La mia vita in Germania prima e dopo il 1933

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La mia vita in Germania prima e dopo il 1933

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Karl Lowith

Lamia vita in Germania prima e dopo il 1933

IL SAGGIATORE

«Il resoconto della vita di Karl Lowith, scritto nel 1940, fu occasionato da un motivo esterno. L'università di Harvard aveva bandito un concorso a premi, allo scopo di raccogliere da testimoni oculari una documentazione sulla vita in Germania prima e dopo il 1933. Lowith non vinse nessun premio, e la cosa non sorprende dal momento che il bando di concorso precisa va che non erano richieste "considerazioni filosofiche sul passato". Bisogna dire però che Lowith non ha scritto un'autobiografia filosofica, né si è abbandonato a considerazioni generali di critica della cultura. Il resoconto, anzi, fluisce con naturalezza dalla sua mano inconfondibile. Ed è la scrittura di un filosofo che aveva accantonato gli studi di biologia; una scrittura nella quale la freddezza e la pregnanza dell'osservazione microscopica si sposa all'immediatezza e lucidità della descrizione fenomenologica. Non si tratta dunque di una delle consuete memorie in retrospettiva che appaiono al giorno d'oggi, e che cercano di salvare, del passato, tutto ciò che è possibile - o impossibile - salvare. Si tratta piuttosto di un bilancio a metà della vita, steso durante l'esilio in Giappone; di un momento di raccoglimento interiore che testimonia ancora il turbamento immediato dal quale Lowith, con la coerenza in~sorabile del suo pensiero, cerca di liberarsi. E un documento drammatico che non ha fini di composizione artistica compiuta, che anzi ad ogni capitolo si apre con la spontaneità del diario, cita molte lettere e allega persino immagini fotografiche del dispotismo nazionalsocialista, che Lowith andava raccogliendo con instancabil~ curiosità, collera sorda e crescente disprezzo. E un documento che porta impresse le tracce dell'esperienza diretta. Ed è questa la sua insuperabile attualità.» (Dalla Prefazione di Reinhart Koselleck)

la Cultura 70

Karl Lowith

Lamia vita in Germania prima e dopo il 1933 Prefazione di Reinhart Kosellek Postfazione di Ada Lowith

IL SAGGIATORE

Traduzione di Enzo Grillo

ISBN 880431088-X

© J.

B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung und Cari Ernst Poeschel Verlag GmbH, Stuttgart 1986 © 1988 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo originale: Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933 Prima edizione il Saggiatore marzo 1988

Sommario

7 Prefazione di Reinhart Koselleck

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Introduzione Guerra e prigionia Nietzsche prima e dopo Hitler, 23; Austriaci, tedeschi, italiani, 25; L'accoglienza in patria, 28; Il "paragrafo sui reduci dal fronte", 29; Dopo la guerra, 34; Max Weber e Albert Schweitzer, 37; La mia prima amicizia dopo la guerra, 39; Il gruppo di Stefan George e l'ideologia del nazionalsocialismo, 40; Oswald Spengler e Karl Barth, 47; A Friburgo con Edmund Husserl, 48; La filosofia del tempo di Martin Heidegger (1919-1936), 50; La traduzione heideggeriana dell' « esser-ci sempre proprio di ciascuno» nell' « esistenza tedesca», 56; La personalità di Heidegger, 69; La rottura al contrario del dr. B., 72; Lo spirito e il cristianesimo in Germania sono un anacronismo, 77; La posizione di B. sulla questione tedesca, 82; Il mio ultimo incontro con Husserl a Friburgo nel 1933 e con Heidegger a Roma nel 1936, 85; I miei amici di Friburgo durante gli anni universitari, 88; L'inflazione e il disfacimento di tutto lo stato di cose esistente, 89; Istitutore nel Meclemburgo, 91; La fuga in Italia, via da quel periodo, 92; Ritorno a Marburgo e libera docenza, 93; 70° compleanno e morte di mio padre, 96; Tre sintomi della rivoluzione, 97; Prima della rivoluzione, 101; La «sollevazione» tedesca del 1933 e la mia ultima lezione a Marburgo, 104

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1934-1936 Il mio addio a Marburgo, 113; Italiani e tedeschi, 114; Professori nazionalsocialisti a Roma, 118; Due direttori d'istituto tedeschi, 120; Gli emigranti tedeschi a Roma, 123; Emigranti russi in Italia e in Giappone, 128; L'espulsione degli ebrei dall'Italia, 129; Ingenuità giapponese e ingenuità tedesca, 130; Destini ebraici e destini ariani all'università di Marburgo, 133; Il riflesso degli eventi tedeschi in Italia, 136; Al Congresso di filosofia di Praga (1934 ), 138; La revoca dell'incarico all'università e il mio viaggio in Germania, 139; Ritorno in Italia passando per Parigi, 141; In aereo a Istanbul, 143; Chiamata in Giappone e congedo dalla Germania e dall'Europa, 144; Miserie editoriali, 146

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1936-1939 Arrivo in Giappone, 149; Un collega inglese, 150; Un'eccellenza italiana e un consigliere particolare tedesco a Sendai, 150; Gli emigranti tedeschi in Giappone, 154; Nazionalsocialismo a Karuizawa, 156; I miei rapporti con i tedeschi in Giappone, 158; Gli awenimenti tedeschi dal 1936 al 1939, 165; Due emigranti ariani, 168; Come cominciò per me la separazione tra tedeschi e ebrei, 172; Tedesco e ebreo al tempo stesso, 172; La semplificazione tedesca e la protesta tedesca, 17 3

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Ancora un poscritto

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Note

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Curriculum vitae ( 1959)

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Post/azione

209 Indice dei nomi

Prefazione di Reinhart Koselleck

Il resoconto della vita di Karl Lowith, scritto nel 1940, fu occasionato da un motivo esterno. L'università di Harvard aveva bandito un concorso a premi, allo scopo di raccogliere da testimoni oculari una documentazione sulla vita in Germania prima e dopo il 1933. Finora non si era saputo nulla delle circostanze della stesura e del destino del manoscritto che Lowith aveva inviato. Comunque Lowith non vinse nessun premio, e la cosa non sorprende dal momento che il bando di concorso precisava che non erano richieste "considerazioni filosofiche sul passato". Bisogna dire però che Lowith non ha scritto un'autobiografia filosofica, né si è abbandonato a considerazioni generali di critica della cultura. Il resoconto, anzi, fluisce con naturalezza dalla sua mano inconfondibile. Ed è la scrittura di un filosofo che aveva accantonato gli studi di biologia; una scrittura nella quale la freddezza e la pregnanza dell' osservazione microscopica si sposano all'immediatezza e lucidità della descrizione fenomenologica. Non si tratta dunque di una delle consuete memorie in retrospettiva che appaiono al giorno d'oggi, e che cercano di salvare, del passato, tutto ciò che è possibile - o impossibile salvare. Si tratta piuttosto di un bilancio a metà della vita, steso durante l'esilio in Giappone; di un momento di raccoglimento interiore che testimonia ancora il turbamento immediato dal quale Lowith, con la coerenza inesorabile del suo pensiero, cerca di liberarsi. È un documento drammatico che non mira alla composizione artistica compiuta, che anzi ad ogni capitolo

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si apre con la spontaneità del diario, cita molte lettere e allega persino immagini fotografiche del dispotismo nazionalsocialista, che Lowith andava raccogliendo con instancabile curiosità, collera sorda e crescente disprezzo. È un documento che porta impresse le tracce dell'esperienza diretta. E sta qui la sua insuperabile attualità. La narrazione procede - alternatamente - in senso cronologico e tematico. Abbiamo così un duplice approccio e la chiara delimitazione di due piani: da una parte il resoconto delle esperienze vissute personalmente prima e dopo la svolta del 19 3 3, dall'altra la riflessione sulle esperienze stesse, sulle sfide della storia contemporanea che invasero la vita dell'autore costringendolo ad una risposta. La biografia inizia in tono apparentemente normale, parlando della giovinezza di uno studente che fa parte del movimento giovanile, e che proviene da una famiglia di artisti della buona borghesia. Il padre era un ebreo aconfessionale, originario della Moravia ma naturalizzato tedesco, che aveva scelto come città d'adozione Monaco, raggiungendovi una stimata posizione come pittore. La narrazione prosegue con la partenza per la guerra come volontario, le battaglie al fronte nel reggimento del cavalier von Epp, il ferimento grave e la prigionia in Italia, il ritorno a Monaco, l'incontro con Max Weber, gli studi universitari con Husserl e con Heidegger, la libera docenza a Marburgo e i successi nell'attività di insegnamento - fino all'anno 1933. Fin qui, nulla di diverso da una buona biografia, tipica di un esponente della borghesia colta. Nel 1933 giunge, non proprio a sorpresa, la proscrizione come ebreo, che lacera tutte le fibre della sua esistenza borghese. La qualifica di reduce di guerra ha apparentemente ritardato la proscrizione ma in realtà l'ha resa più awilente, quasi che l'aver partecipato alla guerra rappresentasse quella qualifica scientifica che non gli veniva riconosciuta in quanto ebreo. Dal 1933 in poi Lowith si vede imporre alternative che personalmente non ha cercato: dover essere ebreo, essere costretto ad abbandonare la sua professione e a fuggire in Italia come esilia-

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to, non come emigrante. Dopo la scadenza di una borsa di studio Rockefeller, la ricerca di un posto nel resto del mondo. Alla fine, poco prima di una nuova espulsione in base alle leggi razziali italiane, il tempestivo trasferimento a Sendai, dove allievi e amici gli hanno procurato un insegnamento, ad onta dei veti delle autorità tedesche. Il racconto termina prima dell'ultima, anch'essa tempestiva fuga verso gli Stati Uniti, dove Lowith e sua moglie riescono ad approdare poco prima di Pearl Harbor. Questa biografia esterna di un perseguitato, che per sua natura aveva inclinazioni contemplative, ha già la tensione sufficiente ad assorbire interamente l'interesse del lettore. Ma la vera sollecitazione sta nelle riflessioni che Lowith incidentalmente annota. È impossibile riassumerle qui, perché sono strettamente legate alle situazioni irripetibili dalle quali scaturiscono. Le tappe biografiche sono contrassegnate per lo più da persone che Lowith incontrò, nelle quali si riconobbe o con le quali c!ovette scontrarsi. Egli è un maestro del ritratto rapido, psicologico e fisionomico, condito di aneddoti, di dialoghi che fissano in modo indelebile una situazione, e di laconici commenti di una concisione ineguagliabile. Lowith scrive in uno stile tacitiano. Troviamo qui i profili di Max Weber e di Albert Schweitzer, di Bultmann e di Cari Schmitt (per citare solo quattro estremi), che Lowith non a caso ha incontrato sul suo cammino. E troviamo soprattutto la genesi autobiografica della critica a Heidegger, apparsa in seguito, nel 1953, col titolo Heidegger, pensatore in un'epoca di carenza. Il riconoscimento univoco e la presa di distanza dal suo maestro Heidegger si intrecciano a formare un enigma che non può essere sciolto né semplicemente sul piano psicologico, né semplicemente su quello sociologico, e nemmeno sul piano filosofico, perché ogni volta che muta la prospettiva resta sempre un angolo inesplorato. Lowith illumina ciascun angolo, onesto nella gratitudine ma senza farsene distrarre.

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Il resoconto delle straordinarie esperienze personali raggiunge infine un livello esemplare non appena tocca la narrazione di una serie di eventi precedenti e successivi alla presa del potere di Hitler, grazie alla lucidità dello sguardo che Lowith ha conservato. La semantica politica tradisce ancora la vicinanza e il coinvolgimento temporale, la presenza del terrore strisciante o esplicito, che Lowith affronta con una calma gelida, anche se qua e là esplode un odio provocato, riparo minimale alla morsa dei tedeschi nazionalsocialisti che si stringe. Le tappe dell'itinerario imposto alla vita di Lowith indicano per negationem la storia della miseria tedesca, del ridicolo, dell'ambizione, dell'opportunismo e dell'adattamento, della viltà e del fanatismo, che si sostengono e si esaltano tutti insieme reciprocamente. Lo Stato nazionalsocialista a partito unico, con le sue nicchie e le sue assurdità, e con i suoi crimini ben organizzati, si rivela simultaneamente come un presupposto e un risultato di comportamenti che Lowith penosamente - per noi tedeschi - e puntualmente registra. Il più delle volte l'osservazione rende superfluo qualsiasi commento, ma in certe occasioni viene ripassata nei contorni con la penna del grande moralista. I rari casi di forza e di coraggio civile vengono accuratamente registrati, ma anch'essi fanno comprendere chiaramente, quando si incagliano o girano a vuoto, come essi siano soffocati e ricacciati nel privato. Le stazioni di una vita che, vista ex post, è trascorsa relativamente senza tanti danni, e delle quali Lowith fa il resoconto perché hanno riguardato lui e sua moglie, testimoniano di realtà che sfuggono alla normale capacità di immaginazione, realtà che sono state possibili dal 193 3 in poi: la legislazione antiebraica, la "zoologia politica delle percentuali razziali", che trasformano il suo matrimonio celebrato con rito protestante in un "matrimonio misto"; l'applicazione oltretutto arbitraria di quelle stesse leggi antiebraiche, che comporta la revoca dello stipendio e della pensione di guerra nel momento stesso in cui a Roma gli consegnano una medaglia al merito di guerra; il

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blocco dei suoi depositi bancari; la proibizione dell'hotel agli ebrei; le spiate e le denunzie; la costrizione a tacere la verità; il boicottaggio degli editori; la proibizione dei libri, e quindi la riduzione coatta al silenzio e quasi la perdita della lingua tedesca come mezzo di comunicazione pubblica. Tutte queste stazioni, ridicole e banali quanto terribili e paralizzanti, vengono minuziosamente descritte. Lo sterminio sistematico degli ebrei non faceva ancora parte del periodo abbracciato dal racconto cosa che il lettore non deve dimenticare, anche se dei campi di concentramento tutti sapevano. Le voci della patria perduta si spengono, perché la censura non lascia più filtrare notizie che potrebbero suscitare interrogativi. Ma il commiato, deciso con piena consapevolezza politica, non può essere completo perché l'ombra minacciosa del regime nazionalsocialista si allunga sempre più sugli esiliati anche in Italia e in Giappone. Ma Lowith non pronuncia neanche una parola di paura. E così, come si è detto, egli fu spinto da un'alternativa all'altra senza averle mai cercate. Due sono i grandi temi sui quali egli torna insistentemente a riflettere attraverso tutte le storie particolari che racconta: la decadenza del mondo borghese tedesco e la scissione coatta della propria esistenza in quella di tedesco e di ebreo. Sono due temi direttamente connessi che danno l'impronta a tutto il racconto. L'anno 19 3 3 viene vissuto da Lowith come una cesura profonda, come un'improwisa rottura. E ciò non solamente per la discriminazione della sua persona in quanto "ebreo", ma anche come risultato di un lungo periodo di decadenza della borghesia, la quale, travolta dalla guerra e dall'inflazione, si abbandonò a un'ondata di autodistruzione apparentemente senza vie d'uscita. Testimonianze come queste è difficile se non impossibile sottovalutarle, oggi. Giacché Lowith non ci lascia alcun dubbio sul fatto che anche lui, che si considerava e viveva come un impolitico, prese parte all'opera di dissoluzione intellettuale ai danni del cristianesimo e dell'umanismo, sia pure solamente in veste di filosofo storicamente consapevole e

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di analista rigoroso di questo processo. Ma che il percorso dovesse portare non solo da Hegel, attraverso Marx, a Nietzsche, bensì proseguire fino a Jacob Burckhardt, era già implicito nella sua biografia intellettuale degli anni venti. Solo che la consapevole svolta esistenziale fu attuata nella fase del terrore nazionalsocialista, che Lowith concepisce come una conseguenza della storia tedesca. Lowith ammette esplicitamente che non ci può essere più alcun cammino a ritroso, né verso il cristianesimo ad onta del neopaganesimo tedesco, né verso l'ebraismo dal quale aveva saputo emanciparsi, e neanche verso il neoumanesimo classico, cioè a "Goethe". E Lowith non ha mai accettato di "riconoscersi" nella alternativa impostagli, perché sarebbe equivalso ad una opzione politica apparentemente libera e volontaria ma de facto estorta, che l'avrebbe privato, come filosofo, della sua identità. Così egli si trovò ad essere spinto sull'unico sentiero sul quale poteva tener fermo con dignità, anche se egli avrebbe rifiutato questa espressione ritenendola troppo carica di pathos. Era il sentiero che porta lo storico che riflette filosoficamente alla scepsi rigorosa e il filosofo che riflette storicamente a guardare al cosmo che sta prima di ogni storia. Lowith si vide costretto così, paradossalmente, a difendere una tradizione di cui aveva compreso profondamente tutta la problematicità, ma che aveva come risvolto effettivo - e come risultato - la barbarie. L'insistere su una tradizione non più recuperabile non lo spinse tuttavia alla disperazione, ma anzi rafforzò il suo dubbio rigoroso, che si sa superiore a tutte le storie e a tutti gli eventi. Sarebbe presuntuoso sul piano della critica dell'ideologia, e inadeguato su quello filosofico, spiegare questo approdo alla scepsi coerente solamente in termini di condizioni sociali e politico-biografiche. Lo dimostra questo resoconto di Lowith; la sua immunità da qualsiasi fraseologia un'immunità che lo rende a sua volta capace di una glaciale critica dell'ideologia - ha improntato la sua vita fin dalla prima guerra mondiale. Il suo rifiuto di ogni soluzione affrettata o apparentemente definitiva implica un atteggiamento politico

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maturo che non gli fu più possibile rendere attivo nella Germania dopo il 1933, una volta ricevuto il marchio del nemico giudaico. Alla fine, egli pervenne, nel e col suo scetticismo, ad una posizione di intransigente rifiuto di qualsiasi falsa concessione. Da questa autobiografia emergono chiaramente la genesi storicamente condizionata e la perenne forza di persuasione genuinamente filosofica di quello scetticismo di cui Lowith diventerà poi l'esponente dalla sua cattedra di Heidelberg. Il suo distacco gli permise di capire anche quelle voci ambigue che affioravano tra ebrei tedesco-nazionalisti o addirittura nazionalsocialisti, e che appaiono così ridicoli come quegli ebrei che gli provocavano osservazioni antisemite: sebbene in entrambi i casi l'amarezza di una situazione senza sbocchi fornisse una spiegazione ma neanche l'ombra di una giustificazione. Oppure, egli sa distinguere tra il fedele studente delle SS che nel salutarlo a Marburgo lo ringrazia, e quelle figure di arrampicatori senza tessera di partito che arrivano in alto perché si adeguano tempestivamente, sebbene in entrambi i casi ci si appellasse ad un destino tedesco che non forniva nessuna spiegazione ma almeno l'ombra di una motivazione. Lowith rimane scettico di fronte a generiche caratteristiche etniche, ma da quel buon moralista che era, nel solco dei francesi e di Nietzsche, si arrischia a emettere brillanti giudizi sommari, per esempio nel paragone tra italiani e tedeschi - giudizi che nella loro unilateralità non possono che essere veri, ma veri in senso moralistico, non sul piano del puro dato di fatto. Malgrado l'angoscia che suscitano queste pagine, leggerle è anche un divertimento critico. L'edizione, in sede redazionale, è stata accorciata di poche frasi senza stravolgere il senso o il contesto. L'abbreviazione dei nomi è stata mantenuta tutte le volte che Lowith l'ha adoperata. È un segno dei tempi in cui il testo fu scritto. I nomi ridotti a sillaba sono per così dire un coagulo di tipi o ruoli di cui il lettore può enumerare da sé la quantità o le varianti. Lowith non voleva denunziare, ma dimostrare. Per esteso sono stati dati soltanto i nomi di figure note della storia di quel

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periodo, di personalità della politica e della scienza, fino a Spranger, del quale Lowith sa ricondurre ad un denominatore comune sia l'opposizione sia le conferenze tranquillamente folli tenute in Giappone. Infine, vengono citati per esteso i nomi di amici che Lowith non dovette aver timore di nominare. Evidentemente Lowith non pensava di pubblicare il resoconto dopo il suo ritorno. Nel testo, egli si riconosce, con Burckhardt, in una « legge di prescrizione ... che assolvesse non semplicemente dopo un certo numero di anni ma in rapporto all'entità della lesione». Questo fu scritto prima dello sterminio degli ebrei, per il quale non può esserci prescrizione nel senso che ha questo termine. Che ogni "prima" e "dopo" della storia scompaiano sulla scala del cosmo e dell'eternità, è una delle risposte che Lowith ha formulato anche nel suo Curriculum vitae ( 1959) letto all'Accademia delle scienze di Heidelberg, che è stato aggiunto in appendice. Esso testimonia la straordinaria continuità di una posizione filosofica fondamentale che, rafforzatasi attraverso il terrore e l'esilio, sa essere all'altezza e al di sopra di entrambi. Per questo, il racconto della vita di Lowith merita ricordo e gratitudine. New York, marzo 1986

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Introduzione

In Germania la distinzione della storia europea in un "prima" e un "dopo" Cristo è ancora in vigore nel calendario, ma mentalmente è stata abolita. Le dittature scaturite dalla guerra mondiale pretendono di datare nuovamente dall'inizio l'intera storia, come già fece la Rivoluzione francese. E in effetti non si può negare che tutto è diverso da com'era. Nessuno in Germania negherà mai il fatto di questo mutamento. Su questo punto concordano i seguaci di Hitler e i suoi awersari condannati a tacere. Come mi scriveva tempo fa qualcuno dalla Germania, molte cose sono « semplicemente passate>>. L'intento di queste annotazioni è di offrire un certo materiale utile ad illustrare questa "rottura radicale". Esse si basano esclusivamente sul ricordo di esperienze vissute personalmente oltre che su lettere e altri documenti autentici che ho conservato dal 1933, in modo inevitabilmente incompleto e casuale. In confronto ai resoconti ufficiali del congresso del partito nazionalsocialista di Norimberga o anche ai rapporti confidenziali sui campi di concentramento, le parole e gli atti che mi riguardarono personalmente sono insignificanti come può esserlo la sorte di un libero docente tedesco rispetto ad un rivolgimento totale e sistematico. Nell'assenza di vicende eccessive sta tutto il pregio di queste annotazioni: esse infatti restituiscono né più né meno che l'immagine quotidiana di ciò che accadeva realmente nell'ambiente ristretto di un singolo individuo che non si occupava di politica.

