCV-Ag Anti-HCV

Periodo finestra

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Anni

Figura 51.5 Dinamica dei marcatori di infezione da HCV.

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HCV-RNA confermata al termine e dopo il completamento del trattamento (12-24 settimane), e accompagnata dalla normalizzazione dei livelli di ALT, può indicare una risposta virologica sostenuta (SVR) e la guarigione. La ricerca del genotipo virale è utilizzata per studi epidemiologici e per determinare la probabilità di risposta e il protocollo terapeutico più adeguato: infatti, esistono genotipi meno responsivi (genotipi 1 e 4) e maggiormente responsivi (genotipi 2 e 3) al trattamento, anche se va detto che la conoscenza del genotipo, di per sé, in genere non influisce sulla decisione terapeutica con i nuovi farmaci oggi disponibili. La ricerca dell’antigene del core (HCV core Ag) è un saggio di nuova generazione recentemente proposto per sostituire, in alcuni casi, la determinazione della viremia eseguita con tecniche molecolari. L’antigene del core è una struttura del nucleocapside conservata tra i diversi genotipi virali ed è rilevabile molto prima degli anticorpi anti-HCV (entro 2-3 settimane dall’infezione), quasi in contemporanea alla comparsa della viremia. La sua presenza, quindi, conferma l’attività replicativa del virus. L’utilizzo del saggio in alternativa alla viremia nel monitoraggio della terapia è ancora oggetto di dibattito.

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Trattamento

Lo scopo della terapia antivirale nell’infezione da HCV è di eradicare il virus, prevenire la cirrosi epatica e lo scompenso, l’epatocarcinoma, le manifestazioni extra-epatiche della malattia e la morte. Nei pazienti con cirrosi scompensata l’eradicazione di HCV riduce la necessità di trapianto di fegato. Prima di iniziare il trattamento deve essere valutata la gravità della malattia epatica (in particolare la presenza di cirrosi), il grado di fibrosi (con metodi non invasivi [fibroscan] o mediante biopsia epatica) e la concomitante presenza di altre patologie del fegato. Per indirizzare al meglio la scelta terapeutica, prima di iniziare il trattamento devono essere monitorati la viremia quantitativa mediante saggio con sensibilità ≤ 15 UI/mL, il genotipo e il sottotipo (1a/1b) virali, in quanto predittori della risposta virologica. L’introduzione a partire dal 2015 di farmaci ad attività antivirale diretta (i cosiddetti DAA, vedi oltre), in combinazione o sostituzione dei precedenti regimi terapeutici basati sull’uso combinato di IFN e ribavirina, ha radicalmente modificato la terapia dell’infezione da HCV e la possibilità di ottenere l’eradicazione del virus e la guarigione anche nei soggetti infetti con i genotipi “difficult-to-treat” (genotipi 1 e 4). L’uso in terapia di combinazione d’interferone-α (IFN-α), in formulazione coniugata con polietilenglicole (IFN-peghilato, peg-IFN), e ribavirina (un analogo sintetico delle purine, vedi anche Cap. 67) ha rappresentato il “gold-standard” della terapia dell’epatite da HCV. La sensibilità alla terapia di combinazione è però diversa per i diversi genotipi virali. La probabilità di eradicazione del virus è infatti solo del 40-50% per i genotipi 1 e 4, e del 70-80% per i genotipi 2 e 3. Negli ultimi anni sono state sviluppate e poi introdotte nella pratica clinica molecole che agiscono in maniera specifica su bersagli del virus (proteasi/elicasi e polimerasi), i cosiddetti farmaci ad attività antivirale diretta (DAA), con i quali si sono osservate sin dai primi studi di efficacia e dai primi trials clinici risposte virologiche sostenute in oltre il 95% dei pazienti trattati, indipendentemente dal genotipo infettante. Tali farmaci sono oggi approvati in regimi di combinazione con ribavirina (e in qualche caso con IFN), in duplice o triplice combinazione senza ribavirina, o in monoterapia, in funzione della gravità della malattia e del genotipo infettante. I protocolli terapeutici oggi proposti tendono a escludere l’utilizzo dei farmaci tradizionali, ribavirina e interferone, a causa dei diversi problemi e degli importanti effetti collaterali derivati dal trattamento a lungo termine con queste molecole, e a ridurre quanto più possibile il periodo di trattamento. Attualmente in Europa sono approvati per l’uso terapeutico, oltre a peg-IFN-α2a, pegIFN-α2b e ribavirina, gli inibitori di NS5B sofosbuvir e dasabuvir, gli inibitori di NS5A (daclatasvir, ledipasvir, ombitasvir ed elbasvir – vedi anche Cap. 67), gli inibitori di NS3/4A simeprevir, paritaprevir, asunaprevir e grazoprevir, oltre a ritonavir (utilizzato anche in

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terapia antiretrovirale), un inibitore del citocromo P450 3A4 (CYP3A4). Uno dei problemi dell’impiego dei nuovi farmaci anti-HCV, oltre al rischio possibile d’insorgenza di farmacoresistenza durante il trattamento (l’entità del fenomeno non è ancora definita con precisione), è il costo elevato: esso limita al momento il loro impiego ai soli soggetti con malattia epatica avanzata. Vista l’elevata probabilità di guarigione definitiva che si ottiene con i nuovi farmaci, sarebbe auspicabile poter trattare anche i soggetti con malattia non grave (oggi esclusi) e quelli del tutto asintomatici, qualora i farmaci fossero disponibili a costi più accettabili per la comunità. Non esistono allo stato attuale vaccini efficaci per la prevenzione dell’infezione da HCV. Negli ultimi anni sono state proposte formulazioni vaccinali capaci di indurre la produzione di anticorpi neutralizzanti l’infezione e/o di rafforzare l’immunità cellulo-mediata, con lo scopo di utilizzarli anche a fini terapeutici. Alcuni vaccini sono entrati nella fase pre-clinica di sperimentazione e si sono rivelati piuttosto promettenti. Al momento le uniche armi di prevenzione rimangono la modifica dei comportamenti a rischio e l’individuazione e il controllo delle fonti d’infezione.

51.2 - Virus GBV-C (virus dell’epatite G, HGV) Il virus GBV-C è classificato nel genere Pegivirus e condivide con gli altri membri della famiglia Flaviviridae le caratteristiche biologiche e le strategie replicative, anche se apparentemente esso sembra privo di una struttura capsidica vera e propria, derivandola o da un virus GBV co-infettante, o da strutture della cellula infetta. Il virus è classificato in cinque genotipi principali che riflettono la sua distribuzione geografica e la diversa diffusione. È trasmesso per via parenterale e sessuale e le co-infezioni con HIV, HBV e HCV sono piuttosto frequenti. Pur essendo stato dimostrato il suo tropismo per il fegato, il virus è principalmente linfotropo. La sua presenza è stata rilevata in almeno il 15% dei donatori volontari di sangue come infezione pregressa o infezione attiva, e in ospiti animali come lo scimpanzé. L’infezione da GBV-C nell’uomo è frequente: tuttavia a oggi non è stata fornita alcuna prova convincente circa l’associazione tra l’infezione acuta o persistente e qualche forma di malattia nell’uomo. L’unica evidenza riportata circa il ruolo patogenetico di GBV-C è la sua possibile interazione con il virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV): soggetti co-infettati hanno in genere una viremia da HIV più bassa, un numero di linfociti CD4+ più elevato, e hanno tendenzialmente una più lenta progressione della malattia. Il virus sembra interferire con la replicazione di HIV e con l’espressione dei suoi geni, probabilmente alterando l’espressione di citochine e chemochine coinvolte nell’infezione, riducendo il numero di linfociti T attivati, od ostacolando l’ingresso di HIV nelle cellule bersaglio.

51.3 - Flavivirus Il genere Flavivirus della famiglia Flaviviridae è costituito da oltre 90 distinti virus la cui caratteristica principale è la modalità di trasmissione attraverso artropodi ematofagi che sono in grado di trasferire l’infezione da un ospite vertebrato all’altro e occasionalmente all’uomo. Generalmente nei tessuti dei vettori questi virus replicano senza causare danni. Nell’uomo i quadri clinici principali sono rappresentati dalle encefaliti, dalle febbri emorragiche e dalle febbri di natura indifferenziata. Tuttavia, l’emergenza di recenti epidemie ha spinto la comunità scientifica a una sempre maggiore attenzione nei confronti di questi agenti e oggi conosciamo molte delle caratteristiche biologiche che guidano la loro diffusione. I flavivirus sono strutturalmente simili agli altri componenti della famiglia Flaviviridae. Si tratta, quindi, di virus a RNA a singolo filamento a polarità positiva di taglia tra le 10 e le 12 kb. I virioni sono sferoidali con un diametro tra i 40 e i 60 nm, provvisti di involucro pericapsidico. L’envelope virale include la glicoproteina E (verso cui vengono prodotti anticorpi neutralizzanti) e la proteina di membrana M.

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51.4 - Virus della febbre gialla La febbre gialla è una malattia conosciuta e descritta da diversi secoli, soprattutto legata a epidemie che hanno colpito sia l’Europa che gli Stati Uniti tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XX. In Italia un’epidemia di febbre gialla colpì la Toscana (specie Livorno) nell’agosto del 1804. Oggi il virus è diffuso in Africa sub-Sahariana e Sudamerica (dove la stima complessiva è di circa 500 000 soggetti infettati all’anno). Non è al momento presente in Asia, Europa e Australia, malgrado in questi continenti siano presenti i vettori. Il virus della febbre gialla è un flavivirus, in grado d’infettare l’uomo dopo trasmissione da parte di una zanzara infetta. Nel soggetto infettato, il virus della febbre gialla replica principalmente in monociti, macrofagi e cellule dendritiche. I vettori del virus sono le zanzare del genere Aedes; esse trasmettono il virus con la puntura. Esistono due cicli con i quali il virus si mantiene in natura: un ciclo silvestre e un ciclo urbano (vedi anche virus Zika):

• ciclo silvestre: nella febbre gialla silvestre i vettori sono Haemagogus spp. e Sa-

bethes spp. in Sudamerica e Aedes africanus in Africa. Le zanzare acquisiscono l’infezione dalle scimmie, che fungono da serbatoio del virus. Quindi le zanzare pungono e infettano altre scimmie e, occasionalmente, gli uomini; • ciclo urbano: nella febbre gialla urbana gli uomini infetti sono serbatoi del virus e il contagio avviene attraverso la zanzara Aedes aegypti.

La malattia da virus della febbre gialla inizia dopo un periodo di incubazione di 3-6 giorni, ma circa la metà dei soggetti infettati non mostra alcuna sintomatologia. La maggior parte dei casi clinicamente manifesti ha un esordio con sintomi aspecifici come febbre, mal di testa, brividi, mal di schiena, stanchezza, perdita di appetito, dolori muscolari, nausea, mialgie e vomito. Il 15% circa dei pazienti ha tuttavia un andamento bifasico ed entra, dopo una breve remissione, in una seconda fase caratterizzata da ittero ingravescente ed emorragie diffuse. La diagnosi va eseguita con tecniche molecolari finalizzate alla ricerca dell’RNA genomico virale nel sangue. Non esiste al momento una terapia specifica, ma è disponibile da decenni un vaccino costituito da un virus attenuato, coltivato in embrioni di pollo, consigliato a chi si reca per periodi prolungati in aree endemiche.

51.5 - Virus Dengue L’incidenza della dengue è cresciuta molto rapidamente a partire dagli anni ’60, con circa 50-100 milioni di persone infettate ogni anno; essa risulta endemica in oltre 100 diversi Paesi e in diverse aree geografiche. A tutti gli effetti la dengue può essere considerata una malattia virale pandemica. Essa è conosciuta da oltre due secoli, ed è particolarmente presente nelle zone tropicali e subtropicali di Africa, Sudest asiatico e Cina, India, Medioriente, America Latina e Centrale, Australia e diverse zone del Pacifico. Negli ultimi decenni, la diffusione della dengue è aumentata in molte regioni tropicali. Nei Paesi europei si manifesta soprattutto come malattia d’importazione dovuta all’aumentata frequenza di spostamenti di individui o di popolazioni. Il virus esiste in quattro sierotipi differenti (DENV-1, DENV-2, DENV-3, DENV-4) e generalmente l’infezione con un tipo garantisce un’immunità a vita per quel tipo, mentre comporta solamente una breve e non duratura immunità nei confronti degli altri. L’ulteriore infezione con un altro sierotipo comporta un aumento del rischio di complicanze gravi. La forma severa della malattia, in caso di infezione secondaria, avviene in particolar modo per gli individui esposti a DENV-1 che contraggano l’infezione da DENV-2 o DENV-3, oppure in persone esposte prima a DENV-3 e poi a DENV-2. Il genoma del virus contiene 11 000 basi, ha un’organizzazione tipica degli

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altri flavivirus e codifica tre proteine che formano il virione (C, prM, E) e sette diverse proteine che si ritrovano nella cellula ospite e sono necessarie per la replicazione virale (NS1, NS2a, NS2b, NS3, NS4a, NS4b, NS5). L’infezione è trasmessa da zanzare del genere Aedes, in particolar modo la specie Aedes aegypti. Alla prima infezione si associa una sintomatologia costituita da febbre, cefalea, dolore muscolare, e un esantema morbilliforme. In caso di reinfezione con un diverso sierotipo, si può sviluppare una febbre emorragica grave, con trombocitopenia, emorragie e perdita di liquidi, che può evolvere in shock circolatorio e morte. Non esiste una vaccinazione, pertanto la prevenzione si ottiene mediante l’eliminazione delle zanzare, per limitare l’esposizione al rischio di trasmissione. Una volta penetrato nell’organismo del soggetto infettato, il virus infetta i leucociti. In particolare il virus Dengue infetta elettivamente le cellule di Langerhans attraverso il riconoscimento di specifiche proteine di membrana della cellula, DC-SIGN, CLEC5A e il recettore per il mannosio. Oltre alle cellule di Langerhans, sono infettati i monociti e i macrofagi. Nei leucociti il virus replica soprattutto in vescicole legate al reticolo endoplasmatico. Il virione immaturo si sposta dunque all’apparato di Golgi dove avviene la maturazione definitiva grazie alla glicosilazione delle proteine virali ed esce dalla cellula mediante esocitosi. Dal punto di vista clinico, la classificazione stilata nel 2009 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità distingue la dengue in due manifestazioni: dengue non complicata (febbre indifferenziata o febbre dengue) e dengue grave (o febbre emorragica dengue). Il periodo di incubazione dura tra i 3 e i 14 giorni. Generalmente, i soggetti infettati con il virus Dengue sono asintomatici (80%), oppure presentano solo manifestazioni cliniche leggere, quale la febbre non complicata. Nelle infezioni gravi con un successivo sierotipo, la replicazione virale è molto maggiore rispetto alle infezioni primarie: la replicazione avviene anche nel fegato e nel midollo osseo. L’infezione midollare è la causa della frequente piastrinopenia che si osserva in questi casi. Occasionalmente il virus Dengue può infettare altri organi, sia in concomitanza al corteo sintomatologico classico, sia come unica manifestazione clinica. In una minoranza delle infezioni gravi si può presentare una riduzione dello stato di coscienza. Altre complicanze possibili sono la mielite trasversa e la sindrome di Guillain-Barré. L’ipotesi oggi più condivisa per spiegare le forme gravi si basa sul possibile potenziamento del virus mediato da anticorpi non neutralizzanti già presenti per una precedente infezione. La dengue può essere diagnosticata mediante accertamenti virologici, inclusi il rilevamento dell’RNA virale tramite RT-PCR ed esami sierologici per la rilevazione di anticorpi diretti verso di esso. L’isolamento del virus e del suo genoma sono test più accurati di quelli sierologici (possibili cross-reattività con altri virus della stessa famiglia). Non esistono al momento terapie specifiche per la dengue. Le scelta del trattamento di supporto dipende dalle manifestazioni cliniche, e può andare dalla semplice idratazione orale a domicilio, al ricovero con somministrazione di liquidi per via parenterale o emotrasfusioni nel caso di grave anemizzazione. Non esistono vaccini disponibili; ci sono programmi in corso sullo sviluppo di un vaccino in grado di coprire i quattro i sierotipi del virus Dengue, ma esistono dubbi nella comunità scientifica (in teoria, un vaccino potrebbe aumentare il rischio di malattia grave attraverso il meccanismo del potenziamento mediato da anticorpi).

51.6 - West Nile Disease Virus La febbre West Nile (West Nile Fever) è una malattia provocata dal virus West Nile (West Nile Disease Virus, WNDV), un virus della famiglia dei Flaviviridae isolato per la prima volta nel 1937 in Uganda, nel distretto West Nile. Il virus è oggi diffuso in Africa, Asia occidentale, Europa, Australia e America. I serbatoi del virus sono gli uccelli selvatici e le zanzare (genere Culex), la cui puntura è il principale mezzo di

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trasmissione all’uomo. Altri mezzi di infezione documentati, anche se più rari, sono trapianti di organi, trasfusioni di sangue e la trasmissione madre-feto. La febbre West Nile non si trasmette da persona a persona tramite il contatto con le persone infette. Il virus infetta anche altri mammiferi, soprattutto i cavalli, che rappresentano pertanto una specie “sentinella” per valutare la diffusione dell’agente virale. Il cavallo può sviluppare una patologia soprattutto di tipo neurologico. I casi di encefalite si evidenziano nelle zone temperate soprattutto in estate e in autunno. In Italia le zone più colpite sono il Veneto, l’Emilia-Romagna e la Lombardia, ma casi di positività sierologica sono stati segnalati anche in donatori di sangue di altre regioni. La maggior parte delle persone infette (circa il 75%) non mostra alcun sintomo. Fra i casi sintomatici, circa il 20% presenta sintomi modesti come febbre, cefalea, nausea, vomito, dolori muscolari. Negli anziani e nelle persone debilitate, invece, la sintomatologia può essere più grave. I sintomi più gravi si presentano in meno dell’1% delle persone infette, e comprendono febbre alta, cefalea, debolezza muscolare, disorientamento, tremori, disturbi alla vista, torpore, convulsioni, fino alla paralisi e al coma. Nei casi più gravi il virus può causare un’encefalite letale. La diagnosi si basa sulla ricerca di anticorpi specifici della classe IgM sia su siero che su liquor cefalorachidiano e sulla ricerca dell’RNA virale nel sangue e nel liquor. Gli anticorpi della classe IgM persistono in molti casi per settimane e pertanto possono indicare anche una pregressa infezione. Inoltre ci può essere una notevole cross-reattività con altri flavivirus, specie il virus Dengue. Più solida è la diagnosi molecolare basata sulla ricerca di RNA di WNDV su sangue o liquor cefalorachidiano. Non esiste una terapia specifica per la febbre West Nile e non esiste un vaccino validato. Attualmente sono allo studio dei vaccini, ma per il momento la prevenzione consiste soprattutto nel ridurre l’esposizione alle punture di zanzare.

51.7 - Virus dell’encefalite di St. Louis, virus dell’encefalite giapponese e virus dell’encefalite di Murray Valley L’encefalite di Saint-Louis è una malattia causata da un flavivirus (virus dell’encefalite di St. Louis, VESL) trasmesso dalla puntura di zanzare del genere Culex. Il VESL (diffuso soprattutto nell’America Centromeridionale e nel Sud degli Stati Uniti) è correlato al virus dell’encefalite giapponese, un’infezione riscontrata in tutto il Sud-Est asiatico (maggiormente nei Paesi come Cambogia, Cina, Giappone, Filippine, India e Indonesia). Le zanzare appartenenti al genere Culex si infettano pungendo gli uccelli infetti con VESL. Le zanzare infette trasmettono poi il virus dell’encefalite di Saint Louis agli esseri umani e ad altri animali. Solo le zanzare infette possono trasmettere il VESL a un essere umano. Il contagio interumano non è possibile. Dopo un periodo di incubazione variabile da pochi giorni a 2 settimane, l’infezione da VESL può esordire con una modesta malattia febbrile e malessere generale. In una minoranza di casi si può avere meningite asettica, o encefalite. A distanza di alcuni giorni dall’insorgenza dei sintomi neurologici, la febbre del paziente si può ridurre. La fase di convalescenza e di recupero neurologico può richiedere diversi giorni. Circa il 5% dei pazienti può, al contrario, mostrare un’encefalite grave, con coma profondo e paralisi dei nervi cranici. La mortalità può variare tra il 20 e il 25% dei casi gravi. La diagnosi si basa sulla ricerca degli anticorpi e dell’RNA virale nel sangue e nel liquor cefalorachidiano. L’encefalite di Murray Valley è una rara forma di encefalite descritta in alcune epidemie osservate in Australia causata dal virus di Murray Valley (MVV), un flavivirus simile, ma distinto dal virus dell’encefalite giapponese e dal VESL. IL MVV è anch’esso trasmesso da una zanzara del genere Culex, che mantiene il ciclo uccelli-zanzara-uccelli. Le persone infettate dal virus dell’encefalite di Murray Valley non manifestano, nella

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maggioranza dei casi, alcun disturbo; una minoranza di soggetti può mostrare disturbi di lieve entità come malessere generale associato a febbre, lieve cefalea, perdita di appetito, nausea e vomito. La sintomatologia può evolvere fino allo sviluppo di paralisi dei nervi cranici, neuropatia periferica, coma e morte. Nelle ultime epidemie di encefalite di Murray Valley è stato riscontrato un tasso di mortalità compreso tra il 15 e il 30%. Gli anticorpi anti-virus MVV, di tipo IgM, sono rilevabili nel siero dei pazienti, e talvolta anche nel loro liquido cerebrospinale anche a distanza di oltre un mese dall’infezione. La ricerca di RNA virale su liquido cerebrospinale risulta spesso negativa, suggerendo una bassa concentrazione virale durante la fase encefalitica acuta.

51.8 - Virus Zika Il virus Zika venne isolato inizialmente in Uganda nel 1947 da zanzare del genere Aedes (Aedes africanus). Inizialmente non emersero dati per considerarlo un patogeno umano, ma i primi studi di sorveglianza epidemiologica dimostrarono che, nelle aree rurali dell’Uganda, il 6% della popolazione possedeva anticorpi sierici contro il virus, suggerendo che l’infezione umana era possibile. Successivi studi sierologici dimostrarono una più ampia diffusione dell’infezione in Africa e nell’Estremo Oriente. La patologia umana da virus Zika venne riconosciuta per la prima volta in Nigeria nel 1953, in tre persone con malattia febbrile di modesta entità clinica. Successivamente vennero descritte epidemie di maggiore entità; in Polinesia Francese, nel 2013-2014, dove furono coinvolte 32 000 persone. Malgrado nella maggioranza dei casi i sintomi clinici, se presenti, siano modesti, limitandosi a una patologia febbrile di tipo simil-influenzale, sono stati diagnosticati anche casi di patologia del sistema nervoso centrale, in particolare di sindrome di Gullain-Barré. Negli anni recenti sono state descritte epidemie in Estremo Oriente e più recentemente nell’America Centromeridionale, specie in Brasile. In queste ultime epidemie, l’epidemiologia delle infezioni da virus Zika sembra essersi modificata, passando da un ciclo sostanzialmente selvatico che coinvolge i primati (principalmente) e uomo attraverso la trasmissione della zanzara (in Africa), a un ciclo di trasmissione urbana o sub-urbana, in cui la zanzara trasferisce l’infezione da uomo a uomo (fig. 51.6). Sono soprattutto due specie di zanzare Aedes (A. aegypti, prevalentemente, e A. albopictus) ad alimentare questo ciclo d’infezione. Più recentemente sono state descritte modalità di trasmissione diverse. Durante la gravidanza il virus Zika può essere trasmesso dalla madre al feto. Il virus è presente in questi casi nel liquido amniotico, nella placenta e nei tessuti fetali. Il feto può mostrare microcefalia e anormalità dell’occhio associate alla microcefalia stessa (un report preliminare dal Brasile ha evidenziato anomalie fetali diagnosticate mediante ultrasonografia nel 29% delle donne con infezione da virus Zika in gravidanza). Il virus Zika può anche essere trasmesso dalla madre infetta

Ciclo di trasmissione selvatico

Ciclo di trasmissione urbano

Zanzara genere Aedes

A. aegypti/A. albopictus

Primate

Primate

Zanzara genere Aedes

Uomo

Uomo

A. aegypti/A. albopictus

Figura 51.6 Ciclo di trasmissione del virus Zika. In Africa il virus Zika circola da tempo attraverso un ciclo di trasmissione selvatico costituito da primati non umani e diverse specie di zanzare Aedes. Occasionalmente viene infettato l’uomo. Nelle aree urbane o sub-urbane, il virus Zika è trasmesso all’uomo principalmente da A. aegypti. È possibile la trasmissione interumana.

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al neonato; in questi casi sono stati descritti rash cutanei e trombocitopenia nei neonati. La trasmissione neonatale può avvenire anche attraverso l’allattamento, poiché il latte di una madre infetta può contenere alte concentrazioni di virus. Nella fase di viremia di un soggetto donatore di sangue è possibile la trasmissione al ricevente la donazione. È possibile, infine, la trasmissione sessuale, dovuta all’alta concentrazione spermatica del virus (documentata attraverso la rilevazione di RNA virale in elevato numero di copie nello sperma). La diagnosi viene di norma eseguita attraverso la ricerca di RNA virale mediante RT-PCR quantitativa. L’RNA del virus Zika è presente nel plasma o siero per circa una settimana dopo l’inizio dei sintomi, ma anche molto più a lungo nelle donne che vengono infettate in gravidanza. L’RNA virale può anche essere a lungo rilevabile nelle urine e nella saliva. Meno accurata è la diagnosi sierologica (ricerca di anticorpi specifici di classe IgG o IgM nei confronti del virus Zika) per la frequente cross-reattività con altri flavivirus come il virus Dengue. I dati molecolari dei virus isolati nei diversi Paesi suggeriscono che il virus Zika si sia originato nelle aree dell’Africa dell’Est, si sia diffuso successivamente in Asia e da qui sia successivamente passato in America Latina. I ceppi americani sono infatti molto simili dal punto di vista genetico a quelli asiatici. Nel complesso, il virus Zika sembra un virus relativamente stabile dal punto di vista genetico (diversamente da altri virus a RNA), con una divergenza tra i diversi ceppi che non supera il 12% a livello nucleotidico. Questa stabilità fa pensare che sia possibile sviluppare in futuro un vaccino capace di proteggere da tutti i ceppi virali. Nell’attesa di un vaccino, le uniche misure di prevenzione adottabili sono relative al controllo del vettore A. aegypti (più semplice a dire, che a realizzare), evitando viaggi non necessari nelle zone endemiche.

Bibliografia essenziale David, S., Abraham, A.S. (2016), «Epidemiological and clinical aspects on West Nile virus, a globally emerging pathogen», Infectious Diseases 48 doi.org/103109/2374423520161164890. Dubuisson, J., Cosset, F.L. (2014), «Virology and cell biology of the hepatitis C virus life cycle», J Hepatol, 61:S3-S13. Echeverria, N. et al. (2015), «Hepatitis C virus genetic variability and evolution», World J Hepatol 2015; 7:831-845. Heim, M.H. et al. (2016), «Host – hepatitis C viral interactions: The role of genetics», J Hepatol, 65:S22-S32. Hoke, C.H. et al. (1988), «Protection against Japanese Encephalitis by Inactivated Vaccines», N Engl J Med, 319:608-614. Petersen, L.R. et al. (2016), «Zika Virus», N Engl J Med, 374:1552-1563. Stapleton, J.T. et al. (2012), «GB virus C infection is associated with altered lymphocyte subset distribution and reduced T cell activation and proliferation in HIV-infected individuals», PLoS One, 7(11):e50563. doi: 101371/journal.pone0050563.

Capitolo

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Caliciviridae

I membri della famiglia Caliciviridae sono distribuiti, in base all’organizzazione genomica e al confronto di sequenze geniche, in cinque generi: Norovirus, Sapovirus, Lagovirus, Nebovirus e Vesivirus. Cinque nuovi generi (Bavovirus, Nacovirus, Recovirus, Valovirus e Secalivirus) sono stati proposti e sono attualmente in fase di valutazione. I calicivirus umani appartengono ai generi norovirus e sapovirus, mentre la maggior parte dei calicivirus animali è inclusa nei restanti tre: i lagovirus causano malattie emorragiche nei conigli, i nebovirus patologie enteriche nei bovini e i vesivirus lesioni mucocutanee in maiali, gatti e mammiferi marini. I due generi umani sono diffusi agenti di gastroenterite acuta, epidemica ed endemica, in tutto il mondo, riguardante pazienti di tutte le età. La gastroenterite è una delle principali cause di morte da malattia infettiva, con oltre 700 milioni di casi di diarrea acuta all’anno in tutto il mondo e circa 23 milioni di casi negli Stati Uniti, corrispondenti al 60% delle patologie causate da patogeni enterici. Il virus dell’epatite E (HEV) era originariamente classificato nella famiglia Caliciviridae in base a somiglianze fisico-chimiche e biologiche, tuttavia studi di confronto di sequenze e analisi filogenetica hanno successivamente evidenziato che HEV era distinto ed è stata quindi creata una nuova famiglia denominata Hepeviridae, al momento costituita da due generi, Hepevirus e Piscihepevirus. HEV appartiene al genere Hepevirus, specie Orthohepevirus A.

52.1 - Norovirus Classificazione e tipi I norovirus (NoV), un tempo indicati anche come Norwalk-like virus, sono stati descritti per la prima volta da Kapikian nel 1972 mediante microscopia elettronica. Il ceppo prototipo di NoV è il virus Norwalk, originariamente scoperto durante un attacco di gastroenterite acuta in una scuola elementare dell’omonima città in Ohio. In precedenza, il rilevamento delle infezioni da NoV nell’uomo è stato limitato in quanto i NoV umani non erano isolabili in coltura e non sono disponibili modelli animali. Il clonaggio molecolare del genoma nel 1990 ha condotto a enormi progressi; mediante metodi molecolari e sequenziamento genomico è stato evidenziato che i NoV sono geneticamente e antigenicamente distinti. In base al confronto delle sequenze codificanti per la proteina del capside e l’RNA polimerasi-RNA dipendente e all’analisi filogenetica, i NoV sono classificati in 5 distinti genogruppi, GI-GV. I NoV umani appartengono ai genogruppi GI, GII e GIV, in particolare la maggior parte dei ceppi a GI e GII (tab. 52.1). I genogruppi GIII e GV sono stati rilevati, rispettivamente, in specie bovine e murine. Nell’ambito dei genogruppi, i NoV sono ulteriormente suddivisi in genotipi, di cui ne sono stati descritti almeno 29 che infettano l’uomo: 9 genotipi di GI (GI/1-GI/9), 19 di GII (GII/1- GII/19) e un genotipo per GIV. L’analisi delle sequenze genomiche di numerosi NoV indica che i ceppi virali all’interno di un genogruppo mostrano un’omologia nucleotidica del 69%, mentre i ceppi di genogruppi diversi del 51-56%. Inoltre, la classificazione basata sulla sequenza nucleotidica del gene

• Classificazione, struttura e morfologia dei norovirus • Replicazione dei norovirus • Epidemiologia, diagnosi di laboratorio e terapia dei norovirus • Sapovirus

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codificante per la proteina del capside evidenzia una divergenza del 60% tra genogruppi e del 20-30% tra genotipi. Nell’ambito dello stesso genocluster, le sequenze codificanti per il capside virale sono spesso molto simili. Una caratteristica biologica peculiare dei NoV è la diversità genetica e la rapida evoluzione in base alla selettività immunitaria.

Struttura e morfologia La struttura dei NoV consta di piccoli virioni rotondeggianti senza envelope, con capside icosaedrico e genoma a RNA a singolo filamento a polarità positiva, del diametro di 27 nm (per molti anni questo aspetto conferì ai NoV la denominazione di “Small Round Structured Virus”) (tab. 52.1). Il capside è costituito da una sola proteina strutturale con molteplici funzioni: riconoscimento recettoriale, specificità d’ospite, assemblaggio del capside e immunogenicità. La superficie della particella virale, tipicamente, presenta depressioni a forma di coppa da cui deriva il nome della famiglia. L’RNA genomico, di 7400-7700 nucleotidi, è poliadenilato in 3′. Il genoma è diviso in tre open reading frame (ORF1, ORF2, ORF3) (fig. 52.1). ORF1 codifica per una grande poliproteina dal cui clivaggio proteolitico derivano una NTPasi, una proteasi e l’RNA polimerasi-RNA dipendente. ORF2 codifica per la proteina capsidica maggiore VP1 e ORF3 per una piccola proteina basica VP2. VP1 costituisce il capside, è composta dalle subunità P1 e P2, così indicate in quanto protrudono all’esterno, e da una subunità S (da shell), che riveste il genoma. La maggior parte delle interazioni del virus con le cellule dell’ospite è mediata dalla porzione centrale di P2, la quale evidenzia le maggiori divergenze antigeniche. VP2 ha il ruolo di regolare l’espressione di VP1 e stabilizzarne la struttura. La ricombinazione dell’RNA è una delle principali forze che guidano l’evoluzione virale. Nel caso dei NoV, il primo Tabella 52.1 Proprietà dei Norovirus.

Virione

Icosaedrico, 27 nm

Genoma

RNA a singolo filamento, polarità positiva

Envelope

Assente

Replicazione

Citoplasmatica

Recettore cellulare

Antigeni A, B, 0, Lewis (marcatori di gruppi ematici)

Maturazione

Citoplasmatica, con lisi cellulare

Classificazione

5 genogruppi in base a sequenze codificanti per proteina del capside e RNA polimerasi-RNA dipendente

Norovirus umani

Genogruppi I, II, IV

ORF3

ORF1 VPg

Hd

VPg

Pro

VP2

Pol

poli-A

RNA di Norovirus

Capside

ORF2 ORF1 VPg

Hd

VPg

Pro

Pol

Capside ?

ORF2 Figura 52.1 RNA genomico di Norovirus e Sapovirus.

poli-A

RNA di Sapovirus

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Capitolo 52 • Caliciviridae

prototipo ricombinante naturale è stato il virus Snow Mountain. Successivamente, sono stati descritti numerosi NoV ricombinanti naturali ed è stato evidenziato che il sito di ricombinazione principale è al punto di giunzione tra ORF1 e ORF2.

Replicazione Le conoscenze sulla replicazione dei calicivirus derivano da studi su volontari umani infettati sperimentalmente, dallo studio di calicivirus animali e dalla disponibilità di particelle ricombinanti simil-virioniche, ottenute mediante espressione in cellule di insetto di proteine capsidiche di calicivirus umani. La subunità P2 della proteina capsidica VP1 lega, quali recettori cellulari, gli antigeni AB0, H e di Lewis, che sono i marcatori maggiori e minori dei gruppi ematici (fig. 52.2). Gli antigeni dei gruppi sanguigni sono carboidrati complessi che consistono di un oligosaccaride legato a proteine o lipidi sull’epitelio delle mucose del tratto respiratorio, genitourinario e digerente od oligosaccaridi liberi in fluidi biologici quali saliva, latte e altre secrezioni mucose. Ceppi di NoV di diversi genogruppi legano combinazioni antigeniche AB0, H e Lewis differenti. La complessità del legame antirecettore/recettore spiega la variabile suscettibilità d’ospite osservata durante gli episodi di infezione da NoV e negli studi su volontari sani e la difficoltà di crescita in vitro dei NoV. Dopo la penetrazione nella cellula per endocitosi, i virus si replicano in sede citoplasmatica associati alle membrane intracellulari. Nella cellula si rilevano due tipi di RNA: genomico e subgenomico. L’RNA genomico, covalentemente legato a una proteina VPg all’estremità 5′, viene tradotto in una poliproteina, successivamente processata da una proteasi virale nelle proteine non strutturali quali RNA polimerasi-RNA dipendente, elicasi e proteasi. L’RNA subgenomico codifica per le proteine strutturali. La replicazione del genoma avviene attraverso un intermedio a polarità negativa. La fase di maturazione occorre nel citoplasma e i nuovi virioni vengono rilasciati per lisi cellulare.

■■

Patogenesi e manifestazioni cliniche - Patogenicità

I NoV sono una comune causa di gastroenterite epidemica in tutti i gruppi di età (tab. 52.2). In generale, i NoV GII rappresentano i ceppi riscontrati più frequentemente nel mondo. La trasmissione tipicamente avviene attraverso cibo, acqua o ambienti contaminati, per contatto interpersonale, per via aerogena e probabilmente secondo altre modalità non note. Vi sono almeno due fattori che contribuiscono alla capacità del virus di causare un’epidemia:

• il virus è altamente infettivo e un inoculo modesto (10-100 virioni) è sufficiente a causare infezione;

• il virus è relativamente stabile nell’ambiente, potendo resistere a congelamento, riscaldamento fino a 60 °C, disinfezione con cloro, condizioni acide, alcol, soluzioni asettiche per il lavaggio delle mani ed elevate concentrazioni di zuccheri.

Il periodo di incubazione è breve (12-48 ore), ma è stata rilevata l’eliminazione del virus fino a 3 settimane dopo la risoluzione dei sintomi con possibilità di trasmissione ad altri ospiti. I pazienti possono presentare vomito o diarrea con o senza nausea, dolori addominali e talvolta febbre. Le feci possono essere diarroiche o acquose, ma senza presenza di sangue o muco. I sintomi solitamente durano 24-60 ore. Studi su volontari hanno evidenziato che il 30% delle infezioni è asintomatico e che esistono soggetti refrattari all’infezione. Inoltre, questi studi hanno rilevato che l’infezione primaria si realizza nel tenue prossimale con espansione dei villi, accorciamento dei microvilli e infiltrazione di cellule mononucleate. Possono quindi svilupparsi lesioni discontinue della mucosa che, infine, causano diarrea.

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AB0 AB0 H H Lewis Lewis Antirecettore Antirecettore virale virale

Figura 52.2 Interazione tra Norovirus e cellula intestinale.

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In genere, le alterazioni istopatologiche si esauriscono in due settimane, ma talora possono persistere fino a sei settimane. La diarrea è associata a transitorio malassorbimento di carboidrati e grassi e ad alterata funzionalità degli enzimi dell’orletto a spazzola. Sebbene l’esatto meccanismo alla base dell’insorgenza della diarrea non sia noto, è possibile che giochi un ruolo il ritardo nello svuotamento gastrico. La disidratazione rappresenta la complicanza più grave per bambini, anziani e soggetti con alterate condizioni metaboliche o cardiocircolatorie, potendo talora richiedere l’ospedalizzazione. Casi di gastroenterite cronica sono stati descritti in pazienti trapiantati; in adulti in condizioni di stress (militari in Afghanistan) sono state riportate presentazioni cliniche inusuali con rigidità nucale, stato confusionale, fotofobia e coagulazione intravascolare disseminata. Sono stati descritti casi di infezioni da NoV fatali soprattutto in pazienti anziani. L’infezione da NoV induce una risposta anticorpale specifica IgG, IgA e IgM, anche in presenza di una precedente esposizione. La risposta anticorpale si può evidenziare dal 5° giorno dall’esordio clinico, raggiunge il picco alla terza settimana e comincia a declinare dopo sei settimane. La protezione immunitaria generalmente può durare da 6 mesi fino a 9 anni. Generalmente, la cross-reattività tra genotipi di uno stesso genogruppo è limitata (maggiore tra i ceppi di GII) e molto scarsa nei confronti di ceppi di genogruppo differente. La protezione è quindi omologa e non superiore a 4-6 mesi, senza sviluppo di immunità a lungo termine.

■■

Epidemiologia

I NoV sono ubiquitari, responsabili di casi sporadici di gastroenterite e del 96% delle epidemie caratterizzate da diarrea e vomito in soggetti di tutte le età. Si stima che i NoV siano responsabili di circa 685 milioni di casi di gastroenterite in tutto il mondo con 212 000 morti; circa 200 milioni di casi in bambini di età inferiore a 5 anni, di cui quasi 55 000 letali, particolarmente in Paesi a media ed elevata mortalità. Le epidemie coinvolgono soprattutto residenti in istituzioni, quali scuole, ospedali, caserme, sedi ricreative. Negli Stati Uniti, i NoV sono sottoposti a sorveglianza e sono ritenuti responsabili di circa 23 milioni di casi di gastroenterite acuta ogni anno. L’epidemia di dimensioni maggiori si è verificata tra i 600 evacuati dell’uragano Katrina nel 2005 e ha coinvolto circa 1200 soggetti. I dati di sorveglianza nel mondo evidenziano un ruolo predominante per i ceppi di Tabella 52.2 Caratteristiche patogenetiche dell’infezione da Norovirus.

Trasmissione

Fecale-orale, aerosol

Bassa carica infettante

 106/mL di sospensione fecale, può essere adoperata solo nelle fasi precoci di infezione. La sensibilità della visualizzazione è potenziata di 10-100 con la IEM mediante l’aggiunta di un siero immune al campione. Anche in questo caso, la tecnica è utile negli stati precoci dell’infezione; inoltre, le tecniche in microscopia elettronica richiedono apparecchiature complesse e costose e operatori esperti, per cui sono oggi poco adoperate. Negli anni recenti, la possibilità di ottenere l’espressione di proteine capsidiche di NoV per produrre particelle virali è stata sfruttata per lo sviluppo di metodi di rilevazione dell’antigene basati su saggi immunoenzimatici (EIA), ELISA e immunocromatografici (IC). In particolare, recentemente sono stati commercializzati kit in IC che risultano più sensibili dei metodi immunoenzimatici. L’approccio diagnostico più sensibile, che consente di rilevare fino a 102 particelle virali/mL, si avvale di saggi in RT-PCR e real-time RT-PCR. È anche possibile identificare i genotipi di NoV mediante tecniche di sequenziamento. Altre tecniche molecolari, quali immuno-PCR e RT-loop-mediated isothermal amplification (RT-LAMP), sono state impiegate recentemente su grandi numeri di campioni fecali nel corso di epidemie di infezione da NoV. Recentemente vi è stata anche la prima dimostrazione della possibilità di isolare NoV in coltura di cellule B ed enterociti umani, sebbene il metodo non sia attualmente utilizzato a scopi diagnostici.

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Gli antigeni prodotti in baculovirus sono stati utilizzati in test EIA anche per la ricerca di anticorpi di tipo IgG, IgM e IgA in volontari dopo infezione sperimentale o in studi epidemiologici. Nei soggetti adulti, data la preesistenza di IgG, è necessario evidenziare un aumento del titolo anticorpale di 4 volte tra il siero prelevato in fase acuta (entro 5 giorni dall’inizio dei sintomi) e quello prelevato durante la fase di convalescenza dopo 3-6 settimane. L’assenza di anticorpi nei confronti di un ceppo di NoV non necessariamente indica suscettibilità all’infezione con quel virus, in quanto soggetti sieronegativi potrebbero essere resistenti all’infezione per mancanza di recettori per l’attacco del virus alla cellula. Al contrario, la presenza di anticorpi potrebbe indicare precedenti infezioni e anche la suscettibilità a nuove infezioni.

■■

Terapia e profilassi

Non esiste una terapia antivirale specifica per le infezioni da NoV. Il trattamento è sintomatico e, dal momento che la malattia è solitamente di breve durata e autolimitantesi, si avvale di riposo e reidratazione orale. In caso di diarrea e vomito particolarmente protratti può essere necessaria la somministrazione di elettroliti per via endovenosa. Non è attualmente disponibile alcun vaccino. La variabilità genetica e antigenica dei NoV rappresenta un problema per lo sviluppo di un vaccino che determini una risposta immunitaria protettiva, oltre alla necessità di definire l’epidemiologia della malattia in diversi gruppi di pazienti e comprendere maggiormente l’immunità naturale a NoV. Sono in fase di studio vaccini monovalenti (ad es. un vaccino a subunità, costituito dalla particella P della proteina capsidica, che risulta altamente immunogena); bivalenti (ad es. vaccino costituito da virus-like particles consensus GI/1 e GII/4) e trivalenti (ad es. vaccino costituito da virus-like particles GI/3 e GII/4 in combinazione con Rotavirus VP6). L’unica forma efficace di controllo è l’attuazione di rigorose misure igieniche personali e ambientali, in particolare nel contesto della manipolazione e distribuzione di cibo e bevande. Dopo contatto con persone sintomatiche è opportuno il lavaggio delle mani e la disinfezione delle superfici con soluzione al 5-10% di ipoclorito di sodio. La trasmissione è facilitata dall’ampia diffusione nella comunità, dalla prolungata eliminazione da parte dei soggetti infetti, dalla bassa dose infettante e dall’alta stabilità ambientale. È anche importante utilizzare solo cibi di provenienza certificata, soprattutto nel caso di alimenti che vengono poco cotti, quali frutti di mare e verdure fresche, eliminare tutte le scorte alimentari che potrebbero essere state contaminate da un addetto infetto o da altre fonti di NoV, mantenere pure le riserve di acqua.

52.2 - Sapovirus Virioni di sapovirus sono stati originariamente rilevati mediante microscopia elettronica in campioni di feci diarroiche nel Regno Unito, tuttavia il ceppo prototipo è stato descritto durante un’altra epidemia in un orfanotrofio di Sapporo in Giappone nel 1982 (ceppo Hu/SaV/Sapporo/1982/JPN). Le infezioni da sapovirus rappresentano un problema di salute pubblica in quanto causano gastroenterite acuta in soggetti di tutte le età sia in forma epidemica che sporadica in tutto il mondo. Le epidemie solitamente occorrono in contesti abbastanza circoscritti, ma sono anche state descritte in seguito a trasmissione per via alimentare. Sembra che il numero di episodi che coinvolgono adulti stia aumentando costantemente, suggerendo un incremento della virulenza e/o della prevalenza. I virioni hanno tipicamente un diametro di circa 30-38 nm, a simmetria icosaedrica, con una depressione a forma di calice e/o 10 spicole all’esterno. Il genoma è a RNA a singolo filamento a polarità positiva, di circa 7,5 kb, poliadenilato all’estremità 3′ terminale. I sapovirus possono essere divisi in cinque genogruppi (GI-GV), di cui GI, GII, GIV e GV sono noti per infettare l’uomo, mentre GIII infetta specie suine. Nove genogruppi aggiuntivi sono stati recentemente proposti (GVI-GXIV). I genomi di GI, GIV e GV contengono ciascuno tre open reading frame (ORF) principali, mentre

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Capitolo 52 • Caliciviridae

GII e GIII hanno due ORF. ORF1 codifica per proteine non strutturali, tra cui VPg, proteasi, RNA polimerasi-RNA dipendente. ORF2 e ORF3 codificano per proteine strutturali (una proteina capsidica maggiore VP1 e una minore VP2, rispettivamente) e altre proteine con funzione ancora sconosciuta. Sequenze parziali codificanti per l’RNA polimerasi-RNA dipendente e/o la proteina capsidica VP1 possono essere usate per la caratterizzazione molecolare e la classificazione genetica dei sapovirus. Le sequenze di VP1 sono ampiamente utilizzate, in quanto la regione differisce maggiormente e le sequenze correlano con il fenotipo (antigenicità). Attualmente, su proposta dell’International Calicivirus Conference Committee si utilizza l’intera sequenza della regione VP1. In base a questi criteri, GI e GII sono ciascuno suddiviso in 7 genotipi (da GI/1 a GI/7 e da GII/1 a GII/7), GIV in un singolo genotipo (GIV/1) e GV in 2 (GV/1 e GV/2). L’infezione da sapovirus causa gastroenterite e può interessare tutte le età. Studi epidemiologici sono stati condotti in numerosi Paesi e hanno evidenziato variazioni a seconda dell’area geografica e del contesto, probabilmente anche in relazione alle diverse tecniche diagnostiche usate. Sono state descritte percentuali di prevalenza di in corso di epidemia dal 6 al 22% e di casi sporadici attribuibili a sapovirus variabili dal 2 al 13%. Il periodo di incubazione varia da meno di un giorno fino a 4 giorni. I sintomi comprendono diarrea e vomito, nausea, dolori addominali, brividi, cefalea, mialgie e malessere; la febbre è rara. La diarrea solitamente si risolve entro una settimana, ma sono anche stati descritti casi fino a 20 giorni. In generale, la sintomatologia è più lieve rispetto a quella da rotavirus e norovirus e autolimitante. In alcuni soggetti critici, tuttavia, può essere necessario il ricovero. La mortalità è rara ed è stata descritta soprattutto in anziani istituzionalizzati. L’infezione può anche decorrere in forma asintomatica e possono occorrere casi di co-infezione con altri virus enterici. I sapovirus sono stati rilevati dapprima mediante microscopia elettronica, che tuttavia presenta difficoltà di identificazione anche perché il numero di particelle è solitamente basso. Numerosi gruppi hanno sviluppato metodi immunoenzimatici (EIA) per lo screening anticorpale, che tuttavia non sono utili per discriminare genotipo e genogruppo, a meno che non si usino reagenti ceppo-specifici. La sieroprevalenza aumenta con l’età, raggiungendo > 90% in bambini in età scolare e resta elevata (80100%) negli adulti. Il ruolo protettivo e i meccanismi di resistenza all’infezione non sono completamente noti. Il più comune metodo di rilevamento dei sapovirus è la RT-PCR su campioni fecali. L’eliminazione fecale può continuare per 1-4 settimane dopo la risoluzione della sintomatologia, sebbene i livelli di RNA virale decrescano gradualmente dopo l’esordio della patologia. La maggior parte dei metodi sviluppati ha come target la regione 5′-terminale del gene che codifica per la proteina capsidica o l’RNA polimerasi-RNA dipendente. Sono inoltre disponibili metodi in real-time RT-PCR.

Bibliografia essenziale Hansman, G.S., «Sapovirus», in D. Liu (a cura di), Molecular Detection of Human Viral Pathogens, 1a ed., Taylor & Francis, Boca Raton, 2011, pp. 119-127. Khamrin, P., Ushijima, H., Maneekarn, N., «Norovirus», in D. Liu (a cura di), Molecular Detection of Human Viral Pathogens, 1a ed., Taylor & Francis, Boca Raton, 2011, pp. 111-117. Tan, M., Huang, P., Xia, M., Fang, P.A., Zhong, W., McNeal, M., Wei, C., Jiang, W., Jiang, X. (2011), «Norovirus p particle, a novel platform for vaccine development and antibody production», J Virol., 85, pp. 753-764. Zheng, D.P., Ando, T., Fankhauser, R.L., Beard, R.S., Glass, R.I., Monroe, S.S. (2006), «Norovirus classification and proposed strain nomenclature», Virology, 346, pp. 312-323. http://www.epicentro.iss.it

223

B

Capitolo

53 • Diffusione dei coronavirus nel mondo animale • Biologia dei coronavirus • Struttura e classificazione • Malattie umane da coronavirus

Coronaviridae

Alcuni virus (molto spesso si tratta di virus a RNA) hanno la particolare facilità di passare dall’ospite naturale ad altre specie, dove replicano più o meno efficientemente e generano malattie che possono essere gravi. Questo, di norma, si realizza attraverso l’infezione di pochi soggetti direttamente infettati dagli ospiti naturali (un evento definito spillover, tracimazione). Spesso il virus non si adatta al nuovo ospite e la piccola epidemia (se riguarda l’uomo si parla in questo caso di zoonosi) termina spontaneamente. In alcuni casi tuttavia, tale adattamento si può realizzare e si possono avere casi d’infezione interumana. Non è infrequente che epidemie dell’uomo che nascono con queste modalità abbiano caratteristiche cliniche di particolare gravità clinica, trattandosi di patogeni nuovi per la specie umana. I coronavirus, ma non solo loro, hanno dato chiari esempi di questo fenomeno e lo studio dei coronavirus ha consentito di evidenziare aspetti epidemiologici che hanno modificato il nostro approccio alla virologia umana. Essa non può infatti essere considerata una “nicchia ecologica” autonoma, ma va inquadrata nell’intero ambiente animale. Ciò non ha solo una valenza teorica, ma porta a ripercussioni pratiche di notevole importanza; infatti mentre è possibile pensare all’eradicazione di un virus che non ha serbatoi d’infezione diversi dall’uomo (come il virus del vaiolo umano), è sostanzialmente irrealistica quella di un virus che infetta l’uomo, ma che vive anche, contemporaneamente, in una specie animale selvatica. I coronavirus sono noti da molto tempo come patogeni di animali e dell’uomo. In medicina umana si è ritenuto per molto tempo, a torto, che fossero patogeni secondari, responsabili di patologie di scarso rilievo clinico. In realtà, molte caratteristiche biologiche e molecolari dei coronavirus rendono ragione della facilità con cui possono realizzarsi salti di specie e quindi l’uomo possa essere infettato e sviluppare malattie da virus, in origine non umani, trasmessi da specie animali. Dall’inizio dell’attuale secolo la popolazione mondiale ha vissuto in pochi anni due epidemie causate da coronavirus precedentemente non conosciuti, caratterizzate da grave patologia respiratoria acuta e alta mortalità. Nel 2003 vennero identificati nella Cina centro-meridionale casi di sindrome respiratoria acuta severa (severe acute respiratory syndrome; SARS). Inizialmente l’agente eziologico era ignoto, anche se venne immediatamente sospettata una causa virale. Quando si osservò che l’epidemia si stava allargando sia ai Paesi confinanti con la Cina, sia a nazioni lontane come il Canada, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) coordinò il lavoro di molti centri di virologia per identificare l’agente infettante che venne riconosciuto in un coronavirus precedentemente sconosciuto (SARS coronavirus; SARS-CoV). Complessivamente nel 2003 si sono registrati 8096 casi virologicamente accertati di SARS (almeno un terzo operatori sanitari), in un totale di 27 Paesi, con 774 decessi (mortalità di poco inferiore al 10%). Dal 2004 in poi, a seguito dell’introduzione di importanti misure di controllo epidemiologico, non si registrarono più casi di SARS e l’epidemia venne considerata esaurita. Nel giugno 2012 in Arabia Saudita, a distanza di 10 anni dall’insorgenza dell’epidemia di SARS, un uomo morì a seguito di una grave patologia respiratoria acuta e insufficienza renale. Dal liquido di lavaggio bronco-alveolare è stato isolato un nuovo

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coronavirus diverso da SARS-CoV che venne denominato middle east respiratory syndrome (MERS) coronavirus (MERS-CoV). Nuovi casi sono stati registrati nel 2014 e nel 2015 e l’infezione si diffuse successivamente anche a Paesi lontani, attraverso viaggi di soggetti infetti. Nel 2015 in Corea del Sud una singola persona di ritorno dall’Arabia Saudita generò un’epidemia con 186 casi complessivi. Fino all’aprile 2016 si sono registrati 1728 casi accertati di MERS con 624 decessi (mortalità 35% circa).

53.1 - Classificazione La famiglia Coronaviridae include due generi coronavirus e torovirus che presentano differenze sia morfologiche che genetiche. I torovirus sono virus a trasmissione oro-fecale, frequentemente causa di gastroenterite in bovini ed equini. Sono stati isolati anche in casi di gastroenterite umana, ma si ritiene che questi stipiti isolati dall’uomo siano, in realtà, di provenienza animale (zoonosi). I coronavirus (anch’essi, come i torovirus, virus a RNA a polarità positiva, provvisti di un involucro pericapsidico morfologicamente peculiare) sono molto più diffusi e infettano, oltre l’uomo, molte specie animali: polli, tacchini, pipistrelli e altre specie aviarie selvatiche, roditori, felini, cani, bovini, equini, suini. In questi animali i coronavirus si associano a sindromi respiratorie (alte e basse vie aeree), sindromi enteriche (gastroenteriti), epatite, encefalite e, nei casi più gravi, sindrome multiorgano (infezione respiratoria-enterica più pleurite, pancreatite, peritonite, miocardite, nefrite, encefalite). Per l’elevata mortalità tra gli animali da allevamento, le infezioni da coronavirus hanno una notevole importanza economica in zootecnia. I coronavirus animali e umani conosciuti sono suddivisi in 3 gruppi e in diversi sottogruppi. I gruppi 1 e 2 includono i virus isolati dall’uomo, anche se risulta evidente dall’analisi filogenetica un certa distanza tra molti di loro (tab. 53.1). Il sottogruppo Tabella 53.1 Classificazione dei principali coronavirus sulla base dell’analisi filogenetica.

Gruppo

Coronavirus

Specie animale infettata

1a

FCoV TGEV

Felini Maiale

1b

HCoV-229E HCoV-NL63 BtCoV-HKU2 BtCoV-1A-AFCD62 BtCoV-1B-AFCD307 BtCoV-HKU8-AFCD77 BtCoV-512-2005

Uomo Uomo Pipistrello Pipistrello Pipistrello Pipistrello Pipistrello

2a

HCoV-OC43 HCo-HKU1 BCoV-VENT

Uomo Uomo Bovino

2b

SARS-CoV BtSARS-HKU3 BtSARS-Rm1 BtSARS-229-2005 BtCoV273-2005

Uomo Pipistrello Pipistrello Pipistrello Pipistrello

2c

MERS-CoV BtCoV-HKU4 BtCoV-HKU5 BtCoV-133-2005

Uomo Pipistrello Pipistrello Pipistrello

2d

BtCoV-HKU9.4 BtCoV-HKU9.1 BtCoV-HKU9.2 BtCoV-HKU9.3

Pipistrello Pipistrello Pipistrello Pipistrello

3

IBV

Pollo

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Virologia medica

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1b include il coronavirus umano 229E (HCoV-229E) e il coronavirus umano NL63 (HCoV-NL63). Il primo è principalmente coinvolto in infezioni delle prime vie aeree (riniti), il secondo può essere l’agente eziologico d’infezioni anche delle basse vie (bronchioliti e polmoniti) specie nella prima infanzia. Il sottogruppo 2b include il SARSCoV, mentre il MERS-CoV appartiene, sulla base di questa classificazione genetica, al sottogruppo 2c. Nel sottogruppo 2a sono presenti altri due virus umani, HCoV-OC43 e HCoV-HKU1, agenti eziologi d’infezioni delle prime vie aeree e di broncopolmoniti infantili. È interessante notare come in quasi tutti i gruppi siano presenti coronavirus identificati con il prefisso Bt; si tratta di coronavirus isolati dai pipistrelli (bat); vedremo in seguito il ruolo centrale che questi animali giocano nella diffusione dei coronavirus.

53.2 - Struttura I coronavirus, nella loro forma extracellulare, appaiono rotondeggianti, di 100-150 nm di diametro. In modo caratteristico, mostrano proiezioni alla superficie dell’envelope della lunghezza di circa 20 nm. Tali proiezioni sono formate dalla glicoproteina S (spike); i trimeri di questa proteina formano strutture che, nel loro insieme, somigliano a una corona che circonda il virione (fig. 53.1). Alcuni coronavirus possiedono anche una proteina dell’envelope più piccola della proteina S, denominata hemoagglutinin-esterase (HE) protein, che svolge un’attività nella fase di rilascio del virus dalla cellula infettata. Gli anticorpi neutralizzanti i coronavirus legano la proteina S; essa è infatti coinvolta nell’interazione con il recettore cellulare (vedi oltre) e pertanto guida la specificità d’ospite e tissutale del virus. La proteina di membrana (M) è più profonda e attraversa tre volte l’envelope virale, interagendo all’interno del virione con il complesso costituito dall’RNA genomico e dalla nucleoproteina (proteina N). La proteina N ha la funzione di stabilizzare l’RNA a polarità positiva, il genoma dei coronavirus. Come altri virus a RNA a polarità positiva, il virione dei coronavirus non include una polimerasi, pur essendo questi virus capaci di sintetizzarla nel corso del loro ciclo replicativo. Il genoma dei coronavirus è di grande taglia (da 27 a 32 Kb, nei diversi virus); non sono noti virus a RNA di taglia maggiore. Esso è costituito da un singolo filamento di RNA a polarità positiva, con un cap e un sito di poliadenilazione. L’organizzazione genica è simile in tutti i coronavirus, con un’ampia regione relativa ai geni funzionali all’estremità 5′ e una successiva sequenza di regioni codificanti le proteine strutturali. Figura 53.1 Tipica morfologia dei coronavirus. La proteina S dei coronavirus forma dei trimeri che conferiscono, nel loro insieme, una struttura caratteristica al virione.

Capitolo 53 • Coronaviridae

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53.3 - Strategia replicativa e proteine virali I coronavirus, un genere della famiglia Coronaviridae, sono virus pleiomorfi, provvisti di envelope. La membrana pericapsidica contiene la glicoproteina transmembrana M, la glicoproteina S (spike) e la proteina E (envelope) e ricopre un nucleocapside flessibile. I coronavirus contengono una molecola di RNA a singolo filamento, a polarità positiva, provvista di un cap all’estremità 5′, di taglia variabile tra 26 e 32 kb. L’RNA virale include almeno 6 ORFs (open reading frames); il primo ORF (ORF a/b) occupa circa 2/3 dell’intero genoma e codifica proteine coinvolte nel processo replicativo. Ciò avviene attraverso la traduzione di una singola poliproteina che viene processata sia da una proteasi virale (detta main protease) sia da una o due (dipende dai tipi di coronavirus) papain-like proteases. Il risultato è la disponibilità di 15 o 16 proteine non strutturali (non-structural proteins, NSP) delle quali conosciamo oggi gran parte delle funzioni (tab. 53.2). La rimanente parte del genoma codifica quattro proteine strutturali: la proteina S (spyke), proteina E (envelope), proteina M (membrana), proteina N (nucleocapside) (fig. 53.2). Tra queste proteine vi sono da 1 a 8 geni codificanti proteine accessorie diverse, in relazione al ceppo virale. La proteina N è importante per l’incapsidazione dell’RNA virale e agisce da antaTabella 53.2 Proteine non strutturali dei coronavirus e loro funzioni.

Proteina

Funzioni

NSP1

Degradazione dell’mRNA della cellula ospite Inibizione della traduzione Arresto del ciclo cellulare Inibizione del signaling di IFN

NSP2

Sconosciuta

NSP3

Papain-like proteases (processamento della poliproteina) Poly(ADP-ribose) binding Antagonista dell’IFN Legame agli acidi nucleici

NSP4

Formazione di DMV(*)

NSP5

Main protease (processamento della poliproteina)

NSP6

Formazione di DMV(*)

NSP7

ssRNA binding

NSP8

Parte del complesso di replicazione

NSP9

Parte del complesso di replicazione

NSP10

Parte del complesso di replicazione

NSP11

Sconosciuta

NSP12

RNA polimerasi-RNA dipendente

NSP13

Elicasi RNA 5'-Nucleoside triphosphatase activity

NSP14

3'-to-5' exoribonuclease RNA cap formation (guanine-N7-methyltransferase)

NSP15

Endonucleasi

NSP16

RNA cap formation (2'O-methyltransferase)

* DMV, vescicole del reticolo endoplasmatico.

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Figura 53.2 Tappe della replicazione di coronavirus. Caratteristico è il processo di trascrizione (una sequenza leader comune copiata dall’estremità 3' del minus strand su ciascuno dei trascritti di differente taglia). Successivamente all’assemblaggio avviene la gemmazione intracellulare, tipica dei coronavirus.

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Recettore 5' 3'

RNA genomico (+) 3' RNA polimerasi Intermedio repl. (–) 5' 5'

3'

NS2 HE

Trascritti virali

S NS4 E M N 5'

RNA genomico (+) 3' RNA polimerasi

Nucleo

Nucleocapside

Vescicole citoplasmatiche

gonista dell’interferone (IFN). La proteina E è una piccola proteina con ruoli nella morfogenesi, nell’assemblaggio e nella gemmazione virale. In assenza di proteina E il rilascio del virus è inibito totalmente o parzialmente. Questa proteina inoltre possiede attività di canale ionico, richiesta per l’ottimale replicazione del virus. La proteina S è coinvolta nell’interazione con il recettore cellulare nella fase di entry del virus. I recettori di alcuni dei coronavirus sono stati identificati. Alcuni coronavirus di gruppo 1 usano l’amino peptidasi N, presente sia in cellule dell’albero respiratorio che dell’apparato gastro-enterico, evento che giustifica il tropismo virale in questi distretti. SARS-CoV (gruppo 2) ha mostrato un’interazione con human angiotensin converting enzyme 2 (hACE2) come HCoV-NL63. La replicazione dei coronavirus si sviluppa in particolari vescicole del reticolo endoplasmatico (double membrane vesicles; DMVs) alla formazione delle quali contribuiscono alcune proteine non strutturali del virus. Ciò determina la particolare modalità di uscita dalla cellula infettata dei coronavirus (fig. 53.2).

53.4 - Malattie umane da coronavirus Prima dell’epidemia di SARS nel 2002-2003, due coronavirus umani, HCoV-OC43 e HCoV-229E, erano noti come causa di infezione del tratto respiratorio superiore e, occasionalmente, di forme di polmonite severa nei neonati, negli anziani e nei soggetti immunocompromessi. Partendo dai primi casi delle regioni meridionali della Cina, SARS-CoV ha causato un’epidemia di infezione respiratoria grave con oltre 8000 casi nel mondo e una mortalità di circa il 10% (ma di circa il 50% nei soggetti con oltre 65 anni). La malattia da SARS-CoV ha avuto inoltre caratteristiche di malattia sistemica, con coinvolgimento, nelle forme gravi, di molti organi e apparati, inclusi il rene e il cuore. L’evidenza che l’epidemia di SARS è stata determinata da un coronavirus ha intensificato la ricerca su altri possibili coronavirus patogeni per l’uomo. Nel 2003-2004 si arrivò all’identificazione di altri due coronavirus umani,

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Capitolo 53 • Coronaviridae

HCoV-NL63 e HCoV-HKU1, isolati da pazienti ospedalizzati. HCoV-NL63 è un virus che infetta da molto tempo (secoli) il genere umano, poiché studi filogenetici hanno mostrato che si è differenziato da HCoV-229E circa 1000 anni fa, ha una distribuzione vastissima in tutto il mondo e generalmente è coinvolto in infezioni di modesta gravità clinica. Nel 2012 è emersa una nuova epidemia di malattia respiratoria severa nella penisola arabica; dai primi casi venne isolato un nuovo coronavirus denominato Middle East respiratory syndrome coronavirus (MERS-CoV). Il virus, diverso da quello che ha generato l’epidemia di SARS, ha sostenuto un’epidemia di discreta entità; i casi complessivi sono stati 1728, distribuiti in 27 Paesi, con una mortalità del 33%. Inoltre, come già detto i coronavirus non infettano soltanto l’uomo, ma da molto tempo sono noti virus associati a malattie di diverse specie animali. Il transmissible gastroenteritis virus (TGEV) causa diarrea nei maiali, l’infectious bronchitis virus (IBV) causa una severa infezione del tratto respiratorio e malattia renale nei polli, il bovine coronavirus (BCoV) causa malattia respiratoria ed enterica nei bovini. Si tratta in tutti i casi di infezioni, spesso epidemiche, che hanno un’importanza economica notevole negli allevamenti. Ma si tratta anche dell’evidenza di come i coronavirus siano diffusi tra le diverse specie animali (uomo incluso) sia di allevamento, sia, soprattutto, selvatiche.

53.5 - Diffusione dei coronavirus attraverso il passaggio tra specie diverse La capacità dei coronavirus di adattarsi alla replicazione in specie diverse è conosciuta da tempo; dal punto di vista molecolare questo evento si realizza attraverso mutazioni o ricombinazioni genetiche. Gli esempi di tale plasticità genetica, e conseguentemente funzionale, di questi virus a RNA sono molti. Il coronavirus bovino BCoV e quello umano HCoV-OC43 sono geneticamente molto simili ed è stato stimato attraverso studi di filogenesi che ci possa essere stato un salto di specie circa 100 anni fa. Coronavirus del cane (Canine-CoV; CCoV), dei felini (FCoV) e del maiale hanno dimostrato segni di ricombinazione che hanno generato due nuovi virus, rispettivamente del cane e dei felini (CCoV-II e FCoV-II). Dati di sequenza genica suggeriscono che il coronavirus TGEV sia emerso come trasmissione dal cane al maiale di CCoV-II. Infine (e si tratta di un aspetto molto rilevante dal punto di vista epidemiologico), studi molecolari condotti in tutti i continenti hanno documentato l’esistenza di oltre 60 distinti tipi di coronavirus dei pipistrelli. Filogeneticamente questi virus derivano da comuni ancestori e, nel tempo, si sono adattati alle diverse specie di pipistrello. Molti coronavirus dei mammiferi e dell’uomo sono vicini ai virus dei pipistrelli. È oggi fortemente ipotizzato, oltre che supportato da dati di epidemiologia molecolare, che i pipistrelli abbiano un ruolo importantissimo nella diffusione dei coronavirus (e non solo dei coronavirus) a specie animali selvatiche o domestiche e che, da esse, con un successivo passaggio, possa essere infettato l’uomo. Nell’epidemia di SARS del 2002-2003 fu presto evidente che i primi casi si erano sviluppati in mercati dove avveniva la macellazione di alcuni piccoli animali selvatici che erano utilizzati nella gastronomia locale: zibetto o Himalayan palm civets (Pagkuma larvata), Raccoon dogs (Nyctereutes procyonoides) e Chinese ferret badgers (Melogale moschata). È oggi ipotizzato che queste specie selvatiche siano state infettate da un virus del pipistrello, geneticamente molto vicino a SARS-CoV. Per quanto riguarda MERS-CoV, il ruolo di ospite intermedio per l’infezione umana è stato svolto dai dromedari, animali nei quali è stato isolato il virus e sono stati identificati frequentemente anticorpi neutralizzanti sierici, a testimonianza di un’infezione pregressa. È ritenuto tuttavia molto probabile che, alcune decine di anni fa, i dromedari siano stati infettati da un virus dei pipistrelli in modo analogo a quanto osservato per la SARS.

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53.6 - Patogenesi delle infezioni da SARS-CoV e MERS-CoV Il decorso clinico di SARS e MERS è molto simile, ma con sottili differenze dovute alla diversità dei due virus. Come accennato sopra, la proteina S di SARS-CoV utilizza il recettore ACE2 presente nelle cellule dell’albero respiratorio per l’ingresso nella cellula. La downregulation dei recettori ACE2 porta a un’eccessiva produzione di angiotensina II da parte dell’enzima correlato ACE e ciò induce un’eccessiva permeabilità vascolare polmonare. Inoltre sono molte le indicazioni che processi d’immunopatogenesi contribuiscono alla severità clinica delle infezioni da SARS-CoV e MERS-CoV. In particolare è stata descritta un’alterata regolazione di citochine e chemochine pro-infiammatorie (in particolare, interleuchina 1β, IL-1β, IL-8, IL-6, CXC-chemokine ligand 10, CXCL10, e CC-chemokine ligand 2, CCL2). È stato altresì osservato che SARS-CoV e MERS-CoV utilizzano diverse strategie per evitare la risposta immune innata. Tra queste strategie, la replicazione all’interno di cellule che mancano di pattern recognition receptors (PRR), la produzione di proteine virali non strutturali che interagiscono con la via metabolica dei PRR, l’inibizione, sempre attraverso una proteina non strutturale, della produzione di IFN-I e, attraverso altre NSP, l’antagonismo verso IFN.

53.7 - Diagnosi e trattamento delle infezioni severe da coronavirus Mentre le malattie da coronavirus più lievi non richiedono una specifica terapia, il problema si pone per le infezioni severe che clinicamente si presentano spesso con una compromissione notevole dell’apparato respiratorio e, non infrequentemente, con una diffusione sistemica. La diagnosi eziologica si effettua con tecniche molecolari (RTPCR) o, meno frequentemente, con l’isolamento virale e la successiva identificazione dell’isolato. Nella terapia delle forme gravi sono stai impiegati farmaci di diversa natura. La ribavirina è stata molto utilizzata nei casi di SARS, spesso in combinazione con IFN-α e corticosteroidi, per il loro effetto anti-infiammatorio. In molti casi sono stati associati preparati di immunoglobuline e timosina per stimolare la risposta immune. La reale efficacia di questi trattamenti è tuttavia dubbia. Maggiore efficacia, soprattutto nei casi di MERS, si è osservata con il trattamento con plasma di convalescenti (possibilmente ricco di anticorpi neutralizzanti) e con anticorpi monoclonali umani specifici. Gli anticorpi neutralizzanti infatti riducono o annullano l’entry del virus nella cellula, inibendo così il processo replicativo virale. Infine sono stati sviluppati vaccini sperimentati su modelli animali, ma non esiste ancora un chiara indicazione al loro uso nell’uomo.

53.8 - Preparare il mondo all’emergenza di nuovi virus patogeni Per molti decenni lo studio patogenetico delle malattie infettive è stato totalmente impermeabile alle teorie evolutive di base darwiniana; ora non è più così. Per ancora più tempo si è stentato a considerare l’ecologia come elemento fondamentale per la comprensione dell’emergenza di nuovi patogeni. Ma le zoonosi ci ricordano, ogni volta, che in quanto esseri umani siamo parte della natura e che la stessa idea di un mondo naturale distinto da quello dell’uomo è sbagliata e fuorviante. I pericoli delle zoonosi virali (non solo di quelle da coronavirus, ma anche Ebola, influenza, Nipah, Hendra; vedi i rispettivi capitoli) sono concreti e gravi per l’umanità del domani. Fare previsioni su quanto accadrà, se cioè a breve ci sarà una nuova grave pandemia, può essere un esercizio pericoloso, in cui a volte qualche “esperto” si avventura. In ogni caso, la lezione che è arrivata all’uomo dagli ultimi importanti eventi è che le zoonosi

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Capitolo 53 • Coronaviridae

rappresentano in virologia medica il vero problema per il futuro. Gruppi di scienziati ora studiano i confini attraverso cui il prossimo virus (partendo da uno scimpanzé, da un pipistrello, da un topo, da un’anatra, da un macaco o da un dromedario) infetterà l’uomo e magari riuscirà poi a passare da persona a persona, causando un numero iniziale di casi letali e, da questo evento, a diffondere nel mondo con una pandemia. Questa attività di monitoraggio è importantissima per programmare le strategie di contenimento e quelle terapeutiche e profilattiche. È tuttavia da rilevare che non tutto dipende dalla ricerca medica. Dovremmo infatti comprendere che una serie di fattori facilitano il passaggio di virus dall’animale all’uomo e oggi conosciamo questi “facilitatori”. In primo luogo, viviamo in agglomerati urbani superaffollati e la popolazione mondiale cresce in modo esponenziale (dai sette miliardi attuali, arriverà in pochi decenni a nove miliardi, prima che la curva di crescita si appiattisca per esaurimento delle risorse). In secondo luogo, distruggiamo le grandi foreste della terra, uccidendo gli animali che ci vivono da sempre (e ci installiamo al loro posto, esposti agli stessi patogeni di quelle specie animali). In terzo luogo, alleviamo in modo intensivo e in spazi limitati bovini, suini, polli (in queste condizioni è possibile che animali domestici da allevamento siano esposti a patogeni provenienti da specie selvatiche e che tali virus patogeni abbiano l’opportunità di evolvere geneticamente e diventare capaci di infettare gli uomini). In quarto luogo, gli animali d’allevamento sono bombardati con dosi profilattiche di antibiotici (favorendo la selezione delle specie resistenti) e altri farmaci, non per salvaguardare la loro salute, ma per farli arrivare con il peso più conveniente alla macellazione. In quinto luogo, commerciamo attraverso i continenti in pelli, carne, piante che spesso portano invisibili passeggeri patogeni potenziali per l’uomo. In sesto luogo, viaggiamo in continuazione, spostandoci da un continente all’altro, favorendo così il viaggio di patogeni esotici. In settimo luogo, cambiamo il clima del mondo, spostando le latitudini a cui vivono i vettori (ad es. specie di zanzare). Tutte queste (e molte altre) rappresentano irresistibili tentazioni per i più intraprendenti dei patogeni virali, come i coronavirus, e si formano pertanto le circostanze ambientali più opportune per i primi casi d’infezione. E tali casi possono diventare pandemie se l’agente virale si adatta all’uomo e viene trasmesso in modo efficiente. Dovremmo esserne almeno consapevoli e correggere, se possibile, le condizioni favorenti citate sopra e studiare misure per combattere quello che potrà avvenire. Per i coronavirus, se SARS e MERS sono scomparsi a seguito delle misure draconiane prese per fermare l’avanzata delle rispettive epidemie, è certamente possibile prevedere che altri virus, che oggi non conosciamo, tenteranno di diffondersi all’uomo in futuro.

Bibliografia essenziale de Wit, E., van Doremalen, N., Falzarano, D., Munster, V.J. (2016) «SARS and MERS: recent insights into emerging coronaviruses», Nature Reviews Microbiology, doi 101038/nmicro 2016 81. Quammen, D., Spillover. Animal infections and the next human pandemic, W.W. Norton & Co. Inc., New York, 2012. Ziebuhr, J. (2004) «Molecular biology of severe acute respiratory syndrome coronavirus», Curr. Opin. Microbiol., 7, pp. 412-419.

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Capitolo

54 • Virus con genoma a RNA singolo filamento • Alfavirus, trasmissione zoonotica attraverso artropodi • Alfavirus ed episodi febbrili, esantemi, artrite, encefalite • Rubivirus (virus della rosolia) • Vaccini

Togaviridae

Come indica l’etimologia del nome (dal latino toga, mantello), i membri della famiglia Togaviridae sono virus caratterizzati dalla presenza di un involucro lipidico, perfettamente aderente a un capside icosaedrico che contiene un singolo filamento di RNA, non segmentato, a orientamento positivo. La famiglia comprende agenti di rilevanza sia clinica – virus diversi causano patologie variabili da un semplice rialzo febbrile con o senza esantema maculare e/o artrite a encefaliti severe – sia storica – il virus della rosolia detiene il primato per il riconoscimento nel 1941 delle sue potenzialità come agente teratogeno (casi di cataratta e altri difetti congeniti descritti da sir McAlister Gregg in bambini nati dopo un’epidemia di rosolia).

54.1 - Classificazione La famiglia include solamente due generi, gli Alphavirus e i Rubivirus. Tutti i membri del genere Alphavirus sono causa di zoonosi e vengono trasmessi all’uomo da artropodi (varie specie di zanzare) che rappresentano il tramite fra il serbatoio d’infezione (normalmente un piccolo vertebrato, mammifero o uccello) e l’uomo (ospite occasionale, così come a volte è il cavallo, privo di un ruolo nel ciclo di mantenimento). Questa peculiarità, condivisa con altri virus appartenenti alle famiglie Flaviviridae, Bunyaviridae e Reoviridae, ha determinato in passato il collocamento degli alphavirus nel gruppo tassonomico degli Arbovirus (arthropode borne viruses). Oggi i membri del genere Alphavirus sono classificati sulla base di omologie genomiche e sono riconosciute attualmente 27 specie separate che presentano una caratteristica distribuzione geografica e sono poco diffuse in Europa e nel nostro Paese. Mentre gli alphavirus sono numerosi e presentano un ampio spettro d’ospite che include, oltre agli insetti e all’uomo, varie specie di mammiferi e di uccelli, il genere Rubivirus è rappresentato solamente dal virus della rosolia, che a differenza degli altri non è trasmesso da vettori, ha come unico ospite l’uomo, causa una malattia esantematica tipica dell’infanzia, la rosolia, che è generalmente poco impegnativa ma può avere gravissime conseguenze per il feto se contratta durante la gravidanza.

54.2 - Struttura Il virione ha forma sferica e un diametro di circa 70 nm. La caratteristica dominante è la presenza di un involucro lipidico che è strettamente associato al sottostante nucleocapside icosaedrico. L’involucro è composto di lipidi acquisiti dalla membrana cellulare e di due glicoproteine virus-specifiche. Le glicoproteine dell’involucro sono arrangiate in trimeri, ciascuno composto da tre eterodimeri formati dalle due glicoproteine virali E1 ed E2 che protrudono dalla superficie del virione a formare gli spike; la porzione più distale di E2 presenta epitopi riconosciuti da anticorpi monoclonali: è quindi importante nel processo di ingresso e nella stimolazione della risposta immune. Ciascun trimero è fermamente ancorato alla membrana grazie alla presenza di do-

Capitolo 54 • Togaviridae

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A

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B E2 E1

Involucro esterno: doppio strato lipidico con glicoproteine E1 ed E2

Nucleocapside icosaedrico: proteina C

Genoma RNA singolo filamento positivo

70 nm Figura 54.1 A. Ricostruzione, mediante crioelettromicroscopia, dell’immagine del virus River Ross visto dal piano di simmetria a tre pieghe. Evidenziate nel cerchio le proiezioni piriformi (colorate in rosso) degli eterodimeri E1/E2 arrangiati in forma trimerica e le

porzioni di interconnesione (non colorate) che formano il guscio proteico che infarcisce il doppio strato lipidico dell’envelope. È evidente come l’envelope sia conforme per forma e simmetria al capside sottostante. B. Struttura di un togavirus.

mini di transmembrana presenti in entrambe le glicoproteine, e la porzione COOH terminale di E1 rivolta verso la parte citoplasmatica della membrana interagisce con pentoni ed esoni del nucleocapside, al quale l’involucro lipidico aderisce strettamente prendendone la forma (fig. 54.1). Il nucleocapside è formato da copie multiple di una sola proteina (240 copie nel caso degli alphavirus) la cui porzione aminoterminale, ricca in arginina, presenta una carica netta basica e quindi attrae l’RNA acido, con il quale interagisce a livello del sito di incapsidazione presente nella regione 5′ del genoma. Il genoma è costituito da una molecola di RNA a orientamento positivo, simile a un RNA messaggero cellulare dotato, come quello, del cappuccio di 7-metil guanosina al 5′ e poliadenilato al 3′. Il genoma, la cui lunghezza varia da 9700 (rosolia) a 11 800 (Sindbis) basi (fig. 54.2), è organizzato in due lunghi open reading frame (ORF) policistronici separati da una regione non tradotta, molto conservata, di circa 120 nucleotidi. L’ORF al 5′ codifica per proteine non strutturali richieste per la trascrizione e la replicazione: nel virus della rosolia sono p150, che esibisce attività di cistein-proteasi e di metiltransferasi, e p90, che esibisce le attività di replicasi ed elicasi tipiche delle RNA polimerasi-RNA dipendenti. L’ORF al 3′ codifica per le proteine strutturali del capside (C) e dell’involucro (E1 ed E2).

54.3 - Replicazione Il ciclo replicativo (fig. 54.3) inizia con il legame di E2 (anticorpi specifici neutralizzano l’infettività virale) a un recettore di membrana che, dato l’ampio spettro d’ospite (almeno per gli alphavirus) e i molti tipi di cellule infettate, deve essere rappresentato da una varietà di molecole diverse o in alternativa essere una molecola ubiquitaria, e comunque non è stato a tutt’oggi identificato in modo certo. In seguito all’adsorbimento il virus viene internalizzato mediante endocitosi e fusione delle membrane mediata dal pH acido all’interno dell’endosoma. L’ambiente acido favorisce infatti la dissociazione del dimero E1/E2 e la trimerizzazione di E1, che, nella nuova conformazione, espone un dominio idrofobico che funziona come peptide di fusione (un processo che ricorda quanto succede alla subunità HA2 dei

B

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0,0

3,0

nsP1 MT

Virus Sindbis CAP

6,0

nsP2 E P

nsP3 X

9,0

nsP4 R

12,0 Kb

120 nt

Poli-A E3

P150 Virus rosolia

P90

MT

CAP

P

6K

C

CAP

E2

Poli-A

120 nt

E

R

Poli-A

CAP

C

E2

Proteine non strutturali Figura 54.2 Genomi del virus Sindbis (alphavirus) e del virus della rosolia a confronto. Gli RNA genomici e subgenomici sono dotati di cappuccio al 5' e sono poliadenilati al 3'. La porzione al 5', circa due terzi del genoma, codifica una poliproteina che viene scissa nelle 4 proteine non strutturali nsP1-nsP4 in Sindbis e nelle due proteine non strutturali p150 e p90 nel virus della rosolia. Tali proteine presentano attività di metiltransferasi (MT), proteasi (P), elicasi (E) e replicasi (R); come indicato, la funzione di nsP3 (X) è

E1

E1

Poli-A

Proteine strutturali ancora ignota. La porzione al 3', il rimanente terzo del genoma, codifica le proteine strutturali (C, E2, E1) che si ottengono dalla traduzione di un mRNA subgenomico; in Sindbis esiste anche una terza glicoproteina, E3, che deriva dal clivaggio del precursore PE2 e non entra a far parte del virione, e una piccola proteina (6K) che rimane immersa nella membrana. *** = codoni di stop per la traduzione del precursore delle proteine non strutturali.

Proteine strutturali

Nucleo

B

RNA genomico Genoma 5'

3'

3' 5' 5' 3'

Genoma 49S

5' 3' 3' 5'

5' Subgenoma 26S mRNA

Poliproteina N

Antigenoma

E1 E2

C

Proteine non strutturali

Figura 54.3 Ciclo replicativo di un togavirus. La penetrazione avviene per endocitosi mediata da recettore e formazione dell’endosoma, il rilascio dell’acido nucleico avviene in seguito alla fusione delle membrane dopo acidificazione della vescicola. Il genoma funziona come messaggero e sui ribosomi viene prodotta una poliproteina che si autocliva nelle proteine con attività enzimatica non strutturali che includono la RNA polimerasi-RNA dipendente per la trascrizione di un intermedio replicativo (RNA senso negativo) che viene a sua volta trascritto in due messaggeri di 42S e 26S; quest’ultimo viene

tradotto sui ribosomi associati al reticolo endoplasmatico rugoso (RER) in una poliproteina dalla quale viene immediatamente scissa la proteina del capside, quindi una sequenza segnale associa la restante poliproteina nascente al RER, dove la traduzione viene terminata, la poliproteina viene glicosilata e tagliata dalle proteasi cellulari nel Golgi. Le proteine del capside si assemblano tra loro e con il genoma 49S a formare capsidi maturi che a loro volta si associano alle regioni della membrana infarcite di glicoproteine E1 ed E2. Il virus esce per gemmazione dalla membrana plasmatica della cellula.

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virus dell’influenza). Il successivo evento di scapsidazione, probabilmente determinato dalla mancanza di contatto di C con la regione interna di E2, e che sembra legato all’interazione di una porzione del capside direttamente con i ribosomi, rende l’acido nucleico disponibile per l’inizio della traduzione. L’espressione dei geni è regolata in modo caratteristico: si distinguono infatti due fasi di trascrizione/traduzione (fig. 54.4). Nella prima a partire dall’RNA genomico vengono tradotte le sole proteine non strutturali (fase precoce), mentre le proteine strutturali si ottengono in un secondo tempo da un mRNA subgenomico, corrispondente alla porzione 3′ del genoma (fase tardiva). Questa regolazione riflette, da una parte, l’esigenza di rendere disponibile per la traduzione anche la seconda ORF dell’RNA genomico e, dall’altra, la necessità del virus di regolare verso l’alto la quantità di proteine strutturali, attraverso la formazione di un mRNA subgenomico fortemente favorito dall’accumulo di RNA polimerasi virale. In breve, dunque, una volta diventato accessibile ai ribosomi, l’RNA genomico viene parzialmente tradotto per produrre le proteine non strutturali (espressione della ORF al 5′). Queste proteine sono responsabili per la replicazione del genoma attraverso la trascrizione di un intermedio replicativo (RNA complementare a orientamento negativo o antigenoma) che funge da stampo per la sintesi di due specie di RNA (+), distinte per il diverso coefficiente di sedimentazione:

• un RNA (+) ′49S′ (Sindbis)/′40S′ (rosolia) = RNA genomico; • un RNA (+) ′26S′ = RNA subgenomico. La traduzione dell’RNA subgenomico neosintetizzato risulta nella produzione delle proteine strutturali (espressione della ORF al 3′). L’abbondanza di mRNA subgenomico permette la produzione di grandi quantità di proteine strutturali necessarie per l’assemblaggio. La proteina del capside (C) è tradotta per prima e viene scissa dalla poliproteina nascente (per autocatalisi negli alphavirus o per attività di una segnal-peptidasi cellulare nel virus della rosolia) rimanendo nel citoplasma, dove si assembla per formare i capsidi; il rimanente polipeptide presenta la sequenza segnale che favorisce

p90 Processamento proteolitico

Pr p220

Cap–

1ª traduzione

5'

3' RNA genomico Replicazione

5'

p90

5' RNA complementare Replicazione

5'

2ª traduzione

3' RNA genomico RNA subgenomico 3'

5'

Processamento proteolitico

Pr p110 C

E2

E1

PROTEINE STRUTTURALI

Cap–

p150

PROTEINE NON STRUTTURALI

p150

Figura 54.4 L’espressione dei geni di un togavirus (nell’esempio il virus della rosolia) passa attraverso due fasi (precoce e tardiva) di traduzione/ trascrizione. Dapprima l’RNA genomico funziona da stampo per le proteine non strutturali, poi, grazie all’accumulo di RNA polimerasi virale e attraverso la formazione di un RNA subgenomico, trascritto dall’RNA complementare, avviene la traduzione delle proteine strutturali.

B

B

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la sua traslocazione nel lume del reticolo endoplasmatico, dove viene scisso dalle proteasi cellulari nelle singole proteine dell’involucro (E2 ed E1) che vanno incontro al processo di maturazione e glicosilazione nel Golgi prima di essere rilasciate sulla membrana cellulare. L’assemblaggio avviene a livello della membrana cellulare e l’involucro viene acquisito per gemmazione dalla cellula. Rilascio del virus e maturazione sono quasi simultanei.

54.4 - Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione I membri appartenenti al genere Alphavirus replicano rapidamente in molte linee cellulari derivate sia da vertebrati sia da invertebrati, dove generalmente stabiliscono infezioni rispettivamente litiche e persistenti. A differenza degli alphavirus, il virus della rosolia, che pure replica in diverse linee cellulari derivate da mammiferi, non uccide, a meno di un inoculo ad alta molteplicità d’infezione, le cellule ma stabilendo un’infezione persistente disturba in molti casi le luxury functions di cellule altamente specializzate, cioè le funzioni utilizzate per la loro replicazione, il che si traduce in un tasso di crescita fortemente ridotto che spiegherebbe almeno in parte lo sviluppo anomalo di alcuni organi nell’infezione congenita. Il ciclo di mantenimento delle infezioni sostenute dagli alphavirus si svolge, come precedentemente detto, tra un ospite vertebrato, che rappresenta il serbatoio d’infezione ed è caratterizzato da uno stato viremico duraturo, e un artropode ematofago (una zanzara femmina del genere Aedes o Culex), che può infettarsi quando morde l’ospite viremico. Nella zanzara il virus replica dapprima nelle cellule epiteliali dell’intestino medio, dalle quali passa poi in circolo e raggiunge le ghiandole salivari, dove stabilisce un’infezione persistente. Quando una zanzara infetta punge l’uomo, può depositare il virus rigurgitato nella saliva in sede extravascolare e, se il virus è presente in concentrazione adeguata e il nuovo ospite è immunologicamente recettivo, si stabilisce l’infezione di cellule suscettibili; si ritiene che l’infezione di cellule di Langerhans sia la via più comune per l’inizio dell’infezione naturale. In seguito alla replicazione in queste cellule il virus è trasportato ai linfonodi regionali e di qui al circolo ematico. Si ha una viremia che può coincidere con una sintomatologia simil-influenzale dovuta al fatto che questi virus sono buoni induttori d’interferone. Normalmente l’infezione viene controllata a questo punto, ma in alcuni casi progredisce con il coinvolgimento dell’organo target: la pelle per gli alphavirus che causano un esantema, le articolazioni per quelli che causano artrite e il sistema nervoso centrale per quelli che causano encefalite. C’è infine qualche evidenza che alcune infezioni possano persistere nonostante la risposta immune. In questo ciclo di mantenimento l’uomo rappresenta sempre un ospite terminale, in quanto ha poche probabilità di trasferire l’infezione all’artropode o perché la viremia è bassa e transitoria o perché muore. In tabella 54.1 sono riportate le principali specie di alphavirus associate a malattia umana. L’uomo è l’unico ospite naturale e la sola riserva d’infezione per il virus della rosolia, del quale si conosce un unico sierotipo; l’infezione può dunque essere eradicata da un’adeguata politica di vaccinazione. Il virus si trasmette per via respiratoria e replica inizialmente nella mucosa del tratto respiratorio superiore, da qui raggiunge i linfonodi regionali causando linfoadenopatia retroauricolare e suboccipitale. In seguito alla viremia, il virus si diffonde e replica in molti organi, compresa la placenta, da cui l’infezione può essere trasmessa al feto. La fase viremica cessa con la comparsa degli anticorpi (fig. 54.5) e la contestuale comparsa di un esantema cutaneo maculo-papulare continuo di colore rosaceo che procede dal capo agli arti, compare da 14 a 21 giorni dall’esposizione, raramente dura più di 3 giorni, e si ritiene di natura immunologica. Il paziente elimina il virus attraverso le secrezioni nasofaringee durante la fase viremica, per tutta la fase sintomatica e per più di una settimana dopo la scomparsa dell’esantema.

