Primavalle incendio a porte chiuse

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Primavalle incendio a porte chiuse

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Primavalle incendio a porte chiuse

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Nota dell'editore Questo libro, frutto del lavoro di un Collettivo di «Potere Operaio», è stato presentato all'editore completo di un giudizio politico che rispecchia le posizioni di tale gruppo. L'editore, per rispettare l'impostazione documentaria e controinformativa del volume e, su questa base, sottolineare come la battaglia in difesa di Achille Lollo e degli altri compagni ingiustamente accusati debba avere un carattere unitario, ha ritenuto opportuno pubblicare il documento politico di «Potere Operaio» in un opuscolo separato. Hanno contribuito alla realizzazione di questa «controinchiesta» un gruppo di giornalisti democratici.

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La montatura sull'incendio di Primavalle non si presenta come il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo «Strage di Stato». «Primavalle» è piuttosto una trama costruita affannosamente, a «caldo» da polizia e magistratura, un modo di sfruttare un'occasione per trasformare un banale incidente o un oscuro episodio — nato e sviluppatosi nel vermicaio della sezione fascista del quartiere — in un occasione di rilancio degli opposti estremismi in un momento in cui la strage del giovedì nero con l'uccisione dell'agente Marino — avvenuta a Milano 3 giorni prima — ne aveva vanificato la credibilità. Su questa base, risultato di un lavoro di indagine e di analisi condotto sugli atti istruttori e di controinformazione nel quartiere, è impostato il lavoro di questo libro. Vi è infatti messo in luce il ruolo ambiguo e contraddittorio degli stessi protagonisti-vittime, la situazione di aperto contrasto della sezione fascista divisa tra ordinovisti e almirantiani, il peso giocato dall'alta dirigenza del MSI, la funzione della polizia che ha occultato prove, nascosto testimoni e si è servita dei suoi stessi agenti per fornire testimonianze false e devianti, l'avallo della magistratura che ha permesso che si condensassero false piste fornite dal MSI e indagini pretestuose della polizia. Manca nel libro una parte dedicata specificamente alla difesa dei compagni sotto il profilo tecnico-giuridico perché il compito che a .noi spettava è la impostazione della difesa politica: e questa si misura con lo smantellamento dell'istruttoria, il chiarimento dei meccanismi di provocazione e degli scopi politici dell'operazione. Questo lavoro, fatto da militanti, è diretto ai militanti. Gli autori

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Una lettera di Riccardo Lombardi Roma, 15 gennaio 1974

Caro compagno Lollo, non ci conosciamo di persona e tuttavia consenti che io ti chiami compagno, perché nel campo della sinistra non di comodo riconosco le differenziazioni politiche anche profonde (e fra queste, quelle che esistono tra noi due), ma non la discriminante che considera eresia l'errore eventuale; cioè comprendo, per principio, nel campo della sinistra tutti coloro che, anche con motivazioni diverse e con obiettivi intermedi differenziati, si battono concretamente per trasformare un sistema sociale di classe. La mia lettera non pretende di recarti altro aiuto che una manifestazione di solidarietà e la sola cosa che ti domando è di non considerarla una ipocrisia per salvare l'anima. Seppur non conoscendoci di persona, ti scrivo per dirti che il tuo arresto, la sua motivazione e l'incriminazione, per le condizioni in cui si svolsero ed indipendentemente da ciò che i diversi organi di stampa hanno pubblicato a tuo favore o contro di te, mi sono apparsi sin dal primo momento estremamente ambigui e rivelatori di una mentalità e di un proposito, conscio o inconscio, di vendetta di classe. Cioè, per essere precisi, a suscitare i miei dubbi è stata la considerazione della impareggiabile occasione («divina sorpresa!») che il tuo arresto e la tua incriminazione offriva, nel momento in cui la sistematica violenza nera si era rivelata a tanti dubbiosi, per accreditare una violenza «compensatrice» di sinistra e così... pareggiare i conti.

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Perciò ho ritenuto mio dovere di militante e di parlamentare farmi una idea personale di ciò che era avvenuto, ricordando scrupolosamente tutte le possibili informazioni, esaminando nella misura in cui ho potuto (e non è stata indifferente) le risultanze delle perizie (considera che ho fatto per 30 anni l'ingegnere) e sullo sfondo, le vicissitudini, di carattere procedurale attraverso cui la tua posizione si invischiava in un viluppo confuso, tendente a rendere oscure e dubbie le evidenze che pur sono indiscutibili: le evidenze, voglio dire, della tua innocenza e della mostruosa esiguità delle presunte prove che hanno portato alla tua imputazione. E' per questa sicura coscienza, che tu sei innocente (e non, come qualcuno suggerisce, colpevole solo di un errore), che io ho sentito e sento obbligatoria la solidarietà che ho manifestato genericamente anche prima, ma che oggi riconfermo. Comprendo bene che, almeno in questa fase, siamo tutti relativamente disarmati, data la costituzione autonoma della Magistratura, la insindacabilità da parte del Parlamento, la scarsa risonanza - fra tanto tumulto di tragedie in Italia e nel mondo - delle manifestazioni politiche. Tuttavia, non è detto che quello che si può fare e si fa, se anche sprovvisto di immediate conseguenze, se anche non può individualmente giovarti (e forse anche ti nuoce perché esaspera certe mentalità persecutorie) non giovi alla collettività nazionale, contribuendo a fare del caso individuale «Achille Lollo» un caso più generale di lotta di classe, esercitata attraverso i poteri pubblici.

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Perciò è necessario seguire la tua vicenda in sede giornalistica e politica, dandole la necessaria risonanza prima e durante il processo. Da questo punto di vista, potrai contare anche sul mio modesto impegno, raccomandando anche ai tuoi legali di tenere permanentemente informati partiti e giornali di quelle vicissitudini, in modo, per esempio, che fin da oggi appaia chiara, come non sempre lo è stata, la stranezza dell'insabbiamento alla istanza di scarcerazione e anche dell'intenzionale trasformazione di un collasso cardiaco in malattia psichica (che anche in Italia si pensi con interesse all'uso politico degli ospedali psichiatrici?). Compagno Lollo, questa mia lettera non può né poteva avere conclusioni. Incoraggiarti a resistere alla persecuzione, a tenere saldo e vigoroso l'animo mi pare superfluo, anche se questa esortazione ti viene da chi, in una lunga milizia, si è trovato a contare soprattutto sulla salvaguardia della sua costituzione morale e mentale. Desidero solo, se lo credi, che di questo mio modestissimo atto di solidarietà, tu informi tuo padre che non conosco, ma che so provato a sua volta duramente dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti. Ti saluto con viva cordialità. Riccardo Lombardi La lettera è una raccomandata, su carta intestata della Camera dei deputati e indirizzata al carcere di Rebibbia. E' stata vistata dalla censura carceraria, di cui reca ben visibile il timbro.

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Primavalle è rossa

Nella borgata romana più povera ventimila lire al mese di reddito, le sinistre raccolgono il 60 per cento dei voti. Il quartiere ha vissuto grandi momenti di lotta proletaria. Ai fascisti resta solo la malavita.

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Dicono che Primavalle è un ghetto. Un aggregato di miserabili senza coscienza e senza speranza. Un mondo di reietti condannati o all'avvilimento e alla rassegnazione, o alla deviazione criminale. Un campo chiuso all'impegno politico, dove soprattutto la sinistra non può essere presente. Questa diagnosi è smentita dalla realtà. Essa non trova conferma in nessun elemento oggettivo. Primavalle non è un ghetto : è un quartiere rosso in cui la sinistra raccoglie il 60 per cento dei voti. Il PCI è il partito egemone con una solida tradizione di organizzazione e di lotta. E da almeno due anni la sinistra rivoluzionaria, attraverso una serie di lotte significative, vi ha conquistato un suo spazio e creato una sua organizzazione, diventando un punto di riferimento per i proletari. Questo quartiere è una città. Contando anche la zona di Torrevecchia, ormai saldata al quartiere, ci abitano 140.000 persone: quante ne vivono a Monza o a Pavia. Nella Primavalle vera e propria, su un'area di appena 190 ettari, abitano 80.000 persone: la popolazione di Varese. Ma questa città è anche un inferno: 4.200 persone per un chilometro quadrato: uno degli indici di densità demografica più allucinanti d'Italia. Una strada fra due piazze, manciate di baracche, livide casermette dell'Istituto Case Popolari, qualche palazzina della speculazione edilizia, 32 lugubri lotti con in mezzo qualche superstite lingua di terra zellosa, una ragnatela di stradine sfossicate che non portano in nessun posto: è uno dei paesaggi più spettrali e disumani della cinta periferica romana. I lotti sono 32. Costruiti per durare dieci anni, sono abitati da quaranta. I peggiori sono i primi diciotto, dove abitano 4.000 famiglie, quasi 20.000 persone. E' vero che pagano un affitto irrisorio

14 (tremila lire al mese), ma in cambio, nei lotti 1, 15, 16 e 17, hanno a disposizione una sola stanza, una cucina di un metro per un metro e un gabinetto anche più piccolo, dove non c'è che la tazza e un lavandino. Come tutte le borgate di Roma, anche Primavalle è un prodotto del fascismo. Incominciarono a costruirla negli anni Trenta con un duplice obiettivo: premiare la speculazione edilizia e imprigionarvi gli sfollati dello sventramento del centro storico. Edificata su un'area esclusa dal perimetro del piano regolatore del '31, vi fu permesso fin dall'inizio qualsiasi sopruso speculativo. Come alla Gordiani, a San Basilio, ad Acilia, al Trullo e al Quarticciolo, vi furono deportate migliaia di persone «scomode», in gran parte provenienti dai vecchi quartieri storici di Borgo, di Ponte e di Monti. Nulla meglio di una dichiarazione resa nel '36 dal portavoce del governatore di Roma, Boncompagni Ludovisi, illustra il carattere autoritario e repressivo di questa presunta operazione di bonifica. «Occorre trasportare - disse quel portavoce — tali famiglie di irregolare composizione e di precedenti morali non buoni... su terreni di proprietà del governatorato, siti in aperta campagna e non visibili dalle grandi arterie stradali, ove sarebbe loro concesso di costruire le abitazioni con i materiali e i manufatti abbattuti sotto la sorveglianza di una stazione di reali carabinieri e di milizia volontaria di sicurezza nazionale». Oggi Primavalle è la più povera delle borgate romane. Il reddito procapite, secondo i calcoli del Comune, è di 290.000 lire annue: persino dove prevalgono i baraccati si guadagna di più. E' forse il reddito più basso d'Italia, sensibilmente inferiore a quello della Calabria, che è la regione più povera. La disoccupazione raggiunge il 20 per cento della forza-lavoro. Ma al di là di questo dato, ci sono i vari gradi della sottoccupazione: imbianchini, piccoli artigiani, ambulanti, straccivendoli, trasportatori in proprio, mendicanti. I più fortunati sono muratori, impiegati comunali, poliziotti e netturbini. Davanti al bar principale, proprio davanti alla chiesa, decine dì uomini, ogni mattina aspettano che arrivi qualcuno a offrirgli una giornata di lavoro. A questo stato di cose si è giunti attraverso una storia che, come quella di molti altri quartieri romani, è la storia dell'immigrazione di migliaia di proletari, legata alle fasi alterne del ciclo dell'edilizia. E' questo il fattore che ha consentito, nonostante la miseria e la disgregazione, un accumulo di esperienze politiche e la nascita di quella forte disponibilità alla lotta che è il tratto fondamentale di questo tessuto proletario.

15 La continua mobilità da un luogo e da un settore di lavoro all'altro ha permesso agli operai che oggi vivono a Primavalle di attraversare molte e diverse esperienze politiche. E' stato un lento processo di formazione e di crescita: le stesse condizioni materiali di vita e di lavoro ne hanno favorito lo sviluppo, la ristrutturazione del settore edile e la meccanizzazione del lavoro ne hanno provocato l'approfondimento. E' così che nei quartieri proletari hanno potuto affermarsi forme di lotta e di organizzazione che muovendo dal cantiere tentano di allargarsi per assumere una dimensione territoriale. In questo modo, a Primavalle, si è giunti a significativi momenti di lotta che hanno determinato la crescita del processo organizzativo. Il risultato più alto resta in tal senso la creazione del comitato operaioedile del quartiere, sorto attraverso le lotte per il rinnovo del contratto edile del 1972. Il comitato, infatti, nasce come strumento di coordinamento dei cantieri della zona Roma-Nord, ma ha due poli di riferimento: da un lato, l'assemblea degli operai dei cantieri; dall'altro, l'area di concentrazione proletaria, fortemente omogenea, compresa nelle tre borgate di Primavalle, Casalotti e Montespaccato. L'organizzazione operaia ha trovato in questo comitato un punto di raccordo e di moltiplicazione. Esso ha consentito l'apertura di nuovi canali di informazione. Ha permesso la diffusione di obiettivi di lotta più omogenei, calibrati a situazioni specifiche di cantiere. Ne è sorto tutto un nuovo potenziale di organizzazione e di lotta. E' intorno a questo centro che si cerca di unificare gli obiettivi più generali: quelli rivolti contro l'attacco alle condizioni materiali di vita. Intorno a questo strumento organizzativo ormai si coagulano, a Primavalle, altri momenti fondamentali di lotta: per la casa, per la creazione dei comitati di lotto, per la creazione del comitato di quartiere, per gli indispensabili servizi sociali. Cresce in tal modo il livello organizzativo, e con esso la capacità di rispondere e contrattaccare il disegno padronale di indebolire la forza raggiunta dagli operai nelle fabbriche e nei cantieri. Le assemblee nei cantieri con gli operai del Comitato; i cortei di zona per il rinnovo del contratto edile (come quello del 31 luglio 1972, che vide migliaia di operai e proletari in piazza le occupazioni di case nel novembre 1971: ecco alcune delle tappe principali del programma di intervento portato avanti dalla sinistra rivoluzionaria, e in particolare da Potere Operaio, Lotta Continua, Viva il Comunismo.

16 Raggiungendo questi obiettivi, le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria hanno anche potuto porsi alla testa delle lotte degli studenti del liceo Castelnuovo e dell'istituto tecnico Genovesi. Da queste lotte — che si sono articolate in vario modo: blocco della didattica, lavoro continuo nei collettivi, assemblee, cortei insieme agli edili e ai proletari — è emersa la figura dello studente-lavoratore. Una figura sociale, cioè, che al di là della sua connotazione studentesca, porta con sé bisogni ed interessi materiali omogenei a quelli del proletario e dell'operaio. Ed è in questo tipo di studente, che è stato riconosciuto l'elemento direttivo intorno a cui ricomporre, nell'omogeneità degli interessi materiali, la totalità degli studenti. Il Castelnuovo (il «liceo rosso») è dal '70 la scuola romana più avanzata sul terreno della lotta e dell'organizzazione. Il Genovesi — un istituto tecnico frequentato prevalentemente da studenti proletari della zona — è diventato a sua volta, negli ultimi anni, un punto di riferimento per tutto il quartiere. A ciò si è giunti attraverso una serie di lotte sui problemi materiali degli studenti. L'occupazione dell'istituto, nel dicembre del '72, contro i costi dello studio e l'organizzazione della didattica, è stato il capitolo più importante. E' dunque evidente che Primavalle non è un ghetto di gente passiva e avvilita. Il tentativo di imprigionarvi, per neutralizzarla, la rabbia di migliaia di proletari e di operai, non è riuscito. Avrebbe dovuto essere un luogo di segregazione; è invece diventato un luogo in cui studenti ed operai lottano uniti: uno dei punti più avanzati della «cintura rossa» intorno a Roma. Ne consegue che a Primavalle non c'è spazio per i fascisti. Ridotti a una sparuta minoranza, divisi al loro interno, i fascisti, a Primavalle, non sono soltanto isolati, ma completamente ignorati. E i proletari sanno benissimo che la loro presenza nel quartiere è un fatto «artificiale», voluto e tenuto in piedi per un unico scopo: tentare di spezzare la lotta operaia. Soprattutto nel quartiere proletario, il ruolo dei fascisti è quello di incrinarne la coesione e l'omogeneità sociale. Le loro armi preferite, come sempre, sono la violenza cieca, il ricatto, la provocazione. Ma contro questi metodi, e contro l'ideologia che li giustifica, i proletari, gli studenti, i militanti della sinistra rivoluzionaria hanno sempre lottato togliendo loro ogni possibile spazio. Ai fascisti resta solo un'area di manovra: quella offerta dalle frange più isolate e ricattabili del sottoproletariato: una zona di

17 malavita, anch'essa isolata e divisa che i fascisti sfruttano per taglieggiare i piccoli commercianti della zona, e per organizzare azioni squadristiche nelle zone circostanti e più «sicure» di Monte Mario e di Boccea. Tutte queste attività, per altro limitate, fanno capo a un gruppo fascista di Boccea, la famiglia Quintavalle: elementi dediti al reclutamento di picchiatori e coinvolti in un traffico di armi di cui tirano le fila nella zona. Collegati a questa famiglia, con l'appoggio degli squadristi legati a Bruno Di Luia, sono poi i piccoli rackets della borgata, sorti grazie alla connivenza benevola del commissariato di zona. La realtà di una presenza politica organizzata di classe ha trovato una conferma nella risposta che i proletari di Primavalle hanno saputo dare non appena fu montata contro i militanti di Potere Operaio l'accusa di aver causato l'incendio a casa del segretario della sezione fascista. La reazione è stata immediata ed è subito sfociata in una grande manifestazione: quel corteo del 25 aprile con cui gli operai e studenti hanno percorso le strade del quartiere al grido di «Liberiamo Lollo» e «Primavalle rossa». Risposte altrettanto significative sono state Castelnuovo, il lavoro di controinformazione manifestazioni di denuncia. Una risposta è anche questo libro.

le assemblee nel quartiere,

al le

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La sezione Giarabub Nella sezione Giarabub di Primavalle si riproducono tutte le lotte di potere tra i fascisti del Msi. Mario Mattei ne ridiventa il segretario strappandola ai duri di "Ordine Nuovo": tensioni e rivalità che sfociano in una clamorosa rissa il giorno prima dell'incendio.

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A Primavalle, in via Svampa 17, c'è la sezione Giarabub del MSI-DN, una sede isolata e malvista dai proletari del quartiere, che — forti di una solida tradizione comunista — non hanno mai lasciato spazio ai fascisti ed alle loro attività. Ma la sezione di via Svampa non è tranquilla nemmeno nel suo interno: risulta che liti e dissensi siano sempre stati all'ordine del giorno, specialmente negli ultimi tempi. Le conferme a questo clima di tensione vengono anche dagli stessi fascisti. Anna Schiaoncin (1), per esempio, ha parlato di due opposte correnti: i «falchi», legati agli ultras di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, e le «colombe» almirantiane. Dalle sue dichiarazioni si ricava che la situazione, dopo continue liti e spaccature, si è stabilizzata nel 1971. E' un anno importante, questo, per le vicende dei fascisti nella zona. La federazione romana del MSI decide, infatti, di seguire una prassi consolidata dacché molte organizzazioni periferiche del partito si sono dimostrate troppo «sporche» ed avventurose, e chiude la sede del quartiere Boccea. Gli appartenenti, legati ad Ordine Nuovo, si erano imbarcati in azioni di violenza troppo pericolose e, soprattutto, troppo difficili da difendere e da coprire (2) . Da Boccea, la maggior parte degli iscritti si trasferisce, allora, a Primavalle, mentre Mattei e i suoi seguaci se ne allontanano per un anno, preferendo alle riunioni ufficiali in sezione i convegni ufficiosi in un bar della zona. Ma, caduta in mano ai «falchi», la sezione ebbe vita difficile, fino ad essere chiusa. Per riaprirla fu chiamato proprio Mario Mattei.

1) Dall'intervista pubblicata il 18 aprile sul «Messaggero». 2) Gli ultras si erano imbarcati, con la famiglia fascista del Quintavalle, in operazioni di traffico d'armi e nella organizzazione di piccoli «racket» locali di taglieggiamento dei commercianti.

22 Ed era logico che questo nuovo segretario, reintegrato nella carica nel segno della «normalizzazione», non avesse vita facile. Dice, infatti, ancora la Schiaoncin: «...ce l'avevano con Mario Mattei, che è troppo buono. Lo rimproveravano di essere contrario alla violenza. Perché lui, Mario, diceva sempre no quando loro volevano imbarcarlo in qualche impresa violenta o volevano spingerlo a reagire alle provocazioni dei "rossi"... Il loro scopo era quello di far chiudere la sezione. Hanno cercato in tutti modi di buttarlo giù, e non ci erano mai riusciti. Solo ora ci sono riusciti, colpendogli i figli» (3). Di questi contrasti all'interno della sezione MSI di Primavalle c'è abbondante traccia anche negli atti ufficiali: Alessio Di Meo, di Ordine Nuovo, netturbino e diretto superiore dello spazzino Aldo Speranza, conferma di «rimproverare al Mattei una linea politica troppo remissiva» e parla specificatamente di una non meglio precisata discussione, nel corso. della quale egli mise il Mattei di fronte alla necessità di «fare una controffensiva per evitare le continue aggressioni», giacché «il Mattei seguiva invece la linea del capo del partito, Almirante» (4). In realtà, però, tutto il quartiere sapeva degli screzi tra il Di Meo ed il Mattei, screzi che andavano assai al di là di semplici «discussioni». Dice, per esempio, lo spazzino Aldo Speranza, che tra i due esisteva un vero e proprio astio: «Due o tre mesi or sono dissi al Di Meo, anzi glielo dissi circa venti giorni fa quando ci fu il lancio delle "molotov" contro

3) Il brano è tratto ancora dalla stessa intervista pubblicata sul «Messaggero». Le dichiarazioni della Schiaoncin suscitarono grande clamore. Lei stessa tentò di smentirle, mentre «Il Messaggero» e i testimoni presenti al fatto le confermarono puntualmente; la Schiaoncin stessa, del resto, non querelò mai nessuno. Nell'intento di rovesciare le carte e almeno contenere gli echi suscitati dalle dichiarazioni al «Messaggero», la Schiaoncin venne nuovamente intervistata sul «Borghese» del 19 aprile. A proposito delle liti interne della sezione MSI di Primavalle, l'intervistatore le chiese: «Al centro dell'intervista al "Messaggero" c'è un racconto sulle vicende della sezione del MSI. Sono parole sue?» E la Schiaoncin rispose: «In gran parte si: il giornalista mi aveva detto molte cose su quello che era successo nella nostra sezione, ed io perciò ho cercato di specificare meglio». Con questo confermando, ed anzi rafforzando ciò che ella stessa aveva già ammesso. 4) Interr. del 22-4-73. Atti, vol. 5°, p. 44.

23 la sede del MSI, che "quelli" facevano sul serio (5). Il Di Meo mi disse: "le 'molotov' non le potevano gettare contro la casa di Mattei?"» (6). Lo stesso Speranza ammette che in quella sede missina non si verificavano soltanto delle «discussioni»; dice infatti: «Il Di Meo mi raccontò che meno di un anno fa ci fu una grossa lite in sezione, nel corso della quale il Mattei, Schiaoncin, la moglie di questi e la moglie di Mattei e Di Meo ed altre persone delle due correnti contrapposte si picchiarono reciprocamente. Ignoro però se tra questi ci fosse uno denominato "il traditore"» (7) Insomma, tra Di Meo e Mattei i rancori andavano ben oltre le divergenze ideologiche: Di Meo voleva diventare segretario della sezione, e non perdeva occasione per denigrare il responsabile della «Giarabub», accusandolo anche direttamente di nepotismo, perché «favoriva nelle cariche i propri parenti e cioè moglie e figli» (8). Di Meo, inoltre, aveva aderito a Ordine Nuovo e si vantava spesso di poter disporre di picchiatori fascisti molto noti, come Bruno Di Luia e Franco Fidanza. Questo lo conferma anche Vilfredo Zampetti, un altro iscritto della sezione, simpatizzante di Ordine Nuovo, il quale parla apertamente di Di Meo e di Fidanza come di dissidenti non più in linea con l'attività del partito da quando Mattei era divenuto segretario della «Giarabub». Ma Zampetti dice anche dell'altro: accusa il Mattei d'aver disgregato l'attività della sezione con le sue eccessive cautele, con la sua dedizione alla linea del «doppiopetto» di Almirante: «Da un paio d'anni molti iscritti hanno abbandonato la sezione; ciò è accaduto principalmente per il fatto che all'inizio della gestione Mattei le cose all'interno della sezione non andavano più bene. Si verificavano spesso discussioni animate, e anche liti specialmente per il fatto che la moglie di Mattei andava sparlando sul conto di molti iscritti e litigava con tutti» (9).

5) Parlando di «quelli», lo Speranza allude a non meglio precisati «cinesi». 6) Interr. del 9-4-'73. Atti, vol. 4°, p. 102. 7) Ibidem, p. 103 . 8) Interr. del 19-4-'73. Atti, vol. 4°, p. 102. 9) Interr. del 20-4-'73. Atti, vol. 5°, p. 45.

24 Ed infine le stesse cose sono ammesse dal vicesegretario della sezione «Giarabub», Mancini: «Questi di Ordine Nuovo credono di farci paura, ma quelli come me, vecchi camerati che hanno visto tempi peggiori, non hanno paura. Se non la piantano finirà come tra ebrei e palestinesi» (10). Da tutto questo quadro si possono trarre due considerazioni. La prima è che tra i fascisti di Primavalle esisteva una netta spaccatura, che rasentava il limite dell'odio più autentico fino ad assumere dimensioni imponenti e forme clamorose. Nella sezione Giarabub erano, cioè, esaltate al massimo le due caratteristiche venute alla luce nel MSI con la gestione di Giorgio Almirante: un perbenismo ufficiale e il fuoco che cova sotto le ceneri, pronto a riesplodere e, soprattutto, favorito e protetto dall'organizzazione «legalitaria» del partito. Ma il quadro dell'ambiente .offre anche l'impressione, errata, di un Mario Mattei «morbido» ad oltranza, quasi remissivo. E questo non è affatto vero. Se il segretario della sezione rifiutava lo scontro frontale, ciò è dovuto certamente più alle caratteristiche del quartiere di Primavalle (il sessanta per cento dei voti alle sinistre, due anni d'iniziativa e d'esperienza della sinistra rivoluzionaria), che non ai convincimenti personali ed alle caratteristiche dell'individuo. Se rifiuto dell'opposizione frontale c'è, è soltanto causato da motivi di necessità e di comodo. Mario Mattei, infatti, è noto per essere il pupillo di Alberto Rossi, ex pugile detto «il Bava», capo dei volontari nazionali, vale a dire dell'organizzazione paramilitare del MSI, ed è anche tra gli indiziati per il «golpe» di Junio Valerio Borghese. In più aveva delegato al figlio maggiore Virgilio, uno dei responsabili del cosiddetto «servizio d'ordine» del MSI a Roma, il compito di reclutare picchiatori per le azioni squadristiche da svolgere al di fuori del quartiere. Lo afferma anche un'amica di Silvia Mattei (figlia del Mario Mattei) che abita a Primavalle e lavora all'Onmi, la quale ha detto: «Virgilio era un feroce anticomunista, disposto a tutto pur di contrastare l'avanzata del comunismo».

10) Da un'intervista a «Paese Sera», pubblicata il 20 aprile.

25 E inoltre, a conferma di tutto ciò, vi è anche l'interessante scoperta dell'esistenza di uno sgabuzzino dei Mattei, sul terrazzo dello stabile di via Bernardo da Bibbiena 33, in cui tra l'altro venivano conservate tute mimetiche e catene di ferro che ben poco si accordano col volto del «doppiopetto» e della moderazione assunto dal Mattei (11). Al perbenismo ufficiale di Mattei si oppongono apertamente numerosi iscritti della sezione tutti legati a filo doppio con la sezione MSI di Boccea e quindi ad Ordine Nuovo. I «duri» della Giarabub sono Alessio Di Meo, Franco Fidanza, Antonio Pais, Vilfredo Zampetti, in stretto contatto con Piero Rocchini e con la squadra di picchiatori guidata da Bruno Di Luia. Ma vediamo ad uno ad uno chi sono questi personaggi che appaiono come i più stretti collaboratori dei fascisti implicati direttamente nella vicenda. Bruno Di Luia, 31 anni, fratello minore di Serafino Di Luia, implicato negli attentati ai treni dell'estate del '69, e poi nella Strage di Stato e non da meno del fratello per fede fascista. Nel novembre del '69, mentre il fratello è a Milano a fondare la sezione milanese di «Lotta di Popolo», Bruno viene segnalato a Roma, tra i partecipanti alla riunione promossa da Stefano Delle Chiaie, in un appartamento a Cinecittà. Tema della riunione: la ricostituzione di Avanguardia Nazionale. Sempre nel '69; insieme al fratello tenta di infiltrarsi nel Movimento Studentesco. E' in rapporto diretto con i pezzi grossi di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, come Giancarlo Cartocci, Adriano Tilgher, Saverio Ghiacci, Guido Paglia, Domenico Pilolli, ecc. E' a tutt'oggi, dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo, uno degli uomini di punta di Lotta di Popolo. A Boccea, tra gli «ultras», ricopre un ruolo i primo piano: laureando in legge, nel '71 diventa spazzino col compito di fondare una cellula di Ordine Nuovo nel deposito degli spazzini (12), e organizza le squadre dei picchiatori, tra cui spiccano Di Meo e Fidanza, suoi subalterni alla Nettezza Urbana, per le «azioni» da svolgere a Boccea e nelle zone circostanti. Oggi è istruttore ginnico al CUS di Roma.

11) L'esistenza dello sgabuzzino viene segnalata al magistrato dai difensori di Manlio Grillo. Il magistrato, però non troverà di meglio da fare che sigillare la porta e la finestra dello stanzino, senza ordinare mai una perquisizione (vedi Atti, vol. 1°, p. 255 e sgg.). 12) E' da ricordare che Ordine Nuovo ha una sezione tra i netturbini del Comune di Roma

26 Piero Bocchini, 22 anni, esponente di Ordine Nuovo nella sede di Boccea-Primavalle, amico intimo del Di Meo, con cui è stato visto spesso a Primavalle. Anche lui ha un «curriculum» che si commenta da solo. Si è distinto al «Virgilio», quando era studente, nelle azioni di pestaggio verso militanti della sinistra, e nella guida di squadracce fasciste contro le assemblee e gli scioperi nella scuola. E' stato arrestato nel '71 insieme a Elio Massagrande di Verona per vari attentati. Recentemente è stato processato, insieme ai maggiori responsabili di Ordine Nuovo, per tentata ricostituzione del Partito fascista. Bruno Pera, è un nome che compare nell'agenda di Mario Merlino. E' da sempre uno dei pupilli di Giulio Caradonna, e amico intimo di Poldo dei Medici, figliastro di Almirante, con cui divide una casa a piazza della Minerva 10 a Roma. Vive però a Boccea, dove è uno dei dirigenti di Ordine Nuovo. A Primavalle molti parlano di lui come di un. personaggio importante nella storia del MSI locale, e in qualche modo implicato nella vicenda del rogo. Un simpatizzante del MSI di Primavalle dice di lui: «Qui non ci sta più, ha rotto e se n'è andato; ora bazzica a Boccea». Mancini, il vicesegretario della sezione «Giarabub» ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Noi lo conosciamo per il passato: so bene che gente come lui ci fa più male che bene. Lo abbiamo cacciato via. Con lui non abbiamo più niente a che fare» (13). Ma vediamo la sua storia. Iscritto al MSI se ne comincia a distaccare nel '68, per diventare uno degli esponenti di Lotta di Popolo, e contemporaneamente tenta di infiltrarsi nel Movimento Studentesco. Nel '70 il suo nome appare tra quelli dei dirigenti nazionali della Giovane Italia (ora divenuta il Fronte della Gioventù) . Nel 1971 diventa vicesegretario provinciale della federazione giovanile romana del MSI, quando era segretario Poldo dei Medici. Dall'età di 14 anni, comunque ha frequentato assiduamente la sezione «Giarabub» a Primavalle, dalla quale però viene espulso nell'ottobre del '72, proprio da Mario Mattei, che lo accusa di essere un oltranzista. A Primavalle i camerati «missini» lo considerano apertamente un «nemico», e in particolare un nemico di Mario Mattei. Nella stessa zona, però, Bruno Pera è ancora molto amico di Di Meo e Fidanza. E questo è confermato nientemeno che dal dottor Provenza, che dice:

13) Intervista rilasciata a «Paese Sera» del 20 aprile.

27 «Abbiamo svolto indagini su di lui e sul suo amico Franco Fidanza, affinché nessuno possa dire che abbiamo svolto indagini a senso unico, solo a sinistra» (14). Nel gennaio del 1973 il nome dì Bruno Pera compare di nuovo tra quelli dei camerati maggiormente sulla breccia: è nel dossier, compilato da Lotta Continua, sulle azioni squadristiche nelle scuole. Questo l'ambiente fascista in cui si muovono i duri della «Giarabub», la maggioranza dei quali, d'altra parte - spazzini di professione — sono stati assunti alla Nettezza Urbana con gli appoggi di Michele Marchio, deputato e consigliere comunale missino e di Luigi Turchi, deputato neofascista. In questo torbido quadro, dunque, vanno collocati gli avvenimenti di cui ci occupiamo. E in questo torbido quadro si colloca anche un «attentato» che assumerà un ruolo fondamentale quando si tratterà di organizzare la montatura contro la sinistra e contro Potere Operaio (15). Una settimana prima, il giorno sette aprile viene incendiata l'automobile di Anna Schiaoncin. Sul posto viene trovata una tanica di plastica bruciacchiata, con un fondo di benzina e un tubo di ferro che, guarda caso, lo stesso marito della Schiaoncin dirà poi essere uguale a quello che fu scagliato contro la sezione missina in un precedente attentato. E poi anche un cartello, con tanto di firma. Un cartello che, come vedremo, avrà molta importanza: secondo gli inquirenti per quanto vi è scritto, secondo noi per le indicazioni implicite che contiene. Risulta dai verbali del commissariato che di questo cartello si parla soltanto tre giorni dopo l'attentato. La Schiaoncin spiegherà questo ritardo (16) affermando che il cartello fu ritrovato a circa sette metri dalla sua automobile e, ritenuto di scarso interesse per la polizia, non fu consegnato agli inquirenti, bensì portato in sezione. A ritrovare il cartello, sempre secondo le dichiarazioni di questa diretta interessata, sarebbe stato un netturbino, il quale, nonostante sia stato indicato al magistrato con tutte le sue caratteristiche somatiche e si conosca il nome del deposito dove lavora, non risulta

14) Dichiarazione rilasciata a «Paese Sera» del 21 aprile 1973. 15) E' da ricordare che circa un anno prima la macchina di un altro fascista era stata trovata bruciata. Si tratta del «camerata ordinovista» Alessio Di Meo. A proposito di questo «attentato» lo spazzino Aldo Speranza dirà: «Di Meo mi confidò in segretezza che la macchina l'aveva bruciata lui stesso d'accordo col Fidanza per l'assicurazione» (vedi Atti, vol 4°, p. 5). 16) Interr. del 4-5-'73. Atti, vol. 4°, p. 86 e sgg.

28 mai essere stato sottoposto ad interrogatorio, né tantomeno ad un confronto con la Schiaoncin (17). Ma andiamo oltre: la Schiaoncin afferma ancora che a consegnare il cartello alla polizia fu il segretario della sezione Mario Mattei, il quale lo portò al commissariato dopo che la sede missina 1'11 aprile, subì un attentato (18). Viceversa il commissario di PS di Primavalle, dottor Adornato, dichiara al magistrato (19) che il cartello fu consegnato non già da Mattei bensì dalla stessa Schiaoncin, e non già dopo l'attentato dell'undici aprile, bensì qualche giorno prima; specifica il funzionario di polizia che questo cartello arrivò al suo commissariato qualche giorno dopo l'attentato, ma prima dell'undici aprile. Adornato afferma anche che la Schiaoncin dichiarò di averlo trovato sul lunotto posteriore dell'auto bruciata. A tutto questo si può anche aggiungere la dichiarazione del netturbino Aldo Speranza, il quale afferma che:

17) La Schiaoncin dice specificamente: «... mentre le guardie controllavano la macchina. si avvicinò, a noi un netturbino di cui potrei fornire il nome perché lo conosco di vista, il quale teneva in mano un foglietto. Il netturbino informò la Polizia che aveva trovato lì vicino il foglietto ed indicò un punto a circa 5-7 metri dalla parte posteriore della Fiat 600; uno della polizia disse: «Ma che c'entra?» «Ma come! —disse il netturbino — la macchina bruciata! c'è questo foglietto che ho raccolto io stesso». Il pomeriggio dello stesso giorno, 4 maggio, la Schiaoncin compare dì nuovo davanti 'a Sica per riferire su una «indagine» che aveva svolto: «Sono comparsa spontaneamente per riferire che il netturbino che raccolse il foglietto di cui all'attentato subito da mio marito dovrebbe riprendere servizio lunedì... Non sono però riuscita a sapere il nome. E' un uomo sui 40 anni basso un po' grosso; addetto al deposito di via Pietro Bembo». (Atti, vol. 5° pp. 86-87). Notiamo che nessun poliziotto ha mai notificato di aver visto questo cartello. La polizia, quindi, non contenta di aver trascurato già precedentemente prove importanti, perfino quando si tratta di reperire un teste oculare non lo fa di persona, bensì lascia che sia la stessa Anna Schiaoncin a compiere le sue indagini personali. 18) Dice Schiaoncin, sempre il 4 maggio: «Il foglietto non tu consegnato immediatamente alla polizia. Infatti dopo che uno della polizia mi aveva detto: "Che c'entra con l'attentato?", un altro poliziotto me lo chiese, dato che il netturbino me lo aveva dato. Gli dissi che l'avrei consegnato volentieri dopo averlo fatto vedere al segretario della nostra sezione. Dissi anche che se lo volevano ancora più presto potevano venire a prenderlo direttamente in sezione. Non vennero però a prenderlo in sezione... Dopo qualche giorno ci fu un attentato alla sezione ed il foglietto venne consegnato alla polizia direttamente dal Mattei» (Atti, vol. 5°, p. 87). Ancora una volta è da notare l'«amichevole» rapporto instauratosi tra la polizia e la Schiaoncin, per cui la donna non solo sarà padrona di condursi le indagini come meglio crede, ma avrà anche piena autorizzazione a trattenere prove importanti, e a usarle come vuole. 19) Rapporto del Commissariato di PS di Primavalle, acquisito agli atti il 4 maggio 1973. Atti, vol. 2° fascicolo 3°.

29 «Uno o due giorni dopo l'attentato (quello subito dall'automobile della Schiaoncin) lo Schiaoncin mi disse che al palo della luce vicino alla macchina danneggiata c'era un foglietto dove erano scritte frasi minacciose, come "morte ai fascisti" o qualcosa di simile. Il foglietto io non l'ho visto» (20). Comunque sia, questo fantomatico cartello sarebbe costituito da un foglio a quadretti, sul quale con pennarello blu era scritto: «Contro i fascisti. Guerra di classe. Brigata Tanas». Il nome, come vedremo, tornerà alla ribalta qualche giorno più tardi, nell'attentato dell'il aprile. La scelta del nome Tanas, operaio comunista, ha lo scopo evidente di attribuire la responsabilità dell'attentato alla sinistra e in particolare a Potere Operaio, che fino ad un anno prima aveva intitolato all'operaio comunista Giuseppe Tanas, la propria sezione di Primavalle (21). Anna Schiaoncin, invece, a proposito di questa firma e del cartello dirà: «Ma quale Brigata Tanas. Non esiste nessuna Brigata Tanas!», e lascerà intendere che anche questo attentato è opera delle frange oltranziste (22). Come si è detto la stessa firma viene ritrovata un'altra volta a Primavalle, a distanza di quattro giorni dalla sua prima apparizione. L'11 aprile la sezione missina «Giarabub» subisce un attentato; sotto la finestra vengono ritrovati un detonatore, una miccia, e vari frammenti di un foglio di carta a quadretti, che, ricostruito, mostra una scritta identica negli slogan e nella firma a quella che sarebbe stata trovata, soltanto quattro giorni prima, a sette metri dall'automobile bruciacchiata degli Schiaoncin. L'unica differenza è che questa volta a vergarla a stampatello non è stato un pennarello blu ma una penna biro nera. In occasione di questo altro attentato avviene, però, anche la scoperta più incredibile e più indicativa: sul tavolo del segretario della sezione, Mario Mattei, sistemate in buon ordine, il commissario Adornato verbalizza di aver rinvenuto «numerose

20) Interr. del 8-5-1973. Atti, vol. 4°. 21) Giuseppe Tanas era un operaio comunista abitante a Primavalle e ucciso dalla polizia nel '49, durante uno sciopero generale in cui si verificarono scontri e sparatorie. Il nome Tanas fu cancellato dalla sezione di Potere Operaio perché la madre di Tanas, fedele militante comunista, si oppose a che il nome del figlio fosse assunto da una organizzazione esterna al PCI. Sopra la sede di Potere Operaio si legge chiaramente sotto la parola «Carraturo» (attuale nome della sezione) la parola «Tanas», cancellata. Vi era inoltre a Primavalle, un doposcuola a nome «Tanas» promosso dal Comitato di lotta per la casa. 22) Intervista rilasciata al «Messaggero» il 18 aprile, cit.

30 fotocopie» del cartello ritrovato vicino alla macchina degli Schiaoncin (23). Allora due sono le possibilità: o i fascisti di Primavalle non avevano dato importanza al cartello — come affermano — e per questo non l'avevano consegnato alla polizia (e allora non si capisce perché avrebbero dovuto farne decine di fotocopie), oppure ci troviamo di fronte ad una prima, gravissima provocazione Tutti questi avvenimenti, però, assumono contorni più precisi se rapportati con gli episodi che accadevano in quei giorni a Primavalle e nella stessa sede missina «Giarabub». Proprio allora, infatti, la tensione esistente tra «falchi» e «colombe» si andava facendo più acuta, ed esplodeva diverse volte in maniera abbastanza clamorosa. Ne parla uno degli «ultras», Vilfredo Zampetti, il quale ricorda che Mario Mattei, il giorno dopo l'attentato subìto dalla sezione, si scagliò violentemente contro gli aderenti al nucleo giovanile (di cui era segretario suo figlio Virgilio), accusandoli di essere gli esecutori materiali dell'operazione (24). E, come prova di quanto affermava, Mario Mattei citò un tascapane verde, lasciato sul luogo, che dichiarò di riconoscere per quello di un giovane aderente. Sono quelli giorni particolarmente difficili per il Movimento sociale italiano : a Milano il 12 aprile viene ucciso l'agente di PS Antonio Marino. Pochi giorni prima Nico Azzi ha fallito per poco il suo terribile attentato sul direttissimo Torino-Roma, che se fosse riuscito avrebbe causato la più grave strage del dopoguerra (un tecnico parlò di cento possibili vittime), e soprattutto si sarebbe risolto in una nuova montatura contro la sinistra rivoluzionaria. A questo scopo vengono infatti lasciati sul treno giornali di Lotta Continua e Potere Operaio. E proprio in quei giorni la sede missina di Primavalle è teatro di numerosi, continui e ripetuti attentati, che altro non fanno se non

23) Il rapporto del Commissariato è così concepito: «Si ritiene doveroso riferire che in occasione dell'attentato compiuto ai danni della sede del MSI... dell'11 aprile, lo scrivente entrato nei locali della sezione, ebbe modo di notare sul tavolo del segretario Mattei Mario, giunto sul posto, in quanto avvertito dal fatto dal personale di questo ufficio, alcuni fogli fotostatici riproducenti il foglio di cui sopra. E' verosimile quindi che la Menna Anna prima di versare il foglio in questo ufficio, abbia consegnato lo stesso al citato Mattei Mario, il quale ha provveduto a farlo riprodurre». Il rapporto è firmato dal Commissario capo di PS dottor Isidoro Adornato. 24) Interr. del 20-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 46.

31 acuire il divario tra chi cerca una «risposta fisica» immediata contro i «rossi» e chi invece propone soluzioni più «legalitarie» (25). Lo stesso Mattei, affermerà più tardi al magistrato: «il Lampis mi riferì che l'attentato con la "molotov" alla nostra sezione era stato fatto da giovani retribuiti con trentamila lire ciascuno» (26). Dagli atti non risulta, invece, una pur importante dichiarazione, per la quale esistono precise testimonianze, secondo le quali Mattei, nel corso di una violentissima lite, la stessa sera dell'undici, incolpò Angelo Lampis, dicendogli: «Questa volta la bomba l'avete messa voi. Non ho ancora le prove, ma la prossima volta che capita sei spacciato». E poi lo prese letteralmente a pugni. Sempre parlando dell'attentato dell'undici aprile, la moglie di Mattei, nel suo primo interrogatorio, dirà che sospettava fortemente del Lampis, soprattutto per le perfette descrizioni dell'ordigno che questi era stato in grado di fare, pur soltanto esaminando i residui dell'avvenuta esplosione (27). Analogo, ma ancor più circostanziato sospetto viene dichiarato al giudice dalla moglie di Mattei per quanto riguarda un altro attentato, subìto circa un anno prima dalla sezione (28). Dunque, accuse e liti sono all'ordine del giorno, nell'aprile del '73 alla sezione missina di Primavalle. Il giorno 14, poi, le cose vanno ancora peggio del solito: si arriva infatti ad una vera e propria

25) Nella settimana immediatamente precedente il rogo, la sezione subisce molti attentati: il 5 aprile viene presa a sassate; il giorno seguente contro la porta vengono lanciate bottiglie Molotov, mentre il 9 aprile una fitta sassaiola colpisce la saracinesca ; il giorno 10, ancora bottiglie Molotov e ammoniaca, e — infine — 1'11 aprile il detonatore, la miccia, il cartello. 26) Interr. del 18 aprile. Atti, vol. 5°, p. 30. 27) Anna Maria. Mattei dice nell'interrogatorio del 26 aprile: «Altra cosa che mi insospettisce circa il comportamento del Lampis, è la perfetta conoscenza che lo stesso ha dimostrato di avere dei residui delle bombe scoppiate alla sezione. Infatti sia l'anno scorso... sia ultimamente, allo scoppio verificatosi in sezione, il Lampis dopo un sommario controllo ai residui rimasti sul luogo dello scoppio è stato in grado di dare una descrizione, a mio giudizio, esatta se non addirittura perfetta». 28) «Circa un anno fa subimmo il primo attentato alla sezione... rammento che , all'esterno della porta fu rinvenuto una specie di cestello metallico che conteneva un recipiente di vetro rotto. Il Lampis esaminò brevemente l'oggetto e poi disse un nome tecnico... a proposito del liquido contenuto. Poco dopo venne l'artificiere Scrofani che esaminò l'oggetto e... disse qual era la composizione combustibile, che era esattamente quella indicata prima dal Lampis. Rimasi sbalordita dalla coincidenza e ne parlai con mio marito. Cominciammo a stare attenti nei confronti di Lampis» ( Interr. di Anna Maria Mattei del 17 aprile 1973. Atti. vol. 5°, p. 17).

32 rissa tra camerati. La lite scoppia tra Mario Mattei e Vilfredo Zampetti, esponente dei «duri», sospeso oltre un anno prima dalla federazione romana, su denuncia dello stesso Mattei. La sera del giorno 14 dunque, lo Zampetti viene attaccato dalla moglie di Mattei, Anna Maria Macconi, come un provocatore; lo Zampetti minaccia di denunciare tutto alla federazione, e Mattei in risposta lo prende a pugni. Intervengono altri loro camerati, il Mattei viene bloccato e lo Zampetti buttato fuori. Questo almeno è quanto emerge dall'esame degli interrogatori, ma altre testimonianze provenienti dallo stesso quartiere parlano di punte di dissenso ancor più accese: il Mattei in quella occasione se la prende non soltanto con un iscritto, ma con tutto il gruppo dei dissidenti, arrivando a minacciare di lasciare il partito. B.F., un giovane che abita non lontano dalla sezione missina afferma di aver sentito, proprio quella sera, «urla e grida, come di gente che litiga» che provenivano dalla «Giarabub», e di avere udito anche il Mattei gridare contro qualcuno, intimando di portar via qualcosa (ma che cosa?) dalla sezione. Forse, affermano altri testimoni, si trattava di far sparire dai locali del partito materiale dattiloscritto e ciclostilati degli oltranzisti. Ce n'è dunque a sufficienza per affermare che la sede fascista di Primavalle è stata, da molto tempo a questa parte, una delle meno tranquille, ed anzi dilaniata da lotte interne sempre più accese. Ed anche per credere che alcuni di questi attentati, davvero troppo «strani», altro non erano se non l'ultimo atto di una violenta faida interna. L'ultimo atto? o non l'ultimo?

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Il fatto L'incendio scoppia ufficialmente alle 3,27 della notte tra domenica 15 e lunedì 16 aprile — tre giorni dopo l'assassinio dell'agente Marino a Milano — nell'abitazione di Mario Mattei, segretario della sezione missina di Primavalle a Roma. Come vedremo, però, l'orario è tutt'altro che certo. Il fuoco è molto violento e si sviluppa da una tanica di benzina che diverrà molto importante — durante le indagini — collocare da qualche parte. Mario Mattei si mette in salvo con due figlie, calandosi dalla finestra della cucina. Sua moglie, Anna Maria Mattei è la prima a lasciare l'appartamento in fiamme, attraverso la porta d'ingresso, con i due bambini più piccoli. Moriranno invece due figli maschi dei Mattei, Stefano e Virgilio, bloccati nella loro stanza: è infatti lì che l'incendio si sviluppa con maggiore violenza. L'allarme è rapido e le indagini partono immediatamente. Alle 3.40 il sostituto procuratore di turno, Domenico Sica, è già intento ad interrogare in un'ambulanza della Croce Rossa la moglie di Mattei Questa, consegna al giudice i resti di un cartello minatorio: c'è scritto «Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria». L'attentato, dunque, sarebbe «firmato» ma chi, dove e come abbia trovato questo cartello, resta un mistero. Le indagini, comunque, puntano subito a sinistra: appena poche ore dopo l'incendio i missini Di Meo e Fidanza informano la polizia che il netturbino Aldo Speranza «sa tutto» sulla faccenda. Speranza è convocato in mattinata, ma la sua deposizione (almeno la prima) non risulta utile alle indagini. Nella stessa mattina viene messo sotto torchio Angelo Lampis, un missino della stessa sezione di Mattei che era solito preannunciare gli attentati: un interrogatorio che durerà undici ore. Nel pomeriggio, il procuratore generale Carmelo Spagnuolo si sente già in grado di assicurare che «si è sulla buona strada».

34 All'indomani Anna Schiavoncin. detta «Anna la fascista» moglie di un attivista missino di Primavalle, in una clamorosa intervista al «Messaggero» parla di faide interne, dell'esistenza di spie e «traditori», della possibilità che l'attentato sia .dovuto ai «duri» della stessa destra. A sera viene arrestato per reticenza Aldo Speranza che aveva fatto due nomi: Achille e Marino, e poco dopo il giudice firma i mandati di cattura per Achille Lollo e Marino Sorrentino. Nella stessa notte, Lollo viene arrestato in casa sua. A dieci giorni dall'incendio, il procuratore Sica riceve una lettera in cui Marino Clavo, militante di Potere Operaio, dichiara di essere lui il «Marino» conosciuto dallo Speranza, smentendo clamorosamente la polizia e dimostrando al tempo stesso l'inattendibilità delle indagini. Frattanto, le imputazioni per i militanti della sinistra sono divenute più pesanti: indiziato fino allora soltanto di detenzione e trasporto di materiale esplosivo, Lollo si ritrova addosso, senza alcuna prova, una imputazione per strage. Rispettivamente il 30 aprile e il 6 maggio verranno emessi ordini di cattura con la stessa imputazione contro Marino Clavo e Manlio Grillo anche lui militante di Potere Operaio e membro del Direttivo nazionale della CGIL-dipendenti P.I. Otto mesi di istruttoria non faranno cambiare opinione al P.M. Sica e al giudice Amato: il rinvio a giudizio — pronunciato il 28 dicembre 1973 — confermerà, per i tre militanti comunisti, la «sentenza» della prima ora.

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I protagonisti Mario Mattei 48 anni, ex repubblichino; iscritto al MSI dal 1951, segretario della sezione Giarabub di Primavalle. Il partito gli trova nel '70 un posto al Comune come netturbino. Nel '71 viene promosso da netturbino, ad impiegato nel censimento. Vive, fino al '63 nel dormitorio di Primavalle, poi ha la casa «in regalo». Il suo nome era tra gli indiziati di reato per il golpe del «principe nero» Junio Valerio Borghese. Nel '70 viene spodestato dai duri, ma nel '71 riconquista la segreteria della sezione. «Sistema», affidando loro cariche di primo piano nella sezione, la moglie (che diventerà responsabile dell'organizzazione femminile) ed il figlio Virgilio (che diventerà segretario della sezione giovanile). Rappresenta nella sezione la corrente almirantiana del MSI; si trova per questo in costante polemica con tutti gli oltranzisti della sezione capeggiati dal Di Meo.

Anna Maria Macconi in Mattei 43 anni, attivamente impegnata nella vita politica della sezione Giarabub: il marito le aveva infatti assegnato nel '71 la responsabilità dell'organizzazione femminile; a Primavalle passa come l'elemento più arrabbiato della famiglia. E' stata l'ultima ad essere ricoverata all'ospedale (alle 5,45) e, dopo essersi messa in salvo (poco dopo le tre) si aggira nel cortile urlando: «avete visto il cartello? i comunisti, i comunisti...». Almirante la andrà a trovare in ospedale e si intratterrà con lei per più di un'ora. Sempre i suoi interrogatori — peraltro mai molto dettagliati — si

36 concludono con la stessa frase : «Mi riservo di aggiungere altre cose dopo aver parlato con l'avvocato Marchio». A Palestrina, dove il MSI sta facendo costruire una villa per i Mattei, quanti l'hanno vista ultimamente confermano il suo atteggiamento duro e «arrabbiato»; i testimoni affermano inoltre che la Mattei si è, quest'estate, lamentata del fatto che gli avvocati del partito la starebbero piano piano sganciando. Inoltre, fatto assai rilevante e coerente con quanto lei stessa affermò negli interrogatori, tutti dicono che quando Lampis fu rimesso in libertà (nel luglio '73) la Mattei era spaventatissima ed in preda al panico: che poteva dire o aver detto il Lampis da terrorizzarla tanto?

Virgilio Mattei 22 anni, segretario giovanile della sezione Giarabub di via Svampa. Definito un «feroce anticomunista disposto a tutto per contestare l'avanzata del comunismo». Faceva parte del servizio d'ordine del MSI di Roma. Riceve nella settimana prima dell'incendio, frequenti visite di Lampis. L'11 aprile, dopo un attentato al tritolo contro la sezione, Mario Mattei si scaglia violentemente contro gli aderenti al nucleo giovanile (diretti proprio da Virgilio), accusandoli di essere gli esecutori materiali dell'operazione.

Angelo Lampis Nato a Pabillonis (Cagliari) nel 1937; sposato con 6 figli. Arriva a Roma nella primavera del '66, lavora come manovale, nel '68 entra all'Autovox, ma si licenzia tre mesi più tardi; nel '69 per interessamento del commissariato di Montesacro, ottiene cinque stanze nel dormitorio pubblico di Primavalle e, successivamente, un box indipendente con ingresso direttamente sulla strada. Dichiara di essere da sempre simpatizzante del MSI. Si iscrive al partito nel '70. Ha la sua prima tessera nel '71. La sua posizione nella sezione «Giarabub» di Primavalle non è chiara. L'unico elemento certo è che gode di una totale autonomia rispetto agli altri iscritti.

37 Il giorno prima dell'incendio comprerà una macchina fotografica e se ne servirà la domenica mattina per fotografare i militanti della sinistra che vendono giornali e distribuiscono volantini nel quartiere. La sera del 15, 6 ore prima dell'incendio, andrà a casa Mattei e parlerà con Virgilio «predicendogli» un attentato con benzina. Alcuni inquilini del dormitorio dicono che la notte del 15 Lampis non ha dormito a casa. Quello che è certo è che sarà tra i primi presenti sul luogo dell'incendio e verrà anche visto mentre scatta fotografie nel cortile di casa Mattei. Nella perquisizione a casa sua vengono trovate armi, munizioni, taniche, libretti di circolazione rubati. Man mano che il ruolo del Lampis nella faccenda si fa sospetto, il MSI, come è solito fare con i camerati che si scoprono troppo, attua una rapida operazione di sganciamento, fino a definirlo un provocatore.

Marcello Schiaoncin 42 anni, autista in un deposito di bibite; militante di secondo piano della sezione missina di via Svampa (Speranza lo definisce «l'ultima ruota del carro»), era negli ultimi tempi addetto a controllare gli eventuali attacchi alla sezione. Sarà lui a ricevere nella notte del 15, contemporaneamente al divampare dell'incendio, una telefonata da Virgilio Mattei.

Anna Menna in Schiaoncin 31 anni, attivista del MSI di Primavalle è conosciuta nella borgata come «Anna la fascista» per il suo fanatismo politico. Sposata con Marcello Schiaoncin, ha da molto tempo una relazione sentimentale con Mario Mattei. Il 17 aprile alle 11,30 andrà a trovare Mario Mattei al Sant'Eugenio e gli farà consegnare un biglietto; lo chiamerà poi al telefono interno dell'ospedale: «...la colpa è tua, sanno che sei un cervellone e gli davi fastidio...». La più grossa imprudenza della Schiaoncin sarà quella di rilasciare un'intervista al Messaggero in cui racconta dettagliatamente le tensioni, le liti e i conflitti che caratterizzavano la sezione

38 negli ultimi anni; è all'interno di questa intervista che attribuirà indirettamente la responsabilità dell'attentato contro i Mattei ai dissidenti della sezione: parla anche di un «traditore». Questa «sconveniente» intervista farà sì che il MSI nasconderà i coniugi Schiaoncin per ben due giorni in un posto sicuro rispedendoli poi, ammaestrati alla meglio, al giudice. Durante l'interrogatorio del marito, battendo i pugni sulla porta griderà «Cretino; non fare nomi!».

Aldo Speranza 38 anni, netturbino (29 ripartizione), iscritto al Partito repubblicano, attivista della sezione PRI di Primavalle, abita in via Bembo lotto 19 (nello stesso stabile degli Schiaoncin). Il suo diretto capo sul lavoro è Alessio Di Meo. Vive a stretto contatto di gomito col Di Meo e con l'altro spazzino di Ordine Nuovo, Fidanza, con i quali ha un rapporto controverso: nel settembre '72 viene infatti picchiato a sangue dai due e durante la rissa perde alcuni denti. Nella vicenda di Primavalle riveste il ruolo di superteste d'accusa. Sarà lui a fare per primo i nomi di «Achille e Marino» (dopo la «visita convincente» dei soliti Di Meo e Fidanza) facendo - tra l'altro — confusione tra Marino Sorrentino e Marino Clavo (si correggerà soltanto quando il Clavo scagionerà pubblicamente il Sorrentino). La sua storia processuale è quella tipica di un provocatore: da superteste diventa testimone reticente, poi correo, e infine, scagionato dall'accusa di strage è di nuovo superteste. Nel frattempo, malgrado l'imputazione di strage, era stato rimesso in libertà provvisoria. Nel febbraio '74 lo Speranza si distingue in nuove imprese: mazziere stipendiato dai padroni fascisti dei cantieri del Nuovo Salario, ha capeggiato le squadracce assoldate per respingere i proletari e gli operai che occupavano le case.

Alessio Di Meo 37 anni. Caposquadra della 29 zona della N.U. ha alle sue dipendenze il netturbino Aldo Speranza. Abita 'in via Simone Mosca a Primavalle. Iscritto al MSI dal '51; ha sempre mirato a ricoprire la carica di segretario della sezione di via Svampa, ma è stato messo in Minoranza dai «moderati almirantiani» con a capo Mattei.

39 Dal '72 non frequenta attivamente la sezione fascista. E' tra i promotori della cellula di Ordine Nuovo di Boccea e diventa il rappresentante dell'oltranzismo fascista a Primavalle. Da venerdì 13 a lunedì 16 (il giorno dell'incendio) prende 4 giorni di permesso al lavoro. Il lunedì mattina va, insieme a Fidanza, dal commissario di Primavalle, Adornato, a fare il nome di Speranza: «Lui sa tutto». Va poi da Speranza a «convincerlo», pistola alla mano, ad «andare a fare i nomi» alla polizia.

Franco Fidanza 39 anni, netturbino diretto subalterno del Di Meo. Abita in via Giuseppe d'Annibale a Primavalle. Iscritto alla sezione missina di via Svampa, è anche lui un duro di Ordine Nuovo, conosciuto come l'ombra di Di Meo. Insieme hanno guidato squadracce fasciste contro il liceo Castelnuovo durante gli scioperi studenteschi del 1972: sempre insieme al Di Meo, incastrerà lo Speranza come «uno che sa molte cose».

Antonio Pais 28 anni. Abita in via Bartolomeo Abanzini. Iscritto al MSI è contemporaneamente esponente di Ordine. Nuovo. Nella primavera del '70 all'università di Roma insieme al fratello Rocco (prima iscritto al MSI, poi aderente a Nuova Europa) partecipa alle azioni squadristiche di Avanguardia Nazionale contro il Movimento Studentesco. E' anche lui segnalato dal Mattei come uno dei «duri» della sezione Giarabub.

Michele Marchio 45 anni, avvocato, consigliere comunale del MSI. Diventa deputato subentrando a De Lorenzo; fa parte della direzione centrale del partito. Sarà tra i primi ad arrivare sul posto dell'incendio prelevandone il Lampis e la Schiaoncin.

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Alcuni giorni prima

La settimana prima dell'incendio i fascisti sono molto occupati a rincorrersi tra loro ed affollano il commissariato annunciando attentati di cui stranamente prefigurano anche la tecnica.

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La settimana che precede l'incendio è un susseguirsi di «movimenti» e di «visite» che i fascisti si fanno tra di loro ed al commissariato. Particolarmente attivo è Angelo Lampis. Il suo comportamento è così inconsueto da suscitare preoccupazione e sospetto anche in chi lo conosce da molto tempo; ce ne dà un esempio significativo la moglie di Mattei, Anna Maria Macconi, quando dichiara: «...in questi ultimi tempi mi ha insospettito di più il fatto che il Lampis, particolarmente agitato, confabulava spesso con mio marito tanto da rendermi meno tranquilla e serena causa il suo modo di fare piuttosto strano... il Lampis era particolarmente agitato e teso in questi ultimi giorni in cui non ha fatto altro che venire a casa ed in sezione a cercare mio marito» (1). Il Lampis, dunque, «confabulava» in modo sospetto con Mario Mattei negli ultimi giorni, e quando non lo trovava si affannava a cercarlo in casa ed in sezione. E' sempre la moglie di Mattei a darci notizie della prima visita di Lampis al segretario missino di Primavalle nella settimana che precede l'incendio: «Domenica otto aprile, mio marito era in federazione... venne in mattinata il Lampis e chiese di mio marito. Lo feci entrare lo stesso, dopo aver chiesto "ad occhiate" a mio figlio la sua opinione» (2).

1) Interrogatorio de116-4-1973. Atti vol. 5°, pp. 6-7. 2) Interrogatorio del 17-4-1973. Atti vol. 5° p. 17.

44 E l'«occhiata», evidentemente, funziona; lo attesta infatti l'altra figlia dei Mattei, Silvia: «Se non erro, la domenica precedente il Lampis era venuto a casa di mattina a parlare con mia madre. Voleva parlare con mio padre, ma questi non c'era, ed allora conversò con mia madre e con Virgilio» (3). Anche la moglie di Marcello Schiaoncin, Anna Menna, conferma che in quei giorni il Lampis confabulava spesso con Mattei : «...ultimamente Angelino Lampis l'ho visto più volte parlare con Mario Mattei, appartato con lui» (4). C'è da notare che sono solo le donne della seziona fascista a dilungarsi su questi rapporti confidenziali tra Lampis e Mario e Virgilio Mattei. Tutti i fascisti, invece, non ne accennano minimamente, come se avessero paura di compromettere se stessi ed il loro stesso segretario. Come abbiamo visto, soprattutto dalle dichiarazioni di Anna Maria e Silvia Mattei, negli ultimi tempi il Lampis frequentava molto più assiduamente non soltanto la sezione, ma anche casa Mattei ed in particolare Mario e Virgilio. E, guarda caso, il «sardo» sarà l'ultima persona a avere un colloquio «riservato» con quest’ultimo. Ma, oltre a questi anomali movimenti del Lampis, la settimana che precede l'incendio è caratterizzata anche da alcune «visite» al commissariato di Primavalle da parte di fascisti grandi e piccoli. Visite che salteranno fuori naturalmente dopo l'incendio: una settimana dopo una, addirittura trenta giorni dopo un'altra. Adornato, il commissario di Primavalle, il 22 aprile (sei giorni dopo l'incendio!) si «ricorderà» di esibire al PM Sica: «Il foglio di appunti rilevato dalle dichiarazioni confidenziali resemi da Di Meo Alessio e Fidanza Franco» (5).

3) Interrogatorio del 23-4-1973. Atti vol. 50, p. 53. 4) Interrogatorio 1-5-1973. Atti vol. 5°, p. 78. 5) Atti vol. 5°, p. 51.