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In una sola cosa esse non possono p1u corrispondere alla verità, e cioè nel tono. Il ricordo ha il potere di trasformare anche le cose più amare, e quel che uno racconta a distanza di sei anni è entrato ormai a far parte del patrimonio della sua vita, e allora il dolore originario per la perdita subita si decanta e viene sovrastato. D'altra parte però gli eventi sono ancora abbastanza vivi per poter caratterizzare le persone che ne furono protagoniste in un modo che dimostra come anche oggi esse continuano a riguardarmi, più di quanto magari io stesso possa desiderare. Mi sono tuttavia ben guardato dall'attenuare l'asprezza di giudizio, che è condizionata da questa vicinanza. 14 gennaio 1940

Guerra e prigionia

La rivoluzione tedesca del 1933 cominciò in realtà con lo scoppio della guerra mondiale. Ciò che accade in Germania dal 1933 non è altro che il tentativo di riscattare la guerra perduta. Il Terzo Reich è il Reich bismarckiano alla seconda potenza, e l"' hitlerismo" è un "guglielminismo" esasperato, tra i quali la Repubblica di Weimar è stata solo un intermezzo. In un caffè di Monaco, nei primi anni della rivoluzione, vidi io stesso dei militanti delle SA vendere cartoline postali con i ritratti di Federico il Grande, di Bismarck e di Hitler, e la didascalia in calce diceva che il liberatore della Germania portava a compimento l'opera che gli altri due avevano iniziato. Era una descrizione esatta della linea evolutiva della Germania, e al tempo stesso ne era la caricatura, se si pensa che, in questa "progressione", dalla corrispondenza di Federico con Voltaire si scende, attraverso i Gedanken und Erinnerungen di Bismarck, fino al Mein Kamp/ di Hitler. Lo spirito scettico del re prussiano si era trasformato prima nel grido "sangue e ferro'' degli anni settanta, e infine nella fraseologia livellatoria di una demagogia dittatoriale. La guerra mi aveva sorpreso a diciotto anni durante un soggiorno estivo sul lago Starnberg. Ero allora uno scolaro della penultima classe del liceo scientifico di Monaco. Nell'ottobre 1914 andai volontario nell'esercito. Appena tre mesi dopo ero un fante in piena regola, e prima di Natale ero già sul fronte francese con un battaglione di riserva, che si attestò nelle trincee nei pressi di Péronne. - I motivi che mi avevano spinto a

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dare il benvenuto alla guerra come un'occasione di vita e di morte erano tanti: il desiderio di emanciparsi dall'angustia borghese della scuola e della famiglia, una crisi interiore dopo la rottura della mia prima amicizia, il fascino esaltante della "vita pericolosa" che Nietzsche ci aveva trasmesso, la voglia di buttarsi nell' awentura e di mettersi alla prova, e, non ultimo, il bisogno di alleggerire il fardello della propria esistenza individuale, giunta all'età della ragione attraverso Schopenhauer, con la partecipazione a qualcosa di universale che la coinvolgesse interamente. L'addestramento militare nella T urkenkaserne del reggimento di fanteria bavarese al servizio del principe era stato di una brutalità programmata, specialmente nei confronti dei volontari, col risultato che ognuno di noi aspettava come una liberazione il giorno del trasferimento al fronte. Io fui assegnato alla VIII compagnia, comandata dal barone von Krauss, mentre il comandante del battaglione era il colonnello Epp, che poi nel 1933 fu nominato governatore nazionalsocialista della Baviera. La guerra di posizione durante l'inverno era estenuante soprattutto per la lotta permanente con la fanghiglia delle trincee scavate nel terreno argilloso. Noi giovani volontari resistevamo meglio dei soldati di leva più anziani, che erano tormentati dal pensiero della famiglia, mentre noi eravamo liberi e scapoli. La mia prima promozione la ebbi dopo un'azione di pattugliamento notturno sulle trincee francesi, distanti solo cinquanta metri. Possiedo ancora i tre brandelli di bandiera blu, bianca e rossa che avevo conquistato. Allora li avevo inviati a mio padre per il suo compleanno, e lui li aveva fatti incorniciare. Il mio capitano von Krauss, che i soldati chiamavano « Caruso » per certe sue fisime operistiche, era un distinto signore col monocolo, eccellente comandante e perfettamente soddisfatto della sua carriera. Il mio compagno di scuola e di reggimento, l' alfiere von Lossow, mi aveva segnalato a lui, e così ogni tanto egli mi esentava dal servizio per farmi scrivere i rapporti della compagnia nel ricovero degli ufficiali. Dopo la guerra lo incontrai un giorno per strada, a Monaco. Non era più nella sua splendi-

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da uniforme, aveva anzi un vestito logoro, e mi raccontò di essersi impiegato in un'azienda di esportazione di oggetti d' arte. Il mio amico von Lossow, invece, a guerra finita, lavorò un po' nella redazione del "Miinchner Neueste Nachrichten", poi si occupò di spionaggio industriale all'estero e approdò alla grande industria. Fu ques.to il destino di molti ufficiali di carnera. Nel maggio 1915, dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Francia, il mio reggimento fu aggregato al corpo degli alpini tedeschi e trasferito al confine italo-austriaco. Nel tragitto riuscii a rivedere per poche ore i miei genitori a Kleineiting. Un addestramento da barbari a Brunico, per una parata alla presenza dell'imperatore Carlo d'Austria, ci avvelenò gli ultimi giorni prima della marcia sulle Dolomiti, dove ci accampammo a 2000 metri di quota. Eravamo carichi come muli: avevamo 20 chili di zaino, un fucile che pesava 4 chili con doppia razione di munizioni e due coperte legate allo zaino. Quando arrivammo, di notte, al lago Prax, fradici di sudore come eravamo facemmo il bagno nelle sue acque gelide. In tempi normali ci saremmo presi una polmonite; invece ce la cavammo tutti. Gli uomini erano più resistenti degli animali che portavano le nostre cucine da campo, e che spesso non ce la facevano più ad andare avanti. A me era stata affidata una colonna di trenta uomini, tutti ragazzi bravi e anche capaci. Mantenere rapporti camerateschi con loro non mi era difficile, ma mi ripugnava comandare. Le solidarietà elementari che si stabiliscono nella vita del soldato («qui cacano solo gli ufficiali» aveva scritto beffardamente un soldato nelle latrine degli ufficiali) portavano necessariamente a superare qualsiasi differenza di ceto e di cultura. E durante tutta la mia vita al fronte io non ho mai avvertito una differenza di razza né da parte della truppa né da parte degli ufficiali. Con l'aiuto dei nostri nuovi cannocchiali di puntamento noi sparavamo, a turno, ai camosci e agli italiani che a orari fissi attraversavano un ponte sul torrente Travenanza per portare il rancio a un avamposto. Il mio capitano pensò di fare dei pri-

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gionieri per poter individuare le posizioni del nemico e io mi offrii di guidare una pattuglia di tre uomini. Di notte scendemmo lungo i pendii scoscesi della valle e attraversammo il torrente. All'alba, verso le 4, la nebbia fitta del bosco improvvisamente si diradò e noi ci trovammo all'improvviso direttamente di fronte ad un grosso plotone di alpini, circa venti uomini. Tornare indietro senza essere visti, riattraversando il torrente, era ormai impossibile; perciò io mi appostai dietro un albero in posizione di tiro, avvisai a gesti i miei uomini, mirai e feci fuoco. Un attimo dopo un colpo mi raggiunse al petto togliendomi il respiro. Il contraccolpo mi aveva scaraventato al suolo faccia a terra. Una leggera sensazione di sangue che colava e l'incapacità di sollevarmi sulle mani mi fecero capire in un baleno che non potevo tornare indietro e che ormai ero in mano al nemico. Che fine avessero fatto i miei tre camerati, lo seppi soltanto in seguito per lettera: uno era stato colpito a morte da un proiettile all'addome mentre era nell'acqua, e gli altri due caddero il giorno dopo in un secondo pattugliamento. Tra le lettere che mio padre aveva conservato ne trovai una del soldato F., nella quale egli descriveva ai miei genitori« l'eroica morte» del loro figliolo. Il suo racconto, condito di particolari assolutamente fantasiosi e zeppo di sentimentalismi, non conteneva neanche una parola di vero, ma soltanto delle frasi a effetto di tipo giornalistico, anche se sono convinto che egli credesse a tutto ciò che scriveva. - Ricordo che, appena fui ferito e mi resi conto della situazione, mi passò per la mente un pensiero triviale: « Che peccato per quel bel pacco!»; era il pacco che avevo ricevuto il giorno prima dai miei genitori, pieno di ottime sigarette che non avrei più fumato. Poi persi conoscenza, e quando rinvenni mi ritrovai su una barella nella spettrale luce tremolante di un rifugio angusto e opprimente, dove un medico si occupava gentilmente di me mentre un giovane interprete si impossessava di tutti i miei effetti personali. Nella notte fui portato in barella, da quattro soldati, per ore ed ore attraverso le montagne fino alla nuova destinazione. Poi, dopo essere stato tremendamente sballottato su un camion carico di mattoni,

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arrivai, più morto che vivo, al più vicino ospedale da campo. Per due mesi rimasi tra la vita e la morte. Infermieri di cui non capivo la lingua andavano e venivano per controllare il mio stato di salute. Solo con un prete cattolico riuscii a farmi capire abbastanza, parlando in latino. In quei due mesi ci fu un giorno luminoso che interruppe la solitudine della mia degenza scandita soltanto dai dolori: l'amore e l'energia di mio padre avevano fatto il miracolo, riuscendo a ottenere il permesso di visitare per alcune ore, in un paese nemico, il suo unico figlio (mia sorella era morta già nel 1908, a sedici anni). (Bisogna ricordare che a quell'epoca l'Italia era in stato di guerra dichiarata solamente con l'Austria, non ancora con la Germania, nonostante che sul fronte austriaco fin dall'inizio della guerra avessero combattuto anche truppe tedesche.) Dopo otto mesi di ospedale fui portato in un campo di prigionieri di guerra austriaci, una piccola fortezza in riva al mare a Finalmarina, dove lentamente mi ripresi, anche se la ferita al polmone si era rimarginata così male che tutta la sezione dell'organo fu compromessa per sempre. In seguito ottenni per questo il distintivo dei feriti e un assegno di assistenza di 19 marchi mensili. E più tardi ancora - dopo il novembre 1938, data dell'ultimo (provvisoriamente) pogrom antiebraico - quell'assegno venne trattenuto dallo Stato a copertura della tassa del 20 per cento sui beni degli ebrei, imposta come « tributo di espiazione» per l'attentato di Parigi compiuto da un polacco.

Nietzsche prima e dopo Hitler Finalmarina, un incantevole paesino di pescatori sulla riviera, aveva per me un'altra particolare attrattiva: era vicina a Porto Maurizio, dove prima della guerra passava l'estate l'amico della mia gioventù ormai trascorsa, e da dove si intrecciò un'appassionata corrispondenza con il lago Starnberg: Le sue lettere settimanali erano accompagnate da delicati disegni che tracciavano i contorni morbidi e nitidi delle montagne liguri,

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sulle cui alture il mio amico, nelle notti chiare di luna, riviveva, fino al sorgere del sole, gli stati d'animo di Zarathustra con la serietà immacolata dell'adolescente tedesco che si desta alla vita. Eravamo stati allora un solo cuore e una sola anima, e sul sentiero che passava attraverso Nietzsche avevamo trovato la via che conduceva a noi stessi. Avevamo letto lo Zarathustra già sui banchi di scuola, preferendolo malignamente all'ora di religione protestante. Il mio amico, sostenuto da suo padre ( un grande industriale di vasta cultura, che in seguito finanziò il partito di Hitler), aveva tratto già allora le conseguenze: dichiarò ufficialmente la sua uscita dalla chiesa protestante e diventò membro della "Libera comunità religiosa" che faceva capo al monista E. Horneffer, uno studioso di Nietzsche. La sua piccola comunità, prima della guerra, era soltanto una setta tollerata, mentre ora si è diffusa per tutta la Germania in forma modificata, come cristianesimo "tedesco", nuovo paganesimo e movimento antichiesastico. Io stesso nel 1923 mi laureai con una tesi su Nietzsche; poi, come docente (dal 1928 al 1934), tenni numerosi corsi su Nietzsche; al congresso di Praga del 1934 rappresentai Nietzsche come il "filosofo del nostro tempo"; e infine in un libro del 1935 tentai una interpretazione del nucleo della sua dottrina. E ancora oggi, a ventisette anni di distanza dalla mia prima lettura dello Zarathustra, io non saprei chi altro possa riassumere la storia dello spirito tedesco, quantunque io debba alla rivoluzione tedesca la mia resipiscenza sulla pericolosità della "vita pericolosa". Nietzsche è e rimane un compendio dell'antiragione tedesca o dello spirito tedesco. Un abisso lo separa dai suoi divulgatori senza scrupoli, eppure egli ha preparato loro la strada che lui stesso non percorse. Anch'io non posso negare che il memo che scrissi sul mio diario di guerra« navigare necesse est, vivere non est», attraverso molte vie indirette porta tuttavia direttamente da Nietzsche alla fraseologia eroicistica di Goebbels. 1 Possiedo ancora la fotografia di un patetico autoritratto del mio amico, datato 1913. Essa mi restituisce l'immagine tangibile della nostra unione in Nietzsche. Il volto fissa frontalmente

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l'osservatore, e malgrado la sua giovinezza esprime durezza e inflessibilità; la mano destra alzata all'altezza delle spalle nude impugna una spada sulla quale è inciso il motto « amore e volontà». Quando oggi riguardo quel ritratto mi appare evidente il nesso storico con il presente tedesco: di questi volti tedeschi sono oggi pieni i giornali illustrati - volti induriti fino alla rigidità, con le labbra pressate, tesi in una fissità al limite dell'umano.- Chi conosce il significato che Nietzsche ha avuto per la Germania, non ha difficoltà ad individuare il ponte che attraversa il fossato posto tra il "prima" e il "poi". Senza questo che è l'ultimo filosofo tedesco, non si può capire l'evoluzione della Germania. La sua influenza è stata ed è sconfinata all'interno dei confini tedeschi. Il mondo anglosassone, le stesse Italia e Francia con i loro D'Annunzio e Gide, non potranno mai capire interamente questo fenomeno, talmente estraneo è per loro ciò che attrae i tedeschi a Nietzsche. Come Lutero, egli è un fenomeno specificamente tedesco, radicale e fatale. Solo nell'~state 1934, quando ero già nell'emigrazione, ebbi modo di vedere con i miei occhi il paesaggio di Zarathustra. Trascorremmo il periodo più caldo dell'estate a Pozzetto, vicino Rapallo, e di lì facemmo tutta la strada incantevole che da Ruta arriva fino a Portofino. Ma il primo presagio della bellezza perfetta del Sud l'avevo avuto durante la prigionia a Finalmarina e nelle antiche fortezze sopra Genova, dalle quali. attraverso le inferriate della finestra, io vedevo sorgere il sole dal mare vivendo intensamente alcuni dei momenti più felici di assoluta intimità. E fu proprio in una di queste fortezze che dopo un lungo silenzio mi giunsero alcune fotografie del mio amico. Era ritratto accanto a un pezzo d'artiglieria contraerea, nei Vosgi, e l'incontro col nostro insegnante di biologia Wimmer, di cui eravamo stati gli allievi prediletti, era stata l'occasione per ricordare il terzo della compagnia.

Austriaci~ tedeschi e italiani Durante il primo anno di prigionia io ero l'unico tedesco tra gli austriaci, o per meglio dire tra quel miscuglio di genti che

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l'ultima dinastia della vecchia Europa aveva tenuto insieme fino al 1918: gente di Linz e di Vienna, ungheresi e cechi (questi ultimi in gran parte disertori, che poi combatterono contro l'Austria), croati e polacchi. I viennesi e gli ungheresi erano quelli che più sapevano divertirsi come meglio potevano: organizzavano lavori artigianali e grandi bevute collettive, giochi e divertimenti, musica e canti. Gli "imperial-regi" cadetti e allievi-ufficiali con i quali dividevo la camerata passavano le ore a farsi tagliare e pettinare i capelli dai loro attendenti, e non trascuravano mai di curare il loro aspetto esteriore. Quasi tutti avevano anche degli interessi culturali. Un elegante ufficiale della Marina, con un viso che mi ricordava Oscar Wilde, mi fece conoscere Sesso e carattere di Weininger; il cadetto K. discuteva con me di Feuerbach; il tenente H. contemplava col suo binocolo le signore italiane giù alla spiaggia; il capitano L. aveva riempito le pareti di caricature divertenti, e il sottotenente N., che a causa di un tentativo collettivo di fuga si era fatto con me e altri sette ufficiali un mese di cella di rigore a Forte Maggiore, aveva stuccato le crepe del muro della nostra cella con i maccheroni che avanzavano dal rancio. - Tutti avevano un talento individuale, e un'umanità di vecchio stampo austriaco che dava un po' di serenità alla nostra coabitazione forzata fra quelle quattro mura desolate della fortezza. Nel 1917 io venni trasferito in un campo per tedeschi a Volterra, e da lì a Castel Trebbio, vicino Firenze. La differenza saltava agli occhi: nulla di tutto quanto ho raccontato prima accadeva con i tedeschi, tutti virtù e organizzazione, pedantemente corretti, ed eternamente pronti a protestare, tanto per renderci ancor più dura la vita di prigionia con le loro pretese assolutamente fuori luogo. Io dividevo una stanza con i tenenti H. e Sch. Il primo era stato pretore a Rostock, l'altro aveva intenzione di prendere la libera docenza in storia. Era un ammiratore fervente di Bismarck e uno storico delle razze che aveva i suoi modelli in Schemann e Gobineau. Quando credeva che la sua dignità di ufficiale prussiano non fosse stata sufficientemente considerata, stilava dei lunghi reclami, poi si infilava l'elmetto, si appun-

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rava sulla divisa tutte le sue decorazioni e si presentava trionfalmente al comandante italiano del campo, il quale regolarmente prometteva di inoltrare i suoi reclami, e poi li cestinava. In verità le occasioni per reclamare seriamente erano poche; ma ciò non mi impedì naturalmente di fare a mia volta un reclamo scritto - con l'aiuto di un sorvegliante italiano - e di spedirlo alla legazione svizzera che rappresentava gli interessi dei soldati tedeschi in guerra. La cosa fu scoperta attraverso la risposta scritta della legazione, e io mi presi prima quindici giorni di cella di isolamento - i cosiddetti "quindici acqua-pane" -, e poi venni trasferito per un mese nuovamente a Forte Maggiore. In questa occasione ebbi modo di sperimentare tutta la genuina umanità e semplicità del popolo italiano. Il sottufficiale di sorveglianza mi passava di notte, a suo rischio e pericolo, un po' di pane e formaggio. Un giorno fu costretto a perquisirmi in presenza del comandante, e nel vuotarmi le tasche ci trovò nascoste alcune sigarette. Senza farsene accorgere le chiuse nella mano, disse al comandante che tutto era in ordine, e la notte seguente me le restituì, dandomi anche dei fiammiferi. Voglio raccontare altri due episodi per dimostrare come sia innata, nell'italiano, una sorta di umanità cristiàna. Quando vent'anni dopo mi ritrovai in Italia, incontrai in una trattoria un vecchio signore, ormai in pensione. Mi disse che era un generale di carriera, ma pacifista «autentico», e quindi ora si dava da fare per ridurre gli incidenti stradali, perché era uno scandalo - diceva - che ogni anno migliaia di persone perdessero la vita per questa ragione. Il secondo episodio mi capitò in autobus, a Roma. L'autobus percorreva una strada strettissima sfiorando i passanti, che a stento riuscivano a scansarlo. Un ufficiale che era sull'autobus raggiunse arrabbiatissimo il conducente e gli gridò: « Bisogna prendere le curve più cristianamente.'», ossia non così brutalmente. In Germania è impossibile incontrare un generale così civile e sentire un rimprovero in questa forma cristiana. La mia prigionia in Italia, nonostante tutte le pene, ha destato in me un grande amore per questa terra e per la sua gente, e

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ancora oggi, dopo diciotto anni di disciplina fascista, a Roma e in qualsiasi minuscolo paese la gente è fatta di uomini più che non al Nord, e conserva un indistruttibile senso di libertà personale, e anche di quelle umane debolezze che il tedesco vuole esorcizzare.

L'accoglienza in patria Dopo due anni di prigionia, grazie alla mia ferita fui rimpatriato in occasione di uno scambio di prigionieri. Al viaggio trionfale attraverso la Svizzera, dove ad ogni stazione persone gentilissime ci colmavano di cibi e di regali, seguì la delusione. Insieme ad un altro tedesco gravemente ferito, al confine con la Baviera, a Salisburgo, io dovetti abbandonare i miei commilitoni austriaci, per trasferirmi su un treno riservato ai tedeschi. Ci presentammo al comandante della stazione, un maggiore di una certa età, che rispose appena al nostro saluto limitandosi a chiederci sgarbatamente i nostri "documenti", senza la minima traccia di interesse umano per quanto ci era capitato. Sembrava che il solo fatto che fossimo tornati vivi dalla prigionia, invece di essere considerato eroico, lo contrariasse. Il certificato rilasciato dalla Croce Rossa con la diagnosi delle nostre ferite non gli bastò; ci diede una lavata di capo e ci ordinò di malavoglia su quale treno dovevamo proseguire. Ecco quale fu la nostra accoglienza in patria dopo tre anni di "esperienze di guerra"! Un fatto altrettanto disgustoso si verificò al nostro arrivo a Monaco. Senza tener conto delle nostre precarie condizioni di salute, dopo circa trenta ore di viaggio ci lasciarono per ore in uno scantinato della stazione senza neanche offrirci una sedia, in attesa di formalità da sbrigare. Speravamo almeno di rivedere, dopo tre anni di lontananza, i nostri genitori che abitavano proprio a Monaco, ma la delusione fu amara: ci ordinarono di andare direttamente in caserma e di passarvi la notte. Soltanto il giorno dopo ci concessero il permesso di andare a casa per poche ore. In seguito trascorsi un periodo di cura in camera di decompressione nella stazione termale di Reichen-

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hall, ma senza risultato: uno dei miei polmoni era ormai atrofizzato. Dopo due mesi fui congedato, e ripresi i miei studi. Ma prima di parlare di questi, voglio raccontare le mie vicende dopo il servizio al fronte.

Il "paragrafo sui reduci dal fronte" La rivoluzione nazionalsocialista varò subito una legge sulla restaurazione degli impiegati pubblici tedeschi». Secondo questa legge tutti i pubblici funzionari ebrei dovevano essere destituiti ad eccezione degli ex combattenti o di coloro che erano già stati impiegati prima del 1914 (quindi non a cominciare dal « sistema di Weimar»). Il provvedimento non colpì nessuno dei membri della mia facoltà: 2 l'archeologo J acobstahl era diventato professore ordinario già prima del 1914, mentre il filologo classico Friedlander, il filosofo Frank, il romanista Auerbach, lo storico dell'arte Krautheimer e io eravamo stati tutti combattenti. L'unico che avrebbe potuto esserne colpito era lo slavista Jacobsohn, ma non era più in vita: per disperazione si era buttato sotto un treno. Il "Bollettino" dell'Associazione universitaria non osò pubblicare neanche una parola di commemorazione, liquidando la faccenda con una cinica battuta. Noi altri, allora, sembravamo al sicuro dal punto di vista legale, e continuammo a tenere le nostre lezioni senza alcuno scandalo da parte degli studenti, come invece accadeva altrove. Io stesso pensavo di poter conservare comunque il mio posto, anche se già questa prima legge escludeva la possibilità di uno sviluppo di carriera nelle università tede~che. Le ripetute assicurazioni delle massime autorità di governo, le quali garantivano che tutti gli ex combattenti ebrei potevano restare in carica « con tutti gli onori», avevano dato fiducia a tutti. A dir la verità, il neoeletto Fuhrer del corpo docente, nelle prime settimane della rivoluzione, aveva tentato di impedire le mie lezioni, perché aveva sentito dire che ero "marxista" (in realtà avevo soltanto scritto un saggio critico-comparativo su Max Weber e Karl Marx), ma tutte le sue perplessità scomparvero «

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non appena seppe che ero stato un volontario di guerra. L'argomento "reduci dal fronte'' fu universalmente accettato, e in compenso fece diventare del tutto plausibile la destituzione e la diffamazione di tutti gli altri ebrei.' Del resto, persino tra i colleghi circolavano idee fantasiose sul "giudaismo mondiale" e i suoi collegamenti internazionali, i quali avrebbero assicurato immediatamente una sistemazione eccellente all'estero ad ogni ebreo destituito. Il direttore restò esterrefatto quando gli spiegai che come cristiano io non avevo più il minimo contatto con l'ebraismo, e che reputavo le difficoltà di una vita nell'emigrazione non meno gravi di quelle che mi attendevano in Germania. Ricordo uno studente in uniforme delle SS - rampollo di un'ottima famiglia di ufficiali - il quale anche "dopo Hitler" non si faceva scrupolo di frequentare regolarmente le mie lezioni. Un giorno egli ebbe l'onestà di parlarmi apertamente di ciò che pensava a proposito dei prowedimenti contro gli ebrei. Disse che gli dispiaceva che dopo le nuove leggi io non avrei potuto più conservare l'impiego; certo, in linea di principio egli era contro gli ebrei, ma - aggiunse - solamente contro gli « ebrei orientali», la cui marea durante la guerra, a ben guardare, era seguita alle iniziative dei capi dell'esercito tedesco; sul piano «scientifico» invece - secondo la sua opinione dawero liberale - bisognava fare qualche eccezione. Questo simpatico giovanotto mi stimava senz'altro come insegnante, ma ancor più come uno che aveva fatto la guerra. Voleva sapere delle mie « esperienze vissute al fronte» e me le invidiava. Invece l'emarginazione di tutti quegli ebrei che per caso - o perché ancora troppo giovani o perché inabili - non erano garantiti dalla partecipazione alla guerra, gli sembrava una cosa sulla quale era inutile sprecare tante parole dopo che Hitler e Rosenberg gli avevano dimostrato con mille argomenti che l'ebreo era la iattura della Germania. Rividi ancora una volta quel giovane nel 1935 (durante una breve trasferta da Roma a Marburgo) e gli chiesi se credeva ancora che il Mito del XX secolo di Rosenberg fosse conciliabile con uno studio serio