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Tabella 54.1 Principali componenti del genere Alphavirus associati a malattia nell’uomo.

Virus (abbreviazione)

Serbatoio principale

Distribuzione geografica

Malattia nell’uomo

Tasso di mortalità

Getah (GET)

Mammiferi

Asia

Febbre



Mayaro (MAY)

?

Sud America

Febbre, artrite



Sindbis (SIN)

Uccelli

Australia, Africa, Nord Europa, Medio Oriente

Febbre, artrite, esantema



Barman forest (BF)

Uccelli

Australia

Febbre, artrite, esantema



Ross River (RR)

Mammiferi

Australia, Sud Pacifico

Febbre, artrite, esantema



Chikungunya (CHIK)

Primati

Africa, Sud-Est Asiatico, Filippine

Febbre, artrite, esantema



O’nyong-nyong (ONN)

?

Africa orientale

Febbre, artrite, esantema



Semliki Forest (SF)

?

Africa

Febbre, encefalite*



Encefalite equina orientale (EEE)

Uccelli

Nord America, Sud America, Caraibi

Febbre, encefalite**

30-40%

Encefalite equina occidentale (WEE)

Uccelli Mammiferi

Nord America, Sud America

Febbre, encefalite**

3-8%

Encefalite equina venezuelana (VEE)

Mammiferi

Nord America, Sud America

Febbre, encefalite**

< 1%

Everglades (EVE)

Mammiferi

Florida

Encefalite



* Studi di sieroepidemiologia mostrano che l’infezione è relativamente comune, ma il legame a una malattia è stato evidenziato solamente in due occasioni (encefalite mortale in un ospite immunocompromesso, alcuni casi di febbre, mal di testa e artralgia in Africa Centrale). ** Tipicamente la prognosi è peggiore nell’infezione di bambini (età inferiore a 5 anni) e di anziani (età superiore a 50-60 anni).

L’infezione determina dunque una malattia acuta a decorso quasi sempre benigno nei bambini e frequentemente asintomatico; il quadro clinico, quando presente, è caratterizzato da esantema eritematoso, linfoadenomegalia, febbricola, congiuntivite, mal di gola e artralgia. Le complicazioni costituite da artrite, porpora trombocitopenica ed encefalite post-infettiva sono rare e più frequenti nell’adulto. L’infezione del feto in seguito a trasmissione transplacentare è certamente la sequela più seria dell’infezione rubeolica, tanto più grave quanto più l’infezione è acquisita precocemente in corso di gravidanza. La replicazione del virus nei tessuti embrionari può causare aborto spontaneo e, se l’infezione è contratta durante le prime 8-12 settimane di gestazione, il rischio di difetti alla nascita è talmente alto (67-85% dei casi) da indurre l’interruzione terapeutica di gravidanza. Il virus replica nella maggior parte dei tessuti fetali stabilendo spesso un’infezione persistente non citolitica che interferisce con le mitosi e la normale crescita delle cellule; le conseguenti alterazioni dipendono dal tessuto interessato e dallo stadio dello sviluppo fetale al momento dell’infezione. Le più comuni manifestazioni cliniche che caratterizzano la sindrome rubeolica congenita (SRC) sono a carico degli occhi (cataratta, glaucoma, corioretinite), del cuore (pervietà del dotto arterioso, stenosi polmonare e aortica, stenosi valvolare polmonare, difetti del setto atriale e ventricolare) e del sistema nervoso centrale (sordità neurosensoriale, ritardo mentale, deficit motori e dell’equilibrio, disturbi psichiatrici e del comportamento). Molte di queste manifestazioni sono evidenti alla nascita o si manifestano nel primo anno di vita, altre compaiono e progrediscono nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Il virus può persistere nei tessuti del bambino per anni e può essere disperso con le secrezioni faringee e altri liquidi biologici fino a 18 mesi di vita.

B

B

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Figura 54.5 Storia naturale dell’infezione da virus della rosolia. La presenza e la diffusione del virus nel e dal faringe precede e segue l’esantema (rash), il paziente è infettivo dal momento dell’infezione fino a 1-2 settimane dopo la comparsa dell’esantema, che, spesso, a parte la febbre, è l’unico sintomo clinico. La linfoadenomegalia è un segno prodromico, coincide con la viremia, precede febbre ed esantema; quest’ultimo può durare da 3 a 10 giorni. La presenza nel siero di anticorpi dosabili di classe IgM correla con la comparsa del rash, che probabilmente è causato dalla formazione di immunocomplessi. Gli anticorpi di classe IgG vengono prodotti con un lieve ritardo e permangono determinabili nel siero per tutta la vita, documentando la pregressa infezione da virus della rosolia.

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Diffusione

IgG

Viremia IgM

Rash –2

–1

0

+1

+2

Settimane

4

6

Mesi

10

Anni

54.5 - Diagnosi di laboratorio La sintomatologia associata alle infezioni da alphavirus può essere confondente in quanto molti altri agenti virali causano quadri clinici simili: è pertanto necessaria una diagnosi differenziale, che normalmente si basa sulla determinazione di IgM mediante saggi immunoenzimatici di tipo cattura. Se è disponibile un campione prelevato in fase acuta, è anche possibile una diagnosi diretta, rapida e precoce, utilizzando sonde specifiche per retrotrascrivere e amplificare (RT-PCR) regioni conservate del genoma di tutti gli alphavirus. L’isolamento del virus, possibile in molte linee cellulari, o la ricerca dell’RNA genomico rappresentano certamente i metodi di scelta se si vogliano condurre studi di epidemiologia molecolare. Anche nel caso della rosolia l’esantema non è caratteristico e può essere confuso con quello sostenuto da altri virus, principalmente enterovirus; per questo la diagnosi clinica, a meno di non essere in periodo epidemico, è difficile e poco affidabile, rendendo indispensabile il ricorso al laboratorio. La diagnosi è tipicamente indiretta sierologica con la ricerca di IgM specifiche la cui presenza indica infezione acuta o recente. Tale indagine viene utilizzata anche nel sospetto di SRC, in quanto la persistenza del virus provoca nel feto la risposta anticorpale IgM-specifica a partire dalla 20a settimana di gestazione, e il riscontro di IgM nel bambino indica inequivocabilmente infezione intrauterina. Gli anticorpi di classe IgG persistono per tutta la vita, pertanto la loro positività indica vaccinazione o pregressa infezione. Poiché le IgM possono perdurare per molti mesi e possono essere transitoriamente prodotte in seguito a reinfezione, esiste la possibilità di contemporanea presenza di IgG e IgM in assenza di sintomi. Quando tale situazione riguarda una donna nelle prime settimane di gravidanza, è importante determinare l’avidità degli anticorpi di classe IgG, che, nel caso del virus della rosolia, maturano rapidamente nel corso delle prime 6-8 settimane successive all’infezione; il saggio fornisce importanti informazioni circa il tempo passato dall’infezione primaria, anticorpi ad alta avidità indicano infezione contratta almeno 2 mesi prima o reinfezione. Nel sospetto non chiarito da altri test di un’infezione primaria in gravidanza, la ricerca dell’RNA genomico, in differenti campioni clinici del neonato o in campioni di villi coriali o liquido amniotico, può essere effettuata con rapidità, sensibilità e specificità mediante RT-PCR con sonde specifiche solitamente per il gene E1. L’isolamento classico del virus è possibile ma raramente utilizzato a causa della sua complessità; il virus replica in molte linee cellulari con un modestissimo effetto citopatico, per cui sono necessarie prove aggiuntive quali interferenza eterologa per la

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Capitolo 54 • Togaviridae

replicazione di un enterovirus (echovirus 11) superinfettante o la ricerca degli antigeni mediante immunofluorescenza diretta in shell vials.

54.6 - Epidemiologia - Vaccini La trasmissione delle infezioni da alphavirus dipende fortemente da fattori ambientali, presenza di vettori e ospiti vertebrati che specificano una particolare nicchia ecologica in cui l’uomo rappresenta un passante occasionale; le infezioni sono limitate a particolari aree geografiche, a periodi dell’anno definiti e l’incidenza di malattia umana è sporadica. In Italia queste infezioni non sono diffuse ma si possono osservare casi d’importazione, come è accaduto nell’agosto 2007 con il virus Chikungunya, introdotto da un viaggiatore febbricitante proveniente dall’Oceano Indiano, dove il virus è endemico. In quella occasione, si sono verificati diversi focolai in due piccole cittadine della provincia di Ravenna, separate da un fiume, con meno di 200 casi confermati. Il virus è stato ritrovato nella zanzara tigre (Aedes albopictus) ritenuta responsabile delle piccola epidemia che fortunatamente si è spenta con la stagione fredda. Per quanto riguarda i vaccini, sono disponibili, per uso veterinario, vaccini inattivati per i virus delle encefaliti equine. Non esiste alcun trattamento farmacologico se non sintomatico e di supporto, la prevenzione si basa principalmente sul controllo dell’ospite invertebrato, sull’uso di sostanze repellenti e di abiti protettivi. Il virus della rosolia, diffuso in tutto il mondo, è trasmesso per aerosol ed è molto contagioso, tuttavia l’infezione è asintomatica nel 25% circa dei casi. L’immunità acquisita è permanente, ma sono possibili reinfezioni, spesso in seguito a incompleta risposta al vaccino; esse sono asintomatiche e, nonostante la possibilità di isolamento virale dal secreto nasofaringeo, non determinano viremia e pertanto non pongono problemi di trasmissione al feto. Non esiste alcun trattamento per il virus della rosolia e la vaccinazione è l’unico modo per prevenire l’infezione. In era pre-vaccinazione, prima del 1969, casi di rosolia tra i bambini venivano riportati ogni primavera, e ondate epidemiche si osservavano con regolarità ogni 6-9 anni; oggi l’uso del vaccino vivo attenuato ha ridotto enormemente la circolazione del virus e l’incidenza di rosolia, soprattutto di rosolia congenita. Ciononostante il livello di copertura vaccinale di almeno il 95% nella classe di età 24-36 mesi, che garantirebbe una protezione di gregge, non è mai stato raggiunto, e negli ultimi anni il trend è addirittura in discesa. Per questo motivo la vaccinazione in Italia, precedentemente solo fortemente raccomandata, è stata resa obbligatoria con decreto-legge del 7 giugno 2017, n. 73 (“Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale”). La vaccinazione viene eseguita tra i 12 e i 15 mesi di vita (la somministrazione può essere fatta nell’ambito del vaccino trivalente per rosolia, morbillo e parotite) ed è previsto un richiamo in età prescolare o tra gli 11-12 anni. La vaccinazione è consigliata a tutte le donne in età fertile che non presentino anticorpi. Il vaccino è sicuro, non ha controindicazioni ma poiché è costituito da virus in grado di replicare non deve essere somministrato a donne gravide ed è consigliato evitare il concepimento per almeno un mese dopo la vaccinazione.

Bibliografia essenziale Knipe, D.M., Howley, P.M., Griffin, D.E., Lamb, R.A., Martin, M.A., Roizman, B., Strauss S.E. (a cura di), Fields Virology, 5a ed., Lippincott Williams and Wilkins, Filadelfia, 2007. www.cdc.gov/ncidod/dvbid/arbor www.cdc.gov/ncidod/dvbid/chikungunya

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B

Capitolo

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Picornaviridae

La famiglia Picornaviridae comprende numerosi virus che infettano l’uomo e alcune specie animali. Il nome della famiglia ricorda che si tratta di virus molto piccoli, contenenti un genoma a RNA, anch’esso di ridotte dimensioni. Molte delle conoscenze relative ai picornavirus derivano dallo studio del poliovirus, agente causale della malattia paralitica poliomielitica, il cui isolamento e la cui analisi molecolare sono pietre miliari della virologia moderna. Meno caratterizzati ma non meno importanti sono gli altri picornavirus che possono provocare nell’uomo manifestazioni di entità diverse: infezioni inapparenti o lievi, sindromi acute importanti e a volte letali, o quadri clinici cronici, anche in relazione all’età e alla risposta immunitaria dell’ospite.

• Classificazione e struttura • Ciclo replicativo • Poliovirus • Enterovirus non-polio • Rinovirus • Virus dell’epatite A

55.1 - Classificazione I picornavirus sono suddivisi in 5 generi recentemente ridefiniti: Enterovirus, Hepatovirus, Parechovirus, Cardiovirus, Aphthovirus. I generi Enterovirus e Hepatovirus comprendono importanti agenti patogeni per l’uomo e saranno trattati diffusamente. I Cardiovirus (ad es. virus dell’encefalomiocardite) e gli Aphthovirus (ad es. virus dell’afta epizootica) infettano roditori e ungulati e, molto raramente, possono essere trasmessi all’uomo dall’ospite animale. È stato classificato fra i Cardiovirus il virus Vilyuisk dell’encefalomielite umana, isolato in Siberia e associato a sindromi neurodegenerative. Il virus dell’afta epizootica è importante economicamente per l’elevata contagiosità nel bestiame e può provocare nell’uomo infettato vescicolazione dell’orofaringe e delle estremità.

55.2 - Struttura

2 VP

VP3 2 1

VP

VP

VP3

2

VP2

2

VP3

VP

VP

3

VP VP2

2

1

VP

VP2

VP VP3

VP3

VP 3

VP1

VP 2

VP 3

VP

1

VP1

VP1

VP1

3

VP3

1

VP

VP1

VP

VP1

VP1

2

VP2

VP 2

VP

VP3

VP3

VP2

VP3

VP 2

1 VP

VP3

VP1

VP1

Figura 55.1 Simmetria icosaedrica del virione dei Picornaviridae. È evidenziato un pentamero composto da 5 protomeri, ciascuno costituito dalle proteine VP1, VP2 e VP3; la VP4 è interna.

I picornavirus sono virus nudi di piccole dimensioni (27-30 nm), contenenti un genoma a RNA di polarità positiva. La struttura del virione è semplice e ben nota: un guscio proteico a simmetria icosaedrica che circonda una singola molecola di RNA. L’icosaedro è un solido composto da 20 facce triangolari e 12 vertici (fig. 55.1); nella sua struttura geometrica più semplice viene formato da 60 subunità. Il capside icosaedrico dei picornavirus è composto da 4 proteine strutturali (VP1, VP2, VP3 e VP4), ognuna presente in 60 copie. L’unità fondamentale costituente il capside è il protomero (fig. 55.2), che contiene una copia delle 4 proteine strutturali. L’aggregazione di 5 protomeri forma ciascuno dei 12 pentameri la cui parte centrale prominente, strutturata a stella a 5 punte, occupa i 12 vertici dell’icosaedro. VP1, VP2 e VP3 formano il rigido guscio esterno con una conformazione tridimensionale a foglietti β antiparalleli e un network interno con le estensioni N-terminali che stabilizzano il virione. VP4 è molto più piccola e non ha la stessa conformazione delle altre proteine strutturali; in molti picornavirus essa si trova internamente a una stretta depressione della struttura, denominata “canyon”, che corre intorno ai 12 vertici (figg. 55.1 e 55.2). All’interno del canyon, che non permette l’ingresso di

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A

VP1

Pentamero

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B

COOH Canyon VP2

VP4 RNA

VP3 Protomero

ICAM-1 VPg

NH2

Figura 55.2 A. Virione di picornavirus. È evidenziato un pentamero con un protomero e proteine relative. B. Interazione di recettore cellulare di membrana (ICAM-1) con antirecettore virale sul fondo del canyon.

molecole anticorpali, avviene l’interazione della VP4 con il recettore cellulare specifico. I recettori cellulari sono noti per la maggior parte dei picornavirus: molti di essi sono proteine di membrana appartenenti alla superfamiglia delle immunoglobuline oppure sono integrine. I principali siti antigenici virali si trovano sulla superficie del capside, soprattutto in corrispondenza dei tratti sporgenti (loop) che separano i foglietti β antiparalleli e sull’estremità carbossi-terminale di VP1, VP2 e VP3; la variabilità di queste sequenze aminoacidiche determina in alcuni generi l’esistenza di numerose specie, sierotipi e varianti (sottotipi antigenici). Il genoma dei picornavirus è una molecola di RNA di lunghezza compresa fra 7200 e 8500 nt a polarità positiva, infettiva perché in grado, se introdotta nel citoplasma della cellula ospite, di funzionare direttamente come messaggero per la produzione delle proteine necessarie alla replicazione virale. Il genoma di tutti i picornavirus è caratterizzato dalla presenza di una piccola proteina, denominata VPg (Virion Protein genomic), legata covalentemente all’uridina in posizione 5′ terminale dell’RNA genomico, che non presenta quindi la struttura cap caratteristica degli mRNA eucariotici. VPg non è necessaria per la traduzione del genoma virale ma per la sua replicazione. L’organizzazione genomica è molto simile in tutti i picornavirus: una lunga fase di lettura aperta codificante (ORF) di 7000-8000 nt è preceduta da una sequenza non tradotta (700-1000 nt) nella regione 5′ e seguita da un breve (50-100 nt) tratto non codificante in 3′. L’ORF è costituita da tre regioni contigue, P1, P2 e P3, che codificano P1 per le proteine capsidiche VP1-4, P2 per la proteasi 2A e altre proteine non-strutturali, P3 per VPg, la proteasi 3C e l’RNA polimerasi 3D (fig. 55.3). Nella sequenza 5′ non tradotta, le strutture secondarie stem and loop assunte dall’RNA sono molto simili fra i Picornaviridae e contengono all’interno una sequenza IRES (internal ribosome entry site) che promuove il legame diretto dei ribosomi cellulari a prescindere dall’estremità 5′ dell’mRNA virale (iniziamento interno della traduzione). Questo meccanismo, inizialmente dimostrato in poliovirus, è comune a tutti i picornavirus ed è stato descritto anche in altri virus (ad es. epatite C) e in alcuni mRNA eucariotici.

55.3 - Replicazione Il ciclo replicativo virale (fig. 55.4) ha inizio con l’interazione specifica recettore cellulare-antirecettore virale che permette l’ingresso e la liberazione del genoma nel citopla-

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Figura 55.3 RNA genomico dei Picornaviridae e maturazione delle proteine virali dalla poliproteina precursore.

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VPg

ORF OFR

L

P1

P2

P3

1abcd

2abc

3abcd 3ab

1abc

1d

2a

2bc

3cd

VP1 1ab VP0

1c VP3

2b

3c

2c

3d

3a 3b VPg

1a 1b VP4 VP2

Plasmamembrana Recettori

VPg-RNA Scapsidazione

P3

Traduzione P2

P1 Protomero 5S (VP-0-3-1)

Proteolisi di P1

Traduzione

Replicazione genoma (—)

VPg Poli-(A) Ribosoma RNA polimerasi

Pentamero 12-14S Assemblaggio virioni

Rilascio (lisi cellulare)

Replicazione genoma (+)

Poli-(U)

Assemblaggio Virione maturo (150-160S)

Proteolisi VP0 Reticolo endoplasmatico

Figura 55.4 Ciclo replicativo di picornavirus.

sma della cellula ospite. Per molti picornavirus, l’internalizzazione del virione avviene per endocitosi mediata da recettore e la scapsidazione all’interno del fagolisosoma è favorita dall’acidità endosomiale. Poliovirus può penetrare anche per traslocazione diretta dell’RNA attraverso la membrana citoplasmatica. In entrambi i casi, l’RNA genomico virale si ritrova nudo nel citoplasma cellulare e si comporta da messaggero (è infatti a polarità positiva) per essere subito tradotto. La

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mancanza del cap in 5′ non impedisce la sua efficiente traduzione, che avviene tramite il riconoscimento interno della sequenza IRES. La traduzione inizia alla base 700-1000 per proseguire ininterrotta fino al codone di stop vicino all’estremità 3′ dell’mRNA virale. Si produce così una poliproteina precursore che viene subito tagliata nelle proteine virali mature dalle due proteasi virali appena sintetizzate: 2A e 3C (figg. 55.3 e 55.4). La proteasi 2A ha anche un’altra importante funzione: è in grado di degradare un fattore cellulare che consente l’inizio cap-dipendente della traduzione. Essendo inattivata la traduzione della maggior parte degli mRNA cellulari (fenomeno del silenziamento della sintesi proteica cellulare detto shut-off), i poliribosomi traducono efficientemente l’RNA virale a polarità positiva. Tra le proteine virali neoformate, un’importante funzione spetta alla RNA polimerasi-RNA dipendente 3D, che è in grado di replicare il genoma virale. A partire dal poli-A 3′ terminale, viene trascritto un intermedio replicativo a polarità negativa e poi, da questo, in quantità molto maggiori vengono prodotti i genomi a polarità positiva. Gli RNA virali neoformati sono a loro volta tradotti e replicati fino all’accumulo nel citoplasma della cellula infettata di un’enorme quantità di proteine e di genomi virali. Le proteine capsidiche si autoassemblano in protomeri, cinque dei quali formano i pentameri. La struttura definitiva del capside icosaedrico è data dall’interazione dei 12 pentameri con l’RNA genomico virale. L’accumulo delle particelle virali e la sofferenza cellulare portano, in tempi variabili dopo l’infezione (7-8 ore in poliovirus, 12-48 ore in altri picornavirus), alla liberazione dei virioni di progenie per lisi cellulare, con l’eccezione degli Hepatovirus liberati attraverso processi secretori.

55.4 - Enterovirus La classificazione tradizionale prevedeva, nel genere Enterovirus, oltre ai tre sierotipi di poliovirus, i coxsackievirus distinti nei gruppi A e B per il tipo di patogenicità nel topolino neonato e il gruppo degli echovirus, non patogeni per il topo ma citolitici in vitro, e gli enterovirus 68-71. Gli altri virus patogeni per l’uomo della famiglia Picornaviridae erano classificati nei generi Hepatovirus e Rhinovirus, distinti dagli Enterovirus in base alla densità della particella virale, alla relativa resistenza a pH acido e alla termostabilità, caratteristiche correlate alla modalità di trasmissione e di replicazione nell’ospite. La classificazione è stata riformulata dapprima nel 2000 definendo le specie in base a correlazioni genetiche e antigeniche e creando il genere Parechovirus, che attualmente comprende una decina di genotipi. Nel 2008, nel genere Enterovirus sono stati classificati, oltre ai numerosi genotipi di enterovirus (72-109) di nuova identificazione, tutti i 99 sierotipi noti del genere Rhinovirus e i nuovi genotipi di rinovirus non coltivabili identificati nel 2006/2007. In tabella 55.1 è riportata la classificazione aggiornata delle specie con accanto le vecchie denominazioni, che verranno utilizzate nel testo per descrivere le diverse entità cliniche.

Poliovirus La poliomielite è una malattia molto antica, come mostrato dalla rappresentazione di uno scriba con una stampella e una gamba atrofica in una stele egizia di più di tremila anni fa. Il virus responsabile della malattia paralitica poliomielitica è stato isolato nel 1908, agli inizi della moderna virologia (fig. 55.5); in seguito, lo studio delle sue caratteristiche di crescita, la scoperta della sua struttura a livello atomico e l’approfondita conoscenza a livello molecolare della replicazione virale sono state tappe fondamentali che hanno aperto la strada a molte altre scoperte in virologia e in biologia cellulare. Gli studi non sono rallentati nemmeno dopo l’introduzione di vaccini efficaci e sicuri e la

Figura 55.5 Virioni purificati di poliovirus.

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Tabella 55.1 Classificazione e principali patologie degli enterovirus umani (fra parentesi i tipi con la vecchia denominazione).

Specie (sierotipi/genotipi)

Tipi

Principali patologie

Human Enterovirus A (coxA2, 3, 5, 7, 8, 10, 12, 14,1 6; EV71, 76, 89, 90, 91, 92)

15

Meningite, paralisi (EV71), erpangina, esantema, malattia “mani, piedi, bocca” (A10, A16, EV71), congiuntivite (A24)

Human Enterovirus B (coxB; echovirus; EV69, 73, 74, 75, 77-88, 93, 97, 98, 100, 101, 106, 107)

58

Meningite, paralisi, pericardite, miocardite, pleurodinia, infezioni sistemiche neonatali gravi, esantema, affezioni respiratorie

Human Enterovirus C (Poliovirus 1, 2, 3; coxA1, 11, 13, 15, 17-22, 24; EV95, 96, 99, 102, 104, 105, 109)

24

Poliomielite (poliovirus 1-3), meningite, erpangina, esantema, faringite

Human Enterovirus D (EV68, 70, 94)

3

Congiuntivite (EV70), paralisi (EV70), affezioni respiratorie

Human rhinovirus A (HRVA1, 2, 7-13, 15, 16, 18-25, 28-33, 34, 36, 38-41, 43-47, 49, 50, 51, 53-68, 71, 73-78, 80, 81, 82, 85, 88, 89, 90, 94, 95, 96, 98, 100)

75

Raffreddore, bronchiolite, bronchite asmatica, otite media, polmonite

Human rhinovirus B (HRVB3-6, 14, 17, 26, 27, 35, 37, 42, 48, 52, 69, 70, 72, 79, 83, 84, 86, 91, 92, 93, 97, 99)

25

Raffreddore, bronchiolite, bronchite asmatica

Human rhinovirus C (HRVC1-35)

35

Raffreddore, bronchiolite, bronchite asmatica, otite media, polmonite

quasi totale scomparsa della poliomielite; questo virus dal glorioso passato ha ormai un breve futuro grazie ai progressi, lenti ma costanti, della campagna di eradicazione globale promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

■■

Meccanismi patogenetici

L’infezione con poliovirus, come per gli altri enterovirus, avviene attraverso l’ingresso di virioni nel canale alimentare, tramite acqua o cibi contaminati da materiale fecale proveniente da individui infettati (trasmissione fecale-orale). Il contagio può avvenire, come dimostrato in Paesi a clima freddo, anche attraverso il contatto interpersonale diretto, poiché il virus si replica nelle primissime fasi in gola e nelle tonsille ed è secreto per breve tempo anche nella saliva. La trasmissione dell’infezione, esclusivamente interumana, è favorita dalle caratteristiche chimico-fisiche dei virioni, dovute alla struttura icosaedrica priva di involucro lipidico: termostabilità fino a 50 °C, resistenza a solventi organici, a pH acido e all’essiccazione. Queste proprietà permettono ai virioni di sopravvivere relativamente a lungo nell’ambiente e di arrivare alla mucosa intestinale, dove si replicano principalmente nelle placche del Peyer. La replicazione virale prosegue nei linfonodi mesenterici e i virioni entrano in circolo, causando un’iniziale viremia, con invasione delle cellule del sistema reticolo-endoteliale. Il sistema nervoso centrale può essere invaso in questo stadio ma di solito ciò accade dopo una seconda e molto più intensa fase viremica, in cui avviene il superamento della barriera ematoencefalica. Tuttavia è possibile anche la diffusione di virioni di poliovirus direttamente tramite flusso assonale retrogrado da nervi periferici o cranici. La maggior parte degli individui infettati da poliovirus controlla l’infezione prima della seconda viremia e quindi l’infezione decorre asintomatica o con lievi sintomi aspecifici. In questa fase, il virus è escreto nei primissimi giorni nella saliva e abbondantemente nelle feci fino a circa sei settimane dopo l’infezione; negli individui im-

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munodepressi, specialmente negli agammaglobulinemici, l’escrezione fecale è molto più lunga e può essere intermittente. Una sintomatologia con segni clinici tipici delle meningiti virali, denominata poliomielite abortiva, si sviluppa in circa il 5-10% delle persone infettate e si risolve senza esiti clinici in alcuni giorni. La malattia paralitica poliomielitica si sviluppa in meno dell’1% delle persone infettate, con un periodo di incubazione medio di 7-10 giorni dall’infezione. Si può avere o meno una fase prodromica con iperestesia e dolori ai muscoli, dovuti alla replicazione virale nei tessuti muscolari. La poliomielite è una patologia del sistema nervoso centrale dovuta a infiammazione e distruzione della materia grigia, tipicamente dei motoneuroni del corno anteriore del midollo spinale. La paralisi flaccida interessa nella maggior parte dei casi uno o entrambi gli arti inferiori ma può riguardare anche gli arti superiori e i muscoli del diaframma e intercostali, provocando difficoltà respiratorie. L’infezione è frequentemente estesa anche all’encefalo, con lesioni bulbari e, più raramente, paralisi oculomotorie, disturbi della respirazione e della funzionalità cardiocircolatoria che sono spesso letali. La distruzione dei neuroni è causata direttamente dalla replicazione virale (lisi cellulare) e forse anche da fenomeni di apoptosi. Nel paziente, gli esiti variano da una completa ripresa della funzionalità muscolare a deficit motori permanenti in uno o più arti, dovuti al danno irreversibile ai motoneuroni innervanti.

■■

Diagnosi

La diagnosi diretta di infezione da poliovirus può essere effettuata sia con l’isolamento del virus sia tramite la rilevazione con tecniche molecolari dell’RNA virale in vari campioni biologici (tampone faringeo, feci, sangue, liquor) o ambientali. Per la diagnosi sierologica e la caratterizzazione intratipica dei poliovirus sono utilizzati saggi ELISA con anticorpi monoclonali. Tali diagnosi sono praticate in Italia solo in alcuni centri di riferimento, dopo la distruzione di tutti i ceppi di laboratorio e campioni biologici con poliovirus infettivo conseguente alla dichiarazione dell’Europa zona “Polio-free” e alla decisione di utilizzare soltanto il vaccino a virus ucciso.

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Epidemiologia e profilassi

L’introduzione della vaccinazione anti-polio a virus ucciso di Salk nel 1955 e, ancor più, l’esteso utilizzo dai primi anni ’60 del vaccino a virus vivente attenuato di Sabin hanno radicalmente modificato l’epidemiologia del poliovirus. In epoca prevaccinale, nei Paesi in via di sviluppo, poliovirus circolava largamente nella popolazione determinando un’immunizzazione pressoché totale sopra i due anni e provocava i casi di paralisi generalmente in bambini da sei mesi a pochi anni di età. Nei Paesi, tra cui l’Italia, con buone condizioni igienico-sanitarie, si aveva una minore esposizione nei bambini, lasciando larghe fasce di età suscettibili a infezione e, durante episodi epidemici, il poliovirus provocava paralisi più frequenti e severe. Il motivo di questo aumento della gravità clinica all’aumentare dell’età del paziente non è noto e si verifica anche nelle infezioni con gli altri Enterovirus. Da notare anche che il soggetto che ha avuto un episodio d’infezione con un tipo di poliovirus (1, 2 o 3), indipendentemente dalla gravità degli esiti clinici, rimane protetto solo verso il tipo specifico, anche se può esservi reattività crociata fra i tipi 1 e 2. Il primo vaccino anti-polio è stato il vaccino di Salk a virus ucciso al calore e con formalina; se si esclude qualche iniziale episodio, di inattivazione incompleta o di contaminazione di alcuni lotti vaccinali con il virus SV40 della scimmia (vedi Cap. 45), questo vaccino si è rivelato efficace e sicuro. Il vaccino a somministrazione orale è costituito ancora oggi dai ceppi attenuati dei tre sierotipi di poliovirus, ottenuti da Sabin tramite passaggi successivi in colture cellulari, senza conoscere le basi biologiche e molecolari dell’attenuazione (vedi Cap. 66).

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Tabella 55.2 Confronto delle caratteristiche dei vaccini antipolio a virus inattivato di Salk e a virus attenuato di Sabin.

Vaccino inattivato di Salk

Vaccino attenuato di Sabin

Somministrazione intramuscolare; necessita di più dosi di richiamo

Somministrazione orale; altre infezioni virali intestinali in atto possono diminuirne l’efficacia

Induce anticorpi nel sangue

Induce anticorpi nel sangue e nelle mucose

Non impedisce l’infezione con il virus selvaggio e la sua circolazione

Impedisce l’infezione con il virus selvaggio; i ceppi vaccinali si trasmettono ai soggetti non vaccinati, diffondendo l’immunità

L’assenza di virus vivo esclude la reversione alla neurovirulenza; idoneo per l’uso in soggetti immunodeficienti

I ceppi vaccinali attenuati possono mutare e riacquisire la neurovirulenza, specialmente in soggetti immunodeficienti

Il vaccino di Sabin è stato utilizzato con successo per quarant’anni in quasi tutto il mondo, portando alla scomparsa del poliovirus selvaggio neurovirulento a favore dei ceppi vaccinali in molte regioni del mondo. L’eradicazione del poliovirus a livello mondiale, inizialmente prevista dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’anno 2000, poi per il 2005, è stata nuovamente posticipata poiché in una decina di nazioni africane e asiatiche si è verificata una recrudescenza di casi di poliomielite negli ultimi dieci anni. Attualmente, quattro su sei zone del mondo sono certificate “polio-free” dall’OMS: le Americhe (1994), la regione australe (2000), l’Europa (2002) e il Sud Est Asiatico (2014). In tali regioni tuttavia, la vaccinazione anti-polio non può essere interrotta poiché il rischio è quello dell’importazione del virus dai Paesi ancora endemici (Afghanistan, Pakistan e alcune nazioni africane). Il vaccino a virus ucciso, che presenta vantaggi e svantaggi rispetto al vaccino vivente a somministrazione orale (tab. 55.2), è stato negli ultimi anni reintrodotto in molte nazioni (compresa l’Italia) in cui i poliovirus selvaggi non circolano più, per evitare i rari casi di paralisi vaccino-associata (circa un caso per milione di dosi somministrate, soprattutto in bambini agammaglobulinemici). Infatti, i ceppi attenuati di Sabin possono revertire alla neurovirulenza, in seguito a retromutazioni, e quindi causare paralisi nel soggetto vaccinato, nei contatti diretti o tramite diffusione nell’ambiente, in soggetti non vaccinati. Le basi molecolari dell’attenuazione dei ceppi di Sabin e quindi del fenomeno della neurovirulenza nei poliovirus selvaggi sono state in parte chiarite. Il sequenziamento dei ceppi virali ha mostrato che le differenze fra virus neurovirulenti e vaccinali sono ben poche rispetto all’intero genoma: 56 differenze nucleotidiche fra polio 1 selvaggio e polio 1 Sabin, 23 nucleotidi mutati nel caso di polio 2 e solo 11 nucleotidi diversi, con solo 3 differenze aminoacidiche in polio 3. A quest’ultimo tipo si devono infatti il maggior numero di casi di paralisi vaccino-associata, a causa del minor numero di differenze e quindi della maggior probabilità di reversione. Alcune differenze nucleotidiche fra ceppo vaccinale e corrispondente neurovirulento sono conservate nei tre sierotipi di polio e sono ritenute fondamentali per l’attenuazione; è importante nei tre tipi una mutazione dei ceppi Sabin che destabilizza la sequenza IRES, rendendo meno efficiente l’inizio della traduzione di proteine virali nelle cellule nervose.

Enterovirus non-polio Nonostante l’enorme diffusione delle infezioni da enterovirus nel mondo e l’associazione con sindromi acute o croniche importanti, a volte mortali, la conoscenza di questi virus è ancora limitata. A livello strutturale e molecolare gli enterovirus sono molto simili tra loro, ma a livello patogenetico ci sono delle profonde differenze anche fra specie e specie e addirittura fra varianti dello stesso enterovirus.

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La distinzione degli enterovirus non-polio è complicata dalle vecchie denominazioni, ancora in uso, di coxsackievirus distinti nei gruppi A e B (24 e 6 sierotipi rispettivamente), di echovirus (circa 30 sierotipi), e 4 enterovirus, isolati dal 1969 in poi, denominati enterovirus 68-71. La classificazione del 2000 riordina le specie e i sottotipi antigenici (tab. 55.1), creando il genere Parechovirus per gli echovirus 22 e 23, notevolmente diversi dagli altri. Successivamente, sono stati identificati numerosi altri enterovirus, denominati con numeri progressivi da 72 a 109, di cui si conosce la sequenza genica ma non le caratteristiche antigeniche e l’associazione con patologie. Inoltre, è stata recentemente riconosciuta la diffusa presenza di enterovirus derivati da eventi di ricombinazione genomica fra genotipi diversi. La nuova classificazione del 2008 e le principali sindromi cliniche sono riassunte in tabella 55.1; ciascun sierotipo/genotipo può provocare sintomatologie ed esiti diversi e sindromi cliniche sono associate a più sierotipi di enterovirus. Solo in alcuni casi una patologia è specificamente associata con un tipo virale: congiuntivite emorragica causata da una variante del coxsackievirus A24 e dall’enterovirus 70, paralisi flaccida simil-poliomielitica causata dall’enterovirus 71.

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Meccanismi patogenetici

Il primo sito di moltiplicazione è l’orofaringe, le cui cellule epiteliali, così come numerosi altri tipi cellulari esprimono il recettore utilizzato da molti coxsackievirus denominato CAR (coxsackievirus, adenovirus receptor). Successivamente, i virioni entrano nel canale alimentare e, resistendo all’acidità dello stomaco, arrivano nell’intestino; qui si replicano con abbondanza e attraverso le placche del Peyer raggiungono il torrente circolatorio. Come avviene per il poliovirus, la replicazione virale nella maggior parte dei casi in questo stadio è controllata dalla risposta innata o specifica dell’ospite e quindi l’infezione decorre asintomatica o con segni clinici aspecifici. Se, in seguito a un’abbondante viremia primaria o secondaria, gli enterovirus diffondono attraverso i capillari o il linfatico, vari organi o tessuti possono essere raggiunti e diventare sede di replicazione e di affezioni acute o croniche. Le principali patologie associate a enterovirus umani non-polio interessano il sistema nervoso centrale (meningiti, nevrassiti), il cuore (pericarditi, miocarditi), il tessuto muscolare (mialgia epidemica, miositi croniche), tessuti cutanei e mucosi (erpangina, malattia mani, piedi, bocca e altre manifestazioni esantematiche), l’apparato digerente (lievi sindromi diarroiche), l’apparato respiratorio (rinofaringite) e l’occhio (congiuntivite epidemica). La sindrome meningea, a volte accompagnata da rash cutaneo, è di solito autolimitante e a esito benigno, specialmente se non c’è interessamento del parenchima nervoso (encefalite). Tuttavia si verificano casi mortali, specialmente fra i neonati in cui la meningite, causata da coxsackievirus B contratti per contagio perinatale dalla madre, è accompagnata dall’interessamento di altri organi (cuore, fegato). Alcuni enterovirus, principalmente coxsackievirus B, sono stati implicati in affezioni acute e croniche del miocardio. La presenza di enterovirus nel tessuto cardiaco è stata dimostrata con metodi molecolari e con l’isolamento virale in molti casi di miocarditi acute, mentre è più controverso il loro ruolo in affezioni croniche, come cardiomiopatie dilatative. Sono state avanzate due ipotesi che implicano un meccanismo patogenetico di tipo autoimmune in patologie associate a coxsackievirus B, come cardiomiopatie dilatative, miositi croniche e diabete mellito giovanile. Nella prima ipotesi denominata mimetismo molecolare, la risposta immunitaria specifica per una proteina virale reagirebbe anche verso una proteina cellulare ad essa simile, provocando il danno tissutale. La seconda (bystander damage) ipotizza che l’infezione virale persistente induca risposta infiammatoria e immunitaria cronica disregolata che causerebbe la patologia.

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Epidemiologia e diagnosi

La diffusione degli enterovirus a livello mondiale è simile a quella descritta per poliovirus in epoca prevaccinale. La grande maggioranza delle infezioni decorre asintomatica, e ciò permette la larga circolazione dei virus in comunità attraverso un circuito di trasmissione fecale-orale o attraverso secrezioni respiratorie o contatto diretto. Quale di queste modalità sia prevalente in una popolazione dipende dalle condizioni igienico-sanitarie, dal clima e anche dalle abitudini alimentari. Gli enterovirus umani possono resistere a lungo nell’ambiente e causare infezione tramite acque potabili e alimenti consumati crudi, in particolare molluschi bivalve che, filtrando l’acqua di mare, concentrano molti virus, tra cui gli enterovirus, che residuano dagli scarichi fognari. In Paesi a clima temperato, si osserva una prevalenza stagionale di piccole epidemie in estate/autunno. L’affezione più importante a livello clinico è la meningite causata da molti coxsackievirus A e B ed echovirus; complessivamente essi sono responsabili di più della metà dei casi diagnosticati di meningite asettica, cosiddetta perché a liquor limpido (non batterica). L’enterovirus 71 provoca, più frequentemente di altri sierotipi di enterovirus, encefalite e mielite, con paralisi flaccida simil-poliomielitica. I coxsackievirus B sono la causa più comune di miocarditi e di pericarditi infettive nel giovane e nell’adulto, anche se spesso non ne viene dimostrato l’agente eziologico. Alcuni enterovirus possono causare anche affezioni respiratorie, di solito di modesta rilevanza clinica. Inaspettatamente, nel 2014, un enterovirus raro, il 68, ha causato negli Stati Uniti un’epidemia diffusa con più di mille casi diagnosticati, di cui circa la metà ospedalizzati per insufficienza respiratoria grave, soprattutto nei bambini asmatici. Anche alcuni casi di mielite flaccida acuta sono stati associati all’infezione da enterovirus 68 durante l’epidemia del 2014. In Europa e nel resto del mondo, la circolazione dell’enterovirus 68 continua ad essere sporadica, ma l’epidemia americana del 2014 e l’emergenza di nuovi enterovirus (ad es. 104, 109) mostrano la necessità di una sorveglianza epidemiologica di queste infezioni con metodiche molecolari, almeno in centri di riferimento nazionali. Le difficoltà nella diagnosi diretta di enterovirus non-polio sono attribuibili alla grande diffusione di infezioni asintomatiche intestinali o respiratorie che rendono il ritrovamento di anticorpi nel siero o di virus nelle feci o in faringe non probante il nesso eziologico con la patologia. Se mancano corrispondenze epidemiologiche (episodi epidemici, stagionalità), è necessaria la dimostrazione della presenza di enterovirus nei campioni appropriati (ad es. liquor per meningite, liquido pericardico per affezioni cardiache). L’isolamento virale è ancora utilizzato per la capacità di molti coxsackievirus B ed echovirus di determinare un effetto citopatico caratteristico su alcune linee cellulari, ma le tecniche molecolari basate sulla retro-trascrizione e amplificazione genica (RT-PCR) sono più rapide, sensibili e in grado di rilevare tutti gli enterovirus con una sola reazione, utilizzando primer per zone conservate del genoma. La tipizzazione, resa complessa dall’esistenza di più di 100 diversi genotipi sequenziati, si può eseguire in casi eccezionali con pool di antisieri o con RT-PCR specifiche, seguite dal sequenziamento genico; le tecniche molecolari sono le uniche disponibili per gli enterovirus più recenti che non sono ancora caratterizzati antigenicamente.

55.5 - Rinovirus I rinovirus sono più di 150 sierotipi/genotipi diversi classificati in 3 specie A, B e C in base alla similarità genomica; infettando frequentemente l’uomo, causano rinite (il cosiddetto raffreddore comune) ma anche altre importanti affezioni respiratorie. Sono molto simili agli enterovirus nella composizione proteica, nella struttura del virione e nel ciclo replicativo e per questo motivo non costituiscono più un genere a sé stante della famiglia Picornaviridae. Alcune importanti proprietà fisico-chimiche li

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differenziano da tutti gli altri picornavirus: sono sensibili all’esposizione ad ambiente acido (pH  3′. La sequenza leRNA contiene inoltre il segnale di incapsidazione che le consente di legarsi alla nucleoproteina. Il legame della proteina N con la sequenza leader permette il passaggio dalla trascrizione alla replicazione del genoma. Infatti la proteina N, che avvolge progressivamente il trascritto, interagisce con il complesso L-P, costringendo la polimerasi virale a

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estendere a tutta lunghezza la trascrizione del genoma, senza interrompersi ai segnali di stop, portando in tal modo alla formazione dell’intermedio replicativo a polarità positiva. Dunque, anche il filamento a polarità positiva verrà inizialmente incapsidato, ma il suo ruolo principale sarà quello di stampo per la trascrizione dei genomi virali a polarità negativa ad opera delle RNA polimerasi-RNA dipendenti. Gli RNA messaggeri codificanti per le proteine N, P, M ed L sono tradotti dai ribosomi liberi nel citoplasma, mentre quello della proteina G viene tradotto dai ribosomi legati al reticolo endoplasmatico al fine di far entrare la proteina G nel pathway secretorio e consentirne la glicosilazione nel Golgi. La proteina G raggiungere la membrana plasmatica nelle regioni dei lipid raft. La fase finale della replicazione prevede l’assemblaggio delle componenti virali e il rilascio dei virioni dalla membrana plasmatica. In questo processo interviene la proteina M, che media il legame fra il complesso RNP e la porzione intracitoplasmatica della glicoproteina G.

56.4 - Trasmissione e patogenesi Quasi nella totalità dei casi, la rabbia si trasmette all’uomo attraverso il morso di un animale infetto, la cui saliva è carica di virioni. Il virus della rabbia ha un ampio spettro d’ospite, potendo infettare tutti gli animali a sangue caldo. L’animale più frequentemente responsabile dei casi umani di rabbia è il cane (oggi soprattutto in Asia e Africa), seguito dai pipistrelli ematofagi (in Australia, America e nell’Europa dell’Est) mediante morsi o attraverso l’aerosol che si forma nelle grotte in cui vivono gli animali. Sono più rari i casi dovuti ai morsi di volpi, procioni, marmotte o sciacalli. L’infezione può avvenire anche quando del materiale infetto (saliva o materiale cerebrale o spinale di animali rabidi) entra in contatto diretto con le mucose o con ferite aperte (trasmissione senza morso). Rarissimi i casi di trasmissione interumana, attraverso il trapianto di organi solidi e di cornea. Il virus può entrare direttamente nel tessuto nervoso, più frequentemente, o dare inizio a una prima fase di replicazione nel tessuto muscolare, in prossimità del sito di ingresso, dove rimane per la maggior parte del periodo di incubazione. In questa fase, che può durare da pochi giorni a diversi mesi, non si riescono a trovare nell’ospite infettato né il genoma, né gli antigeni virali nel sangue, nella saliva o nei tessuti. La durata del tempo di incubazione dipende da diversi fattori, tra cui la specie animale sorgente dell’infezione, la variante virale, la concentrazione del virus nell’inoculo, la localizzazione del punto di ingresso e la sua distanza dalle terminazioni nervose e dal sistema nervoso centrale, l’età (nei bambini è più breve) e lo stato del sistema immune del soggetto. Il virus entra nel sistema nervoso periferico attraverso le giunzioni neuromuscolari e si muove rapidamente sfruttando il trasporto assonale retrogrado dei nervi motori o di quelli sensoriali. In quest’ultimo caso (più frequente nell’infezione da RABV nell’uomo) il virus raggiunge il corpo del neurone a livello dei gangli dorsali del midollo, dove inizia la replicazione. L’ascesa al sistema nervoso centrale è rapida e il virus si diffonde soprattutto nell’ippocampo, nel corno d’Ammone, nelle cellule del Purkinje del cervelletto e nei nuclei del ponte, sfruttando anche la fusione di cellule infettate contigue. A una valutazione macroscopica del cervello si osserva la congestione dei vasi meningei; alla valutazione microscopica si osservano modeste emorragie perivascolari, una necrosi tissutale modesta, i corpi del Negri all’interno del citoplasma dei neuroni e, più raramente, neuronofagia. Le lesioni principali sono a carico della corteccia cerebrale e cerebellare e del midollo in cui le cellule più colpite sono quelle delle corna posteriori. Al contrario di quanto inizialmente ipotizzato dallo studio di ceppi virali selezionati in laboratorio, sembra che il virus selvaggio non induca apoptosi nelle cellule neuronali. Sembrerebbe infatti che i ceppi da strada, nell’infezione umana e animale, promuovano la sopravvivenza delle cellule neuronali al fine di mantenere in vita il soggetto infettato per il tempo necessario alla trasmissione. Inoltre, l’infezione cerebrale, prima di portare l’animale infetto alla morte, induce cambiamenti comportamentali utili alla diffusione

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del virus. I sintomi compaiono infatti a partire da questo momento. I nuovi virioni inoltre, dal sistema nervoso centrale iniziano a questo punto un percorso centrifugo di discesa lungo i nervi, raggiungendo numerosi tessuti e organi, tra cui la cute di testa e collo, la retina, la cornea, la mucosa nasale, il pancreas, la midollare del surrene, il muscolo cardiaco e le ghiandole salivari, che rappresentano il principale sito da cui il virus può trasmettersi ad altri ospiti. La risposta immune innata rappresenta la prima linea di difesa nei confronti del virus che stimola la produzione di interferoni (IFN) di tipo I (tra cui IFN-α e IFN-β) dopo l’attivazione dei pattern recognition receptors, tra cui i TLR e la RNA-elicasi. La produzione di IFN-β porterebbe a forte riduzione dell’azione patogena del virus e a un blocco quasi totale della sua replicazione. Tuttavia, la proteina P del virus interferisce con tale meccanismo protettivo in almeno due modi: bloccando la fosforilazione del fattore di regolazione 3 dell’IFN (IRF3), con conseguente blocco della produzione di IFN-β; interrompendo la trasduzione del segnale di tutti i tipi di IFN (tipo I e II) mediante il legame alle proteine STAT1 e STAT2 e impedendo la traslocazione di STAT1 nel nucleo dove avrebbe attivato l’IFN-stimulated growth factor 3 (ISGF3) e quindi l’IFN-stimulated response element (ISRe), inducendo uno stato di resistenza cellulare al virus (vedi Cap. 7). La risposta umorale di tipo IgG nei confronti della glicoproteina G è considerata protettiva nei confronti dell’infezione, in quanto tali anticorpi sono neutralizzanti e bloccano l’ingresso del virus nel sistema nervoso. Tale risposta tuttavia si sviluppa dopo la comparsa della sintomatologia clinica e a danno cerebrale ormai avvenuto.

56.5 - Manifestazioni cliniche nell’uomo Nell’uomo possono distinguersi 5 fasi della malattia: l’incubazione, la fase prodromica, la fase acuta neurologica, il coma, e la morte (raramente la guarigione). Se il paziente non viene immediatamente sottoposto a trattamento dopo il contatto con il materiale infetto o durante la fase dell’incubazione, non vi sono terapie efficaci una volta comparsi i primi sintomi e segni dell’infezione. Il periodo di incubazione è in genere di 1-2 mesi ma, come già detto, può durare pochi giorni o anche fino a 2 anni dall’esposizione. I sintomi compaiono nella fase prodromica, che dura in genere da 2 a 10 giorni. Spesso i sintomi sono aspecifici (malessere generale, febbre e affaticamento), oppure possono suggerire un problema di tipo respiratorio (mal di gola, tosse e dispnea), o dell’apparato gastrointestinale (anoressia, disfagia, nausea, vomito, dolore addominale e diarrea), oppure del sistema nervoso (cefalea, vertigini, ansia, irritabilità e nervosismo). Possono anche comparire sintomi più importanti (agitazione, fotofobia, priapismo, aumento della libido, insonnia, incubi notturni e depressione), suggestivi di un’encefalite, di disturbi psichiatrici o danni cerebrali. Il dolore o la parestesia nel sito di inoculo, associati al dato anamnestico di un recente morso di animale, dovrebbero sempre far considerare la rabbia fra le cause dei sintomi descritti. Nella fase acuta neurologica la malattia si presenta nell’uomo in due forme: quella furiosa (forma classica, 80% dei casi) e quella paralitica (non-classica, 20% dei casi). La forma furiosa di rabbia è caratterizzata dall’idrofobia, cioè la paura dell’acqua, dovuta al dolore associato agli spasmi dei muscoli inspiratori, della laringe e della faringe scatenati dal tentativo di deglutire liquidi, associata ad allucinazione, agitazione e ad attacchi convulsivi. Negli animali questa fase si manifesta con un aumento estremo dell’aggressività, che porta ad attaccare improvvisamente e senza motivo oggetti inanimati, altri animali e uomini. L’esordio della forma paralitica si caratterizza invece per la debolezza e la paralisi flaccida, che talora possono portare a diagnosi errate. Entrambe le forme di rabbia portano rapidamente al coma e la sopravvivenza dopo l’esordio della sintomatologia supera di rado i 10-15 giorni. La morte sopraggiunge per ipotensione, arresto cardiaco e respiratorio.

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56.6 - Diagnosi La diagnosi di malattia è in genere clinica e suggerita dal riscontro anamnestico di esposizione all’infezione e dalla presenza di sintomi e di segni di encefalite acuta. La diagnosi non pone infatti problemi se vi è all’anamnesi la storia di un morso di un animale e lo spettro di sintomi già descritti. È tuttavia essenziale tenere sempre in considerazione anche gli aspetti epidemiologici oltre che clinici, anche nei casi con sintomi non tipici, in quanto l’esposizione potrebbe essere avvenuta in aree endemiche al di fuori del territorio di residenza e non necessariamente a causa di morso di animale. All’esordio, la diagnosi differenziale si pone con numerose malattie sia infettive che non infettive, ad esempio con le encefaliti da herpesvirus o da arbovirus. I sintomi potrebbero far pensare al tetano, alla malaria cerebrale, all’infezione da rickettsie o anche al tifo. Le forme paralitiche potrebbero essere confuse con la poliomielite o con gli effetti della tossina botulinica. Fra le malattie con cui bisogna poi fare diagnosi differenziale vi sono le polineuropatie paralitiche (sindrome di Guillain-Barré) e gli avvelenamenti. Con il paziente ancora in vita, la diagnosi certa avviene mediante la ricerca degli antigeni virali o dell’RNA virale su cute o saliva o, più raramente, mediante isolamento virale su linee cellulari (con successiva reazione di immunofluorescenza per evidenziare la presenza delle cellule virali in coltura). Inoltre, dal momento che non sempre nella fase di latenza il virus è riscontrabile in circolo o nella saliva, è opportuno, soprattutto in casi in cui si sospetti un’avvenuta esposizione, ripetere la ricerca più volte. Va detto inoltre che la ricerca di anticorpi specifici (in soggetti non vaccinati) nel siero o nel liquor (in genere non presenti nemmeno nei soggetti vaccinati) non consente un intervento tempestivo ed efficace, in quanto la risposta umorale compare quando le lesioni cerebrali sono già estese. La diagnosi viene confermata postmortem, mediante analisi molecolare o ricerca di antigeni virali direttamente nel tessuto cerebrale. Nell’80% dei casi si potranno riscontrare i corpi del Negri o si ricercheranno gli antigeni virali nei preparati istologici dell’ippocampo o del cervelletto. Non è secondaria la definizione dello stato di salute o dell’avvenuta vaccinazione nell’animale (cani) che abbia morso un individuo. Se lo stato di immunizzazione del cane non è noto, è opportuno isolare e tenere in osservazione l’animale, per mettere in evidenza i sintomi della rabbia. Se i sintomi non compaiono entro le prime due settimane, il rischio di trasmissione è escluso. In assenza di un morso o delle altre lesioni descritte in precedenza, accarezzare o toccare un animale rabido non comportano rischio di infezione, come anche il contatto con sangue, urina o feci di un animale infettato, in quanto la carica infettante sufficiente alla trasmissione si trova solo nella saliva e nel tessuto nervoso. È importante inoltre cercare di capire se il morso dell’animale sia stato improvviso e senza causa apparente, come conseguenza del comportamento aggressivo indotto dall’infezione.

56.7 - Aspetti epidemiologici La rabbia è una zoonosi che secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) è diffusa in tutto il globo, ad esclusione dell’Antartide e di poche isole. Ogni anno, a causa di questa malattia, muoiono fra le 40 000 e le 70 000 persone. Di questi decessi il 95% si registra in Asia e Africa. Il 99% dei casi di rabbia nell’uomo dipende da rabbia canina e circa il 30-60% delle vittime di morsi di cane sono bambini minori di 15 anni. Il serbatoio dell’infezione è rappresentato dagli animai selvatici. In Europa la volpe è l’animale che ne rappresenta il reservoir principale; i pipistrelli lo sono per l’Asia, l’Europa dell’Est e il continente americano. Gli animali domestici possono essere sia un serbatoio, attraverso il fenomeno del randagismo, sia la sorgente di infezione per l’uomo. Dal punto di vista epidemiologico distinguiamo quindi la rabbia a diffusione silvestre, legata alla presenza di animali infetti nella fauna selvatica, che solo raramente

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Capitolo 56 • Rhabdoviridae

interessa direttamente l’uomo (cacciatori, campeggiatori ed escursionisti), e quella a diffusione urbana legata agli animali domestici (cani e più raramente gatti) e prevalentemente diffusa in aree endemiche dei Paesi in via di sviluppo. Infatti, a causa della rabbia contratta dal morso di cani infetti, muoiono ogni anno circa 30 000 persone in Asia e 25 000 in Africa. Negli ultimi anni, invece, la rabbia trasmessa dai pipistrelli è emersa come uno dei principali problemi di salute pubblica nelle Americhe e nell’Europa dell’Est. I pipistrelli vampiro (o ematofagi) sono infatti mammiferi migranti che diffondono l’infezione anche a grande distanza, sia ad altre specie di animali selvatici sia ad altre specie di pipistrelli insettivori o fruttivori. Per la prima volta nel 2003 in Sudamerica sono morte più persone per rabbia da animali selvatici, perlopiù pipistrelli, che da cani. Nella maggior parte delle zone dell’Europa Occidentale e Centrale la rabbia silvestre è stata eradicata attraverso la diffusione della vaccinazione delle volpi. La vaccinazione orale delle volpi e di altri animali selvatici, mediante la disseminazione di esche alimentari contenenti sospensioni di virus della rabbia (virus vivo e attenuato da passaggi ripetuti su colture), ha drasticamente ridotto o fatto scomparire la rabbia silvestre e quindi conseguentemente quella a diffusione urbana. Il picco della diffusione della rabbia silvestre in Italia si è avuto negli anni ’70. Dal 1997 e fino all’ottobre 2008 l’Italia è stata considerata libera da rabbia (rabies free). Successivamente sono stati diagnosticati centinaia di casi di rabbia silvestre in Friuli-Venezia Giulia, in Veneto e nella Provincia Autonoma di Trento. I casi di rabbia diagnosticati sono da mettere in stretta correlazione con la situazione epidemiologica della rabbia silvestre nelle vicine Slovenia e Croazia. Come risposta alla ricomparsa della rabbia silvestre, nei comuni infetti e nelle aree limitrofe è stata resa obbligatoria la vaccinazione dei cani e degli erbivori domestici a rischio (al pascolo), è stato reso obbligatorio l’uso del guinzaglio per condurre i cani, è stata intensificata la sorveglianza sugli animali selvatici e sono state attivate le procedure per la realizzazione della vaccinazione orale delle volpi che viene ripetuta con cadenza biennale. È purtroppo del giugno 2016 la notizia di un caso di rabbia in un cane domestico in Friuli-Venezia Giulia. Fortunatamente in Italia non sono stati registrati casi umani dal 1978, ma la prevenzione della diffusione della rabbia silvestre e di quella urbana rimangono essenziali per evitare la ricomparsa dell’infezione nell’uomo.

56.8 - Controllo, profilassi e trattamento Il provvedimento più efficace nel controllo della diffusione dell’infezione nell’uomo è l’eradicazione dell’infezione dai cani. La rabbia è infatti una malattia che si può prevenire mediante la vaccinazione. L’immunizzazione dei cani (e dei gatti) rappresenta la strategia con il miglior rapporto costo/efficacia. Il vaccino più impiegato nella vaccinazione degli animali è un vaccino attenuato mediante passaggi ripetuti su uova embrionate di pollo (ceppo Flury). Tale vaccino, non sufficientemente sicuro per l’uomo, è in via di sostituzione con un vaccino ricombinante costituito dalla proteina G del virus e in grado di stimolare la produzione di anticorpi neutralizzanti negli animali immunizzati. Anche nell’uomo l’immunoprofilassi rappresenta l’unico vero strumento per evitare gli esiti quasi sempre letali dell’infezione. L’immunoprofilassi attiva avviene mediante somministrazione di vaccino pre-esposizione, ed è raccomandata alle categorie a rischio: veterinari, allevatori, speleologi e coloro che hanno intenzione di viaggiare e soggiornare a lungo in Paesi dove il controllo della rabbia silvestre o urbana non sia garantito o dove non sia prevista la vaccinazione degli animali domestici. La vaccinazione avviene utilizzando un ceppo virale (HDCV) coltivato su linee cellulari di fibroblasti embrionali umani (WI-38), o il ceppo virale RVA coltivato su linee cellulari di polmone fetale di Macacus Rhesus, entrambi inattivati con β-propiolattone. Il vaccino è efficace e sicuro e deve essere somministrato in 4 dosi, una alla settimana per un mese. Fino al 1950 era in uso il vaccino di Sample, preparato in maniera simile al primo vaccino

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antirabbico ideato da Pasteur nel 1884. Era costituito dalla sospensione contenente il 5% di cervello di coniglio ucciso da un ceppo fisso della rabbia e poi inattivato con fenolo. Questo vaccino, seppur efficace, causava frequentemente reazioni allergiche o encefaliti post-vaccinali. Successivamente sono stati utilizzati ceppi di laboratorio (RABV) coltivati su uova embrionate di anatra, sicuri ma poco efficaci, che rendevano inoltre necessarie fino a 20 immunizzazioni successive per indurre una risposta neutralizzante protettiva. Nel caso di un paziente in cui vi fosse l’evidenza o il sospetto di un morso di un animale infetto o di esposizione a liquidi biologici infetti, la prima azione da intraprendere è rappresentata dall’immediato lavaggio della lesione con abbondante acqua e detergente, quindi alcol etilico o ioduro di potassio. Si procede poi alla somministrazione del vaccino (vaccinazione post-esposizione) associato alla somministrazione endovena, oltre che per infiltrazione nel sito di inoculo, di immunoglobuline umane iperimmuni specifiche (HRIG con dose di anticorpi neutralizzanti standardizzata a 150 UI/mL). Dal momento che il tempo di incubazione è molto lungo, l’immediata somministrazione di vaccino (in prima giornata e poi ripetuto ai giorni 3, 7, 14 e 28) e delle immunoglobuline riescono a neutralizzare il virus inoculato e a ridurre la sua concentrazione nella sede di ingresso; inoltre stimolano una risposta immune umorale che impedisce l’ingresso del virus nel sistema nervoso centrale. La pulizia delle ferite e la vaccinazione possono prevenire l’insorgenza della rabbia in quasi il 100% delle esposizioni. Ogni anno circa 40 000 persone sono sottoposte a profilassi post-esposizione. Il peso economico della rabbia nei Paesi in via di sviluppo è molto pesante. Il costo medio della vaccinazione dopo il morso di un animale è di 40 euro in Africa e 50 in Asia e rappresenta un carico economico considerevole per molte famiglie di questi Paesi, dove il salario medio è di circa pochi euro al giorno per persona. Nel dicembre 2015 l’OMS, l’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (OIE) e altri enti sovranazionali hanno lanciato una campagna, supportata anche dalla Fondazione Bill & Melinda Gates, per ridurre a zero i numeri di morti umane per rabbia entro il 2030. Gli strumenti con cui raggiungere l’obiettivo sono la diffusione delle vaccinazioni animali, la facilitazione dell’accesso alle profilassi pre- e post-esposizione e la sensibilizzazione delle istituzioni verso una malattia spesso dimenticata.

Bibliografia essenziale Albertini, A.A., Ruigrok, R.W., Blondel, D. (2011), «Rabies Virus Transcription and Replication», Advances in Virus Research, vol. 79, chapter 1. Dietzgena, R.G., Kondo, H.B., Goodinc, M.M., Kurathd, G., Vasilakis, N. (2017), «The family Rhabdoviridae: mono- and bipartite negative-sense RNA viruses with diverse genome organization and common evolutionary origins», Virus research, (227) pp. 158-170. Dietzschold, B., Li, J., Faber, M., Schnell, M. (2008), «Concepts in the Pathogenesis of Rabies», Future Virology, 3(5):481490. Flint, J., Racaniello, V.R., Rall, C.F., Skalka, A.M., Principles of Virology, 4a ed., American Society for Microbiology, 2015. Schnell, M.J., McGettigan, J.P., Wirblich, C., Papaneri, A. (2010), «The cell biology of rabies virus: using stealth to reach the brain», Nature Reviews Microbiology, 6, pp. 51-61.

Capitolo

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Arenaviridae

La famiglia Arenaviridae comprende attualmente venticinque specie virali con genoma a RNA monocatenario segmentato a polarità negativa muniti di pericapside. La presenza, all’interno del virione, di ribosomi di origine cellulare che al microscopio elettronico assumono un aspetto di granelli di sabbia ha portato alla denominazione di “arenavirus”. Ciascun virus è associato a uno specifico ospite roditore che funge da serbatoio naturale, eccetto il virus Tacaribe, veicolato dai pipistrelli. Occasionalmente, almeno dieci di questi virus possono infettare l’uomo causando malattie zoonotiche; l’infezione si trasmette dal roditore all’uomo attraverso l’esposizione delle mucose ad aerosol infetto o per contatto diretto con abrasioni cutanee, anche di modesta entità, con materiali contaminati. Diversi arenavirus possono essere responsabili di patologie molto gravi nell’uomo, come le febbri emorragiche (FE), motivo per cui sono considerati un serio problema per la salute pubblica, soprattutto nelle regioni endemiche.

57.1 - Classificazione e tipi La famiglia Arenaviridae, primitivamente rappresentata dal solo genere Arenavirus, dal 2014 consiste di due generi: i Mammarenavirus, a cui appartengono i venticinque virus che hanno come ospiti i mammiferi, e i Reptarenavirus, un nuovo genere comprendente arenavirus diversi veicolati da serpenti; inoltre, sulla base delle caratteristiche di cross-reattività immunologica confermata da recenti studi filogenetici e della differente distribuzione geografica, il genere Mammarenavirus è stato ulteriormente diviso in due grandi siero-complessi: gli arenavirus del Vecchio Mondo (VM), noti anche come complesso LCMV-Lassa, e quelli del Nuovo Mondo (NM), o complesso Tacaribe (tab. 57.1). Geneticamente gli arenavirus VM sono costituiti da un singolo lignaggio, mentre quelli NM sono separati nei cladi A, B, A/B e C. Gli arenavirus rappresentano un modello sperimentale sia per lo studio delle infezioni acute e persistenti sia per l’importanza clinica che rivestono alcuni dei patogeni umani tra cui il Lassa virus (LASV) e il Junin virus (JUNV), gli agenti etiologici rispettivamente della febbre di Lassa (LF) e della febbre emorragica argentina (AHF). Il LASV, un arenavirus del Vecchio Mondo, è associato a centinaia di migliaia di casi per anno di febbre di Lassa, in Africa occidentale, caratterizzata da elevata morbilità e mortalità (Bray 2005; Geisbert e Jährling 2004); l’impatto globale stimato per la LF è il più alto tra le FE ad eziologia virale, secondo solo alla febbre da Dengue (Falzarano e Feldmann 2013). In particolare, la maggiore frequenza e rapidità degli spostamenti di merci e persone da e verso regioni endemiche ha comportato l’importazione in tutto il mondo di casi di LF in aree metropolitane non endemiche (Freedman e Woodall 1999; Isaacson 2001). Il virus Junin (JUNV), un arenavirus del Nuovo Mondo, provoca la febbre emorragica argentina (AHF), una malattia endemica delle Pampas argentine associata a emorragia e manifestazioni neurologiche nonché a una letalità del 15-30% (Peters 2002). Studi condotti sul virus della coriomeningite linfocitaria (LCMV), prototipo degli arenavirus del VM, hanno portato a importanti progressi in ambito virologico e im-

• Distribuzione geografica • Vie di trasmissione • Sintomatologia • Diagnosi • Prevenzione e trattamento

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Tabella 57.1 Classificazione e distribuzione geografica degli arenavirus.

Virus

Ospite

Patologia umana

Distribuzione geografica

Complesso LCMV-Lassa o Vecchio Mondo LCMV

Mus musculus Mus domesticus

Coriomeningite linfocitaria Meningite asettica

Tutto il mondo tranne Oceania

Lassa

Mastomys natalensis

Febbre di Lassa

Africa Occidentale

Complesso Tacaribe o Nuovo Mondo Junin Virus

Calomys musculinus Calomys laucha, Akadon azarae

Febbre emorragica

Argentina

Machupo Virus

Calomys callous

Febbre emorragica

Bolivia

Guanarito Virus

Zygodontomys brevicuda

Febbre emorragica

Venezuela

Sabia

Sconosciuto

Febbre emorragica

Brasile

Chapare

Sconosciuto

Febbre emorragica

Bolivia

Lujo

Sconosciuto

Febbre emorragica

Zambia Repubblica del Sudafrica

Whitewater Arroyo virus

Woodrat (Neotoma)

Febbre emorragica

Stati Uniti

Ocozocoautla de Espinosa virus

Peromyscus mexicanus

Febbre emorragica

Messico

munologico; l’evoluzione verso la forma acuta o quella persistente condotta da LCMV nel topo varia notevolmente a seconda dell’età, dell’immunocompetenza e del profilo genetico dell’ospite, della via di trasmissione, del ceppo e della dose infettante del virus (Oldstone 2002; Zinkernagel 2002). Topi immunocompetenti adulti inoculati con LCMV Armstrong (ARM) manifestano un’infezione acuta che induce una risposta immunitaria protettiva dopo 10-14 giorni dall’infezione, un processo mediato principalmente dai linfociti T citotossici CD8+ (CTL); di contro, il ceppo LCMV clone 13 (Cl-13), che differisce da ARM solo in tre posizioni di aminoacidi, inoculato con alte dosi (≥ 2 × 106 unità formanti placche, PFU), provoca un’infezione persistente associata a una soppressione immunitaria generalizzata (Ahmed e Oldstone 1988; Ahmed et al. 1984, 1988).

57.2 - Struttura e morfologia I virioni sono pleiomorfi di diametro variabile da 40 a più di 200 nm. Il pericapside deriva dalla membrana plasmatica della cellula ospite e contiene due glicoproteine virali, la GP1 e la GP2, deputate rispettivamente all’adsorbimento e alla penetrazione del virus. All’interno, il pericapside è rivestito da uno strato proteico la cui componente è la proteina Z, legante gli ioni zinco, che svolge un importante ruolo nell’assemblaggio e nella gemmazione del virione. Il core del virus è costituito da un complesso ribonucleoproteico (vRNP), composto dal nucleocapside a cui è associata la proteina NP (fig. 57.1). All’interno del virione possono anche essere incorporati i ribosomi di derivazione cellulare, disposti in modo ordinato, che conferiscono al virus un apparente aspetto “sabbioso” da cui deriva il nome di questi agenti infettanti. Il genoma degli arenavirus è composto da due RNA a singolo filamento di polarità negativa (–): il segmento maggiore (L), di circa 7,2 kb, e il segmento minore (S), di 3,5 kb. I due geni di ciascun segmento sono separati da una regione intergenica (IGR) altamente conservata non codificante, la quale mostra una struttura a forcina e

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Figura 57.1 Struttura degli Arenaviridae. GP1 e GP2: glicoproteine del pericapside; NP: proteina del nucleocapside; L: proteina L polimerasi o RdRp; Z: proteina di matrice.

NP

GP1

Z

L

GP2

RNA S (3,5 kb)

Figura 57.2 Genoma degli Arenaviridae.

IGR UTR

UTR NP

GPC

5'

3'

RNA L (7,2 kb) IGR UTR 5'

Z

UTR L

3'

funge da segnale di terminazione della trascrizione. I genomi lineari sono fiancheggiati in posizione 5′ e 3′ da regioni non tradotte (UTR) altamente conservate tra gli arenavirus (fig. 57.2). Le regioni UTR sono importanti per la formazione del nucleocapside virale e favoriscono i processi di replicazione e trascrizione virale. Ciascuno dei frammenti genici viene tradotto in due proteine a partire da mRNA a orientamento opposto (strategia di codifica ambisenso). Il segmento L codifica per la proteina RNA polimerasi-RNA dipendente (RdRp o L polimerasi) e per la proteina di matrice Z, mentre il segmento S codifica per la nucleoproteina NP e per il precursore nucleoproteico GPC. Quest’ultimo, dopo il processo di traduzione, viene scisso nelle due proteine GP1 e GP2 mediante una proteasi cellulare (S1P).

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I due segmenti L ed S sono incapsidati in due nucleocapsidi separati. Questi sono organizzati in strutture circolari chiuse che oltre al genoma contengono anche il complesso della polimerasi (L), oltre alla già citata proteina NP.

57.3 - Replicazione Il ciclo replicativo degli arenavirus inizia con l’adsorbimento e la successiva internalizzazione per endocitosi del virus nella cellula, processi che vengono mediati dalla GP1. I recettori cellulari riconosciuti dalla glicoproteina differiscono a seconda delle specie di arenavirus; infatti il recettore primario riconosciuto dagli arenavirus del Vecchio Mondo e dal clade C del Nuovo Mondo è rappresentato dall’α-destroglicano (αDG), mentre la transferrina umana (TfR1) è la proteina recettoriale identificata dai virus appartenenti ai cladi A, B, A/B del NM. L’ambiente acido dell’endosoma cellulare provoca un cambiamento conformazionale della GP2 che, a questo punto, media la fusione pH-dipendente tra le membrane della cellula e del virus, con conseguente rilascio dei nucleocapsidi nel citoplasma, sede in cui avvengono la replicazione e la trascrizione degli RNA virali. La trascrizione dei geni è mediata dai promotori del genoma virale e dell’antigenoma localizzati all’interno delle terminazioni UTR, all’estremità 3′ rispettivamente degli RNA virali e delle specie di RNA complementari (cRNA). Le regioni NP e L, localizzate all’estremità 3′ dei segmenti S e L, vengono trascritte in un mRNA complementare e quindi tradotte, mentre le regioni GPC e Z non vengono tradotte direttamente ma necessitano della conversione di mRNA a polarità positiva in cRNA, e funzionano anche come intermedi replicativi (fig. 57.3). La terminazione della trascrizione è mediata dalla struttura secondaria a forcina all’interno delle sequenze IGR, che regolano anche l’impacchettamento dei virioni maturi. Gli RNA virali di nuova sintesi sono incapsidati dalle proteine NP per formare i complessi RNP e sono impacchettati per la formazione di progenie virale dall’interazione della proteina Z.

RNA genomico S

RNA genomico L IGR

IGR UTR 5'

UTR

UTR GPC

NP

5'

3'

UTR Z

L

Trascrizione

Trascrizione NP

Replicazione

L

Replicazione

NP

L Traduzione

Traduzione

RNA antigenomico L

RNA antigenomico S 3'

GPC

Trascrizione

NP IGR

5'

GP1

3'

IGR

Traduzione

Z Clivaggio

GP2

Figura 57.3 Trascrizione e replicazione degli arenavirus.

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L

Z

Trascrizione

GPC

A

3'

Traduzione

ZN

5'

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Quest’ultima, inoltre, è coinvolta nell’assemblaggio degli arenavirus mediando l’interazione tra i neocomplessi RNP e le proteine GP1/GP2 e nella gemmazione dalle cellule infette dei virioni neosintetizzati e assemblati.

57.4 - Patogenesi e manifestazioni cliniche – Patogenicità I virus appartenenti a questa famiglia vengono definiti quasispecie, poiché all’interno dell’ospite si presentano come un complesso di mutanti strettamente correlati dal punto di vista genetico. Contribuiscono alla variabilità genetica le mutazioni casuali della trascrittasi virale RdRp, processi di ricombinazione e di riassortimento del genoma, nonostante questi siano estremamente rari in natura e si verifichino solo tra ceppi filogeneticamente correlati. La loro biologia e i loro meccanismi patogenetici complessi dipendono probabilmente da quanto è stato descritto precedentemente. Il genoma del virus codifica solamente per quattro geni, ma a ogni proteina sono correlate molteplici funzioni, che vanno dalla replicazione virale al ruolo nel determinare i diversi tipi di patologia negli esseri umani. Nell’ospite, la virulenza degli arenavirus è strettamente legata all’aumentata possibilità di ingresso nelle cellule bersaglio, alla capacità di replicazione e di soppressione della risposta immunitaria innata dell’ospite. Gli arenavirus sono in grado di infettare i macrofagi e inducono il rilascio di mediatori del danno cellulare e vascolare. La distruzione dei tessuti viene aggravata dall’immunità cellulo-mediata. Le manifestazioni cliniche variano da forme asintomatiche a gravi insufficienze multiorgano e conseguente morte. Alle forme simil-influenzali possono aggiungersi sintomi più severi come effusione pleurica, trombocitopenia, leucopenia, encefalopatie, distress respiratorio e shock irreversibile. Di seguito si riassumono le principali caratteristiche cliniche più frequenti delle infezioni da arenavirus.

Lassa virus Questo virus è responsabile di più di 300 000 infezioni e 5000-10 000 morti/anno nelle aree endemiche dell’Africa. L’incubazione è di 6-21 giorni. Il tasso di mortalità è intorno all’1-2% ma può raggiungere il 30-50% nei casi di epidemie nosocomiali. Drammaticamente alta è la mortalità infantile, con punte del 30%. In condizioni di sovraffollamento, sia domestico sia nosocomiale, si può verificare una diffusione anche per via interumana, attraverso il contatto diretto di lesioni cutanee con fluidi corporei infetti. L’infezione, che è spesso misdiagnosticata, ha un esordio graduale, presentando i sintomi prodromici più comuni degli altri arenavirus, ovvero febbre, tosse, malessere, cefalee severe, faringite essudativa, vomito e diarrea. Nei casi più gravi la patologia può evolvere in coagulopatie con conseguenti manifestazioni petecchiali, emorragie viscerali, necrosi del fegato e della milza. Nelle forme meno gravi, la risoluzione dei segni/sintomi inizia dopo 10 giorni dall’esordio della malattia, ma astenia e malessere generale durano per settimane. Nei casi fatali viene coinvolto anche il SNC con atassia, convulsioni e disorientamento. Circa il 20% dei pazienti presenta fenomeni emorragici importanti e in questi la mortalità può raggiungere il 50% per shock, distress respiratorio e arresto cardiaco. La sintomatologia è molto simile a quella riferibile ad altre patologie infettive presenti in Africa Occidentale (malaria, setticemia, febbre gialla) per cui è fondamentale un’accurata diagnosi differenziale.

Virus della coriomeningite linfocitaria Il virus ha una diffusione mondiale a causa dell’ampia distribuzione del suo ospite naturale (Mus musculus). L’incubazione è di 6-13 giorni. La sintomatologia varia da forme asintomatiche a forme simil-influenzali modeste caratterizzate da fotofobia, nausea, vomito, trombocitopenia e leucopenia. Le forme più gravi si manifestano con

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segni di meningite asettica o meningoencefalomielite. Nei pazienti affetti da sindromi neurologiche, il periodo d’incubazione può arrivare fino a 20 giorni. I casi letali sono correlati alla manifestazione di encefalomieliti con rapida comparsa di papilloedema bilaterale, stato confusionale e paralisi degli arti. Nei soggetti immunocompetenti, l’infezione acquisita non rappresenta una seria minaccia, a differenza di quanto avviene nelle forme congenite in cui l’infezione può essere molto grave. Nelle donne in gravidanza l’infezione può provocare aborto o morte fetale. Nei bambini le forme congenite possono presentare sequele quali disabilità visive e/o neurologiche permanenti o essere fatali nel 35% dei casi. Nei trapiantati d’organo solido l’infezione può manifestarsi con severi sintomi quali encefalopatie, coagulopatie e disfunzione d’organo.

Junin virus L’incubazione è di 7-15 giorni. Il tasso di mortalità va dal 15 al 30% nelle zone endemiche. La sintomatologia è di tipo simil-influenzale accompagnata da mialgia, ipotensione, congiuntivite, emorragia petecchiale dei tessuti molli, letargia e irritabilità. I casi gravi possono essere caratterizzati da febbre, leucopenia, tremori, trombocitopenia, manifestazioni emorragiche, shock e convulsioni. L’evoluzione letale dell’infezione si manifesta con ipotensione, oliguria, gravi emorragie addominali e necrosi che compaiono in pochi giorni dall’esordio.

Machupo, Guanarito, Sabia Tra gli arenavirus del NM tipici del continente Sudamericano, oltre al già citato JUNV, anche il Machupo (MACV), il Guanarito (GTOV) e il Sabia virus (SABV) sono considerati patogeni emergenti, causa di febbri emorragiche. Questi, insieme al virus Lassa, causano emorragie che si verificano probabilmente in seguito a distruzione del tessuto vascolare. L’alterazione funzionale dell’endotelio vascolare precede lo shock e la morte nelle febbri a decorso fatale, in cui il virus sembra sia coinvolto direttamente o indirettamente sulla patogenesi. L’infezione virale produttiva, infatti, sembra modifichi specifiche funzionalità delle cellule endoteliali, come l’espressione di molecole di adesione sulle cellule, fattori della coagulazione e mediatori vasoattivi.

57.5 - Epidemiologia Gli arenavirus sono generalmente responsabili di zoonosi trasmesse all’uomo dai roditori. Ogni virus è associato a una o più specie di roditori filogeneticamente strettamente connesse, che costituiscono il serbatoio naturale del virus e presso i quali il microrganismo causa un’infezione persistente inapparente e asintomatica. I virus patogeni per l’uomo hanno la loro maggiore incidenza nelle regioni tropicali dell’Africa e del Sudamerica. La trasmissione all’uomo può avvenire per inalazione di particelle contaminate da secrezioni dei roditori o attraverso contatto diretto delle mucose o di lesioni cutanee con sangue o escrezioni di roditori infetti. Inoltre, l’infezione può avvenire anche per ingestione di cibo contaminato da escrementi di roditori infetti. È possibile anche la trasmissione interumana, descritta in ambito familiare e/o nosocomiale, per contatto diretto con sangue, tessuti, secrezioni e fluidi corporei di persone infette; questo tipo di infezioni presenta una prognosi frequentemente infausta. Non è descritta la trasmissione dell’infezione da contatto con cute integra.

57.6 - Diagnosi In rari casi, i viaggiatori che soggiornano in aree dove la malattia è endemica possono esportarla verso altri Paesi. Nonostante altre malattie tropicali siano più frequenti, le

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Capitolo 57 • Arenaviridae

febbri emorragiche dovrebbero essere prese in considerazione nel caso in cui il paziente abbia soggiornato in Africa Occidentale, specie nel caso in cui abbia frequentato zone rurali. La diagnosi clinica differenziale è comunque molto complessa, motivo per cui bisogna avvalersi di tecniche di laboratorio atte a rilevare la comparsa di anticorpi di tipo IgM e IgG e, qualora fosse possibile, effettuare l’isolamento virale. La diagnosi di laboratorio per gli arenavirus si basa su isolamento virale in colture cellulari competenti, test di neutralizzazione, dosaggio di anticorpi o sulla ricerca diretta del virus in fase acuta attraverso la microscopia elettronica. Le tecniche di biologia molecolare consentono una risposta precoce e specifica, ancor prima che si evidenzi una significativa risposta anticorpale e, cosa ancora più importante, non risentono delle cross-reazioni, che invece caratterizzano i test immunologici classici; la sensibilità e la specificità sono infatti le caratteristiche peculiari delle tecniche biomolecolari, che consentono inoltre anche la tipizzazione virale. Nel caso del virus Lassa, l’acido nucleico virale è rilevabile nel sangue e nel siero fino a tre settimane dall’infezione e fino a cinque settimane nelle urine. Tuttavia la variabilità tra gli isolati, specie per quanto riguarda il virus Lassa, ha finora ostacolato la standardizzazione di una real-time PCR.

57.7 - Terapia e profilassi Attualmente, l’unica terapia antivirale contro le infezioni da arenavirus è limitata a un uso off-label della ribavirina, un analogo nucleosidico che, nonostante i suoi benefici clinici validati, presenta dei limiti legati ai suoi effetti collaterali. Sono frequenti e significativi la comparsa di anemia e, se somministrata in gravidanza, l’insorgenza di patologie congenite; inoltre, il successo terapeutico dipende essenzialmente dalla precoce somministrazione dei farmaci, possibilmente entro sei giorni dall’esordio sintomatologico. Il trattamento farmacologico prevede la somministrazione di 60-70 mg/kg di ribavirina per almeno dieci giorni. La ribavirina sembra interferire con la replicazione virale inibendo la sintesi dell’RNA virale, anche se l’esatto meccanismo d’azione non è ancora ben definito. È indispensabile associare alla terapia farmacologica anche una terapia di supporto costituita dal reintegro dei fluidi (mantenimento della volemia e dell’equilibrio elettrolitico), trasfusioni e somministrazione di fattori della coagulazione e piastrine, per il controllo del sanguinamento. In conclusione, il controllo delle epidemie da arenavirus si fonda per lo più sulla prevenzione primaria basata sull’adozione di adeguate misure igienico-comportamentali in ambito familiare, nosocomiale e comunitario.

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Capitolo

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Bunyaviridae

La famiglia Bunyaviridae comprende circa 350 specie virali a RNA monocatenario trisegmentato a polarità negativa. La famiglia include diversi virus emergenti e riemergenti in grado di infettare l’uomo, quali il Rift Valley fever virus (RVFV) e il Crimean-Congo virus (CCHFV), che continuano a comparire in nuove aree geografiche e la cui incidenza è in aumento, colpendo anche popolazioni precedentemente scevre dall’infezione. I bunyavirus mostrano una distribuzione di tipo globale e ciò è giustificato dalla modalità di trasmissione che avviene, ad eccezione degli hantavirus, per mezzo di artropodi vettori, motivo per cui vengono comunemente definiti arbovirus. Parecchi bunyavirus sono responsabili di diverse patologie dell’uomo, anche severe, tra cui encefaliti, epatiti, febbri emorragiche, patologie congenite malformative e aborti. Purtroppo attualmente non sono disponibili valide misure preventive e terapeutiche, motivo per cui questi virus vengono classificati come livello di rischio 3 o 4.

58.1 - Classificazione dei bunyavirus Sulla base dell’organizzazione genomica, della relazione filogenetica e della loro distribuzione geografica, i virus appartenenti alla famiglia Bunyaviridae sono stati classificati dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV) in cinque generi differenti: Orthobunyavirus, Hantavirus, Nairovirus, Phlebovirus e Tospovirus, anche se quest’ultimo è fondamentalmente di interesse botanico (Beaty and Calisher, 1991). In passato i bunyavirus sono stati classificati in sierogruppi sulla base delle relazioni antigeniche determinate principalmente da test sierologici; attualmente sono state identificate quarantotto specie virali appartenenti al genere Orthobunyavirus, ripartite in diciotto sierogruppi, trentaquattro specie appartenenti al genere Nairovirus, suddivise in sette sierogruppi, e nove specie virali del genere Phlebovirus divise in due sierogruppi. L’attuale classificazione fa riferimento alle diverse sequenze genomiche di ogni membro appartenente alla famiglia. La variabilità genica, inoltre, pone la famiglia in espansione identificando virus ancora da classificare e virus emergenti di nuova scoperta come i virus Schmallenberg, Heartland e Huaiyangshan, detto anche virus emergente della febbre con sindrome trombocitopenica. Recentemente sono stati scoperti nuovi lignaggi di bunyavirus che si servono degli insetti come vettori e che aumenterebbero le specie virali emergenti tanto da giustificare l’esigenza di creare un sesto genere. La diversità tra le specie viene dimostrata anche dalle differenti tipologie di spettro d’ospite. I bunyavirus, che, come già detto, sono prevalentemente diffusi tramite artropodi (zanzare, zecche, flebotomi), vengono comunemente definiti arbovirus; fanno eccezione gli hantavirus che infettano solo i mammiferi e vengono diffusi tramite le urine e le feci dei roditori (fig. 58.1). Gli arbovirus sono capaci di replicare alternativamente in artropodi ematofagi e vertebrati; in questi ultimi provocano un marcato effetto citopatico, diversamente dall’ospite invertebrato nel quale l’effetto citopatogenetico è scarso o assente. Gli orthobunyavirus, i nairovirus e i phlebovirus sono trasmessi da

• Virus trasmessi da artropodi • Vie di trasmissione • Sintomatologia • Diagnosi • Prevenzione e trattamento

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Vettore Prototipo

Bunyamwera virus

Tomato spotted wilt virus

Hantaan virus

Rice stripe virus

Rift Valley fever virus

Dugbe virus

Genere

Orthobunyavirus

Tospovirus

Hantavirus

Tenuivirus

Phlebovirus

Nairovirus

Specie

BUNV

LACV

INSV

TSWV

AND HTN DOB

RGSV

RStV

UUKV

RVFV

DUGV

CCHFV

ICV

Figura 58.1 Relazione filogenetica e vettori correlati ai diversi generi di bunyavirus.

svariate specie di artropodi ematofagi in cui sono in grado di replicare; i tospovirus sono invece trasmessi da artropodi non-ematofagi e riconoscono come ospiti definitivi anche le piante. Infine, gli hantavirus riconoscono i roditori come unici ospiti. Quest’ultimo genere viene ulteriormente classificato, in base alla distribuzione geografica, in Hantavirus del Vecchio Mondo e Hantavirus del Nuovo Mondo (tab. 58.1).

58.2 - Struttura e morfologia Le particelle virali sono sferiche e hanno un diametro di 80-160 nm. I virioni degli hantavirus presentano un diametro di circa 98 nm. Sono composti esternamente da un pericapside di origine cellulare da cui protrudono le due glicoproteine Gn e Gc, internamente presentano un nucleocapside elicoidale costituito dal genoma trisegmentato associato alle nucleoproteine e alla polimerasi virale (fig. 58.2A). Il genoma a singolo filamento a polarità negativa (ssRNA–) è costituito da tre segmenti di varia grandezza, il maggiore (L), il medio (M) e il minore (S), i quali codificano rispettivamente per l’RNA polimerasi-RNA dipendente (RdRp), le due glicoproteine Gn e Gc e le proteine del nucleocapside (N). L’organizzazione genica dei segmenti è simile in tutti i generi; ogni genoma possiede delle regioni non tradotte (NTR) situate alle estremità terminali 3′ e 5′, che circondano una singola unità trascrizionale interna (IGR) (fig. 58.2B, C). Questa regione,

Capitolo 58 • Bunyaviridae

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Tabella 58.1 Classificazione e distribuzione geografica dei bunyavirus.

Genere

N. di specie/ isolati

Specie virali

Vettori principali

Patologia umana

Distribuzione geografica

Orthobunyavirus

48/163

Bunyamwera California encephalitis La Crosse (LACV) Tahyna Oropouche virus (OROV)

Zanzara Zanzara Zanzara Zanzara Zanzara

Encefalite Meningoencefalite Encefalite Malattia febbrile, esantema Malattia febbrile acuta

USA, Sudamerica USA USA Europa Sudamerica

Andes Hantaan Puumala Seoul Dobrava

Topo Ratto Topo Ratto Topo

HSP HFSR HFSR HFSR HFSR

America Asia, Russia Orientale Europa Ubiquitario Balcani

Bayou Black Creek Canal New York Monongahela Sin Hombre

Ratto Ratto Topo Topo Topo

HSP HSP HSP HSP HSP

USA USA USA USA USA, Canada

Zecca

HF Malattia febbrile Malattia febbrile

Europa, Africa, Asia

Rift Valley fever

Zanzara, zecca, flebotomi

Malattia febbrile, epatite, retinite, encefalite, HF, aborto

Africa, Asia Centro-meridionale

Sandly fever Naples Sandly fever Sicilian

Flebotomi Flebotomi

Malattia febbrile Malattia febbrile

Mediterraneo Mediterraneo

Toscana virus

Flebotomi

Meningite asettica

Mediterraneo

Hantavirus del Vecchio Mondo

Hantavirus del Nuovo Mondo

Nairovirus

Phlebovirus

22/43

7/34

9/36

Crimea-Congo Hemorrhagic fever virus (HCCHFV) Dugbe Nairobi sheep disease

HF: febbre emorragica; HFRS: febbre emorragica con sindrome renale; HSP: sindrome polmonare umana.

costituita da sequenze altamente conservate e genere-specifiche, è indispensabile per la moltiplicazione del virus e per l’attivazione dei processi trascrizionali; diversamente le NTR mostrano una considerevole variabilità, sia tra i segmenti dello stesso virus sia tra i membri dello stesso genere. I segmenti di RNA dei bunyavirus si presentano all’interno del virus come molecole circolari (von Bonsdorff & Pettersson, 1975; Hacker Raju & Kolakofsky, 1989). Il segmento S di tutti i bunyavirus codifica per la proteina del nucleocapside (N) il cui ruolo primario è quello di incapsidare i genomi virali neogenerati per formare il complesso ribonucleoproteico (RNP); tuttavia, è capace di svolgere altri ruoli, altrettanto importanti per il ciclo vitale del virus, tra cui l’interazione con le glicoproteine di membrana (Hepojoki et al., 2010) e l’interazione con la RdRp virale per consentire l’accesso del RNP durante la sintesi degli RNA. I segmenti S della maggior parte dei membri dei generi Orthobunyavirus, Tospovirus e Phlebovirus codificano anche per una proteina non-strutturale chiamata NSs (fig. 58.2), il cui ruolo principale è quello di modulare la risposta antivirale della cellula ospite attraverso diverse vie di immunità innata. Le proteine N e NSs degli orthobunyavirus sono tradotte dallo stesso mRNA codificato dal segmento S (fig. 58.2B), diversamente da quanto accade nei phlebovirus e tospovirus nei quali tali proteine vengono tradotte secondo un meccanismo di trascrizione e traslazione definito “ambisenso”, cioè secondo due moduli di lettura differenti, quello genomico e quello anti-genomico (fig. 58.2C).