45 Chi sono Di Meo e Fidanza l'abbiamo già visto; è opportuno qui ricordare che il giudizio di Mattei su questi fascisti di Ordine Nuovo è tutt'altro che positivo; secondo le sue parole, infatti, Di Meo e Fidanza appartengono alla schiera di quelle «persone che non riteneva di provata fede» (6), con le quali anzi, aveva spesso manifestato apertamente il suo dissenso, talora in modo molto violento. Saranno proprio questi «duri» di Ordine Nuovo, oppositori politici del segretario missino in carica, gli autori di queste confidenze al commissario Adornato. Ma purtroppo il solerte ed attento funzionario che si annota tutto sui promemoria, dimentica nientemeno che la date della confidenze ricevute: «Rammento che le ricevetti in un pomeriggio, ma non ricordo il giorno... o giovedì 12 o sabato 14» (7). E dire che queste «confidenze» non sono voci di poco conto, almeno per Adornato: in esse Di Meo e Fidanza narrano i racconti che avrebbero udito dal netturbino repubblicano Speranza, le farneticazioni sul «covo» dove i dirigenti di Potere Operaio e Lotta Continua avrebbero predisposto tutta una serie di attentati contro le automobili dei fascisti di Primavalle. Insomma, i due fascisti raccontano in commissariato le storie che costituiranno poi il punto di partenza per l'indagine su Primavalle e per la montatura che seguirà l'incendio. Ma c'è ancora un particolare molto strano in queste confidenze: Fidanza infatti, riferirà di temere personalmente qualcosa e di essersi premunito collocando «un fornello elettrico dietro la porta» (8). Ora, i presunti attentati che sarebbero stati compiuti in precedenza, avevano preso di mira la sezione missina e le automobili dei fascisti; mai le abitazioni di qualcuno: come si giustifica allora, questa paura che Fidanza ha per la propria porta di casa? Se è un presentimento, è a dir poco sospetto. Ma le visite dei fascisti al commissariato di Primavalle non finiscono qui.

6) Interrogatorio del 18-4-1973. Atti vol. 5°, p. 30. 7) Atti vol. 5°, p.51. 8) Atti vol. 5°, p. 52.

46 Mercoledì 11 aprile c'è l'esplosione alla sede di via Svampa ; a suggerire chi può saperne qualcosa è Anna Maria Mattei. Dirà: «...Altra cosa che mi insospettisce circa il comportamento di Lampis è la perfetta conoscenza che lo stesso ha dimostrato di avere dei residui di bombe scoppiate alla sezione» (9). Ma la moglie del segretario missino non è la sola a nutrire questi sospetti: anche Mario Mattei, forse nel tentativo di rimangiarsi e far dimenticare il rapporto di complicità intrattenuto con il Lampis nell'ultima settimana, dichiarerà in un interrogatorio: «Verso il giorno 9 aprile '73 il Lampis mi riferì di aver appreso con certezza del programma di attentato col tritolo che i "cinesi" avrebbero fatto sulla finestra della sezione. Per evitare che ciò avvenisse e diffidando sempre del Lampis, gli raccontai la circostanza non vera che avevo inserito l'alta tensione nelle parti metalliche della porta e delle finestre. In effetti l'attentato ci fu ma la carica venne solo piazzata sotto la finestra senza che gli attentatori toccassero la griglia, come invece avevano fatto in precedenza» (10). Sarà dopo questo attentato, il 22 aprile, che altri fascisti, questa volta «pezzi grossi», effettueranno una visita al commissariato di Primavalle. Sono il dirigente del MSI Francesco Spallone ed il federale romano Loffredo Gaetani Lovatelli, che appunto il 12 aprile accompagnano il Mattei al commissariato. «Ricordo... che quando esplose l'ordigno esplosivo, io mi recai sul posto e poi con Mario Mattei e con il federale raggiunsi il commissariato di PS»; così afferma Francesco Spallone, che ci illumina anche sulle «paure» di Mattei:

9) Interrogatorio del 16-4-1973. Atti vol. 5°, p. 7. 10) Interrogatorio de118-4-73. Atti vol. 5°, p. 30.

47 «Mattei manifestò la sua preoccupazione alla polizia osservando che adesso l'attentato poteva essere fatto contro di lui o la sua famiglia, in quanto dalle informazioni avute si stava preparando contro di lui un attentato... il Mattei non si fidava affatto del Lampis» ma «non fece il nome del Lampis parlando con la polizia. Successivamente il Mattei mi riferì che temeva un'aggressione fisica» (11). Ma allora, come mai Mattei, che si reca al commissariato con una scorta di così alto bordo, finisce soltanto per dire che ha paura? Da chi ha ricevuto le «informazioni» e perché non lo riferisce in questa sua visita alla polizia? Perché, se non si fidava del Lampis, non ne fa il nome? La caratteristica comune e assai sospetta di tutte queste «visite» in questo scorcio di fine settimana (che — non dimentichiamolo — è la stessa settimana dell'uccisione dell'agente Marino e del conseguente sconquasso tra le file dei fascisti, grossi e piccoli) è che i fascisti di Primavalle ed i loro diretti superiori, si sentono quasi in dovere di passare al commissariato per «confidare sospetti» od esternare «paure» ; non solo, ma, nel caso di Mattei, c'è proprio la volontà precisa di ufficializzare questa «visita» facendosi accompagnare dal dirigente Spallone e dal suo «consigliere» Gaetani Lovatelli (che sarà la prima. persona, come vedremo, cui il Mattei telefonerà subito dopo l'incendio). L'abitudine a scambiarsi visite preveggenti con la polizia è diventata nel frattempo abituale per i fascisti. Mentre andiamo in stampa, infatti, si è verificato un episodio in tutto analogo a quanto avvenuto, anche se questa volta la dimensione è molto più ampia e investe il MSI nei suoi massimi organi dirigenti. E' la strage dell'Italicus, anche qui il meccanismo di organizzare la provocazione e di far partire la montatura contro la sinistra è lo stesso. La stessa visita preveggente, questa volta di Almirante in persona, un «superteste» costruito, pagato e ricattato; l'intervento dei picchiatori nel momento in cui le contraddizioni diventano troppo forti.

11) Interrogatorio del 15-5-1973. Atti vol. 5°, p. 129.

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Quella sera

Il fascista Angelo Lampis, dopo una giornata da provocatore «prevede» l'attentato sei ore prima che avvenga. Tutti i Mattei ne sono informati. Tornano a casa e, così dicono, si mettono a dormire. Ma qualcuno vede le luci accese fin quasi all'ora dell'incendio.

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La sera di domenica 15 aprile 1973 la casa dei Mattei va a fuoco e, tra le fiamme, muoiono due figli maschi del segretario della sezione missina di Primavalle, Virgilio e Stefano. E' importante ricostruire i movimenti di quella sera dei protagonisti, anche se — come vedremo — non è davvero impresa semplice: sia per le numerose e non irrilevanti contraddizioni che presentano le singole testimonianze se paragonate tra di loro, sia perché di queste incertezze, di questi sfasamenti di orari, di questi autentici «buchi» la magistratura non si è mai occupata, fermamente intenta, invece, a seguire la «pista rossa» che si era rigidamente prefissa. Nel capitolo precedente ci siamo fermati agli avvenimenti della sera di sabato 14 aprile. Esiste il buio più assoluto su come i fascisti della sezione Giarabub abbiano trascorso la giornata di domenica 15 aprile. E' questo un altro grosso interrogativo volutamente lasciato senza risposta dagli inquirenti, i quali non si sono mai preoccupati di chiedere che cosa i diretti «interessati», i Mattei, e i loro numerosi amici fascisti, abbiano fatto nell'arco della giornata. Solo il missino Angelo Lampis è stato sottoposto a questo tipo di interrogatorio, perché con le sue affermazioni sconcertanti, con la sua «veggenza» e con le accuse mossegli dai suoi stessi camerati, è rimasto coinvolto nella faccenda, fino a venire posto sotto arresto per reticenza. Il «veggente» Lampis Angelo Lampis, come si vedrà nel capitolo IX, trascorre la giornata da perfetto provocatore: fin dalla mattina alle 9,30 gira per Primavalle, guidando la sua Giulietta, senza bollo e senza assicurazione, tirata fuori — guarda caso — dopo un anno che era rimasta inutilizzata. Pedina, controlla, fotografa, con una macchina fotografica comprata il giorno

52 innanzi, i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie che fanno intervento politico nel quartiere. Si prende cura di annotare il numero di una 500 «sospetta», elemento che una volta in mano ai giudici, verrà prontamente utilizzato per coinvolgere la sinistra nelle indagini. (Saranno fermati tre militanti di Avanguardia Operaia la sera del 16 aprile). E' per riferire questo numero di targa che Lampis — secondo la sua stessa testimonianza — si reca la sera del 15 aprile in casa Mattei, parlandone con Virgilio. Per quanto riguarda i Mattei, poi, le lacune sono ancora maggiori: conosciamo i movimenti dei familiari e del segretario missino soltanto limitatamente all'ultima parte della giornata: e anche queste poche ore sono ancora piene di punti oscuri e di contraddizioni. Una strana visita Mario Mattei e sua moglie vanno, qualche minuto dopo le ore 21, a far visita ad un loro amico, Antonio Giordani (1), che abita non lontano, a Casetta Mattei. A casa restano Virgilio, Stefano, Silvia, Antonella, Lucia e Giampaolo, i sei figli dei Mattei. E' anche sicuro che, alla stessa ora, tra le 21 e le 22, Virgilio riceve la visita di Angelo Lampis: in base alle dichiarazioni dei Mattei, la visita sarebbe stata motivata dalla necessità di avvertirli di un imminente attentato, specificando anche il mezzo con cui questo sarebbe stato compiuto: la benzina. Mario Mattei afferma dapprima che, verso le 21, Virgilio telefonò in casa Giordani, dicendo che «gli avevano telefonato a casa per dirgli che avrebbero fatto un attentato», e precisa: «Mio figlio non mi disse chi aveva telefonato» (2). Poi, però, cambierà versione : ammetterà che suo figlio gli comunicò «sinteticamente» che a telefonargli era stato il Lampis. Il quale, da parte sua, ha sempre negato di aver fatto qualunque telefonata, ed ha invece ammesso di

1) Interr. di Mario Mattei del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, pag. 2. In proposito anche Benito Porcarelli, missino, amico del Mattei, interrogato il 19 aprile ha dichiarato di aver trascorso la domenica pomeriggio con i coniugi Mattei e di averli poi accompagnati a trovare il Giordani. Ma il quotidiano «L'Unità» del 19 aprile scrive: «La telefonata è giunta a Mario Mattei non a casa di amici ma in un'osteria. Al telefono era Virgilio». Anche il «Paese Sera» del 19 aprile scrive: «Mario Mattei ha detto: "Ad avvertirmi che sarebbe avvenuto qualcosa è stato mio figlio Virgilio. Ero in trattoria con mia moglie e mi telefonò». 2) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5° p. 2.

53 aver portato di persona l'avviso che qualcosa sarebbe successo (3). Dunque è più verosimile, anche perché — come vedremo — confermato in altre testimonianze, che quella sera Lampis si sia recato a parlare con Virgilio Mattei, e non che gli abbia telefonato. Il misterioso uomo col pizzetto Ma torniamo ai movimenti dei due coniugi Mattei prima dell'incendio. Mario Mattei afferma che, in seguito alla telefonata ricevuta dal figlio, uscì da casa Giordani, passò davanti alla sezione missina di cui era segretario e accertatosi che vi fosse il carabiniere di piantone, rincasò. A che ora? Saranno state circa, afferma, le 21,30 (4). Virgilio — sempre secondo la deposizione di Mario Mattei (5) —dormiva già, e quindi egli non riuscì a parlargli: sarebbe subito andato a letto, insieme alla moglie, ed avrebbe spento la luce verso le 22,30. Per quanto riguarda gli spostamenti, la signora Mattei denuncia orari del tutto diversi. Lei sarebbe tornata a casa, assieme al marito verso le 22,30 o al massimo dieci minuti più tardi, in seguito ad una telefonata che il marito aveva ricevuto a casa Giordani. La Mattei afferma che durante il tragitto da casa Giordani fino alla propria abitazione, il marito non le ha mai detto nulla circa la telefonata (6). Anna Maria Mattei seppe, dell'avvenuta visita di Angelo Lampis soltanto al suo ritorno a casa: glielo comunicò la figlia Silvia. Ma ancora alla signora Mattei si deve un'altra interessante dichiarazione, che da sola costituisce una riprova — ammesso che ve ne sia bisogno — del modo assurdamente lacunoso e preconcetto con cui è stata condotta l'indagine. Anna Maria Mattei afferma che il figlio Virgilio avrebbe avuto anche un altro avvertimento di quanto

3) Interrogatori del 16 e del 28 aprile 1973. Atti, vol. 4°, pagg. 63 e 74. E inoltre cfr. l'intervista pubblicata il 20-4 sul «Secolo d'Italia». 4) E' sempre Benito Porcarelli, interrogato il 19 aprile, ad affermarlo. Quando i Mattei lasciano casa Giordani, è lui che li accompagna fin sotto casa con la sua auto, dopo una ricognizione a via Svampa, sede della sezione del MSI, per accertarsi della presenza del piantone Porcarelli, che è così l'ultima persona ad aver avuto contatti con i Mattei prima dell'incendio, viene interrogato quindi il 19 aprile, solo dopo che il Mattei si è deciso a fare il suo nome nell'interrogatorio del 18 aprile. Per conto suo, la moglie Anna Maria Macconi, non si è mai preoccupata di fare il suo nome, né il P.M. Sica ha mai chiesto conferma al Porcarelli degli orari di rientro a casa del Mattei. 5) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5° p. 2. 6) Interr. Anna Maria Macconi del 17 aprile. Atti, vol. 5° p. 6.

54 stava per accadere, «da un suo amico e compagno di lavoro di cui non conosco il nome. Mi risulta che lavori pressò l'Alleanza Assicurazioni, che ha sede nello stabile dove attentarono al magistrato Dell'Anno. L'amico di mio figlio è un giovane alto, con un pizzetto» (7). Ecco ciò che dice la Mattei, quantunque nessun altro componente della famiglia parli mai di quest'ulteriore «avvertimento». Da parte loro, polizia e magistratura non si sono mai date pena di rintracciare un testimone di tanta importanza: non risulta infatti in nessun documento che qualcuno abbia cercato il misterioso giovane con il pizzetto. L'allarme per telefono Che il Lampis si sia presentato, quella sera, in casa Mattei, è anche stato confermato direttamente da Silvia, la quale dichiara che egli sarebbe arrivato verso le 21 e si sarebbe fermato a parlare con Virgilio per un quarto d'ora : «Mio padre telefonò verso le 21,30, circa dieci minuti dopo che se ne era andato il sardo» (8). Silvia poi afferma di non ricordare l'ora in cui i genitori rincasarono, e conferma che Virgilio dormiva quando questi rientrarono. E con ciò sembra smentire le dichiarazioni di sua madre, la quale — come abbiamo visto — afferma d'aver saputo della visita del Lampis proprio da Silvia che, invece, dice di essersi coricata prima di poterne informare la madre. Altri elementi contrastanti possono essere ricavati dalla deposizione di Antonio Giordani, cioè dalla persona che avrebbe ospitato i Mattei quella domenica sera. Dice infatti il Giordani: «Verso le 21,10 arrivarono a casa mia Mattei e la moglie per farci visita. Dopo qualche minuto la Mattei telefonò a casa sua per avere notizie e passò il telefono al marito. Mattei parlò brevemente, impallidì fortemente e mi disse: "Ci vengono a trovare". Disse poi che doveva andare subito a casa» (9).

7) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5° p. 4. 8) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5° p. 53. Notiamo che Silvia Mattei afferma che fu il padre a telefonare a Virgilio in casa. La madre, Anna Maria Macconi, nell'interrogatorio del 6-4 afferma: «Mia figlia Silvia, quando sono rientrata a casa... mi ha riferito che Lampis era stato in casa in quanto intendeva parlare con mio marito. Ricordo in proposito che mia figlia lo ha apostrofato in questo modo: "E' venuto quella specie di figlio di ..."». 9) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 14

55 Insomma il Mattei afferma che questa famosa telefonata gli fu fatta da Virgilio; Silvia afferma che fu invece il padre a telefonare a casa verso le 21,30; il Giordani sostiene che fu la Mattei a chiamare «per avere notizie». Ma c'è ancora un'altra versione (oltre alle più disparate, riportate in quei giorni dai quotidiani) di quest'episodio, e la si deve ad una fonte al di sopra di ogni sospetto: il capo della squadra politica della Questura di Roma, dottor Bonaventura Provenza. In una conferenza stampa, all'indomani dell'incendio, sostiene che un amico del Mattei, in presenza dell'avvocato Marchio, ha dichiarato al giudice Sica che domenica sera Mattei stava a casa sua, dove era stato raggiunto da una telefonata di un comune amico, Paolo Mulas (e su questo fantomatico personaggio di cui gli atti ufficiali non fanno cenno torneremo al capitolo XI), il quale lo metteva in guardia contro un imminente attentato (10). Gli «estintori» del MSI Tutto da spiegare (o, meglio, da interpretare) è ancora ciò che hanno fatto i due Mattei dopo essersi allontanati, accompagnati in macchina dal loro amico Benito Porcarelli, dalla casa di Antonio Giordani. Sia Mario Mattei, sia la moglie dicono di essere passati davanti alla sezione missina di via Svampa e, dopo aver verificato la presenza dell'agente addetto alla sorveglianza, di aver raggiunto la loro abitazione, dove Virgilio secondo loro già dormiva. Ma subito dopo l'incendio, nel quartiere si sparge la voce che Mario Mattei, preoccupato dell'avvertimento ricevuto dal Lampis, sarebbe passato la sera stessa dalla sezione per prelevarvi due estintori del tipo «a boccia». Silvia, invece, affermerà in un'intervista al «Giornale d'Italia» del 17 aprile che

10) Di questa conferenza stampa si trova traccia in tutti i giornali del 17 aprile. Riportiamo qui la versione offerta dal quotidiano «Il Tempo» che è la più completa anche perché il giornale è abituato a riportare fedelmente le direttive della Questura. Scrive «Il Tempo»: «... si è diffuso col passare delle ore un cauto ottimismo circa l'esito delle indagini. Lo ha dichiarato in una conferenza stampa tenuta in Questura il capo dell'ufficio politico, dott. Provenza, il quale, pur non nascondendo la complessità del caso, ha affermato che si era ormai su una pista abbastanza consistente. (...) Provenza ha dichiarato che gli inquirenti annettono una importanza decisiva alla testimonianza di un amico di Mario Mattei che, accompagnato dall'avvocato Marchio, si è recato nel pomeriggio dal dott. Sica. Egli avrebbe riferito che nella serata di domenica il segretario missino di Primavalle si era recato a casa sua dove era stato raggiunto dalla telefonata di un comune amico, un certo Paolo Mulas, il quale lo metteva in guardia contro i pericoli di un imminente attentato contro di lui e che avrebbe potuto essere attuato la notte stessa».

56 il padre gli estintori (dopo il rogo si troveranno tracce e testimonianze di uno solo di essi) li avrebbe presi dalla sezione «Giarabub» un paio di giorni prima. In realtà parlando di estintori (o di estintore) ci imbattiamo in una nuova, grossa e clamorosa lacuna delle indagini: né la polizia né la magistratura, infatti, si sono mai preoccupate di chiedere al Mattei alcuna spiegazione relativa all'esistenza di questi «boccioni» e, soprattutto, al momento del loro prelievo dalla sezione missina. Come abbiamo visto, un altro punto controverso è quello relativo all'ora in cui i due Mattei ritornano a casa. Mario Mattei parla delle 21,30 (e Antonio Giordani conferma). Lampis si era recato a trovare Virgilio dopo le 21 ed essendo rimasto un quarto d'ora a colloquio con lui (lo sostiene la sorella Silvia) doveva essere ancora, verso le 21,30, in casa Mattei oppure averla lasciata al massimo da qualche minuto. Quindi non si spiega come mai, se Virgilio fino a pochi istanti prima si era intrattenuto con il Lampis, e subito dopo aveva avuto la conversazione telefonica con il padre che si trovava in casa Giordani, sia trovato profondamente addormentato da Mario Mattei quando ritorna a casa. Né infine è spiegabile l'atteggiamento dei Mattei: Virgilio riceve un «avvertimento» tanto importante, la notizia provoca innegabile turbamento in Mario Mattei quando ne viene a conoscenza (tanto che il Giordani afferma di averlo visto «impallidire fortemente»), ed il segretario missino di Primavalle non sveglia nemmeno il figlio Virgilio, ammesso che questi veramente fosse già addormentato, per chiedergli spiegazioni più esaurienti. Sugli orari, infine, completamente difforme è la versione di Anna Maria Mattei, la quale sostiene d'essere tornata a casa dopo le 22,30. Le luci restano accese Le incongruenze, però, non finiscono qui. A qualunque ora siano rientrati, i coniugi Mattei si preoccupano soltanto d'imitare il loro figlio Virgilio, e di mettersi subito a dormire. Il che contrasta con ogni logica: se ci si attende un attentato, si cerca in qualche modo di prevenirlo, almeno vigilando svegli e non recandosi subito a letto. Ma in realtà, le cose non sono andate con quella estrema normalità che, a dispetto di ogni logica, il Mattei vorrebbe accreditare. Infatti il Lampis, affermerà, pochi giorni più tardi: «Mario Mattei non ha preso precauzioni dopo l'avvertimento, perché evidentemente non si sentiva troppo sicuro delle mie versioni. Però ho sentito dire che Mario Mattei sarebbe

57 rimasto in guardia, fino circa alle due di notte... se aveva fatto le due, poteva fare anche le quattro» (11). Questa affermazione del Lampis non è mai stata smentita. Non solo: ma un testimone, A.M., che abita a pochi passi da casa Mattei e dalla sua finestra riusciva a vedere quelle del segretario missino, ci ha riferito che proprio quella notte sul tardi, verso le 2,30 del mattino ha notato le finestre dei Mattei ancora illuminate (12). Insomma tutte le versioni interessate concordano a suggerire che i Mattei, quella notte abbiano dormito tranquilli, mentre invece i testimoni estranei parlano di luci accese fino alle prime ore del mattino, quasi fino al momento dell'incendio.

11) Dall'intervista rilasciata a Franco Alfano, giornalista del «Secolo d'Italia», pubblicata il 20 aprile. 12) In proposito anche il «Paese Sera» del 17 aprile riporta alcune testimonianze dei vicini dell'abitazione dei Mattei. Essi dichiarano di aver visto le luci accese fino verso le due, nella notte tra il 15 e il 16, della camera di Virgilio.

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La notte

Scoppia l'incendio. L'allarme viene dato alle 3 e 27 ma il fuoco c'è già da almeno mezz'ora. I Mattei sono costretti ad ammettere che le fiamme erano nell'appartamento prima che la porta fosse aperta. Ma i giudici non vogliono saperlo.

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Per la Questura sono le 3,27

Soltanto per i Mattei e per la polizia, che ne registra la prima chiamata ufficiale di soccorso fatta al «113» alle ore 3,27, il rogo di Primavalle divampa verso le tre e mezzo della notte tra domenica 15 e lunedì 16 aprile: tutte le altre testimonianze, infatti, sono concordi nel sostenere che le fiamme sono divampate assai prima nell'abitazione del segretario missino: al più tardi quando mancavano pochi minuti alle tre di quella notte. Quasi, insomma, che nell'appartamento al terzo piano del lotto n. 15 di via Bernardo da Bibbiena, l'allarme sia stato dato quando ormai le conseguenze dell'incendio apparivano troppo gravi e le fiamme non più circoscrivibili, quando insomma i Mattei hanno capito che da soli quel fuoco non sarebbero davvero riusciti a spegnerlo. Si è detto dunque che 1a questura riceve l'allarme alle 3,27, come fa fede del resto lo stampato su cui la sala operativa annota ogni comunicazione che perviene al centralino e al numero di pubblico soccorso. A quell'ora, secondo la versione ufficiale, da via Lorenzo Campeggi (lo stabile del Mattei ha una doppia uscita su strade diverse) telefonano così: «Mi hanno incendiato segretario del partito...».

casa,

aiuto,

sono

il

Quale partito non è specificato. L'agente di turno, Misticò, annota anche che «sono pervenute immediatamente circa trenta chiamate per la

62 stessa via» : probabilmente si tratta delle telefonate di chi abita nei paraggi. Per i vicini non sono ancora le 3.00

Come si è detto, però, tutte le testimonianze dei vicini di casa sono concordi nel collocare lo scoppio dell'incendio molto tempo prima, cioè quando mancavano ancora alcuni minuti alle tre. Dice infatti G.B. Ciarmatore, che abita al secondo piano, sotto i Mattei: «Dieci minuti prima delle tre sentii un po’ di rumore. Fui svegliato da alcuni rumori, si trattava di rumori forti, come se cadessero delle cose sul pavimento» (1). Ed Ester Alegiani, un'altra inquilina che abita anche lei al secondo piano, proprio in corrispondenza con l'appartamento andato in fiamme, conferma: «Saranno state le tre meno qualcosa quando mi hanno svegliato un botto, poi un rumore di cocci, di roba che casca. In un primo momento, sia io sia mio fratello abbiamo pensato che quelli di sopra stavano litigando... Sa com'è, quando marito e moglie si tirano la roba addosso. Poi però abbiamo sentito delle grida» (2).

Altri dicono che sono le 2,40

Per altri testimoni, infine, vi sarebbero stati dei non meglio precisati «botti» nella notte, con una prima esplosione, alle 2,40, subito seguita da un boato più forte (3). Del resto anche la testimonianza di Fernanda Rinaldi (4) permette di collocare lo scoppio dell'incendio molto in anticipo rispetto all'orario

1) Interr. del 19-5-73. Atti, vol. 5° p. 148. 2) «Unità» 17-4-1973; «Paese Sera» 16-4-1973, 2° ed. 3) «Messaggero» 17-4-1973. 4) Interr. del 20-4-73. Atti, vol. 5° p. 43.

63 Qualcuno grida per strada alle 3,20

ufficiale : la Rinaldi, infatti, è stata svegliata quando già «dalla strada provenivano delle grida» e quindi il fuoco — evidentemente — divampava da qualche minuto: ella afferma: «Verso le 3.20 mia figlia mi ha svegliata dicendomi che dalla strada provenivano delle grida». Dunque, qualcuno è già sceso in strada, si è messo a gridare, le urla hanno svegliato la figlia della Rinaldi, questa ha cercato di capire che cosa stesse succedendo e, quindi, ha svegliato sua madre. Ed erano appena le 3,20. Anche una donna che abita nella palazzina di fronte ha sentito verso le tre delle grida provenire dall'appartamento: ha aperto la finestra e — come riferisce «Il Secolo», fonte insospettabile — ha visto le fiamme e sentito Virgilio Mattei che urlava «Chiamate i pompieri» ; ha svegliato allora il marito Guerrino Mandolini, il quale è sceso nella strada, portando con sé alcune coperte (5). Nessuno arriva al tempo giusto

Anche una "volante" è messa in allarme alle 3,20

Insomma tutti concordi: l'incendio è scoppiato prima delle tre. L'allarme ufficiale, però, è stato registrato soltanto alle 3,27 e i soccorsi sono stati rapidi, anche fin troppo rapidi, se è vero che le guardie di PS Russo e Aiello, a bordo della «pantera» • di servizio a Primavalle dichiareranno: «Alle 3,20 ricevevamo una comunicazione via radio dalla sala operativa di recarci con emergenza in via Bernardo da Bibbiena 33, dove si era sviluppato un forte incendio» (6).

5 «Il Secolo» 17-4-1973. Nemmeno questi due testimoni sono stati interrogati. 6 6) Atti, vol. 1° p. 275.

64 In allarme i vigili del fuoco alle 3,27: partono alle 3,32 e arrivano alle 3,36...

...mentre, un minuto prima (alle 3,35) è registrato il ricovero di Silvia Mattei trasportata con un'ambulanza al San Camillo... Come ha fatto la Croce Rossa, avvisata alle 3,27 ad arrivare al San Camillo alle 3,35 con Silvia, se solo per raggiungere la casa dei Mattei ha bisogno di quindici minuti? Qualcuno deve averla avvisata prima

L'allarme, dunque, è stato tanto rapido da permettere ad una «volante» di trovarsi sul posto prima che cronologicamente esso sia stato dato. E che dire poi di due fonogrammi del Commissariato di Primavalle ambedue firmati dal Commissario Secchi nella mattina del 16? Uno senza orario di partenza, inviato alla Procura della. Repubblica comincia «At ore 3,20 odierne (...) sviluppavasi violento incendio doloso». L'altro, inviato alle ore 12,55 alla stessa Procura, comincia «Ore 3,30 odierne (…) sviluppavasi violento incendio doloso». E ancora : i vigili del fuoco di Monte Mario, avvisati alle 3,27 partono alle 3,32 per dirigersi sul posto e, sempre secondo gli atti ufficiali (7) vi arrivano quattro minuti dopo. Sul posto erano già presenti le ambulanze della Croce Rossa (avvertita sempre alle 3,27) parte delle quali avevano già provveduto a portare i feriti agli ospedali. Il ricovero di Silvia Mattei al «San. Camillo» è registrato alle 3,35, un minuto prima che giungano i vigili del fuoco! L'arrivo così tempestivo delle ambulanze giunte dall'autoparco di via Portuense solleva un altro interrogativo: gli autisti della stessa CRI concordano nel dire che di notte e senza traffico non si possono impiegare meno di quindici minuti per raggiungere Primavalle dall'autoparco; ora, se è vero che i vigili del fuoco partiti da Monte Mario sono arrivati alle 3,36, avvertiti contemporaneamente alla Croce Rossa, si deve pensare che vi sia stata una telefonata in anticipo su tutte le altre, ricevuta dalla Croce Rossa e giunta quando ancora non era stato dato l'allarme generale. Come è pure un mistero la rapidità con cui si trovano sul luogo i massimi funzionari della PS e dei carabinieri: arriveranno infatti alle 3,40 (ma qualcuno afferma già prima).

7) Atti, vol. 1° p. 179.

65 E soprattutto arriveranno i fascisti: tanti e tanti fascisti, tutti pronti a «consigliare», e a supervisionare, a nascondere indizi o personaggi pericolosi e a segnalare o rinvenire indizi più opportuni. Di costoro parleremo più avanti; la grande montatura è già cominciata. Tutto quello che non «funziona» La versione ufficiale è nota: l'incendio di Primavalle è un attentato compiuto dall'esterno: un po' di benzina sul pianerottolo; altra di cui si è imbevuta la parte esterna dell'uscio, una tanica semipiena davanti alla porta dei Mattei, sulle scale. Aprendo la porta per cercare salvezza, il segretario missino di Primavalle favorisce il divampare dell'incendio, permette che le fiamme si propaghino all'interno dell'abitazione. Virgilio e Stefano Mattei, i due figli maschi, ventidue ed otto anni, restano intrappolati nella loro stanza e muoiono; gli altri abitanti dell'appartamento si salvano tutti, chi passando per la porta di casa (la moglie del Mattei, Anna Maria con i figli più piccoli, Antonella e Giampaolo), chi gettandosi dai terrazzini della cucina (Mario Mattei e le due ragazze, Lucia e Silvia). Viene anche trovato un cartello con l'indicazione «politica» del movente dell'attentato: giustizia proletaria, eccetera. Questa, dunque, la versione ufficiale. Questa è la versione che, nelle prossime pagine e nei prossimi capitoli, sarà discussa e confutata punto per punto. La meccanica dell'incendio, così come è stata prospettata dai magistrati e dai periti ufficiali non regge. Dimostreremo infatti che l'incendio è scoppiato all'interno dell'appartamento dei Mattei, e non già sul pianerottolo: che la tanica di benzina si trovava all'interno dell'abitazione e non sulle scale; che proprio il famoso cartello e le circostanze che hanno accompagnato il suo ritrovamento rivelano con evidenza la montatura costruita intorno all'avvenimento

66 Dimostreremo, soprattutto, che l'intera indagine è stata compiuta in maniera assolutamente preconcetta, e che per ottenere i risultati prefissati è stata fatta violenza perfino ad alcune elementari leggi della fisica. Sono molti e gravi gli interrogativi su quanto è accaduto quella notte. Il primo — lo abbiamo già visto — riguarda gli orari. Ma i dubbi, in realtà, si moltiplicano con il succedersi dei fatti. Tanto che è sufficiente soffermarsi sui movimenti all'interno della casa dei personaggi coinvolti nella vicenda e sulle dichiarazioni che essi stessi rilasciano per poter comprendere che la versione ufficiale non sta in piedi. E' sufficiente, dunque, una attenta lettura delle deposizioni raccolte negli atti, senza nemmeno avvalersi per ora delle controperizie chimico-fisiche (ne tratteremo più avanti), per comprendere che i fatti, in realtà, non possono essere andati così come ai gi u d i c i e d a i p e r i t i f a c e va c o m o d o c h e andassero, e che le cose si sono necessariamente svolte in maniera assai dissimile da come vogliono i fascisti, la perizia d'ufficio, la requisitoria del P.M., la sentenza di rinvio a giudizio. Tanto che gli «esperti» nominati dal Tribunale, pur di riuscire a dimostrare la validità della tesi dell'incendio esterno, arrivano addirittura a tralasciare le pur importantissime deposizioni degli «interessati» e scrivono: «Se si accetta la versione del sig. Mattei Mario il problema della ricostruzione dell'incendio non sussiste» (8). Il che vuol dire semplicemente che se assumessero come prove le testimonianze dei Mattei sarebbero costretti a riconoscere che l'incendio è scoppiato all'interno dell'appartamento, con tutte le conseguenze del caso.

8) Risposta dei periti d'ufficio alla richiesta di chiarimento di Sica.

67 Dichiarazioni che imbarazzano "Suonano alla porta..., dice Anna Maria Mattei ai giornali, apro... ...gettano una molotov"

Allora analizziamo noi punta per punto le dichiarazioni e le testimonianze che tanto imbarazzano i giudici: Le prime dichiarazioni di Anna Maria Mattei, riportate dai quotidiani (9) parlano di una «molotov» lanciata dall'esterno contro la porta d'ingresso, di lei stessa che cerca di inseguire nell' «incerto chiarore dell'alba» gli attentatori perdendone le tracce. «Suonarono alla porta, andai ad aprire ed alcuni sconosciuti buttarono all'interno dell'appartamento una molotov, dandosi poi alla fuga» (10).

Ma alle tre di notte, dopo una domenica così "movimentata" e con lo "spioncino" alla porta si apre soltanto agli amici

Ma se consideriamo che ricevere visite alle tre di notte non è certo usuale, che i Mattei erano stati «avvertiti» almeno sei ore prima della probabilità che qualcuno attentasse alla loro casa, che infine esiste nella loro porta d'ingresso uno spioncino che permette di vedere chi suona, la spiegazione di questa frase può essere una soltanto : chi eventualmente è arrivato non soltanto doveva essere persona conosciuta, ma perfino un amico «fidato» dei Mattei. D'altra parte il rischio che una tale dichiarazione comporta viene compreso ben presto dalla stessa Mattei, che — come vedremo — già nel primo interrogatorio non oserà più parlare né di qualcuno che fa squillare il campanello, né di lei stessa che si reca ad aprire la porta. Ugualmente Mario Mattei, che nel suo primo interrogatorio (11) ha citato le molotov, nel successivo dirà:

9) «11 Tempo» 17-4-1973; «Momento Sera» 17-4-1973; «Giornale d'Italia» 16-17-4-1973. 10) «Giornale d'Italia» 16-174-1973. 11) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol 5° p. 2. «Durante la notte sono stato svegliato da Virgilio che mi disse che la porta di casa era in fiamme perché ci avevano gettato contro una "molotov"».

68 Mario Mattei: scivolo e mi ustiono prima di aprire la porta... Quindi le fiamme sono già in casa... Lo confermano anche la moglie e la figlia Silvia

«Fui svegliato da mia moglie ovvero dalle grida di Virgilio. Mi alzai dal letto, Virgilio stava nella sua stanza e telefonava al 113. Uscendo dalia stanza da letto scivolai per terra. Sul pavimento vi era qualcosa di viscido. Notai che c'erano delle fiammelle azzurrognole, erano ancora piccoline. Venni però ustionato...» (12). Mario Mattei corre allora (sempre secondo la sua deposizione) nella stanza delle ragazze e la figlia Silvia lo aiuta a spegnere con una coperta le fiamme che lo avvolgono; si reca quindi nell'ingresso e riesce ad aprire la porta, nonostante le fiamme siano già alte. Ma da tutto ciò risulta proprio quello che i periti vogliono nascondere, cioè che ancor prima che fosse aperta la porta d'ingresso, le fiamme erano già dentro l'appartamento. Ad avallare questa affermazione è la stessa moglie (13) : «... Mio marito è balzato dal letto ed ha aperto la porta. Il vano d'ingresso era pieno di fiamme». E di nuovo Silvia Mattei: «Venni destata da mio padre durante la notte e vidi che c'erano le fiamme...» (14).

Mario Mattei cerca di soffocare le fiamme con un "estintore" che invece di spegnere l'incendio lo rende più violento

Sarà poi ancora Silvia a dichiarare: «Papà prese un estintore, del tipo a boccione, che si devono rompere sulle fiamme. Subito dopo vidi una grande fiammata avvolgere mio padre, che si gettò sul mio lettino nel tinello...» (15). Ma mentre il Mattei non ha mai voluto parlare di questa strana reazione provocata dal boccione

12) Interr. del 5-6,1973. Atti, voi 5°. Le ustioni riportate da Mattei dimostrano proprio la sua scivolata: sono infatti riscontrate «ustioni di 2°, 3° grado arti inferiori, regione peroneale, glutea, naso, avambraccio dx» Atti, vol. 1° p. 220. 13) Interr. del 16-4-73. Atti, vol. 5° p. 1. 14) «Il Messaggero» 18-4-73. 15) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol 5° p. 54.

69 antincendio, Silvia, invece, continuerà ad affermare: «Papà è entrato in camera nostra per prendere due bottiglie di schiumogeno, che conservava su un armadio. Ne ha buttata una nell'ingresso... l'altra bottiglia non ha funzionato...» (16). Ricostruzione dopo 50 giorni Provenza capo della "politica": "Non erano estintori..."

La natura di questo «fiasco antincendio» è dunque assai dubbia: dalla testimonianza di. Silvia risulta che la rottura ha prodotto fiamme più alte. Sarà ancora Silvia che dirà che i fiaschi erano due (17), mentre nella sua deposizione Mario Mattei parla di un solo «estintore»; (18) ; nessuno mai si preoccuperà, intanto, di precisare che fine abbia fatto il secondo; l'unica affermazione degli inquirenti in proposito sarà una dichiarazione del capo dell'ufficio politico della questura dottor Bonaventura Provenza, apparsa su «Paese Sera del 17-4, nella quale il funzionario dirà: «Smentisco che si sia trattato di estintori». In ogni caso mai gli inquirenti si sono preoccupati di interrogare i Mattei in merito all'esistenza di questi boccioni, né sulla data in cui furono prelevati, né sul motivo per cui sarebbero stati portati nell'appartamento; né infine hanno voluto accertare da dove siano venuti fuori, quale fosse la loro vera natura e quale liquido contenessero. Ma vediamo allora sinteticamente come si muovono dentro all'appartamento il segretario missino e i suoi familiari. Premettiamo che in merito alla ricostruzione della meccanica dell'incendio, Mario Mattei, dopo un brevissimo

16) «Il Messaggero» 18-4-1973. 17) «Il Messaggero» 18-4-1973. 18) Interr. del 5-6-1973. Atti, vol. 5° p. 163.

70 interrogatorio a poche ore dal fatto, sarà nuovamente interrogato soltanto il 5 giugno (dopo ben un mese e mezzo!) e nemmeno in modo troppo dettagliato; quando — ed è ancor più grave — gli inquirenti avevano già da un pezzo spiccato i mandati di cattura, avevano messo in carcere Achille Lollo e chiuso il cerchio della montatura. Mario Mattei per salvarsi si cala dalla finestra con la figlia Lucia

Dunque, Mario Mattei, aiutato da Silvia a spegnere le fiamme che lo avevano avvolto, dal tinello (dove dormivano Silvia e l'altra figlia Lucia) si reca all'ingresso e riesce ad aprire la porta di casa. Torna in tinello e con le due figlie va in cucina, alza la serranda, prende con sé Lucia e si butta sul terrazzino di sotto (19).

Anna Maria Mattei si mette in salvo uscendo dalla porta di casa con i figli Antonella e Giampaolo

Anna Maria Mattei è l'unica che si mette in salvo uscendo dalla porta di ingresso : «... Il vano di ingresso era pieno di fiamme ma mio marito è riuscito ugualmente a spalancare la porta» (20). Si salverà per questa strada insieme ai figli più piccoli; Antonella e Giampaolo, grazie anche all'aiuto dell'inquilino di fronte. Silvia, la figlia maggiore, svegliata alquanto in ritardo rispetto agli altri aiuta il padre a spegnere le fiamme che lo avevano quasi avvolto, e quindi si dirige insieme a lui e alla sorella Lucia alla finestra della cucina. Mentre il padre sta cercando di alzare la serranda, lei torna indietro nel tentativo di uscire dalla porta della stanza, ma — dice — «... non ci riuscii perché la maniglia era rovente ed il calore fortissimo... tornando in cucina notai che papà non c'era più... e l'ho visto sul terrazzino sotto la cucina...» (21). Non avendo altra scelta si butterà anche lei

19) Interr. del 23-4-73. Atti, vol. 5° p. 55. 20) Interr. del 16-4-73. Atti, vol. 5° p. 1. 21) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5° p. 55.

71 dalla finestra, e, mancando l'appiglio, precipiterà nel cortile. Perché Virgilio e Stefano restano intrappolati II dirimpettaio: le fiamme erano all'interno della casa sul pianerottolo c'era solo fumo...

Elemento comune di tutte queste testimonianze è l'affermazione — certa e decisa — che le fiamme sono dapprima scoppiate all'interno dell'appartamento; anche i vicini di casa e i primi soccorritori, del resto, dichiareranno che sul pianerottolo dell'appartamento c'era soltanto del fumo. Gualtiero Perchi, inquilino dell'appartamento di fronte ai Mattei, è il primo ad accorrere, e dichiara (22) : «... aprii la porta e fui avvolto da una vampata di fumo e di caldo... le fiamme divampavano nell'interno della casa (quella dei Mattei ndr), sul pianerottolo quando io aprii la porta di casa non c'erano fiamme». E ancora : «... riempii di acqua una catinella... per due o tre volte... e versai il contenuto sulla porta di casa Mattei... ho visto uscire la signora Mattei quando avevo buttato la prima catinella d'acqua contro l'ingresso della sua abitazione».

Virgilio e Stefano, le due vittime, sono gli unici che non riescono mai ad uscire dalla loro stanza, prigionieri dell'incendio

L'altro elemento che si deduce inequivocabilmente dalle testimonianze dei Mattei, è che tutti meno Virgilio e Stefano sono riusciti a muoversi, a vedersi, a parlarsi; sono rimasti «tagliati fuori» soltanto i ragazzi, nessuno dei superstiti è riuscito ad entrare nella loro camera, che durante tutto l'incendio è rimasta isolata. L'unico «contatto» che i Mattei hanno avuto con Stefano e Virgilio è dichiarato da Mario Mattei quando afferma che ha udito il figlio gridare e telefonare. Ma, nonostante la

22) Interr. del 19-5-1973. Atti, vol 5° p. 147.

72 loro camera fosse la più vicina alla porta d'ingresso, e nonostante proprio loro due fossero gli elementi più validi dell'intera famiglia, Virgilio e Stefano Mattei non riescono a mettersi in salvo per le medesime strade percorse da donne e bambini. Che cosa può significare tutto ciò? Soltanto che l'incendio era divampato, ed era più feroce, proprio davanti alla loro stanza. Lo dimostra la comparazione dei danni riportati dall'appartamento nei suoi singoli punti, lo dimostrerà più efficacemente e in modo più esauriente la «controperizia». Una mezz'ora tutta telefonata

Secondo i Mattei, Virgilio chiama la Questura

Nella notte del rogo e mentre più violente sono le fiamme, i fascisti di Primavalle effettuano e si scambiano numerose telefonate. Certamente troppe per una situazione di estrema gravità, troppe per un incendio che — secondo gli atti ufficiali — si è consumato in un tempo relativamente breve. L'allarme, secondo la versione della polizia, scatta alle 3,27; a quell'ora infatti la sala operativa della questura registra la prima richiesta di aiuto, indirizzata al «113». «Mi hanno incendiato casa, aiuto — dice una voce — sono il segretario del partito» (23). Secondo Mario Mattei a chiamare il «113» è il figlio Virgilio (24) dall'unico apparecchio esistente nell'appartamento, un impianto a muro situato nella stessa stanza dei due ragazzi. Anche la figlia maggiore, Silvia, dichiarerà di aver sentito Virgilio telefonare senza specificare chi stesse chiamando: «... ho sentito la voce di Virgilio che parlava al telefono, ma non ha finito la frase. Forse il fuoco aveva già bruciato il filo...» (25).

23) Atti, vol 1°. p. 7 24) Interr. del 5-6-1973. Atti, vol. 5° p. 163. 25) Intervista a Silvia Mattei. Dal «Messaggero» del 18-4-1973.

73 Marcello Schiaoncin dichiarerà: Alla stessa ora qualcuno chiama gli Schiaoncin

«... Verso le 3,20... fummo svegliati da una telefonata... Risposi io, sentii la voce di Mario Mattei o di Virgilio...» (26). La moglie Anna Menna ribatterà (27) : «Alle 3,35... (guardai l'orologio)... squillò il telefono... "hanno bruciato la casa... tutti morti, tutti morti". La voce la riconobbi per quella di Virgilio Mattei. Virgilio e Mario hanno la voce simile. A me sembrò la voce di Mario, ma poiché Silvia (successivamente, ndr) mi disse che era Virgilio che telefonava ho detto che avevo riconosciuto la voce di Virgilio».

Perché Virgilio Telefona al "camerata" anziché mettersi in salvo?

Non è però possibile che Virgilio abbia telefonato alle 3,35 poiché a quell'ora l'incendio era consumato; d'altra parte anche per Mario Mattei sarebbe stato difficile telefonare a quest'ora perché, come vedremo, stava nell'appartamento di sotto e non risulta dalle testimonianze che abbia fatto anche questa telefonata. Ma allora, se la telefonata è stata fatta alle 3,20, quale è il motivo che ha indotto Virgilio Mattei ad effettuarla, e proprio agli Schiaoncin? Che cosa infatti può giustificare la necessità che ha Virgilio, incalzato dalle fiamme, di telefonare non al 113, non alla Croce Rossa, non ai Vigili del Fuoco, ma ad un camerata e per giunta al «due di coppe» della sezione Giarabub? Perché s'attacca al telefono invece di pensare a mettersi in salvo? (28)

26) Interr. del 16-5-1973. Atti, vol. 5° p. 138. 27) Interr. del 1-5-1973. Atti, vol. 5° p. 79. 28) L'incongruenza tra gli orari (3,20 e 3,35) fra gli Schiaoncin viene «risolta» dal giudice Amato, durante l'interrogatorio della Schiaoncin del 1 Maggio. La sfasatura di ben quindici minuti è troppo grossa da poter colmare. L'unica cosa da fare è posporre la telefonata da casa Mattei agli Schiaoncin alla chiamata al «113», per non far apparire troppo strano e inspiegabile il comportamento dei Mattei, che durante l'incendio si affrettano a telefonare ad un loro camerata e soltanto più tardi chiamano la polizia. Amato fa allora eseguire durante l'interrogatorio una telefonata al 16 «servizio ora esatta»: «sono le ore 12,39». L'orologio portato dalla signora — lo stesso orologio che come dichiara la teste teneva al polso la notte ( !) — segna le 12,44». Cinque

74 E' Mario Mattei a dare l'allarme alla Questura. E subito dopo "convoca" il federale del MSI

Ma il gioco delle telefonate non è ancora finito; pochi minuti più tardi, alle 3,27, Mario Mattei —che nel frattempo si è messo in salvo gettandosi dalla veranda sul terrazzino dell'appartamento sottostante, — chiede concitatamente di telefonare. Giacché ha le mani ustionate, prega Umberto Aleggiani, affittuario dell'appartamento, di comporgli i numeri. La prima telefonata è proprio quella al 113 registrata con l'orario delle 3,27 alla sala operativa della questura. Della seconda telefonata è stato colto solo un brano di conversazione: «dottore, sono Mattei, mi è successo un guaio...». Il «dottore» che si precipita sul posto è presto riconosciuto. E' Loffredo Gaetani Lovatelli, federale romano del MSI (29).

Ustionato e appena salvo per prima cosa Mario Mattei si preoccupa di parlare per mezz'ora con il suo federale

L'episodio è più che sconcertante: ustionato, e nel caotico avvicendarsi delle circostanze, Mattei chiama il federale romano, cioè certamente una delle persone meno idonee per portargli aiuto, ma invece maggiormente in grado di consigliarlo sul da farsi, sulle dichiarazioni da rendere, sul comportamento da tenere, soprattutto sulle cose da non dire.

minuti avanti! Quindi, vorrebbe concludere Amato, quella notte quando chiamarono i Mattei erano le ore 3,30, e la famiglia del segretario missino aveva già avvertito il «113». E' questa l'ora «esatta» di Amato! Una ridicola messinscena di controllo di orologi, ben 15 giorni dopo l'accaduto. (Interr. del 1-5-1973. Atti, vol. 5° p. 79). 29) Anche l'«Avanti» del 244-73, evidentemente avvertito da un testimone oculare, segnala : «Il Mattei che si lascia cadere sul balcone dell'appartamento di sotto, fa una strana telefonata a qualcuno o qualcuna...».

75 I camerati sono tutti presenti I fascisti sotto la casa ci sono subito tutti...

Dopo questa telefonata il «federale» romano Loffredo Lovatelli (30) non esita a precipitarsi sul posto. Non solo, ma si dirige subito all'appartamento dove sta ancora Mattei e può essere il primo a parlare con lui parecchi minuti. (31) I fascisti arrivano sul luogo del rogo sempre più numerosi, mano a mano che il tempo passa: arrivano gli Schiaoncin avvertiti — come abbiamo visto — dalla telefonata:, c'è già Antonio Giordani (il camerata nella cui abitazione la sera precedente erano andati «in visita» i coniugi Mattei) che, insieme alla Schiaoncin e al D'Agostino andrà poi a prelevare Lampis dal dormitorio (vedi capitolo IX). Ma i fascisti sono rappresentati sul luogo in maniera assai più ufficiale: oltre a Gaetani Lovatelli ci sono anche l'avvocato Michele Marchio, deputato e consigliere del MSI, Francesco Spallone dirigente della Federazione missina e Domenico Franco, segretario del MSI di Monte Mario. Ci sono già anche la Croce Rossa, i Vigili del Fuoco, i carabinieri, la polizia. Sono presenti il magistrato di turno dr. Sica e, per la PS, il questore di Roma, Parlato, il capo della «mobile» Vecchione, il capo gabinetto della questura Frasca, il capo dell'ufficio politico, l'immancabile Provenza, il vicecapo dell'ufficio politico Improta (attualmente promosso a dirigente dello stesso ufficio, dopo l'allontanamento di Provenza), il dottor Tricarico dell'ufficio notturno, il dottor Scali, il dottor Valenzano, il commissario Secchi ed il dottor Adornato del commissariato di Primavalle.

30) Le persone cui ci riferiamo non hanno testimoniato ufficialmente ai giudici la circostanza. Hanno avuto però tempo e modo di parlarne a molti nel quartiere e fuori. I ricatti e le intimidazioni, non sono stati sufficienti a impedire che tutta Primavalle conosca l'episodio. 31) Il ricovero di Mario Mattei all'ospedale Sant'Eugenio è registrato alle 4; Atti, vol. 1° p. 220.

76 ...e tra funzionari, poliziotti, carabinieri e magistrati anche due ufficiali dell'antidroga

solo alle 5,45 Anna Maria Mattei è ricoverata all'ospedale

Assai interessanti, le presenze dei carabinieri: il comandante della legione di Roma Giuseppe Siracusano, il maggiore Placidi, inoltre il capitano Volpe ed il tenente Vacca del nucleo di Trastevere. Tutte queste presenze si spiegano; salvo le ultime due: è inedita infatti la partecipazione di una compagnia di zona come quella di Trastevere, tenendo ben presente che i due ufficiali dei carabinieri Volpe e Vacca sono apparsi nelle cronache quasi sempre per operazioni antidroga (32). Ma vediamo, in mezzo a tutte queste persone che ormai affollano il cortile del lotto n. 15 di via dei Campeggi, come si muovono i protagonisti della vicenda. Abbiamo già detto che Mario Mattei è chiuso in una stanza col «federale» missino Gaetani Lovatelli; Anna Maria Mattei (che ricordiamo è stata la prima a mettersi in salvo) è l'ultima ad essere ricoverata all'ospedale (il suo arrivo è infatti registrato alle 5,45), ed ha pertanto tutto il tempo per muoversi e parlare con i suoi camerati. Sarà infatti presente anche nel cortile e dirà di aver ricevuto il cartello. Nel cortile del palazzo si aggira a lungo gridando: «Avete visto il cartello! il cartello! sono stati i comunisti!» Sarà interrogata alle 5 di mattina sull'ambulanza, ma in modo assai poco dettagliato: «Mi riservo di riferire altre notizie —dirà infatti — non appena avrò parlato con l'avvocato Marchio». (33) Dovrebbe essere parte lesa ma ha bisogno di un suggeritore!

32) Che ci sia relazione con le molte ipotesi di intrighi e di contrabbando fatte attorno ai nostri personaggi? Il capitano Volpe ed il tenente Vassa sono inoltre collaboratori del capitano dei CC Servolini, intimo di Almirante e pilastro delle apocalittiche campagne di stampa dei fascisti sulla diffusione della droga fra i giovani. 33) Interr. del 16-4-73. Atti, vol. 5° p. 7.

77 Evidentemente non ha fatto in tempo a parlare in precedenza con l'avvocato fascista, e questo si spiega: il Marchio, infatti, ha un ruolo ben preciso da svolgere sul posto: portare via al più presto da lì Angelo Lampis ed indottrinarlo a dovere prima che sia interrogato. Il Lampis ricomparirà alle 10,45 della mattina (vedi cap. IX). Ma insieme a Marchio che sta con Lampis dalle 4,30 circa sino alle 10,45, c'è anche Anna Schiaoncin la «fascista» a cui durante un interrogatorio sfugge una dichiarazione: «... Verso le 9 dello stesso giorno (16-4, ndr) il Lampis mi disse...» (34) Anche lei, evidentemente ha avuto bisogno di essere opportunamente «preparata» per un eventuale interrogatorio

34) Interr. del 1-5-1973. Atti, vol. 5° p. 78.

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Le tante strade della provocazione

Su indicazione dei fascisti scatta la montatura della polizia: Sono via via coinvolti il Pci, Avanguardia Operaia, il collettivo del Castelnuovo, Potere Operaio. Bisogna a tutti i costi addossare la colpa alla sinistra.

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Sono le ore successive all'incendio di Primavalle, è la mattina di lunedì, viene aperta l'inchiesta che fin dall'inizio si muove con un unico indirizzo: la sinistra. In un solo giorno rimarrà coinvolta nel meccanismo messo a punto dai fascisti di Primavalle e poi da magistratura e polizia, una vasta area della sinistra, che va dal PCI ad Avanguardia Operaia, dal Collettivo politico del liceo Castelnuovo a Potere Operaio. Questa coordinazione, questa immediata confluenza verso una qualsiasi pista purché rossa, va inserita, per essere capita, nel particolare momento politico vissuto dai fascisti. Non è infatti possibile spiegare questa giornata di lunedì 16 aprile, in cui magistratura e polizia iniziano e distruggono tante ipotesi diverse, ma tutte avviate col solo scopo di colpire a sinistra, senza riferirle all'escalation terroristica condotta dai fascisti nei primi 15 giorni d'aprile ed alla necessità di ridare respiro alla teoria degli «opposti estremismi». Il 7 aprile lo squadrista Nico Azzi fallisce per poco il tentativo di far esplodere sul direttissimo Torino-Roma un ordigno capace di provocare una strage di immani proporzioni. Quale fosse lo scopo di questo attentato è subito chiaro quando viene trovato sul luogo dell'incidente un biglietto ferroviario acquistato a Pavia, dove, nelle stesse ore, era in corso una grossa manifestazione organizzata da Lotta Continua. Come se non bastasse sul treno vengono trovate numerose copie, lasciate alla rinfusa, di Potere Operaio e Lotta Continua. Fallita la strage del treno si passa ad un secondo tentativo: il comizio di Ciccio Franco a Milano, in cui le bombe fasciste uccidono l'agente di PS Antonio Marino. Immediatamente i fascisti tentano 'di addossare l'assassinio a «provocatori» «infiltrati». Ma gli va male. L'Unità pubblica le fotografie dei fascisti mentre lanciano le bombe.

82 Il MSI è costretto a correre ai ripari. Scarica i suoi killers denunciandoli direttamente alla polizia. Ma la situazione precipita sempre più: gli squadristi, isolati, messi colle spalle al muro parlano, fanno i nomi dei veri responsabili. Il MSI è coinvolto fino al livello dei suoi massimi dirigenti. La notte di domenica 15 aprile brucia la casa del segretario missino di Primavalle a Roma. Dopo pochi minuti è già sul posto lo stato maggiore del MSI. E' l'occasione da utilizzare nel tentativo di riequilibrare la situazione. Bisogna a tutti i costi addossare la colpa alla sinistra. La manovra scatta subito: i fascisti si muovono parallelamente in perfetta coordinazione, mentre la polizia fa da cinghia di trasmissione a tutte le loro iniziative, con la copertura autorevole degli alti organi della magistratura. Li abbiamo lasciati tutti sotto casa Mattei dove hanno il tempo di prepararsi e di organizzarsi. Il regista della manovra costruita subito dai fascisti è il consigliere comunale del MSI, Michele Marchio, che abbiamo visto davanti a casa Mattei «consigliare» tutti i fascisti e che arriverà a costruire materialmente la trama su cui verrà poi articolata la montatura. A dimostrare il ruolo di primo piano avuto subito da Marchio nella vicenda, citiamo integralmente la relazione di servizio al commissariato di Primavalle redatta dagli appuntati Priolesi e Ripepi nelle primissime ore posteriori all'incendio. «Informo la S.V. che, come da ordini ricevuti, alle ore 6 circa del 16-4-73 mi sono portato presso il dormitorio pubblico di Primavalle sito in via F. Borromeo 77, allo scopo di rintracciare un sardo in possesso di un'auto A. R. Giulietta, alloggiato in detto dormitorio. Sul posto venivo a conoscenza che poteva trattarsi di certo Lampis Angelino di Angelo, nato a Pabillonis (Cagliari) il 13-12-1937, e portatomi presso i box occupati dalla famiglia Lampis, accompagnato da portiere di servizio, trovavo la di lui moglie alla quale chiedevo del marito. Costei mi informava che il consorte non era in casa, in quanto, poco prima, era uscito per telefonare al suo datore di lavoro e che, da lì a poco, sarebbe ritornato perché aveva lasciato la colazione del giorno. A questo punto ritenevo opportuno informare telefonicamente l'Ufficio che avevo potuto appurare, intrattenendomi sul posto ancora per alcuni minuti, poi vista vana la mia attesa, rientravo in ufficio.

83 facevo ritorno sul posto per cercare di rintracciare il Lampis e, nei pressi del dormitorio, ci veniva incontro la moglie del predetto, la quale ci informava che il marito era stato da lei visto, poco prima, salire a bordo di una auto della polizia, con targa civile, e che senz'altro si era diretto al Commissariato. Chiedevo notizie all'ufficio, ma mi veniva riferito che il Lampis non si era colà portato. Ci siamo messi sulle tracce dell'auto di colore bleu, Fiat 127 con targa Roma K 8..., notata dal portiere del dormitorio con nel retro del sedile posteriore un cappello da cacciatore di colore bianco, per cui ci si rendeva conto che non poteva trattarsi di auto in dotazione alla polizia. Successivamente, per voce del segretario della sezione del MSI di Monte Mario, Domenico Franco, il quale si trovava nei pressi dell'incendio, e al quale ci eravamo rivolti, poco prima per avere qualche notizia utile sulla predetta auto, notata in via B. da Bibbiena nel momento in cui il Lampis vi era salito a bordo; si apprendeva che la stessa era di proprietà dell'avv. Marchio. Quanto sopra si è svolto entro le ore 10» (1). Questo importante documento è stato trattenuto all'ufficio politico della questura e il commissario capo Improta lo ha trasmesso al giudice istruttore soltanto il 2 maggio, con ben tredici giorni di ritardo. E' questa la prima prova di come le indagini siano state materialmente pilotate dai fascisti. La polizia e la magistratura si limiteranno a ratificarle. Con questo metodo la originaria manovra fascista si trasformerà poco a poco in una vera montatura. Vediamo le singole tappe di queste prime giornate di indagini, esaminiamo ad una ad una queste molteplici strade della provocazione, contro la sinistra, percorse a Primavalle. La provocazione contro il Partito comunista La prima mossa verso la pista rossa scatta subito, e a metterla in moto è il commissario capo di Primavalle, dottor Secchi, l'uomo

1) Atti, vol. 1°, p. 10.

84 che dà l'avvio alle prime indagini. A soli 90 minuti dall'incendio, infatti, si ricorda che il 30 gennaio aveva ordinato di perquisire l'abitazione del presidente dell'associazione Italia-Cina, Umberto Ascani. Dato che in quella occasione, «il personale operante notò numerosi rotoli di carta usati dall'Ascani, pittore e cartellonista, per approntare manifesti politici commissionatigli dal PCI e da altri partiti. della sinistra di cui è attivista» (2). Secchi pensa bene di emettere un immediato ordine di perquisizione :la prima provocazione è scattata. Ma è soltanto il primo tentativo. Subito dopo infatti il tiro viene spostato più in alto, addirittura su un membro del Comitato Centrale del PCI: «Poiché da notizie confidenziali che vengono da persone attendibili, si è appreso che probabile organizzatore dell'incendio stesso sarebbe stato tale Calabri Ennio, in oggetto indicato, si prega codesta Autorità Giudiziaria di voler autorizzare personale dipendente e dell'Ufficio Politico della locale Questura ad eseguire una perquisizione domiciliare nell'abitazione di quest'ultimo, allo scopo di rinvenire materiale che abbia attinenza con il fatto» (3). La posta in gioco è grossa, ma il procuratore Sica non si spaventa; alle 8,55 «letta la nota che precede, e ritenuti i motivi che in essa sono esposti» (4) avalla pienamente l'orientamento delle indagini. Non si cura di accertare né la fonte delle «notizie confidenziali», né il suo grado di attendibilità. «L'Unità» del 17 aprile rileva con sdegno che si era dato «seguito con sorprendente rapidità ad una provocatoria e assurda segnalazione» sicuramente «anonima». La soffiata però non è davvero senza volto, e — per giunta — l'informatore non è stato nemmeno coperto con un po' di abilità (5). Il dottor Secchi, infatti, nella 2) I rotoli di carta «notati» — specificava il commissario — erano «del tipo autoadesivo simili a quelli... rinvenuti... nel piano sovrastante l'appartamento di Mattei» (Atti vol 1" D 5) 3) Atti vol. l° p. 6. 4) Atti vol. 1°, p. 6 bis. 5) Ennio Calabria infatti dava già questa motivazione nella sua denuncia contro la Procura della Repubblica presentata il 20 aprile: «La nota della polizia avallava comunque la fondatezza della segnalazione definita attendibile e quindi proveniente da persona sicuramente conosciuta. Domando pertanto che venga accertata la identità della persona che ha fornito la informazione e la persegua per i reati che riterrà configurabili nei fatti esposti. Faccio presente inoltre che non è possibile che l'informatore sia ignoto al Commissariato di PS di Primavalle e all'Ufficio Politico della questura perché l'art. 141 cpp. vieta che si faccia alcun uso di anonimi. Se ciò si è verificato domando che la Procura accerti quale funzionario di PS e quale altra persona abbia contravvenuto alla disposizione

85 richiesta di perquisizione rivolta a Sica, fa un lapsus illuminante quando scrive «tale Calabri Ennio, pittore, non meglio indicato» (6), lapsus ripetuto da Sica che mantiene la deformazione del cognome Calabria in Calabri. Ebbene gli atti ufficiali dell'inchiesta non lasciano dubbi : l'informatore è Angelo Lampis. E' lui, infatti, a storpiare in questo modo il cognome di Calabria ogni volta che negli interrogatori avrà occasione di citare il pittore comunista» (6 bis). Ma quando Secchi ha avuto la soffiata da Lampis? La richiesta di perquisizione del commissariato parte alle prime ore del 16 aprile mentre il primo interrogatorio di Lampis al commissariato è alle 10,40. Tutto lascia pensare che subito dopo l'incendio, davanti a casa Mattei, non sia solo l'avvocato Marchio a parlare con Lampis, ma anche il commissario capo di Primavalle. E' in quel momento quindi che è scattata tra fascisti e polizia l'idea di tentare il colpo grosso e coinvolgere, con il pittore comunista, tutto il PCI nelle indagini. L'incredibile tentativo di provocazione su Calabria e il PCI, comunque, ha avuto il suo antefatto già nella settimana precedente, come si riscontra negli interrogatori dei Mattei. Anna Maria Mattei afferma che 1'8 aprile Lampis parlò loro «di un pittore che abita alla borgata Focaccia, uomo danaroso, presso il quale si sarebbe recato il giorno dopo per avere del denaro» (7). E dopo l'attentato a via Svampa Lampis parlò ai Mattei di un «finto pittore» che «sovvenzionava questi attentati e aveva speso 850 mila lire per disturbare un nostro comizio a Monte Mario» (8). In

processuale e se ciò comporti eventuali sanzioni». («L'Unità», 21-4-1973). Calabria non ha mai avuto risposta. 6) Atti, vol. I", p. 10. 6 bis ) Interr. 28-4-1973: «Mi fece il nome del pittore: tale Ennio Calabri» (Atti, vol. 4°, p. 74). 7) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 18. 8) Interr. del 18 aprile. Atti, vol. 5°, pp. 31-32

86 quell'occasione Lampis arrivò a dire che questo «finto pittore» avrebbe dovuto «riceverlo una delle prossime sere, perché gli doveva consegnare dell'esplosivo» (9). La confusione è enorme: Lampis non ha neanche ben deciso che ruolo attribuire a Calabria, da simpatizzante-finanziatore del MSI a mandante degli «attentati degli estremisti di sinistra». Meglio fare un gran calderone. Tant'è vero che continuerà a creare la maggior confusione possibile e appena vedrà che la montatura sul nome di Calabria non è più facile da tenere in piedi, comincerà a tirarsi indietro. Se infatti nel primo interrogatorio aveva fatto in modo di inserire il nome del pittore nel racconto della sua frenetica domenica (afferma di averne parlato durante una breve conversazione davanti al dormitorio, con un certo Rosario Fresta, noto fascista, anche se questi nega e precisa di aver «parlato solo di lavoro») (10), successivamente cambierà interlocutore e dirà di averne parlato, sempre davanti al cancello del dormitorio, con un certo Paolino Carroni. Più tardi dirà che fu invece il Carroni a fargli il nome di tale «Ennio Calabri» (11). Alla fine si tirerà indietro definitivamente quando affermerà che le dichiarazioni fatte a Mattei circa il pittore e gli attentati erano «bugie», «frottole» dette a Mattei perché «lui non mi credeva» (12). Polizia e magistratura hanno preso la prima grossa cantonata : la perquisizione è negativa, il teste «attendibile» si contraddice continuamente. Ma non fanno marcia indietro: anzi all'indignata replica dell'Unità e alla denuncia subito sporta da Calabria, fa eco il capo dell'Ufficio Politico, Provenza, che non solo avalla la provocatoria iniziativa di Secchi, ma ribatte: «Tutte le perquisizioni sono risultate negative, ma non è detto che indagini su singole persone siano finite. Se sono state fatte, sono state fatte non in base a telefonate e segnalazioni anonime, ma in base a sospetti e indizi ben precisi» (13). Gli indizi «ben precisi» erano forniti da Angelino Lampis!