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della filosofia. Egli ebbe un attimo di esitazione, poi mi rispose francamente di no: aveva scelto il Mito. Lo stesso atteggiamento ingenuo e irrazionale riscontrai in seguito in uno dei miei migliori amici degli anni universitari di Friburgo. Era diventato professore e nel 1935 venne a Roma a tenere una conferenza. Il "paragrafo sui reduci dal fronte" era stato ormai abrogato in seguito alle leggi di Norimberga, e io avevo definitivamente perso il diritto di vivere in Germania. B. mi disse che naturalmente era dispiaciuto del torto che nel mio caso personale mi era stato fatto in quanto « ex combattente», e che egli non aveva certo un debole per la nuova politica culturale, ma come tanti altri anche lui si era dimesso per lasciare il posto alla « generazione più giovane», che certamente avrebbe depurato il movimento delle sue ultime "scorie". Quanto a lui - diceva - era ormai troppo vecchio (aveva trentaquattro anni!) e inservibile per prendervi parte attivamente, poiché per la sua educazione egli apparteneva a quel mondo culturale in via di estinzione che non aveva né fatto né impedito questa rivoluzione. Alla mia obiezione che a lui non doveva importare che cosa ne sarebbe stato dell'attuale « gioventù hitleriana» fra dieci o venti anni, ma che cosa lui, come docente accademico, aveva da dire alla gioventù su ciò che stava accadendo in quel momento, - a questa obiezione egli non seppe opporre che una fede estremamente generica nella storia. Per il resto, l'unica preoccupazione sua era di non commettere nessuna imprudenza che potesse compromettere la cattedra che aveva appena conquistato. Ma ciò che lo lasciò francamente sbalordito fu di sentirmi dire - a proposito del "paragrafo sui reduci dal fronte" - che io non avevo mai ritenuto un onore ma una vergogna il fatto che la mia legittimazione umana e civile dovesse dipendere dalla partecipazione alla guerra, e che la mia abilità di docente per me non aveva nulla a che fare col fatto di aver indossato un'uniforme; egli non riusciva assolutamente a capire perché mai io trovassi assurdo il fatto di essere tollerato all'università sol perché ero stato soldato nel 1914. Che dovesse essere soltanto il servizio militare a garantire la mia qualità

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di tedesco - questo non gli sembrava affatto un problema, tanto owio era ormai per lui il suo allineamento, al punto da non rendersene nemmeno conto. La sua assoluta incapacità di comprendere resta per me ancora oggi sconvolgente, perché dimostrava che ormai non c'era più alcuna speranza di intendersi neanche con coloro che credevano di mantenere un atteggiamento di sublime indifferenza verso la propaganda nazionalsocialista. La stessa persona che nei nostri anni universitari di Friburgo aveva studiato matematica, musica e filosofia, che aveva letto Dostoevskij e Kierkegaard, e i cui amici migliori eravamo io e una ragazza ebrea, - ebbene, questa stessa persona, con una assoluta indifferenza per il destino generale degli ebrei, non aveva il minimo scrupolo a sostenere soltanto la validità di quelle eccezioni che il nazionalsocialismo aveva stabilito prowisoriamente. Come tutti i tedeschi penosamente imbarazzati, egli aveva acquietato la sua cattiva coscienza con il "paragrafo sui reduci dal fronte", e ora era indignato perché lo avevano abrogato. Ritrovai ancora una volta questo stesso atteggiamento mentale quattro anni dopo in Giappone. Un giovane missionario tedesco, che pilotava abilmente il suo cristianesimo tra gli scogli della politica, venne a farmi visita subito dopo il pogrom del novembre 1938. Trattò tutta la vicenda come se fosse un'inezia che non lo riguardasse. Né fece caso al fatto che agli ebrei tedeschi fosse stato estorto un quinto dei loro averi. Ma su un punto si dimostrò assai sensibile: egli protestò vivacemente contro l'ingiustizia (che definì ampollosamente come una « colpa metafisica») di questi prowedimenti in un caso come il mio, di uno cioè che « aveva fatto la guerra». La circostanza che a migliaia di ebrei tedeschi - che avessero fatto la guerra oppure no - venisse tolta ogni possibilità di guadagno, rubato tutto ciò che avevano, demolita la loro abitazione e diffamato il loro nome, e che la maggior parte si trovasse nei campi di concentramento avendo salvato soltanto la pelle -, tutto questo non aveva smosso più di tanto questo missionario cristiano. Richiamandosi a Gogarten, egli riteneva che il problema ebrai-

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co non potesse avere una soluzione «terrena», ma soltanto una soluzione religiosa attraverso la cristianizzazione degli ebrei alla fine dei secoli - una tesi che indubbiamente merita considerazione quanto quella inversa degli ebrei credenti, ma che non è convincente finché serve soltanto come comoda giustificazione di qualsiasi infamia terrena. Dopo l'abrogazione del "paragrafo sui reduci dal fronte", io archiviai il certificato del mio reggimento che attestava i miei meriti militari - compreso il privilegio di appartenere alla "compagnia d'onore" del cavalier von Epp. I miei ultimi rapporti con essa riguardarono il fatto che durante la mia permanenza in Giappone il comandante della VIII compagnia, un certo signor St., si era presentato a mia madre per chiederle dei soldi, perché pare che fosse perseguitato dai nazisti e dovesse lasciare la Germania!? Nel 1935, a Roma, mi fu conferita dall'ambasciatore tedesco (von Hassel) la "croce d'onore per i combattenti del fronte" istituita a suo tempo da Hindenburg. La stessa settimana ricevetti dall'economo dell'università di Marburgo la laconica comunicazione di essere stato « posto in congedo» a causa delle imminenti nuove leggi razziali. Un po' più tardi seguì la proibizione di indossare l'uniforme, e una legge che vietava agli ebrei "l'onore" di prestare servizio militare. Le mie quattro medaglie le lasciai a mia madre quando partii per l'emigrazione; per me non avevano alcun valore, mentre a lei stavano a cuore, per una sorta di orgoglio e di tenerezza insieme. Ricordo con vergogna che nel 19 33, nei giorni del boicottaggio dei negozi ebraici, in alcune vetrine di Marburgo erano esposte le "croci di bronzo" dei negozianti ebrei - un amaro appello ai concittadini e al tempo stesso un'onta per loro. Questa è stata la mia carriera militare. Oggi io non esiterei, in caso di necessità, a servire militarmente o politicamente dalla parte dei nemici della Germania, perché questa Germania è nemica di tutta l'umanità, ed è la negazione di tutto ciò che ha valore per la nostra esistenza. La sofferenza e la morte dei tedeschi attualmente coinvolti nella guerra non mi indurranno ad

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avere nessuna pietà per le conseguenze di un sistema che è spietato per principio e ha dato un calcio definitivo al rispetto dell'uomo.

Dopo la guerra Nel 1918 la guerra entrò nella sua fase più terribile, ma per me personalmente era finita nel dicembre 1917. Del mio reggimento, che era stato trasferito prima dall'Italia alla Serbia e alla Romania, e poi a Verdun, erano rimasti vivi circa 200 uomini, ossia 1115 di quanti eravamo alla partenza. E nel corso della guerra era stato reintegrato decine di volte. Il maresciallo Streil, che nel 1914-15 comandava il mio plotone sul fronte occidentale, aveva combattuto per quattro anni su tutti quei fronti. Era già stato ferito tre volte, e alla fine a Verdun era stato investito dalle schegge di una granata in sei punti del corpo. Dopo la guerra andai a trovarlo a casa sua a Monaco, dove viveva insieme a sua sorella, proprietaria di un piccolo negozio di generi coloniali. Era un uomo sereno e civile, cortese e benevolo con tutti, come se non avesse mai vissuto l'inferno di Verdun. Era diventato ufficiale partendo dal grado di soldato semplice, ed era stato decorato della medaglia d'oro al valore. Dopo la guerra era giunto al grado di capitano dell' esercito. Era il tedesco migliore e più amabile che io avessi mai conosciuto dalla guerra in poi: una persona equilibrata e obiettiva, che non diceva mai una parola di troppo, faceva il suo dovere spontaneamente e trattava i suoi uomini con assoluta imparzialità. Era semplice senza essere mai rozzo, e il suo carattere forte si accompagnava ad un animo dolce, da poeta. Nel 1919 e nel 1933 si tenne lontano dagli intrighi politici. - La maggior parte dei miei compagni era caduta al fronte, ed io ne rividi solo pochi. L. era stato ferito, e aveva una gamba più corta. Il gusto infantile di comandare gli era passato, e ora si dedicava nuovamente alle vecchie passioni di prima della guerra: alla collezione di graziosi pezzi di antiquariato, all'ozio scettico e gaudente, alla cucina e alla vela, e soprattutto ad una

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bella contadinotta bavarese di Dachau che aveva portato con sé nell'appartamento in città. La vita, che la guerra aveva interrotto, apparentemente riprendeva il suo corso - e noi eravamo ancora troppo coinvolti per poter realizzare la cesura che era awenuta con l'epoca anteguerra in tutta la sua profondità e in tutte le sue conseguenze. C'era un compagno di scuola che andava in giro orgogliosamente con la sua medaglia "pour le mérite". La sua faccia da ragazzotto impertinente non era cambiata affatto in tre anni di guerra come pilota da combattimento. Aveva sposato la figlia di un ricco commerciante e guadagnava tanti soldi esibendosi in spericolati voli acrobatici e dimostrativi. Quando fu ricostituita la Luftwaffe fu fatto generale. Del resto, fin da quando era a scuola trascorreva gran parte del suo tempo ad assistere ai primi voli sperimentali sull'Oberwiesenfeld: l'ambizione e il sogno della sua gioventù si erano dunque splendidamente realizzati. Ma anche i miei desideri di gioventù stavano per realizzarsi. A tredici anni avevo cominciato a leggere Schopenhauer, Kant e il 'Platone' tradotto da Schleiermacher, ed ora potevo finalmente studiare filosofia all'università. Il compito di piantare le bandierine sulle mappe del teatro di guerra lo lasciai al mio patriottico padre, che guardava con sconsolata tristezza a questa mancanza di partecipazione del figlio. Gli arretramenti delle truppe tedesche non furono più segnati, le bandierine rimasero ferme sulle posizioni più avanzate, e quando ci fu il crollo del fronte occidentale la guerra, sulla carta, sembrava quasi vinta. Pochi giorni prima della catastrofe avevo accompagnato mio padre ad una conferenza di Tirpitz sugli obiettivi di guerra della Germania. I grandiosi piani di annessione e la barba a doppia punta di questo ammiraglio guglielmino mi avevano disgustato, mentre mio padre ne era rimasto affascinato. Ci fu un'aspra disputa tra padre e figlio, e un abisso si aprì tra le generazioni. - Ludendorff, dopo la guerra, si era trasferito a Monaco, ed era l'ospite d'onore di tutte le feste universitarie. Il suo faccione rosso da macellaio, con quella mascella brutale e quegli occhi duri, mi aveva ripugnato anche prima di conosce-

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re la sua folle concezione teologico-militare. Più attraente mi sembrava invece il volto asciutto e intelligente di un colonnello, P., che aveva fatto parte dello stato maggiore ed ora, da civile, sedeva sui banchi dell'università e studiava economia politica con Max Weber, iniziando una nuova vita. Lo si vedeva spesso tra gli allievi di Wineken, della sinistra radicale, che si esposero durante la rivoluzione del 1919 e ne furono in gran parte travolti. Alcuni riuscirono a fuggire in tempo; una parte di quella che ora è la mia biblioteca me la lasciò proprio uno di questi studenti. Un altro lo rividi nel 1924 a Roma, ed era diventato impiegato di banca. Una figura di spicco di quel periodo, il poeta Ernst Toller, recentemente ha messo fine alla sua vita fallita in un hotel di New York. Un'altra figura indimenticabile, per me, è il volto pallido e stravolto dello studente T., di cui possiedo ancora uno studio sulla follia di Holderlin. Teneva dei discorsi fanatici all'università, e l'effetto maggiore lo otteneva quando parlava dei "sepolcri imbiancati" di Zarathustra. Era una massa di studenti eterogenea, che si fece strada nelle torbide settimane del crollo generale e si impadronì del comando per le poche settimane della Repubblica dei Consigli bavarese. La dinastia bavarese si era dileguata dal giorno alla notte, Kurt Eisner era diventato capo del governo, e il letterato Eric Miihsam una specie di ministro della Pubblica Istruzione - entrambi ebrei. Una mattina, scortato da due guardie rosse, quest'uomo si presentò nell'Auditorium maximum dell'università. Il rettore Baeumker, un mite professore settantenne cattolico-conservatore, fu prelevato e costretto ad ascoltare il truculento discorso che Miihsam, protetto dalle baionette della sua scorta, tenne al corpo insegnante e agli studenti riuniti in assemblea. Poco dopo Kurt Eisner veniva ucciso dal conte Arco, l'esercito entrava a Monaco, e tutti i capi che non erano riusciti a fuggire furono fucilati oppure linciati bestialmente, come accadde ad una figura di prestigio quale Gustav Landauer. L'inizio desolante della guerra aveva avuto una fine altrettanto desolante: ad essa seguì un periodo di stanchezza e di disperazione, durante il quale cominciò a prendere

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forma il partito di Hitler. Ma prima di tutto prevalse la reazione naturale alla tensione spasmodica di una generazione nichilista e defraudata di tutti i segni del ritorno a casa.

Max W eber e Albert Schweitzer In questa condizione di disgregazione generale di tutti gli assetti stabili, interni ed esterni, ai quali i nostri padri ancora credevano, soltanto un uomo in Germania seppe trovare per noi, grazie alla sua lucidità di giudizio e al suo carattere, la parola che ci toccò da vicino: Max Weber. Quando dico "noi", penso ad un piccolo circolo di studenti, che si chiamava degli "Studenti liberi" per contrapporsi agli studenti delle corporazioni. Ogni settimana ci riunivamo nei nostri gruppi di studio filosofici, sociali e politici e discutevamo delle relazioni. Un noto libraio di Monaco, un tipo eccentrico di Schwabing, ci metteva a disposizione il locale. Nella sua sala per le conferenze Max Weber tenne su nostra richiesta, nel semestre invernale 1918-19, il suo discorso sulla Scienza come professione. Ho ancora davanti agli occhi la sua figura, pallida e affaticata, che a passi rapidi attraversa la sala affollatissima e si awia al palco, e strada facendo saluta il mio amico Percy Gothein. Il suo volto, circondato da una barba ispida, ricordava il cupo fervore delle figure dei profeti di Bamberga. Parlò completamente a braccio e senza pause. La conferenza fu stenografata, ed è stata pubblicata poi testualmente, così come venne detta. L'impressione fu sconvolgente. Nelle sue frasi erano condensati l'esperienza e il sapere di tutta una vita, tutto era attinto direttamente dall'interno e ripensato con intelligenza critica, e aveva una enorme potenza di persuasione grazie alla carica umana che la sua personalità gli dava. Al rigore dell'impostazione del problema corrispondeva la rinuncia a qualsiasi soluzione a buon mercato. Egli strappava tutti i veli al mondo dei desideri, eppure ciascuno di noi finiva col sentire che al cuore di questo intelletto lucido c'era un senso di umanità profondissimo. Dopo gl'infiniti discorsi rivoluzionari degli attivisti letterari, la parola

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di Max Weber era come una liberazione. - Una seconda conferenza sulla Politica come professione non ebbe lo stesso slancio trascinante. Un anno dopo quesr>uomo, logorato e consumato dalla passionalità eccessiva della sua attività intellettuale e politica, veniva stroncato da una malattia. Gli studenti reazionari, che si erano risentiti delle sue parole virili in occasione dell' assassinio di K. Eisner, non si resero conto della perdita che subivano con la sua scomparsa. Le università tedesche non hanno mai più avuto da allora un altro insegnante come lui, e se egli avesse vissuto il 1933, lui sì che avrebbe resistito stoicamente, e fino alle estreme conseguenze, al vergognoso allineamento dei professori tedeschi. La massa dei colleghi tremebondi, deboli e indifferenti avrebbe trovato in lui un awersario inflessibile, e forse la sua parola avrebbe mutato il destino miserabile che l"'intellettualità tedesca", come lucus a non lucendo, si è preparato con le sue stesse mani. Egli non parlava di «formazione» del carattere, ma aveva l'uno e l'altra, carattere e formazione. E non avrebbe tollerato a nessun prezzo la diffamazione dei suoi colleghi ebrei - e non per amore degli ebrei come tali, ma per la sua nobile sensibilità e per il suo rigoroso senso della giustizia. Quando nel 1934, a Roma, espressi polemicamente ad un professore tedesco questa mia convinzione, ebbi come risposta la seguente domanda: « Già, ma Max Weber non era anche lui di origine ebraica?». Evidentemente per questo signore era impensabile che anche un tedesco al cento per cento avesse potuto schierarsi a favore degli ebrei che non potevano difendersi da soli. Max Weber, nell'ultima parte delle sue due conferenze, aveva previsto ciò che in effetti si realizzò ben presto: che coloro che non avevano saputo affrontare il destino spietato della nostra epoca sarebbero nuovamente tornati nelle braccia delle vecchie chiese, mentre i« Gesinnungspolitiker», i« politici della convinzione», che si erano inebriati della rivoluzione del 1919, avrebbero finito col soccombere alla reazione, che egli prevedeva entro dieci anni. Ci disse infatti che non eravamo in una primavera in fiore, bensì in una notte di tenebre impene-

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trabili, e che era vano attendere nel nostro mondo del disincanto profeti che ci dicessero cosa avremmo dovuto fare. Da questa condizione Weber traeva l'ammonimento a metterci al lavoro, adempiendo il nostro semplice e modesto « compito quotidiano». - Il compito più immediato, per me, era l'inizio degli studi accademici. La lotta tra i partiti politici non riusciva a interessarmi perché da sinistra e da destra ci si azzuffava per cose che mi lasciavano indifferente e non facevano che irritarmi in quella fase del mio sviluppo. Una sorta di giustificazione me la offrirono le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, apparse nel 1918. All'infuori di Max Weber potrei nominare solamente un altro grande tedesco che mi fece un'impressione che mi ha accompagnato per tutta la vita: Albert Schweitzer. Quest'uomo indimenticabile, cristiano, medico, musicista e uomo di cultura, tenne all'università di Monaco tre conferenze, con un linguaggio e un contenuto tanto scarni quanto penetranti. Non mi è mai più capitato di ascoltare un oratore che fin dalle prime frasi, pronunciate con voce flebile, riuscisse a conquistare così totalmente, con la semplice forza della sua schietta personalità, l'attenzione di più di mille persone. Ciò che egli trasmetteva non era, come accadeva con Weber, una forza demoniaca, bensì la serietà della pace e il fascino della temperanza. È una consolazione sapere che quest'uomo vive ancora ed opera, continuando a rappresentare l'autentico volto del tedesco tra tanto schifo e tante bugie.

La mia prima amicizia dopo la guerra Durante il periodo che ho raccontato ero diventato amico di Percy Gothein, una persona dal carattere insolito, che per la maggior parte dei miei conoscenti aveva qualcosa di scostante e di inquietante. Veniva da una famiglia di apprezzati intellettuali di Heidelberg, e come me aveva iniziato i suoi studi universitari solo al ritorno dalla guerra. Aveva subìto un trauma psichico durante un attacco con i gas asfissianti, ma non ricor-

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do di aver mai scambiato una sola parola con lui sulle "esperienze del fronte". (La maggior parte dei libri tedeschi sulla guerra cominciò ad apparire, come si sa, solo un decennio circa dopo la fine della guerra.) Da lui capii per la prima volta la capacità di formazione umana che emanava da George e da Gundolf, e che ha plasmato in modo decisivo tanti giovani della mia generazione. Quest'uomo bello e passionale, straordinario anche nel suo disprezzo per tutte le convenzioni sociali, mi affascinò non appena lo conobbi. Per il fine settimana viaggiavamo spesso nell 'Isartal e ci fermavamo ad A., dove il fratello maggiore di Gothein - un pittore espressionista che aveva divorato per la quarta volta i Demoni di Dostoevskij aveva rimesso a nuovo con colori sgargianti un piccolo casolare di campagna, che noi prendevamo in affitto per pochi soldi. E lì per notti intere parlavamo fino alle prime luci dell'alba, sull'onda di una musica dell'amicizia alla quale però non riuscivamo ad abbandonarci interamente, per oscure resistenze che impedivano una perfetta sintonia. Anche la mia lucidità critica resistette alla declamazione salmodiante delle poesie di George. Il nostro legame non era nato sotto una buona stella, e durò solamente un anno. Eppure fummo contenti quando il caso, alcuni anni dopo, ci fece incontrare di nuovo, la prima volta la notte di Natale dell"' anno santo" (1924) nella chiesa di Sant' Anselmo a Roma, la seconda quando G. tentò la libera docenza a Marburgo. Non ci riuscì, e non ho mai saputo che fine abbia fatto dopo Hitler. Si diceva che per un certo periodo fosse andato in giro a far conferenze per il partito, ma che poi si sia trovato in una situazione imbarazzante a causa dell'origine ebraica di suo padre.

Il gruppo di Ste/an George e l'ideologia del nazionalsocialismo Il gruppo che faceva capo a George ebbe un ruolo di battistrada dell'ideologia nazionalsocialista che non va sottovalutato. Gli ideali di questa élite esclusiva sono diventati addirittura

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dei luoghi comuni largamente diffusi, ed è anche più che un caso che il giornalista e ministro Goebbels, questo altoparlante del nazionalsocialismo, abbia studiato con l'ebreo Gundolf. Il gruppo di George era in contatto col "movimento giovanile" che in un certo modo anticipò "l'insorgere" del nazionalsocialismo. L'intero mondo cristiano-borghese, per costoro, era già spacciato molto prima dell' awento di Hitler. Odiavano l' « intelletto esangue» e distinguevano tra « esperienza di vita acculturata» e « esperienza di vita originaria», tra «cultura» e «spontaneità>>, e contro i diritti universali dell'uomo proclamavano la diversità gerarchica tra la gente comune e l'élite. Contro lo Stato capitalistico o anche socialista parlavano di « Reich >>, in sostituzione di un Cristianesimo contronatura predicavano un paganesimo che idolatrava il corpo, e si compiacevano dell'affinità tra natura germanica e natura greca. Coltivavano lo spirito di amore virile tra educatori e discepoli e lo spirito di disciplina gerarchica. « Autorità e servizio» era il motto di Wolter. Si esaltavano soprattutto le virtù eroiche e guerriere. L'obbedienza cieca al maestro era un dovere elementare. - Era insomma un nazismo elitario, paragonabile al comunismo elitario di molti intellettuali dopo il crollo. Quando nel 1933 si trattò di pronunciarsi pro o contro il nuovo sistema, negli ambienti che ruotavano intorno a George si aspettò di vedere il comportamento del maestro. Il nuovo ministro dell'Istruzione gli aveva offerto la presidenza dell' Accademia d'arte poetica, ed essi attesero col fiato sospeso la decisione di George. George rifiutò, e fu sostituito da un personaggio mediocre che con la poesia non c'entrava nulla. Subito dopo, ammalato, George se ne andò in Svizzera, a morire fuori dalla Germania, come già aveva fatto Rilke. Tutte le cerimonie in onore del poeta morto non riuscirono a mascherare la differenza tra il nuovo Reich immaginato nella poesia di George e la volgare realtà.

Das meiste war geschehen und keiner sah .. Das trubste wird erst sein und keiner sieht.

Zu jubeln ziemt nicht: kein trium/ wird sein. Nur viele untergange ohne wurde .. ~-: Questi versi, tratti dalla poesia La guerra, valgono anche per il Reich. La generazione più vecchia che faceva parte del gruppo di George rifiutava sicuramente la dittatura democratica di massa, se non altro per questioni di gusto. La più giovane aveva una decisa inclinazione per il rinnovamento rivoluzionario, anche se non per la «figura» del suo Fiihrer. Una posizione intermedia tra le due generazioni fu assunta dallo storico della letteratura Ernst Bertram (noto per un suo libro su Nietzsche), i cui pistolotti letterari sul «risveglio» tedesco furono pubblicati su molti giornali. Nessuno - si diceva in quegli articoli può starsene da parte in questa « Teutoburgo politico-spirituale », e chi si sottrae scientemente a questa battaglia commette un imperdonabile « tradimento degli avi e dei posteri». In generale però le simpatie non andavano alle SA di Hitler ma agli uomini dello stato maggiore prussiano (vedi i libri di Elze su Hindenburg e su Federico il Grande). Un tragico abisso si spalancò tra i giovani ariani ed ebrei. Il mio amico e collega Rudolf F ahrner era un giovane intelligente, di buona formazione, la cui unica debolezza consisteva solamente nell'essersi costruito troppo presto un'ossatura spirituale attraverso Wolter, e nel presumere di poter praticare a venticinque anni l'equilibrio che Goethe aveva raggiunto a settanta. Ebbene, egli sacrificò alla politica la sua amicizia con Karl Schefold perché quest'ultimo non aveva rotto il suo fidanzamento con una ragazza non-ariana, e anche a me fece capire che non avrebbe mai potuto approvare il mio « matrimonio misto». La questione razziale e la questione ebraica gli sembravano questioni capitali per il rinnovamento della vita tedesca, il che naturalIl più era accaduto e nessuno vide ... / Il peggio sta per accadere e nessuno vede.