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C 5' AUG

N

Trascrizione

RdRp

Gn-Gc

5' NTR

Antigenoma (+)

Replicazione

3' NTR

NTR

3'

5' NTR

Replicazione

Genoma (–)

NTR

Replicazione

5'

3' NTR

L S

AUG1

5' Cap

NTR

3'

Replicazione IGR

NTR

5'

Trascrizione

Trascrizione

M

IGR

mRNA (+)

AUG1

5'

mRNA (+)

AUG2

Espressione genica in senso negativo

Espressione genica ambisenso

Figura 58.2 Struttura e morfologia dei bunyavirus.

Il segmento M di tutti i membri della famiglia Bunyaviridae, costituito da un’unica open reading frame (ORF), codifica per il precursore delle glicoproteine di membrana, una poliproteina (GPC) che viene scissa per mezzo di una proteasi cellulare nelle componenti Gn e Gc. Nell’apparato del Golgi tali polipeptidi, sotto forma di eterodimero (Gn-Gc) legati da un ponte disolfuro, mediano l’assemblaggio virale, la formazione della particella virale e l’attacco a nuove cellule bersaglio (Spik, 2006). Per tutti i bunyavirus il segmento L contiene come il precedente una singola ORF che codifica per la RdRp virale, unico prodotto proteico di questo segmento (fig. 58.2), le cui competenze riguardano la gestione della replicazione e della trascrizione degli mRNA virali.

58.3 - Replicazione Il virus si àncora alle cellule dell’ospite attraverso interazioni di tipo sterico con il dimero glicoproteico Gn-Gc e da queste è fagocitato per endocitosi. Il basso pH endosomiale induce la fusione del virus con la membrana dell’endosoma e il successivo rilascio del genoma virale nel citoplasma (uncoating). L’ingresso del virus è mediato dall’interazione delle glicoproteine con una serie di fattori espressi sulla superficie delle cellule bersaglio; uno tra questi è il recettore DC-SIGN (dendritic cell-specific intercellular adhesion molecule-3-grabbing non integrin), una lectina Ca2+-dipendente espressa in cellule dendritiche, macrofagi, megacariociti, linfociti B e piastrine. Nel caso degli hantavirus patogeni, le glicoproteine legano le integrine β3, mentre quelli non patogeni i recettori β1. Oltre al DC-SIGN sono stati individuati altri recettori che, insieme a dei “fattori di attacco”, sono in grado di svolgere un’analoga funzione; un esempio è dato dai glicosaminoglicani (GAG). L’internalizzazione endocitotica di diversi bunyavirus avviene secondo vari processi di pinocitosi, la maggior parte dei quali prevede endocitosi clatrina-mediata. Una volta arrivato nel citoplasma, il genoma virale inizia la fase di replicazione, mediata dalla RpRd, senza richiedere alcun intervento di fattori nucleari. L’RpRd trascrive l’RNA virale in una molecola di RNA a polarità positiva definita antigenomica (cRNA) (trascrizione primaria), che non funziona da RNA messaggero, bensì da stampo per

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Capitolo 58 • Bunyaviridae

la sintesi di altre molecole di RNA della progenie. Come già detto, nel caso particolare dei bunyavirus, l’RNA è segmentato e il genoma mostra un modulo ambisenso, cioè a polarità positiva e negativa. L’RNA genomico è trascritto in mRNA (trascrizione secondaria) dalla polimerasi virale, segue quindi la traduzione e la successiva sintesi delle proteine virali: tale processo avviene in contemporanea con il precedente. Gli mRNA dei segmenti L ed S vengono tradotti dai ribosomi liberi nel citoplasma, diversamente dagli mRNA del segmento M che vengono tradotti dai ribosomi adesi al reticolo endoplasmatico. L’insieme delle proteine e del genoma neosintetizzati forma i complessi ribonucleoproteici (RNP), che insieme alle glicoproteine raggiungono infine l’apparato di Golgi. Vengono riconosciuti due meccanismi di rilascio dei virioni maturi: (a) esocitosi dall’apparato del Golgi in vescicole che si fondono con la membrana plasmatica nella fase finale di rilascio del virus, (b) meccanismo di gemmazione direttamente dalla membrana plasmatica.

58.4 - Patogenesi e manifestazioni cliniche – Patogenicità I bunyavirus, ad eccezione degli hantavirus, replicano negli artropodi che ne costituiscono il serbatoio naturale. L’instaurarsi di un ciclo artropode vettore-ospite vertebrato pone le condizioni favorevoli per l’insorgenza di un’infezione di tipo persistente in assenza di malattia. Nei casi in cui i virus vengono trasmessi per via transovarica, come accade per alcuni virus della febbre da flebotomi, l’artropode è insieme serbatoio e vettore. Nel ciclo naturale, l’uomo rappresenta l’ospite occasionale poiché viene contagiato in seguito a puntura del vettore infetto. Il virus inizialmente replica nelle cellule epiteliali del tratto digerente dell’invertebrato e continua la sua moltiplicazione nelle ghiandole salivari. Nell’ospite vertebrato, l’infezione si verifica in seguito a penetrazione del virus nei capillari e nei vasi linfatici nel sito della puntura o del morso del vettore che rigurgita la saliva contenente i virioni. L’endotelio vascolare della cute e i linfonodi regionali dell’ospite rappresentano quindi il sito primario di replicazione del virus che raggiunge il circolo ematico, dando luogo in un secondo momento alla viremia. La fase viremica, nei vertebrati, si presenta dopo pochi giorni dall’infezione; al termine di questa, in seguito a comparsa degli anticorpi, l’ospite va incontro a guarigione. L’infezione può essere asintomatica o paucisintomatica, ma talvolta può dar luogo a patologie estremamente gravi. Le forme sintomatiche possono presentarsi come sindromi simil-influenzali di grado moderato o severo, accompagnate da febbre, mialgia, cefalea, artralgia, malessere ed eruzione maculopapulare. Nei casi patologici in cui alla fase viremica segue una localizzazione d’organo possono verificarsi casi di encefalite, febbre emorragica ed epatite necrotica. Tali complicanze variano e sono correlate al tipo di virus; il danno è prevalentemente attribuibile all’invasione diretta del virus nei tessuti, piuttosto che a una reazione infiammatoria mediata dall’ospite. Inizialmente l’organismo ospite risponde all’infezione con la produzione di interferone (IFN) che, unitamente all’immunità umorale, svolge un ruolo protettivo sull’andamento dell’infezione stessa. Le infezioni sono associate a un quadro clinico definito febbre emorragica con sindrome renale per gli hantavirus del Vecchio Mondo e sindrome polmonare per gli hantavirus del Nuovo Mondo. I primi manifestano uno spiccato tropismo per il fegato e l’endotelio vascolare e sono responsabili di forme cliniche severe i cui sintomi si identificano con emorragie, insufficienza renale acuta e febbre; il tasso di mortalità varia dal 5 al 15%. Il secondo gruppo presenta un target polmonare e i sintomi includono febbre e distress respiratorio acuto. Il tasso di mortalità, in questo caso, raggiunge il 50%, principalmente a causa dello shock e delle complicanze cardiache.

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58.5 - Trasmissione ed epidemiologia I bunyavirus, come tutti i virus trasmessi da artropodi vettori, sono in grado di infettare sia animali sia uomini inducendo viremia anche nei vertebrati non umani. Tale condizione consente ad altri artropodi ematofagi di infettarsi, implementando la possibilità di insorgenza di epidemie urbane. La trasmissione interumana è rara; l’unico caso attualmente descritto è quello relativo al CCHFV trasmesso in ambiente ospedaliero. Sono rari anche i casi di trasmissione verticale (Adam & Karsany, 2008). Come già detto, a eccezione degli hantavirus, che sono trasmessi principalmente dai roditori, i bunyavirus hanno come vettore gli artropodi, tra cui zanzare, flebotomi, altri ditteri ematofagi e zecche. I bunyavirus sono in grado di moltiplicarsi in questi animali e la trasmissione può avvenire in modo verticale (trasmissione transovarica) e orizzontale (trasmissione venerea). Il ciclo infettivo nell’ospite vertebrato è nettamente diverso da quello che si verifica nel vettore, in cui è prevalentemente persistente, piuttosto che litico, ed è caratterizzato da una prolungata disseminazione del virus per diversi mesi dopo l’infezione. Per gli arbovirus sono stati descritti due schemi di trasmissione clima-dipendente: nelle aree tropicali il virus circola per la maggior parte dell’anno con dei picchi stagionali, mentre nelle zone più temperate il virus circola solo durante i mesi più caldi e le infezioni sono invece praticamente assenti nei mesi più freddi. La capacità di superare le stagioni più sfavorevoli potrebbe essere dovuta alla modalità di trasmissione transovarica che perpetuerebbe l’infezione nella progenie dei vettori stessi. Nei Paesi endemici l’attività degli artropodi è in concreto nulla durante l’inverno; le infezioni degli arbovirus, caratteristicamente presenti nel corso dei mesi estivi e praticamente assenti dal tardo autunno alla prima parte della primavera, appaiono come fenomeni stagionali. Alcuni fattori socio-economici, ambientali ed ecologici contribuiscono alla comparsa di queste infezioni. I viaggi e il commercio hanno ampiamente facilitato la diffusione dei virus e dei loro vettori; inoltre lo sviluppo agricolo, l’espansione urbana e l’aumento della popolazione hanno reso più frequente il contatto dell’uomo con questi agenti infettivi. La caratteristica specificità del virus nei confronti di un particolare vettore lo confina in aree geografiche ben determinate. Gli hantavirus del Vecchio Mondo sono prevalentemente distribuiti in Asia ed Europa, mentre quelli del Nuovo Mondo in America. In Italia, soprattutto nell’area del Mediterraneo, sono principalmente presenti i phlebovirus tra cui il Toscana virus e i virus della “febbre da flebotomi” di tipo siciliano e di tipo napoletano. Il Rift Valley fever virus, un phlebovirus agente etiologico della febbre emorragica, mostra la sua distribuzione geografica nell’Africa sub-sahariana, con un picco massimo nell’Est e nel Sud dell’Africa.

58.6 - Diagnosi L’isolamento virale mediante colture cellulari (VERO) è un test altamente specifico che ha sostituito l’inoculazione intracerebrale del campione patologico in cavie, tuttavia ha manifestato delle limitazioni relative alla mancata espressione dell’effetto citopatico da parte di alcuni esponenti della famiglia oltre alla bassa sensibilità del metodo. Inoltre, gli hantavirus manifestano una replicazione in coltura molto lenta e ciò ha reso questa tecnica diagnostica di difficile applicazione se non affiancata da altre metodiche, quali i test di immunofluorescenza diretta che utilizzano anticorpi monoclonali (MAbs). Sono virus, come già detto, particolarmente pericolosi, ed è quindi necessario disporre di un laboratorio autorizzato al trattamento di agenti infettanti di classe 4. La diagnosi sierologica – eseguita attraverso test di immunofluorescenza indiretta e test immunoenzimatici (ELISA), soprattutto nei confronti delle IgM per i pazienti in fase acuta – è ampiamente impiegata soprattutto per la valutazione del movimento anticorpale delle diverse classi di immunoglobuline. Tra le indagini dirette sono di ampio impiego la

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Capitolo 58 • Bunyaviridae

ricerca degli antigeni nei campioni di sangue e urine e le tecniche di biologia molecolare. Le tecniche molecolari rappresentano il gold standard grazie alla sensibilità e alla specificità di cui godono; la metodica definita RT-PCR è in grado, in monoplex (singolo target) o in multiplex (più target virali), di evidenziare anche tracce di RNA virale nel campione biologico. I bunyavirus in generale, così come gli arenavirus e i flavivirus, richiedono metodiche che consentano una diagnosi differenziale, visto che quella clinica risulta particolarmente difficoltosa a causa dei segni sindromici che accomunano tutte queste infezioni.

58.7 - Terapia e profilassi Per molti bunyavirus non sono disponibili terapie o vaccini efficaci. I pazienti con infezione da arbovirus vengono gestiti con trattamenti palliativi e di supporto. L’unico farmaco antivirale, efficace peraltro se somministrato nelle fasi precoci della malattia, è la ribavirina. Questo chemioterapico ha sortito il suo effetto in alcuni casi di infezioni da HRFS, CCHFV e RVFV. Nei casi di infezioni da hantavirus con sindrome polmonare, è stata applicata l’ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO), trattamento costoso e complesso. Le manovre preventive dell’infezione da virus appartenenti alla famiglia Bunyaviridae sono di tipo primario, minimizzando l’esposizione a insetti vettori infetti mediante insetticidi e repellenti o intervenendo, mediante manovre igieniche, a livello ambientale laddove è alta l’incidenza dell’infezione. Nel caso degli hantavirus bisogna attuare misure preventive che impediscano la colonizzazione da parte dei roditori. In regioni come la Cina e la Corea, dove l’incidenza di hantavirus è alta, sono stati sviluppati dei vaccini inattivati per la RVFV, diversamente dall’America e dall’Europa, dove sono al vaglio diversi vaccini ricombinanti. Attualmente è stata sottoposta a studio una nuova generazione di vaccino vivo-attenuato, chiamata MP-12, che deriva da un processo di mutagenesi chimica del ceppo virulento RVFV. Sebbene siano stati sviluppati vaccini inattivati e vivi-attenuati, il loro effetto è limitato a causa della loro scarsa immunogenicità.

Bibliografia essenziale Adam, I., Karsany, M.S. (2008), «Case report: Rift Valley Fever with vertical transmission in a pregnant Sudanese woman», J Med Virol. 80(5):929. Beaty, B.J., Calisher, C.H. (1991), «Bunyaviridae - natural history», Curr Top Microbiol Immunol 169:27-78. Hacker, D., Raju, R., Kolakofsky, D. (1989), «La Crosse virus nucleocapsid protein controls its own synthesis in mosquito cells by encapsidating its mRNA», J Virol. 63(12):5166-74. Hepojoki, J., Strandin, T., Wang, H., Vapalahti, O., Vaheri, A., Lankinen, H. (2010), «Cytoplasmic tails of hantavirus glycoproteins interact with the nucleocapsid protein», J Gen Virol. 91:2341-50. Spik, K., Shurtleff, A., McElroy, A.K., Guttieri, M.C., Hooper, J.W., Schmal, J.C. (2006), «Immunogenicity of combination DNA vaccines for Rift Valley fever virus, tick-borne encephalitis virus, Hantaan virus, and Crimean Congo hemorrhagic fever virus», Vaccine, 24(21):4657-66. Von Bonsdorff, C.H., Pettersson, R. (1975), «Surface structure of Uukuniemi virus», J Virol. 16(5):1296-307.

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Capitolo

59 • Classificazione dei filovirus • Virus Ebola: morfologia e struttura del genoma • Meccanismi patogenici e clinica dell’infezione da virus Ebola

Filovirus

I filovirus sono virus a RNA che devono il nome alla parola latina “filum” per la forma simile a un filo molto spesso che caratterizza la particella virale. Sono fra gli agenti più patogeni per l’uomo in quanto provocano gravi febbri emorragiche molto spesso letali (il tasso di mortalità può superare il 90% dei soggetti colpiti). Il primo filovirus fu scoperto nel 1967 in Germania quando soggetti appartenenti a personale di laboratorio, venuti in contatto con organi e sangue di scimmie verdi importate dall’Uganda, svilupparono una grave sindrome emorragica. Al microscopio elettronico fu identificato un agente virale, chiamato virus di Marburg (MARV) dal nome della cittadina tedesca sede dell’incidente. In totale 32 persone contrassero l’infezione e 7 morirono. Un secondo filovirus fu descritto per la prima volta in Africa nel 1976, come causa di due focolai di febbre emorragica sviluppatisi contemporaneamente in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) e Sudan. Il virus fu chiamato Ebola (EBOV), dal nome del fiume presso il villaggio di Yambuku, nello Zaire, dove scoppiò l’epidemia. In totale furono colpite 602 persone, 430 (71%) morirono.

59.1 - Classificazione Oggi si conoscono 7 filovirus classificati all’interno di tre generi nella famiglia Filoviridae (tab. 59.1). Il genere Cuevavirus, l’ultimo ad essere introdotto dopo che erano stati creati nell’ordine i generi Marburgvirus ed Ebolavirus, è stato approvato solo di recente in seguito alla scoperta, nel 2010, del primo filovirus europeo, chiamato virus di Lloviu, dal nome della grotta in Spagna nella quale è stato identificato nei pipistrelli.

59.2 - Virus Ebola (EBOV) Struttura La particella del virus è pleiomorfa (la forma più tipica è filamentosa allungata, ma anche a numero 6, a lettera U, o circolare) con diametro di circa 80 nm, è rivestita da Tabella 59.1 Classificazione dei virus appartenenti alla famiglia Filoviridae.

Genere

Numero di specie all’interno del genere

Specie rappresentativa

Cuevavirus

1

Virus di Lliov (LLOV)

Ebolavirus

5

Virus Bundibugyo (BDBV) Virus Zaire (ZEBOV) Virus Reston (RESTV) Virus Sudan (SUDV) Virus Tai Forest (TAFV)

Marburgvirus

1

Virus di Marburg (MARV)

Capitolo 59 • Filovirus

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un involucro esterno caratterizzato da proiezioni (i peplomeri) di circa 10 nm e racchiude un nucleocapside elicoidale di circa 50 nm di diametro provvisto di un canale centrale di 10-15 nm e avvolto dalla proteina della matrice (fig. 59.1). Il genoma è un singolo filamento negativo di RNA, lungo approssimativamente 19 000 nucleotidi e caratterizzato da una porzione codificante composta da 7 geni, separati da brevi regioni non tradotte. Alle estremità del genoma ci sono brevi regioni, di lunghezza variabile fra i diversi ebolavirus, chiamate leader e trailer, che funzionano da promotori per la replicazione e la trascrizione. Le proteine codificate da EBOV sono: la glicoproteina (GP), le quattro proteine del nucleocapside (VP24, VP30, VP35 e VP40), la nucleoproteina (NP) e l’RNA polimerasi-RNA dipendente (L) (tab. 59.2). La GP è la proteina dell’involucro esterno, è codificata da due ORF ed è espressa dopo editing trascrizionale. Svolge un importante ruolo nel mediare le fasi di adsorbimento e penetrazione del virus. Attraverso un processo di “RNA editing”, sono codificate altre proteine, di dimensioni diverse, che rappresentano forme solubili della GP. La VP24 e VP40 sono proteine della matrice. VP40 è la proteina più abbondante nel virione e, posta al di sotto dell’involucro, serve a mantenere l’integrità strutturale della particelle virale. Svolge anche un ruolo fondamentale nei processi di assemblaggio e gemmazione del virus. Le proteine NP, VP30, VP35 e L, associate all’RNA virale, formano il nucleocapside. La NP è la componente strutturale principale del complesso nucleocapsidico, ma svolge anche un ruolo funzionale partecipando alla replicazione e trascrizione del genoma operate dalla proteina L. Quest’ultima esplica la sua azione catalitica in un complesso che comprende anche la VP30, che è un attivatore della trascrizione, e la VP35, che è un cofattore della polimerasi. Alcune proteine, in particolare VP24 e VP35, favoriscono l’evasione del virus dalla risposta immunitaria e in particolare dall’azione antivirale del sistema interferon (tab. 59.2). Figura 59.1 Rappresentazione schematica della particella di un filovirus e dei genomi di EBOV e MARV.

sGP

GP VP30 L VP40

NP m 80

VP35

m

VP24

RNA 900-1000 mm

Ebolavirus 3'

NP

VP35

VP40

sGP/GP

VP30

VP24

L

5'

L

5'

Marburgvirus 3'

NP

VP35

VP40

GP 19 kb

VP30

VP24

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Tabella 59.2 Proteine codificate dai filovirus e loro funzione.

Proteina

Funzione

Nucleoproteina (NP)

Nucleoproteina maggiore, incapsidazione dell’RNA

VP35

Cofattore del complesso della polimerasi, antagonista dell’interferon

VP40

Proteina maggiore della matrice, assemblaggio e liberazione del virione, antagonista dell’interferona

Glicoproteina (GP)

Entrata del virione, binding del recettore, fusione della membrana

b c

90-104 35 35-40 150-170

Glicoproteina solubile (sGP)

Sconosciuta

50-55

Piccola glicoproteina solubile (ssGP)b

Sconosciuta

50-55

VP30

Nucleoproteina minore, incapsidazione dell’RNA, attivazione della trascrizione

27-30

VP24

Proteina minore della matrice, assemblaggio del virione, antagonista dell’interferonc

24-25

Polimerasi (L)

RNA polimerasi-RNA dipendente, componente enzimatico del complesso della polimerasi

~270

b

a

Peso molecolare (kDa)

Funzione dimostrata solo per MARV. Espressa soltanto da EBOV. Funzione dimostrata solo per EBOV.

Replicazione EBOV utilizza diversi recettori per adsorbirsi sulla superficie della cellula ospite; si ritiene peraltro che la potenzialità di infettare diversi tipi di cellule abbia un significato patogenetico preciso. Dopo l’adsorbimento, il virus penetra per endocitosi mediata da recettore. L’acidificazione della vescicola endocitica, seguita dalla fusione delle membrane virali e della cellula ospite, rilascia il nucleocapside nel citoplasma. Successivamente l’RNA polimerasi-RNA dipendente, presente nel virione, trascrive in direzione 3′-5′ il genoma parentale in singoli mRNA monocistronici poliadenilati e dotati di cap che codificano per le proteine virali. L’mRNA della proteina NP è presente già 7 ore dopo l’infezione con un picco a 18 ore. La proteina VP30 gioca un ruolo fondamentale in queste fasi della trascrizione, e in particolare appare critico il suo stato di fosforilazione. In aggiunta alla trascrizione, il promoter al 3′ dell’RNA genomico guida la sintesi di antigenomi complementari a tutta lunghezza ad opera di molecole della polimerasi prodotte nell’ambito delle nuove sintesi proteiche virali. Strutture secondarie presenti al 3′ e 5′ degli RNA genomici e antigenomici sono essenziali per la replicazione. Il passaggio dalla sintesi di RNA subgenomici a quella degli antigenomi avviene quando è stata prodotta una certa quantità di proteine (soprattutto NP). La deplezione delle proteine capsidiche determina un ritorno alla sintesi degli mRNA, venendo così a innescarsi una sorta di equilibrio dinamico fra trascrizione e replicazione. Come la replicazione progredisce, le particelle nucleocapsidiche contenenti RNA genomico si accumulano per l’assemblaggio. I nucleocapsidi acquisiscono il pericapside per gemmazione attraverso le membrane cellulari nelle quali sono state precedentemente inserite le proiezioni. Numerosi nucleocapsidi restano inutilizzati e formano evidenti inclusioni citoplasmatiche.

Meccanismi patogenetici – Immunità – Patologie associate all’infezione Non si sa ancora con certezza come EBOV infetti la specie umana e penetri quindi all’interno delle comunità. Il contatto con sangue e/o secrezioni o l’ingestione di carne di animali infetti appare il modo più probabile di trasmissione primaria. Quella secon-

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daria, da uomo a uomo, avviene attraverso contatto diretto con organi, sangue e altri fluidi corporei (saliva, urina, vomito, feci) di un individuo infetto (vivo o morto) con le mucose o la pelle abrasa del soggetto sano, attraverso contatto sessuale o mediante contatto indiretto con oggetti e/o superfici contaminate dal virus. La trasmissione da uomo a uomo è il modo con cui il virus si propaga più facilmente ed è la causa di tutti i focolai epidemici registrati finora. Il rischio di trasmissione è direttamente correlato al numero e all’intimità dei contatti: è maggiore in ambito familiare (fra conviventi) e nosocomiale (nel personale sanitario). Alcuni comportamenti tradizionali, come quelli legati ai riti funebri (ad es. il contatto diretto con il corpo del defunto), hanno un ruolo significativo nella diffusione dell’infezione. Persone asintomatiche che di norma hanno bassi livelli di virus circolante sono meno a rischio di trasmettere l’infezione. La trasmissione aerea è ritenuta improbabile e non esistono evidenze che il virus possa essere trasmesso da insetti o altri artropodi. I meccanismi patogenetici alla base della malattia da EBOV sono solo in parte conosciuti (fig. 59.2). Il periodo di incubazione varia da 2 a 21 giorni (in media 4-10 giorni), durante il quale il virus replica nei monociti, nei macrofagi e nelle cellule dendritiche raggiungendo poi linfonodi, fegato, rene, milza, mucosa gastrointestinale e cute. I primi sintomi sono aspecifici (febbre, brividi, malessere e mialgia) e rendono difficile la diagnosi clinica. Successivamente diventano molto importanti e riguardano molteplici distretti: gastrointestinale (anoressia, nausea, vomito, dolori addominali, diarrea), respiratorio (tosse, insufficienza respiratoria), vascolare (ipotensione posturale, edema) e nervoso (confusione, letargia, coma). Questa fase è caratterizzata da un’intensa viremia con il virus che si dissemina in numerosi organi e tessuti con una

Contatto con: cute abrasa e/o lesionata, mucose Infezione

Cellule dendritiche

Macrofagi / Monociti Risposta immune

Danno tissutale Fegato • Necrosi multifocale/danno • Disfunzione/ipoproduzione fattori della coagulazione

Milza

Citochine/chemochine infiammatorie, NO, (glicoproteine solubili?)

Inibizione produzione IFN (VP35, VP24)

Limitato/alterato pannello citochinico?

Interazione con APC infette (Trail, FasL)? Sag? Rilascio fattori solubili?

Mancato controllo replicazione virale

Risposta umorale difettiva

Apoptosi linfociti T e cellule NK

• Disfunzione immunità adattativa (umorale e cellulare)

Surrene • Necrosi delle cellule corticali • Alterata sintesi di steroidi

• Incrementata permeabilità endoteliale • Perdita vascolare • Coagulopatia • Danno tissutale

Figura 59.2 Patogenesi dell’infezione da EBOV.

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estesa necrosi virus-indotta. Una severa forma di diarrea caratterizzata da notevole perdita di liquidi compare spesso al 3° giorno di malattia, accompagnata da esantema maculo-papulare che si propaga dal viso al tronco e agli arti. Fra il 5° e il 7° giorno, un’elevata percentuale di soggetti va incontro a gravi manifestazioni emorragiche multiple a carico di vari organi (intestino, polmoni, cuore, rene), in gran parte dovute a una coagulazione intravascolare disseminata. La morte avviene fra il 7° e il 16° giorno di malattia, in genere per shock ipovolemico. Nei casi non mortali, la malattia può essere asintomatica o caratterizzata da pochi aspecifici sintomi che in 7°-11° giorno tendono a scomparire, in concomitanza con lo sviluppo di una robusta risposta anticorpale. In coloro che sopravvivono possono persistere sequele di tipo neurologico (mielite), comportamentale (psicosi) e visivo (uveite). Il virus può persistere a lungo in siti immunologicamente privilegiati ed è stato isolato dal liquido seminale anche dopo più di 9 mesi dalla comparsa dei sintomi. L’elevata virulenza di EBOV è attribuita in gran parte alla capacità del virus di interferire con la risposta immunitaria dell’ospite riducendone sostanzialmente l’efficacia (fig. 59.2). Fin dalle prime fasi dell’infezione, quindi, EBOV causa un’iperproduzione di mediatori dell’infiammazione (interferon, IL-6, IL-8, IL-10, IL-12), determinando un quadro noto come cytokine storm (tempesta citochinica), che contribuisce, insieme all’estesa necrosi tissutale che in qualche modo amplifica il processo, alla progressione della malattia. Anche l’inibizione della risposta all’interferon, svolta principalmente dall’azione delle proteine VP35 e VP24, riveste un ruolo importante nella patogenesi dell’infezione. È noto che il tasso di mortalità dipende anche dalla specie di EBOV infettante: è alto per ZEBOV (47-100%), più basso per SUDV (36-100%) e BDBV (25-36%), mentre RESTV è ritenuto scarsamente patogeno per l’uomo. I meccanismi alla base di queste differenze tra le specie non sono pienamente compresi, ma speculazioni esistono sul ruolo della proteina GP e delle sue forme solubili e sull’esistenza di peculiari tratti genetici dell’ospite infettato (tab. 59.3). Studi sierologici dimostrano che anticorpi anti-EBOV sono abbastanza diffusi nella popolazione umana e tra animali in Africa (10-20% di sieroprevalenza), a conferma del fatto che casi d’infezione possono verificarsi più frequentemente di quanto ritenuto restando del tutto inosservati.

Diagnosi di laboratorio L’infezione da EBOV può essere sospettata in una persona con febbre acuta e severa che vive o ha viaggiato nelle aree endemiche per il virus. La sola diagnosi clinica è Tabella 59.3 Localizzazione geografica, ospite infettato, numero di casi (cumulativo) e mortalità nell’uomo delle 5 specie

di EBOV e di MARV.

Specie

Paese

Ospite infettato

N. casi nell’uomo Mortalità

BDBV

Repubblica Democratica del Congo, Uganda

Uomo, primati

185

25-36%

RESTV

Filippine

Primati, pipistrelli, maiale

13

0%

SUDV

Sudan, Uganda

Uomo, primati

779

36-100%

TAFV

Costa d’Avorio

Uomo

1

0%

ZEBOV

Congo, Gabon, Guinea, Liberia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Uganda

Uomo, primati, pipistrelli

30 101

47-100%

MARV

Angola, Repubblica Democratica del Congo, Sudafrica, Kenia, Uganda

Uomo, primati, pipistrelli

466

23-100%

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Capitolo 59 • Filovirus

molto difficile per l’aspecificità dei sintomi nei primissimi giorni di malattia e per la vasta gamma di cause responsabili di malattie febbrili nelle aree dove circola EBOV. Anche nel caso di un semplice sospetto è obbligatorio l’isolamento del paziente e la notifica alle autorità sanitarie. I campioni prelevati sono utilizzati per confermare l’infezione con test, che solitamente sono effettuati in laboratori di riferimento nazionali e internazionali. La manipolazione di campioni biologici da pazienti infetti deve essere infatti gestita in laboratori con livello di biosicurezza 3 o 4. Esistono pochi saggi commerciali disponibili per la diagnosi, anche se la recente epidemia di EBOV del 2013-2016 ha dato un notevole impulso allo sviluppo e alla commercializzazione di nuovi test. Nella fase prodromica della malattia, la conferma di laboratorio si può ottenere con l’identificazione del genoma virale mediante real-time RT-PCR, degli antigeni virali con metodi immunoenzimatici a cattura o con l’isolamento del virus attraverso l’inoculazione di sangue o secrezioni biologiche in colture cellulari (ad es. in cellule Vero). I metodi molecolari sono il gold standard per la diagnosi, sono disegnati su diverse regioni del genoma virale (NP, GP, VP40 e L), sono i più sensibili e specifici e possono essere effettuati anche in laboratori di biosicurezza 2 dopo l’estrazione del campione. Il sangue è il campione d’elezione ma l’RNA di EBOV può essere rilevato in un ampio spettro di fluidi biologici (saliva, urine, seme, latte materno, sudore, lacrime). Nel sangue, l’RNA virale può essere individuato già a partire dal primo giorno di malattia (anche se una PCR negativa su un campione di sangue prelevato prima di 72 ore dall’inizio della malattia non esclude in modo assoluto l’infezione da EBOV) e raggiunge il picco entro 5-6 giorni, con livelli fino a 108 copie per mL nei casi fatali. L’antigene (più spesso è ricercato l’antigene VP40) appare nel sangue circa 3 giorni dopo l’inizio dei sintomi e aumenta in quantità fino alla morte o, nei casi non fatali, persiste per 7-16 giorni. In una fase più avanzata è possibile effettuare un’indagine sierologica per la ricerca degli anticorpi anti-virus più spesso utilizzando saggi immunoenzimatici. Gli anticorpi di tipo IgM compaiono entro una settimana dai sintomi, hanno un picco a 2-3 settimane e possono persistere per 60-80 giorni; le IgG si sviluppano fra il 6° e il 18° giorno e rimangono in circolo per anni. Talvolta può essere necessaria la diagnosi post mortem che prevede l’identificazione degli antigeni virali su biopsia cutanea e/o epatica con tecniche di immunoistochimica e/o immunofluorescenza. La microscopia elettronica, utile in passato, non è più usata a fini diagnostici. La diagnosi differenziale si pone sia con altre febbri emorragiche (febbre di Lassa, febbre di Marburg) che con altre patologie infettive (malaria, febbre tifoide, peste, borreliosi, melioidosi, tripanosomiasi africana, sepsi meningococcica, infezioni trasmesse da artropodi).

Epidemiologia – Controllo La più ampia epidemia da EBOV è stata quella avvenuta nel 2013-2016 in alcuni Paesi dell’Africa Occidentale. Sviluppatosi nel piccolo villaggio di Meliandou, in Guinea, nel dicembre 2013, in pochi mesi il focolaio di febbre emorragica si è espanso a molti villaggi fino ad arrivare alle grandi città di Guinea, Sierra Leone, Liberia e Nigeria. Nell’epidemia che ne è seguita i casi confermati o sospettati di malattia da EBOV sono stati circa 29 000, con oltre 11 300 morti (40% il tasso di mortalità). Lo studio di questa epidemia ha grandemente contribuito a espandere le conoscenze sull’infezione da EBOV: fino ad allora infatti erano stati riportati soltanto 2400 casi riconosciuti in 24 focolai epidemici a partire dalla fine degli anni ’70 (tab. 59.3, fig. 59.3). L’ospite naturale del virus non è ancora noto con certezza, anche se si sa che EBOV persiste in uno o più animali che trasmettono l’infezione all’uomo direttamente o indirettamente attraverso l’amplificazione in ospiti intermedi. Il più accreditato serbatoio animale è il pipistrello che, senza sviluppare malattia, replica cronicamente il virus anche ad alto titolo. Sebbene la sorgente d’infezione nei primi episodi epidemici fosse

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Figura 59.3 Casi di febbre emorragica in Africa dovuti a infezione da EBOV e/o MARV.

Costa d’Avorio 1995-TAFV

Nigeria 2014-EBOV

Guinea 2014-EBOV

Sudan 1976-SUDV 1979-SUDV 2004-SUDV 2011-SUDV Uganda 2000-EBOV 2007-BDBV 2011-SUDV 2012-EBOV 2007-MARV 2008-MARV

Sierra Leone 2014-EBOV

Liberia 2014-EBOV Kenia 1980-MARV 1987-MARV

Gabon 1994-EBOV 1998-EBOV 1996/97-EBOV 2001/02-EBOV Repubblica del Congo 2001/02-EBOV 2003-EBOV 2005-EBOV Angola 2005-MARV

Epidemie di febbre emorragica da EBOV

Sudafrica 1975-MARV

Epidemie di febbre emorragica da MARV Epidemie di febbre emorragica da EBOV e MARV

Repubblica Democratica del Congo 1976-EBOV 1995-EBOV 2007-EBOV 2008-EBOV 2012-EBOV 2014-EBOV 1998-2000-MARV

costituita da scimmie, è improbabile che esse rappresentino un ospite dove il virus persiste in natura. Infatti la maggior parte delle scimmie infettate sperimentalmente si ammala e muore. Più probabilmente esse agiscono come incubatori che amplificano il virus in natura; quindi un aumento inspiegabile di mortalità fra questi animali può rappresentare un campanello d’allarme di una possibile imminente trasmissione del virus all’uomo. Quattro specie di EBOV (ZEBOV, SUDV, TAFV e BDBV) circolano nelle aree tropicale dell’Africa e più spesso emergono durante la stagione delle piogge. RESTV è stato trovato in Asia, nelle Filippine, in primati e più recentemente in maiali. Attualmente non ci sono vaccini autorizzati o farmaci da utilizzare per la terapia dei pazienti con infezione da EBOV. Tuttavia, anche alla luce della più recente epidemia, gli studi clinici per l’identificazione di presidi terapeutici sono stati implementati ed è possibile che a breve siano disponibili commercialmente sia farmaci specifici che vaccini.

59.3 - Virus di Marburg (MARV) MARV è molto simile a EBOV, ma antigenicamente distinto. Piccole differenze fra i due filovirus esistono nell’organizzazione del genoma (una sola sovrapposizione fra geni in MARV, almeno due in EBOV; la regione non codificante che precede il gene VP30 più lunga in MARV), nella modalità di codifica della GP (da una singola ORF in MARV, da due in EBOV) e nell’espressione e funzione di alcune proteine minori (ad es. la sGP) (tab. 59.2). Modalità di replicazione e meccanismi patogenetici sono sovrapponibili (fig. 59.2).

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Capitolo 59 • Filovirus

Meno numerosi, rispetto a EBOV, i focolai d’infezione riconosciuti dovuti a MARV (fig. 59.3). Dopo l’episodio del 1967 in Germania, MARV è ricomparso nel 1975 in un giovane australiano ricoverato per un episodio di febbre emorragica a Johannesburg, Sudafrica, dopo un viaggio nello Zimbabwe. Il paziente morì dopo aver trasmesso l’infezione al suo compagno di viaggio e a un’infermiera dell’ospedale. Dal 1975 al 1985 sono stati descritti solo pochi e isolati casi, caratterizzati da un così basso tasso di mortalità che MARV è stato a lungo ritenuto assai meno pericoloso di EBOV. Due successivi focolai, nella Repubblica Democratica del Congo nel 1998-2000 e in Angola nel 2004-2005, sono stati tuttavia particolarmente significativi [406 persone si ammalarono, 355 (87%) morirono], dimostrando così chiaramente che MARV è temibile almeno quanto EBOV. L’epidemia del Congo si sviluppò fra lavoratori delle miniere d’oro, ma fra i morti si registrò anche un medico italiano che stava curando i contagiati dal virus. L’infezione da MARV, così come quella da EBOV, può essere un rischio anche per i viaggiatori. Prova ne sono i due più recenti casi d’infezione (2008) che hanno colpito due turisti, un’olandese e un americano, che durante un viaggio avevano visitato la grotta di Python in Uganda. La donna morì mentre l’uomo sviluppò solo una debole sintomatologia. Ci sono evidenze che fanno ritenere il pipistrello della frutta africano (Rousettus aegyptiacus) il serbatoio naturale del virus. Tali pipistrelli vivono nelle caverne, sono molto diffusi in Africa e, se affetti da MARV, non mostrano visibili sintomi della malattia. Sono tuttavia necessari ulteriori studi per accertare se altre specie animali possano ospitare il virus. La trasmissione di MARV all’uomo e la diffusione dell’infezione da uomo a uomo si ritiene avvengano con le stesse modalità descritte per EBOV. L’infezione da MARV ha un periodo d’incubazione di 3-21 giorni (tipicamente 5-10 giorni). La malattia è simile a quella dovuta a EBOV. I principali sintomi sono una febbre molto alta (39-40 °C), un improvviso e forte mal di testa accompagnato da dolori muscolari e un acuto stato di malessere che debilita rapidamente la persona. I sintomi peggiorano di giorno in giorno e compaiono anche dolori addominali, crampi, diarrea acquosa, nausea e vomito. Verso la fine del periodo di malattia, in genere tra il 5° e il 7° giorno, il 75% dei pazienti mostra emorragie in diverse parti del corpo che, accompagnate da danno multiorgano e shock ipovolemico, portano nella maggior parte dei casi alla morte, che sopraggiunge nell’arco di 8-16 giorni. La diagnosi è basata su saggi molecolari in real-time RT-PCR, altamente sensibili e specifici, che consentono anche la quantificazione del virus presente. Test ELISA sono stati sviluppati per la ricerca dell’antigene virale o di anticorpi anti-virus specifici. L’isolamento del virus in coltura o la sua propagazione in modelli animali (primati, topolini, cavie, criceti) è possibile.

Bibliografia essenziale Brauburger, K., Hume, A.J., Muhlberger, E., Olejnik, J. (2012), «Forty-five years of Marburg virus research», Viruses, 4, pp. 1878-1927. Feldmann, H., Sanchez, A., Geisbert, T.W., «Filoviriade: Marburg and Ebola viruses», in Fields Virology, 6a ed., Wolters Kluwer/Lippincott Williams and Wilkins, Philadelphia, USA, 2013. Gatherer, D. (2014), «The 2014 Ebola virus disease outbreak in West Africa», Journal of General Virology, 95, pp. 1619-1624. Osterholm, M.T., Moore, K.A., Kelley, N.S., Brosseau, L.M., Wong, G., Murphy, F.A., Peters, C.J., LeDuc, J.W., Russell, P.K., Van Herp, M., Kapetschi, J., Muyembe, J.J.T., Ilunga, B.K., Strong, J.E., Grolla, A., Wolz, A., Kargbo, B., Kargbo, D.K., Formenty, P., Sanders, D.A., Kobinger, G.P. (2015), «Trasmission of Ebola viruses: what we know and what we do not know», mBio, e00137-15. Smith, D.W., Rawlinson, W.D., Kok, J., Dwyer, D.E., Catton, M. (2015), «Virological diagnosis of Ebolavirus infection», Pathology, 47, pp. 410-413.

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Capitolo

60 • HEV ed epatite acuta enterica/epidemica • Genoma RNA a singolo filamento • Trasmissione fecale-orale interumana o zoonotica • Genotipi associati con infezioni nell’uomo • Epatite fulminante in gravidanza • Infezioni croniche nell’ospite immunodeficiente

Hepeviridae

L’epatite E, la quinta forma di epatite virale umana, è probabilmente la causa più comune di epatite acuta e di ittero nel mondo. La lettera E sta per “enterica” o “epidemica”; si tratta, infatti, di un’infezione trasmessa per via fecale-orale attraverso alimenti o acqua contaminata da feci che, negli anni ’80, veniva denominata “epatite epidemica non-A, non-B”. È stata per lungo tempo considerata endemica nei Paesi in via di sviluppo, ma rara in quelli industrializzati, e presenta una caratteristica peculiare: la particolare virulenza nella donna gravida. Poiché la diffusione globale del virus dell’epatite E (HEV) è stata riconosciuta solo negli ultimi anni, HEV viene oggi descritto come virus emergente; tuttavia questo aggettivo non sembra del tutto appropriato dal momento che, ipotizzando HEV come causa di morte di donne gravide nel corso di epidemie di “malattia itterica”, alcuni ricercatori sostengono che la prima epidemia registrata di HEV risalga al 1794 e sia avvenuta a Ludenscheid, in Germania. HEV è stato identificato mediante immunomicroscopia elettronica nel 1983 da un ricercatore russo incaricato di studiare un’epidemia di epatite non-A/non-B che aveva colpito i soldati sul fronte afgano (fig. 60.1). Successivamente le tecniche di sequenziamento e di clonaggio del genoma negli anni ’90 hanno permesso lo sviluppo di saggi sierologici e molecolari che consentono una diagnosi rapida e specifica. Grazie all’utilizzo di questi saggi in studi di sieroprevalenza e di epidemiologia molecolare è stato possibile dimostrare la diffusione del virus anche nei Paesi industrializzati e la sua presenza in diverse specie di mammiferi, particolarmente nei suini, il che ha

Figura 60.1 Immunoelettromicrografia del virus dell’epatite E. Per dimostrare la trasmissione interumana del virus dell’epatite E un ricercatore russo incaricato di studiare un’epidemia di epatite sviluppatasi nel 1980 in una guarnigione di soldati russi di stanza sul fronte afgano si infettò volontariamente ingerendo materiale virale estratto dalle feci di soldati malati e sviluppò l’epatite 36 giorni dopo la somministrazione dell’inoculo, quindi dimostrò che il virus presente nelle sue feci reagiva con il siero dei soggetti convalescenti e poteva essere osservato mediante immunomicroscopia elettronica.

Capitolo 60 • Hepeviridae

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Orthohepevirus

Piscihepevirus Trota USA

Orthohepevirus A 4

4c 4c 4a 4g 4b 4a

7

1

6 5 2

Orthohepevirus D

1a1b 1c 1d 1e

Pipistrello

cammello 3a 3b 3h 3c 3i 3e 3e 3f 3f 3f 3

Aviario USA

Orthohepevirus B Aviario Europa 3 coniglio

Aviario Australia

Ratto Germania

Furetto

Ratto Vietnam

Orthohepevirus C

0,1

permesso di ipotizzare un reservoir animale e una trasmissione zoonotica. Nel corso degli ultimi 10 anni casi autoctoni (non associati a viaggi in aree endemiche ma acquisiti localmente e di probabile origine zoonotica) di epatite acuta dovuta a HEV vengono sempre più frequentemente segnalati nei Paesi industrializzati e HEV, originariamente ritenuto responsabile solo di infezione acuta, è stato invece associato anche a infezione cronica, cirrosi, scompenso epatico e malattia epatica terminale in particolari gruppi di pazienti.

60.1 - Classificazione Inizialmente inserito nella famiglia dei calicivirus sulla base della morfologia del capside, la classificazione di HEV è stata successivamente rivalutata in base alle caratteristiche genetiche e all’organizzazione del genoma e il virus è stato assegnato all’unico genere Hepevirus della nuova famiglia Hepeviridae. Negli ultimi anni, il numero crescente di ceppi HEV, isolati da ospiti diversi, ha complicato lo schema tassonomico, per cui ora la famiglia Hepeviridae è divisa in due generi: Piscihepevirus (che include ceppi isolati da trote americane) e Orthohepevirus (che include ceppi isolati da mammiferi e ceppi aviari). Quest’ultimo genere contiene quattro specie che infettano rispettivamente: varie specie di mammiferi, uomo compreso (Orthohepevirus A, di gran lunga la specie più rilevante); uccelli (Orthohepevirus B); roditori, soricomorfi e carnivori (Orthohepevirus C); pipistrelli (Orthohepevirus D). La specie Orthohepevirus A include sette genotipi: quelli osservati nelle infezioni umane sono i genotipi 1, 2, 3, 4 e 7. Alcuni esempi di serbatoi animali e genotipi interessati sono: i suini (genotipo 3 e 4), i cinghiali (genotipi 3, 4, 5 e 6), i conigli, le manguste e i cervi (genotipo 3), lo yak (genotipo 4) e i cammelli (genotipo 7) (fig. 60.2). Tutti i

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Figura 60.2 Ricostruzione filogenetica di sequenze genomiche complete di virus dell’epatite E isolati da ospiti diversi. Il genere Piscihepevirus include pochissimi ceppi isolati da trote del continente nordamericano. La specie degli Orthohepevirus A rappresenta la specie di principale interesse per la patologia umana, include 7 genotipi e svariati sottotipi.

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ceppi di HEV condividono un epitopo antigenico crossreattivo e pertanto appartengono allo stesso sierotipo. I genotipi virali osservati nelle infezioni umane sono principalmente 4: HEV1 e HEV2 associati a infezioni esclusivamente umane e diffusi nei Paesi in via di sviluppo; HEV3 e HEV4 trasmessi all’uomo attraverso zoonosi e diffusi nei Paesi industrializzati. Infezioni con ceppi HEV3 di coniglio e HEV7 di cammello sono state recentemente descritte in esseri umani, ma la trasmissione all’uomo di HEV proveniente da furetti, topi, pipistrelli, uccelli o pesci (che albergano specie virali diverse dagli Orthohepevirus A) non è ancora stata descritta.

60.2 - Morfologia e struttura Il virus dell’epatite E è stato inizialmente isolato dalle feci di pazienti e al microscopio elettronico appare come un piccolo virus, privo di envelope, del diametro di 27-34 nm dotato di capside icosaedrico costituito da 180 monomeri di proteina del capside (ORF2). Virus infettante, è normalmente presente nelle feci (fig. 60.1), ma può anche essere rilevato nel sangue dei soggetti infettati ed è interessante notare che, a differenza di quello presente nelle feci, il virione che circola nel sangue o nel sovranatante delle colture cellulari risulta rivestito da una membrana di origine cellulare associata alla proteina ORF3 che in vivo rende il virus resistente agli anticorpi neutralizzanti e riflette la possibilità di un rilascio dalle cellule secondo una modalità non citolitica, mentre in vitro rende conto dell’assenza di effetto citopatico nelle colture infettate. La recente scoperta di questi virioni “quasi-rivestiti” ha ulteriormente complicato la comprensione della biologia di queste infezioni. Il genoma racchiuso all’interno del capside è rappresentato da un singolo filamento di RNA con orientamento positivo composto di 7200 nucleotidi, dotato di cap metilato all’estremità 5′ e poliadenilato all’estremità 3′. Il genoma è organizzato in tre open reading frame (ORF) affiancate e intercalate da regioni non codificanti (fig. 60.3). ORF1 codifica una grande poliproteina non strutturale coinvolta nella replicazione virale che contiene almeno 4 domini funzionali ad attività enzimatica (metiltransferasi, cisteina proteasi, elicasi e RNA polimerasi-RNA dipendente) e 3 domini (Y, ipervariabile ricco in prolina – PRR – e macro precedentemente detto X), omologhi a quelli presenti in altri virus a RNA con polarità positiva la cui funzione non è completamente chiarita. Le regioni ORF2 e ORF3 sono parzialmente sovrapposte e le corrispondenti proteine sono tradotte a partire da un mRNA subgenomico bicistronico che si genera durante la replicazione virale. ORF2 codifica la proteina del capside che evoca la risposta anticorpale neutralizzante, è implicata nel processo di assemblaggio delle particelle virali e nell’interazione con la cellula bersaglio, è caratterizzata dalla presenza di una sequenza segnale N-terminale che la lega alle membrane cellulari e ne permette la traslocazione nel lume del reticolo endoplasmico e di 3 siti di glicosilazione; queste caratteristiche sottolineano l’importanza del ruolo delle membrane cellulari non solo nella replicazione ma anche nella maturazione delle particelle virali. ORF3 codifica una fosfoproteina multifunzionale, implicata nei meccanismi d’interazione con proteine cellulari e nel processo di morfogenesi. Questa proteina contiene due domini idrofobici che la associano alle membrane ed è essenziale per il rilascio del virus dalle cellule. Nel siero le particelle virali sono associate a lipidi e proteina ORF3 e, come precedentemente detto, nel sangue HEV circola associato a membrane in una forma “quasi-rivestita” ma nelle feci il virus è rilasciato come forma nuda, dissociato da ORF3. Per quanto detto sopra, ORF3 sembra avere un importante ruolo patogenetico. Nel genoma sono presenti inoltre regioni non codificanti poste alle estremità e internamente, parzialmente organizzate in strutture a stem-loop: esse rappresentano elementi con funzione di regolazione della replicazione/trascrizione virale.

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A *A G AUG1 U A A G .... UG

RNA genomico 7,2 kb

7mG cap

5'

U

A A G A G C G A 2 3 U UG A U C C C C U G UUUGCAUC

U

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C A C C A U 4 G C G U CC ....

3'

AAAAAAAAAAAAAAA

5' UTR

3' UTR MT Y

P

PPR

X

E

poliA

R

ORF1 RNA subgenomico 2,2 kb AAAAAAAAAAAAAAA

3' UTR

poliA

ORF2 ORF3 Figura 60.3 Genoma del virus dell’epatite E. Il genoma è organizzato in open reading frame (ORF). ORF1 codifica la poliproteina non strutturale (ORF1), alla quale sono associate le attività enzimatiche necessarie per l’espressione e la replicazione/trascrizione del genoma: metiltransferasi (MT), proteasi (P), elicasi (E) e RNA polimerasi-RNA dipendente (replicasi, R). Le proteine ORF2 e ORF3 sono tradotte da un RNA subgenomico generato durante la replicazione virale a partire dall’antigenoma (frecce); ORF2 è la proteina del capside, ORF3 è una proteina multifunzionale presente nei virioni “quasi-rivestiti”. Gli RNA genomici e subgenomici sono dotati di cappuccio e sono poliade-

nilati. Le strutture a stem-loop (in blu) indicano le regioni regolatorie non tradotte alle estremità 5' e 3'; a circa 2/3 del genoma è presente una regione di congiunzione che si suppone sia organizzata in una struttura a doppio stem-loop, come mostrato nel riquadro superiore; questa regione è molto conservata, contiene il codone di stop (*) per la proteina ORF1 e 4 codoni di inizio, uno dei quali non in-frame per le proteine ORF3 e ORF2. La regione di congiunzione somiglia molto a quella presente nel genoma dei Togavirus e analogamente a quella funziona come innesco per la polimerasi virale, che porta alla produzione di RNA subgenomico a partire dall’intermedio replicativo.

60.3 - Replicazione Il sito primario di replicazione di HEV è il fegato e gli epatociti costituiscono il target principale dell’infezione; come il virus raggiunga il fegato non è chiaro, si deve supporre una capacità di replicazione anche a livello intestinale. Il ciclo di replicazione del virus dell’epatite E è stato per lungo tempo poco compreso a causa della mancanza di tecniche efficaci di coltura in vitro. In effetti, la successione degli eventi replicativi si basava principalmente sulle analogie del genoma con quello di altri virus a RNA, in primis i Togavirus. Tuttavia, negli ultimi anni, l’utilizzo di linee cellulari umane trasformate che sono permissive all’infezione ha permesso di svelare alcuni dettagli della replicazione virale. Le fasi iniziali del ciclo di replicazione sono ancora poco chiare e ulteriore difficoltà nella comprensione è determinata dall’esistenza di particelle virali nude e particelle virali “quasi-rivestite”, entrambe infettive, sebbene per le seconde il processo di ingresso sia molto meno efficiente. Molecole di eparan-solfato legato a proteine di membrana sembrano comunque necessarie per l’attacco, ma non è stato identificato un recettore specifico. In seguito all’adsorbimento il virus viene internalizzato mediante endocitosi in un vacuolo rivestito di clatrina/ dinamina 2, dal quale il genoma delle particelle nude viene immediatamente rilasciato nel citoplasma; per quanto riguarda le particelle “quasi-rivestite”, la loro membrana viene degradata in seguito ad acidificazione dell’endosoma tardivo; solo a questo punto è possibile il legame al recettore e il rilascio del genoma; in ogni caso le modalità di scapsidamento sono ancora poco chiare (figg. 60.4 e 60.5). Il genoma viene utilizzato per la traduzione della poliproteina funzionale ORF1, che avendo attività di RNA polimerasi-RNA dipendente ne permette la trascrizione; si ottiene così l’intermedio replicativo che funge da stampo per la produzione di due classi di RNA messaggero: RNA genomico (a lunghezza intera, 7200 basi) e RNA subgenomico bicistronico di circa 2200 basi, utilizzato per la traduzione delle proteine ORF2 (del capside) e ORF3.

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Sinusoidi ematici

HEV

eHEV

Vena porta EP

MVB Replicazione virale

N

N

ET

Tratto biliare Progenie virale

Replicazione virale Epatocita

Spazio di Disse

Sinusoidi ematici Figura 60.4 Modello proposto per l’ingresso e per la diffusione di HEV nella cellula epatica. L’infezione inizia attraverso l’ingestione di virioni nudi presenti nelle acque o negli alimenti contaminati. Non è chiaro attraverso quale modalità il virus passi nel sangue, è verosimile una fase replicativa a livello intestinale, da dove il virus raggiunge il fegato attraverso la vena porta. La penetrazione è conseguente all’attacco a molecole di eparan-solfato e a un recettore non ancora identificato che media la formazione di un vacuolo; il genoma viene liberato nel citoplasma, segue la replicazione virale e la formazione di nuovi virioni che acquisiscono una membrana lipidica in seguito all’interazione di ORF3 con proteine cellulari coinvolte nel processo di gemmazione; questo promuove la gemmazione di virioni dotati di membrana lipidica associata a ORF3 all’interno di corpi multivescicolari (MVB). Segue il trasporto esocitosico e il rilascio dei virioni in seguito a fusione della membrana dei corpi

vescicolari con la membrana plasmatica. I nuovi virioni “quasi-rivestiti” possono essere rilasciati dalla superficie basolaterale degli epatociti, finendo nello spazio di Disse e nei sinusoidi ematici che fiancheggiano gli epatociti. Questa progenie virale “quasi-rivestita” è in grado di entrare, sebbene con minore efficienza, negli epatociti circostanti attraverso la formazione di un vacuolo endocitosico (endosoma precoce, EP); la membrana lipidica viene degradata in seguito all’acidificazione dell’endosoma tardivo (ET) e il genoma viene rilasciato dopo l’interazione del capside con il recettore specifico presente sulla membrana dell’endosoma, dando così inizio a un nuovo ciclo di infezione. I virioni possono anche essere rilasciati dalla superficie apicale degli epatociti infetti, finendo nei canalicoli biliari nei quali si esplica un’azione detergente della bile sulle membrane lipidiche. Il virus, che attraverso il tratto biliare arriva all’intestino, è quindi nudo.

Mentre l’assemblaggio delle proteine capsidiche (ORF2) tra di loro e con l’RNA genomico genera nuovi virioni, la proteina multifunzionale, ORF3 interagisce con alcune proteine cellulari coinvolte nella gemmazione e nel trasporto esocitosico di molti virus rivestiti; questo promuove la gemmazione dei virioni appena assemblati all’interno di corpi vescicolari e alla fine particelle virali “quasi-rivestite” verranno rilasciate in seguito a fusione della membrana dei corpi vescicolari con quella plasmatica (figg. 60.4 e 60.5). La nuova progenie virale, che consiste di particelle “quasi-rivestite”, può essere rilasciata a livello delle membrane basolaterali negli spazi di Disse, oppure a livello delle membrane apicali nei canalicoli biliari; nel primo caso, grazie alla circolazione ematica sinusoidale, l’infezione può diffondere a nuovi epatociti; nel secondo caso l’azione detergente della bile libera i nuovi virioni dalla membrana lipidica e il virus che viene trasportato all’intestino dal flusso biliare risulta nudo.

60.4 - Meccanismi patogenetici – Patologie associate all’infezione Molti aspetti del processo patogenetico rimangono ancora da chiarire; la stessa presenza di virus infettivo nel sangue pone problemi rispetto alla possibilità di trasmissione attraverso trasfusioni/trapianti, tuttavia, sebbene siano stati descritti casi di infezione attraverso il sangue, le donazioni non vengono controllate; la trasmissione di HEV avviene primariamente per via fecale-orale/alimentare attraverso il consumo di acqua contaminata da materiale fecale umano (HEV1 e HEV2) o di alimenti (prodotti carnei, molluschi o verdure/frutti di bosco), contaminati da virus di origine animale (in

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Bile

1 2 3

4 6

10

7a

5

8

Figura 60.5 Ciclo di replicazione virale. Il virus è intercettato da molecole di eparan-solfato (1) e si lega a un recettore specifico non ancora caratterizzato; (2) viene quindi internalizzato mediante endocitosi (3). In seguito allo scapsidamento l’RNA genomico (linea ondulata rossa) viene rilasciato nel citoplasma (4) e immediatamente tradotto (5); si ottengono le 4 proteine non strutturali, che includono l’enzima per la replicazione, il quale trascrive l’RNA genomico (6); si ottiene così l’intermedio replicativo o antigenoma (linee ondulate viola), che serve come stampo per la sintesi di RNA subgenomici di 2200 basi (7a) e di nuovi RNA genomici di 7200 basi (7b). Gli RNA subgenomici vengono tradotti (8) nelle proteine ORF2

7b

9

e ORF3. Proteine ORF2 si assemblano tra loro e impacchettano l’RNA genomico formando nuovi virus (9), le proteine ORF3 interagiscono con proteine cellulari e si associano con le membrane cellulari favorendo l’uscita dei virioni attraverso un processo di esocitosi (10). Studi recenti suggeriscono che le particelle rilasciate dall’epatocita sono rivestite di membrana lipidica associata a ORF3; entrambe queste strutture vengono rimosse a livello biliare, per cui il virus nelle feci risulta nudo. Le particelle “quasi-rivestite” sono comunque in grado, sebbene con minore efficienza, di rientrare nell’epatocita attraverso un vacuolo rivestito di clatrina/dinamina 2, come descritto in figura 60.4.

genere suina) mangiati crudi o poco cotti (HEV3 e HEV4). È verosimile che il virus possa replicare nel tratto intestinale prima di raggiungere il fegato; in ogni caso, alla fine HEV replica nel citoplasma degli epatociti e viene rilasciato nel sangue e nella bile; da qui ritorna all’intestino e viene diffuso con le feci nell’ambiente. L’infezione da HEV si associa a un’epatite acuta di solito ad andamento benigno e autolimitante, con un decorso clinico simile a quello dell’epatite A, anche se mediamente più grave. La maggior parte delle infezioni è asintomatica, particolarmente nei bambini; i sintomi si presentano più spesso nei soggetti giovani/adulti, compaiono dopo un periodo d’incubazione di 2-9 settimane e includono febbre e nausea, seguite da dolore addominale, vomito, anoressia, malessere ed epatomegalia; nel 60% dei casi si osserva ittero. Il virus è presente nel sangue e nelle feci dei soggetti infettati circa 20 e 30-35 giorni, rispettivamente, dopo l’esposizione, mentre il picco delle transaminasi, manifestazione della necrosi epatica, si osserva intorno al 45° giorno dall’infezione (fig. 60.6). Dal momento che HEV non è citopatico, si ritiene che il danno epatico indotto dall’infezione sia immuno-mediato e dovuto all’attivazione di linfociti T citotossici (CTL) e di cellule natural killer (NK). La risposta immune umorale coincide, in genere, con la comparsa dei sintomi e consiste nell’iniziale rialzo delle IgM seguito dalla comparsa di IgG, che se permangono al di sopra di determinati valori proteggono dalle reinfezioni anche con altri genotipi.

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Figura 60.6 Decorso di un’infezione acuta da virus dell’epatite E. Le barre rosse indicano la presenza del virus nelle feci e nel sangue. Le variazioni di concentrazione nel siero di alanina amino transferasi (ALT) e di anticorpi anti-HEV specifici di classe IgM e IgG sono mostrate dalle relative curve. La doppia freccia indica la durata dei sintomi.

HEV RNA Feci Siero

ALT

IgG anti-HEV

IgM anti-HEV

0

1

Sintomi

2

3

4

5

Mesi dall’infezione

L’epatite fulminante è un evento raro: tuttavia il tasso di mortalità durante un’epidemia può variare dallo 0,5 al 4% nei soggetti sintomatici, aumenta in pazienti con patologia epatica preesistente e raggiunge valori del 25-30% nelle donne in gravidanza. Sebbene il genotipo virale HEV4 piuttosto che HEV3 sia stato associato con infezioni più impegnative e il genotipo HEV1 sia più frequentemente osservato nella morte di donne gravide in India, un chiaro legame tra l’epatite fulminante e una particolare variante virale non è stato stabilito in modo definitivo. La cronicizzazione di HEV non è un evento comune ma è possibile nei pazienti in trattamento con terapie immunosoppressive, in particolare negli individui sottoposti a trapianto d’organo, nei pazienti ematologici, in quelli trattati per patologia tumorale e in quelli con infezione da HIV che sono immunodepressi. Un’infezione viene definita cronica quando la replicazione virale persiste per più di tre mesi. Come con HCV e HBV l’infezione cronica può progredire rapidamente verso cirrosi e scompenso epatico. Le infezioni croniche sono più frequentemente osservate nei Paesi industrializzati e quindi associate ai genotipi HEV3 e HEV4. Ad oggi, nessun caso di infezione cronica sostenuta da HEV1 è stato descritto, il che, ancora una volta, non riflette caratteristiche genetiche delle varianti virali ma piuttosto il fatto che l’infezione nei Paesi in via di sviluppo è acquisita precocemente nella vita quando condizioni di immunodepressione sono rare. Manifestazioni extraepatiche legate all’infezione da HEV sia acuta che cronica sono state descritte negli ultimi anni, e includono alterazioni neurologiche (Guillain-Barré, amiotrofia nevralgica, encefalite, meningoencefalite, miosite) e della funzionalità renale (glomerulonefrite associata a crioglobulinemia). La patofisiologia di queste manifestazioni, per altro molto rare, non è del tutto chiarita, essendo solo in parte riconducibile alla risposta immune e pertanto di natura immuno-mediata; comunque HEV RNA è stato identificato nel liquido cerebrospinale e nelle urine di pazienti con sintomi, rispettivamente, neurologici o di alterata funzionalità renale, il che sarebbe indicativo di una possibile replicazione in queste sedi.

60.5 - Diagnosi di laboratorio Poiché l’epatite di tipo E è sostanzialmente indistinguibile dal punto di vista clinico da quella causata dagli altri virus dell’epatite, HEV deve essere sempre considerato nell’algoritmo diagnostico delle epatiti acute (non solo in pazienti che hanno viaggiato

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in aree endemiche) e in particolari circostanze (vedi sopra) anche nell’algoritmo di quelle croniche. La diagnosi si basa sull’utilizzo di saggi immunoenzimatici per la ricerca delle IgM e delle IgG specifiche. Come evidenziato in figura 60.6 gli anticorpi di classe IgM compaiono in concomitanza con il manifestarsi dei sintomi clinici e rappresentano pertanto un marker d’infezione acuta. Le IgM scompaiono dopo qualche mese dall’infezione, mentre le IgG sono ancora determinabili dopo anni dall’infezione, seppure a titoli inferiori rispetto a quelli dell’esordio. Normalmente l’RNA virale può essere ricercato sia nel siero che nelle feci. Nell’infezione acuta il picco di viremia si osserva durante il periodo d’incubazione e all’esordio dei sintomi. HEV RNA non è più determinabile nel siero dopo circa 3 settimane dall’esordio, ma può essere presente nelle feci per ancora due settimane. La diagnosi diretta molecolare è utile sia perché permette di confermare l’infezione quando l’unico riscontro sierologico è la positività per IgM, sia perché consente la valutazione mediante sequenziamento del genotipo virale in causa. Nei casi di epatite cronica le indagini sierologiche dovrebbero sempre essere corroborate da quelle molecolari. Infine, in pazienti che assumono molti farmaci l’infezione da HEV può essere erroneamente diagnosticata come “patologia epatica farmaco-indotta”; in questi casi, data la natura autoctona di molte infezioni nel mondo industrializzato, l’esclusione di HEV dovrebbe essere sempre presa in considerazione.

60.6 - Epidemiologia L’infezione da HEV è globalmente molto diffusa ma il dato di 3,4 milioni di casi ogni anno con 70 000 decessi e 3000 nati morti è riferito ai genotipi 1 e 2 e quindi relativo ai Paesi in via di sviluppo. La reale diffusione di questa infezione nei Paesi industrializzati è in effetti poco nota e forse più rilevante di quanto ritenuto finora, come dimostrerebbe il dato relativo all’aumento nel numero di casi riportati in questi Paesi negli ultimi anni, che è conseguente non solo al miglioramento delle performance dei saggi diagnostici ma anche alla modifica delle strategie di screening. In ogni caso si osserva una sostanziale differenza tra i Paesi a basse risorse economiche e quelli industrializzati per quanto riguarda la diffusione dei genotipi virali, i pattern epidemiologici e le categorie maggiormente a rischio d’infezione (tab. 60.1). Tabella 60.1 Distribuzione geografica dei genotipi di HEV che infettano l’uomo e caratteristiche cliniche/epidemiologiche.

Caratteristiche

Genotipo 1

Genotipo 2

Genotipo 3

Genotipo 4

Localizzazione geografica

Africa e Asia

Messico e Africa

Paesi industrializzati

Cina e Giappone

Via di trasmissione

Acqua contaminata; fecale-orale; raramente contatto tra persone

Acqua contaminata; fecale-orale

Alimenti contaminati mangiati crudi o poco cotti; contatto con animali infetti

Alimenti contaminati mangiati crudi o poco cotti; contatto con animali infetti

Trasmissione zoonotica

No

No





Gruppi a rischio d’infezione

Giovani adulti

Giovani adulti

Adulti (> 40 anni) maschi; pazienti immunocompromessi

Giovani adulti

Decessi in gravidanza





No

No

Prognosi in pazienti con patologia epatica preesistente

Severa

Severa

Severa

Severa

Infezione cronica

No

No



No

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Come precedentemente detto, i genotipi virali osservati nelle infezioni umane sono principalmente 4, tra questi HEV1 e HEV2 infettano esclusivamente l’uomo e sono causa di ampi focolai epidemici essendo principalmente trasmessi attraverso il consumo di acqua contaminata da feci umane. L’infezione con questi genotipi è chiaramente collegata a condizioni di scarsa igiene e dunque HEV1 e HEV2 sono endemici nei Paesi in via di sviluppo – Asia, Africa e Sudamerica (HEV1); Messico e Africa (HEV2) –, colpiscono prevalentemente i giovani adulti (range di età 15-30 anni) e non sono mai stati associati a infezione cronica, HEV1 è responsabile di un elevato tasso di mortalità nelle donne gravide, in particolare nel terzo trimestre. I genotipi HEV3 e HEV4 vengono trasmessi all’uomo sempre per via alimentare ma attraverso zoonosi in seguito al consumo di carne cruda o poco cotta proveniente da suini, cinghiali, cervi e manguste infetti, ovvero alimenti (molluschi, ortaggi/frutti di bosco) contaminati da acque reflue provenienti da allevamenti di suini o fognature (fig. 60.7). Questi genotipi sono responsabili di casi sporadici, raramente di piccoli focolai epidemici all’interno di nuclei ristretti di persone che si sono infettate da una fonte alimentare comune. HEV3 è ampiamente distribuito in tutto il mondo e colpisce persone, prevalentemente di sesso maschile, con età superiore ai 40 anni, mentre HEV4 circola prevalentemente in Asia (Cina e Giappone); entrambi sono associati a casi di trasmissione per via trasfusionale, ma solo per HEV3 sono stati descritti casi di evoluzione in epatite cronica in pazienti immunodepressi per terapie o patologie.

Consumo di alimenti

? Molluschi

Preparazione della carne

Ortaggi Irrigazione ?

Liquami umani

?

Acqua

Animali: maiali, cinghiali, cervi

?

Deflusso da aziende agricole e terreni

Altri animali domestici Figura 60.7 Principali modalità di trasmissione del virus dell’epatite E. La grande maggioranza delle infezioni nel mondo avviene in seguito al consumo di acqua contaminata da liquami umani; nei Paesi industrializzati l’infezione è acquisita per il consumo di alimenti contaminati da virus di origine animale; si tratta prevalentemente di prodotti carnei di suini allevati o selvatici e di cervi, mangiati crudi o poco cotti. Recentemente sono state descritte infezioni umane con

ceppi di coniglio e cammello e si può ipotizzare che il reservoir animale possa essere più ampio. Acque reflue di allevamenti suinicoli usate per l’irrigazione o defluite al mare possono inoltre contaminare ortaggi o frutti di bosco ed essere filtrate da molluschi, dunque anche questi alimenti che vengono consumati crudi possono essere responsabili di infezione con HEV. La trasmissione tra uomini per contatto diretto è anche possibile come del resto quella attraverso trasfusioni/trapianti.

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60.7 - Terapia e profilassi - Vaccini Non esistono attualmente terapie specifiche per il trattamento dell’epatite E: gli unici farmaci usati per trattare le infezioni croniche in soggetti immunosoppressi sono la ribavirina o, se possibile, l’interferone-α pegilato, che tuttavia non sempre si sono mostrati efficaci nell’eradicare l’infezione. Un vaccino ricombinante a subunità del tipo virus-like particle espresso in E. coli è stato recentemente sviluppato da ricercatori cinesi e si è dimostrato efficace nel prevenire l’infezione; questo vaccino è stato licenziato nel 2011 per l’uso in Cina ma non negli altri Paesi ad alta endemicità. Date le caratteristiche epidemiologiche di questa infezione, le modalità di prevenzione sono chiaramente diverse a seconda del contesto igienico/sanitario; è evidente che nei Paesi in via di sviluppo, dove l’infezione è trasmessa da acque contaminate, un’efficace prevenzione non può prescindere dal miglioramento del sistema fognario per ridurre la contaminazione fecale delle risorse idriche e dall’implementazione di metodi per la disinfezione delle acque contaminate. La prevenzione delle infezioni alimentari che si osservano nei Paesi industrializzati è invece complicata dal fatto che HEV può entrare nella filiera di produzione degli alimenti in molti modi diversi (fig. 60.7). In questo contesto le persone ad alto rischio per un’epatite E acuta grave o cronica dovrebbero evitare di consumare insaccati poco stagionati, carni di maiale poco cotte o molluschi crudi.

Bibliografia essenziale Debing, Y., Moradpour, D., Neyts, J., Gouttenoire, J. (2016), «Update on hepatitis E virology: Implications for clinical practice», J Hepatol. 65, pp. 200-212. Lhomme, S., Marion, O., Abravanel, F., Chapuy-Regaud, S., Kamar, N., Izopet, J. (2016), «Hepatitis E Pathogenesis», Viruses. 8-212. Nelson, K.E., Heaney, C.D., Labrique, A.B., Kmush, B.L., Krain, L.J. (2016), «Hepatitis E: prevention and treatment», Curr Opin Infect Dis. 29, pp. 478-485. Van der Poel, W.H. (2014), «Food and environmental routes of Hepatitis E virus transmission», Curr Opin Virol. 4, pp. 91-96. Review. Yin, X., Li, X., Feng, Z. (2016), «Role of Envelopment in the HEV Life Cycle», Viruses. 8-229.

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Capitolo

61 • Classificazione • Struttura • Replicazione • Patogenesi • Epidemiologia • Diagnosi

Astroviridae

61.1 - Classificazione La famiglia Astroviridae comprende piccoli virus con capside nudo (diametro 28-41 nm). Il capside è icosaedrico con una caratteristica struttura a stella (Astron, “stella” in greco), con cinque o sei punte. I virioni contengono una molecola di RNA a singola elica a polarità positiva. Gli astrovirus (HAstV) sono stati identificati per la prima volta nel 1975 nel corso di un’epidemia di diarrea umana, grazie all’uso della microscopia elettronica. Oltre che la popolazione umana, gli astrovirus infettano numerose altre specie, sia di mammiferi (Mammoastrovirus) che di uccelli (Aviastrovirus) (tab. 61.1). Molto recentemente è stata scoperta, dopo studi di metagenomica, una varietà di nuovi HAstV altamente divergenti in grado di infettare diverse specie animali, compreso l’uomo, che non sono correlati ai già descritti 8 sierotipi di HAstV umani, ora chiamati HAstV classici. I primi nuovi HAstV sono stati identificati nel 2008 in campioni di feci pediatriche a Melbourne, Australia. Essi sono stati chiamati HAstV-MLB, e finora sono stati rilevati molti ceppi MLB-correlati in diverse parti del mondo. Nel 2009 è stato descritto un secondo gruppo di nuovi HAstV (denominato HMO e composto da non meno di quattro ceppi tra loro distinti), sempre in campioni di feci da bambini con diarrea in diverse parti del mondo. Complessivamente, il numero di HAstV associati alle infezioni umane è quasi raddoppiato negli ultimi anni. Ad oggi sono stati quindi riconosciuti 3 gruppi divergenti all’interno degli astrovirus umani (HAstV): i gruppi classici, HAstV1, e i gruppi HAstV-MLB e HAstV-VA/HMO. I classici HAstV comprendono 8 diversi sierotipi, che provocano il 2-9% delle gastroenteriti nei bambini. Tabella 61.1 Classificazione famiglia Astroviridae.

Gruppo

IV (ssRNA+)

Famiglia

Astroviridae

Genere

Aviastrovirus Virus nefrite aviaria Astrovirus aviario Astrovirus dell’anatra Astrovirus del tacchino Mamoastrovirus Astrovirus bovino Capreolus capreolus astrovirus Astrovirus felino Astrovirus umano Astrovirus ovino Astrovirus del visone Astrovirus suino

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Tabella 61.2 Caratteristiche della famiglia Astroviridae.

Struttura virione

Particelle icosaedriche, diametro 28-41 nm Capside nudo Caratteristica forma a stella al microscopio elettronico in circa il 10% dei virioni

Genoma

RNA a singola elica a polarità positiva, 6,4-7,7 kb, con una coda poli(A) Tre ORF: ORF1a e ORF1b nel 5' terminale codificanti le proteine non strutturali e ORF2 nel 3' terminale codificante le proteine strutturali Proteina VPg associata al 5' terminale Un segnale frameshift tra ORF1a e ORF1b Mancanza del dominio elicasi

Ciclo replicativo

Proteine strutturali espresse da RNA subgenomico di ~2,8 kb

Le infezioni sono solitamente autolimitanti ma possono causare infezioni severe in pazienti immunocompromessi. Gli altri gruppi di HAstV sono stati identificati come associati alle gastroenteriti nei bambini, anche se sono state suggerite implicazioni in patologie extraintestinali. La comparsa di nuovi astrovirus con una potenziale trasmissione zoonotica richiede un approfondimento delle caratteristiche biologiche al fine di prevenire futuri problemi sanitari.

61.2 - Struttura del virione e genoma Le principali caratteristiche della famiglia Astroviridae sono riportate in tabella 61.2. Il virione degli HAstV è una particella senza envelope con capside icosaedrico che forma una distintiva stella a cinque o sei punte sulla superficie di alcuni virioni (circa 10%). Le particelle vengono assemblate dalla proteina precursore VP90 (circa 90 kDa), che viene ulteriormente elaborata da una caspasi cellulare per generare la proteina VP70, perdendo il dominio C-terminale. Le particelle composte dalla proteina di 70 kDa sono immature e richiedono l’intervento della tripsina, a livello extracellulare, per produrre particelle altamente infettanti costituite da diverse proteine ​​capsidiche (VP34, VP27/29 e VP25/26). VP34 deriva dalla regione N-terminale altamente conservata della poliproteina e costituisce la struttura del capside, mentre VP27/29 e VP25/26 derivano ​​dal dominio C-terminale variabile e formano le punte dimeriche. Il genoma degli HAstV è un ssRNA positivo di circa 6,8 kb, con coda poliadenilata al 3′ terminale (fig. 61.1). Una proteina VPg è legata covalentemente al 5′ terminale del genoma. Il genoma contiene tre open reading frame (ORF): ORF1a al 5′ terminale, ORF1b e ORF2 al 3′ terminale. ORF1a e ORF1b codificano le proteine non strutturali (nsPs) coinvolte nella trascrizione dell’RNA e nella replicazione, mentre ORF2 codifica le proteine strutturali, che derivano da un RNA subgenomico. È stato descritto un nuo-

1000

2000

3000

(+) genoma

4000

ORF1b

ORF1a

5000

nt

ORFX ORF2

5' Segnale frameshift

6000

Promotore sgRNA?

PoliA 3' Motivo stem-loop

Figura 61.1 Organizzazione del genoma degli astrovirus umani. Il genoma è a RNA di approssimativamente 6,8 kb, contiene tre ORF (ORF1a, ORF1b, ORF2). ORFX è stata proposta come funzionale, in quanto conservata tra gli HAstV, ma con funzioni ancora sconosciute. Il genoma contiene tre elementi conservati da tutti membri della famiglia: il segnale frameshift, le sequenza a monte di ORF2, che sembrano funzionare da promotore per la sintesi di RNA subgenomico, e un motivo stem-loop al 3' terminale di ORF2.

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vo ORF, chiamato ORFX, negli HAstV classici e in altri HAstV di mammifero, che si sovrappone al 5′ terminale di ORF2. Sono presenti anche due regioni non tradotte (UTR), il 5′ UTR e il 3′ UTR. Al 3′ UTR è presente una coda poli(A) costituita da circa 30 adenine e un motivo stem-loop II, che si ritiene fornisca stabilità alla struttura secondaria dell’RNA e interagisca con le proteine ​​virali e cellulari essenziali per la replicazione del genoma. ORF1a codifica per una poliproteina (nsp1a) che contiene 5-6 domini motivi transmembrana, una serin-protesi (v-Pro) e una proteina virale associata al genoma (VPg). ORF1b codifica per l’RNA polimerasi-RNA dipendente (RdRp). ORF2 contiene la regione codificante per le proteine strutturali ​​del capside e rappresenta la regione con la maggiore variabilità genomica. Contiene inoltre un dominio P1 di funzione sconosciuta, una regione variabile contenente il dominio P2 che include le proteine delle punte del capside e un dominio acidico al C-terminale.

61.3 - Replicazione Il ciclo replicativo si riferisce essenzialmente ai cosiddetti HAstV classici (fig. 61.2). Dopo l’adsorbimento e l’uncoating nella cellula, le due principali poliproteine non strutturali, nsP1a (circa 102 kDa) e nsP1a1b (circa 160 kDa), sono tradotte dall’RNA genomico associato a VPg. La proteina VPg svolge un ruolo essenziale nell’infettività virale: la rimozione di VPg abolisce infatti completamente l’infettività, indicando come la proteina VPg possa giocare un ruolo nel reclutamento di fattori di inizio della traduzione cellulare. Il taglio proteolitico di queste poliproteine, che avviene grazie alla serin-proteasi virale e ad alcune proteasi cellulari, ​​produce le singole proteine ​​non strutturali necessarie per la replicazione del genoma, che si svolge in complessi di replicazione assemblati in stretta associazione con le membrane intracellulari. Questo risulta nella formazione sia di RNA genomici che subgenomici, che vengono prodotti in grandi quantità per garantire la produzione delle proteine ​​strutturali. Il processo di replicazione del genoma degli HAstV non è stato caratterizzato in dettaglio ed è stato dedotto da quello degli altri virus a ssRNA a polarità positiva. Si ritiene che venga sintetizzato un RNA genomico a polarità negativa, utilizzato come stampo per la produzione dell’RNA genomico a polarità positiva e RNA subgenomico a polarità positiva. Da questo RNA subgenomico derivano le proteine ​​strutturali, espresse come una poliproteina di 90 kDa (VP90), poi tagliata nelle proteine strutturali del capside a livello extracellulare, per ottenere virioni maturi infettanti. Dopo l’incapsidamento e la maturazione, i virioni vengono rilasciati dalla cellula. Il principale recettore cellulare per HAstV rimane ancora sconosciuto, ma la suscettibilità di diverse linee cellulari all’infezione da HAstV differisce a seconda del sierotipo, suggerendo che questi virus possano avere più recettori.

61.4 - Patogenesi I meccanismi patogenetici degli HAstV e di induzione di diarrea sono ad oggi da definire. Si ritiene che gli HAstV possano portare a una rapida perdita di liquidi ed elettroliti, dovuta all’alterazione della normale funzione assorbente dell’intestino. Gli studi su modelli animali hanno identificato una riduzione dell’attività della maltasi, con conseguente cattiva digestione e malassorbimento del disaccaride, con diminuita peristalsi intestinale e conseguente diarrea osmotica. È inoltre probabile che le proteine del capside possano agire come un’enterotossina, causando modificazioni alla permeabilità della barriera epiteliale. Gli HAstV classici sono agenti patogeni che colpiscono i bambini in tutto il mondo, con pochissime segnalazioni di malattia in adulti sani. Studi sierologici indicano che la maggior parte dei bambini è infettata con HAstV e sviluppa anticorpi specifici nei primi anni di vita, che sembrano fornire una protezione contro le infezioni future. Gli

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Endocitosi clatrina-mediata

Uncoating

Uscita Taglio tripsina

VPg (+) 5'

Espressione nsPs

Virione immaturo VP70

nsP1a1b nsP1a RdRp VPg

Taglio caspasi

Virione maturo

AAAAA 3'

Virione VP90 VPg

Assemblaggio VP90

Replicazione RNA virale

(+) 5'

AAAAA 3'

(–) 3'

UUU 5'

(+) 5'

AAAAA 3'

s(+)

Figura 61.2 Replicazione degli astrovirus umani. Dopo il legame a uno o più recettori cellulari, l’adsorbimento del virus avviene tramite endocitosi clatrina-dipendente. Due principali poliproteine non strutturali, nsP1a e nsP1a1b, vengono tradotte dall’RNA genomico VPg-associato e ulteriormente tagliate da proteasi virali e cellulari, con conseguente maturazione delle proteine ​​non strutturali (NSP), che sono necessarie per la replicazione del genoma. Il complesso di

replicazione si ritiene si assembli in stretta associazione con le membrane intracellulari. Gli RNA subgenomici (s) sono prodotti in grandi quantità e sono utilizzati per l’espressione delle proteine del capside. La poliproteina strutturale VP90 assembla inizialmente in virioni immaturi, successivamente le caspasi cellulari la dissociano in VP70. Le particelle virali VP70 immature sono rilasciate senza lisi cellulare e si ottengono virioni maturi extracellulare grazie all’azione della tripsina.

individui immunocompromessi e gli anziani rappresentano una popolazione ad alto rischio. In genere l’infezione da HAstV induce una lieve diarrea acquosa che dura 2 o 3 giorni, associata a vomito, febbre, anoressia e dolori addominali. Il vomito è meno frequente nelle infezioni da HAstV rispetto alle infezioni da Rotavirus o da Calicivirus. Inoltre, le infezioni da HAstV mostrano un periodo di incubazione più lungo, calcolato essere di 4/5 giorni. In generale, la diarrea causata da HAstV è più lieve rispetto a quelle causate da Rotavirus o Norovirus, e si risolve spontaneamente, anche se in alcuni casi le infezioni da HAstV possono richiedere il ricovero ospedaliero. Le infezioni asintomatiche da HAstV sono state descritte sai nei bambini che negli adulti. Nei pazienti con immunodeficienze, tra cui gli infettati da HIV, le infezioni da HAstV possono diffondersi anche a livello sistemico e causare gravi infezioni disseminate letali. Anche se con minore frequenza rispetto a Rotavirus, Norovirus e Adenovirus, l’infezione da HAstV può essere un fattore di rischio potenziale per l’intussuscezione nei bambini infettati. Oltre agli HAstV classici, le infezioni causate dagli HAstV non classici (HAstV-MLB e HAstV-VA/HMO) sono generalmente associate a gastroenterite, ma il loro ruolo patogenetico nella salute umana non è stato chiaramente dimostrato.

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61.5 - Epidemiologia Gli HAstV vengono trasmessi essenzialmente attraverso la via fecale-orale. Cibo e acqua possono agire come veicoli per la trasmissione, come documentato da grandi epidemie da HAstV associate al consumo di alimenti contaminati e dalla stabilità degli HAstV in acqua potabile, acqua dolce e acqua marina. Dalle feci degli individui infetti da HAstV possono essere espulse fino a 1013 copie di genoma per grammo. Dal momento che le pratiche di depurazione non assicurano la completa rimozione dei patogeni virali, gli HAstV presenti nelle acque reflue trattate vengono scaricati nell’ambiente e possono diventare agenti inquinanti e fonte di trasmissione. Il cloro e gli altri disinfettanti regolarmente impiegati per il trattamento dell’acqua potabile sono efficaci per l’inattivazione degli HAstV nell’acqua. La mancanza di pratiche igieniche nella manipolazione degli alimenti è di solito responsabile della contaminazione post-raccolta dei prodotti alimentari, in particolare dei prodotti alimentari pronti da mangiare come insalate, panini, carne, consumata sia cruda che poco cotta. Le superfici di preparazione degli alimenti svolgono un ruolo importante nella diffusione delle infezioni da HAstV, per la capacità del virus di persistere su di esse abbastanza a lungo e con numerosità sufficiente a rappresentare un rischio elevato e un importante problema di salute pubblica. Tra gli alimenti suscettibili alla contaminazione da HAstV vi sono i molluschi bivalvi coltivati in acque inquinate, oltre a vegetali e frutta irrigati con acqua contaminata. Questi prodotti di solito sottoposti a poche trasformazioni prima del consumo sono facilmente veicolo per la trasmissione dei virus enterici umani. Le pratiche di disinfezione, nonché le misure di igiene, in particolare in nosocomi, istituti per anziani, asili, centri diurni, o ristoranti, sono di grande importanza nel prevenire la diffusione delle infezioni da HAstV. Anche se gli HAstV sono stati inizialmente considerati specie-specifici, tanto da classificarli in base alle specie ospite, la preoccupazione per la potenziale trasmissione zoonotica degli HAstV è presente. Alcuni degli HAstV non classici sono filogeneticamente correlati a diversi astrovirus animali. Sono stati inoltre descritti ricombinanti tra gli HAstV umani e animali, in particolare a livello della regione ORF2 umana e di ceppi suini. L’alta variabilità genetica, unitamente alla presenza di infezioni interspecie ed eventi di ricombinazione, rendono gli HAstV candidati per infezioni zoonotiche emergenti. Gli HAstV interessano prevalentemente la popolazione pediatrica, anche se sono presenti infezioni nelle persone anziane e in immunocompromessi. Nei bambini l’età degli infettati da HAstV classico è molto variabile, dai neonati a più di 5 anni, anche se l’infezione è più comune tra i bambini con età superiore a 2 anni. Gli HAstV classici sono distribuiti in tutto il mondo e sono associati al 2-9% dei casi di diarrea acuta non batterica nei bambini, con maggiore incidenza nelle zone rurali rispetto alle aree urbane. L’incidenza degli HAstV è generalmente maggiore nei Paesi in via di sviluppo. Sembra che negli ultimi decenni si stia verificando una tendenza verso la diminuzione dell’incidenza degli HAstV classici, probabilmente per la competizione da parte degli HAstV non classici. La distribuzione delle infezioni da HAstV classici segue un andamento stagionale, con una maggiore incidenza delle infezioni nelle regioni temperate nelle stagioni fredde, con un sensibile declino del numero di casi nella stagione calda. Tale stagionalità può essere la conseguenza di una migliore stabilità del virus a basse temperature.

61.6 - Diagnosi di laboratorio L’isolamento del virus in cellule in coltura, anche se possibile, non ha utilità pratica per la diagnosi delle infezioni da HAstV in campioni fecali. In passato, gli HAstV nelle feci venivano rilevati mediante microscopia elettronica (EM). Questa procedura però è

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Capitolo 61 • Astroviridae

laboriosa, richiede tempo e personale di grande esperienza. Ulteriori limitazioni sono date dal fatto che solo il 10% circa delle particelle virali mostra la caratteristica struttura superficiale simile a stelle e dalla bassa sensibilità (la visualizzazione del virus richiede concentrazioni di circa 107 particelle per grammo di feci). L’uso di anticorpi in microscopia elettronica (IEM) o in immunomicroscopia elettronica su fase solida (SPIEM) migliora la sensibilità del saggio consentendo di confermare l’identità dell’agente virale. Tuttavia, la disponibilità limitata di anticorpi per i diversi tipi di HAstV ostacola l’uso di queste tecniche. I saggi immunoenzimatici (EIA) sono stati sviluppati per la rilevazione e la tipizzazione degli HAstV. Ad oggi sono disponibili diversi EIA commerciali per il rilevamento di HAstV classici in campioni di feci. Sebbene i saggi non consentano di tipizzare gli isolati, sono utili per una rapida individuazione del virus quando è necessario analizzare un gran numero di campioni. Inoltre, in commercio sono disponibili vari test rapidi immunocromatografici contro gli HAstV. L’avvento di tecniche di rilevazione molecolare, basato inizialmente su sonde di ibridazione e successivamente amplificazione del genoma, ha dato la possibilità di sviluppare saggi con elevata sensibilità e specificità. Mentre la sensibilità delle sonde di ibridazione è simile a quella dei saggi EIA, i protocolli di amplificazione basati sulla trascrittasi inversa (RT-PCR) hanno una soglia di rilevazione fino a 10-100 copie di genoma virale per grammo di feci, e pertanto vengono comunemente utilizzati sia per lo screening e che per la tipizzazione degli isolati. Per il rilevamento degli 8 sierotipi di HAstV classici si utilizza il sequenziamento della regione conservata 5′ terminale di ORF2. Per la rilevazione dei nuovi HAstV sono disponibili primer specifici per la regione ORF1b. L’utilizzo di microarray e real-time RT-PCR quantitativa (RT-qPCR) è un’importante opzione per il rilevamento degli HAstV e la loro tipizzazione, fornendo alta velocità, sensibilità e riproducibilità.