9) Ibidem. 10) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 10. 11) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 64. 12) Interr. del 20-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 68. 13) Dichiarazione riportata dal «Secolo» del 18 aprile 1973

87 La provocazione contro Avanguardia Operaia Sempre la mattina di quel lunedì 16 aprile a tutte le pattuglie delle «volanti» viene consegnato un elemento cui gli inquirenti annettono molta importanza: il numero di targa di una 500: Roma G 86099. Tanto per cambiare, anche questo elemento è stato fornito dal solito Lampis durante il primo interrogatorio. E' la targa di una automobile che Lampis ha visto domenica mattina nella zona di Primavalle, e che nella sua fantasia di provocatore ha trasformato in un «picchetto» addetto alla preparazione di un attentato. La magistratura scatena subito la caccia al proprietario dell'automobile sotto accusa. il quale viene individuato, inseguito e fermato in via Gregorio VII; alla legione dei carabinieri lo interroga il capitano Cornacchia. Il proprietario della vettura è uno studente, E .M., militante di Avanguardia Operaia. Con lui sono fermati altri due studenti, M.C. e M.C., militanti della stessa organizzazione. Ma polizia e magistratura non riescono a trovare alcun elemento a cui appigliarsi: il «minaccioso «picchetto» di Lampis era semplicemente — e il giudice è costretto ad ammetterlo — una distribuzione militante del giornale fatta dagli aderenti ad una organizzazione della sinistra rivoluzionaria. Ma questa abituale pratica di propaganda nel quartiere la mattina del 15 aprile, a Lampis era sembrata tanto importante e soprattutto «utilizzabile» da giustificare un così grande attento pedinamento, al termine del quale aveva ricopiato il numero di targa della 500 e, la sera, lo aveva portato a Virgilio Mattei, precisando che la targa era «di quelli che avrebbero dovuto fare l'attentato» (14) ! Ma di tutta l'elaborata manovra per ricostruire una «prova» materiale contro i militanti di Avanguardia Operaia parleremo dettagliatamente nel cap. IX. La provocazione contro Potere Operaio Ora, crollata la montatura contro il PCI, fallito il tentativo di coinvolgere i militanti di Avanguardia Operaia, fascisti e poliziotti si scatenano per tenere in piedi a tutti i costi la pista rossa. E in quelle stesse ore Di Meo e Fidanza (le persone «attendibili» di cui parlerà Sica nella requisitoria) stanno scorrazzando tra il quartiere e il

14) Interr. Silvia Mattei del 23-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 54.

88 commissariato di Primavalle, per «far fare» al netturbino Speranza, che abita davanti alla sede di Potere Operaio a Primavalle, i nomi dei «suoi amici», certi «Achille» e «Marino». Anna Maria Mattei nell'interrogatorio del 17 mattina, dopo aver parlato un'ora con Almirante, tenta (15) di coinvolgere Potere Operaio nell'attentato col tritolo alla Giarabub. Del resto i giornali fascisti già il 16 sera escono con i titoli di testa: «Sono di Potere Operaio» ; il «Momento Sera» del 16 scrive: «Un giovane aderente a Potere Operaio è stato fermato nel primo pomeriggio dai carabinieri. Il ragazzo qualche giorno fa rivolgendosi a Mario Mattei avrebbe detto: "Stai attento a te; uno di questi giorni ti bruceremo la casa"». Ebbene il 16 (e nemmeno il 17), nessun militante di Potere Operaio era stato ancora interrogato né cercato. Ma a Potere Operaio ci si arriva attraverso un altro passaggio : gli sforzi dei magistrati sono volti a colpire un punto preciso, il Castelnuovo, il liceo «rosso», divenuto negli ultimi anni un punto di riferimento per gli studenti e i proletari di Primavalle. A mettere in moto la provocazione questa volta è il commissario Merola, il quale — trasferito da Primavalle al commissariato di piazza Mazzini per collusione con la mafia locale e per traffico di droga — viene recuperato per l'occasione con il ruolo di esperto. E Merola dimostrerà subito tutta la sua «esperienza» sequestrando di persona un ex-alunno del liceo Castelnuovo, Claudio Nesti, e sottoponendolo ad un «interrogatorio di polizia». Nel vano tentativo di «convincerlo» (16), Nesti viene letteralmente pestato. Ma che cosa voleva Merola dall'ex-alunno del Castelnuovo? Che firmasse un verbale di interrogatorio nel quale egli apparisse come dirigente di un inesistente gruppo di extraparlamentari. Nesti lo denuncia per sequestro e percosse. Il solito Provenza fa una controdenuncia per calunnia contro Nesti e Marino Sorrentino che a sua volta aveva denunciato il fatto alla stampa. La scelta di Merola aveva un indirizzo preciso: Nesti infatti è amico di Marino Sorrentino, riconosciuto esponente del collettivo politico

15) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 18 16) Merola arriva a bloccare di persona con la sua macchina, una Mini, Nesti lo trascina al Commissariato, lo picchia per due ore e gli fa firmare una dichiarazione a scatola chiusa.

89 Del Castelnuovo, e preso di mira dalle «sentenze esemplari» del giudice Dell'Anno. Ebbene, con Nesti la polizia cerca di chiudere un primo cerchio; Dell'Anno aveva fatto arrestare Sorrentino e denunciato molti altri militanti tra cui Achille Lollo, per manifestazioni «sediziose» all'interno della scuola (17); ma Dell'Anno era anche stato oggetto di un attentato che immediatamente dopo l'incendio di Primavalle gli inquirenti e la stampa indicarono come uguale, nella tecnica, a quello di casa Mattei (18). Ed ora il quotidiano fascista, che nei mesi precedenti aveva «tenuto in caldo» l'affare Dell'Anno, limitandosi di quando in quando ad additarne i responsabili nei «rossi» del Castelnuovo e di Potere Operaio, riprenderà il martedì 17 aprile, con un lungo articolo in cui afferma tra l'altro: «Non vogliamo qui dire di possedere virtù divinatrici, ma quando abbiamo appreso che gli assassini dei due fratelli Mattei avevano usato la stessa barbarica ed animalesca tecnica con la quale tempo fa avevano tentato di bruciare vivi i familiari del giudice Dell'Anno, il nostro pensiero è andato ai teppisti del liceo Castelnuovo, contro i quali il MSI-DN ha condotto una tenace battaglia, non sempre però interamente compresa». A questo punto il gioco è fatto per magistrati e poliziotti. Si tratta ora di trovare dei «nomi». Il netturbino Speranza, «convinto» dai suoi superiori, i fascisti Di Meo e Fidanza, parla di «Achille» e «Marino» e l'ufficio politico della Questura si precipita a identificare

17) Il 20 dicembre del 1971 Paolino Dell'Anno emette 4 mandati di cattura contro gli studenti: Italo Spinelli, Massimiliano Troiani, Marino Sorrentino Piero Bartoloni, ed una ventina di denunce contro altri studenti (tra cui Achille Lollo) per un episodio avvenuto il 23 ottobre durante un corteo interno al Castelnuovo, quando era stato abbattuto un tramezzo di legno 18) «Il Giornale d'Italia» del 18-4-1973 titolerà un intero articolo: «L'attentato a Dell'Anno e quello a Mattei: stessa tecnica». «Il Tempo» in un articolo del 17-4 addirittura inventa un presunto interrogatorio di Speranza in merito all'attentato a Dell'Anno: «... Tra gli altri è stato ascoltato un giovane appartenente al PRI che venne già interrogato in occasione dell'attentato compiuto all'abitazione del Dott. Dell'Anno». Anche il «Paese Sera» del 17-4 riporterà un articolo dal titolo «Dell'Anno: sorprendenti analogie». «Il Messaggero» del 18-4 riporterà una dichiarazione dell'Ing. Tiezzi comandante dei Vigili del Fuoco e specialista in termofisica e analisi della combustione: «L'attentato di Primavalle è stato inscenato nello stesso modo... quasi con gli stessi gesti di quello di Dell'Anno»

90 i due in Achille Lollo e Marino Sorrentino, tutti e due con «l'utile» precedente di aver avuto a che fare con Dell'Anno, tutti e due ex studenti del Castelnuovo. In più Achille Lollo è militante di Potere Operaio. Così senza la minima prova, solo con due nomi «costruiti» parte la montatura contro Potere Operaio. Che sia un'equazione a troppe incognite anche per gli inquirenti è dimostrato dal fatto che Sica, aggrappandosi alle affermazioni dello Speranza, è costretto a spiccare i due mandati di cattura soltanto per «uso, detenzione e trasporto di esplosivi» (19). Dichiarerà, anzi, sentendosi in dovere di giustificazioni, che «esistono degli indizi per quelle bombe. In periodo normale avrebbero portato probabilmente solo ad un avviso di reato. Ma dovete capire che la situazione è eccezionale» (20). E quali sono questi «indizi»? Il «pacco di sale» di cui ha parlato il netturbino Speranza (cfr. cap. X). Siamo al primo passo di una impresa che anche la stampa moderata non esiterà a bollare, definendola un «autentico funambolismo procedurale» (21); ma, nonostante la gravità di tutta. questa operazione, Provenza a mezzanotte del 17 aprile si reca da Sica a fare il nome dei due indiziati, ad esprimere i «sospetti» suoi e dei funzionari di PS di Primavalle (Secchi e Adornato), a chiedere dei mandati di cattura, quali che siano, con qualsiasi motivazione, pur di avere subito dei «colpevoli». Provenza deve concludere a tutti i costi; ha già preso troppe cantonate. Questa volta la manovra deve andare in porto. E allora bisogna arrestare subito qualcuno, magari attribuendogli reati precedenti, al solo scopo di acquisire indizi. E' così che si arriva all'arresto di Achille Lollo. Marino Sorrentino riesce a darsi alla latitanza. Lollo resta in isolamento per tre giorni: 72 ore in cui nessuno gli chiede ragione di nulla, in cui nessuno lo interroga. Anche perché il giudice non avrebbe saputo che cosa contestargli, ed avrebbe perfino

19) Mandati di cattura del 17-4e117-4. Atti, vol. 1° p. 45. Le motivazioni dei mandati di cattura non si riferiscono assolutamente all' incendio, ma ad un avvenimento precedente di cui ha parlato Speranza nei suoi fantastici racconti. 20) «Unità» del 20-4-1973 21) E' un'espressione usata dal «Corriere della sera».

91 dovuto ordinare la scarcerazione. Dopo tre giorni di isolamento, dunque, il primo interrogatorio. E Sica è costretto a scoprirsi. Lollo non viene interrogato per l'uso e la detenzione di esplosivo, che pure costituiscono il motivo della sua incarcerazione, bensì per strage. Alle proteste dei difensori Sica indizia Lollo e Sorrentino di questo reato. Ma il giudice dovrà un'altra volta, ammettere palesemente l'espediente incredibile cui ha fatto ricorso, con una sorta di evidente autocritica: «Effettivamente si tratta di un mezzo tecnico, tuttavia è anche un atto conseguente ad una serie di elementi che si sono integrati nel corso dell'istruttoria» (22). Non si tenta neanche più di mascherare la manovra, forse perché c'è ormai la sicurezza di una protezione ad alto livello; il Consigliere Gallucci, braccio destro del procuratore generale Spagnuolo, sarà infatti presente a quesi tutti gli interrogatori dei testi. Naturalmente non in veste ufficiale. Questa farsa durerà svariati giorni, finché un militante di Potere Operaio, Marino Clavo, a riprova della tranquilla consapevolezza della sua estraneità al fatto il 25 aprile manderà al magistrato una lettera, resa pubblica in anticipo» da una conferenza stampa nella sede di P.O., in cui svergogna pubblicamente l'identificazione di Sorrentino, dichiarando di essere lui quel «Marino» che si recò con Lollo a casa di Speranza. E dire che Sorrentino era stato identificato non a caso, ma anzi «sulla base della lettura degli atti finora acquisiti e degli accertamenti svolti» (23). In questura è il panico: il capo dell'Ufficio Politico, Provenza, viene posto sotto accusa; è stato lui con i suoi uomini, ancora una volta, ad affrettare le indagini per trovare al più presto un colpevole di comodo, è stato lui a dare in mano ai giudici un nome sbagliato. Ma Provenza non si perde d'animo: dopo la lettera di Clavo, si ostina ad affermare che il vero «Marino» è Sorrentino, che esistono validi indizi contro di lui. Marino Clavo non esiste — afferma ancora Provenza — perché non esiste negli schedari alcuna persona con questo nome, e quindi si tratta di un'evidente invenzione. Insomma, dello scomodo autore di una scomoda lettera si nega perfino l'esistenza pur di non smentire la «pista» intrapresa nell'indagine. E, a chiarire che Marino Clavo esiste davvero, ci penserà non la polizia, bensì un giornale il quale ne

22) Dichiarazione rilasciata all'«Unità» del 21 aprile. 23) Rapporto del Commissario Adornato al P.M. Sica del 17-4. Atti, vol. l°, p. 12.

92 pubblicherà il libretto universitario (24). Negli ambienti della Questura intanto viene fatta circolare la voce che la lettera sia stata scritta ad arte per intralciare le indagini. Clavo viene perfino definito «personaggio fantomatico», anagraficamente inesistente e perciò inafferrabile» (25). Tanto inafferrabile che la prima mossa per trovarlo sarà decisa da Sica: un ordine all'Ufficio alloggi della Questura affinché ricerchi questo Clavo «in tutti gli alberghi romani». Il 27 aprile, l'Ufficio Politico della Questura, è costretto a comunicare a Sica l'avvenuta identificazione di Marino Clavo. Ed il giorno stesso, Sica dichiara chiusa l'istruttoria sommaria, depositando le sue richieste al giudice istruttore Amato. Con uno scambio di persona evidentissimo tra le mani, Sica mantiene tutta la sua eleganza e non trova altra soluzione che aggiungere un altro Marino, chiedendo che si proceda «contro Achille Lollo e Marino Sorrentino, considerando entrambi indiziati dei reati di strage e di incendio doloso. Vorrà il giudice istruttore del pari considerare indiziato dei medesimi reati, e di quelli già attribuiti al Sorrentino, anche Marino Clavo. Disporrà in proposito ricognizione fotografica da parte dello Speranza Aldo nelle persone del Sorrentino e del Clavo» (26). Torniamo a Provenza. I giornali non gli risparmiano le accuse; il 30 aprile perfino il consigliere istruttore Gallucci è costretto ad interrogarlo per «chiarire alcuni equivoci che hanno notevolmente influito sull'orientamento delle indagini» (27); e cinque giorni più tardi la Procura della Repubblica è costretta ad usare un'arma raramente adottata, il comunicato ufficiale, per soccorrere il capo dell'Ufficio Politico. Afferma la Procura che: «In relazione alle notizie di stampa che vengono diffuse sulle indagini di Primavalle, si rende noto quanto segue: le indagini stesse fin dal primo momento sono state dirette dal sostituto procuratore

24) Il primo giornale a riportare il libretto di Clavo è «Il Messaggero» del 27-4-1973. 25) «Il Secolo» del 27-4-1973. 26) Atti, vol. 1°, p. 153 27) «Paese Sera» 1 maggio 1973.

93 della Repubblica di turno; l'Ufficio Politico della Questura e i carabinieri della legione di Roma hanno svolto accertamenti ed in base ad ordini precisi del magistrato, secondo quanto disposto in materia dalle norme di procedura penale. Alla luce di quanto sopra, le critiche rivolte al dottor Provenza sono assolutamente prive di qualsiasi fondamento» (28). Ma il «caso Sorrentino» non è ancora chiuso. Perché venga archiviato bisognerà attendere la sentenza di rinvio a giudizio del giudice istruttore Amato del 28-12-73 che scagionerà definitivamente l'ex-studente del liceo Castelnuovo, il quale tuttavia si sarà nel frattempo guadagnato anche una denuncia della Questura per aver pubblicizzato il pestaggio subito durante l'interrogatorio da Nesti. Nel frattempo verrà arrestato un terzo militante di Potere Operaio, Manlio Grillo, anche lui sulla base di indizi inconsistenti ma con l'aggravante di essere amico di Lollo e Clavo. La credibilità della montatura contro Potere Operaio ridotta ormai ad aggrapparsi solo alle parole dello spazzino Speranza riceverà il colpo di grazia il 9 luglio quando la controperizia dimostrerà inequivocabilmente la tesi dell'incendio dall'interno; e crollerà definitivamente quando 1'8 gennaio 1974 verrà arrestato con l'imputazione di violazione di domicilio, strage e incendio doloso per l'attentato a Dell'Anno il fascista Gianni Quintavalle uno dei picchiatori al servizio dei duri della Giarabub (29). I fascisti incassano male il colpo e subito dopo il primo arresto per l'attentato a Dell'Anno (30) si precipitano a fare marcia indietro sulla ipotesi della identità delle tecniche tra l'attentato a Dell'Anno e l'incendio a casa Mattei, ipotesi che per primi avevano avallato. «Il Secolo» del 24-12-73 contraddicendo apertamente la posizione precedente avanza l'ipotesi che ad «appiccare il fuoco a casa Mattei non siano stati dei politici, ma dei volgari malfattori» . Inoltre

28) Dichiarazione della Procura della Repubblica del 4 maggio 1973. 29) E' una famiglia fascista da sempre: il padre Edoardo è un noto mazziere autore di scorribande e squadre punitive nel quartiere. A lui era intestato il furgone su cui scapparono gli aggressori di un cronista del «Paese Sera». Lo zio Vittorio, fratello di Edoardo, è un ex-marò della Decima Mas, .ex repubblichino; rimase implicato nell'ottobre del 1972 nella uccisione di G. Spampinato corrispondente dell'«Ora» e dell'«Unità» di Ragusa. 30) Il primo ad essere arrestato, poco prima di Natale del 1973, per l'attentato a Dell'Anno è Mario Velloni.

94 subito dopo l'arresto di Gianni Quintavalle, il 10-1-1974, la Federazione romana del MSI si precipita a rilasciare questa dichiarazione: «Il signor Gianni Quintavalle non è iscritto al MSI-Destra nazionale, ciò per motivi ovvii e precisi in quanto in un passato recente ha preso parte attiva alla vita politica romana nell'ambito della DC» (31). Ma «Il Secolo» del 30 marzo 1971 aveva pubblicato una dichiarazione che si commenta da sé: gli auguri della redazione al camerata Gianni Quintavalle per la nascita del figlio. Con l'arresto del fascista Quintavalle per l'attentato a Dell'Anno cade l'ultimo anello costruito da fascisti, magistratura e polizia nel tentativo di colpire la sinistra rivoluzionaria. Ma il contraccolpo non colpisce solo i fascisti. Questo nuovo elemento fa crollare miseramente tutta la base dell'accusa costruita cosi faticosamente. E il giudice Amato allora si affretta a chiudere l'istruttoria il 29 dicembre 1973.

31 «Paese Sera» dell'11-1-1974.

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II veggente di borgata Angelo Lampis lo chiamano il «veggente» perché predice gli attentati che avvengono a Primavalle. La mattina di quella domenica gira per il quartiere fotografando tutti coloro che potranno servire per le «indagini» di un incendio che scoppierà quindici ore dopo.

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La figura ed il ruolo di Angelo Lampis costituiscono un mistero, nel già intricato «giallo» di Primavalle. E' certamente personaggio controverso ed equivoco, eppure molto importante: sarebbe stato lui a conoscere, con sette ore di anticipo, quanto in piena notte sarebbe poi capitato. Eppure, questo «veggente» che costituisce il momento più importante della provocazione e che serve per indirizzare subito le indagini verso la sinistra, cade in contraddizioni incomprensibili, non giustificabili soltanto dalla tendenziosità del suo comportamento. Ma chi è, in realtà, e che cosa ha fatto in quei giorni questo Angelo Lampis? Ha trentasei anni, proviene da Pabillonis, in provincia di Cagliari. Vive a Roma dalla primavera del '66: all'inizio faceva il manovale, poi è riuscito — grazie a quegli appoggi che ai fascisti non mancano mai — a farsi assumere all'Autovox. Nel 1968, per interessamento del commissariato PS di Montesacro, ottiene un appartamento di cinque locali al dormitorio pubblico di Primavalle, e più tardi anche un box indipendente, con ingresso direttamente sulla strada. E' sposato ed ha sei figli. Il suo ruolo nella sezione Giarabub Nella sezione Giarabub la figura di Angelo Lampis si inserisce in modo ambiguo tra i «falchi» di Ordine Nuovo e le «colombe» almirantiane. Tutti i missini di via Svampa interrogati su questo personaggio sono confusi e si contraddicono continuamente. Il primo elemento di disaccordo tra i fascisti è se Lampis sia iscritto o no alla sezione Giarabub. Mario Mattei nel suo primo interrogatorio nega addirittura che Lampis sia iscritto alla sezione e tenta

98 una operazione di sganciamento quasi a dimostrare che lo conosce appena (1): «... tale Angelo Lampis, un sardo che lavora come saldatore e frequenta la sezione pur senza essere iscritto». Ma già nel secondo interrogatorio, a due giorni di distanza, lo annovera decisamente tra gli iscritti alla sezione (2) : «Ho conosciuto Lampis circa due anni fa. Venne a chiedermi per una pratica infortunistica e poi si iscrisse alla sezione». Anna Schiaoncin è più sicura (3) : «Ebbi modo di vedere in sezione il Lampis circa un anno e mezzo fa. Si presentava come simpatizzante. Che io sappia non è iscritto...». Ecco che però arriva la smentita di Antonio Giordani, altro esponente della Giarabub, amico del Mattei (4) : «Il Lampis risulta iscritto alla nostra sezione». Ma tutta questa altalena dei fascisti, quasi non vogliano assumere una posizione chiara su Lampis, si scontra con un dato inequivocabile: Angelo Lampis ha la tessera firmata da Almirante dal 1971. Ma se Lampis non aveva un ruolo definito tra i fascisti, si era guadagnato un soprannome: il «veggente» (5). Infatti aveva previsto, fin nei minimi particolari, l'attentato contro la sezione avvenuto 1'11 aprile, cinque giorni prima dell'incendio. Anna Maria Mattei ricorda (6):

1) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 2. 2) Interr. del 18-4-1973. Atti, vol. 50, p. 30. 3) Interr. dell'1-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 78. 4) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 14. 5) Gli iscritti alla sezione Giarabub si ricordano del Lampis, a proposito di un attentato subito dalla sezione nel 1972. In quella occasione Lampis seppe dare, come abbiamo visto precedentemente, una esatta descrizione dell'ordigno. 6) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 18.

99 «Lampis disse che avevano intenzione di fare un attentato contro la sezione, ponendo una bomba sotto la finestra». E in occasioni precedenti aveva accennato a possibili attentati, sulla base di sue «intuizioni», che poi alcune volte, si erano verificati. Ma come faceva Lampis a «prevedere»? Come aveva fatto a sapere in anticipo, addirittura nei minimi particolari, l'attentato col tritolo? Mario Mattei dà la sua «spiegazione» nel tentativo di usare Lampis, quale strumento per orientare le indagini sulla «pista rossa» (7) : «Lampis in realtà era aderente a partiti di estrema sinistra e ad organismi extraparlamentari...». A questa «accusa» del Mattei, il Lampis dà una secca risposta (8) : «Dietro incarico del Mattei controllavo i movimenti degli avversari politici», ma continua: «Non ho mai avuto occasione di conoscerli», e dichiara apertamente che non gli sarebbe stato possibile, nel modo più assoluto, avvicinare le organizzazioni rivoluzionarie «perché mi avrebbero malmenato immediatamente». Ad avvalorare le affermazioni di Lampis riguardo al suo rapporto con Mario Mattei, interviene la dichiarazione di Anna Schiaoncin durante il confronto con Angelo Lampis (9) : «... La mattina del 17 aprile, sotto le Quattro Fontane, mi hai • detto che stesse attento Mattei a quello che diceva perché tu avevi i bambini e avevi paura». La spiegazione della «veggenza» di Lampis ci proviene ancora una volta dagli stessi fascisti, ed è lo stesso Mario Mattei a fornircela, annoverando Lampis nella schiera dei «duri» della Giarabub (10), quelli che egli chiama «persone che non ritenevo di provata fede... ciò si riferisce a tre o quattro persone: Lampis Angelino, Di Meo Alessio, Fidanza Franco» (11).

7) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 2. 8) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 72 e interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, pp. 84-85. 9) Confronto Lampis-Schiaoncin dell'1-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 79. 10) Interr. del 18-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 30. 11) Interr. del 18-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 30.

100 Inoltre risulta da alcune testimonianze che, proprio la sera dell'11 durante una violenta lite in sezione, il segretario si scagliò contro Lampis gridandogli: «Questa volta la bomba l'avete messa voi. Non ho ancora le prove ma la prossima volta che capita tu sei spacciato». D'altra parte Lampis stesso non riesce mai a dare una spiegazione plausibile della sua «veggenza», parlando solo di «intuizioni», perché non può evidentemente compromettere o scoprire troppo i «suoi camerati». E anche gli altri fascisti, non riuscendo a trovare una spiegazione soddisfacente, una volta fallito completamente il tentativo della «pista rossa», l'unica scappatoia che hanno sarà cercare di parlare del Lampis il meno possibile. Le uniche persone che non si preoccupano troppo di nascondere la loro diffidenza nei confronti del sardo sono Anna Maria Mattei e Anna Schiaoncin, le quali in più occasioni si sono lasciate andare a dichiarazioni troppo imprudenti, forse perché meno attente degli altri ai possibili sviluppi della vicenda. La Schiaoncin dice (12): «A me non è mai piaciuto in quanto il suo comportamento era ambiguo». E nell'intervista al «Messaggero» lo definisce addirittura «il traditore». Anna Maria Mattei conferma (13): «Ho sempre dubitato del suo comportamento... e di questo più volte ho fatto accenno a mio marito, il quale ha sempre precisato che in considerazione che il Lampis si era iscritto al partito non poteva respingerlo». L'impressione generale che si ricava da tutte le testimonianze, sui rapporti tra Lampis e gli altri fascisti, è, da parte di questi, un certo imbarazzo a prendere posizione su di lui, per cui o si contraddicono continuamente o cercano di parlarne il meno possibile. Il che spiega anche il ruolo tutto particolare che Lampis ricopre nella Giarabub. Infatti, mentre nei riguardi degli altri «duri» della sezione, Mattei e gli altri iscritti non si sono mai preoccupati di nascondere il loro dissenso, nei riguardi di Lampis questo non avviene. Al contrario il «sardo» poteva frequentare la sezione indisturbato, e con il tacito assenso degli altri fascisti. Tutto lascia credere che Lampis fosse intoccabile.

12) Interr. dell'1-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 78. 13) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 6.

101 Lo stesso imbarazzo nel definire il ruolo di Lampis si riscontra nei giornali fascisti. All'inizio lo definiscono un «bravo camerata», e lo difendono alla stregua degli altri iscritti alla sezione. Questo atteggiamento non muta per tutta la prima parte delle indagini. Quando però, il 28 aprile, Angelo Lampis viene arrestato per reticenza e si comincia ad intravvedere la possibilità che il sardo sia implicato nella faccenda più del previsto «Il Secolo d'Italia» non esita a scaricarlo definendolo «personaggio ambiguo ed equivoco». Persino l'avvocato del MSI, Sebastianelli rinuncia all'incarico di difenderlo proprio nell'ultimo interrogatorio. Solo il «Borghese», più avveduto, o meglio più informato, lo definisce fin dal primo momento un «provocatore dell'ultra-destra» (14). Oltre che «duro», il Lampis è anche personaggio violento, che ama le armi e circola armato. Nel casellario giudiziario, infatti, esiste a suo carico una denuncia presentata da una donna, per intimorire la quale, durante una lite, aveva estratto dallo sportello posteriore della sua automobile un fucile da caccia. E, quando finalmente l'abitazione del Lampis sarà perquisita, salteranno fuori e saranno sequestrati un fucile da caccia, un fucile a canne mozze e con il calcio segato, un pugnale del tipo baionetta, un coltello da pesca subacqueo, quaranta cartucce e —guarda caso — quattro taniche di plastica della capacità variabile tra i due e i dieci litri. Che cosa facesse il Lampis con tutto questo armamentario e con le numerose carte di circolazione di altrettante vetture che —come vedremo — vengono rinvenute nella stessa perquisizione, non è mai

14) E' definito dal dirigente nazionale del MSI, Roberti, in una lettera alla TV, e da Almirante, nel discorso al direttivo del partito: «Un militante del MSI-Destra nazionale» . Il «Secolo d'Italia» scrive il 19 aprile: «...Nessun missino coinvolto nelle indagini di Sica... Sica ha smentito categoricamente che sia stato emesso ordine di cattura nei confronti di Angelo Lampis, militante del MSI». Scrive lo stesso quotidiano ufficiale del MSI, il 28 aprile: «Lampis, interrogato il 27 notte, iscritto alla sezione del MSI di Primavalle... la verità non può emergere da interrogatori di personaggi che con gli indiziati non hanno presumibilmente niente a che fare...». Aggiunge ancora il «Secolo d'Italia» il giorno successivo, 29 aprile, quando il Lampis è stato arrestato: «...Lampis dovrebbe sapere molte cose sull'attività eversiva della sinistra... non si conoscono i precedenti politici né l'attività svolta da questo singolare personaggio...». Il «Secolo» ribadirà la sua perplessità il 1° maggio: «Abbiamo già detto che di lui non si conoscono i precedenti politici, né l'attività svolta». E il giorno successivo definirà il Lampis: «... Personaggio dal passato equivoco...».

102 stato oggetto di sospetti e di indagini da parte di giudici e polizia (15). Una cosa, comunque, è certa: il Lampis è tra i primissimi ad accorrere sul luogo dell'incendio. E' tra i primi a scattare fotografie, con quella macchina fotografica (una tascabile Kodak Instamatic 200) che ha acquistato proprio il giorno innanzi (16). Effettua quattro fotografie col cuboflash, poi consegna il rullino appena impressionato al missino avvocato Michele Marchio (17), il quale provvederà a consegnarlo al giudice Sica la sera del 16 aprile. La presenza del Lampis davanti a casa Mattei fin dai primi momenti successivi al rogo è testimoniata da diverse persone, tra cui Francesco Spallone (18), un dirigente missino che raggiunge il luogo della tragedia assieme all'avvocato Marchio. Dice Spallone «Incontrai il Lampis sul luogo, e si presentò come investigatore privato del Mattei: mi disse che il giorno prima aveva notato il "picchetto" e due persone che cercavano benzina (risultate poi due ragazzini totalmente estranei alla vicenda n.d.r.). Si era recato la sera a casa del Mattei, ed aveva dato a Virgilio il numero di targa di una "500" sospetta. Lasciò capire chiaramente che era in contatto con elementi extraparlamentari, mi confidò che conosceva di vista il capo dei responsabili dei vari attentati e che questo abitava a Monte Mario» (19). A vedere il Lampis sul posto, come si è detto, sono in tanti: lo stesso avv. Marchio (20), il Giordani, Giacinto D'Agostino e i due coniugi Schiaoncin. Interessante è anzi, quanto afferma Anna Schiaoncin: «Incontrai il Lampis verso le 4,30 o le cinque. Voleva parlare con Mattei. Non mi confidò di che cosa volesse

15) Perquisizione del 1° maggio '73. ordinata dal G .I. Amato. Atti, vol. I", p. 137. 16) Interr. di Lampis del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 76. 17) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 11. 18) Francesco Spallone, il cui nome compariva sull'agenda di Mario Merlino, al tempo della strage di Stato era dirigente giovanile del MSI. Oggi è dirigente federale. 19) Interr. del 15-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 129. 20) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 11: «Vidi Lampis il quale mi riferì che la sera si era recato verso le 21,15/21,30 all'abitazione di Mattei ed aveva parlato con Virgilio, ,dato che non gli era riuscito a trovare nel pomeriggio Mario».

103 parlare, ma mi disse che era importante e che avrebbe aspettato l'arrivo dell'avv. Marchio o di Alberto Rossi (21). Lampis, dunque, non soltanto è presente sul posto ma a pochissimo tempo dalla tragedia ha qualcosa di molto importante da riferire al suo segretario, tanto da volergli parlare nonostante sappia benissimo che è rimasto ustionato e che ha appena assistito alla morte di due suoi figli. Ma per comprendere appieno tutta l'importanza e tutta l'ambiguità di questo personaggio, bisogna ripercorrere i passi almeno dal giorno precedente all'incendio in casa Mattei. Sabato 14, dunque, Angelo Lampis acquista una macchina fotografica. di un tipo comodamente trasportabile (22) e la mattina di domenica 15 aprile, dopo essersi svegliato alle 6 ed essere andato «invano a caccia di lumache» (sic!) (23), verso le 9,30 si reca in piazza Clemente XI a tener d'occhio alcuni giovani di sinistra che distribuiscono volantini. In particolare il sardo nota due ragazzi, annota il numero di targa della loro "500" e scatta fotografie a ripetizione. Ricostruiremo più avanti tutti questi movimenti. Prima, però, è utile sottolineare che per queste sue «missioni» il Lampis rimette improvvisamente in funzione una sua vecchia automobile, una "giulietta' che non usava da diversi mesi, forse da un intero anno. Lo conferma lo stesso Lampis al magistrato (24), ammettendo che la vettura, infatti, era sprovvista sia di bollo di circolazione che di assicurazione. Fino a due settimane prima, dice ancora il diretto interessato, l'automobile stava in garage, ma da quindici giorni prima, non potendo più pagare l'affitto, la teneva posteggiata davanti al dormitorio pubblico (25). 21) Interr. dell'1-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 78. Alberto Rossi compare anche lui nell'agenda di Mario Merlino (vedi La Strage di Stato, p. 176) : «... Alberto Rossi, detto il "Bava", capo dei volontari nazionali del MSI. Ha un fratello, Angelino Rossi, noto picchiatore fascista. I due addestrano, in una palestra del Prenestino, le squadre di Caradonna». 22) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 76: «Misi la macchina nel taschino e me la portavo appresso». 23) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 62. 24) Interr. del 28-4-1973. Atti. vol. 4°, p. 72. 25) Ibidem : «Ero a guida dell'autovettura di mia proprietà... non ho provveduto né ad assicurarla né al pagamento della tassa di circolazione. Era da un anno circa che la tenevo nel garage senza mai usarla. Poi la tirai fuori perché non avevo i soldi per pagare il fitto del garage... La tenevo davanti, all'ingresso del dormitorio... Avevo tirato fuori la macchina da circa 15 giorni prima di quella domenica».

104 Ma perché il Lampis, dopo quasi un anno che circola a piedi, proprio quella domenica, il giorno dell'incendio e quello successivo all'acquisto della macchina fotografica di cui farà un uso tanto abbondante sia per ritrarre normalissimi volantinaggi, sia per riprendere le prime immagini della tragedia — decide di riesumare la sua automobile? Non si può escludere che avesse qualcosa da trasportare (26) (qualcosa che non è lecito caricare su un autobus pubblico, e che magari un tassista potrebbe ricordarsi d'aver trasportato), oppure che dovesse recarsi in un luogo lontano non servito da mezzi pubblici. Una giornata di provocazioni Per riassumere gli spostamenti di questo ambiguo personaggio nella mattina di domenica 15, cominciamo col rifarci alle sue stesse dichiarazioni: in piazza Clemente XI nota una "500" grigia, con un giovane dai capelli castano chiari e con indosso un giubbotto di foggia militare e una copia di Avanguardia Operaia in mano. A questi si avvicina un altro giovane, con occhiali e giacca scura (27). Questo ragazzo con gli occhiali sarà nominato molte altre volte negli interrogatori dal Lampis, il quale in un'occasione (28) si presenterà perfino spontaneamente al giudice, il giorno prima d'essere arrestato per reticenza, per comunicargli che sabato 21 aprile (una settimana dopo il rogo) all'ingresso del dormitorio pubblico un ragazzo appunto con gli occhiali lo «stava spiando» insieme ad altre tre ragazze. Sempre secondo il Lampis, il ragazzo si allontana non appena si accorge «d'essere stato scoperto» (29). Ma tutto ad un tratto, in un interrogatorio successivo (30) Angelo Lampis si ricorda che anche la sera «in cui fu incendiata la macchina della Schiaoncin, militante del MSI» aveva incontrato per strada tre ragazzi «di cui uno con gli occhiali, sui 23 anni». La provocazione si aggrava con una «memoria» scritta il primo maggio dal carcere dove era già rinchiuso da tre giorni (31): scrive

26) Per esempio nel verbale di perquisizione dell'auto di Lampis risulta repertata una lattina di olio con residui di benzina. 27) Interr. del 16-4-1973 e del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 63 e p. 72. 28) Interr. del 27-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 70. 29) Ibidem. 30) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 75. 31) Questo memoriale, controfirmato dall'avv. Sebastianelli e consegnato durante il confronto con Anna Schiaoncin è il tentativo estremo e smaccato di Lampis di dare una solidità al ruolo di superteste che ormai vede capovolgersi in quello di indiziato, e di rimediare al progressivo sganciamento da parte dei fascisti nei suoi confronti.

105 di suo pugno il Lampis, riprendendo lo stesso tema dei tre ragazzi incontrati: «quello con gli occhiali lo potrei riconoscere, l'altro magrolino e più basso dalle descrizioni fattemi (da chi? n.d.r.) potrebbe essere il Sorrentino, ,e l'altro un po' più alto e robusto potrebbe essere il Lollo». A questo punto, improvvisamente e per la prima volta, Lampis decide di trasferire gli stessi personaggi anche alla sera dell'incendio, e dichiara che questi due giovani (il solito con gli occhiali e quello che afferma potrebbe essere il Lollo) erano presenti davanti alla casa del segretario missino, e si facevano «segnalazioni» inviandosi messaggi (32). E' da notare come le descrizioni di due dei tre corrispondano in modo approssimativo alle foto di Sorrentino (magro e bassino) e di Lollo (visibilmente un po' più robusto) diffuse nei giorni precedenti da tutti i quotidiani. A Lampis, addestratosi in 15 giorni a fornire ritratti «attendibili» sulla scia dei giornali, è sfuggito che proprio quattro giorni prima la lettera di Marino Clavo dava un grosso scossone alla montatura costringendo i magistrati ad abbandonare la pista Sorrentino (33). Le foto di Clavo, purtroppo per Lampis, sono rintracciate e pubblicate soltanto il 28 aprile, proprio il giorno di fitti interrogatori che lo condurranno in carcere. Torniamo alla cronistoria di quanto il Lampis fa nella mattinata di quella domenica. Siamo in piazza Clemente XI. Cosa fanno di tanto sospetto questi due ragazzi per meritare l'attenzione di Lampis, che li fotografa e si appunta il numero di targa della loro automobile? E' lui stesso a dire che vendono i loro giornali e per far questo passeggiano su e giù senza mai allontanarsi troppo. Insomma sarebbe facile per chiunque capire che si tratta di comune pratica di intervento politico nel quartiere. Ma per il Lampis sono degni di essere attentamente vigilati: «Erano dei maoisti» dice al giudice, davanti al quale si vanta anche che lui. i maoisti, riesce «ad identificarli a occhio» (34). Sempre secondo questo attento pedinatore, i due giovani poi lasciano il posto: salgono sulla loro «500» seguiti dal Lampis fino alla fermata più vicina dell'autobus 49. Il sardo avrà cura d'annotarsi il numero di targa dell'automobile. (E' questo il numero di targa che Lampis consegnerà la sera stessa a Virgilio Mattei, dando il via come abbiamo visto, ad una delle tante piste «rosse» che si batteranno nelle prime ore dopo l'incendio).

32) Dal foglio «esibito spontaneamente all'ufficio da A. Lampis». Atti, vol. 4°, p. 82. 33) Della lettera abbiamo parlato nel cap. VIII. 34) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 72.

106 La «missione» del Lampis, però, non si è ancora esaurita. In piazza Capecelatro nota tre ragazze che passeggiano con il giornale «Viva il Comunismo» e che ad un certo punto si soffermano presso un cancello vicino al cortile della sede missina, e questo «insospettisce» ancora di più il Lampis, che mette in azione di nuovo, per due volte, la sua macchina fotografica nuova di zecca. Perché lo fa? Al giudice darà questa spiegazione: «Le fotografai allo scopo preciso di conservare le fotografie, per poter confrontare le stesse con persone che avrei potuto vedere in qualche manifestazione di movimenti extraparlamentari» (35). Più tardi Lampis torna a casa per il pranzo, e — a suo dire —trascorre un po' di tempo con una sua compaesana ed un altro amico (36) . Esce di nuovo da casa verso le 17, questa volta a piedi. Si reca, verso le 18, in via Svampa, per vedere se è aperta la sede missina. Ma non c'è nessuno. La fervida e galoppante fantasia, però, gli permette di individuare in un ragazzino, con un casco da motociclista rosso e con un motorino in sosta proprio sul marciapiede, un maoista che «faceva il picchetto» (37). Più tardi (38) chiarirà ancora meglio, corredandolo di ulteriori dettagli, questo suo racconto: il ragazzo stava in piazza Capecelatro, e tutte le volte (tre, secondo il Lampis) che egli stesso o qualche missino passavano, posava e riprendeva il casco in mano: quindi il sardo ne deduce che si tratti di un «movimento di segnalazione». Poco più avanti, il Lampis nota anche due ragazzini, forniti di una tanica vuota, che si dicono: «Questo distributore è chiuso, proviamo l'altro»: basterà questo perché pochi giorni più tardi uno di loro sia interrogato dal giudice e messo a confronto col Lampis. Dopo questa passeggiata alle 19, il Lampis torna verso il suo dormitorio, e nel bar antistante dice di parlare con Fresta, un suo amico, a proposito del pittore comunista «Ennio Calabri». tentando in questo modo, come abbiamo visto, di indirizzare la provocazione contro il PCI.

35) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 73. 36) Come al solito neanche queste due persone furono interrogate per confermare il racconto di Lampis. 37) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 64. 38) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, pp. 73-74.

107 Dov’era Lampis la sera dell’incendio? Lampis riferisce che, dopo questa passeggiata e queste chiacchiere, torna a casa a vedere la partita di calcio alla televisione. Quindi esce di nuovo per recarsi a casa dei Mattei. Lo fa perché è «preoccupato da tante coincidenze» (ma quali siano, non si capisce) e perché ha «notato il picchetto e i movimenti» (39). Afferma di essere uscito da casa verso le 21. La moglie, Marisa Frongia, dichiara viceversa che lei ed il marito si coricano verso le 20,30: «Mio marito — dice — quella sera non uscì» (40), e si trincera poi nel mutismo più assoluto, tanto che, quando sarà richiamata davanti al giudice (41) affermerà soltanto: «Ciò che ho detto nella precedente deposizione è la verità, ed è ciò che io so». Di più certo non può dire, perché altrimenti si verrebbe a conoscenza che il marito quella notte non dormì in casa, come ci hanno testimoniato alcuni inquilini del dormitorio. Della visita ai Mattei, del colloquio con Virgilio e delle molte discrepanze esistenti nelle varie versioni di questo episodio, parleremo più avanti, anche perché sono alla base del fermo e dell'arresto immediatamente successivo per reticenza del Lampis. Ora è più importante cercare di stabilire che cosa egli abbia fatto nelle ore successive al colloquio con Virgilio Mattei. Secondo la sua versione (42), Lampis sarebbe tornato al dormitorio pubblico, ed avrebbe saputo dell'incendio soltanto un'ora abbondante dopo che era divampato, cioè verso le 4,30. Si sarebbero recati al dormitorio, per metterlo al corrente dell'accaduto, Marcello Schiaoncin, Antonio Giordani e Giacinto D'Agostino. Lo avrebbero fatto — afferma sempre il Lampis (43) — perché «tutti gli iscritti della sezione venivano avvertiti quando succedeva qualcosa». Ma tutte le versioni testimoniali su questa precipitosa corsa dei fascisti

39) Interr. del 29-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 73. Ricordiamo che il «movimento» e il «picchetto» altro non erano che tendenziose rappresentazioni del Lampis su un intervento politico nel quartiere e su un ragazzo che posava e riprendeva il casco. 40) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 75. 41) Il giorno 3-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 81. 42) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 64. «Tornai a casa verso le ore 21,20/21,30 e mi coricai. Sono stato svegliato alle ore 4 di stamane, farse un po' più tardi, da Schiaoncin... e Antonio Giordani...». 43) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 83. «... Ho saputo dell'attentato a casa Mattei verso le 4,30... c'erano alla porta Antonio Giordani, Giacinto (D'Agostino, ndr) e Schiaoncin». Ma Giacinto D'Agostino non è mai stato interrogato!

108 (già di per sé sintomatica e sospetta) alla ricerca del Lampis è tale da non aver, convinto nemmeno il giudice istruttore (44). Tanto più che lo stesso aveva dovuto registrare questa sequela di dichiarazioni di Lampis, nell'interrogatorio del 2 maggio, a proposito della sua uscita dal dormitorio. «C'erano alla porta Antonio Giordani, Giacinto e Schiaoncin... presi e scappai con loro verso casa di Mattei. Così com'ero senza lavarmi, ero solo vestito. Non ho perduto tempo. Andai subito con i suddetti». Poi si accorge di averla detta grossa («ero solo vestito»!) e si riprende: «... Prima mi infilai i pedalini, le scarpe, la camicia, la giacca ; la macchinetta fotografica ce l'avevo già nel taschino». Nel verbale si legge: «Contestatogli la circostanza che poc'anzi ebbe a dichiarare, a domanda del G.I., che immediatamente senza perdere tempo, prese e scappò con loro, "così com'era" risponde: "La mia precedente dichiarazione era errata, Prima di andare con gli amici mi ero messo i calzini, le scarpe, la camicia, la giacca"» (45). Cioè, di nuovo, era già vestito!

44) Antonio Giordani, che ha assistito alla telefonata tra Mario Mattei e il figlio Virgilio, afferma che il Mattei «non diede spiegazioni circa la telefonata» e, a conferma, dice: «Non sapevo che il Lampis avesse avvisato in anticipo il Mattei dell'attentato» (Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 14). Dunque, stando alle sue dichiarazioni, Giordani non aveva motivo di precipitarsi da Lampis. Ma ecco che Marcello Schiaoncin subito lo smentisce: «...Giordani Antonio... mi riferì che il Lampis aveva avvertito il Mattei che stavano preparando qualcosa» (Interr. del 16-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 138). E il terzo personaggio, Giacinto D'Agostino, che poteva sciogliere (o confermare!) questa contraddizione, Giordani si guarda bene dal nominarlo, mentre ci tiene ad inserire il particolare «Lampis che dormiva con i suoi familiari». Lampis nel primo interrogatorio del 16 aprile tace anche lui su D'Agostino... e il giudice non si preoccupa di convocarlo nemmeno quando, finalmente, solo il 16 maggio, Marcello Schiaoncin conferma la presenza del terzo. 45) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 83.

109 A riprova di quanto afferma, Lampis sostiene che al suo rientro da casa Mattei avrebbe salutato il portiere. Ma nessuno dei custodi «lo ha visto la mattina del 15, o la sera» (46). L'ambiente di omertà e di reticenze del dormitorio non permette di sapere di più. Chi è coinvolto in traffici illeciti (auto rubate, targhe false, ecc.) di cui il Lampis stesso è, un protagonista, non può parlare. Cosi come uno dei portieri del dormitorio, fascista noto a tutto il quartiere per queste sue attività. Ma spostiamoci alla mattina del lunedì. Anche allora i movimenti del Lampis sono inafferrabili. Come abbiamo già visto il sardo viene inutilmente cercato dagli appuntati Ripepi e Priolesi, che non lo trovano. In quel Momento Lampis è in compagnia dell'avv. Marchio (47). E tanto è un personaggio il cui interrogatorio è ritenuto importante ed urgente, che prima delle sei del mattino un funzionario di polizia giudiziaria incarica due appuntati (Ripepi e Priolesi) di andare a prelevarlo. Ma i due sottufficiali non riescono nel loro incarico, perché preceduti da un avvocato, consigliere comunale missino. E, inoltre, i due appuntati non trovano la "giulietta" del sardo posteggiata davanti al dormitorio, dove egli era solito lasciarla. Infatti non accennano minimamente all'auto nel loro pur lungo e dettagliato rapporto. Il Lampis, cosi, potrà essere interrogato soltanto alle 10,40 di quel lunedì 16 aprile, dopo che l'ordine di prelevarlo era stato dato da quasi cinque ore. Cinque ore che questo testimone (o importante indiziato?) ha trascorso con un suo autorevole «superiore di partito». E si può notare come sia una

46) Neri Antonio, di turno dalle ore 14 alle ore 21 di domenica 15 (Interr. del 12-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 119): «... Non ricordo se quel giorno ho visto il Lampis». Forina Alfonso, di turno dalle ore 15 alle ore 22 (Interr. del 12-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 118) : «Non sono in grado di riferire se quella sera vidi uscire o ritornare il Lampis». Giovannetti Giuseppe, che inizia il turno alle ore 22, interrogato dall'Ufficio Politico e dal G.I. Amato (Interr. del 10-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 109): «Non ho visto il Lampis quando attaccai il servizio». Chiricozzi Vincenzo, di turno dalle ore 22 alle ore 5 del lunedì (ma si trattenne fino alle 6); interrogato una volta dall'Ufficio Politico della Questura, una volta dal Commissariato di Primavalle e infine dal giudice Amato, ma mai da Sica (Interr. del 10-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 106): «La notte di domenica non ho visto Lampis, come ho detto, non l'ho visto né domenica né lunedì». 47) Vedi cap. VIII in cui abbiamo riportato integralmente il verbale redatto poche ore dopo l'incendio, che nonostante la sua importanza sarà consegnato al G.I. Amato solo il 2 maggio da parte dell'allora vice-capo dell'Ufficio Politico, Improta.

110 costante di questi fascisti farsi sempre consigliare autorevolmente prima di rendere qualsiasi dichiarazione o testimonianza. Il colloquio con Virgilio Mattei Ma il Lampis non diventa un'importante pedina nell'indagine soltanto perché non si spiega dove e come ha trascorso la notte. Il suo ruolo assurge a grande rilievo perché il sardo è colui che avrebbe saputo con 7 ore di anticipo quanto sarebbe accaduto e ne avrebbe parlato con il figlio di Mattei. Vediamo dunque, nell'intrico delle mille contraddizioni di questa inchiesta di ricostruire questo colloquio. Angelino Lampis si reca a casa dei Mattei perché nel pomeriggio non gli è riuscito di trovare il segretario missino nella sezione del partito (48). Del colloquio il Lampis offrirà una versione molto «edulcorata», tanto da non essere creduta nemmeno dal magistrato. Comincerà ad affermare di essersi trattenuto con Virgilio soltanto «quattro o cinque minuti» (49) ma sarà smentito in questo da Silvia Mattei (50) che parlerà di «quindici minuti» e questo gli sarà contestato dallo stesso giudice Amato (51). Inoltre non poteva trattarsi certamente di un motivo banale, se lo stesso Virgilio, che era coricato e, si afferma, non si alzò, invitò il Lampis a chiudere la porta «per non far sentir nulla ai ragazzini» (52). Ma questo Virgilio lo chiese prima ancora che il Lampis avesse il tempo di esporgli il motivo della sua visita; dunque Virgilio sapeva che cosa il sardo avrebbe avuto da dirgli. O, per lo meno, sapeva che si trattava di cose tanto serie e delicate che era opportuno «non far sentire nulla ai ragazzi». Ed è comunque assai importante quanto riferisce più tardi Mario Mattei, il quale afferma:

48) Interr. del 27-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 71. 49) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 86. 50) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 54: «Il Lampis la sera di domenica 15-4-1973 si trattenne a parlare con mio fratello per una quindicina di minuti». 51) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 86: «Sono rimasto a casa del Mattei Virgilio 4 o 5 minuti». A questo punto viene contestato all'imputato quanto dichiarato da Silvia Mattei e cioè che si intrattenne con Virgilio Mattei 15 minuti 52) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 74.

111 «Ho ricevuto una telefonata da mio figlio... mi disse che gli avevano telefonato a casa per dirgli che la sera stessa o il giorno successivo avrebbero fatto l'attentato. Mio figlio non mi disse chi era che gli aveva segnalato il fatto» (53). Virgilio dunque non solo ha taciuto il nome di Lampis ma ha spacciato per telefonata anonima un colloquio riservato di un quarto d'ora con il Lampis. Ancor più grave sarebbe l'ipotesi opposta: che cioè sia stato il Mattei, informato effettivamente dal figlio della visita di Lampis, a spacciare al giudice la visita per una telefonata per di più anonima. Su quanto si dissero quella sera il Lampis e Virgilio può essere interessante la testimonianza di Silvia Mattei. Dice la ragazza : «Andai poi da mio fratello, cui chiesi che cosa accadeva. Mi disse : "Ce rifanno un'altra volta. Non ha precisato quando, se quella o un'altra sera, e dove...". Mi sembra che Virgilio abbia anche parlato della benzina» (54). Il Lampis invece, come si. è detto, dà del colloquio una versione molto lacunosa. Dice: «Virgilio stava a letto e leggeva. Non si alzò dal letto. Virgilio mi pregò di chiudere la porta perché era meglio non far sentire nulla ai ragazzini. Virgilio — gli dissi — c'è il picchetto stasera. Ho visto troppi movimenti strani. Gli consegnai un foglietto con il numero di targa dell'autovettura. Tuo padre — dissi — ha più possibilità di me di vedere a chi appartiene questa macchina. Lui mi rispose: poggia il foglietto, quando viene papà glielo dò. Io lo salutai e tornai a casa» (55). Certamente tutto questo è abbastanza irreale: per cercare Mario Mattei durante il pomeriggio, e per recarsi appositamente la sera a trovare Virgilio, doveva avere da dire qualcosa di più. Oppure, se

53) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 2. Su questo personaggio fondamentale vale la pena di rilevare il clamoroso ma significativo incidente in cui incapperà il «Secolo» del 18-4, il quale trasformerà la visita in telefonata .(pur sapendo che l'avv. Marchio aveva già testimoniato di una visita diretta di Lampis) ma attribuendola ai «comunisti». 54) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 54. 55) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°. p. 72.

112 non aveva che questo da comunicare, il motivo della visita deve necessariamente essere cercato altrove: magari in «qualcosa» che Virgilio e Lampis avrebbero dovuto organizzare insieme. Tanto vago e lacunoso è il motivo addotto da Lampis per questa visita che lo stesso giudice Amato (alacremente indirizzato su ben altre piste) è costretto a non credergli e ad arrestarlo per reticenza. Il mistero della targa Dunque, cosa dice Angelo Lampis a Virgilio Mattei la sera del 15? Dice Silvia Mattei: «Notai che c'era un pezzetto di cartoncino con un numero di targa di cui ricordo soltanto la sigla "G" e subito dopo un "9", poggiato sul mobile. Chiesi spiegazioni a mio fratello, e questi mi disse che era il numero di targa di una "500" Fiat di quelli che avrebbero dovuto fare l'attentato» (56). Si noti che sul verbale le parole «pezzetto di cartoncino» sono circondate da un riquadro a penna, e di seguito, sostituite con le parole «foglietto di quaderno». Ma Silvia Mattei, intanto, non può aver visto un cartoncino prima dell'incendio: il cartoncino con questo famoso numero (G 86099) è infatti rimasto nelle mani del Lampis, che lo consegnerà al giudice durante il primo dei suoi interrogatori. Virgilio aveva un foglietto di carta (di qui la correzione; ma Silvia ha parlato di cartoncino o di pezzo di carta?) con segnato sopra il numero; ed il pezzetto di carta è logicamente bruciato durante l'incendio. Poi, comunque, Silvia Mattei vede questo numero di targa, è al corrente del suo significato (almeno di quello «ufficiale»), ma non ne accenna minimamente al padre. Ed è molto strano, perché Silvia Mattei afferma : «Mio padre (quando tornò a casa - n.d.r.) mi chiese notizie, ed io lo invitai a non svegliare mio fratello, anzi fu la mamma a suggerirlo. Dissi a mio padre che era venuto il sardo a dire che facevano qualcosa non so quando» (57).

56) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 54. 57) Ibidem.

113 Dunque Silvia Mattei comunica ai genitori che «è venuto quella specie di figlio di...» (58), si dimostra allarmata, ma con tutto ciò si premura di non far svegliare Virgilio che incredibilmente già dormiva dopo aver raccolto tali confidenze (59), infine nessuno parla del famoso cartoncino con la targa «di quelli che avrebbero dovuto fare l'attentato». Infatti, Silvia termina la sua deposizione dicendo che dopo questo anche i genitori andarono a dormire. Un atteggiamento davvero troppo disinvolto per chi abbia fondati motivi d'aspettarsi qualcosa. Ma su questo numero di targa c'è anche altro da aggiungere. Intanto che fin dal primo interrogatorio il Lampis mostra di ricordarne a memoria e con esattezza tutte le cifre, quando invece non rammenta quelle della targa della sua automobile (60). Inoltre il Lampis stesso racconta tutta una serie di complicate trascrizioni di questo numero di targa. Dice infatti: «Ho segnato su un cartoncino che esibisco il numero dell'auto... Fornii il numero di targa della "500" a Virgilio e poi lo cancellai. Riscrissi il numero per Virgilio su un foglietto del mio notes. Ho riscritto i numeri che sono abbastanza leggibili e li ho ritrascritti sul medesimo pezzetto di cartoncino» (61). Insomma, al giudice Sica (quando finalmente, dopo difficili ricerche potrà essere interrogato) il Lampis esibirà la copertina di un notes, appunto «un cartoncino», con il numero riscritto in colonna sotto quello cancellato, ed una variante che, da una parte, smentisce che il numero fosse ancora leggibile, e dall'altra conferma che «qualcuno gli ha più volte chiesto questo numero di targa» (62). Sarà proprio l'avvocato Marchio, nella notte, davanti a casa Mattei, a vedere invece soltanto l'originale cancellato e non la

58) Interr. di Anna Maria Macconi del 24-4-1973. Atti. vol. 5°. p. 4. 59) Ricordiamo che i vicini videro la luce della sua stanza restare accesa fin verso le due. 60) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 72. «... Il numero di targa era Roma G86099». A domanda come può essere così preciso in ordine al numero di targa risponde: «Purtroppo me lo ricordo. Me lo ricordo forse perché mi è stato chiesto più volte questo numero di targa...». «... Io ero alla guida dell'autovettura di mia proprietà targata 36.... adesso non ricordo...». 61) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 63. 62) Interr. di Silvia Mattei del 164-1973. Atti, vol. 5°, p. 11: «... Il numero lo aveva trascritto su una copertina di notes ma era cancellato»

114 trascrizione. E' lui, dunque, questo «qualcuno» che ha lavorato a «restaurare» la firma degli «attentatori». Il provocatore reticente Di fronte al giudice, Lampis saprà con certezza quali sono le cose che gli conviene tacere. Non vorrà mai ammettere d'aver parlato, nel suo colloquio con Virgilio Mattei, anche di benzina: «Non parlai a Virgilio della benzina, almeno mi pare di non avergliene parlato perché non era il caso. Era sufficiente indicare di aver notato movimenti sospetti» (63). Ed aggiunge: «Non gli parlai dei due ragazzini con la tanica, o almeno penso di non averlo fatto». Il giudice istruttore Sica gli contesta che Mario Mattei, invece, gli ha confermato di aver saputo al telefono dal figlio che Lampis gli aveva parlato anche di benzina. Ma su questo Lampis non tornerà mai indietro, nonostante il 28 aprile il magistrato lo dichiari in arresto provvisorio per reticenza, e l'indomani renda definitivo questo suo provvedimento. La prima perquisizione in casa Lampis è del 1° maggio 1973, ordinata dal G.I. Amato. Il P.M. Sica dopo sei interrogatori da cui era per forza di cose risultato un quadro di indizi pesantissimo a carico di Lampis, e malgrado il mandato di cattura del 18 aprile, non aveva mai ordinato una perquisizione. Evidentemente Lampis era al di sopra di ogni sospetto. Ma ecco che cosa è rimasto (o almeno che cosa è stato ritenuto sequestrabile) a casa Lampis alla data della prima perquisizione (64):

63) Interr. del 28-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 75. 64) Perquisizione dell'1-5-1973. Ordinata dal G.I. Amato. Atti, vol. 6°, p. 137. Non solo la perquisizione viene effettuata in così tarda data, ma gli oggetti ritrovati sono stati trattenuti dall'Ufficio politico, salvo il pezzetto di cartoncino con un numero di targa e la scritta «compagno».

115 1) un fucile da caccia automatico; 2) un fucile a canne mozze con canna tagliata e calcio segato; 3) un pugnale di tipo a baionetta; 4) un coltello da pesca subacquea; 5) quaranta cartucce Flobert mm. 9 e 23 pallini mm. 9; 6) carta di circolazione di una Ford 12M — Roma 623406 — intestata al Lampis; 7) carta di circolazione di un'Alfa Giulietta T — Roma 465801 — intestata al Lampis; 8) targa autovettura Roma 299339, Roma 465801, anteriore Roma 623406; 9) tanica di plastica capacità litri 10; 10) tanica di plastica capacità litri 5; 11) tanica di plastica capacità litri 3; 12) tanica di plastica capacità litri 2; 13) cartoncino di astuccio sigarette Marlboro con scritta «500 bianca Roma F91033 Compagno». La perquisizione della Giulietta (nella stessa data) dà questi risultati : 1) latta di olio vuota con traccia di benzina; 2) dieci metri di cavo d'acciaio; 3) manifesto del Fronte della Gioventù (l'organizzazione giovanile del MSI) «per il lavoro contro il parassitismo» ; 4) manifesto col simbolo del MSI; 5) manifesto del MSI: «Salvati dal comunismo, svolta a destra» ; 6) manifesto tricolore ; 7) copia del «Messaggero» del 6 febbraio 1972; 8) copia de «L'Unità» del 15 aprile 1973 (il lasciapassare per «l'infiltrazione» nella famosa domenica del pedinamento): 9) cartucce da caccia calibro 16 e calibro 12. I risultati della seconda perquisizione in casa Lampis del 3 maggio '73: 1) agenda con indirizzi e numeri telefonici; 2) tre fogli di agenda con indirizzi e numeri telefonici; 3) fogli a quadretti: «via Lorenzo Campeggi, lotto XV, interno 19» ; 4) foglio di quaderno scolastico a quadretti.

116 Dal rapporto del 2 maggio '73 del commissario capo di PS Improta (65) apprendiamo che la Giulietta del Lampis, perquisita e sequestrata, è targata 365312. E allora? Lampis possedeva forse due Giuliette, una targata 365312 e l'altra 465801 (di cui è stata ritrovata la targa e il libretto di circolazione, mentre non è stata ritrovata la carta di circolazione dell'altra Giulietta 365312)? Ai solerti inquirenti avrebbe dovuto venire in mente anche che Lampis poteva avere cambiato targa alla sua Giulietta; avrebbero così dato anche una spiegazione al fatto che Lampis non ricorda che le prime due cifre (36....) della nuova targa. Tra l'altro, gli appuntati Ripepi e Priolesi sono incaricati di cercare non Lampis Angelino, ma un sardo possessore di una Giulietta. Giunti sul posto e non trovato Lampis, che era stato portato via dall'avvocato Marchio non cercheranno o meglio non troveranno quella Giulietta che pure era l'elemento di identificazione. Eppure Lampis, come sappiamo, la teneva davanti al dormitorio da quindici giorni. La spiegazione ufficiale dell'autorità giudiziaria (66) è che «le targhe appartenevano a macchine che Lampis era solito acquistare dallo sfasciacarrozze e rivendere a poche decine di migliaia di lire». Ma le carte di circolazione intestate a lui? E poi, a chi poteva rivendere macchine senza targhe e libretti di circolazione? In conclusione questo Lampis chi è e quale parte ha avuto nell'incendio di Primavalle? Perché «sapeva» sette ore prima? E' andato a casa di Virgilio per «avvisarlo» o per qualche altro motivo, assai meno denunciabile perché assai più losco? Cosa erano in realtà le «intuizioni» di Lampis? Perché ha usato l'automobile, perché ha acquistato la macchina fotografica? E perché aveva tanti nemici e tanti importanti amici all'interno del suo partito? Nelle risposte a queste domande, che i giudici non hanno voluto nemmeno porsi, c'è la chiave risolutoria del «caso» Primavalle.