I Gioire non conviene: non ci sarà nessun trionfo / Solo tante decadenze senza dignità... [N.d. T.]

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mente non gli impediva di riconoscere agli ebrei la loro funzione di stimolo per la cultura tedesca. La questione era tanto più scabrosa in quanto del gruppo di George facevano parte moltissimi ebrei (Karl Wolfskehl, Friedrich Gundolf, Edgar Salin, Berthold Vallentin, Erich Kahler, Ernst Kantorowicz, Kurt Singer e altri ancora - persino l'idolatrato "Maximin" era un giovane rampollo ebraico). Molti di loro, se non ci fosse stato l'impedimento della razza, avrebbero sicuramente aderito al movimento, specie quando all'inizio il pathos nazionale soverchiava l'elemento socialista. Altri continuavano a pensare di essere la "Germania segreta", contro la quale nulla potevano dimostrare palesi ripudi e diserzioni. Essi stessi non si resero mai conto chiaramente fino a che punto subordinassero il Reich segreto a quello ufficiale per poter insistere nella menzogna della loro vita. Edgar Salin, che andai a trovare a Basilea dopo il rivolgimento, in occasione di una conferenza, continuava a farsi beffe della minuscola Svizzera, alla quale doveva la sicurezza della sua esistenza non proprio eroica. Né si fece il minimo scrupolo di vantarsi, pur dopo Hitler, delle proprie relazioni con esponenti di primo piano del partito a Berlino. Il suo studio, nel quale mi ricevette con calcolata solennità e dopo un'adeguata attesa in anticamera, era arredato in sfarzoso stile Renaissance. L'atmosfera era sapientemente propiziata da busti di Dante e di Goethe, e da sentenze napoleoniche incorniciate. Nel 1938 egli mi inviò il suo nuovo libro su Burckhardt e Nietzsche. È scritto in majorem gloriam di Nietzsche, e il criterio con cui descrive il rapporto di Burckhardt con Nietzsche stesso è quello solito, deformante, dei "poeti ed eroi". La stessa impostazione mentale ebbi modo di riscontrarla in seguito in Giappone, dove il caso mi fece imbattere in Kurt Singer, che insegnava nella mia stessa cittadina. Come Salin, anch'egli era un economista suo malgrado, perché la sua inclinazione autentica era per la poesia e la filosofia greca. Chiunque avesse conosciuto il dettato solenne del suo libro su Platone, non poteva non stupirsi nello scoprire che l'autore, in pri-

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vato, era un signore assai emotivo e suscettibile. Alla sua natura era molto più congeniale lo stile mentale di Simmel che non il pathos severo del suo stile letterario mutuato dal "gruppo". Politicamente era un fascista: odiava tutte le istituzioni democratiche e difendeva persino l'invasione giapponese in Cina come una missione storica universale. Aveva vissuto la presa del potere di Hitler solo da lontano, dal Giappone, ma il giorno che Hitler passò all'annessione dell'Austria e dei Sudeti, lui, con occhi sfavillanti e assumendo una posa vibrante che risultava soltanto comica, mi parlò del « Reich >> che stava nascendo - mancandogli ormai soltanto l'Ucraina -, e del «nostro esercito tedesco»! Non gli piaceva che gli si rammentasse il suo ebraismo, e invece delle sofferenze degli ebrei in Germania preferiva parlare delle prepotenze dei cechi sui tedeschi dei Sudeti. Con quella figurina gracile e sempre ansiosa, nei gesti e nelle parole era sempre in vena di "grandezza eroica". In Giappone gli piaceva soprattutto visitare i sacrari degli eroi, e fu solo per un caso balordo che a tenere una serie di conferenze in Giappone sul «mito» e l' « elemento eroico» non fosse lui ma un nazista e fervente antisemita. Ma a Singer non mancavano il senso dell'umorismo e anche una certa superiorità, e c'è da sperare che abbia compreso la tragedia del suo commiato da Sendai anche dal suo lato comico. Era accaduto infatti che, poiché egli non era molto amato nella sua scuola per i suoi modi provocatori e pseudoprussiani, il direttore aveva approfittato della congiuntura politica che attraversavano il Giappone e la Germania per rescindere il suo contratto. Al posto del fascista inopportuno venne ora un giovane tedesco dei Sudeti a rappresentare in maniera realmente legittima il Reich germanico. - Indipendentemente dalla sua perversione politica, comunque, Kurt Singer era una persona spiritualmente ricca e aveva certi tratti che lo rendevano simpatico. E meritava tutto il rispetto il modo in cui questo scapolo cinquantenne riusciva a soprawivere spiritualmente malgrado l'assoluta mancanza di rapporti e di comunicazione, ampliando le sue già vaste conoscenze e i suoi molteplici interessi in Giappone.

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Completamente diversa era la situazione di Karl Wolfskehl, la cui dimensione umana andava ben al di là della sua appartenenza al gruppo di George. Io ebbi la fortuna di stare spesso insieme a lui a Roma, ma lo avevo già conosciuto a Monaco, perché era membro del Rotary club e quindi anche amico di mio padre. Quest'uomo alto e forte era una figura importante: era stato infatti uno dei primi fondatori del gruppo George, e per decenni il punto di riferimento culturale di una cerchia ben affiatata di persone selezionate. Conosceva la letteratura tedesca e romanza meglio di tanti specialisti, ed era un traduttore eccellente. La sua biblioteca era famosa per le sue rarità bibliofile. - A quest'uomo facile agli entusiasmi, un po' viziato ma completamente distaccato da tutte le esteriorità, le vicende tedesche avevano inferto un colpo dal quale si riprese con molta difficoltà, e solo lentamente. Una volta sola egli accennò con me alla sua fuga dalla Germania. Quando lo incontrai a Roma, nel 1934, era come un rudere imponente. L'espressione gaudente del vecchio bohémien si era trasformata nel volto pallido di un cieco, e ora assomigliava ai tremendi geroglifici della sua scrittura informe. Non ci vedeva quasi più, ma riusciva ancora a godere pienamente della bellezza di Roma e delle specialità delle sue trattorie. Alle cerimonie nelle chiese si faceva accompagnare da una sua amica cattolica. Abitava nel vecchio quartiere degli artisti, nella parte retrostante di una casa di via Margutta, un misero buco in cui c'erano solamente un letto di ferro, una sedia di vimini sfasciata e un tavolaccio. In questa specie di cella si compì in lui una trasformazione, della quale parlò in un volumetto di poesie, apparso nel 1936 col titolo Die Stimme spricht ["La voce parla"] presso un editore ebreo di quart' ordine. La voce che gli parlava è quella biblica del Dio ebraico e dei suoi profeti. Il fuoco interiore della sua vita si era smorzato nel ricordo delle sue radici religiose, e tutto ciò che aveva vissuto e scritto per decenni era esploso come una bolla di sapone. Della natura tedesca, che egli aveva colto così profondamente, gli erano rimasti solo l'accento di Darmstadt e il dono della parola.

Herr! Ich will zuruck zu Deinem Wort. Herr! Ich will ausschutten meinen Wein. Herr! Ich will zu Dir• ich will fort. Herr! Ich weiss nicht aus und nicht ein! Ich bin allein. Allein in leerer· atemleerer Luft Allein im Herzen · vor mir selber scheu. Alle meine bunten Balle sind verpuf/t · Alle meine Weisheit ward Dunst und Spreu. Ich bin arm· Gott.' Neu * Quando lasciai Roma, Wolfskehl si era ritirato in solitudine a Recco, vicino Genova. Il suo aspetto era trasandato, ma l' animo era rimasto puro. Un anno dopo l'Italia, seguento l'esempio tedesco, varò le leggi razziali. Wolfskehl continuò la sua peregrinazione, lasciò l'Europa e andò in Nuova Zelanda. Nei destini del gruppo di George si rispecchia il destino comune a tutti gli intellettuali tedeschi ed ebrei. I suoi membri formavano un'élite nella vita culturale tedesca, e gli ebrei che vi appartenevano dimostrarono con la loro intelligenza, la loro partecipazione e la loro attività, di essere capaci di assimilarsi ai tedeschi senza riserve. Eppure dal 1933 gli ebrei non sfuggirono al loro destino e gli altri al livellamento delle loro idee. Essi hanno preparato al nazionalsocialismo strade che essi stessi non percorsero. Ma mi chiedo chi dei giovani più radicali maturati nella generazione della guerra non gli abbia preparato la strada, attraverso quella legittimazione della disgregazione e quella critica dello stato di cose esistente alle quali avevano dato la stura fin dalla prima guerra anche gli "J ahrbi.icher fiir die geistige Bewegung" di Gundolf e di Wolter. Nell'editoriale che * Signore! Io voglio tornare al tuo Verbo. / Signore! lo voglio versare il mio vino. / Signore! lo voglio venire a Te· io voglio andare. / Signore! lo non so da dove uscire e non so dove entrare! / Io sono solo. / Solo nell'aria vuota· dove non si respira· / Solo nel cuore· timoroso di me stesso. I Tutte le mie bolle colorate sono scoppiate· / Tutta la mia sapienza è diventata fumo e loglio. I lo sono povero· Dio! Nuovo [N.d. T.]

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apriva la terza annata (1912) c'era questa affermazione: « N essuno crede ancora sinceramente ai principi che stanno alla base dell'attuale stato di cose nel mondo. Questi presentimenti pessimistici e questi oscuri sentori sono ancora i sentimenti più autentici del nostro tempo, e di fronte ad essi tutte le speranze di costruire qualcosa dal nulla sembrano ormai cadute».

Oswald Spengler e Karl Barth Nel dicembre 1931 la "Frankfurter Zeitung,, aveva pubblicato una serie di articoli dal titolo sintomatico: « Esiste ancora un'università?». A rispondere al quesito erano intervenuti Paul Tillich, Eduard Spranger, Karl Jaspers e altri. La coscienza della decadenza tuttavia non investiva soltanto l'università ma l'intera cultura tradizionale, e fin dai tempi di Burckhardt, Lagarde e Nietzsche essa era così diffusa che i vari gruppi di intellettuali tedeschi esercitarono in realtà un'opera comune di distruzione, diversa soltanto nel fine che ciascuno di essi perseguiva - quando un fine esisteva. Le differenze vennero alla luce solo quando il partito di Hitler prese il potere e volle in positivo qualcosa che mise una fine e un argine alla distruzione, ma al prezzo di un livellamento coatto. Persino Spengler, che più di tutti aveva fomentato con i suoi scritti l'ideologia del nazionalsocialismo, nel momento in cui questo vinse effettivamente se ne ritrasse atterrito perché non riconobbe in ciò che era realmente accaduto il suo "socialismo prussiano". D'altra parte i suoi allievi d'un tempo si sentirono amaramente delusi3 del suo scritto del 1933 (Gli anni della decisione), perché esso non diceva neanche una parola su Hitler e delineava un quadro del « bolscevismo bianco» la cui verità ebbe una clamorosa conferma soltanto sei anni più tardi - cioè dopo il patto con la Russia. Ma altrettanto significativo del rigetto della "decisione,, di Spengler da parte dei nazionalsocialisti era stato l'atteggiamento degli uomini di cultura nei riguardi del Tramonto dell'Occidente (1918). Turbati dalla tesi decadentista di Spengler e irritati dalle sue pretese scientifiche, gli esponenti accademici del-

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le più svariate facoltà fecero fronte comune per confutare Spengler, dedicandogli un fascicolo speciale della rivista "Logos". Ognuno rilevò una quantità di errori e di lacune rispetto al proprio settore specialistico, ma nessuno discusse l'insieme dell'opera, perché istintivamente erano tutti convinti della sua verità, malgrado la loro superiorità scientifica nei dettagli. Il fatto è che la realtà e la coscienza della disgregazione, già molto tempo prima di Hitler, erano cresciute ad un punto tale da poter essere rovesciate, e questo rovesciamento fu il nazionalsocialismo, ossia la disgregazione con segno invertito. E fu chiamata "Au/bruch", ossia "risveglio", "insurrezione" e "rottura" con quello stato di cose. All'infuori del libro di Spengler, una sola opera ebbe un'importanza analoga anche se un effetto più limitato: la Lettera ai Romani di Karl Barth. Anche quest'opera viveva della negazione del progresso traendo profitti teologici dalla decadenza della civiltà. Lo scetticismo verso tutte le soluzioni umane, che la guerra aveva alimentato, portò Barth dal socialismo cristiano alla sua teologia radicale, la quale nega appunto alla radice qualsiasi «evoluzione» del Cristianesimo. Questi due scritti di Spengler e Barth furono le opere che più ci stimolarono in questo periodo segnato dalla fine della prima guerra mondiale. 1 '·

A Friburgo con Edmund Husserl Nella primavera del 1919, nel bel mezzo delle più violente agitazioni politiche, lasciai Monaco e partii per Friburgo. I miei professori di Monaco, Alexander Pfander e Moritz Geiger, mi avevano raccomandato a Edmund Husserl, che era succeduto a Rickert nel 1916, diventando il punto di riferimento * Il termine "Au/bruch", come dirà più avanti lo stesso Lowith (cfr. nota 11), si affermò già negli anni precedenti la prima guerra mondiale nell'ambito del movimento giovanile, per poi acquisire rilievo specifico e senso pregnante nel linguaggio di Heidegger. Per gli ulteriori significati del sostantivo del verbo corrispettivo "aufbrechen" in Heidegger cfr. ancora la nota 11. [N d T.]

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filosofico non solo delruniversità di Friburgo ma di tutta la filosofia tedesca. Molti stranieri venivano a Friburgo proprio perché c'era lui. Egli ci ha spiritualmente educati tutti, con l'alto magistero dell'analisi fenomenologica, con la chiarezza obiettiva e il rigore dell'addestramento scientifico, indirizzandoci, al di là delle realtà transeunti, verso l"' essenza,, atemporale dei fenomeni, che egli concepiva secondo il modello delle entità logiche e matematiche. Nelle esercitazioni di seminario ci spingeva ad evitare tutte le grandi parole, a verificare ogni concetto sull'intuizione dei fenomeni, e a rispondere alle sue domande con "moneta spicciola,, invece che con i biglietti di grosso taglio. Era un "coscienzioso dello spirito" così come lo descrive Nietzsche nello Zarathustra. Non potrò mai dimenticare il modo in cui questo grande indagatore dell'infinitesimale, nei giorni in cui il timore dell'occupazione di Friburgo da parte delle truppe francesi svuotava le aule, continuava a spiegare le sue teorie con assoluta calma e sicurezza, come se nulla potesse turbare la serietà e la purezza della ricerca scientifica. Ed io ho anche avuto modo, nel 1933, di capire la radice etica e l'efficacia proprio di ciò che delle sue Idee ci lasciava più freddi, ossia la dottrina della« riduzione alla coscienza trascendentale>>: il mondo di Friburgo in cui Husserl aveva operato per decenni, per lui in realtà era come se fosse stato « posto tra parentesi» in seguito al rivolgimento nazionalsocialista, senza riuscire a turbare la sua coscienza filosofica. Sebbene fosse già in pensione, egli fu nuovamente messo in congedo dallo Stato, le sue opere furono tolte dalle biblioteche ed esposte ad una "colonna infame" come opere giudaiche. L'università, che gli doveva non poca parte della sua celebrità, si cavò dall'impaccio ignorando tutta la faccenda. Più tardi, un certo signor Grunsky ha scritto un libello per dimostrare che Husserl, come avevano già fatto Filone di Alessandria e Cohen, aveva « talmudizzato » il mondo delle idee dell"'ariano" Platone. 4

La filosofia del tempo di Martin H eidegger (1919-1936) Insieme a Husserl, ma già in contrasto con lui, operava un giovane ancora sconosciuto al di fuori di Friburgo: Martin Heidegger. Personalmente era il contrario del suo maestro, che in fondo era candido come un fanciullo, e su di noi esercitava un fascino più intenso pur essendo tanto più giovane. Heidegger è poi diventato il mio vero maestro, e a lui debbo il mio sviluppo spirituale. L'elemento di fascino che emanava da lui era in parte dovuto alla impenetrabilità della sua natura: nessuno lo conosceva bene, e la sua persona è stata oggetto per anni di aspre controversie quanto le sue lezioni. Come Fichte, anch'egli era solo per metà un uomo di scienza; per l'altra metà, forse la maggiore, aveva la natura dell'oppositore e del predicatore, che sapeva affascinare per quel suo mettersi in urto col mondo, spinto dall'indignazione verso il proprio tempo e verso se stesso. Per capire il carattere di quest'uomo e della sua filosofia bisogna riandare all'espressionismo, che già prima della guerra rispecchiò nella violenza dei suoi colori e nella crudezza del suo linguaggio il disfacimento del mondo culturale della nostra vecchia Europa. Hugo Ball, capostipite di quella forma estremizzata di decomposizione della struttura del linguaggio che fu il «dadaismo», afferma nel suo Fuga dal tempo (in attesa di iniziare la propria fuga verso la Chiesa cattolica) che vi sono epoche e uomini che vanno esclusivamente alla ricerca affannosa del « Grundriss », della « linea di fondo», perché il loro mondo si è disintegrato. « Il filosofo di oggi consuma i due terzi della sua vita nello sforzo inane di raccapezzarsi in mezzo al caos.» E quando le scosse hanno l'intensità di quelle che hanno investito la nostra generazione, ci si può accontentare soltanto di un mondo « decimato e ridotto all'estremo». Ridotto e decimato è anche il mondo spirituale di Heidegger, che fa tabula rasa di tutto ciò che ad esso sembrava ormai fuori tempo e fuori luogo. 5 Il poeta di quest'epoca dirompente era Rilke.

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Alcune frasi delle sue lettere potrebbero fornire senz'altro una chiave di lettura dell'opera di Heidegger: il mondo borghese, affidato alla fede nel progresso e nell'umanità, ha dimenticato le « istanze ultime» della vita umana, e cioè « di essere stato superato fin dall'inizio e definitivamente dalla morte e da Dio» (Brie/e van 1914-1921, p. 89 sgg.). In Essere e tempo di Heidegger la morte non ha appunto altro significato che questo: di essere una « istanza insormontabile» del nostro essere e del nostro potere. Naturalmente in Heidegger non si parla più di Dio - egli era stato troppo teologo per poter narrare ancora, come Rilke, Storie del buon Dio. La morte, per lui, è il nulla dinanzi al quale si rivela il carattere finito della nostra esistenza temporale, o, come diceva nelle sue prime lezioni di Friburgo, è la « fatticità storica». Il pittore che più profondamente ci ha rivelato il problema del nostro tempo è stato Van Gogh: « Da alcuni semestri» mi scriveva Heidegger in una lettera del 1923 « penso continuamente ad una espressione di Van Gogh: 'Io sento con tutte le mie forze che la storia dell'uomo è come quella del grano: anche se non saremo piantati nella terra per germogliare, non importa: saremo macinati lo stesso per diventare pane'. Guai a colui che non passa per questa macina». Secondo Heidegger, invece di darsi alla generica attività culturale, quasi che uno avesse ricevuto come compito la « salvezza della cultura», bisognerebbe, attraverso una « disaggregazione e destrutturazione radicale», attraverso una «distruzione», acquisire per sé la ferma convinzione dell'unica cosa di cui c'è bisogno, disinteressandosi del chiacchiericcio e dell'agitarsi della gente assennata e laboriosa che misura il tempo con l'orologio. In questa ricerca dell'unica cosa di cui c'è bisogno e che perciò è necessaria, Heidegger si muoveva soprattutto sulla scia di Kierkegaard, col quale tuttavia non voleva essere confuso, giacché il motivo e il fine della sua filosofia esistenziale non era certo « portare l'attenzione sull'elemento cristiano», bensì una « denuncia formale» dell'esistenza mondana. « Io voglio per lo meno qualcos'altro - e non è molto: voglio ciò che io sento vivamente come

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"necessario" nell'attuale situazione di rivolgimento di fatto, senza stare a guardare poi se ne deriverà una "cultura" oppure un'accelerazione del declino» (lettera del 1920). Aveva orrore per ogni filosofia della «cultura» e ancor più per i congressi di filosofia; la massa di riviste che apparvero dopo la guerra suscitavano in lui una rabbia furente, e persino la rivista "Antike" di Jaeger gli parve priva di senso e di scopo. Di Scheler scrisse con pungente severità che« ammodernava», tanto per cambiare, Eduard von Hartmann, mentre altri uomini di cultura, accanto al Logos, avrebbero pubblicato un "Ethos" e un "Kairos". « E quale sarà la storiella della prossima settimana? Credo che l'interno di un manicomio abbia un aspetto più decente e razionale di questo nostro tempo.» Coerentemente con questa negazione di principio di tutto lo stato di cose esistente e anche di qualsiasi programma per riformarlo, Heidegger ci metteva in guardia anche contro l'erronea interpretazione e la sopravvalutazione della sua stessa opera, quasi che lui avesse qualcosa di «positivo» o « nuovi risultati» da offrire. « Ne nasce l'impressione che attraverso la critica ci sia da contrapporre qualcosa che nel contenuto sostituisca ciò che si è negato, e che la mia opera abbia finalità di scuola, di indirizzo, di prosecuzione e di integrazione.» Heidegger ribadiva invece che essa non era niente di tutto questo, ma si limitava ad una distruzione critica e concettuale della tradizione filosofica e teologica, e pertanto si teneva in disparte e forse non era neanche sfiorata dalle laboriose vicende quotidiane {lettera del 1924). Bisognava anzi essere felici - egli diceva - di essere fuori dalle mode stagionali, giacché quando le cose invecchiano in modo così rapido, è segno che non hanno un solido fondamento. Da questo atteggiamento scaturì in seguito il suo tentativo di una filosofia del!' essere e del tempo connessa ad una "ontologia fondamentale", la quale condensasse l'intera storia dai greci fino a Nietzsche in un unico problema, per trovare in ciò che è semplice e originario una linea di fondo e un terreno fermo. Che lo straordinario successo dottrinario di Heidegger come insegnante e l'effetto inusitato del suo difficile libro abbiano

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spinto lui stesso oltre i limiti inizialmente voluti e trasformato il suo pensiero in una moda, era certamente contro le sue intenzioni, ma nello. stesso tempo era una conseguenza naturale della sua indole di predicatore sotto mentite spoglie. L'influenza che egli esercitò su di noi non era dovuta principalmente all' attesa di un nuovo sistema, ma appunto alla sostanziale indeterminatezza e al carattere puramente appellativo delle sue intenzioni filosofiche, alla sua intensità e concentrazione spirituale sull' « unica cosa necessaria». Solo in seguito ci fu chiaro che quest'unica cosa in realtà non era niente, era puro decisionismo senza uno scopo preciso. Un giorno uno studente ne fece un'efficace parodia dicendo appunto: « Io sono deciso, ma non so a che cosa». Il nichilismo interiore e anche il « nazionalsocialismo» di questo puro essere risoluti di fronte al nulla erano inizialmente occultati da certi tratti che facevano pensare ad una inquietudine religiosa; e in effetti a quel tempo Heidegger non si era ancora svincolato del tutto dalle sue ascendenze teologiche. Di questo periodo di Friburgo io ricordo benissimo di aver visto sul suo scrittoio i ritratti di Pascal e di Dostoevskij, e una Crocefissione espressionista in un angolo della sua stanza simile ad una cella. Per il Natale del 1920 egli mi regalò il De imitatione Christi di Tommaso da Kempis. Ancora nel 1925 era convinto che ci fosse vita spirituale soltanto nella teologia, in Barth e in Gogarten. 6 Allora egli era in rapporti strettissimi con Bultmann, col quale teneva un seminario sul giovane Lutero. E non era certo piccola pretesa quella di chiedere agli studenti di teologia di conciliare le categorie pseudocristiane dell'ontologia esistenziale di Heidegger con le loro diverse teologie. La chiave per decifrare la teologia senza Dio di Heidegger è in una lettera del 1921, dove egli definiva il suo « io sono» o la sua « fatticità storica» dicendo - testualmente - di essere « un teologo cristiano», e che ciò implicava « radicale inquietudine interiore e al tempo stesso radicale scientificità»: giacché il rigore scientifico della ricerca concettuale accentuava la sua esistenza fattuale, la quale si trasformava perciò, per lui, nel