61.7 - Terapia La prevenzione delle infezioni da HAstV si basa essenzialmente sul controllo delle vie di trasmissione e sulla prevenzione e sul controllo della malattia a livello di ospite. Il controllo delle vie di trasmissione comprende il rilevamento e l’inattivazione del virus in acqua e cibo e la disinfezione della sorgente contaminata. Anche se sono disponibili metodi per la rilevazione e la quantificazione degli HAstV (vedi oltre), la soglia del numero di copie di genoma virale accettabili in acqua e matrici alimentari deve ancora essere definita. Sebbene la sopravvivenza di HAstV classico nell’acqua potabile sia alta, trattamenti di disinfezione di 2 ore con 1 mg/mL di cloro libero sono molto efficaci. La sopravvivenza degli HAstV e l’inattivazione in matrici alimentari non sono state ampiamente studiate, probabilmente perché sono state descritte solo poche epidemie da HAstV di origine alimentare e perché gli sforzi sono stati dedicati all’applicazione di tecnologie emergenti per l’inattivazione di altri agenti virali, come Norovirus e il virus dell’epatite A. Per quanto riguarda la disinfezione delle sorgenti contaminate, l’alcol al 90% si è dimostrato utile. Purtroppo, nessuna informazione sull’inattivazione degli HAstV non classici è ancora disponibile. Non sono ad oggi disponibili vaccini per HAstV, nonostante le descrizioni di diverse particelle virus-simili (VLP). La mancanza di interesse commerciale nella produzione di questo vaccino può essere dovuta al basso impatto clinico degli HAstV in pazienti immuno-competenti e alla necessità di produrre un vaccino multivalente in grado di proteggere da tutti i sierotipi e ceppi circolanti, in quanto non sembra ci sia protezione eterologa. Alcuni autori hanno ipotizzato che i probiotici, che possono interferire con il ciclo biologico dei virus enterici, possono essere usati come misura per prevenire e/o trattare le infezioni virali intestinali. È stata inoltre descritta l’attività antivirale di alcuni flavonoidi sintetici sulla replicazione degli HAstV. Di solito la terapia applicata ai pazienti (bambini o gli adulti) affetti da grave

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gastroenterite è costituita da reintegrazione di liquidi orale o per via endovenosa per evitare la disidratazione. È stato anche proposto il trattamento endovenoso con IgG per pazienti immunocompromessi con grave o persistente diarrea, anche se l’efficacia di questo trattamento deve ancora essere stabilita in studi su larga scala.

Bibliografia essenziale Dong, J., Dong, L., Mèndez, E., Tao, Y. (2011), «Crystal structure of the human astrovirus capsid spike», Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A., 108:12681-12686. Dryden, K.A., Tihova, M., Nowotny, N., Matsui, S.M., Mendez, E., Yeager, M. (2012), «Immature and mature human astrovirus: structure, conformational changes, and similarities to hepatitis E virus», J. Mol. Biol., 422:650-658. Fuentes, C., Bosch, A., Pinto, R.M., Guix, S. (2012), «Identification of human astrovirus genome-linked protein (VPg) essential for virus infectivity», J. Virol., 86:10070-10078. Jakab, F., Peterfai, J., Verebely, T., Meleg, E., Banyai, K., Mitchell, D.K., Szucs, G. (2007), «Human astrovirus infection associated with childhood intussusception», Pediatr. Int., 49:103-105. Kapoor, A., Li, L., Victoria, J., Oderinde, B., Mason, C., Pandey, P., Zaidi, S.Z., Delwart, E. (2009), «Multiple novel astrovirus species in human stool», J. Gen. Virol., 90:2965-2972. Lee, R., Lessler, J., Lee, R., Rudolph, K., Reich, N., Perl, T., Cummings, D. (2013), «Incubation periods of viral gastroenteritis: a systematic review», BMC Infect. Dis., 13:446. Walter, J.E., Mitchell, D.K. (2003), «Astrovirus infection in children», Curr. Opin. Infect. Dis., 16:247-253.

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Retroviridae: classificazione e HTLV

62.1 - Retroviridae Classificazione I Retrovirus sono stati isolati nella maggior parte dei vertebrati e associati a molti tipi di patologie che spaziano da forme tumorali, alterazioni del sistema immunitario e forme neurologiche di tipo degenerativo (tab. 62.1) con impatto estremamente importante sia da un punto di vista medico sia da un punto di vista economico. Il loro peculiare ciclo replicativo, l’associazione con importanti patologie e il complesso rapporto virus-ospite hanno destato un continuo interesse scientifico, tanto che i Retroviridae rappresentano una delle famiglie virali in assoluto più studiate, almeno negli ultimi 35 anni. I retrovirus presentano un genoma a RNA diploide a polarità positiva e sono caratterizzati da un peculiare ciclo replicativo, che prevede un intermedio a DNA. La famiglia dei retrovirus comprende tre sottofamiglie (Oncovirinae, Lentivirinae e Spumavirinae) e sette generi (in base a similitudini delle sequenze aminoacidiche a livello delle proteine della trascrittasi inversa), cinque dei quali sono stati correlati all’insorgenza di tumori nell’animale e almeno in un caso (deltaretrovirus) nell’uomo (tab. 62.2). Alla sottofamiglia degli Oncovirinae appartengono i seguenti generi:

• Alfaretrovirus, il cui prototipo è rappresentato dal virus del sarcoma di Rous1.

Comprendono anche altri virus in grado di causare tumori negli uccelli quali, ad esempio, il virus della leucemia aviaria (avian leukosis virus) e il virus del sarcoma aviario (avian sarcoma virus); • Betaretrovirus e Gammaretrovirus, che sono rispettivamente causa di tumori mammari nel topo, come il virus del tumore mammario del topo (mouse mamTabella 62.1 I retrovirus e le patologie nel vertebrato.

Neoplasie

Carcinoma mammario, carcinoma renale, leucemia mieloide, eritroide e linfoide, linfoma, sarcoma

Alterazioni ematologiche

Anemia aplastica, anemia emolitica, patologie autoimmuni, immunodeficienza

Alterazioni ossa/articolazioni

Osteoporosi, artrite

Patologie neurologiche

Neuropatia periferica, encefalopatia, demenza

Patologie polmonari

Polmonite, adenomatosi

A Peyton Rous (1911) si devono le prime ricerche sui virus oncogeni. L’associazione virus-tumore nasce all’inizio del XX secolo proprio con la storia dei retrovirus e in particolare con la scoperta del sarcoma di Rous, allora approssimativamente definito come un agente non filtrabile in grado di provocare un tumore solido nel pollo. Dal momento della sua scoperta al momento in cui veniva capito il meccanismo di trascrizione di questi virus devono passare alcuni anni, e solo nel 1970 veniva identificata, grazie agli studi di Baltimore e Temin (Premio Nobel 1975), la trascrittasi inversa, enzima che darà il nome all’intera famiglia. 1

• Classificazione • HTLV-1 e HTLV-2 • Struttura • Replicazione • Trasmissione • Patologie associate

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Tabella 62.2 La famiglia dei Retrovirus.

Sottofamiglia Oncovirinae Genere Alpharetrovirus Genere Betaretrovirus Genere Gammaretrovirus Genere Deltaretrovirus Genere Epsilonretrovirus Sottofamiglia Lentivirinae Genere Lentivirus

Sottofamiglia Spumavirinae Genere Spumavirus

Virus del sarcoma di Rous, virus della leucemia aviaria, virus del sarcoma aviario Virus del tumore mammario del topo, virus Mason-Pfizer Virus della leucemia murina, virus della leucemia felina Virus della leucemia bovina, STLV-1/2, HTLV-1/2 Virus del sarcoma dermico di Walley Virus dell’immunodeficienza bovina, virus dell’immunodeficienza felina, virus dell’immunodeficienza del cavallo, virus dell’immunodeficienza dell’ovino; lentivirus dei primati quali il virus dell’immunodeficienza della scimmia SIV-1/2 e dell’uomo HIV-1/2 Virus schiumoso della scimmia, virus schiumoso del felino

mary tumor virus) e di sarcomi nel gatto, come il virus del sarcoma felino (murine leukemia virus); • Deltaretrovirus, che comprendono il virus della leucemia bovina (bovine leukaemia virus) e i virus linfotropici dei primati (PTLV 1 e 2), quali i virus della leucemia della scimmia 1 e 2 (simian T lymphotropic virus type 1/2) e il virus della leucemia umana a cellule T di tipo 1 e 2 (HTLV, human T-cell lymphotropic virus type 1/2); • Epsilonretrovirus, a cui appartiene il virus del sarcoma dermico di Walleye, di esclusivo interesse veterinario. Alla sottofamiglia dei Lentivirinae appartiene il genere Lentivirus, in grado di causare disordini di tipo degenerativo a carico del sistema immunitario e nervoso, caratterizzati da una progressione molto lenta, a cui appartengono virus in grado di causare patologie nell’animale [ad esempio FIV (virus dell’immunodeficienza del gatto) o SIV (virus della immunodeficienza della scimmia) e nell’uomo (HIV-1 e 2: virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 e 2)]. Alla sottofamiglia degli Spumavirinae appartiene solo il genere Spumavirus, di cui fa parte il virus schiumoso della scimmia (simian foamy virus), di cui è ignoto il ruolo patogeno ma che possiede la capacità di determinare una caratteristica citopatologia “schiumosa” osservabile in colture cellulari in vitro e da cui deriva il nome.

62.2 - HTLV-1 e HTLV-2 Classificazione HTLV-1 e HTLV-2 (human T-cell lymphotropic virus type 1/2) appartengono al genere Deltaretrovirus, virus in grado di trasmettersi orizzontalmente e correlati a diverse patologie nell’uomo. Nel 1979 HTLV-1 fu isolato per la prima volta da linfociti di un paziente con un linfoma cutaneo a cellule T. La scoperta rappresentò il risultato di moltissimi anni di ricerca focalizzata su modelli animali e solamente il continuo progresso delle conoscenze in campo virologico e cellulare, l’evidenziazione di specifici fattori di crescita, lo sviluppo di saggi in grado di valutare l’attività trascrittasica in vitro, portarono per la prima volta all’identificazione di HTLV-1 e pochi anni dopo di HTLV-2. HTLV-1 è stato associato alla comparsa di una patologia linfoproliferativa a prognosi infausta, la ATL (adult T-cell leukemia lymphoma) e di una malattia a base neurodegenerativa denominata HAM/TPS (HTLV-1 associated myelopathy/tropical spastic paresis). Inoltre, in relazione a un possibile, ma non ancora completamente chiarito, tropismo di HTLV a livello della cute, è stato studiato anche il suo ruolo in patologie quali ad esempio l’eczema seborroico e la psoriasi, nonché la sua associazione con patologie urologiche e polmonari.

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p15 Nucleocapside p19 Matrice

p24 Capside

p62/p32 RT

gp21 Transmembrana gp46 Envelope

HTLV-2 non è stato ancora associato in modo convincente ad alcuna specifica patologia, nonostante sia stato isolato occasionalmente in pazienti tossicodipendenti coinfetti con il virus dell’immunodeficienza acquisita di tipo 1 (HIV-1) e in soggetti con patologie neurologiche e neoplastiche. Nel 2005 sono stati identificati due nuovi HTLV la cui azione patogena sull’uomo non è stata ancora né determinata né chiarita: HTLV-3 e HTLV-4, il primo simile al virus delle scimmie STLV-3 (simian T-lymphotropic virus type 3) ma sulla cui origine ed eziologia non si hanno al momento indicazioni scientifiche valide.

Struttura e morfologia Nonostante i retrovirus siano coinvolti in quadri patologici estremamente diversi, presentano una struttura, un’organizzazione del genoma e una modalità di replicazione assolutamente simili. Al microscopio elettronico i virioni appaiono come particelle sferiche di circa 100 nm di diametro. HTLV presenta un nucleocapside icosaedrico in posizione centrale, circondato da un envelope, acquisito dalla membrana citoplasmatica durante il processo di gemmazione e costituito da due proteine glicosilate [gp46 e gp21, rispettivamente l’unità di superficie (SU) e l’unità di transmembrana (TM)] (fig. 62.1). All’interno del capside sono presenti due copie identiche di RNA genomico a singolo filamento e a polarità positiva, il cui compito è quello di funzionare da stampo (template). Nel virione sono presenti l’enzima trascrittasi inversa (DNA polimerasi-RNA dipendente), essenziale per il ciclo replicativo, e due molecole tRNA (RNA di trasferimento) cellulari, la cui funzione è quella di innescare la retrotrascrizione coordinata dalla trascrittasi inversa virale. HTLV-1 e 2 mostrano una configurazione strutturale comune a tutti i retrovirus, che comprende geni virali per gli antigeni gruppo-specifici (gag), per la trascrittasi inversa (pol) e per le proteine dell’envelope (env). Sia HTLV-1 sia HTLV-2 contengono, fiancheggianti il gene env, alcune sequenze trascrivibili con i caratteri di ORF2, di cui la più lunga (600 nucleotidi) è denominata regione pX. 2

ORF: Open Reading Frame, sequenza trascrivibile.

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Figura 62.1 HTLV: rappresentazione schematica della struttura di un virione (p15: nucleocapside; p19: matrice; p24: capside; p62/32 trascrittasi inversa; gp21: transmembrana; gp46: envelope).

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Tabella 62.3 HTLV: geni strutturali e sequenze ORF.

Geni strutturali

Proteine codificate

Gene gag Gene env Gene pol

p24, p19, p15 Proteasi, trascrittasi inversa, integrasi gp21 e gp46

Sequenze ORF

Proteine codificate

ORF I ORF II ORF III ORF IV

p12, p8 p13, p30 p21, p27 p40

Questo insieme di geni, nel loro complesso, permette di suddividere funzionalmente il genoma virale in geni strutturali (gag, pol, env) in grado di codificare proteine strutturali e in geni che codificano proteine regolatorie o accessorie (p40, p27, p21, p27, p30) (tab. 62.3). Il gene gag (group antigen) codifica per le tre proteine del core e precisamente per la proteina p19 (matrice), p24 (capside) e p15 (nucleocapside). Le proteine del capside (p24) di HTLV-1 e HTLV-2 mostrano un’omologia aminoacidica elevata, che si riflette in una significativa cross-reattività tra i due ceppi virali e che deve essere tenuta in considerazione al momento della loro identificazione siero-virologica. Il gene pol (polimerase) codifica per la trascrittasi inversa, l’RNasi e l’integrasi, le quali derivano da un unico precursore (poliproteina). Il gene env (envelope) codifica una poliproteina di circa 488 aminoacidi, la quale, in seguito a scissione proteolitica dà origine a due proteine glicosilate (gp46 e gp21), la cui funzione è quella di legarsi ai recettori cellulari GLUT-1 (glucose transporter 13) e NRP 1 (neuropilina4), e proteoglicani eparan-solfati (HSPG, heparan sulfate proteoglycans5), innescando così l’infezione della cellula bersaglio e il ciclo di replicazione virale. Le proteine dell’envelope sono altamente immunogene, in grado quindi di provocare una risposta anticorpale nel soggetto e potrebbero essere oggetto di studio per lo sviluppo di un potenziale vaccino. Le open reading frame sono 4: ORF I, II, III e IV. Il genoma di HTLV presenta infatti alcune sequenze fiancheggianti env con caratteri ORF (opening reading frame o sequenza trascrivibile), di cui una, posizionata tra il gene env e l’LTR in posizione 3′, denominata sequenza pX. La parte prossimale di pX codifica per alcune proteine ausiliarie, la cui funzione risulta al momento ancora non del tutto chiarita, mentre la parte distale della stessa regione codifica per le due proteine regolatorie: Tax (p40) e Rex (p27). ORF I codifica due proteine di 12 kDa e di 8 kDa (p12 e p8), altamente conservate, in grado di alterare il rilascio di calcio dalle cellule infette, di attivare la trascrizione di fattori nucleari e il recettore per IL-2. p12 si localizza a livello del reticolo endoplasmatico e nell’apparato del Golgi. È necessaria per la replicazione del virus, attiva la proliferazione cellulare e contribuisce all’infettività virale. ORF II codifica due proteine, p13 e p30, entrambe essenziali per la propagazione del virus in vivo. p30 si localizza nel nucleo e nel nucleolo e agisce come fattore di regolazione negativo della replicazione virale, riducendo il livello di p40 (tax) e p27 (rex) nelle cellule infette, agendo a livello post-trascrizionale. p30, infatti, è in grado di modulare la trascrizione di fattori cellulari e, legandosi ai fattori trascrizionali costituiti I trasportatori GLUT appartengono a una famiglia di proteine di membrana che consentono la diffusione facilitata del glucosio. Sembra da alcuni studi recenti che durante l’infezione in vivo, HTLV all’inizio sia in grado di legarsi a numerose cellule che presentano il recettore GLUT-1, ma che la maggior parte di queste cellule, dipendenti dall’attività GLUT, vengano rapidamente eliminate. Al contrario, i linfociti T che hanno un tasso metabolico basso e che sono meno dipendenti dall’uptake di glucosio sarebbero in grado di sopravvivere all’infezione. 4 Proteina di transmembrana altamente conservata, espressa nelle cellule T, nelle cellule dendritiche e nelle cellule endoteliali (target principali di HTLV). 5 Proteine della matrice extracellulare. 3

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dalla proteina p300, è in grado di favorire la trascrizione del DNA. Le proteine codificate da ORF II sembrano essere indispensabili per l’instaurazione della persistenza virale. ORF III codifica 2 proteine rispettivamente di 27 kDa e 21 kDa (p27, p21). La funzione reale di quest’ultima proteina è ancora in parte sconosciuta, anche se la dimostrazione della sua presenza in cellule da pazienti con ATL suggerisce un ruolo importante nella patogenesi dell’infezione. p27Rex è una fosfoproteina localizzata fondamentalmente nel nucleolo delle cellule infette. Rappresenta un regolatore post-trascrizionale dell’espressione virale ed è in grado di aumentare l’esporto nucleare dei geni virali strutturali (env, gag e pol) indispensabili per la produzione di virus infettante. Aumenta l’espressione degli RNA messaggeri (genomici e spliced). Regola non solo il trasporto degli RNA messaggeri dal nucleo al citoplasma (proteina “shuttle”) ma ne protegge l’“elaborazione” (splicing) ad opera di appositi organuli nucleari (spliceosomi), aumentandone la stabilità e consentendone l’asportazione dal nucleo. ORF IV codifica p40 (p40Tax), una fosfoproteina con funzioni pleiotropiche, in grado di:

• aumentare la trascrizione virale, promuovendo l’interazione di fattori cellulari con alcune sequenze enhancer localizzate a livello dell’LTR 5′;

• aumentare la trascrizione di vari geni cellulari come linfochine, recettori per lin• • • • •

fochine, molecole di superficie cellulare e proto-oncogeni, essendo in grado di legarsi ai due co-attivatori della trascrizione (CBP/300 e P300/CBP); legarsi a numerosi membri della famiglia NF-κB, giocando un ruolo di fondamentale importanza nella crescita e nella sopravvivenza delle cellule T; attivare l’oncogene cellulare c-Fos e l’antigene 1-Fos correlato (Fra-1); facilitare la trascrizione interagendo con il complesso polimerasico (TATA boxbinding protein); stimolare l’attività trascrizionale di AP-1, fattore coinvolto nell’attivazione di IL-2; reprimere TGF-β, inibitore della proliferazione cellulare.

Un ultimo gene è rappresentato da HBZ, che viene codificato da un gene regolato dall’LTR posto nella regione 3′ del genoma. Questo gene viene codificato dal filamento negativo del genoma, quindi è in antisenso rispetto gli altri geni codificati da HTLV. HBZ ha diverse funzioni sulla cellula T, infatti può influenzare positivamente la proliferazione regolando diversi fattori di trascrizione come NF-κB, TGF-β1 e aumentando la trascrizione della telomerase reverse transcriptase (hTERT), la cui attivazione è stata associata all’oncogenesi ALT.

Replicazione HTLV-1 infetta preferenzialmente cellule T CD4+ e, anche se con minore efficienza, cellule T CD8+, cellule dendritiche e monociti. HTLV-2 infetta i linfociti T CD8+. Un’infezione efficace di cellule T CD4+ richiede un contatto cellula-cellula, attraverso giunzioni o canali cellulari. Al contrario, le cellule dendritiche possono essere infettate anche da virus libero. In generale HTLV si replica seguendo lo schema di base di tutti i retrovirus (vedi replicazione di HIV-1/2). I recettori cellulari sono rappresentati da:

• GLUT-1, uno dei trasportatori di glucosio più diffusi presente nelle cellule dei

vertebrati, uomo compreso. La presenza di GLUT-1 è riscontrabile in numerosi tipi cellulari (cellule endoteliali, periciti, neuroni, cellule del muscolo scheletrico e del cuore); • neurolipina 1, proteina di transmembrana altamente conservata, espressa nelle cellule T, dendritiche ed cellule endoteliali (target principali di HTLV); • proteoglicani della membrana a eparan-solfato (HSPG), presenti nella matrice extracellulare.

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In seguito al legame con i recettori cellulari, HTLV entra e infetta le cellule target. L’RNA genomico di HTLV sintetizza, ad opera della trascrittasi inversa (RT), una molecola complementare di DNA monocatenario (provirus), che migra nel nucleo e si integra nel genoma della cellula ospite, dove può rimanere latente per lunghi periodi di tempo. Una volta integrato, il provirus utilizza l’apparato trascrittivo della cellula ospite che provvede alla formazione di RNA messaggeri, parte dei quali verranno tradotti nelle specifiche proteine virali nel citoplasma [questa fase è fortemente influenzata dalla presenza di Tax (trans-attivatore della trascrizione) e da Rex, in grado di aumentare l’espressione delle proteine strutturali e delle proteine enzimatiche promuovendo la traslocazione degli RNA “unspliced” e degli RNA “single-spliced” dal nucleo al citoplasma] e parte andranno a formare il genoma della progenie virale. Avvenuto l’assemblaggio del virione, la progenie virale fuoriesce dalla cellula mediante gemmazione (budding). La diffusione successiva dei virioni liberi sembra comunque avvenire efficacemente solo attraverso un complesso processo di adesione cellulare. Gli HTLV sono pertanto dei virus “scarsamente replicativi” e in vivo l’amplificazione dell’infezione sembra fondamentalmente avvenire mediante espansione oligoclonale delle cellule infette (sinapsi virale).

Variabilità genetica HTLV-1 e HTLV-2 insieme a STLV sono caratterizzati, a differenza di altri virus a RNA come HIV-1 e HIV-2 (fast evolving retrovirus a causa dell’alto tasso di replicazione e alla mancanza di meccanismi di controllo idonei a correggere gli errori della trascrittasi inversa), da un basso livello di variabilità genomica. HTLV è quindi un virus alquanto stabile da un punto di vista genetico. Presenta infatti un basso livello di variabilità tra gli isolati. Le sequenze nucleotidiche degli isolati virali provenienti dal Giappone, dall’India dell’Est e dallo Zaire, dalla Papua Nuova Guinea, dalle isole Solomon, dalla Melanesia e dagli aborigeni australiani hanno messo in evidenza un elevato livello di omologia (variabile tra il 93 e il 97%). Inoltre, il carattere endemico di HTLV-1 e 2 in alcune popolazioni – isolate da un punto di vista geografico – suggerisce la possibilità che questi virus abbiano infettato l’uomo diverse migliaia di anni fa6. La pur estremamente contenuta eterogeneità (tra il 3 e il 7%) di questi virus, come testimoniato da numerose analisi filogenetiche, si manifesta nella presenza di alcuni sottotipi caratteristici di HTLV-1 (1a, 1b, 1c e 1d) e di almeno due sottotipi di HTLV-2 (2a e 2b) (tab. 62.4). Nell’ambito dei diversi meccanismi ipotizzati (lento livello di replicazione, tassi di mutazione bassi dovuti alla fedeltà della RT, meccanismo peculiare di propagazione del virus) per spiegare la stabilità del genoma, la capacità di questi retrovirus di utilizzare un meccanismo di propagazione cellula-cellula7 ha acquisito sempre maggiore credibilità in questi ultimi anni. Il meccanismo di espansione clonale delle cellule infette sarebbe pertanto da mettere in relazione con il lungo periodo di latenza che caratterizza ATL, con i contenuti livelli del carico virale oltre che con il ridotto livello di variabilità intra-individuale. A conferma di ciò il ritrovamento di infezione nelle popolazioni di pigmei dello Zaire (popolazione Efe Mbuti), i quali vivono tutt’oggi in estremo isolamento e che sono considerati i discendenti dei capostipiti africani. Tenendo in considerazione che la separazione tra individui provenienti dal ceppo africano sarebbe avvenuta tra i 75 000 e i 287 000 anni fa si potrebbe supporre che le infezioni accertate in queste popolazioni potrebbero essere il risultato di una trasmissione inter-specie (dalla scimmia all’uomo mediante il cosiddetto jumping dai primati all’uomo o trasmissione inter-specie) o di origine estremamente antica. Il concetto di stabilità deriva, inoltre, da numerosi studi che hanno evidenziato minime modificazioni genetiche sia negli isolati di HTLV dalla stessa persona seguita per diversi anni, sia tra ceppi isolati da persone diverse senza alcun legame tra loro. 7 Dopo una prima fase di replicazione mediante l’utilizzo della trascrittasi inversa, tutte le proliferazioni successive avvengono mediante espansione clonale delle cellule T infette. 6

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Capitolo 62 • Retroviridae: classificazione e HTLV

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Tabella 62.4 Sottotipi di HTLV-1 e HTLV-2.

HTLV-1

HTLV-2

HTLV-1a: cosmopolita HTLV-1b: Africa Centrale HTLV-1c: Melanesia, Nuova Guinea, Australia HTLV-1d: Camerun e Gabon

HTLV-2: Sud-Est Europa HTLV-2a: Europa del Nord (soggetti co-infetti con HIV) HTLV-2b: Florida, Panama, Colombia, Argentina, Paraguay, Cile

Epidemiologia HTLV-1 è endemico nelle zone meridionali del Giappone. È presente, inoltre, in alcune aree dell’Asia, dell’Africa equatoriale e dell’America Centro-meridionale. Il virus è stato inoltre identificato anche in alcune aree degli Stati Uniti e in parte nel Nord America e in Europa tra le popolazioni migratorie provenienti da zone endemiche. La distribuzione dei casi di ATL rispecchia in realtà quella dei casi di HTLV-1. La più alta incidenza di ATL (3/100 000 per anno) si trova nel Giappone del Sud e nei Caraibi, zone caratterizzate da un alto livello di sieroprevalenza (fino al 35% in Giappone). Il rischio di sviluppare ATL nei portatori di HTLV-1 rimane contenuto e variabile tra l’1 e il 4,5%. La prevalenza di HTLV-2 è meno caratterizzata rispetto a quella di HTLV-1, anche se la sua distribuzione sembra concentrata fondamentalmente in America Centrale e Meridionale, in Camerun e nello Zaire. La presenza di anticorpi è stata anche messa in evidenza in soggetti che abusano di droghe per via endovenosa negli Stati Uniti, in Europa e in Vietnam.

Trasmissione HTLV e HIV hanno modalità di trasmissione molto simili, essendo trasmessi da prodotti ematici, liquido spermatico e latte materno. La trasmissione da HTLV richiede contatti prolungati in quanto è necessario il trasferimento di cellule infette. La trasmissione verticale avviene nel 15-25% dei neonati nati da madre infetta e il rischio di infezione aumenta con il prolungarsi (superiore a sei mesi) dei tempi di allattamento al seno. Inoltre, c’è anche un modesto ma non trascurabile rischio ( 99%) rimangono asintomatici durante tutto il corso della vita. La presenza del segno di Babinski è considerata patologica ed è correlata alla presenza di disfunzioni del tratto piramidale. È una risposta riflessa che consiste nella flessione dorsale dell’alluce con o senza la contemporanea apertura a ventaglio delle altre dita e retrazione della gamba, dopo stimolazione plantare del piede. 9 Alcuni studi hanno messo in evidenza la presenza del provirus (HTLV-1 DNA) in soggetti sierologicamente negativi. 8

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Capitolo 62 • Retroviridae: classificazione e HTLV

Diagnosi La diagnosi si basa fondamentalmente sulla ricerca di anticorpi nei confronti del virus, mediante l’utilizzo di reazioni immunoenzimatiche (ELISA e immunoblotting10). In alcuni casi specifici (ad es. in presenza di evidenze cliniche non supportate dai dati sierologici) si può ricorrere alla ricerca di sequenze virali. Esistendo un alto grado di omologia tra HTLV-1 e 2, i test sierologici non sempre sono in grado di distinguere tra HTLV-1 e 2 e pertanto è necessario ricorrere a test di biologia molecolare che permettano l’amplificazione di specifiche e peculiari sequenze nucleotidiche nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PCR). La reazione polimerasica a catena può essere inoltre usata per evidenziare la presenza del genoma virale (DNA provirale) nel liquor e/o nei tessuti tumorali provenienti da pazienti con ATL.

Terapia e vaccini Dal momento che nessun trattamento farmacologico è risultato al momento efficace in una percentuale significativa per il trattamento delle forme aggressive di ATL, lo sviluppo di un vaccino risulterebbe cruciale. Le terapie in uso o suggerite nei confronti dei soggetti con ATL HTLV-1-positivi, certificati dalla presenza di anticorpi e dalla presenza del DNA provirale, prevedono trattamenti combinati con AZT e interferone alfa, il cui grado di successo sembra dipendere dalla tipologia di ATL. Nonostante la stabilità del genoma e la presenza accertata di anticorpi neutralizzanti nei soggetti sieropositivi (fattori fondamentali per disegnare un vaccino), la mancanza di un modello animale appropriato rappresenta ad oggi un ostacolo difficilmente superabile. Sono al momento allo studio vaccini che utilizzino frazioni di gp46 e di p40tax sulle scimmie.

Bibliografia essenziale Gallo, R.C. (2005), «History of the discoveries of the first human retroviruses: HTLV-1 and HTLV-2», Oncogene, 24:5926-30. Gonçalves, D.U. et al. (2010), «Epidemiology, treatment, and prevention of human T-cell leukemia virus type 1-associated diseases», Clin Microbiol Rev., 23:577-89. Gross, C., Thoma-Kress A.K. (2016), «Molecular Mechanisms of HTLV-1 Cell-to-Cell Transmission», Viruses, Mar 9;8(3):74. Jin, Q. et al. (2010), «Alternate receptor usage of neuropilin-1 and glucose transporter protein 1 by the human T cell leukemia virus type 1», Virology, 396:203-12. Longo, D., Fauci, A.S., «The Human Retroviruses», in Harrison’s, Infectious Diseases, 17a ed., pp. 785-791. Manel, N. et al. (2005), «M HTLV-1 tropism and envelope receptor», Oncogene, 24:6016-25. Nicot, C. et al. (2005), «Human T-cell leukemia /lymphoma virus type 1 nonstructural genes and their functions», Oncogene, 24:6026-34. Panfil, A.R. et al. (2016), «Human T-cell leukemia virus-associated malignancy», Curr Opin Virol., 20:40-46. Review. Van Prooyen, N. et al. (2010), «Hijacking the T-cell communication network by the human T-cell leukemia/lymphoma virus type 1 (HTLV-1) p12 and p8 proteins», Mol Aspects Med., 31:333-43. Yoshida, M. (2005), «Discovery of HTLV-1, the first human retrovirus, its unique regulatory mechanisms, and insights into pathogenesis», Oncogene, 2:5931-7. I sieri ripetutamente reattivi ai saggi immunoenzimatici di primo livello (ELISA) dovranno essere confermati con IB. La sieropositività è stabilita quando sono presenti anticorpi nei confronti di proteine codificate da gag (p19, p24) e da env (gp46 e gp21). 10

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Capitolo

63 • Classificazione, struttura e funzione • Ciclo replicativo • Patogenesi e manifestazioni cliniche • Diagnosi ed epidemiologia • Terapia e farmaco-resistenza

Lentivirus di interesse umano: HIV-1 e HIV-2 I lentivirus comprendono retrovirus responsabili di una varietà di malattie neurologiche e immunologiche, con patologie che si manifestano dopo un lungo periodo di incubazione (da cui il nome, “virus lenti”). Spesso sono in grado di infettare le cellule linfoidi preposte alla risposta immune, con una particolare propensione a replicare nei macrofagi. I lentivirus dei non primati comprendono numerosi virus che provocano delle infezioni permanenti nelle varie specie animali colpite. Questi virus causano delle malattie croniche debilitanti e, talvolta, immunodeficienza. I membri prototipi di questa famiglia comprendono il maedi visna virus (MVV), che provoca sintomi neurologici o polmonite nelle pecore dell’Islanda, il virus dell’anemia infettiva dei cavalli (EIAV) e il virus dell’artrite-encefalite delle capre (CAEV). Questi virus furono classificati come lentivirus per l’andamento dell’infezione a carattere persistente e a lento sviluppo della malattia e soltanto in seguito furono identificati come retrovirus. I virus isolati più recentemente includono i virus dell’immunodeficienza umana (HIV) e della scimmia (SIV), e quelli dell’immunodeficienza del felino (FIV) e del bovino (BIV). I lentivirus patogeni per l’uomo sono rappresentati dai virus responsabili della sindrome da immunodeficienza acquisita (acquired immunodeficiency syndrome o AIDS) e comprendono i virus denominati HIV (human immunodeficiency virus). Ci sono due tipi distinti di virus umani dell’AIDS, HIV-1 e HIV-2, che sono distinguibili sulla base della loro organizzazione genetica e delle relazioni filogenetiche con altri lentivirus dei primati.

63.1 - Classificazione L’HIV mostra una notevole variabilità genetica e fenotipica che si origina come conseguenza di mutazioni puntiformi (antigenic drift), riarrangiamenti o ricombinazioni genetiche. La presenza di diversi gruppi e di diversi sottotipi di virus è stata accertata mediante l’analisi delle sequenze nucleotidiche del genoma dei vari virus, che ha dimostrato la notevole variabilità di alcuni tratti genomici e ha permesso la classificazione dei diversi virus circolanti nella specie umana. Mediante queste analisi, a tutt’oggi si conoscono due sierotipi di HIV, HIV-1 e HIV-2, che sono stati ulteriormente classificati sulla base di criteri filogenetici. Dati recenti indicano che HIV-1 comprende tre distinti gruppi di virus: il gruppo M (Main o Major), il gruppo N (New) e il gruppo O (Outlier). I gruppi N e O rimangono largamente confinati a una parte dell’Africa Centro-Occidentale (Gabon e Camerun), sebbene ci siano sporadiche infezioni attraverso contatti con persone di quelle regioni. Il gruppo M è responsabile della grande maggioranza delle infezioni nel mondo e consiste di 11 sottotipi (clades) designati con le lettere da A a K, molti dei quali presentano una prevalente associazione con particolari aree geografiche: il sottotipo B predomina nei Paesi industrializzati, in America Latina e nei Caraibi; i sottotipi A e D sono più comuni nell’Africa centrale; il sottotipo C è causa della maggior parte delle infezioni

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Capitolo 63 • Lentivirus di interesse umano: HIV-1 e HIV-2

nell’Africa meridionale, in quella orientale e in India. All’interno di un dato sottotipo, gli anticorpi specifici per gli isolati virali provenienti da un paziente tipicamente non riconoscono isolati da altri pazienti. Sequenze di aminoacidi della glicoproteina virale dell’envelope mostrano fino al 25-35% di divergenza tra differenti sottotipi e fino al 20% di divergenza all’interno di un dato sottotipo. Nel corso delle epidemie, a causa di frequenti superinfezioni, ceppi di HIV-1 possono ricombinare e formare virus mosaico, alcuni dei quali, chiamati forme ricombinanti circolanti (circulating recombinant forms, CRF), possono diventare predominanti dal punto di vista epidemiologico a causa della loro maggiore capacità replicativa e/o per una maggiore capacità di adattamento all’ospite. I maggiori CRF sono costituiti da CRF02_AG, prevalente in Africa Occidentale, CRF01_AE, che predomina in Asia sud-orientale, e CRF07_BC e 08_BC, prevalenti in Cina. Similmente ad HIV-1, i ceppi HIV-2 comprendono 6 distinte linee filogenetiche, denominate con le lettere da A a F. La variabilità genetica tra i ceppi HIV-2 è comparabile a quella di HIV-1 e può arrivare fino a un 25% di divergenza nei geni gag, pol ed env. HIV-1 e HIV-2 differiscono fra loro per circa il 55-60% della sequenza genetica. Nonostante l’elevata divergenza nucleotidica, l’organizzazione del genoma è quasi identica e differisce soltanto in un gene ausiliare: HIV-1 contiene il gene vpu, mentre HIV-2 contiene vpx. Sia HIV-1 sia HIV-2 causano l’AIDS. HIV-1 è la causa delle attuali pandemie nel mondo, mentre HIV-2, meno trasmissibile, è geograficamente limitato all’Africa occidentale. Entrambi i virus usano il recettore CD4 e i corecettori CCR5 e CXCR4 per poter entrare nelle cellule. Confrontata con HIV-1, l’infezione con HIV-2 è associata a un periodo di latenza più lungo, una più lenta progressione della malattia, una bassa carica virale e una ridotta velocità di trasmissione. L’uomo non rappresenta l’ospite naturale né di HIV-1 né di HIV-2. Sembra invece che questi virus siano entrati nella popolazione umana come il risultato di una zoonosi. È stato dimostrato che i ceppi filogeneticamente più simili ad HIV infettano altri primati: essi sono rappresentati dai virus dell’immunodeficienza della scimmia (SIV), anche se è noto che questi virus normalmente non causano malattia nel loro ospite naturale. Si conosce l’esistenza di almeno 18 distinti lentivirus che in natura infettano differenti primati, tutti presenti nell’Africa subsahariana. HIV-1 è filogeneticamente vicino a SIVcpz, un virus commensale degli scimpanzé (e pertanto innocuo nel suo ospite naturale) e probabilmente originato come il risultato di un singolo evento di trasmissione dagli scimpanzé agli uomini. HIV-2 è strettamente correlato a SIVmac, l’agente eziologico dell’AIDS della scimmia, e a SIVsm, un virus commensale (anch’esso innocuo) della scimmia Sooty Mangabey (Africa occidentale) (tab. 63.1).

63.2 - Struttura e morfologia HIV ha una forma sferica con un diametro di circa 110 nm, rivestito da un doppio strato lipidico, o envelope, che circonda un capside a forma di tronco di cono (fig. 63.1). Sull’envelope sono ancorate le proteine virus-specifiche, rappresentate dalla gp120 (SU), la proteina di superficie con la funzione di antirecettore, e la gp41 (TM), una proteina transmembrana con attività fusogena. La superficie dell’involucro presenta numerose protuberanze (peplomeri o spike); ogni peplomero è costituito da 4 eterodimeri contenenti ciascuno una molecola di SU che risulta ancorata con la porzione COOH– all’estremo NH2 terminale della proteina TM. Nell’envelope vengono inserite alcune proteine cellulari (tra cui gli antigeni di istocompatibilità, MHC), acquisite dai virioni nel processo di gemmazione dalla membrana nucleare. Non è ancora stato chiarito se queste proteine cellulari assumono un ruolo nella replicazione virale e/o nella patogenesi.

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Tabella 63.1 Membri rappresentativi dei lentivirus.

Origine degli isolamenti

Virus

Malattia

Non primati Pecora Capra Cavallo Bovini Gatto

Maedi visna Artrite, encefalite delle capre Anemia infettiva equina Virus dell’immunodeficienza bovina Virus dell’immunodeficienza felina

Polmonite, SNC Artrite, encefalite Anemia

Primati non umani Scimpanzé Mangabey scura Macachi Scimmia verde africana Scimmia di Sykes Mandrillo Scimmia hoest

SIVcpz SIVsm SIVmac SIVagm SIVsyk SIVmnd SIVhoest

Nessuno sviluppo di immunodeficienza negli ospiti naturali del virus Primati africani rappresentano un grande reservoir per i lentivirus*

HIV-1 (SIVcpz)** HIV-2 (SIVsm)***

AIDS

Uomo

AIDS felina

* Si possono avere infezioni incidentali dei primati con virus i cui ospiti naturali sono membri di differenti specie di primati. ** HIV-1 è strettamente correlato a SIVcpz isolato dalla sottospecie di scimpanzé Pan Troglodytes troglodytes. *** HIV-2 è strettamente correlato a SIVsm isolato da Sooty Mangabey.

Associata alla faccia interna del doppio strato fosfolipidico si osserva una struttura proteica di matrice costituita dalla proteina p17 (MA). Studi approfonditi mostrano una disposizione regolare della proteina p17 a formare un guscio di spessore di 7 nm, che rappresenta un ispessimento interno del doppio strato fosfolipidico, analogo a quello formato dalla proteina di matrice di quasi tutti i virus provvisti di envelope. In ciascuna molecola p17 viene attuata la miristilazione, una modifica post-traduzionale che consiste nel legame di molecole dell’acido miristico a residui di glicina posti nella porzione N-terminale di tali proteine. La miristilazione sembra assumere un ruolo fondamentale nel legame della p17 alla faccia interna dell’involucro e nel garantire un regolare montaggio delle glicoproteine dell’envelope durante le fasi tardive della replicazione. Il capside, come già detto, ha una struttura a tronco di cono, la cui base maggiore ha un diametro di circa 60 nm, mentre quella minore, legata alla proteina di matrice, ha un diametro di 20 nm. Esso è costituito dalla proteina p24 (CA), che è l’antigene virale più facilmente rilevabile con metodi diagnostici di tipo immunoenzimatico (ELISA). In ogni particella virale matura, il capside contiene i componenti necessari alla replicazione del virus: due copie identiche di RNA singola catena a polarità positiva (RNA+), molecole di RNA transfer (tRNA), che vengono utilizzate con la funzione di innesco (primer) per la trascrittasi inversa, e gli enzimi trascrittasi inversa (RT), integrasi (IN), proteasi (PR), le cui funzioni si svolgono rispettivamente nella replicazione del genoma virale, nell’integrazione nel DNA della cellula ospite e nella maturazione dei virioni (fig. 63.1). Inoltre, strettamente associate al nucleocapside, ci sono le proteine p7 e p9, le cui funzioni non sono ancora note.

Genoma e proteine Il genoma di HIV (circa 9,2 kb) è presente nel virione sotto forma di due copie identiche di RNA a singola catena a polarità positiva. Le due molecole sono poliadenilate alle estremità 3′, una modificazione tipica della maggior parte degli mRNA eucariotici. Si tratta di una modifica post-trascrizionale che avviene a opera dei sistemi presenti nella cellula ospite. Alle estremità 5′ durante la sintesi viene applicato un gruppo cap dal sistema di trascrizione cellulare. I due genomi sono mantenuti insieme mediante legami idrogeno tra sequenze complementari poste vicino all’estremità 5′ di ciascuna molecola.

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5'LTR

gag

vif

tat

pol

p17 MA

p24 CA

p2

3'LTR

rev

p55

nef

env-SU

p7 NC

p1

vpr

p6 p11 PR

p66/p51 RT

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TM

vpu

p32 gp120 SU

gp41 TM

Vif, Vpr, Nef e p7 Proteasi gp120 Glicoproteina antirecettore gp41 Glicoproteina di transmembrana

Integrasi

Trascrittasi inversa

Membrana lipidica

Capside

Nucleocapside

Matrice

Genoma virale RNA Figura 63.1 Struttura del virione. La parte superiore della figura mostra il genoma di HIV-1 e le proteine corrispondenti ai geni gag, pol ed env. La parte inferiore rappresenta la struttura schematica del virus.

Tutte le molecole di RNA presentano alle due estremità sequenze identiche denominate R (Repeat) che hanno un ruolo importante durante la retrotrascrizione. A fianco di ciascun segmento R, nella parte interna, si trovano sequenze caratteristiche U (unica) denominate U5 e U3, situate rispettivamente alle estremità 5′ e 3′ (fig. 63.2). Durante la sintesi del DNA provirale, le sequenze U5 e U3 sono retrotrascritte ad ambedue gli estremi del DNA nascente, dando origine a molecole più lunghe rispetto all’RNA genomico. Le sequenze identiche U3-R-U5 presenti a ogni estremo del DNA provirale formano le cosiddette LTR (Long Terminal Repeat), che rappresentano sequenze non codificanti e altamente conservate, contenenti informazioni essenziali per l’inserzione del DNA virale in quello della cellula ospite e per la trascrizione del genoma (fig. 63.2). La regione U3 della LTR all’estremità 5′ contiene un numero di segnali necessari alla trascrizione del DNA provirale. In particolare, nella regione U3 si trovano due brevi segnali chiamati TATA box e CAT box. La sequenza TATA box rappresenta il promotore per la trascrizione, mentre le CAT box sono sequenze coinvolte nella regolazione della trascrizione. Le regioni R e U5 dell’estremità 3′ contengono invece i segnali di fine trascrizione. Tra le sequenze adiacenti alle LTR si trova all’estremità

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Figura 63.2 Organizzazione dell’RNA di HIV-1 e del DNA provirale integrato nel genoma della cellula ospite.

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R

U5

U3

RNA virale

R

5'

3' gag

U3

R

U5

env

DNA provirale integrato gag

LTR

pol

pol

U3

R

U5

env LTR

DNA cellulare

5′ la sequenza PBS (Primer Binding Site), che è perfettamente complementare ai nucleotidi terminali dell’estremità 3′ del tRNA che funziona da primer. Come tutti i retrovirus, il genoma di HIV possiede tre geni strutturali essenziali per la replicazione, denominati gag (group-specific antigen), pol (polymerase) ed env (envelope) e organizzati nel genoma nell’ordine 5′-gag-pol-env-3′ (fig. 63.2). HIV, inoltre, comprende almeno altri sei geni i cui prodotti hanno funzioni regolatorie o accessorie nel ciclo di replicazione virale. Si tratta del lentivirus (e in genere retrovirus) più complesso da un punto di vista di organizzazione genomica e di codifica di proteine. I geni gag, pol ed env sono tradotti in poliproteine che sono poi scisse nelle proteine funzionali definitive. È da notare che i geni gag-pol sono tradotti inizialmente in un’unica poliproteina p160, che viene poi scissa nei precursori delle proteine codificate da gag e negli enzimi codificati da pol. Il precursore proteico del gene gag, il polipeptide p55, a sua volta viene scisso attraverso meccanismi di proteolisi nelle tre proteine strutturali p17, p24 e p15. Il polipeptide p17 forma la proteina di matrice (MA); la proteina p24 (CA) si ritrova come costituente principale del capside e costituisce uno degli antigeni più rappresentati; la p15 viene invece scissa ulteriormente nei polipeptidi p7 e p6 che possono stabilire legami con l’RNA (NC). Dal precursore del gene pol si originano, sempre per scissione successiva, le tre proteine enzimatiche: la trascrittasi inversa/ribonucleasi H (RT/RNasi H), la proteasi (PR) e infine un’endonucleasi-integrasi (IN). La RT è un eterodimero composto di due polipeptidi, p66 e p51. L’enzima è una DNA polimerasi-RNA dipendente che sintetizza DNA a partire da uno stampo di RNA. La sua attività dipende dalla presenza di ioni Mg++ e richiede come primer una regione formata da un doppio filamento di RNA. Il primer è costituito da uno specifico tRNAlys che si associa al genoma durante il montaggio del virione ed è complementare a una sequenza PBS localizzata in prossimità dell’estremità 5′ dell’RNA. Il prodotto della trascrizione è un ibrido RNA/DNA nel quale la molecola di RNA viene degradata mediante l’azione ribonucleasica dell’RNasi H. Viene così permessa la sintesi di un filamento di DNA complementare e la costituzione del DNA bicatenario (DNA provirale). Inoltre, la RNasi H opera il distacco del tRNA dal filamento neoformato di DNA. Le subunità p51 e p66 interagiscono in modo da produrre un eterodimero con una struttura asimmetrica, situazione alquanto inusuale. La struttura terziaria del dominio RT (p66) nell’eterodimero può essere assimilata a una mano destra e quindi i sottodomini sono identificati come le dita, il palmo e il pollice. Il sito catalitico si trova in una fenditura del palmo nella subunità p66 e contiene una sequenza caratteristica che è altamente conservata nelle RT retrovirali così come in altre DNA polimerasi (fig. 63.3). La RT gioca un ruolo fondamentale nella generazione della diversità dei retrovirus, a causa degli errori prodotti durante la retrotrascrizione, con meccanismi molto simili a quelli descritti per le polimerasi in generale. Essa ha un tasso di errore durante la

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retrotrascrizione di 1 su 2000-10 000 basi; considerando il numero di nucleotidi del genoma di HIV, si può dire che ogni nuovo genoma virale contiene una mutazione. Stante questa caratteristica, la RT è responsabile sia della variabilità genetica dei ceppi di virus circolanti, sia della produzione di sequenze virali differenti nell’individuo infettato. L’accumulo di varianti virali (designate come quasispecie) nell’ospite è il frutto quindi di due fattori: uno legato all’elevato numero di quasispecie generate durante la fase di retrotrascrizione, l’altro dovuto a una pressione selettiva da parte di risposte immuni antivirali e di fattori come tropismo cellulare e citopaticità del virus. Va anche notato che gli errori della retrotrascrizione rappresentano una sorgente di varianti resistenti ai farmaci antivirali, fattore questo importantissimo nel controllo dell’infezione da HIV-1. La PR è una proteina di 99 aminoacidi ed è responsabile della scissione delle poliproteine codificate dai geni gag, pol e parte di env. Nelle cellule infettate la forma matura e attiva è costituita da un dimero, ottenuto mediante un taglio autocatalitico. Dopo il suo rilascio in forma attiva la proteasi raggiunge gli altri siti bersaglio delle poliproteine virali. Le proteasi retrovirali sono assimilate alle proteasi aspartiche cellulari poiché la caratteristica sequenza Asp-Thr-Ser-Gly è conservata nel sito attivo di entrambi gli enzimi, virale e cellulare. Esperimenti di mutagenesi specifici che inattivano la PR hanno dimostrato che questo enzima è indispensabile nella fase di maturazione del ciclo replicativo virale, in quanto virus contenenti poliproteine non tagliate risultano non infettanti. La conoscenza della struttura terziaria della PR ha permesso di identificare composti che possono inibirne l’attività enzimatica. Alcuni di tali composti sono stati approvati per l’uso nel trattamento dei pazienti infettati da HIV e rientrano nella classe di farmaci chiamati inibitori della proteasi. L’effetto di tali composti si esplica producendo virioni non maturi e quindi non infettanti. L’enzima endonucleasi-integrasi (IN) è una proteina di 288 aminoacidi, codificata dalla porzione 3′ del gene pol. IN è coinvolta nell’integrazione del genoma virale in quello della cellula ospite e possiede sia l’attività di taglio sia quella di congiunzione. Due monomeri di IN interagiscono per produrre un dimero e sembra che la dimerizzazione sia essenziale non solo per l’integrazione ma anche per l’assemblaggio dell’enzima nelle particelle mature. Nell’enzima IN si distinguono tre distinti domini funzionali:

• il dominio N-terminale (aminoacidi 1-50) sembra essere coinvolto nella multimerizzazione della proteina e permette il legame con lo zinco richiesto per un’attività enzimatica ottimale; Figura 63.3 Struttura della trascrittasi inversa. La trascrittasi inversa è un eterodimero composto dai due polipeptidi p51 e p66 che interagiscono formando una struttura asimmetrica che ricorda una mano destra. Il sito catalitico si trova in una fenditura del palmo ed è rappresentato da una sequenza costante nei diversi retrovirus.

p66 5'

Dita Pollice

Catena stampo

Palmo Connessione

Pol Dita

RH

RNasi H

5' Pollice Connessione

p51

Palmo

Catena primer

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• il dominio centrale si estende tra gli aminoacidi 51-212 e contiene una caratteri-

stica triade di aminoacidi acidici (acido aspartico in posizione 64, acido aspartico in posizione 116, acido glutamico in posizione 152); tale triade rappresenta il sito attivo ed è altamente conservata tra le IN dei retrovirus; • il dominio C-terminale (aminoacidi 213-288) è il meno conservato e sembra giocare un ruolo nel legame con il DNA della cellula ospite. La IN è stata da tempo identificata come un interessante bersaglio per farmaci antiretrovirali, sia perché la sua inibizione permette di bloccare una fase critica del ciclo replicativo di HIV sia perché possiede un sito attivo altamente conservato. Nonostante ciò lo sviluppo di inibitori della IN è stato lento e ha richiesto circa dieci anni. Il gene env codifica per un precursore altamente glicosilato, la gp160. Questa proteina è formata da 850 aminoacidi e viene scissa in due glicoproteine a più basso peso molecolare: la proteina gp120 (detta subunità SU), che si posiziona sull’envelope virale, e la proteina gp41 (subunità TM), che è la proteina transmembranaria. Nella forma matura la glicoproteina di env è un eterodimero costituito dalle subunità gp120 e gp41 mantenute insieme da legami non covalenti. Le glicoproteine del gene env si legano al recettore CD4 presente sulla membrana plasmatica dei linfociti T CD4+, monociti, macrofagi, e cellule dendritiche e sono quindi responsabili delle prime fasi del ciclo replicativo di HIV-1, permettendo l’attacco dei virioni alle cellule e facilitandone così l’entrata. In particolare, la gp120 svolge un ruolo prioritario nel riconoscimento delle cellule CD4+, mentre la gp41 è principalmente coinvolta nella fusione del virus con la cellula ospite. La gp120 contiene sia i domini responsabili per l’attacco del virus al CD4 e ai corecettori, sia i maggiori determinanti antigenici che inducono la formazione di anticorpi neutralizzanti; determina inoltre il tropismo per i linfociti e i macrofagi. La gp120 presenta cinque regioni variabili (V) che differiscono nei diversi isolati virali. In particolare, la regione V3 è importante per la neutralizzazione ma rappresenta anche il determinante primario per il tropismo cellulare e per l’uso del corecettore (tab. 63.2).

Geni regolatori Il genoma di HIV contiene altri sei geni che codificano per altre sei proteine non strutturali, con funzioni regolatrici o accessorie nel ciclo di replicazione virale: tat, rev, nef, vif, vpr, vpu. Tali sequenze si trovano ai lati di env, parzialmente embricate tra loro e con la stessa sequenza di env. Tat e Rev rappresentano le due principali proteine regolatrici, ed entrambe sono il risultato della traduzione di mRNA originati da doppi eventi di splicing (modifiche che prevedono la rimozione e la riunione di specifiche sequenze nucleotidiche a carico degli mRNA, in una fase post-trascrizionale) (tab. 63.2). Il gene tat (Trans Activator of Transcription) codifica per una proteina di 14 kDa, costituita da 86 aminoacidi. Una volta sintetizzata, Tat rientra nel nucleo cellulare e agisce principalmente come un potente attivatore della trascrizione del genoma provirale aumentando l’efficienza dell’RNA polimerasi II cellulare. Per tale funzione Tat si lega a una specifica sequenza TAR (Tat Responsive Region) presente all’estremità 5′ degli mRNA nascenti. Tat è rilasciata dalle cellule infettate e può interagire sia con la membrana della stessa cellula produttrice, sia con quella di cellule vicine non infette, provocando l’innesco di segnali in grado di indurre l’attivazione di diversi fattori trascrizionali. Tale induzione facilita ulteriormente la trascrizione in atto del genoma virale, nel caso della cellula infettata. Tat può anche essere trasferita nel nucleo di cellule non infette circostanti causando la transattivazione della trascrizione di diversi geni cellulari. Tat, inoltre, promuove l’apoptosi e gioca un ruolo critico nella deplezione dei linfociti T CD4+ e delle cellule mononucleari del sangue periferico. Il gene rev (Regulator of Virion Expression) codifica per la proteina rev di 19 kDa,

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Tabella 63.2 Geni e proteine di HIV-1.

Geni

Proteine

Funzioni

Localizzazione

gag

p55

Poliproteina precursore per proteine del core virale (MA, CA, NC, p7)

Nucleocapside

pol

p160

Poliproteina precursore per enzimi virali (PR, RT/RNasi H, IN)

Virione

env

gp160

Poliproteina precursore per le glicoproteine dell’envelope (SU, TM)

Envelope del virione, membrana plasmatica

tat

p14

Transattivatore trascrizionale, si lega a TAR e a fattori cellulari

Soprattutto nel nucleo cellulare

rev

p19

Transattivatore post-trascrizionale, si lega a RRE e a fattori cellulari, promuove l’esporto dal nucleo dell’RNA virale

Soprattutto nel nucleo cellulare

nef

p27

Aumenta l’infettività virale, down-regola il CD4, influenza l’attivazione delle cellule T

Citoplasma cellulare, membrana plasmatica

vif

p23

Fattore di infettività virale

Citoplasma cellulare

vpr

p15

Trasporto nel nucleo del complesso di pre-integrazione

Virione

vpu

p16

Influenza il rilascio del virus, aumenta il turnover del CD4

Proteina integrale della membrana cellulare

Strutturali

Regolatori

MA, proteina di matrice; CA, proteina del capside (p24); NC, proteina del nucleocapside; PR, proteasi; RT/RNasi H, trascrittasi inversa/RNasi H; IN, integrasi; SU, glicoproteina di superficie (gp120); TM, proteina di transmembrana (gp41).

costituita da 116 aminoacidi e coinvolta nel trasporto nucleocitoplasmatico degli RNA virali. Quindi, come tat, è indispensabile alla replicazione, agisce in trans legandosi a regioni ben definite dell’RNA trascritto e rimane localizzata prevalentemente nel nucleo della cellula infetta. Si lega alla regione RRE (Rev Responsive Element) e promuove l’esportazione nucleare degli mRNA non divisi. Una volta prodotta, la proteina rientra nel nucleo per esercitare la sua funzione di trasporto degli RNA. RRE è una struttura costituita da 351 nucleotidi ed è localizzata in corrispondenza del gene env, verso l’estremità 3′ di tutti gli mRNA. Rev forma multimeri ed è stato messo in evidenza che la multimerizzazione è necessaria per espletare la sua funzione. Il gene nef (Negative Expression Regulatory Factor) codifica per una fosfoproteina miristilata di 205 aminoacidi ed è situato all’estremità 3′ del genoma. Esso è altamente conservato in tutti i lentivirus dei primati, come ad esempio HIV-1 e HIV-2. La proteina gioca un ruolo cruciale nella replicazione virale e nella patogenesi. Nef è considerato un marker critico per la patogenesi della malattia in vivo, poiché la perdita della funzione di Nef comporta nei pazienti infettati una bassa carica virale e una ritardata o assente progressione verso AIDS. Inizialmente si era suggerito che Nef potesse reprimere la replicazione virale, e quindi è stato descritto come un effettore negativo. Successivamente, invece, è stato considerato cruciale per replicazioni ad alto titolo. Nef media i suoi effetti dopo l’entrata virale e prima che la RT abbia completato la retrotrascrizione: ciò indica che probabilmente interagisce con un componente interno del core di HIV-1 e che facilita le prime fasi dell’infezione. Nef è incorporato nelle particelle di HIV-1 mature ed è tagliato dalla proteasi virale. Influenza anche lo stato di attivazione delle cellule ospiti aumentandone la capacità di supportare la replicazione virale. Tra le funzioni più importanti di Nef è necessario includere la down-regolazione del recettore CD4 e delle molecole MHC I sulla cellula ospite. Quest’azione di Nef sul recettore CD4 avviene presto nell’infezione da HIV-1 e si attua attraverso la membrana

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plasmatica, sequestrando a livello del citoplasma il CD4 presente sulla superficie delle cellule. Uno dei motivi più probabili per la down-regolazione del CD4 sembra essere quello di agevolare e aumentare il rilascio delle particelle virali neoformate, prevenendo il sequestro dell’envelope virale da parte del recettore CD4 stesso presente sulla superficie della cellula. La down-modulazione del recettore sembra anche prevenire la superinfezione, un evento che potrebbe portare la cellula ospite a una morte prematura. La down-regolazione di MHC I sembra invece proteggere la cellula infettata dal riconoscimento da parte dei linfociti T citotossici. Vpr è una proteina regolatoria di 15 kDa che si trova nelle particelle virali mature. Tale proteina sembra intervenire in maniera predominante nella replicazione virale e nella patogenesi durante i primi stadi dell’infezione. Uno dei ruoli principali di Vpr è quello di trasportare nel nucleo, dopo la retrotrascrizione, il DNA virale associato con le proteine virali (il cosiddetto PIC, complesso di pre-integrazione). A questa funzione di Vpr in particolare è legata la capacità di indurre infezioni in cellule resting come monociti e macrofagi. Infatti, in tali cellule la replicazione di HIV-1 dipende dalla possibilità di poter importare il PIC virale nel nucleo. Oltre all’importo nucleare, Vpr agisce in modo da permettere il suo rientro nel citoplasma per poter essere incorporato nei nuovi virioni e permettere la distribuzione del virus maturo anche in cellule resting. Un altro ruolo di Vpr sembra quello di intervenire nella modulazione dell’apoptosi. Vif è una proteina basica di 23 kDa espressa tardi durante il ciclo replicativo e largamente localizzata nel citoplasma. Studi fatti utilizzando virioni mutati per Vif hanno contribuito alla conoscenza del suo ruolo. Si è evidenziato così che linfociti CD4+ e macrofagi, che sono le principali cellule nelle infezioni da HIV-1, in mancanza di Vif diventano non permissive alla replicazione del virus e che la presenza di Vif è indispensabile anche per il mantenimento dell’infettività virale. Inoltre Vif sembra svolgere un ruolo nel mantenere la stabilità del core virale. Vpu è una proteina di 17 kDa che forma canali ionici nel doppio strato lipidico e permette l’aumento della permeabilità della membrana plasmatica nei confronti di parecchie molecole. Nel ciclo replicativo virale svolge essenzialmente due funzioni, quella di indurre la degradazione dei recettori CD4 e il conseguente aumento del rilascio dei virioni dalle cellule infettate. In particolare, alcuni esperimenti hanno dimostrato che l’intervento di Vpu per un efficiente rilascio delle particelle virali mature è richiesto prevalentemente nelle cellule quiescenti. Questa proteina contribuisce inoltre direttamente all’induzione dell’apoptosi nelle cellule T CD4+ infettate da HIV, e tale azione sembra essere indipendente dalle altre proteine virali. Vpu è assente in HIV-2, dove invece è presente la proteina Vpx, la cui funzione è ancora poco chiara, sebbene sembri avere un ruolo nell’importo nucleare. Sia Vpu sia Vpx sono antigeniche, quindi la ricerca dei relativi anticorpi rappresenta una possibilità per facilitare la diagnosi differenziale. L’alternativa diagnostica è rappresentata dalle rispettive sequenze genomiche (fig. 63.4).

Tropismo cellulare e recettori virali Il termine “tropismo” si riferisce al tipo di cellule che possono essere infettate e che risultano suscettibili alla replicazione virale. Il tropismo per cellule bersaglio riflette la capacità di un isolato virale di replicare in particolari cellule. Quando l’HIV fu isolato per la prima volta, fu evidente che la replicazione del virus avveniva nei linfociti T helper che esprimono il recettore CD4 sulla loro superficie (linfociti T CD4+). In seguito il virus è stato isolato da diversi altri tessuti, per cui risultò chiaro che HIV è in grado di infettare una varietà di cellule che esprimono le molecole CD4, tra cui monociti, macrofagi, cellule dendritiche (cellule di Langerhans) e cellule gliali (di origine macrofagica). Successivamente, circa quindici anni fa, si è scoperto che l’antigene CD4 presente sulla superficie delle cellule è necessario ma non sufficiente per permettere un’efficiente infezione da HIV-1 e si è dimostrato che alcuni recettori per chemochine svolgono un

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HIV-1 5'LTR

vif

gag

3'LTR

rev tat

pol

env-SU vpr

nef TM

vpu

HIV-2 / SIVmac 5'LTR

vif

gag

3'LTR

rev tat

pol

env-SU vpx vpr Figura 63.4 Organizzazione del genoma dei lentivirus dei primati: HIV-1 e HIV-2.

ruolo essenziale nell’infezione da HIV-1. Infatti, mentre il recettore CD4 è richiesto per il legame ad alta affinità con la gp120 (l’antirecettore virale), i corecettori per le chemochine sono richiesti per le successive fasi che portano alla fusione tra l’envelope virale e la membrana della cellula ospite e quindi all’entrata del virus nella cellula. I due corecettori più rilevanti nella replicazione di HIV-1 in vivo sono CCR5 e CXCR4, anche se più di una dozzina di recettori accoppiati a proteina G possono mediare l’entrata di alcuni ceppi di HIV-1 quando sono espressi in cellule transfettate in vitro. I corecettori sono rappresentati da diverse molecole con sette “domini” transmembranari che fisiologicamente legano una serie di citochine; in particolare CCR5 è il recettore per le chemochine MIP-1α, MIP-1β e RANTES; mentre CXCR4 (già nota come fusina o LESTER, leukocyte expressed-seven transmembrane-domain receptor) è il recettore per il fattore SDF-1 (stromal cell-derived factor-1). Si è visto che differenti isolati di HIV-1 hanno un distinto tropismo in vitro per le diverse cellule umane CD4+. Storicamente, nel tentativo di classificare gli isolati di HIV1, si è utilizzata una nomenclatura basata sulle capacità tropiche di un virus e sulle sue caratteristiche fenotipiche, inclusa la citopaticità in vitro. Così gli isolati di HIV-1 sono stati classificati come linfociti T-tropici (T-tropici) o monociti/macrofagi-tropici (M-tropici), a seconda della loro capacità di infettare linfociti o macrofagi, oppure come ceppi inducenti sincizi (SI) o ceppi non inducenti sincizi (NSI), basandosi sulla capacità delle diverse varianti virali di indurre o meno la formazione di grosse cellule multinucleate in linee continue di cellule T (MT-2). Un altro sistema utilizza invece la cinetica di crescita nelle colture definendo così virus S/L (slow/low) quelli con una lenta velocità di replicazione e bassa produzione virale e virus R/H (rapid/ high) i virus con una velocità di replicazione elevata. Il ceppo T-tropico veniva associato al virus con fenotipo SI e generalmente dimostrava una rapida cinetica di crescita, una citopaticità per le cellule T, mentre mancava della capacità di crescere in macrofagi. Al contrario, il ceppo M-tropico era associato a un virus con fenotipo NSI che usualmente cresceva più lentamente, replicava in macrofagi e non risultava citopatico per le cellule T. Dopo l’identificazione dell’esistenza di un corecettore nella fase di entrata del virus, è sorta la necessità di un nuovo sistema di classificazione che tenesse in considerazione anche la capacità delle varianti virali di usare selettivamente i differenti corecettori. Pertanto attualmente vengono definiti R5 i virus che utilizzano il corecettore CCR5 e

nef TM

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Figura 63.5 Tropismo cellulare: uso del corecettore da parte di HIV-1.

Virus M-tropico

Virus T-tropico

Presente al momento della trasmissione e nelle fasi di latenza clinica

Virus dual-tropico

Presente nelle fasi tardive della malattia, altamente citopatico

Macrofagi CD4+ CCR5

Cellule T primarie CD4+ CCR5, CXCR4

Linea cellulare T CD4+ CXCR4

Tabella 63.3 Proprietà biologiche di virus R5, X4 e R5X4.

Uso del corecettore

Cellule infettate

Induzione di sincizi

Velocità di replicazione in PBMC*

CCR5 CXCR4 Cellule T naïve Cellule T della memoria No (NSI)* Sì (SI)*

S/L

R/H

R5

+





+

+



+



X4



+

+

+



+



+

R5X4

+

+

+

+



+



+

NSI, non sinciziogeno (Non Syncytium Inducing); SI, sinciziogeno (Syncytium Inducing); S/L, Slow/Low (lento/basso); R/H, Rapid/High (veloce/alto); PBMC, Peripheral Blood Mononuclear Cells.

X4 quelli che usano CXCR4. È stato provato inoltre che alcuni cloni virali sono in grado di utilizzare entrambi i corecettori e vengono definiti R5X4 (dual-tropici) (fig. 63.5). Tutti gli isolati primari di HIV-1 possono crescere in linfociti T primari CD4 + e indurre prontamente la formazione di sincizi in cellule che esprimono l’appropriato corecettore; inoltre, la maggior parte degli isolati primari di HIV-1 ha la capacità di replicare in colture di macrofagi primari, indipendentemente dalla loro preferenza per il corecettore. Una restrizione nel tropismo cellulare si ha invece nell’infezione delle linee cellulari continue di linfociti T CD4+ che selettivamente esprimono CXCR4 e quindi non sono permissive per isolati R5. In vivo, nelle fasi precoci dell’infezione è presente una popolazione omogenea di virus generalmente M-tropica con fenotipo NSI. Durante il corso dell’infezione, varianti virali diventano prevalentemente T-tropiche e la comparsa di ceppi con fenotipo SI è associata a un susseguente, più rapido declino di cellule T CD4+ (legato a un aumento della citopaticità dei virus X4), una progressione accelerata della malattia e una peggiore prognosi in termini di sopravvivenza (tab. 63.3).

63.3 - Replicazione Il ciclo replicativo di HIV-1 è complesso, con una durata e una produzione virale dipendenti dal tipo di target cellulare e dall’attivazione cellulare. Come per gli altri virus, esso può essere schematicamente suddiviso nelle diverse fasi (fig. 63.6).

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Adsorbimento

Assemblaggio Gemmazione RNA genomico (+) Integrasi

Trascrittasi inversa

Proteine strutturali Tat

Trascrizione AAAA TAR

RRE

Proteasi Poliproteine

Rev

DNA circolare

Traduzione

Tat

Traduzione

Rev

Figura 63.6 Rappresentazione schematica del ciclo replicativo di HIV-1.

Adsorbimento e penetrazione Il ciclo di replicazione inizia con il riconoscimento delle cellule target da parte del virione maturo. I maggiori target per l’infezione da HIV sono le cellule dotate di recettore CD4 sulla loro superficie. Queste includono linfociti T helper, cellule dendritiche, cellule della linea monocito-macrofagica, incluse le cellule della microglia nel sistema nervoso. Le interazioni tra il recettore CD4 e l’antirecettore virale sono sufficienti per l’attaccamento del virus alla cellula ma non per la penetrazione, che è possibile ottenere solo dopo il legame con il corecettore. CCR5 e CXCR4 sono i due principali corecettori usati da HIV-1 per l’entrata. Virus R5 (M-tropici) infettano macrofagi e linfociti CD4 utilizzando il CCR5; virus X4 (T-tropici) potranno interagire selettivamente con il corecettore CXCR4 presente sui linfociti; ceppi R5X4 (dual-tropici) potranno infettare entrambi i tipi cellulari. Sono state descritte anche infezioni in cellule che non sono CD4+, come le cellule neurali, ma il meccanismo di entrata non è ancora chiaro. L’entrata di HIV-1 nelle cellule target richiede la fusione tra la membrana cellulare e quella virale. Il processo è piuttosto complesso e segue fasi multiple, richiedendo il riconoscimento del recettore CD4 e dei corecettori da parte delle glicoproteine virali

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Figura 63.7 Rappresentazione dell’entrata di HIV-1 nelle cellule target. Il virus attraverso la proteina gp120 lega due recettori in sequenza, CD4 e CCR5. Il completamento del legame porta all’esposizione del peptide di fusione presente all’estremità aminoterminale della gp41. Tali eventi guidano la fusione dell’envelope virale con la membrana citoplasmatica della cellula che sarà infettata.

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Legame con il CD4

Legame con il CCR5

Esposizione del peptide di fusione

gp41 gp120 V3 CD4

CCR5

gp120 e gp41 (fig. 63.7). Inizialmente la gp120 si lega al CD4, che è il recettore primario per HIV-1. Questo legame induce modificazioni conformazionali della gp120 capaci di condurre all’esposizione e/o alla formazione degli epitopi antigenici riconosciuti dai corecettori. Regioni della gp120 vicino a questi epitopi sono responsabili per il legame con il corecettore. La formazione del complesso CD4/gp120/corecettore sembra provocare ulteriori cambi conformazionali nella gp120 che includono anche l’esposizione del peptide di fusione presente all’estremità aminoterminale della gp41 e la sua inserzione nella membrana della cellula target. Tali eventi determinano quindi la fusione della membrana virale con quella cellulare; questa fase permette al core del virus di essere trasportato nel citoplasma della cellula ospite. Gli eventi che immediatamente seguono la penetrazione virale nella cellula portano alla liberazione del genoma virale dalle proteine del capside; poco è noto per HIV-1 sui meccanismi richiesti nel processo di scapsidazione. Studi molto recenti suggeriscono che la liberazione del genoma non è un processo spontaneo ma finemente regolato, dipendente da fattori specifici legati al ciclo cellulare.

Trascrizione dell’RNA in DNA L’RNA virale viene trascritto nel citosol in una doppia catena di DNA a opera della RT (DNA polimerasi-RNA dipendente). Inizialmente viene sintetizzata una catena di DNA complementare a una delle due catene del genoma. Una molecola di tRNA specifica per una lisina (tRNAlys) funziona da innesco per la RT. Il prodotto della retrotrascrizione è una molecola bicatenaria ibrida costituita dalla catena di RNA originale (positiva) e dalla catena complementare di DNA (negativa). A questo punto la seconda azione enzimatica della RT, detta RNasi H, permette la degradazione della molecola dell’RNA presente nell’ibrido. Si ha quindi la trascrizione della seconda catena di DNA (positiva), che utilizza come stampo la catena di DNA (negativa) già esistente. Anche tale sintesi avviene per intervento della RT, che a questo punto (come terza funzione) si comporta come una DNA polimerasi-DNA dipendente. La molecola di DNA bicatenario lineare così ottenuta va a formare il cosiddetto complesso di preintegrazione (PIC) in cui l’acido nucleico è strettamente associato ad alcuni enzimi virali, tra cui l’integrasi, la p17 e la vpr. Nella fase successiva si assiste alla migrazione del PIC dal citoplasma al nucleo. Contrariamente ad altri retrovirus, che prevedono una divisione cellulare per l’accesso nel nucleo, il PIC di HIV-1 (e degli altri lentivirus) viene trasportato nel nucleo mediante un processo attivo che sembra richiedere l’intervento delle proteine virali presenti nel PIC e sembra essere diretto da vpr. La capacità di HIV-1 di utilizzare meccanismi di trasporto attivo per la traslocazione del PIC nel nucleo permette al virus di infettare anche cellule resting, come macrofagi differenziati e linfociti T quiescenti. Durante la fase di retrotrascrizione avvengono dei processi che producono impor-

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tanti modificazioni nel DNA provirale; alla fine di tali processi, nelle due estremità il provirus contiene le sequenze uguali LTR (sequenze ripetute U3-R-U5; vedi sopra) che portano informazioni essenziali per l’inserzione del DNA virale in quello della cellula ospite e importanti funzioni regolatorie per la trascrizione del genoma.

Integrazione del DNA Un’importante fase del ciclo replicativo di HIV è l’integrazione del DNA virale retrotrascritto nel genoma della cellula ospite. L’IN è l’enzima virale che interviene in questa reazione chiave e risulta altamente conservato tra gli isolati clinici di HIV-1. L’integrazione è assolutamente richiesta per un’infezione stabile e produttiva. Una volta integrato, il DNA virale resta in maniera permanente come provirus fino a che la cellula non muore. Inoltre, il provirus si comporta come qualsiasi altro gene umano, e viene trascritto dalla RNA polimerasi II dell’ospite a partire dall’estremità 5′ fino all’estremità 3′. Il processo dell’integrazione può essere suddiviso in due fasi ben caratterizzate catalizzate dall’IN. Dopo il legame dell’IN a una specifica sequenza nelle LTR del DNA virale si ha la rimozione di due nucleotidi terminali dalle estremità 3′ del DNA virale a doppia catena. Nella fase successiva le estremità del DNA processato sono inserite nel DNA dell’ospite a opera dell’IN. Il processo viene completato mediante l’intervento di enzimi di riparo del DNA di origine cellulare che permettono il riempimento degli spazi creati durante il processo di integrazione, al termine del quale il provirus si trova inserito nel DNA cellulare ed è affiancato alle due estremità dalle sequenze uguali LTR. La trascrizione di RNA messaggeri di HIV-1 viene regolata attraverso una complessa interazione tra LTR, fattori di trascrizione cellulari e proteine regolatorie virali come Tat (trans-attivatore trascrizionale). Il promoter è localizzato nella regione U3 della LTR 5′, contiene un TATA box e i siti di legame per parecchi fattori di trascrizione cellulari, tra cui il maggiore è NF-κB. Nelle cellule T resting l’attività del promoter è minimale e comporta quindi una quiescenza virale in cellule primarie infettate. Sembra che l’attivazione virale sia associata con un’attivazione cellulare. La trascrizione del provirus viene effettuata dall’RNA polimerasi II cellulare. Il genoma di HIV-1 codifica per tre classi di mRNA di diversa lunghezza: una è costituita da mRNA che hanno subìto eventi multipli di splicing e codificano per le proteine regolatrici; un’altra comprende gli mRNA che non sono sottoposti a eventi di splicing e andranno a costituire il genoma della nuova progenie virale o verranno tradotti nelle proteine gag; l’ultima è costituita da mRNA che codificano per le proteine strutturali di env e sono frutto di singoli eventi di splicing. Inizialmente nel nucleo si trovano mRNA che codificano per le proteine regolatorie, Tat, Rev e Nef e successivamente mRNA che codificano per proteine strutturali necessarie per il montaggio e la maturazione del virione. In queste fasi interviene l’azione regolatoria delle proteine Tat e Rev. Tat, legandosi alla sequenza TAR posta alla fine 5′ degli RNA virali nascenti, aumenta a livello trascrizionale l’espressione genica virale. In assenza di Tat la trascrizione di HIV-1 inizia ma l’allungamento è inefficiente. In presenza di fattori di trascrizione cellulari, il legame ad alta affinità tra Tat e la sequenza TAR permette all’RNA polimerasi II cellulare di produrre trascritti virali completi. Rev invece si lega alla regione RRE presente all’estremità 3′ degli mRNA che codificano per le proteine strutturali; la sua azione prevalente, a livello post-trascrizionale, sembra quella di facilitare il trasporto degli mRNA al citoplasma.

Sintesi delle proteine - Maturazione dei virioni La sintesi delle proteine nel citoplasma segue naturalmente la sequenza di trascrizione dei differenti mRNA. Quindi Tat, Rev e Nef vengono definite proteine precoci che vengono sintetizzate per prime a causa della loro funzione regolatrice nel ciclo cellulare, mentre gag, pol, env, vif, vpr e vpu sono definite proteine tardive.

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La poliproteina gp160 codificata dal gene env, una volta sintetizzata, viene glicosilata nel reticolo endoplasmatico e attraverso un sistema di vescicole viene trasportata alla membrana cellulare per l’assemblaggio. Tutte le proteine strutturali dopo la sintesi migrano verso la periferia della cellula, dove saranno impegnate nel montaggio. L’RNA virale interagisce con una regione del precursore delle proteine del capside. Il capside viene quindi assemblato in prossimità del lato interno di una porzione della membrana cellulare modificata per l’inserzione del complesso gp41-gp120. In questa fase sono coinvolte le proteine vif e vpu. Per inibire una prematura cattura della proteina env da parte del CD4 sintetizzato a livello del reticolo endoplasmatico, la funzione di vpu sembra quella di legare il CD4 per dirigerlo nella via (pathway) di degradazione. Inoltre essa aumenta la velocità del montaggio del virione e accelera il rilascio delle particelle virali dalla membrana della cellula. Vif sembra invece aumentare il potere infettante del virione. La fase della maturazione prevede il rilascio delle particelle virali per gemmazione dalla membrana cellulare. Contemporaneamente o immediatamente dopo la liberazione dei virioni interviene la proteasi, che scinde le poliproteine gag/pol per dare origine a proteine strutturali ed enzimi indipendenti.

63.4 - Patogenesi HIV-1 è stato isolato in differenti tessuti e liquidi biologici di un soggetto infettato, ma la semplice presenza del virus in un materiale biologico non necessariamente rappresenta possibilità di contagio; questo perché il virus può essere presente in un fluido o in quantità insufficienti per essere contagioso, oppure può essere non vitale (a causa di enzimi litici, come nella saliva). Le vie principali di trasmissione dell’HIV-1 sono rappresentate dalla trasmissione sessuale, da trasfusioni di sangue, dall’inoculazione parenterale di derivati del sangue, dalla trasmissione perinatale. Altre potenziali vie di trasmissione non sono ancora ritenute importanti, ad esempio contatti non sessuali, esposizione a saliva, esposizione a urina ed esposizione a insetti. Sangue intero, componenti cellulari del sangue, plasma hanno tutti trasmesso l’infezione da HIV-1, mentre altri prodotti del sangue (come immunoglobuline e albumina) non sono stati implicati nella trasmissione del virus. Dopo il 1985, con l’introduzione del test di screening degli anticorpi specifici per HIV-1 ai donatori di sangue, si è ottenuta una riduzione sostanziale della trasmissione di HIV-1 attraverso le trasfusioni, sia negli Stati Uniti sia nei Paesi occidentali industrializzati. Oltre allo screening dei donatori, anche la ripetizione del test su tutte le unità di sangue prelevate, l’abolizione dei donatori professionali e l’educazione sanitaria dei donatori, in modo che questi possano evitare volontariamente la donazione se hanno avuto comportamenti a rischio, hanno sicuramente contribuito alla riduzione quasi totale del rischio di questo tipo di trasmissione. HIV-1 è trasmesso tra i consumatori di droghe quando c’è scambio di siringhe con ago infettato. Il fattore di rischio è legato alla frequenza di scambio di siringhe e alla prevalenza di infezioni da HIV-1 nell’area. La trasmissione sessuale rappresenta la modalità di contagio prevalente nel mondo. HIV-1 può essere isolato sia dal liquido seminale sia dalle secrezioni genitali femminili e in entrambi sembra essere largamente associato alle cellule. HIV-1 viene trasmesso mediante rapporti omosessuali o eterosessuali; il rischio di infezione aumenta con il numero dei partner come con l’uso di differenti pratiche sessuali. Nei Paesi industrializzati i maschi omosessuali hanno rappresentato il gruppo più vulnerabile all’infezione da HIV-1 e all’AIDS, in particolare i partner passivi in corso di rapporti anogenitali. Nei Paesi in via di sviluppo la trasmissione eterosessuale è quella predominante e il rischio sembra aumentare in presenza di malattie sessualmente

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trasmesse, la cui incidenza in questi Paesi è elevata. Infatti, l’insorgenza di ulcerazioni nella mucosa e nella cute delle aree genitali permette un richiamo di linfociti e monociti che facilitano la possibilità di contagio con HIV-1. Come in altre malattie sessualmente trasmesse, gli uomini non circoncisi sono più esposti all’infezione con HIV-1. L’infezione si trasmette anche dalla madre infetta al figlio (trasmissione verticale) e può avvenire durante la gravidanza attraverso la placenta, nel momento del parto e durante l’allattamento. Il rischio di trasmissione dell’infezione dipende dalle condizioni cliniche generali della madre, come la carica virale e il numero dei CD4+.

Meccanismi patogenetici I principali target per HIV-1 sono i sistemi linforeticolare, ematopoietico e nervoso. In particolare, le cellule maggiormente coinvolte nelle infezioni da HIV-1 sono le cellule dendritiche, i linfociti T CD4+ e le cellule monocitomacrofagiche. Considerando il ruolo critico di queste cellule nell’immunopatogenesi, è abbastanza evidente come l’infezione di queste cellule o le disfunzioni indotte dal virus su di esse possano portare ai disordini immunologici ampiamente dimostrati nei pazienti con AIDS. In quale modo, però, l’infezione da HIV-1 possa uccidere o danneggiare le cellule del sistema linforeticolare o ematopoietico non è ancora chiaro. Molte evidenze sottolineano un diretto ruolo della replicazione e della citopaticità di HIV-1 nella deplezione e nella patogenicità dei linfociti, ma altri studi suggeriscono che il danno causato dalla replicazione di HIV-1 potrebbe non essere confinato alle cellule infettate con il virus. Il virus induce la deplezione delle cellule CD4+ anche attraverso il meccanismo dell’apoptosi (morte programmata delle cellule). Le proteine Tat, Nef e Vpu rilasciate dalle cellule infettate possono indurre apoptosi nelle cellule bystander non infettate, indicando come la replicazione di HIV-1 possa causare danni collaterali. L’infezione naturale con HIV non comporta mai un’eliminazione totale del virus da parte del sistema immunitario dell’ospite. Allo stesso tempo, e nonostante i devastanti effetti di HIV-1 sull’immunità dell’ospite che alla fine portano alla progressione clinica verso l’AIDS, gli individui infettati sviluppano un’intensa e sostenuta risposta immune, sia umorale sia cellulo-mediata, contro gli antigeni di HIV. La risposta anticorpale ha un ruolo centrale nella risoluzione di molte infezioni virali. Ma questo non sembra essere vero per HIV-1, anche se anticorpi specifici per il virus vengono intensamente prodotti già durante l’infezione acuta. Anticorpi che neutralizzano HIV-1 riconoscono 3 distinti domain nell’envelope di HIV-1: la regione ipervariabile V3 della gp120, i siti di legame per il CD4 e la proteina gp41. Ma anticorpi presenti nel siero di individui infettati da HIV-1 hanno una debole attività neutralizzante nei confronti degli isolati di HIV-1. Un certo numero di studi suggerisce che gli anticorpi neutralizzanti contribuiscano poco al controllo della replicazione di HIV-1 in individui con infezioni stabilizzate. Contrariamente agli anticorpi neutralizzanti, i linfociti T citotossici CD8+ (CTL) specifici per il virus sembrano implicati nel controllo della replicazione di HIV-1. CTL specifici per HIV-1 sono stati trovati in grande numero in una varietà di compartimenti anatomici in individui infettati, inclusi sangue periferico, spazi broncoalveolari, linfonodi, milza, fluido cerebrospinale, liquido seminale e mucose vaginale e gastrointestinale. Un controllo parziale della replicazione virale avviene durante il periodo dell’infezione primaria di HIV-1 ed è associato con la comparsa di una specifica risposta da parte dei CTL CD8+. Anche i linfociti T CD4+ specifici per il virus hanno un importante ruolo nel controllare la replicazione di HIV-1. I linfociti T CD4+ preferenzialmente infettati da HIV-1 sono quelli attivati. Queste cellule permettono la progressione di tutte le fasi del ciclo replicativo, con una produzione virale finale. Dopo l’infezione, la maggior parte di queste cellule muore velocemente, con una vita media di un giorno.

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Una questione centrale non risolta è come mai la replicazione di HIV-1, nonostante l’induzione della risposta immune cellulare e umorale, non viene contenuta e porta a una progressiva e profonda soppressione immunitaria. La spiegazione più probabile per la mancanza di questo controllo è che il virus possa sfuggire al controllo immune attraverso la generazione di mutazioni in epitopi bersaglio del virus. In presenza di un’efficace pressione selettiva, la mancanza della funzione di correttore di bozze nell’RT (che impedisce la correzione degli errori fatti durante la retrotrascrizione) e un’alta velocità di replicazione permettono di rimpiazzare il virus circolante con quello che porta mutazioni di resistenza. La pressione selettiva può essere esercitata sia dalla risposta umorale sia da quella cellulare. Dopo infezione acuta si sviluppano anticorpi neutralizzanti tipo-specifici che esercitano pressione selettiva. Il virus rapidamente sfugge generando nuove varianti che non sono riconosciute dagli anticorpi iniziali. Poiché si sviluppano anticorpi specifici per le varianti emerse, il virus muta ulteriormente e continua a evadere gli anticorpi neutralizzanti. La capacità del virus di sfuggire al controllo della risposta CTL è stata documentata sia durante la fase acuta sia in quella cronica. Tra i vari meccanismi descritti, l’evasione sicuramente avviene attraverso mutazioni anche di singoli aminoacidi in epitopi essenziali per il legame con MHC o per il riconoscimento dei recettori presenti sulle cellule T.

63.5 - Manifestazioni cliniche L’infezione da HIV è caratterizzata essenzialmente da tre fasi distinte. Nella prima fase abbiamo l’infezione primaria; la seconda fase, cronica e asintomatica della malattia, detta latenza clinica, è associata a un’attiva replicazione virale e alla disseminazione del virus e può durare per 5-10 anni. Il procedere della malattia prevede la progressiva distruzione delle cellule del sistema immunitario portando a una fase finale definita come AIDS, associata a infezioni opportunistiche, tumori e disordini neurologici. Le cellule target della prima fase (nel retto, nel tratto genitale o nel circolo sanguigno) non sono state chiaramente identificate, sebbene si pensi a un ruolo importante sostenuto dalle cellule della linea dendritica e monocitomacrofagica (ad es. le cellule di Langerhans) e dai linfociti CD4+. Indipendentemente dalla modalità di trasmissione, la maggior parte delle nuove infezioni è stabilita da varianti virali che usano come co-recettore il CCR5. Una possibile spiegazione è che in questa fase il virus deve infettare macrofagi e cellule dendritiche che possono a loro volta trasmettere il virus ai linfociti T CD4+, ad esempio durante il processo di presentazione dell’antigene. In particolare, le cellule dendritiche hanno un importante ruolo nel trasporto del virus dalla sua porta di ingresso agli organi linfoidi. Queste cellule possono essere produttivamente infettate da HIV-1 o possono catturare il virus attraverso recettori, chiamati DC-SIGN (Dendritic Cell-Specific Intercellular adhesion molecule-3-Grabbing Non-integrin), e mantenerlo fino alla consegna alle cellule T. Virus CXCR4-tropici generalmente appaiono negli stadi tardivi dell’infezione e sono associati a un’aumentata patogenicità e progressione della malattia. L’infezione primaria è caratterizzata da un periodo di incubazione di tre-sei settimane, può essere asintomatica, ma generalmente culmina in una sintomatologia acuta a evoluzione rapida che si esaurisce spontaneamente, in media in meno di 14 giorni. La malattia acuta è associata a infezioni simil-mononucleosiche o sindromi simil-influenzali caratterizzate da febbre, artralgie, mialgie, anoressia, nausea, letargia, diarrea, mal di gola, orticaria, rush cutanei; sono spesso evidenziati sintomi neurologici, inclusi mal di testa, neuriti, irritabilità, depressione; il più comune sintomo neurologico è costituito da una meningoencefalite asettica che riflette il neurotropismo associato a questo virus. HIV è stato ritrovato nel liquido cerebrospinale (CSF) poco dopo l’infezione, fornendo indicazioni sulla velocità di attraversamento della barriera emato-encefalica.

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Nell’infezione primaria è frequente la linfoadenopatia. Sono evidenziati anche marcati cambi nella conta dei linfociti con un rapporto CD4:CD8 rovesciato ( Malattia donatore

3,3 anni

1,5 anni

1,8 anni

1,4 anni

Non disponibile

* Pazienti deceduti con sintomatologia non neurologica, positivi per PrPEST nella milza. Il caso 3 e 4 avevano in comune lo stesso donatore. L’infezione nel caso 5 è probabilmente dovuta a trattamento con Fattore VIII. Met, Metionina; Val, Valina.

nelle EST. Tuttavia, recenti studi hanno evidenziato che la somministrazione di anticorpi anti-PrPc rallenta la formazione di PrPEST negli animali infetti con conseguente ritardo della comparsa di segni clinici. Sarebbe quindi possibile “vaccinarsi” contro i prioni se si riuscisse a superare la tolleranza immunologica che ogni organismo mette in atto verso proteine endogene, qual è la PrPc. Questo ostacolo pare possa essere superato introducendo, con tecniche di ingegneria genetica, la PrPc in batteri che sarebbero in grado di aggirare la tolleranza immunologica dell’ospite. Ovviamente questi risultati sperimentali sono ancora molto preliminari e la vaccinazione per prevenire le malattie da prioni è ben lontana dal poter essere applicata all’uomo o agli animali d’allevamento.