65) Atti generali, vol. 1°, p. 127. 66) Cfr. il «Messaggero» del 16-4-1973.

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II supertestimone Aldo Speranza netturbino repubblicano alle dipendenze dell'ultrà Di Meo (Ordine Nuovo) prende pugni dai fascisti ma rimane loro amico. Ricattabile e ricattato la prima volta che va alla polizia non sa niente ma quando ci ritorna racconta «tutto». È stato consigliato da Di Meo pistola alla mano,

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Aldo Speranza ha 38 anni, è sposato ed ha otto figli; fa il netturbino e dipende dal caposquadra Alessio Di Meo, un missino «ultra» della sezione «Giarabub» di via Svampa; è iscritto al partito repubblicano, abita nel medesimo stabile degli Schiaoncin, proprio di fronte alla sede di Primavalle di Potere Operaio. I rapporti con il suo diretto superiore sono controversi: nel settembre del '72 viene selvaggiamente picchiato dallo stesso Di Meo, con l'aiuto di Franco Fidanza, un altro spazzino di Ordine Nuovo, e nella rissa perde alcuni denti. Ma non può serbare a lungo il rancore: ha bisogno di un posto di lavoro ed ha fisicamente paura. Nell'inchiesta del giudice Sica e nella sentenza di rinvio a giudizio del giudice Amato, lo Speranza riveste un ruolo di primo piano: è il supertestimone cui i tre militanti di Potere Operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo avrebbero «fatto capire» tutto. Repubblicano e quindi ufficialmente antifascista, possiede i migliori requisiti per impersonare la figura del testimone d'accusa: un «nuovo Rolandi», che nel rogo di Primavalle veste i medesimi panni che il tassista milanese indossò nella montatura del «caso Valpreda». Però proprio come il Rolandi lo Speranza è un personaggio che, per le sue caratteristiche, cade in molteplici contraddizioni: è un fanfarone, un ricattato, un timoroso, è spesso ubriaco, si lascia utilizzare per il clientelismo in cambio di un posto di lavoro del quale, con otto figli, ha assoluta necessità. I militanti della sezione di Potere Operaio lo vedevano tutti i giorni all'osteria affianco. che beveva e discuteva con gli altri avventori, e di tanto in tanto ci scambiavano quattro chiacchiere sui problemi del quartiere, del lotto dove anche lui abita insieme ad altri proletari di cui condivide le condizioni di vita.

120 Quando il deposito degli spazzini che stava proprio sotto l'abitazione dello Speranza, viene trasferito altrove, i militanti della sinistra rivoluzionaria che operano a Primavalle pensano di utilizzarne i locali rimasti vuoti per un asilo nido. Il problema però si dimostra subito difficile da risolvere: per ottenere quei locali si pensa ad una raccolta di firme tra gli abitanti del lotto, su cui poi basare una richiesta di assegnazione da inoltrare all'Istituto Autonomo delle Case Popolari. E per questo i militanti di Potere Operaio intensificano dei rapporti, fino ad allora inconsistenti, con lo Speranza: questi si dichiara disponibile ad interessarsi della richiesta da rivolgere allo IACP e soprattutto promette di tenere i militanti della sinistra rivoluzionaria al corrente dei tempi per lo sgombero dei locali, nonché di ogni eventuale progetto sulla loro futura destinazione di cui venisse a conoscenza. L'iniziativa, del resto, lo interessa anche personalmente, giacché la maggior parte dei suoi otto figli sono ancora in tenera età. L'iniziativa della sezione di Primavalle di Potere Operaio, a quei tempi, non era evidentemente ancora in una fase operativa : si trattava di organizzarla, di studiarne i tempi e i modi. E per questo lo Speranza viene consultato in più di una occasione. Lo possono testimoniare, ed in effetti lo fanno, anche la moglie e la figlia maggiore del netturbino repubblicano. Dice infatti Silvana Moro in Speranza: «Qualche volta alcuni giovani della sezione sono venuti anche a casa nostra, portando dei manifesti. Ho offerto loro il caffè. Non ricordo il contenuto dei manifesti che i giovani portavano con sé: li buttavo sempre quando li lasciavano» (1). Ed aggiunge Annamaria: «I giovani che erano venuti in visita li avevo visti talvolta anche in un ufficio che sta di fronte a. casa (la sede di Potere Operaio, ndr) a fianco dell'osteria. Talvolta sono venuti a casa nostra per venderci dei giornali» (2). Nonostante queste premesse, i giudici sosterranno che non fu il doposcuola l'occasione dei rapporti fra i tre militanti incriminati ed

1) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 29 2) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 19.

121 Aldo Speranza, e negheranno anzi l'esistenza di una iniziativa da parte di Potere Operaio sul doposcuola. La cosa è ancora più «strana» se si va a leggere un passo di un verbale d'interrogatorio dello stesso Speranza dove è scritto: «A domanda se si doveva aprire altro doposcuola risponde: Si. Per iniziativa di Potere Operaio» (3). Lo Speranza inoltre era solito lamentarsi, nei suoi colloqui, di come andavano le cose tra i netturbini della 29° ripartizione dove egli lavorava : diceva che esisteva un forte nucleo di spazzini fascisti capeggiati dal Di Meo e dal Fidanza, ed arrivò — in più di un caso — a proporre ai militanti della sezione di Potere Operaio di recarsi al deposito per superare i picchetti organizzati da Bruno Di Luia in occasione di fallimentari scioperi tentati dal sindacato fascista della Cisnal o dagli «autonomi» del gruppo di Ordine Nuovo. Di questa volontà di «capoccione», come lo Speranza nel quartiere è comunemente chiamato, esiste una precisa testimonianza. Dice M.G.: «Un pomeriggio, mentre tutti i compagni erano fuori della sede in attesa di fare una riunione, "Capoccione" si avvicinò a me e ad un altro compagno con cui stavo discutendo, e mi raccontò che al suo deposito di Boccea i fascisti avevano organizzato per il mattino seguente uno sciopero. Dopo aver imprecato un po' contro i fascisti e aver detto che lui purtroppo era isolato e quindi impossibilitato a fare qualsiasi cosa contro queste iniziative, mi chiese se potevamo organizzare un gruppo nutrito di compagni che la mattina dopo si recasse al deposito per dare una lezione ai fascisti. Ma "Capoccione" è famoso per i suoi atteggiamenti esibizionistici e per il fatto che beve e parla tanto. Quindi non diedi alcun rilievo al suo

3) Interr. del 30-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 36. Tuttavia Speranza non ammetterà mai di aver parlato con Lollo e gli altri imputati del doposcuola. Riconoscerà di averlo fatto solo con dei dirigenti della sezione «Carraturo» di Potere Operaio di Primavalle, avallando in questo modo la tendenziosa tesi dei giudici su una presunta emarginazione dei tre militanti incriminati. Prosegue infatti lo Speranza: «Parlai con Peo (Raffaele Tecce, interrogato il 25-4 e il 12-5. Atti, vol. 4°, pp. 64 e 117) e con altri giovani di Potere Operaio. Escludo di aver parlato in proposito con Marino e con Achille. Avevo esposto al solo Peo il mio punto di vista...».

122 racconto e gli risposi che i compagni di Potere Operaio non erano a Primavalle per girare in cerca di fascisti da picchiare — del resto a Primavalle i fascisti non hanno mai contato nulla —, ma per fare intervento politico tra i proletari, sui problemi del quartiere, e tra gli edili dei cantieri della zona. So che anche ad altri compagni faceva questo tipo di proposte e che alcuni a volte gli rispondevano anche ridendo: Si, sì, certo, Capoccio', domani veniamo a liberarti dai fascisti!». Del resto, gli stessi militanti della sinistra a Primavalle erano disposti ad aver contatti con lo spazzino repubblicano soltanto entro certi limiti, anche perché conoscevano fin troppo bene l'instabilità delle sue inimicizie: se era vero che con il gruppo dei suoi colleghi fascisti lo Speranza era venuto qualche volta alle mani, era altrettanto inconfutabile che fin troppo spesso andasse d'accordo con loro. Dice infatti un altro testimone che «a parte il pestaggio di settembre, quando gli fecero partire i denti, lo Speranza conduceva una vita tranquilla. Del resto, con i suoi nemici fascisti che lo pestarono aveva fatto pace: addirittura ultimamente giocava a carte con loro, all'osteria "L'incannucciata"» (4). Lo stesso Speranza, del resto, deponendo davanti al giudice Amato parlerà in questi termini del suo legame con i fascisti di Primavalle: «Con i missini Di Meo e Fidanza avevo buoni rapporti, considerato che il Di Meo è il mio diretto superiore al deposito della Nettezza Urbana dove lavoro, e quindi temevo rappresaglie nei miei confronti» (5). E' qui dunque, che emerge il sottoproletario ricattato il quale teme rappresaglie da parte di quegli stessi colleghi e superiori che un giorno gli fecero saltare i denti in un pestaggio. Lo Speranza è dunque disposto a discutere ogni tanto di politica con gli extraparlamentari, ma vive contemporaneamente a stretto contatto di gomito con i fascisti, ed è assai manovrabile da essi. Tant'è che, quando nel settembre '72 viene picchiato da Di Meo, dapprima lancia anatemi e minaccia serie vendette contro i suoi «nemici»

4) Paese Sera del 19 aprile '73. 5) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 39.

123 fascisti, ma pochi giorni dopo è già ritornato loro amico, ed anzi confida al Di Meo che i suoi «amici di Potere Operaio vogliono vendicarlo». Dunque lo Speranza è un personaggio strumentalizzabile e ricattabile, e chi vive a Primavalle lo sa altrettanto bene di chi vi svolge un lavoro politico. Certamente è disposto a cedere nei confronti dei suoi colleghi netturbini di Ordine Nuovo, ma è anche abbastanza disponibile per sentire, ed intendere dovutamente, altri generi di «avvertimenti». Per esempio quelli del commissario di P.S. di Primavalle, dottor Adornato, che il giorno dopo la rissa col Di Meo lo chiama per dirgli: «Speranza, da oggi se succede qualcosa con i fascisti, sappiamo a chi rivolgerci. Lo sappiamo che sei un amico degli extraparlamentari». Ecco: da questo momento lo spazzino è un personaggio incastrato: ha otto figli e una moglie da mantenere, sa benissimo che — soprattutto per chi è dipendente comunale — la parola del «dottore» vale, il funzionario può esercitare le sue vendette e rovinarlo. Ma tra le intidimidazioni poliziesche .e quelle dei suoi amici fascisti, Speranza «sente» di più le seconde. Tanto che al primo interrogatorio al Commissariato di Primavalle, non si è ancora votato al suo ruolo di provocatore e dichiara di non sapere nulla dell'incendio (6). Soltanto successivamente s'imbatte — suo malgrado — nella visita di Di Meo che, pistola alla mano, lo «convince» a tornare al Commissariato e a «ricordare» improvvisamente circostanze e nomi (7). Il Di Meo d'altra parte ha interesse a collaborare con la giustizia: un interesse giustificato da un motivo personale oltre che politico: tutta la borgata è al corrente infatti dei cattivi rapporti esistenti tra lui e Mario Mattei. Lo Speranza stesso ne parla in un suo interrogatorio: «... Prima dell'attentato dinamitardo alla sede del MSI fu fatto un altro attentato sempre alla sezione del MSI, con bottiglie Molotov. Parlando del fatto col Di Meo costui esclamò: "Ma non potevano buttarle dentro casa di Mattei, invece di buttarle alla sezione?". Ed io rilevai che in ogni caso era meglio che l'attentato fosse stato fatto contro un luogo disabitato in modo che nessuno si era fatto male. Il Di Meo

6) Lo ricorda egli stesso nell'interr. del 19-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 33. 7) Così Speranza a Di Meo nel confronto del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 56: «...I1 pomeriggio di lunedì tu sei passato a casa mia e mi dicesti che volevi i nomi di quelli di Potere Operaio».

124 aveva astio nei confronti del Mattei perché riteneva che questi favorisse nelle cariche del Movimento Sociale i propri parenti, e cioè pensava solo alla sistemazione della moglie e dei figli. Il Di Meo aspirava alla carica di segretario della sezione ed era convinto di farcela, mentre poi venne deluso durante le apposite elezioni interne. In seguito a questi fatti egli aveva aderito ad Avanguardia Nazionale o ad Ordine Nuovo. Si vantava spesso di poter disporre di picchiatori fascisti di Roma, tra i quali Bruno Di Luia, Fidanza ed altri...» (8). Spinto dal Di Meo, Aldo Speranza collabora con giudici e poliziotti per creare un rapporto tra l'incendio di Primavalle ed i tre militanti di Potere Operaio. Contro Lollo, Clavo e Grillo sarebbero alcune «visite» che loro stessi avrebbero effettuato nella casa di Speranza, alcune telefonate di uno di loro (Marino Clavo) e la famosa «gita» che Clavo e Lollo avrebbero fatto compiere al netturbino, per condurlo in un fantomatico «covo» nell'intento di confidargli, alla presenza di un non meglio precisato «stato maggiore» (9), i piani dettagliati di azioni dinamitarde. Veniamo alle presunte prove. Le prime sarebbero le visite, ripetute tre volte, nell'abitazione dello Speranza. A proposito di queste «visite» abbiamo già visto, in generale, le deposizioni della moglie e della figlia maggiore del netturbino repubblicano. La prima visita di cui parla lo Speranza nelle «confessioni decisive» è situata pochi giorni prima dell'attentato all'automobile della Schiaoncin : Clavo e Lollo sarebbero andati a casa sua, senza altro motivo se non quello di mostrargli una pistola. La circostanza viene però smentita dalla stessa moglie di Speranza, che questi ha chiamato a confermare l'episodio. Dice infatti Silvana Moro: «... Prendo atto di quanto dichiarato da mio marito circa l'episodio di una pistola mostrata in casa mia dal Marino. Non rammento di aver visto l'arma» (10). E ancora in un confronto con il marito, Silvana Moro collocherà l'episodio della pistola inesistente non già pochi giorni prima dell'attentato all'auto della Schiaoncin, ma la sera del 15 aprile, il

8) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 39. 9) Così definito dal Di Meo, per colorire ancor più la famosa «gita», nel verbale di confronto con Speranza del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 55. 10) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 28.

125 giorno stesso del rogo. Ecco un passo del verbale di confronto tra i due coniugi: «Moro:... Aggiungo che domenica 15 aprile quando vennero i tre giovani, io per scherzo chiesi a Marino se giravano armati. Rispose : si, che la vuoi vedere la pistola? No, che ho paura, replicai. Speranza: Ti ricordi quando ti dissi che il Marino aveva cacciato fuori la pistola? Moro: Si, lo ricordo. Io però non l'ho vista» (11). A questo punto, crollata la montatura della pistola situata dai due coniugi con dieci giorni di scarto, nessuno degli inquirenti si premura di domandare ai due quando precisamente avvenne la visita, e si accontentano per il resto, della riparazione fatta in extremis da Speranza: la pistola la moglie non l'ha mai vista, ma lui le ricorda di averglielo detto! L'oggetto misterioso che nella prima visita allo Speranza era costituito da una pistola che nessuno vede, nella seconda delle tre visite sarà invece sostituito da un pacco di sale, che diventerà in seguito — provvidenzialmente — l'involucro di una medicina. Questa volta i giudici sono più accorti e lasciano che sia direttamente Speranza a mettere le parole in bocca alla moglie. Basta leggere il verbale del confronto: «Viene data lettura dei relativi verbali nelle parti contrastanti. Speranza: Dì la verità, non ti ricordi... usò il termine pacco. Moro: Sì, ho visto un pacco, ma non sono in grado di descriverlo. Speranza: ... Lo spago sopra l'hai visto? Moro: ... Sì, ma come faccio a dire se era bianco o nero... Speranza: faccio presente che mia moglie era affaccendata che doveva fare il caffè in cucina. Cucina e camera nel mio appartamento sono collegati. Moro: Non sono in grado di riferire se il pacco fu rimesso nel tascapane. Che d'è il tascapane? (spiegato il significato del termine tascapane la Moro

11) Confronto del 2-5-1973. Atti. vol 4". p. 44.

126 dichiara:) Mi sembra che il pacco sia stato inserito nel tascapane» (12). Dunque, questo «pacco di sale», diventa, nella fantasia degli inquirenti, l'ordigno confezionato per l'attentato alla sede missina di Primavalle, in via Svampa, la notte dell'undici aprile 1973. Due mesi più tardi, il «pacco di sale» si trasformerà ancora, quasi per un gioco di prestigio, nell'involucro di un comunissimo sciroppo per bambini, la «Rondomicina», di tutt'altra forma e dimensione. Perché questa trasformazione? Proprio perché solo in seguito salterà fuori che dopo l'attentato alla sede del MSI è stato rinvenuto in sezione un involucro di Rondomicina e a casa della fidanzata di Manlio Grillo viene trovato un flacone dello stesso tipo di medicina. Di contraddizione in contraddizione, arriviamo infine alla famosa visita del 15 aprile. Questa volta, i tre militanti di Potere Operaio non hanno né pistole né pacchi di sale da mostrare agli Speranza. Ed allora, la stranezza della visita dove sta? Ma è chiaro: risiede nell'orario. Arrivano infatti alle 22 «ad ora inconsueta» secondo Sica ed Amato. Evidentemente per i due inquisitori, nei quartieri proletari dopo le 21 vige il coprifuoco, ma non per tutti: la visita di Lampis a Virgilio — stessa sera, stessa ora — sarà ritenuta «irrilevante». Che cosa succede, dunque, di tanto drammatico, quella sera? Sentiamo il protagonista: «Stavo quasi dormendo, anzi dormivo, quando verso le 22 venni svegliato da mia figlia Anna Maria, di 16 anni. Anna Maria mi disse che mi volevano "sti ragazzi de qua sotto" ed allora li feci entrare. Anche mia moglie era a letto. Mi sedetti sul letto e ricevetti Achille, Marino ed un altro giovane che avevo visto nella sede di Potere Operaio due o tre volte... in casa c'era anche il fidanzato di mia figlia, Mario Angelini... ordinai a mia moglie di fare il caffè e lei obbedì. Chiesi ad Achille il motivo della visita e mi rispose "Cosi, ti siamo venuti a trovare!". Nella stanza c'erano anche i miei bambini, mentre Angelini Mario era appoggiato allo stipite tra la camera da letto e quella da pranzo. Uno dei tre (non distinsi bene anche perché la stanza era illuminata solo dal riflesso del televisore acceso)

12) Confronto del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 44.

127 disse solo "non si può parlare" e se ne andarono tutti, dopo aver preso il caffè» (13). Da questo colloquio — «carico di tensione» — Sica e Amato sono riusciti a ricavare la prova fondamentale. Tutto sarebbe racchiuso nell'enigmatica frase «non si può parlare» pronunciata da uno dei tre in una stanza con quattro persone e un televisore acceso. Ma non basta; anche ammettendo l'ovvietà della frase, è facile sapere che questa non è mai stata pronunciata: mentre gli altri testimoni non ricordano nulla (14) (e i giudici preferiscono non far domande) la figlia di Speranza addirittura corregge: «Nell'andarsene, i giovani si limitarono a dare la buonasera» (15). Nemmeno questo appiglio dunque, già di per sé grottesco, regge. Ed allora ci si affida ad un aggancio d'emergenza, tale questa volta da non poter essere smentito da nessuno. Dice infatti ancora Speranza nello stesso interrogatorio: «Avevo lo stomaco in subbuglio per i broccoletti, e andai nel bagno a vomitare; ho la dentiera difettosa che mi provoca talvolta dei conati. Dalla finestra del bagno vidi i tre entrare in una «500 Fiat» bianca ed allontanarsi verso largo Donaggio». Il netturbino non ha altro da dire e chiude l'interrogatorio. Ma dove vanno i tre? Il netturbino non lo sa. E' dunque evidente che dai racconti dello Speranza non si può ricavare alcuna prova. L'operazione è possibile soltanto nel quadro di una gigantesca montatura o di un'inchiesta «pilotata» che sono poi la stessa cosa. Sica e Amato, attraverso una serie di marcate interpolazioni ed una provocatoria attività interpretativa trasformano il tutto in elementi di accusa. La stessa superficialità e assunzione aprioristica degli incredibili racconti di Speranza viene mostrata da Sica e Amato nei confronti

13) Interr. del 17-4-73. Atti, vol. 4°, p. 30. 14) Silvana Moro, interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, pp. 28-29. Mario Angelini, interr. del 17-41973. Atti, vol. 5°, p. 24. 15) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 19. La moglie di Speranza ricorderà invece con precisione un diverso particolare sul commiato, tanto da raccontarlo a un giornalista del «Messaggero» che la intervistava: «...Mentre uscivano mio marito ha chiesto se andavano all'osteria e Achille ha risposto che se ne andava a casa perché era in giro dalla mattina» («Messaggero» del 20-4).

128 degli altri episodi riportati dal netturbino repubblicano: le due telefonate che Clavo avrebbe fatto a «capoccione», rispettivamente e «puntualmente» dopo l'attentato alla macchina dello Schiaoncin (7 aprile '73) e quella alla sezione del MSI (11 aprile '73) nella quale il Clavo avrebbe pronunciato sempre la stessa frase : «Hai visto, bel lavoretto, eh!» (16). Ma la montatura mostrerà definitivamente la corda quando lo Speranza tirerà fuori la storia della «gita al covo» di via Segneri che altro non è se non l'abitazione di Marino Clavo (16 bis). Basterà dire che al momento della scoperta del «covo» montata con grande forza scenica, (suspence della stampa che fantastica da settimane sulle tenebrose caratteristiche del covo tupamaros, inutili ricerche per tutto il centro storico, con Speranza ammanettato nella volante), la polizia disponeva da almeno 15 giorni del numero telefonico dell'appartamento: esso figurava, bene in vista accanto al nome MARINO, nell'agendina che la polizia aveva sequestrato allo Speranza fin dai primi interrogatori. Ma gli inquirenti, che pure danno la caccia ad un «Marino» conosciuto dallo Speranza (che, secondo comodo, prima sarà Sorrentino e poi Clavo), non si preoccupano minimamente di verificare a quale abitazione corrisponda quel numero di telefono. Forse era troppo semplice che un «Marino» conosciuto da Speranza e ricercato in tutta Italia saltasse fuori proprio dall'agendina di Speranza? Certo faceva assai più comodo che, in questo modo, l'abitazione diventasse un «covo» e che il «Marino» rimanesse Sorrentino, cioè uno studente del liceo rosso Castelnuovo. E, soprattutto, faceva più comodo dare alle «rivelazioni» il tono di un giallo, che la stampa di destra è stata pronta ad intendere e a pubblicizzare. Speranza, dunque, verrebbe portato in questo «covo», dove sarebbe riunito lo «stato maggiore» di Potere Operaio. Logicamente ci arriva nel modo che ha sempre visto al cinema: occhi bendati, l'automobile che gira per mezza città per rendere più difficile la ricostruzione del tragitto, fermate improvvise durante le quali salgono sulla macchina personaggi misteriosi (17). Ma questa assurda «gita», in un «covo» che non è per nulla segreto, e che l'accusa assume come regina delle prove, finisce — se attentamente

16) Interrogatori del 30-4 e dell'8-5-1973. Atti, vol. 4°, pp. 36 e 41. 16 bis) L'appartamento era in realtà abitato da Diana Perrone e Paolo Gaeta. Presso di questi, il Clavo aveva da qualche mese preso in subaffitto una stanza, che divideva con Elisabetta Lecco. 17) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 27.

129 esaminata — per ritorcersi contro il lavoro dei magistrati Sica e Amato, vanificandolo completamente. Infatti, che cosa sarebbe stato detto allo Speranza in quel «covo» da parte dello «stato maggiore» di Potere Operaio, e che cosa avrebbe udito e scoperto lo Speranza? Riportiamo, come sempre, il verbale che risulta agli atti ufficiali (18). Dice dunque lo Speranza: «Quella sera quando fui portato nella casa di Trastevere ero un po' ubriaco e volevano sapere da me i nomi e gli indirizzi dei fascisti... Ricordo inoltre che si parlò da parte di quei giovani di manifestazioni, di dimostrazioni per impedire i comizi da parte di fascisti a Primavalle. Non si parlò di attentati di nessun genere —viene contestato all'imputato quanto dichiarato dal Di Meo Alessio (19) e lo Speranza così risponde —: Non è vero. Soltanto una volta io avvisai il Di Meo che avevo udito parlare alcuni giovani davanti alla sezione di Potere Operaio, mentre me ne stavo sulla porta dell'osteria, i quali dicevano che avrebbero fatto zompare le macchine dei fascisti». Come si vede, tutti gli sforzi per ottenere da Speranza un qualche indizio consistente, finiscono in una bolla di sapone: Speranza non può che smentire le affermazioni interessate del Di Meo e quel che resta è, .di nuovo, una sceneggiatura da film giallo, tanto grottesca e sconclusionata che lo stesso giudice Sica, a distanza di tempo, nella requisitoria presentata a dicembre, si vedrà costretto a non contare più sull'episodio. Ed ancor più facili da smontare sono altre ardite costruzioni tentate nei loro atti ufficiali, da Sica e Amato. Affermano per esempio, i due magistrati, che i militanti di Potere Operaio potevano conoscere gli Schiaoncin soltanto attraverso il loro coinquilino Aldo Speranza ( 20). E questo è semplicemente falso. Esiste (anche se, 18) Interr. del 10-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 43. 19) Nell'interrogatorio del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 23, il Di Meo insisterà nell'affermare che lo Speranza gli aveva raccontato di essere stato messo a parte, in quella riunione, dei progetti riguardanti gli attentati contro i fascisti. 20) A proposito della credibilità dell'affermazione dei due giudici che hanno condotto l'inchiesta su Primavalle, secondo la quale i tre militanti di Potere Operaio avrebbero potuto conoscere gli Schiaoncin solo attraverso le confidenze di Speranza (a ulteriore riprova del ruolo di «controinformatore» che avrebbe ricoperto quest'ultimo), c'è addirittura una dichiarazione di Marcello Schiaoncin a proposito della sua fama nel quartiere. Interrogatorio del 16-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 138: «D.R. io non ho rivestito cariche nella sezione del MSI di Primavalle, ma sono, della stessa sezione, un attivista. Quasi sempre di pomeriggio, negli ultimi mesi, mi mettevo fuori la porta della sezione o in piedi o seduto sulla sedia, per avvertire le eventuali persone che si

130 logicamente dichiarazioni come queste non compaiono negli atti ufficiali soltanto perché i magistrati si sono guardati bene dal raccoglierle) una precisa testimonianza in questo senso. Dichiara infatti A.T.: «In sezione (di Potere Operaio, ndr) tutti sapevano chi era Anna la fascista. I primi tempi, quando la sezione era aperta da poco tempo, facemmo un volantinaggio al lotto 19 (quello dove abitano Speranza e Schiaoncin, ndr) e quando un compagno suonò alla porta degli Schiaoncin per dare il volantino sul problema della casa, lei gli rispose che era del MSI, che la casa l'aveva avuta per interessamento del partito e che non voleva saperne del volantino, e richiuse violentemente la porta. Il giorno dopo, mentre eravamo in sezione a fare una riunione, proprio lei entrò e, visti i volantini sulla panca, ne prese uno e stava già per uscire, quando il compagno del giorno prima esclamò: «Ma tu sei fascista!» Lei rispose: «Come, ieri me lo siete venuti a portare a casa e oggi non me lo volete dare? Me lo hanno chiesto in sezione». Naturalmente le fu fatto posare il volantino e fu cacciata via. Qualche tempo dopo ci fu un corteo che sfilò anche in via Bembo, e lei si affacciò al suo balconcino e cominciò a gridare: "Il comunismo non passerà", come una forsennata. Poi, durante uno degli attentati alla sede del MSI quando furono tirate le bottiglie molotov dentro, leggemmo sul giornale che era rimasta ustionata ad una gamba (21). Il giornale riportava anche la carica ricoperta da Anna Menna Schiaoncin, ma ora non ricordo quale fosse, e c'era anche la foto di lei nella sezione. Ricordo che venimmo a conoscenza dell'attentato alla sua macchina, perché era avvenuto proprio quasi davanti alla nostra sezione».

fossero trovate nell'interno del locale circa eventuali aggressioni. Quindi ero ben conosciuto come attivista. Anche mia moglie è un'attivista del MSI». 21) In seguito all'incendio in casa Mattei, quando i giornali ripercorreranno le vicende passate della sezione missina di via Svampa, questo episodio verrà citato. Come esempio riportiamo il «Momento Sera» del 17-18 aprile: «Marzo '72: incendio alla sede del MSI di via Svampa con Molotov (Anna Menna, attivista di 32 anni riporta ustioni alle gambe)».

131 La lacuna più grave a proposito dell'episodio Speranza, che si riscontra nell'inchiesta ufficiale, è però che né la polizia né la magistratura abbiano minimamente cercato d'illuminare il ruolo giocato, nell'intera vicenda, dal Di Meo. Un ruolo, come abbiamo visto e vedremo, davvero determinante. Chi sia Alessio Di Meo è noto: è l'ultrà diretto superiore dello Speranza alla Nettezza Urbana che nel settembre del 1972 ha una violenta lite con lo Speranza. Il 17 dicembre dello stesso anno gli viene bruciata l'automobile. L'episodio sembra avere connotazioni politiche ma in un successivo interrogatorio (22) il netturbino repubblicano rivelerà di aver saputo dallo stesso Di Meo che questi se l'era incendiata da solo per riscuoterne l'assicurazione. Sarà, dunque, questo Di Meo il depositario delle «confessioni» dello Speranza, che gli avrebbe riferito a sua volta altre «confessioni», quelle ricevute dai militanti di Potere Operaio. Estremamente illuminante è, a questo proposito, un brano dell'interrogatorio del Di Meo (23), in cui, riferendosi a Potere Operaio e alla «gita al covo», afferma: «Quando io chiesi a Speranza se avrebbero messo le bombe fuori della porta di casa, rispose di no perché era troppo rumoroso. Allora io gli chiesi se avrebbero fatto come era accaduto al giudice Dell'Anno ,con la benzina. Lui rispose che avrebbero fatto un affare di questo genere». Messo a confronto con Speranza trova però un muro. Il netturbino non può confermare la circostanza e forse non capisce perché il Di Meo insista tanto sull'attentato tipo Dell'Anno: «Di Meo: ti domandai se ci avrebbero messo delle bombe fuori dalla porta di casa, ti ricorderai almeno questo? Speranza: Io sapevo che volevano bruciare le macchine, cioè lo immaginavo dai discorsi che mi facevano. Non ho parlato di abitazioni. Di Meo: Cerca di ricordarti...» (24)

22) Interr. del 10-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 46. 23) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 116. La stessa affermazione era stata fatta dal Di Meo nell'interrogatorio del 17-4-1973. Atti, vol. 4°, p.23. 24) Confronto dell'11-5-1973. Atti, vol, 4°, p. 55.

132 Quello che forse Speranza non sa, e che invece Di Meo può temere e immaginare, è quanto sarebbe accaduto più avanti; e più avanti è accaduto che per l'attentato con la benzina al sostituto Procuratore della Repubblica Paolino Dell'Anno sia stato incriminato proprio il suo amico e camerata Gianni Quintavalle, con il quale il Di Meo aveva condiviso l'impresa della conquista della sezione del MSI di Boccea da parte di Ordine Nuovo. Per chiarire, dunque, i rapporti esistenti tra lo Speranza e il Di Meo e soprattutto l'importanza del ruolo da questi giocato, rifacciamoci ad altre testimonianze e ad altri episodi. E' sintomatico, per esempio, che il confronto tra i due (caposquadra e sottoposto) si apra con queste precise parole dello Speranza : «Mo' sei contento che mi hai fatto carcerare?» (25). Ma è ancora più importante la testimonianza di G.C., secondo la quale la mattina del sedici aprile, il giorno dopo il rogo in casa Mattei, Alessio Di Meo si recò à trovare lo Speranza a casa sua. Dice, dunque, G.C.: «Il pomeriggio del 16, dopo aver saputo dell'incendio nell'abitazione del segretario del MSI, mi recai a Primavalle. Girai un po' per il quartiere, e passai anche all'osteria di via Bembo per sentire cosa si diceva. Dopo un po' andai alla fermata del 46 lì vicino, per tornare a casa. Da lì si vede molto bene la casa di Speranza, e infatti a un certo punto mi voltai verso quella direzione e vidi di Meo e Speranza che parlavano, entrambi molto agitati. Subito dopo salirono su una macchina con il Di Meo alla guida e si allontanarono verso largo Donaggio». C'è poi l'intervista rilasciata a un giornalista di «Paese Sera», il 21 aprile del '73, dal cognato di Aldo Speranza, in cui il giovane conferma la strana visita del Di Meo, e prosegue affermando di aver visto uscire Speranza dalla stanza dove si era svolto il colloquio, pallido e tremante, e che questi gli dichiarò che Di Meo lo aveva minacciato con la pistola. Del resto che Di Meo girasse armato, è confermato dallo stesso Speranza, proprio al giudice:, «Aggiungo inoltre che Di Meo era solito girare armato con una pistola non so di che tipo. Io gliela ho vista infilata in

25) Ibidem.

133 una fondina. Mi fece anche vedere dei proiettili dicendo : "Vedi che confetti adopero"» (26). E' comunque solo da una ricostruzione punto per punto della giornata del 16 aprile di Di Meo e Speranza, che si può comprendere appieno tutto l'impegno dimostrato dallo stesso Di Meo per far sì che Speranza parlasse a tutti i costi di Potere Operaio. Un impegno così ben indirizzato da trovare una collaborazione nientemeno che nel dottor Provenza, responsabile ancora in quel periodo dell'ufficio politico della Questura di Roma. Dai racconti dei due netturbini, collimanti loro malgrado, possiamo anche ricostruire l'escalation di avvenimenti che ha incastrato Speranza nel ruolo di provocatore. Dice Speranza: «Il lunedì mattina verso le ore 8,30 incontrai, in ufficio zona il Di Meo il quale, benché in ferie da una settimana circa era venuto anche lui in ufficio. Gli chiesi se aveva saputo. "Già l'ho saputo" mi rispose. Io replicai "ma lo sai che quasi quasi vado al Commissariato, perché ho il sospetto che siano stati quelli di Potere Operaio, tre di loro sono venuti a casa mia ieri notte". Non feci i nomi di Marino ed Achille, lui però mi sconsigliò di andare al Commissariato. "Non ci annà, ti metti negli impicci con quelli, poi te la fanno pagare anche a te» (27). Lo Speranza dunque si reca al lavoro e incontra lì il Di Meo prima di qualsiasi interrogatorio da parte della polizia. Nel colloquio così riferito dal netturbino pare che il Di Meo non abbia nessun interesse a far trasmettere la cosa al Commissariato. Ma andiamo avanti nelle dichiarazioni dello Speranza: «Invece il Di Meo appena mi ebbe lasciato andò al Commissariato: sono giunto a questa conclusione perché il Di Meo andò via e poco dopo io venni convocato al commissariato. Il Maresciallo che mi interrogò disse che sapeva già tutto sul colloquio che avevo avuto poco prima col Di Meo».

26) Interr. del 2-5-1973. Atti, vol. 4°, p. 43. 27) Ibidem.

134 Ma prosegue Speranza in un altro interrogatorio: «Ero molto impressionato, addirittura incapace di parlare e non ho detto niente» (28). Ci penserà il Di Meo! Ecco la sua deposizione: «Verso le 16 tornammo (insieme col Fidanza, ndr) al Commissariato, decisi a fare una denuncia contro Speranza. Parlammo allora con Adornato, Secchi e il dottor Provenza e questo apprese solo allora che Adornato aveva un appunto già redatto il giovedì sulle nostre confidenze (vedi cap. V). L'Adornato mostrò il suo appunto a Provenza. Dissi al dottor Provenza che lo Speranza era terrorizzato per essere stato fermato al mattino e che lo Speranza stesso avrebbe di certo detto tutto se gli si fosse spiegato che io, Fidanza e Pais avevamo già denunciato il fatto. In seguito verso le ore 17 rivedemmo lo Speranza sotto la casa di Schiaoncin» (29). Modo indiretto per dire che è andato a cercare Speranza visto che Speranza e Schiaoncin abitano nello stesso palazzo. Ma come il Di Meo «incontrò» lo Speranza lo abbiamo già visto: pistola alla mano «convinse» il netturbino che doveva andare alla polizia (30). La sua versione — ovviamente non può parlare di armi —, rivela ugualmente la determinazione di incastrare lo Speranza nel ruolo di «superteste» d'accusa: «Lo Speranza mi chiese se lo avevamo cercato e cosa volevamo: gli dicemmo che doveva fare i nomi delle persone "amiche sue" perché altrimenti lo avremmo denunciato alla polizia» (31).

28) Interr. del 19-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 33. 29) Interr. del 22-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 50. 30) In qualche interrogatorio il Di Meo non si premura neanche di nascondere l'intenzionalità dei metodi in seguito adottati nei confronti del suo sottoposto repubblicano. Dall'interrogatorio del 22-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 50: «...Era mia intenzione rintracciare lo Speranza ed indurlo, in ogni modo, a parlare con la polizia e a fare i nomi delle persone che gli avevano fatto le confidenze sugli attentati». 31) Interr. del 22-4-1973. Atti: vol. 5°, p. 50.

135 Solo a questo punto lo Speranza, portato in commissariato da Di Meo, «ricorderà» che la visita della sera prima poteva anche non essere «normale» e si lancerà nella miriade di episodi e circostanze per coinvolgere Potere Operaio. Non può sfuggire che c'è un momento in tutto questo via vai al Commissariato Primavalle che dà la svolta decisiva alla giornata : nella sua prima visita alla polizia Di Meo incontra infatti solo Adornato, Commissario di borgata poco avvezzo alla messa a punto delle montature ; solo più tardi si troverà di fronte il Dottor Provenza, il professionista delle provocazioni. E' a Provenza infatti che Di Meo garantirà di «far crollare» con uno adeguato trattamento lo Speranza. Ed è con il suo mandato che convince Speranza con la pistola. Solo grazie all'alleanza tra il fascista e il superpoliziotto i giudici riceveranno un teste convinto e disposto a deporre qualsiasi cosa. In mano ai giudici, il teste con le credenziali di Provenza diventerà credibile a tutti gli effetti. Contraddetto da parenti, amici, conoscenti di osteria, sarà tenuto in piedi con un impiego massiccio di falsificazioni. Fedeli ad una tesi preconcetta a tutti i costi i magistrati eviteranno anche di acquisire delle prove e di verificare delle testimonianze, anche laddove i nomi di chi può suffragarle o metterle in dubbio vengono loro chiaramente indicati. Dice lo Speranza, ad esempio, che venerdì 13 aprile (32) Lollo lo avrebbe chiamato all'osteria e si sarebbe fatto condurre al lotto 29, dove lo Speranza supponeva che abitassero i Mattei. Speranza afferma anche che quel giorno lui se ne stava all'osteria con un certo Spartaco Rossi e con Paolo Pazzani. Ebbene, di fronte a questa indicazione, come si comportano gli inquirenti? Nel modo più logico, almeno a considerare i canoni che hanno sovrainteso a questa indagine: non chiamano nemmeno a deporre il Rossi, e non danno peso al particolare che il Pazzani smentisca la circostanza (33). E allora, concludendo, qual è il superteste su cui si basano l'accusa il rinvio a giudizio, la carcerazione per più di un anno di Lollo, il processo per strage? Un teste ricattato ed intimorito che nonostante tutte queste pressioni non riesce nemmeno a fornire prove o indizi attendibili,

32) Interr. del 17-4-1973. Atti, vol. 4°, p. 32. 33) Interr. del 19-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 36: «...Non ricordo se lo Speranza venne chiamato da qualche giovane mentre giocava».

136 che invece, solo per Sica e Amato diventeranno «indizi e prove tranquillanti». La sua vicenda processuale è infine una chiara dimostrazione del suo ruolo ambiguo e provocatorio e dell'uso sapiente che di lui faranno i giudici: infatti, è usato come superteste fin dal suo primo interrogatorio ma è arrestato per falsa testimonianza il 18 aprile. Ha raccontato ancora poco per i giudici che devono arrivare ad accumulare prove tali da giustificare l'imputazione per strage contro persone incriminate per detenzione di esplosivi. Il 6 maggio è imputato anche lui per strage, insieme a Lollo, Clavo e Grillo. Diventato troppo presto inattendibile come teste d'accusa, è necessario che rimanga in carcere come coimputato e per ottenere da lui, con il terrore, cose che non ha da dire. Prova ne è il fatto che il 28 novembre '73 il P.M., nelle sue richieste, lo vuole prosciolto dall'accusa di falsa testimonianza e da quella per strage senza che nessun elemento nuovo sia intervenuto. Le richieste verranno prontamente accolte dal G.I. Amato nel suo rinvio a giudizio del 28 dicembre: per non aver commesso il fatto riguardo alla strage e perché il fatto non costituisce reato riguardo alla falsa testimonianza. Si ritorna così alla posizione della prima ora: Speranza è di nuovo il superteste. Verrà scarcerato il 13 ottobre del '73, ancora prima della sentenza di rinvio a giudizio. Cade cosi, tanto facilmente come era arrivata, un'accusa per strage che altro non era se non un vano tentativo di cavare da Speranza tutto quello che altrimenti non si poteva dimostrare. Lo Speranza di oggi, uscito dalla galera, comportamento tenuto nel caso Primavalle.

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smentisce

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Diventa protagonista, infatti, di un episodio avvenuto durante le massicce occupazioni di case effettuate a Roma nei mesi di gennaio e febbraio 1974. La sera del 7 febbraio un gruppo di operai e proletari che tentano di occupare un palazzo di via Val di Non, nella zona del Nuovo Salario, si trova di fronte una delle cosiddette «squadre di vigilanza», assoldate dai padroni edili appunto per impedire l'occupazione dei palazzi appena costruiti. A capo di questa squadra c'è Aldo Speranza, che si farà incontro agli occupanti urlando:

137 «Sono Aldo Speranza, siamo qui perché ci pagano 3.000 lire l'ora. A noi interessano i soldi, non vogliamo confusioni. Dobbiamo stare qui e basta. Se però saremo attaccati sappiate che siamo armati e ci difenderemo». Più tardi, quando già il quartiere Primavalle è coperto di manifesti del comitato unitario per la casa che denunciano il «provocatore Speranza», il netturbino tenterà di giustificare questa sua scelta di fare il mazziere: «Sì, è vero che mi trovavo in via Val di Non quando sono arrivati gli occupanti. Erano venuti degli amici a casa mia per dirmi se volevo guadagnare dei soldi sorvegliando il legname di un cantiere perché "quelli che occupano le case non lo portino via". Cosi almeno mi avevano detto e io sono andato perché ho bisogno di lavorare». Ancora una volta, quindi, sono gli stessi «amici» a consigliarlo. Il Comitato unitario per la casa lo ha accusato anche di mantenere rapporti con l'assessore comunale Pompei, ex-federale fascista passato poi alla DC. Ancora una volta Speranza è legato ai fascisti e ne segue indirizzi e orientamenti: il sottoproletario disponibile questa volta non ha avuto bisogno di una pistola puntata per diventare addirittura un mazziere al soldo dei Caltagirone e dei Lamberto Roc.

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Un certo Mulas

Uno che «sa tutto» è Paolo Mulas. Ricercato, interrogato, forse fermato, il suo nome scompare dai documenti dell'inchiesta. Perché? Chi è? Lo abbiamo trovato a Primavalle.

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C'è ancora un nome nella vicenda di Primavalle. Un personaggio di cui finora non ci siamo occupati, perché su di esso dopo i primi giorni è caduto un velo di silenzio e di omertà. La mattina di lunedì 16 aprile, a poche ore dalla tragedia, un uomo viene interrogato negli uffici del Commissariato di Primavalle: il suo nome è Paolo Mulas. Non si conosce cosa abbia detto né le domande che magistrati e polizia gli hanno posto: ufficialmente non esiste. Nei giorni successivi infatti si cerca di far scomparire, insieme all'atto di deposizione, anche il ricordo di questo personaggio. Eppure, per le inevitabili smagliature che queste operazioni si portano dietro, il silenzio non viene rispettato e sono proprio i giornali ,fascisti a fornire le prime informazioni sull'importanza e sul ruolo di quest'uomo da nascondere: «Un elemento di notevole importanza è stato fornito dalla signora Anna Maria Mattei. Si tratta di un nome, Paolo, fatto dalla donna poco dopo il suo ricovero in ospedale. La donna infatti ha detto: "Cercate un certo Paolo, per me lui sa tutto, stava lì questa notte in mezzo agli altri"» (1). E' dunque Anna Maria Mattei a fare per prima il nome di questo Paolo, dato questo che ci viene confermato da altri giornali: «Prima di essere portata al S. Spirito grida: "Cercate Paolo... lui sa tutto!"» (2).

1) «Giornale d'Italia», 17-4-1973. 2) «L'Unità», 18-4-1973.

142 Anche il quotidiano fascista scrive il 17 aprile: «Interrogata a S. Spirito da Sica il 16 mattina ha detto che tra coloro che minacciavano il marito c'è un certo Paolo, precisando che: "lui sa tutto, questa notte era con gli altri"» (3). Il giorno dopo salterà fuori anche il cognome di questo «Paolo» e sarà ancora il «Secolo d'Italia» a renderlo noto insieme alla notizia che l'uomo è stato interrogato è fermato per reticenza: «La sera del 17 il giudice Sica ha fermato Paolo Mulas per reticenza» (4). Con il trascorrere dei giorni, poi, questa nome tornerà sempre più spesso alla ribalta; scrive infatti un altro quotidiano che: «il Commissariato di Primavalle ha fornito una notizia interessante: lunedì, il giorno stesso dell'incendio, in casa Mattei, si presentò al Commissariato un missino di nome Paolo Mulas, il quale fece il nome di un altro missino, Angelo Lampis» (5). La stessa notizia sarà riproposta dal Messaggero che scrive: «Pare che il nome di Lampis sia stato fatto alla polizia da un certo Mulas» (6). A confermare l'esistenza di Mulas e ad indicarne l'importanza per le indagini, sarà del resto lo stesso Provenza in una imprudente conferenza stampa tenuta in questura e riportata tra gli altri dal quotidiano «Il Tempo»: «il capo dell'ufficio politico, Provenza, pur non nascondendo la complessità del caso, ha affermato che si era ormai su una pista abbastanza consistente. Provenza ha

3) «Il Secolo d'Italia», 17-4:1973. 4) «Il Secolo d'Italia», 18-4-1973. 5) «Il Manifesto», 21-4-1973. 6) «Il Messaggero», 29-4-1973.

143 dichiarato che gli inquirenti annettono un'importanza decisiva alla testimonianza di un amico di Mario Mattei, che, accompagnato dall'avvocato Marchio, si è recato nel pomeriggio dal dottor Sica. Egli avrebbe riferito che nella serata di domenica il segretario missino di Primavalle si era recato a casa sua dove era stato raggiunto dalla telefonata di un comune amico, un certo Paolo Mulas, il quale lo metteva in guardia contro i pericoli di un imminente attentato contro di lui e che avrebbe potuto essere attuato la notte stessa» (7). Dunque il nome di Paolo Mulas viene fatto da più parti e, chiunque ne parli, dà a questo personaggio un ruolo di primo piano: Anna Maria Mattei (le cui dichiarazioni dovrebbero avere un certo peso essendo lei la protagonista della vicenda) addirittura parla di questo Paolo come di colui che «sa tutto»; alcuni giornali fanno filtrare la notizia che è stato interrogato dai magistrati ed, anzi, da loro trattenuto; altri giornali affermano che Mulas fu il primo a «presentarsi» in Commissariato il lunedì mattina e che fece il nome di Lampis: ancora, lo stesso Provenza si fa sfuggire questo nome (che dice essere «decisivo» per l'indagine) in una conferenza stampa. Ma di questo nome, come abbiamo detto, non c'è alcuna traccia negli atti ufficiali dell'inchiesta o meglio, c'è una traccia molto labile e, naturalmente, indiretta. E' quando il giudice istruttore Amato convoca al Palazzo di giustizia un giornalista dell'«Espresso», Catalano, che su un numero del settimanale ha pubblicato un articolo di cronaca sull'incendio di Primavalle in cui di sfuggita è nominato il Mulas. E' chiaro dalla stessa struttura dell'interrogatorio che il giornalista viene interrogato proprio e soltanto perché dica cosa sa su Mulas: A.d.r. «Circa l'esclamazione della signora Mattei relativa al Paolo che avrebbe dovuto sapere tutto, non so se me lo disse un collega... Alcuni parlarono di tale Mulas come persona che poteva essere utile per la conoscenza dei fatti» (8) Tranquillizzati dalla dichiarazione abbastanza vaga in proposito, non gli chiedono praticamente più niente, né naturalmente danno

7) «Il Tempo», 19-4-1973. 8) Interr. del 4-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 85.

144 peso all'ultima dichiarazione del giornalista e cioè che «Mulas... poteva essere utile per la conoscenza dei fatti». Prima di scomparire definitivamente anche dai giornali, il nome di questo personaggio sarà fatto oggetto di alcuni giochi di parole. I cronisti, infatti, evidentemente confusi dalle notizie che polizia e Palazzo di giustizia passavano, fanno diventare il nome Mulas prima Lamas, poi Landis, Lampes e, finalmente, Lampis. Segno questo che gli inquirenti si sentono quasi in dovere di giustificare la scomparsa del nome Mulas, confondendo le acque e volendo far credere che il nome di questo personaggio chiave fosse stato tirato fuori per sbaglio nei primi giorni. Ma, chi ha congegnato la trasformazione di Mulas in Lampis, non ha tenuto in debito conto troppe discrepanze: Mulas, per esempio, si chiama Paolo e Lampis, invece, Angelo o Angelino. Inoltre troppi giornali parlano dei due come di altrettante persone distinte, l'una delle quali, anzi, avrebbe portato all'altra. Ma perché questo tentativo di «riassorbire» il nome Mulas fino a farlo coincidere con quello di Lampis? Perché questo nome scotta tanto da essere sempre ignorato dagli inquirenti? Perché Paolo Mulas da tutti indicato come «uno che sa tutto», ufficialmente non è mai stato interrogato? Oggi noi lo sappiamo. Paolo Mulas, in realtà, c'è, esiste. E' un duro della sezione Giarabub. Ha 30 anni, abita a via Andrea Barbazza 22, lavora saltuariamente come applicatore di moquettes. Nel quartiere tutti lo conoscono come Ramon. Lunedì 16 mattina è stato interrogato, ma di questo interrogatorio che non compare negli atti ufficiali si sa soltanto che ha fatto il nome di Lampis. Nei giorni immediatamente seguenti all'incendio — gli stessi in cui il suo nome era uscito su tutti i giornali ed addirittura pubblicata la sua foto — è stato visto pallido, teso e sconvolto dalla paura. Ma — poiché, come è risaputo, quando l'informazione parte da un confidente della polizia il magistrato ne viene sempre avvisato affinché possa tenerlo fuori dalla vicenda — Ramon alias Mulas, ricevute le sufficienti garanzie di copertura, riacquista il suo usuale atteggiamento spavaldo. Consapevole di stare in una botte di ferro, infatti, si permette di dire di saper «tutto sulla vicenda di Primavalle» perfino pubblicamente nei bar e nelle osterie del quartiere e sono in molti ad aver ascoltato le sue smargiassate.

145 Ma il nome di Paolo Mulas, magari forse soltanto il nome, non è davvero nuovo a grosse provocazioni. Anche nella Strage di Stato. nel caso Valpreda, c'è un Paolo Mulas. Scrive Pietro Valpreda nel suo «Diario dal carcere», il 12 aprile 1970: «Paolo Mulas si è fatto trasferire nella nostra cella. E' imputato di truffa, parlavamo già prima durante il passeggio. Ha una certa importanza con chi devi stare in cella». Ma giovedì 16 aprile, questo Paolo Mulas se ne era già andato: «E' stato trasferito: a mezzogiorno è stato portato al transito, non sa nemmeno la sua nuova destinazione. Ci siamo lasciati con un po' di commozione, è il quinto che vedo andarsene». Oggi, quattro anni dopo, Pietro Valpreda si ricorda ancora di quel suo compagno di cella. E si ricorda anche molte stranezze. Dice: «Tempo dopo, provai a saperne qualcosa; nel carcere, si sa, i detenuti sono amici tra di loro, ed io conoscevo qualcuno che aveva accesso agli schedari della matricola, sia al nostro braccio, sia a quelli generali. Ebbene, in nessuno di questi due archivi c'era traccia di questo Mulas. Come se non fosse mai arrivato al carcere. Eppure, di lui mi ricordo benissimo, ed altre persone, qualcuno in cella con me, qualche altro nello stesso braccio ma in altra cella, si ricordano altrettanto bene. Era certamente un sardo, sembrava abbastanza colto, faceva abbastanza domande, soprattutto cercava di starmi vicino nei miei momenti più difficili, di rabbia o di scoramento». Chi era, allora, questo Paolo Mulas, per quattro giorni compagno di cella del detenuto «più prezioso» di tutte le carceri italiane? Per saperlo basta leggere più oltre le stesse memorie di Pietro Valpreda, il quale scrive il due ottobre dello stesso 1970: «Oggi ho avuto un'informazione abbastanza interessante da un detenuto che chiamano Zuccone. E' rientrato due giorni

146 fa (era uscito con l'amnistia) e mi ha raccontato di aver incontrato il Paolo Mulas che era stato mio compagno di cella la scorsa primavera. Mulas era in divisa di capitano dei carabinieri. Zuccone esclamò: "Ma tu eri in galera, in cella con Pietro!". Mulas si irrigidì da perfetto militare e ribatté: "Ero in missione". Sapendo che sono innocente cosa speravano che confidassi al Mulas? Che stronzi, forse speravano in una bella provocazione che desse loro modo di annunciare a caratteri cubitali: Un agente raccoglie in carcere la confessione di Valpreda». Ecco: di «quel» Mulas, il compagno di cella di Valpreda, non si sa più niente. Il suo nome è perfino scomparso da ogni documento ufficiale, come gli schedari di Regina Coeli. Di «questo» Mulas, il misterioso protagonista delle prime indagini di Primavalle, si sa altrettanto poco, e — allo stesso tempo — il suo nome è scomparso da ogni documento ufficiale, come gli atti dell'inchiesta. Una strana coincidenza, dunque, forse solo un nome o uno pseudonimo di battaglia, che riporta la vicenda di Primavalle agli oscuri meccanismi della Strage di Stato.

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I luoghi e i volti di questa storia

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Primavalle è la più popolata e la più povera delle borgate romane. In 190 ettari sono stipate ottantamila persone, la popolazione di una città come Monza o Varese; l'indice di densità demografica del quartiere è altissimo: 4.200 abitanti per chilometro quadrato. Il reddito medio, inferiore a quello della Calabria, non raggiunge le trecentomila lire all'anno «pro capite». Un quinto degli abitanti sono disoccupati, moltissimi i sottoccupati. Primavalle è un quartiere proletario e rosso, ed il PCI ne è il partito egemone. La sinistra rivoluzionaria ha svolto un ruolo specifico nel quartiere attraverso una serie di strutture organizzative come il comitato degli studenti del Castelnuovo, il comitato operaio edile, il comitati di lotta, attorno ai quali si sono formati processi di aggregazione proletaria che hanno condotto significativi momenti di lotta. Si capisce come in questo contesto non ci sia posto per i fascisti che, ridotti a una minoranza sparuta e divisi al loro interno, trovano l'unica area di manovra tra lo strato più ricattabile del sottoproletariato del quartiere che sfruttano per taglieggiare i commercianti e organizzare azioni squadristiche nelle zone «più sicure» di Monte Mario e Boccea. La sede del MSI di Primavalle riflette in pieno questa situazione. Avulsa dalla realtà della borgata e ignorata dai suoi abitanti è teatro continuo di liti e risse tra fascisti, anche qui divisi tra «falchi» e «colombe». La notte tra il 15 e il 16 aprile l'abitazione del segretario missino di Primavalle, Mario Mattei, al terzo piano del lotto 15 di via Bernardo da Bibbiena, va a fuoco. Nell'incendio muoiono Virgilio, segretario della sezione giovanile del MSI, e Stefano Mattei.

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La foto qui sopra è stata scattata nelle prime ore della mattina successiva all'incendio, Nella notte, subito dopo l'allarme, sotto casa Mattei si era riunita una folla «importante». Contemporaneamente allo Stato Maggiore di polizia e carabinieri sono presenti sul posto i maggiori esponenti del neofascismo romano: il «federale» Gaetani Lovatelli, il deputato Michele Marchio, Pino Romualdi ed altri grossi nomi. Nel cortile di via Bernardo da Bibbiena si erano raccolti subito anche molti tra i più importanti missini della borgata: nella foto è riconoscibile Alessio Di Meo. Proprio Di Meo era tra i capi riconosciuti della frangia oltranzista della sezione «Giarabub» di via Svam-

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pa, di cui era segretario il Mattei. Nei giorni precedenti all'incendio tra «ordinovisti» e almirantiani vi erano stati grossi litigi, sfociati in una violenta rissa proprio alla vigilia di quel 15 aprile. La sezione di via Svampa, del resto, era da tempo tra le più «difficili»: sciolta quando i «duri» vi avevano preso il sopravvento e si erano imbarcati in azioni troppo «pericolose» per la rispettabilità della gestione almirantiana, era stata riaperta sotto la direzione di Mario Mattei fautore della cosiddetta linea morbida. Da allora le liti e le discussioni continue tra la frangia oltranzista e Mattei erano all'ordine del giorno.

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A sinistra Aldo Speranza (in alto) e Paolo Mulas (in basso), a destra Angelo Lampis: i tre personaggi chiave della vicenda. Speranza, netturbino, iscritto al partito repubblicano, è il supertestimone d'accusa: inventa storie contro i militanti di Potere Operaio, ma soltanto dopo essere stato «convinto» — pistola alla mano — dal suo diretto superiore di lavoro Alessio Di Meo. La stessa vicenda giudiziaria di Speranza è esemplare: usato nelle prime ore come superteste, diventa presto testimone reticente, quindi correo nel reato di strage (in questo periodo malgrado la grave imputazione ottiene ugualmente la libertà provvisoria), infine, scagionato dall'accusa di strage, è di nuovo utilizzabile come teste d'accusa. Angelo Lampis è soprannominato il «veggente di Primavalle» perché predice gli attentati che poi puntualmente si verificano. Il giorno prima dell'incendio compra una macchina fotografica di cui si servirà la domenica mattina per fotografare i militanti di Avanguardia Operaia che distribuiscono volantini nel 'quartiere. La sera del 15, sei ore prima del fatto, andrà a

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casa Mattei e parlerà, con Virgilio «predicendogli» un attentato con benzina. Risulta da alcune testimonianze che la notte del 15 non fece ritorno a casa; quello che è certo è che sarà tra i primi sul luogo dell'incendio, pronto lì con la sua macchina fotografica a scattare foto. Nella perquisizione a casa sua vengono trovate armi, munizioni e taniche. Paolo Mulas, conosciuto come «Ramon», è un duro della sezione Giarabub. Malgrado sia stato interrogato tra i primi, il suo nome non compare in nessuno degli atti dell'inchiesta. Eppure si sa che è stato proprio lui a fare il nome di Lampis ed in molti hanno ascoltato le prime parole di Anna Maria Mattei subito dopo l'incendio: «Cercate Paolo...lui sa tutto... stava lì con gli altri». Polizia e Magistratura preferiscono che «non esista»: non solo fanno scomparire il verbale del suo primo interrogatorio avvenuto la mattina del 16 nel commissariato di Primavalle, ma quando malgrado tutto il suo nome comincia a apparire sui giornali ricorrono ad un gioco di parole cercando di confondere il nome Mulas con quello di Lampis. Noi sappiamo che esiste e lo abbiamo trovato.

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L’incendio di Primavalle avviene in un momento estremamente opportuno per il MSI: tre giorni prima a Milano nel famoso «giovedì nero», l'agente di PS Antonio Marino era stato ucciso da una bomba a mano lanciata dai fascisti. E i fascisti infatti si dimostrarono prontissimi a sfruttare ogni possibile uso politico dell'episodio di Primavalle, e muove subito tutti i loro «pezzi grossi». Ecco, nella foto a sinistra, il vicesegretario missino Pino Romualdi (con gli occhiali) —accorso in gran fretta sotto casa Mattei — poche ore dopo l'incendio mentre sta parlando con uno dei primi soccorritori, Giovanni Serafini. La foto di destra invece ritrae Alessio Di Meo, «ordinovista», dipendente comunale, caposquadra della 29a zona della nettezza urbana. Di Meo, capo riconosciuto degli «ultras» fascisti di Primavalle, è il più diretto antagonista di Manti che mira a spodestare dalla segreteria della sezione. Alla vigilia dell'incendio si prende quattro misteriosi giorni di permesso dal lavoro. E subito dopo l'incendio sarà tra i primi a fare la spola con il commissariato per indirizzare le indagini verso la costruzione di quella montatura che, a tutti i costi, doveva colpire e coinvolgere la sinistra.

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Anna Schiaoncin e suo marito Marcello sono altri due fascisti della Giarabub; lei, «fedelissima di Mario Mattei» è conosciuta a Primavalle come «Anna la fascista» per il suo fanatismo politico. La coppia Schiaoncin, ma in particolare la donna, commette delle grosse imprudenze all'indomani dell'incendio; la più grave sarà quella di rilasciare un'intervista al «Messaggero» in cui vengono a galla tutte le magagne della sezione missina di via Svampa. Sarà proprio "la fascista" a rivelarci le tensioni, le liti, le faide interne dei suoi camerati. Come se non bastasse, parlerà anche di un «traditore», attivista della sezione, ma dissidente dalla linea «morbida» almirantiana del Mattei: insomma indirettamente attribuisce la responsabilità dell'incendio agli ultras della Giarabub. All'indomani di questa intervista il MSI farà sparire i coniugi Schiaoncin per due ,giorni, nascondendoli in una Pensione di via IV Fontane. Indottrinati alla meglio, verranno mandati dal giudice; durante l'interrogatorio del marito, battendo i pugni sulla porta la signora griderà: «Cretino non fare nomi!».

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Ed eccoci allo stato maggiore del MSI, ai veri registi della provocazione. Nella foto a sinistra accanto ad Almirante, è l'avvocato Michele Marchio, in quella di destra il federale romano Loffredo Gaetani Lovatelli. Michele Marchio, consigliere comunale e deputato del MSI, copre fin dalle primissime ore dall'incendio il ruolo di «consigliere» di tutti -i fascisti implicati nella vicenda: è suo il compito di sottrarre dalla scena i personaggi che scottano di più e che potrebbero rilasciare dichiarazioni sconvenienti per il partito. Anche Loffredo Gaetani Lovatelli svolge nella vicenda il ruolo di consigliere, in particolare di Mario Mattei. La notte dell'incendio il Mattei, appena scappato al fuoco, telefona al federale: «dotto', m'è successo un guaio». Gaetani Lovatelli accorre e si chiude con lui in una stanza dell'appartamento di un vicino di casa. Era evidentemente indispensabile, fin da subito, il «consiglio» di un superiore fidato.

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Con la barba, appoggiato al muro, il Sostituto Procuratore Domenico Sica. Sica è il magistrato che guida le indagini e che avalla tutte le indicazioni dei fascisti — già «filtrate» da Provenza allora capo dell'ufficio politico — trasformando cosi una rozza provocazione in una vera e propria montatura contro la sinistra. Nella affannosa ricerca di trovare un colpevole, purché «rosso», polizia e magistratura prendono cantonate continue e vedono sfumare uno dopo l'altro i primi rozzi tentativi di coinvolgere la sinistra nell'inchiesta (PCI, Avanguardia Operaia). Così l'arresto di un colpevole a tutti i costi viene risolto attraverso un artificio: nello schedario di Provenza c'è il nome di Achille Lollo (ben segnato in rosso perché Lollo, proletario comunista, ha guidato le più significative lotte del liceo Castelnuovo e della borgata) e in base alle farneticazioni di Speranza c'è la possibilità di arrestarlo contestandogli un reato che

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si riferisce ad un episodio diverso: uso e detenzione di esplosivi. Comunque a questo punto tutto diventa più facile: Sica tiene per tre giorni Lollo in isolamento senza interrogarlo — non avrebbe del resto saputo cosa chiedergli — e alla fine, pur senza prove, lo indizia di strage. E' tanta la fretta di Sica e Provenza di trovare i colpevoli, tanto infondate le loro accuse contro Lollo, tanto marchiano il loro errore sui due «Marini» che anche la stampa moderata attaccherà il loro modo di procedere definendolo «un autentico funambulismo procedurale». Più tardi Sica si trasformerà anche in "superperito" pronto ad inventare litri di benzina in più ed una tanica fuori dal pianerottolo dei Mattei per giustificare l'assurda ipotesi dell'attentato: tutto pur di colpire dei militanti comunisti e tenere in piedi una montatura che fa acqua da tutte le parti.