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problema della « fatticità in generale». Pochissimi tra noi riuscivano a comprendere esistenzialmente questo insieme continuo di pathos personale e di passione concettuale. Quelli che più lo capirono furono alcuni teologi cattolici come Przywara e Guardini, i quali individuavano meglio di noi altri le premesse da cui Heidegger partiva. Da Lutero derivava anche il motto inespresso della sua ontologia esistenziale: « Unus quisque robustus sit in existentia sua,» che Heidegger, privo della fede in Cristo, tradusse nel tedesco della sua ripetuta e insistita affermazione per cui l'unico problema sarebbe « che ciascuno fa quel che può», ossia sempre « il proprio poter-essere» owero « la limitazione esistentiva alla propria, storica fatticità ». Nello stesso tempo egli pretendeva che questo "potere" nel senso della possibilità fosse un "dovere" nel senso della necessità, owero un «destino». In una lettera del 1921, egli mi scriveva: « Io faccio unicamente ciò che debbo e ciò che ritengo necessario, e lo faccio così come posso - non ritaglio il mio lavoro filosofico sui compiti culturali di un generico oggi. Non ho neanche la tendenza di un Kierkegaard. Lavoro sulla base del mio "io sono" e della mia origine spirituale, che è quella che è di fatto. È con questa fatticità che imperversa (sic!) l'esistere». Chi ora, partendo da queste affermazioni, guarda alla futura presa di posizione di Heidegger a favore del movimento di Hitler, troverà già implicito in questa precoce formulazione dell'esistenza storica il nesso successivo con la decisione politica. Basterà solamente uscire dall'isolamento ancora semireligioso e applicare questo esistere sempre proprio di ciascuno e la sua necessità alla propria « esistenza tedesca» e al suo destino storico, per trasferire l'energica corsa a vuoto delle categorie dell'esistenza («decidersi per se stessi», « di fronte al nulla insistere su se stessi», « volere il proprio destino», e « affidarsi a se stessi») dentro il movimento generale dell'esistenza tedesca, e passare quindi a distruggere sul terreno politico. E così non è un caso che ad una filosofia esistenziale di Heidegger corrisponda in Carl Schmitt un "decisionismo" ,7 politico il quale trasferisce il « poter-essere-un tutto»

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dell'esistenza propria di ciascuno alla «totalità» dello Stato proprio di ciascuno. All'autoaffermazione dell'esistere sempre proprio di ciascuno corrisponde l'autoaffermazione della esistenza politica, e alla « libertà per la morte» il « sacrificio della vita» nell'emergenza politica della guerra. Il principio, in entrambi i casi, è lo stesso: la « fatticità », ossia ciò che resta della vita quando sia stata scarnificata di tutti i suoi contenuti. Heidegger era stato chiamato due volte all'università di Berlino, durante la Repubblica di Weimar (nel 1930) e all'inizio del nazionalsocialismo (nel 1933). Rifiutò tutt'e due le volte adducendo come una sorta di giustificazione il carattere« provinciale» della sua esistenza spirituale. Sul giornale "Der Alemanne" del 7 febbraio 1934 egli pubblicò infatti un articolo dal titolo provocatorio« Perché restiamo in provincia?». Dopo una breve descrizione della sua baita nella Foresta Nera, dove spesso ospitava per alcune settimane una ristretta cerchia di allievi, l'articolo prosegue con una sortita polemica contro i «cittadini» colti che durante le ferie vanno nella Foresta Nera per «contemplare» e «godere» obiettivamente la sua bellezza - due termini che in Heidegger hanno un tono spregiativo, come indice di comportamento inattivo, senza «intervento». Lui invece - dice in quell'articolo - la campagna in realtà non la «contempla» mai, perché è il suo « mondo di lavoro», e il corso del suo lavoro coincide col fluire degli eventi in queste montagne. Non il pigro theorein o il guardare, ma la prassi attiva dell'esistenza che si prende cura delle cose dischiude l'essere di questo mondo, e il « tempo alto» per la filosofia è soprattutto quando le violente tempeste di neve infuriano sulla baita e tutto è coperto e nascosto. Il lavoro concettuale deve essere dunque «duro» e «aspro» come questo pericoloso mondo della montagna, e la filosofia non si distingue sostanzialmente dal lavoro del contadino. L'articolo termina con la storia sentimentale del vecchio contadino che, quando lui gli dice della sua chiamata a Berlino, scuote la testa in segno negativo e alla fine dice: « Assolutamente no! ». Che ci doveva fare

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l'alemanno che era un piccolo re a Friburgo tra tutti quei grandi bonzi e notabili di Berlino? Questo articolo dai toni volutamente popolareschi (come la conferenza che un giorno Heidegger ci tenne sullo 'sciare') contiene implicitamente tutti i concetti esistenziali fondamentali. E non è difficile coglierne l'affinità con l'ideologia nazionalsocialista: ringraziamo Dio di non essere 'obiettivi' - amava dire Goring - quando occorre volontà e azione. D'accordo con Nietzsche, l'esistenza nazionalsocialista e la sua filosofia negano il piacere, la gioia e il gusto della vita, per affermare invece la durezza del destino e il rigore del lavoro, che devono essere uguali per il contadino e per l'intellettuale; e stravolge e nega il principio, valido da Aristotele fino a Hegel, per cui la contemplazione filosofica è l'attività umana più elevata perché libera dai bisogni immediati. Ma cosa direbbe Heidegger se gli si ricordasse che anche un acceso nazionalsocialista come Hermann Glockner, nel primo fascicolo della "Zeitschrift fiir deutsche Kulturphilosophie" (1934) - che sostituì "Logos" - afferma esattamente la stessa cosa quando sentenzia che la filosofia tedesca ha una relazione particolarmente intima con i soldati e i contadini, a differenza dell'intellettualismo (Descartes) dell'inerte teoria. Forse inorridirebbe a questa indesiderata parentela, ma non capirebbe lo stesso a che cosa essa risale: a quel suo associarsi all"' anonimità" nazionalsocialista, per quanto egli abbia potuto poi distanziarsi consapevolmente dalle brutture della filosofia ufficiale del partito e dai relativi discorsi su sangue e suolo. La rivolta contro lo «spirito» ha i suoi patrocinatori in campi assai diversi: in Klages e Baeumler, in Heidegger e Schmitt, e forse bisogna vivere fuori della Germania per poter riconoscere queste differenze locali come variazioni di un unico e medesimo tema.

La traduzione heideggeriana del!'« esser-ci sempre proprio di ciascuno>> nel!'« esistenza tedesca>> Nel 1933 Heidegger divenne rettore all'università di Friburgo. Fu un awenimento, perché tutte le altre università, in quei

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tempi critici, mancavano di una guida in grado di occupare un posto del genere non soltanto grazie al distintivo del partito ma anche per i suoi meriti scientifici. La massa degli intellettuali tedeschi era reazionaria o indifferente. Heidegger aveva resistito alla chiamata a Berlino, ma aveva ceduto alla tentazione di dirigere la propria università. La sua decisione trascendeva il significato locale ed ebbe una vasta risonanza. Gli studenti di Berlino invitarono tutte le università a seguire l' « allineamento» che c'era stato a Friburgo. D'altra parte anche un eventuale rifiuto del rettorato di Friburgo non sarebbe rimasto senza conseguenze, perché Heidegger era allora al culmine della sua fama. La sua decisione fu invece una sorpresa per i suoi allievi, perché in precedenza egli si era espresso rarissime volte su questioni politiche, e mai chiaramente. Nell'assumere la carica, Heidegger tenne una prolusione su L'autoaffermazione del!' università, che mi inviò con « amichevoli saluti», mentre i miei amici ariani la ricevettero con un « saluto tedesco». Se lo si paragona agli innumerevoli libelli e discorsi che i professori allineati produssero dopo il rivolgimento, il discorso di Heidegger è certamente di altissimo livello filosofico e di vasto respiro, un piccolo capolavoro per il modo in cui è formulato e impostato. Se invece lo si misura col metro della filosofia, esso è la quintessenza dell'ambiguità, giacché sa adattare così sapientemente le categorie ontologico-esistenziali all' «istante» storico (Essere e tempo, par. 74 ), da dare l'impressione che intenzioni filosofiche e situazione politica, libertà della ricerca e coercizione statuale potessero e dovessero coincidere a priori. Il « servizio del lavoro» e il « servizio militare» diventano tutt'uno con il « servizio del sapere», sicché alla fine uno non sa bene se deve mettere mano ai Vorsokratiker di Diels o marciare con le SA. Non è possibile perciò giudicare questo discorso né da un punto di vista politico né dal punto di vista filosofico, perché esso sarebbe debole tanto come discorso politico quanto come saggio filosofico. Esso immette la filosofia dell'esistenza storica di Heidegger nel corso degli eventi tedeschi sicché attraverso questa immedesimazione la sua

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volontà di azione trovò per la prima volta un terreno concreto, e il profilo formale delle categorie esistenziali ricevette un deciso contenuto. 8 Il discorso inizia con una singolare contraddizione: in opposizione all'autonomia dell'università minacciata dallo Stato, esso tratta della sua «autoaffermazione», ma nello stesso tempo nega la forma «liberale» della libertà accademica e della autonomia amministrativa per inquadrarla senza riserve nello schema nazionalsocialista della «guida» e dei «seguaci». Dovere del rettore dunque è guidare spiritualmente gli insegnanti e gli studenti; ma anche lui - che è il Fuhrer, la guida - è a sua volta guidato dal « compito spirit~ale del suo popolo». Quali siano poi i contenuti e le forme di legittimazione ·di questo compito storico, resta indeterminato. Il mandatario è in ultima analisi il «destino», che bisogna volere. A questa indeterminatezza del compito fa riscontro il suo accentuato carattere «inesorabile». E con una asserzione indiscutibile il destino del popolo viene legato alle sorti delle università: il compito che concerne l'università sarebbe identico a quello che concerne il popolo, scienza tedesca e destino tedesco conseguono potenza in un'unica «volontà». La volontà di essenza viene qui tacitamente equiparata alla volontà di potenza, giacché essenziale per l'atteggiamento nazionalsocialista è la volontà come tale. 9 Prometeo, simbolo del volere occidentale, è così il « primo filosofo » 10 che bisogna seguire. Spinto da questo volere prometeico, nell'età dei greci l'uomo europeo sarebbe originariamente « insorto contro l'essente» per porre ad esso la questione del suo essere, e questa insurrezione rivoluzionaria caratterizzerebbe lo «spirito», il quale certamente soccombe alla potenza superiore del destino, ma proprio nella sua impotenza è creativo. Lo spirito quindi non sarebbe affatto la ragione universale, l'intelletto, l'intelligenza, e men che meno l'esprit, bensì « consapevole scelta di decidere» per l'essenza dell'essere, e il vero « mondo spirituale» sarebbe un « mondo del pericolo più estremo e più interiore». Il pericolo è l' autentica «vocazione» dell'uomo, il suo Beru/, ha detto Nietzsche

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nello Zarathustra. Con rigore militaresco si chiede perciò allo studente, armato della volontà di sapere, di «avanzare» sulle « posizioni del pericolo più estremo», di marciare, di impegnarsi e di esporsi, di far fronte e di tener duro, e soprattutto di esser deciso a farsi carico del destino tedesco, che sarebbe là [da sei], in Hitler. Il vincolo con il Fi.ihrer e con il popolo, col suo onore e col suo destino, fa tutt'uno con il servizio del sapere. E in risposta alla domanda di Nietzsche, il quale chiedeva se l'Europa volesse ancora se stessa oppure non più, Heidegger esclama: « Noi vogliamo noi stessi», nella convinzione che la forza giovane del popolo tedesco ha già deciso positivamente sulla volontà di autoaffermazione - e non solo dell'università ma dell'esistenza tedesca in generale. Ma per comprendere interamente « la magnificenza e la grandezza di questo risveglio» noi dovremmo ricordare - ci dice Heidegger - la saggezza di una frase di Platone, una frase che però egli traduce, travisandone fortemente il senso, con «Alles Grosse steht im Sturm .1 » [«Tutto ciò che è grande è in tempesta! »]. ~·- Se la saggezza di Heidegger assumeva alla fine toni così tempestosi, quale giovane SS non se ne sarebbe sentito toccato nell'intimo, nel caso che avesse avuto abbastanza cultura filosofica da saper penetrare il nembo greco che awolgeva questa maniera molto tedesca di scatenare tempesta. - Secondo Heidegger la comunità dei docenti e degli studenti è una comunità di lotta, e solo nella lotta il sapere si innalza e si conserva. In una lezione di quel periodo si legge: ogni «essenza» si dischiude soltanto al coraggio, all' «animo» [Mut], non alla contemplazione, e la verità si lascia riconoscere solamente se la si pretende, se si ha cioè l' «animo», il coraggio della verità [Wahrheit « zumutet »]. Persino il « Gemu,t » [I'« animo»] tedesco viene messo in connessione con questo « M ut » o « animo». Analogamente si dice che il nemico non è semplicemente «presente», bensì l'esser-ci deve crearsi da sé il proprio nemico, per non cadere nell'inerzia. Tutto ciò che «è», è in generale « dominato dalla lotta», e * La frase di Platone citata da Heidegger nel discorso di rettorato è « Tà ... µEyétÀaJtétvm Emm:paÀrj » (Politeia 497 d, 9). [N.d. T.]

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dove non c'è lotta né dominio, c'è decadenza. L'Essenza si essenzia nella lotta. In realtà nelle università tedesche, persino sotto la guida di Heidegger, non s'è svolto nessun agone greco, ma c'è stato soltanto lo squallore ottuso del livellamento coatto, che condannò i migliori al silenzio e abituò i più ad un doppio linguaggio: uno autentico tra le quattro mura di casa, e uno inautentico nella vita pubblica, la cui organizzazione li assediava da ogni parte. La "guida" di Heidegger durò solo un anno. Dopo qualche delusione e alcuni dispiaceri, egli si ritirò dall' «incarico», per tornare ad opporsi alla vecchia maniera alla nuova « anonimità », e ad arrischiare qualche amara considerazione nel corso delle sue lezioni, anche se ciò non contraddice il suo sostanziale coinvolgimento nei fatti e misfatti nazionalsocialisti. Lo "spirito" del nazionalsocialismo infatti ha a che fare non tanto con il 'nazionale' e il 'sociale', quanto piuttosto con quel radicale decisionismo e dinamismo che rifiutano qualsiasi discussione e intesa, perché contano unicamente ed esclusivamente su se stessi - sul poter-essere (tedesco) sempre proprio di ciascuno. Sono sempre espressioni di violenza quelle che definiscono il vocabolario della politica nazionalsocialista e della filosofia di Heidegger. Allo stile dittatoriale della politica corrisponde il carattere apodittico delle formulazioni cariche di pathos di Heidegger. Comune all'uno e alle altre è il tono di sfida, accompagnato dal perfido piacere di trattare bruscamente. È soltanto una differenza di grado, e non di metodo, a determinare le differenziazioni all'interno dei seguaci, e alla fine è il "destino" che giustifica qualsiasi volere ammantandolo di filosofia della storia. - Un mese dopo che Heidegger aveva tenuto la sua prolusione, Karl Barth scrisse il suo appello alla teologia, (Esistenza teologica oggz), contro l'allineamento ai potentati del tempo. Questo scritto fu e rimane l'unica manifestazione seria di una resistenza morale contro la terocia di quel tempo. Per essere capace di uno scritto analogo, la filosofia non avrebbe dovuto trattare di "essere e tempo" ma dell'essere dell'eternità. Senonché il punto centrale della filosofia di Heidegger stava

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appunto nel suo intendere « decisamente il tempo sulla base del tempo», perché anche come filosofo egli era ancora abbastanza teologo da identificare l'eternità con Dio - e il filosofo « non sa nulla» di Dio. Questo legame negativo della problematica filosofica del tempo in Heidegger con il problema del1' eternità nella teologia, venne chiaramente in luce soltanto in una conferenza del luglio 1924. Su questo sfondo storico-politico si chiarisce il significato specificamente tedesco dei concetti che qualificano il Dasein, l'esser-ci heideggeriano: esistenza e risolutezza; essere e poteressere; l'interpretazione di questo "potere" in quanto "possibilità" come un destino e un "dovere" in quanto "necessità"; l'ostinata insistenza sul poter-essere (tedesco) « sempre proprio di ciascuno», e la reiterazione ossessiva di parole come « disciplina» e «costrizione» (persino alla « chiarezza del sapere» bisogna arrivare a «costringersi»), «duro», «inesorabile», «rigoroso», «severo» e «drastico» («l'atteggiamento drastico dell'esistere»); « far fronte» e « contare su di sé», « impegnarsi» e« esporsi al pericolo»; e poi «sovvertimento», « rottura in avanti», « irruzione ». 11 Sono tutti termini che rispecchiano la mentalità catastrofale di quasi tutte le persone in Germania nel dopoguerra. Il minimo di cui si occupava la loro mente erano concetti come« origine» e «fine», oppure« situazione-limite». In fondo, tutti questi concetti e queste parole sono l'espressione della dura e spietata risolutezza di una volontà che si afferma di fronte al nulla, di un esistere senza pace e senza gioia, orgoglioso del suo disprezzo per la felicità e per qualsiasi umanità.12 Certo, nessuno di noi avrebbe mai immaginato nel 1927, quando apparve Essere e tempo di Heidegger, che la morte che è « sempre propria di ciascuno», quella morte individuale in una solitudine radicale che Heidegger vedeva esemplificata nel racconto di Tolstoj La morte dilvan !tic, sei anni dopo potesse essere rimodellata per esaltare la gloria di un «eroe» nazionalsocialista. Eppure il salto dall'analisi ontologica della morte al discorso di Heidegger su Schlageter (apparso nella "Freibur-

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ger Studentenzeitung" del 1° giugno 1933) non è che un passaggio dall'esistenza isolata, propria di ciascuno, ad una esistenza generale, che è propria di tutti ma che nella sua generalità non è meno isolata in quanto tedesca. 13 Schlageter - diceva Heidegger in quel discorso commemorativo tutto di maniera è morto « della morte più difficile e più grande», fucilato inerme (per sabotaggio nel territorio di occupazione francese) mentre la sua nazione giaceva umiliata al suolo. Nella sua solitudine, egli dovette trarre da sé e raffigurare dinanzi alla sua anima, per morire nella fede in questa visione, l'immagine del popolo che nel futuro si risveglia e insorge per il suo onore e la sua dignità». Heidegger si chiede: da dove nascono questa « tenacia della volontà» e questa « limpidezza del cuore»? E risponde evocando le « rocce primitive» delle montagne della Foresta Nera (patria di Schlageter) e la loro limpidezza autunnale, per dire che queste forze telluriche si erano riversate come un torrente nella volontà e nel cuore di questo giovane eroe. - La verità è che Schlageter era uno dei tanti giovani tedeschi sbalestrati dalla guerra, una parte dei quali diventò comunista, l'altra il contrario. E. Salomon li ha efficacemente descritti nel suo romanzo La città. Abbrutiti dalla guerra, una volta lasciato il servizio militare questi giovani non riuscirono più a reinserirsi nella vita civile e si accodarono ad uno dei corpi franchi, a sprecare la loro vita dovunque e contro chiunque in una serie di imprese scapestrate. E tutto questo, il filosofo dell'esistenza lo chiama 'dovere', 'necessità', 'fato'. «Egli dovette andare nel Baltico, dovette andare nell'alta Slesia, dovette andare nella Ruhr », dovette adempiere al destino che egli stesso si era scelto. Tanto basse erano ormai, persino per un filosofo, le quotazioni del fato della tragedia antica in quel nostro periodo d'inflazione. Alcuni mesi dopo questo discorso la Germania uscì con aplomb dalla Società delle Nazioni. 14 Il Fi.ihrer impose le elezioni suppletive per mostrare a tutto il mondo che la Germania e Hitler erano tutt'uno. Heidegger lasciò che gli studenti di Friburgo marciassero compatti sul seggio elettorale e che des-

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sero en bloc il loro voto favorevole alla decisione di Hitler (in altre università, come Marburgo, si poté votare ancora con un "sì" o un "no", anche se le elezioni erano segrete solo pro forma). Il "sì" alla decisione di Hitler sembrò a Heidegger identificarsi con il 'sì' all' « essere autenticamente se stessi». Il manifesto elettorale che egli fece diffondere come rettore è in perfetto stile nazionalsocialista e nello stesso tempo è un estratto popolare di filosofia heideggeriana. Eccone il testo: « Uomini e donne tedeschi! Il popolo è stato chiamato alle urne dal Fuhrer. Ma il Fiihrer non implora nulla dal popolo. Al contrario, egli dà al popolo la possibilità più diretta di decidere nella massima libertà: di decidere - il popolo tutto - se vuole la propria esistenza autentica oppure no. Queste elezioni non sono assolutamente paragonabili con tutte le altre precedenti. Il carattere unico di queste elezioni sta semplicemente nella grandezza della decisione che in esse dobbiamo prendere. E l'inesorabilità delle cose semplici e ultimative non tollera esitazioni e indugi. Questa decisione ultima giunge a toccare il limite estremo dell'esistenza del nostro popolo. Qual è questo limite? Esso sta nell'aspirazione originaria di ogni esistenza a conservare e salvare la propria essenza autentica. Si erge in questo modo una barriera tra ciò che si può chiedere ad un popolo e ciò che non si può chiedergli. In virtù di questa legge fondamentale dell'onore il popolo preserva la dignità e la fermezza della sua essenza. Non l'ambizione, non la sete di gloria, non una cieca ostinazione e nessuna aspirazione violenta hanno spinto il Fiihrer ad uscire dalla "Lega delle nazioni", ma unicamente la chiara volontà di una autoresponsabilità assoluta nel1' addossarsi e dominare il destino del nostro popolo. Ciò non significa abbandonare la comunità dei popoli. Al contrario - il nostro popolo, con questo passo, si sottopone a quella legge essenziale dell'esistenza umana cui ciascun popolo deve prima d'ogni altra cosa ubbidire se vuole essere ancora un popolo. Solo dalla concorde osservanza di questo diritto incondizionato alla autoresponsabilità, può nascere la fiducia reciproca e affermarsi quindi una comunità. La volontà di giungere ad una

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vera comunità dei popoli è lontana tanto da una fratellanza universale instabile e non impegnativa quanto da un cieco dominio della violenza. Quella volontà trascende questa antitesi. Essa genera una leale e virile autonomia e reciprocità di relazioni tra i popoli e gli Stati [ ... ]. La nostra volontà di autoresponsabilità etnica vuole che ciascun popolo trovi e conservi la grandezza e la verità della sua destinazione. Tale volontà è la più alta garanzia di sicurezza per tutti i popoli: giacché essa vincola se stessa alla regola fondamentale del rispetto virile e dell'onore senza condizioni. Il 12 novembre il popolo tedesco nella sua totalità sceglie il suo futuro. Questo futuro è legato al Fi.ihrer. Il popolo non può scegliere questo futuro votando "sì" per cosiddette considerazioni di politica estera, senza includere in questo "sì" anche il Fi.ihrer e il movimento che gli è incondizionatamente affidato. Non esiste una politica estera e neanche una politica interna. Esiste un'unica volontà che vuole l'esistenza piena dello Stato. Il Fi.ihrer ha risvegliato pienamente questa volontà in tutto il popolo saldandola in un'unica decisione. Nessuno può astenersi nel giorno della dichiarazione di questa volontà!» (" Freiburger Studentenzeitung", 10 novembre 1933). Heidegger aveva parlato per la prima volta nella sua prolusione accademica di Friburgo (Che cos'è la metafisica?) della « grandezza ultima» dell'esser-ci, la quale consisterebbe nello spendere la propria vita «audacemente». Da allora egli fece largo uso della grandezza eroica. Essa vale per la morte di Schlageter non meno che per la decisione hitleriana del colpo a sorpresa e della soluzione audace che scavalca qualsiasi rapporto patrizio e la sua base giuridica. E tutto questo - secondo lui - non significava abbandonare la comunità dei popoli europei, ma « al contrario» rendere possibile una vera comunità in cui ciascun popolo (seguendo il modello tedesco) se ne sta autonomamente per conto suo per essere proprio così anche « in relazione reciproca» con tutti gli altri! 15 Una settimana prima di questo manifesto elettorale Heidegger aveva pubblicato un appello agli studenti (" Freiburger Stu-