Bibliografia essenziale Aguzzi, A., Lakkaraju, A.K. (2016), «Cell Biology of Prions and Prionoids: A Status Report», Trends in Cell Biology, 26, pp. 40-51. Brown, P., Brandel, J.P., Sato, T., Nakamura, Y., Mackenzie, J., Will, R.G., Ladogana, A., Pocchiari, M., Leschek, E.W., Schonberger, L.B. (2012), «Iatrogenic creutzfeldt-jakob disease, final assessment», Emerging Infectious Diseases, 18, pp. 901-907. Greenlee, J.J., Greenlee, M.H. (2015), «The transmissible spongiform encephalopathies of livestock», ILAR Journal, 56, pp. 7-25. Haley, N.J., Hoover, E.A. (2015), «Chronic wasting disease of cervids: current knowledge and future perspectives», Annual Review of Animal Biosciences, 3, pp. 305-325. Kim, M.O., Geschwind, M.D. (2015), «Clinical update of Jakob-Creutzfeldt disease», Current Opinion in Neurology, 28, pp. 302-310. Knight, R. (2010), «The risk of transmitting prion disease by blood or plasma products», Transfusion and Apheresis Science, 43, pp. 387-391. Riesner, D., Deslys, J.P., Pocchiari, M., Somerville, R. (a cura di), Decontamination of prion, Dusseldorf University Press, 2012. Schmitz, M., Dittmar, K., Llorens, F., Gelpi, E., Ferrer, I., Schulz-Schaeffer, W.J., Zerr, I. (2016), «Hereditary Human Prion Diseases: an Update», Molecular Neurobiology, Jun 20. [pubblicato on line]. Vetrugno, V., Puopolo, M., Cardone, F., Capozzoli, F., Ladogana, A., Pocchiari, M. (2015), «The future for treating Creutzfeldt-Jakob disease», Expert Opinion on Orphan Drugs, 3, pp. 57-74. Zanusso, G., Monaco, S., Pocchiari, M., Caughey, B. (2016), «Advanced tests for early and accurate diagnosis of Creutzfeldt-Jakob disease», Nature Reviews Neurolology, 12, pp. 325-333.

Capitolo

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Farmaci antivirali

Nella maggioranza dei casi le infezioni virali non richiedono un intervento terapeutico in quanto generalmente hanno un decorso assolutamente benigno. Ovviamente ci sono delle importanti eccezioni, come ad esempio il caso di pazienti affetti da immunodeficienza primitiva o acquisita nei quali le infezioni virali comuni possono manifestarsi con un’importante sintomatologia che spesso richiede un’adeguata terapia. In generale i virus, per la loro natura di parassiti endocellulari obbligati che utilizzano per replicarsi i meccanismi energetici e biosintetici della cellula ospite, offrono un numero limitato di bersagli specifici da colpire con la chemioterapia. Tuttavia negli ultimi anni l’avanzamento delle conoscenze nel campo della biologia molecolare ha consentito di individuare una serie di eventi replicativi sostenuti da strutture virali specifiche che rappresentano potenziali bersagli selettivi di farmaci antivirali specifici (fig. 67.1).

Figura 67.1 Principali tappe del ciclo di replicazione dei virus bersaglio dei farmaci antivirali.

Inibitori dell’entrata Penetrazione Adsorbimento Scapsidazione Inibitori della scapsidazione Traduzione

Proteolisi

Inibitori della sintesi degli acidi nucleici

Sintesi acidi nucleici

Inibitori della proteasi

Assemblaggio Inibitori del rilascio Rilascio

• Meccanismi di azione degli antivirali • Inibitori degli enzimi

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È importante sottolineare tuttavia che si tratta generalmente di una selettività relativa e non assoluta, nel senso che l’affinità del farmaco per la struttura o funzione virale è superiore a quella per le strutture o funzioni cellulari, per le quali sussiste tuttavia una certa reattività. Ne consegue che i composti dotati di attività antivirale sono quasi invariabilmente associati anche a una certa tossicità cellulare. Un’altra importante e più moderna considerazione generale sulla chemioterapia antivirale riguarda l’insorgenza di varianti virali farmaco-resistenti. In sostanza, è noto che la terapia prolungata con un determinato farmaco antivirale può causare la selezione di ceppi di virus resistenti alla sua attività antivirale. I virus resistenti ai farmaci antivirali presentano mutazioni nel genoma in corrispondenza della porzione della struttura/funzione virale che rappresenta il bersaglio del farmaco stesso. Ne consegue un’alterata interazione tra farmaco e struttura/funzione virale. Per questa ragione tali varianti virali risultano essere in grado di replicarsi pur in presenza di concentrazioni inibenti del farmaco. Alla luce di quanto sopraesposto si può pertanto concludere che tossicità cellulare e sviluppo di farmaco-resistenza costituiscono caratteristiche intrinseche della terapia antivirale. Verranno ora descritte le principali sostanze antivirali utilizzate nella terapia delle più comuni infezioni virali, con particolare riferimento a quei farmaci affermati in ambito clinico per la loro consolidata efficacia; non vengono trattati invece, se non marginalmente, i numerosissimi composti in via di sviluppo ma non ancora consolidati nell’utilizzo clinico. I vari farmaci verranno suddivisi in base al loro bersaglio nel ciclo di replicazione dei virus e in particolare verranno prese in esame le seguenti fasi: entrata, scapsidazione, sintesi degli acidi nucleici virali, maturazione e rilascio.

67.1 - Inibitori dell’entrata Inibitori della fusione Il processo di fusione è un meccanismo comune a molti virus rivestiti, incluso il virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV). In questo caso la fusione è preceduta dall’interazione della gp120 con il suo recettore cellulare, il CD4. A seguito di questa interazione si vengono a creare delle alterazioni conformazionali che permettono alla proteina fusogena gp41 di esercitare la sua funzione. La caratterizzazione di questa glicoproteina ad attività fusogena ha permesso di sintetizzare dei piccoli peptidi capaci di legarsi alla gp41 impedendone l’azione. A tutt’oggi c’è un unico inibitore approvato per l’uso clinico dell’infezione da HIV, l’enfuvirtide (anche noto come T20), un peptide sintetico costituito da 36 aminoacidi. Peptidi simili al T20 si sono rivelati attivi nei confronti di alcuni virus appartenenti alla famiglia Paramixoviridae, quali il virus del morbillo, il virus parainfluenzale e il virus respiratorio sinciziale.

Inibitori dei corecettori Alcuni virus, quale quello dell’HIV, per entrare all’interno della cellula ospite richiedono che l’antirecettore virale interagisca non solo con il recettore cellulare, ma anche con altre molecole definite corecettori. Nel caso di HIV, l’ingresso del virus all’interno della cellula avviene solo a seguito del legame di gp120 con il CD4 e con altre molecole quali CXCR4 e/o CCR5. Gli antagonisti del CCR5 rappresentano una nuova classe di farmaci che ha come scopo quello di inibire l’interazione dell’antirecettore virale con il corecettore cellulare che funge da punto di ancoraggio e di entrata del virus. Attualmente l’unico composto appartenente a questa classi di farmaci è il Maraviroc, che si lega al CCR5 inducendone un cambiamento conformazionale, impedendo così il suo legame con la glicoproteina virale gp120.

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67.2 - Inibitori della scapsidazione In alcuni virus la fase di scapsidazione, che consiste nella liberazione nel citoplasma dell’acido nucleico virale, può essere inibita da derivati dell’adamantamina, quali amantadina e rimantadina. Entrambi i composti possono essere utilizzati per il trattamento dell’infezione da virus influenzale A.

Amantadina Questo composto (1-adamantaminaidrocloruro) è un’amina triciclica simmetrica che a opportune concentrazioni inibisce specificamente la replicazione del virus dell’influenza di tipo A. A dosi più elevate, non utilizzabili però in vivo, il composto è in grado di inibire anche la replicazione del virus influenzale di tipo B, del virus della rosolia, degli arenavirus e dei paramixovirus. È stato dimostrato che l’amantadina, che si ritrova ad alte concentrazioni nei lisosomi cellulari, bloccando il canale ionico costituito dalla proteina virale M2, ostacola la migrazione degli ioni H+ verso l’interno della particella virale. Di conseguenza si ha un’inibizione dell’acidificazione dell’ambiente “intravirionico”, un processo che è indispensabile per la liberazione dell’acido nucleico virale. L’amantadina assorbita efficacemente dopo somministrazione orale, raggiunge livelli plasmatici idonei alla sua azione dopo 2-5 ore dalla somministrazione. Numerosi studi clinici ne hanno dimostrato l’efficacia nella profilassi dell’infezione da virus dell’influenza A, mentre il farmaco è risultato meno attivo nella prevenzione dell’infezione da virus influenzale B e virus del morbillo. È bene sottolineare che l’amantadina risulta essere una valida alternativa alla vaccinazione nei soggetti a rischio per fenomeni allergici o nei soggetti immunodepressi. Altri studi hanno dimostrato che la somministrazione di amantadina ad alti dosaggi può essere utilizzata anche quando l’infezione sia già in atto.

Rimantadina Le considerazioni espresse nel caso dell’amantadina valgono anche per la rimantadina (alfa-metil-1-adamantametilaminaidrocloruro), un altro agente in grado di inibire efficacemente la replicazione del virus influenzale di tipo A. Anche se la struttura della rimantadina è simile all’amantadina, esse differiscono significativamente per quanto riguarda la farmacocinetica. La rimantadina infatti raggiunge livelli plasmatici elevati molto lentamente. Il tempo di dimezzamento della rimantadina è doppio rispetto all’amantadina e può raggiungere concentrazioni elevate nelle secrezioni respiratorie.

67.3 - Inibitori della sintesi degli acidi nucleici virali Inibitori della DNA polimerasi virale I farmaci che appartengono a questo gruppo sono rappresentati principalmente da molecole attive contro diversi membri della famiglia Herpesviridae che replicano il proprio genoma utilizzando una DNA polimerasi virale sintetizzata nella cellula ospite. I composti disponibili per il trattamento delle infezioni erpetiche sono i seguenti analoghi nucleosidici: aciclovir, penciclovir, ganciclovir e i loro rispettivi profarmaci valaciclovir, famciclovir e valganciclovir. Di seguito vengono riportate le caratteristiche di alcuni di questi composti. L’aciclovir (9-[2-idroetossimetilguanina]), che è un analogo della guanosina, è un nucleoside aciclico. Esso è attivo in vitro nei confronti dei virus herpes simplex di tipo 1 e 2 (HSV-1 e HSV-2), del virus della varicella-zoster (VZV) e del virus Epstein-Barr (EBV). La sua efficacia è stata ampiamente dimostrata in vitro e in animali da esperimento ed esso è ormai entrato da diversi anni nell’uso clinico. Il meccanismo d’azione si esplica

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a livello della sintesi del DNA virale. Esso è il prototipo di una classe di composti che dopo essere stati fosforilati da chinasi cellulari o virali possono essere inseriti nella catena nascente del DNA e bloccarne l’allungamento. In particolare, l’aciclovir viene dapprima fosforilato da una timidina chinasi virale (TK); successivamente dalla forma monofosfato si origina, attraverso l’intervento di chinasi cellulari, l’aciclovir prima difosfato e poi trifosfato (fig. 67.2). In questa forma il composto può inibire la DNA polimerasi virale, competendo in maniera specifica con la guanidina trifosfato. L’aciclovir viene così incorporato nella catena nascente del DNA virale. Ne consegue un blocco dell’allungamento del DNA in quanto esso, mancando dell’ossidrile in posizione 3′, non permette l’aggiunta del nucleotide successivo. Le DNA polimerasi dei virus erpetici differiscono in termini di sensibilità all’azione dell’aciclovir. In particolare, la polimerasi dell’EBV sembra essere particolarmente sensibile all’azione del composto, rispetto a quella dell’HSV. Il ganciclovir [9-(1,3-diidrossi-2-propoximetilguanosina)] è un analogo aciclico della guanosina attivo nell’inibire tutti i membri della famiglia degli Herpesviridae. Esso, che differisce dall’aciclovir per la sola aggiunta di un gruppo idrossimetilico, è però attivo in maniera spiccata nei confronti della replicazione del CMV. Infatti le dosi di ganciclovir che inibiscono l’HSV-1 e l’HSV-2 o il VZV sono del tutto sovrapponibili a quelle dell’aciclovir; al contrario le dosi di ganciclovir in grado di inibire la replicazione del CMV sono da 10 a 50 volte inferiori a quelle di aciclovir. Il meccanismo d’azione è sovrapponibile a quello descritto nel caso dell’aciclovir. In sostanza anche questo composto può essere definito “terminatore di catena” in quanto inibisce l’allungamento della catena di acidi nucleici virali. Il ganciclovir viene fosforilato nella forma monofosfato da una protein-chinasi (PK) codificata dal gene UL97 di CMV (fig. 67.2). È importante sottolineare che la concentrazione intracellulare di ganciclovir trifosfato rispetto a quella dell’aciclovir a parità di dosaggi è più elevata ed esso permane più a lungo all’interno della cellula. Queste osservazioni, se da una parte giustificano una più efficace azione di questa sostanza nei confronti della replicazione del CMV, dall’altra permettono di compren-

DNA pol virale

HSV TK

Valaciclovir

ACV

ACV

P

ACV

P

P

ACV

P

P

P

DNA

Famciclovir

PCV

PCV

P

PCV

P

P

PCV

P

P

P

DNA

Valganciclovir GCV

GCV

P

GCV

P

P

GCV

P

P

P

DNA

CMV PK

dGuanosina

dGMP

5'-nucleotidasi

dGDP

dGMP chinasi

Figura 67.2 Meccanismo di azione degli analoghi nucleosidici. Lo schema mostra, come esempio, l’aciclovir (ACV), il penciclovir (PCV), il ganciclovir (GCV) e i rispettivi profarmaci (valaciclovir, famciclovir e valganciclovir). Questi analoghi nucleosidici vengono fosforilati sia da chinasi virali, quali la timidina chinasi (TK) di HSV

dGTP

DNA

dNDP chinasi e la protein-chinasi (PK) di CMV, sia da enzimi cellulari come guanosil-monofosfato (dGMP) chinasi e nucleotide (dNDP) chinasi. Le forme trifosfato agiscono come terminatori di catena competendo con il nucleoside naturale (dGTP).

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Capitolo 67 • Farmaci antivirali

dere il motivo della più alta tossicità cellulare del ganciclovir rispetto all’aciclovir. Non sorprende quindi che la somministrazione di ganciclovir sia associata a effetti collaterali che ne limitano l’uso alle sole categorie a rischio (trapiantati o immunosoppressi). Il ganciclovir viene somministrato per via endovenosa, in quanto la somministrazione orale non permette il raggiungimento di livelli plasmatici idonei all’inibizione della replicazione virale. A questo proposito è utile ricordare che il suo “profarmaco”, il valganciclovir, che viene convertito in ganciclovir dopo la somministrazione, viene somministrato per via orale. Dal punto di vista delle applicazioni terapeutiche abbiamo già ricordato che, data la tossicità riscontrata, il ganciclovir viene somministrato soltanto nei pazienti a rischio per gravi infezioni da CMV (retiniti, polmoniti, esofagiti ecc.). Altri composti capaci di inibire l’attività della DNA polimerasi virale sono gli analoghi nucleotidici. Si tratta di nucleosidi aciclici fosfonati. Il gruppo fosfonato ha lo stesso ruolo del gruppo fosfato, ma a differenza di questo non viene tagliato dalle esterasi cellulari che, normalmente, convertono i nucleosidi monofosfato nelle forme nucleosidiche. Questi composti non necessitano quindi della prima fase di fosforilazione e risultano attivi su quei virus a DNA che non codificano per enzimi come la TK o la PK. È inoltre importante ricordare che essi permettono di superare la resistenza dovuta a mutazioni insorte in quei geni che codificano per la TK o per la PK. Un analogo nucleotidico disponibile in commercio è il cidofovir (analogo della citidina-monofosfato), in grado di inibire la DNA polimerasi di diversi virus (adenovirus, poliomavirus e herpesvirus); è tuttavia prevalentemente utilizzato per l’infezione da CMV. Un altro composto attivo sui processi di sintesi della DNA polimerasi e utilizzato principalmente per le infezioni erpetiche è il foscarnet. Si tratta di un analogo inorganico del pirofosfato (trisodio-fosfonoformato-esaidrato) in grado di inibire in vitro la replicazione dei membri della famiglia Herpesviridae e Hepadnaviridae agendo selettivamente sulle polimerasi virali. In sostanza il foscarnet, che non richiede fosforilazione da parte di chinasi, si lega al sito della DNA polimerasi virale che catalizza la scissione del pirofosfato dal nucleoside trifosfato incorporato nella catena di DNA. Impedendo il rilascio del pirofosfato, anche il foscarnet porta a una terminazione prematura della catena di DNA virale nascente. La somministrazione di foscarnet è stata dapprima sviluppata nella terapia dell’infezione da CMV nei pazienti affetti da AIDS. L’efficacia osservata (relativamente anche alle recidive) è paragonabile a quella che si osserva con il ganciclovir. Nuovi composti anti-HSV, recentemente descritti ma non ancora registrati, hanno come bersaglio il complesso elicasi-primasi, il cui ruolo è quello di “srotolare” la doppia catena di DNA virale e di generare gli inneschi per la DNA polimerasi virale. Questi nuovi composti, che sono dei derivati tiazolofenilici, interagendo con il complesso elicasi-primasi aumenterebbero la sua affinità per il DNA virale a un punto tale da bloccarne l’attività elicasica e primasica. Anche in questo caso l’esito finale è l’inibizione della sintesi degli acidi nucleici virali. Questi farmaci sono molto promettenti ma non hanno avuto ancora l’approvazione per l’utilizzo in clinica.

Inibitori della trascrittasi inversa (RT) La trascrittasi inversa è, come noto, un enzima essenziale alla replicazione dei retrovirus. La caratterizzazione molecolare e strutturale di questo enzima ha portato, nel caso di HIV, all’identificazione di numerosi composti capaci di inibirne selettivamente l’attività o agendo come terminatori di catena (analoghi nucleosidici) o impedendone l’azione dopo essersi complessati con essa (inibitori non nucleosidici). Tra gli analoghi nucleosidici è d’obbligo ricordare l’azidotimidina (3′-azido-3′-deossitimidina), chiamata alternativamente AZT, il primo composto a essere utilizzato nel trattamento dell’infezione da HIV e l’unico usato, in passato, come monoterapia.

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Questo composto è un analogo della timidina in cui il gruppo ossidrile in 3′ è sostituito con il gruppo azidico. L’AZT è in grado di inibire la replicazione del virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV-1) e di numerosi altri retrovirus dei mammiferi. Il meccanismo d’azione è quello tipico degli analoghi di nucleosidi. Essa infatti va a interferire, inibendo specificatamente l’azione della trascrittasi inversa, nella trascrizione dell’RNA virale in DNA. In sostanza, l’AZT dopo la fosforilazione che avviene a opera di enzimi cellulari, viene riconosciuta come un normale nucleotide dalla trascrittasi inversa del virus e viene pertanto inserita al posto della timidina nella catena del DNA (fig. 67.3). Tuttavia, dal momento che non possiede il gruppo ossidrile nella posizione 3′, non permette l’elongazione della catena nascente di DNA virale. Diversamente dall’aciclovir, la concentrazione intracellulare di AZT fosforilata non dipende dalla replicazione virale; essa è identica indipendentemente dal fatto che le cellule siano infette o non infette. Tuttavia l’AZT mostra un’affinità circa 100 volte superiore per la trascrittasi inversa virale rispetto alla DNA polimerasi cellulare e pertanto viene incorporata preferenzialmente nel DNA virale rispetto a quello cellulare. Ad oggi, gli analoghi nucleosidici approvati per l’uso clinico del trattamento dell’infezione da HIV comprendono analoghi timidinici, quali l’AZT e la 2′-3′-dideidro-3′-deossitimidina (d4T), analoghi della citidina, come la 2′-desossi-3′-tiacitidina (3TC) e la 3′-tia-2′-3′-dideossofluorocitidina (FTC), analoghi della guanosina, quale il composto noto come abacavir, e analoghi dell’adenina, come la 2′-3′-dideossinosina (ddI). Tutti questi composti, come riportato per l’AZT, agiscono come terminatori di catena e la loro selettività è dovuta all’elevata affinità per la trascrittasi inversa. È importante ricordare che questo enzima, sebbene caratteristico della famiglia Retroviridae, si ritrova anche nei membri della famiglia Hepadnaviridae. Non a caso alcuni composti, quali il 3TC e l’FTC, vengono attualmente utilizzati anche per il trattamento dell’epatite da HBV. Come visto per le DNA polimerasi, anche l’attività della trascrittasi inversa può essere inibita mediante analoghi nucleotidici. In particolare, per quanto riguarda l’infezione da HIV, il tenofovir, che è un nucleoside fosfonato, è stato approvato per l’uso clinico; esso, insieme a un altro analogo dell’adenosina-monofosfato, l’adefovir, viene utilizzato anche per il trattamento dell’epatite cronica da HBV. Per quanto riguarda i farmaci non nucleosidici questi sono principalmente derivati delle benzodiazepine. Essi sono inibitori allosterici e interagiscono con la RT legandosi a una tasca idrofobica dell’enzima. Tra gli analoghi non nucleosidici distinguiamo quelli di prima generazione quali la nevirapina e l’efavirenz, e quelli di seconda generazione come l’etravirina e la rilpivirina, la cui sintesi si è resa necessaria per superare la farmacoresistenza sviluppata da nevirapina ed efavirenz. Questi composti sono estremamente efficaci e con un altissimo indice di selettività, risultando attivi addirittura solo sull’HIV e non su altri retrovirus. Figura 67.3 Meccanismo d’azione dell’azidotimidina (AZT). Questo composto, per poter esercitare la sua azione antivirale, deve essere fosforilato da chinasi cellulari. La timidina chinasi (TK) cellulare è responsabile della prima fosforilazione, successivamente intervengono la timidilato (dTMP) chinasi e la nucleotide (dNDP) chinasi. Le forme trifosfato possono così competere con la timidina trifosfato (Thd-TP).

dTMP chinasi

TK

AZT

AZT

Thd

Thd-MP

P

dNDP chinasi AZT

P

Thd-DP

P

RT

AZT

P

Thd-TP

P

P

DNA

DNA

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Capitolo 67 • Farmaci antivirali

Inibitori della RNA polimerasi-RNA dipendente (RpRd) Nei virus a RNA la sintesi degli acidi nucleici avviene grazie alla presenza della RpRd. Come visto per i retrovirus e per i virus a DNA, anche in questo caso la sintesi dell’RNA virale può essere inibita bloccando l’attività dell’enzima responsabile della sua produzione. L’attenzione è, oggi, rivolta soprattutto agli inibitori della RpRd di HCV. Occorre ricordare che non esistono ancora colture cellulari che permettano un’efficiente replicazione del virus dell’epatite C, pertanto la determinazione dell’attività antivirale dei nuovi composti viene valutata mediante l’uso di “repliconi” (sequenze subgenomiche di HCV capaci di replicazione autonoma in colture cellulari). Recentemente quindi sono stati registrati e introdotti diversi inibitori della polimerasi virale (NS5B), utilizzati da soli o in combinazione con inibitori che agiscono sulla proteina NS5A del complesso proteico della polimerasi virale o con inibitori della proteasi virale NS3 di HCV (vedi oltre). Tra i più utilizzati: sofosbuvir, dasabuvir, daclatasvir, ombitasvir, ledipasvir ed elbasvir. Il dasabuvir è un analogo non nucleosidico che si lega alla polimerasi virale bloccandone l’attività. Il sofosbuvir invece è un analogo nucleotidico dell’uridina che dopo essere stato fosforilato nella forma trifosfato si incorpora nella catena nascente di RNA portando alla sua terminazione. Tutti gli altri sono inibitori della proteina NS5A ad eccezione della ribavirina. Essa è un analogo della guanosina utilizzato, in clinica, in associazione con l’interferon e con altri farmaci anti-HCV: per le sue particolari caratteristiche questa molecola merita una trattazione a parte.

■■

Ribavirina

La ribavirina (1-beta-d-ribofuranosil-1,2,4-triazol-3-carbossamide) è un nucleoside sintetico analogo della guanosina in grado di inibire in vitro la replicazione di numerosi virus a DNA e RNA (adenovirus, poxvirus, retrovirus, mixovirus, arenavirus e bunyavirus, hepacivirus). La ribavirina esercita la sua azione su diversi bersagli (cellulari e virali). In particolare, la ribavirina-monofosfato inibisce l’inosina-monofosfato deidrogenasi, un enzima chiave nella biosintesi del GTP, e di conseguenza porta a un’alterazione della composizione del “pool” nucleotidico. La forma trifosfato, invece, oltre a inibire l’attività delle polimerasi virali, è in grado di inibire il “capping” degli RNA messaggeri virali inibendo l’attività dell’enzima responsabile di questo processo: la guanililtransferasi. È stato inoltre riportato che la ribavirina può indurre, nel genoma virale, un accumulo di mutazioni tale da risultare letale per il virus. Infine è noto che la ribavirina aumenta la risposta immune cellulo-mediata contro le infezioni virali. Per quanto riguarda la tossicità, la ribavirina ha capacità mutageniche e trasformanti. È stata evidenziata anche un’attività teratogena negli animali da esperimento. La terapia con ribavirina per aerosol è praticata in diversi Paesi nel trattamento della bronchiolite e polmonite da virus respiratorio sinciziale o nelle gravi forme di infezione da virus influenzale. È stata inoltre dimostrata l’attività terapeutica della ribavirina somministrata per via orale o endovenosa anche in pazienti affetti da febbre di Lassa. In questo caso si è visto che il trattamento può ridurre significativamente la mortalità, specialmente se la somministrazione viene iniziata precocemente nel corso della malattia.

67.4 - Inibitori dell’integrasi Il processo di integrazione del genoma virale nel genoma della cellula ospite costituisce un passo chiave per la replicazione dei virus appartenenti alla famiglia Retroviridae. L’enzima responsabile di questo processo è l’integrasi, che essendo essenziale per il ciclo vitale del virus rappresenta un bersaglio ideale per il trattamento dell’infezione. La comprensione del meccanismo di integrazione del genoma di HIV nella cellula ospite ha permesso di sintetizzare una nuova classe di farmaci: gli inibitori dell’integrasi. In

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particolare tre composti sono stati approvati all’uso clinico: raltegravir, elvitegravir e dolutegravir, capaci di inibire la fase di strand transfer. Il processo di integrazione, infatti, consta di una prima fase chiamata “3′-processing”, durante la quale l’enzima scinde due nucleotidi (GT) dall’estremità 3′-terminale del DNA virale, e di una seconda fase (strand transfer) durante la quale l’integrasi catalizza l’associazione tra DNA virale e DNA cellulare. Raltegravir, elvitegravir e dolutegravir impediscono il trasferimento dell’acido nucleico virale legandosi all’enzima nel sito di legame con il DNA cellulare.

67.5 - Inibitori delle proteasi Un altro bersaglio della terapia antivirale è rappresentato dai processi post-traduttivi che portano alla formazione delle singole proteine virali essenziali per il proseguimento della replicazione e per la maturazione dei virioni. Questa scissione è operata, in diversi casi, da proteasi virali. La caratterizzazione di questi enzimi ha permesso di ottenere diversi composti capaci di inibirne l’attività. Attualmente gli inibitori della proteasi approvati per l’uso clinico riguardano l’infezione da HIV e da HCV. La proteasi dell’HIV, un enzima dimerico appartenente alla famiglia delle proteasi aspartiche, media la scissione del precursore gag e gag-pol. Una volta identificata la struttura tridimensionale dell’enzima sono state sintetizzate diverse molecole che mimando il substrato inibiscono l’azione dell’enzima mediante un meccanismo di tipo competitivo (fig. 67.4). I farmaci appartenenti a questa classe (ritonavir, saquinavir, atazanavir, lopinavir e darunavir) sono tutti inibitori peptidomimetici; l’unico composto che agisce con un meccanismo diverso è il tipranavir. Un’altra proteasi virale oggetto di numerosi studi è, come sopra accennato, quella dell’HCV. Si tratta di una serino-proteasi, codificata dal dominio NS3, che per esercitare la sua funzione necessita di un cofattore codificato dalla regione NS4A del genoma virale. Anche in questo caso sono state sintetizzate diverse molecole capaci di inibire l’attività della proteasi di HCV. Sulla base di caratteristiche chimiche, affinità per le proteine virali, farmacocinetica e attività sui diversi genotipi, gli inibitori della proteasi di HCV possono essere distinti in inibitori di prima generazione, quali boceprevir e telaprevir, di fatto non più utilizzati, inibitori di seconda generazione, come il simeprevir e di terza generazione come il paritaprevir, l’asunaprevir e il grazoprevir. Come accennato alcuni dei suddetti inibitori sono utilizzati in combinazione con gli inibitori della polimerasi virale. Figura 67.4 Meccanismo di azione degli inibitori della proteasi. La proteasi virale è responsabile della scissione proteolitica del precursore poliproteico. Gli inibitori di questo enzima impediscono la formazione delle proteine mature.

Precursore poliproteico

Precursore poliproteico

Inibitore proteasi Proteasi virale

Scissione proteolitica Legame dell’inibitore con la proteasi

Proteine mature Precursore non processato

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Capitolo 67 • Farmaci antivirali

67.6 - Inibitori del rilascio La liberazione delle nuove particelle virali dalla cellula infetta rappresenta una fase necessaria affinché la progenie virale possa diffondersi e infettare nuove cellule. Durante la fase di gemmazione alcuni virus possono rimanere attaccati alla superficie della cellula ospite a causa di interazioni che si vengono a stabilire tra glicoproteine virali di superficie e glicoproteine cellulari. È questo, ad esempio, il caso del virus influenzale, che dopo essere gemmato dalla cellula rimane attaccato ad essa a seguito del legame dell’emagglutinina virale con le molecole di acido sialico presenti sul recettore cellulare. Il virus riesce a superare questo blocco grazie all’azione dell’enzima virale neuraminidasi, che scinde le molecole di acido sialico e permette il rilascio dei virioni. Gli inibitori della neuraminidasi bloccano questo processo impedendo così la diffusione del virus. L’oseltamivir e lo zanamivir sono due composti che agiscono con questo meccanismo. Entrambi mimano la struttura dell’acido sialico agendo quindi come degli inibitori competitivi. Lo zanamivir deve essere somministrato per via inalatoria, mentre l’oseltamivir viene somministrato per via orale.

67.7 - Nuovi bersagli della terapia antivirale A causa dell’inscindibile dipendenza del virus dalla cellula ospite, negli ultimi anni alcuni studi hanno considerato la possibilità di inibire la replicazione virale agendo su molecole cellulari. Un esempio di questa strategia è rappresentato dall’inibizione dell’inosina-monofosfato (IMP) deidrogenasi. Come sopra descritto (vedi ribavirina), questo è un enzima chiave della biosintesi del GTP. Inibitori di questo enzima potrebbero influenzare la replicazione sia dei virus a DNA sia dei virus a RNA, riducendo il pool di GTP. Sebbene si tratti di ostacolare l’azione di un enzima cellulare, l’inibitore dovrebbe ridurre preferenzialmente l’RNA o il DNA virale, dal momento che nelle cellule infette c’è un aumentato bisogno di questa sintesi. La IMP deidrogenasi può essere inibita da inibitori competitivi, come la ribavirina, e non competitivi, come l’acido micofenolico. Fra le diverse molecole cellulari che possono essere bersaglio di terapie antivirali una particolare attenzione è stata recentemente rivolta agli istoni deacetilasi. Questi enzimi, insieme alle acetiltransferasi, controllano il grado di acetilazione degli istoni. Generalmente i geni attivi dal punto di vista della trascrizione sono associati a istoni altamente acetilati mentre l’ipoacetilazione, riducendo lo spazio intermedio tra i nucleosomi, impedisce il legame dei fattori di trascrizione al DNA portando a una repressione trascrizionale. È stato osservato che questo meccanismo di controllo della trascrizione contribuisce al mantenimento della latenza di HIV, che come noto si integra nel DNA cellulare. Dal momento che la presenza del DNA provirale rappresenta l’ostacolo principale all’eradicazione di questo virus dall’organismo (vedi Cap. 63), alcuni autori hanno proposto di “slatentizzare” il virus attivandone la trascrizione genica mediante inibitori degli istoni deacetilasi e bloccarlo quindi con un’efficace terapia antiretrovirale. La peculiarità di questa strategia è quella non solo di avere come bersaglio una molecola cellulare ma di attivare piuttosto che reprimere la replicazione del virus.

67.8 - Resistenza ai farmaci e terapia combinata Un aspetto apparentemente marginale ma che recentemente ha destato l’attenzione di numerosi studiosi e clinici è quello relativo allo sviluppo di farmaco-resistenza. È noto che anche nella terapia antivirale, come nel caso dell’antibioticoterapia, esiste il problema dell’insorgenza di ceppi di microrganismi resistenti a uno o più farmaci. Quando si sviluppano mutanti virali resistenti a un determinato farmaco, quest’ultimo, in genere, perde la sua efficacia terapeutica. In vitro e in vivo sono stati isolati

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e caratterizzati ceppi virali resistenti teoricamente a tutti i farmaci antivirali entrati nell’uso clinico. È stata recentemente documentata la possibilità che l’uso di più sostanze somministrate in combinazione possa essere efficace nel prevenire l’insorgenza di ceppi resistenti. Nel caso inoltre in cui queste sostanze mostrino un sinergismo di azione antivirale ci sarebbero ulteriori vantaggi. Da una parte si potrebbe prevenire lo sviluppo dei ceppi resistenti a una o a entrambe le sostanze utilizzate, dall’altra si potrebbe esplicare una più efficace azione antivirale. Se si aggiunge inoltre il fatto che le due sostanze potrebbero agire su cellule o distretti diversi e che, in presenza di sinergismo d’azione, potrebbero essere somministrate a più bassi dosaggi ovviando ai problemi di tossicità, si comprende l’importanza da un punto di vista applicativo che oggi riveste lo studio delle terapie combinate. La terapia combinata è fortemente raccomandata dalle linee guida internazionali per il trattamento dell’infezione da HIV e da HCV. In quest’ultimo caso la terapia combinata viene utilizzata anche allo scopo di rendere l’attività antivirale pangenotipica, in grado cioè di colpire contemporaneamente i diversi genotipi di HCV.

67.9 - Altri tipi di intervento Finora abbiamo parlato di sostanze in grado di interferire con il ciclo replicativo del virus. Diverso è il discorso dell’azione antivirale esercitata da sostanze in grado di attivare la risposta immune dell’organismo contro le infezioni virali non esercitando alcun effetto diretto sulla replicazione virale. È il caso questo degli immunomodulanti che potenziando i diversi comparti del sistema immunitario possono in qualche modo ostacolare la diffusione dell’infezione virale all’interno dell’organismo. Può rientrare in questo gruppo anche la terapia con immunoglobuline specifiche (immunoprofilassi passiva) che in molti casi (ad es. infezione cronica da echovirus e polmonite da citomegalovirus) si è dimostrata efficace nel migliorare il decorso della malattia. Esiste inoltre il caso, unico al momento attuale, dell’interferon, che esplica sia un’azione antivirale diretta sulla replicazione della maggior parte dei virus animali, sia un’azione indiretta potenziando la risposta immune (cellulo-mediata o umorale) dell’organismo attivata nell’ospite al momento dell’infezione virale (vedi Cap. 68). Esistono infine numerosi agenti fisico-chimici (quali detergenti, solventi organici, raggi ultravioletti, temperatura ecc.) che rapidamente ed efficacemente inattivano la maggior parte dei virus. Essi però, per la loro stessa natura, non hanno trovato alcuna applicazione terapeutica, se si eccettua il caso della crioterapia nel trattamento delle verruche da papillomavirus. In questo caso, tuttavia, l’efficacia è legata alla distruzione simultanea delle cellule e del virus in esse contenute.

Bibliografia essenziale Antonelli, G., Turriziani, O. (2012), «Antiviral therapy: old and current issues», International Journal of Antimicrobial Agents, 40, pp. 95-102. Antonelli, G., Turriziani, O. (2015), «Mechanism of Action of Antiviral Agents», in Goldman, E., Green, L.H. (a cura di), Practical Handbook of Microbiology, 3a ed., Taylor & Francis G., Abingdon-on-Thames, UK. De Clercq, E. (2004), «Antivirals and antiviral strategies», Nature Reviews/Microbiology, 2, pp. 704-720. De Clercq, E., Li, G. (2016), «Approved Antiviral Drugs over the Past 50 Years.» Clin Microbiol Rev, 29(3):695-747. González-Grande, R., Jimènez-Pèrez, M., González Arjona, C., Mostazo Torres, J. (2016), «New approaches in the treatment of hepatitis C», World Journal of Gastroenterology, 22, pp. 1421-32.

Capitolo

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Sistema interferon

L’interferon (IFN) venne descritto per la prima volta nel 1957 da Isaacs e Lindeman come fattore in grado di interferire sulla replicazione virale. Oggi si parla di sistema IFN a indicare l’insieme delle proteine, aventi caratteristiche simili ma non identiche, che svolgono un ruolo fondamentale nella risposta immunitaria innata alle infezioni. L’azione degli IFN spazia dalla difesa contro le infezioni virali alla regolazione della crescita e del differenziamento cellulare, per collocarsi infine all’interno della rete di interazioni che regolano la risposta immunitaria.

68.1 - Proprietà del sistema IFN Il sistema IFN è costituito da una famiglia di proteine che possono essere suddivise, in base al tipo di recettore al quale si legano, in IFN di tipo I, IFN di tipo II e IFN di tipo III. Nella specie umana l’IFN di tipo I è rappresentato principalmente dall’IFN-α (costituito da un gruppo di circa 12-13 sottotipi) e dall’IFN-β (tab. 68.1). Appartengono inoltre all’IFN di tipo I l’IFN-ω, per vari aspetti assimilabile al tipo α, l’IFN-ε e IFN-κ, che non sono ancora stati caratterizzati in dettaglio. I diversi sottotipi di IFN-α presentano il 90% di identità della sequenza aminoacidica e approssimativamente un 30% di sequenze omologhe con gli altri IFN di tipo I. Tutti gli IFN di tipo I sono codificati da geni situati sul cromosoma 9. L’IFN di tipo II comprende invece solamente un sottotipo, l’IFN-γ, codificato da un gene situato sul cromosoma 12. Gli IFN di tipo I si legano al medesimo recettore, composto da due subunità (IFNAR1 e IFNAR2), mentre l’IFN-γ utilizza un recettore differente. Gli IFN di tipo III sono rappresentati da quattro proteine: IFN-λ1 o interleuchina (IL)-29, IFN-λ2 o IL-28A, IFN-λ3 o IL-28B e IFN-λ4 (tab. 68.1). L’IFN-λ2 ha nella sequenza aminoacidica un’identità di circa il 96% con l’IFN-λ3, mentre l’IFN-λ1 mostra un’omologia di sequenza con l’IFN-λ2 pari all’81%. La similarità di sequenza tra l’IFN-λ4 e gli altri IFN-λ1-3 è meno evidente ed è pari soltanto al 30% con l’IFN-λ3. Inoltre, rispetto agli IFN-λ1-3, la produzione dell’IFN-λ4 è controllata da una variante frameshift dinucleotidica denominata IFNL4-ΔG/TT (rs368234815, originariamente designata come ss469415590) nel primo esone del gene. In particolare, l’IFN-λ4 può essere prodotto esclusivamente da quegli individui che presentano una delezione frameshift (ΔG) che crea una open reading frame (ORF) per l’IFN-λ4. Al contrario, il polimorfismo TT (inserzione frameshift) determina, attraverso lo scivolamento del modulo di lettura, la formazione di un codone di stop che si traduce nella mancata produzione di IFN-λ4. L’allele ΔG è presente nel 70% degli individui di origine africana, nel 30% dei caucasici e nello 0-5% degli asiatici. Gli IFN di tipo III sono codificati nell’uomo da 4 geni situati sul cromosoma 19 e si legano a un recettore costituito da due subunità, denominate IL-28Rα o IFN-λR1 e IL-10R-β. Quest’ultima è condivisa con altre interleuchine quali IL-10, IL-22 e IL-26 ed è espressa, come il recettore degli IFN di tipo I, in maniera ubiquitaria nelle cellule. Viceversa l’espressione della subunità IFN-λR1 appare limitata solo ad alcuni tipi di cellule tra le quali soprattutto quelle di natura epiteliale.

• Proprietà del sistema IFN • Induzione dell’IFN • Meccanismo d’azione • Meccanismi di evasione • Applicazioni terapeutiche • IFN e immunità

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Tabella 68.1 Caratteristiche degli interferoni umani.

Tipo

Sottotipo

Recettore

Localizzazione cromosomica

Numero di aminoacidi

Peso molecolare Distretto di (kilodalton) espressione

IFN-α

IFNAR1/IFNAR2

9p21

165-166

15-23

Espresso in maniera ubiquitaria

IFN-β

IFNAR1/IFNAR2

9p21

166

15-23

Espresso in maniera ubiquitaria

IFN-ε

IFNAR1/IFNAR2

9p21

208

24,4

Cellule epiteliali, cellule nervose

IFN-κ

IFNAR1/IFNAR2

9p21

180

24,5

Cheratinociti dell’epidermide

IFN-ω

IFNAR1/IFNAR2

9p21

172

20-23

Espresso in maniera ubiquitaria

II

IFN-γ

IFNGR1/IFNGR2

12q24.1

146

34

Linfociti T, cellule NK

III

IFN-λ1

IL-28Rα/IL-10R-β

19q1

200

20-33

Cellule epiteliali, cellule della linea mieloide o linfoide

IFN-λ2

IL-28Rα/IL-10R-β

19q1

200

22

Cellule epiteliali, cellule della linea mieloide o linfoide

IFN-λ3

IL-28Rα/IL-10R-β

19q1

196

22

Cellule epiteliali, cellule della linea mieloide o linfoide

IFN-λ4*

IL-28Rα/IL-10R-β

19q1

179

19

Cellule epiteliali, cellule della linea mieloide o linfoide

I

* L’espressione di IFN-λ4 è controllata da una variante frameshift dinucleotidica denominata IFNL4-ΔG/TT (rs368234815) nel primo esone del gene. L’IFN-λ4 viene prodotto esclusivamente da quegli individui che presentano una delezione frameshift (ΔG) che crea una open reading frame (ORF) per l’IFN-λ4.

Le differenti classi di IFN vengono prodotte da tipi cellulari diversi. L’IFN-α viene prodotto da tutte le cellule nucleate ma prevalentemente dalle cellule dendritiche plasmacitoidi (pDCs da “plasmacytoid dendritic cells”) e in minor misura dai linfociti e macrofagi; l’IFN-β da cellule fibroepiteliali e macrofagi; l’IFN-ε da cellule nervose, da cellule epiteliali del tratto respiratorio, del tratto gastrointestinale, e dell’apparato riproduttivo femminile, mentre l’IFN-κ risulta espresso ad alti livelli nei cheratinociti. L’IFN-γ viene prodotto principalmente dai linfociti T e dalle cellule NK. Gli IFN-λ sono prodotti invece prevalentemente da cellule epiteliali del tratto respiratorio e del tratto gastrointestinale e da alcune cellule ematopoietiche, principalmente monociti, cellule dendritiche e pDCs. Tutti le proteine del sistema IFN hanno in comune le seguenti caratteristiche:

• sono proteine cellulari inducibili in primo luogo dalle infezioni virali ma anche da vari altri stimoli;

• non possiedono attività antivirale diretta ma sono capaci di indurre, nelle cellule

con cui vengono a contatto, uno stato di resistenza antivirale associato alla produzione di altre proteine, dette effettrici; • la loro azione non è specifica per il virus inducente; in effetti possono inibire virtualmente la replicazione di qualunque altro virus; • sono invece dotate di specificità di specie, essendo capaci di agire, in linea di massima, solo su cellule della stessa specie animale, o di specie tassonomicamente molto vicine a quella da cui sono state prodotte;

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Capitolo 68 • Sistema interferon

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• la loro persistenza nei vari distretti dell’organismo è limitata ma lo stato antivirale e gli effetti biologici da esse indotti permangono per 24-48 ore dopo la loro eliminazione.

68.2 - Induzione dell’IFN La risposta immunitaria innata nei confronti di un’infezione microbica viene attivata in seguito al riconoscimento di alcune molecole conservate prodotte dai patogeni (denominate PAMPs, pathogen-associated microbial patterns) da parte di recettori specializzati, i Pattern Recognition Receptors (PRRs), espressi sulle membrane o all’interno delle cellule dell’organismo. Tale attivazione comporta anche la produzione di IFN di tipo I/III a seconda dal tipo di cellula esposta all’attacco microbico. I PRRs possono essere categorizzati in due classi in funzione della loro localizzazione a livello cellulare. I PRRs che riconoscono PAMPs extracellulari sono presenti sulla membrana plasmatica o sulle membrane degli endosomi, come proteine transmembrana, e comprendono i toll like receptors (TLRs), che sono espressi prevalentemente dalle cellule deputate alla risposta immunitaria (box 68.1). Al contrario, il riconoscimento di acidi nucleici prodotti durante il ciclo replicativo dei virus rappresenta il principale meccanismo responsabile dell’induzione di uno stato di resistenza antivirale mediato dai PRRs che legano PAMPs intracellulari (box 68.2). Si ritiene che i PRRs a localizzazione citoplasmatica siano espressi in maniera ubiquitaria per consentire l’attivazione di una rapida risposta immunitaria innata con la conseguente produzione di IFN di tipo I/III nella maggior parte delle cellule dell’ospite esposte a un’infezione virale. Mentre gli IFN di tipo I e III vengono sintetizzati dopo il legame dei PAMPS ai PRRs, l’IFN-γ non è invece prodotto direttamente da virus ma è una caratteristica citochina dei linfociti T stimolati con mitogeni o con antigeni specifici verso i quali i linfociti siano stati precedentemente sensibilizzati. Al meccanismo di induzione partecipano i macrofagi e altre cellule presentanti l’antigene (APC, antigen presenting cells), sia direttamente con la presentazione dell’antigene, sia mediante la produzione di citochine (IL-1, IL-2, IL-12, IL-18, IL-15, IL-21, IL-23 e IL-27) e l’espressione e secrezione di altri mediatori BOX 68.1 • Pattern Recognition Receptors: Toll Like Receptors (TLR) I TLRs sono proteine di membrana che possiedono una componente extracellulare che consiste di motivi ricchi di leucina e una componente intracellulare che presenta dei domini altamente conservati omologhi al recettore dell’IL-1 e per questo chiamati TIR [toll-interleukin (IL)1-receptors]. L’attivazione dei TLRs avviene in risposta al riconoscimento di specifici repertori molecolari microbici e porta alla rapida produzione, attraverso delle vie di segnalazione complesse innescate dal legame di diverse proteine citoplasmatiche ai domini TIR dei TLRs, di molecole coinvolte nella risposta immunitaria innata (citochine proinfiammatorie, IFN e chemochine). In particolare le vie di segnalazione mediate dai TLRs che portano alla sintesi di IFN e citochine proinfiammatorie prevedono principalmente l’interessamento di alcune molecole adattatrici quali MyD88 (myeloid differentiation factor-88) o TRIF (TIR domain-containing adaptor

inducing IFN-β), e la successiva attivazione di NF-κB (nuclear factor kappa B) e IRF-3/7 (IFN regulatory factor-3/7). I principali TLRs coinvolti nella sintesi di IFN in risposta al legame di PAMPs extracellulari sono il TLR2 e TLR4, localizzati sulla membrana plasmatica, e i TLR 3, 7, 8 e 9, che si collocano invece sulle membrane dei compartimenti endosomiali della cellula. Le pDC, che rappresentano le cellule che producono le maggiori quantità di IFN-α in risposta all’infezione virale, esprimono selettivamente il TLR7 e il TLR9. È stato dimostrato che i TLR 2, 3, 4, 7, 8 e 9 inducono la sintesi di IFN sia di tipo I che di tipo III in seguito al riconoscimento di polimeri di RNA a doppia elica (TLR3) o a singola elica (TLR7/8), di molecole di DNA ricche in sequenze CpG non metilate (TLR9), di lipoproteine batteriche (TLR2), del lipopolisaccaride batterico o di proteine virali (TLR2, TLR4).

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BOX 68.2 • Pattern Recognition Receptors: recettori citoplasmatici di acidi nucleici I PRRs che legano molecole di RNA estranee presenti nel citosol comprendono i retinoic acid inducible gene-like helicases (RLHs), RIG-I (retinoic acid-inducible gene I) e MDA-5 (melanoma differentiation-associated gene 5). RIG-I riconosce sia molecole di RNA a doppia elica ( 30 anni

Locali: rossore; tumefazione, dolenzia Generalizzate: febbre con esantema e linfoadenopatia, ipersensibilità, trombocitopenia benigna e manifestazioni neurologiche (rarissime)

HAV

Inattivato

Intramuscolo

2 dosi a distanza di 6-12 mesi l’una dall’altra

> 97%

> 20 anni

Febbre e cefalea (molto rare)

Poliovirus Inattivato (IPV)/ attenuato (OPV)

Intramuscolo (IPV)/ orale (OPV)

3 somministrazioni di IPV nel primo anno di vita (3-5-11 mesi) e un richiamo a 6 anni

> 95%

> 25 anni

Nessuna grave. L’uso di IPV ha annullato i rischi neurologici correlati all’uso di OPV che non è ormai più usato nei Paesi industrializzati

Febbre gialla

Inattivato

Intramuscolo

Consigliata comunque ogni 10 anni in pazienti che viaggiano in zone ad alta endemia

95-98%

> 30 anni

Febbre, cefalea, mialgie, reazioni di ipersensibilità

Influenza

Inattivato/ attenuato

Intramuscolo/ intranasale (LAIV)

Consigliata (vaccino inattivato) ogni anno alle categorie a rischio

0-90% Possibile mismatch fra isolati vaccinali e isolati realmente circolanti

1 anno

Nessuna grave. Locali: dolenzia e indurimento Generalizzate: Febbre, artralgie, mialgie, cefalea. Reazioni di ipersensibilità alle proteine dell’uovo

JEV

Inattivato

Intramuscolo

3 somministrazioni nell’arco di 30 giorni (0-7-30) prima del soggiorno in zone endemiche

80% dopo 2 dosi 99% dopo 3 dosi

(?)

Febbre, cefalea, nausea, dolori addominali, mialgie, vertigini, complicazioni neurologiche, rash cutanei

Vaiolo

Attenuato

Sottocutanea

Somministrazione unica

> 95%

3-5 anni

Febbre, ipersensibilità, manifestazioni cutanee, alterazioni cardiache e del SNC

HBV

Ricombinante Intramuscolo

3 somministrazioni nel primo anno di vita (3-5-11 mesi)

50-99%

3-5 anni

Locali: dolore Generalizzate: cefalea (continua)

Capitolo 69 • Vaccini antivirali

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Tabella 69.2 Caratteristiche principali dei vaccini antivirali disponibili in commercio. (continua)

Virus

Tipo di vaccino

Somministrazione Modalità

Protocollo

Efficacia

Durata della Possibili protezione reazioni avverse

Rabbia

Inattivato

Intramuscolo

Pre-esposizione: 3 dosi in un mese (giorni 0-7-21 o 28) Post-esposizione: 5 dosi (giorni 0-37-14-28) insieme a Ig iperimmuni

100%

> 2 anni

Cefalea, vertigini, mialgie, dolori addominali, ipersensibilità, rarissime complicazioni neurologiche

HPV

Ricombinante (virus-like particles)

Intramuscolo

A partire dall’età di 12 anni, meglio se prima dell’inizio dell’attività sessuale

Elevata ma limitata ai genotipi presenti nel vaccino

(?)

Limitate e locali. In ogni caso ancora in corso di valutazione post-marketing data la recente introduzione

Rotavirus

Attenuato

Orale

3 somministrazioni la prima fra la 6a e la 15a settimana di vita; altre 2 a distanza di almeno 4 settimane l’una dall’altra e non oltre il compimento dell’ottavo mese

> 90% nella prevenzione delle complicanze che necessitano l’ospedalizzazione

(?)

Nessuna grave riportata. In ogni caso ancora in corso di valutazione post-marketing data la recente introduzione. Strettamente controllato è il rischio di intussuscezione che alla fine degli anni ’90 aveva fatto ritirare dal commercio un precedente preparazione vaccinale anti-RV

MPR: morbillo-parotite-rosolia; HAV: virus dell’epatite A; JEV: virus dell’encefalite giapponese; VZV: virus della varicella-zoster; HBV: virus dell’epatite B; HPV: papillomavirus umano; LAIV: live attenuated influenza vaccine.

Il primo vaccino antipolio efficace fu messo a punto all’inizio degli anni ’50 da Jonas Salk, inattivando miscele dei tre tipi di poliovirus con formaldeide. Il vaccino inattivato di Salk fu introdotto negli Stati Uniti nel 1955 e si dimostrò ben presto molto sicuro ed efficace. IPV è il prototipo del vaccino inattivato, presentandone tutte le principali caratteristiche sia positive che negative. A pochi anni dalla sua introduzione esso fu però soppiantato dal virus attenuato privo di neurotropismo di Albert Sabin, scelto tra diversi candidati non senza polemiche. Il vaccino a virus attenuato presentava notevoli vantaggi rispetto all’altra preparazione soprattutto per la possibilità di somministrazione orale e la conseguente capacità di stimolare una robusta immunità mucosale. Rapidamente emersero però le caratteristiche negative tipiche di alcuni vaccini a virus attenuato, prima fra tutte il rischio di retromutazione e reversione al virus selvaggio. Furono infatti descritti i primi casi di manifestazioni neurologiche legate al vaccino, con casi gravissimi di paralisi anche in soggetti non vaccinati, a causa della capacità del virus vaccinale di replicare efficacemente e quindi di trasmettersi da soggetto a soggetto. L’eradicazione della poliomielite ha reso non più sopportabile il rischio, per quanto basso (1/2 500 000), correlato all’uso di OPV, determinando prima l’utilizzo combinato e sequenziale dei due vaccini, e poi, come già detto, la cessazione dell’uso di OPV nei Paesi industrializzati.

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Vaccino anti-epatite A Il vaccino anti-epatite A è costituito da preparazioni di virus inattivato con formalina. L’OMS consiglia la vaccinazione a chi si reca per lavoro o turismo in zone del mondo ad alta endemia. In questi casi deve, però, essere preso in considerazione il tempo necessario alla maturazione di un’efficace risposta antivirale. Il protocollo attualmente in uso prevede una doppia somministrazione a 6-12 mesi di distanza l’una dall’altra. Il 97% dei soggetti sembrerebbe sviluppare una risposta efficace già un mese dopo la prima somministrazione, il 99% sarebbe invece protetto a un mese di distanza dal secondo inoculo. Non sono stati descritte manifestazioni indesiderate degne di nota correlate all’uso di questo vaccino.

Vaccino anti-influenza Il vaccino rappresenta il principale, seppur non completamente efficace, elemento di controllo delle annuali epidemie influenzali. Sin dall’isolamento del virus, nei primi anni ’30 del secolo scorso, si puntò a ottenere con gli approcci già utilizzati per altri patogeni un vaccino efficace. Il primo vaccino, introdotto negli anni ’40, era infatti costituito da particelle intere di virus influenzale inattivato. Questo tipo di preparazioni, seppur discretamente immunogenico, era però gravato da una serie di effetti locali correlati all’inoculo soprattutto nei bambini. Già con queste prime preparazioni fu chiaro come gran parte dell’efficacia protettiva fosse dovuta alla maturazione di una forte risposta anticorpale, soprattutto nella componente diretta contro le proteine di superficie del virus, l’emagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA). Alla luce di queste osservazioni furono nel tempo sviluppate, e introdotte per la prima volta in USA nel 1968, delle preparazioni alternative di vaccino inattivato costituite non più da particelle virali intere, ma da virioni frammentati (split-virus vaccine) a seguito del trattamento con una serie di detergenti. Questo tipo di formulazione riduceva notevolmente gli effetti indesiderati del vaccino, ma il tipo di trattamento ne diminuiva l’immunogenicità soprattutto nei soggetti che non lo avevano ricevuto negli anni precedenti. Un ulteriore miglioramento è stato ottenuto con i cosiddetti vaccini a subunità, costituiti da preparazioni contenenti prevalentemente le proteine HA e NA (nude o espresse su membrane lipidiche, i cosiddetti virosomi), purificate mediante concentrazione su gradiente. Questo tipo di formulazione, oltre a focalizzare la risposta immune sulle due proteine veramente importanti del virus, ha praticamente annullato gli effetti indesiderati delle vecchie preparazioni vaccinali, limitandoli alle sole reazioni di ipersensibilità nei soggetti allergici alle proteine dell’uovo. Ancora oggi, infatti, i vaccini anti-influenzali sono ottenuti da virus fatti crescere in uova embrionate di pollo, anche se sono state nel frattempo sviluppate (ma ancora non usate su larga scala) linee cellulari in grado di supportare efficientemente in vitro la replicazione del virus per usi industriali. La principale problematica correlata alla messa a punto del vaccino annuale è relativa alla corretta previsione degli isolati responsabili della successiva epidemia annuale. L’OMS indica ogni anno gli isolati da inserire nel vaccino, sulla base delle segnalazioni fatte dai suoi centri di riferimento sparsi per il mondo. In ogni caso il vaccino contiene almeno un isolato dei virus H1N1 e H3N2 per il tipo A (ovvero i sottotipi responsabili delle ultime pandemie, rispettivamente nel 2009 e nel 1968), e un isolato del tipo B; tuttavia non è infrequente la comparsa di un isolato diverso, non incluso nel vaccino. Questo naturalmente può annullare completamente l’efficacia protettiva del vaccino. Ciò nonostante, considerata la sua sicurezza e anche in presenza di un’efficacia non ottimale, la vaccinazione anti-influenzale è consigliata ai soggetti di età superiore ai 65 anni, ai soggetti affetti da patologie cardiorespiratorie, e a pazienti immunodepressi a rischio di sviluppare le temibili complicazioni polmonari dell’influenza; in Italia essa è eseguita nel periodo autunnale secondo modalità che vengono annualmente comunicate.

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Capitolo 69 • Vaccini antivirali

Nel 2003 è stato approvato negli Stati Uniti anche un vaccino attenuato a somministrazione intranasale (LAIV – live attenuated influenza vaccine), usato già da molti anni in Russia. Esso contiene virus adattati a crescere a temperature inferiori a quella corporea, e quindi in grado di replicare efficacemente alla temperatura riscontrabile a livello nasale, ma non a quella presente a livello polmonare. Seppure sia stata ampiamente dimostrata la stabilità genetica del virus contenuto in questo tipo di formulazione, non è tuttavia possibile escludere del tutto il rischio di reversione, con conseguente riacquisizione della capacita di replicare a livello polmonare, e soprattutto, data la natura frammentata del genoma, il rischio di ricombinazione con isolati selvaggi. Come tutti i vaccini attenuati, la sua somministrazione è sconsigliata ai soggetti immunodepressi, e gli operatori sanitari vaccinati devono evitare contatti con questi ultimi per almeno tre settimane dalla vaccinazione. Dal 2016 l’uso di questo vaccino non è più raccomandato a causa della progressiva diminuzione della sua efficacia osservata negli anni del suo utilizzo. Sono infine allo studio approcci vaccinali innovativi di tipo “universale”, ovvero in grado di garantire l’efficacia protettiva pur in presenza delle continue e imprevedibili mutazioni degli isolati circolanti. A tale scopo, particolare attenzione è attualmente riservata a porzioni più conservate dell’HA, quali la regione stem. Sono stati infatti recentemente identificati alcuni anticorpi monoclonali umani diretti contro tale porzione della proteina e in grado di neutralizzare un ampio pannello di virus influenzali. Lo studio degli epitopi riconosciuti da tali anticorpi potrà infatti permettere la messa a punto di vaccini epitope-based in grado di suscitare una risposta diretta contro tali regioni e quindi ampiamente cross-protettiva. Nell’ambito della messa a punto di vaccini anti-influenzali “universali” è utile infine ricordare anche il possibile ruolo di altre proteine meno sottoposte a pressione selettiva da parte del sistema immune, e quindi meno variabili rispetto all’HA, quali la proteina di superficie M2 e le proteine interne M1 e NP.

Vaccino anti-epatite B Il vaccino anti-epatite B è stato il primo vaccino ottenuto con tecniche del DNA ricombinante. Il ricorso a questo tipo di approccio è stato reso necessario dall’impossibilità di coltivare in vitro il virus, da sottoporre poi ai processi di attenuazione o inattivazione. Il primo vaccino anti-HBV fu approvato nel 1981 negli Stati Uniti, utilizzando del plasma di soggetti infetti, previo trattamento di inattivazione chimica delle particelle virali in esso contenuto. A parte le ovvie difficoltà di produzione su larga scala di vaccini di questo tipo, l’approccio in questione esponeva i soggetti vaccinati a rischi infettivi che, nonostante il trattamento chimico, rappresentarono sempre una fonte di notevole preoccupazione in termini di sicurezza. Nel 1986 fu approvato il vaccino attualmente in uso, costituito da una proteina S (la proteina dell’envelope di HBV contro cui è diretta principalmente la risposta neutralizzante), clonata nel genoma di un lievito (Saccharomyces cerevisiae) e così fatta esprimere su larga scala in vitro. Oggi in Italia la vaccinazione è obbligatoria per tutti i neonati, con tre dosi da somministrare entro il primo anno di vita (3°-5°-11° mese).

Vaccino anti-rotavirus I rotavirus (RV) sono la causa più frequente di gastroenterite acuta nei bambini; si calcola che tutti gli individui nel mondo vadano incontro ad almeno un caso di gastroenterite da RV prima dei 5 anni di età. In alcune aree meno sviluppate (Africa Subsahariana e Asia) si concentra la quasi totalità di decessi (500 000-600 000 all’anno) associati alle complicanze di questa infezione, prima fra tutti la disidratazione. Dal punto di vista virologico, si distinguono 7 diversi gruppi antigenici di RV, con il gruppo A re-

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sponsabile della quasi totalità delle infezioni nell’uomo. Sulla base delle caratteristiche delle proteine VP4 e VP7 sono stati finora ulteriormente distinti 23 tipi G e 31 tipi P. Sono disponibili due diverse preparazione di vaccini anti-rotavirus attenuati, uno pentavalente (G1P7, G2P7, G3P7, G4P7, G6P1A) e uno monovalente (G1P8), entrambi a somministrazione orale. Le linee guida attuali raccomandano la prima somministrazione di uno dei due vaccini fra la 6a e la 15a settimana di vita, con 2 somministrazioni successive da eseguire a distanza di almeno 4 settimane l’una dall’altra e non oltre il compimento dell’ottavo mese. Nonostante la recente introduzione (2006 per il vaccino monovalente e 2008 per il vaccino pentavalente) è già evidente l’impatto che negli Stati Uniti la vaccinazione anti-rotavirus ha avuto sull’epidemiologia dell’infezione e sulle ospedalizzazioni ad essa correlata. Nel 2009 l’OMS ha fortemente raccomandato l’introduzione nei vari piani vaccinali nazionali della vaccinazione anti-rotavirus.

Vaccino anti-papillomavirus Di recente introduzione in Italia è il vaccino anti-papillomavirus (HPV) per la prevenzione delle complicanze neoplastiche (in particolare il carcinoma della cervice uterina) legate all’infezione da parte di alcuni genotipi di questo virus. Nella sua formulazione attuale più ampia esso è costituito da virus-like particles (VLP) dei quattro genotipi a maggior rischio di trasformazione neoplastica (6, 11, 16, 18), ovvero particelle non infettanti prive di DNA e derivanti dall’autoassemblaggio della proteina virale L1 ricombinante espressa in vitro. Più recente, seppur non incluso nell’ambito del piano vaccinale in Italia, è un analogo vaccino contenente ben nove genotipi ad alto rischio (6, 11, 16, 18, 31, 33, 45, 52, 58). La somministrazione è consigliata a partire dall’età di 12 anni, ma sarà necessario attendere ancora qualche anno per una corretta valutazione del suo reale impatto profilattico, anche se i primi dati raccolti sembrano davvero incoraggianti in termini di riduzione delle lesioni precancerose. Di particolare importanza, in quest’ambito, è l’estensione dell’obbligatorietà del vaccino anche ai coetanei maschi, al fine di limitare ulteriormente la diffusione dei genotipi trasformanti.

Bibliografia essenziale Abbas, A., Lichtman, A.H., Pillai, S., Cellular and Molecular Immunology, 8a ed., Elsevier, Saunders, Philadelphia, PA, 2014. Knipe, D.M., Howley, P.M., Fields Virology, 6a ed., Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia, PA, 2013.

Capitolo

70

Vettori virali nelle biotecnologie mediche

I virus in natura, un po’ come i molto più recenti virus informatici, sono programmati per veicolare informazione genetica in cellule eucariotiche e procariotiche. L’informazione può essere estesa anche a geni o frammenti di geni di natura esogena che, per eventi spontanei o manipolazione genica, sono stati inseriti nel genoma virale o sono contenuti all’interno del capside. Il trasporto di acido nucleico eterologo da una cellula all’altra è chiamato trasduzione, un fenomeno noto da tempo, che avviene in natura e che, come descritto nel Capitolo 5, è distinto in trasduzione generalizzata (incorporazione casuale di frammenti di DNA cellulare nel capside) e trasduzione specializzata (limitata ai virus che integrano il proprio acido nucleico nel genoma cellulare e relativa al trasporto di DNA cellulare adiacente al sito di integrazione provirale). Di particolare rilievo per l’argomento affrontato in questo capitolo è il fatto che le cellule trasdotte acquisiscono le proprietà biochimiche codificate dai geni eterologhi stessi (chiamati anche transgeni). Oltre ad aver dato un contributo sostanziale all’analisi funzionale di geni cellulari, la trasduzione è stata vista sin da subito come un sistema con il quale manipolare il genoma della cellula (terapia genica) o far esprimere proteine terapeutiche (ad es. ormoni, fattori di crescita ecc.) e immunogeni per vaccinare contro agenti infettivi o tumori. Lo sviluppo di vettori virali, derivati, per sommi capi, mediante rimozione di geni essenziali alla replicazione e alla patogenesi, è un processo iniziato oltre trent’anni fa. Questo sviluppo, pur se segnato da vari incidenti di percorso, alcuni drammatici, è stato caratterizzato da un lento ma costante miglioramento della sicurezza dei vettori e della loro efficacia di veicolazione di transgeni (delivery). Per la sola terapia genica, ad esempio, sono stati approvati dalle autorità competenti oltre duemila trial clinici nell’uomo, la maggior parte dei quali basati sul delivery con vettori virali. Per la cura di alcuni tipi di malattie e la vaccinazione contro tumori e agenti infettivi, l’impiego di vettori virali è diventato l’approccio di prima scelta. Per particolari malattie metaboliche vi sono terapie approvate dalle autorità regolatorie europee e americane basate su vettori virali ingegnerizzati. Ad oggi, infatti, sono stati sviluppati vettori virali da diversi virus, ciascuno con peculiari proprietà funzionali, versatilità e applicabilità. In questo capitolo saranno descritti i principali vettori virali e i relativi vantaggi e limiti in ambito biomedico. Per ragioni di spazio e poiché i virus da cui sono originati sono trattati in capitoli dedicati, saranno citate solo le caratteristiche importanti in ambito vettorologico. Per un confronto tra i vari sistemi di delivery, in tabella 70.1 sono riportate le caratteristiche dei vettori di uso più comune.

70.1 - Vettori retrovirali e lentivirali Vettori retrovirali Il retrovirus è considerato un vettore prototipo per la sua capacità di integrare il proprio genoma in quello della cellula ospite. Per questo motivo i vettori retrovirali sono stati tra i primi sistemi di delivery utilizzati. Questo evento determina una trasduzione stabile

• Vettori retrovirali, lentivirali e adenovirali • Vettori adeno-associati • Vettori erpetici oncolitici

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Tabella 70.1 Caratteristiche salienti dei principali vettori virali.

a b

Vettore

Retrovirale

Lentivirale

Adenovirale

Adeno-associato

Erpetico

Poxvirale

Famiglia

Retroviridae

Retroviridae

Adenoviridae

Parvoviridae

Herpesviridae

Poxviridae

Dimensione virione (nm)

100

100

70-120

20-25

120-300

200-300

Genoma

RNA singola catena polarità +

RNA singola catena polarità +

DNA doppia catena

DNA singola catena

DNA doppia catena

DNA doppia catena

Dimensioni massime acido nucleico eterologo (kb)

≤8

≤9

8-10 (≤ 36)a

≤5

30-50 (≤ 150)b

≤ 30

Titolo vettore prodotto (unità formanti placca)

1 × 108

1 × 108

1 × 1010

1 × 1011

1 × 1010 (1 × 107)

1 × 109

Integrazione nel genoma cellulare





No

No

No

No

Rischio di mutagenesi inserzionale



Molto basso

No

No

No

No

Capacità di infettare cellule quiescenti (o post-mitotiche)

No











Tropismo cellulare

Ampio

Ampio

Ampio

Ampio

Ristretto

Ampio

Immunogenicità

Modesta

Modesta

Elevata

Bassa

Elevata

Elevata

Popolazione pre-immune

Assente

Assente o molto bassa

Elevata

Elevata

Elevata

Elevata in vaccinati contro il vaiolo

Attività oncolitica

No

No

Sì/No







Vettori adenovirali che necessitano di un adenovirus helper per il packaging. Ampliconi derivati da virus herpes simplex (HSV) che necessitano di HSV helper per il packaging.

della cellula. L’immunità pre-esistente contro i retrovirus nella popolazione, che, per alcuni vettori, rappresenta un vero problema, è pressoché nulla, consentendo ai vettori retrovirali di poter essere utilizzati praticamente in ogni individuo. I vettori retrovirali sono in massima parte derivati dal virus della leucemia murina di Moloney (MMLV), un retrovirus anfotropico che utilizza come recettore un fosfolipide di membrana diffuso ed evolutivamente conservato e che lo rende capace di infettare cellule murine e di altre specie, incluse le cellule umane. Come descritto nei Capitoli 36 e 62-63, il genoma dei retrovirus è costituito dai promotori long terminal repeat (LTR), presenti alle estremità, e dai geni gag, pol ed env (oltre ad altre proteine regolatorie nei retrovirus complessi e nei lentivirus). Vi sono inoltre tratti di sequenza non codificanti ma che svolgono un ruolo importante nella retrotrascrizione, nel legame con nucleoproteine, nella veicolazione del genoma al nucleo ecc. Uno di questi è il dominio psi (o ψ) necessario al packaging (incapsidamento del genoma retrovirale nella progenie virale) e compreso tra l’LTR in 5′ e l’inizio di gag. Il concetto alla base dello sviluppo di vettori retrovirali consiste nel fatto che le poliproteine Gag, Pol ed Env, essenziali alla replicazione, possono essere fornite in trans (cioè da plasmidi o costrutti esterni) e che i relativi geni presenti nel genoma retrovirale possono essere sostituiti da DNA eterologo. È possibile, quindi, produrre virioni contenenti il vettore

Capitolo 70 • Vettori virali nelle biotecnologie mediche

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retrovirale mediante due costrutti. Il primo, chiamato anche costrutto di packaging, contiene l’intero genoma retrovirale, è sprovvisto del dominio psi e ha spesso LTR modificati, come descritto oltre. Il secondo costrutto, il vettore vero e proprio, contiene LTR e dominio psi mentre gag, pol ed env sono sostituiti da uno o più geni eterologhi (fig. 70.1). Il costrutto di packaging avrà quindi funzioni di helper e fornirà tutte le proteine necessarie alla replicazione e all’assemblaggio delle particelle vettore. Queste incorporeranno il genoma vettore che incorpora il dominio psi. Oltre al fatto di essere considerati vettori naturali, un altro motivo che ha portato alla notevole diffusione dei vettori retrovirali è la relativa facilità di ingegnerizzazione del genoma retrovirale e la generazione delle particelle vettore. Per queste servono infatti due soli costrutti prodotti entrambi a partire da un plasmide contenente l’intero genoma provirale. I due costrutti sono poi trasfettati in linee continue di cellule eucariotiche, di solito aderenti e chiamate anche cellule packaging. L’espressione dei due costrutti dà luogo alla produzione di proteine virali che si assemblano per costituire le particelle vettore, le quali sono rilasciate nel supernatante di coltura già a poche ore dalla trasfezione (fig. 70.1). Dopo purificazione per eliminare i detriti cellulari, il supernatante può essere usato direttamente o conservato in aliquote congelate a temperature molto basse per preservare l’integrità delle particelle. Come mostrato in tabella 70.1, i vettori retrovirali possono trasportare fino a 7-8 kb di acido nucleico eterologo.

LTR

gag

∆ PE



pro gag

LTR

poli(A)

env

pol

Trasfezione

ns

psi

Vettore Env

LTR

PE

PE

Transgene

p

g ene

ol

Packaging

env

pol

g ag

MMLV

pro

tr a

psi

e nv

LTR Cellula packaging

env

Supernatante coltura

Proteina transgenica RNA dsRNA

Trasduzione

Cellula bersaglio

Figura 70.1 Produzione e trasduzione con vettore retrovirale. Costrutti vettore e packaging sono derivati dal ceppo parentale del virus della leucemia murina di Moloney (MMLV). Il vettore è prodotto per rimozione di gag, pol ed env, il packaging per delezione (indicata con Δ) della sequenza di incapsidamento psi e di env. Nei vettori di prima generazione il transgene inserito nel vettore era sotto il controllo dei long terminal repeats (LTR). Nei vettori successivi il transgene è sotto il controllo di un proprio promotore eucariotico (PE). Nella prima versione env era fornito assieme a gag e pol dal packaging. Nelle ge-

Particelle vettore

nerazioni successive env è fornito in trans per evitare ricombinazioni e formazione di virus replicazione-competenti. Le particelle vettore sono generate per trasfezione dei costrutti packaging, vettore ed env in cellule eucariotiche (chiamate packaging). Il vettore rilasciato nel supernatante di coltura, dopo purificazione per eliminazione di cellule e detriti, è utilizzato per trasdurre la cellula bersaglio. Dopo penetrazione della particella per fusione, l’RNA vettore è convertito in cDNA e integrato nel genoma della cellula da dove inizierà a esprimere in modo stabile la proteina transgenica.

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La trasduzione, sia in vitro che in vivo, avviene mediante l’ingresso delle particelle vettore nella cellula bersaglio. Questo processo è mediato da recettori e avviene con modalità del tutto simili all’infezione naturale. Analogamente, proprio come avviene nel normale ciclo replicativo dei retrovirus, il genoma vettore è retrotrascritto, portato all’interno del nucleo e integrato nel genoma della cellula ospite. Mancando gag, pol ed env, il processo di infezione si arresterà a questo punto e il vettore provirale esprimerà quindi il solo transgene. L’espressione di quest’ultimo è regolata dall’LTR o più solitamente da un proprio promotore. Poiché il vettore è integrato nel DNA genomico, la cellula sarà trasdotta in modo stabile e il transgene verrà ereditato dalle cellule figlie. Rispetto ad altri vettori virali, quelli derivati dai retrovirus hanno indubbi vantaggi ma presentano anche importanti limiti e problemi di sicurezza in vivo. Principale fonte di preoccupazione per l’uso in vivo è la mutagenesi inserzionale che deriva dall’integrazione (casuale e orientabile solo in parte) del genoma vettore nel genoma della cellula ospite. In uno studio condotto alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, nove pazienti di età compresa tra 1 e 11 mesi affetti da X-linked severe combined immunodeficiency disease – un’immunodeficienza grave causata dall’inattivazione di un gene codificante un componente di vari recettori di interleuchine – sono stati reinfusi con cellule staminali linfopoietiche autologhe trasdotte con un vettore retrovirale veicolante il gene funzionale. Il difetto è stato corretto in otto pazienti su nove e i linfociti T trasdotti circolanti erano riscontrabili a oltre 10 anni dalla reinfusione. La terapia genica ha ripristinato la normale timopoiesi e il repertorio di cellule T in sette pazienti. Sfortunatamente, parallelamente a questo straordinario successo, quattro soggetti hanno sviluppato leucemia acuta. Uno di questi è deceduto mentre gli altri tre hanno risposto bene alla chemioterapia che non ha compromesso la ripresa della funzionalità immunologica. Per aumentarne la sicurezza sono state quindi preparate generazioni successive di vettori progettati ad hoc per abbattere il rischio di generazione di particelle virali infettanti e mutagenesi inserzionale. Per ridurre la probabilità di generare particelle infettanti, il genoma vettore e il materiale necessario alla produzione dei virioni sono ora forniti da tre plasmidi anziché due. Un plasmide contiene il genoma vettore, un secondo fornisce rispettivamente gag e pol (questo costrutto mantiene, per convenzione, la denominazione di packaging), il terzo codifica per il gene env. Oltre a ridurre al minimo la possibilità di generare un genoma infettante per ricombinazione tra costrutti, la disponibilità di un costrutto a parte per env (fornito, quindi, in trans) consente, entro certi limiti, di utilizzare recettori virali diversi modificando così lo spettro di cellule bersaglio di infezione (targeting cellulare). Questo accorgimento aumenta molto versatilità e campo di applicazione dei vettori, al punto che la pseudotipizzazione delle particelle vettore con Env di virus diversi è una strategia utilizzata anche per altri vettori virali. Come descritto nel Capitolo 36, la mutagenesi inserzionale è alla base dei meccanismi di trasformazione dei retrovirus e si verifica allorquando il genoma retrovirale si inserisce in prossimità di un oncogene cellulare e ne stimola la trascrizione mediante cis-attivazione. Sebbene l’integrazione non richieda una particolare omologia di sequenza tra genoma virale e cellulare, questa avviene preferenzialmente nell’eucromatina che, a differenza dell’eterocromatina, è trascrizionalmente attiva. I retrovirus, inoltre, tendono a integrarsi in prossimità dei promotori cellulari a ragione della loro maggiore oncogenicità rispetto ai lentivirus. Gli strumenti ad oggi sviluppati per guidare l’inserzione del genoma retrovirale non sono semplici e non garantiscono risultati certi, tuttavia la costruzione di vettori autoinattivanti, descritti nel successivo paragrafo, l’inserimento di sequenze isolanti che prevengono l’interazione delle LTR e del promotore del genoma vettore con le sequenze del genoma cellulare adiacenti al sito di interazione e altri accorgimenti hanno migliorato sensibilmente il livello di sicurezza. Per un approfondimento in tema di sicurezza dei vettori si rimanda alla lettura dell’articolo pubblicato da Chira e collaboratori citato nella Bibliografia essenziale a fine capitolo. Le modificazioni che hanno avuto maggiore impatto sulla sicurezza sono la creazione

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Capitolo 70 • Vettori virali nelle biotecnologie mediche

di vettori auto-inattivanti e di vettori difettivi per l’integrasi. I vettori auto-inattivanti possiedono LTR resi inattivi a seguito di rimozione parziale o completa delle regioni U3. L’eliminazione è ottenuta a partire dalla delezione di U3 in LTR 3′ che, durante il processo di retrotrascrizione, è duplicata nell’LTR 5′ inattivando quindi anche questo LTR. Concettualmente simili sono i vettori in cui gli LTR sono inattivati per sostituzione della U3 con sequenze eterologhe isolanti e/o che consentono tracciabilità o responsività a determinati stimoli del vettore. I vettori che mancano di integrasi sono stati invece ottenuti per mutazione o delezione della regione pol codificante per l’integrasi e presente nei costrutti di packaging. Le particelle vettore saranno quindi prive di questo enzima e il relativo vettore rimarrà allo stato episomiale come DNA doppia catena circolare nel nucleo della cellula. In passato si riteneva che a questo stadio replicativo il genoma fosse inattivo e non desse luogo ad alcuna espressione dei propri geni. È stato poi appurato che esiste una modesta attività trascrizionale in vitro e in vivo che perdura per alcuni giorni. La persistenza come episoma comporta ovviamente la progressiva diluizione del genoma vettore con il susseguirsi delle divisioni cellulari e il silenziamento del genoma stesso. I vettori difettivi per integrazione sono quindi usati per trasduzioni transienti, ad esempio nell’ambito vaccinale, dove l’espressione del transgene (immunogeno) è richiesta solo per brevi periodi. Come descritto nella review a firma del Prof. Luigi Naldini e citata nella Bibliografia essenziale, per gli elevati standard di sicurezza offerti, i vettori auto-inattivanti e difettivi per replicazione sono utilizzati in modo sempre più estensivo.

Vettori lentivirali Come descritto nel Capitolo 63, i lentivirus appartengono alla stessa famiglia dei retrovirus e hanno simile organizzazione genomica e ciclo replicativo. Rispetto ai retrovirus, tuttavia, vi sono differenze a livello replicativo e di regolazione dell’espressione dei geni virali, che conferiscono migliori capacità di delivery e più elevati standard di sicurezza ai vettori lentivirali. A differenza dei retrovirus, che per integrare il proprio genoma in quello della cellula devono aspettare la fase di mitosi cellulare in cui la membrana nucleare è dissolta, i lentivirus possiedono un complesso di preintegrazione formato da proteine virali e cellulari che si associa al DNA circolare a doppia catena prodotto nel citoplasma e lo conduce, attraverso i pori della membrana nucleare, all’interno del nucleo. I lentivirus possono quindi replicare in cellule sia in attiva divisione che in fase di quiescenza. Poiché la maggior parte delle cellule in un organismo adulto sono terminalmente differenziate e si dividono poco o per nulla (si pensi a cellule neuronali, ematopoietiche, muscolari ecc.), è evidente il vantaggio dei vettori lentivirali rispetto ai retrovirali. Seconda importante differenza rispetto ai retrovirus è il fatto che oltre a gag, pol ed env i lentivirus possiedono geni regolatori le cui proteine modulano finemente la replicazione virale e contrastano i sistemi di difesa cellulare (per una descrizione dettagliata vedi Cap. 63). Se da un lato questo complica l’ingegnerizzazione e la costruzione di un vettore, dall’altro è possibile sfruttare queste proteine per aumentarne le capacità di delivery. Ulteriore importante differenza è il fatto che gli LTR dei lentivirus hanno un’attività promotrice costitutivamente bassa e che viene indotta, nel caso di HIV, di due o più logaritmi da Tat, una proteina transattivante prodotta nelle fasi iniziali della replicazione e che si lega in sequenze specifiche dell’LTR 5′ (vedi Cap. 63). HIV quindi regola l’attività di trascrizione dei propri geni virali modulando l’attività degli LTR mediante Tat e, per evitare possibili interferenze, il genoma dei lentivirus si integra lontano dai promotori cellulari riducendo in modo netto rispetto ai retrovirus il potenziale oncogeno per mutagenesi inserzionale. A dimostrazione di ciò, le neoplasie che si osservano nella fase tardiva di infezione da HIV sono conseguenti alla profonda immunodepressione o alla continua stimolazione del sistema immune da parte di agenti esterni più che a un’azione oncogena diretta del virus. Oltre ad HIV, dal quale sono stati derivati vettori ad altissime prestazioni e, come

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A A A

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psi psi U3 R U5 psi

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PE

Transgene

U3 R U3

PE

Transgene

U3 R U3

U3 R U5 RREPE

Transgene

U3 R U3

U3 R U5

RRE RRE

B B B

psi psi U3 R U5 psi

PE

Transgene

U3 R U3

PE

Transgene

U3 R U3

U3 R U5 RREPE

Transgene

U3 R U3

U3 R U5

RRE RRE

C C C

cPPT psicPPT psicPPT PE R U5 PE psi

Transgene

W

PE

Transgene

W

PE R U5 RRE PE

Transgene

W

PE R U5

∆ ∆ R U5 ∆ R U5 R U5

RRE RRE

Figura 70.2 Costrutti utilizzati per la per la produzione di vettori lentivirali di prima (A), seconda (B) e terza (C) generazione. Allo scopo di ridurre il rischio di generare particelle infettanti per ricombinazione, i costituenti necessari per la produzione delle particelle vettore sono forniti da costrutti separati come segue. A. Sistema di prima generazione. Il vettore possiede LTR funzionali, il sito di incapsidamento psi e il Rev-Responsive Element (RRE) necessario per l’esportazione dell’RNA dal nucleo al citoplasma tramite Rev. Il packaging era deleto del solo env mentre erano presenti tutti i geni regolatori. B. Sistema di seconda generazione. Il vettore non è cambiato mentre nel packaging sono stati rimossi tutti i geni regolatori tranne tat e rev necessari rispettivamente per la trascrizione dell’RNA vettore

∆ ∆ PE ∆

gag

PE

gag

PE PE

gag env

PE

env

PE

env

∆ ∆ PE ∆

gag

PE

gag

PE PE

gag env

PE

env

PE

env

∆ ∆ PE ∆

gag

PE

gag

PE PE

gag env

PE

env

PE PE

rev

PE

rev

env

pol

vpr vpr vpr

pol pol

vif vif vif

RRE RRE rev RRE poli(A) poli(A) rev poli(A) rev tat tat tat

pol pol pol

pol pol pol

RRE RRE poli(A) rev RRE poli(A) rev poli(A) rev nef tat nef tat nef tat

poli(A) poli(A) poli(A) RRE RRE RRE

PE detto, rev per l’esportazione degli RNA dal nucleo al citoplasma. e, come C. Sistema di terza generazione. Nel costrutto vettore la regione U3 di 5' LTR è sostituita da un promotore eucariotico (PE). In 3' LTR la regione U3 è parzialmente deleta. Durante la retrotrascrizione dell’RNA virale nelle cellule trasdotte questa delezione è trasferita al 5' LTR. Il relativo cDNA avrà quindi entrambi gli LTR inattivati per delezione in U3. Il vettore presenta inoltre domini come il central poly-purine tract (cPPT) ed elementi non codificanti (W) che migliorano rispettivamente il trasporto del cDNA al nucleo e l’efficienza di traduzione del transgene. Nel packaging sono stati rimossi anche tat e rev. Il primo non è più necessario poiché l’espressione dell’RNA vettore, come detto, è regolata da PE, il secondo è fornito in trans con costrutto separato.

descritto nella Bibliografia essenziale, molto utilizzati in trial clinici, sono stati sviluppati vettori a partire dai virus dell’immunodeficienza della scimmia, del bovino, del felino e dal virus dell’anemia equina infettiva. Dal punto di vista costruttivo e di produzione, i vettori lentivirali sono molto simili ai vettori retrovirali. Oltre al psi, che nei lentivirus si estende alla porzione iniziale di gag, una differenza sostanziale è data dall’esportazione dal nucleo al citoplasma degli RNA messaggeri che non hanno subito splicing, che nei lentivirus avviene grazie a Rev (e altre proteine cellulari) che legano il Rev-Responsive Element (RRE) presente negli stessi RNA messaggeri virali (vedi Cap. 63). Per la sintesi delle proteine strutturali e replicative dei lentivirus è necessario quindi rendere gli RNA messaggeri indipendenti da RRE (e questo viene attuato cambiando alcuni codoni aminoacidici senza perturbare la sequenza proteica) o, più semplicemente, inserendo RRE costrutti vettore e di packaging e fornendo rev integrato nel costrutto di packaging o in trans (fig. 70.2). Per migliorare ulteriormente la sicurezza dei vettori lentivirali si tende a eliminare proteine regolatorie ed enzimatiche che non servono per la produzione delle particelle vettore e, infine, a generare vettori auto-inattivanti o difettivi per integrazione.

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70.2 - Vettori adenovirali Sono vettori molto utilizzati sia in ambito vaccinale che in interventi di ingegneria genetica di natura transiente. Derivano dagli adenovirus, virus a DNA a doppia catena senza involucro che infettano un’ampia gamma di specie. Gli adenovirus che infettano l’uomo sono distinti in oltre cinquanta sierotipi definiti per suscettibilità alla neutralizzazione con antisieri specifici. Questi sierotipi sono a loro volta suddivisi in varie specie in base a proprietà emoagglutinanti (vedi Cap. 42). Per ampio tropismo in vivo, trasporto del genoma virale al nucleo e bassa patogenicità, gli adenovirus sono potenzialmente degli ottimi vettori. Questi vantaggi sono però mitigati da una diffusa immunità di popolazione che rende problematico l’uso di vettori adenovirali derivati da ceppi parentali dei sierotipi più comuni e da una elevata immunogenicità delle proteine strutturali che limita il numero di somministrazioni effettuabili. In pratica, la risposta immune contro il vettore indotta dopo sole due somministrazioni è tale che una terza inoculazione potrebbe scatenare gravi reazioni anafilattiche. A questo proposito è da segnalare la morte di un giovane paziente affetto da una lieve forma di deficit di ornitina-transcarbamilasi, un’epatopatia ereditaria tra le cui manifestazioni vi è un deficit nella metabolizzazione dell’ammoniaca derivata dal catabolismo proteico. Un vettore adenovirale costruito per introdurre una copia funzionale del gene nelle cellule epatiche ha provocato, per un errore nella quantità di vettore inoculato, gravi sintomi respiratori a poche ore dalla somministrazione cui è seguita una sindrome da disfunzione multiorgano acuta e ingravescente. Il decesso del paziente, sopraggiunto al quarto giorno, è stato attribuito a un violento shock anafilattico, suffragato in sede autoptica da un esteso danno d’organo e dal ritrovamento del vettore in milza, linfonodi, midollo osseo e altri organi interni. Questo grave episodio, avvenuto nel 1999, ha causato un brusco arresto e un ripensamento delle intere procedure di esecuzione e controllo della terapia genica. I primi vettori sono stati derivati dagli adenovirus di sierotipo 2 e 5 appartenenti al sottotipo C e associati a lievi forme di infezione nell’uomo. A questi era stato deleto il gene E1A (E da early, precoce) per renderli incapaci di replicare e creare uno spazio sufficiente per l’inserzione del transgene. Sono seguite generazioni successive di vettori nei quali la delezione è stata prima limitata ai geni E1B ed E3 – aumentando così la capacità di trasporto di transgeni di 7-8 kb – fino alla rimozione dell’intero set di geni virali tranne le estremità terminali invertite e la sequenza psi (fig. 70.3); in questi ultimi la capacità di trasporto di materiale genetico eterologo è estesa a 36 kb. Poiché la rimozione dei geni virali compromette la capacità replicativa, per la produzione dei vettori è necessaria la presenza di un virus helper che fornisca in trans le funzioni mancanti. Come per i vettori retrovirali, si utilizzano quindi delle cellule di packaging che sono co-trasfettate con i costrutti vettore e helper. Sebbene sia prodotto di vettore ad alto titolo e siano stati fatti molti passi avanti nel disegno dei costrutti, eventi di ricombinazione tra genoma vettore e helper sono abbastanza frequenti. I vettori prodotti presentano ampio tropismo in vivo e capacità di infettare cellule quiescenti. Come scritto, il genoma vettore persiste nelle cellule allo stato episomale e, sebbene ridotta per i vettori privi della maggior parte dei geni virali, rimane una sensibile tossicità in vivo dovuta a proprietà proinfiammatorie di proteine virali strutturali. Pur essendo forniti in trans, la rimozione della maggior parte dei geni virali ha ridotto le capacità di delivery in vivo. Si è cercato infine di limitare l’induzione della risposta immune anti-vettore e di aggirare l’immunità pre-esistente alternando la somministrazione di vettori derivati da sottotipi diversi o deprimendo il sistema immune in modo transiente e contestualmente all’inoculo del vettore. Transitorietà della trasduzione e immunogenicità del vettore sono d’altra parte visti come un vantaggio nella vaccinazione e nella terapia contro il cancro. L’elevata ma breve espressione del transgene è ideale per indurre una risposta immune contro

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Figura 70.3 Produzione e trasduzione con vettore adenovirale. Dal ceppo parentale di adenovirus sono rimossi i geni regolatori (indicati in blu) mentre sono conservati i geni strutturali (in rosa) e il relativo promotore MLP (major late promoter). Il transgene e il relativo promoter eucariotico (PE) sono inseriti al posto della sequenza codificante E1A/E1B. Le particelle vettore sono prodotte in cellule packaging trasfettate con il DNA vettore. È necessaria anche la presenza di E1A, che è fornito per co-trasfezione o espresso stabilmente dalle cellule packaging. Le proteine strutturali sono codificate dallo stesso DNA vettore. Le particelle vettore rilasciate nel supernatante di coltura sono utilizzate per trasdurre la cellula bersaglio. Dopo penetrazione della particella per endocitosi, il DNA vettore è veicolato nel nucleo, dove ha luogo la produzione della proteina del transgene. Il DNA rimane allo stato episomiale e l’espressione è transiente.