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Bonaventura Provenza

A destra Mario Mattei con il figlio Virgilio; sotto Virgilio Mattei cena con Almirante. Mario Mattei ha 48 anni, è iscritto al MSI dal 1951 segretario della sezione Giarabub di Primavalle. Il suo nome era negli indiziati di reato per il golpe del principe nero Borghese. Dopo aver spodestato i «duri» dalla segreteria della sezione, nel '71 ridiventa segretario Rappresenta nella sezione la corrente almirantiana del MSI ed è questo che lo fa stare in costante polemica con la frangia degli ultras capeggiata dal Di Meo. Virgilio Mattei, 22 anni, segretario giovanile della sezione di via Svampa; definito «un feroce anticomunista», faceva parte del servizio d'ordine del MSI di Roma. Nella settimana che precede l'incendio riceve frequenti visite di Lampis. Anche il 15 sera Lampis va a trovarlo per "predirgli" l'attentato; si chiuderanno nella sua stanza a parlare per alcuni minuti. La notte dell'incendio i vicini affermano di aver visto la luce della sua stanza accesa fino alle due.

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167 Achille Lollo militante comunista è in carcere innocente dal 18 aprile 1973

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A sinistra il giudice Paolino Dell'Anno; a destra il mazziere fascista Gianni Quintavalle. Subito dopo l'incendio di casa Mattei gli ambienti della Questura e la stampa. soprattutto quella fascista, erano d'accordo a definire l'incendio come uguale, nella tecnica, a quello appiccato alcuni mesi prima alla casa del giudice Paolo Dell'Anno. Tutti i giornali scrivevano: «Dell'Anno e Mattei, stessa tecnica». Del resto anche subito dopo l'attentato al magistrato i giornali fascisti erano usciti con lunghi articoli in cui si diceva che i responsabili andavano ricercati nel «Liceo rosso» Castelnuovo. E'. quindi, non a caso che i due nomi costruiti per avere i «colpevoli» siano subito quelli di Achille Lollo e Marino Sorrentino, tutti e due con l'utile precedente di aver guidato le lotte al Castelnuovo e di essere stati denunciati proprio dal giudice Dell'Anno, per la loro attività nella scuola. Ma 1'8 gennaio '74 verrà arrestato con l'imputazione di violazione di domicilio, strage, incendio doloso per l'attentato ai Dell'Anno, il fascista Gianni Quintavalle, uno dei picchiatori al servizio dei duri della Giarabub. Questo che voleva essere uno dei puntelli fondamentali della montatura costruita da fascisti, magistrati e poliziotti, è crollato miseramente ritorcendosi addirittura contro i suoi stessi organizzatori.

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Il cartello fantasma Per la polizia l'«attentato» è firmato. La firma è un cartellone di un metro quadrato. Bianco, immacolato. È stato trovato tra i fumi dell'incendio, e come e dove è ancora tutto da chiarire. Ma Anna Maria Mattei già lo cerca mentre la portano all'ospedale: «Sono stati i comunisti».

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A sentire polizia e magistratura, l'incendio di Primavalle è un delitto con tanto di «firma». La firma sarebbe un cartello fantasma, che non si riesce ancor oggi a capire chi l'abbia trovato e dove. Sul cartello, comparirebbero parole quanto mai indicative: «Brigata Tanas , morte ai fascisti, guerra di classe. La sede del MSI, Mattei e Schiaoncin colpiti dalla giustizia proletaria». I periti, dieci giorni dopo l'incendio — quando riescono ad esaminarlo — descriveranno cosi questo messaggio minatorio: «E' un cartellone costituito da due fogli di carta bianca Benequick uniti tra loro. Vi si rinvengono incollate tre strisce di carta a quadretti recanti l'iscrizione a pennarello nero "Mattei e Schiavoncino colpiti dalla", l'iscrizione a lettere nere ritagliate e incollate "Giustizia Proletaria", nonché tre lettere rosse R.E.F. di cui la R incollata e le altre assicurate con spilli. Il manifesto è lungo quasi un metro, largo ottanta centimetri, diviso in sedici parti mediante piegatura». Sempre secondo gli atti istruttori, all'alba del 16 aprile. nel cortile il giornalista Virgilio Crocco del «Messaggero» avrebbe ritrovato altre 9 lettere staccatesi dal cartellone, ed altre sedici lettere rosse sarebbero state invece recuperate — non si sa né dove, né quando — dal commissario di PS Isidoro Adornato. Ma non è tutto: alle nove del mattino seguente, un certo Guerrino Pastorato rinviene in un angolo nascosto del cortile una strisciolina di carta a quadretti con la dicitura «la sede del MSI». Il cartello così come viene presentato oggi è dunque frutto di una ricostruzione a «posteriori»: in alto, su tre righe, a lettere rosse ritagliate da un cartoncino lucido e poi incollate sul manifesto, una

174 scritta di 41 lettere (delle quali 13 inserite per deduzione perché mai ritrovate) : «Brigata Tanas morte ai fascisti guerra di classe». Al centro, quattro rozze striscioline di carta a quadretti con le diciture : «La sede del MSI / Mattei e / Schiavoncino / colpiti dalla» e infine, in basso con lettere nere ritagliate da un cartone lucido, l'ultima riga: «Giustizia Proletaria». Un cartello molto complesso, non c'è che dire. Una «firma» che si va facendo mano mano sempre meno attendibile, inserita in un intrigo di menzogne, ritrattazioni, episodi oscuri e mai chiariti. Già dalle prime ore dopo l'incendio, infatti, il famoso «cartello accusatore» mostra d'essere l'anello debole di tutta la montatura. Il ritrovamento sulle scale Provenza l'assume subito come prova fondamentale. Nella notte tra il 16 e il 17, a ventiquattr'ore dall'incendio, è bloccato dai giornalistiche lo attendono nell'atrio di Palazzo Giustizia davanti all'ufficio di Sica. Le domande vertono sulle possibili tracce ma, benché la «velina» con l'accusa contro Potere Operaio fosse stata trasmessa ai giornali fin dalla mattina (1), Provenza non azzarda a voce un'accusa diretta senza l'ombra di un elemento: si limita a preparare la strada. — Che importanza date al cartello con le minacce? «Molta: è l'unica traccia concreta sulla quale lavoriamo». — Sulle lettere incollate sono state ritrovate impronte? «Non è stato possibile. Ci avevano messo le mani in troppi» (2) Quindi il cartello costituisce «l'unica traccia», ma, guarda caso, reca «troppe impronte». Troppe persone infatti dichiarano di aver personalmente raccolto il cartello, si contraddicono tra loro e insistono nelle rispettive versioni. Anche la stampa, del resto, non riesce per diversi giorni a districare l'imbroglio e ad indicare da chi e in qual modo sia stato rinvenuto il foglio (3), sebbene la versione

1) Vedi «Momento Sera» del 16 aprile che come titolo a tutta pagina porta su 8 colonne «Sono di Potere Operaio». In tutti gli articoli però (estesi per ben quattro pagine) non un elemento, non una notizia che motivi l'accusa lanciata a caratteri cubitali. 2) Intervista riportata il 17 aprile da «Paese Sera». 3) Ecco alcuni esempi della confusione dei giornali, nei quali risulta malgrado le incongruenze un unico elemento comune: il cartello è stato «rintracciato» da qualcuno all'interno del palazzo di Mattei tra il 3° e il 4° piano.

175 più insistente e motivata sia quella che mostra Anna Maria Mattei con il cartello in mano, raccolto al quarto piano ( 4). Questa versione è anche l'unica suffragata da varie testimonianze rese nella prima ora da diverse persone ai cronisti. Dice infatti Ester Aleggiani, coinquilina dei Mattei: «Anna Maria Mattei mentre la caricavano sulla Croce Rossa gridava: "avete visto il cartello? il cartello? !"» («Paese Sera» 16 aprile). Fernanda Rinaldi, un'infermiera che abita nella palazzina di fronte e che è tra le prime a prestar soccorso ai feriti, afferma: «Gli agenti salendo lungo le scale hanno rinvenuto fra il terzo e il quarto piano un cartello su cui era scritto "Mattei. Schiavoncin..."» . («Paese Sera», 16 aprile) . «Umberto Improta dell'U.P. della questura riesce a salire al 3° piano del palazzo. I suoi sottoufficiali riescono a scovare nell'enorme confusione un cartoncino che dovrebbe valere da firma agli attentatori» («Il Messaggero», 16 aprile) «All'alba, spente finalmente le fiamme, agenti di polizia e carabinieri sono riusciti a entrare nell'appartamento... hanno compiuto un sopralluogo all'interno e lungo le scale... hanno anche recuperato un cartello che potrebbe essere la chiave di volta di tutta la faccenda». («L'Unità», 17 aprile) «Gli attentatori hanno lasciato sulla rampa delle scale che dal 3° porta al 4° piano dello stabile un cartello fissato alla meglio sulla ringhiera» («Il Tempo», 17 aprile). Lo stesso articolo porta come titolo: «Trovato per le scale un cartello con la firma "Giustizia Proletaria"». «Al piano superiore a quello dell'abitazione della famiglia Mattei è stato trovato un cartello di un metro per 60 cm, formato da due pezzi di cartone uniti tra loro da un nastro adesivo rosso. Sulla prima parte era scritto con un pennarello nero "Mattei e Schiavoncini sono stati colpiti" sull'altro "da Giustizia proletaria"» («Il Secolo». 17 aprile) Ma nello stesso giorno (confusione di cronisti?) in un pezzo diverso la stessa notizia «Sulle scale la polizia ha trovato un foglio nel quale con lettere ritagliate dai giornali è scritto "A morte Mattei e Schiaoncin! Giustizia proletaria"». Subito sotto però altra notizia sconcertante, un imprevisto sdoppiamento del cartello, (o un tentativo di ampliare la provocazione?) : «Un altro foglio con i nomi di coloro che saranno colpiti in seguito è stato trovato ugualmente sulle scale». Ma di ambedue i cartelli per moltii giorni sul «Secolo» non più un cenno, se ne riparlerà stranamente soltanto, il 29 aprile per ribadire che «Sulle scale della palazzina viene trovato un cartello intitolato "Giustizia Proletaria"». «Sul pianerottolo del 3° piano rintracciato un cartello bruciacchiato con sopra incollate lettere ritagliate dai giornali» («Momento Sera»), 16-17 aprile). «Gli assassini prima di incendiare la benzina hanno attaccato sulla porta dell'appartamento di Mattei un cartoncino con alcune lettere fissate con lo scotch» («Il Giornale d'Italia» ; 16-17 aprile) 4) Vedi ad esempio «Il Messaggero» del 17 aprile: «... un foglio di carta malamente incollato su un cartone. Lo ha raccolto, sui primi gradini che portano al piano superiore, la moglie di Mattei . C'è scritto: Mattei e Schiavoncin...» «Il Secolo» del 17-4: «Il cartello è stato trovato sulle scale dalla signora Mattei». Ancora «Il Messaggero» del 25-4: «Lo ha raccolto fuggendo Anna Maria Macconi la moglie di Mario Mattei. Era sulla rampa di scale che porta al piano superiore a quello della sua abitazione».

176 «Sono scesa: Anna Maria e i due figli uscivano di casa, Anna Maria gridava: "lo avete visto il cartello?"» («Paese Sera», 17 aprile). Vale qui la pena di soffermarsi un attimo sulla sorte di queste dichiarazioni e di questi testimoni dato che — come vedremo più avanti — giudici e polizia non vorranno mai riconoscere che sia stata la donna a raccogliere e a dare immediata pubblicità al cartello. Ed è dal loro punto di vista, comprensibile: come ammettere infatti che Anna Maria Mattei sconvolta dalla tragedia in pieno svolgimento nella sua abitazione, impegnata a sfuggire alle fiamme e a mettere in salvo i figli più piccoli, invece di scendere subito verso la salvezza sia salita al quarto piano, abbia rintracciato il cartello e ne abbia poi — con tanta foga — fatto mostra ai soccorritori? Chi sono, dunque, questi testi della prima ora, e quale sorte è stata riservata alle loro dichiarazioni? Ester Aleggiani — lo abbiamo visto — è una donna che abita al secondo piano, nell'appartamento corrispondente a quello di Mattei. Oltre ad indicare Anna Maria Mattei come la prima che parlò del cartello, ha dichiarato ai giornali di aver sentito rumori di cocci prima delle tre e di aver soccorso, prendendola dalle braccia . della madre, la piccola Antonella. Non solo: è dal suo apparecchio telefonico che Mario Mattei, appena scampato al fuoco, chiamò il federale romano del MSI affinché corresse subito a parlare con lui. Ebbene questa teste — che non può non essere considerata della massima importanza — non è mai stata interrogata dai giudici. Almeno ufficialmente. Chi invece è stato interrogato, ma non dai giudici bensì dal Nucleo operativo dei carabinieri, e precisamente dal maggiore Vitali, è Fernanda Rinaldi. L'interrogatorio dell'infermiera, convocata da Vitali alle 22 del 20 aprile presso la Procura della Repubblica, rappresenta un'eccezione in tutto il procedimento giudiziario sul caso Primavalle. E' la sola volta, infatti, che un teste non viene sentito direttamente dal giudice dopo che questi — la mattina del 16 aprile ha preso in mano le indagini. Dall'interrogatorio, breve e schematico, risulta solo che la Rinaldi ha assistito all'incendio ed è poi scesa in strada. Manca ogni accenno alla Mattei e al cartello. Le domande vengono poste sapientemente, e l'infermiera risponde con prudenza (5). Ma questa «cautela» della donna — in sé inspiegabile visti i dettagliati racconti della Rinaldi ai giornali — ha un antefatto

5) Atti, vol. 5°, p. 43

177 chiarificatore: la stessa mattina del giorno 20, giorno fissato per l'interrogatorio da parte del magg. Vitali, i carabinieri di Montespaccato trasmettono alla Procura un fonogramma (6) in cui segnalano la Rinaldi come elemento inattendibile : «Si porta a conoscenza di codesta autorità giudiziaria che il sottoscritto, verso le ore 10 di oggi 20 aprile 1973, riceveva una telefonata anonima da voce maschile che riferiva: Fabrizia Rinaldi, infermiera Ospedale S. Camillo, abitante di fronte e alla stessa altezza della finestra dell'abitazione del Mattei Mario, sa tutto sui fatti di Primavalle e cioè chi sono gli attentatori e dove ora si trovano. Precisava che gli arrestati sono innocenti. La Fabrizia Rinaldi ha una Fiat 500 chiara; la figlia frequenta gli estremisti di sinistra e viene da questi inviata, prima di porre in essere azioni, come esploratrice assieme ad altre ragazze. Inoltre precisava che la Fabrizia Rinaldi va spargendo la voce che sono stati gli stessi Missini (maiuscolo nel testo originale, ndr) a compiere l'attentato. Dopodiché interrompeva la comunicazione. F.to Il Maresciallo Capo Comandante della Stazione (Mario Rainone)». E' tutto chiaro: l'intimidazione, il sospetto, l'allusione alla 500 chiara che tanta parte ha nelle indagini delle prime ore, totalmente guidate dalla fantasia di Lampis: da questo momento in poi Fernanda Rinaldi non parlerà più. Questo, dunque, il ritrovamento del cartello nelle univoche testimonianze della prima ora, totalmente disattese — o peggio —dagli inquirenti. Ma negli stessi atti ufficiali dell'indagine il cartello tanto importante ha una sua «storia». Eccola: cerchiamo di seguire le tappe di un rinvenimento impossibile, almeno irreale nel modo con cui si va dipanando (e ingarbugliando) tra le mani degli inquirenti. Dapprincipio tutto sembra facile. C'è un agente di Pubblica Sicurezza, valoroso e sprezzante del pericolo, che testimonia di aver raccolto il cartello — mentre l'incendio non era ancora concluso

6) Atti, vol. 1°, p.63.

178 — al quarto piano del palazzo dei Mattei. E' suo il «verbale di rinvenimento e sequestro» (7). «L'anno 1973 addì 16 del mese di Aprile, alle 3,30 in via Bernardo da Bibbiena n. 33 lotto 15 sc. F piano 4°, in Roma, noi sottoscritti agenti di P.G. Aiello Giovanni, guardia di PS appartenente al commissariato di PS di Primavalle, facciamo noto a chi di dovere che, in data e luogo di cui sopra, e precisamente sul pianerottolo del 4° piano dello stabile predetto abbiamo rinvenuto il cartellone in oggetto indicato, che è stato, quindi, da noi sequestrato. Si precisa che, per accedere al suddetto stabile, si è provveduto ad entrare nello stabile accanto, contrassegnato con la lettera E, e, previo abbattimento della porta del terrazzo di quest'ultimo stabile, portatici sul terrazzo dello stabile contrassegnato con la lettera F, adiacente al primo, siamo scesi fino al terzo piano. Ivi abbiamo rinvenuto Macconi Anna Maria, moglie del segretario della sezione del MSI di via Svampa n. 17, Mattei Mario, con per mano i figli Antonella, di anni 9, e Giampaolo, di anni 4, che abbiamo provveduto a porre in salvo, percorrendo a ritroso la strada fatta per giungere nel luogo anzidetto, in quanto impossibilitati a scendere perché le scale erano invase dalle fiamme. Nella circostanza, giunti al piano superiore, abbiamo rinvenuto il predetto cartello. Questo giaceva piegato e recava la scritta già citata». Un rapporto della mattina del 16, firmato dallo stesso Aiello, dalla guardia Russo e dall'appuntato Frusteri, conferma negli stessi termini la versione dell'agente (8) : «... ci accingevamo a salire nell'appartamento suindicato, occupato da certo Mattei Mario... ma non potevamo raggiungere detto luogo perché la scala che porta dal secondo al terzo piano era invasa dal fumo. Pertanto ci portavamo attraverso la scala attigua sul terrazzo di quest'ultimo stabile e riuscivamo a scavalcare portandoci

7) Atti, vol. P, pp. 272-73. Da notare che quando Aiello parla di scala F ed E intende riferirsi rispettivamente alle scale C e D (in quest'ultima era situato l'appartamento di Mattei). 8) Atti, vol. 1°, pp. 275-76.

179 sul terrazzo dello stabile dove è sito l'appartamento dei Mattei. Qui dopo aver abbattuto la resistente porta che immette nelle scale, riuscivamo a raggiungere l'appartamento in fiamme. Nell'ingresso •di detto appartamento riuscivamo a trarre in salvo la moglie del citato Mattei e due bambini. La guardia Russo Giuseppe... sebbene ferito, riusciva a prendere in braccio uno dei bambini e a trarlo in salvo lasciandolo nel cortile. Nell'opera di soccorso la guardia Aiello Giovanni rinveniva nelle scale un manoscritto... e alcune lettere di colore rosso». Niente da eccepire sul luogo in cui il temerario agente avrebbe rinvenuto il foglio. La stampa ne prende atto immediatamente e da questo momento in poi si parlerà soltanto di «cartello rinvenuto al 4° piano». Del resto decine di atti ufficiali, anche tra le pieghe di discorsi diversi danno per certo che il cartello sia stato rintracciato nel luogo indicato da Aiello (9). Perfino il mandato di cattura spiccato il 6 maggio dal giudice Amato fa riferimento a «un foglio lasciato sulle scale dell'abitazione del Mattei» (10) I guai per l'agente Aiello e per chi gli aveva dato mandato cominciano quando, durante il sopralluogo del 30 maggio, i consulenti della difesa fanno notare le incredibili incongruenze e contraddizioni che affiorano nel suo racconto. Egli infatti decidendo di fornire una storia romanzata e fantasiosa in cui facessero spicco coraggio e sprezzo del pericolo, non aveva tenuto in debito conto troppi particolari che, ad una attenta ricostruzione dei fatti, hanno vanificato tutta la sua fatica. Almeno quattro sono le discrepanze più clamorose nel suo racconto: 1) Non si spiega perché, potendo scegliere la strada più ovvia e razionale — cioè salire da pianterreno al terzo piano — l'agente

9) Verbale di arresto di Achille Lollo, Atti, vol. P, p. 63: «In particolare si comunica che nell'abitazione del Lollo è stato rinvenuto un foglio di carta. autoadesiva simile a quella usata per il cartellone ritrovato, subito dopo l'incendio, sulle scale dove abita Anna Maria Mattei» e più avanti: «Con l'occasione si trasmette una striscia di carta quadrettata, probabilmente staccatasi dal cartellone rinvenuto sulle scale dello stabile dove abita Mario Mattei». Verbale di perquisizione nell'abitazione di Ascani Umberto, Atti, vol. l°, p. 5: «Furono in particolare notati alcuni rotoli di carta del tipo autoadesivo, simili a quelli, in numero di quattro, rinvenuti attaccati tra loro stamane in via Bernardo da Bibbiena nei piano sovrastante l'appartamento occupato da Mattei» . 10) Mandato di cattura del 6-5-73. Atti, vol. P, p. 213.

180 Aiello abbia intrapreso un percorso da trapezista, preferendo scendere dal terrazzo dello stabile fino al terzo piano. Tanto più che tutti i rilievi scientifici e le testimonianze sono concordi nell'asserire che, mentre nei due piani inferiori non c'era traccia di fumo né di calore, i piani superiori erano difficilmente percorribili (11). 2) Ma quand'anche il generoso agente avesse scelto di soffrire il più possibile nella sua opera di salvataggio, un particolare —riferito evidentemente senza pensarci troppo — lo tradisce in modo definitivo: egli afferma di essere stato costretto, una volta arrivato allo stabile accanto a quello dell'incendio, ad abbattere una porta che gli sbarrava il passo verso la terrazza. Ebbene, nessuna porta presenta segni di effrazione né, tantomeno, di riparazioni (12) (vedi foto a fianco). 3) Nessun testimone ha mai ammesso di aver visto agenti per le scale del palazzo. 4) Infine — elemento ancor più importante - era materialmente impossibile che il cartello, rinvenuto secondo Aiello sul pavimento del quarto piano, si conservasse bianco e immacolato, in un ambiente completamente annerito 'dal fumo (vedi foto. pp. 184-187) (13). 11) La spiegazione fornita da Aiello è che le scale inferiori al terzo piano erano invase dalle fiamme e quindi impercorribili. E' invece accertato, in base alle fotografie della scientifica, ai sopralluoghi del collegio peritale e alle stesse relazioni dei periti di ufficio, che non vi è stata «nessuna traccia di affumicamento a livello inferiore a quello del movimento dei ripiani 5 e 6 (cioè sotto il 3" piano ndr). E d'altra parte, come è nozione elementare di fisica, il fuoco, il fumo e l'aria calda tendono naturalmente a salire e, nel nostro caso, la colonna di fuoco, fumo e fiamme, proveniente dalla porta aperta dell'appartamento di Mattei non poteva che andare verso l'alto, cioè verso il quarto piano ed il terrazzo, attraverso la tromba superiore delle scale che funzionava da camino. 12) Nelle dichiarazioni rese al collegio peritale, 1'8 giugno 1973, la signora Salsa, inquilina del quarto piano nello stesso stabile di Mattei, afferma di essersi allontanata dall'appartamento da lei occupato con il marito e i due figli, salendo le scale attraverso la porta che dà sulla terrazza: che la porta in questione era stata aperta dal vicino di casa che cercava scampo per la stessa via; che la porta dello stabile accanto (scala C) fu aperta con le chiavi da alcuni ragazzi per dar modo agli inquilini del quarto piano della scala D di fuggire attraverso i terrazzi, compiendo cioè esattamente a ritroso il cammino che l'agente afferma di aver percorso. 13) Descrizione del cartello (Reperto C) eseguita durante la riunione peritale del 5 giugno 1973, presenti i periti d'ufficio dott. Calabrò, dott. Ciarrocca, dott. De Palo, sig. Sorrentino e i consulenti di parte dott. De Agazia e prof. Franco: «Il foglio si presenta di colore bianco latteo sostanzialmente uniforme senza apparenti tracce di nerofumo. Le tre strisce di carta quadrettata incollate al centro non presentano tracce apparenti di nerofumo. La parte anteriore (del cartello ndr) non presenta evidenti tracce di nerofumo». Confrontiamo queste parole con la descrizione del luogo dove sarebbe stato stato rinvenuto il cartello. Dal verbale di sopralluogo del 30 maggio 1973:

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Le porte «sfondate» da Aiello fotografate subito dopo il fatto: sono intatte.

182 Il forzoso accertamento di quest'ultima, macroscopica, contraddizione impone ai giudici una brusca marcia indietro: il 5 giugno, infatti, essi riconvocano improvvisamente Mario Mattei, Anna Maria Mattei e l'agente Aiello. Per primo, alle ore 10, viene sentito l'Aiello il quale, «data lettura del verbale datato 15-4-73 a firma Aiello Giovanni», dichiara: «Confermo il contenuto del verbale con le seguenti precisazioni. Aprii con una spallata la porta del terrazzo. Con me vi era il collega Russo Giovanni. Quindi raggiunsi il pianerottolo del terzo piano. Sui gradini della rampa che porta al terzo piano e sul pianerottolo del terzo piano vi erano alcune persone... C'era molto fumo. Le fiamme non provenivano dai gradini della rampa che porta dal terzo al quarto piano. Vi erano fiamme proprio all'interno dell'appartamento Mattei. Quindi quello che ho scritto in verbale non corrisponde ad esattezza. Nella confusione del momento non sono stato esatto nella compilazione del verbale. Aggiungo però che c'era tanto fumo, specialmente nei pressi dell'ingresso dell'appartamento Mattei. C'erano sei o sette persone tra i quali due o tre bambini. Sui primi gradini della rampa di scale che dal terzo porta al piano successivo c'era un grosso foglio di carta. Vidi una donna — non so dire se si trattava della signora Mattei — che raccolse il foglio dicendo "i comunisti". Io presi subito il foglio di carta. Afferrai dei bambini, terrazzo, entrai nella rampa di scale del fabbricato scesi e uscii dal fabbricato, affidai il bambino ad una quindi aprii il foglio di carta ove era scritto fra l'altro Schiavoncino"

risalii sul contiguo, signora e "Mattei e

Quando aprii il foglio mi trovavo nello spazio compreso tra la porta d'ingresso al fabbricato Mattei e la porta «Pareti e soffitti delle scale fino all'ultimo piano compreso sono coperti da uno strato continuo di depositi di fuliggine». Dal verbale di sopralluogo dell'8 giugno 1973: «Su tutte le superfici del pianerottolo del quarto piano vi è una uniforme e massiccia deposizione di residui presumibilmente carboniosi di color nero». Dalla deposizione di Teresa Salsa durante il sopralluogo dell'8 giugno: «La parte inferiore della parete delle scale del pianerottolo, che era completamente nero di fuliggine, è stata pulita dagli inquilini, come del resto il pianerottolo stesso che, nell'immediatezza, si presentava completamente annerito dalla fuliggine». Da questi dati appare dunque fin troppo evidente che, se il cartello fosse stato abbandonato da ipotetici attentatori sul pianerottolo del quarto piano, esso sarebbe stato interamente ricoperto di nerofumo su tutta la superficie esposta.

183 d'ingresso al fabbricato contiguo. Tra le due porte vi può essere una distanza di tre metri circa. Non ho fatto caso se nell'aprire il foglio qualche lettera ritagliata sia caduta a terra» (14). Come si vede, il faso testimone — reo confesso a metà —non ritratta. Almeno per ora, perché successivamente —come vedremo — sarà costretto a cambiare ancora versione e sostanzialmente. Per il momento; però, l'agente si limita a «sfumare» alcune affermazioni: l'abbattimento della porta diventa una modesta spallata; il cartello viene fatto scendere dal quarto piano fino ai primi gradini del terzo; c'è ancora la presenza di una donna con il cartello, ma l'agente non è più tanto sicuro che si tratti della Mattei (15). Sembra quasi che l'Aiello sia in grado di prevedere quanto la moglie del segretario missino dichiarerà di lì a qualche minuto, e con la sua seconda versione si apre una via di ritirata : aveva ritenuto sì di aver salvato la Macconi, ma non può escludere di aver forse salvato qualcun altra! Subito dopo infatti depone Anna Maria Mattei, che dichiara: «... Non ero io la donna cui si riferisce la guardia Aiello G.; dovrebbe trattarsi della signora che abita nell'appartamento sopra il mio. Dovrebbe chiamarsi Teresa. Non erano i miei figli i ragazzi cui si riferisce il verbalizzante: io portai i miei figlioli subito nel cortile. Per quanto concerne il manifesto, mia figlia Lucia, mentre io mi trovavo nel cortile, venne verso di me tenendo in mano un foglio, dicendo: "mamma, guarda cosa è stato trovato". Presi il manifesto che era già dispiegato e lo consegnai ad un agente. Ero già nel cortile. Non sono in grado di fornire indicazioni sull'agente al quale consegnai il manifesto» (16).

14) Atti, vol. 5°, p. 232. L'annotazione, così doviziosa di particolari, sul cartello che viene aperto in un punto esatto del cortile, sembrerebbe superflua. In realtà l'Aiello vuole che la sua versione sia compatibile col fatto che Virgilio Crocco, giornalista del «Messaggero», aveva dichiarato di aver trovato lettere rosse ritagliate nel cortile (Atti, vol. 5°, pp. 228-229.). 15) Anche l'agente Russo, comprimario dell'Aiello nell'«opera di salvataggio», pur ammettendo la presenza di una donna sul pianerottolo che indicava un cartello: «mentre risalivo le scale ho sentito una donna dire: "hanno lasciato un cartello, leggetelo"», non si arrischia riconoscimenti imbarazzanti: «stante la confusione, il fumo, l'emozione non ho fatto caso chi fosse la donna che pronunciò la frase». Ma il Russo ha il vantaggio di essere stato interrogato per la prima volta solo il 6 giugno. Atti, vol. 5°. 16) Atti, vol. 5", p.234.

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Il cartello intero (perfettamente integro e pulito) e il particolare delle strisce di carta incollate

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Retro del cartello (anch'esso senza ombra di nerofumo) e il pianerottolo del quarto piano completamente annerito. Si noti la parte inferiore della parete inutilmente ripulita dagli inquilini.

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188 Manco a dirlo, nessuna delle donne del palazzo e tanto meno Teresa Filippetti, cui la Macconi intende riferirsi, ha mai ammesso di essere stata «salvata» da un agente. Comunque poco dopo Aiello è di nuovo di fronte al giudice. Bisogna far coincidere una volta per tutte le dichiarazioni dei due testi e sistemare definitivamente il ritrovamento del cartello in un punto «comune». E allora succede che alle 11 del 5 giugno Aiello «ricordi meglio» quello che rammentava in un modo assai diverso alle 10 della stessa mattina. E' con sbalorditiva disinvoltura che l'agente dichiara: «Effettivamente ora che ricordo meglio presi il manifesto dalle mani di una donna mentre mi trovavo nel cortile dopo aver portato in salvo un bambino. La donna però gridava :"i comunisti, i comunisti". Non sono in grado di indicare chi fosse detta donna. Non conosco la signora Mattei» (17). Ultimo tocco di cesello alla «costruzione»: alle 11,30 la Macconi viene richiamata davanti al magistrato per riconfermare: «Come ho già detto, ho avuto tra le mani il manifesto mentre mi trovavo nel cortile tra la porta di ingresso al fabbricato ove è sito il mio appartamento e la porta di ingresso al fabbricato contiguo. E' vero che gridavo, dopo aver visto il manifesto, "i comunisti, i comunisti". Consegnai il manifesto all'agente» (18). Così, «stabilita la verità», il nostro cartello scompare definitivamente dalle scale «tra il 3° e il 4° piano» dello stabile di via Bernardo da Bibbiena, dove era rimasto per due mesi dopo il suo ritrovamento. Il ritrovamento nel cortile Tolto con urgenza il cartello da un pianerottolo dove proprio non poteva stare, si pone ora ai nostri giudici con drammaticità il problema di farlo ritrovare, all'esterno del palazzo, da qualcuno più avveduto e meno instabile emotivamente dell'agente Aiello.

17) Atti, vol. 5°, p. 232. 18) Atti, vol. 5°, p. 233.

189 Ormai il cartello c'è, esiste, è una prova concreta, è catalogato nei carteggi ufficiali sotto la voce "reperto C": non lo si può più far scomparire, né lo si può lasciar sospeso, magicamente apparso nelle mani di Lucia Mattei che nel cortile si avvia verso la madre gridando: "mamma, guarda cosa è stato trovato!". Il problema non deve essere di facile soluzione se dal 5 al 27 giugno nessuno riesce a risolverlo. Per 22 giorni questa "prova fondamentale" è veramente un fantasma. Ed alla fine, in mancanza di meglio, si ricorre ad un trucchetto: se è già verbalizzato che è stata Lucia Mattei a portarlo alla madre, tanto vale farglielo anche trovare! Cosi il 27 giugno (22 giorni, appunto, dopo la deposizione della madre) la ragazza si presenta al giudice e dichiara: «Scesi nel cortile. Vidi mia madre; c'erano anche altre persone. Prestai soccorso a mio fratello Giampaolo e lo presi in braccio. Dopo qualche minuto qualcuno prese a sua volta il bambino. Posando lo sguardo sul tombino che si trova alla sinistra della porta di ingresso al fabbricato ove è sita la mia abitazione notai un cartello spiegato, ma leggermente arrotolato alle due estremità... Presi il cartello e mi diressi verso mamma che stava a qualche metro di distanza. Mamma prese il cartello e pronunciò delle frasi come: "Sono stati i comunisti" o qualcosa di simile. Si avvicinò un agente di PS che prese il cartello» (19). Ma questa volta la versione deve essere "inattaccabile", a prova di controperiti: meglio rinforzarla con un altro testimone, così «essendo le ore 13,05 è ricomparsa innanzi allo stesso ufficiale Mattei Lucia, la quale dichiara che anche una ragazza di nome Prestano Stefania che abita tuttora nello stesso fabbricato ha visto il cartello mentre io lo raccoglievo da terra. La ragazza stava vicino a me» (20). La Prestano. ascoltata il giorno dopo, non ha esitazioni; «Ricordo perfettamente che ad un certo punto vidi uscire dalla scala D Lucia Mattei che io conosco da tempo. Ricordo anche

19) Interr. del 27-6-73, Atti, vol. 5°. 20) Ibidem.

190 che vidi dopo qualche minuto Lucia chinarsi a raccogliere un foglio da terra. Poi corse verso la mamma dicendo qualcosa come "ecco una prova" o qualcosa di simile. D.R. Il foglio si trovava tra il portone d'ingresso al fabbricato scala C ed il portone d'ingresso scala D, e precisamente sopra il tombino di una chiavica» (21). Più precisi di così! Ormai l'altalena è finita: il cartello ha un suo posto stabile e li resterà anche a chiusura dell'istruttoria. Bisogna però onestamente riconoscere che sia il PM Sica che il giudice Amato avranno la modestia di non spendere troppe parole per magnificare il loro successo. Così si esprime Sica in una nota a pié di pagina della sua «Requisitoria» : «E' appena il caso di accennare alle circostanze del ritrovamento del cartellone e al fatto che il cartellone stesso non fosse sporco di fumo e accartocciato per il calore. In realtà il manifesto venne trovato da Lucia Mattei nel cortile (tra il portone d'ingresso della scala C e quello della scala D, sul tombino)» (22). Mentre il giudice Amato, dedicando 2 righe e mezzo del suo «Rinvio a giudizio» di 75 pagine alla «prova fondamentale», sostiene appena che «sul chiusino della fogna nel cortile, a pochi metri dal portone d'ingresso, i malviventi lasciavano un cartello» (23). Naturalmente questa «modestia» ha le sue buone giustificazioni. Fatto tesoro dell'esperienza Aiello — la cui dovizia di particolari non ha giocato davvero un bel servizio all'accusa, costringendola a rimettere tutto in discussione dopo due mesi — i nostri giudici devono aver pensato che non era proprio il casa di fermare troppo l'attenzione sulle circostanze del «secondo ritrovamento». Cerchiamo di vedere noi, brevemente, come ancora una volta la «sistemazione» del cartello non regga ad una analisi attenta dei luoghi e delle circostanze:

21) Interr. del 28-6-73, Atti, vol. 5°. 22) «Requisitoria», p. 27, nota 26. 23) «Rinvio a giudizio», p. 9.

191

192

La foto scattata nel cortile dal reporter del «Messaggero» subito dopo l’incendio

193 Secondo le «concordi» testimonianze della terza versione Aiello e delle Mattei, madre e figlia, il cartello sarebbe stato dunque abbandonato spiegato, dagli attentatori, sul tombino tra la scala D e quella C che distano tra loro non più di 3-4 metri. (piantina p. 191) . L'«abbandono» sarebbe necessariamente avvenuto non oltre le 3 circa cioè non oltre l'inizio dell'incendio. Ma d'altra parte il suo ritrovamento non può essere avvenuto prima delle 3,45 circa (24). Ebbene in questo considerevole lasso di tempo nel cortile stazionavano, andavano e venivano circa 100-150 persone tra coinquilini, vicini, personale delle ambulanze e dei vigili del fuoco. Nessuno di loro ha visto il famoso foglio che, «dispiegato», come afferma la ragazza, aveva le non indifferenti dimensioni di 1 metro x 1 metro. Non lo ha visto G.B. Ciarmatore che subito dopo l'inizio dell'incendio esce con i suoi familiari dalla scala D; non lo hanno visto la moglie e la figlia di Perchi, dirimpettaie dei Mattei, messisi in salvo tra i primi; non lo hanno visto gli inquilini della scala C quasi tutti scesi subito in strada; ma soprattutto non lo ha visto Anna Maria Mattei che pure è uscita dalla scala D passando necessariamente come gli altri a non più di mezzo metro dal tombino. Ancora più curioso è il fatto che gli agenti Frusteri, Russo e Aiello così pronti — almeno quest'ultimo a vedere cartelloni per le scale — non abbiano visto nulla. Considerando inoltre che nella loro macchinosa opera di salvataggio (primo tentativo alla scala D, poi spostamento dalla scala D alla C passando per il cortile) essi dovettero praticamente passare 'sopra il cartello che si trovava appunto tra le due scale, la loro «distrazione» appare alquanto sospetta. Ma c'è di più! Anche volendo ammettere che la totalità dei presenti fosse tutta impegnata a guardare in alto, qualcuno avrebbe dovuto quantomeno calpestare e sporcare il cartello. Da una foto scattata dal reporter del «Messaggero» entro i primi 20-25 minuti dall'allarme si vede con chiarezza il tombino sul quale avrebbe dovuto

24) Gli agenti Russo, Aiello e Frusteri furono, infatti avvertiti non prima delle 3,27. Essi, dopo il tempo necessario ad arrivare sul posto, effettuarono un primo tentativo, fallito. di raggiungere l'appartamento attraverso la scala D e solo qualche tempo dopo pervennero in qualche modo sul pianerettolo del terzo piano. Soltanto a questo punto il Russo avrebbe sentito una donna gridare «hanno trovato un cartello» e l'Aiello, ridisceso nel cortile, l'avrebbe ricevuto dalle mani della Macconi. D'altra parte la stessa Lucia Mattei che, nel pieno dell'incendio si è salvata calandosi sul balcone sottostante, è scesa in cortile tra gli ultimi e — per sua stessa ammissione —ha notato il cartello «dopo qualche minuto» che vi si trovava.

194 trovarsi il foglio e (concesso pure che questo sia già stato rimosso) si notano le tracce di sporcizia, detriti carboniosi e fuliggine che avevano intanto — per il via vai di gente e per lo sgretolamento delle persiane bruciate — invaso il cortile lasciando ancora una volta miracolosamente immacolato il nostro pezzo di cartone (vedi foto p. 192). Un'altra circostanza che non viene ad aiutare la credibilità della seconda «sistemazione» del cartello è lo stato di dispersione dei presunti elementi costitutivi del manifesto. Si è già detto che le frasi (morte ai fascisti /guerra di classe/ brigata Tanas) che — secondo la ricostruzione dei periti grafici —dovevano occupare la parte superiore del cartello, sarebbero state costruite con 41 lettere rosse e che di queste solo tre furono trovate attaccate al foglio. Le altre sarebbero infatti cadute all'atto del suo rinvenimento. Ebbene, delle 38 lettere mancanti solo 9, raccolte dal giornalista Virgilio Crocco (25) furono trovate nell'angolo tra la scala C e quella D, altre lettere furono trovate in circostanze di tempo e di luogo ignote (di cui non si fa cenno in tutti gli atti dell'istruttoria), 13 lettere infine non furono mai trovate benché la polizia avesse setacciato il cortile palmo a palmo. Un altro degli elementi del cartello — una delle tre strisce quadrettate che costituivano la parte centrale, quella con su scritto «la sede del MSI» — fu invece addirittura rinvenuto a ben 15 metri dall'angolo col tombino, in un punto assai remoto, separato per di più dalla zona del cortile attigua alle scale C e D da una costruzione in muratura (v. piantina p. 191) . Un luogo quindi al di fuori di ogni ragionevole percorso non solo dei presunti attentatori ma anche dei protagonisti e soccorritori, tanto è vero che la striscia fu trovata casualmente soltanto la mattina dopo, alle ore 9, da un ragazzo dello stabile (26). Ma vedremo più avanti come anche questo elemento, così disomogeneo, abbia anch'esso una logica e come sia indispensabile a chi voglia — a tutti i costi e in ritardo — far apparire il fatto sotto la luce dell'attentato. A questo punto lasciamo a chi ha così maldestramente curato la montatura il compito di togliersi dagli impicci (nessuno si stupirebbe più se a 17 mesi dal fatto spuntasse fuori qualche altro testimone

25) Interrogatorio dell'1-6-73 (Atti, vol. 5", pp. 228-22 ). 26) Atti, vol. 1", p. 55 e interrogatorio di Guerrino Pastorato del 15.5-73 (Atti, vol. 5". p. 134 C'è anche da notare come un reperto di tale importanza sia stato sottratto ai periti per quasi un mese. E' infatti solo il 12 maggio che l'Ufficio Politico, con la generica scusa di un disguido, si decide ad inviarlo alla magistratura (Atti, vol. I", p. 272 ) .

195 più convincente) e cerchiamo di trarre noi alcune conclusioni da questo intrigo di versioni e controversioni, ritrattazioni, testimonianze e ritrovamenti viziati e tardivi. Cominciamo con l'esaminare la composizione, così irrazionale e bizzarra, del cartello costituito da: a) un supporto solido, elegante, formato da due fogli di carta lucida perfettamente incollati; b) in basso una scritta nera con lettere accuratamente ritagliate da cartone lucido; c) in alto altre lettere, questa volta rosse, anch'esse ritagliate da cartone; d) al centro varie strisce quadrettate rozzamente manoscritte e frettolosamente ritagliate. Appare evidente che la congiunzione dei due fogli di carta tipo Benecquick e l'incollatura delle lettere in cartone nero che costituivano la firma «Giustizia Proletaria» è un lavoro scrupoloso che deve aver preso a chi lo ha ideato e compilato un tempo notevole. Viceversa l'incollatura delle strisce quadrettate e delle lettere rosse (ammesso che tutte siano state attaccate) è un operazione che, in significativo contrasto con quella precedente, sembra eseguita sotto lo stimolo dell'urgenza. Ma perché gli ipotetici attentatori avrebbero dedicato tanta cura alla preparazione della «base ideologica» del messaggio e così poco tempo alla specificazione dei destinatari dell'azione? Perché ne avrebbero composto una parte con tanta eleganza ed un'altra. frettolosamente, a mano? E perché tante lettere disperse in lungo e in largo per il cortile al di fuori di ogni presumibile percorso? E infine, perche la striscetta con l'indicativa frase «la sede del MSI» trovata solo il giorno dopo e in un punto così fuori mano? L'unica spiegazione possibile è che il cartello all'atto del suo ritrovamento non fosse ancora completamente confezionato. La scritta nera in basso e le striscioline trovate attaccate dovevano essere state incollate un po' di tempo prima, dando così alla colla il tempo di consolidarsi; le lettere rosse invece devono essere state aggiunte in fretta e furia tanto che la colla non poté attaccare completamente (27) ; l'ultima striscia infine (la sede del MSI) fu

27) In realtà nulla prova che le lettere fossero state tutte attaccate in tempo. Alcune potrebbero essere state lasciate staccate anche in epoca diversa dal cartello e in altro luogo; altre. quelle mai trovate, potrebbero non essere state confezionate affatto.

196 sicuramente lasciata a bella posta parecchio tempo dopo, affinché si verificasse la necessaria associazione d'idee tra l'incendio e il precedente episodio avvenuto nella sezione di Via Svampa. Ma chi si assunse il compito di confezionare il cartello? Una prima ipotesi possibile è che il compilatore sia qualcuno della stessa famiglia Mattei (e allora si spiegherebbe il fatto che la Macconi sia stata udita urlare, mentre usciva di casa: «avete visto il cartello! Sono stati i comunisti!») il quale, colto di sorpresa dalle inaspettate dimensioni dell'incendio non abbia avuto il tempo di completare la stesura. Qualcun altro in un secondo tempo può aver provveduto a spargere qua e là i rimanenti elementi. Una seconda ipotesi — che appare più probabile — è che il compito di fornire una firma all'«attentato» sia stato assunto da uno tra i tanti così tempestivamente giunti sotto casa Mattei. Non dimentichiamo infatti che troppi testimoni «sanno» o hanno sentito parlare di un cartello quando ufficialmente questo non è ancora comparso e che la tardiva trovata di farlo rinvenire a Lucia Mattei non è solo un modo di dare un autore e un luogo al ritrovamento ma anche — e non è particolare da poco— un orario (ore 3,45-3,50) . Noi crediamo invece che questo sia arrivato nelle mani delle «autorità» qualche tempo più tardi, quando il cortile era già stracolmo di tutti i piccoli e medi fascisti della zona, degli alti papaveri del MSI (Romualdi, Gaetani Lovatelli, Marchio) e dei più rappresentativi protagonisti in divisa delle montature e delle provocazioni degli ultimi anni. A parte le contraddizioni che abbiamo visto, che necessità ci sarebbe stata infatti di far inventare al povero agente Aiello una storia che lì per li sembrava essere la più attendibile (in un attentato che si rispetti la firma si lascia sul luogo del misfatto!) e che il poliziotto difende con ammirevole tenacia per quasi tre mesi? E perché la magistratura, colta di sorpresa dalla inattendibilità della versione che gli era stata fornita, ha dovuto in fretta e furia costruirne una seconda, che però si è dimostrata altrettanto inattendibile? Crediamo che queste siano tutte domande da rivolgere al dottor Provenza il quale ancora una volta sembra aver messo amici e superiori nei guai. Gli altri cartelli Si tratta ora di capire come e attraverso quali circostanze i fascisti di Primavalle fossero in possesso di materiale già predisposto per eventualità di questo tipo.

197 con due dei precedenti episodi avvenuti nel quartiere: l'incendio dell'auto di Marcello Schiaoncin del 7 aprile e l'attentato dell'11 aprile alla sezione di Via Svampa. Abbiamo già visto nel cap. II come in tutti e due i casi si riscontrino contraddizioni e ambiguità. Occupiamoci ora solo dei cartelli così generosamente lasciati in tutti e due gli episodi perché è proprio attraverso l'identità delle scritture riscontrate sui diversi cartelli che si basa la suggestiva tesi dell'«unico piano criminoso» su cui tanto si sono dilungati Pubblico Ministero e Giudice Istruttore per niente scossi, né l'uno né l'altro, dall'accertamento peritale (dei periti d'ufficio!) in cui si esclude categoricamente che la mano che ha stilato i tre fogli appartenga ad uno degli imputati (28). Cominciamo dal cartello rinvenuto nei pressi dell'auto degli Schiaoncin, la cui storia, piena di scomparse e ricomparse sembra quasi la prova generale di quanto sarebbe poi accaduto al più famoso cartello di casa Mattei. Dunque il giorno 7 aprile alle 6,30 viene trovata incendiata la Fiat 600 di Anna e Marcello Schiaoncin. Sul posto si recano subito gli agenti del locale commissariato ed una squadra della scientifica per i rilievi. Il maresciallo Della Rovere compila un rapporto sul fatto e dichiara di aver sequestrato «una tanica di plastica di litri 5 in parte bruciacchiata rinvenuta sul sedile posteriore dell'auto» ed «un tubo di ferro della lunghezza di cm. 50 rinvenuto sul ciglio della strada ed evidentemente usato dagli ignoti allo scopo di rompere il deflettore destro dell'auto» . Nel verbale non si fa cenno ad altri reperti (29).

28) Il giudice Amato che aveva basato gran parte delle sue argomentazioni d'accusa sulle grafie dei cartelli: «ulteriori indizi a carico dei prevenuti sono forniti dalla omografia fra le scritture del foglietto rinvenuto accanto all'automobile della Schiaoncin, la scrittura dei foglietti lasciati sul posto dagli autori dell'attentato esplosivo contro la sede della sezione del MSI di Primavalle e le lettere applicate su un foglio lasciato sulle scale dell'abitazione del Mattei la sera in cui avvenne il crimine di Strage (Mandato di cattura del 6-5-73, Atti. vol. 1". pp . 211-213) trovatosi più tardi a prendere atto delle conclusioni negative dei suoi stessi periti, se la cava disinvoltamente sostenendo che «la non attribuibilità agli imputati degli scritti rinvenuti sui luoghi degli attentati non deve trarre in errore "perché" le scritture potrebbero essere state vergate da un complice» (Rinvio a Giudizio, p. 49 ). 29) Vale la pena di riportare per intero il verbale del Maresciallo Della Rovere (Atti, vol. 2", fase. III) : «Al Signor Dirigente l'Ufficio di P.S., Sede. Informo la S.V. Ill.ma che verso le ore 6,35 circa di stamane, la Sala Operativa della Questura mi informava che in Via Pietro Bembo vi era un'auto incendiata e che la proprietaria signora Schiavon Anna, si trovava sul posto ad attendere il nostro intervento.

198 Lo stesso giorno però il commissario capo Secchi stila anche lui un verbale e lo invia alla Procura della Repubblica. Il documento, sostanzialmente simile al primo, si conclude con un'annotazione inaspettata: «Essersi poi appreso che su lunotto posteriore detta auto la Menna Anna ha rinvenuto biglietto, appiccicato con nastro adesivo, con seguente dicitura; "Attenti fascisti, banda Tanas" e con effigiata piccola stella» (30). Purtroppo il commissario non si cura di spiegare da chi abbia «poi» appreso dell'esistenza di un reperto tanto importante che né i suoi stessi agenti, né la scientifica avevano avuto modo di rilevare. Il mistero rimane ancora oggi insoluto — né ci consta che il Secchi sia mai stato interrogato a proposito — ma la «soffiata» ricevuta dal commissario capo doveva venire da ambiente attendibile e fidato. Tre giorni dopo infatti si verifica, nel suo stesso commissariato, un episodio che dà ragione alla sua «preveggenza»: «L'anno 1973 addì 10 del mese di aprile alle ore 20, negli uffici del Commissariato di PS di Primavalle, in Roma, ... abbiamo proceduto al sequestro di un foglio quadrettato, da notes, con quattro pezzi di nastro adesivo, di colore bianco, ai lati, contenente la scritta a caratteri stampatello eseguiti con pennarello nero, del seguente tenore: "Contro i fascisti guerra di Prontamente, unitamente all'equipaggio dell'auto radio Primavalle I°. mi sono portato sul posto, ove ho trovato la suddetta signora Menna Anna coniugata Schiavon, che mi mostrava la sua auto Fiat 600 targata Roma E 25224, intestata al marito Marcello Schiavon, parcheggiata all'altezza del civico 24, incendiata da ignoti durante la notte. Difatti, detta auto presentava la rottura completa del deflettore destro e lo sportello sempre destro aperto. Attraverso del quale ho constatato che adagiato sul sedile posteriore vi era una lattina di plastica da 5 litri contenente benzina e su di essa due cartocci di carta bruciati. Sia il sedile chela tappezzeria presentavano bruciature. Nei pressi dell'auto sul ciglio della strada è stato rinvenuto un tubo di ferro di lunghezza di cm. 50 circa, che evidentemente era servico agli ignoti per rompere il detto deflettore. La succitata signora Schiavon ha riferito che il fatto sarebbe accaduto dopo le ore 0,30 di stamane, in quanto a tale ora, la detta auto era stata controllata dalla stessa e dal di lei marito. Inoltre, aggiungeva, che entrambi erano iscritti al MSI e, ieri sera al momento che gli ignoti avevano incendiato la sezione del MSI sita in Via Domenico Svampa, si trovavano colà, pertanto riteneva che il fatto è da attribuirsi a vendetta politica. Sul posto è stato fatto intervenire personale del Gabinetto di Polizia Scientifica per i rilievi di competenza, Il tubo di ferro e la lattina di plastica sono state repertate. Null'altro da segnalare. 30) Atti, vol. 2°, fasc. III

199 classe Brigata Tanas" con accanto alla parola "Brigata" disegnata una stella a cinque punte, consegnatoci da Menna Anna in Schiaoncin e da questa rinvenuto sul lunotto posteriore, nelle prime ore del 7.4.73, dell'auto Fiat 600 di proprietà del marito Marcello Schiaoncin auto che ignoti avevano cercato di dare alle fiamme...» (31). Quindi la donna — ancora una volta è la destinataria di un «attentato» a ritrovarsi in mano la firma del delitto — rinviene il cartello al posto della polizia, pure presente in forze sul luogo, e lo consegna al commissariato con tre giorni di ritardo. Il maresciallo Della Rovere, la scientifica e il brigadiere Ciccioni che, come artificiere, aveva il compito specifico di esaminare la macchina (32) non avevano invece visto alcun foglio; non lo aveva visto neanche Marcello Schiaoncin che infatti non confermerà le dichiarazioni della moglie (33); solo il commissario Secchi sembrava saperne già qualcosa. Tanta confusione probabilmente sarebbe anche passata inosservata (e infatti per quasi un mese viene dato per probante il verbale di consegna da parte della Schiaoncin) se il 2 maggio non fosse intervenuto un fatto nuovo: un rapporto su tutta la faccenda inviato dal Commissario capo di Primavalle Adornato alla Procura della Repubblica (34). Il documento riconferma che gli agenti intervenuti sul posto non avevano trovato alcun foglio e che questo era stato consegnato solo più tardi dalla Schiaoncin, ma aggiunge un particolare inedito, utile forse a giustificare la strana preveggenza di Secchi:

31) Atti, vol. IV, foglio 47. A proposito di «precisione» sui luoghi di ritrovamento dei cartelli c'è da notare quanto afferma Speranza: «uno o due giorni dopo l'attentato lo Schiaoncin mi disse che al palo della luce vicino alla macchina danneggiata c'era un foglietto dove erano scritte frasi minacciose. Il foglietto io non l'ho visto (Atti, vol. C. interr. dell'8-5-73 1. 32) Atti, vol. 2", fase. III. 33) Interrogato dal G.I. il 16 maggio (Atti, vol. 4°) Marcello Schiaoncin dichiarerà : «Ricordo che quella mattina uscii di casa come al solito verso le 6. Mi diressi verso la mia auto...» e proseguirà descrivendo i danni che la macchina aveva subito, la tanica di benzina ed il tubo di ferro, ma senza mai nominare il famoso foglietto che pure doveva essere visibilissimo. Infine concluderà: «Allora ritornai a casa e telefonai al 113. Scesi con mia moglie e poiché dovevo andare a lavorare... me ne andai via prima ancora che arrivasse la polizia. Rientrato a casa dopo il lavoro, mia moglie mi informò che era stato trovato un biglietto dove c'erano le frasi come "lotta di classe"...» 34) Atti, vol. 2', fasc. III.

200 «Nella stessa mattinata del 7.4., il Brigadiere di PS Artificiere Ciccioni Mario, portatosi in quest'ufficio per consegnare la sua relazione di servizio, riferiva di aver inteso, nei pressi dell'auto presa di mira dagli ignoti, che sul lunotto posteriore era stato rinvenuto dalla Menna Anna, prima dell'arrivo della Polizia, un biglietto, appiccicato con nastro adesivo, recante la seguente dicitura: "Attenti fascisti — banda Tanas", con effigiata una piccola stella» (35). Ma solo più avanti, inaspettatamente, una annotazione sbalorditiva comincia ad aprire una possibilità di spiegazione a tutta l'intricata faccenda : «Si ritiene doveroso, comunque, riferire che, in occasione dell'attentato compiuto ai danni della Sede del MSI di via Domenico Svampa n.17, alle ore 2,50 dell'11 aprile, lo scrivente, entrato nei locali della Sezione, ebbe modo di notare, sul tavolo del Segretario Mattei Mario, giunto sul posto in quanto avvertito del fatto da personale di quest'Ufficio, alcuni fogli fotostatici riproducenti il foglio di cui sopra. E' verosimile, quindi, che la Menna Anna, prima di versare il foglio in quest'Ufficio, abbia consegnato lo stesso al citato Mattei Mario, il quale ha provveduto a farlo riprodurre». Insomma Mario Mattei non solo aveva «ricevuto» il cartello prima della polizia, ma si era fatto una buona scorta di copie fotostatiche sul cui uso e sulla cui destinazione non sono certo state fatte indagini. Comincia quindi a venire alla luce una verità stupefacente: l'unico fatto certo che risulti alla polizia è che il foglietto recapitato al commissariato di Primavalle proveniva dalla locale sezione del MSI! Ma le sorprese non sono ancora finite! Interrogata il 4 maggio proprio sulle circostanze del ritrovamento del foglietto, la Schiaoncin fa una deposizione sconcertante in cui 1) smentisce di aver trovato lei stessa il foglietto e inserisce un nuovo personaggio — un netturbino di cui non ricorda il nome — che le avrebbe porto il cartellino; 2) sostiene che, mentre un poliziotto rifiutò il foglietto con la

35) Si noti, tra l'altro, come ogni volta che di questo cartello si sente parlare senza che sia visto, la dicitura riferita sia «Attenti fascisti — Brigata Tanas». Invece nei verbali ufficiali sarà sempre riportato in tutt'altra versione: «Contro i fascisti — Guerra di classe — Brigata Tanas».

201 distratta motivazione «che c’entra con l’attentato?», un altro si mise d'accordo con lei per andarlo a ritirare nella sezione del MSI una volta che fosse stato visto dal segretario fascista; 3) smentisce di essere stata lei a consegnare alla polizia cartello (negando cosi sia il contenuto del verbale di sequestro del 10 aprile sia il rapporto di Adornato che abbiamo appena visto) e afferma che fu Mario Mattei che lo dette alla polizia ma dopo l'attentato dell'11 (36). Se si assume come valida la testimonianza della donna — che certo non deve aver parlato a vanvera visto che è passato quasi un mese dal fatto e considerati i «consigli» e le attenzioni di cui è stata oggetto da parte della dirigenza del MSI — allora molti nodi su questi fantomatici cartelli cominciano a venire al pettine. 36) L' interrogatorio è talmente importante e indicativo che vale la pena riportarne il verbale integralmente (Atti, vol. 5°): «Mio marito aveva parcheggiato la Fiat 600 vicino al capolinea del 46 in Via Pietro Bembo, a circa 50 metri dal caseggiato ove abitavamo. Quel giorno uscì come al solito tra le 6.15 e le 6,30 ma ritornò subito dopo a casa allarmato per informarmi che avevano bruciato la macchina. Scesi anche io immediatamente... e così constatai che sul sedile posteriore della 600 era poggiata una tanica di plastica con carta bruciacchiata... Ritornai subito a casa e telefonai al 113 (in realtà il marito dice di aver telefonato lui) e quindi senza perdere tempo ritornai sul posto. Dopo circa 10 minuti dalla telefonata sopraggiunse una vettura 113 della polizia e dopo un po' la polizia scientifica. Quando giunse il 113 mio marito era già andato via per ragioni di lavoro. Mentre le guardie controllavano la macchina, si avvicinò a noi un netturbino di cui potrei fornire il nome perché lo conosco di vista, il quale teneva in mano il foglietto ed indicò un punto a circa 6/7 metri dalla parte posteriore della Fiat 600; uno della polizia disse: "ma che c'entra?”. "ma come" disse il netturbino "la macchina bruciata c'è questo foglietto che ho raccolto io stesso". Vidi il foglio nelle mani del netturbino, non prima. Ai 4 angoli v'era dello scotch. D.R. Ricordo che c'erano le espressioni: "lotta di classe..." A questo punto viene esibito alla teste il foglio con la scritta "contro i fascisti...". Risponde : "E' quello; ne sono sicura. La frase che non ricordavo era "contro i fascisti". Mi sono sbagliata sul termine "lotta" invece di "guerra"...» Alle ore18,45 dello stesso giorno la Menna si ripresenta al dott. Amato: «D .R . Sono comparsa spontaneamente per riferire che il netturbino che raccolse il foglio di cui all'attentato subito da mio marito, dovrebbe riprendere servizio lunedì. Ciò ho appreso parlando con un conoscente. Non sono però riuscita a sapere il nome di detto netturbino. E' un uomo sui 40 anni, basso; un po' grosso. E' addetto al deposito di Via Pietro Bembo. D.R. Il foglio non fu consegnato immediatamente alla polizia. Infatti, dopo che uno della polizia mi aveva detto— a proposito del foglietto — "che c'entra con l'attentato?". un altro poliziotto me lo chiese dato che il netturbino me lo aveva consegnato. Gli dissi che l'avrei consegnato volentieri dopo averlo fatto vedere al segretario della nostra sezione. Dissi anche che, se lo volevano ancora più presto, potevano venirlo a prendere direttamente in sezione. Non ricordo se mostrai il foglio al federale. Certo lo feci vedere al Mattei. Dopo qualche giorno ci fu un attentato con una bomba rotto la finestra della sezione ed il foglio venne consegnato alla polizia direttamente dal Mattei» .

202 Infatti dopo l'attentato dell'11, quello di via Svampa, Mattei «fa trovare» anche altri cartelli alla polizia. Nel verbale di sopralluogo firmato dal commissario Secchi sono repertati altri 2 foglietti — chissa poi perché una doppia firma per un solo attentato ! — non solo identici tra di loro, ma uguali anche al foglio che sarebbe stato lasciato sull'auto della Schiaoncin e quindi ancora uguali a tutte le copie fotostatiche che Mattei aveva sul tavolo (37). Non vogliamo dilungarci in commenti. In tutta questa storia di cartelli fantasma, piena di contraddizioni, omissioni, falsi testimoni, rei confessi, complicità di poliziotti e magistrati, l'unica «verità» possibile salta agli occhi componendo gli avvenimenti che si svolgono nell'arco di una settimana, in ordine cronologico: c'è un primo «attentato» (auto degli Schiaoncin) che ha come firma un cartello che nessuno vuole ammettere di aver raccolto e che la polizia si ritrova non si sa come in mano, ma le cui riproduzioni sono ben in vista nella sezione di via Svampa, sul tavolo del segretario missino; c'è un secondo «attentato» (tritolo alla sezione Giarabub) con 2 cartoncini in tutto identici al primo; c'è infine associato ai primi tre da una perizia calligrafica (che ovviamente esclude che la scrittura sia di uno dei tre imputati), il cartellone di casa Mattei.

37) Atti, vol. 2", fase. IV: «Prossimità finestra citata sono stati rinvenuti vari frammenti carta da quaderno, at quadri, che, dopo ricostruizone, portavano at ottenere 2 scritte. at carattere stampatello, effettuate con penna biro, di colore nero, da medesima mano recanti seguente identica dicitura: «Contro i fascisti guerra di classe — Brigata Tanas». Nello stesso verbale c'è una curiosa annotazione che, anche se ci porta fuori tema (per tutte le questioni che non quadrano anche in questo episodio. ci vorrebbe un altro libro1) , dispiace lasciare inosservata. Mentre in termini drammatici si racconta la violenza dell'esplosione e l'entità dei danni, all'atto di specificare il punto in cui fu collocata la bomba il dott. Secchi è costretto ad ammettere che: «Finestra citata est ubicate lateralmente locali sezione medesima, dinanzi cui porta ingresso, sulla via Domenico Svampa, era in sosta autoradio Primavalle 2° di questo Ufficio in servizio di vigilanza».

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Incendio a porte chiuse Con due soli litri di benzina, versati dall'esterno della porta chiusa, scoppia un incendio che ha il suo epicentro nella parte più interna della casa, la stanza di Virgilio e Stefano. Questo sostengono, omettendo e stravolgendo dati oggettivi i periti d'ufficio. Il magistrato, per avvalorare le loro tesi costretto a ignorare il racconto degli stessi Mattei.

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L'incendio di Primavalle si sviluppa in modo del tutto difforme da come hanno preteso — tra l'altro smentendosi a vicenda — periti e magistrati. Questo l'abbiamo detto, ed ora lo dimostreremo. Dimostreremo che, come del resto hanno affermato concordi i Mattei (ed i magistrati quasi rifiutato di verbalizzare tanto era scomodo per la loro tesi precostituita), l'incendio è scoppiato dentro l'appartamento del segretario missino e non sulle scale della sua abitazione; che la tanica era all'interno della casa; che sull'avvenimento pesa l'ombra di molti, troppi dubbi che circoscrivono sempre di più le responsabilità dell'inquieto ambiente missino di Primavalle. L'incendio scoppia in casa Le prime fiamme, dunque, divampano all'interno dell'abitazione dei Mattei. Questo è deducibile innanzitutto da tutta una serie di precise testimonianze, ed è poi dimostrato da una serie di circostanziati ed inconfutabili avvenimenti. Le testimonianze in parte le abbiamo viste (cap. VII) : la moglie del Mattei offre dello scoppio dell' incendio differenti versioni: la prima, raccolta dai giornali (1) ma inesistente per i documenti ufficiali dell'inchiesta, parla di una bottiglia molotov lanciata contro la porta d'ingresso, di lei che si sveglia, afferra i figli più piccoli, si reca all'uscio che trova già aperto ma sbarrato dalla cortina delle fiamme, e del superamento di questo muro di fuoco avvenuto grazie all'aiuto dell'inquilino che getta secchi d'acqua. La seconda versione, invece (la prima degli atti ufficiali), è abbastanza difforme. Dice Anna Maria :

1) «Il Tempo», 17-4-1973; «Momento Sera», 17/18-4-1973; «Giornale d'Italia», 16/17-4-1973.