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dentenzeitung", 3 novembre 1933 ), nel quale si diceva in tono assai generico che la rivoluzione nazionalsocialista aveva portato ad un « completo sowertimento della nostra esistenza tedesca». Agli studenti spettava il compito di attenersi, nella loro volontà di sapere, a ciò che è essenziale, semplice e grande; di essere duri e sinceri nel chiedere e chiari e sicuri nel rifiutare; di impegnarsi con spirito combattivo e di farsi crescere il coraggio di sacrificarsi per salvare l'essenza del popolo ed esaltarne la forza. Le regole della loro esistenza di studenti non dovevano essere le « idee»; soltanto Hitler doveva essere la loro legge. « Il Fiihrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca odierna e futura e la sua legge.» Pare che già prima della rivoluzione Heidegger abbia dichiarato che, tra tutti i cancellieri candidati, soltanto Hitler ne avesse « la faccia». Egli prendeva anche completamente sul serio il saluto "Heil Hitler", e lo usava persino nelle lettere private. Il saluto tedesco era ormai sulla bocca di tutti i cittadini tedeschi come una volta il "Griiss Gott" o l"' Adieu". Bisognava essere proprio un originale come il mio calzolaio di Monaco per rispondere con un "Servus" al "Heil Hitler" dei clienti che entravano. Alla definizione filosofica dell' «esser-ci» come un /actum brutum esistente, che « è e ha da essere» (Essere e tempo, par. 29), a questa esistenza completamente svuotata d'ogni contenuto, d'ogni bellezza e gentilezza, a questa esistenza cupamente energica corrisponde perfettamente il « realismo eroico» dei volti tedeschi plasmati dalla disciplina nazionalsocialista che ci guardano da qualsiasi giornale illustrato. Nell'aula di Heidegger « si faceva filosofia col martello» come aveva già fatto Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, ma senza lo splendore del suo acume psicologico. E mentre Nietzsche dimostrò di saper rimanere un antagonista del Reich bismarckiano, la « suprema e libera» decisione della filosofia da rettorato di Heidegger è arrivata a nobilitare col nome di destino il/actum brutum di ciò che accade in Germania. L'ortodossia piccolo-borghese del partito ha guardato con sospetto al nazionalsocialismo di Heidegger perché in esso la

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questione razziale e la questione ebraica non hanno nessun ruolo. Essere e tempo è dedicato all'ebreo Husserl, il libro su Kant al semiebreo Scheler, e nel periodo di Friburgo sotto la guida di Heidegger abbiamo studiato Bergson e Simmel. Ad A. Hoberg (Das Dasein des Menschen, 193 7) ["L'esistenza dell'uomo"] la mentalità di Heidegger non è sembrata conforme al « tipo nordico», il quale ignorerebbe, secondo lui, l'angoscia del nulla. Viceversa il professor Hans N aumann (Germanischer Schicksalsglaube, 1934) ["Fede germanica nel destino"] è riuscito a spiegare la mitologia germanica con le categorie di Essere e tempo, scoprendo in Odino la «cura» e in Baldur nientemeno che l' « anonimità » ! Naturalmente non bisogna prendere sul serio né quest'ultima valutazione positiva né quell'altra negativa, perché l'opzione di Heidegger a favore di Hitler va ben oltre la concordanza con l'ideologia e col programma del partito. Egli era e rimase un nazionalsocialista - un po' come lo è anche Ernst Jiinger - al margine e in una posizione di isolamento che però non è affatto sterile. Egli è nazionalsocialista già per quel radicalismo col quale fonda la libertà dell'esistenza propria di ciascuno, owero esistenza tedesca, sullo stato di rivelazione del nulla (Che cos'è la metafisica?, p. 20). E ancora oggi, niente definisce meglio l'audace decisione di Hitler di rischiare una guerra per Danzica che la formula filosofica heideggeriana del « Mut zur Angst », del « coraggio dell'angoscia» di fronte al nulla - un paradosso che racchiude in nuce tutta la situazione tedesca. Di fronte alla sostanziale omogeneità di Heidegger con l' atmosfera e la mentalità nazionalsocialista, era fuorviante criticare o giustificare la sua decisione politica isolatamente invece di spiegarla sulla base del principio che fonda la sua filosofia. Non è Heidegger che ha « male interpretato se stesso» quando si è schierato con Hitler (v. l'articolo di H. Kunz nella "Neue Ziircher Zeitung" del 3 gennaio 1938) ma, anzi, non hanno capito Heidegger coloro che non compresero perché egli ha potuto farlo. Un docente svizzero (v. la controversia tra K. Barth e E. Staiger nella "Neue Ziircher Zeitung" del gennaio

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1936) ha rimproverato a Heidegger le sue concessioni alla realtà quotidiana, - quasi che una filosofia che spiega l'essere in base al tempo e alla quotidianità non debba avere nulla a che fare con la realtà quotidiana e col tempo in cui è sorta e in cui opera. Se questo ammiratore di Heidegger dice che è sbagliato appuntarsi sulla « casualità storica» di un pensiero invece di guardare al « tempio immacolato» che si erge su di essa in una « realtà atemporale», bisogna obiettargli - e proprio in quanto seguace di Heidegger - che nessun filosofo più di Heidegger stesso ha orientato la filosofia sulla casualità della « fatticità storica», e che ad essa egli si è anche votato necessariamente proprio perché quello era "l'istante" decisivo. La possibilità di una filosofia politica di Heidegger non scaturisce da una deplorevole deviazione, bensì dal principio che fonda la sua concezione dell'esistenza, la quale «impugna», nel duplice senso di questo termine, lo « spirito del tempo». Il movente ultimo di questa volontà di sovvertimento e di rottura, di questo movimento giovanile fortemente politicizzato che ebbe inizio in epoca precedente la prima guerra mondiale, era però la coscienza della decadenza e del trapasso: il nichilismo europeo. Ma è assai significativo che a trasformare questo nichilismo europeo nel tema di fondo della filosofia sia stato solo un tedesco, Nietzsche, e che soltanto in Germania esso abbia potuto attivarsi. « È il Tedesco, e soltanto lui, che rivela la vocazione storico-universale del radicalismo [ ... ]. Inesorabile e senza scrupoli come lui non è nessuno, giacché egli non si limita a distruggere il mondo esistente per restare in piedi da solo, ma distrugge anche se stesso [ ... ]. Per il Tedesco annientare è creare, e schiacciare la realtà temporale è la sua eternità» (Max Stirner, Kleinere Schrz/ten [1842], p. 19). I tedeschi non hanno alcun senso dell'uso ragionevole della libertà entro i limiti dell'umano. Senza questa volontà di distruzione non è possibile comprendere neanche l'influenza che la costruzione filosofica di Heidegger ha esercitato su di noi. Io ricordo quella sua lettera del 1920, nella quale egli dice che il suo lavoro è indipendente dalla preoccupazione collaterale che da esso pos-

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sa nascere una «cultura» oppure un'>, ha chiamato Croce questi nuovi tempi nell'epilogo della sua Storia del XIX secolo.

Due direttori d'istituto tedeschi La conferenza di Freyer si tenne nella nuova "sezione culturale" della Bibliotheca Hertziana, in un edificio che il Reich

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doveva ad una fondazione ebraica. Nella stanza del direttore Paul Hoppenstedt c'era ancora il busto di Humboldt scolpito da Thorvaldsen, mentre alle pareti c'erano solo fotografie di Hitler e di capi delle SA che il signor Hoppenstedt conosceva personalmente. Questo vecchio signore nervoso, discendente da ottima famiglia, era chiamato da tutti "zia Paola" a causa della sua natura femminea. Aveva preso parte, alla lontana, al putsch hitleriano di Monaco, e per il resto, fino al 193 3, era stato un bello spirito senz'arte né parte, che aveva viaggiato molto in Italia e per questo aveva ottenuto quel non disprezzabile posticino. In seguito diventò addirittura "Gauleiter della cultura" per tutta l'Italia. La sua biblioteca, che io avevo il permesso di utilizzare, si trovava ancora a cavallo "tra le epoche": oltre alla letteratura nazionalsocialista d'obbligo, c'era molta letteratura liberale ed ebraica, per esempio tutti gli scritti di Freud e alcune rarità della letteratura erotica. Pur sapendo che io ero un emigrato, il direttore una sera ci invitò nel suo grazioso appartamento all'ultimo piano della Hertziana. Il compito specifico dell'Istituto, che era quello di sviluppare gli scambi culturali italo-tedeschi, si riduceva ad uno splendido quanto graditissimo trattamento degli ospiti, e ad alcune conferenze, per le quali anch'io ricevevo regolarmente l'invito. Malauguratamente Hoppenstedt non si era accorto che i confini tra tedeschi ed ebrei erano stati tracciati in modo più rigido di quanto il suo animo tenero volesse ammettere, ed egli stesso dovette sopportare la sorveglianza del suo assistente E., più radicale, che finì col denunciarlo. E così un bel giorno Hoppenstedt si trovò nell'incresciosa situazione di dover spedire il suo assistente da me per revocare un precedente invito, non esitando tra l'altro a pregarci di non dire nulla su quanto era accaduto perché sarebbe stato imbarazzante per l'Istituto se la cosa si fosse risaputa. Nel 1936 la situazione era già più chiara, e quando Heidegger parlò alla Hertziana, non mi fu permesso di essere presente. L'unico intellettuale in posizione ufficiale la cui casa poteva essere frequentata anche da ebrei era Ludwig Curtius, diretto-

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re dell,Istituto archeologico. Io l'avevo conosciuto fin dagli anni dell,università quando frequentavo il seminario di Husserl a Friburgo. Aveva un carattere e una personalità che non tolleravano la limitazione dei rapporti personali che si pretendeva di imporgli. Nel suo appartamento aristocratico di corso Umberto si incontravano italiani, tedeschi ed ebrei. Egli era il centro della vita sociale e il rappresentante di una cultura che affondava ancora le sue radici nell'epoca di Goethe. Le splendide visite ai musei di Roma che egli guidava raccoglievano una cerchia di persone per le quali lo spirito e la ricchezza spirituale valevano ancor più della razza. Egli non temeva persino di affidare i suoi bambini ad una governante di origine ebraica e ad un insegnante di musica che era un emigrato. Per principio non andava nemmeno alle conferenze dei suoi più celebri colleghi nazionalsocialisti, e intenzionalmente non invitò nemmeno Heidegger, pur conoscendolo fin dagli anni di Friburgo. Senza quest'uomo, di un'umanità e ricettività sconfinate, profondo conoscitore in eguale misura della sua scienza e della letteratura europea, di musica e di filosofia, tutti i miei rapporti romani si sarebbero limitati agli italiani e agli emigranti. Solo un esiliato può apprezzare il bene che viene dal godere un rapporto armonioso con un tedesco che è un vero uomo di cultura. Curtius seguì con affettuosa partecipazione anche la stesura del mio libro su Burckhardt, e mi riservò molte sere per discuterne, sulla terrazza della sua casa ospitale. Il mio desiderio era di dedicargli questo lavoro, ma non fu possibile: l'istigazione politica nei suoi confronti aveva già compromesso la sua posizione fino al punto da non permettergli di accettare una dedica da parte di un emigrato. Pochi mesi dopo che ebbi lasciato l'Italia, i suoi nemici raggiunsero il loro scopo: egli fu destituito e messo in pensione anzitempo. La sua fermezza lo aveva rovinato, e l'Istituto, che era sorto un secolo prima per opera di W. von Humboldt e di Bunsen, cadde nelle mani di un giovanotto il cui unico merito era di essere un attivista del partito.

Gli emigranti tedeschi a Roma La propaganda tedesca è riuscita ad accreditare l'immagine dell"' emigrante" come quella persona che abbandona il suo Paese senza esserne costretto per esercitare all'estero una sua vendetta attraverso una "propaganda sensazionalistica". Un giornale tedesco, prendendo lo spunto dalla chiamata di Einstein all'estero, ha chiesto il ritiro del passaporto per tutti gli insegnanti tedeschi destituiti, - come dire che essi non solo devono perdere il loro diritto a vivere in Germania, ma essere anche costretti a vegetare in perpetuo nella stessa Germania. 20 Questa richiesta sadica non è comparsa certo sullo "Sti.irmer", ma addirittura sulla "Tagliche Rundschau" di Zehrer, ossia su uno dei pochi giornali che nel 1933 mantenne un atteggiamento mediamente corretto e per questo fu costretto a sospendere quello stesso anno le pubblicazioni. Quanto questa immagine dell'emigrante fosse divenuta assiomatica anche per le persone colte, lo capii da una frase di B., il quale mi scrisse che per emigrante, egli non intendeva uno come me, ma la gente come lo scrittore Heinrich Mann o il redattore del giornale dell'emigrazione di Parigi. Era lo stesso modo di pensare dei Birtner, che nel dirmi addio mi hanno consigliato amichevolmente di non frequentare gli emigrati di Roma, - un consiglio che, indipendentemente dal fatto che erano i tedeschi che non volevano più frequentare gli ebrei, era tanto più grottesco in quanto il loro amico di famiglia più intimo era un tipico ebreo di Francoforte, che suscitava in me sentimenti antisemiti e che a Roma evitai in tutti i modi. Storicamente, a creare l'idea dell'emigrante può aver contribuito l'esperienza fatta dall'Europa con gli émigrés durante la Rivoluzione francese. Ma noi non eravamo dei fuorusciti politici; per noi stessi noi eravamo tedeschi da generazioni, ed ora per gli altri eravamo diventati improvvisamente ebrei, ebrei tedeschi che se ne andavano all'estero sol perché la Germania aveva tolto loro la possibilità materiale e morale di esistere. Gli emigranti tedesco-ebrei erano in maggioranza esiliati, ossia delle persone espulse dal proprio Paese

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contro ogni loro volontà e aspettativa. Ancora nel 1935 io incontrai in Italia un ebreo tedesco che per correttezza voleva rispedire in Germania la valuta esportabile che gli era avanzata, per non venir meno ai « doveri di cittadino tedesco», - e quest'uomo, nel suo negozio di Francoforte, aveva subìto cose inaudite sotto il profilo della legalità. - Per gli ebrei, i semiebrei e quelli di matrimonio misto espulsi, la percentuale razziale non c'entrava nulla perché mancava il presupposto stesso su cui la legislazione surrettiziamente si basava: nessuno di noi infatti si sentiva legato agli altri da una unità etnica come "popolo ebraico"; anzi il comune destino rafforzava proprio la sensibilità per le differenze personali nel modo di esistere come ebrei tedeschi. Quindi a Roma noi preferivamo frequentare quegli ebrei e semiebrei che come noi si sentivano tedeschi, evitando nei limiti del possibile quegli ebrei troppo ebrei che formavano tra loro una sorta di ghetto. Questi circoli ristretti preferivano consolarsi con l'illusione di un rapido crollo del regime hitleriano. La stragrande maggioranza invece era assolutamente apolitica. Probabilmente a Praga, Zurigo, Parigi è stato diverso. Il pittore Sandstein era un autentico monacense, apolitico quant'altri mai già per il mestiere libero che faceva. Aveva tentato prima con un laboratorio fotografico, mentre sua moglie dava lezioni di canto. Poi hanno messo su una piccola pensione, per tirare avanti col loro figlio adulto che era iscritto al Fascio e voleva diventare ufficiale italiano. Frankl, figlio di un professore di storia dell'arte destituito, non sembrava affatto un ebreo dall'aspetto e da tutto il modo di essere. Aveva sposato una piccola donna sveva (ariana). Abitavano con il loro bambino in un garage diroccato, in modo così proletario che avevano dovuto costruirsi da sé i loro quattro mobili. Lui lavorava come architetto in una ditta italiana. Strauss, un libero docente di storia dell'arte destituito, che aveva preso la docenza con Pinder, coltivò le sue inclinazioni musicali. Studiava assiduamente al conservatorio romano, dava lezioni di pianoforte, e riusciva così a godersi la libertà a Roma. La signorina

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J astrow, figlia di un noto economista destituito, era archeologa. Aveva una borsa di studio americana e si occupava dei frammenti di terrecotte greche. Timida e riservata, frequentava solo alcuni suoi colleghi. Fraenkel, valente giurista e allievo di Meinecke, sposato ad una figlia di un professore ariano, era stato a lungo corrispondente da Roma della D.A.Z., fino al 1933. Soffrì molto per il suo licenziamento, e non seppe neanche trarre le conseguenze dalla sua condizione di disoccupato, cercando di limitarsi: diede invece fondo ai suoi risparmi e solo quando li vide assottigliarsi cercò di ottenere degli incarichi da giornali austriaci, cecoslovacchi e parigini. Egli giudicava le vicende tedesche con una commovente « obiettività storica». Era grato per ogni visita di convenienza che saltuariamente gli facevano i suoi colleghi tedeschi. Su invito di una rivista specializzata italiana scrisse nel 1936 un articolo sul Trattamento degli ebrei nella Legislazione del Terzo Reich, un saggio che dava un'informazione oggettiva evitando qualsiasi nota polemica - senza nemmeno sospettare che due anni dopo egli avrebbe subìto lo stesso "trattamento" dai suoi italiani. Una vera tragicommedia. Il filologo classico Walzer, sposato ad una figlia dell'editore Cassirer, era stato allievo di W. Jager, e dopo aver perso la cattedra è venuto a Roma per ricostruirsi, con l'aiuto di Gentile, una vita accademica, con energia, pazienza e tenacia. Sia lui che sua moglie erano tipi fortemente ebraici, se non altro per l'ostinazione con cui riuscivano a cavarsela in tutte le circostanze e a stabilire nuove relazioni. Loewald, che io conoscevo da Friburgo, sposò a Roma un'ebrea. Studiava per dare in Italia l'esame di stato in medicina che aveva già superato in Germania. In seguito ottenne un posto di assistente in una clinica italiana. I medici Behrens e Fleischmann avevano ugualmente dovuto ripetere l'esame, e aprirono uno studio, i cui pazienti erano italiani ed emigrati tedeschi. I due erano soddisfattissimi dei loro progressi professionali, e già per questo motivo non pensavano affatto a riflettere sul passato. Lilli Gradenwitz, una ragazza semiariana molto graziosa e seria, figlia dell'ex borgomastro di Kiel prima della rivoluzio-

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ne, avrebbe potuto in realtà restare in Germania, ma preferì risolvere con una decisione netta la sua condizione dimezzata. Era venuta in Italia priva di mezzi, trovando all'inizio un posto come domestica in una famiglia. A Roma, dove l'abbiamo conosciuta, era impiegata in un ufficio turistico. Nel novembre 1938 il suo vecchio padre, a Kiel, fu prelevato dal letto alle 4 di mattina e portato in un campo di concentramento, senza che la moglie sapesse dove. Un tirolese italianizzato, un tecnico che lavorava a Milano, sposò la Lilli poco prima dell'entrata in vigore delle leggi razziali italiane. Lei era il tipo puro della ragazza nordica, ma tutte le volte che il discorso cadeva sugli eventi tedeschi, veniva presa da un panico profondo e preferiva non parlare di tutte queste cose. Brendel, uno dei migliori allievi di Curtius e assistente all'Istituto archeologico, era sposato ad un'ebrea e dovette lasciare il posto. Nel 1936 andò in Inghilterra. Il romanista Dieckmann era in una situazione simile, ma lui personalmente era meno all'altezza della situazione. Spitzer gli procurò un posto di assistente a Istanbul, che però non era di sua soddisfazione, sicché lasciò anche quello. L'autentica psicologia dell'emigrante io l'ho riscontrata soltanto in tre persone: in Leo Olschki, già romanista a Heidelberg; nell'archeologo Lehmann-Hartleben cui ho già accennato, che aveva una moglie ariana; e in Krautheimer, che aveva insegnato all'Istituto d'arte di Marburgo. Olschki apparteneva in realtà ad una famiglia ebraica internazionale, di origine orientale; "Leonardo da Olschki", come lo chiamavamo scherzosamente, era nato in Italia, e suo fratello, come suo padre, aveva la cittadinanza italiana. Egli era uno studioso di vastissime conoscenze, intelligente, rigoroso e penetrante. A Roma aveva ottenuto un incarico come professore ospite senza stipendio, ma siccome dalla Germania riceveva ancora la sua pensione, riusciva a vivere senza preoccupazioni. Più difficile, in fondo, era la situazione in cui si trovava Lehmann, perché aveva tre figli giovani, e solo dopo anni di preoccupazioni e di sforzi riuscì a riparare in America. In entrambi i casi la tensione spirituale li teneva su, ma le condizioni politiche non per-

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mettevano né all'uno né all'altro di staccarsi da quanto era accaduto, e stando con loro era impossibile che il discorso non cadesse subito sul tema tedesco o ebraico. Orgoglio, e anche cultura, li spingevano a credere che, come una volta la cultura antica era stata diffusa dagli emigranti greci, così ora la missione degli ebrei espulsi dalla Germania fosse quella di preservare dal declino la cultura europea, trapiantandola in America. Alla fine anche Olschki lasciò Roma, dopo che non gli fu più permesso di insegnare all'università. L'Italia lo aveva disgustato. Non pochi emigranti furono messi in prigione durante la visita di Hitler a Roma; altri la evitarono e sono tutt'ora a Roma, malgrado le leggi razziali. A loro modo emigranti erano anche Robert Michels, E. Peterson e la signorina Hagemann. Michels, il famoso sociologo, aveva lasciato la Germania già da decenni per motivi politici. Era professore a Perugia e abitava a Roma. Nel suo minuscolo salotto zeppo di rarità egli riuniva attorno a sé una compagnia molto assortita, nella quale si muoveva con grande agilità passando dall'italiano al francese o all'inglese e, all' occorrenza, anche al tedesco. Egli era diventato italiano e fascista, e in pubblico amava comportarsi come se a stento ricordasse la sua lingua madre. Al telefono si presentava come "Roberto Mikels", ma gli italiani non si sono mai fatti incantare veramente dal quel 'Roberto'. Era una personalità interessante, con un viso sconvolto che mi ricordava Strindberg. Le sue conoscenze erano di una vastità senza pari, ed era un pubblicista instancabile. È morto a Roma nel 1936. - Peterson aveva tratto le estreme conseguenze dal declino del protestantesimo liberale andando nella direzione diametralmente opposta a quella di K. Barth; si fece cattolico e andò a Roma, dove a quarantatré anni sposò una giovane e bella italiana che ogni anno gli diede un figlio. I due vivevano molto ritirati all'Aventino, dove io spesso andai a trovarli, e da lui ebbi sempre un'accoglienza cordiale e molti stimoli. Soffriva della lontananza dalla Germania e si rendeva conto che la spaccatura apertasi dal 1933 nella vita spirituale tedesca aveva coinvolto anche la

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sua attività di teologo. Egli prevedeva in Germania soprattutto la distruzione dell'educazione cristiana e non voleva esporre ad essa anche i propri figli. Così rimase a Roma, benché poco soddisfatto del cattolicesimo italiano. La sua conversione non si distingueva sostanzialmente da quella dei romantici, pur essendo più solida sul piano dogmatico. Spesso io avevo l'impressione che gli fosse più familiare Baudelaire che non la Patristica, sulla quale teneva dei corsi in un Istituto vaticano. La questione ebraica era per lui un problema teologico che poteva essere risolto soltanto alla luce del Cristianesimo, e il suo scritto su La Chiesa sorta da ebrei e da pagani, di grande intensità spirituale, non è privo di un tono cristiano-antisemita. Il fatto che io non stessi né dalla parte dell'ebraismo né da quella del cristianesimo costituiva per lui un enigma inquietante, perché era in antitesi diretta con la svolta decisiva che egli aveva impresso alla propria vita. Anche la signorina Hagemann non volle più tornare in Germania pur non avendo impedimenti politici o razziali. Era uno dei pochi tedeschi che la barbarie nazionalsocialista e l'antisemitismo avevano talmente ferito nell'animo che preferiva restare all'estero. Quando la conoscemmo, era l'istitutrice delle figlie di Curtius.

Emigranti russi in Italia e in Giappone Un caso a sé era l'emigrante russo J. Schor, che era stato espulso prima dalla Russia e poi dalla Germania, e ora viveva a Roma con sua moglie facendo lo scrittore, in attesa di proseguire per la Palestina. Grazie alla sua natura di filosofo tipicamente russa, egli affrontava i casi mutevoli della vita in modo molto più radicale degli emigranti dalla Germania che avevo conosciuto, i quali rimanevano quasi tutti legati al loro modo di vita borghese. La sua natura raffinata, giudiziosa e simpatica, rendeva la sua compagnia molto gradevole. Attraverso lui conobbi lo scrittore settantenne V. lvanov, che viveva dando lezioni di francese e di russo. L'originalità degli emigranti russi mi fu confermata anche in Giappone, dove nell'estate 1939

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conobbi una persona - si chiamava Monsieur de B. - di cui certamente nessuno avrebbe sospettato che fino al 1924 era stato diplomatico alla Santa Sede, poi aveva gestito un negozio di biancheria femminile a Parigi, ed ora insegnava tedesco, russo e francese nel liceo di un paesino giapponese. Egli si sentiva moralmente a suo perfetto agio col suo passaporto-Nansen, frequentava inglesi e italiani, nazisti ed ebrei, restando però sempre "M. de B.", col suo insolito bastone da passeggio e il suo straordinario anello al dito. In quella stessa estate scoprii a Yokohama, dopo vent'anni, un amico di studi di Friburgo, il musicista K. Schapiro. Si era fatto crescere una barba da profeta biblico e viveva felice in uno stile tutto suo, in una casetta sul mare. La sua awenente consorte, anch'essa ebrea, gli aveva già partorito cinque figli e dava lezioni di pianoforte. Mi capitò di fargli visita proprio il giorno di una festività ebraica, che egli rispettava rigorosamente, e così la conversazione cadde sul nostro ebraismo, di cui a Friburgo non avevamo mai parlato. Egli mi spiegò che aveva sempre creduto di essere un "europeo", finché aveva scoperto di non essere affatto un russo di educazione tedesca e francese, ma appunto un ebreo che gli altri giustamente discriminavano. Era deluso che io non mi interessassi dell'ebraismo ortodosso, e da allora in poi mi considerò 1m "cristiano". La sua filosofia privata era così stravagante da non costituire un buon argomento di conversazione. Egli era diventato un eccentrico ad oltranza, pronto a guastarsi con tutti per rafforzare la propria autocoscienza. La sua famiglia si era completamente dispersa, in seguito alla rivoluzione russa, tra il Giappone, Parigi e l'Africa.