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Ceppo parentale

Pentoni / Core / Esoni

E1A E1B MLP MLP

L1

L2

L3 L3

L4 L4

Fibre L5 L5

E3 E1A

ITR

ITR E2A E2A

E4 E4

E2B E2B

psi ∆E1/A/B ITR

∆E3

PE Transgene MLP

L1

L2

L3

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∆E2A/B Trasfezione

ITR

L5

∆E4

PE E1A

Cellula packaging PE E1A

Supernatante coltura

Particelle vettore

Proteina transgenica

Trasduzione Endosoma

DNA vettore episomiale Cellula bersaglio

il transgene o per l’induzione di processi metabolici che possano innescare la morte della cellula tumorale. L’immunogenicità delle proteine vettore può innescare processi infiammatori che potenziano, creando quindi un effetto adiuvante, la risposta immune contro il transgene e il rigetto delle cellule tumorali. Come descritto nel paragrafo sulle applicazioni dei virus, i vettori virali sono sempre più impiegati nella terapia contro i tumori, soprattutto se solidi (che facilitano un targeting specifico mediante inoculo in situ) e in siti difficilmente accessibili a farmaci o procedure chirurgiche (ad es. glioblastomi e altri tumori del sistema nervoso centrale). Sono in corso trial clinici con vettori adenovirali ingegnerizzati ad hoc per distruggere le cellule tumorali (e per questo chiamati anche vettori oncolitici). Gli approcci utilizzati per rendere questi vettori selettivi per le cellule tumorali sono vari: vettori adenovirali replicazione-competenti deleti per E1B che lega p53 – nelle cellule normali p53 contrasta la replicazione virale portando

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la cellula a morte per apoptosi (vedi Cap. 42); nelle cellule tumorali in cui p53 è spesso inattiva per mutazione/delezione, il vettore replicazione-competente attiva p53 che, essendo disfunzionale e non essendo bloccata da E1B, non può innescare l’apoptosi (a differenza di quanto avviene nelle cellule normali) e porta la cellula tumorale a morte per lisi cellulare; vettori la cui replicazione è bloccata in presenza di microRNA prodotti dalle cellule normali e assenti invece nelle cellule tumorali; vettori che portano citochine pro-infiammatorie e/o antigeni tumorali per potenziare la risposta immune specifica contro le cellule tumorali; vettori difettivi per replicazione che, attraverso l’impiego di particolari recettori di superficie esibiscono un targeting preferenziale per le cellule tumorali e trasportano geni suicidi sotto controllo di promotori tumore-specifici ecc. Sono allo studio infine vettori chimerici tra adenovirus e retrovirus o altri virus. Sebbene risultati in vitro dimostrino che è possibile sviluppare vettori ibridi che esibiscono alcune proprietà dei vettori adenovirali coniugate, ad esempio, con la trasduzione stabile delle cellule, per complessità costruttiva e modesti risultati in vivo, questo approccio è ancora del tutto sperimentale e si preferisce la produzione di vettori adenovirali ricombinanti per le fibre del capside (antirecettore). Modificando l’antirecettore è possibile, entro certi limiti, modificare il targeting cellulare e aggirare la risposta immune pre-esistente.

70.3 - Vettori adeno-associati I vettori da virus adeno-associati (VAA) sono tra i vettori più utilizzati in ambito clinico ed esistono protocolli terapeutici basati su VAA approvati dalle autorità regolatorie europee e statunitensi. I VAA sono virus a DNA a singola catena che infettano un ampio spettro di cellule ma che, per completare il proprio ciclo replicativo, hanno bisogno di un virus helper, di solito un adenovirus o herpesvirus. Il genoma di VAA contiene due soli geni, rep (replicasi) e cap (proteine capsidiche) compresi tra due internal terminal repeat. Tranne alcune sequenze importanti per il packaging, questi due geni sono in gran parte rimossi nei vettori VAA (fig. 70.4). I VAA sono per molti aspetti vettori ideali. Come descritto nel Capitolo 43, nonostante l’infezione sia molto diffusa (la maggior parte della popolazione è sieropositiva), i VAA sono orfani di patologia, sono poco immunogeni, infettano con alta efficienza cellule differenziate e quiescenti in vivo e possiedono un genoma che persiste come episoma o è integrato, ad opera di Rep, in una regione specifica del cromosoma 19 dell’uomo (e che quindi può essere trasmessa alle cellule figlie). I principali svantaggi sono le ridotte dimensioni di acido nucleico eterologo inseribile nel genoma (fino a 5 kb), le difficoltà nella produzione di vettore ad alto titolo e nella scalabilità dell’intero

Ceppo parentale p5 ITR

p19 p40 rep

poli(A) cap

Vettore ITR

ITR

poli(A) PE

Transgene

ITR

Figura 70.4 Vettori derivati da virus adeno-associati (VAA). Il ceppo parentale consiste dei geni rep e cap codificanti per varie replicasi e proteine strutturali. Queste sono prodotte grazie ai promotori p5, p19 e p40 e al poli(A) comune a tutti i trascritti. Sia il poli(A) che gli inverted terminal repeats (ITR) sono conservati nel vettore VAA. I geni rep e cap sono invece sostituiti da transgene e relativo promotore eucariotico (PE).

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processo. A questi si somma, soprattutto per i vettori di prima generazione, la difficoltà nella completa rimozione del virus helper utilizzato nella produzione. Questo problema è stato risolto nelle generazioni successive grazie all’impiego di cellule packaging esprimenti stabilmente, o trasfettate in modo transiente con plasmidi codificanti le proteine adenovirali necessarie alla replicazione di VAA. La mancanza di Rep impedisce l’integrazione del genoma vettore. Per ovviare a questo svantaggio e aumentare le capacità di trasporto dei vettori VAA sono in fase di studio la produzione di concatameri del genoma o altre strategie che, però, hanno un impatto negativo sull’efficienza di produzione delle particelle vettore e che sono quindi per ora impiegate solo in vitro. Vettori VAA sono stati utilizzati con successo per trasdurre cellule normali e tumorali e di vario istotipo: muscolari, neuronali periferiche e del sistema nervoso centrale, epatociti, cellule staminali ematopoietiche, cellule staminali mesenchimali ecc. Come descritto nella Bibliografia essenziale citata a fine capitolo, i vettori VAA sono da tempo utilizzati per la cura di malattie ereditarie monogeniche. Più recentemente, proprio grazie all’ampio tropismo dimostrato in vivo, i vettori VAA sono sempre più utilizzati nella terapia contro il cancro. In questo caso, avendo modeste capacità citolitiche, non sono sfruttati come vettori oncolitici ma per veicolare all’interno della cellula tumorale geni anti-angiogenici (che impediscono al tumore la neoformazione di vasi sanguigni necessari a nutrire le cellule cancerose), geni suicidi, antigeni tumorali per vaccinazione, anticorpi monoclonali, anti-cancro, DNA codificante microRNA o piccoli RNA interferenti che bloccano la trascrizione di oncogeni ecc.

70.4 - Vettori erpetici Tranne per alcune eccezioni, questi vettori sono in massima parte derivati dal virus herpes simplex di tipo-1 (HSV-1), un virus con genoma a DNA doppia catena di 150 kb codificante per circa 90 geni (vedi Cap. 41). Date le dimensioni, nei vettori erpetici è possibile inserire fino a 50 kb di DNA eterologo. Grazie alla possibilità di usare più glicoproteine dell’envelope come antirecettore, HSV-1 ha ampio tropismo cellulare e infetta cellule in fase di attiva divisione o quiescenti. L’infezione può essere litica o latente. In entrambi i casi il genoma permane allo stato episomiale. I vettori erpetici trovano particolare applicazione nella trasduzione transiente di grandi frammenti di DNA eterologo in cellule neuronali verso cui HSV ha naturale tropismo. I vettori HSV sono prodotti mediante l’inserzione del DNA eterologo nel genoma virale, producendo così un virus ricombinante, o attraverso l’uso di ampliconi, plasmidi di grandi dimensioni, derivati da HSV e contenenti le sequenze di incapsidamento e di replicazione dell’acido nucleico. Questi ultimi, proprio grazie al grande numero di geni virali deleti, possono contenere fino a 150 kb di DNA eterologo, ma necessitano di un virus helper per la loro produzione che comunque è meno efficiente rispetto ai vettori HSV ricombinanti. Tossicità residua e antigenicità sono i fattori principali che condizionano fortemente l’impiego di HSV come vettore. A questi si è cercato di ovviare ricorrendo all’uso di ampliconi, di gran lunga preferiti in protocolli di terapia genica. Altri importanti fattori condizionanti sono: la risposta immune anti-HSV presente nella quasi totalità della popolazione e che potrebbe inattivare il vettore o colpire le cellule trasdotte ed esprimenti antigeni HSV in superficie; la possibilità di generare virus replicazione-competente per ricombinazione in cellule latentemente infettate da HSV; la ridotta durata di espressione del transgene. Come per i vettori adenovirali questi limiti si sono tradotti in importanti vantaggi nella terapia oncologica. I vettori HSV trovano infatti grande impiego nel settore oncologico, al punto che vi sono svariati prodotti commercialmente disponibili e in fase di approvazione per l’uso clinico contro gliomi, glioblastomi e tumori solidi di varia natura. Sono stati prodotti e in gran parte già sperimentati nell’uomo numerosi vettori HSV, replicazione-competenti per infettare e uccidere le

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cellule tumorali o incapaci di replicare ma con targeting e killing specifico per le cellule tumorali. Per questi ultimi, oltre a utilizzare le strategie descritte sopra per i vettori VAA, è da segnalare l’impiego di vettori HSV e veicolanti la timidina chinasi erpetica. Quest’ultima fosforila aciclovir, analogo nucleosidico di elezione nella terapia anti-HSV e molto ben tollerato. La fosforilazione di aciclovir innesca una meccanismo a cascata che interrompe la sintesi del DNA portando a morte la cellula (vedi Cap. 41). Oltre ad HSV-1 sono stati derivati vettori dal virus Epstein-Barr che, in virtù del suo naturale tropismo per i linfociti B, trova particolare impiego nella correzione di difetti genetici in queste cellule e nella terapia contro linfomi B.

70.5 - Vettori poxvirali Questi vettori sono caratterizzati da elevati livelli di espressione genica a livello citoplasmatico. Derivano da virus vaccinico, naturale o variamente modificato, da poxvirus di specie aviarie (virus fowlpox e canarypox) e da diversi altri membri della famiglia Poxviridae. Come i vettori erpetici, i vettori poxvirali trasportano DNA eterologo di grandi dimensioni (25-30 kb). A differenza degli altri vettori però, l’inserzione di questo DNA non avviene per clonaggio diretto ma per ricombinazione omologa, procedimento più lungo e complicato rispetto al consueto clonaggio in plasmidi o cosmidi. Come descritto nel Capitolo 46, i poxvirus possiedono propri enzimi per effettuare la trascrizione e quindi, pur essendo virus a DNA, replicano nel citoplasma e, a differenza degli altri vettori nei quali i promotori sono, entro certi limiti, intercambiabili, l’espressione dei geni poxvirali (ed eterologhi) è regolata in modo peculiare e difficilmente modificabile. I virus vaccinici hanno elevata capacità citocida e sono molto immunogenici e sono pertanto impiegati in ambito immunologico e vaccinale. Dai virus parentali, sia per adattamento su colture cellulari sia per delezioni di geni virali non essenziali per replicazione, sono stati sviluppati vettori replicazione-competenti attenuati e vettori difettivi per replicazione. Tra i vari tipi di attenuazione che sono stati ottenuti, particolarmente importante per uso clinico risulta essere la competenza alla replicazione ristretta alle cellule della specie ospite naturale. Il vettore derivato dal virus aviario canarypox, ad esempio, è in grado di replicare in cellule di pollo, che possono quindi essere utilizzate per la preparazione degli stock vaccinici, ma è difettivo in cellule umane, murine, di primati non umani e altre specie di mammifero. È evidente il vantaggio in termini di sicurezza rispetto a vettori in grado di replicare in qualsiasi specie. Altro vettore molto usato è il modified vaccinia virus Ankara, derivato dal virus vaccinico, altamente attenuato e che replica a livelli minimi in cellule di mammifero. Accanto a questi sono stati derivati e avviati alla sperimentazione clinica vettori francamente difettivi. Come accennato, e grazie anche al fatto che l’immunità di popolazione è molto bassa – la vaccinazione antivaiolosa è stata interrotta in Italia a metà degli anni ’70 –, i vettori vaccinici sono utilizzati per immunizzare contro agenti infettivi (HIV, papillomavirus, virus della rabbia ecc.) e tumori. Questi vettori vaccinici trovano impiego ottimale in vaccinazioni combinate tipo prime-boost in cui il priming del sistema immune è eseguito con vaccini a DNA o altri sistemi. Al priming segue un forte richiamo (boost) con il vettore vaccinico. Considerata la sicurezza in vivo e nonostante la complessità biologica e la difficoltà nella produzione dei vettori ricombinanti, è probabile che questi sistemi di delivery diventino una componente importante nei futuri vaccini.

70.6 - Vettori da altri virus Come affermato nell’introduzione, i virus per loro natura veicolano acido nucleico all’interno di cellule. In teoria quindi ogni virus può essere usato come vettore di geni eterologhi e, in effetti, negli anni sono stati sviluppati vettori da virus diversi da

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quelli descritti sopra e che per proprietà biomolecolari sono particolarmente adatti a specifici obiettivi. Sono stati derivati vettori da virus a RNA a singola catena appartenenti al genere Alphavirus come virus Seimliki Forest, Sindbis e dell’Encefalite Equina Venezuelana. Questi virus sono considerati buoni vettori vaccinali per ampio tropismo e spettro d’ospite e perché garantiscono produzioni di vettore ad alto titolo. Nello stesso ambito sono stati descritti buoni risultati con vettori derivati da virus dell’influenza, virus della febbre gialla e alcuni paramixovirus, soprattutto il virus del morbillo che infetta, con notevole efficienza, cellule epiteliali delle vie respiratorie. Vettori derivati da morbillo e altri paramixovirus sono in fase di studio come vettori oncolitici contro tumori solidi anche in virtù delle loro proprietà immunologiche e pro-infiammatorie.

70.7 - Applicazione e prospettive dei vettori virali in campo biomedico I settori di applicazione dei vettori virali sono numerosissimi e aumentano di pari passo al progresso delle conoscenze su proprietà biomolecolari dei virus parentali e allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici e vaccinali. Una trattazione esaustiva di questi settori esula dalle finalità del capitolo e si rimanda il lettore ad approfondimenti nelle review elencate nella Bibliografia essenziale a fine capitolo o su altre riviste del settore. È indubbio che i vettori virali abbiano reso possibile lo sviluppo di strategie impensabili fino a pochi anni fa per correggere difetti genetici, contrastare i tumori e vaccinare. Come per qualsiasi processo in fase di sviluppo, anche la strada percorsa nell’ottenimento di vettori virali sempre più sicuri ed efficaci nel delivery ha conosciuto sbandamenti, tratti luminosi percorsi a velocità sostenuta, tratti bui nei quali la direzione intrapresa non era ben chiara, stop improvvisi e deviazioni. Superate delusioni anche recenti, la strada si presenta ora luminosa, ampia e percorribile a grandi passi. I vettori virali hanno riacquisito tutto il loro iniziale afflato e ruolo centrale nell’ingegneria genetica. Il nuovo impulso non è tanto dovuto a un deciso miglioramento dei vettori, che comunque continua in modo stabile, quanto a una nuova strategia di ingegneria genetica, un vero e proprio breakthrough che sta cambiando radicalmente il modo con cui si applica la terapia. Questa strategia, meglio conosciuta come gene editing, per la quale si rimanda a un approfondimento nelle review qui citate o in quelle su riviste del settore, si basa sull’uso di bisturi molecolari progettati per riconoscere e legare in modo assolutamente specifico una sequenza genica. Al legame segue un taglio che innesca un processo endocellulare di riparo del DNA con il quale, con opportuni accorgimenti, possiamo sostituire una mutazione inattivante con la sequenza presente nel gene funzionale, inattivare un gene, inserire una determinata sequenza di DNA per porre sotto controllo l’espressione di un gene, marcare l’acido nucleico per tracciare la cellula in vivo, modificare il percorso differenziativo di una cellula ecc. Come per gli approcci standard di manipolazione genetica, anche il gene editing deve la sua applicabilità ed efficacia clinica (invero notevole in alcuni trial clinici) ai vettori virali. Quindi, accanto a un continuo affinamento delle biotecnologie di manipolazione genica sono necessari costante ricerca e sviluppo nel settore della “vettorologia” virale e non. Per quanto riguarda i vettori, uno dei problemi non del tutto risolti è la corretta espressione del transgene. Se per indurre la risposta immune e la maggior parte degli approcci di gene editing non serve uno stretto controllo, nella terapia genica standard il gene funzionale che vicaria la copia difettosa deve essere espresso in modo permanente e fisiologico per quantità e circadianità. Nonostante l’integrazione del vettore nel genoma della cellula ospite garantisca la permanenza e favorisca un’espressione del transgene prolungata, indipendentemente dal promotore utilizzato, si attivano meccanismi di silenziamento genico nella cellula che spengono o riducono la produzione della proteina terapeutica a livelli subottimali per un effettivo beneficio terapeutico.

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Capitolo 70 • Vettori virali nelle biotecnologie mediche

A questo si è cercato di ovviare usando promotori tessuto-specifici, o promotori inducibili che promuovono la trascrizione del transgene solo in presenza di specifici stimoli esterni (ad es. farmaci) o intracellulari. Il targeting è un altro punto cruciale e oggetto di continui studi. La maggior parte dei trial clinici condotti utilizza infatti cellule ematopoietiche – prelevate dal paziente, trattate ex-vivo e reinfuse – o vettori inoculati in situ. La disponibilità di vettori che trasducono solo le cellule di interesse semplificherebbe di molto la loro somministrazione, ad esempio per via sistemica, e consentirebbe l’ingegnerizzazione di cellule in siti difficilmente raggiungibili. Per aumentare la specificità o modificare il targeting, in genere, si opera su due livelli non necessariamente alternativi. Possiamo utilizzare antirecettori ad hoc per un determinato istotipo cellulare o, ancora, promotori tessuto-specifici attivi solo in alcuni tipi di cellule. La prima strategia è più elegante perché il vettore entrerà solo nelle cellule bersaglio e basta quindi somministrare piccole dosi di vettore; l’impiego di promotori tessuto-specifici è tecnicamente più semplice da ottenere ma, per il fatto che il vettore può entrare anche in cellule non rilevanti, è necessario usare dosi di vettore più alte esponendo il soggetto a possibili reazioni avverse. Entrambi gli approcci sono perseguiti attivamente e a oggi sono disponibili, anche commercialmente, vettori chimerici progettati per trasdurre specifici istotipi cellulari. In conclusione, molti passi avanti sono stati compiuti dai primi esperimenti pioneristici degli anni ’90. Gli attuali vettori si sono rivelati sicuri, ben tollerati nell’uomo e in grado di conferire un effettivo beneficio clinico. Da quando è stata scritta la precedente versione del capitolo, quasi cinque anni fa, sono stati approvati circa 50 nuovi trial clinici, alcuni già in fase 3 o ultimati. Le autorità regolatorie europee e statunitensi hanno approvato protocolli di terapia genica per uso clinico. Le aspettative riposte sulle applicazioni biomediche sono immense; analogamente crescerà l’importanza strategica e quindi l’interesse per i vettori virali.

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71.1 - Generalità sui funghi Nel corso del tempo, sono state riconosciute e descritte più di 100 000 specie di funghi, a fronte di 1,5 milioni di specie stimate esistere in natura. Tuttavia, meno di 500 di queste specie sono state associate a malattia nell’uomo e non più di 100 sono in grado di causare infezione in individui altrimenti definiti “normali”. Le rimanenti specie producono malattia in individui che siano debilitati o immunocompromessi. I funghi formano un gruppo separato di organismi superiori, distinti dalle piante e dagli animali, che si differenziano dagli altri microrganismi per diversi aspetti. In primo luogo, le cellule fungine sono racchiuse da una parete cellulare rigida, composta per la maggior parte da glucano e chitina. Queste caratteristiche li contrappongono agli animali, che non hanno una parete cellulare, e alle piante, che hanno la cellulosa come principale componente della loro parete cellulare. In secondo luogo, i funghi sono eterotrofi, cioè mancano di clorofilla, e sono dipendenti dai composti di carbonio organico per la nutrizione. Essi ottengono il loro nutrimento attraverso la secrezione di enzimi nel substrato a loro disposizione e ne assorbono i nutrienti rilasciati dopo averlo digerito. Tale peculiare forma di nutrizione è appunto una delle caratteristiche che fa sì che i funghi possano essere collocati in un regno separato. In terzo luogo, i funghi hanno una struttura più semplice rispetto alle piante e agli animali. Al loro interno non esiste una divisione delle cellule in organi e tessuti. L’unità di base strutturale dei funghi può essere una catena di cellule tubulari, simile a un filamento, denominata ifa (ife al plurale), oppure una singola cellula indipendente (fig. 71.1). Alcuni funghi patogeni dell’uomo e degli animali modificano la loro forma di crescita durante il processo di invasione cellulare. Tali patogeni, definiti dimorfici, sviluppano due forme vegetative distinte morfologicamente: una forma invasiva (tissutale) a unica cellula gemmante, e una forma ifale, multicellulare, nell’ambiente. Nei funghi multicellulari, il tallo (corpo vegetativo di un fungo) consiste di una massa di ife ramificate, chiamata micelio. Ciascuna ifa ha una parete cellulare rigida e si accresce in lunghezza come risultato della crescita apicale.

• Caratteristiche generali dei funghi • Modalità di riproduzione e classificazione • Infezione e colonizzazione • Patogenesi e virulenza • Interazione tra fungo e ospite

Figura 71.1 A. Ife fungine B. Lieviti.

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Figura 71.2 A. Micelio settato di Penicillium (le frecce indicano i setti). B. Micelio non settato di Rhizopus. Ingrandimento 400×.

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Figura 71.4 Candida albicans cresciuta su agar farina di mais-Tween. Le frecce indicano le clamidospore. Sono evidenti le pseudoife. Ingrandimento 400×.

Figura 71.3 Il lievito Cryptococcus neoformans in gemmazione.

Le ife che penetrano nel terreno di coltura, da cui assorbono le sostanze nutritive, sono conosciute nell’insieme come micelio vegetativo, mentre quelle che si proiettano sulla superficie del terreno costituiscono il micelio aereo o riproduttivo, dal momento che quest’ultima struttura spesso reca le cellule riproduttive, o spore. Nei funghi più primitivi, le ife rimangono asettate, mentre nei gruppi più evoluti le ife sono settate, cioè separate da pareti intersecanti, dette setti, più o meno frequenti (fig. 71.2). In realtà, i setti presentano dei sottili pori centrali, per cui anche le ife settate sono cenocitiche, cioè i loro nuclei sono immersi in una massa continua di citoplasma. I funghi che esistono nella forma di micelio multicellulare (visibile al microscopio) sono chiamati comunemente muffe. Molti funghi che esistono in forma di singole cellule indipendenti, detti lieviti, si propagano mediante gemmazione, cioè estromettendo cellule simili dalla loro superficie (fig. 71.3), anche se vi sono alcune specie che si dividono per scissione (o fissione) binaria, come fanno i batteri. La gemma (cellula figlia) può staccarsi dalla cellula che l’ha generata (cellula madre) oppure può rimanere attaccata alla cellula madre e produrre a sua volta una gemma, dando origine, in tal modo, a una catena di cellule. In certe condizioni, l’allungamento protratto della cellula madre prima della sua gemmazione genera una catena di cellule allungate, denominata pseudoifa (fig. 71.4).

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In quarto luogo, i funghi si riproducono attraverso propaguli microscopici chiamati spore. La maggior parte delle spore origina da un processo asessuale. Le spore asessuali sono prodotte in grande quantità per assicurare la dispersione del microrganismo in nuovi habitat. Molti funghi sono anche in grado di compiere una riproduzione sessuale. In tale contesto, alcune specie sono capaci di formare strutture sessuali nelle loro colonie individuali e sono perciò dette omotalliche. La maggior parte delle specie, invece, sono eterotalliche, in quanto formano le loro strutture sessuali solo se due differenti ceppi vengono in contatto per l’accoppiamento. Durante la riproduzione sessuale, la meiosi conduce alla produzione delle spore sessuali. In alcune specie, le spore sessuali si originano singolarmente su cellule specializzate e l’intera struttura è visibile microscopicamente. In altri casi, tuttavia, le spore sono prodotte in milioni in “corpi fruttiferi”, come è il caso dei funghi eduli. È importante infine sottolineare che il regno dei funghi è un antico, ampio e assai diversificato gruppo di organismi originatisi da un progenitore comune (detto in inglese clade), che racchiude muffe (molds), funghi eduli (mushrooms), licheni (organismi simbionti derivati dall’associazione di un’alga o cianobatterio [autotrofo] e di un fungo), ruggini (rusts), fuliggini (smuts) e lieviti (yeasts). Nell’insieme, esso comprende eucarioti con cicli vitali alquanto diversi che hanno un ruolo considerevole nella biosfera, nell’industria alimentare/farmaceutica e nella medicina. Vi sono diversi motivi che rendono i funghi attraenti per i ricercatori. Molti funghi hanno una genetica aploide e quando messi in coltura sono pressoché immortali, e questo rende possibile associare fenotipi, anche complessi, con il genotipo più di quanto sia possibile fare con Drosophila (moscerino della frutta; organismo modello per la biologia degli animali) o con Arabidopsis (piccola angiosperma; organismo modello per la biologia delle piante). Un tipico genoma fungino ha una dimensione di 30-40 Mb (piccolo secondo gli standard eucariotici) e questo ha permesso ai funghi di diventare modelli per il sequenziamento di genomi eucariotici, così come manipolazioni del DNA, quali trasformazione, distruzione e delezione di geni, sono diventate una pratica sperimentale routinaria. Nelle specie appartenenti ai due maggiori phyla (Ascomycota e Basidiomycota) descritti più avanti, il semplice, multicellulare sviluppo con tessuti differenziati supporta studi di trascrizione e traduzione genica in laboratorio e, addirittura, in natura.

71.2 - Riproduzione dei funghi Molti funghi attraversano un caratteristico ciclo vitale durante il quale possono esistere come organismi separati, che producono spore in maniera indipendente e aventi una morfologia molto diversa tra loro (pleiomorfismo). Tuttavia, le caratteristiche biochimiche e le proprietà fisiologiche di questi organismi separati rimangono per lo più identiche. Un importante tipo di pleiomorfismo riguarda l’esistenza in un fungo di entrambe le forme di crescita (o stadi), sessuale e asessuale. Ciascuna di queste forme può propagarsi in modo indipendente, formando, rispettivamente, talli sessuali e asessuali. Il tallo che si propaga sessualmente è noto come il teleomorfo del fungo, mentre quello asessuale è l’anamorfo. L’organismo nel suo insieme viene detto olomorfo (fig. 71.5). Diversi funghi mostrano vari tipi di anamorfi che si propagano in modo indipendente, i quali sono perciò chiamati sinanamorfi. I teleo- e (sin)anamorfi possono avere i loro nomi propri. Ad esempio, la specie Pseudallescheria boydii è nota anche con i nomi dei suoi sinanamorfi Graphium eumorphum e Scedosporium apiospermum; questi tre nomi si riferiscono a uno stesso, unico microrganismo. Come anticipato sopra, le spore possono essere di due tipi: di derivazione sessuale (via meiosi) o asessuale (via mitosi). Vi è un numero considerevole di funghi importanti da un punto di vista medico che possono formare spore sessuali quando coltivati

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Figura 71.5 Ciclo vitale dei funghi.

Fase eterocariotica Plasmogamia (fusione di citoplasma) Cariogamia (fusione di nuclei)

Strutture che producono spore Spore

Riproduzione asessuale

Micelio

Riproduzione sessuale

Zigote

Meiosi Germinazione

Germinazione Strutture che producono spore

Legenda

Spore

Aploide (n) Eterocariotico (nuclei separati da cellule diverse) Diploide (2n)

in laboratorio, poiché sono omotallici. Uno di essi è P. boydii, in cui non è inconsueto osservare strutture sessuali fruttifere e ascospore in una coltura di laboratorio. Diverso è il caso dei funghi che necessitano, per riprodursi sessualmente, di due distinti individui compatibili per l’accoppiamento. Ad esempio, nel coltivare ed esaminare i campioni clinici non ci si imbatte quasi mai nel teleomorfo (forma sessuale) di Histoplasma capsulatum varietà capsulatum, noto come Ajellomyces capsulatus, in quanto il fungo si sviluppa come muffa nella sua espressione anamorfica (asessuale), rappresentando perciò solo uno dei due tipi di coniuganti necessari per generare e rendere visibile il teleomorfo. In ogni caso, le pietre miliari dell’identificazione dei funghi filamentosi rimangono l’osservazione e il riconoscimento delle spore asessuali che si producono in laboratorio. Per le muffe classificate nel phylum Zygomycota, il termine “spora” è usato sia per indicare le strutture sessuali sia per riferirsi ai propaguli asessuali, ad esempio le sporangiospore prodotte dalla specie Rhizopus arrhizus, l’agente principale di zigomicosi nell’uomo. Per i funghi filamentosi mitosporici (già noti come Funghi Imperfetti, classe morfologica Hyphomycetes), tuttavia, il termine preferito per i propaguli asessuali (mitospore) è conidio (conidi al plurale). La conidiogenesi si riferisce ai meccanismi attraverso i quali vengono prodotti e/o formati i conidi. Negli anni, i micologi hanno modificato, rivisto e generato sistemi per il riconoscimento dei conidi, delle diverse strutture da cui essi originano o (ad es. cellule conidiogene, conidiofore) e del modo con cui essi si sviluppano (conidiogenesi), ma il contributo più autorevole si deve al Dr. Bryce Kendrick dell’Università di Waterloo alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Le caratteristiche dei conidi, importanti ai fini identificativi, comprendono il colore, la forma e la presenza (tipo e numero) di setti, ma sono soprattutto le modalità usate dai funghi conidiali nel produrre le proprie spore a essere diventate elementi importanti di classificazione. Gli anamorfi mostrano due profili di sviluppo conidiale: blastico e tallico. Nell’ontogenesi conidiale blastica, il giovane conidio è riconoscibile prima che venga tagliato fuori da un setto (un’estensione del concetto di gemmazione). Nell’ontogenesi conidiale tallica, viene formato un setto prima che la differenziazione del conidio abbia luogo. I conidi pos-

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sono essere rilasciati secondo due vie: schizolitica, ovvero le metà di un doppio setto si dividono per rottura di uno strato membranoso intermedio rilasciando il conidio, e rexolitica, ovvero la parete esterna di una cellula al di sotto o tra i conidi si rompe e il conidio viene liberato. Nel sistema kendrickiano, vi sono otto differenti tipi di conidiogenesi, sei di tipo blastico e due di tipo tallico.

• Tipo 1: conidiogenesi blastico-acropetala. I conidi si sviluppano in catene









mediante gemmazione apicale, con la gemma più giovane situata all’estremità della catena. Quando due gemme, piuttosto che una, originano da un conidio terminale si determina la separazione in rami delle catene. Un esempio di fungo che segue tale modalità è rappresentato dal genere Cladosporium (fig. 71.6). Tipo 2: conidiogenesi blastico-simpodiale. Vi è produzione successiva di conidi caratterizzata dalla crescita protratta (simpodiale) della cellula conidiogena a un lato della base del conidio. Ciò si traduce in un aspetto a zigzag o ad ampolla distorta della cellula da cui originano i conidi (ad es. genere Sporothrix). Tipo 3: conidiogenesi blastico-anellidica. Ciascun conidio nel momento del suo distacco lascia una cicatrice a forma di anello attorno alla cellula conidiogena (anellide), che quindi cresce attraverso la cicatrice per produrre il successivo conidio. Ciascuna spora prodotta dà luogo a una cicatrice anulare. Costituiscono esempio di ciò i generi Scopulariopsis e Scedosporium (fig. 71.7). Tipo 4: conidiogenesi blastico-fialidica. Molte muffe producono conidi in rapida successione basipetala (la spora più giovane è la prima in una catena) dall’estremità aperta di una cellula conidiogena, generalmente a forma di fiasca, denominata fialide. Esempi di funghi che manifestano uno sviluppo blastico-fialidico appartengono ai generi più comuni e importanti in micologia medica, come Aspergillus, Penicillium e Fusarium (fig. 71.8). Tipo 5: conidiogenesi blastico-retrogressiva e tipo 6: conidiogenesi ad accrescimento basale. Corrispondono a due modalità di raro riscontro nei funghi in generale e nei funghi di importanza medica in particolare. Figura 71.7 Conidiogenesi blastico-anellidica di Scopulariopsis fusca. Le frecce indicano le cicatrici ad anello delle cellule conidiogene. Ingrandimento: A: 512×; B: 1600×; C:135×; D: 3500×; E: 4250×; F: 3100×.

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Figura 71.6 Conidiogenesi blastico-acropetala di Cladosporium cladosporioides. Ingrandimento 1600×.

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Figura 71.8 Conidiogenesi blastico-fialidica di Aspergillus fumigatus. Ingrandimento A: 1600×; B: 800×; C: 5000×; D: 1600×; E: 6000×.

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• Tipo 7: conidiogenesi tallico-artrica. L’estremità dell’ifa termina di allungarsi, si divide in corti frammenti attraverso l’insorgenza irregolare di doppi setti, che si dividono per via schizolitica. Si genera cosi una catena di corti artroconidi cilindrici che si disarticolano e quindi appaiono snodati (da qui il termine “artrico”), come nei generi Coccidioides e Geotrichum (fig. 71.9). • Tipo 8: conidiogenesi tallico-solitaria. Grandi conidi tallici, con due o più setti, si sviluppano alle estremità di ife e sono quindi liberati per via rexolitica. Tale modalità è esemplificata dai macroconidi prodotti da funghi dermatofiti appartenenti al genere Microsporum (fig. 71.10).

Figura 71.9 Coccidioides immitis: artroconidi con “disjunctor cells”. Ingrandimento 400×.

Come il lettore può arguire, i micologi clinici hanno a disposizione un’ampia terminologia descrittiva, basata sul sistema sopra riportato, qualora esaminino la conidiogenesi e i conidi di funghi isolati da campioni di provenienza umana. Nel descrivere la morfologia microscopica dei funghi, quindi, si fa uso dei termini blastoconidi e artroconidi in senso generale, e di termini più specifici come fialoconidi, anelloconidi e simpodioconidi.

71.3 - Classificazione dei funghi Circa un miliardo di anni fa (più o meno 500 milioni di anni), una popolazione di eucarioti unicellulari acquatici in grado di formare sporangi contenenti zoospore, ognuna dotata di un singolo flagello posteriore, divergeva in due linee evolutive: una che ha dato origine agli animali e l’altra che ha dato origine ai funghi. Durante tale processo

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Figura 71.10 Conidiogenesi tallico-solitaria di Microsporum canis. Ingrandimento: A: 512×; B: 1600×; C: 1350×; D: 8000×.

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BOX 71.1 • Identificazione delle muffe provenienti dai campioni clinici L’identificazione delle muffe isolate dai campioni clinici è basata sull’osservazione della morfologia macroscopica e microscopica. I propaguli riproduttivi dei funghi, chiamati spore, servono come base principale per l’identificazione morfologica. Nel corso degli anni, diversi terreni e tecniche di coltivazione sono stati proposti per aumentare la capacità del fungo di produrre microscopicamente le strutture morfologiche che sono critiche per una loro accurata identificazione. In generale, tali procedure consistono nel far sviluppare il fungo presente nel campione clinico su agar Sabouraud (con o senza antibiotici di vario genere); quindi nel trasferire il microrganismo su terreni che ne facilitino la sporulazione e nell’impiegare varie tecniche di coltura su

vetrino (in inglese slide culture), partendo dal presupposto che la maggior parte dei funghi che causano infezioni opportunistiche dovrebbero esibire una crescita accentuata e formare spore quando coltivati su terreni che siano analoghi a quei substrati sui quali crescono e fruttificano in natura. Invece di usare un terreno che contenga bioprodotti derivati da carne animale come il peptone contenuto nell’agar Sabouraud, si utilizzano formulazioni a base di substrati vegetali (chimicamente simili a quelli trovati in natura). Il terreno più usato allo scopo è un agar con fiocchi di patata (in inglese potato flakes agar) che fornisce i benefici di un contenuto con alto rapporto carbonio-azoto, adatto per promuovere la sporulazione del fungo da identificare.

evolutivo, importanti cambiamenti hanno riguardato la perdita del flagello, la transizione di sporangi mitotici a conidi mitotici, la comparsa di setti regolari nelle ife (in cui la mitosi è seguita dalla formazione di un setto in modo da produrne una serie regolare) e la transizione di sporangi meiotici a meiospore (cioè originatesi via meiosi) esterne. La presenza di setti regolari (in quanto opposti ai setti avventizi riscontrati nei grup-

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Regno: Funghi Phylum: Ascomycota Classe: Ascomycetes Ordine: Onygenales Famiglia: Onygenaceae Genere: Ajellomyces Specie: Ajellomyces capsulatus Varietà: tale stato si applica all’anamorfo: Histoplasma capsulatumvar. capsulatum, H. capsulatum var. duboisii e H. capsulatum var. farciminosum Figura 71.11 Esempio di classificazione del patogeno fungino Ajellomyces capsulatus.

Tabella 71.1 Regno dei Funghi.

Phylum: Chytridiomycota Phylum: Zygomycota Phylum: Ascomycota Phylum: Basidiomycota Funghi mitosporici* * Funghi anamorfici, di cui non è conosciuto il teleomorfo, un tempo raggruppati nel phylum Deuteromycota.

pi di funghi meno evoluti come Zygomycota, subphylum Mucoromycotina) è anche correlata con la comparsa di funghi macroscopici, multicellulari nei quali differenti segmenti ifali si sono evoluti per compiere funzioni diverse. Ne sono esempi l’insieme di gambo, cappello e lamelle nel fungo edulo Agaricus (Basidiomycota) o l’insieme di gambo, coppa e strato ad asco nella spugnola Morchella (Ascomycota). È sorprendente che lo stato multicellulare con tessuti differenziati sembra essersi evoluto in modo indipendente in ciascuno dei due phyla superiori, essendo riscontrabile specificamente nel subphylum Agaricomycotina (Basidiomycota) e nel subphylum Pezizomycotina (Ascomycota). In accordo con i principali rami di diversificazione dei funghi, importanti caratteristiche riguardanti le modalità fungine della nutrizione, riproduzione, comunicazione e interazione con altre forme di vita sono state osservate nei principali gruppi/phyla di funghi esistenti in natura. Come per gli altri organismi viventi, le unità di base nella classificazione dei funghi sono le specie. Queste sono arrangiate nei gruppi gerarchici di generi, famiglie, ordini, classi, phyla e regni. Le singole categorie possono essere suddivise (ad es. subphylum, subclasse, subordine) per indicare i gradi di parentela. All’interno di una data specie è possibile distinguere popolazioni di individui che possiedono alcune caratteristiche in comune o (ad es. varietà o tribù). Ogni gradino della scala gerarchica è riconoscibile per un particolare suffisso:

• • • •

phylum: -mycota classe: -mycetes ordine: -ales famiglia: -aceae

Una famiglia è poi composta da generi, i quali contengono le specie. Il nome della specie è un binomio, che consiste di un nome generico e di un epiteto specifico (fig. 71.11)1. Sulla base delle differenze nelle strutture riproduttive il regno dei Funghi è stato suddiviso in quattro gruppi più piccoli denominati phyla, da molti indicati come divisioni (tab. 71.1).

• Chytridiomycota. Questo phylum consiste di una singola classe, Chytridiomycetes,

con circa 100 generi e 1000 specie, nessuna delle quali è patogena per l’uomo,

Nel presente testo tutti i nomi latini dei gruppi biologici sono riportati in carattere corsivo (ad es. Ascomycota); per indicare un singolo membro di un gruppo, a volte è adoperato un nome anglicizzato (ad es. un ascomicete), mentre i gruppi artificiali (ad es. Hyphomycetes) che non hanno nomi ufficiali in latino sono scritti in carattere tondo. 1

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caratterizzate dalla presenza di cellule mobili nei loro cicli vitali. Vi appartiene Batrachochytrium dendrobatidis, fungo considerato un patogeno emergente, scoperto e descritto soltanto una decade fa, che rappresenta il solo membro del suo ordine (Rhizophydiales) conosciuto come parassita dei vertebrati. Attualmente il fungo è ritenuto responsabile della decimazione degli anfibi a livello mondiale, sebbene sia stata osservata una notevole variabilità nella suscettibilità e nella sopravvivenza alla chitridiomicosi sia a livello di specie, di popolazione o di singolo individuo di tali vertebrati. Zygomycota. Questo phylum, con circa 175 generi e 1000 specie, comprende quei funghi che producono zigospore come risultato della riproduzione sessuale e consiste di due classi: Trichomycetes, che sono parassiti obbligati di artropodi, e Zygomycetes, che comprendono due ordini: Mucorales ed Entomophthorales, a cui appartengono importanti patogeni umani e animali. I Mucorales, con i generi Rhizopus, Absidia, Mucor e Rhizomucor, producono ife asettate, mentre gli Entomopthorales, con i generi Basidiobolus e Conidiobolus, sono in genere settati. Ascomycota. Questo phylum, che contiene almeno 3200 generi e circa 32 000 specie, è costituito da funghi, il cui tallo è settato, che si riproducono sessualmente attraverso ascospore contenute in una struttura a forma di sacco, chiamata asco. Il gruppo è suddiviso in tre classi: Archiascomycetes (contiene una singola specie, Pneumocystis carinii, un tempo considerata un protozoo; oggi nota come Pneumocystis jirovecii), Hemiascomycetes (Endomycetes) ed Euascomycetes. Fanno parte del phylum funghi che causano micosi sistemiche (Blastomyces, Histoplasma) o sottocutanee (Pseudallescheria), e funghi patogeni opportunisti (Candida). Basidiomycota. La caratteristica distintiva del phylum, che contiene circa 22 000 specie, è la produzione di spore sessuali, denominate basidiospore, che si originano all’esterno di una struttura allungata a forma di clava, detta basidio. Solo pochi membri di quest’ampia divisione hanno importanza medica. Si tratta di lieviti appartenenti ai generi Cryptococcus, Trichosporon (Hymenomycetes) e Malassezia (Ustilaginomycetes). Altri lieviti basidiomiceti riscontrati nei materiali clinici appartengono ai generi Rhodotorula e Sporobolomyces. Funghi mitosporici. Un tempo incluso nel phylum Deuteromycota o dei Funghi Imperfetti e suddiviso in classi artificiali (Hyphomycetes [ifomiceti], Coelomycetes [celomiceti] e lieviti) sulla base della forma di crescita e produzione delle strutture riproduttive asessuali, questo gruppo comprende funghi anamorfici, per i quali non si conosce al momento lo stato di teleomorfo. Il gruppo include specie fungine estremamente importanti per l’uomo, come quelle appartenenti ai generi Aspergillus, Fusarium, Microsporum, Scedosporium, Trichophyton e Candida. È interessante notare che alcune specie fungine, come ad esempio Candida albicans, inizialmente designate come funghi mitosporici, siano state riclassificate in uno degli altri phyla (Ascomycota per C. albicans) una volta individuatone lo stato sessuale.

Nel loro insieme i due phyla superiori (Ascomycota e Basidiomycota) costituiscono un sottoregno che comprende circa il 98% (64% e 34%, rispettivamente) dei funghi descritti finora, denominato “Dicaria”. Il nome sottolinea la sorprendente caratteristica di accoppiamento fungino in cui la fusione nucleare (cariogamia) non segue direttamente la fusione dei gameti (plasmogamia). Ne risulta che la condizione di ife con due nuclei (“dicarion”), ciascuno derivato dal singolo tallo/parte di tallo in accoppiamento, rappresenta una fase significativa del ciclo vitale degli ascomiceti e ancor di più di quello dei basidiomiceti, e può essere mantenuta per tutte le cellule ifali mediante divisioni sincrone che fanno sì che le coppie di nuclei passino insieme alle cellule neoformate. Negli ascomiceti il “dicarion” si ritrova per lo più nelle ife da cui originano gli aschi (ife ascogene) e negli ascocarpi (corpi fruttiferi) mentre la massa del micelio rimane monocariotica; nei basidiomiceti, invece, il “dicarion” è predominante mentre le ife

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monocariotiche sono meno rappresentate. In entrambi i phyla, i “Dicaria” hanno il grande vantaggio di incrementare la diversità della progenie in ricombinazione, rappresentando così un significativo vantaggio evolutivo per il microrganismo. Perciò, a differenza dei funghi meno evoluti in cui più accoppiamenti portano a un solo zigote e un solo evento meiotico, nei “Dicaria” un accoppiamento può portare a più zigoti e indipendenti meiosi che si contano a decine di migliaia (ad es. in una colonia di Neurospora) o addirittura centinaia di migliaia di miliardi (ad es. nei basidiomiceti a lunga vita con grandi o perenni corpi fruttiferi). A parte le specie di stretto interesse umano, gli ascomiceti rappresentano il gruppo di organismi più studiati, che contiene ben note specie modello come Saccharomyces cerevisiae (budding yeast, lievito che si divide per gemmazione) e Schizosaccharomyces pombe (fissing yeast, lievito che si divide per fissione), patogeni vegetali (ad es. Fusarium oxysporum), e importanti specie in ambito industriale (ad es. Aspergillus niger). Tutte le specie di cui sopra si riproducono maggiormente per via asessuata, attraverso la gemmazione, la fissione o la sporulazione asessuata. Inoltre, ascomiceti appartenenti ai generi Penicillium, Neurospora, Saccharomyces e Schizosaccharomyces sono stati oggetto di studi che hanno portato i ricercatori ad essere insigniti del Premio Nobel. Tra i più noti basidiomiceti vanno segnalate Puccinia graminis (la ruggine del frumento), Ustilago maydis (la fuliggine del mais) e tutte le circa 21 000 specie di funghi eduli descritte (classe Agaricomycetes). Inoltre, U. maydis e il fungo edule Coprinopsis cinerea sono tra i migliori sistemi modello per gli studi di genetica, biologia dello sviluppo e riproduzione sessuale.

71.4 - Cellula fungina I lieviti e le muffe sono costituiti da cellule eucariotiche che presentano somiglianze con le cellule vegetali e animali per la presenza di cromosomi multipli, di una membrana nucleare che è continua con il reticolo endoplasmatico, di organuli cellulari come Gene ERG1

Enzima Squalene epossidasi

ERG7

Lanosterolo sintetasi

ERG11 (CYP51)

Lanosterolo 14α -demetilasi

ERG24

C-14 Sterolo reduttasi

ERG25

C-4 Sterolo metilossidasi

ERG26

C-4 Ster

ERG27

C-3 Sterolo chetoreduttasi

ERG6

C-24 Sterolo metil-transferasi

ERG2

C-8 Sterolo isomerasi

ERG3

C-5 Sterolo desaturasi

ERG5 (CYP61)

C-22 Sterolo desaturasi

ERG4

C-24 Sterolo reduttasi

Intermedio di sterolo Squalene

Inibitori Allilamine

2,3-Ossidosqualene Lanosterolo 4,4-dimetil-8,14,24-trienolo

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Azoli HO

Morfoline

4,4-dimetil zimosterolo

4-metil zimosterolo Zimosterolo Fecosterolo

Morfoline

Episterolo Ergosta-5,7,24,(28)-trienolo

Azoli

Ergosta-5,7,22,24,(28)-tetraenolo Ergosterolo

Figura 71.12 Via biosintetica dell’ergosterolo.

HO

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Tabella 71.2 Principali differenze tra funghi e batteri.

Caratteristica

Funghi

Batteri

Volume cellulare (μm3)

Muffe: non definibile, comunque di gran lunga maggiore di quello dei lieviti

1-5

Nucleo

Eucariotico (con membrana ben definita)

Procariotico (nessuna membrana)

Citoplasma

Mitocondri, reticolo endoplasmatico

Privo di mitocondri e di reticolo endoplasmatico

Membrana citoplasmatica

Contiene steroli

Priva di steroli (ad eccezione dei micoplasmi coltivati in presenza di steroli)

Parete cellulare

Glucani; mannani; chitina; complessi tra proteine e glucani e mannani Assenza di peptidi dell’acido muramico, di acidi teicoici o di acido diaminopimelico

Peptidi dell’acido muramico; acidi teicoici; alcuni possiedono residui di acido diaminopimelico Assenza di chitina, glucani e mannani

Metabolismo

Eterotrofi; aerobi o anaerobi facoltativi; non si conoscono autotrofi né anaerobi obbligati

Eterotrofi o autotrofi; aerobi e anaerobi obbligati e facoltativi

Dimorfismo

Caratteristica distintiva di molte specie

Assente (ad eccezione delle forme sporali)

(Modificata da B.D. Davis, R. Dulbecco, H.N. Eisen, H. Ginsberg, Microbiologia, Zanichelli, Bologna, 1993.)

mitocondri, ribosomi, vacuoli, corpi lipidici e altre inclusioni di riserva. Le membrane delle cellule fungine contengono steroli, in particolare l’ergosterolo. In figura 71.12 sono illustrate le principali tappe della via biosintetica dell’ergosterolo, presiedute da enzimi che, in una fase precoce, producono squalene da acetato e, in una fase tardiva, ergosterolo da squalene. Varie classi di farmaci antifungini (allilamine, morfoline, azoli) inibiscono la tappa biosintetica tardiva. La mancanza di ergosterolo nella membrana citoplasmatica provoca la perdita della funzionalità e della fluidità della membrana, che si traduce nell’inibizione della crescita e della divisione cellulare. Come anticipato, le cellule dei lieviti rappresentano forme eucariotiche semplici, che possono essere coltivate e clonate con la stessa facilità dei batteri, e sono sempre più utilizzate come modelli sperimentali per studiare la biologia cellulare e la genetica molecolare degli eucarioti. Il prototipo di lievito per tali studi è costituito dall’ascomicete Saccharomyces cerevisiae, un microrganismo che è stato per millenni impiegato nella panificazione e nella produzione del vino e della birra. S. cerevisiae presenta un tempo di duplicazione, in un terreno arricchito, di circa 90 minuti, e possiede un DNA aploide quattro volte maggiore di quello di Escherichia coli (all’incirca 20 000 000 di coppie di basi), ma meno di un centesimo di quello di una cellula di mammifero. Pur essendo i funghi simili ai batteri per diversi aspetti (ad es. per la capacità di provocare malattie infettive, per le metodiche usate per il loro isolamento e la loro coltivazione), presentano tuttavia differenze notevoli dai batteri (tab. 71.2).

Parete cellulare È una struttura compatta che deriva dalla disposizione ordinata di diversi costituenti. Alcuni di questi sono tenuti insieme da legami covalenti, mentre altri sono trattenuti nella parete da legami idrogeno, di tipo ionico, interazioni idrofiliche o idrofobiche. Tale struttura composita fornisce protezione alla cellula contro le aggressioni fisiche, chimiche e biologiche ed è responsabile della sua morfologia. Riveste, inoltre, un ruolo importante nella patogenesi, in quanto è la struttura che protegge il fungo dai meccanismi di difesa dell’ospite e inizia il contatto diretto con le cellule dell’ospite attraverso l’adesione alle loro superfici. La parete contiene anche importanti antigeni e altri composti che influenzano l’equilibrio omeostatico dell’ospite in favore del parassita.

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C

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Chimicamente, la parete fungina è una rete formata da tre principali classi di polisaccaridi: polimeri del glucosio (β-glucani; circa il 60% del totale), polimeri del mannosio (uniti alle proteine della parete cellulare [cell wall proteins, CWPs] con legami N- od O-glicosidici; circa il 40% del totale) e polimeri di N-acetilglucosamina, GLcNac (chitina; dall’1 al 2% del totale). Nei β-glucani, i residui di glucosio sono uniti da legami glicosidici β-1,3 e/o β-1,6, mentre nella chitina i residui di GLcNac sono uniti da legami β-1,4-glicosidici (in modo simile ai residui di glucosio della cellulosa, presente nella parete cellulare dei vegetali superiori). In S. cerevisiae, i β-glucani comprendono il principale β-1,3-glucano, che è presente in catene di 1500 residui di lunghezza, e il β-1,6-glucano, presente in catene di 150-200 residui. Le principali CWP, denominate proteine legate al glicosilfosfatidilinositolo (GPI) (fig. 71.13), sono unite direttamente al β-1,6 glucano, che è a sua volta connesso al β-1,3-glucano. Dal momento che le GPI-CWP, le catene di β-1,3-glucano e le catene di β-1,6-glucano sono presenti nella parete cellulare in quantità numericamente uguali, è stato possibile ipotizzare un modello in cui il principale blocco organizzativo della parete è un’unità modulare consistente di GPI-CWP unite al β-1,6-glucano, a sua volta unito al β-1,3-glucano. Tale modello di

Figura 71.13 Struttura e rappresentazione schematica dell’architettura della parete cellulare di Candida albicans. A. Fotografia al microscopio elettronico di una sezione cellulare. Lo strato interno trasparente agli elettroni della parete (indicato dalla freccia rossa) è costituito principalmente da polisaccaridi (β-glucani e chitina) e piccole quantità di proteine. Lo strato esterno elettrondenso (indicato dalla freccia nera) è formato per la maggior parte da differenti tipi di mannoproteine. B. Schema della parete cellulare. Le catene dei glucani β-1,3/1,6 sono legate in maniera covalente alle microfibrille di chitina e, insieme con alcune proteine, contribuiscono a formare la struttura di base (a). La superficie esterna di tale struttura (b) è arricchita di tipi differenti di proteine che sono ancorate sia da legami non covalenti che da un assortimento di legami covalenti. C. Rappresentazione schematica dell’organizzazione molecolare della parete cellulare. Le proteine della parete cellulare sono attaccate principalmente a corte catene di glucani β-1,6, alla chitina attraverso i glucani β-1,6, o direttamente alla chitina. Proteine GPI (glicosilfosfatidilinositolo); proteine ASL (con legami sensibili agli alcali); proteine RAE (legate da ponti disolfuro, estraibili con agenti riducenti).

A

b

B a

Chitina

C

Glucano

Proteine

Membrana plasmatica

GPI-S-S––RAE

GPI––RAE

RAE––S-S––ASL-S-S-RAE

β-(1,6)-Glucano

β-(1,6)-Glucano

β-(1,3)-Glucano

β-(1,3)-Glucano

Chitina

Chitina

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Figura 71.3 Proteine GPI-CWP e relativi ruoli nell’aderenza.

Tipo di adesina e microrganismo

Funzione

Saccharomyces cerevisiae Aga1, Sag1, Fig2 Flo1, Flo5, Flo9, Flo10 Flo10 Flo11

Agglutinazione sessuale Flocculazione Filamentazione, flocculazione Crescita pseudo-ifale, filamentazione

Candida albicans Hwp1 Eap1 Als1 Als3, Als5, Als6

Aderenza Aderenza Aderenza, filamentazione Aderenza

Candida glabrata Epa1, Epa7 Epa6

Aderenza Aderenza, formazione di biofilm*

(Modificata da J. Heitman et al., Molecular Principles of Fungal Pathogenesis, 2006.) * Per biofilm si intende una comunità microbica strutturata attaccata a una superficie e incassata in una matrice di materiale esopolisaccaridico. Il tipo di crescita in biofilm determina caratteristiche fenotipiche marcatamente differenti dalla crescita planctonica (libera), come l’incrementata resistenza agli agenti antimicrobici e alle difese dell’ospite.

struttura della parete cellulare e di legame delle CWP alla parete stessa, derivato principalmente dagli studi su S. cerevisiae, può essere applicato molto bene all’organizzazione della parete cellulare di altri ascomiceti, incluse le specie patogene di Candida. Infatti, l’analisi delle glicoproteine di superficie in Candida glabrata e Candida albicans ha messo in evidenza che in tali specie viene mantenuto il legame generale delle GPI-CWP unite al β-1,6-glucano e al β-1,3-glucano. S. cerevisiae, C. glabrata e C. albicans codificano per differenti GPI-CWP che sono dotate di un dominio secretorio (peptide segnale), sono N- e/o O-glicosilate e possiedono un motivo legante il GPI. Tali proteine svolgono ruoli accessori, funzionando principalmente come adesine, facilitando le interazioni lievito-lievito o l’adesione del lievito a svariate superfici (tab. 71.3). L’osservazione mediante microscopia elettronica di sezioni sottili di cellule fungine o di pareti isolate ha evidenziato l’esistenza nella parete cellulare di diversi strati, distinti sulla base della loro densità agli elettroni. Dipendendo dal metodo di analisi, la parete del lievito C. albicans appare contenere da quattro a otto strati. La superficie esterna della parete è arricchita di mannoproteine, cioè differenti tipi di proteine legate alle catene di mannosio (mannani), elettrondense, mentre i polisaccaridi strutturali, cioè i β-glucani e la chitina, si accumulano nello strato più interno della parete che appare essere meno elettrondenso. Come mostrato nella rappresentazione schematica della parete di C. albicans (fig. 71.13C), catene di β-1,3/1,6-glucani sono legate covalentemente alle microfibrille di chitina e, insieme con alcune proteine, costituiscono la struttura di base. Le proteine della parete sono a loro volta unite a tale struttura attraverso le catene laterali di β-1,6-glucani o, in minor misura, mediante legami diretti ai β-1,3-glucani. Dopo trattamento prolungato dei blastoconidi di C. albicans con α-mannosidasi e fosfatasi alcalina, diventano accessibili per la marcatura i β-1,6-glucani, ma non i β-1,3-glucani o la chitina. La parete della cellula fungina contiene, in minor misura, lipidi ricchi di fosforo (fosfolipomannano). In C. albicans non sono presenti α-glucani. La composizione dei singoli componenti della parete cellulare in alcuni patogeni fungini tra cui C. albicans è mostrata in tabella 71.4. Nei miceti dimorfi Histoplasma capsulatum e Blastomyces dermatitidis gli α-1,3-glucani sono importanti per l’adesione durante il processo infettivo, e in B. dermatitidis (essi sono presenti per il 95% nelle forme a lievito) agiscono come fattore di virulenza in quanto mascherano i recettori della superficie cellulare fungina (in particolare l’antigene WI-1) eludendo il loro riconoscimento da parte

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C

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Tabella 71.4 Composizione della parete di alcuni importanti patogeni fungini.

Organismo

Costituenti della parete

β-Glucano

α-Glucano

Mannoproteine

Chitina

Cryptococcus neoformans

15% (β-1,6; β-1,3)

35% (α-1,3; α-1,4)

Presenti

Presente

Saccharomyces cerevisiae

50% β-1,3; 10% β-1,6

Assente

40%

1-3%

Candida albicans

40% β-1,3; 20% β-1,6

Assente

35-40%

1-2%

Aspergillus fumigatus

70% β-1,3; 4% β-1,6; 10% β-1,3-β-1,4

Presente

3,5%

Presente

Paracoccidioides brasiliensis

Lievito 5% β-1,3; micelio β-1,3

Lievito 95% α-1,3; micelio scarso α-1,3

Forse presenti

Presente

Blastomyces dermatitidis

5%

95%

Forse presenti

Presente

Histoplasma capsulatum

Presente

Presente

Forse presenti

Presente

(Modificata da: I. Bose et al. (2003), «A yeast under cover: the capsule of Cryptococcus neoformans», Eukariot. Cell, 2, pp. 655-663.)

dei macrofagi o di altri componenti del sistema immunitario. Rispetto a C. albicans e ad Aspergillus fumigatus, i β-1,3-glucani sono presenti in più bassa percentuale nella parete cellulare di Cryptococcus neoformans (15% verso il 40% e il 70% degli altri due patogeni), che è invece più ricca di α-1,3-glucani. Oltre a mediare le interazioni con il sistema immunitario attraverso il legame con il recettore dectina-1 espresso dai macrofagi (vedi box 71.4), i β-1,3 glucani, rilasciati dal fungo nei fluidi corporei (ad es. sangue), sono utilizzati per la diagnosi di infezione invasiva soprattutto da parte di funghi, quali C. albicans e A. fumigatus, che ne producono in quantità preponderante. La sintesi dei β-glucani è un processo complesso che coinvolge una reazione di transglicosilazione, nella quale molecole di glucosio vengono trasferite dal donatore universale di glucosio, l’UDP-glucosio, alla catena nascente polisaccaridica, e l’attività di diversi enzimi, tra cui la β-1,3-glucanosintetasi, che a sua volta richiede una piccola GTPasi nota come Rho1, che è anche coinvolta in altre funzioni essenziali della cellula, inclusa l’integrità della parete e la morfogenesi cellulare. La β-1,3-glucanosintetasi costituisce il bersaglio di importanti inibitori della sintesi dei β-glucani e quindi della formazione della parete. Tra questi, i più importanti sono le echinocandine, lipopeptidi modificati per via sintetica, derivati in origine da prodotti sintetizzati da diversi funghi.

71.5 - Ecologia, patogenicità e virulenza dei funghi Per nicchia ecologica di un fungo si intende l’ambiente nel quale il microrganismo produce il suo tallo assimilativo e genera la sua progenie. Una determinata specie fungina è, quindi, isolata con maggiore frequenza dalla sua nicchia naturale piuttosto che da altre sorgenti (tab. 71.5). Tuttavia, la maggior parte dei funghi ha acquisito la capacità di tollerare condizioni di crescita non ottimali al di fuori della propria nicchia naturale. Tali specie sono dette eurieche, avendo un’ampiezza ecologica tale da colonizzare un’enorme varietà di ambienti. Questo è reso possibile dalla presenza di meccanismi che permettono la conversione in uno stato inattivo metabolicamente, spesso con una morfologia caratteristica, come clamidospore a parete spessa, talli che si ingrandiscono isodiametralmente o endoconidi. A tali specie appartengono i funghi facilmente coltivabili che noi conosciamo. Nel contempo, molti funghi sono stenoechi, cioè altamente specializzati, e richiedono metodi speciali per il loro isolamento. Alcuni funghi usano il corpo di mammiferi (uomo e animali a sangue caldo) solo

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Tabella 71.5 Possibile ecologia di alcuni funghi patogeni.

Nome

Nicchia ecologica

Reservoir animale

Blastomyces dermatitidis

Legno?

Cane

Coccidioides immitis

Suolo desertico

Roditori

Cryptococcus neoformans var. neoformans

Legno

Piccione

Cryptococcus neoformans var. gattii

Legno

Koala

Histoplasma capsulatum

Sterco di pipistrello, guano

?

(Modificata da G.S. de Hoog, J. Guardo, J. Gene, M.J. Figueras, Atlas of Clinical Fungi, Centraalbureau voor Schimmelcultures, Utrecht, The Netherlands, 2000.)

durante una parte del loro ciclo vitale, essendo tuttavia in grado di crescere e riprodursi nell’ambiente. Perciò essi hanno due nicchie ecologiche, così che il loro ciclo vitale può essere suddiviso in due parti che differiscono tra loro radicalmente. I funghi, quindi, sono per lo più patogeni facoltativi. Soltanto poche specie si riscontrano esclusivamente nei mammiferi e i funghi appartenenti a tali specie sono pertanto definiti patogeni obbligati. I patogeni fungini possono derivare dalla flora commensale, anche denominata il microbiota dell’ospite (ad es. Candida), oppure essere acquisiti dall’ambiente prossimo all’ospite. I microbi commensali sono acquisiti appena dopo la nascita, dopo di che essi stabiliscono la loro residenza in nicchie mucosali dove si riproducono e contribuiscono al corretto sviluppo del sistema immunitario. Ne consegue che la risposta immunitaria verso i microbi nelle nicchie mucosali aiuta a mantenere integre le barriere all’invasione sulle superfici esposte a microrganismi potenzialmente dannosi. In pratica, il sistema immunitario semplicemente controlla la crescita microbica e/o l’invasione in una maniera che non si traduce nella patogenicità microbica. Pertanto, le malattie associate con la flora commensale sono solitamente connesse con la soppressione dell’immunità o con un’interruzione nel tegumento protettivo, o con la distruzione della barriera mucosale, dell’ospite. D’altro canto, le malattie acquisite dall’ambiente hanno la capacità, attraverso la selezione naturale di loro caratteristiche, di stabilirsi in ospiti mammiferi spesso nel contesto di un’immunità apparentemente integra. Arturo Casadevall e Liise-anne Pirofski hanno accuratamente definito le interazioni ospite-parassita all’interno di una rete danno-risposta. Perciò, qualora ci si riferisca ai funghi patogeni potenziali, l’infezione può essere definita come l’acquisizione di un fungo da parte di un ospite, sebbene la sua presenza nell’ospite non implichi necessariamente una malattia. L’infezione esita in malattia quando le interazioni ospite-fungo producono danno sufficiente da distruggere la normale omeostasi e/o diventare apparenti clinicamente. Perciò, il risultato dell’infezione può essere l’eliminazione del microrganismo, l’infezione asintomatica, la latenza o la malattia e tale risultato è una funzione dell’interazione tra microrganismo e ospite. Concludendo, l’interazione ospite-parassita è un intreccio complesso e le attuali ricerche, siano esse incentrate sul microbo o sull’ospite, possono contare sugli strumenti della biologia molecolare per dissecare le caratteristiche molecolari che definiscono il risultato dell’interazione. Si distinguono due tipi di fattori che contribuiscono allo sviluppo delle micosi: fattori di vitalità e fattori di virulenza. I primi permettono al fungo di far fronte a condizioni ambientali estreme come il calore o la siccità e non sono specifici, nel senso che non sono designati specificamente per la crescita nei tessuti animali. Tra i fattori di vitalità, ricordiamo la presenza di melanina, di caroteni, l’ispessimento della parete cellulare e la crescita meristematica (ovvero un accrescimento continuo del tallo fungino in

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tutte le direzioni con concomitante formazione di setti). Apparentemente, i fattori di vitalità da soli non sono sufficienti a causare una micosi e non contribuiscono all’adattamento del fungo all’ospite mammifero. Nel caso, invece, dei funghi che stabiliscono associazioni con il corpo di mammiferi, si crea un equilibrio tra la vitalità fungina e la risposta dell’ospite. Il fungo aspira a massimizzare la sua riproduzione e dispersione in modo da raggiungere una “fitness” ottimale e l’ospite tende a minimizzare il danno dell’infezione. Quanto più elevato è il grado di adattamento a tale condizione tanto più basso è il grado di virulenza che si traduce nello sviluppo di una condizione benigna. In conseguenza di questo paradosso, i microrganismi con bassa virulenza sono generalmente indicati come agenti infettivi adattati, mentre il termine “patogeno” è ristretto a quelli che causano un danno visibile all’ospite. Molti dei funghi adattati ai mammiferi che causano infezione sistemica sono dimorfici, essendo in grado di esibire due differenti forme vegetative, la tissutale e l’ambientale, come già detto. La forma tissutale non è però indispensabile dato che il fungo può crescere e propagarsi nell’ambiente. Tuttavia, la sopravvivenza del fungo è potenziata quando un ospite appropriato viene “utilizzato” in maniera transiente. Tale ottimizzazione di propagazione e sopravvivenza può essere considerata una strategia ecologica del fungo. Solo le proprietà che aumentano la penetrazione e la sopravvivenza negli ospiti animali allo scopo di una strategia ecologica sono considerate fattori di virulenza. Il termine “patogeno”, quindi, in un senso evoluzionistico, è applicabile ai funghi che adottano una strategia ecologica basata sull’utilizzazione di un ospite animale e che perciò esibiscono i fattori di virulenza. Perciò, la scarsità di malattie invasive fungine nelle popolazioni di mammiferi con un’immunità intatta è stata attribuita alla combinazione di endotermia (cioè, la capacità di regolare la temperatura corporea mediante produzione di calore metabolico interno) e di immunità adattativa. Sulla base di ciò, quei microbi ambientali che non possono sopravvivere alla temperature dei mammiferi hanno una bassa probabilità di emergere come nuovi patogeni umani. Nel caso dei funghi opportunisti, che possono essere definiti come agenti casuali di malattia, la vitalità fungina e le difese umane sono più o meno in equilibrio, ma quando l’immunità cellulare innata diventa inefficace, tale bilanciamento si sposta verso il vantaggio fungino e può aver luogo la sepsi. In individui i cui meccanismi immunitari siano gravemente compromessi, funghi che in natura colonizzano rapidamente nuovi substrati, quali Absidia e Rhizomucor (Mucorales), causano micosi spesso devastanti, mentre altri funghi che in natura colonizzano substrati che sono già occupati da altri microrganismi, raggiungendo un alto livello di abilità competitiva (attraverso la produzione extracellulare di antibiotici e metabolici tossici), quali gli appartenenti ai generi Aspergillus e Fusarium, causano per lo più micosi croniche (tab. 71.6). In seguito al completamento delle sequenze del genoma di diversi patogeni fungini (Candida albicans, Aspergillus fumigatus, Cryptococcus neoformans) e al sostanziale progresso nella determinazione delle sequenze del genoma di alcuni agenti di micosi endemiche (Coccidioides e Histoplasma), la nostra capacità di comprendere le variabili microbiche che contribuiscono alla virulenza dovrebbe essere significativamente potenziata negli anni futuri. Al momento, molti degli studi sulla virulenza fungina hanno riguardato i patogeni fungini più comuni per l’uomo come C. albicans, C. neoformans e A. fumigatus. Sebbene essi abbiano un ospite mammifero comune, tuttavia differiscono nei siti specifici di infezione e nell’espressione della loro virulenza. Passeremo in rassegna brevemente i fattori di virulenza di questi tre patogeni in relazione ai loro stadi di sviluppo e alle condizioni ambientali dell’ospite. Candida albicans è commensale di individui sani e occupa le superfici mucose

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Tabella 71.6 Relazioni dei funghi con l’ospite.

Saprofita

Commensale

Endosaprofita

Patogeno facoltativo

Patogeno obbligato

Patogeno adattato all’uomo

Nicchia ecologica fuori dall’uomo

Nicchia ecologica nell’uomo

Nicchia ecologica nell’uomo

Strategia di disseminazione: trasmissione ambiente/uomo

Strategia di disseminazione: trasmissione uomo/uomo

Strategia di disseminazione: trasmissione uomo/uomo

Ospite sano: forte difesa nonspecifica

Nessun contatto con il sistema immunitario

Ospite sano: modesto impegno del sistema immunitario

Ospite sano: moderata virulenza

Ospite sano: alta virulenza

Ospite sano: bassa virulenza

Esempio: Histoplasma capsulatum**

Esempio: Trichophyton verrucosum**

Esempio: Trichophyton rubrum**

Ospite immunocompromesso: opportunismo Esempio: Aspergillus fumigatus*

Ospite immunocompromesso: opportunismo Esempio: Malassezia furfur*

Esempio: Candida albicans*

(Da: G.S. de Hoog, J. Guarro, J. Gene, M.J. Figueras, Atlas of Clinical Fungi, Centraalbureau voor Schimmelcultures, Utrecht, The Netherlands, 2000.) * La “fitness” del microrganismo è aumentata dal rapporto con l’uomo: fattori di vitalità. ** La “fitness” del microrganismo è aumentata dal rapporto con l’uomo: fattori di virulenza.

della bocca, dell’intestino e della vagina. In condizioni di immunocompromissione, il fungo può proliferare e causare infezioni mucosali e sistemiche fatali. C. albicans ha molti modi di sviluppo, potendo differenziarsi tra la forma di lievito gemmante, di lievito allungato chiamato pseudoifa o di cellule altamente polarizzate in continuo allungamento chiamate ife. La possibilità di cambiare da un tipo di cellula a un altro può incrementare la capacità di virulenza del microrganismo. Tale differenziazione cellulare è stimolata da condizioni ambientali, dove la temperatura elevata (37 °C), la presenza di siero, il pH elevato e differenti fonti di carbonio stimolano la crescita ifale, mentre la bassa temperatura (30 °C), il pH basso e l’assenza di siero favoriscono lo sviluppo della forma a lievito. È stato ipotizzato che differenze nella forma cellulare e nella composizione della superficie cellulare risultino vantaggiose nei differenti ambienti dell’ospite, così che le cellule nella fase di lievito dovrebbero essere più adatte alla disseminazione nel sangue e i filamenti ifali alla penetrazione nei tessuti. Sebbene i vari stadi dell’infezione causata da C. albicans non siano stati del tutto caratterizzati, essi tuttavia coinvolgerebbero l’adesione alle cellule dell’ospite, la penetrazione nei tessuti o l’inglobamento da parte delle cellule dell’ospite e la proliferazione cellulare o l’ulteriore disseminazione nell’ospite. Diversi fattori di virulenza sono stati identificati, come le proteine della parete cellulare Ece1p e Hwp1p e le proteinasi secrete che comprendono le aspartil-proteinasi della famiglia delle Sap (secreted aspartyl proteinases). La maggior parte di questi fattori è associata specificamente con la fase di crescita ifale, ma sia le cellule di lievito sia quelle di ifa sono necessarie per esprimere la virulenza in toto, poiché ceppi mutanti di C. albicans bloccati nella forma di lievito o filamentosa sono meno virulenti. Va sottolineato che sia nello stato di commensale che di patogeno i microrganismi del genere Candida (come molti altri generi fungini) sono in grado di formare un biofilm multicellulare che àncora le cellule fungine a tessuti dell’ospite, impianti, cateteri e altri dispositivi, che crea un microambiente condizionato e difende le cellule che crescono all’interno della matrice extracellulare del biofilm dall’azione dei leucociti dell’ospite, degli anticorpi e dei farmaci. Unicamente in C. albicans, sono stati individuati due tipi di biofilm che dipendono dalla configurazione del locus genico che preside all’accoppiamento (mating type locus, MTL). Nella configurazione predominante (MTLa/MTLα), le cellule formano un biofilm che facilita il commensalismo e la

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BOX 71.2 • Nomenclatura dei funghi e delle malattie fungine Molti funghi hanno due nomi (entrambi validi secondo il Codice Botanico Internazionale di Nomenclatura), uno per designare il loro stato sessuale (teleomorfo) e l’altro per il loro stato asessuale (anamorfo). L’esistenza di un duplice nome risiede nel fatto che entrambi gli stati sono stati descritti e nominati in tempi diversi. Nella pratica, è più comune (e corretto) riferirsi al fungo mediante la sua designazione asessuale, poiché questo è lo stato ottenuto di solito in coltura. I nomi delle malattie non sono soggetti a uno stretto controllo internazionale. Il loro uso quindi tende a riflettere la pratica locale. Un metodo popolare è stato quello di derivare i nomi delle malattie fungine dai nomi generici dei microrganismi che ne sono la causa: ad esempio, aspergillosi da Aspergillus spp., candidosi da Candida spp., tricosporonosi da Trichosporon spp., sporotricosi da Sporothrix schenckii, dermatofitosi dai dermatofiti come Trichophyton spp. ecc. Secondo le raccomandazioni del sottocomitato della Società Internazionale di Micologia Umana ed Animale (ISHAM), dovrebbe diventare di uso corrente nominare, ove possibile, ogni singola malattia co-

me “patologia A dovuta a (o causata da) fungo B”. Diffuso è anche l’uso di nomi collettivi per raggruppare le malattie da funghi aventi origine simile. Alcuni esempi: feo-ifomicosi, termine ampiamente usato per riferirsi a un gruppo di infezioni sottocutanee e profonde causate da funghi pigmentati (neri) o dematiacei (attualmente più di 100) che si riscontrano nei tessuti sotto forma di ife settate; ialoifomicosi, termine d’uso crescente per indicare infezioni causate da muffe non colorate (ialine) che adottano una forma ifale settata nel tessuto; cromoblastomicosi, termine usato per indicare un gruppo di infezioni croniche della pelle o dei tessuti sottocutanei causate da funghi dematiacei e caratterizzate dalla presenza nei tessuti di corpi sclerotici, che sono cellule fungine settate di colore bruno scuro simili a lieviti, chiamati anche cellule muriformi per la presenza appunto di setti cellulari verticali e orizzontali. “Vi sono poche cose più frustanti per un clinico dei cambiamenti nei nomi delle malattie o degli agenti di malattia, soprattutto quando le malattie interessate non sono molto comuni” (Frank Odds, 1996).

patogenesi, pertanto definito il biofilm “patogeno”; nella configurazione MTLa/MTLa o MTLα/MTLα, le cellule formano un biofilm che facilita l’accoppiamento, pertanto definito il biofilm “sessuale”. Nel primo caso, il biofilm è impermeabile, impenetrabile e farmaco-resistente; nel secondo caso, è permeabile, penetrabile e farmaco-sensibile. Anche il basidiomicete Cryptococcus neoformans è un patogeno opportunista e può causare la meningite criptococcica in individui immunocompromessi. Le basidiospore aploidi prodotte nell’ambiente si differenziano in cellule di lievito che si dividono mediante gemmazione ma possono anche accoppiarsi per formare ife dicariotiche in risposta a un feromone. Tali ife a loro volta danno origine a basidi che generano basidiospore sessuali. Mentre gli stadi di crescita filamentosa hanno luogo nell’ambiente, il lievito e le basidiospore possono essere inalate nei polmoni e rappresentare la forma infettante del fungo. Un volta nei polmoni, il microrganismo può proliferare, rimanere dormiente o disseminare ad altri organi, in particolare al sistema nervoso centrale. Fattori di virulenza del fungo comprendono la produzione di una spessa capsula polisaccaridica e la deposizione del pigmento melanina attorno alla cellula di lievito; le cellule che mancano di capsula e di melanina non sono virulente. Infine, Aspergillus fumigatus è un ascomicete filamentoso saprofita che dà origine a conidi a diffusione aerea. Diversamente da C. albicans e C. neoformans, il fungo A. fumigatus non è dimorfico e non forma cellule di lievito. L’inalazione delle spore non causa infezione disseminata negli individui sani; tuttavia, se non sono eliminate dal sistema immune, le spore possono germinare e formare colonie miceliali nei polmoni. Questo può condurre a malattia respiratoria o sistemica, soprattutto negli individui neutropenici. Anche A. fumigatus produce il pigmento melanina, che si ritiene protegga il fungo contro le specie reattive dell’ossigeno dell’ospite e favorisca perciò la virulenza. Il gene pksP, che codifica per la polichetidesintetasi, è un enzima particolarmente importante per la biosintesi della melanina, e l’assenza di pksP determina una riduzione nella virulenza di A. fumigatus.

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Capitolo 71 • Micologia generale

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72 • Definizione e classificazione delle micosi • Micosi causate da funghi dimorfi e loro diagnosi • Micosi causate da funghi opportunisti e loro diagnosi

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72.1 - Classificazione delle micosi Tradizionalmente vengono riconosciute quattro categorie di infezioni fungine sulla base della localizzazione, cioè la colonizzazione superficiale, l’infezione (muco)cutanea che riguarda cute, occhi, seni nasali, orofaringe, orecchio esterno e vagina, l’infezione sottocutanea e l’infezione profonda, sia essa localizzata o disseminata.

Micosi superficiali Si tratta di micosi riguardanti quei funghi che vivono utilizzando sostanze presenti sul corpo umano o animale, sulla superficie cutanea come capelli, peli o lipidi, senza provocare alcuna reazione immune.

• Tinea (pitiriasi) versicolor. È causata dalla colonizzazione dello strato corneo









Figura 72.1 Lesione cutanea in un caso di pityriasis versicolor.

della pelle da parte del lievito lipofilo Malassezia furfur, che determina l’insorgenza di lesioni locali, confluenti, principalmente a livello del torace e del dorso. Le lesioni giovani sono ipopigmentate, quelle più vecchie diventano brune e mostrano una desquamazione più intensa (fig. 72.1). Pietra. Si tratta di una colonizzazione del fusto dei capelli caratterizzata dalla presenza di noduli superficiali che lasciano il capello per lo più non danneggiato. Gli elementi fungini sono cementati insieme e attaccati fermamente al capello. I noduli sono duri e neri nel caso della pietra nera, causata da Piedraia hortae, oppure soffici e bianchi nel caso della pietra bianca (fig. 72.2), causata dalle specie di Trichosporon. Nella pietra bianca anche i peli possono essere infettati e le diverse specie causali hanno una caratteristica localizzazione, ad esempio peli del capo, ascellari o inguinali. Tinea nigra. Le lesioni della cute superficiale, brune o nere, sono confinate al palmo delle mani. La pigmentazione è maggiormente intensa vicino ai bordi. Il fungo infetta prevalentemente le donne, le persone sotto i 20 anni di età e gli individui affetti da iperidrosi. L’agente eziologico è Hortaea o Exophiala werneckii. Otite esterna. È il risultato di un’abbondante colonizzazione dell’orecchio esterno da parte di Aspergillus (soprattutto A. niger o A. fumigatus), Malassezia spp. o Pseudallescheria boydii, innescata in generale da un uso locale di antibiotici ad ampio spettro. Dermatofitosi superficiale del capello. Per quanto riguarda le infezioni causate dai dermatofiti cheratinofili è necessario operare una distinzione tra la colonizzazione delle parti non vitali dell’epidermide, dei capelli o dei peli, da un lato, e la crescita negli strati cutanei della pelle, dall’altro. Nell’infezione di tipo ectotrico, gli artroconidi del fungo sono formati sulla superficie esterna dei capelli o dei peli con danno della cuticola; in quella di tipo endotrico, le ife si sviluppano solo all’interno del fusto dei peli, dove formano lunghe file parallele di artroconidi.

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Figura 72.2 Pelo parassitato da Trichosporon sp. (pietra bianca).

BOX 72.1 • Impatto della sessualità sull’evoluzione della virulenza fungina Mentre la maggior parte dei funghi ha un ciclo sessuale ben caratterizzato, i funghi patogeni rappresentano un esempio speciale in cui la sessualità non è comune e i meccanismi sessuali di riproduzione sono inusuali o criptici. Data la relazione evoluzionistica con microrganismi modello come Saccharomyces cerevisiae (in cui la riproduzione sessuale e la ricombinazione genetica sono comuni e osservabili facilmente), è sorprendente che molte specie di funghi patogeni non siano mai state viste accoppiarsi in laboratorio, nonostante la genetica di popolazione abbia fornito prove dell’esistenza di strutture atte alla ricombinazione (Coccidioides immitis e Aspergillus fumigatus). Al contrario, altri funghi patogeni come Cryptococcus neoformans si accoppiano facilmente in laboratorio e tuttavia le strutture necessarie per l’accoppiamento non sono mai state osservate nell’ambiente. In generale, Candida albi-

cans, Candida glabrata, C. neoformans e molti altri funghi patogeni hanno conservato il macchinario sessuale, ma tale capacità non viene frequentemente utilizzata. Quindi, se da un lato l’accoppiamento potrebbe condurre all’assortimento e alla perdita di tratti unici poligenici richiesti per la patogenesi, dall’altro una popolazione che si ricombini attivamente potrebbe anche dare vita a genotipi più virulenti, oltre che contribuire all’adattamento ai cambiamenti ambientali al di fuori del ciclo di infezione. I patogeni potrebbero pertanto mantenere un modo di vita clonale una volta adattatisi all’ospite, e solo raramente ricorrere ai loro cicli sessuali quando si confrontano con nuove condizioni. La sessualità potrebbe costellare l’evoluzione dei patogeni permettendogli di espandere il loro raggio di azione ambientale, infettare nuovi ospiti, evadere il sistema immune o contrastare la terapia antimicrobica.

Micosi cutanee Tale categoria comprende quei disordini in cui le parti vitali degli strati più esterni della pelle (epidermide, strato spinoso, strato corneo), le membrane mucocutanee, genitali o l’orecchio esterno sono attaccati dai funghi. Anche la pelle morta o i peli possono essere coinvolti.

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Dermatofitosi • Tigne. Sono caratterizzate da lesioni circolari limitate da margini sottilmente

rilevati e arrossati che tendono a desquamare e sono circondate da pelle arrossata e pruriginosa. Il fungo rimane confinato nello strato corneo. Come conseguenza dell’attività cheratinolitica, sono prodotti metaboliti che provocano infiammazione. Le aree colpite si espandono gradualmente e il tessuto può guarire al centro. Le tigne o tinee (dal latino tinea, verme o larva di insetto), il cui nome deriva dal fatto che un tempo si pensava che tali micosi fossero causate da vermi o pidocchi,

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Figura 72.3 Lesione cutanea in un caso di tinea corporis causata da Microsporum canis.

vengono classificate in base alla zona cutanea coinvolta (ad es. tinea pedis, tinea manuum, tinea corporis, tinea cruris, tinea barbae, tinea capitis) (fig. 72.3). Gli agenti eziologici sono i funghi dermatofiti appartenenti ai generi Epidermophyton, Trichophyton e Microsporum. • Onicomicosi. Si tratta di un’infezione cronica del letto ungueale e delle unghie, che si espande dalla periferia verso il centro, con eventuale perdita dell’unghia. Un’ipercheratosi laterale può determinare il sollevamento dell’unghia distalmente. La parte distale gradualmente si rompe e si frantuma. Le unghie adiacenti rimangono di solito non infette.

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Infezioni cutanee causate da funghi non dermatofiti • Onicomicosi. È causata da funghi non dermatofiti, quale Scopulariopsis brevi-

caulis, e da specie di Candida che, oltre a infettare le unghie, determinano un’infiammazione della cute circostante (paronichia). • Intertrigine. È un’infezione fungina, causata di solito da lieviti appartenenti al genere Candida, in particolare Candida albicans, che interessa le zone cutanee continuamente bagnate e macerate, e si manifesta a livello del perineo, delle pieghe infra-mammarie e sulle mani soggette a prolungato contatto con l’acqua. Un tipo particolare è il “perlèche”, un’infezione dell’angolo della bocca, che si riscontra soprattutto negli individui anziani. • Candidosi mucocutanea. È determinata dall’invasione delle membrane mucose da parte di Candida, presente spesso come commensale. Può manifestarsi in diverse forme cliniche: mughetto, vulvovaginite e balanite. Il mughetto è caratterizzato da una crescita abbondante di C. albicans nella cavità orale. Uno strato biancastro e asportabile ricopre la lingua, che appare rossa, erosa e tendente al sanguinamento. L’affezione, che può estendersi all’esofago, è strettamente associata con l’uso prolungato di antibiotici ad ampio spettro e con un deficit dell’immunità a cellule T. La vulvovaginite può essere causata da varie specie di Candida, soprattutto da C. albicans, e si manifesta con perdite biancastre spesso associate a eritema e irritazione, soprattutto a carico della vulva; occasionalmente si può accompagnare a disuria. Nei maschi, l’infezione da C. albicans si localizza prevalentemente sul glande (balanite). • Cheratite. Questa patologia è comunemente dovuta a specie di Aspergillus e Fusarium, ma anche altri funghi saprofiti sono stati riportati come agenti eziologici. Si evidenzia con colonizzazione e infiltrazione dell’epitelio corneale dopo un trauma, un intervento chirurgico, l’uso di corticosteroidi o incauta applicazione di lenti a contatto. Le manifestazioni cliniche sono rappresentate da ulcerazioni che possono andare incontro a cicatrizzazione, con possibile riduzione o perdita della vista.

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• Cromoblastomicosi. La malattia interessa soprattutto le estremità ed è carat-

terizzata da lesioni localizzate, a lenta espansione. Sulla cute compaiono lesioni a forma di verruca o simili a cavolfiore e deformazioni, dovute a ipercheratosi o acantosi. Le lesioni appaiono grigiastre, crostose e secche. Possono presentarsi anche lesioni metastatiche di origine linfatica. Nei tessuti infetti il fungo si presenta come cellule nere muriformi (box 72.2). Gli agenti causali più comuni sono Fonsecaea pedrosoi, Cladophialophora carrionii e Phialophora verrucosa.

Micosi sottocutanee Si tratta di infezioni primarie localizzate nel tessuto sottocutaneo che provocano una risposta di leucociti o di eosinofili che conduce alla formazione di cisti o granulomi. L’ingresso dei miceti nel tessuto sottocutaneo avviene generalmente in seguito a (micro)traumi. La maggior parte di tali infezioni sono croniche, spesso sfiguranti, e possono persistere per decadi senza per questo essere causa di morte per il paziente. Esse non devono essere confuse con le infezioni secondarie della cute insorte in corso di micosi sistemiche, che saranno trattate in seguito. Tra le infezioni più comuni vi sono il micetoma e la sporotricosi. Nel micetoma si formano nel tessuto lesioni necrotiche suppurative con cavitazioni, drenanti attraverso fistole multiple sulla superficie della cute. L’essudato contiene granuli compatti, costituiti da microcolonie ifali. Le aree affette appaiono tumefatte a causa dell’edema e della granulazione. Negli stadi avanzati possono essere colpite anche le ossa. Sulla base dell’aspetto dei granuli, si distinguono un micetoma a granuli bianchi, causato principalmente da Acremonium spp. e da Pseudallescheria boydii, e un micetoma a granuli neri, causato principalmente da Exophiala jeanselmei e Madurella spp. Nella sporotricosi (forma classica), in seguito all’inoculazione traumatica di Sporothrix schenckii nella cute, si sviluppa una piccola tumefazione asintomatica che poi esita in un’ulcera a margine rosso e rialzato che produce una secrezione purulenta. Successivamente si origina, attraverso la diffusione per via linfatica delle cellule fungine, una serie caratteristica di lesioni che coinvolgono i linfonodi. Raramente la sporotricosi si manifesta come malattia polmonare primaria.

Micosi profonde Le micosi profonde sono acquisite per inalazione, con penetrazione negli organi interni tramite la via polmonare o attraverso i seni paranasali, oppure per invasione enterica, attraverso la colonizzazione e l’invasione della mucosa. Tali micosi possono essere anche una complicazione di un’inoculazione traumatica, ad esempio in seguito a un intervento chirurgico maggiore, oppure in seguito all’uso di cateteri o di aghi contaminati. La micosi può rimanere localizzata nel tessuto profondo o negli organi interni (micosi sistemica) o può diffondere (micosi disseminata) attraverso i vasi sanguigni o il sistema linfatico. Nel secondo caso, può determinarsi frequentemente una disseminazione alla cute (micosi cutanea secondaria). Agenti eziologici di micosi sistemiche sono, in primo luogo, i miceti dimorfi, appartenenti all’ordine Onygenales (fig. 72.4). Si tratta di un gruppo di patogeni umani, polifiletici ma convergenti per la caratteristica del dimorfismo termico, che comprende Blastomyces dermatiditis, Coccidioides immitis/posadasii, Histoplasma capsulatum, Paracoccidioides brasiliensis/lutzii, Sporothrix schenckii e Talaromyces marneffei (prima noto come Penicillium marneffei). Questi funghi crescono in una forma ifale nell’ambiente ma cambiano drasticamente la loro morfologia nell’ospite mammifero sotto l’effetto della temperatura, che è uno dei principali segnali dell’ospite in grado di innescare la loro conversione alla forma “ospite” ed è sufficiente, in laboratorio, per stimolare nel fungo lo stabilirsi del programma

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Figura 72.4 Classificazione dei miceti dimorfi appartenenti all’ordine Onygenales.

Chytridiomycota Zygomycota Zygomycetes Entomophthorales Mortierellales Mucorales Ascomycota Archiascomycetes Eumycota

Pneumocystidales Hemiascomycetes Saccharomycetales Euascomycetes Chaetothyriales Clavicipitales Dothideales Eurotiales Hypocreales Leotiales

Onygenaceae

Microascales

Coccidioides immitis

Onygenales

Ajellomycetaceae

Ophiostomatales

Histoplasma capsulatum

Pezizales

Blastomyces dermatitidis

Phyllachorales

Paracoccidioides brasiliensis

Pleosporales Sordariales Basidiomycota Hymenomycetes Agaricales Stereales Tremellales Urediniomycetes Sporidiales Ustilaginomycetes Microstomatales Tilletiales Ustilaginales

di sviluppo adattato all’ospite. La maggior parte di essi è endemica di specifiche aree geografiche. I pazienti che sono stati a contatto con tali funghi spesso non presentano sintomi clinici, ma sviluppano una reazione positiva ai test cutanei con antigeni specifici (vedi oltre) nei 14 giorni dopo l’esposizione. L’infezione è acquisita attraverso l’inalazione delle spore fungine. Le manifestazioni acute consistono in polmoniti sia asintomatiche che sintomatiche, che possono guarire o evolvere in malattia cronica. Occasionalmente, la malattia cronica può condurre alla disseminazione extrapolmonare (fig. 72.5). Altre importanti micosi sistemiche sono l’aspergillosi, la criptococcosi e la candidosi, trattate nei rispettivi capitoli. Di minore

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Figura 72.5 Diagramma dei possibili decorsi clinici nelle micosi sistemiche causate da funghi dimorfi.

Inalazione

Colonizzazione

Infezione

Acuta

Cronica

Polmonite sintomatica

Polmonite asintomatica

Guarigione

Riattivazione endogena Disseminazione extrapolmonare

importanza sono la penicilliosi, un’infezione endemica nel Sud-Est asiatico causata da Penicillium marneffei, e le disseminazioni per via ematica dei lieviti Trichosporon o Geotrichum, frequentemente osservate in pazienti con neutropenia o leucemia.