206 «Mio marito è balzato dal letto ed ha aperto la porta (della camera da letto, che dà sull'ingresso: ndr). Il vano d'ingresso era pieno di fiamme, ma mio marito è riuscito ugualmente a spalancare la porta (d'ingresso: ndr)» (2). Ed infine, anche questa tratta dai giornali di quei giorni ma inesistente per i documenti ufficiali, ecco la terza versione (3): alla porta, che il Mattei si reca ad aprire, alcuni sconosciuti gettano all'interno dell'appartamento una bottiglia Molotov e quindi si danno alla fuga. Evidentemente, ai fini processuali fa testo soltanto la seconda delle tre versioni, per cui diamo per appurato che «il vano d'ingresso era pieno di fiamme, ma mio marito è riuscito ugualmente a spalancare la porta». E veniamo alle dichiarazioni di Mario Mattei sull'origine dell'incendio, o che comunque possono servire a farci capire dove sono divampate le fiamme. Nel suo primo interrogatorio, il segretario missino di Primavalle afferma: «Durante la notte sono stato svegliato da Virgilio che mi disse che la porta di casa era in fiamme perché ci avevano gettato una Molotov» (4). Ma subito correggerà questa sua versione: svegliato dalla moglie e dalle grida di Virgilio — dirà — si è alzato dal letto, ha sentito Virgilio che telefona al «113», e, uscito dalla stanza da letto —mentre accorreva verso la stanza dei ragazzi — è scivolato a terra; «Sul pavimento — racconta — vi era qualcosa di viscido. Notai che c'erano delle fiammelle azzurrognole che erano ancora piccoline. Venni però ustionato» (5). La narrazione —come abbiamo visto — continua cosi: Mario Mattei corre nella stanza delle ragazze e la figlia Silvia lo aiuta con una coperta a spegnere le fiamme che lo avvolgono; quindi raggiunge l'ingresso, riesce ad aprire la porta di casa nonostante che le fiamme siano alte e contemporaneamente getta per terra un «fiasco

2) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 1. 3) «Il Giornale d'Italia» del 16/17-4-1973. 4) Interr. del 16-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 2. 5) Interr. del 5-6-1973. Atti, vol. 5°, p. 163.

207 antincendio» (6) che, misteriosamente, invece di reprimere il fuoco ne aumenta l'intensità; torna quindi nella camera dove dormono Silvia e Lucia e alza la serranda della finestra per calarsi di sotto, portando con sé la figlia Lucia. Benzina sul pavimento A proposito di queste dichiarazioni del segretario missino di Primavalle c'è subito qualcosa da notare sull'origine dell'incendio: mentre la porta d'ingresso è ancora sbarrata, nell'abitazione già vi sono delle fiamme; tanto che egli scivolerà a terra su «qualcosa di viscido» (benzina? cherosene? o qualche altra sostanza?) e, cadendo, si ustionerà. Le lesioni che i sanitari riscontreranno sul suo corpo (ai glutei, alla parte posteriore delle cosce, agli avambracci), del resto, sono proprio quelle tipiche di chi scivoli a terra su un pavimento dove vi sia del fuoco (7). Dunque, prima che fosse aperta la porta, in casa Mattei c'erano già le fiamme. Quanto alla provenienza delle fiamme, se l'incendio fosse iniziato all'esterno si potrebbero fare due ipotesi: a) che le fiamme si sprigionassero da benzina o da altra sostanza infiammabile versata sul pavimento del pianerottolo o lanciata sull'esterno della porta; b) che fosse stata fatta filtrare benzina o altra sostanza infiammabile da sotto l'uscio e che poi vi sia stato dato fuoco dal di fuori. Ebbene. entrambe queste ipotesi sono materialmente impossibili per una circostanza ben precisa: la porta chiusa, e la foggia della soglia di casa Mattei — che è rialzata in modo da far aderire perfettamente la porta — costituiscono, nell'ipotesi a) uno schermo insuperabile per eventuali fiamme esterne; e nell'ipotesi b)

6) Interr. di M. Mattei del 5-6-1973. Atti, vol. 5°, p. 163 e interr. di Silvia Mattei del 23-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 54. 7) Atti, vol. 1°, p. 220, Si veda anche quanto e scritto nella perizia medica d'ufficio relativamente alle condizioni di Mario Mattei: «Tutta l'obiettività è localizzata alle regioni glutee e agli arti inferiori. In questa sede si repertano vaste aree cicatriziali localizzate prevalentemente sulle superfici posteriori. A destra una prima zona interessa la superficie inferomediale della regione glutea e raggiunge, occupandola quasi interamente, la superficie posteriore della coscia... A sinistra vi è un'analoga area di tessuto cicatriziale... altre due aree cicatriziali interessano le facce posteriori delle gambe fino ai talloni, che ne sono pure interessati...».

208 escludono assolutamente la possibilità di un innesco del fuoco dall'esterno (v. foto p.210). E ciò è tanto vero che gli stessi periti ufficiali hanno respinto queste ipotesi. D'altra parte anche Silvia Mattei conferma che l'origine dell'incendio è da situare all'interno dell'appartamento quando dichiara : «Venni destata da mio padre durante la notte e vidi che c'erano le fiamme. Papà prese un estintore del tipo a boccione che si debbono rompere sulle fiamme. Subito dopo vidi una gran fiammata avvolgere mio padre» (8). Ora, considerando che proprio Mario Mattei ha detto di aver aperto la porta e «contemporaneamente gettato per terra un fiasco antincendio», è chiaro che quando Silvia venne svegliata dal padre, questi non ha sicuramente ancora aperto la porta d'ingresso; eppure le fiamme divampano già all'interno dell'abitazione dei Mattei. Ma poi è il dirimpettaio dei Mattei, il già citato Gualtiero Perchi, a dare una conferma definitiva a questo dato di fatto; sostiene infatti: «Le fiamme divampavano all'interno della casa. Sul pianerottolo quando io aprii la porta di casa non c'erano fiamme» (9). E questo — si noti bene — nonostante che la porta di casa Mattei, quando il Perchi si alzerà per aprire la sua, fosse già stata spalancata dal segretario missino. Ma sempre secondo il Perchi, mentre sul pianerottolo non c'era fuoco, gli stipiti nella parte interna della casa erano in fiamme (10). Quali sono quindi — per riassumere — le circostanze che portano ad affermare senza il minimo dubbio che l'incendio è scoppiato all'interno dell'appartamento? 1) il dirimpettaio non ha visto il fuoco sul pianerottolo ma all'interno dell'ingresso dell'appartamento dei

8) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 54. 9) Interr. di Gualtiero Perchi del 19-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 147. 10) Interr. di Gualtiero Perchi del 19-5-1973. Atti, vol. 5°. p. 147.

209 Mattei; 2) la moglie e la figlia maggiore testimoniano che prima che il segretario missino aprisse la porta le fiamme già divampavano nell'abitazione; 3) il Mattei stesso sostiene di essersi alzato e, prima di poter arrivare alla stanza di Virgilio, essere scivolato ustionandosi, giacchè in terra c'erano delle fiammelle; 4) era impossibile che il fuoco filtrasse dall'esterno all'interno a porta chiusa, ed è provato — come vedremo subito — che non è filtrato. Sotto la porta niente fuoco Abbiamo già detto che non era possibile che queste fiamme, che già divampavano prima che venisse aperta la porta d'ingresso, fossero causate da sostanze combustibili gettate o comunque fatte filtrare dall'esterno e poi accese dal di fuori. Lo impediva la particolare conformazione della soglia di casa Mattei. Ma esiste poi la prova di questo : la porta d'ingresso è stata trovata per nulla combusta nella sua facciata inferiore, a certificare definitivamente che di lì il fuoco comunque non è passato. Poi gli stessi periti escludono che il fuoco potesse e sia entrato dall'esterno all'interno a porta chiusa (11). E allora? Allora è evidente che essendoci già il fuoco nella casa di Mattei prima che il segretario missino aprisse la porta, l'incendio non può essere nato che all'interno dell'abitazione. Il luogo esatto dello scoppio dell'incendio Non solo: è anche possibile localizzare il luogo dove le fiamme sono divampate per prime. Teniamo intanto conto del particolare che nessuno parla con Virgilio e Stefano o porta loro soccorso. Le due vittime erano certo gli elementi più validi della famiglia: se qualcosa non glielo avesse impedito, sarebbero certamente riusciti a trovare salvezza attraverso la porta d'ingresso, per la medesima via usata da una donna (la moglie del Mattei) e da due bambini piccoli, che — oltretutto — non sono neppure stati lesionati dal fuoco. Ma evidentemente i due giovani — con cui nessuno all'interno della casa ha potuto parlare e che nessuno ha potuto vedere — non erano in grado, per qualche motivo, di seguire quella strada.

11) Dalla perizia d'ufficio, pp. 52-53.

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In alto, foto e schema della soglia di marmo rialzata, frantumatasi successivamente al passaggio dei soccorritori (foto in basso).

211 Ciò significa .che il fuoco non solo è divampato dentro la casa dei Mattei, ma, più precisamente, il suo primo focolaio deve essere localizzato tra la porta d'ingresso e la stanza di Stefano e Virgilio, che sono rimasti subito intrappolati. Si guardi infatti alla conformazione logistica dell'appartamento (vedi piantina p. 212): entrando in casa Mattei, nel piccolo locale d'ingresso si spalancano quattro porte. Una, attigua all'uscio, è quella del bagno, dalla quale nessuno è passato; l'altra, alla sinistra di chi entri, è quella della camera in cui dormivano i due coniugi Mattei con i figli minori, Antonella e Giampaolo: da questa porta sono passati tutti e quattro. La porta di fronte a quella d'ingresso dà sul tinello-cucina, dove dormivano Silvia e Lucia: da qui è passato Mattei sia per prelevare il «boccione» sia per. cercar scampo dal balcone veranda. La quarta porta è quella della stanza da letto di Stefano e Virgilio, da dove nessuno è passato, nonostante risulti che l'uscio — del tipo scorrevole — fosse aperto. E' quindi evidente, già da queste sole considerazioni, che l'incendio deve necessariamente essere scoppiato quasi in corrispondenza della soglia della stanza dei due ragazzi che sono stati gli unici a non poter uscire dalla loro stanza e solo per questo non si sono salvati. I due ragazzi infatti, ancora vivi nella loro stanza mentre il padre tentava di lottare contro il fuoco nell'ingresso hanno cercato l'ultimo scampo, di fronte al dilagare delle fiamme, dirigendosi non verso la porta ma arretrando verso la finestra. Dunque l'incendio non può che essere scoppiato nella parte d'ingresso vicina alla stanza di Virgilio, o nella stessa stanza di Virgilio, nella parte più prossima all'ingresso: in ogni caso, ai confini tra la stanza dei due ragazzi e il vano d'ingresso. La localizzazione in quel luogo delle prime fiamme risulta confermata, come abbiamo più volte visto, proprio dall'analisi degli spostamenti di tutti i membri della famiglia Mattei, ciascuno dei quali (eccettuati appunto i due ragazzi) ebbe la possibilità di muoversi e di uscire dalla propria stanza mentre le fiamme già divampavano. Non solo: ma nessuno di essi passò attraverso il luogo dove l'incendio era maggiormente violento, tanto è vero che le ustioni riportate da Mario Mattei sono dovute alla iniziale «scivolata» sulle prime fiammelle incontrate nell'ingresso, e quelle della moglie e dei figli che con lei riuscirono ad imboccare la porta per fuggire verso le scale sono leggerissime ed escludono appunto un contatto diretto con il focolaio virulento dell'incendio. I due ragazzi non soltanto non trovarono mai, durante tutto lo sviluppo dell'incendio, la possibilità di uscire dalla loro stanza — se

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213 infatti si può anche accettare la versione che Virgilio stia nella sua camera a telefonare al «113», non si comprende invece perché Stefano, potendolo, non si allontani — ma di questo si rese perfettamente conto, nel momento più tragico del rogo anche il padre. Silvia racconta — infatti — in questi termini il tentativo di salvataggio dei ragazzi da parte del padre: «In cucina aprimmo la finestra... mio padre si sporgeva per afferrare Stefano che era nella stanza insieme a Virgilio» (12). Dunque, l'unico tentativo fatto per cercare di salvare i due ragazzi viene operato dal Mattei, non già attraverso la porta della loro stanza; ma attraverso la finestra della cucina, attigua a quella della loro camera, aggirando cioè il focolaio insormontabile che intrappolava i due giovani. Come progredisce l'incendio Le prime fiamme sono interne all'abitazione dei Mattei. E non sono nemmeno molto estese, visto che i Mattei tentano a lungo di domare da soli l'incendio (per lo meno dalle 2,50 alle 3,27, quando telefonano al «113»). L'incendio però va aumentando: un improvviso incremento si ha stranamente proprio nel momento in cui il Mattei getta il «boccione antincendio» sul focolaio originario. L'incendio da quel momento continua ad incrementarsi fino a diventare incontrollabile ed avanza in due direzioni: in un senso, verso il pianerottolo e le scale, nell'altro, all'interno della stanza di Stefano e Virgilio che, nell'estremo tentativo di sottrarsi alle fiamme si 'portano alla finestra. Perchè Mattei apre la porta? Di fronte all’incremento delle fiamme Mattei apre la porta di ingresso per offrire una via si scampo al resto della famiglia. Ma proprio questa decisione del Mattei dimostra ancora una volta che l'incendio divampava all'interno dell'appartamento. Il comportamento del Mattei è tipico di chi fugge dall'incendio che ha in casa.

12) Interr. del 23-4-1973. Atti, vol. 5°, p. 54.

214 Se il fuoco fosse stato sul pianerottolo (e si è visto che non avrebbe potuto mai passare all'interno a porta chiusa per le caratteristiche della soglia) il comportamento sarebbe stato quello di lasciare chiusa la porta, unico ostacolo insormontabile, appunto, ad eventuali fiamme esterne. Qual è infatti il comportamento degli altri inquilini, e soprattutto del dirimpettaio Perchi? Quando la porta d'ingresso di Mattei è già stata aperta e quindi fumo e fiamme hanno invaso il pianerottolo e le scale, gli altri inquilini dello stesso stabile «si affacciano» alla porta di casa per vedere che cosa sta accadendo. Tutti hanno la stessa reazione, investiti dal fumo e dal calore, immediatamente chiudono la porta d'ingresso che avevano appena aperto(13). Analogo sarebbe dovuto essere, e a maggior ragione, il comportamento del Mattei nel caso che il focolaio primitivo fosse stato localizzato sul pianerottolo, proprio davanti alla sua porta. Invece Mario Mattei si comporta in maniera diametralmente opposta: non soltanto spalanca la porta di casa e la lascia aperta, ma fa anche passare di là la moglie con in braccio il figlio più piccolo e per mano un'altra bambina. Cosa che, evidentemente, sarebbe stata oltre che sconsigliabile, anche impossibile nel caso, assolutamente fantastico prospettato dalle perizie ufficiali, che l'incendio divampasse sul pianerottolo. Sennò nessuno si salva La progressiva violenza delle fiamme è dimostrata anche da altri fattori. Se l'incendio fosse stato di dimensioni considerevoli fin dall'inizio, il segretario missino di Primavalle, sua moglie ed i suoi figli che si sono salvati, non sarebbero nemmeno potuti uscire dalla stanza dove dormivano, in quanto si sarebbero trovati di fronte un muro di fiamme e di fuoco, un muro evidentemente invalicabile. E, del resto, i ripetuti spostamenti di Mario Mattei all'interno dell'appartamento e le dichiarazioni concordi dei presenti dimostrano che all'inizio le fiamme erano di scarsa entità e ben localizzate presso la soglia della stanza di Virgilio. Tralasciando per ora ogni considerazione sul «boccione antincendio» che, frantumato sulle fiamme originarie non le doma bensì le ingigantisce, resta da considerare che, aprendo la porta d'ingresso, il fuoco è divampato con maggiore intensità. Questo incremento di intensità può essere spiegato — almeno inizialmente — con dell'ap-

13) Interr. di Gualtiero Perchi del 19-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 147. Vedi anche interr. di Salsa Ferrero, stessa data, p. 146.

215 porto di ossigeno dovuto al «tiraggio» creatosi dopo l'apertura della porta (con la tromba delle scale trasformata in un camino). Oppure dovremmo supporre — come dicono i periti «ufficiali» — che all'atto dell'apertura della porta, le fiamme già presenti sul pianerottolo si sono precipitate dentro? E in che modo sarebbero entrate queste fiamme, che avrebbero immediatamente appiccato il fuoco in tutto l'ingressino e, poi, nella stanza di Virgilio? Certo, vista la facilità con cui tutto l'ingressino avrebbe subito preso fuoco, la propagazione esterno-interno non può essere avvenuta, come affermano i periti, solo perché la facciata esterna della porta d'ingresso stava bruciando: bisognerebbe addirittura ipotizzare — se proprio si vuole star dietro all'assurda tesi dei periti «ufficiali» — che qualcuno, appostato sulle scale, «sparasse» l'incendio all'interno dell'appartamento con un lanciafiamme. E. per fortuna, almeno di lanciafiamme non si parla nell'immaginaria ricostruzione reperibile sugli atti ufficiali del procedimento giudiziario. L'impossibile teoria dei periti Esaminiamo la teoria dei periti ufficiali, e vediamo chiaramente per quale motivo non può reggersi in piedi. Gli «esperti» nominati dal tribunale affermano che l'incendio ebbe come focolaio originario non più di due litri di benzina, sparsi sul pavimento del pianerottolo, davanti a casa Mattei. In base a questa ipotesi Mario Mattei, quando aprì la porta, avrebbe dato vita ad un fenomeno che le leggi fisiche più elementari dichiarano impossibile: la parte esterna dell'uscio di casa, già in fiamme, avrebbe trasmesso, aprendosi, il fuoco agli abiti appesi all'attaccapanni di casa e agli infissi verniciati, e da li poi l'incendio sarebbe disastrosamente divampato all'interno dell'abitazione. Tutto ciò è assolutamente impossibile. Non si spiega infatti, né lo spiegano le leggi della fisica, in quale modo da una porta incendiata su una delle sue facciate (con fiammelle lunghe al massimo qualche centimetro!), il fuoco possa trasmettersi ad alcuni abiti appesi a due metri e mezzo di distanza. E' infatti chiarissimo che. senza un contatto diretto con il fuoco, un vestito non si incendia. e per farlo, deve restare a lungo esposto direttamente alle fiamme. e in ogni caso non innesca a sua volta un incendio disastroso. Quindi, non resta — come si è detto — che la teoria del lanciafiamme: il giorno in cui qualcuno introdurrà anche l'esistenza di una tale arma — o di qualcosa di simile — nel fatto di Primavalle, sarà

216 più facile credere che l'incendio sia stato appiccato dall'esterno. Anche se — per far questo — dovremo poi chiederci sempre, conseguentemente, perché la porta di casa sia stata aperta. Quando cresce il fuoco L'incendio — è appurato — non fu inizialmente esteso. Ne convengono anche gli inquirenti ed i periti ufficiali. E, soprattutto, si può ricavarlo da molte testimonianze degli inquilini e dei soccorritori. Intanto, nonostante l'allarme sia stato dato alle 3,27, è comprovato che il primo focolaio divampò abbastanza tempo prima. Dice infatti G.B. Ciarmatore (14) l'inquilino che abita al piano sottostante ai Mattei: «Abito al secondo piano, dirimpetto all'appartamento della famiglia Alegiani, che si trova sotto quello dei Mattei. Dieci minuti prima delle tre sentii un po' di rumore. Preciso che fui svegliato da alcuni rumori; trattavasi di rumori forti come se cadessero le cose sul pavimento... Sentii gridare: scappate perché sta andando a fuoco il palazzo». Ciarmatore allora si precipita nella strada con moglie e bambini, li mette al sicuro recandosi con l'automobile alla vicina sede dell'Inam, poi torna, «c'era già la macchina della polizia», raggiunge il punto da cui poteva vedere la stanza di Virgilio Mattei e nota che «dalla finestra uscivano molto fumo e poche fiamme. A un certo punto — continua nella sua deposizione — vidi affacciarsi alla finestra Virgilio, sentii che pronuciava la parola "aiuto" non ad alta voce. Dopo che Virgilio pronunciò l'invocazione d'aiuto il fumo diminuì mentre aumentavano le fiamme dalla finestra della stanza di Virgilio per un periodo di circa venti minuti». Dunque solo molto tempo dopo le 2,50, quando si è udito il primo trambusto (il tempo necessario al Ciarmatore per fuggire, portare

14) Interr. di Gian Battista Ciarmatore del 19-5-1973. Atti, vol. 5°, p. 148.

217 in salvo in macchina la sua famiglia, e poi tornare) l'incendio raggiunge il suo apice: i due giovani corrono alla finestra dove vengono raggiunti dal fuoco che va aumentando rapidamente. Solo a questo punto — finalmente — i Mattei si decidono a dare l'allarme. I primi soccorsi E dopo, che cosa accade? I vigili del fuoco arrivano di gran carriera: il vicecapo reparto Alfredo Liberati, del distaccamento di Monte Mario, ha scritto nel suo rapporto di aver raggiunto il posto alle 3,35/3,40 cioè al massimo dieci minuti dopo essere stato chiamato (15). Per prima cosa, con una tubazione da 45 millimetri, si cerca di «raffreddare la persona che si trovava alla finestra», cioè Virgilio. I primi getti d'acqua, quindi, penetrano nell'appartamento dei Mattei dalla finestra dello stanza di Virgilio. Lo conferma anche il vigile del fuoco Emilio Fabrianesi, il primo a giungere nell’appartamento dei Mattei: mentre stava tirando, dalla porta d'ingresso verso l'interno, un catino d'acqua che un inquilino dello stabile gli aveva passato, ricorda che «giunse il getto d'acqua dalle pompe dei colleghi». Oramai, però il dramma si é compiuto: Virgilio è morto. le scale sono già transitabili e la violenza delle fiamme, dopo aver raggiunto l'apice, sta diminuendo. I danni causati dall'incendio A comprova di quanto abbiamo fin qui affermato, esaminiamo ora i danni riportati dall'abitazione del Mattei, dalle scale e dal pianerottolo dello stabile, e compariamoli tra loro (16). Di tutti, l'ambiente più danneggiato è la stanza di Virgilio e Stefano Mattei, le due vittime dell'incendio». I due corpi sono completamente carbonizzati, le ante e l'intelaiatura della finestra sono «distrutte dall'incendio», anche «l'arredamento del locale è stato completamente devastato»; sono state, inoltre, completamente incenerite le imposte e «le parti in legno dei letti ed il mobile relativo». Infine, gli stipiti della porta «si rinvengono combusti» fino ad una profondità

15) Dal rapporto del vigile del fuoco Liberati. Atti, vol. 4°, p. 179. 16) Vedi le «Ulteriori osservazioni» alla perizia d'ufficio presentate dalla difesa. In tali «osservazioni» si fa sempre riferimento ai verbali di sopralluogo ufficiali e ai rilievi della polizia scientifica.

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220 di «dieci millimetri circa» sui montanti. Anche i muri risultano gravemente danneggiati (v. foto pp. 213-219) . E veniamo all'ingresso di casa Mattei. «Pareti e soffitto sono completamente affumicati», i contatori per l'energia elettrica «combusti», «la lampadina appesa al soffitto parzialmente liquefatta»; «la porta d'ingresso alla sala da pranzo interamente combusta, combusti anche gli stipiti e l'architrave»; «il telaio e la mostra della porta del bagno interamente carbonizzati, distrutti i pannelli in compensato della porta e fortemente carbonizzati i montanti; la profondità della combustione è di cinque o sei millimetri sui montanti della porta». Inoltre «è risultato profondamente carbonizzato un attaccapanni e si sono bruciati diversi oggetti di vestiario ad esso appesi», mentre per quanto riguarda l'intonaco, «soltanto in alcune limitate zone basse dell'andito d'ingresso e della stanza dei ragazzi si è avuto l'arricciamento ed il distacco dello strato di colla di finitura dell'intonaco»; come vedremo, se è vero che in questi ambienti interni è risultato danneggiato l'intonaco alla base dei muri (fatto che presuppone evidentemente, una localizzazione a quell'altezza delle fiamme, cioè a terra), sul pianerottolo la stessa osservazione è possibile, ma per le parti più alte delle pareti. Possiamo quindi già tirare alcune conclusioni: i danni nell'ingresso sono all'incirca dimezzati rispetto a quelli della stanza dei ragazzi (5-6 mm. contro 10 mm. e oltre) ; inoltre vi sono danni sui muri in prossimità del pavimento, il che conferma che è bruciato liquido infiammabile sparso sull'impiantito. Dove i danni sono minori C'è però, ancora di più: «si rileva la più marcata carbonizzazione dei telai fissi delle porte del bagno e della stanza dei ragazzi rispetto a quello della porta d'ingresso», ed inoltre la parte esterna del telaio dell'uscio di casa Mattei «è interessata per una profondità di due o tre millimetri», mentre sul lato interno il telaio è rinvenuto combusto fino ad incenerimento. Le due diverse condizioni della porta (lato interno e lato esterno) sono tipici di una combustione dovuta a fiamme e gas combusti provenienti dall'interno, i quali trovano sfogo attraverso la tromba delle scale. Sulle scale, specialmente sul pianerottolo del terzo piano, a differenza di quanto si è visto per l'ingresso, l'azione «del fumo e del calore è più evidente nella zona alta che in quella bassa delle varie parti che delimitano il ripiano», il che dimostra che non può esservi stata «soffusione» di benzina sul pianerottolo; infatti la benzina

221 bruciando, avrebbe danneggiato le zone basse dei muri e degli infissi. Il pavimento del pianerottolo non presenta danni. La parete sulla sinistra dell'uscio dei Mattei «è chiaramente meno interessata dall'effetto del calore» nella «parte inferiore» che in quella superiore, e — inoltre — «la parete del pianerottolo tra l'interno 5 e l'interno 6 è nella sua parte inferiore prossima all'interno 5 (quello dei Mattei, ndr) chiaramente meno interessata dall'effetto del calore della zona più prossima all'interno 6». Questa osservazione, come vedremo, rivestirà grande importanza ai fini di determinare il luogo esatto dove si è incendiata la famosa tanica di benzina, nella quale c'era ancora una certa quantità di carburante: secondo la versione ufficiale, infatti, il recipiente sarebbe stato collocato proprio qui, dove minori sono «gli effetti del calore». E anche per altre infrastrutture esistenti sul pianerottolo (corrimano, porta d'ingresso in casa Perchi) si ripetono le annotazioni già viste per i muri dello stesso pianerottolo: le parti inferiori sono, sempre e comunque, meno danneggiate di quelle superiori; anzi, quelle inferiori si presentano «senza tracce di carbonizzazione» o «assolutamente integre». L'incendio a porta chiusa In particolare, a questo punto, si può notare che, confrontando i danni riportati dagli infissi della stanza e quelli del pianerottolo, la profondità della combustione delle parti in legno e dalle dieci alle venti volte superiore nel locale dove i due ragazzi hanno trovato lo morte. Come sia stato possibile allora ipotizzare che l'incendio sia scoppiato sul pianerottolo è responsabilità che lasciamo ai periti «ufficiali» ed ai magistrati. Se infatti i periti hanno avuto l'impudenza di tralasciare una serie di fatti oggettivi (e quelli che hanno esaminato li hanno stravolti con una logica volutamente deformata), i magistrati, a loro volta, sono stati ancora superiori all'«abilità» degli esperti da loro nominati: hanno costruito un'indagine su presupposti che dovevano condurre verso piste precostituite in una situazione politica che il giudice Sica definì apertamente «eccezionale». Certo, da tutta la massa dei fatti e delle testimonianze, e se accettiamo totalmente le deposizioni dei Mattei, la conclusione è inevitabile: un incendio è scoppiato, a porta chiusa, la notte tra il 15 ed il 16 aprile 1973 nell'appartamento del segretario del MSI di Primavalle. Dall'esterno non è avvenuto nessun attentato.

222 Ma cos'è che ha costretto i Mattei — che per lungo tempo hanno lottato col fuoco, chiusi in casa, senza chiamare nessuno — a telefonare, infine, al 113? Cos'è che ha provocato — ad un certo punto — il dilagare incontrollabile delle fiamme? Se tralasciamo il misterioso comportamento del boccione «antincendio» che fa aumentare le fiamme invece di reprimerle, rimane una sola spiegazione: all'interno dell'appartamento — come vedremo subito — vi era una tanica piena di benzina «super» e cherosene. Finché la tanica non bruciò il fuoco rimase controllabile; ma quando il recipiente prese fuoco, chi poté fuggire lo fece; chi era rimasto intrappolato fin dall'inizio nella sua stanza (vicino alla quale evidentemente si trovava la tanica) non ha avuto scampo.

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La tanica scomoda Periti d'ufficio, pubblico ministero e giudice istruttore sono in difficoltà: i resti di una tanica di almeno 5 litri di benzina super sono ritrovati all'interno dell'appartamento. Questo dimostra una foto della polizia scientifica, questo testimoniano vigili del fuoco e poliziotti giunti per primi sul posto.

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Tra le omissioni e le falsificazioni che costellano l'inchiesta, la più clamorosa è certamente quella che riguarda la tanica. Si tratta di un recipiente in plastica, trovato semifuso con tracce evidenti di benzina «super» mista a cherosene. E' fusa e in parte bruciata, salvo la base che è rimasta intatta a contatto col pavimento. Conteneva proprio quella sostanza infiammabilissima che è univocamente indicata come la causa prima dell'incendio. Ebbene, questa tanica è stata rinvenuta all'interno dell'abitazione del segretario fascista di Primavalle. La presenza di questa tanica nell'abitazione dei Mattei conferisce certamente all'incendio un'ottica completamente diversa, ed anzi esattamente opposta, a quella adottata dai magistrati. In casa Mattei c'era una tanica da cinque o da dieci litri, contenente benzina super. Che ci faceva? Che cosa stava accadendo quella notte in cui tutto andò a fuoco? I magistrati non si pongono questa domanda. Anche i periti ufficiali la eludono. Per liberarsi di questo ostacolo, troppo scomodo per chi voglia perseguire la tesi dell'«attentato rosso», o lo ignorano completamente, o — ancor peggio — stravolgono la verità che è una sola e inconfutabile: la tanica è stata trovata e fotografata all'interno dell'abitazione dei Mattei nell'ingresso dell'appartamento, anzi in quella parte dell'ingresso più prossima alla stanza di Stefano e Virgilio, dove più violento è stato l'incendio, dove maggiori sono stati i danni, dove — lo abbiamo dimostrato nel capitolo precedente — il fuoco ha cominciato a divampare. I giudici arbitrariamente, per non veder cadere in mille pezzi la loro incredibile montatura, per non perdere la faccia, trasportano questo recipiente di plastica all'esterno, sul pianerottolo, dove nessuno l'ha visto, dove anzi meno gravi sono i danni provocati dall'incendio. E il bello è che i periti, pubblico ministero e giudice istruttore trovano tante di

226 quelle difficoltà al cospetto di questa tanica, da essere costretti a smentirsi a vicenda, pur di dare ai rispettivi discorsi un minimo di logica. Dimostreremo, dunque, in questo capitolo come tutte le tesi ufficiali debbano essere considerate false e capziose, e come i fatti — e soltanto i fatti — conducano invece verso una verità totalmente diversa: in casa Mattei c'era una tanica con della benzina ed era proprio là dove è scoppiato l'incendio. E questo è stato più volte, con molta imprudenza, sbandierato dalle due figlie di Mattei, Silvia e Lucia. La tesi ufficiale C'è subito da notare che i periti d'ufficio De Zorzi e Rosati, il P.M. Sica e il giudice istruttore Amato non sono neanche d'accordo tra loro sulla ubicazione della tanica, il luogo del suo ritrovamento e la quantità della benzina in essa contenuta. I periti nei loro «chiarimenti» la collocano nel pianerottolo esterno della casa di Mattei (nella precedente «perizia» prudentemente non si erano neanche pronunciati!) e sostengono che non deve aver contenuto più di due litri di benzina. Anche Sica afferma che la tanica stava fuori, e non ha bisogno di aggiungere spiegazioni. Ma ritiene che la tanica deve aver bruciato a lungo e quindi aver contenuto molti litri di benzina. Per giustificare la discordanza di rilievi e deduzioni con i suoi stessi «esperti», che in ogni loro documento si rifiutane di superare i «due litri», dichiara che questi sono incorsi in un «singolare equivoco» (1). L'intervento della controperizia che dimostra, sulla base di rilievi fotografici e di analisi scientifiche, come il recipiente fosse stato repertato all'interno della casa, non scompone il P.M. che nella sua requisitoria relega il problema in una nota a piè di pagina quasi si trattasse di un dettaglio di terz'ordine: «Posto che è ormai certo che la tanica arse al di fuori dell'appartamento» (2). Più accorto il giudice istruttore, cui spetta l'ultima parola per il rinvio a giudizio: sono passati otto mesi dal fatto, la stampa ha dato grande pubblicità alla controperizia e non è più possibile sostenere il falso. Si accetta — allora — che la tanica sia stata rinvenuta all'interno dell'appartamento, smentendo il fondamento di otto mesi di istruttoria, ma si fa capire che la questione

1) Requisitoria, par. 7, p. 9. 2) Requisitoria, par. 7, nota 12, p. 11.

227 è irrilevante poichè essa potrebbe esservi arrivata successivamente, per effetto dei getti d'acqua dei soccorritori e per altri casuali urti (3)». Come si accese la tanica? Ma procediamo con ordine, partendo dal primo punto: l'accensione della tanica. Le versioni dei periti e dei due magistrati relativamente all'incendio parlano di fiamme causate inizialmente dalla combustione di una quantità limitata di benzina versata sul pianerottolo o «aspersa» sulla porta, la cui accensione avrebbe poi «innescato» il fuoco nella tanica (ma secondo Sica potrebbe anche esserci uno «stoppaccio», in grado — come vedremo — di trasformare il recipiente di plastica in una sorta di bottiglia molotov). L'incendio si sarebbe propagato alla facciata esterna della porta; da qui il fuoco, quando la porta venne aperta, si sarebbe proiettato all'interno con una gettata di oltre due metri, verso i vestiti appesi all'ingresso. Benzina sul pianerottolo? La quantità di benzina che sarebbe stata usata complessivamente dagli ipotetici attentatori non è mai stata perfettamente definita. I periti dicono 2 litri in tutto; Sica e Amato sono costretti ad accettare la tesi di una minima quantità — almeno per quanto riguarda quella parte di benzina versata inizialmente sul pianerottolo e «aspersa» sulla porta —, perchè in caso contrario il liquido sarebbe traboccato sulle scale e quindi sarebbero dovute rimanere tracce di incendio anche più in basso. Ma anche due soli litri di benzina, versati con quella fretta che le stesse fonti ufficiali riconoscono necessariamente agli «attentatori», sarebbero traboccate e avrebbero comunque lasciato tracce di incendio su tutte le parti del pianerottolo vicine al pavimento (che sono pressoché intatte). E poi, soprattutto, avrebbero bagnato lo zerbino.

3) Rinvio a giudizio, p. 14.

228 Lo zerbino volante I soccorritori trovano davanti alla porta di casa, uno zerbino. Repertato, il tappetino non rivela traccia alcuna di idrocarburi. Dunque non è stato investito dall'incendio, né toccato dalla benzina. Di chi è questo zerbino? I giudici scoprono — ma solo dopo quattro mesi e su informazione del commissario Adornato — che appartiene ai dirimpettai della famiglia Mattei, cioè ai Perchi. Ma è stato trovato davanti all'appartamento del segretario missino di Primavalle. Ed allora, con uno spostamento che — come vedremo — non sarà l'unico, gli inquirenti gli fanno cambiare collocazione e dicono che si, è stato trovato davanti a casa Mattei, ma perché è stato casualmente spostato lì successivamente all'incendio, nel via vai dei soccorritori. Anche prendendo per buona questa affermazione ufficiale, comunque due litri di benzina versati sul piccolissimo pianerottolo avrebbero inesorabilmente bagnato anche lo zerbino. E il tappeto, imbevuto di idrocarburi ne avrebbe necessariamente rivelato le tracce (v. foto p. 229) . Fuoco senza danni Ma procediamo: Secondo i periti ed i magistrati, dunque, la tanica stava lì fuori, sul pianerottolo e lì è bruciata. Ora, come abbiamo già visto, proprio il pianerottolo è il luogo che meno degli altri risulta danneggiato. E, soprattutto, non risulta danneggiato alle basi delle pareti e delle porte, come invece sarebbe necessariamente accaduto se vi fosse bruciata della benzina. Sia quella versata, sia — soprattutto —quella contenuta nella tanica e fuoriuscita all'atto dell'accensione e della fusione di questa. Fuoco con danni I danni sono invece notevolmente maggiori nell'abitazione dei Mattei — come già si è detto —, in quella parte del locale di ingresso più vicina alla stanza di Stefano e Virgilio e nella stessa stanza dei ragazzi. Se paragonati con quelli rilevati all'esterno, i danni in questo luogo sono superiori di almeno dieci volte, per estensione e soprattutto per intensità. E, inoltre, in questi due locali — l'ingresso e la stanza dei ragazzi che, ricordiamolo, erano separati soltanto da una porta scorrevole che è risultata aperta — il calore dell'incendio è stato superiore a quello riscontrato in ogni altro luogo, tanto che

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Lo zerbino trovato privo di tracce di benzina e di bruciature

230 tutti vetri sono risultati fusi, compresi quelli delle lampadine. Ora, siccome le vernici ed i solventi esistenti nella camera di Stefano e Virgilio sono stati trovati intatti e cioè non bruciati — come lo stesso Sica ha sottolineato — è inspiegabile tanto calore se non lo si giustifica con la benzina. Ma se la tanica come vorrebbero periti e magistrati, fosse stata sul pianerottolo, quale è la sostanza ad alto potere calorico che ha fatto fondere tutti i vetri in queste due camere? Nessuno l'ha vista fuori Fuori dall'abitazione dei Mattei, la tanica non è stata vista da nessuno. Né dai dirimpettai, i Perchi, il cui capofamiglia è uscito sul pianerottolo per gettare verso l'abitazione in fiamme dei secchi d'acqua, né da altri possibili testimoni: soccorritori, giornalisti, fotografi. Non ne parlano, dunque, né il signor Perchi, né sua moglie né sua figlia; non ne accennano la stessa Anna Maria Macconi in Mattei e i suoi figli più piccoli; nulla dicono, neppure, gli agenti di PS Aiello (quello che con tanta facilità «vede» e «raccoglie» cartelli al 4° piano), Russo e Frusteri e il vigile del fuoco Fabrianesi, il primo a raggiungere l'appartamento. Ed è significativo notare come, per chi era arrivato dalle scale — il vigile del fuoco Fabrianesi e i tre agenti — o per chi era uscito sul pianerottolo — il Perchi, che vi si era anche trattenuto a lungo nell'opera di spegnimento —, sarebbe stato materialmente impossibile non notare questa tanica. La Macconi e i suoi figli poi, dato il tragitto da loro percorso, avrebbero dovuto addirittura calpestarlo. Ma per questi ultimi, il solo parlare della tanica sarebbe stato forse troppo imbarazzante. E' stata fotografata dentro Ma nonostante non se ne faccia mai cenno prima di esservi costretti dalla controperizia della difesa, esiste addirittura una prova fotografica inoppugnabile. La fotografia, scattata dalla stessa polizia scientifica, all'atto della prima ricognizione in casa Mattei, e catalogata nella perizia ufficiale col n. 19, dimostra come la base della tanica sia sul pavimento dell'appartamento di Mattei, nell'ingressino vicino alla

231 porta d'ingresso, e dalla parte della stanza di Virgilio e Stefano (4). Ma la foto «ufficiale» non è la sola. Esiste un'altra fotografia scattata nello stesso luogo, dall'operatore di un giornale romano, che coglie i vigili del fuoco nell'atto dell'imbarazzante ritrovamento. La pubblichiamo a p.232. Sica e Amato per due mesi hanno in mano gli atti ufficiali, ma non «vedono» la fotografia n. 19; i periti, d'altra parte, si guardano bene dall'usarla. Solo più tardi — dopo che i consulenti della difesa avevano fatto rilevare con forza che la tanica non era stata trovata sul pianerottolo bensì nell'ingressino (5) — i magistrati si decidono ad interrogare i primi vigili del fuoco e i primi poliziotti entrati nell'appartamento. Mai invece su questo elemento fondamentale saranno interrogati i Mattei! Né lo saranno altri testimoni presenti. Siamo al 18 giugno. Tutti l'hanno vista dentro E' in questa fase molto avanzata dell'inchiesta dunque che il giudice Amato raccoglie deposizioni di vigili del fuoco e poliziotti da cui ottiene però un effetto esattamente opposto a quello auspicato. Sentiamo infatti il capo dei vigili del fuoco di Monte Mario, Liberati: «Effettivamente ricordo di aver scorto in prossimità dello stipite destro della porta d'ingresso dell'appartamento dei Mattei una base di plastica; stava proprio addossata allo stipite della porta» (6).

4) Nella foto si vede distintamente la porta d'ingresso dei Mattei, presa dal pianerottolo, l'angolo dello stesso pianerottolo (dove secondo i periti d'ufficio sarebbe bruciata la tanica) che è completamente sgombro, la soglia in marmo della porta anch'essa totalmente libera, lo stipite destro della porta e parte del pavimento dell'ingressino. Si vede su questa fotografia, anche una freccia sovrimpressa dalla polizia scientifica, che indica un punto del pavimento dell'ingressino non lontano dalla soglia, vicino allo stipite destro, ed una sottostante didascalia afferma che questa freccia indica la posizione della base della tanica. 5) Osservazioni dei consulenti della difesa alla «relazione preliminare» dei periti. 6) Atti, vol. 5°, p. 176.

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La base della tanica. Lato esterno e lato interno.

234 Ma che cosa significa «in prossimità dello stipite»: dentro o fuori? Il giudice istruttore esibisce al teste la fotografia indicata col numero 19 del fascicolo dei rilievi tecnici e il Liberati risponde: «Effettivamente il punto dove si trovava la base di plastica è proprio quello rappresentato dalla fotografia, dove si scorge la predetta base di plastica con una freccia d'indicazione (7). A sua volta il brigadiere di PS, Romeo Miotti, afferma: «La base della tanica si trovava accanto allo stipite destro della porta d'ingresso dell'appartamento... La didascalia del rilievo fotografico n.61 (che riguarda solo i resti di plastica presi in primo piano, n.d.r.) è errata: al posto del termine "finestra" dovevasi scrivere "soglia-porta d'ingresso". Trattasi di un errore del dattilografo del quale io non mi sono accorto. Fui io ad apporre a penna le parole "soglia-porta d'ingresso" a pag. 4 del fascicolo dei rilievi tecnici» (8). Insomma, all'inizio la, polizia aveva commesso un «errore» davvero singolare: aveva individuato in un punto prossimo alla finestra della camera dei ragazzi la posizione della tanica. Quasi per rafforzare la dichiarazione del suo sottoposto, il commissario della scientifica Sante D'Aquino riferirà al giudice che «tale errore materiale di stesura risulta evidenziato dal rilievo fotografico n.19, dove la tanica stessa appare chiaramente in prossimità della soglia. Ricordo perfettamente anch'io di aver notato al momento del mio arrivo, alle 4,15 circa, la suddetta base di tanica nell'accennato posto» (9). Ma questo «accennato posto» che si cerca in tutti gli interrogatori di non definire con maggior precisione altro non è se non l'ingressino della casa Mattei.

7) Atti, vol. 5°, p. 176. 8) Atti, vol. 5°, p. 174. 9) Atti, voi. 5°, p. 172.

235 Come si sposta una tanica Ma, per i giudici, nel luogo dove è stata ritrovata, la tanica proprio non può stare. Perché significa troppe cose, ed altre ancora più gravi fa sospettare. E, soprattutto, fa inesorabilmente cadere tutta la teoria dell'accusa, frantuma la montatura di Primavalle. Ed allora, vediamo come un giudice istruttore sa spostarti una tanica. Dice infatti il dottor Amato che «Se il recipiente, prima e durante l'incendio si fosse trovato in quel punto, avrebbe ostruito l'apertura del battente della porta d'ingresso, che gira verso l'interno sui cardini posti alla sinistra per chi guarda stando sul pianerottolo» (10) ; bisogna quindi dedurne che: «Successivamente, per effetto dei getti d'acqua dei soccorritori e per altri casuali urti la base incombusta della tanica si è spostata sulla soglia della porta d'ingresso, in prossimità dello stipite destro (vedi foto n. 19)» (11). L'arte la conosciamo: è quella di arrampicarsi sugli specchi, ma questa volta il dott. Amato fa una grossa scivolata. Tutti i primi soccorritori (Perchi, Aiello, Russo, Frusteri, Fabrianesi), pur giungendo sul posto prima che i vigili del fuoco azionassero gli idranti, non hanno visto nessuna tanica sul pianerottolo. Tuttavia, anche prendendo in considerazione l'ipotesi di un eventuale spostamento di questa base di plastica incombusta, arriveremmo a conclusioni opposte a quelle del dott. Amato. Vediamo perché. Gli ostacoli insormontabili Dice infatti il dottor Amato che è ragionevole pensare che la tanica sia stata spostata per qualche motivo casuale, come getti d'acqua o urti non voluti dall'angolo esterno del pianerottolo, verso 1' ingressino. Ma allora, se questo è ragionevole, non si capisce perché la tanica si sarebbe dovuta spostare dall'esterno all'interno, e non invece viceversa (dato che i primi getti d'acqua furono

10) Rinvio a giudizio, p. 14. 11) Rinvio a giudizio, p. 14.

236 indirizzati nell'abitazione attraverso la finestra della stanza di Virgilio e quindi dalla stanza di Virgilio verso il pianerottolo e non viceversa); tutto starebbe a dimostrare che se spostamento c'è stato, in precedenza la tanica era «più dentro» l'appartamento. innanzitutto per giungere dall'angolo esterno del pianerottolo all'interno dell'ingressino, la base della tanica avrebbe dovuto «aggirare» lo stipite, e soprattutto superare 1 'ostacolo costituito dalla soglia rialzata (vedi piantina p. 238). E questo l'ineffabile dottor Amato lo ha capito, tanto che al vigile del fuoco Liberati ha chiesto se la soglia, quand'egli arrivò fosse ancora in loco. E Liberati ha risposto che al suo arrivo «c'era una soglia alla porta d'ingresso... in parte danneggiata, che poi finì per rompersi completamente con il passaggio delle numerosissime persone che intervennero nell'occasione» (12). Viceversa, il percorso dall'interno della camera di Virgilio Mattei alla soglia d'ingresso non presentava ostacoli di sorta: la tanica potrebbe aver «navigato» dunque fino ad incontrare il fermo costituito, appunto, dalla soglia d'ingresso. Inoltre l'angolo del pianerottolo di cui parla Amato non era né luogo di passaggio. né in una posizione tale da poter essere investito dai getti d'acqua dei vigili del fuoco e da altri soccorritori lanciati verso l'interno Quell'angolo era, insomma, il classico «angolo morto», che anzi avrebbe protetto la posizione di un oggetto che vi si fosse trovato o che vi fosse stato lasciato. Dunque se la tanica fosse stata lasciata li, ci sarebbe sicuramente rimasta. Ed esaminiamo perché e come la tanica è arrivata fino a lì e, soprattutto, da dove proveniva. Da dove è arrivata l'acqua In realtà, come abbiamo prima accennato, i primi getti d'acqua dei vigili del fuoco non furono indirizzati dal pianerottolo verso l'interno dell'appartamento, bensì dalla strada nell'abitazione dei Mattei attraverso la finestra completamente aperta della stanza di Stefano e Virgilio. Infatti, prima precauzione, anche se inutile, dei vigili del fuoco, fu di «raffreddare» il corpo che si scorgeva alla finestra : lo

12) Atti, voi. 5°, p. 176.

237 testimoniano il vice capo Liberati, il vigile del fuoco Fabrianesi ed altri (13). E' quindi possibile che uno dei primi getti d'acqua, proveniente con forza da un idrante di 45 millimetri di sezione, abbia spostato la base di plastica dalla cameretta o da una zona contigua alla cameretta fino al limitare dell'ingresso di casa Mattei, dove poi la tanica «galleggiante» sarebbe stata fermata appunto dalla soglia rialzata. E' invece impossibile che possa essere avvenuto il cammino inverso. E i danni? Ma in realtà la fantasiosa ipotesi di Amato non si sarebbe dovuta nemmeno porre se appena si fosse operata una comparazione dei danni nei vari ambienti, esterni ed interni. Se la tanica conteneva benzina, ed anche le fonti ufficiali ne convengono, bruciando deve aver prodotto dei danni. E se la tanica fosse stata sul pianerottolo, danni riportati dalle infrastrutture di questo avrebbero dovuto essere più che evidenti, ed anzi ingenti. Invece sul pianerottolo i danni sono quasi irrilevanti. E, comunque, solo da dieci a verdi volte inferiori a quelli riscontrati nell'ingressino e nella stanza dei due ragazzi. Qui infatti gli infissi sono carbonizzati per una profondità che va da dieci a cinquanta millimetri mentre sul pianerottolo gli infissi sono in larga parte intatti, e dove carbonizzazione c'è, solo eccezionalmente raggiunge due millimetri di spessore. Il punto di massimo calore Non solo: il potere calorico dell'incendio è stato elevatissimo nei due locali contigui — l'ingressino e la stanza di Virgilio e Stefano separati soltanto da una porta scorrevole che è risultata spalancata. Qui, infatti, tutti i vetri sono stati trovati fusi, compresi quelli delle lampadine. D'altro canto, però, nella stanza non sono bruciati né le vernici né i solventi che vi erano contenuti (Virgilio faceva il verniciatore): tra tanti solo un barattolo è stato trovato parzialmente combusto. Dunque in questi due locali deve essere bruciata qualche altra sostanza in grado di accentuare il potere calorico dell'incendio, in grado cioè di elevare moltissimo la temperatura, assai più di quanto possa fare, per esempio, il legno la lana, le fibre acriliche dei vestiti. Se questo «qualcosa» non è la

13) Atti, vol. 5°, p. 180.

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239 benzina contenuta nella tanica, che altro potrebbe essere? Logicamente le versioni ufficiali non lo spiegano affatto. anzi ignorano il fenomeno opposto accertato, che cioè il pianerottolo risulti investito da un'ondata di calore assai meno accentuata. Giustificazioni inventate I periti, posti dai consulenti della difesa di fronte a tutte queste incongruenze, hanno reagito cercando di costruire un autentico falso. Vediamo che cosa dicono: parlano di «tracce d'evidente combustione» (sul pavimento del pianerottolo) in prossimità del muro e in corrispondenza dello stipite (lato esterno) della porta n.5 (quella dei Mattei), e ravvisano queste tracce in alcune macchie biancastre che si rilevano sulle fotografie n. 41, 42, 43 del fascicolo dei rilievi tecnici n. 5 (14). E come si è detto, questo è un clamoroso falso. Infatti, nessun verbale di sopralluogo, nessun rapporto della polizia scientifica e dei vigili del fuoco, nessuna testimonianza, nessuno dei rilievi fotografici effettuati subito dopo l'incendio dalla stessa PS permette di riscontrare queste tracce. Né, del resto, i periti mai, in nessun sopralluogo, hanno fatto notare e verbalizzare queste famose tracce né comunque danni alle mattonelle del pianerottolo. Le scoprono, invece, due mesi dopo l'incendio e le scoprono osservando tre fotografie che sono andati loro stessi a scattare varie settimane dopo il rogo! E pensare che non ne avevano parlato neppure nel capitolo della loro relazione espressamente dedicato ai «rilievi delle condizioni dei pavimenti del pianerottolo del piano terzo e dell'ingresso n. 5»! Ed allora, che mai sono queste presunte «tracce di combustione»? Nelle tre foto di cui si parla, sul pavimento del pianerottolo spiccano alcune macchie: nelle foto 42 e 43 sono bianche ed estese a più mattonelle, di cui non si riescono a vedere gli interstizi; nella foto 41, invece, questi interstizi si notano con chiarezza, e le macchie sono diventate nere e piccole (in altre parole, si tratta di tracce di nerofumo!)). Insomma, delle tre foto di cui parlano i periti, la terza (la 41) mostra quelle stesse mattonelle perfettamente integre (solo

14) Vedi la perizia d'ufficio (punto f), p. 51.

240 un po' annerite dalla fuliggine) e bisogna quindi dedurne che all'epoca delle altre due fotografie le mattonelle siano state semplicemente ricoperte da una sostanza estranea biancastra. Ecco le famose macchie, le presunte «:tracce di combustione»: si scambiano come «danni» mucchietti di, detriti, cenere biancastra proveniente dal vicino montante della porta. Omissioni volute D'altro canto, però, i periti omettono di valutare l'unico significato che possono avere altri danni, che essi stessi hanno rilevato. Nella parte del loro lavoro dedicata ai «danni all'interno dell'appartamento», dopo aver affermato che «nessun danno hanno subito i rivestimenti e i pavimenti» (15) sono costretti ad ammettere che «tuttavia a proposito dei pavimenti c'è da mettere in rilievo una particolarità rilevata nel vano d'ingresso. All'atto del sopralluogo del 1° maggio '73 si è riscontrato che alcune mattonelle del pavimento erano distaccate dal sottofondo e rotte; i frammenti sono stati trovati in sito ma disposti irregolarmente» (16). Ed allora, perchè la tanica non è stata collocata proprio in quel punto, dove le mattonelle potrebbero essersi staccate passando da una situazione di elevato calore (la benzina della tanica che brucia) ad un brusco raffreddamento (i getti d'acqua dei vigili del fuoco provenienti dalla finestra)? Perchè i periti non hanno voluto collocare la tanica in questo luogo, cioè nella sua «sede naturale», dove gli infissi di legno più vicini risultano carbonizzati per una profondità di cinque volte maggiore che non lo stipite esterno della porta d'ingresso? Ma la logica e la coerenza mal si confanno a chi deve cercare un colpevole a tutti i costi. Il fiocco parlante C'è poi qualcosa di più che può dimostrare come la tanica stesse nell'abitazione dei Mattei e non fuori di essa, con tutte le conseguenze

15) Vedi la prima parte della perizia d'ufficio, capitolo dedicato alla descrizione dei «danni all'interno dell'appartamento», p. 33. 16) Ibidem

241 che questa verità comporta. Imprigionato nella pastica semifusa è stato trovato un fiocco. Un fiocco fin troppo eloquente, se esaminato con un minimo di doverosa obiettività. Ma andiamo con ordine: all'interno dell'abitazione furono repertati vari frammenti di tessuti e fiocchi di lana in gran quantità. In particolare fu trovato un frammento di coperta ancora intriso di idrocarburi, con ogni probabilità (dal tracciato gascromatografico) benzina «super» con tracce di cherosene. Vengono repertati anche «frammenti di coperta di tessuto chiaro ed un piccolo ammasso di fiocchi di lana» nell'ingressino dell'appartamento, e «un ammasso di fiocchi di lana in parte bruciati ed un frammento di stoffa bianca parzialmente bruciato» nella cameretta di Stefano e Virgilio. Ma torniamo al fiocco di tessuto trovato «imprigionato» nella tanica. Si deve pensare che il fiocco è rimasto intrappolato nella plastica chiusa, nel momento in cui le pareti laterali, essendosi rammollite per effetto del calore, si spandevano sul pavimento, tutt'attorno alla base rimasta intatta. Come dire, insomma, che questo fiocco doveva essere accanto alla tanica quando questa bruciava. In questo caso, essendo evidente l'analoga provenienza di questo fiocco e degli altri «fiocchi» e frammenti di tessuto trovati nell'appartamento, ecco una prova in più della presenza, all'interno di casa Mattei, della famosa tanica. E si può notare, ancora una volta, l'incredibile disinvoltura e le assurde omissioni dei magistrati. Essi infatti non accettano la richiesta della difesa di sottoporre ad analisi di confronto tutti i frammenti di tessuto e i fiocchi repertati, con il famoso fiocco intrappolato, e così nella sua requisitoria il P.M. Sica può tranquillamente affermare che il fiocco è parte di «uno straccio avente la funzione di innescare le fiamme al contenuto» della tanica (17). Questo straccio, secondo il magistrato, sarebbe stato posto - attraverso il bocchetto — nella tanica stessa. Non solo, ma con una delle maggiori eleganze forse di tutta la sua requisitoria, il P.M. assume a validità di quanto sostiene, ciò che egli stesso afferma. Come dire che, identificando aprioristicamente nel fiocco il residuo-di uno stoppaccio, colloca la tanica fuori dalla porta in quanto soltanto li avrebbe avuto ragione di essere uno stoppaccio. E viceversa: soltanto collocando la tanica fuori della porta, può essere pensabile che il fiocco dovesse provenire da uno stoppaccio.

17) Requisitoria, par. 7, p. 10.

242 Ma a parte che — l'abbiamo già visto — la tanica non poteva essere fuori da casa Mattel, l'ipotesi che i fiocchi siano un residuo di uno stoppaccio non regge per nulla. Il fiocco infatti è stato trovato adeso all'esterno e non all'interno del residuo di tanica, cioè all'esterno del residuo di plastica formatosi per fusione delle pareti laterali e ripiegatosi sulla base del recipiente rimasta intatta: se fosse stato inizialmente all'interno con funzione di stoppaccio da innesco, sarebbe stato trovato «dentro» e non «fuori», intrappolato tra la massa fusa della plastica delle pareti, laterali e la base intatta. Il frammento di coperta Quanto al frammento di coperta, il suo ritrovamento è certo estremamente imbarazzante per i periti, i quali infatti non l'hanno mai considerato nei loro documenti. Il frammento era ancora intriso di idrocarburi (quasi sicuramente benzina) pur dopo lo spaventoso incendio divampato per un'ora nell'appartamento. Una ennesima prova della presenza del combustibile all'interno e non all'esterno di esso. Come non pensare allora che questa coperta, così come i materassi di lana, i cui residui erano sparsi dappertutto, fu gettata sul liquido in fiamme nel tentativo di soffocare il fuoco? Ma anche di questo reperto evidentemente conveniva tacere a meno di non disintegrare il fragile castello faticosamente messo su dai periti. Come è bruciata la tanica Per l'incendio del recipiente dunque, c'è un'unica spiegazione : ne parlano gli stessi periti, di cui vale la pena di riportare le esatte parole: si può supporre— dicono — che il liquido in fiamme «eventualmente già presente sulle pareti esterne del recipiente o sparso per terra nelle sue immediate vicinanze, abbia provocato la combustione o fusione delle pareti in plastica, dando luogo alla fuoriuscita del residuo di benzina ancora incombusto» (18). Insomma, un processo rapido ma non istantaneo: le falle apertesi nella plastica hanno causato la fuoriuscita di combustibile che ha

18) Vedi «Chiarimenti» dei periti del 16 ottobre, pp. 2-3.

243 preso poi fuoco fino al successivo rammollimento completo delle pareti laterali. E questo, come si vede, si adegua perfettamente a tutte le testimonianze sull'evolversi del rogo, .che hanno parlato di una fase finale assai più intensa. Ma, soprattutto, si adegua perfettamente proprio alle prime dichiarazioni di Mario Mattei, il quale è scivolato in terra ustionandosi, su un liquido viscido in fiamme sul pavimento dell'ingressino (19). E se la tanica stava all'interno (e lo abbiamo già dimostrato). queste fiamme che hanno ustionato il segretario del MSI quando è scivolato a terra, devono essere state causate da quello stesso liquido in fiamme «sparso per terra inizialmente nelle immediate vicinanze» dalla tanica e che ne ha provocato l'innesco. Insomma la tanica era dentro e non fuori dall'appartamento di Mattei, vicino alla stanza di Stefano e Virgilio. Era proprio nel luogo dove più violento è stato l'incendio, l'unica dove vi sia stata combustione a livello terra. Attorno ad essa era sparsa una certa quantità di liquido infiammabile, sul quale - quando il fuoco si era già innescato — è scivolato il segretario missino di Primavalle, ustionandosi. Tutto questo è dimostrato dalla comparazione dei danni, dalle testimonianze dei primi soccorritori, dall'impossibilità che il recipiente di plastica stesse fuori dell'appartamento dove, del resto, nessuno l'ha mai visto; dalla meccanica dell'incendio così come è stata acquisita negli stessi atti ufficiali. Ne risulta, però, soprattutto un'altra considerazione: per giustificare la presenza di questa tanica i periti hanno ancora una volta ignorato i fatti oggettivi, stravolgendo completamente ogni logica. Ma i veri registi della situazione sono Sica ed Amato che, senza esitare, si trasformano in superperiti, pronti a mettere ogni cosa al posto giusto, pronti a costruire gli indizi in grado di giustificare l'ipotesi dell'attentato esterno e, con essa, l'intera montatura giudiziaria.

19) Interr. del 5-6-1973. Atti, vol. 5°, p. 163.

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Appendici

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I camerati si telefonano Queste sono le intercettazioni sui telefoni dei fascisti, protagonisti della vicenda di Primavalle, ordinate dal G.I. Amato, per un periodo che va dal 5 al 20 maggio. Sono state eseguite dall'Ufficio Politico della Questura di Roma nei confronti di Alessio Di Meo, suo padre Felice, Franco Fidanza, Marcello Schiaoncin, Antonio Giordani e Antonio Pais. Abbiamo deciso di pubblicarle, perché crediamo che anche da queste si possano trarre degli elementi importanti su questi protagonisti della vicenda. La prima cosa da notare è che i fascisti si mostrano molto preoccupati in occasione delle convocazioni del giudice, e fanno molte telefonate in proposito, raccomandandosi a vicenda di confermare ciò che avevano dichiarato precedentemente e di non lasciar capire che sono degli estremisti, avversari irriducibili della linea morbida di Almirante, e quindi di Mattei. Ma il fatto più grave che queste intercettazioni rivelano è sicuramente il rapporto che intercorre tra il commissario di P.S. Adornato e questi squallidi personaggi. Il «dottore» deve avere un rapporto molto intimo con i fascisti se arriva al punto di fare — lui personalmente — le comunicazioni delle convocazioni dal giudice, e perfino per telefono. Non è un caso che proprio Adornato abbia poi dato carta bianca a Di Meo per convincere Speranza a fare i nomi di «quelli di Potere Operaio». E' sempre questo esemplare funzionario dello Stato, poi, a minacciare Speranza, dopo le liti di questi col Di Meo, avvertendolo che lo avrebbe ritenuto responsabile di qualunque cosa fosse accaduta ai suoi amici fascisti: del resto le «cortesie» dovevano essere reciproche se il Di Meo andò proprio da lui giovedì 12 aprile a «predire» l'attentato a casa Mattei. Certamente questa amicizia profonda tra i fascisti e il dr. Adornato da molto da pensare. Tra l'altro ancora più grave e inammissibile è che Adornato, rispondendo ad Anna Schiaoncin che gli telefona per avvertirlo di alcune telefonate anonime ricevute, comunichi tranquillamente alla fascista che il suo telefono è sotto controllo. E' forse per questo che i membri della famiglia Schiaoncin sono sicuramente i più «cauti» nelle loro conversazioni telefoniche.

248 Apparecchio numero 6283220 intestato a Felice Di Meo - 6 maggio 1973 15,06 15,11 - ricevente; Anna chiama e dice ad Enrico (1) : aspetta che ti passo Mario. Enrico chiede a Mario se martedì va a pesca. Mario dice di avere l'appuntamento alle 6 di mattina e sono in cinque, quindi se vieni anche te siamo in sei e dobbiamo andare con due macchine perciò incontriamoci domani sera su da Pallica (2). Enrico dice: e se mi tirano le bombe là? Mario: vaffanculo. Enrico chiede dove deve andare adesso, Mario dice: che va a casa sua; Enrico: non andare se no ti ci mettono la benzina. Mario : non ti preoccupare. Poi i due parlano del confronto nonché dell'interrogatorio avvenuto oggi a Rebibbia tra Lampis e un'altra persona di cui non sanno il nome. Concordano cosa devono portare da mangiare durante la pesca. 21,35 21,42 - chiamante; Una donna parla con Rolando al quale chiede dove è andato Enrico. Rolando dice che è andato a mettere la macchina dove la mette sempre poiché gli hanno già rotto l'antenna. Rolando dice che alcuni ragazzi hanno fatto a botte nel negozio di frutta e verdura (3). 7 maggio 1973 - 14,55 14,58 - ricevente; Una donna riceve e dice: Marì, stai a casa? Marino: sto in zona. La donna: hai letto i giornali? Marino: no, me lo stanno dicendo adesso. La donna: tutti e tre accusati; il primo che hai detto, il secondo quell'altro, il terzo quell'altro; solo quello no, ancora niente. Marino: Lampis non sa niente. La donna: non ha detto niente ora dice che c'è Lollo e Clavo, e quell'altro chi è, l'hanno detto per televisione? Parlano di argomenti familiari e di Sergio che dovrà venire alle 4,30. 10 maggio 1973 - 13,55 14,00 - ricevente; Enrico telefona e chiede alla madre se ha rintracciato Graziano e Massera. La madre risponde di no. Poi Enrico informa la madre di aver ricevuto un invito, assieme a Franco Fidanza, per presentarsi dal giudice Amato oggi alle 18 al carcere di Regina Coeli. La madre raccomanda al figlio di ripetere le stesse cose che ha detto in passato. 14,44 14,47 - chiamante; Una donna chiama e dice a Enrico - ti passo tuo padre - il quale dice ad Enrico ; mi raccomando non dire che tu sei fascista, devi dire che sei iscritto alla Destra Nazionale. 16,59 17,00 - chiamante: La madre di Carlo Di Meo (4) prega il figlio di tenerla informata.