L'espulsione degli ebrei dall'Italia Con le leggi razziali del 1938, la maggior parte dei nostri conoscenti e amici romani furono nuovamente espulsi, dopo che in cinque faticosi anni erano riusciti a ricostruirsi una vita stentata. Avevano sei mesi di tempo per procurarsi un visto per

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una qualsiasi parte del mondo, che allora non era ancora così piccolo, e assicurarsi un posto su una nave; i Sandstein per procurarsi i soldi vendettero la loro pensione agli acrobati di un circo, e partirono per la Bolivia, dove avevano un amico. I più andarono negli USA, e uno in Inghilterra. - Un anno dopo, quando la Germania firmò il patto con i russi, le leggi italiane diventarono superflue, giacché l'Asse aveva perso gran parte della sua forza trainante. Queste leggi, malgrado certe formulazioni più blande, erano in fondo più infami di quelle tedesche, poiché l'Italia aveva già garantito un asilo agli emigranti prima di scacciarli nuovamente dal Paese. Persino della valuta legalmente trasferita dalla Germania gli emigranti tedeschi potevano portare con sé soltanto 2000 lire (corrispondenti a circa 500 Reichsmark). Tutte le pene e le fatiche, le spese e le speranze, erano di colpo annullate. Quando, dal Giappone, cercai di sapere qualcosa dal nostro amico italiano A. circa il destino dei nostri comuni conoscenti, egli ne fu turbato e mi pregò di tacere per lettera su "simili questioni": "Minora canamus! ". Non parlo per me quando dico che tutti questi emigranti - e a Roma ce n'erano relativamente pochi - erano persone inoffensive e corrette, preoccupate soltanto di sbarcare il lunario e lontanissime da qualsiasi attività contro la Germania o contro il regime fascista in Italia. Dalla maggior parte di loro io non ho mai sentito pronunziare una parola di odio contro la Germania; tacevano e cercavano di dimenticare nel lavoro quotidiano la perdita subita, di inserirsi nella nuova vita, di essere il più possibile sereni e di godersi quel che c'era ancora da godere - e in Italia non era certamente poco. Alla necessità di ambientarsi all'estero corrispondeva la loro capacità di assimilarsi, mentre l'ebreo come tale, come unità di sangue e di fede, non mi è mai capitato di incontrarlo.

Ingenuità giapponese e ingenuità tedesca

Io stesso all'inizio percepivo più il particolare della mia situazione personale che l'universale del destino ebraico. Ed

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era naturale, data la mia educazione e la mia scelta, le quali si basavano entrambe sull'emancipazione dell'ebreo verso il germanesimo. Ma chi ha scelto di affidare la propria esistenza interiore ed esteriore a queste basi, diventa particolarmente sensibile a certe qualità ebraiche che tengono a distanza l'ebreo dal tedesco, e che perciò egli combatte, in sé o negli altri. A poco a poco però io ho capito che il particolare non è la cosa più importante se un destino universale opprime gli ebrei nella loro totalità. Quel che io avevo trascurato a Roma, in Giappone mi si è trasformato in un proposito elementare: informare ad ogni occasione sul comportamento dei tedeschi gli stranieri ingannati dalla propaganda tedesca. Se solo pochi tedeschi riescono a porre nei suoi termini giusti il problema di che cosa è tedesco e che cosa è ebraico, come potevano giudicarne gli stranieri ai quali il problema non interessava affatto? I miei colleghi giapponesi per esempio non erano in grado di farlo, per quanto potessero leggerne sui giornali. La maggior parte era completamente ingenua, altri dicevano "ebrei" e pensavano all'Inghilterra e al capitale americano, secondo loro tanto necessario quanto molesto in Cina. Un esempio classico del primo caso era il matematico K., un professore dell'università di Sendai, molto colto, educato e cortese nei miei confronti, il quale un giorno venne da me per farsi correggere un saggio che aveva scritto in tedesco (e che io fossi ebreo, lui lo sapeva). Egli era stato invitato da un matematico tedesco a partecipare alla pubblicazione di una raccolta di contributi di un tedesco, un italiano e un giapponese, che sarebbe apparsa in Germania. Il signor K. ne fu molto onorato e scrisse una prefazione nella quale esprimeva la speranza che la collaborazione dei tre matematici potesse rafforzare anche sul piano scientifico il triangolo politico che si era formato tra Giappone, Germania e Italia. Nello stesso momento egli esprimeva la sua altissima venerazione per Albert Einstein, senza le cui ricerche la stessa algebra moderna, a suo giudizio, non avrebbe fatto molti progressi. Al termine della prefazione egli mi ringraziava per l'aiuto della correzione. - Quando cercai di

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fargli capire che era meglio non citare il mio nome e che probabilmente la pubblicazione della sua frase su Einstein avrebbe messo in serie difficoltà il suo collega tedesco, quest'uomo assolutamente innocente rimase allibito, tanto lontana da lui era l'idea che in Germania persino la matematica "pura" potesse subire delle limitazioni in senso nazionalsocialista. Certo egli sapeva che Einstein non insegnava più in Germania, ma non aveva ancora mai realizzato che cosa significa nella Germania attuale il nome di Einstein. Non aveva neanche mai letto il suo libro La mia immagine de! mondo, nel quale è documentata la storia della sua destituzione. Viveva nel suo mondo di numeri e leggeva soltanto il giornale, dal quale apprendeva solamente che Italia e Germania avevano una profonda «comprensione» per il nuovo «ordine» che il Giappone aveva creato in Oriente. Meno innocente era l'anatomista F., il quale, mentre discuteva con me i mezzi e le vie attraverso cui poter aiutare un suo amico ebreo ad uscire dalla Germania, contemporaneamente entrava a far parte della direzione dell'Associazione culturale tedesco-giapponese, creata appositamente per preparare il terreno alla propaganda antisemita dei nazisti in Giappone, e quindi anche a Sendai. Quando, in tali occasioni, cercavo di fornire le necessarie informazioni chiarificatrici, lo facevo ben sapendo quale sarebbe stata l'obiezione immediata: un emigrante è troppo prevenuto per poter giudicare obiettivamente su queste cose che lo coinvolgono personalmente. Questo pseudoargomento a buon mercato mi fu obiettato a Roma anche dal signor Naumann quando non sapeva più che dire. Al che io replicai chiedendogli se per caso ritenesse di essere meno "prevenuto" solo perché era nazionalsocialista, germanista e ariano. Certo, normalmente nessuno è esente da pregiudizi, né il signor Naumann né io stesso, ma si tratta di sapere se si ha la volontà di superarli o invece di elevare a dogma il proprio pregiudizio come un "patrimonio ereditario razziale", e quindi di negare a priori e definitivamente la possibilità di capire a chiunque non abbia

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questa "eredità". Io conosco molti ebrei emigrati - valga per tutti Erich Kahler - che ancora oggi hanno la volontà e la capacità di capire cosa è tedesco, ma non conosco un solo tedesco nazionalsocialista che applichi nei confronti di se stesso quella critica senza la quale non si può mai rendere giustizia a chi è diverso. Il dono particolare dell'ebreo di assimilarsi agli altri e di capire anche ciò che depone contro di lui (le barzellette più belle e più caustiche sugli ebrei le hanno sempre inventate gli ebrei stessi) è dovuto alla sua peculiare capacità di autointrospezione e di autocritica. Gli ebrei sanno perfettamente chi sono. E perciò il tedesco e l'ebreo, su questo punto, non sono mai in equilibrio: un ebreo tedesco è in grado di capire che cosa è tedesco sempre più di quanto un moderno pseudogermano sia capace di comprendere che cosa è ebraico, nonostante tutti gli istituti per la "ricerca sulla questione ebraica" che va fondando. Quando perciò il tedesco di oggi rinfaccia all'ebreo emigrato di fare "propaganda sensazionalistica", bisogna rispondergli: siete stati voi a farci vostri nemici e costretti a desiderare la vittoria dell'Inghilterra; quanto poi al sensazionalismo, le notizie sono stampate su qualsiasi giornale tedesco, anche se sotto titoli diversi da quelli che si leggono nel resto del mondo. Quando Go ring, sei mesi prima di varare il "tributo di espiazione" del 20 per cento - recentemente elevato al 25 per cento-, fece aumentare il valore del patrimonio ebraico in vista della progettata rapina, il "Volkischer Beobachter" titolava: "Nettamente delineata la posizione economica degli ebrei,,.

Destini ebraici e destini ariani all'università di Marburgo I destini dei colleghi di Marburgo furono i seguenti: i primi a lasciare la Germania per motivi politici e a trovare all'estero una sistemazione adeguata furono l'economista Ropke e l'orientalista Gotze, entrambi ariani. Spitzer fu chiamato a Istanbul, e di lì all'università Johns Hopkins. Andando via, mise Auerbach al suo posto in Turchia. Krautheimer da Roma trovò un posticino in un college americano. Rohde, che fu

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costretto a rinunciare alla libera docenza perché aveva una moglie ebrea, ha trovato riparo ad Ankara. Jacobstahl aveva come amico un collega inglese che gli ha procurato un posto ad Oxford. Mi scrisse definendo laconicamente e icasticamente « tutta la faccenda» come una questione « di training intelligente e di autoigiene >> senza i quali si diventa nevrotici e si va in malora. Frank e Friedlander erano rimasti in Germania, e si sono decisi ad espatriare solo dopo la persecuzione degli ebrei del novembre 1938, che portò Friedlander in campo di concentramento. Ora sono tutti e due in America. Dei più giovani che conoscevo e che non avevano ancora preso la libera docenza, Leo Strauss e Jacob Klein sono stati in Inghilterra prima di trovare un posto in America. Lo studente Boschwitz fece appena in tempo a laurearsi proprio nel 1933, poi si trasferì con la famiglia in Palestina, dove però non è riuscito ad ambientarsi e ora cerca di andare in America. Walther Marseille è andato da Vienna a New York, dove attualmente vive in miseria e pieno di debiti. Gadamer, malgrado i suoi scarsi "meriti politici", dopo molti ostruzionismi è diventato professore a Lipsia. Le sue poche lettere, sovraccariche di riflessioni, malgrado le buone intenzioni non sono riuscite a ridurre la distanza che già ci aveva divisi a Marburgo per ragioni di temperamento. La mia decisione - visto l'attuale divorzio politico tra tedeschi ed ebrei- di rinunciare al titolo di padrino che avevo accettato più di dieci anni prima per sua figlia, l'ha rifiutata. Gerhard Kriiger, che io stimavo come docente e come persona pur senza averlo frequentato, si è schierato con la Chiesa confessante, e per la sua fermezza ha dovuto subire molte vessazioni prima di ottenere la nomina a professore. Bultmann ha continuato imperturbabile i suoi studi teologici, e grazie alla sua solidità di carattere e al suo secco realismo è scampato alle nequizie dei tempi. Lisa de Boor, che venne a farci visita a Roma insieme a Goebel, è rimasta per noi l'amica di sempre, cordiale e saggia, energica e affettuosa nei nostri confronti. Ha allevato splendidamente i suoi tre figli, che ora sono ormai adulti, e malgrado tutte le

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difficoltà mantiene i suoi rapporti con gli antroposofi di Dornach, con gli amici in Svezia e in Francia e con i fratelli e le sorelle in America. Nello stesso tempo, insieme ai suoi figli, ha partecipato in modo positivo alle vicende tedesche e alle organizzazioni nazionalsocialiste senza ridurre la propria libertà interiore per prudenza e paura di rischiare. Un atteggiamento così aperto è senz'altro un'eccezione, ed è più delle donne che degli uomini. L'università di Marburgo si è numericamente ridotta nella stessa misura in cui si sono moltiplicate le caserme, e gli studenti di teologia sono passati da 700 a 120. Sulla scena predomina l'attivismo frenetico di E. Jaensch, un giovanotto cinquantenne con tendenze fortemente psicopatiche. Si era tuffato con entusiasmo nel movimento per rinfrescarsi nelle acque rigeneratrici dell '« insorgere della gioventù». Le sue innumerevoli conferenze parlano tutte dell' « uomo tedesco>>. Nell'ultimo Fuhrer der Marburger Universitat, la "Guida all'università di Marburgo'' per il 1939-40, alle pagine dedicate alla facoltà di filosofia la cosiddetta Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer) non viene più menzionata perché è considerata una faccenda giudaico-liberale. 21 In compenso si dà grande rilievo alle branche scientifiche più vicine ai problemi etnici, come le scienze militari, lo studio delle razze umane e l'antropologia, destinate a forgiare l'uomo nuovo tedesco. Dei miei ex colleghi, le più giovani mediocrità sono diventate rapidamente professori ordinari. Oltre alla fotografia del rettore, l'UniversitatsFuhrer ne riporta un'altra di un giovane di circa vent'anni, che sarebbe il Fuhrer degli studenti e il "vice-Fuhrer degli studenti del distretto". Nelle « Norme di vita» nazionalsocialista dello studente tedesco stampate nelle prime pagine si parla molto di Fuhrung e di missione, di impegno e di disciplina. Le norme sono le seguenti: « 1) Studente tedesco, non è necessario che tu viva, ma che tu compia il tuo dovere verso il tuo popolo! Quel che tu diventerai, lo diventerai come tedesco. 2) Legge superiore e dignità suprema dell'uomo tedesco è l'onore. L'onore ferito può essere riparato soltanto col sangue. Il tuo onore è la

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fedeltà al tuo popolo e a te stesso. 3) Essere tedesco significa avere carattere. Tu sei chiamato con tutti gli altri a lottare per la libertà dello spirito germanico. Cerca le verità racchiuse nel tuo popolo. 4) La libertà non consiste in atteggiamenti sregolati e anarcoidi: c'è più libertà nel servire che nel dare ordini. Dalla tua fede, dal tuo entusiasmo e dalla tua volontà di lotta dipende il futuro della Germania. 5) Chi non ha la fantasia di immaginare qualcosa non otterrà mai nulla, e tu non potrai accendere qualcosa negli altri se non brucia già in te. Abbi il coraggio di ammirare e di rispettare. 6) Nazionalsocialisti si nasce; ancor più lo si è se educati ad esserlo; ma il massimo è autoeducarsi a diventarlo. 7) Se c'è qualcosa che è più forte del destino, è il tuo coraggio che lo affronta impassibile. Quel che non ti uccide non può che rafforzarti. Sia lodato ciò che rende duri. 8) Impara a vivere in un ordine. Ubbidienza e disciplina sono le basi irrinunciabili di ogni comunità e l'inizio di ogni educazione. 9) Come capo sii inflessibile nell'adempimento del tuo dovere, deciso nel sostenere ciò che è necessario, generoso e magnanimo, mai meschino nel giudicare le debolezze umane, grande nel riconoscere i bisogni essenziali degli altri e umile nel riconoscere i tuoi. 10) Sii camerata! Sii nobile e modesto! La tua vita personale sia un modello per tutti. La misura della tua maturità morale si riconosce dalle tue relazioni con gli uomini. Sii coerente nel pensare e nell'agire. Vivi come il Fiihrer! ». Questo studente tedesco che per prima cosa deve sapere che non è necessario vivere, ha tutte le virtù dell' « uomo tedesco>>. Solo in un punto la formulazione delle norme di vita esula dal quadro tipicamente nazionalsocialista: la norma 9, nella quale risuona una frase di Goethe, in aperta dissonanza con tutto il resto.

Il riflesso degli eventi tedeschi in Italia Gli eventi esterni che mi riguardarono dal 1934 al 1936 durante la mia permanenza in Italia furono i seguenti. Pochi

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mesi dopo che avevo lasciato la Germania, il vicecancelliere von Papen tenne all'università di Marburgo il suo famoso discorso sulla situazione politica interna, probabilmente ispirato dai circoli vicini a Hindenburg. La sua pubblicazione fu subito impedita da Goebbels. Il discorso era un preannuncio della crisi imminente, che scoppiò infatti nel giugno 1934 ed ebbe come conseguenza l'assassinio del segretario di von Papen, generale Schleicher, del capobanda Rohm, di G. Strasser e di circa 150 esponenti di primo piano del partito. L'impressione che questo episodio provocò in Italia fu unanime: tutti furono profondamente inorriditi per l'assoluta mancanza di scrupoli e la cupa violenza di questi misfatti, sui quali i tedeschi si acquietarono nel giro di poche settimane, mentre in Italia il ricordo dell'assassinio del socialista T. ancora faceva ribollire gli animi a dieci anni di distanza. Besseler, al quale raccontai a Roma gli effetti ripugnanti che avevano avuto i fatti del giugno 1934 sul senso di giustizia degli italiani, non riusciva assolutamente a capirne la ragione; che certa gente diventata pericolosa per lo Stato fosse eliminata, con o senza la sentenza di un tribunale, secondo lui era semplicemente una questione di «forme>>. Questa assoluta insensibilità verso il diritto e la forma giuridica è molto significativa e riguarda tutti i tedeschi educati dal nazionalsocialismo. La stessa candida meraviglia espresse Hitler nel suo discorso al Reichstag dell'ottobre 1939, quando, dopo lo smembramento della Polonia, avanzò la sua « offerta di pace>>. In un passo di quel discorso infatti, a chi rinfacciava alla Germania i suoi «metodi», Hitler replicava appunto che si trattava di ipocrisia inglese, e che alla fine ciò che decide « non sono i metodi, ma è il risultato utile». In queste frasi si manifesta tutta l'antitesi che esiste non solo tra Germania e Inghilterra, ma tra barbari e civilizzati; per i tedeschi l'antitesi si riduce ad una differenza di forma, quantunque già dal 1914 al 1918 essi abbiano potuto sperimentare direttamente, col loro sovrano disprezzo per i trattati e per tutte le norme, che le forme non sono semplicemente un fatto formale. In quello stesso discorso Hitler ha avuto l'incredibile candore

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di affermare che l'ostilità degli statisti inglesi gli riusciva «inspiegabile>> e personalmente lo aveva « addirittura sconvolto>>. I tedeschi non potranno mai spiegarsi perché il mondo odia i loro metodi. Nel 1916 ci fu ancora un filosofo, Max Scheler, che in piena guerra ebbe il coraggio di spiegare ai tedeschi le « cause dell'odio contro i tedeschi>>, mentre gli attuali filosofi del Reich la pensavano esattamente come i loro capi, perché la filosofia della «vita» e dell' «esistenza» ha reso impossibile qualsiasi filosofia del diritto. Se diritto è ciò che è utile ad un popolo, allora è persino inutile continuare a parlare di diritto. L'estate del 1934 la passammo a Pozzetto, vicino Rapallo, a Casa Stellamare, una pensione gestita da emigrati tedeschi. La villa, che avevamo preso in affitto, era situata in posizione incantevole tra le colline di ulivi, e dalla terrazza si vedeva la baia fino a Portofino. In autunno partimmo per Genova, e io proseguii, passando per Venezia, fino a Praga, per il Congresso internazionale di filosofia. Solo quando ci si trova ad est si impara a capire che cosa sono le città europee, e soprattutto questi straordinari coaguli di cultura e di storia europea. Ma prima di proseguire il viaggio per Praga avevo fatto ancora una scappata sui monti sopra Genova, dove erano le vecchie fortezze, e a Finalmarina, dove ero stato vent'anni prima prigioniero di guerra. Le pesanti porte delle mura massicce erano aperte, le finestre erano sfondate e le camerate vuote. Tutte le tracce della nostra prigionia erano sparite, e quel paio di persone che incontrai strada facendo non ne sapevano più nulla.

Al Congresso di filosofia di Praga (1934) Il tema del congresso, presieduto dal dottor Benès, era la « crisi della democrazia» - un tema che appassionava soprattutto francesi e cechi, mentre i pochi delegati giunti dalla Germania (Heyse, Hellpach e Emge) si tennero defilati, sentendosi alquanto scomodi in questo ambiente internazionale che contrastava con tutti i principi tedeschi. N. Hartmann mi parlò

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amichevolmente, e apparentemente aveva dimenticato la mia uscita dal suo seminario di Marburgo. Dall'Italia era stato inviato, tra gli altri, il noto giurista fascista G. del Vecchio. Per caso, recentemente, mi è capitata tra le mani una sua lettera, nella quale egli si lamentava amaramente della sua destituzione a causa della sua origine ebraica, e si agitava penosamente per cercare di realizzare una traduzione in giapponese di un suo libro, e salvare così all'estero il suo amor proprio ferito. Conobbi anche l'editore F. Meiner e gli offrii il manoscritto del mio libro su Nietzsche. Ma per ragioni politiche i suoi timori erano troppi per accettarlo. Passammo il resto dell'estate e una parte dell'autunno insieme a Lehmann a Sant'Agnello di Sorrento. La locanda in cui abitavamo era modestissima ma accogliente. Il tempo fu sempre splendido e il paesaggio era incantevole. Facemmo una gita al monastero "Il deserto", e un giorno, partendo prima dell'alba, facemmo un'escursione a piedi da Ravello ad Amalfi, per ritornare poi attraverso Positano a Sorrento. Anche se il caldo era torrido, fu uno di quei piaceri che illuminano anni di malinconia e che si conservano per sempre. Durante l'inverno terminai la stesura del mio libro su Nietzsche, trovando nel dottor R.K. un lettore personalmente interessato, e in B. un editore che mi venne incontro in tutti i modi.

La revoca dell'incarico all'università e il mio viaggio in Germania Nella primavera del 1935 l'incarico all'università mi fu tolto, quantunque legalmente io fossi ancora docente e non esistesse alcun appiglio giuridico per la revoca. Perciò a maggio partii per Berlino, dove al Ministero fui informato che il prowedimento era stato autorizzato dal Fiihrer del corpo docente di Marburgo, pur non esistendo alcun motivo particolare contro di me. Andai allora a Marburgo con l'intenzione di arrivare ad una spiegazione definitiva direttamente con lui circa la mia sorte in Germania. Cercai il decano, il quale fu alquanto sconcer-

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tato perché avevo aggirato la consueta via gerarchica, ma mi fece tuttavia subito capire di non essere affatto d'accordo con la decisione presa dal corpo docente. Il decano era una persona onesta che tribolava quotidianamente con le proteste delle varie istanze del partito, e in fondo era contento di fare finalmente qualcosa contro di loro. Io, non avendo più nulla da perdere, ottenni una vittoria morale e materiale: dopo tre incontri con il Fuhrer del corpo docente M., con il suo rappresentante e col decano, risultò quanto segue: il Ministero aveva rimesso la decisione al corpo docente; quest'ultimo, prima di me, aveva interpellato il Ministero e il decano, e alla fine risultò, su mia insistenza, che la revoca dell'incarico era stata imposta per vie traverse da un personaggio che operava dietro le quinte del corpo docente. Era questa la loro « libera responsabilità»! A questi uomini d'onore io dissi che era avvilente riconoscere il paragrafo sui reduci dal fronte per poi aggirarlo sottobanco e non rispondere del loro operato, e che avrebbero per lo meno dovuto essere coerenti e abolire ufficialmente la tutela legale degli ex combattenti, così tutto sarebbe stato in regola e io non avrei più sprecato il mio tempo a parlare con loro. Essi chiesero che io ritirassi le accuse nei loro confronti, ma il decano stesso replicò che questo, da me, proprio non potevano pretenderlo. Egli poi mi accompagnò dall'economo, che fu come sempre corretto e comprensivo. E debbo ringraziare lui e il decano se ancora per sei mesi mi furono pagati in Italia duecento marchi, contro la volontà del Fuhrer dei docenti, il quale ebbe la spudoratezza di cercare di impedire persino questa piccola agevolazione nella situazione in cui mi trovavo. In quei tre giorni, nei quali riuscii a rivedere solo di volata i miei amici, conobbi un giapponese che era venuto a Marburgo per compiere con me i suoi studi, senza sapere che ormai ero già in Italia. Fui commosso di tanta affettuosa benevolenza da parte di una persona sconosciuta. Mi colmò di doni e mi consigliò di andare in Giappone, dove ero noto per il mio saggio di libera docenza più di quanto io sospettassi. Su suo suggerimento ho poi scritto al barone Kuki, che avevo superficialmente

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conosciuto all'epoca dei suoi studi a Marburgo e che ora era professore di filosofia a Kyoto.