72.2 - Istoplasmosi L’istoplasmosi, la micosi endemica più comune negli Stati Uniti, è causata da Histoplasma capsulatum var. capsulatum. Histoplasma capsulatum var. duboisii, invece, causa l’istoplasmosi africana, che ha manifestazioni cliniche differenti dalla prima. Mentre la seconda è nota essere ristretta all’Africa sub-Sahariana, la prima è distribuita in tutto il mondo. Nell’area endemica, lungo le valli dei fiumi Mississippi e Ohio negli Stati Uniti, la maggior parte delle persone si infetta in giovane età, attraverso l’inalazione dei conidi diffusi nell’ambiente. Di recente, è stato segnalato che alcune zone della Cina dovrebbero essere incluse tra quelle con endemicità medio-alta per H. capsulatum, così come l’India dove la maggior parte dei casi di istoplasmosi è stata riportata nella regione di Calcutta (Bengala Occidentale) e nell’Assam. È interessante che entrambi i due stati dell’India siano attraversati da grandi fiumi, quali Gange e Brahmaputra, in analogia con quanto osservato per le aree a elevata endemicità del Nord America. L’istoplasmosi è stata descritta per la prima volta nel 1904 dal medico Samuel Darling all’ospedale Canal Zone di Panama, che pensò erroneamente che il microrganismo, rassomigliante a Leishmania nei tessuti, fosse un parassita. In pochi anni divenne chiaro che il microrganismo scoperto era invece un fungo. Diverse decadi più tardi si dimostrò che H. capsulatum era un fungo dimorfo temperatura-dipendente.

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Morfologia e identificazione di Histoplasma capsulatum

Vi sono due varietà di H. capsulatum che sono patogene per l’uomo, H. capsulatum var. capsulatum e H. capsulatum var. duboisii. A 25-30 °C, il microrganismo esiste in forma miceliale; la colonia è di colore bianco-marrone. Le ife aeree producono due tipi di conidi: macroconidi (conidi tubercolati) a parete spessa, 8-15 µm di diametro, con caratteristiche proiezioni spinose sulle loro superfici, e microconidi a parete liscia, di 2-4 µm di diametro, che costituiscono la forma infettante (fig. 72.6). H. capsulatum

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var. capsulatum e H. capsulatum var. duboisii sono indistinguibili nella fase miceliale. A 37 °C nei tessuti e in vitro, il microrganismo va incontro a trasformazione nella fase di lievito. In vitro, la colonia è di colore crema e diventa più grigia con l’invecchiamento. Nella fase di lievito nei tessuti, le due varietà hanno un aspetto differente. H. capsulatum var. capsulatum si presenta sotto forma di piccoli (2-4 µm) lieviti ovali gemmanti spesso situati all’interno dei macrofagi (fig. 72.7A), sotto forma di corte catene e mostra la cicatrice da cui la gemma è stata rilasciata a un’estremità (fig. 72.7B). Oltre alle due varietà patogene per l’uomo, ne esiste una terza, H. capsulatum var. farciminosum, che è patogena dei cavalli e muli, nei quali causa linfangite suppurativa e lesioni cutanee ulcerate. Non causa infezione sistemica.

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Patogenesi e sindromi cliniche

Figura 72.6 Fase miceliale di Histoplasma capsulatum che evidenzia numerosi macroconidi tubercolati.

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Figura 72.7 Fase lievitiforme di Histoplasma capsulatum. A. Biopsia polmonare che evidenzia cellule di H. capsulatum all’interno di un macrofago (colorazione Giemsa). B. Biopsia epatica in corso di istoplasmosi che evidenzia cellule lievitiformi a parete spessa tipiche della varietà duboisii (colorazione con argento di metenamina).

I microconidi della fase miceliale di H. capsulatum, a causa delle piccole dimensioni, si aerosolizzano facilmente e si depositano negli alveoli dell’ospite umano dove, trovandosi a 37 °C, si trasformano nella fase di lievito. La fagocitosi di entrambi le forme (conidi o lievito) da parte dei macrofagi alveolari e dei neutrofili avviene attraverso il legame del microrganismo alle glicoproteine della famiglia CD18 che promuovono l’adesione. La forma di lievito di H. capsulatum sopravvive all’interno dei fagolisosomi dei macrofagi in quanto è in grado di resistere al “killing” dei radicali tossici dell’ossigeno e di modulare il pH all’interno dei fagosomi. Anche l’acquisizione da parte del lievito di ferro e calcio favorisce la crescita all’interno dei macrofagi. Sopravvivendo nel macrofago, H. capsulatum è trasportato ai linfonodi ilari e mediastinici e dissemina per via ematica attraverso il sistema reticolo-endoteliale. Dopo diverse settimane, si sviluppa un’immunità specifica mediata da cellule T che causa l’attivazione dei macrofagi e il successivo “killing” del microrganismo. A questo punto, entra in gioco l’immunità a lungo termine nei confronti di H. capsulatum. Studi in modelli animali hanno, infatti, dimostrato che la maggior parte dei pazienti con un’infezione grave da H. capsulatum è quella che ha un deficit nell’immunità cellulare, in particolare quella con infezione avanzata da HIV e una conta di linfociti CD4 bassa. A questo riguardo, l’istoplasmosi è, tra le micosi umane, l’esempio emblematico dell’importanza fondamentale dell’immunità cellulo-mediata nel limitare l’infezione. La gravità della malattia dipende comunque sia dalla risposta immunitaria dell’ospite sia dal numero di conidi inalati. Un individuo sano può sviluppare una grave infezione polmonare con esito fatale se esposto a un elevato numero di conidi, evenienza che si verifica durante la demolizione o il restauro di vecchi edifici oppure durante esplorazioni in caverne pesantemente infestate. Al contrario, un piccolo inoculo può causare un’infezione polmonare severa o progredire verso l’istoplasmosi disseminata acuta sintomatica se il sistema immune cellulo-mediato di un individuo non è in grado di contenere il microrganismo. In tabella 72.1 vengono illustrate le manifestazioni cliniche dell’istoplasmosi. In generale, l’esposizione di un individuo definito “normale” a H. capsulatum risulta in un’infezione asintomatica o soltanto moderatamente sintomatica. Questo è il caso di un’area endemica, dove il 50-85% degli adulti risulta infettato con H. capsulatum. L’istoplasmosi polmonare acuta si manifesta di solito come una malattia autolimitantesi caratterizzata da tosse secca, febbre e affaticamento. L’esame radiografico del torace mostra una polmonite a chiazze, spesso accompagnata da linfoadenopatia ilare o mediastinica. In pazienti con difetti dell’immunità cellulo-mediata, la malattia è più severa con prostrazione, febbre, brividi, sudorazione profusa, dispnea, ipossiemia e presenza di infiltrati diffusi bilaterali alla radiografia del torace. Se una persona è esposta a un pesante inoculo di H. capsulatum, può determinarsi un’infezione polmonare acuta grave, spesso denominata istoplasmosi “epidemica”, che si manifesta con febbre alta, brividi, affaticamento, dispnea, tosse e dolore toracico. All’esame radiografico del torace sono visibili infiltrati diffusi reticolo-nodulari. Possono seguire l’insufficienza respiratoria acuta e la morte.

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Dopo alcuni mesi o anni dalla risoluzione della polmonite, possono svilupparsi noduli calcificati diffusi per tutto il polmone. L’istoplasmosi polmonare cronica riguarda principalmente soggetti maschi anziani con malattia polmonare ostruttiva cronica. La malattia, che si presenta con tosse, febbre, sudorazione notturna, emottisi, dispnea e perdita di peso, è caratterizzata dalla formazione di cavità nei lobi superiori e progressiva fibrosi nelle aree polmonari più basse. Per molti aspetti, l’istoplasmosi polmonare cronica cavitaria mima la tubercolosi in riattivazione. La malattia progredisce con insufficienza respiratoria e, se non viene trattata, risulta fatale per la maggior parte dei pazienti. L’istoplasmosi disseminata può avere un decorso acuto con interessamento diffuso di organi multipli nella maggior parte dei pazienti immunodepressi (dispnea, insufficienza renale ed epatica, coagulopatia e ipotensione sono osservate) oppure un decorso cronico progressivo in soggetti adulti non immunocompromessi (febbre, sudorazione notturna, anoressia, perdita di peso e affaticamento sono prominenti). In entrambe le forme sono frequentemente osservate epatosplenomegalia, linfadenopatia, lesioni della cute e delle membrane mucose, con papule, pustole, ulcere e noduli sottocutanei. Mentre l’endocardite è una manifestazione non comune della malattia, il coinvolgimento del sistema nervoso centrale si verifica sia come componente dell’infezione disseminata sia come manifestazione isolata dell’infezione con H. capsulatum. Per quanto riguarda l’istoplasmosi africana, l’infezione con H. duboisii differisce da quella con H. capsulatum in quanto le ossa e la cute sono i due principali organi interessati. Lesioni osteolitiche sono spesso trovate in associazione con noduli sottocutanei e ascessi; i noduli cutanei possono ulcerare e drenare. Il coinvolgimento polmonare è anche frequente. L’infezione, generalmente indolente, decorre in forma benigna. Rari i casi di disseminazione viscerale estesa. Diversamente dai pazienti asintomatici o con una forma di malattia lieve autolimitantesi, i pazienti affetti da istoplasmosi polmonare acuta grave, polmonare cronica o istoplasmosi disseminata devono essere trattati con un farmaco antifungino. La terapia antifungina è altamente efficace; l’itraconazolo è il farmaco di scelta per la maggior parte dei pazienti.

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Diagnosi di laboratorio

La diagnosi definitiva di istoplasmosi è basata sull’isolamento in coltura del microrganismo dai tessuti o dai fluidi corporei. Per i pazienti con infezione disseminata, H. capsulatum è spesso rinvenuto in campioni di sangue, midollo osseo, biopsia epatica, cute o lesioni mucosali. H. capsulatum cresce lentamente a 30 °C nella forma miceliale in vitro, richiedendo fino a 6 settimane di tempo. Per identificare il microrganismo vengono usate sonde di DNA specifiche per H. capsulatum che non rendono più necessario indurre in laboratorio la conversione dalla fase miceliale a quella lievitiforme. All’esame istopatologico, eseguito mediante colorazione con l’acido periodico di Schiff, di una biopsia di tessuto, la presenza di caratteristici lieviti ovali gemmanti di 2-4 µm all’interno dei macrofagi o liberi consente una diagnosi presuntiva di istoplasmosi. Nelle sezioni di tessuto, le forme a lievito di H. duboisii sono circa quattro volte più grandi di H. capsulatum e possono anche essere viste come corte catene. Test sierologici di immunodiffusione eseguiti con antigeni specifici sono utili per dimostrare la presenza di bande di precipitine M e H. La banda M si sviluppa durante l’infezione acuta, è spesso presente nelle forme croniche di istoplasmosi e persiste per mesi o anni dopo la risoluzione dell’infezione. La banda H è molto meno comune, è sempre associata con la banda M ed è indicativa di forme croniche e progressive di istoplasmosi. Dal momento che sono richieste da 2 a 6 settimane per la comparsa di anticorpi specifici per H. capsulatum, i test sierologici sono poco utili per stabilire una diagnosi in pazienti con infezione acuta grave e non sono quasi mai utili nei pazienti immunodepressi che montano una scarsa risposta anticorpale. Il test cutaneo, che evidenzia l’ipersensibilità di tipo ritardato a un’inoculazione

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Tabella 72.1 Classificazione

delle manifestazioni cliniche dell’istoplasmosi. Istoplasmosi polmonare acuta Sporadica Epidemica Istoplasmosi cronica cavitaria Complicanze dell’istoplasmosi polmonare Granuloma mediastinico Mediastinite fibrotica Bronchiectasia Pericardite Istoplasmosi disseminata Acuta Cronica progressiva Endocardite Coinvolgimento focale di organi o sistemi Sistema nervoso centrale Altri organi (Modificata da: W.E. Dismukes, P.G. Pappas, J.D. Sobel, Clinical Mycology, Oxford University Press, New York, 2003.)

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intradermica di istoplasmina, un filtrato sterile di coltura miceliale, non è utile per scopi diagnostici. Nell’area endemica, la maggior parte dei soggetti adulti reagisce positivamente all’istoplasmina, mentre reazioni crociate si possono avere con la coccidioidina (da Coccidioides immitis) o con la blastomicina (da Blastomyces dermatitidis). Infine, pazienti con istoplasmosi grave sono spesso anergici.

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Epidemiologia, prevenzione e controllo

Sebbene sia molto comune nell’America del Nord e Centrale, l’istoplasmosi è diffusa in tutto il mondo, ma l’attuale conoscenza della sua distribuzione rimane incompleta. Ad esempio, è stato ipotizzato che in India, dove H. capsulatum è ora noto essere endemico, molti casi potrebbero essere stati non riconosciuti per lungo tempo a causa di una scarsa consapevolezza della malattia e di una diagnosi errata come tubercolosi o leishmaniosi. Perciò l’istoplasmosi dovrebbe essere considerata come una possibile diagnosi in viaggiatori e immigrati dal subcontinente Indiano e Sud-est Asiatico oltre che dalle regioni tradizionalmente considerate endemiche. Inoltre, mentre l’istoplasmosi rimane una causa significativa di mortalità AIDS-associata in molte parti del mondo, l’uso di farmaci immunosoppressivi in pazienti con condizioni autoimmuni o altre malattie di base può portare all’emergere di nuovi casi di istoplasmosi in zone non precedentemente note per essere endemiche. Nonostante H. capsulatum abbia, nell’ambiente, necessità di specifiche condizioni di crescita collegate con l’umidità, l’acidità, la temperatura, il contenuto di azoto, è noto che la presenza di grandi quantità di escrementi di uccelli o pipistrelli nel suolo supporti notevolmente la crescita miceliale del microrganismo. L’infezione da H. capsulatum si contrae in seguito all’esposizione passiva o attiva attraverso attività occupazionali o ricreative. Ogni anno negli Stati Uniti da centinaia a migliaia di individui sono infettati con H. capsulatum. La più grande epidemia finora nota è stata riportata in seguito all’esposizione passiva di migliaia di persone durante estesi lavori di ristrutturazione urbana nella città di Indianapolis. Inoltre, anche l’epidemia di AIDS ha avuto un effetto significativo sull’epidemiologia dell’istoplasmosi nelle aree altamente endemiche. Le persone a rischio di esposizione occupazionale a H. capsulatum dovrebbero indossare dispositivi protettivi, cosi come il suolo o i detriti provenienti da aree endemiche dovrebbero essere trattati con formalina prima dei lavori di costruzione, ma ciò è solo raramente praticabile. I pazienti immunocompromessi dovrebbero evitare attività speleologiche o di restauro di edifici che potrebbero metterli a contatto con i conidi di H. capsulatum. L’uso di agenti antifungini a scopo profilattico è stato valutato solo nelle persone con AIDS, ma il trattamento con itraconazolo non ha dato risultati convincenti.

72.3 - Coccidioidomicosi La coccidioidomicosi è una malattia dell’emisfero occidentale causata dal fungo dimorfico, abitatore del suolo, che fino a pochi anni fa era riconosciuto come una specie unica, Coccidioides immitis. Il primo caso descritto è stato riscontrato nella valle californiana di San Joaquin, dove la malattia è endemica, nel 1896, mentre agli inizi del secolo appena trascorso il microrganismo causale veniva identificato come una muffa, nonostante la sua rassomiglianza nei tessuti con un protozoo. Nei primi anni ’40 del secolo scorso, si pensava alla coccidioidomicosi come a una malattia relativamente rara ma sfigurante e di solito fatale. Tuttavia, la scoperta di un numero crescente di casi benigni di malattia polmonare associata con eritema nodoso, designata come febbre della “valle”, ha condotto lo scienziato Charles D. Smith a ipotizzare che vi fosse una grande varietà di manifestazioni cliniche dell’infezione. Fu sempre Smith a sviluppare il test cutaneo alla coccidioidina, a descrivere la relazione tra reattività al test cutaneo e malattia clinica e a ideare il test per la rilevazione nel siero degli anticorpi anti-Coccidioides.

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Morfologia e identificazione di Coccidioides

In anni recenti, sono state distinte due specie di questo fungo ascomicete sulla base di differenze molecolari e biogeografiche: C. immitis, che si riscontra soltanto in California, e C. posadasii, diffuso altrove. Poiché non vi sono chiare caratteristiche microbiologiche o cliniche che differenziano le due specie, sarà adoperato il termine “generico” Coccidioides per riferirsi a entrambi i microrganismi. Studi del DNA ribosomiale 18S hanno rivelato che il fungo è strettamente imparentato con i funghi patogeni Histoplasma capsulatum e Blastomyces dermatitidis. Nel suolo Coccidioides si sviluppa come una muffa con ife settate, all’interno delle quali cellule non contigue vanno incontro a degenerazione. Tale fenomeno permette la frammentazione delle ife con disarticolazione delle rimanenti cellule intatte, chiamate artroconidi (fig. 72.8). Tali cellule a forma di barella, di circa 2 × 5 µm, sono sufficientemente piccole da raggiungere i piccoli bronchi quando vengono inalate nei polmoni di un ospite suscettibile. Una volta all’interno dell’ospite, il fungo va incontro a un profondo cambiamento morfologico in cui la parete esterna si frattura, quella interna si ispessisce e l’intera struttura si arrotonda (crescita isotropica). L’innalzamento della temperatura, l’incremento della concentrazione di CO2, la diminuzione del pH e l’interazione con i fagociti professionali facilitano tale trasformazione. La struttura risultante, chiamata sferula (fig. 72.9), unica tra i funghi patogeni, si segmenta internamente in compartimenti multipli mononucleati mentre si accresce fino a raggiungere dimensioni tipiche di 40-80 µm che possono arrivare anche a 120 µm. All’interno di una sferula matura si sviluppano in media 200-300 endospore (4-6 μm) che vengono liberate nel tessuto circostante in pacchetti in seguito alla rottura della sferula. Dopo il rilascio, ciascuna endospora può andare incontro a crescita isotropica e dare origine a una seconda generazione di sferule endosporulanti, ripetendo cosi il ciclo nell’ospite.

Figura 72.8 Aspetto microscopico di artroconidi di Coccidioides immitis.

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Patogenesi e sindromi cliniche

Sebbene la coccidioidomicosi possa essere considerata una malattia potenzialmente fatale, circa la metà dei soggetti infettati da Coccidioides presenta lievi sintomi di malattia e non richiede un intervento medico. In molti di questi individui l’infezione è dimostrabile attraverso la positività al test cutaneo con coccidioidina e/o l’evidenza ai raggi X di una cavità polmonare o di un nodulo. La coccidioidina è una frazione solubile derivata dalle colture miceliali di Coccidioides ed è stata usata per test immunologici su soggetti presumibilmente esposti al patogeno. Negli individui che presentano chiari sintomi di infezione, è molto frequente una polmonite atipica caratterizzata da dolore toracico pleuritico, tosse, febbre, malessere, mal di gola, eruzione cutanea, mal di testa, artralgia e mialgia. Tali manifestazioni precoci di infezione, nessuna delle quali di per sé diagnostica di coccidioidomicosi, compaiono di solito entro 1-4 settimane dall’esposizione al fungo. La maggior parte delle persone infettate guarisce in poche settimane o mesi, mentre un 5-10% mostra evidenza di malattia attiva documentata dai risultati positivi di test sierologici e di esami radiografici del torace. Meno del 5% va incontro a malattia disseminata o fatale. Poiché Coccidioides non si trasmette da persona a persona, con la rara eccezione della trasmissione materno-fetale, l’infezione coccidioidica dell’ospite mammifero dovrebbe rappresentare per il patogeno un vicolo cieco in senso evoluzionistico. Al contrario, numerose evidenze cliniche suggeriscono che Coccidioides può persistere nei tessuti dell’ospite e che la riattivazione della coccidioidomicosi può aver luogo diversi anni dopo la prima infezione, soprattutto se gli individui infettati contraggono una malattia debilitante, vanno incontro a immunosoppressione oppure sono sottoposti a una farmaco-terapia che compromette la loro immunità cellulare. Come altri patogeni microbici, Coccidioides ha evoluto determinanti di patogenicità che fanno sì che il microrganismo non esacerbi il processo infettivo e intensifichi la

Figura 72.9 Sferule ed endospore di Coccidioides immitis in una sezione di tessuto polmonare. Colorazione argento metenamina di Gomori.

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risposta dell’ospite, ma coesista con esso, sia a livello intracellulare che extracellulare, determinando nell’ospite uno stato prolungato di infezione. I granulomi necrotizzanti che circondano le sferule (simili a quelli visti nella tubercolosi) sono la classica manifestazione patologica della coccidioidomicosi, sebbene possa aver luogo anche un’acuta risposta piogenica, diretta verso le endospore e non verso le sferule, soprattutto in corso di malattia disseminata. Si ipotizza che il rilascio delle endospore da parte della sferula determini, in una prima fase, un intenso richiamo dei linfociti polimorfonucleati con instaurazione di un processo infiammatorio che non risulta però protettivo. Tale processo può evolvere quindi, negli individui in grado di controllare la malattia, in una risposta immunitaria protettiva con formazione di granulomi che circondano le sferule. Un’efficiente risposta immune cellulare è critica nel controllare l’infezione coccidioidica, per cui pazienti con difetti in tali difese (ad es. HIV-positivi, trapiantati o trattati con steroidi a lungo termine) sono esposti a un rischio aumentato di insorgenza di coccidioidomicosi severa sintomatica. Sebbene le infezioni coccidioidiche si presentino sotto diverse forme cliniche, un ampio numero di casi evolve in una coccidioidomicosi criptica, come è stato descritto per le altre micosi respiratorie trattate in questo libro. La coccidioidomicosi può coinvolgere quasi ogni organo del corpo. I siti corporei più interessati sono i polmoni, la cute e il tessuto molle sottocutaneo, le ossa, le articolazioni e le meningi. Anche altri organi possono essere coinvolti, spesso in maniera silente, come il fegato e la milza, il peritoneo, la prostata, l’uretra, l’epididimo e il tratto genitale femminile.

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Diagnosi di laboratorio

La diagnosi definitiva di coccidioidomicosi è basata sugli esami colturale, istopatologico e sierologico. Coccidioides si sviluppa come una muffa non pigmentata generalmente dopo 3-7 giorni di incubazione a 35 °C da campioni clinici (espettorato, secrezioni respiratorie) di pazienti con coccidioidomicosi primaria, malattia cavitaria e coccidioidomicosi polmonare cronica o persistente. I campioni clinici di origine non polmonare risultano meno frequentemente positivi all’esame colturale. L’identificazione del fungo cresciuto in coltura si basa sull’uso di sonde di DNA specie-specifiche. La diagnosi di coccidioidomicosi può essere effettuata anche mediante l’identificazione di sferule nelle biopsie di noduli polmonari colorate con l’argento metenamina di Gomori (fig. 72.9) o l’acido periodico di Schiff. I test sierologici per identificare anticorpi specifici per Coccidioides, sviluppati negli anni ’50 del secolo scorso, sono importanti per la diagnosi e il monitoraggio della coccidioidomicosi. Anticorpi IgG, messi in evidenza utilizzando la capacità del siero di fissare il complemento quando combinato con l’antigene coccidioidico, compaiono più tardivamente degli anticorpi IgM ma persistono in pazienti con malattia attiva protratta. La quantificazione degli anticorpi IgG ha significato prognostico, pazienti con titoli = 1:16 sono a un rischio più elevato di disseminazione. Inoltre, la rilevazione di anticorpi IgG nel liquido cefalo-rachidiano supporta la diagnosi di meningite coccidioidica.

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Epidemiologia, prevenzione e controllo

Le regioni endemiche della coccidioidomicosi coincidono con le aree nelle quali il fungo vive nel suolo, tra le latitudini di 40°N e 40°S nell’emisfero occidentale. Nel Nord America, tali regioni sono state associate con la “Lower Sonoran Life Zone”, una regione geoclimatica caratterizzata da estati calde, inverni miti, rare gelate e suolo alcalino. Il fungo è presente anche nel suolo delle aree semiaride del Nord del Messico e dell’America Centrale e Meridionale, che includono Guatemala, Honduras, Colombia, Venezuela, Paraguay e Argentina. La prevalenza e l’incidenza della coccidioidomicosi in una regione può essere stimata mediante test di reattività cutanea che misurino l’ipersen-

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sibilità di tipo ritardato. In questo modo è stato possibile definire l’area endemica della coccidioidomicosi negli Stati Uniti, che comprende la Valle meridionale di San Joaquin, l’Arizona sud-centrale e la porzione occidentale della Valle del Rio Grande in Texas. La coccidioidomicosi è considerata una malattia occupazionale, poiché le persone che lavorano a contatto con il suolo o la polvere nelle aree di endemicità sono esposte a un rischio di infezione più elevato. Agricoltori, costruttori, archeologi e personale militare sono più facilmente esposti agli artroconidi di Coccidioides. Sebbene la maggior parte dei casi di coccidioidomicosi siano dovuti a inalazione, quindi con il polmone come sito primario di infezione, sono stati descritti casi di coccidioidomicosi primaria cutanea, in seguito a diretta inoculazione del microrganismo attraverso lesioni traumatiche contaminate con materiale proveniente dal suolo. La coccidioidomicosi è stata anche riportata come una frequente malattia acquisita in laboratorio. Le piastre di coltura della fase saprobica di Coccidioides producono una grande quantità di artroconidi (sicuramente superiore a quella che può essere incontrata naturalmente) che possono facilmente contaminare l’ambiente se non vengono maneggiate appropriatamente. A causa della natura altamente infettante degli artroconidi, è raccomandato che tutte le procedure di laboratorio che coinvolgono la manipolazione di colture vitali di Coccidioides siano eseguite in un laboratorio con livello di biosicurezza 3 (BSL-3). Il CDC ha incluso Coccidioides nella lista degli agenti infettivi insieme a virus, batteri e tossine considerati potenziali agenti di bioterrorismo. Non vi è evidenza di trasmissione interumana della coccidioidomicosi attraverso la diffusione di aerosol, mentre sono stati riportati casi di trasmissione attraverso un fomite contaminato. Poiché la coccidioidomicosi è acquisita comunemente dall’ambiente, non esistono metodi per prevenire l’infezione in un’area endemica. Individui che vogliano ridurre il rischio di essere infettati dovrebbero perciò evitare quelle attività che prevedono una loro esposizione al suolo. Dal momento che sono stati identificati diversi antigeni in grado di proteggere gli animali dalla coccidioidomicosi sperimentale, non si esclude che in futuro questi antigeni possano essere usati per lo sviluppo di un vaccino per l’uomo.

72.4 - Criptococcosi La criptococcosi è una micosi sistemica causata dal lievito basidiomicete capsulato Cryptococcus neoformans. Isolato per la prima volta in Italia nel 1894 da Sanfelice dal succo di pesca fermentato, il microrganismo è stato in seguito isolato da Emmons nel 1950 da vari tipi di suolo, specialmente quelli contaminati con sterco di uccelli, in particolare di piccione. A circa 100 anni fa risale il primo caso clinico documentato di infezione da parte del fungo, che veniva isolato da una lesione tibiale di una giovane donna tedesca. Per tutto il secolo successivo, ne è stato messo in evidenza il ruolo di patogeno sia dell’uomo che degli animali (gatti domestici e cani). Nell’uomo, è causa di malattia in individui immunocompetenti apparentemente normali (spesso asintomatica) e, più comunemente, in soggetti con uno stato di immunosoppressione grave (quali ad esempio pazienti infettati dal virus dell’immunodeficienza [HIV], sottoposti a trapianto d’organo, affetti da tumori linforeticolari o trattati con corticosteroidi). Sebbene siano state descritte almeno 38 specie di Cryptococcus, isolate da diverse nicchie ambientali, solo poche causano infezione nell’uomo. Altre due specie, Cryptococcus albidus e Cryptococcus laurentii, sono state riportate come rare cause di malattia umana.

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Morfologia e identificazione di Cryptococcus neoformans

C. neoformans è un lievito sferico od ovale, provvisto di capsula, che misura approssimativamente 4-6 µm in diametro. La grandezza della capsula varia in relazione al ceppo e alle condizioni di laboratorio, potendo raggiungere nei campioni clinici dimensioni

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comprese tra 1 e 50-100 µm. Quando isolato in natura, l’organismo tende a essere più piccolo e scarsamente capsulato. Sulla base delle differenze antigeniche nella struttura del polisaccaride capsulare, i ceppi di C. neoformans sono stati raggruppati classicamente in cinque sierotipi, A, B, C, D e A/D. Questi cinque sierotipi, di cui il sierotipo A è il più diffuso, erano stati divisi in tre varietà: C. neoformans var. grubii (sierotipo A), C. neoformans var. neoformans (sierotipo D) e C. neoformans var. gattii (sierotipi B e C). I ceppi con sierotipo A/D sono lieviti diploidi che risultano dall’unione di ceppi con sierotipo A e D. Le varietà differiscono per quanto concerne l’epidemiologia, l’ecologia e per talune proprietà biochimiche. Tuttavia, l’attuale classificazione del microrganismo definisce due specie: C. neoformans, che comprende var. grubii e var. neoformans, e C. gattii. Le due specie sono suddivise in otto tipi molecolari maggiori: VNI e VNII (var. grubii), VNIV (var. neoformans), VNIII (ibridi A × D) e VGI-VGIV (C. gattii). La seconda divisione, permettendo una tipizzazione genetica più precisa, consente di classificare i ceppi diploidi inter- e intra-varietà o gli ibridi aneuploidi che siano stati isolati in laboratorio o dall’ambiente. La divergenza evoluzionistica tra i genomi di C. neoformans e C. gattii avvenuta più di 34 milioni di anni fa ha dato origine a due specie con marcate differenze a livello ecologico e patologico. Mentre C. neoformans è ampiamente diffuso nel mondo, è associato con escrementi aviari (in particolare quelli di piccione) ed è causa della maggior parte delle infezioni umane, C. gattii è stato storicamente trovato nelle regioni tropicali e subtropicali associato con varie specie di alberi (in particolare alberi di eucalipto) ed è meno responsabile di malattia nell’uomo. Diversamente da C. neoformans, C. gattii infetta principalmente individui immunocompetenti in regioni endemiche, sebbene abbia espanso il suo campo d’azione nell’ultima decade a partire da un’epidemia nel 2001 nell’isola di Vancouver a cui sono seguite epidemie associate nelle vicine regioni degli Stati Uniti e del Canada. Pur rappresentando la diffusione di C. gattii una possibile nuova minaccia per la salute pubblica, la presente trattazione si concentra su C. neoformans, che rappresenta comunque la specie criptococcica più studiata e uno dei patogeni fungini più comuni. Il basidiomicete Filobasidiella neoformans (corrispondente a Filobasidiella bacillispora di C. gattii) è lo stato sessuale o perfetto di C. neoformans var. neoformans, che può essere dimostrato facendo avvenire l’accoppiamento (eterotallico) del fungo in laboratorio in ben definite condizioni (vedi box 72.1). Quando le cellule di opposto MTL sono in stretta prossimità, le cellule MTLα sviluppano un tubo di coniugazione in risposta al feromone MTLa, mentre le cellule MTLa si allargano e si rigonfiano; la fusione di tubi di coniugazione alle cellule allargate conduce alla formazione di ife eterocariotiche (cioè con nuclei MTLa e MTLα) che in seguito danno origine a basidi nelle loro estremità. Nei basidi, i nuclei MTLa e MTLα si fondono e vanno incontro a meiosi per produrre le catene di spore aploidi. Perciò, nello stato perfetto, il fungo produce un micelio da cui originano le basidiospore di 1-2 µm di grandezza. La basidiospora rappresenta una struttura ideale per la formazione di aerosol e possibile inalazione e deposizione nelle vie aeree dell’ospite al fine di stabilire un’infezione polmonare. Tuttavia, poiché le strutture sessuali (basidiospore o ife) non sono rinvenute nei pazienti o di solito in natura, rimane controversa l’importanza dell’inalazione delle basidiospore nell’acquisizione della malattia. C. neoformans produce colonie color crema, lisce e mucose quando fatto crescere su agar sangue e su agar Sabouraud. Il grado di mucosità delle colonie è in relazione allo spessore della capsula. Il metodo migliore per evidenziare la capsula è quello di esaminare il microrganismo in una sospensione diluita di inchiostro di china. Le particelle di inchiostro sono escluse dalla capsula, che quindi appare come un’area chiara che circonda la cellula di lievito. C. neoformans cresce bene a 37 °C, a differenza delle altre specie non patogene. Altra caratteristica distintiva di C. neoformans è la capacità di produrre melanina quando coltivato in terreni contenenti composti fenolici.

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Capitolo 72 • Micologia speciale

Patogenesi e sindromi cliniche

Un tempo considerato non più di una curiosità medica, C. neoformans è diventato un importante patogeno a livello mondiale. Se, infatti, prima della metà del 1950 erano stati riportati in letteratura meno di 300 casi di criptococcosi, oggi tale microrganismo è uno degli agenti infettivi più comuni di meningoencefalite nell’uomo. È evidente che tale lievito capsulato, che nella sua nicchia ambientale può aver evoluto strumenti adattativi per proteggere sé stesso dai predatori del suolo (ad es. amebe o vermi) e da altri insulti ambientali, abbia cooptato questi meccanismi protettivi per sopravvivere e causare malattia nell’ambiente ostile dell’ospite mammifero. In seguito all’infezione, C. neoformans può produrre varie condizioni cliniche o malattie. Ad esempio, esso può infettare l’ospite senza causare malattia apparente, nel senso che viene eliminato attraverso un’efficiente risposta immune, o esistere semplicemente come un colonizzatore delle vie aree superiori o del tratto respiratorio di un ospite mammifero. Nello stesso tempo, C. neoformans può causare una malattia polmonare grave (polmonite o sindrome da “distress” respiratorio acuto). A partite da un’infezione localizzata, il lievito può disseminare in vari distretti dell’organismo, coinvolgendo in primo luogo il sistema nervoso centrale e, con minor frequenza, la cute, il sistema scheletrico e la prostata. Tra i fattori di virulenza e patogenicità di C. neoformans finora studiati, quelli più caratterizzati sono la capsula, la formazione di melanina, la termotolleranza (ossia la capacità di crescere a 37 °C), la produzione di mannitolo e di altri composti solubili extracellulari. La capsula è una struttura polisaccaridica formata da catene non ramificate di unità di mannosio, xilosil- e β-glucuronil-sostituite, note nell’insieme come glucuronoxilomannano (GXM). La capsula è probabilmente il fattore chiave della virulenza di C. neoformans; infatti, mutanti acapsulati sono avirulenti, mentre i ceppi capsulati manifestano diversi gradi di virulenza. Oltre a costituire la base di uno dei migliori test di diagnosi sierologica nell’ambito delle micosi umane, questo complesso zucchero ha importanti implicazioni per la patofisiologia dell’infezione, in quanto inibisce la fagocitosi e la migrazione dei leucociti, diminuisce la risposta anticorpale e la secrezione delle citochine, accelera il decorso della malattia da HIV, induce l’apoptosi, è un fattore potenzialmente coinvolto nell’edema cerebrale e, infine, influenza con la sua carica negativa le interazioni cellulari. Paradossalmente, la capsula accentua la risposta dell’ospite al microrganismo mediante l’attivazione della via alternativa del complemento, potenziando quindi la capacità di “killing” dei leucociti. La capsula è una struttura dinamica che può aumentare di dimensioni in risposta a diversi stimoli ambientali, quali livelli elevati di pCO2, concentrazioni di ferro basse e presenza di siero. La formazione di melanina, una proprietà condivisa da molti funghi patogeni degli animali e delle piante, si attua attraverso una serie di reazioni di autossidazione a partire da composti difenolici che coinvolgono l’enzima laccasi. La melanina contribuisce alla patogenicità di C. neoformans in quanto agisce come antiossidante, è importante per l’integrità e la carica della parete cellulare, interferisce con la sensibilità agli antifungini, abroga la fagocitosi anticorpo-mediata e protegge il fungo dalle temperature elevate. La capacità di crescere alla temperatura di 37 °C è un fattore di virulenza facilmente intuibile per un patogeno invasivo dei mammiferi. A tal proposito, occorre ricordare che, di circa un milione e mezzo di specie fungine presenti nel biota mondiale, soltanto una minoranza è in grado di causare una malattia consistente per l’uomo, proprio perché solo queste specie hanno sviluppato il prerequisito del fenotipo di crescita alla temperatura corporea dei mammiferi. Dopo l’inalazione del microrganismo in forma di lievito e forse di basidiospora (vedi sopra), a partire probabilmente da una sorgente ambientale (ad es. escrementi aviari o suolo), si verifica una transitoria colonizzazione delle vie aeree prima che si stabilisca

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l’infezione respiratoria. L’incidenza dell’infezione è comunque molto bassa, in quanto la maggior parte dei soggetti esposti reagisce in maniera adeguata al microrganismo. L’immunità cellulo-mediata è fondamentale nella protezione dalle infezioni criptococciche. Dopo l’inalazione del microrganismo, la prima linea di difesa è costituita dal macrofago alveolare. Se i meccanismi iniziali di difesa negli alveoli sono ostacolati, come è il caso nei pazienti con infezione da HIV, i criptococchi raggiungono il circolo sanguigno e disseminano ad altri organi, come il sistema nervoso centrale o la prostata. In tali siti, intervengono altri meccanismi di difesa per impedire la progressione dell’infezione. Studi in vitro e in modelli animali hanno dimostrato che altre cellule (quali neutrofili, cellule “natural killer”, cellule microgliali macrofago-simili e linfociti T) sono in grado di uccidere o inibire la crescita dei criptococchi. Citochine, come interleuchina-2 e interferon-γ, liberate dalle cellule fagocitiche, e linfociti esplicano anche un ruolo importante nel potenziare il “killing” di C. neoformans. Al contrario, il ruolo dell’immunità umorale nella protezione contro le infezioni criptococciche rimane controverso, sebbene anticorpi diretti verso i costituenti capsulari facilitino la “clearance” dell’antigene criptococcico, potenziando il “killing” cellulo-mediato anticorpo-dipendente e incrementando l’attività antifungina di leucociti e di cellule “natural killer”. Nei pazienti affetti da AIDS, la malattia polmonare insieme al coinvolgimento di altri siti corporei è più frequente rispetto ai soggetti HIV-negativi. Tali pazienti hanno un decorso clinico più rapido, spesso associato con una mortalità elevata. La manifestazione clinica più comune di criptococcosi è la meningoencefalite, che può essere subacuta o cronica. Sebbene non siano stati ancora chiariti i meccanismi alla base della propensione di C. neoformans a stabilire l’infezione nel cervello, è stato proposto che le cellule di lievito siano trasportate all’interno dei macrofagi attraverso la barriera emato-encefalica (in una sorta di cavallo di Troia) oppure che C. neoformans possa penetrare o trasmigrare attraverso le cellule endoteliali cerebrali e quindi raggiungere il cervello o lo spazio subaracnoideo. Studi futuri basati su modelli animali potranno chiarire perché tale lievito costituisca il “patogeno fungino del sistema nervoso centrale” dell’uomo. Prima dell’avvento dei farmaci antifungini, la meningite criptococcica causava il 100% di mortalità. Al momento esistono diversi farmaci antifungini (amfotericina B, 5-fluorocitosina e fluconazolo) che, somministrati in associazione e con strategie sequenziali, permettono di risolvere nella maggior parte dei casi questa malattia altrimenti letale. Tuttavia, la resistenza clinica è un’evenienza frequente durante il trattamento dell’infezione, così che la mortalità acuta per meningite criptococcica in nazioni progredite sotto il profilo medico si aggira ancora tra il 10 e il 25%.

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Diagnosi di laboratorio

Figura 72.10 Colorazione con acido periodico di Schiff di cellule di Cryptococcus neoformans. Campione di fegato di un paziente con criptococcosi.

Sebbene la diagnosi definitiva di criptococcosi si ottenga attraverso la coltura e l’identificazione del microrganismo, i campioni clinici (liquor, pus e altri essudati) di pazienti con infezione criptococcica sospetta possono essere esaminati con un test rapido utilizzando la tecnica dell’inchiostro di china. La diagnosi presuntiva di criptococcosi è ottenuta molto spesso attraverso l’esame di sezioni di tessuto, utilizzando colorazioni specifiche come l’argento metenamina di Gomori o l’acido periodico di Schiff (fig. 72.10); il microrganismo può essere riconosciuto per la sua forma ovale e la formazione di una gemma a base ampia. Inoltre, si può ricercare e quantificare l’antigene capsulare polisaccaridico nel liquor o nel siero mediante un test di agglutinazione che utilizza particelle di lattice rivestite di anticorpi anti-criptococco di coniglio (fig. 72.11). Titoli antigenici = 1:4 sono fortemente indicativi di infezione criptococcica. Nei casi di meningite criptococcica, la determinazione dell’antigene polisaccaridico è molto sensibile e specifica, e può rivelarsi particolarmente utile qualora le colture di liquor risultino negative.

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Figura 72.11 Ricerca dell’antigene criptococcico in campioni di siero umano mediante agglutinazione su lattice. Campione Pt. 1: positivo; campione Pt. 2: negativo.

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Epidemiologia, prevenzione e controllo

Dal momento che C. neoformans viene isolato soprattutto dagli escrementi di piccione e dal suolo, è stato ipotizzato che l’infezione possa aver luogo attraverso le particelle aerosolizzate del guano stesso. Tuttavia, l’incidenza di infezioni criptococciche attive tra coloro che sono esposti a piccioni e ai loro escrementi non sembra essere superiore a quella degli individui non esposti, benché dati derivati da recenti studi di sorveglianza di popolazione indichino che le occupazioni fuori casa possano essere associate con un rischio aumentato di criptococcosi. Risultano abbastanza rare le epidemie di criptococcosi a partire da una particolare sorgente ambientale, come pure non è stata documentata la trasmissione interumana della malattia. Studi sierologici atti a dimostrare la presenza di anticorpi diretti verso C. neoformans hanno messo in evidenza che nella città di New York la maggior parte della popolazione adulta ha anticorpi anti-criptococcici e molti bambini acquisiscono anticorpi nei confronti di antigeni criptococcici prima dei 10 anni di vita. Ciò suggerisce che la maggior parte delle infezioni criptococciche non produce malattia poiché il sistema immunitario è in grado di controllare efficientemente l’infezione. Prima della pandemia dell’AIDS, nella sola California del Nord l’incidenza globale della criptococcosi era stimata pari a 0,8 casi per milione di persone per anno. Dalla diffusione pandemica dell’HIV nel 1980, i casi riportati hanno subito un incremento drammatico. Nel 1992, durante il picco dell’AIDS epidemico negli Stati Uniti, in diverse aree urbane sono stati segnalati tassi di criptococcosi superiori a 5 casi per 100 000 persone. Successivamente, a causa dell’ampia diffusione del fluconazolo e dell’emergere della terapia antiretrovirale altamente attiva (HAART) a metà-fine degli anni ’90 del secolo scorso, i tassi annuali di infezioni sintomatiche negli Stati Uniti si sono ridotti drasticamente a circa 1 caso per 100 000 persone, divenendo comparabili ai tassi di incidenza di un altro patogeno meningeo, Neisseria meningitidis.

72.5 - Candidosi Da patogeni poco comuni e a lungo considerate fastidiosi contaminanti, le specie di Candida sono diventate nelle ultime decadi importanti e frequenti patogeni umani, in grado di causare un ampio spettro di malattie superficiali e profonde. Mentre le infezioni superficiali si acquisiscono in comunità, quelle profonde, invasive e sistemiche hanno in genere un’origine nosocomiale. I fattori di rischio e patogenetici per lo sviluppo di candidosi superficiale e profonda, sebbene si sovrappongano, sono differenti; perciò, a un’infezione superficiale consegue di rado una malattia sistemica. Candida albicans rappresenta la specie maggiormente

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associata con le infezioni nell’uomo, ma l’uso di farmaci antifungini a scopo profilattico e terapeutico durante gli anni ’90 del secolo scorso ha determinato una riduzione sostanziale nell’incidenza delle infezioni gravi sostenute da C. albicans e, d’altra parte, una prevalenza maggiore di quelle sostenute dalle altre specie di Candida.

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Morfologia e identificazione di Candida

Figura 72.12 Formazione del tubulo germinativo di Candida albicans. Immagine ottenuta dopo 1 ora di incubazione a 37 °C in presenza di siero.

Appartengono al genere Candida circa 200 specie di lievito molto diverse tra loro, che sono accomunate dall’assenza di un ciclo sessuale. Si presentano sotto forma di cellule piccole (4-6 µm), ovali, a parete sottile, che si riproducono mediante gemmazione o fissione. Solo poche specie sono presenti con regolarità come commensali dell’intestino e considerate patogeni opportunisti per l’uomo. Le specie di Candida significative da un punto di vista medico comprendono Candida albicans, Candida glabrata, Candida parapsilosis, Candida tropicalis, Candida krusei, Candida kefyr, Candida guilliermondii, Candida lusitaniae e Candida dubliniensis. Tali microrganismi crescono facilmente nei terreni di coltura, dove formano colonie lisce, di colore crema e lucide. È possibile identificare le diverse specie sulla base delle caratteristiche di crescita e di reazioni biochimiche che valutano la capacità di assimilare e fermentare i carboidrati entro 24-48 ore. C. albicans può essere identificata in maniera rapida ma non specifica attraverso il test della produzione del tubulo germinativo, che consiste nel far crescere il lievito nel siero a 37 °C e nell’osservare lo sviluppo di piccole proiezioni dalla parete cellulare dopo 60-90 minuti di incubazione (fig. 72.12). Anche C. dubliniensis, una specie di Candida identificata più recentemente, che è stata isolata dalla cavità orale di pazienti HIV-positivi, genera tubuli germinativi e può dar luogo a risultati falsi-positivi. La specie può però essere distinta da C. albicans per l’incapacità di crescere a 45 °C. Entrambe le specie sono anche in grado di produrre grandi cellule (8-12 μm) rifrangenti, a parete spessa, denominate clamidospore (vedi fig. 71.4), che sono spesso osservate in vitro su terreni poveri di nutrienti, come l’agar farina di mais-Tween. Sebbene raramente, tali cellule sono state osservate anche nei tessuti dell’ospite.

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Patogenesi e sindromi cliniche

Candida albicans va incontro a una transizione morfologica reversibile tra le forme di crescita di lievito gemmante, pseudoifa e ifa. Tutte le forme possono essere presenti nei tessuti infetti nel corso di malattia. Le cellule di lievito sono in grado di disseminare più efficientemente, mentre le ife promuovono l’invasione del tessuto epiteliale ed endoteliale e aiutano a evadere la fagocitosi da parte dei macrofagi. La prima fase dell’infezione da Candida è la colonizzazione epiteliale, che a sua volta è dipendente dall’aderenza del microrganismo alle cellule epiteliali e alle proteine. L’adesione di C. albicans alle superfici delle mucose è un requisito importante nella patogenesi delle infezioni superficiali causate da tale lievito. I meccanismi di aderenza notoriamente utilizzati da C. albicans sono l’idrofobicità, il legame proteina-proteina, mediato da proteine di superficie integrino-simili, e le interazioni lectino-simili (vedi tab. 71.3). L’invasione delle cellule dell’ospite coinvolge la penetrazione e il danneggiamento dell’involucro cellulare esterno. Tale fenomeno è facilitato dalla secrezione di fosfolipasi, che scindendo i fosfolipidi inducono la lisi cellulare e facilitano l’invasione dei tessuti, e dall’attività proteolitica delle aspartil-proteinasi extracellulari (se ne conoscono almeno 9 isoenzimi). C. albicans fa parte della normale flora gastrointestinale e determina un’infezione solo quando le difese dell’ospite sono compromesse. Tuttavia, le infezioni della cute e delle membrane mucose possono verificarsi anche nei pazienti immunocompetenti. Al contrario, la candidosi sistemica si verifica soltanto in individui con un elevato grado di immunocompromissione.

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Tra le manifestazioni cliniche della candidosi orofaringea (oropharyngeal candidiasis, OPC), la candidosi pseudomembranosa (“mughetto”) (fig. 72.13) è caratterizzata dalla presenza nel cavo orale di placche bianche che, quando rimosse, mettono in evidenza una superficie sanguinante. Oltre a interessare i pazienti con infezione da HIV, la candidosi pseudomembranosa è stata descritta nei neonati, negli anziani, nei pazienti affetti da cancro e/o sottoposti a chemioterapia, in quelli con carenze nutrizionali, con deficit dell’immunità cellulo-mediata o disfunzioni dei fagociti e dopo trattamento con antibiotici ad ampio spettro o farmaci steroidei. Altre manifestazioni di OPC comprendono la candidosi eritematosa, l’iperplastica e la cheilite angolare. La candidosi eritematosa è più difficile da diagnosticare ed è stata riportata principalmente nei pazienti HIV-positivi. La candidosi iperplastica cronica (leucoplachia) e la cheilite angolare (perlèche) sono state associate con l’infezione da HIV, le neoplasie del cavo orale, il fumo e la presenza di dentiera. Quasi tutti i casi di OPC sono causati da C. albicans, sebbene altre specie come C. glabrata, C. parapsilosis, C. tropicalis, C. krusei e C. dubliniensis siano state implicate come causa di OPC e anche di esofagite. Il laboratorio può confermare la diagnosi di OPC mediante l’esame microscopico con una preparazione di idrossido di potassio (KOH) al 10% delle lesioni per evidenziare le pseudoife o le forme di lievito oppure mediante l’esame colturale su terreni specifici (ad es. l’agar Sabouraud con 2% di glucosio). La candidosi esofagea, caratterizzata da disfagia, da dolore retrosternale e dalla comparsa di ulcere ed erosioni sull’esofago, si presenta in pazienti con malattie croniche, la maggior parte dei quali sia stata precedentemente trattata con antibiotici, steroidi od omeprazolo (capostipite della classe degli inibitori di pompa protonica), ma la malattia è maggiormente presente in pazienti con infezione da HIV avanzata. Nel 1993, la candidosi esofagea era considerata tra le quattro più comuni infezioni opportunistiche AIDS-associate in pazienti sottoposti a profilassi contro la polmonite da Pneumocystis jirovecii. Nell’era della terapia antiretrovirale di combinazione, l’incidenza della candidosi esofagea si è ridotta, anche se rimane la prima tra le malattie opportunistiche. La candidosi vulvovaginale (VVC) è un’infezione mucosale che interessa soprattutto le donne in età fertile, può colpire la vulva e l’area vaginale, come anche le pieghe perianali o crurali, dove causa intertrigine. Il prurito vulvare è il sintomo più comune, frequenti le perdite vaginali da acquose a più consistenti, spesso accompagnate da irritazione, bruciore vulvare e disuria. La diagnosi si basa sul riscontro di un pH vaginale normale (da 4 a 4,5) e di un esame microscopico positivo delle lesioni. Nelle pazienti con sintomi compatibili con vaginite ma con esame microscopico negativo, si rende necessario eseguire una coltura fungina. La vulvovaginite è causata da diverse specie di Candida, con C. albicans che rappresenta la specie di più comune isolamento in coltura. La patogenesi della VVC non è stata completamente compresa e molte informazioni derivano da studi basati su modelli animali. Come per l’OPC, sono coinvolti multipli fattori che comprendono vari determinanti di virulenza di Candida, l’uso di antibiotici, il livello degli ormoni riproduttivi e altri fattori che alterano la normale flora vaginale o modificano la capacità delle cellule epiteliali di legare le cellule di Candida. In particolare, gli estrogeni possono potenziare la trasformazione lievito-ifa del fungo. La candidosi cronica mucocutanea (CMC) coinvolge siti superficiali multipli, in primo luogo la bocca, la pelle del viso, i capelli e le unghie, che vengono infettati contemporaneamente da Candida per un periodo prolungato di tempo. La CMC non è una singola entità patologica, ma una conseguenza di difetti multipli nelle difese anti-Candida dell’ospite. L’esito finale è un’infezione cronica nei siti dove Candida risiede normalmente come organismo commensale. La malattia, pur essendo un’entità rara, è associata con endocrinopatie come ipoparatiroidismo, ipoadrenalismo, tiroidite cronica linfocitaria e ipotiroidismo, insufficienza delle gonadi e diabete mellito. Tutte queste forme superficiali di infezione sostenute da Candida sono generalmente

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Figura 72.13 Candidosi orofaringea. Candidosi pseudomembranosa (“mughetto”).

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facili da diagnosticare e, con rare eccezioni, facili da curare. Lo stesso non è vero per le infezioni dei tessuti profondi, nelle quali il fungo ha accesso al circolo sanguigno, molto spesso attraverso il tratto gastrointestinale ma anche attraverso i cateteri e altri dispositivi medicali, e dissemina per via ematica ai visceri. Le infezioni causate da Candida che non interessano la cute e le membrane mucose sono designate come candidosi invasive. Tra le forme invasive, la candidemia o candidosi sistemica è stata suddivisa nei seguenti quatto gruppi o sindromi: candidosi catetere-correlata, candidosi acuta disseminata, candidosi cronica disseminata (candidosi epatosplenica) e candidosi profonda a singolo organo. Sebbene l’invasione del circolo sanguigno e la diffusione ematogena dell’organismo si presentino a vari stadi nell’evoluzione di ciascuna, sole le prime due sindromi sono associate strettamente con la candidemia documentata. Perciò l’uso del termine “candidemia” solo come marcatore di candidosi invasiva può portare a una sottostima della vera incidenza della candidosi invasiva. Esistono numerosi fattori di rischio per tale infezione, che comprendono l’uso di antibiotici per via sistemica, la chemioterapia, la somministrazione di corticosteroidi, la presenza di cateteri intravascolari, la nutrizione parenterale totale, la chirurgia addominale recente, l’ospedalizzazione nei reparti di terapia intensiva, il cancro, la neutropenia e la colonizzazione fungina. La candidemia, definita come l’isolamento di Candida spp. da almeno un campione di emocoltura, può essere accompagnata o meno da sintomi clinici di infezione, come febbre, brividi o sindrome settica. La febbre può avere un esordio insidioso o subdolo e il suo decorso può essere continuo o intermittente. La sindrome settica comprende febbre, ipotensione, tachicardia e tachipnea. La candidemia può dar luogo alla diffusione ematogena di Candida a uno o più organi multipli. In tal caso si parla di candidosi acuta disseminata, sia che la precedente candidemia sia stata o meno documentata dalla presenza di colture di sangue (emocolture) positive. Ad esempio, pazienti con infezioni a organi multipli non contigui o con endoftalmite causate da Candida spp. sono diagnosticati come affetti da candidosi acuta disseminata, acquisita attraverso la diffusione ematogena. La presenza di lesioni cutanee nodulari multiple causate da Candida è anche diagnostica di candidosi acuta disseminata, anche senza documentazione di candidemia. La candidosi cronica disseminata è una forma di infezione disseminata anche nota come candidosi epatosplenica. Si presenta in pazienti affetti da tumori ematologici, che sviluppano segni di candidosi invasiva in organi multipli per un periodo di diverse settimane o mesi. La sindrome è il risultato di una candidemia durante l’episodio di neutropenia, che può essere o meno documentata da emocolture positive. Meno comune è invece l’infezione da Candida non ematogena che interessa un singolo organo profondo. È verosimile che la maggior parte dei casi di infezione profonda localizzata descritti come infezioni primarie siano in realtà casi di candidosi disseminata in cui le manifestazioni cliniche siano maggiormente evidenti in un singolo organo. Infezioni primarie localizzate sono più frequenti dopo un intervento di chirurgia addominale, con perforazione dell’intestino che conduce alla contaminazione della cavità peritoneale da parte di Candida che colonizza il tratto intestinale. La candiduria (la presenza di Candida nelle urine) è anche comune nei pazienti ospedalizzati, ma nella maggior parte dei casi è indice di colonizzazione piuttosto che di vera infezione.

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Diagnosi di laboratorio

Le varie specie di Candida crescono facilmente quando le colture sono ottenute dai fluidi corporei o dai tessuti e i risultati sono disponibili in 48-72 ore. Mentre l’isolamento delle specie di Candida da siti non sterili, come ferite, cute, urine, espettorato, secrezioni vaginali e feci, non è diagnostico di infezione invasiva (bensì di colonizzazione) da Candida, colture positive per Candida da siti sterili (sangue, fluido cerebro-spinale [liquor], fluido pleurico, fluido peritoneale) sono sempre indicative di infezione invasiva. Le colture di sangue sono positive nel 50-60% dei casi

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Capitolo 72 • Micologia speciale

di candidosi disseminata provata all’autopsia, per cui un risultato negativo colturale non esclude un’infezione invasiva. Le infezioni profonde d’organo da Candida richiedono un prelievo bioptico tissutale per giungere a una diagnosi definitiva. In tal caso, cellule di lievito ed elementi ifali possono essere dimostrati mediante le colorazioni specifiche come l’argento metenamina di Gomori o l’acido periodico di Schiff (fig. 72.14). L’identificazione a livello di specie di Candida, basata su test biochimici e morfologici, è richiesta a causa della sensibilità variabile ai farmaci antifungini, che è specie-specifica. I saggi sierologici includono la determinazione di antigeni di Candida e degli anticorpi anti-Candida. Mentre questi ultimi sono poco sensibili nei pazienti immunocompromessi, il saggio per la rilevazione dell’antigene mannano di Candida ha una discreta sensibilità (del 31-90%), ma sfortunatamente lo stato di colonizzazione produce risultati falsi-positivi ed è necessario esaminare campioni clinici sequenziali per incrementare la sensibilità del test. Test molecolari basati sulla PCR o su sonde nucleotidiche hanno il vantaggio di permettere la rilevazione di piccole quantità di DNA di Candida sia nel sangue sia nei tessuti, ma alla loro elevata sensibilità si accompagna la difficoltà tecnica di esecuzione e il fatto di non essere disponibili in kit commerciali.

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Epidemiologia, prevenzione e controllo

Le specie di Candida sono importanti patogeni opportunisti a causa della loro capacità di infettare in modo serio i pazienti ospedalizzati gravemente ammalati. Nelle ultime decadi si è assistito a un drammatico incremento nell’incidenza delle infezioni fungine, con circa 20 000 casi di candidemia l’anno riguardanti la sola popolazione adulta degli Stati Uniti. In ambito ospedaliero, la candidemia ha assunto una notevole importanza tra le infezioni nosocomiali, divenendo, negli Stati Uniti, la quarta causa più comune di sepsi. Sebbene questa incidenza sia inferiore a quella delle batteriemie, il tasso di mortalità cruda riportato per i pazienti con candidemia va dal 40 e al 60%, con la più elevata mortalità attribuibile (38%). La malattia origina di solito dal tratto gastrointestinale o dalla cute. La maggior parte dei ceppi che colonizzano i “reservoir” endogeni sono acquisiti per via esogena dall’ambiente ospedaliero, attraverso il cibo, le superfici inanimate delle stanze, i condizionatori d’aria, i respiratori e il personale medico. Le infezioni sistemiche da Candida sono più frequenti in pazienti ustionati, neonati immaturi che ricevono nutrizione parenterale, pazienti con tumori solidi o del sangue, portatori di cateteri intravascolari o emodializzati, o nel periodo postoperatorio (in particolare dopo un trapianto). La profilassi primaria e secondaria è diretta a prevenire la malattia sintomatica superficiale o profonda, ma non la colonizzazione. La profilassi antifungina è utilizzata per ridurre l’insorgenza di candidosi invasiva nei pazienti con neutropenia conseguente al trapianto di midollo osseo, come anche l’esposizione agli agenti antifungini è associata con un ridotto rischio di candidemia nei pazienti che si sottopongono al trapianto di fegato o di pancreas.

72.6 - Aspergillosi Il fungo opportunista Aspergillus è l’agente eziologico responsabile di svariate infezioni e condizioni patologiche note come aspergillosi. Tali manifestazioni comprendono le reazioni allergiche conseguenti all’esposizione al microrganismo (aspergillosi allergica broncopolmonare), la colonizzazione con Aspergillus spp. (aspergilloma e altre condizioni come la colonizzazione dell’orecchio esterno) e l’infezione invasiva (aspergillosi polmonare invasiva e altre sindromi cliniche di invasione tissutale). Descrizioni iniziali di casi hanno riguardato individui con esposizione occupazionale all’organismo, come allevatori di piccioni, contadini e lavoratori esposti a polveri o granaglie, mentre da metà degli anni ’50 del secolo scorso sono stati descritti i primi casi di aspergillosi invasiva in soggetti immunocompromessi. L’importanza di Aspergillus come patogeno è aumentata notevolmente nelle ultime decadi in conseguenza dell’incrementato numero

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Figura 72.14 Colorazione con acido periodico di Schiff di una sezione di tessuto esofageo. È evidente l’invasione dei vasi sanguigni da parte di cellule di C. albicans. Ingrandimento 400×.

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di individui a rischio per la malattia, quali pazienti che si sottopongono a trapianto di midollo o di organo e pazienti con altre immunodeficienze, così che l’aspergillosi invasiva è diventata una causa significativa di morbilità e mortalità nei pazienti ad alto rischio. Il genere Aspergillus appartiene alla famiglia Moniliaceae della classe morfologica Hyphomycetes nel gruppo dei Funghi mitosporici (vedi tab. 71.1). Comprende attualmente più di 200 specie riunite in 18 gruppi. La maggior parte delle specie si riproduce asessualmente, mentre il teleomorfo (o forma sessuale) è stato identificato soltanto per alcune specie. Il nome generico Aspergillus è quindi generalmente usato per indicare tutte le specie indipendentemente dai loro teleomorfi. I teleomorfi delle specie di Aspergillus sono classificati in 10 generi nell’ambito del phylum Ascomycota.

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Morfologia e identificazione di Aspergillus

Le specie maggiormente isolate dai pazienti con aspergillosi invasiva sono: Aspergillus fumigatus, Aspergillus flavus, Aspergillus niger e Aspergillus terreus. In conseguenza del livello di immunosoppressione sempre più prolungato e profondo che si verifica in certi pazienti, continua a ingrandirsi la lista delle specie di Aspergillus che causano infezione invasiva, includendo A. amstelodami, A. candidus, A. chevalieri, A. flavipes, A. glaucus, A. nidulans (A. nidulellus), A. oryzae, A. restrictus, A. sydowii, A. ustus, A. versicolor e altri. Sebbene le colture di sangue siano spesso negative, le specie patogene di Aspergillus crescono facilmente e rapidamente in coltura su un un’ampia varietà di terreni e a varie temperature. La crescita a 37 °C è la caratteristica che differenzia i ceppi patogeni da quelli non patogeni. La maggior parte delle specie appaiono come piccole colonie cotonose bianche nelle prime 48 ore di coltura. L’identificazione presuntiva a livello di genere è di solito eseguita senza difficoltà sulla base delle caratteristiche morfologiche, mentre più complicata si presenta l’identificazione a livello di specie delle specie inusuali. La morfologia della colonia e le caratteristiche microscopiche per le specie di A. fumigatus, A. flavus, A. terreus e A. niger sono mostrate nelle figure 72.15 e 72.16.

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Patogenesi e sindromi cliniche

Tipicamente, l’infezione da Aspergillus si acquisisce attraverso l’inalazione dei conidi nei polmoni, sebbene siano state descritte altre vie di acquisizione, come l’esposizione orale o tramite aerosol ad acqua contaminata oppure l’esposizione locale costituita da ferite chirurgiche e cateteri intravenosi contaminati. L’aspergillosi invasiva è propria soprattutto dei pazienti immunocompromessi, anche se l’infezione in soggetti apparentemente normali può non essere esclusa. Infatti, nonostante la natura ubiquitaria del microrganismo e la frequente esposizione ad esso, le normali difese dell’ospite impediscono l’insorgenza dell’aspergillosi polmonare invasiva. Le tossine prodotte dalle specie di Aspergillus (aflatossine, ocratossina A, fumagillina e gliotossina) non sembrano costituire i principali determinanti di virulenza, mentre altre molecole prodotte dal microrganismo, come proteasi e fosfolipasi, contribuiscono alla sua patogenicità. Le prime linee di difesa contro l’inalazione dei conidi di Aspergillus sono l’eliminazione del microrganismo dalle vie aree attraverso il movimento ciliare e il limitato accesso alle strutture profonde del polmone dei conidi più grandi meno patogeni. Nei tessuti polmonari, il macrofago alveolare è una potente arma di difesa, capace di ingerire e uccidere i conidi inalati di Aspergillus. Dopo la germinazione in vivo, la maggiore linea di difesa contro i conidi e le ife è rappresentata dai leucociti polimorfonucleati. Quindi, la neutropenia prolungata rappresenta il maggiore fattore di rischio per l’aspergillosi invasiva, così che senza il recupero dalla neutropenia anche la terapia antifungina più aggressiva è pressoché inutile. Nelle forme di aspergillosi non invasiva o allergica, la patogenesi non è ben definita ma appare essere correlata con risposte allergiche croniche nei confronti del microrganismo.

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Figura 72.15 Morfologia di colonia di A. Aspergillus flavus, B. Aspergillus fumigatus, C. Aspergillus terreus, D. Aspergillus niger. I microrganismi sono stati coltivati per 14 giorni su agar Czapek.

Figura 72.16 Morfologia microscopica di A. Aspergillus flavus, B. Aspergillus fumigatus, C. Aspergillus terreus, D. Aspergillus niger. Osservazione dopo coltura su vetrino, 400× (vedi box 71.1).

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BOX 72.2 • Il sistema immunitario innato come difesa efficace contro l’aspergillosi polmonare invasiva La “lotta” dell’ospite contro A. fumigatus implica diversi componenti del sistema polmonare immunitario innato: cellule, mediatori e molecole naturali antifungine che sono coinvolte nel riconoscimento e nell’eliminazione del fungo, prevenendo così la colonizzazione del sistema respiratorio. LE CELLULE DEL SISTEMA IMMUNITARIO INNATO. A livello aereo superiore, i conidi inalati sono intrappolati nel muco e quindi attivamente trasportati, attraverso il movimento delle ciglia, verso la giunzione orofaringea, dove essi sono deglutiti o espettorati. In aggiunta, barriere meccaniche come il riflesso della tosse o lo starnuto facilitano l’espulsione delle particelle inalate. I conidi che hanno superato l’ostacolo delle cellule ciliate e di quelle muco-secernenti giungono negli alveoli, dove interagiscono con altri tipi di cellule epiteliali: pneumociti di tipo I e tipo II. Quest’ultimi secernono il surfactante polmonare, che oltre a facilitare l’espansione degli alveoli durante l’inspirazione, è implicato nei meccanismi di difesa contro i microrganismi a causa dell’attività antimicrobica di due suoi componenti, le proteine del surfactante A e B (SP-A e SP-D; vedi oltre, collectine). I macrofagi alveolari costituiscono la prima linea di difesa contro i microrganismi che raggiungono gli alveoli. L’eliminazione dei conidi da parte dei macrofagi alveolari è altamente efficiente con circa il 90% dei conidi uccisi in poche ore. I macrofagi sono in grado di internalizzare sia i conidi dormienti che quelli aumentati di volume o “rigonfi”. Una volta all’interno del compartimento fagolisosomiale, anche i conidi dormienti diventano attivi e si gonfiano. Il processo di rigonfiamento è essenziale per la loro eliminazione da parte dei macrofagi, in quanto tali cellule possono uccidere soltanto i conidi rigonfi. I conidi che sfuggono ai macrofagi alveolari sono attaccati dai leucociti polimorfonucleati neutrofili, la seconda linea di cellule fagocitiche presente nella rete vascolare del polmone, che contiene il 40% di tutti i neutrofili del corpo. Durante l’infezione, questi sono rapidamente reclutati negli spazi alveolari, dove costituiscono più del 90% dei fagociti presenti. I neutrofili giocano un ruolo essenziale nell’eliminazione di A. fumigatus, tanto che gli individui neutropenici hanno un rischio elevato di sviluppare la malattia. È stato dimostrato che i neutrofili reclutati sono in grado sia di eliminare le ife di A. fumigatus attraverso il rilascio delle sostanze contenute nei loro granuli extracellularmente, dove esse agiscono direttamente sul fungo, sia di fagocitare i conidi. Le cellule del tratto respiratorio sia superiore che inferiore producono una serie di molecole ad attività antimicrobica (ad es. chitinasi, lattoferrina) che agiscono direttamente come “antibiotici endogeni” o indirettamente facilitando l’eliminazione di A. fumigatus da parte dei fagociti. Una pletora di molecole, in particolare citochine e chemochine prodotte sia dai monociti/macrofagi che dalle

cellule epiteliali, è coinvolta nella difesa contro il fungo. Una delle più importanti è probabilmente il fattore di necrosi tumorale α (TNF-α), che stimola la funzione effettrice di neutrofili e macrofagi e induce l’espressione di altre citochine protettive quali interferon-γ (IFN-γ), interleuchina (IL)-1, IL-6 e IL-12. I SISTEMI DI RICONOSCIMENTO DEL PATOGENO. Le cellule del sistema immune avvertono la presenza del patogeno attraverso dei recettori di riconoscimento, quali PRR (pathogen recognition receptor), che riconoscono motivi molecolari, noti come pattern molecolari patogeno-associati (PAMP), sulla superficie del microrganismo. Tali recettori possono essere sia secreti, agendo come opsonine (ad es. collectine, fattori del complemento), sia endocitici (ad es. dectina-1), sia induttori di segnali cellulari. Sebbene sia espresso da macrofagi, neutrofili e cellule dendritiche e riconosca i β-1,3-glucani (i maggiori componenti della parete cellulare fungina), il recettore trans-membrana dectina-1 è ora considerato come un recettore essenziale per la fagocitosi dei funghi da parte dei macrofagi. Conidi rigonfi o germinanti (tubuli germinativi) di A. fumigatus, a causa della presenza di abbondanti β-1,3-glucani sulla loro superficie, vengono infatti riconosciuti dalla dectina-1. Tale riconoscimento è essenziale per la fagocitosi di entrambi i tipi di conidi e per la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), che svolgono un ruolo importante nell’attività fungicida dei macrofagi. Il trattamento di topi con corticosteroidi inibisce la produzione di ROS da parte dei macrofagi, che continuano a essere in grado di fagocitare i conidi ma non riescono a distruggerli. I PRR di segnale coinvolti nelle interazioni con A. fumigatus comprendono il già citato recettore dectina-1 e, soprattutto, i recettori Toll-like (TLR), che sono espressi dalle cellule respiratorie epiteliali, dai macrofagi alveolari e, con l’eccezione di TLR3, dai neutrofili. Le interazioni ligando-TLR, eccetto quelle che coinvolgono TLR3, innescano il legame di almeno una molecola adattatrice, MyD88, al dominio intracellulare dei TLR. Questo dà il via a una cascata di segnali che induce, principalmente attraverso l’attivazione del fattore nucleare NF-kB e la conseguente produzione di TNF-α, IL-1β, IL-6 e IL-12, una risposta infiammatoria in grado quindi di potenziare la risposta immunitaria innata ma anche di influenzare l’instaurarsi di una risposta immunitaria adattiva. I TLR NELLA RISPOSTA DELL’OSPITE AD A. FUMIGATUS. Le interazioni tra TLR e A. fumigatus sono state scoperte alcuni anni fa e non sono ancora del tutto comprese. È tuttavia opinione condivisa che TLR2 e TLR4 e non altri TLR siano importanti nel riconoscimento di A. fumigatus. Sembra che TLR2 sia in grado di riconoscere (continua)

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BOX 72.2 • Il sistema immunitario innato come difesa efficace contro l’aspergillosi polmonare invasiva (continua) sia conidi che ife, mentre TLR4 rilevi solo i conidi, e ciò in conseguenza dell’espressione da parte di conidi e di ife di differenti componenti della parete cellulare costituenti i PAMP, che sono con molta probabilità differentemente riconosciuti dai TLR2 e TLR4. I PAMP presenti sulla superficie di A. fumigatus e in grado di attivare TLR2 e TLR4 rimangono da identificare, sebbene un recente studio abbia dimostrato l’attivazione dei macrofagi attraverso la chitina, un componente essenziale della parete cellulare di A. fumigatus, via TLR2. Oltre al suo ruolo di recettore fagocitico, la dectina-1 interagisce con i TLR per modulare la risposta immunitaria. Dectina-1 coopera con TLR2 nella produzione dei già citati mediatori dell’infiammazione da parte dei macrofagi esposti ad A. fumigatus. Interessante è il fatto che il ruolo di TLR4 sia stato supportato dai risultati di uno studio clinico sul polimorfismo genetico, che ha suggerito l’esistenza di un’associazione di un particolare aplotipo TLR4 nei donatori e un incrementato rischio di aspergillosi polmonare invasiva (IPA) nei riceventi di trapianti allogenici di cellule staminali. IMMUNOSOPPRESSIONE E TLR. Esperimenti condotti con topi MyD88–/–, TLR2–/– e/o TLR4–/– hanno mostrato che animali neutropenici non sopravvivono all’infezione polmonare causata da A. fumigatus, diversamente da quelli immunocompetenti che sopravvivono. Perciò, TLR2 e/o TLR4 sono essenziali in assenza di neutrofili, ma non nell’ospite sano, suggerendo che i TLR espressi dai neutrofili

non siano importanti in vivo come altri PRR. Uno di tali PRR potrebbe essere il recettore del β-glucano dectina-1, che è coinvolto nel “sensing” di A. fumigatus. Infatti, quando i PMN sono assenti o il loro numero è molto basso come durante la neutropenia indotta dalla chemioterapia, TLR2 e/o TLR4 espressi dalle cellule residenti del polmone potrebbero essere i recettori di “sensing” più efficaci. Anche se TLR2 protegge contro la manifestazione invasiva polmonare (IPA) in topi trattati con chemioterapici, esso non sembra contribuire al riconoscimento di A. fumigatus in topi in terapia con corticosteroidi. Ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che, mentre le ife sono presenti durante la neutropenia per cui TLR2 è implicato, lo sviluppo dei tubuli germinativi da parte dei conidi germinanti è limitato dalla terapia con corticosteroidi. In tale contesto, TLR4 rappresenterebbe l’attore più importante, mentre TLR2 avrebbe poco o scarso effetto. CONCLUSIONI. Il sistema immunitario innato polmonare riveste un ruolo chiave nella lotta contro la malattia aspergillare invasiva. Soltanto quando questo risulta modificato in uno dei suoi componenti, A. fumigatus può svilupparsi e invadere il parenchima polmonare causando malattia. Sebbene TLR2 sia considerato il componente principale del riconoscimento di A. fumigatus da parte dell’ospite, evidenze suggeriscono che il coinvolgimento di TLR durante l’infezione da A. fumigatus sia influenzato dallo stato immunologico dell’ospite.

Allo stesso modo, la patogenesi dell’aspergilloma, in cui il microrganismo non invade i tessuti ma colonizza una cavità polmonare, sembra essere associata con reazioni allergiche alla colonizzazione cronica. L’aspergilloma polmonare o “fungus ball” causato da Aspergillus è caratterizzato dalla colonizzazione cronica ed estensiva da parte del fungo di una cavità polmonare o di un bronco ectasico. I “fungus ball” si sviluppano in cavità polmonari generate da preesistenti patologie come tubercolosi, istoplasmosi, sarcoidosi, enfisema bolloso, malattia fibrotica polmonare o polmonite da Pneumocystis jirovecii nell’AIDS. All’esame radiografico, l’aspergilloma appare come una massa solida rotonda all’interno di una cavità. Sebbene la presenza di un “fungus ball” causato da Aspergillus sia relativamente asintomatica, può verificarsi invasione tissutale che può condurre all’aspergillosi polmonare invasiva o a una forma subacuta cronica necrotizzante della malattia. Altre condizioni di aspergillosi superficiale o di colonizzazione comprendono la formazione di “fungus ball” dei seni nasali senza invasione tissutale, causata di solito da A. fumigatus o da A. flavus, l’otomicosi, che rappresenta una condizione di colonizzazione superficiale associata con otite media esterna, e l’onicomicosi. L’aspergillosi allergica broncopolmonare è una risposta allergica cronica alla colonizzazione con Aspergillus. Criteri specifici per stabilire una diagnosi includono: asma, eosinofilia periferica, reattività immediata al test cutaneo all’antigene di Aspergillus, presenza di anticorpi precipitanti, titoli elevati di immunoglobuline E (IgE) nel siero, storia o presenza di infiltrati polmonari e bronchiectasia centrale.

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Tabella 72.2 Tassi di mortalità in pazienti con aspergillosi invasiva.

Malattia di base/sito di infezione (n. di casi)

Mortalità (%)

Trapianto di midollo osseo (285)

86,1

Leucemia/linfoma (288)

49,3

Infezione polmonare (1153)

59,4

Infezione del sistema nervoso centrale/disseminata (175)

88,1

Totale (1941)

56,6

(Modificata da: W.E. Dismukes, P.G. Pappas, J.D. Sobel, Clinical Mycology, Oxford University Press, New York, 2003.)

Le sindromi invasive causate da Aspergillus si verificano quando i conidi inalati invadono il tessuto polmonare in assenza di una risposta immune efficace da parte di monociti o neutrofili. La manifestazione principale è l’aspergillosi invasiva polmonare (IPA) che si origina in seguito alla diffusione dei microrganismi dall’infezione primaria polmonare o dai seni paranasali. L’invasione delle ife nei vasi sanguigni è comune, interessando un terzo dei pazienti con IPA. I siti non polmonari si infettano per diffusione contigua oppure per diffusione ematogena al sistema nervoso centrale o ad altri organi come fegato, milza, rene, cute, ossa e cuore. La risposta alla terapia dipende dallo stato immune dell’ospite e dall’estensione della malattia al momento della diagnosi, mentre il tasso di mortalità dei pazienti con aspergillosi invasiva varia dall’80% per i pazienti con immunosoppressione severa a circa il 90% in quelli con coinvolgimento del sistema nervoso centrale (tab. 72.2).

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Diagnosi di laboratorio

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La diagnosi dell’aspergillosi invasiva continua a essere basata su evidenze cliniche e istopatologiche, sebbene sforzi notevoli siano in atto per stabilire un pannello di test e procedure che ne facilitino una diagnosi più rapida. Una diagnosi definitiva è data dalla dimostrazione delle ife in sezioni di tessuto insieme con una coltura positiva per Aspergillus del materiale bioptico. Le ife sono facilmente evidenziate nei preparati colorati con ematossilina-eosina o con il metodo di Gram: hanno un diametro di 3-4 μm, presentano ramificazioni dicotomiche e sono settate (fig. 72.17). Tuttavia, l’ottenimento di campioni di tessuto è spesso precluso dalla trombocitopenia grave che è frequente nei pazienti considerati ad alto rischio per la malattia. L’identificazione a livello di genere e i saggi di sensibilità in vitro sono diventati importanti da quando esistono terapie antifungine specie-specifiche. Ad esempio, i più nuovi triazoli come il voriconazolo sono molto attivi nei confronti di Aspergillus, mentre le echinocandine hanno una moderata attività. A causa della comparsa di ceppi di A. fumigatus resistenti ai triazoli, una terapia di voriconazolo ed echinocandina in combinazione è stata suggerita per il trattamento primario dell’aspergillosi invasiva.

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Epidemiologia, prevenzione e controllo

B Figura 72.17 A. Colorazione con Gram o (B) con argento metenamina di Gomori di preparati istopatologici di epitelio corneale (A) e di polmone (B) di pazienti con infezione da Aspergillus fumigatus. Ingrandimento 400×.

Poiché la maggioranza dei casi di aspergillosi invasiva inizia nei o è confinata ai polmoni e poiché le spore di Aspergillus sono presenti comunemente nell’aria, l’inalazione è considerata la via di infezione più comune. Possibili sorgenti ambientali di tali spore sono costituite dal suolo, dai vegetali in decomposizione, dai materiali di costruzione, dal cibo e dall’acqua. La prevenzione dell’aspergillosi invasiva nei pazienti ad alto rischio rimane una sfida difficile, nonostante l’attuazione di sistemi di controllo dell’aria che includono l’uso di sistemi di filtrazione ad alta efficienza (High Efficiency Particulate Air, HEPA), frequenti cambi dell’aria e ventilazione a pressione positiva. Infatti, epidemie di aspergillosi sono state associate a lavori di costruzione nell’ospedale, a sistemi di

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Capitolo 72 • Micologia speciale

ventilazione e sale operatorie contaminati e, più recentemente, all’acqua contaminata. Inoltre, è importante considerare che spesso i pazienti ad alto rischio soggiornano per lunghi periodi di tempo al di fuori dell’ospedale, dove la possibilità di contrarre l’infezione è più elevata. Nessun agente antifungino è attualmente raccomandato per la prevenzione dell’aspergillosi, sebbene siano in corso studi per valutare l’efficacia delle echinocandine e dei nuovi triazoli in tale ambito.

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Capitolo

73 • Meccanismo d’azione • Principali farmaci antifungini • Farmaco-resistenza

I farmaci antifungini

Lo sviluppo e la disponibilità di farmaci antifungini sono limitati dalla comune struttura eucariotica delle cellule fungine e animali. Paradossalmente, è molto più ampio il numero di sostanze utilizzabili per via topica per la terapia di infezioni fungine di minore gravità di quello di sostanze per la terapia delle infezioni sistemiche e disseminate, tuttora gravate da un’inaccettabile mortalità. In ogni caso, le molecole ad attività antifungina disponibili in commercio, seppure con diversi gradi di tossicità selettiva, sono riconducibili a quattro classi di antifungini (allilamine, azoli, echinocandine e polieni) e alla 5-fluorocitosina.

73.1 - Meccanismo d’azione I meccanismi d’azione e lo spettro di attività delle singole molecole variano non solo secondo la classe di appartenenza, ma anche nell’ambito di una stessa classe (fig. 73.1). Il bersaglio fisiologico dell’azione dei polieni, degli azoli, delle allilamine e delle morfoline è rappresentato dall’ergosterolo, componente principale della membrana citoplasmatica dei funghi non presente nelle cellule animali, uomo compreso. Il β-1,3-D glucano, polisaccaride importante per l’integrità e la stabilità della parete cellulare fungina, rappresenta invece il bersaglio dell’azione delle echinocandine. La 5-fluorocitosina, prodotto inizialmente antineoplastico, deve la sua specifica attività antifungina alla facilità di ingresso nella cellula fungina per la presenza della flucitosina permeasi e alla conversione nella forma farmacologicamente attiva da parte di enzimi fungini (tab. 73.1). Figura 73.1 Bersagli dei principali farmaci antifungini.

Proteine β-glucani Chitina

Membrana cellulare 5-fluorocitosina Ergosterolo

Squalene

Allilamine

β-glucan sintetasi Polieni

Ianosterolo-demetilasi Azoli

Squalene epossidasi

Ianosterolo

Echinocandine

Capitolo 73 • I farmaci antifungini

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Tabella 73.1 Principali farmaci antifungini: meccanismo d’azione, spettro d’attività e meccanismi molecolari di resistenza.

Classe molecole

Meccanismo d’azione

Spettro d’attività

Meccanismi coinvolti nella resistenza

Allilamine: terbinafina

Inibizione della squaleneepossidasi, con conseguente blocco della sintesi dell’ergosterolo

Dermatofiti

Maggiore espressione dell’ERG1, gene che codifica l’enzima

Echinocandine: anidulafungina, caspofungina, micafungina

Blocco della sintesi di β-1,3-D glucano mediante inibizione dell’enzima β1,3-glucansintetasi e interferenza con la formazione della parete cellulare

Candida spp. e Aspergillus spp.

Mutazioni in alcune regioni (hotspot) della famiglia genica FKS, mentre di scarso rilievo sembra essere la maggiore espressione delle pompe di efflusso

5-Fluorocitosina

Interferenza con il metabolismo della pirimidina dopo conversione a 5-fluorouracile e conseguente inibizione della sintesi di acidi nucleici e proteine

Lieviti Resistenza innata per alcune specie di Candida e facilmente inducibile in corso di terapia

Alterazioni nelle proteine (enzimi) coinvolte nel meccanismo d’azione: purina-citosina permeasi (gene FCY2), citosina deaminasi (gene FCY1), UMP fosforilasi (gene FUR1)

Polieni: amfotericina B, nistatina

Legame con l’ergosterolo e distruzione dell’integrità della membrana fungina con perdita osmotica di elettroliti, zuccheri e metaboliti (morte cellulare)

Lieviti e muffe Ridotta sensibilità o potenziale resistenza per alcune specie di Candida e Aspergillus, o ceppo-correlabile

Scarsa presenza di ergosterolo, mascheramento dell’ergosterolo o accumulo di steroli (gene ERG3) con scarsa affinità verso i polieni

(Tri)azoli: fluconazolo, isavuconazolo, itraconazolo, posaconazolo, voriconazolo

Blocco della sintesi dell’ergosterolo mediante inibizione dell’enzima citocromo P450 α-demetilasi (lanosterolodemetilasi)

Lieviti e muffe, resistenza primaria (ad es. Scedosporium prolificans) e/o acquisita (per isavuconazolo*, itraconazolo, posaconazolo*, voriconazolo) Solo lieviti (Candida e Cryptococcus), resistenza primaria (ad es. C. krusei) e/o acquisita (per fluconazolo)

Alterazioni del gene ERG11 (lieviti) o CYP51 (Aspergillus fumigatus) che codifica per l’enzima bersaglio, alterazioni in altri geni (ERG3 in particolare) coinvolti nella biosintesi dell’ergosterolo, maggiore espressione delle pompe di efflusso ATP-dipendenti o protoniche (CDR e MDR)

* Isavuconazolo e posaconazolo risultano attivi anche su alcune specie di Mucorales.

73.2 - Antifungini sistemici Echinocandine Le echinocandine (anidulafungina, caspofungina e micafungina) appartengono alla classe chimica dei lipopeptidi e agiscono inibendo la sintesi del β-1,3-D-glucano, componente essenziale della parete cellulare fungina (fig. 73.2). Il caratteristico meccanismo d’azione rende questa classe di farmaci utilizzabile verso ceppi di Candida spp. e Aspergillus spp. resistenti agli azoli, ma non verso zigomiceti, Cryptococcus neoformans e Fusarium spp. Le echinocandine sono fungicide nei confronti dei lieviti e fungistatiche nei confronti delle muffe, in cui bloccano la crescita apicale dell’ifa; inoltre, sembrano essere attive in vitro ed ex vivo contro i biofilm fungini. Fallimenti terapeutici sono stati riportati in letteratura soprattutto per infezioni causate da Candida spp., in particolare C. glabrata. Saggi di sensibilità in vitro e indagini molecolari, effettuati sui ceppi isolati dal sito d’infezione, hanno dimostrato una correlazione tra ridotta sensibilità alle echinocandine e mutazioni a carico dei geni FKS (FKS1, FKS2, e FKS3) che si riflettono in sostituzioni aminoacidiche della β-1,3-D-glucan sintetasi, bersaglio delle echinocandine. Tale meccanismo di resistenza è specifico per la classe delle echinocandine, per cui

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Anidulafungina

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Micafungina

Figura 73.2 Struttura delle tre echinocandine disponibili in commercio.

ceppi echinocandine-resistenti possono essere completamente sensibili agli azoli e all’amfotericina B.

Polieni I polieni (amfotericina B, nistatina), sia i macrolidi naturali sia quelli prodotti per sintesi, sono molecole caratterizzate da una serie di doppi legami alternati (tetraeni, eptaeni) e da un grande anello lattonico responsabile dell’attività antimicrobica (fig. 73.3). I polieni interagiscono con l’ergosterolo fungino provocando dei pori nella membrana cellulare con conseguente lisi e morte. I polieni presentano un ampio spettro d’azione, in particolare l’amfotericina B nelle nuove formulazioni liposomiale e lipidica che ne hanno diminuito la tossicità renale. L’amfotericina B è ancora oggi il farmaco antifungino più utilizzato per il trattamento di gravi infezioni fungine dell’ospite immunocompromesso o dei pazienti in condizioni particolarmente critiche. La resistenza microbiologica ai polieni è di difficile determinazione in vitro poiché pesantemente condizionata dalla metodica del saggio e dal terreno utilizzato. Sono stati tuttavia ipotizzati alcuni meccanismi molecolari di resistenza all’amfotericina B: la totale mancanza o il mascheramento di ergosterolo nella membrana fungina, una diversa struttura dell’ergosterolo poco favorente il legame con il poliene, o alterazioni nella via biosintetica dell’ergosterolo (ERG3) che portano alla sostituzione dell’ergosterolo con altri steroli con minore affinità per i polieni.

Capitolo 73 • I farmaci antifungini

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CH3

O O

HO CH3

H3C

CH3

NH2 OH

OH

OH

OH

O

COOH O

OH

OH

OH

OH

O

OH

Amfotericina B

CH3

O O

HO CH3

H3C

CH3

NH2 OH

OH

OH

OH

O

COOH O

OH

OH

OH

OH

O

OH

Nistatina

(Tri)azoli La classe degli azoli, tuttora in fase di espansione, è costituita da chemioterapici di sintesi, sia imidazolici (clotrimazolo, econazolo, chetoconazolo, miconazolo, tioconazolo) sia triazolici (fluconazolo, isavuconazolo, itraconazolo, posaconazolo e voriconazolo) (fig. 73.4). L’azione antimicrobica è riferibile comunemente alla presenza di anelli aromatici in posizione N1 nell’anello azolico. Gli azoli agiscono sulla biosintesi dell’ergosterolo, il principale costituente della membrana citoplasmatica fungina, inibendo la lanosterolo-14α-demetilasi. Gli azoli presentano un diverso spettro d’attività nei confronti delle specie fungine e una diversa tossicità selettiva. I triazoli, che rappresentano le molecole più recenti, possono essere utilizzati sia per la terapia di micosi sistemiche e disseminate sia per la terapia di micosi superficiali e/o mucocutanee. Il fluconazolo è il farmaco con lo spettro d’azione più limitato (lieviti e alcuni dermatofiti), mentre gli altri triazoli agiscono sia su lieviti sia su funghi filamentosi. Solo isavuconazolo e posaconazolo sembrerebbero avere un effetto inibitorio su alcune specie di Mucorales responsabili di mucormicosi. L’uso degli imidazoli, invece, con la sola eccezione del chetoconazolo, è limitato ad applicazioni topiche. La resistenza agli azoli è stata riportata per diversi funghi anche filamentosi, ma il fenomeno è stato particolarmente studiato in ceppi sequenziali di Candida albicans isolati da casi di esofagite e/o candidosi orali in soggetti HIV-positivi trattati a lungo con il fluconazolo. Molti dei meccanismi molecolari di resistenza al fluconazolo individuati in C. albicans si sono successivamente dimostrati coinvolti nella resistenza alla classe degli azoli anche in altri importanti funghi patogeni opportunisti. I meccanismi molecolari di resistenza riguardano principalmente: a) sovraregolazione e mutazioni del gene ERG11 (lieviti) o CYP51 (funghi filamentosi), che codifica per l’enzima bersaglio lanosterolo-14α-demetilasi, con conseguente resistenza per mancato rapporto ottimale enzima-farmaco o decremento dell’affinità dell’enzima verso il farmaco; b) aumentata espressione delle pompe di efflusso; c) alterazioni in

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Figura 73.3 Struttura delle due principali molecole polieniche.

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N

N N

N

N

H N

F

OH

N

N

FN

N

F

N

S

N CH3

N

O

N

N

OH

F Fluconazolo

F

F

F

Voriconazolo

Isavuconazolo

N

N N

N O

Cl

O Cl

O

N

N

N

N N

O Itraconazolo N N

N O

Cl

O Cl

O

N

N

N

N

CH

N

O Posaconazolo

CH3

Figura 73.4 Formule di struttura dei principali triazoli, disponibili per la terapia delle micosi sistemiche.

altri geni presenti nella via biosintetica dell’ergosterolo. Sebbene le pompe di efflusso siano numerose nelle cellule fungine, solo alcune di esse sono state correlate alla resistenza ai farmaci e in particolare agli azoli, e appartengono a due classi principali: ATP-Binding-Cassette (ATP) e Major Facilitators (MF).

5-Fluorocitosina

NH2 F

N O

N H

Figura 73.5 Struttura della 5-fluorocitosina.

La 5-fluorocitosina, un analogo delle pirimidine, è un farmaco fungistatico utilizzato esclusivamente in associazione con altri farmaci antifungini (amfotericina B o triazoli) per la terapia di infezioni invasive causate da lieviti (fig. 73.5). Agisce come un antimetabolita che compete con l’uracile per la sintesi dell’RNA fungino e interferisce con la timidilato sintetasi. La sua attività antifungina è resa possibile dalla presenza di una permeasi cellulare che ne facilita l’ingresso nella cellula fungina dove la citosina deaminasi trasforma la molecola in 5-fluorouracile, farmacologicamente attivo. L’utilizzo di tale farmaco in monoterapia è limitato sia dalla presenza di resistenza primaria (innata o intrinseca) sia dalla facilità di insorgenza di resistenza acquisita in corso di terapia. La resistenza alla 5-fluorocitosina può essere causata sia dalla perdita dell’enzima permeasi, codificato dal gene FCY2, con conseguente mancato ingresso intracellulare del farmaco, sia da alterazioni in altri enzimi coinvolti nel meccanismo d’azione: la citosina deaminasi, codificata dal gene FCY1, responsabile della trasfor-

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Tabella 73.2 Valori soglia di MIC (g/L) delle specie più rappresentative di Candida indicativi di resistenza ai principali farmaci antifungini secondo CLSI ed EUCAST.