1) «Enrico» è il nome con il quale i familiari e quasi tutti gli amici chiamano Alessio Di Meo. 2) «Pallicca» è il proprietario dell'osteria di Primavalle dove spesso si riuniscono i fascisti, specialmente gli «ultra». 3) Il negozio di frutta e verdura di cui parlano i fascisti potrebbe essere quello dei fratelli Barbino, implicati nel rapimento di Paul Getty, dove si svolge un intenso traffico di armi e di droga. 4) Carlo Di Meo è il fratello di Alessio, che abita in via Tunisi 14.

249 17,14 17,40- chiamante; Una donna chiama e parla prima con Anna e poi con Clara, alla quale dice che il figlio è stato chiamato nuovamente al lungotevere. Poi parlano di argomenti familiari. 12 maggio 1973 - 10,00 10,08 - chiamante; Rolando e Clara prima parlano di problemi a carattere personale e poi commentano la sparatoria di ieri. 17,35 17,38 - ricevente; Un certo Giorgio chiede ai genitori il numero telefonico del figlio, cioè di Carlo Di Meo. Il padre di questi è titubante nel rispondere e dice di andare a casa sua, ma l'altro insiste nel chiedere il numero: 385791. 17,40 17,45 - chiamante; La madre di Carlo Di Meo telefona al bar per chiedere se hanno visto suo figlio. E' molto preoccupata anche perché i suoi amici lo stanno cercando. 18,00 18,05 - chiamante; La madre di Carlo telefona ad un certo Costalugo per chiedere di Carlo. Apparecchio numero 3381733 intestato ad Alessio Di Meo 8 maggio 1973 - 13,25 13,30 - ricevente; Ilanda chiama e parla con un'altra donna. Iolanda riferisce che Rigo (5) stamane è andato a pesca con Franco Fidanza e Varechina e che torneranno questa sera. Segue conversazione di bambino. 21,20 21,25 - ricevente; Telefona una donna e parla con Enrico. Accennano brevemente ai fatti di Primavalle e l'uomo poi riferisce che domani deve andare con Franco Fidanza in Questura per il rilascio del porto d'armi. 6 maggio 1973 - 22,03 22,15 - ricevente: Una donna parla con macchina del padre che gli hanno rotto l'antenna dell'auto, poi con la madre raccontando di una lite che hanno fatto vicino a dice che è intervenuta anche la Polizia e che l'uomo conosce aveva il crick in mano-e ne parlano a lungo.

la madre della parla il marito casa di questi, il ragazzo che

9 maggio 1973 - 9,58 10,02 - ricevente; Rigo parla con Carlo dicendo che insieme a Franco vanno al Commissariato a fare una denuncia, in seguito gli consiglia di fare il porto d'armi. Rigo dice che hanno aperto nuovamente la sezione, ben si pratiica con Lello e Bruno (6) non è missino, però ci sta bene l'ideale di Almirante ma Spallone l'accusa di essere missino. Carlo gli consiglia di tenere la bocca chiusa poi si danno appuntamento per domani pomeriggio. 10 maggio 1973 - 13,20 13,21 - chiamante: Enrico chiama e parla con Ivano dicendo che è stato convocato dal Giudice Dr. Amato per essere interrogato.

5) «Rigo» è il diminutivo di Enrico, cioe Enrico Di Meo. 6) Il Bruno di cui parlano i due fratelli fascisti è Bruno Di Luia.

250 13,55 13,59 - chiamante: Un uomo chiama la madre per dirle del biglietto d'invito. Le raccomanda di confermare quello che già ha dichiarato. 14,15 14,17 - chiamante: Conversazione tra due donne circa un invito per il giorno 10 alle ore 18,00 e, Vanda dice: «Preparatevi a rimanere vedove». 14,47 14,50 - chiamante: Di Meo chiama Peppino al quale riferisce di avere un pò di paura per la convocazione dal giudice per le ore 18. Di Meo, inoltre, dice che «quelli di Potere Operaio» stanno diffondendo dei manifesti nella zona di Primavalle dal seguente tenore: «Di Meo oltranzista, terrorista, ordine nuovo, ecc.». 14,51 14,53 - ricevente: Di Meo parla col padre e la madre, questi raccomandano al figlio di non dire di essere «fascista» ma della «Destra Nazionale». 19,19 19,20 - chiamante: Rigo chiama e risponde una donna e gli dice che è stato chiamato dal giudice per il confronto e lui dice che conferma tutto come ha dichiarato prima. 19,20 19,27 - ricevente: Una donna chiama (la mamma) e risponde un'altra donna e le riferisce che un momento prima aveva telefonato Rigo che è stato chiamato dal giudice per il confronto e non gliel'hanno voluto fare perché andavano di fretta e confermava tutto quello che ha detto prima e la prega di farlo sapere a Mamma. Segue conversazione familiare fra bambini. 20,55 20,57 - chiamante: Una voce d'uomo chiama e risponde una donna e chiede di Rigo sue notizie. Risponde che ancora non è rientrato. Segue conversazione fra due donne e dice che si sente agitata. 21,15 21,25 - ricevente: Fabrizio chiama e risponde Rolanda, parlano sulle condizioni di salute. La conversazione segue tra Rolanda e una voce di donna. Si informa se al telegiornale avesse udito novità, risponde di no. La donna è in pensiero per Rigo che non si è ancora visto. 21,55 21,59 - chiamante: Di Meo parla con una donna e un uomo ai quali dice che è stato sentito dal giudice Amato e che ha confermato tutto. Il confronto ci sarà un'altra volta e al giudice ho detto che quello che è capitato a Mattei poteva succedere anche a lui o a qualche altro. 11 maggio '73 - 11,31 11,32 - ricevente: Il commissario di P.S. Adornato prega la signora Di Meo di avvertire suo marito che, insieme a Fidanza e Pais, deve andare oggi alle ore 17 al carcere di Regina Coeli dal giudice Amato. 11,34 11,36 - chiamante: La signora Di Meo chiama la moglie di Fidanza e le riferisce della convocazione dal giudice. 11,37 11,38 - chiamante: La signora Di Meo parla col marito e lo avverte che alle ore 17 odierne è convocato nuovamente dal giudice Amato insieme a Fidanza e Pais. 11,58 12,00 - ricevente: La signora riceve una telefonata da Peppe e lo informa della decisione del giudice Amato.

251 12,20 12,21 - chiamante: Di Meo chiama Melori e lo prega di avvertire Franco Fidanza di telefonare a casa del cugino Di Meo con urgenza. 12,22 12,23 - chiamate: Di Meo telefona a Carlo e lo prega di accompagnarlo dal giudice. 12,24 12,25 - chiamante: Di Meo chiama casa Fidanza per sapere se Franco è stato avvertito. La signora gli risponde affermativamente. 12,47 12,51 - ricevente: Risponde Di Meo a Franco e prendono appuntamento per oggi pomeriggio per andare dal giudice Amato insieme ad Antonio Pais. 14,00 14,10 - chiamante: Chiama Di Meo e parla con una donna alla quale riferisce che oggi alle ore 17 deve ritornare là. Le dice anche: non ti preoccupare perché tutto è a posto. 19,45 19,46 - ricevente: Un uomo chiama e parla con una donna alla quale riferisce che tutto è a posto. 20,00 20,01 - ricevente: Un uomo chiama, risponde una donna alla quale dice che va tutto bene: ma dovranno aspettare ancora perché ne devono sentire un'altra; ma non c'è da preoccuparsi perché tutti sostengono le stesse cose. 12 maggio 1973 - 9,32 9,35 - ricevente: Conversazione tra due donne. La chiamante le domanda se il marito ieri sera ha fatto tardi. Le risponde di sì: Le dice che è andato tutto bene, si è trattato di un confronto; poi le dice che è uscito per cercare casa perché vogliono andare via di li perché hanno paura per i ragazzini. 9,36 9,939 - chiamante: Conversazione tra due donne. Parlano di problemi familiari e poi del confronto che c'è stato e che tutto è andato bene. 12,25 12,26 - ricevente: Conversazione tra due donne in merito ad una riunione del direttivo della nettezza urbana. 13,19 13,21 - ricevente: Un uomo chiama e parla con una donna. Questa gli riferisce che hanno telefonato dalla CISNAL perché lunedì ci sarà il direttivo della N.U. 16 maggio 1973 - 21,13 21,22 - ricevente: Una donna chiama e parla con un'altra donna. Poi la donna parla con Enrico. Questo dice che sono andati a vedere una casa con Peppe e Varechina al Km. 14 della Casilina, a Torre vecchia. Poi Enrico dice che si sarebbe interessato anche il segretario della sezione del MSI di Appio, inoltre dice che la casa è caruccia, però là i comunisti sono peggio di quà. Poi Enrico dice che ha ascoltato la radio e questa ha detto che il P.M. Sica (quello per il fatto di Primavalle) ha ricevuto una lettera minatoria che conteneva un proiettile ed era firmata da «Giustizia Proletaria». Parlano poi dei comunisti che ancora hanno il coraggio di fare queste cose. Poi Enrico dice del fatto di Lampis che gli hanno trovato le taniche e le targhe delle macchine che comprava dagli sfasciacarrozze per rivenderle. Inoltre dice che il Messaggero ha smentito tutto mentre prima aveva fatto la propaganda che gli avevano trovato tutta

252 quella roba. Poi dice che questo continua a rimanere dentro per far vedere che ancora esiste una pista. Infine dice che deve superare questo brutto momento perché si potevano anche sbagliare. Apparecchio numero 6275533 intestato a Franco Fidanza 10 maggio 1973 13,21 13,22 - ricevente: Enrico chiama e parla prima con Gianna e poi con Franco per comunicargli che è stato convocato per le ore 18 di oggi a Regina Coeli, stanza Magistrati, per essere sentito quale teste. Prima di recarsi dal giudice decidono di vedersi alle ore 16 e poi passano da Ivano. La conversazione di cui sopra è avvenuta agli apparecchi 627533 ed il 3381733 (7). 13,39 13,40 - chiamante: Franco chiama Enrico per informarlo che è stato convocato dal giudice. Si danno appuntamento alle ore 15. 11 maggio 1973 - 11,30 11,31 - ricevente: La signora Fidanza risponde al Commissario di P.S. Adornato. Quest'ultimo la prega di avvertire suo marito che è convocato dal giudice Amato, per le ore 17. Il predetto dovrà recarsi dal giudice unitamente al Di Meo e al Pais. 11,34 11,36 - ricevente: Una signora parla con la moglie di Di .Meo in ordine alla convocazione del giudice Amato. 17 maggio 1973 -11,35 11,36 - ricevente: Un uomo chiama e parla con una donna dicendogli di Gino che deve stare attento perché tira brutta aria. La donna risponde che già lo sa: volevi qualcosa? L'uomo risponde di no. 14,50 14,52 - ricevente: Telefona uno del Commissariato Monteverde. Apparecchio numero 6277049 intestato a Marcello Schiaoncin 5 maggio 1973 - 8,45 8,47 - chiamante: La signora Schiaoncin perla con il dott. Adornato delle telefonate, tre in tutto, ricevute questa notte e si scusa di averlo disturbato. Il dottor Adornato le dice di stare tranquilla anche perché c'è il servizio e dato che il chiamante non ha pronunciato parola che si potrebbe anche riferire ad uno scherzo. 7 maggio 1973 - 9,16 9,18 - ricevente: Due donne conversano su argomenti di carattere familiare. La chiamante dice: stanotte ho dormito male perché avevo paura che ti incendiassero casa. Prosegue scambio di saluti. 18,42 18,44 - ricevente: Augusto parla con una donna e dice: Che cosa è successo? la donna: niente, perché? Augusto: perché una vicina di casa mi ha detto che eri venuta due volte e che saresti ripassata più tardi. Va tutto bene? La donna: Peggio di cosi, sono preparata a tutto (8). 7,51 7,52 - chiamante: Rodolfo chiama e dice ad un uomo: Papà l'ha

7) Il secondo numero è quello corrispondente all'apparecchio di Di Meo. 8) Augusto e Augusto Timperi, fascista della sezione MSI di Primavalle.

253 chiamato il Giudice una mezzoretta fa e adesso non so dove si trova. Il ricevente dice ; adesso il giro Io va a fare il giudice. 10 maggio 1973 - 16,43 16,58 - chiamante: Anna chiama e parla con Liliana (9), apostrofando con parole offensive nei riguardi della moglie di Mattei e dicendo tra l'altro che era meglio che moriva lei e non lui, perché è una donna che odia tutti, serbando rancore. 14 maggio 1973 - 8,05 8.10 - ricevente: Luciana telefona e parla con Anna di argomenti vari, poi commentano delle troppe chiacchiere che sono state fatte per quella telefonata che è stata fatta al giornale. 19 maggio 1973 - 7,47 7,51 - ricevente: Un uomo chiede ad una donna cosa ha fatto ieri. La donna dice: non c'è l'ho fatta, non ho avuto il coraggio e sarebbe stato ancora peggio. La conversazione continua su argomenti familiari. Apparecchio numero 5237614 intestato ad Antonio Giordani 6 maggio 1973 8,02 8,06 -rcevente: Una certa Anna parla con la madre di Marco. Anna fa sapere alla signora che al giornale radio delle ore 7,30 hanno preso quello che aveva preso quel liquido e la signora risponde: per quella faccenda che riguarda me? Anna continua: si, e le dice di ascoltare il giornale radio delle ore 8,30. Infine parlano di cose familiari. 7 maggio 1973 - 19,05 10,07 - ricevente: Conversazione di carattere familiare tra una voce di donna (Liliana) e una voce d'uomo (zio). Una voce d'uomo ha chiesto a Ignazio di andare da Paolo che quella persona l'autista l'ha incontrata e dirgli qui che gli spiego (a casa). La donna in ascolto (liliana) risponde: viene subito. 8 maggio 1973 - 14,04 10,06 - ricevente: Conversazione tra due donne. Poi la chiamante parla con un uomo informandolo che sono state arrestate quattro persone. 14 maggio 1973 - 16,20 16,21 - ricevente: Una donna risponde: pronto, pronto. Ma il chiamante non risponde. La donna prima di chiudere la comunicazione dice: guardi che il telefono è sotto controllo, non faccia lo spiritoso. 18,47 18,48 - ricevente: Alberto Rossi chiede di Antonio che non è in casa. 20,45 20,54 - ricevente: La signora risponde a parla con Anna su problemi scolastici. Anna le dice poi di aver parlato con un maresciallo dei CC. Per conoscere la prassi per sottoporre un telefono (senza specificare quale) a controllo, il quale le ha risposto che è molto complesso e viene a costare molto.

9) Liliana è la moglie di Antonio Giordani.

254 Apparecchio numero 6250036 intestato ad Antonio Pais 6 maggio 1973 15,19 15,24 — chiamante: Elio chiama e parla con Gioacchino al quale domanda se bisogna andare in divisa o in borghese Gioacchino dice: in divisa e diglielo anche a Mario, a piazza S. Pietro alle 7 e dopo si fa la fiaccolata per Roma. Gioacchino dice: io non vengo perché esco coi miei, non so se faccio in tempo. Poi Elio dice che ha fatto a botte con Massimo er Peloso e gli raccomanda di non dirlo a nessuno. 10 maggio 1973 — 16,18 16,20 — ricevente: Corrado telefono n. 4951215 telefona e chiede di Rocco (10). Risponde la madre dicendo che è all'Università. Corrado gli dice di telefonargli domani mattina.

10) Rocco è il fratello di Antonio Pais ed è uno squadrista di Nuova Europa.

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Schiaoncin parla ai giornali

Pubblichiamo le tre interviste che Anna Schiaoncin, l'attivista del MSI a Primavalle, da tutti conosciuta nel quartiere come «la fascista», ha rilasciato a giornali diversi nei giorni immediatamente successivi all'incendio. In realtà è la prima quella che conta, dato che le altre due sono solo il tentativo fin troppo evidente e guidato da dirigenti del MSI di riparare alle «imprudenti» dichiarazioni rilasciate al «Messaggero». Tentativo che poi non riesce affatto, in quanto sono proprio le affermazioni più importanti ad essere ribadite, a conferma di quanto affermato la prima volta. L'intervista al «Messaggero», rilasciata il 17 mattina al giornalista Mario Pandolfo è tutta una accusa alle frange oltranziste e dissidenti della Sezione Giarabub; tra questi la Schiaoncin è sicura di aver individuato un «traditore», ex repubblichino, oggi vicino ad Avanguardia Nazionale, e lo accusa senza mezzi termini: «... sono persone come queste che ci rovinano». Le stesse cose la donna le aveva dette a Mario Mattei poche ore prima, quando era andata a trovarlo al S. Eugenio, ed aveva ottenuto il permesso di parlargli attraverso il citofono: «Adesso vado da Silvia. Il partito ci ha aiutato, ci ha pensato Spallone. Ieri ho ricevuto la telefonata che dopo toccava a me. Non ti spaventare per questo. La colpa è tua, sanno che sei un cervellone e gli davi fastidio» («Messaggero» 18 aprile e «Paese sera» 18 aprile). Sarà proprio per frenare l'eccessiva loquacità della Schiaoncin e la possibilità di altre dichiarazioni compromettenti, che il MSI si preoccuperà di prelevare i coniugi Schiaoncin e di nasconderli nella pensione Zara, a Via Quattro Fontane, accanto alla sede della Direzione centrale del MSI (Atti Vol. 1, pag . 124). Polizia e Magistratura li rintracceranno solo il 19 aprile. Durante il primo interrogatorio di Marcello Schiaoncin la donna, evidentemente non troppo rassicurata dall'ammaestramento del partito, griderà al marito, da dietro la porta dell'ufficio di Sica: «Cretino non fare nomi !».

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La moglie di Schiaoncin accusa i dissidenti del MSI dal « Messaggero » del 18 aprile '73

Anna Schiaoncin, la moglie di Marcello Schiaoncin attivista del MSI di Primavalle fatto segno a minacce di morte, pensa che gli autori del nefando attentato in cui sono morti bruciati i due figli del segretario missino Mario Mattei, siano forse da ricercarsi fra alcuni dissidenti del MSI, da un pezzo allontanati dalle file del partito. «No, non dovevano prendersela coi ragazzini — dice — hanno il coraggio dei vigliacchi». Contrariamente a quello che si poteva prevedere la donna non ce l'ha con i «cinesi» o comunque con gli estremisti di sinistra, ma si riferisce a un gruppetto sparuto di aderenti a formazioni extraparlamentari dell'estrema destra assai vicini ad «Avanguardia Nazionale». Sono in tutto cinque o sei persone: uno, detto «il traditore», abita a Primavalle ed ha intorno ai cinquant'anni, altri abitano uno a Forte Boccea, uno alla Pineta Sacchetti, uno al quartiere Aurelio, di altri ancora non si sa. «Ce l'avevano con Mario Mattei perché è troppo buono. Lo rimproveravano di essere troppo democratico, di non reagire alle provocazioni, di essere contrario alla violenza. Perché lui, Mario diceva sempre no quando volevano imbarcarlo in qualche impresa violenta o volevano spingerlo a reagire alle provocazioni dei «rossi». «Accettare le provocazioni — diceva il segretario — sarebbe come buttare allo sbaraglio questi giovani. E a che pro farlo?» e a questi cinque o sei scalmanati diceva: «Volete prendere il mio posto di segretario, volete la sezione? Prendetevela, ma almeno lasciatela aperta». Si riferiva, con questo discorso a quanto era accaduto due o tre anni fa. La sezione «Giarabub» è sempre stata divisa, a quanto sembra, in due correnti: «falchi» e «colombe». La «colomba» era Mattei. Due o tre anni fa, comunque prima che diventasse segretario, la sezione finì in mano dei «falchi» e Mario Mattei con i suoi seguaci la disertò puntualmente. Lui e i suoi camerati si riunivano tutte le sere in un bar. I dirigenti della sezione, frattanto, finiti i soldi che erano in cassa, chiusero bottega e l'ENEL tagliò persino i fili della luce. «Quando rientrammo — racconta la Schiaoncin — dovemmo usare una candela». Dopo la chiusura della sezione, la segreteria fu assunta da Mattei e circa un anno fa («comunque prima del primo attentato alla sezione», precisa Anna Schiaoncin) propose «il traditore» per l'espulsione dal MSI, inviandone la richiesta a Giorgio Almirante. «Fu espulso dal partito — prosegue il racconto — e non so dove andò a finire. Probabilmente passò a un gruppo di extraparlamentari. Dopo il primo attentato alla sezione, si fece rivedere e ci aiutò. Riprese così in qualche modo i contatti e Mario Mattei, che è un gran brav'uomo, non se la sentì di metterlo alla porta. Ci furono ancora proposte di azione violente alle quali il segretario si oppose sempre sostenendo

258 do che poi la responsabilità sarebbe ricaduta su di lui e sulla sezione. Che si aprissero una sezione per conto loro, se avevano il coraggio. Ma questo non l'hanno mai fatto perché hanno paura. Perché sanno che se aprono una sezione i "rossi" sanno dove cercarli». Il loro scopo — prosegue — era quello di far chiudere la sezione. All'Aurelio ci sono riusciti, ma con Mario Mattei hanno trovato un osso duro, un osso troppo duro per loro. Hanno cercato in tutti i modi di buttarlo giù e non c'erano mai riusciti. Solo ora ci sono riusciti, colpendogli i figli. Per buttarlo giù, non hanno esitato a far circolare le più grosse calunnie. Hanno detto che la moglie, Anna Maria, andava in giro a distribuire volantini comunisti e a vendere «l'Unità»; hanno detto che io ero l'amante di Mario Mattei e non soltanto di lui e che io lo mettevo su e che faceva quello che volevo io. Calunnie, niente altro che calunnie. Perché io Mario Mattei l'ammiro, lo adoro, come ammiro e adoro Giorgio Almirante. Intanto erano riusciti a farlo credere ad Anna Maria, la moglie di Mario e cosi era finita che non ci parlavamo più. Ci vedevamo soltanto in sezione, perché io ho tenuto duro e non gliel'ho data vinta a quei mascalzoni. In sezione con Anna Maria si parlava di politica e fuori nemmeno ci si salutava. Soltanto da 25 giorni, da quando le è morta la madre, abbiamo ripreso a parlarci. Anche i figli mi avevano messo contro, ma intanto non sono riusciti a sgretolare la sezione, non sono riusciti ad ottenere il loro scopo che era quello di far fuori Mario Mattei e me. No, non ce l'hanno con mio marito. E' con me che ce l'hanno. E abbiamo ricevuto bigliettini e telefonate anonime, io e Mario Mattei». Cinque o sei giorni fa, Marcello Schiaoncin ha trovato la sua macchina bruciata. Su un biglietto lasciato vicino all'auto (attaccato con dello scotch al bordo del marciapiede), c'era scritto: «fascisti attenti» e la firma era «Lotta di classe —Brigate Tanas». Tanas è il nome di un comunista ucciso a Primavalle. «Ma quale Brigata Tanas? —dice Anna Schiaoncin—non esiste nessuna Brigata». «Mi hanno telefonato anche la mattina del rogo. La casa di Mario ancora fumava. Erano le undici e mezzo quando il telefono ha squillato. Ho risposto io e una voce soffocata m'ha detto "State attenti, adesso tocca a voi"». E questo «traditore», questo personaggio, di cui Anna Schiaoncin non vuole dire il nome, quando era stato in sezione per l'ultima volta? E' vero che è stato venerdì, il giorno in cui, secondo certe voci, ci fu quasi una rissa tra missini in sezione? «Sì, è vero, ma io non c'ero. Quello che è accaduto me l'ha raccontato dopo la moglie di Mario. Sono ricominciati i soliti discorsi e Mario diceva che non si deve mai ricorrere alla violenza. Il «traditore» allora gli ha gridato in faccia «vigliacco» e Mario si è scagliato su di lui per picchiarlo. A trattenerlo sono stati i «volontari» che poi hanno buttato fuori «il traditore». Di questo «traditore» la signora non ha voluto dire nulla di preciso e nulla ha voluto dire degli altri del suo gruppo. Dagli accenni che ha fatto si ricava che abita a Primavalle, che ha combattuto nella repubblica di Salò e che e un tipo molto deciso. «Quando volevo da mangiare — si dice che raccontasse in sezione per dimostrare quanto valgano le maniere spicce — piantavo il pugnale sul tavolo e lo chiedevo. Nessuno me lo ha mai rifiutato». «Sono persone come queste che ci rovinano», dice sconsolata Anna Schiaoncin. Pensa a quello che è accaduto nella tragica notte fra domenica e lunedì e, piangendo, dice: «Se non avevo i figli mi ammazzavo. Che campo a fa' se succedono di queste cose? E' uno schifo, uno schifo, uno schifo. Però mi raccomando non scrivete tutto ciò che vi ho detto». Scriveremo l'indispensabile.

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Smentito il «Messaggero» da «Il Secolo» del 19 aprile '73 Anna Schiaoncin, la moglie di Marcello Schiaoncin, l'iscritto al MSI recentemente minacciato di morte dai comunisti dei vari gruppi che agiscono da anni a Primavalle, ha parlato nel pomeriggio di martedì con un giornalista del «Messaggero». «Ero all'ospedale di S. Eugenio — dice la signora Schiaoncin — e dovevo andare a quello di Santo Spirito. Mi si è avvicinato un uomo che ha cominciato a farmi delle domande, allora io gli ho chiesto chi fosse e lui mi ha detto che era un giornalista. Poi mi ha offerto di accompagnarmi al Santo Spirito». Quello che il giornalista ha pubblicato sul «Messaggero» glielo ha chiesto in macchina, lei cioè sapeva già che quell'uomo era un giornalista? Si La sua intervista, signora Schiaoncin, si apre con queste parole: «No, non dovevano prendersela con i ragazzini, hanno il coraggio dei vigliacchi». E il giornalista scrive che lei non ce l'aveva con i comunisti, ma con «un gruppetto sparuto di aderenti a formazioni extraparlamentari dell'estrema destra assai vicini ad "Avanguardia Nazionale". E' vero che lei, pronunciando quelle parole si riferiva a questo «gruppetto»? No, non e assolutamente vero. In realtà tra me e il giornalista ci sono stati due discorsi distinti: il primo riguardava gli attentati alla sezione del MSI ed ai suoi componenti ed era rivolto ai comunisti; il secondo, su richiesta del giornalista che era informatissimo, riguardava certi avvenimenti interni alla sezione che poi non sono mai stati troppo importanti. Perciò lei può smentire, nella maniera più categorica, d'aver mai fatto intendere nel suo colloquio col giornalista, che azioni di violenza contro la sezione del MSI di Primavalle ed i suoi iscritti potessero in qualche modo provenire da «gruppetti extraparlamentari di estrema destra?» Si, lo smentisco nella maniera più assoluta. Quando ho parlato di attentati mi sono sempre riferita ai comunisti. Il giornalista ha invece legato due discorsi ben distinti per inventare le cose che facevano comodo a lui. Al centro dell'intervista del «Messaggero» c'è, infatti, un lungo racconto sulle vicende interne della sezione del MSI di cui è segretario Mario Mattei, sono parole sue?

260 In gran parte si: il giornalista infatti mi aveva detto molte cose su quello che era successo nella nostra sezione ed io perciò ho cercato di specificarle meglio. Ma non so se poi sono riuscita. Chi è il traditore di cui ha parlato al giornalista? Non voglio dirne il nome e non l'ho detto neanche al signore del «Messaggero». Però io gli ho detto che questo ex-iscritto, poi espulso dal MSI è attualmente legato a certi comunisti che sono molto attivi a Primavalle, perciò, ho detto al giornalista, quando il «traditore» si muoveva contro il segretario Mattei, lo faceva per sgretolare la sezione e fare un regalo ai suoi amici comunisti. Ma tutto questo il giornalista non lo ha scritto perché non gli faceva comodo. Nella stessa intervista c'è una lunga storia riguardante i rapporti tra di lei, Mario Mattei e sua moglie Anna Maria: in questa descrizione molto dettagliata, si parla di gelosie e accuse reciproche tra lei e la moglie di Mattei. Si dice anche, però, che negli ultimi tempi era tornata la pace tra di voi. Lei, signora Schiaoncin, ha detto queste cose al giornalista del «Messaggero?». Si, ho avuto la debolezza di parlare con lui, di queste cose. Ma purtroppo è un fatto personale, quello dei miei rapporti con la famiglia Mattei, che mi angoscia. Però io avevo pregato tanto il signore del Messaggero di non pubblicare queste cose che riguardavano me soltanto, oltre che Mario e Anna Maria Mattei. Allora sono queste e non altre le cose che lei ha chiesto al giornalista di non pubblicare? Si sono soltanto queste cose. Eppure nell'intervista del «Messaggero» proprio alla fine, c'è scritto così: «Se non avevo figli m'ammazzavo. Che campo a fare se succedono queste cose? E' uno schifo, uno schifo, uno schifo. Però mi raccomando, non scrivete tutto ciò che vi ho detto». Gliel'ho detto, mi riferivo soltanto alle mie faccende personali sulle quali ovviamente non volevo pubblicità. Non al resto. Perciò lei dice che il giornalista ha legato tre cose insieme: gli attacchi dei comunisti di Primavalle alla vostra sezione, le faccende interne dei vostri iscritti ed ex-iscritti e addirittura le sue beghe personali e ne ha ricavato una cosa sola? Si, è proprio cosi. Ma lei, ad un certo punto dell'intervista ha detto riferendosi ai comunisti che vi minacciavano da tempo: «Ma quale Brigata Tanas, non esiste nessuna Brigata Tanas», come per far intendere che non credeva ad un pericolo comunista ma piuttosto ad una minaccia da parte di ex-iscritti al MSI. E' così? Non è così: quando si parlava dell'attentato alla macchina di mio marito che era firmato dalla brigata comunista «Tanas», il giornalista mi ha chiesto se io sapevo chi fosse Tanas, e gli ho detto di no, che non sapevo chi fosse e che comunque noi del MSI con questo Tanas non c'entravamo assolutamente. Perciò, dissi al giornalista, questi sono comunisti e basta, che ci vogliono far fuori tutti noi del MSI. Invece il giornalista ha rovesciato ogni cosa.

261 E le liti sanguinose di cui parla il «Messaggero» scoppiate in sezione tra iscritti ed ex? Mai avvenute liti sanguinose. Le pare che glielo sarei andata a raccontare a uno del «Messaggero»? C'erano state grosse discussioni, questo si, tra «il traditore» e il direttivo della sezione, ma questo l'avevo già detto. Perciò lei ha veramente detto: «Sono persone come queste che ci rovinano», parlando di questi ex-iscritti? — Si, l'ho detto. E mi riferivo a queste discussioni interne che non fanno bene a nessuno. Il giornalista invece lo ha scritto per far capire che io accennavo agli attentati che invece sono sempre stati, anche questa volta, fatti dai comunisti. E poi, lo ripeto, mi dispiace che il giornalista del «Messaggero» mi abbia tradito mettendo in piazza i miei fatti personali che non c'entrano niente con la politica. La signora Anna Schiavoncin ha visto, letto e sottoscritto questa intervista di smentita all'articolo pubblicato mercoledì 18 aprile sul «Messaggero».

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Tutto quello che so di Primavalle da « Gente » dell'11 maggio '73

Anna Schiaoncin, la «superinterrogata» nel corso delle indagini condotte dal sostituto procuratore Sica, ha deciso di raccontare davanti a un registratore, tutto quello che sa del rogo di Primavalle. Ha preferito che l'intervista venisse registrata, perché due giorni dopo l'attentato alcune sue dichiarazioni vennero sviate, a suo dire, e provocarono perciò uno «sbandamento», e cioè inaspettate interpretazioni sui motivi del delitto e sull'esistenza di una «pista nera» nel delitto di Primavalle. Anna Schiaoncin è una donna semplice, di dichiarata fede missina, ma non ha niente della «pasionaria»: minuta, fragile, appare ancora sconvolta mentre ricorda i momenti terribili nei quali, dalla strada ha visto morire il giovane Virgilio Mattei, affacciato alla finestra della sua casa in fiamme. Dopo aver sostenuto ore e ore di interrogatori, parla con convinzione, col tono di chi ha le idee chiare . Il suo racconto dei fatti che hanno preceduto e seguito la terribile notte della domenica delle Palme è in gran parte inedito. Signora Schiaoncin, il suo nome e quello di suo marito figuravano sul biglietto lasciato in casa Mattei al momento dell'incendio. Non ha paura? No. Qualunque cosa lei voglia chiedermi sono pronta a risponderle. Io sono stata sempre un'attivista del mio partito. Che cosa significa «attivista»? Qui da noi un po' tutto. Un'attivista fa le pulizie in sezione, diffonde i volantini, discute nella sezione, se è necessario attacca i manifesti. Lei era al corrente, personalmente, di quanto accadeva tra i vostri iscritti di Primavalle e gli avversari del vostro partito? Da quando è stata aperta la sezione c'era un continuo passaggio di studenti di «Potere Operaio» che insultavano e lanciavano sassi. Io li riconoscevo perché avevano una loro sezione sotto casa mia. Quando si apri questa sezione dei rossi, io dissi: «Ma proprio sotto casa mia dovevano venì. Così adesso so' controllata bene». Perché io lo sapevo che quelli ce l'avevano con me. Quando me vedevano, me salutavano col pugno chiuso, me dicevano le parolacce, e anche le minacce me facevano. Io gli rispondevo. Però, quando il 15 aprile dell'anno scorso ce incendiarono

264 la sezione, io corsi de notte, con mio marito, chiamata dal sor Mario, cioè il segretario Mattei. Ci ha preso una paralisi. Casa mia era tutta rotta. Casa sua? Si. Voglio di' nel senso che io appartenevo al Movimento Sociale e la sede del partito è casa mia. Comunque, dicemmo: «Pazienza, la ricostruiamo». Non si poteva non ricostruirla, perché loro lo dicevano sempre che a Primavalle ce dovevano sta solo i rossi. I cinesi, li chiamavamo noi. E poi il segretario Mattei ce lo disse che loro non permettevano che la sezione nostra funzionasse. Però lui era moderato. Ce diceva de sta' boni, de non rispondere alle provocazioni. Soltanto che nessuno di noi gli voleva dar campo libero, ai cinesi. Signora, si è parlato di dissensi in seno alla vostra sezione. Proprio lei ha tirato fuori questa storia delle liti tra Mattei e altri iscritti. Ha parlato anche di un traditore... Ecco, lì me volevano buggerà quelli dell'intervista. Io, se lei me crede, le voglio di' tutta la verità, come se lei fosse il giudice, e così se stanno zitti tutti. Io quel giorno dissi che in sezione ci doveva essere stato un traditore, uno che faceva conoscere i fatti nostri ai comunisti; e quelli l'hanno interpretato che qualcuno dei nostri aveva fatto l'attentato a Mattei. Ma come se po' pensà una cosa simile! Anzi, devo dire che quelli della corrente di «Ordine Nuovo», Zampetti, Fidanza, Di Meo, anche se facevano le discussioni con noi, col sor Mario, ce dicevano sempre «Se i cinesi vi attaccano, noi interverremmo». Sempre nostri, erano. Signora Schiaoncin, hanno anche detto altro: che c'era della simpatia tra lei e il segretario della sezione. Lo so, me l'ha chiesto anche il giudice. Ma che gli devo risponde a sta gente? Che so malevoli e che vogliono per forza metter zizzania? C'è stato un periodo che io e la Anna Mattei, la moglie del sor Mario, non ci siamo parlate, ma non per questioni di gelosia. Insomma voglio torna' a dire che le questioni che c'erano state in sezione erano sempre come quelle che succedevano, per esempio, in una famiglia, tra padre e figli. L'ho detto e lo ridico chiaro e tondo che erano i cinesi di «Potere Operaio» e di «Lotta Continua» che avevano sempre fatto gli attentati a noi. Vuole sapere quale era la nostra vita, giù in sezione, da che avevamo avuto il coraggio di metterci a contrastare il campo ai cinesi, a Primavalle? Mo' le dico tutto. Al principio si limitavano a piccole scritte, imbrattavano tutto, anche le nostre case scrivevano: «Fascisti attenti! Il proletariato si arma». Credevano che noi avremmo chiuso. Poi, visto che non ci curavamo delle loro minacce, sono passati ai fatti. E così arrivò alla distruzione della sezione, il 15 aprile dell'anno scorso. Ma poi niente. Ci rimboccammo le maniche, e ci mettemmo a ricostruire la sede. Allora quelli si misero a fa' comizi, le marce cinesi. Dicevano che i fascisti non ci dovevano sta' a Primavalle che è zona dei proletari, che noi eravamo tutti capitalisti. Pensi che io, tre bambini, mio marito e mio suocero, viviamo tutti in una stanza, senza cucina, e con centoventimila lire al mese. In questo periodo ce so' state le elezioni, prima le comunali e poi le politiche. Ci facevano angherie a non finire, quando attaccavamo i manifesti, quando uscivamo con le macchine. Distruggevano tutto quello che era nostro: altoparlanti, castelletti con la fiamma tricolore. Per fare 'ste cose, ho visto che venivano quelli di «Lotta Continua» da altri quartieri, anche dalla Balduina e da Prati. Erano tutti ragazzi, studenti del «Castelnuovo», in gran parte.

265 Intanto, nell'interno della sezione, cosa succedeva? Succedeva che dopo l'attentato del 15 aprile, molti avevano paura a venire, erano padri de famiglia, capisce? Eravamo rimasti in una quindicina, i più assidui, io e mio marito, i Mattei, e altri. Noi non avevamo paura. Anzi avevamo deciso che all'anniversario dell'attentato, proprio il 15, doveva venire il segretario del partito Almirante, a inaugurare di nuovo la sezione. Ma hanno cominciato una ventina di giorni prima a non darci pace. E ci buttavano le molotov e ci facevano le minacce. Io l'ho detto chiaro al giudice che erano stati i cinesi di «Potere Operaio» e di «Lotta Continua» ad ammazzare i ragazzi Mattei, perché li ho visti io quando ci attaccavano. La settimana de passione, è stata una vera settimana de passione pure per noi. Ci hanno attaccato un'ottantina di cinesi, una quarantina da un lato e una quarantina da un altro lato, ci hanno preso a mattonate, c'ero io... Io non potevo affermare che erano quelli della destra, perché quelli della sinistra li ho visti io, c'ero io presente alla sezione. E così, con la benzina in casa di Mattei hanno fatto il gran finale. Ma Mattei, qualche giorno prima della tragedia, era andato al Commissariato a denunciare questo stato di cose. Che cosa aveva ottenuto? Si, è vero. Ma lo sa quale era stato il risultato? Un poliziotto in borghese. Che poteva fa', poverello! E perché, la sera dell'ultimo attentato al tritolo non c'era una pantera di guardia? E che ha concluso? Quelli non hanno paura di nessuno, i cinesi. Io ce li ho qua, davanti agli occhi. Uscivano da dietro le macchine con le facce coperte dai fazzoletti rossi, i caschi, i bastoni, le molotov, e anche i coltelli. Ma che cos'è questa storia del «traditore»? Vuole spiegare a cosa alludeva? Ecco, io parlavo di Angelino Lampis. Non è stato un tesserato. Dice che era un simpatizzante, ma io non ci avevo simpatia per lui, ecco. Lui parlava troppo, sapeva troppe cose. Metteva in guardia Mario Mattei, e a me questo non mi andava. Perché, dicevo io, se dice qualcosa a noi per avvertirci, vuol dire che ha contatti con quelli, e se quelli gli dicono qualcosa, vuol dire che darà anche a loro le notizie sui nostri movimenti. Io la penso così: posso ringraziarlo perché ci informava, ma non sono riuscita a capire da che parte stava. Insomma, i compagni sapevano troppe cose di noi, ci spiavano. Comunque, questo Lampis, la mattina del funerale di Virgilio e Stefano ce lo siamo trovato vicino, io e mio marito, sotto la sede della sezione del partito. Si avvicina e chiede di parlare con qualcuno del partito. Era tutto sospettoso, si vedeva che doveva dire qualcosa d'importante. Cosi ci attirò nella guardiola del portiere, in disparte e fa: «Sapete, io la domenica pomeriggio che poi la notte c'è stato l'attentato in casa di Mattei, ho visto dei ragazzini con una lattina di benzina, sporca di catrame e di vernice rossa». (Le voglio dire, per inciso, che il catrame i rossi lo usano per certi tipi di molotov più micidiali, e che la vernice rossa gli serve per le scritte). «Dunque, se io riconosco questi due ragazzi, so' salvo», continua Lampis. «Perché io ho sentito che dicevano "pure questo benzinaio è chiuso". Quindi ho capito da questa frase che "sti ragazzini avevano girato parecchio per cercà benzina. Capite» . E poi ci diceva: «Questo accadeva domenica pomeriggio e la notte ci fu l'attentato». Allora io gli ho chiesto, a Lampis: «Dimmi come erano 'sti ragazzini». E lui ha detto che erano dai quattordici ai quindici anni e ce li ha descritti. 'Sti due ragazzini da come me li ha descritti, stanno sempre dentro a «Lotta Continua» e

266 «Potere Operaio» che stanno sotto casa mia. A quelli gli fanno dei piaceri, gli vanno a prende le sigarette, ecc. Bè, sti due ragazzini li ho visti passà davanti alla sezione con un motorino. Facevano da staffetta per loro, senza meno, con la scusa che venivano a trovare Rodolfo, il pupo mio. Senza meno qualche cosa facevano, magari senza capite. Io, per me, li avrei interrogati, perché, dico io, non lo so, ma loro stanno sempre lì dentro, Con i cinesi. Sarà stata fatalità, ma Lampis li ha visti che cercavano la benzina. Tutti e due abitano lì sotto, e con la descrizione che mi ha fatto sembrano proprio loro. Allora io dico: che aspettano a vedere di che si tratta? Signora, lei conosceva bene il netturbino Speranza? Prima era molto amico di mio marito, poi abbiamo rallentato l'amicizia per via della politica. Ma erano amici coi Mattei. Posso soltanto dire che in questi ultimi periodi mi piacevano meno che mai, perché frequentava «Potere Operaio» e «Lotta Continua». Tanto che io gli dissi, una volta: Ma che fai? Hai cambiato bandiera adesso? Te la fai con loro?». Dice: «Bè, io prima di mettermi insieme ai fascisti mi metto insieme con loro». Dopo questa risposta io non l'ho più nemmeno salutato, e allora ogni volta che passavo mi dava sempre battute: Fascista! Fanatica!». Chi frequentava Speranza? Quando usciva dall'osteria stava con loro. Dentro la sezione di «Potere Operaio» non ce l'ho visto mai, però parlava con loro, girava con loro, ed era molto amico di loro, e ultimamente, proprio Domenica delle Palme, l'ho visto che si portava i cinesi a casa. Hanno voglia i cinesi de di' che non ce so' stati. Chi erano queste persone? Magari li conoscessi! So soltanto che appartenevano a «Lotta Continua». Io quel pomeriggio non mi sono mossa da casa, so' stata dentro casa e affacciandomi al balcone ho visto che andavano in due, Aldo Speranza e un altro, in casa di Aldo. Questo era uno che vedevo sempre a «Lotta Continua», vestito di chiaro, un completo giacca e pantaloni color crema, un maglione col collo alto, ma non l'ho visto bene il colore. Era un biondino, con capelli lunghi e barba, ne grasso né magro sua altezza. Se lo vedo lo riconosco, ma non so il nome. Signora, questi vostri avversari erano soltanto extraparlamentari, o c'erano anche comunisti del Pci? Guardi, io debbo dirle la verità. Quando attaccavano i manifesti, spesso stavano insieme con quelli del Pci. E poi (questo l'ho visto pure con i miei occhi), quando hanno fatto la nuova sede di «Lotta Continua» e hanno dovuto fare un gran lavoro di sterro, lavoravano tutti quanti, che io anzi li ammiravo per quanto erano bravi; e chi dirigeva i lavori era uno del partito comunista che io conosco. Perciò hanno voglia a chiamarli «de sinistra», ma quelli so' comunisti, marxisti, e so' tutta una cosa. Per questo Anna Mattei disse giusto poverina, quando quella notte si mise a gridare «aiuto! I comunisti me stanno a dà foco alla casa!».

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Perizia e controperizia

Il 27 aprile 1973 il giudice Sica, dopo 11 giorni di indagini in cui non si è nemmeno posto il problema di accertare che cosa sia accaduto la notte del 16 aprile dentro l'appartamento dei Mattei, conclude con una richiesta di procedimento «nei confronti di ignoti, imputati di strage, e di incendio doloso». Non sa nemmeno se c'è stato attentato, è ricorso allo stratagemma di incriminare Lollo e Sorrentino per detenzione di esplosivi pur di tenere in piedi la pista rossa, è stato travolto dallo scandalo dei «due Marini» , ma insiste su «strage e incendio doloso», e intando lascia Lollo e Sorrentino indiziati dei due reati, e indizia «dei medesimi reati già attribuiti al Sorrentino anche Marino Clavo» (Atti I. 153). Solo il 30 aprile il G.I. Amato si decide ad ordinare la perizia tecnica sull'incendio. E' un passo verso l'accertamento rigoroso della verità? Niente affatta. Dopo una settimana — il 6 maggio — senza attendere i risultati, liquida il vergognoso affare Sorrentino, e trasforma gli «indiziati» in «imputati». A Sorrentino subentra Clavo, e si aggiungono Aldo Speranza (il superteste che ora occorre terrorizzare per ottenere qualcosa in più che non la «visita in ora inconsueta») e Manlio Grillo, per cui basta l'identificazione come il «terzo» che si trovò in casa Speranza la sera del 15 aprile. La perizia ha quindi per i giudici solo una funzione: fornire una conferma alle motivazioni dei mandati di cattura già emessi, far risultare una spiegazione dell'incendio adeguata alla tesi precostituita dell'attentato dall'esterno. Per ottenere questo basta ai giudici formulare quesiti che danno già per scontato la loro tesi: ai periti infatti non si chiede di accertare «dove e in base a quali cause divampò l'incendio» sulla base dei rilievi tecnici e dei dati oggettivi, bensì di descrivere semplicemente «come fu appiccato il fuoco». E a maggio i periti d'ufficio — l'ing. dei VV.FF. Fabio Rosati e il prof. Claudio De Zorzi — assolvono prontamente a questa funzione con una «relazione preliminare» di tre pagine, di una avvilente povertà tecnica, nella quale per dimostrare l'indimostrabile — come cioè, ammesso un focolaio esterno, il fuoco potesse passare all'interno — si cacciano in contraddizioni

268 inestricabili. Sanare queste contraddizioni diventa allora il secondo compito — il più importante — dei periti, stretti tra le pressioni dei giudici e le obiezioni dei consulenti della difesa che chiedono (inutilmente) la verbalizzazione di dati incompatibili con la tesi preconcetta del «fuoco all'esterno». E' così il 26 giugno i periti cercano una soluzione con un secondo documento, la «perizia d'ufficio», in cui le contraddizioni sono superate con rocambolesche trovate: l'incendio fu appiccato «aspergendo» della benzina sulla faccia esterna della porta di casa Mattei — benzina che in parte si sparse sul pavimento del pianerottolo — e poi vi fu dato fuoco, Che importa se lo zerbino che stava sul pianerottolo non presenta tracce di idrocarburi, se i danni sul pianerottolo sono irrilevanti al confronto con quelli dell'interno di casa Mattei, se non v'è traccia d'incendio sugli scalini immediatamente inferiori al pianerottolo (il che significa che nemmeno una goccia di benzina è traboccata per le scale?). Basta dire — per giustificare tutto ciò — che la benzina doveva essere in quantità minima; al massimo due litri! Ma, come spiegare che il fuoco si è propagato verso l'interno dell'appartamento, se gli stessi «periti d'ufficio» devono ammettere che ciò non sarebbe, in nessun caso, potuto avvenire con la porta chiusa, protetta per di più da una soglia di marmo rialzata? Per rispondere i periti non esitano a cadere nel ridicolo: il fuoco — prodotto da un mezzo così ridotto — passò all'interno... quando qualcuno dei Mattei aprì la porta! A quali assurde conclusioni portasse questa fantasiosa tesi fu dimostrato dalla controperizia presentata il 9 luglio, che smantellò punto per punto le affermazioni dei periti e ricostruì una rigorosa e inoppugnabile meccanica dell'incendio fondata, oltreché su dati scientifici, sulle stesse testimonianze dei Mattei che i periti avevano ignorato. Fu un colpo duro per Sica e Amato: avevano chiesto una tranquilla conferma della tesi accusatrice e ne riceveranno una clamorosa smentita. Nell'imbarazzo lasciano così altri due mesi Lollo in galera, senza chiudere l'istruttoria, e il 29 settembre tornano a convocare i periti, chiedendo loro alcuni «chiarimenti» che, nelle domande, contenevano già implicite risposte. Ma ancora una volta le risposte non furono quelle che si aspettavano e le contraddizioni aumentavano. A questo punto Sica si trasforma in superperito, smentisce i periti d'ufficio e dà la sua soluzione: i litri di benzina usati non erano due ma dieci, e se non traboccarono e non bagnarono lo zerbino è perché erano contenuti in una tanica, completa di stoppaccio, posta sul pianerottolo. Una tanica che intanto la polizia scientifica aveva fotografato dentro l'ingresso dell'appartamento! La perizia d'ufficio, nella parte che si riferisce alla dinamica dell'incendio, e le perizie dei consulenti di parte che pubblichiamo qui di seguito valgono più di qualsiasi commento.

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Perizia

Dai vari rilievi ed elementi di fatto più innanzi illustrati e dagli altri, di dettaglio, riportati nei verbali di sopralluogo si è pervenuti, per ciò che concerne l'incendio, alle conclusioni che di seguito si specificano. Un focolaio di limitate dimensioni, ma di notevole intensità calorica, si è sviluppato nel ripiano delle scale fra le porte di ingresso degli appartamenti n° 5 e 6, ma più in prossimità di quella dell'int. 5. Lo sviluppo dell'incendio nell'interno dell'appartamento n° 5 non può essere avvenuto se non con la porta d'ingresso in posizione di apertura. Ciò trova conferma: a. nella entità e natura dei danni rilevati sulle pareti e sul soffitto del ripiano, i quali danni sono dello stesso tipo e della stessa importanza di quelli subiti dalle pareti, e dai soffitti degli ambienti interni; b. nel notevole surriscaldamento necessario a portare all'accensione il legno della porta dell'appartamento n° 6, surriscaldamento superiore a quello che potrebbe essere prodotto dall'azione di soli prodotti della combustione; c. nella imponenza dei depositi carboniosi sulle pareti delle scale, in particolare fra il 3° e 4° piano; d. nella mancanza di danni dovuti all'azione diretta delle fiamme sulla faccia interna della porta dell'int. 5; e. nella combustione molto marcata della faccia esterna del telaio fisso della porta dell'int. 5; f. nelle alterazioni del pavimento del ripiano, in prossimità del muro, in corrispondenza dello stipite della porta dell'appartamento n° 5 (vedi foto n° 41, 42 e 43) ; g. dai danni riscontrabili sulla soglia prima della sua rottura al termine dell'incendio (vedi foto n° 10 fascicolo 1) e sulla assenza di tali danni sul lato interno; h. dal susseguirsi delle fasi dell'incendio come risulta dalle deposizioni di Ciarmatore e Perchi «presenza di molto fumo e poche fiamme» uscenti dalla finestra della camera di Virgilio Mattei (Ciarmatore) e «porta dell'appartamento del Mattei in fiamme» (Perchi). A questo proposito si deve tener conto dei diversi e successivi tempi cui si riferiscono le deposizioni. E' verosimile che il focolaio dell'incendio sia da attribuirsi alla combustione di benzina di tipo «super», mista a tracce di cherosene, e che tale focolaio si sia sviluppato versando una limitata quantità di liquido, non superiore ai due litri, sulla porta di ingresso, lato esterno. Tali considerazioni trovano conferma nei seguenti punti: a. e stato rinvenuto un residuo parzialmente fuso e combusto di tanica di plastica in cui era ancora evidenziabile la presenza di benzina super e tracce di cherosene (vedi tracciati allegati);

270 b. le ridotte dimensioni del contenitore di plastica; c. le prove di diffusione di liquido sul ripiano antistante l'appartamento n° 5 per quanto effettuate con sola acqua, hanno dimostrato che un quantitativo superiore di liquido versato sul pavimento in questione,. traboccherebbe sulla rampa della scala ; d. la limitata durata e violenza del focolaio iniziale dell'incendio, comprovata dalla accertata transitabilità delle scale subito dopo l'allarme; e. la assenza di tracce di combustione sul piano inferiore della predella della porta di ingresso. Gli scarsissimi effetti, da calore, su tutta la parte bassa della faccia interna della porta di ingresso, la loro pressochè totale assenza nella zona centrale. Tali dati inducono altresì a ritenere che l'inizio della combustione si sia verificato a porta chiusa; ma la presenza della soglia di marmo sulla quale appoggiava la predella non avrebbe consentito il passaggio delle fiamme al di sotto della porta stessa o l'aggiramento di questa, cosa che si sarebbe verificata nel caso di una sua non completa o imperfetta chiusura. La diffusione dell'incendio all'interno dell'appartamento ha avuto origine dall'azione innescante della faccia esterna della porta di ingresso in fiamme, per trasmissione al materiale più facilmente combustibile rappresentato dagli indumenti appesi all'attaccapanni e dalla vernice delle porte della cucina e del bagno. La porta della stanza da letto matrimoniale rimase invece scarsamente interessata dalle fiamme perché protetta dalla parte posteriore, non infiammata, della porta d'ingresso. Le ridotte dimensioni dell'ambiente ingresso hanno altresì contribuito a facilitare l'azione innescante di cui sopra. Non va dimenticato che le due porte della cucina e del bagno, sebbene attaccate dalle fiamme, hanno costituito un temporaneo schermo alla diffusione di queste nell'interno dei due ambienti; a conferma della posizione di chiusura delle due porte durante l'incendio stanno la assenza di tracce di combustione sulle battute verticali delle porte stesse. Ciò non si è constatato per la porta a coulisse della stanza dei due giovani. Anzi è da ritenere che questa fosse aperta durante l'incendio, in quanto resti carbonizzati della stessa furono rinvenuti in posizione di apertura (vedi foto n° 76, 77). In assenza di tale protezione l'incendio favorito, come si è detto, dalla ristrettezza dell'ambiente ha avuto più facile occasione di estendersi in questa direzione. Qualora a ciò si aggiunga la notevole quantità di materiale facilmente combustibile presente nella stanza stessa (vedi foto n° 70) risulta comprensibile come le fiamme abbiano assunto una particolare intensità in questo ambiente, come anche si può rilevare dalle foto delle due vittime. Non possiamo tuttavia precisare quale contributo possa aver dato a tale fenomeno il rinvenimento delle vernici e dei solventi di cui al verbale in data 28 maggio 1973. Ciò in quanto solo un barattolo di vernice e risultato sicuramente interessato dalle fiamme. Per quanto concerne invece il campione di acqua ragia, mentre non si può escludere che i vapori della stessa possano aver partecipato all'incendio, non ne possiamo precisare l'entità in quanto non è noto il volume del liquido precedente all'incendio stesso. E' da rilevare come nessun elemento è stato riscontrato che possa far pensare all'eventualità di una esplosione sia all'interno che all'esterno dell'appartamento in questione. L'incendio, infine, prescindendo dalla sua tragica conclusione, non è risultato particolarmente grave in quanto non ha determinato pericoli di crollo, non ha escluso la transitabilità delle scale attraverso le quali gli occupanti dell'edificio hanno potuto porsi in salvo, ed è rimasto pressoché confinato esclusivamente in soli due degli ambienti costituenti l'appartamento della famiglia Mattei. La posizione del focolaio di incendio ha tuttavia gravemente compromesso le possibilità di salvezza degli

271 occupanti dell'interno n° 5, rendendo estremamente difficile per gli stessi l'uscita sulle scale.

Conclusioni In base ai rilievi da noi eseguiti ed alle considerazioni sopraesposte possiamo così rispondere ai quesiti del Magistrato: L'incendio dell'appartamento della famiglia Mattei fu avviato dalla combustione di un limitato quantitativo di liquido infiammabile sul ripiano del pianerottolo che unisce gli appartamenti n° 5 (Mattei) e n° 6. Il liquido in questione è da identificarsi in benzina, tipo super, mista a tracce di cherosene, versata con ogni probabilità sulla faccia esterna della porta di ingresso dell'appartamento n° 5 in quantità non superiore ai due litri. La diffusione dell'incendio all'interno dell'appartamento ha avuto origine dall'azione innescante della faccia esterna della porta di ingresso in fiamme, per trasmissione al materiale combustibile presente nell'andito di ingresso. La ristrettezza dell'ambiente e la disposizione delle porte dei vani comunicanti con l'ingresso, la presenza di abbondante materiale combustibile in uno di essi, stanza da letto dei due giovani, hanno favorito l'estendersi dell'incendio verso questa ultima stanza nella quale ha assunto particolare intensità, mentre sono rimaste sufficientemente protette le altre. L'incendio ha interessato il ripiano delle scale tra gli appartamenti n° 5 e n° 6, il vano-ingresso e la stanza da letto dei due giovani Mattei; in misura molto limitata la stanza tinello dove dormivano le figlie Mattei, la camera da letto matrimoniale ed il bagno. Nessun altro ambiente dell'immobile è stato interessato dall'incendio ad eccezione della tromba delle scale invasa dal fumo. I danni prodotti dall'incendio sono di entità limitata; non avendo in nessun modo interessato le strutture portanti dello appartamento incendiato né tantomeno il resto dell'immobile. L'incendio non ha presentato fonte di pericolo grave per gli occupanti dello stabile, mentre ha gravemente compromessa la possibilità di salvezza degli occupanti dell'interno n° 5. I periti Ing. Fabio. Rosati Prof. Claudio De Zorzi

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Controperizia

Premessa La relazione dei periti d'ufficio dà la seguente «ricostruzione dell'incendio» che ha sconvolto l'appartamento Mattei: 1. I periti affermano innanzi tutto: «Un focolaio di limitate dimensioni, ma di notevole intensità calorica, si e sviluppato nel ripiano delle scale fra le porte di ingresso degli appartamenti n° 5 e 6, ma più in prossimità dell'interno 5» (pag. 49). I periti, in altre parole, affermano che l'incendio è nato sul pianerottolo del 3° piano tra le porte di casa Mattei (int. 5) e di casa Perchi (int. 6), ma più vicino a casa Mattei. Si noti bene che i periti, subito dopo aver avanzato l'ipotesi di un incendio iniziale esterno, sono costretti a fare un'importante ammissione per non cadere, immediatamente, in plateali contraddizioni, e cioè: «Lo sviluppo (successivo; n.d.r.) dell'incendio nell'interno dell'appartamento n° 5, non può essere avvenuto se non con la porta d'ingresso in posizione d'apertura» (pag. 50). Già nella contro-relazione preliminare della difesa, che rispondeva ad una prima breve relazione preliminare presentata dai periti d'ufficio a maggio, avevamo dimostrato che: «l'incendio interno è avvenuto sicuramente per un lungo periodo con la porta d'ingresso sul pianerottolo spalancata» (pag. 3 della nostra contro-relazione). 2. I periti affermano ancora: «E' verosimile che il focolaio dell'incendio sia da attribuire alla combustione di benzina "super", mista a tracce di cherosene, e che tale focolaio si sia sviluppato versando una limitata quantità di liquido, non superiore ai due litri, sulla porta di ingresso, lato esterno» (pag. 51). 3. I periti ritengono poi: «che l'inizio della combustione si sia verificato a porta chiusa» (pag. 52). 4. I periti affermano anche che: «la presenza della soglia di marmo sulla quale appoggiava la predella (1) non avrebbe consentito il passaggio delle fiamme al di sotto della porta stessa o l'aggiramento di questa» (pag. 52). 5. I periti affermano: «La diffusione dell'incendio all'interno dell'appartamento ha avuto origine dall'azione innescante della faccia esterna della porta d'ingresso in fiamme, per trasmissione al materiale più facilmente combustibile rappresentato dagli indumenti appesi all'attaccapanni e dalla vernice delle porte della cucina e del bagno» (pag. 53). In altre parole, secondo i periti: a) l'incendio entrò dall'esterno all'interno solo dopo che la porta era stata aperta: b) l'agente innescante dell'incendio interno furono le fiamme sulla faccia esterna della porta di ingresso; c) il materiale che prese fuoco per primo all'interno fu costituito dai vestiti e dalle vernici delle porte — ossia il «materiale più facilmente combustibile presente nell'ingresso».