Ritorno in Italia passando per Parigi Partii da Marburgo con i dieci marchi autorizzati, e passando per Basilea andai a Parigi per discutere della mia situazione con il direttore della Fondazione Rockefeller. Per prolungare di un altro anno il mio /ellowship io mi trovavo in un assillo angoscioso, perché questa borsa di studio prevedeva che alla sua scadenza il beneficiario rientrasse in servizio nel suo precedente posto accademico, cosa che per me ormai non era più possibile. Ne derivava la situazione assurda per cui, per aver perso il mio posto in Germania, io finivo per rimetterci anche la borsa di studio all'estero. Per fortuna il direttore fu assai comprensivo e trovò una scappatoia, ricorrendo alla concessione di un grant-in-aid, col quale io potevo tirare avanti ancora per un anno. A Parigi andai a trovare B. Groethuysen, che era stato nostro lettore di lingua francese a Marburgo, e A. Koyré, che avevo conosciuto al seminario di Husserl. I caffè parigini erano pieni di giovani emigrati tedeschi. Comprai alcuni giornali e ne fui sconcertato: in Italia e in Germania mi ero talmente disabituato a qualsiasi libertà di espressione e di critica, che rimasi sorpreso nel leggere in tre diversi giornali tre differenti prese di posizione sulle misure del governo, invece del solito "piatto unico". Raggiunsi mia moglie a Poveromo, vicino Massa Carrara, dove in Casa Venturi trascorremmo un periodo idillico. La casa era in mezzo ad un fitto bosco di pini tra l'ampia e bellissima spiaggia e le montagne di marmo apuane. Di primo mattino alcune ragazze ci portavano davanti alla porta frutta, verdura e pesci, in ceste che reggevano sulla testa. Non mancava neanche la compagnia, perché Dora M. e la signora von G., che gestivano la pensione, abitavano proprio lì vicino. In questa atmosfera serena io cominciai a lavorare al mio libro su Burckhardt. Un altro saggio, sul rapporto di Marx e Kierkegaard con il compi-

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mento hegeliano della filosofia, che avevo scritto già ad Amburgo e che conteneva le linee fondamentali del mio libro successivo sull'evoluzione tedesca "da Hegel a Nietzsche" scritto in Giappone - mi fu rispedito dalle "Kantstudien" dopo un anno di attesa, con la motivazione che per « ragioni tecniche» era impossibile stamparlo, come mi era stato promesso. Le ragioni tecniche naturalmente erano che Marx in Germania era tabù e l'autore non era ariano. Il redattore, in una pietosa lettera, mi chiedeva comprensione per una situazione difficile. Replicai che la mia era semmai ancor più difficile. Subito dopo il pover'uomo venne perfino allontanato dalla redazione. Non fu colpa sua dunque se la promessa fatta nel 1934, un anno dopo non aveva potuto mantenerla. Nell'estate 1935, malgrado il gran caldo, restammo a Roma, perché i W., che erano andati in vacanza in Germania, ci avevano lasciato in custodia il loro delizioso appartamento vicino a San Pietro in Vincoli, in via delle Sette Scale. Per un paio di settimane vi abitò, insieme a noi, anche la signora Frankl, che si era ammalata. Io lavorai al 'Burckhardt', e a settembre venne a farci visita la signora de Boor. Quando il libro fu terminato, il signor B. del Runde-Verlag di Berlino non poté più accettare di pubblicarlo a meno di non rischiare la chiusura della sua casa editrice. Dopo molti sforzi, e con la raccomandazione del professor Kaegi, riuscii a convincere l'editore di Basilea B. Schwabe a pubblicarlo. Avevo invece rinunciato, dopo qualche esitazione, all'editrice Vita Nova di Lucerna, perché la più antica casa editrice Schwabe mi era sembrata anche la più adatta per la diffusione del libro in Germania. - In autunno ci trasferimmo in un appartamento di due stanze a Monteverde, in via Giovanni Pantaleo. I letti e i mobili essenziali ce li prestò uno scultore tedesco che manteneva una casa a Roma ma allora viveva in Germania, prima di emigrare anche lui definitivamente. Si erano aperte delle prospettive all'università sudamericana di Bogotà, e perciò prendemmo lezioni di spagnolo da due simpatiche sorelle di quella città che vivevano già da sei anni a Roma.

In aereo a Istanbul A dicembre presi l'aereo a Brindisi per Istanbul, via Atene, per tenere una conferenza su invito di Leo Spitzer e sondare l'eventualità di una sistemazione in quella città. Un telegramma di mia moglie mi informò che le trattative con Bogotà frattanto erano fallite, e a Istanbul le prospettive erano assai scarse. Accompagnato dal dott. D., visitai in lungo e in largo l'antica Costantinopoli, e per il resto della giornata ero ospite nell' accogliente casa di Spitzer a Pera. Conobbi R. von Mises, A. Riistow, Reichenbach e altri professori tedeschi, che avevano perso il posto in Germania e insegnavano ora nell'università turca. Ci rivedemmo anche con Ropke, che era rimasto lo stesso sunny boy di Marburgo. Le cose migliori furono alcune conversazioni con Spitzer e la vista stupenda sul Bosforo dalla torre prospiciente l'università. Non era più il Sud mediterraneo di Marsiglia, Genova e Palermo, il Sud che mi era familiare; dietro le onde blu scuro e verdastre e la distesa brulla del retroterra si awertiva l'elemento russo e orientale. Al ritorno, una tempesta costrinse l'aereo ad atterrare ad Atene. Ne approfittai per salire subito all'Acropoli. Con la sua asciutta, intensa bellezza spirituale e il marmo dalle sfumature giallognole dei templi, essa si stagliava con effetto stupendo sull'azzurro chiarissimo e purissimo del cielo. Nel museo erano esposti tesori inestimabili, e in questa atmosfera l'unica nota fisicamente stonata erano alcuni giapponesi che andavano su e giù fotografandosi a vicenda. Il giorno dopo, mentre ci recavamo all'aeroporto la nostra auto si scontrò con un carretto e il pilota del nostro aereo si ferì ad una gamba, sicché pensammo con sentimenti contrastanti al volo che ci attendeva. Ma quando fummo in alto sopra le nuvole e le isole greche scomparvero alla vista, il pilota tirò fuori allegramente dalla tasca della giacca il "Mare' Aurelio", un giornale satirico romano, e si mise a leggere al volante, come se stesse seduto dal barbiere.

Chiamata in Giappone e congedo dalla Germania e dall)Europa Intanto era scoppiata la guerra d'Abissinia, e dopo pochi mesi le colonne motorizzate arrancavano sulle strade per Addis Abeba. Da un film che veniva proiettato a Roma si capiva molto chiaramente che le gloriose azioni eroiche riguardavano essenzialmente i mezzi meccanici. - A Pasqua del 1936 facemmo ancora una gita in auto a Volterra, San Gimignano e Siena, insieme ad un cattolico tedesco. Alcune trattative per un posto all'università del North Carolina non avevano avuto alcun seguito; in Italia era impossibile ottenere anche solo un lettorato per l'insegnamento del tedesco e, come ho già detto, la progettata chiamata a Bogotà non era andata in porto. A quel punto ricevetti nel giugno 1936 un telegramma dal Giappone col quale mi si comunicava la mia chiamata all'università di Sendai. A procurarmela era stato il professor Kuki. Come appresi in seguito, l'ambasciata e l'istituto di cultura tedeschi avevano cercato di impedire la mia chiamata per motivi politico-razziali, ma senza successo. A luglio partimmo in aereo da Roma, e con un magnifico volo di tre ore, sorvolando le Alpi, fummo a Monaco, dove ci sistemammo da mia. madre, nella sua comoda casa dei Rosi, senza avere alcuna noia. Penai molto invece per ottenere la concessione di una lettera di credito di mille marchi per l'Italia e per ritirare duecento marchi dal mio conto bancario bloccato, necessari ad affrontare le spese di soggiorno a Monaco. Tutto quanto avevo ereditato da mio padre dovetti lasciarlo in Germania, e fu perduto per sempre. - Trascorsi ancora due belle settimane a Basilea, a lavorare all'Archivio Burckhardt, mentre mia moglie andò a trovare suo padre e le sue sorelle per congedarsi da loro. Poi andammo per alcuni giorni ad Ambach sul lago Starnberg, dove potemmo alloggiare in una locanda che conoscevo da anni, senza dar adito a reclami. Trascorreva là le sue ferie anche il dottor P., uno dei miei insegnanti di cui ero rimasto amico dal tempo della scuola, e fu una piacevole

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compagnia. Il "risveglio" della sua nazione non lo aveva nemmeno sfiorato. Raccontava con molta arguzia le sue esperienze con la nuova generazione; e a proposito della « formazione del carattere» dei giovani, egli diceva che nei temi scolastici e dovunque è necessario essi si allineano, ma poi sono capaci di nuovo di cambiare passo, a seconda delle circostanze. Io volli andare a rivedere la villa estiva che avevamo una volta a Seeheim, spingendomi fino alla graziosa chiesetta di Holzhausen, che ha un enorme tiglio davanti, - ricordi dei giorni sereni di un tempo ormai scomparso, prima della guerra. Quasi nessuna delle case dei nostri conoscenti di allora è rimasta al suo proprietario; soltanto i Rosi sono riusciti a conservare attraverso la guerra, l'inflazione e la rivoluzione, la loro bella proprietà di Ammerland. A Monaco mi accomiatai da Sigrid Christensen, che avevo conosciuto a Copenhagen, dal mio vecchio insegnante ed amico Esenbeck, da Marianne Walther che avevo conosciuto negli anni dei "liberi studenti" di Monaco. Il suo secondo marito, che era awocato, aveva amichevolmente seguito le mie vicende legali fino a che anche questa garanzia giuridica non mi fu tolta (dalla fine del 1938 è stato proibito agli awocati ariani di difendere e prestare consulenza legale a clienti ebrei). Il mio editore B. era venuto appositamente a Monaco per salutarmi, e lo stesso avevano fatto due miei allievi di Marburgo, Wanda von K. e F.K., che avevano voluto incontrarmi ancora una volta a Monaco prima che lasciassi l'Europa. In seguito non poterono più mantenere con me rapporti epistolari a meno di non rischiare personalmente. - L'aereo che ci riportava a Roma sorvolò di nuovo le Alpi e le catene degli Appennini con i loro riflessi bruniti. A Roma facemmo gli ultimi preparativi per il viaggio in Giappone, e a settembre venne a trovarci mia madre, felice per la mia nomina e triste per la grande distanza che ci avrebbe d'ora in poi divisi.

Miserie editoriali Avevo appena terminato le ultime correzioni al mio libro su Burckhardt, quando il mio editore svizzero mi scrisse una contorta lettera in cui mi diceva che era costretto a rescindere il contratto. Aveva fatto leggere il manoscritto ad un giornalista tedesco, e costui gli aveva assicurato che un libro di quel genere in Germania non si sarebbe mai potuto vendere e probabilmente sarebbe stato proibito. Il signor Schwabe asseriva di non poter rischiare la sua « buona reputazione» e si offriva di cercarmi un altro editore. Gli risposi che la sua buona reputazione doveva essere ridotta dawero a mal partito se lui stesso la misurava sui principi pubblicistici del Terzo Reich, rinnegando lo spirito indipendente del suo connazionale Burckhardt. In pratica però io non avevo alcun mezzo per costringerlo a pubblicare il libro, e potei dirmi fortunato se il dottor R. lo rilevò per la sua casa editrice Vita Nova, anche se prima io glielo avevo rifiutato. 22 Di fatto il mio libro poté essere distribuito in Germania solo con enorme difficoltà e soltanto in pochissimi esemplari. Non che fosse stato esplicitamente proibito, ma era ritenuto "indesiderato", sicché la sua ordinazione dipendeva dal coraggio personale dell'acquirente e del libraio. Le ultime settimane furono riempite da un viaggio a Poveromo, da Dora M. (che era un'ebrea austriaca, e perciò nel 1938 dovette lasciare l'Italia, dove aveva vissuto per vent'anni) e a Pisa per rivedere Boschwitz, quindi dagli addii agli amici di Roma - Antoni e Cantimori, Candeli e Lilia d'Albore, Gentile e Pettazzoni, Buonaiuti, Tilgher e Peterson. Restituimmo i nostri quattro mobili allo scultore N. che era appena tornato e mi aiutò anche a mettere in salvo in Inghilterra il resto del mio denaro italiano, appena in tempo prima del crollo del corso della lira. Tutto il resto lo lasciammo alla Frankl. A Napoli trascorremmo ancora una bella serata insieme a Franco Lombardi, che il giorno dopo - era l' 11 ottobre - ci accompagnò alla nave giapponese Suwa Maru. Il distacco dall'Italia fu per me più doloroso, perché era il distacco da una terra che aveva

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negato ad uno persino il diritto di ospitalità dello straniero. Certo, in questi due anni abbiamo avuto tante preoccupazioni, e spesso tutte quelle domande di impiego, le mezze aspettative e le delusioni complete ci hanno spossato; ma abbiamo avuto anche tante gioie e una vita che ci ha allargato la mente, soddisfazioni nel lavoro, rapporti umani, splendide gite e soprattutto, ogni giorno, Roma.

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Arrivo in Giappone Tralascio qui i 33 giorni di navigazione che da Napoli, attraverso il canale di Suez, ci portarono a Colombo, Singapore, Hong Kong e Shanghai, fino a Kobe. Era il nostro primo viaggio in Oriente e perciò anche la prima occasione per farsi un'idea del predominio del popolo inglese. Finora avevamo viaggiato soltanto nei paesi sud-europei, in Francia, Italia e Dalmazia, e sapevamo poco della forza colonizzatrice e dell'autoconsapevolezza del mondo anglo-americano, che anche per il Giappone resta determinante nonostante l' awicinamento momentaneo all'Italia e alla Germania. La squisita cortesia e la premura con cui fummo accolti in Giappone e poi accompagnati a Sendai, superarono ogni aspettativa. A Sendai avevamo a disposizione un appartamento dell'università, a gennaio arrivarono i nostri mobili e i libri, e ben presto ci sentimmo come a casa nostra, al punto che certe volte ci sbagliavamo e dicevamo « Marburgo » invece di « Sendai ». Il fascino del nuovo e la folla di impressioni inedite diedero alla nostra esistenza uno slancio nuovo che ci impedirono, all'inizio, di notare l'isolamento (eravamo gli unici tedeschi a Sendai oltre al signor K urt Singer) e lo stress fisico di questo trapianto. Con gli americani della missione che vivevano a Sendai e con alcuni cattolici (per lo più canadesi, due italiani e uno svizzero) facemmo conoscenza solo a poco a poco.

Un collega inglese All'università avevo un altro collega europeo, l'inglese H., sessantenne, che era in Giappone da oltre dieci anni, ed era un poeta famoso, per lo meno per i giapponesi. Aveva una moglie molto più giovane che lo ammirava e lo accudiva, due cani e una cinquantina di canarini. Viveva in Giappone senza conoscere né una parola di giapponese né altro paesaggio diverso da quello che scorgeva dalla finestra della sua camera. Teneva principalmente corsi di letteratura, scriveva ogni tanto una poesia, fumava tante piccole pipe, se ne stava regolarmente seduto per due ore a bere il tè del pomeriggio, e mangiava sempre le stesse cose. Così viveva in assoluta privacy, mantenendo i contatti col resto del mondo soltanto attraverso la posta e l'ordinazione dei libri. Amava le vecchie rassegne bibliografiche, e io gli procurai l'acquisto di tutte le annate delle "Miinchner Fliegende Blatter" dal 1840 in poi. Egli aveva un'idea ben precisa di ciò che è/reedom e personality, e se uno era disposto ad ascoltarlo sciorinava volentieri la sua filosofia privata. Il suo viso aveva una forma molto espressiva, con un naso pronunciato tra due grandi occhi sporgenti, la bocca larga e intensamente sensuale. Le sue sofferenze fisiche erano per lui la ragione e il pretesto per attenersi imperterrito al suo stile di vita, che coltivava come una sorta di vantaggio della malattia. Nell'estate del 1938 tornò in Inghilterra e di lì andò in America. I giapponesi lo stimavano moltissimo perché egli aveva sempre rispettato integralmente il loro modo di essere senza prendere assolutamente nulla da loro.

Un eccellenza italiana e un consigliere particolare tedesco a Sendai J

Puntualmente, Italia e Germania attraversarono il mio cammino anche a Sendai. Nella primavera del 1937 l'eccellenza fascista Tucci, che io avevo già conosciuto a Roma nell'ambiente di Gentile, venne in Giappone a fondare un Istituto di

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cultura italiano e per un giro di conferenze sui risultati del suo viaggio in Tibet. Venne anche a parlare nella nostra università e per l'occasione ci fece anche visita. La conversazione cadde sulla politica razziale tedesca ed egli si disse convinto che una barbarie del genere sarebbe stata assolutamente impossibile in Italia. Tenne la sua conferenza in un inglese biascicato. Ogni due frasi faceva notare quanto fossero importanti e significativi i risultati delle sue ricerche, lasciando non poco stupiti i giapponesi, per i quali è buona creanza non parlare mai di se stessi o parlarne soltanto con modestia. Durante la proiezione delle diapositive non stava mai zitto, e quando appariva un'immagine sbagliata - il che accadeva spesso - scattava con impazienza. Era la quintessenza dell'esibizionismo, e cioè quanto di meno giapponese possibile. I giapponesi - pensava la sua signora erano proprio tanto malinconici. Quell'anno venne dalla Germania E. Spranger. Aveva sempre accanto un traduttore giapponese che lo accompagnava nei suoi giri di conferenze. In dodici mesi ne tenne non meno di ottanta, dedicate in gran parte alla decorazione filosofico-culturale dell'amicizia tedesco-giapponese appena sfornata. Quando ne lessi i dettagliati resoconti sui giornali nipponicoamericani, non riuscivo a comprendere come la stessa persona che nel 1933 aveva presentato domanda di congedo23 potesse ora prestare la sua cultura come rappresentante ufficiale della Germania nazionalsocialista per convincere se stesso e il suo pubblico che la Germania e il Giappone (che prima del suo arrivo egli conosceva solo per averne letto in qualche libro) avevano una missione storica comune e una profonda affinità. Il samurai corrispondeva così all'ufficiale tedesco, lo spirito di sacrificio giapponese all'eroismo germanico, il Bushido al codice d'onore germanico, il culto giapponese degli antenati all'idea neotedesca della razza, e altre follie del genere. Sembrava che Spranger avesse finalmente trovato quel "contatto con la nuova generazione" che nel 1933 aveva deplorato di non trovare.

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Tuttavia l'alternativa da cui io partivo nel non riuscire a conciliare l'atteggiamento di Spranger di una volta con quello attuale era inadeguata. Il cittadino medio tedesco non si trovava affatto dinanzi all'alternativa di dire un sì o un no decisi al nazionalsocialismo. In realtà egli era preso in una morsa. Volente o nolente doveva adattarsi al fatto di essere tedesco e di dover vivere in Germania, ed era troppo inoffensivo per poter essere radicale. E così anche Spranger ritenne certamente suo dovere patriottico, passando sopra alle proprie perplessità, porsi al servizio di una causa, che oltretutto era dignitosa e che per un anno lo teneva lontano dai suoi colleghi di Berlino. Il buon consigliere particolare - che era il tipo del grande maestro tedesco - si è comportato in linea di principio in modo non diverso da tutti gli altri tedeschi che per un momento, nel 1933, si posero il problema di andarsene, ma subito dopo "ci ripensarono" e si assunsero la responsabilità di una cattiva causa - penso a Schacht, a von Neurath e a von Papen. Nessuno rinuncia volentieri e spontaneamente ad un'attività cui è abituato e che gli dà soddisfazione, finché per lui c'è ancora un modo per rendersi utile; e la cultura politica tedesca si è avvantaggiata inviando questi signori all'estero o al confino quando erano scomodi o inutilizzabili in patria. Uomini decisi e chiaroveggenti come Rauschning sono rari. Dal punto di vista della psicologia tedesca non c'è da meravigliarsi affatto se Spranger e altri rappresentassero all'estero ciò che non erano in patria. In fondo Spranger era un professore tedesco, un idealista e un uomo di cultura, e non c'era perciò da aspettarsi da lui un'eccessiva lucidità politica. Un giorno, dopo una cena a casa del decano della facoltà di filosofia, egli mi prese confidenzialmente da parte per manifestarmi il suo rincrescimento a proposito del direttore nazionalsocialista dell'Istituto di cultura tedesco a Tokyo, deplorare gli intrighi berlinesi e descrivermi la decadenza delle università tedesche. Una spia significativa del tronfio idealismo della cultura rappresentata da Spranger fu la conclusione della sua conferenza a Sendai: come c'era da aspettarsi, egli citò dal Divano occidentale-orientale di Goethe il famoso

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verso "di Dio è l'Oriente, di Dio è l'Occidente", quando invece erano entrambi del demonio. Prima di tornare in Germania, Spranger ebbe la cortesia di scrivermi una lettera nella quale ogni singola frase, per orecchie tedesche, proviene da quella « terra della cultura» che già per Nietzsche era ormai scomparsa. Egli scrive: « Questo è il momento opportuno per leggere alcuni versi dell'Ermanno e Dorotea su coloro che vanno pellegrini per il mondo, e inoltre (sic!) il canto del destino di Holderlin. E bisogna accettare come una sorta di consolazione che sia la storia del mondo a spingerci e a cacciarci, e non una qualsiasi sfortuna. In guerra si dice: 'tocca a me o a te?'. Alla fine tocca a ognuno [. .. ]. La patria è quella che si porta con sé nel proprio cuore. In fondo tutti i viandanti su questa terra sono emigranti». Chi può meravigliarsi allora del fallimento dell'intellettualità tedesca nel momento in cui una forza virulenta è piombata entro i suoi fragili recinti e ha preteso una presa di posizione per la quale essa era tanto impreparata quanto incapace. Dopo Spranger, venne in Giappone, come professore ospite, il giurista Koellreuter. Era iscritto al partito, e i colleghi giapponesi ebbero il buon senso di non farmi incontrare con lui. Andai solamente a sentire la sua conferenza, la quale fu talmente insignificante che gli stessi giapponesi non lesinarono le loro critiche. Egli illustrò con uno schema grafico l'unità tra il popolo e il suo capo, tracciando una verticale ( = il partito) dal vertice, che rappresentava il Fiihrer, alla base, che rappresentava il popolo. Per caso sentii dire anche che era presente il docente di Kiel Rolf D., inviato dal Ministero per studiare gli aspetti dell'educazione nazionale giapponese. Era un uomo intelligente e preparato, che io avevo conosciuto durante la guerra perché era nel mio stesso reggimento. Desideravo parlargli e mi dispiacque di non averlo incontrato a Karuizawa. Gli scrissi quindi una lettera per chiedergli se avessimo potuto vederci a Tokyo. La sua risposta fu cameratesca, ma mi assicurava di essere sul punto di ripartire e di non avere tempo. Allora gli misi per iscritto le mie domande, che riguardavano le

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Kart Lowith

manovre tedesche contro la mia posizione a Sendai, pregandolo di rispondermi magari dalla nave. Ma la risposta non venne.

Gli emigranti tedeschi in Giappone Degli ebrei ed emigranti tedeschi, che vivevano quasi tutti a Tokyo, io conobbi soltanto quelli che d'estate venivano a Karuizawa. Alcuni di loro avevano lavorato in Giappone da decenni come rappresentanti di ditte commerciali tedesche, ed ora avevano perso la loro posizione professionale e il loro rango sociale; nessuno della colonia tedesca trattava più affari con loro, neanche coloro che erano stati insieme per anni prigionieri di guerra. Famosi musicisti come Leonid Kreutzer e Rosenstock erano stati chiamati ad insegnare e a dirigere nelle accademie musicali giapponesi, suscitando la rabbia della colonia politicamente allineata. Un altro emigrante, che faceva il medico, mi raccontò che una volta un iscritto al partito si era presentato nell'orario di visita e si era scusato dicendo che lui non era un «vero» nazista ma un tedesco « per bene». D'altra parte alcune signore tedesche che erano andate a farsi visitare da lui erano state sorvegliate dal partito, denunciate e sottoposte ad umilianti interrogatori. Ultimamente, dopo il novembre 1938, sono venuti in Giappone ancora alcuni emigranti tedeschi, per attendere qui il giorno in cui potranno andarsene definitivamente in America. Tra questi ho conosciuto il noto economista Franz Oppenheimer e sua figlia, che è semiariana, e due coppie di matrimonio misto. Appresi da loro particolari più precisi sulle giornate di novembre e sulle nuove misure antisemite, le quali non facevano che confermare la