Farmaco

SPECIE C. albicans

C. tropicalis

C. parapsilosis

C. glabrata

C. krusei

CLSI

EUCAST

CLSI

EUCAST

CLSI

EUCAST

CLSI

EUCAST

CLSI

EUCAST

Anidulafungina

≥ 1

> 0,03

≥ 1

> 0,06

≥ 8

> 4

≥ 0,5

> 0,06

≥ 1

> 0,06

Caspofungina

≥ 1

NV

≥ 1

NV

≥ 8

NV

≥ 0,5

NV

≥ 1

NV

Micafungina

≥ 1

> 0,016

≥ 1

NV

≥ 8

> 2

≥ 0,25

> 0,03

≥ 1

NV

Fluconazolo

4

> 4

4

> 4

4

> 4

> 32

> 32

NA

NA

Isavuconazolo

NV

NV

NV

NV

NV

Itraconazolo

≥ 1

> 0,06

≥ 1

> 0,12

≥ 1

> 0,12

≥ 1

NV

≥ 1

NV

Posaconazolo

> 1

> 0,06

> 1

> 0,06

> 1

> 0,06

> 1

NV

> 1

NV

Voriconazolo

> 1

> 0,12

> 1

0,12

> 1

> 0,12

> 1

NV

> 1

NV

NV, non valutabile; NA, non applicabile.

mazione in 5-fluorouracile o l’uracil-fosforibosiltransferasi, codificata dal gene FUR1, che catalizza la trasformazione del 5-fluorouracile in 5-fluorouridina monofosfato. La 5-fluorocitosina in associazione con l’amfotericina B è utilizzata per la terapia primaria della meningite criptococcica.

Determinazione in vitro dell’attività dei farmaci antifungini e interpretazione dei risultati La determinazione in vitro dell’attività dei farmaci antifungini è oggi possibile grazie alla disponibilità di metodi di riferimento per i saggi di sensibilità in vitro per funghi lievitiformi e filamentosi e di valori soglia (breakpoint) di concentrazione minima inibente (MIC) per alcuni antifungini. I valori di breakpoint sono limitati ai funghi appartenenti ai generi Candida e Aspergillus. Il saggio di sensibilità in vitro deve essere eseguito secondo protocolli standard del Clinical Laboratory Standards Institute (CLSI) e dell’European Committee on Antimicrobial Susceptibility Testing (EUCAST, www.eucast.org/clinical_breakpoints/) o con metodi commerciali (Etest o Sensititre) equivalenti. Di recente, alcuni membri dei due enti hanno cercato di armonizzare i breakpoint clinici, prendendo in considerazione i percorsi epidemiologici e statistici, anche complessi, utilizzati per individuarli e sono pervenuti a dei valori condivisibili, anche se ancora applicabili esclusivamente a specie del genere Candida (tab. 73.2).

Farmaco-resistenza e biofilm La capacità di formare biofilm rappresenta un’altra aggravante nel contesto della farmaco-resistenza agli antifungini in quanto le cellule microbiche organizzate in biofilm sono molto diverse da quelle planctoniche e costituiscono una popolazione microbica imbrigliata in una matrice extracellulare poco penetrabile dall’esterno e quindi resistente ai farmaci. Questo aspetto è molto spesso trascurato quando si eseguono i saggi di sensibilità agli antifungini sul ceppo infettante isolato e, quindi, quando se ne refertano i risultati. È auspicabile che in un futuro non molto lontano si terrà conto di questa problematica nella diagnostica microbiologica.

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Bibliografia essenziale Borghi, E., Borgo, F., Morace, G. (2016), «Fungal biofilms: Update on resistance», Adv Exp Med Biol, 931, pp. 37-47. Clinical and Laboratory Standard Institute, Reference method for broth dilution antifungal susceptibility testing of yeasts; Approved standard, 3a ed., CLSI Document M27-A3, Clinical and Laboratory Standard Institute, Wayne, Pennsylvania, 2008. Clinical and Laboratory Standard Institute, Reference method for broth dilution antifungal susceptibility testing of filamentous fungi; Approved standard, 2a ed., CLSI Document M38-A2, Clinical and Laboratory Standard Institute, Wayne, Pennsylvania, 2008. Clinical and Laboratory Standard Institute, Reference method for broth dilution antifungal susceptibility testing of yeasts; Fourth informational supplement, CLSI Document M27-S4, Clinical and Laboratory Standard Institute, Wayne, Pennsylvania, 2012. Pfaller, M.A., Castanheira, M., Messer, S.A., Moet, G.J., Jones, R.N. (2011), «Echinocandin and triazole antifungal susceptibility profiles for Candida spp., Cryptococcus neoformans, and Aspergillus fumigatus: application of new CLSI clinical breakpoints and epidemiologic cutoff values to characterize resistance in the SENTRY antimicrobial surveillance program (2009)», Diag. Microbiol. Infect. Dis., 69, pp. 45-50. Polonelli, L., Morace, G. (2003), «In vitro tests: How do they influence therapeutic choices?», Rev Clin Exp Hematol 2 (Epub ahead of print), Suppl. 2, pp. 65-75. White, TC., «Mechanisms of resistance to antifungal drugs», in P.R. Murray, E.J. Baron, J.H. Jorgensen et al. (a cura di), Manual of Clinical Mycology, 9a ed., ASM Press, 2007, pp. 1961-1971.

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PARASSITOLOGIA MEDICA

Capitolo

74

Parassitologia

74.1 - Generalità sui parassiti Il termine “parassita” deriva da un sostantivo greco antico che significa “colui che mangia insieme con”, attribuito a personaggi pubblici che venivano mantenuti a spese della comunità e poi, genericamente, a persone che vivevano a spese di qualcun altro. Quindi il termine greco e il nostro hanno significati abbastanza differenti: infatti, l’antico vocabolo indicava, almeno in origine, quello che noi oggi definiremmo “commensale”, ovvero chi mangia a spese di quello che chiamiamo “ospite” ma che non gli causa danni, mentre il nostro sostantivo indica qualcuno o qualcosa che vive a spese di un ospite come il commensale ma in più può procurargli danni. Il parassitismo rientra nella categoria più generale delle simbiosi, vale a dire di tutte quelle relazioni di associazione che avvengono tra due specie diverse. La simbiosi commensalistica o commensalismo è frequente: ad esempio, il nostro tubo digerente ospita molti microrganismi che vivono a nostre spese ma di cui non avvertiamo la presenza dato che non causano disturbi. Diverso è il caso della simbiosi mutualistica o mutualismo, in cui una specie sfrutta l’altra ma contemporaneamente le restituisce qualche tipo di vantaggio e viceversa: il nostro intestino alberga molti batteri che sfruttano le nostre risorse restituendo in compenso vitamine del gruppo B. Il parassitismo è, al contrario del commensalismo e del mutualismo, una simbiosi di tipo antagonistico, in cui una specie trae vantaggio da un’altra, danneggiandola. Il danno può essere però molto variabile: infatti, si va da parassiti la cui azione passa quasi del tutto inosservata a specie che causano patologie gravissime che possono portare a morte l’ospite, sebbene nel parassitismo la morte dell’ospite sia tutt’altro che frequente: si potrebbe dire anzi che il parassita perfetto è quello che, pur sfruttando l’ospite, non gli causa danni che possano comprometterne il successo riproduttivo. Si stima che più della metà delle specie viventi sia parassita, e nessuno dei maggiori gruppi di viventi è privo di specie parassite: a partire dai virus (tutti parassiti per definizione) fino ad arrivare ai mammiferi (ad es. i “pipistrelli vampiro”). I parassiti vengono distinti in endoparassiti, che cioè vivono all’interno dell’ospite (sia all’interno di sue cavità sia all’interno dei suoi tessuti e/o delle sue cellule), ed ectoparassiti, che invece hanno contatti solamente con le superfici esterne dell’ospite. La maggior parte dei parassiti sono obbligati, cioè non possono fare a meno dell’ospite per sopravvivere, anche se l’obbligatorietà a volte è limitata a una fase molto ridotta del loro ciclo vitale. I parassiti facoltativi, invece, normalmente conducono vita libera ma quando se ne presenta l’occasione possono diventare parassiti di uno o più ospiti. Vengono poi chiamati parassiti temporanei quelli che hanno un contatto con l’ospite generalmente limitato al tempo necessario per nutrirsi, che può essere molto breve o anche molto prolungato (temporanei stazionari): comunque, i parassiti temporanei sono obbligati ad abbandonare prima o poi l’ospite, ad esempio per deporre le uova sul terreno, come le pulci. Al contrario, i parassiti permanenti hanno il rapporto più profondo con l’ospite: infatti non possono esserne separati, in genere neanche per tempi relativamente brevi.

• Generalità sui parassiti • Protozoi intestinali • Protozoi tissutali • Metazoi intestinali • Metazoi tissutali • Artropodi

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Comune nel parassitismo è il potenziamento e la specializzazione di quelle strutture e funzioni che massimizzano l’efficienza del parassitismo, prime fra tutte la riproduzione e la nutrizione, e poi molte altre, che vanno complessivamente sotto il nome di adattamenti alla vita parassitaria. La funzione riproduttiva è particolarmente potenziata in moltissime specie di parassiti. Fenomeni quali ermafroditismo sufficiente, partenogenesi, pedogenesi, poliembrionia, riproduzione asessuata ecc., sono estremamente comuni, e tutti sono indirizzati ad aumentare le probabilità che il parassita possa trasmettere il proprio genoma anche nelle situazioni in cui è estremamente difficile trovare un partner di sesso diverso con il quale incrementare la variabilità genetica. A livello biochimico gli adattamenti più comuni consistono generalmente nella progressiva perdita della capacità di sintetizzare molte famiglie di molecole che vengono sottratte già pronte all’ospite: questo porta a una sempre maggiore specificità parassitaria, ovvero alla dipendenza irreversibile della specie parassita dal proprio ospite, fino a diventare in grado di parassitare esclusivamente una sola specie di ospite. Ma gli adattamenti biochimici alla vita parassitaria più sofisticati sono avvenuti soprattutto negli endoparassiti dei vertebrati, dove le difese immunitarie dell’ospite sono le più evolute, proprio allo scopo di evitarle, eluderle o contrastarle. Altro aspetto molto importante dei parassiti è costituito dai loro cicli di vita, suddivisi schematicamente in diretti (o monoxeni) e indiretti (o eteroxeni). Nei cicli diretti il parassita passa da un ospite al successivo in genere attraverso una forma di resistenza alle condizioni ambientali, mentre un ciclo indiretto può compiersi soltanto e obbligatoriamente passando in due (cicli dixeni), tre o anche quattro ospiti differenti, in ciascuno dei quali avviene una fase diversa e specifica dello sviluppo. Mentre nel caso dei cicli diretti non c’è la necessità di assegnare un nome particolare all’unico tipo di ospite, nei cicli indiretti invece viene attribuito il nome di ospite definitivo a quello in cui avviene una riproduzione sessuata, mentre tutti gli altri sono denominati ospiti intermedi, e in questi ultimi molte specie di parassiti possono avere un qualche tipo di riproduzione asessuata. Si definisce ospite paratenico o trasportatore quello nel o sul quale il parassita rimane inattivo, in attesa di giungere all’ospite successivo in/ su cui in genere completa il proprio sviluppo. Quando un ospite (indifferentemente che sia il definitivo o l’intermedio) trasporta, trasmette e diffonde un parassita, esso è anche denominato vettore; il termine è prevalentemente usato per riferirsi a ospiti (per lo più insetti) responsabili della diffusione di alcune parassitosi. Altro aspetto interessante dei cicli di vita parassitari è costituito dalle modalità di ingresso e di uscita dagli ospiti. Si parla di ingresso passivo quando il parassita, generalmente sotto una qualche forma di resistenza, non partecipa in alcun modo all’ingresso stesso. Si parla invece di ingresso attivo quando il parassita penetra nell’ospite con una qualsiasi modalità che comporti un qualche “sforzo” da parte del parassita stesso. In prima approssimazione si può parlare anche di passiva o attiva nel caso dell’uscita dall’ospite. Il tipo di ciclo di vita seguito da un parassita ha anche un importante risvolto per quel che riguarda la parassitologia umana: è infatti importante in questo caso distinguere se la parassitosi è una antropoparassitosi o una zoonosi. Il primo termine identifica una parassitosi nella quale l’uomo funge da ospite obbligatorio, mentre le zoonosi sono prodotte da cicli parassitari in cui gli ospiti sono normalmente animali, ma accidentalmente l’uomo può essere coinvolto come ospite intermedio o definitivo secondo la specie di parassita. Il controllo delle malattie parassitarie ha visto negli anni passati alcuni successi, ma l’obiettivo dell’eradicazione di molte importanti parassitosi rimane ancora lontano. Ci sono pochi dubbi che la prevalenza e l’incidenza di alcune malattie come le parassitosi alimentari (quelle cioè dovute all’ingestione di alimenti infetti) andranno diminuendo con il potenziamento dell’educazione sanitaria e del miglioramento dell’igiene in senso lato, mentre per le parassitosi trasmesse da vettori non è necessariamente così. È importante infatti sottolineare che la malaria, ad esempio, come altre parassitosi

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Capitolo 74 • Parassitologia

trasmesse da vettori (leishmaniosi, malattia del sonno, tripanosomiasi americana, filariosi ecc.), è completamente scollegata dalla situazione igienica della collettività umana, ma anzi viene spesso aggravata proprio da varie attività umane. Allo stato attuale il controllo delle parassitosi si basa su una buona prevenzione, sulla profilassi, su buone diagnosi, sia dirette sia indirette, e, naturalmente, su cure basate su farmaci specifici, non molto numerosi e non sempre privi di effetti collaterali facilmente sopportabili. Vale la pena sottolineare la differenza tra diagnosi diretta e indiretta. La prima, detta anche diagnosi parassitologica, è basata sulla constatazione visiva della presenza del parassita, che naturalmente implica la conoscenza precisa del quando e dove il parassita stesso vada ricercato (in un tessuto particolare o in una specifica classe di cellule), mentre la diagnosi indiretta, generalmente basata su una reazione antigene-anticorpo, mette in evidenza la reazione dell’ospite all’invasione parassitaria, senza però essere spesso in grado di accertare se il parassita è ancora presente e, se lo è, con quale densità numerica lo sia. La diagnosi molecolare, infine, è sempre più diffusa in parassitologia, grazie allo sviluppo continuo di protocolli mirati soprattutto all’identificazione e alla quantificazione di acidi nucleici, rendendo in tal modo più rapida e specifica la diagnosi di laboratorio di numerose parassitosi. Infine, una nota nomenclaturale. Sebbene da tempo sia stata ripetutamente proposta e consigliata l’utilizzazione generalizzata e standardizzata del suffisso “-osi” per indicare il nome delle malattie parassitarie, in questo capitolo si continuerà a usare il vecchio suffisso “-iasi” per tutte le malattie parassitarie per le quali l’uso corrente rimane conservativo. Ad esempio, nella banca dati PubMed (www.pubmed.com) della statunitense National Library of Medicine e del National Institute of Health, per il periodo gennaio 1997-maggio 2007, 1468 citazioni bibliografiche citano nel titolo il termine “schistosomiasis” contro solo 4 che utilizzano “schistosomosis”; 192 “giardiasis” contro 10 “giardiosis”; 361 “trypanosomiasis” contro 91 “trypanosomosis” ecc.

74.2 - Protozoi I protozoi di maggiore importanza in parassitologia umana appartengono ai phyla dei Sarcomastigofori, che comprende Amebe (Entamoeba) e Flagellati (Giardia, Trichomonas, Leishmania e Trypanosoma), e degli Apicomplexa, che comprende Cryptosporidium, Toxoplasma e Plasmodium.

74.3 - Protozoi intestinali e uro-genitali Amebiasi o “dissenteria amebica”

■■

Ciclo di vita, biologia e morfologia

Il ciclo di vita di Entamoeba histolytica è monoxeno (fig. 74.1). Le feci dissenteriche infette contengono cisti sferiche tetranucleate di circa 10-20 μm di diametro [1], che contaminano l’ambiente. Con l’ingestione di cibi crudi o di acqua potabile contaminata le cisti giungono nell’ospite [2] e schiudono nell’intestino tenue liberando un’ameba tetranucleata che si divide rapidamente in 4 amebe figlie [3]. Questi trofozoiti (forma minuta, di circa 20 μm) vivono da commensali, sono anaerobi, privi di mitocondri e si moltiplicano lentamente [4] per scissione binaria. La localizzazione più comune è nel lume dell’intestino cieco e del colon [percorso A]. Man mano che procedono con il contenuto intestinale verso il retto, le condizioni ambientali diventano meno permissive e i protozoi reagiscono cominciando a produrre la parete cistica. Durante il processo diventano evidenti alcuni corpi cromatoidi e un grosso vacuolo pieno di glicogeno. Il singolo nucleo dell’ameba subisce due divisioni mitotiche, cosicché alla fine del processo la cisti contiene 4 nuclei, mentre i corpi cro-

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Amebiasi (Entamoeba histolytica)

Figura 74.1 Ciclo di vita di Entamoeba histolytica.

Ingestione della ciste matura

C A B Le cisti fuoriescono con le feci = stadio infettante = stadio diagnostico

A = colonizzazione NON invasiva B = malattia intestinale (dissenteria) C = malattia extraintestinale (colonizzazione INVASIVA)

Trofozoiti Uscita dall’ospite Moltiplicazione Escistamento

Trofozoiti

matoidi e il vacuolo con il glicogeno spariscono [5]. In questa forma vengono espulse con le feci. Le cisti possono rimanere vitali nell’ambiente fino a un massimo di un paio di settimane. Per motivi non del tutto ancora chiariti a fondo, i trofozoiti di Entamoeba histolytica possono passare da commensali a parassiti, trasformandosi nelle cosiddette forme istolitiche, di dimensioni molto maggiori (fino a 50 μm), molto più attive delle forme minute (tanto da muoversi strisciando come vermi). Queste forme sono in grado di penetrare nel contesto della parete intestinale, dove, raggiunta la sottomucosa, invadono il torrente circolatorio. Questa fase di invasione tissutale può portare alla formazione di vere e proprie ulcere intestinali, che raramente possono provocare la completa perforazione della parete con possibili quadri di peritonite post-amebica. Con la circolazione sanguigna i trofozoiti possono essere trasportati verso il fegato, i polmoni e, seguendo la grande circolazione possono raggiungere praticamente qualsiasi altra localizzazione [percorso C], causando i cosiddetti ascessi amebici.

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Patologia

Le forme minute del parassita possono passare anche inosservate. Le forme istolitiche possono invece produrre diversi tipi di danno:

• ulcere intestinali “a fiasco”, ovvero con una lesione relativamente piccola a livello • • • • •

della mucosa, sotto la quale la zona di distruzione dei tessuti si allarga formando una specie di caverna sferica; proseguendo in questo processo di distruzione della parete intestinale possono perforarla causando peritoniti; giunte nel fegato le amebe possono stabilirvisi causando ascessi epatici; proseguendo ancora con la circolazione possono provocare ascessi polmonari; con la grande circolazione possono infine giungere in qualsiasi localizzazione; naturalmente i casi più gravi sono quelli in cui gli ascessi amebici si formano nel cervello (ascessi cerebrali); infine, le ulcerazioni possono anche avvenire a livello cutaneo, con fistole che possono complicarsi per infezioni batteriche secondarie.

Qualsivoglia siano i danni, segno comune della amebiasi è la dissenteria, che si manifesta dopo 10-20 giorni dall’infezione, con presenza di muco e sangue nelle feci e che può evolvere in modo rapidamente fatale nei soggetti immunodepressi.

■■

Diagnosi

La diagnosi parassitologica si effettua ricercando le tipiche cisti tetranucleate nelle feci di soggetti che presentano segni e sintomi che possano indirizzare verso il sospetto diagnostico (fig. 74.2A). Qualora esami di altro tipo mettano in evidenza possibili ascessi in organi interni, si può procedere alla biopsia con aspirazione per mettere in evidenza i trofozoiti in forma istolitica, che a volte si possono trovare anche nelle feci dissenteriche ed emorragiche. L’intestino umano può essere colonizzato anche da molte specie di innocue amebe commensali. Una di queste è Entamoeba coli, specie cosmopolita che presenta somiglianze morfologiche con E. histolytica. Ciò costringe l’analista a effettuare una diagnosi differenziale, perché confondere le due specie è troppo rischioso. La cisti matura di E. coli ha 8 nuclei ed è di dimensioni maggiori, ma durante la maturazione passa ovviamente per una fase a 4 nuclei di dimensioni minori che può essere confusa con la cisti di E. histolytica. La diagnosi indiretta, mediante l’impiego di tecniche sierologiche, permette una diagnosi dell’infezione da Entamoeba più sensibile e specifica della microscopia, in grado di distinguere infezioni patogene e non. Anche l’ameba non patogena Entamoeba dispar è morfologicamente identica a E. histolytica, e l’identificazione esatta della Figura 74.2 A. Cisti matura di Entamoeba histolytica. Sono visibili tre dei quattro nuclei. B. Cisti matura di Giardia duodenalis. Colorazione con Lugol. [Modificato da: Dr. M. Melvin, Center for Disease Control and Prevention, Atlanta, USA.]

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specie deve essere basata su saggi isoenzimatici o immunologici. Per quanto riguarda la diagnosi immunologica dell’amebiasi, i saggi d’elezione sono basati sulla rilevazione di anticorpi specifici. Tale approccio risulta estremamente utile soprattutto in pazienti con patologie extraintestinali (ad es. ascessi amebici epatici), ovvero quando il parassita non venga trovato mediante l’esame delle feci. I protocolli più in uso prevedono l’immunofluorescenza indiretta (Indirect Fluorescence Assay, IFA), saggi di emoagglutinazione indiretta (Indirect Hemoagglutination Assay, IHA) e l’ELISA (Enzyme Linked ImmunoSorbent Assay), ad oggi il saggio più diffuso. Gli antigeni generalmente consistono in estratti crudi di parassiti in coltura. È da sottolineare come soltanto alcuni tra i test ELISA disponibili in commercio siano in grado di differenziare tra E. histolytica ed E. dispar. I saggi ELISA sono in grado di rilevare anticorpi specifici per E. histolytica nel 95% dei pazienti con amebiasi extraintestinale, nel 70% dei pazienti con un’attiva infezione intestinale e nel 10% dei pazienti asintomatici ma positivi alle cisti di E. histolytica. Studi recenti hanno inoltre presentato nuovi protocolli altamente specifici e sensibili per l’identificazione di antigeni nelle feci, utilizzando anticorpi monoclonali in grado di distinguere tra E. dispar ed E. histolytica (almeno un kit in commercio presenta tali caratteristiche). Infine, la diagnosi di E. histolytica mediante tecniche molecolari risale ai primi anni ’90: il primo protocollo per differenziare tra E. histolytica ed E. dispar in campioni fecali mediante PCR-RFLP (Polymerase Chain Reaction-Restriction Fragment Length Polymorphism) è stato infatti messo a punto nel 1991. Da allora, numerosi protocolli sono stati ottimizzati e diverse procedure basate su PCR della regione 18S del rDNA, nested PCR, RT-PCR (Real Time PCR) e LAMP (Loop-mediated isothermal amplification) sono abbastanza diffuse nei laboratori di analisi.

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Epidemiologia

L’amebiasi da Entamoeba histolytica è un’antropoparassitosi. Fino a non molti anni fa si riteneva che la prevalenza delle infezioni causate da E. histolytica fosse di circa mezzo miliardo di casi, di cui solo circa il 10% si manifestava come dissenteria amebica. In realtà, la stragrande maggioranza delle infezioni diagnosticate mediante esame delle feci è imputabile a Entamoeba dispar, una specie non patogena, morfologicamente indistinguibile da E. histolytica, ma discriminabile con metodi biochimici o molecolari. La distribuzione geografica di E. histolytica è ubiquitaria nelle zone calde e tropicali del mondo, dovunque le condizioni igienico-sanitarie siano degradate. L’incidenza annuale della dissenteria amebica è di circa 500 milioni di casi, con meno di 100 000 decessi l’anno.

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Trattamento e controllo

Esistono svariati farmaci amebicidi attivi contro Entamoeba histolytica, sia durante la fase di colonizzazione intestinale sia a livello di colonizzazione tissutale. Per quello che riguarda la prevenzione personale per il viaggiatore nelle zone calde endemiche per la dissenteria amebica, è consigliabile evitare di consumare frutta e verdura crudi; è inoltre fondamentale bere esclusivamente acqua sterilizzata o imbottigliata. Dato il meccanismo di trasmissione oro-fecale, appare evidente che un rigoroso rispetto delle norme igieniche, sia personali sia ambientali, è importante per ridurre la trasmissione.

Giardiasi

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Morfologia e ciclo di vita

Giardia duodenalis è un protozoo flagellato parassita che presenta due forme: il trofozoite, che è la fase attiva e riproduttiva, e la cisti, che è la forma di resistenza all’ambiente esterno, responsabile del diffondersi dell’infezione (fig. 74.3). Il trofozoite è

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Giardiasi (Giardia duodenalis)

Contaminazione di acqua, cibo e mani con cisti infettanti Anche trofozoiti sono emessi con le feci ma essi non sopravvivono nell’ambiente esterno

= stadio infettante = stadio diagnostico

Cisti

Cisti

Trofozoiti

lungo circa 15 μm, è dotato di simmetria bilaterale ed è a forma di pera tagliata per il lungo, con una faccia fortemente convessa e quella opposta in parte concava: questa parte concava è detta “disco adesivo” ed è responsabile della capacità del protozoo di aderire alle cellule della mucosa intestinale. Il protozoo è privo di mitocondri (è anaerobio ma tollera la presenza dell’ossigeno), ha otto flagelli e due nuclei dotati di evidenti cariosomi centrali. Centralmente sono presenti due corpi parabasali a forma di virgola, la cui funzione è ancora poco chiara. Dalla metà del corpo cellulare fino all’estremità posteriore decorrono due assostili molto ravvicinati tanto da sembrare uno solo: in realtà si tratta della parte intracitoplasmatica dei due flagelli che fuoriescono posteriormente. La cisti, di forma ellissoidale, è più piccola del trofozoite (10 μm) ed è dotata di 4 nuclei e 4 corpi parabasali, essendo quindi già pronta per dividersi in due trofozoiti non appena giunge nell’intestino di un nuovo ospite. Giardia duodenalis ha un ciclo monoxeno. Le cisti contaminano alimenti consumati crudi (soprattutto vegetali) e l’acqua potabile; giunte nell’intestino schiudono e immediatamente si dividono in due trofozoiti che aderiscono alle cellule della mucosa del duodeno, del digiuno e della parte alta dell’ileo, continuando a nutrirsi e a dividersi. Successivamente si differenziano in cisti, circondate da una robusta parete, e vengono espulse con le feci.

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Figura 74.3 Ciclo di vita di Giardia duodenalis.

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Patologia

A parte l’azione spoliativa e l’interferenza con la funzionalità degli enterociti (è frequente il malassorbimento di zuccheri e soprattutto di grassi con conseguente steatorrea), questi protozoi danneggiano anche le cellule a cui aderiscono; ovviamente l’azione patogena è tanto maggiore quanto maggiore è il numero dei parassiti. La giardiasi si manifesta con nausea e soprattutto diarrea; le feci però non contengono mai sangue e raramente muco, perché il flagellato non lede la continuità della parete intestinale.

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Diagnosi

La diagnosi parassitologica si basa sull’esame delle feci, nelle quali si cercano le cisti, sebbene a volte si possano trovare anche trofozoiti, che però non sopravvivono nell’ambiente (fig. 74.2B). Oltre alla diagnosi microscopica sono oggi di uso corrente anche kit diagnostici basati sulla ricerca di coproantigeni specifici di Giardia attraverso ELISA e protocolli per l’individuazione del parassita in campioni fecali tramite immunofluorescenza (indiretta, IFA e diretta, DFA). Tali saggi immunologici garantiscono una sensibilità di rivelazione tra il 90 e il 99%. Occorre ricordare la disponibilità di un utile test immunocromatografico rapido basato sull’utilizzo di una cartuccia che permette di analizzare facilmente campioni conservati senza necessità di concentrazione. Infine, protocolli per la diagnosi molecolare di Giardia in campioni fecali tramite PCR sono disponibili e abbastanza diffusi nei laboratori diagnostici.

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Epidemiologia

La giardiasi è considerata generalmente un’antropoparassitosi, sebbene si ritenga che esistano molti serbatoi animali, sia selvatici che domestici. È cosmopolita, ma più diffusa nelle aree calde del mondo, con una prevalenza molto variabile, che può raggiungere e superare anche il 70% della popolazione umana in alcune aree e durante le epidemie. In Italia Giardia è presente in almeno il 3% delle persone con enteriti. Dato il meccanismo di trasmissione oro-fecale, è di ovvia rilevanza il controllo dell’igiene, sia personale sia ambientale. Le cisti possono sopravvivere a lungo nell’ambiente, soprattutto nell’acqua.

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Trattamento e controllo

Da quanto si è detto risulta che lo smaltimento corretto dei rifiuti umani solidi è essenziale per controllare le infezioni da Giardia, come per tutte le parassitosi a trasmissione oro-fecale. Esistono farmaci abbastanza validi (ad es. il metronidazolo, ma anche alcuni antimalarici sono piuttosto efficaci).

Criptosporidiosi Cryptosporidium appartiene agli Apicomplexa, phylum di protozoi che include alcune migliaia di specie, tutte endoparassite, per la maggior parte della loro vita intracellulari. Gli Apicomplexa sono privi di ciglia o flagelli e sono caratterizzati dall’alternanza tra fasi di riproduzione asessuata (schizogonia) e fasi di riproduzione sessuata (gamogonia) che portano alla produzione di forme infettanti dette sporozoiti, generalmente incluse in cisti dette spore (sporogonia). Sono aploidi durante tutto il loro ciclo vitale, salvo nella fase di zigote che comunque è di brevissima durata. Il corpo cellulare, di frequente rigido e a forma di banana in molte fasi del ciclo vitale, è normalmente mononucleato e caratterizzato dalla presenza di un complicato apparato situato a un polo del corpo cellulare detto complesso apicale, da cui il nome del phylum, che è adibito all’ingresso del parassita nelle cellule dell’ospite. Al phylum appartengono anche Toxoplasma e Plasmodium. Cryptosporidium fa parte della classe dei Coccidi, Apicomplexa monoxe-

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ni, parassiti generalmente delle cellule della mucosa intestinale di mammiferi. Alcune specie sono molto temute dagli allevatori di piccoli animali da reddito, perché epidemie di coccidiosi sono in grado di cancellare completamente gli allevamenti.

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Ciclo di vita e morfologia

Il ciclo di vita di Cryptosporidium è rappresentato in figura 74.4. Le oocisti sporulate (ovvero mature) contengono ciascuna quattro sporozoiti e sono eliminate dall’ospite infetto con le feci. Così le oocisti infettanti contaminano l’ambiente, e in particolare l’acqua e i vegetali, che ingeriti da un altro ospite fanno sì che esse giungano nel suo intestino, dove si aprono liberando i 4 sporozoiti che entrano nelle cellule della mucosa intestinale. Qui si accrescono a danno dell’enterocita e si moltiplicano attraverso un processo asessuato, producendo merozoiti che invadono altre cellule dell’epitelio intestinale, e così via ripetendo il ciclo schizogonico molte volte, distruggendo un numero sempre crescente di cellule intestinali dell’ospite. Quando quest’ultimo co-

Criptosporidiosi (Cryptosporidium)

Figura 74.4 Ciclo di vita di Cryptosporidium.

Oocisti a parete spessa ingerite dall’ospite

Contaminazione dell’acqua e del cibo con oocisti

L’oocisti a parete spessa (sporulata) esce dall’ospite

L’oocisti a parete spessa (sporulata) esce dall’ospite

Oocisti

Sporozoite

Trofozoite

Ciclo asessuato

Autoinfezione Oocisti a parete sottile (sporulata)

Meronte I

Merozoite

Microgamonte

Microgameti Gamonte giovane Macrogamonte

Zigote

Merozoiti

Meronte II

Ciclo sessuato

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mincia a reagire, si innesca la fase gamogonica, che porta da una parte alla formazione di macrogameti (“femminili”), singoli e statici nella cellula intestinale, e dall’altra a microgameti (“maschili”), mobili ed extracellulari, uno dei quali “feconderà” un macrogamete formando la fase transitoria diploide dello zigote. Questo subisce una divisione meiotica producendo direttamente quattro sporozoiti e contemporaneamente formando una parete protettiva che porterà alla formazione dell’oocisti infettante. Dato che la maturazione dell’oocisti (sporulazione) avviene all’interno dell’intestino dell’ospite infetto, si può facilmente verificare l’autoinfezione esterna, ovvero l’ospite infetto può continuare a infettare se stesso, ma anche l’autoinfezione interna, ovvero le oocisti schiudono nell’intestino senza neanche raggiungere l’ambiente con le feci. Nel caso dell’autoinfezione interna, le oocisti hanno una parete più sottile, mentre le oocisti destinate a raggiungere l’ambiente esterno hanno una parete più spessa e robusta. Quando gli sporozoiti di Cryptosporidium entrano nell’enterocita, si sistemano in una posizione intracellulare ma extracitoplasmatica: vale a dire che si situano immediatamente sotto la membrana plasmatica degli enterociti senza penetrare nel citoplasma, con il quale sono interfacciati mediante una struttura di scambio nutrizionale molto complessa. Questa localizzazione fa sì che Cryptosporidium sporga nel lume intestinale al di là della cellula che lo ospita. Le dimensioni delle oocisti sono molto piccole, circa 5 μm.

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Patologia/Sintomi

La patologia dipende in gran parte dalla carica parassitaria, ovvero dal numero di oocisti ingerite: basse cariche possono dare manifestazioni che possono passare anche inosservate o causare leggere diarree che si autorisolvono rapidamente; cariche maggiori possono causare profuse diarree acquose, enteriti con crampi addominali dolorosi, flatulenza e perdita di peso. La gravità e la durata dei sintomi sono legate all’immunocompetenza: in pazienti con AIDS la parassitosi può produrre gravi diarree prolungate, con rilevanti perdite di acqua e di elettroliti fino a poter portare l’ospite a morte. Cryptosporidium è pertanto considerato uno dei parassiti opportunisti di maggiore importanza.

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Diagnosi

La diagnosi parassitologica richiede perizia ed esperienza, ma non presenta difficoltà insuperabili. Si avvale di un comune esame delle feci alla ricerca delle piccolissime oocisti, utilizzando però concentrazioni del materiale o colorazioni particolari, con cui i protozoi appaiono chiari su sfondo scuro. L’approccio diagnostico indiretto d’elezione nei laboratori d’analisi per la diagnosi di criptosporidiosi è la rilevazione immunologica di coproantigeni di superficie mediante DFA usando anticorpi monoclonali: tale metodologia risulta peraltro essere più sensibile dell’approccio classico diretto. È opportuno menzionare che alcuni kit disponibili in commercio permettono di effettuare test per Cryptosporidium, Giardia ed E. histolytica simultaneamente. Inoltre, kit per effettuare saggi ELISA sono altresì disponibili in commercio per la diagnosi da campioni fecali freschi, congelati, conservati in formalina o fissati in SAF (sodio acetato/acido acetico/ formalina). La sensibilità e la specificità di tali kit variano tra il 66,3 e il 100% e tra il 93 e il 100% rispettivamente. Infine, protocolli per la diagnosi molecolare di criptosporidiosi mediante PCR convenzionale e Real Time PCR sono disponibili e ampiamente utilizzati nei laboratori di analisi. Altri protocolli basati su LAMP e sulla tecnologia Luminex sviluppati negli ultimi anni forniscono nuovi eccellenti strumenti diagnostici ad alta specificità (ad es., quest’ultima tecnologia permette di distinguere tra C. parvum e C. hominis – vedi oltre).

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Epidemiologia

Cryptosporidium hominis è un coccidio specifico dell’uomo, mentre C. parvum è un parassita di ovini e bovini, che però può infettare anche la nostra specie (zoonosi). La

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distribuzione geografica è ubiquitaria e i contatti con questo protozoo sono estremamente frequenti: più del 70% di un campione di donatori di sangue italiani è risultato sieropositivo per anticorpi anti-Cryptosporidium; è possibile che molte diarree fugaci siano dovute all’infezione con una delle sue specie. L’infezione in un ospite immunocompetente non costituisce un problema medico di grande rilevanza, mentre essa dà luogo a problemi molto seri in ospiti immunocompromessi o immunosoppressi.

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Trattamento e controllo

Data la trasmissione oro-fecale, la prevenzione si basa su uno stretto controllo igienico dell’ambiente allo scopo di evitare la fecalizzazione sia umana sia animale; va particolarmente curata la fonte dell’approvvigionamento di acqua potabile, uno dei veicoli più frequenti delle oocisti: in più di un caso si sono avute epidemie localizzate di criptosporidiosi dovute a rotture delle condotte fognarie che decorrevano accanto a tubazioni per l’acqua potabile. Allo stato attuale non esistono cure farmacologiche, sebbene la paromomicina abbia una qualche efficacia.

Tricomoniasi

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Morfologia e ciclo di vita

Trichomonas vaginalis è un flagellato lungo 10-30 μm; è dotato di 4 flagelli anteriori e di uno posteriore collegato al corpo cellulare da una membrana ondulante che arriva circa a metà del corpo cellulare. Anteriormente ha un grosso nucleo ellittico e un evidente assostilo mediano rigido. Anche T. vaginalis è privo di mitocondri ed è anaerobio; ha inoltre capacità fagocitarie. Non ha forme cistiche. Il ciclo di vita è monoxeno e la trasmissione avviene per lo più attraverso rapporto sessuale (fig. 74.5).

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Patologia

Il parassita è in grado di aderire strettamente alle cellule della mucosa vaginale, che danneggia profondamente. Inoltre, con la sua presenza fa diminuire il numero dei lattobacilli che contribuiscono a mantenere acido l’ambiente vaginale, proteggendolo da infezioni batteriche e complicando così il quadro della parassitosi. La tricomoniasi si manifesta come forte infiammazione vaginale, spesso accompagnata da leucorrea; molto spesso cronicizza. Nel sesso maschile la parassitosi si manifesta generalmente come uretrite, anche se l’infezione può raggiungere la prostata.

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Diagnosi

La diagnosi parassitologica avviene routinariamente mediante un semplice esame dell’essudato vaginale, strisciato su vetrino ed esaminato a fresco al microscopio, ma l’identificazione dei flagellati richiede perizia ed esperienza: spesso possono essere infatti confusi con leucociti. La diagnosi indiretta della tricomoniasi può essere effettuata mediante identificazione antigenica dei trofozoiti in essudati vaginali o campioni uretrali. La tecnica d’elezione è la DFA, eseguita mediante l’impiego di anticorpi monoclonali su campioni freschi o su campioni cresciuti in coltura: tale saggio garantisce una sensibilità del 60% per i preparati freschi, e dell’86% per quelli in coltura. Un test di agglutinazione (latex agglutination test) permette inoltre di rilevare anticorpi specifici anti-Trichomonas con una sensibilità del 95%, valore che risulta paragonabile all’efficienza del saggio ELISA per l’identificazione di anticorpi specifici anti-Trichomonas e superiore a quanto riportato nel caso di diagnosi microscopica (sensibilità intorno al 74%).

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Epidemiologia

La tricomoniasi è un’antropoparassitosi cosmopolita, con un’incidenza annuale di più di 100 milioni di casi. Sono frequenti i casi di trasmissione del parassita alle

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Tricomoniasi

Figura 74.5 Ciclo di vita di Trichomonas vaginalis.

(Trichomonas vaginalis)

Rapporto sessuale

= stadio infettante = stadio diagnostico

Trofozoite nelle secrezioni vaginali e prostatiche e nell’urina

Si moltiplica per scissione binaria longitudinale

Trofozoite nelle vie uro-genitali

neonate al momento del parto. Dato che il protozoo non ha cisti, la trasmissione può avvenire generalmente solo per contatto diretto tra ospiti, sebbene l’uso in comune di asciugamani infetti sia stato segnalato come meccanismo aggiuntivo.

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Trattamento e controllo

Il metronidazolo ha un buon effetto, sebbene i casi di resistenza al farmaco siano in aumento. Dato il meccanismo di trasmissione, è evidente perché in una coppia entrambi i partner debbano essere sottoposti a trattamento farmacologico.

74.4 - Protozoi tissutali: emoflagellati (Leishmania e Trypanosoma) Questi protozoi flagellati appartenenti alla famiglia Tripanosomatidi comprendono specie parassite (dette emoflagellati) di grande importanza per la salute umana. Gli emoflagellati hanno cicli di vita indiretti (dixeni) che si svolgono tra vertebrati e insetti, che ne costituiscono i vettori. Il corpo cellulare è generalmente allungato, dotato di un grande nucleo diploide, di un singolo flagello, con o senza membrana ondulante, che origina da una tasca flagellare accanto alla quale vi è un accumulo di DNA extra-

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nucleare (cinetoplasto) che costituisce il genoma del singolo, grande mitocondrio. La riproduzione è prevalentemente asessuata, mitotica, con scissione longitudinale del corpo cellulare. Le specie dei Tripanosomatidi nel loro ciclo vitale possono presentare i seguenti quattro morfotipi:

• amastigote: piccolo e arrotondato, senza flagello libero ma con la radice del flagello (assonema) visibile all’interno della cellula; cinetoplasto evidente; endocellulare; • promastigote: allungato; cinetoplasto e flagello libero sistemati in posizione anteriore; senza membrana ondulante; esocellulare; • epimastigote: allungato; cinetoplasto situato anteriormente vicino al nucleo; il flagello esce dal corpo cellulare e rimane collegato ad esso da una breve membrana ondulante; esocellulare; • tripomastigote: allungato; cinetoplasto situato posteriormente al nucleo; il flagello esce dal corpo cellulare, si piega in avanti e decorre lungo il corpo cellulare, unito a questo da una lunga membrana ondulante continuando poi libero anteriormente; esocellulare. Leishmania è dotata solo degli amastigoti e promastigoti; Trypanosoma brucei solo dell’epimastigote e del tripomastigote; Trypanosoma cruzi dell’amastigote, dell’epimastigote e del tripomastigote.

Leishmaniosi cutanea e viscerale

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Ciclo di vita, biologia e morfologia

Quando l’insetto vettore (flebotomo) infetto punge il vertebrato (fig. 74.6), rigurgita nella ferita una massa di promastigoti [1] che sono subito fagocitati dai macrofagi [2]. All’interno di un vacuolo parassitoforo del macrofago, i promastigoti diventano amastigoti, di circa 3-6 μm secondo la specie, e si moltiplicano per mitosi [3], producendo 50-100 amastigoti figli. Alla lisi del macrofago, gli amastigoti fuoriescono e vengono subito fagocitati da altri macrofagi [4], continuando così il processo di moltiplicazione. Da questo punto l’evoluzione dell’infezione cambia secondo la specie di Leishmania coinvolta: nel caso di alcune specie, infatti, il processo descritto rimane limitato ai dintorni della cute dove è avvenuta la puntura dell’insetto vettore, producendo la cosiddetta leishmaniosi cutanea, mentre in altre specie avviene un processo di disseminazione, che porta i macrofagi ripieni di amastigoti in molti distretti e organi del corpo dell’ospite vertebrato, producendo le leishmaniosi mucocutanee e viscerali. In ogni caso, alcuni macrofagi infetti vengono assunti quando un flebotomo punge [5]. Nell’intestino dell’insetto gli amastigoti si trasformano in promastigoti lunghi 15 μm che si moltiplicano attivamente per divisione binaria [6- 8]. I promastigoti si spostano poi verso la faringe dell’insetto, intasandola; il processo di moltiplicazione nel vettore impiega circa una settimana. La puntura dell’insetto chiude il ciclo.

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Patologia ed epidemiologia

Leishmania tropica causa leishmaniosi cutanea in un areale che prevalentemente interessa le zone dalla Turchia all’India; è considerata un’antropoparassitosi con possibili serbatoi animali nelle zone rurali; i danni sono per lo più limitati alla cute, dove formano tipiche ulcere a forma di cratere che espongono il derma sottostante; in genere le ulcere rimangono limitate ai dintorni della zona dove è avvenuta la puntura dell’insetto e i danni cominciano ad apparire da 2 settimane a 2 mesi dopo la puntura; quando guariscono, le ulcere lasciano una cicatrice permanente. Leishmania major causa anch’essa una forma cutanea nelle zone aride del Vecchio Mondo (Africa, Iran, India, Asia Centrale ecc.); è una zoonosi perché il ciclo nor-

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Leishmaniosi (Leishmania spp.) STADI DI SVILUPPO NEL FLEBOTOMO

STADI DI SVILUPPO NELL’UOMO

Il flebotomo inocula promastigoti nella cute durante il pasto di sangue

I promastigoti si dividono nello stomaco e migrano verso la proboscide

I promastigoti sono fagocitati dai macrofagi

I promastigoti si trasformano in amastigoti nei macrofagi L’amastigote si trasforma in promastigote nello stomaco

Gli amastigoti si moltiplicano in cellule di vari tessuti (inclusi i macrofagi) (Ingestione di cellule parassitate)

Il flebotomo assume un pasto di sangue e ingerisce macrofagi infetti da amastigoti

= stadio infettante = stadio diagnostico Figura 74.6 Ciclo di vita di Leishmania.

malmente avviene tra flebotomi e roditori selvatici, mentre l’uomo è un ospite accidentale anche se abbastanza frequente. Leishmania donovani causa una leishmaniosi viscerale in India (“Kala-Azar”, ovvero “Morbo Nero”, perché nella malattia cronica la pelle è iperpigmentata); è un’antropoparassitosi. Anche Leishmania infantum produce una forma viscerale, diffusa sia nel Nuovo sia nel Vecchio Mondo, incluso il bacino del Mediterraneo e l’Italia, dove è endemica in zone che vanno dalla Liguria alla Sicilia con un’incidenza di circa 300 casi conclamati ogni anno; può anche dare manifestazioni cutanee. È una zoonosi, dato che gli ospiti vertebrati naturali sono i cani. Questa Leishmania deve il suo nome al fatto che spesso la patologia si presenta particolarmente nei bambini di meno di 5 anni d’età. Gli immunocompromessi (particolarmente soggetti con AIDS) possono presentare una forma particolarmente grave della malattia. Nelle leishmaniosi viscerali i protozoi spariscono rapidamente dal sito dell’infezione e si localizzano e si moltiplicano invece nei macrofagi della milza, fegato, linfonodi, midollo osseo, mucosa intestinale e altri organi, dovunque siano presenti componenti del sistema reticolo-endoteliale. Da 1 a 4 mesi dopo l’infezione appare febbre quotidiana, con tremiti e sudori; il fegato e la milza diventano ipertrofici e si presentano inoltre fenomeni di auto-immunità. La malattia non trattata porta spesso a esito fatale.

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Diagnosi

Nel caso delle leishmaniosi cutanee si ricercano i macrofagi infetti asportando mediante appositi aghi con uncini una piccola quantità di tessuto sottocutaneo al bordo della lesione crateriforme; il tessuto asportato viene strisciato su un vetrino, fissato e poi colorato con Giemsa e osservato al microscopio: i macrofagi infetti hanno un aspetto tipico (fig. 74.7A). Nelle leishmaniosi viscerali la diagnosi parassitologica è più delicata, dato che si basa sulla ricerca delle cellule infette da amastigoti nel midollo osseo, generalmente mediante puntato sternale o della cresta iliaca. Sebbene la diagnosi diretta rappresenti ancora l’approccio d’elezione per rivelare la presenza del parassita, sono disponibili anche protocolli per la sierodiagnosi ed esami molecolari. La misurazione di anticorpi anti-Leishmania può essere soprattutto utile nella diagnosi di leishmaniosi viscerale ma risulta di scarso aiuto per quella cutanea, dal momento che la maggior parte dei pazienti non sviluppa in questo caso una risposta immunitaria significativa. Inoltre, è dimostrata una forte cross-reattività con Trypanosoma cruzi, elemento da tenere in considerazione qualora la diagnosi sierologica venga effettuata su pazienti provenienti dall’America Centrale o Meridionale. Una tecnica diagnostica abbastanza diffusa per confermare una diagnosi dubbia di leishmaniosi consiste nell’isolare il parassita in coltura, e utilizzare il materiale ottenuto per le successive indagini diagnostiche. Esistono infine anche tecniche diagnostiche indirette che permettono la rilevazione del parassita e/o l’identificazione della specie del parassita, basate su approcci biochimici (isoenzimi), immunologici (ELISA e saggi di emoagglutinazione) e molecolari (PCR e Real Time PCR tradizionali, Real Time Nucleic Acid Sequence-Based Amplification – NASBA, PCR-oligocromatografia e PCR-ELISA). Tali tecniche non sono ancora disponibili nella maggior parte dei laboratori diagnostici.

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Trattamento e controllo

Purtroppo i farmaci disponibili sono molto pochi e con effetti collaterali molto sgradevoli o tossici. Generalmente si tratta di farmaci a base di antimonio; recentemente sono state sviluppate formulazioni di amfotericina B molto efficaci e ben tollerate, che però sono molto costose. Non esiste un vaccino. Naturalmente la lotta ai flebotomi vettori con insetticidi, dove possibile, è un’opzione di grande importanza. Figura 74.7 A. Macrofago parassitato da amastigoti di Leishmania tropica. B. Tripomastigoti di Trypanosoma brucei gambiense in sangue periferico. Colorazione di Giemsa.

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Insetto vettore

I flebotomi o pappataci sono insetti di circa 3 mm di lunghezza, con un grosso torace ricurvo sul quale sono impiantate le ali pelose che in riposo sono disposte aperte a V. Il maschio si nutre di nettare mentre solo la femmina è parassita ematofaga. Il pungiglione, corto e tozzo, penetra di poco nella pelle dell’ospite vertebrato. Le uova dell’insetto sono deposte in genere sul letame o in tane di animali. Dalle uova schiudono piccolissime larve coprofaghe, che dopo 4 mute divengono pupe dalle quali fuoriescono gli adulti alati. La distribuzione geografica è limitata alle zone calde del mondo: infatti, in Italia appaiono alla fine dell’estate, quando entrano anche nelle abitazioni spostandosi con voli brevi e saltellanti e pungendo all’imbrunire.

Tripanosomiasi africana o “malattia del sonno”

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Ciclo di vita e biologia

Come per Leishmania, anche il ciclo di Trypanosoma brucei gambiense (fig. 74.8) è dixeno. Durante la puntura di una persona infetta l’insetto vettore (la mosca tse-tse, Glossina palpalis) assume oltre al sangue anche tripomastigoti [5] lunghi 20 μm, che nello stomaco dell’insetto si dividono sotto forma di tripomastigoti prociclici [6] di

Tripanosomiasi africana (Trypanosoma brucei gambiense/rhodesiense) STADI DI SVILUPPO NELL’INSETTO VETTORE Gli epimastigoti si moltiplicano nelle ghiandole salivari della mosca, dove si trasformano in tripomastigoti metaciclici

I tripomastigoti prociclici lasciano lo stomaco e si trasformano in epimastigoti

I tripomastigoti circolanti si trasformano in tripomastigoti prociclici nello stomaco della mosca tze-tze e qui si moltiplicano per scissione binaria

La mosca tze-tze inocula i tripomastigoti metaciclici durante il pasto di sangue

La mosca tze-tze assume un pasto di sangue e ingerisce i tripomastigoti circolanti

STADI DI SVILUPPO NELL’UOMO

I tripomastigoti metaciclici iniettati si trasformano in tripomastigoti circolanti che vengono trasportati verso altri siti corporei

I tripomastigoti si moltiplicano per scissione binaria in vari fluidi corporei (sangue, linfa e liquido cefalo-rachidiano)

Tripomastigoti circolanti nel sangue

Figura 74.8 Ciclo di vita di Trypanosoma brucei gambiense, agente causale della malattia del sonno.

= stadio infettante = stadio diagnostico

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50 μm. I protozoi si muovono poi verso l’esofago e la faringe dell’insetto [7] e migrano quindi verso le sue ghiandole salivari, dove si trasformano in epimastigoti [8] di 20 μm che continuano a dividersi. Successivamente, gli epimastigoti si trasformano in tripomastigoti metaciclici che vengono iniettati nell’ospite vertebrato insieme alla saliva dell’insetto [1]. Giunti nella circolazione sanguigna e linfatica dell’uomo, i tripomastigoti si moltiplicano molto abbondantemente durante la fase iniziale e acuta della malattia [2-4], mentre successivamente essi si spostano verso il sistema nervoso centrale (particolarmente nel liquido cefalorachidiano, da dove possono anche ritornare nel sangue), dove danno origine alla fase cronica le cui manifestazioni patologiche sono conosciute come malattia del sonno.

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Patologia

Nella fase acuta della malattia si osserva un caratteristico ripetersi di picchi febbrili a cui corrispondono picchi numerici di protozoi circolanti, intervallati da periodi afebbrili, che coincidono con la distruzione della maggior parte dei parassiti a opera del sistema immunitario. L’andamento ciclico del numero dei protozoi è dovuto al fatto che essi sono completamente ricoperti da uno strato di moltissime copie di una glicoproteina fortemente immunogenica di circa 65 kDa (VSG, Variable Surface Glycoprotein), che è diversa in corrispondenza di ciascun picco di febbre. Il meccanismo è il seguente: circa il 10% del genoma del protozoo è composto da 1000-2000 geni, ciascuno dei quali codifica per una diversa glicoproteina di superficie ed è espresso una sola volta; supponiamo che il primo clone (la prima ondata) di tripanosomi sia coperto da una VSG di tipo A: la risposta immunitaria eliminerà la maggior parte del clone VSG-A, ma alcuni tripanosomi cambieranno il proprio rivestimento con la variante B della VSG, dando origine al clone VSG-B, che sarà aggredito solo dopo alcuni giorni dagli anticorpi anti-VSG-B. Questo processo sarà ripetuto molte volte, permettendo al protozoo di sopravvivere indisturbato in un ambiente massimamente ostile. Nella fase cronica, quando i tripanosomi si trasferiscono nel sistema nervoso, si possono avere lesioni a carico delle meningi e dell’encefalo, con distruzione dei neuroni e danni alla mielina, producendo la sindrome conosciuta come malattia del sonno, con disturbi del sonno e dello stato di attenzione che possono progredire in maniera via via più grave fino a portare a coma e morte.

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Diagnosi

Durante la fase acuta di replicazione del protozoo nel sangue, la diagnosi parassitologica è piuttosto semplice (fig. 74.7B): si tratta infatti di effettuare uno striscio di sangue periferico da esaminare a 500-1000× nel quale i parassiti possono essere ricercati; tuttavia, i tripomastigoti delle due sottospecie (vedi oltre) sono indistinguibili morfologicamente. Durante una sospetta fase cronica, invece, il metodo diagnostico si basa sul prelievo di liquido cefalorachidiano mediante puntura lombare, che verrà anch’esso esaminato al microscopio. Per quanto riguarda la diagnosi indiretta, le tecniche di rilevazione di anticorpi specifici (mediante ELISA) hanno sensibilità e specificità troppo variabili per rappresentare un metodo di riferimento per decisioni cliniche. Vi sono comunque protocolli sperimentali disponibili per effettuare saggi di emoagglutinazione diretta o indiretta e immunofluorescenza diretta o indiretta; infine, alcune tecniche molecolari (PCR, RT-PCR e LAMP) sono state recentemente messe a punto ma non rappresentano ancora un diffuso strumento diagnostico.

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Epidemiologia

La malattia del sonno è essenzialmente un’antropoparassitosi, sebbene siano localmente presenti anche serbatoi animali, come i maiali nello stato africano del Benin.

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La distribuzione geografica è limitata all’Africa intertropicale a ovest della Grande Rift Valley. A Est della Rift Valley è endemica un’altra sottospecie, Trypanosoma brucei rhodesiense, parassita di animali quali gazzelle e antilopi, nei quali causa una sindrome simile a quella umana: occasionalmente anche l’uomo ne può essere infettato, manifestando un morbo estremamente grave, spesso letale già nella fase acuta. Per entrambe le sottospecie è comunque tipica la distribuzione a “macchia di leopardo”, come conseguenza dell’ecologia dell’insetto vettore, che è legata al sottobosco umido sulle rive dei corsi d’acqua in area di savana. Grazie a numerose ed efficaci campagne di controllo della malattia, negli ultimi anni il numero dei casi risulta sensibilmente ridotto. Nel 2009, per la prima volta negli ultimi 50 anni, il numero dei casi è sceso sotto i 10 000, mentre nel 2015 sono stati registrati 2804 casi complessivi a livello mondiale (fonte OMS).

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Trattamento e controllo

I farmaci disponibili (melarsoprolo, suramina, pentamidina) sono pochi e con notevoli effetti collaterali irritanti e tossici: il melarsoprolo, ad esempio, è un composto arsenicale. Non esistono vaccini. Dato che le mosche tse-tse non si allontanano molto dai loro ripari situati nelle “foreste a galleria”, la dislocazione dei villaggi lontano dalla zona boscosa perifluviale può avere una qualche efficacia.

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Insetto vettore

Le mosche tse-tse del genere Glossina, presenti solo nell’Africa tropicale, sono lunghe circa 10 mm, di color miele, con ali che a riposo si sovrappongono sull’addome. I maschi e le femmine adulti sono ematofagi diurni e sono attratti dagli oggetti in movimento e dagli odori emessi dall’ospite. Le glossine depongono una singola larva matura dalle 8 alle 20 volte nel corso della loro vita, che può durare circa 80 giorni. La larva viene deposta su suolo incoerente e asciutto, in genere sotto un qualche tipo di riparo. Sei specie di Glossina hanno una grande importanza medica: G. palpalis, G. tachinoides e G. fuscipes si trovano nelle “foreste a galleria” lungo i fiumi dell’Africa Occidentale e sono i vettori primari di Trypanosoma brucei gambiense; Glossina morsitans, G. pallidipes e G. swynnertoni sono specie di savana boscosa dell’Africa Orientale vettrici di T. brucei rhodesiense.

Tripanosomiasi americana o “morbo di Chagas” Quando una cimice tropicale Triatomina infetta punge l’ospite vertebrato, contemporaneamente defeca sulla pelle (fig. 74.9). Le feci dell’insetto contengono tripomastigoti metaciclici lunghi circa 20 μm che sono in grado di penetrare nella lesione cutanea causata dalla puntura dell’insetto [1] o nelle mucose integre; qui giunti, penetrano nei macrofagi, dove si trasformano in alcune centinaia di amastigoti di circa 4 μm [2] che si moltiplicano attivamente. Distrutto il macrofago, si ritrasformano in tripomastigoti di 15-30 μm, circolano con il sangue senza moltiplicarsi e raggiungono molti tessuti nelle cellule dei quali entrano, mostrando un tropismo particolare per le cellule delle fibre muscolari, particolarmente le striate del cuore, ma anche quelle scheletriche o lisce. In queste cellule si trasformano di nuovo in amastigoti che distruggono le cellule ospiti [3]. Una parte degli amastigoti abbandona le cellule dei tessuti infetti e si ritrasforma in tripomastigoti che ritornano nel sangue, dove circolano senza dividersi [4]. Alcuni di questi tripomastigoti possono essere assunti insieme al pasto di sangue da una Triatomina [5]. Giunti nell’intestino medio dell’insetto, si trasformano in epimastigoti [6] lunghi meno di 20 μm che si moltiplicano attivamente [7]. Dopo una o due settimane gli epimastigoti si trasferiscono nell’intestino posteriore dell’insetto [8], dove assumono la forma di tripomastigoti metaciclici e come tali fuoriescono con le feci della Triatomina chiudendo il ciclo.

Capitolo 74 • Parassitologia

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Tripanosomiasi americana (Trypanosoma cruzi)

STADI DI SVILUPPO DELLA TRIATOMINA

STADI DI SVILUPPO NELL’UOMO

Le Triatomine durante il pasto di sangue eliminano con le feci tripomastigoti che penetrano nell’ospite attraverso la ferita o le mucose

I tripomastigoti metaciclici invadono varie cellule in corrispondenza della puntura dell’insetto. Nelle cellule si trasformano in amastigoti.

Tripomastigoti metaciclici nell’intestino posteriore

Si moltiplicano La Triatomina assume un pasto di sangue e ingerisce i tripomastigoti

I tripomastigoti possono infettare anche cellule di altri tessuti dove si trasformano in amastigoti endocellulari

Gli amastigoti si moltiplicano per scissione binaria nelle fibre muscolari

Epimastigoti nello stomaco dell’insetto

= stadio infettante = stadio diagnostico

Gli amastigoti endocellulari si trasformano in tripomastigoti, abbandonano le cellule ed entrano nel circolo sanguigno

Figura 74.9 Ciclo di vita di Trypanosoma cruzi, agente causale del morbo di Chagas.

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Patologia

La malattia prodotta da Trypanosoma cruzi è chiamata morbo di Chagas. La fase acuta del morbo (corrispondente al periodo di replicazione periferica del parassita) può passare anche inosservata o con segni e sintomi poco specifici quali febbre, cefalea, dolori muscolari ecc. La fase cronica inizia dopo alcuni mesi e può durare anche per molti anni. Nei casi più gravi l’estesa distruzione delle fibre muscolari cardiache può avere esito letale a causa dell’indebolimento della parete del cuore con conseguente quadro di insufficienza cardiaca congestizia, ma anche i danni alla parete di varie zone dell’intestino possono avere conseguenze molto gravi (megaesofago e megacolon).

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Diagnosi

Dato che i tripomastigoti non si moltiplicano nel sangue, in esso la loro numerosità è relativamente bassa, rendendo la diagnosi parassitologica mediante esame di goccia spessa o striscio difficilmente efficace. Nel passato si è ricorso molto spesso alla xenodiagnosi, che consiste nel far pungere il sospetto di morbo di Chagas da Triatomine allevate in laboratorio, quindi senza dubbio non infette, e ricercando i tripomastigoti metaciclici nelle feci degli insetti dopo uno o due mesi. Il lungo lasso di tempo necessario per avere la risposta è accettabile, perché le manifestazioni più gravi della malattia si presentano dopo lunga cronicizzazione. Per quanto riguarda la diagnosi indiretta

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di T. cruzi sono disponibili oggi saggi ELISA che utilizzano antigeni purificati e saggi IFA che utilizzano vetrini preparati con sospensioni di epimastigoti. È possibile, come detto in precedenza, osservare cross-reazioni con sieri prelevati da pazienti affetti da leishmaniosi. Recentemente, anche tecniche molecolari come PCR e LAMP vengono utilizzate in alcuni laboratori diagnostici. In particolare, la PCR può risultare estremamente utile nelle procedure di controllo di organi o di sangue da donatori. Tali test sierologici e molecolari, seppur sempre più diffusi, non sono però altrettanto economici come la xenodiagnosi.

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Epidemiologia

La distribuzione di Trypanosoma cruzi e del morbo di Chagas comprende molte aree dell’America Centrale e Meridionale, in particolare Argentina e Brasile, e lambisce le zone più meridionali degli Stati Uniti d’America (Texas e California). Il morbo di Chagas è una tipica zoonosi: nelle aree rurali del Sud America fungono da ospiti vertebrati l’armadillo, le scimmie, l’opossum, i pipistrelli ecc., mentre nelle zone più antropizzate hanno una grande importanza come ospiti e serbatoi cani, gatti, maiali, topi, ratti e altri mammiferi sinantropici. In ogni caso l’uomo può facilmente essere incorporato nel ciclo di vita del flagellato. Nel mondo, circa 6-7 milioni di persone si stima siano infette con T. cruzi, per la maggior parte in America Latina. Fino al 30% delle persone con patologia cronica possono sviluppare alterazioni a livello cardiaco, mentre fino al 10% possono sviluppare alterazioni neurologiche o a carico dell’apparato digerente. Il carico parassitario per l’uomo è quindi tutt’altro che trascurabile, rendendo questa parassitosi una delle più importanti per i Paesi latinoamericani, soprattutto per le popolazioni più povere residenti nelle zone rurali e nelle bidonville situate alle periferie delle grandi città.

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Trattamento e controllo

Come nel caso delle tripanosomiasi africane, non sono disponibili molti farmaci attivi contro il morbo di Chagas (praticamente solo due: il benznidazolo e il nifurtimox), e anche in questo caso gli effetti collaterali e tossici sono notevolmente importanti.

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Insetto vettore

Le cimici della famiglia Reduvidae, sottofamiglia Triatominae, sono generalmente tropicali e distribuite nel Nuovo Mondo, e molte sono parassite di mammiferi, incluso l’uomo. Diverse specie dei generi Triatoma, Panstrongylus e Rhodnius sono ospiti riconosciuti e vettori di Trypanosoma cruzi. Hanno metamorfosi incompleta: dalle uova escono piccole ninfe che dopo cinque mute diventano maschi e femmine adulti. Tutte le fasi di vita sono ematofaghe. Le dimensioni degli adulti vanno da 5 a 50 mm, secondo la specie. Vivono in comunità miste di ninfe e adulti, spesso nelle ascelle fogliari di bromeliacee, palme e alberi simili, e da questo habitat sono state probabilmente trasferite nell’ambiente domestico, dato l’uso di coprire le abitazioni con foglie di palma. Per quanto riguarda il controllo delle Triatominae, va detto che già il miglioramento delle condizioni socio-economiche delle popolazioni delle zone endemiche potrà migliorare la situazione: ad esempio, l’intonacatura compatta e liscia delle pareti delle abitazioni in modo da evitare il formarsi di crepe evita di fornire luoghi di rifugio e riposo per gli insetti vicino all’ospite umano. L’uso di insetticidi ad azione residua spruzzati sulle pareti consente di ridurre la trasmissione di Trypanosoma cruzi.

Toxoplasmosi Toxoplasma gondii è un Apicomplexa di grande diffusione e di notevole importanza dal punto di vista medico per le potenziali gravissime patologie che può produrre in alcune fasce a rischio, tra cui le donne in stato di gravidanza e gli immunocompromessi.

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Capitolo 74 • Parassitologia

Ciclo di vita e morfologia

Toxoplasma gondii è un parassita intracellulare capace di invadere praticamente ogni tipo di cellula nucleata degli animali a sangue caldo. Ha un ciclo dixeno (fig. 74.10) legato al carnivorismo: l’ospite definitivo è il gatto, in cui si svolge la riproduzione sessuata, mentre possono essere ospiti intermedi tutti gli animali omeotermi (mammiferi e uccelli, particolarmente roditori e passeracei), nei quali T. gondii si riproduce asessualmente. Il ciclo di vita comprende vari stadi di sviluppo, tra cui quattro diverse forme invasive: lo sporozoite, il tachizoite, il bradizoite e il merozoite. Mediante il complesso apicale tutte queste forme sono in grado di invadere le cellule dell’ospite, insediandosi nel citoplasma all’interno di un vacuolo parassitoforo nel quale il parassita si moltiplica. Il gatto, ospite definitivo, si infetta mediante l’ingestione di tessuti delle sue prede contenenti le pseudocisti tissutali ripiene di bradizoiti. Giunti nell’intestino del gatto, i bradizoiti fuoriusciti dalle pseudocisti invadono gli enterociti. Al loro interno, dopo una fase di accrescimento sotto forma di trofozoiti, i parassiti sono soggetti a una moltiplicazione asessuata sotto forma di schizonti, contenenti da 4 a 32 merozoiti, i quali abbandonano l’enterocita ormai consumato e infettano altri enterociti dando luogo a nuovi cicli schizogonici (asessuati). In seguito a stimoli non ancora definiti, ma verosimilmente legati alla risposta di difesa dell’ospite felino, alcuni merozoiti si differenziano in gameti femminili (macrogameti), che rimangono nell’enterocita, e maschili (microgameti), che abbandonano l’enterocita in cui si sono formati e, attirati dal macrogamete, entrano nell’enterocita da questo parassitato, realizzando la fecondazione. Si forma così uno zigote, unico stadio diploide del parassita. Lo zigote successivamente si differenzia in oocisti immatura mononucleata, la quale, circondata da una robusta parete, abbandona l’enterocita, viene liberata nel lume intestinale e viene quindi eliminata con le feci del gatto. Nell’ambiente esterno l’oocisti va incontro a un processo di maturazione (sporulazione), che prevede due replicazioni del DNA (prima una meiosi e poi una mitosi) e la formazione, all’interno della parete cistica, di due sporocisti, ciascuna contenente quattro sporozoiti infettanti. Alla fine della maturazione (che può durare anche meno di 24 ore) l’oocisti infettante contiene quindi complessivamente 8 sporozoiti. Le oocisti possono rimanere vive e infettanti nell’ambiente anche per più di un anno. Ingerite da uno dei possibili ospiti intermedi, le oocisti giungono nell’intestino, dove schiudono liberando gli sporozoiti. Questi, penetrati negli enterociti, si differenziano in un nuovo stadio invasivo, il tachizoite, caratterizzato da un’alta velocità di replicazione asessuata (fase acuta). I tachizoiti si disseminano in tutto l’organismo per via ematica e linfatica (per lo più parassitando i macrofagi e altri globuli bianchi) e invadono le cellule di numerosi tessuti e organi. Questa fase, della durata di 1-2 settimane, induce una forte risposta immunitaria sia umorale sia cellulo-mediata, che infine elimina le manifestazioni cliniche dell’infezione. Va però notato che in alcuni distretti, in particolare nel sistema nervoso centrale e nella muscolatura scheletrica, la pressione del sistema immunitario induce i tachizoiti a differenziarsi in bradizoiti. Questi sono caratterizzati da una bassa velocità di replicazione e restano quiescenti all’interno di pseudocisti tissutali per tutta la vita dell’ospite (fase cronica). Queste pseudocisti, del diametro da 20 a 200 µm, sono circondate da una parete elastica che deriva da una modificazione della membrana del vacuolo parassitoforo e contengono fino a diverse centinaia di parassiti. La formazione della pseudocisti è la conseguenza dell’equilibrio che si instaura tra parassita e ospite e l’infezione da questo punto in poi decorre senza la comparsa di segni o sintomi clinici. Se i tessuti infetti vengono ingeriti da un carnivoro (uomo incluso), le pseudocisti in essi contenute liberano nell’intestino il proprio contenuto di bradizoiti, i quali, similmente agli sporozoiti, invadono gli enterociti e si differenziano in tachizoiti, innescando la fase acuta dell’infezione. Sporozoiti, tachizoiti, merozoiti e bradizoiti condividono la tipica struttura dell’A-

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Toxoplasmosi (Toxoplasma gondii)

TOXOPLASMOSI (Toxoplasma gondii)

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Oocisti nelle feci del gatto

2

Pseudocisti tissutali

Poco dopo l’ingestione sia le oocisti che le pseudocisti tissutali danno origine a tachizoiti, che si localizzano nel tessuto muscolare o nervoso e si sviluppano in pseudocisti tissutali ripiene di bradizoiti. Se una donna incinta non immune si infetta, i tachizoiti possono raggiungere il feto per via transplacentare

3

= stadio infettante = stadio diagnostico

Stadio diagnostico 1) Diagnosi sierologica 2) Identificazione diretta del parassita nel sangue periferico, nel liquido amniotico o in sezioni di tessuti

Figura 74.10 Ciclo di vita di Toxoplasma gondii.

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Capitolo 74 • Parassitologia

picomplexa generico: piuttosto rigida e a forma di banana con un’estremità più acuta e l’altra più ottusa. Le dimensioni delle oocisti ellissoidali emesse con le feci del gatto sono di circa 10 × 12 μm, mentre i tachizoiti allungati misurano circa 5 × 9 μm.

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Patologia/Sintomi

La toxoplasmosi umana presenta quadri patologici eterogenei, riconducibili a tre diverse forme cliniche della malattia: la toxoplasmosi acquisita, congenita o di riattivazione.

• Toxoplasmosi acquisita. È la forma che un individuo sieronegativo contrae in

seguito a ingestione di oocisti o pseudocisti tissutali. Nella maggior parte degli immunocompetenti l’infezione decorre per lo più asintomatica. Sia nei casi asintomatici sia in quelli sintomatici Toxoplasma induce un’elevata risposta immunitaria che pone termine alla fase acuta dell’infezione, dando a volte avvio alla fase cronica, caratterizzata dalla formazione delle pseudocisti tissutali dormienti, meno immunogeniche. • Toxoplasmosi congenita. Può colpire il feto quando una donna sieronegativa contrae l’infezione, anche se asintomatica, durante la gestazione. I tachizoiti provenienti dal circolo sanguigno materno possono causare quadri clinici di gravità variabile. Le probabilità di seri danni fetali sono maggiori se il contagio si verifica nei primi mesi di gravidanza. Le manifestazioni cliniche possibili vanno dall’aborto spontaneo a calcificazioni intracraniche, idrocefalia e lesioni oculari. Alla nascita il bambino può rivelare alterazioni motorie, ritardi mentali, epilessia e cecità, oppure risultare del tutto normale, ma andare incontro a manifestazioni cliniche, frequentemente corioretiniti, nell’età giovanile e adulta. • Toxoplasmosi di riattivazione. È tipica dei soggetti immunodepressi (HIV-positivi, individui sottoposti a trapianti o chemioterapie anti-tumorali) ed è a volte indicativa di AIDS. Essa è causata dai parassiti contenuti nelle pseudocisti tissutali i quali, differenziatisi da bradizoiti a tachizoiti, in assenza del controllo immunitario si moltiplicano in maniera incontrollata, causando quadri clinici molto gravi, come polmoniti ed encefaliti anche fatali. Pertanto, T. gondii va considerato un importante parassita opportunista.

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Diagnosi

Non esistono metodi diagnostici parassitologici per la difficoltà di individuare il tessuto o le cellule infette. La diagnosi della toxoplasmosi è pertanto basata su metodi sierologici oppure sulla ricerca del materiale genetico del parassita (ad es. nel liquido amniotico e cefalo-rachidiano) tramite tecniche molecolari per lo più basate su PCR e RT-PCR (essenziale specialmente per la diagnosi di infezioni congenite in utero). I test sierologici, mediante ELISA e IFA, rappresentano il metodo diagnostico d’elezione. Un limite rilevante non completamente superato dall’applicazione dei metodi sierologici riguarda la difficoltà di datare con precisione l’epoca dell’infezione, a causa della lunga persistenza degli anticorpi IgM anti-toxoplasma. Questo fenomeno ha importanti implicazioni durante la gravidanza, in quanto non permette di associare con sicurezza un alto titolo di IgM materne a un’infezione recente o in corso. Per ovviare a questo problema ci si avvale di test sierologici in cui viene misurata l’avidità delle IgG anti-toxoplasma, il cui livello, relativamente basso a breve distanza dall’infezione, aumenta progressivamente nel tempo.

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Epidemiologia

Nell’uomo l’infezione segue principalmente tre vie di trasmissione:

• consumo di carne cruda o poco cotta (suina, ovina e bovina) contenente pseudocisti tissutali;

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• ingestione di oocisti disseminate nell’ambiente con le feci del gatto, con il consumo di verdure crude, frutta o acqua contaminate;

• trasmissione al feto di tachizoiti per via transplacentare, quando una madre priva di anticorpi anti-toxoplasma contrae l’infezione durante la gravidanza.

La toxoplasmosi è cosmopolita, con prevalenze e incidenze molto diverse da Paese a Paese, per lo più a causa delle diverse abitudini alimentari e della diversa intensità di rapporti con i gatti domestici. In Italia la sieroprevalenza in alcune città è molto elevata ma negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva riduzione.

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Trattamento e controllo

La combinazione di pirimetamina, sulfadoxina e acido folinico per 4-6 settimane è la cura più utilizzata. L’antibiotico spiramicina, invece, è il farmaco d’elezione per il trattamento durante la gestazione per ridurre il rischio di passaggio transplacentare dei tachizoiti. Conoscendo i due meccanismi di trasmissione all’uomo, la prevenzione consiste ovviamente nella limitazione del consumo di carni poco cotte o crude (ad es. salumi suini) e nell’evitare l’ambiente contaminato dalle feci dei gatti. La prevenzione della toxoplasmosi congenita è basata sul monitoraggio sierologico sistematico delle donne in gravidanza. Nel corso delle prime settimane di gestazione la donna deve effettuare screening sierologici che stabiliscano se l’infezione è stata precedentemente contratta. In caso di sieropositività, anche a fronte di nuove infezioni nel corso della gravidanza, in conseguenza dell’immunità protettiva precedentemente acquisita, la gestante non è a rischio di trasmissione transplacentare del parassita. Al contrario, nelle donne sieronegative, a fronte di infezione contratta durante la gravidanza, in particolare nel corso del primo trimestre, esiste il rischio di trasmissione transplacentare. Allo scopo di limitare questo rischio, le gestanti sieronegative non devono ovviamente consumare carni crude o mal cotte, devono evitare il contatto con i gatti, particolarmente astenendosi dalla pulizia della lettiera ed effettuare ogni due mesi esami sierologici che escludano recenti infezioni.

Malaria La famiglia Plasmodidi include molte specie di protozoi parassiti dixeni il cui ciclo si svolge tra ospiti definitivi invertebrati (zanzare) e ospiti intermedi vertebrati (uccelli e mammiferi). L’uomo può essere parassitato da 4 specie del genere Plasmodium: P. malariae, P. vivax, P. ovale e P. falciparum, che causano la malattia infettiva non contagiosa conosciuta come malaria.

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Ciclo di vita e biologia

Nel ciclo biologico dei parassiti malarici (fig. 74.11; la descrizione si riferisce a tutte le quattro specie; le eventuali differenze sono descritte in tab. 74.1) si alternano obbligatoriamente un ospite vertebrato e una zanzara, l’ospite invertebrato. Nell’ospite vertebrato si verificano due fasi di riproduzione asessuata, la prima nelle cellule epatiche, detta fase schizogonica epatica o pre-eritrocitaria o eso-eritrocitaria [A], la seconda nei globuli rossi detta fase schizogonica eritrocitaria [B]. Nell’intestino medio dell’ospite invertebrato si verifica la fase di riproduzione sessuata o ciclo sporogonico del protozoo [C]. L’infezione dell’ospite vertebrato avviene durante il pasto di sangue di una zanzara femmina appartenente al genere Anopheles che inocula nel torrente circolatorio il parassita, nello stadio di sporozoita (circa 15 µm) [1]; gli sporozoiti nell’arco di circa un’ora abbandonano il sangue e invadono la prima cellula bersaglio, l’epatocita, all’interno del quale avviene una prima fase di riproduzione asessuata detta ciclo schizogonico epatico o pre-eritrocitario [A; 2,3,4]. La durata di questa fase varia in

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Malaria (Plasmodium spp.)

STADI UMANI EPATICI Epatocita

STADI DI SVILUPPO NELLA ZANZARA ANOFELE 12 Rottura della oocisti

Sporozoiti

1

A CICLO SCHIZOGONICO ESO-ERITROCITARIO

La zanzara inocula gli sporozoiti durante il pasto di sangue

4 Frammentazione dello schizonte in merozoiti

11 Oocisti Rilascio degli sporozoiti

C

STADI UMANI EMATICI Trofozoite immaturo (forma “ad anello”)

5

Macrogametocita

Il microgamete entra nel macrogamete 9 Extraflagellazione dei microgameti = stadio infettante = stadio diagnostico

3 Schizonte

CICLO SPOROGONICO

10 Oocinete

Epatocita infetto 2

8 La zanzara durante il pasto di sangue ingerisce i gametociti

Merozoite CICLO SCHIZOGONICO ERITROCITARIO B P. falciparum

Trofozoite maturo

6 Rottura dello schizonte

7 Gametociti P. vivax P. ovale P. malariae

Figura 74.11 Ciclo di vita di Plasmodium.

rapporto alla specie plasmodica ed è di 5,5-6 giorni per P. falciparum, 8 per P. vivax, 9 per P. ovale e circa 13 per P. malariae. Una frazione variabile degli sporozoiti di P. vivax e P. ovale non dà origine direttamente a schizonti pre-eritrocitari ma si differenzia in forme quiescenti, dette ipnozoiti, che a distanza di tempo (3-18 mesi) si riattivano portando alla formazione di trofozoiti e poi schizonti. La riattivazione degli ipnozoiti di P. vivax e P. ovale è all’origine delle cosiddette recidive malariche che sono dunque peculiari di queste due specie. Ogni schizonte maturo dà origine a migliaia di merozoiti mononucleati. Il numero di merozoiti prodotti nel ciclo schizogonico pre-eritrocitario varia in rapporto alla specie; nel caso di P. falciparum da ciascuno schizonte epatico si liberano 30 000-40 000 merozoiti, mentre sono circa 10 000 nel caso di P. vivax, 15 000 in P. ovale e circa 3000 in P. malariae. Alla lisi dell’epatocita infetto gli schizonti riversano nei sinusoidi ematici i merozoiti (circa 2 µm) [4]: raggiunto il torrente circolatorio, a seguito di interazioni di tipo recettore-ligando, i merozoiti aderiscono e invadono i globuli rossi [5], dove avviene la seconda fase di riproduzione schizogonica del parassita o ciclo schizogonico eritrocitario [B]. Nel citoplasma dell’eritrocita, analogamente a quanto avvenuto negli epatociti, il parassita si differenzia in vari stadi di maturazione (forme ad anello, trofozoiti e schizonti) e il ciclo eritrocitario si conclude con la lisi del globulo rosso e la liberazione in circolo di merozoiti che invadono a loro volta altri globuli rossi [6]. La fase ciclica di lisi dei

Schizonte 7 Gametociti

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Tabella 74.1 Caratteri differenziali dei plasmodi dell’uomo.

Stadio o periodo

P. vivax

P. ovale

P. falciparum

P. malariae

Trofozoite giovane (“forma ad anello”)

Circa 1/3 del diametro dell’eritrocita; vacuolo grande; nucleo scuro

Come P. vivax

Circa 1/5 del diametro dell’eritrocita; nucleo piccolo, spesso duplice; frequenti i trofozoiti accollati alla parete dell’eritrocita; frequenti gli eritrociti poliparassitati

Nucleo singolo e grande; citoplasma circolare, di frequente più piccolo e spesso di quello di P. vivax

Trofozoite anziano

Riempie quasi l’eritrocita; pseudopodi comuni; uno o più vacuoli; nucleo grande

Compatto; poco vacuolizzato

Non comune nel sangue periferico

Citoplasma compatto; pochi o nessun vacuolo; spesso forma una fascia attraverso l’eritrocita

Aspetto dell’eritrocita

Più grande del normale (circa 50% o più); spesso irregolare; sempre granulazioni di Schüffner salvo che con i trofozoiti giovani

Più grande del normale, spesso ovale e con i margini irregolari; granulazioni di Schüffner presenti

Dimensioni normali; granulazioni di Maurer in eritrociti con trofozoiti anziani (non frequenti nel sangue periferico)

Dimensioni normali o leggermente più piccoli; rare le granulazioni di Ziemann

Schizonte

12-24 merozoiti; riempie quasi completamente l’eritrocita; presenti nel sangue periferico

4-16 merozoiti (di solito 8); presenti nel sangue periferico

Da 8 a 24 o più merozoiti; rari o assenti nel sangue periferico

Da 6 a 12 merozoiti, di solito sistemati “a rosetta”; spesso presenti nel sangue periferico

Microgametocita

Arrotondati od ovali; riempiono quasi completamente l’eritrocita ingrandito; cromatina rosa, diffusa e grande; senza vacuolo

Come P. vivax, ma un po’ più piccoli; un po’ più piccolo del macrogametocita

Forma di mezzaluna; lunghi circa 1,5 volte il diametro dell’eritrocita che è deformato; cromatina rosa e diffusa; citoplasma blu pallido

Come P. vivax, ma più piccoli e senza deformazione dell’eritrocita

Macrogametocita

Come il microgametocita, ma il citoplasma si colora di blu scuro e la cromatina è rosso scuro e più compatta

Riempie completamente l’eritrocita ed è più grande del microgametocita

Grandezza e forma del microgametocita ma la cromatina è più compatta e rossa e il citoplasma più scuro

Presenza di granuli abbondanti e marroni

Durata del ciclo schizogonico esoeritrocitario

8 giorni

9 giorni

6 giorni

13 giorni

Periodo di incubazione

11-13 giorni

10-14 giorni

9-10 giorni

15-16 giorni

Durata del ciclo schizogonico ematico

48 ore

circa 48 ore

36-48 ore (di solito 48)

72 ore

Durata del ciclo sporogonico nel vettore

10 giorni a 25-30 °C

14 giorni a 27 °C

10-12 giorni a 27 °C; sotto 20 °C si blocca

25-28 giorni a 22-24 °C

globuli rossi al termine della schizogonia eritrocitaria e la successiva liberazione in circolo dei merozoiti corrispondono alla comparsa dei sintomi clinici della malattia. All’interno dell’eritrocita il merozoita si trasforma in trofozoita mononucleato, dotato di movimenti ameboidi e di un grande vacuolo digestivo che gli conferisce il tipico aspetto ad anello. L’attivazione del metabolismo del parassita all’interno del globulo rosso comporta una profonda alterazione del metabolismo della cellula ospite e modifiche strutturali come l’espressione, nel caso di P. falciparum, sulla superficie

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Capitolo 74 • Parassitologia

esterna dell’eritrocita, di molecole che mediano i processi di adesione degli eritrociti infetti alle cellule endoteliali dei vasi capillari di vari organi interni; tale processo, noto come “sequestro”, costituisce uno dei meccanismi patogenetici fondamentali della malaria grave da P. falciparum. I trofozoiti si nutrono digerendo l’emoglobina e metabolizzando il glucosio del sangue per glicolisi anaerobica. Il globulo rosso infetto aumenta di 50-100 volte il consumo di glucosio e produce acido lattico. La principale fonte nutritiva del parassita è rappresentata dall’emoglobina, che viene digerita nel vacuolo digestivo. L’eme, cioè la parte prostetica dell’emoglobina, non viene digerita e dà origine all’emozoina, un pigmento ferroporfirinico che si accumula sotto forma di granuli nel citoplasma dei parassiti. Il parassita va quindi incontro a una serie di divisioni nucleari a formare lo schizonte eritrocitario, che contiene un numero variabile di nuclei in rapporto alla specie. In P. falciparum gli schizonti eritrocitari possono contenere fino a 24 e in alcuni casi 32 merozoiti, mentre sono 12-18 in P. vivax, 8-10 in P. ovale e 6-8 in P. malariae. Al termine della schizogonia eritrocitaria l’eritrocita va incontro a lisi, i merozoiti vengono liberati nel torrente circolatorio e penetrano in altri globuli rossi e la riproduzione schizogonica riprende ciclicamente. La lisi degli eritrociti è generalmente sincrona e avviene a intervalli di 48 ore nel caso di P. falciparum, P. vivax e P. ovale e di 72 ore in P. malariae causando gli accessi febbrili tipici delle cosiddette terzane maligne (P. falciparum) e benigne (P. vivax e P. ovale) e delle quartane (P. malariae). Dopo un numero variabile di cicli schizogonici eritrocitari, una frazione dei merozoiti si differenzia in forme sessuate dette macro- e micro-gametociti [7], che rappresentano gli stadi infettanti per la zanzara, che si infetta dunque esclusivamente a seguito dell’ingestione, durante il pasto di sangue, degli stadi sessuati del protozoo [8]. Nel vettore avviene la fase sessuata del ciclo biologico dei plasmodi, detta fase sporogonica [C]. Nell’intestino medio ha luogo la fecondazione con formazione di uno zigote diploide [9], che dopo circa 24 ore si differenzia in uno stadio dotato di capacità di penetrazione nello spessore della parete intestinale dell’anofele, detto oocinete [10]. A seguito di una divisione meiotica e di una serie di divisioni mitotiche si forma un’oocisti di dimensioni di circa 40-80 µm contenente migliaia di sporozoiti [11]. Alla rottura dell’oocisti [12] gli sporozoiti si riversano nell’emolinfa presente nelle cavità celomatiche della zanzara e migrano in varie direzioni raggiungendo tra i vari organi le ghiandole salivari. A questo livello, mediante meccanismi di riconoscimento molecolare di tipo recettore-ligando, gli sporozoiti aderiscono specificamente alla superficie delle ghiandole salivari invadendole. Una volta all’interno di quest’organo, gli sporozoiti si accumulano inizialmente nei vacuoli secretori delle cellule salivari e successivamente si dispongono a raggiera intorno al dotto salivare, da dove vengono inoculati nel torrente circolatorio dell’ospite vertebrato nel corso dei successivi pasti di sangue. Poiché in una zanzara possono svilupparsi talvolta anche alcune decine di oocisti, le ghiandole salivari possono arrivare a contenere migliaia di sporozoiti. La durata del ciclo sporogonico varia in relazione alla temperatura esterna e alla specie plasmodica. A 28 °C il ciclo sporogonico ha una durata di circa 8-10 giorni per P. falciparum e P. vivax, 12-14 giorni per P. ovale e 14-16 giorni per P. malariae. Al di sotto di una certa temperatura (18 °C per P. falciparum e 16 °C per P. vivax) il ciclo sporogonico si interrompe. Il fatto che la durata del ciclo sporogonico vari in rapporto alla specie plasmodica e, all’interno di ciascuna specie, in relazione alla temperatura esterna, ha importanti implicazioni nell’efficienza di trasmissione e nella distribuzione geografica delle quattro specie. Ad esempio, a parità di condizioni di temperatura esterna, P. falciparum e P. vivax vengono trasmessi con maggiore efficienza data la più alta probabilità che il vettore sopravviva per il tempo necessario al completamento del ciclo sporogonico che è più breve per queste specie che per P. ovale e P. malariae.

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Parassitologia medica

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Patologia/Sintomi

Il quadro clinico di malaria è determinato dagli stadi eritrocitari del parassita. Le fasi schizogoniche epatiche, corrispondenti al cosiddetto periodo di pre-patenza, che culminano con la lisi degli epatociti infetti e il passaggio dei merozoiti nel torrente circolatorio, sono asintomatiche. Il periodo di incubazione varia in rapporto alla specie ed è di 9-14 giorni per P. falciparum, 12-17 per P. vivax, 16-18 per P. ovale e 18-40 per P. malariae. Il grado di patogenicità è variabile rispetto alla specie, essendo P. falciparum l’unico plasmodio in grado di provocare quadri clinici potenzialmente letali. Nelle infezioni da P. vivax, P. ovale e P. malariae il quadro clinico è quasi sempre benigno ed è dominato da accessi febbrili con cadenza di 48 ore per le prime due specie (febbri terzane benigne) e di 72 ore nel caso di P. malariae (febbre quartana). Molto rare sono le complicazioni nel corso di queste infezioni, con possibili quadri di anemia grave nelle infezioni da P. vivax e di insufficienza renale nelle infezioni croniche da P. malariae. Il quadro clinico dell’infezione da P. falciparum varia in relazione a molti fattori: essa può decorrere in modo asintomatico nei soggetti semi-immuni, può provocare accessi febbrili semplici simili a quelli osservati nelle infezioni da P. vivax, P. ovale e P. malariae, fino a determinare forme di malaria grave dominate da coma, anemia, insufficienza respiratoria con possibile decesso del paziente. Schematicamente si possono distinguere tre categorie di fattori che intervengono nel determinare lo spettro di possibili esiti clinici della infezione da P. falciparum:

• fattori del parassita, come il grado di sensibilità ai farmaci, il ritmo di moltiplica-

zione, le vie di invasione del globulo rosso, il grado di citoaderenza degli eritrociti infetti agli endoteli dei capillari degli organi interni, la tendenza a formare rosette (ammassi di globuli rossi) nel sangue periferico, il polimorfismo antigenico; • fattori dell’ospite, quali il livello di immunità anti-malarica, il background genetico, l’età, la gravidanza, la presenza di co-infezioni; • fattori socio-economici, come la disponibilità di farmaci anti-malarici e l’accesso a strutture sanitarie efficienti. L’evoluzione verso forme cliniche di malaria grave può avvenire, come detto, solo nelle infezioni da P. falciparum. Si definisce malaria grave un’infezione associata a uno o più dei seguenti sintomi e segni clinici: coma (con assenza di risposte motorie intenzionali a stimoli dolorosi), convulsioni generalizzate (più di due crisi nelle 24 ore); anemia grave normocromica normocitica (ematocrito