274 I periti quindi ammettono che non era stata fatta filtrare in precedenza benzina o altro combustibile dall'esterno all'interno, tenuto anche conto della presenza della soglia rialzata di marmo «messa in opera originariamente... ai fini della tenuta d'aria» (pag. 31). 6. I periti affermano, per quanto riguarda la porta scorrevole della stanza dei ragazzi: «che questa fosse aperta durante l'incendio, in quanto resti carbonizzati della stessa furono rinvenuti in posizione di apertura. In assenza di tale protezione, l'incendio, favorito, come si e detto, dalla ristrettezza dell'ambiente, ha avuto più facile occasione di estendersi in questa direzione. Qualora a ciò si aggiunga la notevole quantità di materiale facilmente combustibile presente nella stanza stessa, risulta comprensibile come le fiamme abbiano assunto una particolare intensità in questo ambiente, come si può anche rilevare dalle foto delle due vittime» (pag. 54),... «mentre sono rimaste sufficientemente protette le altre (stanze, ndr)» (pag. 56). Esamineremo di seguito, uno per uno, i punti della perizia d'ufficio, facendo notare quali siano i punti scientificamente attendibili e quali invece inattendibili o chiaramente errati. Nella seconda parte della nostra relazione, dimostreremo come l'unica ipotesi possibile sia quella di un fuoco nato all'interno dell'appartamento, con ogni probabilità nella stanza dei ragazzi. 1. Confutazione delle tesi della perizia d'ufficio 1. L'asserzione dei periti che il fuoco ha avuto origine esterna non solo è priva di fondamento, ma è contraddetta da numerosi elementi di fatto. Ci limiteremo, per ora, a confutare semplicemente le argomentazioni — ben misere ed ambigue in verità — che i periti portano a sostegno della loro tesi. Nel seguito di questa stessa relazione dimostreremo, poi, che la tesi dei periti è completamente erronea. Già nella loro relazione preliminare di maggio, i periti avevano affermato che l'origine dell'incendio era esterna. A sostegno di tale ipotesi i periti ricordavano: (a) «la presenza di depositi carboniosi sulle pareti del pianerottolo e sulle scale»; (b) «la rottura di alcuni vetri delle scale superiori», causata presumibilmente dalla colonna scendente di aria calda (c) «la carbonizzazione della facciata esterna della porta» dell'appartamento di fronte a quello della famiglia Mattei (cioè, l'appartamento Perchi). Nella nostra contro-relazione preliminare, già depositata presso il G.I., noi dimostravamo che, essendo rimasta la porta di ingresso aperta per un lungo periodo durante lo svolgimento dell'incendio — fatto indiscutibile e che gli stessi periti d'ufficio ammettono — i tre elementi ora menzionati (a, b, c), specie se più analiticamente esaminati, dovevano essere più correttamente interpretati come effetti del .fumo, delle fiamme e dei gas caldi che uscivano dall'appartamento Mattei in fiamme attraverso la porta d'ingresso aperta. Nella loro relazione definitiva, i periti tentano di seguire la stessa via, attribuendo ad un ipotetico incendio esterno le tracce all'esterno dell'appartamento, in realtà dovute al fatto che la porta era aperta durante l'incendio. Essi affermano che la loro ipotesi di fuoco iniziale esterno trova conferma: a) «Nell'entità e natura dei danni rilevati sulle pareti e sul soffitto del ripiano, i quali danni sono dello stesso tipo e della stessa importanza di quelli subiti dalle pareti e dai soffitti degli ambienti interni». La banalità di questo argomento è evidente: se si ammette — come fanno i periti — che lo sviluppo dell'ipotetico fuoco sul pianerottolo è stato di «limitate dimensioni», mentre un fuoco di notevoli dimensioni è divampato all'interno per molto tempo, con la porta aperta, i danni suddetti — anche volendo dare l'ipotesi dei periti per buona — devono essere attribuiti alle fiamme e ai gas combusti provenienti dall'interno; in altre parole, i danni citati non possono essere

275 spiegati con l'ipotesi di un incendio iniziale «di limitate dimensioni» all'esterno (vedi anche la nostra contro—relazione preliminare). b) Altro argomento dei periti è il seguente: «Il notevole surriscaldamento necessario a portare all'accensione il legno della porta dell'appartamento n° 6 (casa Perchi, n.d.r.), surriscaldamento superiore a quello che potrebbe esser prodotto dall'azione di soli prodotti della combustione». Tale argomento è dello stesso tipo del precedente: si cerca di contrabbandare per effetti di un ipotetico fuoco sul pianerottolo, gli effetti del fuoco e dei gas caldi che uscivano dalla porta aperta di casa Mattei, e che nell'ascendere verso l'alto della tromba delle scale, che funzionava da camino, dovevano prima lambire la porta n° 6, che si trovava vicino alla rampa ascendente di tali scale. Ripromettendoci comunque una più ampia e scientifica analisi su questo punto, ricordiamo anche la testimonianza rilasciata dal sig. Perchi, inquilino dell'interno 6: — «Aprii la porta e fui avvolto da una vampata di fumo e di caldo». — «Ebbi appena il tempo di intravedere che la porta dell'appartamento del Mattei era aperta e in fiamme... Le fiamme divampavano nell'interno della casa... Nell'ingressino le fiamme divampavano sulla porta della stanza dove dormiva Silvia Mattei» — «Sul pianerottolo quando io aprii la porta di casa non c'erano fiamme». — «Notai anche che la porta di casa mia per il grande calore stava prendendo qua e là fuoco». Resta quindi stabilito il fatto che ne il Sig. Perchi, che abitava di fronte al Mattei, né alcun altro testimone hanno mai visto l'incendio sul pianerottolo.. c) Secondo i periti, la loro tesi trova conferma anche: «nell'imponenza dei depositi carboniosi sulle pareti della scala in particolare tra il 3° e il 4° piano». Anche quest'argomento è dello stesso tipo dei precedenti. Proprio l'imponenza dei depositi carboniosi porta a pensare che essi siano dovuti al lungo incendio interno (a porta aperta) e non all'ipotetico «limitato» incendio esterno. Anche volendo ammettere per assurdo, che la tesi dei periti sia valida, bisognerebbe dire che i depositi lasciati all'inizio dall'incendio esterno sono stati coperti da quelli dell'incendio interno. L'affermazione dei periti non ha perciò significato alcuno, a meno che essi non assumano che, proprio mentre casa Mattei va a fuoco ed è «praticamente danneggiato o distrutto quanto contenuto sia nella stanza dei ragazzi che nell'andito dell'ingresso» (pag. 43) e «mentre si sviluppa un incendio di rilevanti dimensioni con particolare intensità di fuoco nella stanza dei ragazzi» (vedi pag. 54), non si abbia informazione, propagazione e deposito di residui carboniosi! d) La tesi. dei periti — a loro dire — trova conferma anche: «nella mancanza di danni dovuti all'azione diretta delle fiamme sulla faccia interna della porta dell'interno 5». Questo punto prova solo che la porta era aperta durante l'incendio interno dell'appartamento! Infatti, è evidente che, proprio perché la porta di ingresso era aperta durante l'incendio interno ed addossata al muro con la faccia interna, essa si presentava rispetto alle fiamme provenienti dall'interno dello appartamento —provenienti cioè dal vano di ingresso e dalla stanza dei ragazzi con la sua faccia esterna esposta (vedi schizzo dell'appartamento Mattei, p. 238). Le caratteristiche della combustione della stessa. porta (un lato molto più interessato che non il lato opposto) non si discostano sensibilmente dai danni delle altre due porte (bagno e tinello— cucina) che, essendo state chiuse durante l'incendio nell'ingresso, presentano la faccia verso l'ingresso combusta e l'altra integra. e) La tesi dei periti troverebbe riscontro: «nella combustione molto marcata della faccia esterna del telaio fisso della porta dell'interno 5». Tale argomentazione dimostra solo che anche la faccia esterna del telaio fisso è stata marginalmente lambita dal fuoco e dalle fiamme che uscivano dall'appartamento in fiamme. Quando si dice «marginalmente», si vuole innanzi tutto ricordare che, come si desume dai

276 rilievi fotografici (2) la parte interna del telaio è intaccata molto più in profondità di quella esterna (è ciò si spiega col fatto che il fuoco proveniva dall'interno; vedi fotografie 20 e 21 della polizia scientifica). D'altra parte, si legge nel verbale della riunione dell'8 giugno 1973 che lo stesso consulente di parte civile fa presente che: «anche la carbonizzazione della parte esterna del telaio fisso della porta di ingresso sul montante destro è interessata per la profondità di 2-3 mm. circa. Tale profondità è di 5-6 mm. sui montanti della porta del bagno e di 10 mm. circa sui montanti della porta dei ragazzi». Tali rilievi mostrano chiaramente quale sia stato l'epicentro dell'incendio e come la carbonizzazione diminuisca mano mano che ci si allontana da esso. f) La tesi dei periti troverebbe riscontro anche: «nelle alterazioni del pavimento del ripiano in prossimità del muro, in corrispondenza dello stipite della porta dell'appartamento n°5 (vedi foto n° 41, 42, 43)». Forse qui, i periti intendono dire che in quella zona del pianerottolo si trovava il combustibile liquido che, bruciando, avrebbe danneggiato il pavimento. L'argomentazione è priva di qualsiasi valore scientifico, in quanto in contrasto con elementari leggi di fisica (3): comunque, piuttosto che lanciarci in una discussione teorica, preferiamo invece osservare come, a questo punto, i periti siano incorsi in una colossale svista! Sarebbe stato sufficiente che i periti avessero fatto un confronto tra le loro stesse fotografie n° 41 da un lato e n° 42 e 43 dall'altro, per rendersi conto di come nella n° 41 si scorgono le stesse mattonelle del pavimento che compaiono, nelle n° 42 e 43, perfettamente integre! D'altra parte, in nessun verbale si parla di danni ai pavimenti del pianerottolo. Guardando più attentamente le fotografie n° 42 e 43, si nota come gli interstizi fra le mattonelle siano in effetti coperti da un qualche cosa, così come è coperta la base del montante di legno vicino: nella foto n° 41 si vede invece come sia gli interstizi tra le mattonelle che la base del montante siano stati liberati da quanto li ricopriva. In realtà, i periti hanno scambiato per danni sul pavimento dei mucchietti di detriti, presumibilmente cenere biancastra proveniente dal vicino montante! I periti, evidentemente, nell'ansia di dimostrare ad ogni costo la loro tesi preconcetta, sono caduti in errori marchiani di interpretazione degli stessi dati a loro disposizione. Si noti anche quanto riportato nel verbale dell'8 giugno 1973 a proposito della zona di muro esattamente sovrastante le mattonelle che — secondo i periti — sono danneggiate: «La parete del pianerottolo, fra l'int. 5 e l'int. 6, è nella sua parte inferiore, prossima all'int. 5, chiaramente meno interessata dall'effetto del calore della zona più prossima all'int. 6 dal soffitto fino a 2 metri circa da terra». Si arriva così all'assurdo che le fiamme - secondo i periti — andando dal basso verso l'alto, avrebbero rovinato le mattonelle in basso (oltre tutto, fatte di conglomerato cementizio) ma non la «colla» del muro sovrastante! g) Una volta messisi su questa via, si capisce anche un'altra grossolana svista dei periti, quando affermano che la loro tesi è sostenuta: «dai danni riscontrabili sulla soglia prima della sua rottura al termine dell'incendio e sull'assenza di tali danni sul lato interno». I periti cercano cioè di dimostrare che, stante l'alterazione delle mattonelle vicino alla soglia — vedi punto (f) precedente — anche la soglia stessa non può che essere alterata con progressione dall'esterno verso l'interno. Risulta invece chiaramente, dalle fotografie n° 10 e 19 della polizia scientifica, che la soglia ha subito un processo di progressiva distruzione a partire dall'interno verso l'esterno. I periti, evidentemente, incapaci di ricostruire esttamente la soglia, che hanno rinvenuto completamente a pezzi, devono aver scambiato l'interno con l'esterno: h) Infine, i periti affermano che la loro tesi è sostenuta: «dal susseguirsi delle fasi dell'incendio come risulta dalle deposizioni di Ciarmatore e Perchi: "Presenza di molto fumo e di poche fiamme" uscenti dalla finestra della camera di Virgilio Mattei (Ciarmatore) e "porta dell'appartamento del Mattei in fiamme" (Perchi). A questo proposito si deve tener conto dei diversi e successivi tempi cui si riferiscono le

277 deposizioni». In verità, ci rifiutiamo di prendere in considerazione e di discutere gli argomenti cosi vaghi. Finora abbiamo compiuto uno sforzo interpretativo punto per punto, per cercare di capire dove volessero arrivare ogni volta i periti d'ufficio con le loro argomentazioni che — si noti — sono sempre enunciate, mai spiegate, preferendo evidentemente i periti rimanere nel vago (forse, non è estraneo a ciò il timore dei periti di incorrere in nuove contraddizioni). Si noti, in particolare, la frase sibillina. «A questo proposito si deve tener conto dei diversi e successivi tempi cui si riferiscono le deposizioni», che può significare tutto e niente. In definitiva, i periti hanno argomentato la loro tesi di incendio iniziale esterno con argomentazioni prive di significato, o con argomentazioni vaghe, oppure incorrendo in grossolane sviste nelle quali si può cadere partendo da un'ottica distorta. I periti d'ufficio non hanno potuto dimostrare che l'incendio è nato all'esterno (e la ragione di ciò è chiara: tale tesi è completamente erronea!). Questo assunto, che avrebbe dovuto essere il pilastro su cui basare tutta la successiva costruzione dei periti, non ha elementi a sostegno. In realtà, la tesi di incendio iniziale esterno non solo è indimostrabile, ma e anche contraddetta da vari elementi su cui si tornerà più analiticamente nel seguito di questa stessa relazione (vedi capitolo 2). Basti ricordare semplicemente, per ora, che, come fatto rilevare durante il sopralluogo dell'8 giugno 1973, «la parte inferiore del corrimano (di legno; n.d.r.) si presenta senza tracce di carbonizzazione». Le fiamme provenienti ipoteticamente dalla zona del pavimento del pianerottolo in prossimità della porta di casa Mattei e della base della porta stessa, avrebbero dovuto invece aggredire il corrimano, provenendo dal basso e spinte verso l'alto dalla corrente di tiraggio provocata dalla tromba sovrastante delle scale: ma ciò avrebbe lasciato appunto tracce sotto il corrimano. Il corrimano «si presenta invece con uno strato superficiale di carbonizzazione di circa 1-2 millimetri» solo nella sua parte superiore, cosa che invece si spiega con il calore ed il fuoco uscenti dall'appartamento Mattei durante l'incendio. La corrente di gas caldi, uscendo, tendeva già a sollevarsi dal livello del pavimento, interessando solo la parte superiore delle strutture del pianerottolo, come è dimostrato anche dallo stato della porta di fronte (casa Perchi), che è carbonizzata solo in alto. Anche altre strutture fisse del pianerottolo (muri) sono danneggiate in alto e non in basso, come affermano gli stessi periti: «L'azione del fumo e del calore è più evidente nella zona alta che in quella bassa delle varie parti che delimitano il ripiano» (pag. 40). I periti d'ufficio affermano infine che l'incendio esterno è avvenuto in prossimità della porta di casa Mattei. Essi non danno nessuna spiegazione di questo assunto, probabilmente perché sanno di non poterla dare. Nella loro perizia preliminare, essi avevano tentato di dimostrare questa loro asserzione facendo notare il fatto che l'esterno della porta di casa Mattei era maggiormente intaccato dal fuoco di quello della casa di fronte. Quest'affermazione è chiaramente priva di significato, in quanto è ovvio che la parte esterna della porta d'ingresso, che è rimasta aperta per tutto lo sviluppo dell'incendio, in posizione tale da essere investita dal fuoco proveniente dalla stanza dei ragazzi, doveva essere più intaccata dal fuoco della porta dell'appartamento di fronte (vedi schizzo di casa Mattei, allegato 2). I periti, rendendosi conto di non poter dimostrare nulla, si limitano a riferire acriticamente tesi preconcette. 2. Sull'affermazione dei periti d'ufficio secondo cui della benzina è stata versata sulla porta d'ingresso dall'esterno, sarebbe superfluo parlare, dato che essa è -gratuita - anzi erronea, come vedremo in seguito — in quanto è gratuito lo stesso presupposto di incendio esterno. Tuttavia, preferiamo proseguire nelle nostre osservazioni, al fine di fare maggior chiarezza nell'interesse della Giustizia. Noi affermiamo decisamente che l'introduzione di questo elemento (benzina dall'esterno) non rappresenta altro che l'entrata in scena di une elemento del tutto

278 immaginario. I periti si sentono confortati nelle loro considerazioni da quanto segue: a) «E' stato rinvenuto un residuo parzialmente fuso e combusto di tanica di plastica in cui era ancora evidenziabile la presenza di benzina tipo "super" e di tracce di cherosene». Questa argomentazione dei periti d'ufficio è davvero sconcertante, dato che tale tanica è stata trovata all'interno dell'appartamento! L'unica spiegazione è che i periti, traditi ancora una volta dall'ansia di voler seguire ad ogni costo, la loro tesi preconcetta, siano caduti in un nuovo clamoroso abbaglio! Non si può spiegare altrimenti il fatto che i periti continuino a sostenere la tesi della benzina versata all'esterno, dopo che è stata accertata la presenza di una tanica semibruciata e semifusa, contenente ancora benzina «super» e tracce di cherosene. DENTRO L'APPARTAMENTO, così come è confermato dalla fotografia n° 19 della polizia scientifica, in data 16 Aprite 1973. L'unica cosa che risulta è che la tanica si trovava all'interno dell'appartamento, non solo perché ciò è attestato dalla fotografia della polizia scientifica, ma soprattutto in considerazione del fatto che, intrappolati nella plastica fusa della tanica, sono stati trovati fiocchi di fibre, di cui è stata riscontrata dovizia all'interno dell'appartamento Mattei. Nel verbale del 7 giugno 1973 si legge che: «da un bordo del residuo (della tanica; n.d.r.) sporge un fiocco di fibra grigia aderente per fusione alla tanica». Sempre nello stesso verbale si legge che nell'ingresso di casa Mattei sono stati repertati: «frammenti di coperta di tessuto chiaro ed un piccolo ammasso di fiocchi di lana con tracce di bruciatura». Nella camera dei giovani è stato invece repertato: «un ammasso di fiocchi di lana in parte bruciati ed un frammento di stoffa bianca parzialmente bruciato». I fiocchi quindi non potevano esser stati intrappolati se non nel momento in cui la tanica stava bruciando e fondendo all'interno. Ma c'è ancora un altro particolare che non quadra con l'ipotesi dei periti d'ufficio, e la cui omissione nella loro relazione non può essere attribuita ad abbaglio, ma probabilmente all'imbarazzo che i periti trovano nel cercare di spiegare tale particolare. All'interno dell'appartamento sono stati trovati anche i frammenti di una coperta chiara (vedi verbale del 7 giugno 1973) che, come i residui della tanica, sono intrisi di idrocarburi. I periti ragionano tranquillamente come se tale reperto fosse stato trovato all'esterno e non all'interno, sorvolando disinvoltamente sul significato di questo fatto preciso ed incontrovertibile. Invece, le tracce di idrocarburi (benzina e cherosene) nella coperta rinvenuta all'interno di casa Mattei comprovano la presenza di tali idrocarburi all'interno dell'appartamento. Ripetiamo che, in tal caso, i periti non possono essere stati vittima di un abbaglio, in quanto essi stessi ammettono che i frammenti di coperta chiara stavano all'interno (pag. 46 e seguenti della perizia d'ufficio). V'è un altro reperto che i periti dimenticano di citare: lo zerbino (o stuoino) ritrovato sul pianerottolo, completamente privo di tracce di idrocarburi. Nel verbale del. 7 giugno 1973 si legge a proposito de «lo stuoino di centimetri 30 x 60 x 1,5 di spessore circa», che: «non si percepisce odore di idrocarburi», per cui i periti d'ufficio non hanno nemmeno ritenuto necessario effettuarne l'analisi. Nella nostra contro-relazione preliminare avevamo osservato: «Resta da spiegare come lo zerbino di natura oltre tutto stopposa non sia stato toccato da eventuale liquido infiammabile (che doveva trovarsi all'esterno se è vera l'ipotesi di incendio esterno) sino al punto di non presentare nemmeno tracce di idrocarburi. La spiegazione più ovvia è che nello zerbino non si siano riscontrate tracce di idrocarburi per il semplice motivo che nessuno aveva versato idrocarburi al di qua della porta. Fino a prova contraria questa è l'unica ipotesi sostenibile...». «E' sufficiente rilevare per ora che... lo zerbino, pur già regolarmente repertato, non viene citato e collocato tra gli elementi di giudizio. Non è sufficiente motivazione di questa carenza il fatto che, essendo lo zerbino non esattamente collocabile nel luogo originario, non può fornire elementi di giudizio precisi: altri elementi certo non più

279 univoci e chiari sono stati utilizzati e lo zerbino si trovava certamente sul pianerottolo antistante l'appartamento n° 5. Era quindi, anche per la sua natura e consistenza, e per la precisa indicazione di assenza di idrocarburi, un elemento che andava e va attentamente valutato». Resta quindi il fatto inspiegabile — se si segue la tesi dei periti — che, (mentre) i periti d'ufficio non hanno potuto trovare tracce di idrocarburi là dove secondo le loro tesi avrebbero dovuto essercene, cioè fuori dall'appartamento, gli stessi periti hanno trovato notevoli tracce di benzina e cherosene là dove — sempre secondo le loro tesi — non avrebbero dovuto essercene (cioè, dentro l'appartamento). Si noti che, una volta assunta l'ipotesi di benzina versata all'esterno della porta, i periti si lanciano in una lunga dimostrazione del fatto che la benzina versata fu poca e che l'incendio iniziale sul pianerottolo fu di limitate proporzioni. E' molto interessante soprattutto il punto (d) dei periti: «La limitata durata e violenza del focolaio iniziale dell'incendio, (è) comprovata dalla accertata transitabilità delle scale subito dopo l'allarme» (pag. 52). In realtà, la «transitabilità delle scale subito dopo lo allarme» vorrebbe dire che il fuoco iniziale sarebbe stato una specie di rapida vampata subito spentasi. Ma ciò è in contraddizione proprio con l'assunto dei periti secondo cui tale incendio iniziale sarebbe stato di «notevole intensità calorica» tale da provocare sul pianerottolo e sulle scale screpolature, rottura di vetri, incendio di porte, enorme deposito di residui carboniosi. Non ci spieghiamo come facciano i periti d'ufficio a non attribuire piuttosto tali danni notevoli alle fiamme ed ai gas combusti caldi uscenti dalla porta aperta dell'appartamento Mattei, dove per lungo tempo si è sviluppato un incendio molto forte. Anche il punto (c) dei periti d'ufficio, che riguarda «le prove di diffusione di liquidi sul ripiano antistante l'appartamento n/ 5», dimostra solo che due litri di benzina, se versati, si sarebbero sparsi su tutto il pianerottolo, e che quindi lo zerbino, situato sul pianerottolo, sarebbe stato sicuramente intriso di idrocarburi e ben diversamente combusto. 3. Sull'ipotesi dei periti d'ufficio secondo cui la porta d'ingresso doveva esser chiusa al momento dell'inizio dell'incendio, c'è da dire che è comunque un'ipotesi ragionevole. 4. Siamo anche d'accordo sul fatto che, ammesso che la porta fosse chiusa, un ipotetico fuoco nato all'esterno non avrebbe potuto diffondere verso l'interno; come anche siamo d'accordo sul fatto che «la presenza della soglia di marmo sulla quale appoggiava la predella, non avrebbe consentito il passaggio delle fiamme». 5. Ne consegue che l'asserzione secondo cui la porta d'ingresso doveva esser chiusa al momento dell'inizio dell'incendio, c'è da dire che è comunque un'ipotesi ragionevole. 4. Siamo anche d'accordo sul fatto che, ammesso che la porta fosse chiusa, un ipotetico fuoco nato all'esterno non avrebbe potuto diffondere verso l'interno; come anche siamo d'accordo sul fatto che «la presenza della soglia di marmo sulla quale appoggiava la predella, non avrebbe consentito il passaggio delle fiamme». 5 Ne consegue che l'asserzione secondo cui la propagazione di un eventuale incendio °dall'esterno all'interno poteva avvenire solo a porta aperta ci trova concordi. Ci trova anche concordi l'importante ammissione dei periti secondo cui era impossibile far entrare nell'appartamento Mattei liquido infiammabile con la porta chiusa. Quest'ultima affermazione dei periti provoca loro però un grave imbarazzo, da cui tentano di salvarsi per mezzo di vari artifici. Essi affermano che il fuoco che ha innescato l'incendio all'interno era secondo la tesi da loro assunta — quello che si

280 trovava ancora sulla superficie esterna della porta, data alle fiamme con benzina, nel momento in cui i Mattei l'hanno aperta. Essi affermano anche che: «il materiale più facilmente combustibile rappresentato dagli indumenti appesi all'attaccapanni e dalla vernice delle porte della cucina e del bagno» è quello che per primo ha preso fuoco nell'ingresso, all'atto dell'apertura della porta. Evidentemente i periti assumono che il fuoco che si trovava sulla faccia esterna della porta, all'atto della sua apertura, avesse tutte le caratteristiche di una fiammata di quelle tipiche — diciamo così — di un lanciafiamme, e di un lanciafiamme sapientemente diretto, per esempio, verso gli indumenti sull'attaccapanni, lontano circa 2 metri (vedi allegato 2). Infatti, una volta aperta la porta, il focolaio sulla sua faccia esterna si sarebbe dovuto mantenere per un tempo così lungo, con una intensità tale e con fiamme così lunghe ed esattamente dirette, da far prendere fuoco agli indumenti ed alle porte che certamente non posseggono la facilità e la rapidità di ignizione della benzina. D'altra parte, i periti assumono che nell'ingresso non vi fosse benzina, cherosene o altro liquido facilmente infiammabile. In realtà, tutto ciò è impossibile: il legno e la vernice della porta dell'appartamento poteva bruciare al massimo con fiammelle minime. A meno che i periti non vogliano sostenere che quello che bruciava sulla porta fosse ancora il velo di benzina, postovi da ipotetici attentatori. Ma è noto che un velo di benzina brucia con una vampata rapida: quella piccola quantità di benzina posta — secondo l'assunto dei periti — sulla superficie esterna della porta si sarebbe sicuramente consumata nel lasso di tempo intercorso tra il risveglio dei Mattei, il rendersi conto dell'accaduto, l'accorrere nell'ingresso e l'aprire la porta. Ma gli stessi periti ammettono che l'incendio — da loro ipotizzato — di benzine all'esterno, è stato rapidissimo, dato che subito dopo il pianerottolo era «transitabile». E pensare poi che il Mattei possedeva, stando alla testimonianza della figlia Silvia almeno «un estintore del tipo a "boccione" che si deve rompere sulle fiamme...». Il Mattei possedeva quindi uno e, secondo altre testimonianze, forse due estintori del tipo "a boccione" e, nonostante ciò, non e riuscito a spegnere un fuoco di. modestissime dimensioni che aveva interessato solo indumenti e porte! E' poi quantomeno strano che i Mattei, aprendo la porta ed accorgendosi del fuoco, fumo e calore all'esterno, non si siano comportati nel modo più naturale, così come i loro vicini: Dalla deposizione resa al giudice dal sig. Perchi il 19 Maggio 1973: «Aprii la porta e fui avvolto da una vampata di fumo e di caldo... Richiusi subito la porta». Dalla deposizione del 19 maggio 1973 del sig. Salsa Ferrero; «Mi alzai dal letto e aprii la porta di ingresso, ma la richiusi subito perchè fui colpito da una vampata di calore e di fumo nero nero...». Il comportamento dei Mattei invece è tipico non di chi richiude la porta datanti al fuoco ed al calore, ma di chi vuole sfuggire al fuoco ed al calore già presenti all'interno. Non si spiega nemmeno — se per assurdo vogliamo seguire la tesi dei periti - come mai persone anziane e bambini siano riusciti a fuggire, ed un giovane di 20 anni, presumibilmente in buona forma fisica, sia rimasto intrappolato. Come vedremo nel prossimo paragrafo se abbandoniamo l'ipotesi del fuoco che si propaga dal pianerottolo all'ingresso e quindi alla stanza dei ragazzi, per affermare invece la tesi che il fuoco, nato nella stanza di Virgilio e Stefano, ha fatto esattamente il cammino opposto, allora ogni particolare rientrerà nel quadro generale ed ogni contraddizione verrà a cadere. 6. La supposizione dei periti secondo cui la porta della stanza dei ragazzi doveva essere aperta al momento dell'incendio è ragionevole, purchè venga interpretata correttamente, tenendo presente cioè che, in realtà, il fuoco procedeva dalla camera dei ragazzi verso l'ingresso.

281 E' per Io meno singolare che i periti insistano sulla tesi di fuoco che: a) parte da un luogo dove non sono affatto presenti dei combustibili (cioè dal pianerottolo); i periti infatti non hanno fornito alcuna prova che vi fosse del combustibile all'esterno dello appartamento; comunque, anche se per assurdo si volesse considerare valida la tesi dei periti, i successivi punti (b) e (e) diverrebbero inspiegabili; b) si propaga nell'ingresso dove c'è — secondo quanto gli stessi periti affermano - solo del materiale, quali gli indumenti, scarsamente infiammabile e con caratteristiche di combustibilità ben misere, visto che ne sono stati anche repertati dei frammenti più o meno carbonizzati ma non totalmente combusti; c) passi dall'attaccapanni alla stanza dì Virgilio e Stefano — probabilmente ancora con, quel meccanismo a lanciafiamme già sfruttato per dar fuoco agli indumenti —(vedi allegati 2 e 3), stanza dove invece è presente «una notevole quantità di materiale facilmente combustibile» e dove le fiamme «hanno assunto una particolare intensità» (pag. 54). I periti non hanno invece dedicato alcuna attenzione alla possibilità di una meccanica opposta dell'incendio, che è invece la più razionale ed ovvia. E' evidente che fiamme lunghe e continue possono svilupparsi là dove vi sono forti concentrazioni di materiale altamente combustibile (solventi, vernici o altro)— e cioè nella stanza di Virgilio — e possono, in tal caso, facilmente, propagarsi anche a materiali meno facilmente combustibili, posti in altri ambienti, anche a distanza. Non v'è bisogno, in tal caso; di ipotizzare la presenza di improbabili lanciafiamme, oltre tutto ben diretti, per spiegare la propagazione del fuoco da punto a punto. 2. Reale dinamica dell'incendio originatosi all'interno di casa Mattei In precedenza abbiamo visto che: a) per ammissione degli stessi periti d'ufficio, il fuoco non poteva entrare e non è entrato dall'esterno all'interno dell'appartamento con la porta chiusa; b) non vi è finora prova o testimonianza alcuna che avvalori il presupposto dei periti che del combustibile sia stato inizialmente presente all'esterno dell'appartamento ; c) gli stessi periti ammettono la presenza di notevoli quantità di sostanze infiammabili nella stanza di Virgilio; inoltre, è stata provata l'esistenza all'interno dell'appartamento di una tanica della capacità presumibile di 10 litri, contenente benzina, e di frammenti di tessuto ancora imbevuti di idrocarburi, presumibilmente benzina; i periti d'ufficio hanno omesso di allegare alla loro perizia la documentazione grafica delle analisi gas-cromatografiche effettuate su tale reperto. Dimostreremo ora che: a. Il fuoco è divampato all'interno dell'appartamento. Infatti: Le testimonianze dei Mattei (Mario, Silvia ed Anna Maria Macconi), pur con qualche incongruenza e punti oscuri nella testimonianza di Mario Mattei (1), concordano nell'affermare che, all'atto del loro risveglio, prima che la porta d'ingresso fosse aperta, il fuoco già divampava all'interno dell'appartamento. E infatti: — Anna Maria Macconi dichiara al G.I. il 16 aprile di essersi svegliata a causa di un qualche rumore: «... preciso che non si trattò proprio di un botto, ma il rumore di una cosa che sfiata fortemente. Non ho sentito alcun odore. Mio marito è balzato dal letto ed ha aperto la porta (della camera da letto; n.d.r.). Il vano di ingresso era pieno di fiamme, ma mio marito è riuscito egualmente a spalancare la porta (di ingresso; n.d.r.)». (Vedi anche schizzo allegato 3). - Silvia Mattei dichiara al G.I. il 23 aprile 1973: «Venni destata da mio padre duran-

282 te la notte e vidi che c'erano le fiamme. Papà prese un estintore del tipo "a boccione" che si debbono rompere sulle fiamme. Subito dopo vidi una gran fiammata avvolgere mio padre...». Si noti anche che, quando il padre va a svegliare la figlia, che dormiva con la sorella nel tinellocucina, egli non ha aperto ancora la porta di ingresso (vedi sempre schizzo allegato 3). E infatti risulta dalla sua testimonianza al G.I. del 5 giugno 1973: «Fui svegliato da mia moglie ovvero dalle grida di Virgilio. Mi alzai dal letto. Virgilio stava nella sua stanza e telefonava al 113. Uscendo dalla stanza da letto (cioè verso l'ingresso, come si può vedere dallo schizzo allegato 3, ndr) scivolai per terra. Sul pavimento vi era qualcosa di viscido. Notai che c'erano fiammelle azzurrognole. Erano ancora piccoline. Venni però ustionato. Mi rialzai e corsi nella stanza della ragazze...». Le testimonianze concordi dei Mattei sul fatto che il fuoco stava all'interno dell'appartamento prima dell'apertura della porta d'ingresso,, unite al dato certo — ammesso anche dai periti di ufficio — che il fuoco non poteva entrare dentro la porta chiusa, portano all'ovvia conclusione che l'inizio dell'incendio si ebbe all'interno dell'appartamento stesso ed il suo divampare fu causato dalla notevole quantità di materiale infiammabile sicuramente presente all'interno. I periti — che pur disponevano di questi elementi testimoniali per tanti versi così significativi, come pure delle testimonianze del Perchi, dello stesso agente di P.S. Aiello e di numerosi altri testi, nessuno dei quali ha visto il fuoco all'esterno dell'appartamento - non ne hanno tenuto alcun conto, cadendo in una nuova e clamorosa omissione! b. Presumibile punto di inizio dell'incendio nella stanza d7 Virgilio .e Stefano Mattei. a) La testimonianza di Mario Mattei sulle grida di Virgilio. Nella sua testimonianza, precedentemente citata, Mario Mattei riferiva di esser stato destato «dalle grida di Virgilio», e successivamente dichiara: «Virgilio stava telefonando al 113». Se volessimo per assurdo accettare la tesi dei periti che l'incendio era nato all'esterno, dovremmo desumere che, con porta chiusa e senza fuoco all'interno, almeno uno dei Mattei, già accortosi dell'incendio, stesse addirittura cercando di provvedere telefonando al 113 (5). In realtà, è più logico pensare che Virgilio si sia accorto per primo (6) dell'incendio per il semplice motivo che t'incendio è scoppiato nella sua stessa stanza. A tale conclusione si giunge soprattutto facendo un'accurata analisi degli spostamenti compiuti dai vari membri della famiglia. b) Analisi degli spostamenti compiuti dai vari membri della famiglia. Risulta chiaramente dalle testimonianze e dai dati di fatto che, salvo Virgilio e Stefano, tutti i componenti della famiglia hanno avuto possibilità e modo di effettuare spostamenti nell'appartamento in fiamme. Infatti, dall'appartamento esce Anna Maria Macconi con i due figli di 9 e 4 anni. Escono, in qualche modo, lo stesso Mario Mattei e le due figlie. Il Mattei padre anzi esce ed entra varie volte dal tinello-cucina per avvertire le figlie e prendere gli estintori «a boccione». Dalla testimonianza di Mario Mattei risulta infatti: «Corsi nella stanza delle ragazze... subito dopo andai nuovamente nell'ingressino... gettai per terra un fiasco anti-incendio... corsi nuovamente nella stanza di Silvia...» (vedi sempre schizzo allegato 3). Si può avanzare qualche dubbio sul fatto se il Mattei si sia gettato dal balcone o se non piuttosto abbia attraversato una ultima volta l'ingresso e sia sceso per le scale, ma ciò è inessenziale, almeno per quanto riguarda l'argomento in questione. Dalla testimonianza di Silvia Mattei risulta che ella si è trattenuta per parecchio tempo nel tinellocucina, non perché non potesse uscire, ma per aiutare il padre che cercava di fronteggiare le fiamme: «Papà prese un estintore del tipo "a boccione" di

283 quelli che ai debbono rompere sulle fiamme. Subito dopo vidi una ,gran fiammata avvolgere mio padre che si gettò sul mio lettino nel tinello. Lo avvolsi con un plaid e lo spensi...». Singolarmente invece, i membri più validi della famiglia, un giovane di 20 anni ed un ragazzo di 8, non possono porsi in salvo, fatto del tutto incomprensibile se si accetta per buona la meccanica dell'incendio proposta dai periti d'ufficio, con l'incendio che si dirige verso la stanza dei ragazzi, dopo aver attecchito ad alcuni indumenti presenti nell'ingresso, che non potevano dare se non fiamme di modesta entità. I periti avrebbero invece dovuto prendere in considerazione la possibilità di un -incendio che parta dalla stanza dei ragazzi, bloccandoli all'interno di essa fin all'inizio, forse perché originato da materiale ad alto potere combustibile, eventualmente situato vicino alta porta della stanza stessa. Come spiegare altrimenti il fatto che Virgilio Mattei non sia riuscito a transitare per un ingresso attraverso cui passavano e ripassavano persone anziane e bambini? Una meccanica che veda l'incendio partire dalla stanza di Virgilio e Stefano Mattei, e che da questa si propaghi all'ingresso, spiega invece semplicemente come i più deboli, madre e bambini piccoli, escano dall'appartamento e si pongano in salvo, mentre altri più validi, padre e figlia, cerchino di contrastare l'incendio nell'ingresso, fronteggiandolo però con delle possibilità di ritirata: la porta di uscita o quella della cucina. Per Virgilio e Stefano Mattei invece, fin dall'inizio ogni possibilità di scampo è e resta preclusa! E' chiaro come, in un secondo tempo, la selvaggia violenza dell'incendio nella stanza dei ragazzi, zeppa di materiali altamente combustibili — fatto rilevato anche dai periti (pag. 54) — possa propagarsi anche nell'ingresso, dove si raggiungono infatti effetti tecnici imponenti, tali anzi da provocare rammollimento e fusione della lampadina, con una temperatura presumibile di circa 600 °C (temperatura di rammollimento del vetro). E' chiaro che, a questo punto, l'ingresso è divenuto intransitabile, e ciò spiega come almeno uno degli occupanti dell'appartamento sia costretto a gettarsi dal balconcino della cucina. Sull'origine del fuoco nella stanza dei ragazzi, si possono avanzare alcune semplici ipotesi: sviluppo di vapori infiammabili da parte dei solventi, cui ha dato fuoco una sigaretta, un fiammifero od un corto circuito; accidente connesso con operazioni che Virgilio Mattei stava eventualmente compiendo e che ha avuto tragiche conseguenze per la concentrazione di combustibili "in loco" (sicuramente vernici e solventi, e forse benzina); ecc. Una tale ricostruzione permette di legare con filo logico tutti i rilievi di fatto e le testimonianze note, senza dover ricorrere a supposizioni fantastiche, omissioni plateali e non-scientifiche ricostruzioni che sono contraddette non solo da quanto già dimostrato, ma da una mole imponente di dati di fatto, che, nella loro interezza, verranno analizzati in una successiva memoria.

Conclusioni 1. I periti d'ufficio non hanno potuto dimostrare in alcun modo che l'incendio che ha coinvolto l'interno di casa Mattei abbia avuto origine all'esterno dell'appartamento, ossia sul pianerottolo. 2. Il fatto che sia stata versata benzina all'esterno della porta dell'appartamento è una pura illazione, non essendovi nessuna prova in proposito. Nessuna traccia di idrocarburi è infatti stata trovata sul pianerottolo. 3. I periti ammettono che un liquido infiammabile non poteva entrare dall'esterno all'interno dell'appartamento a porta chiusa. D'altra parte, all'interno sono state trovate quantità ancora incombuste di benzina "super" con tracce di cherosene, nei resti di una tanica dal volume presumibile di 10 litri, e tracce di idrocarburi nei resti

284 di una coperta. Le fiamme quindi sono state alimentate da questi combustibili già presenti inizialmente all'interno di casa Mattei. 4. Anche volendo ammettere ipotesi di incendio originatosi all'esterno e causato da due litri di benzina, è impossibile spiegare come tale fuoco si sia propagato all'interno dell'appartamento all'atto dell'apertura della porta d'ingresso. 5. Le ipotesi avanzate dai periti d'ufficio non sono sorrette da nessuna delle testimonianze fin qui disponibili; vengono anzi contraddette da un gran numero delle testimonianze stesse. Il fatto fondamentale è che le testimonianze di Mario e Silvia Mattei e di Anna Maria Macconi concordano nell'affermare che il fuoco è nato all'interno dell'appartamento con la porta chiusa. Poiché - come è ammesso dagli stessi periti d'ufficio — il fuoco non può essersi propagato dall'esterno all'interno con la porta chiusa, ciò esclude in modo definitivo l'origine esterna dell'incendio e quindi l'ipotesi di un attentato. 6. L'ipotesi di incendio nato all'interno è in grado di spiegare tutte le testimonianze, tutte le tracce dell'incendio, lo stato e la posizione dei vari reperti e tutti gli altri particolari. 7. In particolare, l'ipotesi di un incendio nato allo interno nella stanza dei ragazzi spiega una circostanza veramente singolare che i periti d'ufficio non hanno saputo spiegare: cioè che le persone anziane ed i bambini piccoli si siano potuti salvare, mentre un giovane di vent'anni — presumibilmente in perfetta efficienza fisica, sia rimasto intrappolato. Ing. Enzo Brandi Prof. Antonio Damiani

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Indice 4. Perché questo libro 7. Una lettera di Riccardo Lombardi 11. I - Primavalle é rossa 19. II - La sezione «Giarabub » 33. III - Il fatto 35. IV - I protagonisti 41. V - Alcuni giorni prima 49. VI - Quella sera 59. VII - La notte 79. VIII - Le tante strade della provocazione 97. IX - Il veggente di borgata 117. X - Il supertestimone 139. XI - Un certo Mulas 147. XII - I luoghi ed i volti 171. XIII - Il cartello fantasma 203. XIV - Incendio a porte chiuse 223. XV - La tanica scomoda Appendici 247. I - I camerati si telefonano 255. II - La Schiaoncin parla ai giornali 267. III - Perizia e controperizia

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290 La notte del 15 aprile 1973 scoppia un incendio in un'abitazione di via Bernardo da Bibbiena, a Primavalle. Nel fuoco muoiono 2 figli del segretario della sezione missina, Mario Mattei. Le indagini, subito indirizzate a sinistra, portano all'arresto di Achille Lollo e alla incriminazione di Marino Clavo e Manlio Grillo, tutti e tre militanti di Potere Operaio. «La montatura sull'incendio di Primavalle non si presenta come il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo "Strage di Stato". "Primavalle" è piuttosto una t r a m a c o s t r u i t a a f f a n n o s a m e n t e , a " c a l d o " d a p o l i z i a e magistratura, un modo di sfruttare un'occasione per trasformare un banale incidente o un oscuro episodio — nato e sviluppatosi nel vermicaio della sezione fascista del quartiere — in un'occasione di rilancio degli opposti , estremismi in un momento in cui la strage del giovedì nero con l'uccisione dell'agente Marino — avvenuta a Milano 3 giorni prima — ne aveva vanificato la credibilità». «Su questa base, risultato di un lavoro di indagine e di analisi condotto sugli atti istruttori e di controinformazione nel quartiere, è impostato il lavoro di questo libro. Vi è infatti messo in luce il ruolo ambiguo e contraddittorio degli stessi protagonisti-vittime, la situazione di aperto contrasto nella sezione fascista divisa tra ordinovisti e almirantiani, il peso giocato dall'alta dirigenza del MSI, la funzione della polizia che ha occultato prove, nascosto t e s t i mo n i e s i è s e r v i t a d e i s u o i s t e s s i a g e n t i p e r f o rn i r e testimonianze false e devianti, l'avallo della magistratura che ha permesso che si condensassero false piste fornite dal MSI e indagini pretestuose della polizia».

Gli autori

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Un intervento di Potere Operaio

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Moventi politici degli errori della sinistra sull'«affare Primavalle» Affrontare, a distanza di 18 mesi, il problema di una ricostruzione politica dell'«affare Primavalle» impone di partire da una spiegazione del ritardo con cui - da parte nostra e più in generale da parte delle forze politiche che agiscono nel movimento — sono stati impostati i termini di una battaglia politica per la liberazione dei compagni incriminati. Perché senza dubbio ritardo c'è stato. E non solo dovuto alle nostre difficoltà di ordine organizzativo ma anche all'isolamento in cui è stata per molti mesi cacciata l'ipotesi, la tematica politica che Potere Operaio da alcuni anni aveva avanzato nel movimento. In altre parole: le incertezze e i ritardi sono derivati anche dal fatto che lo schieramento della «sinistra rivoluzionaria» nel suo complesso (cioè a partire dalle sue componenti maggioritarie) ha in un primo momento subito i contenuti della manovra anticomunista portata avanti dagli uomini dell'apparato poliziesco e giudiziario che conducevano l'inchiesta. E li ha subiti perché questi contenuti andavano a colpire alcuni elementi di teoria e prassi politica che queste stesse componenti dello schieramento della sinistra ritenevano giusto venissero — da un punto di vista politico, certo, non repressivo — colpiti. Spieghiamo meglio: la montatura del «caso Primavalle» (che si presenta come un modello di utilizzazione politica da parte delle istituzioni di un'occasione che gli viene offerta dal sottobosco politico rappresentato dal groviglio di faide e di furberie di un gruppo di fascisti di borgata) presenta anzitutto una caratteristica genericamente anticomunista. Un primo grossolano livello di lettura che viene suggerito al grosso pubblico della stampa «d'informazione» e del telegiornale è il discorso sulla simmetria, sulla sostanziale somiglianza di due «opposti estremismi», è il contraltare

4 all'uccisione — da parte degli squadristi fascisti di Milano — dell'agente di polizia Mariti. In questo senso, è vero che colpire dei compagni di Potere Operaio vuol dire colpire l'intera organizzazione, e con essa l'intero arco di forze della sinistra rivoluzionaria e, in modo indiretto e mediato, l'intera «rappresentanza politica» del movimento di classe e il movimento stesso. C’è però un secondo livello di lettura, più sottile ma al tempo stesso politicamente più significativo. Ed è il tentativo di colpire — con la montatura di Primavalle — una teoria politica che vede la classe operaia come radicalmente contrapposta, dentro lo sviluppo indipendente, autonomo del suo potere di lotta, alla società capitalistica nel suo complesso, dalla produzione diretta allo Stato. Questa teoria ha voluto di volta in volta, a partire da una analisi del ciclo capitalistico, proporre una prassi che esprimesse il livello più alto di autonomia, di rivendicazione di potere, di organizzazione comunista, degli interessi della classe operaia e di tutto il proletariato. Le battaglie politiche condotte alla luce di questi presupposti hanno avuto — pur nella fragilità organizzativa che le ha sostenute, e malgrado gli errori, le debolezze, i ritardi — un grosso significato, una funzione di punta e di traino nella storia del movimento di classe in Italia a cavallo fra gli anni '60 e gli anni '70. Sono serviti da supporto, da ossatura teorica ai comportamenti più avanzati degli operai, a quella pratica della guerra operaia contro il lavoro che ha caratterizzato in questi anni il movimento dell'autonomia nelle grandi fabbriche in Italia. Colpire politicamente l'organizzazione che nelle forme più varie si faceva interprete di questi comportamenti, tentava di riprodurli, di dar loro forme organizzate e respiro di programma, e comunque era in grado di amplificarli e di rilanciarne la pratica, non era obiettivo da poco. E la debolezza specifica della struttura organizzativa di Potere Operaio, la grossa sproporzione fra i fini e i mezzi dell'azione politica che ha tradizionalmente caratterizzato la sua esistenza, erano semmai una facilitazione, un incentivo a colpire. Costringere questa esperienza — ancorché non fosse molto più che un'allusione di organizzazione politica — dentro un'esemplificazione mostruosamente deformata che ne desse una rappresentazione degradata e politicamente insostenibile, rappresentava senza dubbio un obiettivo allettante. Ed è stato perseguito. Questo obiettivo ha riscosso un successo anche perché stimolava una serie di complicità a sinistra, perché trovava un certo rispecchiamento

5 in una serie di pregiudizi che a sinistra si erano andati gradualmente sedimentando. D'altra parte, lo stato del rapporto fra organizzazioni nel movimento e istituzioni conteneva già numerosi germi della situazione attuale: una situazione che vede una serie di vecchi arnesi democristiani, gestori per anni della più feroce politica antioperaia, mettersi in corsa per ottenere benemerenze antifasciste e aperturiste con l'affermazione che i nemici di questo Stato che scatena la crisi e la repressione contro gli operai sono a destra. Il che rappresenta forse un po' di respiro e di privata tranquillità (per qualche mese) per tutti i compagni, ma una bella vittoria per i padroni, che di questo stato democratico che ha mutato e potrà mutare ancora la propria forma, ma non certo la propria natura) sono gli ispiratori e gli utenti. Ecco, Primavalle è stata anche questo; una manovra di accentuazione delle divisioni della sinistra di classe, dell'accerchiamento e isolamento di una delle sue componenti non recuperatili su un terreno neoistituzionale. Riparlare, comunque, dopo 18 mesi di questo «affare» (che sono stati anche 18 mesi di permanenza in carcere del compagno Achille Lollo), impone di tener conto non solo di queste tracce generali di interpretazione politica, ma anche di alcuni nodi interni alla gestione che Potere Operaio ha fatto di questa battaglia. Nodi, che sono stati oggetto di discussione, di divisione e anche di scontro, e che hanno contribuito a calare su questa vicenda e sui problemi politici che essa sollevava quel velo di inerzia e di silenzio che abbiamo conosciuto e lamentato. Cominciamo da un giudizio sulle scelte che in quell'occasione furono compiute dal gruppo dirigente di Potere Operaio e dai compagni incaricati della conduzione politico-organizzativa della difesa. Sono state sollevate, in tutto questo tempo — con sfumature e accentuazioni diverse — una serie di obiezioni. Prendiamo in considerazione le principali: perché la lettera al giudice e perché l'intervista all'«Espresso» di Marino Clavo? Per quanto riguarda la lettera non c'è molto da dire; si trattava di scagionare un militante comunista, Marino Sorrentino, di rendere evidente l'inattendibilità del superteste Aldo Speranza — nuovo Rolandi di Primavalle — di dimostrare il carattere volgare, cinico, pretestuoso di tutta l'istruttoria e di chi ne gestiva l'allestimento.

6 Per quanto riguarda l'intervista all'«Espresso», occorre innanzitutto smentire quella specie di misterioso giallo politico giudiziario che le è stato costruito sopra. Nell'intervista infatti Clavo descrive la sua attività di militante comunista nel quartiere di. Primavalle, definisce la natura e i limiti dei suoi rapporti con Speranza (non dissimili da quelli che il lavoro politico spinge ad intrecciare con tanti proletari del quartiere), racconta come e dove ha trascorso la notte del 15 aprile '73. Certo, nella decisione di presentare l'alibi subito, all'inizio della latitanza e attraverso la stampa c'è un errore di valutazione tattica dell'iniziativa dell'avversario, della sua capacità di inquinare l'inchiesta, di stravolgerne i dati ad ogni passo. Non si tratta ovviamente di una ingenua ed opportunistica fiducia nella «neutralità» della giustizia e nell'«onestà» degli inquirenti; c'è però, è vero, una sottovalutazione della capacità di distorsione e di mistificazione a cui possono arrivare— pur dentro il mantenimento di una cornice formalmente legale — i funzionari della repressione. In altre parole: la scelta di rivelare il proprio alibi ha sottovalutato la sostanziale non-neutralità dell'esercizio della giustizia e ha sopravvalutato le condizioni politiche che impongono — all'interno di una forma democratica di dittatura borghese — una facciata di neutralità formale. E' stato un errore ritenere che la mostruosità della provocazione, l'infondatezza delle prove e degli «indizi» accampati dagli inquirenti, la certezza della completa estraneità dei compagni ai fatti di cui venivano accusati, fossero tutte cose talmente evidenti da far ritenere possibile lo smantellamento della montatura attraverso l'uso delle fondamentali garanzie borghesi (stampa, diritti della difesa, ecc.). L'errore è stato di accettare di confrontarsi, in questa occasione, sul terreno della legalità. La ragione di questo errore, e la sua parziale giustificazione, va ricercata nel fatto che l'«affare Primavalle» - come questo libro dimostra — non si è presentato come un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo «Strage di Stato». Primavalle appare piuttosto — dopo questo libro possiamo dire è — una trama costruita affannosamente. a «caldo», un modo di sfruttare un'occasione per trasformare un banale incidente o un oscuro episodio di criminalità politica a livello di borgata nato e sviluppatosi nel vermicaio della sezione fascista di via Svampa — in un rilancio della tesi degli «opposti estremismi», utile a colpire (politicamente prima che in termini repressivi) un'organizzazione comunista rivoluzionaria.

7 Per questo, il carattere rozzo e maldestro della manovra (che tale era, come dimostrano i risultati della nostra controinchiesta) ha spinto a un'errata valutazione delle sue possibili conseguenze, e questo a sua volta ha indotto a una sottovalutazione della forza tattica del nemico, della sua capacità di surrogare con la forza del potere arbitrario dei corpi separati e della deformazione propagandistica, i vuoti di credibilità della sua operazione. L'intervista di Clavo voleva quindi esemplificare un comportamento politico che, facendo prevalere l'interesse del movimento sull'interesse legale del singolo in quanto imputato, tende fin da subito a smascherare il disegno provocatorio accettando di provare pubblicamente la propria innocenza. Questa decisione conteneva però un’errata valutazione del quadro legale. Questo è stato l'errore. Errore tanto più grave quanto imputati siamo noi, militanti e organizzazioni rivoluzionarie, avanguardie comuniste della lotta di classe; perché dovevamo sapere che la legittimazione politica che lo Stato capitalistico nella sua forma democratica si è dato rende perfettamente compatibile con il mantenimento del «quadro democratico» una sospensione specifica e «ad personam» dei diritti e delle garanzie che questo regime democratico e pluralista, comporta. E non c'è bisogno di inventarsi fantomatiche «fascistizzazioni delle istituzioni» per spiegare questo fenomeno. Andiamo verso una situazione di repressione selettiva, specifica, di tutto quanto si muove fuori della cornice legale stabilita per lo svolgersi del conflitto; e «nuovo patto costituzionale», come forma del nuovo patto sociale, significa proprio questo: definire il quadro al cui interno tutto è possibile, fuori del quale tutto è negato. Il progetto è chiaro: affidare proprio al movimento operaio storico il compito di determinare le condizioni di questa operazione, cioè di rendere perfettamente «divisibile» la famosa «indivisibile libertà». Dunque per tornare al nostro particolare: doveva essere ovvio in una situazione in cui vige una forma democratica di dittatura della borghesia, un'inchiesta giudiziaria può essere condotta — salvo uno straccio di attenzione ad alcuni pudori formali — a mano libera. E così è stato: Clavo avanza un alibi, cita dei testimoni a discarico, e si mette in molo una macchina .che — passando per un asse che unisce e coalizza pressioni familiari, ricatti, basse intimidazioni, argomenti machiavellistici e, al fondo di tutto, grossi interessi politici e finanziari attorno alla vendita del «Messaggero» — riesce

8 a far tentennare questi testimoni, a farli ritrattare, a fargli rinunciare a sostenere la verità. E' vero: Paolo Gaeta e Diana Perrone non sono stati torturati; ma è anche vero che la macchina delle pressioni esercitate su di loro è stata massiccia e che il loro cedimento è solo prova della loro fragilità, punto e basta. In termini politici la loro storia, che è storia di miserie umane, non può certo riguardarci. Quello che politicamente ci interessa è l'uso spudorato che il proc. Sica e il giudice Amato hanno fatto delle ritrattazioni e mezze ritrattazioni della verità fino a costruire delle specie di «prove indirette di colpevolezza». Certo, anche un episodio come questo—in realtà marginale nella vita di un'organizzazione — solleva una serie di problemi inerenti la qualità dell'organizzazione comunista, dei suoi quadri politici, l'assoluta necessità di mettere all'ordine del giorno il problema dell'individuazione di un referente diverso, di un quadro militante radicalmente nuovo rispetto al tipo di coagulo di compagni ereditato dal '68. Questo è un aspetto, non secondario, di un discorso sul superamento deliberato dell'esperienza di gruppo, sulla ricerca e l'attuazione di nuove forme di organizzazione intermedie fra le attuali strutture del movimento e il punto d'approdo del processo organizzativo: il partito rivoluzionario degli operai e dei proletari. Ma una riflessione sull'«affare Primavalle» che abbia le caratteristiche di un bilancio sulle implicazioni politiche contenute in questa vicenda necessariamente rinvia ad altre considerazioni specifiche. Questi anni di lotta politica fra le classi in Italia hanno fatto venire alla ribalta con insistenza un vocabolo non nuovo nella storia del movimento operaio: la parola provocazione. Da quando, sul finire dell'autunno caldo, qualcuno coniò l'espressione «strategia della tensione», questo termine si è introdotto con sempre maggiore insistenza ed iterazione nel lessico della sinistra. Questa espressione ha avuto vita ambigua: da una parte è servita ad indicare un disegno politico reale di restaurazione di un tipo di dominio capitalistico eroso e scalzato dalle lotte operaie. Disegno che ha marciato malgrado sia stato caratterizzato da una costante rozzezza e subalternità rispetto alle più lungimiranti e articolate manovre dei centri d'iniziativa capitalistica sul livello internazionale (la trama di questo tentativo è stata tessuta nell'ombra dei servizi segreti, delle complicità da parte dei corpi separati e di precisi settori del capitale imprenditoriale, finanziario, speculativo, di rendita; nei traffici degli agenti provocatori, nel sottobosco fascista vecchio e nuovo, e così via) . D'altra parte questo stesso termine - provocazione — è stato usato

9 per bollare e mettere fuori del movimento di classe i primi comportamenti «irregolari» e illegali dei proletari, delle loro avanguardie comuniste organizzate. Lo spropositato ingigantimento di questa tematica è stato un elemento che ha concorso a rendere possibile il disgustoso spettacolo — oggi in corso — di gente della risma di Andreotti e Taviani in lizza per accaparrarsi meriti di antifascismo. E questo perché tale tematica è andata — ciecamente da parte della sinistra «rivoluzionaria», accortamente da parte di quella riformista — seminare una sorta di identificazione tra gli operai e lo stato democratico, l'ordine antifascista, le istituzioni repubblicane; e a sostituire alla contraddizione fondamentale tra classe operaia e capitale, tra classe operaia e Stato, la contraddizione tra «difesa delle istituzioni repubblicane» ed «eversione fascista». Come se quelli interessati a seppellire questo ordine non fossero gli operai,. ma i fascisti, e i comunisti avessero solo il problema di bonificare questo Stato dai residui inquinanti di una continuità di potere passata indenne attraverso la resistenza e lo Stato democratico. Così, l'unitarismo antifascista — giustificato a suo tempo dai comunisti come tattica per tempi e circostanze particolari, eccezionali (e, peraltro anche rispetto a quei tempi e a quelle circostanze duramente discusso e contrastato all'interno del movimento e degli stessi partiti comunisti), diventa linea strategica, addirittura punto d'arrivo, forma consolidata dell'azione politica. E' la logica del «tutti uniti, tutti insieme» — come per il 12 maggio -; tutti uniti, «grand commis» dei padroni e dirigenti dei sindacati DC freschi di bucato neoresistenziale e vecchi esponenti della clandestinità e della lotta partigiana; tutti insieme, presidenti della repubblica eletti con i voti fascisti, ministri, generali e magistrati che hanno sempre fatto il loro mestiere e hanno protetto i fascisti, quando i fascisti servivano ai disegni del grande capitale. Una situazione questa in cui gruppi della sinistra rivoluzionaria sguazzano felici dentro lo slogan «MSI fuori legge» (come se competesse ai proletari definire i confini della legalità borghese: come se l'abbandono da parte del PCI di questa sua vecchia e perfettamente legalitaria parola d'ordine le restituisse una verginità rivoluzionaria) . E per di più hanno l'ineffabile trovata di chiamare «generali felloni», quelli del SID. Ma felloni rispetto a chi? Non certo ai padroni e a tutto il ceto dominante, dei quali sono sempre stati fedeli cani da guardia, mastini anticomunisti e antioperai. Il risultato di questa stolidità politica diffusa a piene mani, è che

10 l'antifascismo di Stato (solidamente contrapposto a quello militante che — correttamente inteso — è un risvolto della lotta di classe) sta diventando uno strumento del potere dei padroni, del loro dominio sulla classe operaia. Ecco: l'uso acritico e spropositato di questa categoria della «provocazione» ha fatto si che questa tematica — nata come aspetto specifico del lavoro politico dopo la strage di piazza Fontana per demistificare e denunciare i meccanismi del potere, —è diventata un nuovo «instrumentum regni» per i padroni più forti e lungimiranti. E questo innanzitutto perché ha diviso le avanguardie del movimento, e ha provocato un scadimento, un deterioramento del livello politico di molta parte delle avanguardie comuniste organizzate. Che bel colpo per i padroni questo presentare lo scontro sul terreno dei rapporti di forza come una specie di gigantesco apparato cibernetico di simulazione, guidato da un unico agente! Sulla base di questo meccanismo esorcistico, qualsiasi variabile radicalmente antiistituzionale, extralegale, introdotta nel terreno dello scontro di classe diventa automaticamente una provocazione. All'inizio si parla di «provocazione oggettiva»; poi — con un altro salto logico tipico del pensiero isterico - i «provocatori oggettivi» diventano via via dei «manovrati», poi degli «infiltrati», e poi si finisce per rovesciar loro addosso le peggiori calunnie, giocando meccanismi tipici della cultura medioevale, costruendo streghe ed indemoniati «ad usum ecclesiae». Un intero arco di azioni politiche viene così sottratto al terreno dell'analisi e del giudizio politico razionale; non c'è più nemmeno posto per l'eresia, che diventa «tout court» opera diabolica. I vecchi termini in uso nel movimento comunista per attaccare certe posizioni (l'accusa di «estremismo», «avventurismo», «terrorismo», etc.) scompaiono. Tutto viene mistificato, tutto viene fagocitato in un grigiore indistinto, in cui l'unico segno chiaro sarebbe l'onnipotenza e la capacità di simulazione del nemico. Si arriva ad un modello talmente paranoico di ragionamento che — se dovessimo applicarlo alla storia del movimento operaio e comunista negli ultimi cento anni — lascerebbe salve ben poche cose, ben pochi episodi di lotta. Conseguenza estrema dell'applicazione cieca di questa regola, è che il movimento in quanto tale è provocazione (e questo non è poi un paradosso, se è vero che è servito ad alimentare tanta ideologia

11 socialdemocratica - tipo il discorso nenniano sul «diciannovismo» — sulla necessità di star fermi per evitare il peggio). Non c'è dubbio: una rozza applicazione dell'argomento dell'«a chi giova?» a questo conduce. E la storia, si sa. si ripete due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa: e un sofisma usato qualche decennio fa per imporre al movimento comunista europeo e mondiale il punto di vista del «socialismo in un paese solo» e la necessità di identificare per tutta una fase storica gli interessi di rottura rivoluzionaria del proletariato internazionale con gli interessi di stabilità nazionale del paese del socialismo realizzato, diventa — qui ed ora - un meschino sofisma per imporre il piccolo cabotaggio politico di gruppi minoritari che si sentono improvvisamente diventati maggiorenni ed ammessi alla tavola dei grandi, al salotto della politica formale. Chiunque può vederlo: organizzazioni e fogli politici che si sgolano a difendere le più svariate e variopinte organizzazioni di lotta armata - e in qualche caso, decisamente terroristiche esistenti e operanti nel mondo, sono pronti ad attribuire ad «oscuri circoli della reazione» la più modesta delle azioni offensive e illegali che venga compiuta in Italia. Gente che in questi anni si è sbracciata ad applaudire — solo per fare i primi esempi che vengono alla mente — azioni come il rapimento di Sallustro, e che ha pubblicato per intero il programma politico dell'Erp, non ha battuto ciglio nell'attribuire i rapimenti di Amerio e di Sossi al Sid, agli Affari Riservati, alla Cia, ai fascisti, a tutti meno che ad un gruppo di comunisti, di proletari che a torto o a ragione, in modi e in forme più o meno opportune, con tematiche più o meno corrette (questo è completamente un altro piano di discussione, che tutti gli opportunisti non a caso sfuggono ed esorcizzano) —ha intrapreso in Italia la via della lotta armata. Gente che ha dedicato pagine, lagrime, slogan e bandiere all'Ira, ai Fedaijn e a tutte indiscriminatamente - o a quasi tutte — le azioni rivendicate da queste organizzazioni, è pronta a bollare come provocazioni tutta una fitta rete di azioni militanti compiute in questi anni da compagni che si muovono all'interno del movimento, e sulla base di motivazioni e progetti ancora embrionali, disomogenei, tutti da sottoporre — certamente — a maturazione e discussione ma tutti legati comunque a una prassi di violenza proletaria e comunista.

12 Gente che non batte ciglio quando manipoli di studenti che ostentano il fazzoletto rosso danno luogo a guerriglie 'in alcuni casi di discutibile platealità contro fascistelli da quattro soldi, e si permette di chiamare «provocatori» e «incappucciati» gli operai che alla Fiat bullonano i capi, che alla Pirelli, all'Alfa, alla Siemens hanno colpito capi e dirigenti, che nei reparti delle fabbriche e nei quartieri proletari hanno attaccato ruffiani, crumiri, padroni, speculatori, poliziotti e fascisti. Non è difficile vedere, per chi si pone da un punto di vista marxista e operaio, che in tutti questi casi, e in altri consimili, l'opportunismo minimalista — il programma minimo come unico possibile — tocca i vertici del suicidio politico. Perché, delle due l'una: questo amore per la violenza rivoluzionaria purché sia un oggetto esotico o d'antiquariato — lontana nel tempo e nella geografia o è indice di un opportunismo e di un pacifismo volgare, «privato», oppure è indice di un opportunismo teorico che ha origini e contorni precisi. E l'origine è nella teoria secondo la quale la lotta armata è legittimata e resa possibile solo da situazioni di oppressione fascista o di dominio feudale, coloniale o semicoloniale, cioè solo da una particolare forma di dittatura borghese. Ma questa teoria porta necessariamente a negare che il regime democratico sia «la forma più perfetta di dittatura borghese» (rompendo definitivamente con l'analisi marxista e leninista dello stato), e finisce con l'affermare — in modo altrettanto opportunistico — che questa particolare forma, democratica, di dittatura del capitale richiede altri mezzi rispetto a quello dell'organizzazione della violenza rivoluzionaria della classe operaia e di tutto il proletariato. In questo caso bisogna parlar chiaro. Perché un discorso che riconosce la legittimità della lotta armata solo nella periferia capitalistica, in quella che (impropriamente) chiamano l'«arretratezza», è una variante dell'ideologia capitalistica dello sviluppo. E’ la teoria secondo cui le contraddizioni di classe, - nel corso dello sviluppo storico —, si attenuano; la teoria secondo cui lo sviluppo capitalistico cancella la possibilità e l'attualità della rivoluzione. Ma gli opportunisti hanno ancora un tipo di argomentazione, il solito argomento del «momento politico», della considerazione dei tempi e dei rapporti di forze. Argomenti questi in sé corretti, se

13 specifici; ma spesso fasulli, pretestuosi se usati surrettiziamente, in modo indiscriminato, come eterna e generica lezioncina, buona per tutte le occasioni. Come se non fosse vero l'assunto secondo cui «l'iniziativa rivoluzionaria sviluppa le caratteristiche rivoluzionarie che la situazione contiene». Questa lunga. ma a nostro avviso non inutile digressione voleva ricondurre a un altro tema che l'«affare Primavalle» ha sollevato e che merita una specifica attenzione. Ed è la considerazione del fatto che questa «ideologia della provocazione» — tra i guasti che ha «provocato» — ne ha fatto uno gravissimo, che non è stato abbastanza messo in luce. Si tratta di questo: il polverone sollevato attorno ad ogni azione di violenza e di illegalità, ha impedito per lungo tempo alle forze che agiscono nel movimento di vedere con chiarezza e di smantellare per tempo, con lucida determinazione, quelle poche, ma terribili provocazioni che il potere ha architettato. A furia di vedere la Cia e il Sid dietro ogni azione che si collocasse appena un passo in avanti rispetto al livello medio del movimento, a furia di ricostruire la vicenda della lotta politica in Italia tutta come una serie di mosse e contromosse del nemico — unico soggetto attivo che tira i fili di tutto — quando la provocazione c'è stata davvero il movimento ha visto male e tardi. Piazza Fontana e Primavalle. Tutte e due le volte il vestito dell'ergastolo, la maschera del mostro cucita addosso a dei compagni, tutte e due le volte la sinistra ufficiale e una parte di quella extraparlamentare — così pronte a vedere la mano dei fascisti in centinaia di azioni con una chiara impronta comunista - non ha reagito con prontezza. Hanno avuto bisogno delle prove. Hanno avuto bisogno che il rigore deontologico di qualche borghese (ma ci sarà uno Stiz per Primavalle?) ripercorresse a ritroso i passaggi della mostruosa montatura, li demolisse, li sbriciolasse. Hanno avuto bisogno di una dimostrazione processuale, minuta, oggettiva, incalzante, inconfutabile, per scendere nelle piazze e organizzare quella formidabile pressione di massa che ha portato — ma dopo tre anni — alla scarcerazione di Valpreda. Anche per Lollo, ecco i fatti. Poiché ancora una volta si sente il

14 bisogno di questo per muoversi, eccoli, i fatti, in una puntuale controanamnesi, in una ostinata rilettura che ripercorre i passaggi allucinanti di questa montatura: Ora, compagni, potrete gridare tutti «Lollo libero!» senza troppi problemi. Roma. 2 settembre 1974

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