Portico d'Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del '43 [2 ed.]
 8858123298, 9788858123294

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Economica Laterza 755

Di Anna Foa nelle nostre edizioni:

Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione. XIV-XIX secolo

Anna Foa

Portico d’Ottavia 13 Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Edizioni precedenti: «i Robinson / Letture» 2013 Nella «Economica Laterza» Prima edizione gennaio 2016 1

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Edizione 5 6

Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021 Le cartine sono state realizzate da Alessia Pitzalis L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2329-4

ad Andrea, acuto lettore

Indice

Premessa

IX

1. La razzia

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2. La Casa

13

3. Il 16 ottobre nella Casa

27

4. Nella Casa vuota

47

5. I luoghi della cattura

65

6. “Credevamo che prendessero solo gli uomini”

79

7. La “Pantera Nera” e altri delatori

85

8. Sentenze

99

9. Dalla microstoria alla storia

111

Nota bibliografica

125

Ringraziamenti

133

Le famiglie degli abitanti della Casa al 16 ottobre 1943

135

Indice dei nomi

139 VII

Premessa

Al numero 13 di via del Portico d’Ottavia, nel tratto fra vicolo di Sant’Ambrogio e il passaggio che conduce a via di Sant’Angelo in Pescheria, a fianco dei ruderi romani del Portico, c’è un vecchio portone di legno che si apre inaspettatamente su un vasto cortile circondato da logge rette da colonne antiche, simile più ad un chiostro che ad un cortile d’abitazione. In questa casa ho abitato per dodici anni. Era una casa suggestiva e piena di bizzarrie, una casa in cui ci si poteva perdere. Salendo le scale, tra il pianterreno e il primo piano, trovavi sulla sinistra un piccolo corridoio che si apriva all’improvviso su un altro slargo, che guardava verso via di Sant’Angelo in Pescheria, con una scala che saliva all’aperto verso un altro appartamento. Al pianterreno c’era un’altra deviazione, che sbucava in due cortiletti che prendevano luce dall’alto, quasi sprofondati in un pozzo, su cui si affacciavano altre porte e finestre. E fin l’ingresso alle cantine era misterioso: la scala principale continuava verso il basso coi suoi larghi gradini sempre più disfatti, per dare accesso, nell’ombra, ai locali delle cantine, che dall’alto sembravano immensi. La Casa era ormai splendidamente restaurata, il cortile ben illuminato, eppure la discesa verso le cantine continuava ad incutermi timore. Confesso di non esserci mai IX

andata, anche se una di queste cantine era la mia, ma l’oscurità e il carico della Casa al disopra mi pesavano. Le pensavo piene di topi e univo questa immagine con il ricordo, lontanissimo nel tempo e forse uno dei miei primi ricordi, di me bambina nella Torino del dopoguerra, con mia madre e mia nonna che armate di scopa scacciavano grossi topi dal cortile. So ora che quelle cantine, quando suonava la sirena, servivano da rifugio antiaereo e che là sotto una donna ebrea si è nascosta per partorire e ha dato alla luce una bambina. Ma quando ho abitato in quella casa non lo sapevo ancora. E mi hanno anche detto che gli abitanti della Casa vi vedevano talvolta un fantasma, una donna tutta velata che si affacciava alla loggia dell’ultimo piano e proteggeva gli ebrei dai tedeschi. Una donna velata, vestita all’antica, che poteva essere forse un ricordo delle monache che avevano abitato l’edificio, chissà. Io, devo ammettere, il fantasma non l’ho mai visto, ma forse era svanito alla fine della guerra, quando non c’era più bisogno di salvare ebrei, o forse con la ristrutturazione. Le ristrutturazioni uccidono sempre i fantasmi... Quello che mi aveva particolarmente colpita, oltre all’inusuale fascino di quel palazzo, era il fatto di averlo già scoperto alcuni anni prima e di essermi fermata ad ammirarlo mentre con una troupe della Rai cercavamo nel quartiere del vecchio ghetto delle inquadrature per un documentario per le scuole. La loggia interna, assai suggestiva con le sue colonne e il cortile vetusto di storia, ci sembrò il luogo ideale per girarvi alcune scene, e così facemmo. Ritrovarlo fu strano, una di quelle coincidenze irripetibili che ti appaiono come magiche. E quando mi fu offerta l’occasione di andarci a vivere, la colsi al volo e mi stabilii all’ultimo piano della Casa, fra i terrazzi e i tetti. Avevo incontrato il quartiere e la “piazza” tanti anni prima, nel 1962. Avevo diciassette anni, ero iscritta alla gioventù X

comunista e a Roma c’erano le elezioni comunali. Da via Milano, dove era la sede del giornale del Msi “Il Secolo d’Italia”, i giovani missini venivano a tirare pietre contro gli ebrei. Ricordo una 600 bianca carica di sampietrini. La Federazione del Partito mandò una sera noi giovani a “difendere il ghetto”, ghetto che del resto era organizzatissimo per difendersi da solo. Eravamo là in piazza, ad aspettare gli attaccanti, che quella sera non vennero, e a parlare con gli ebrei che erano in strada a presidiare il quartiere. E ricordo che io dissi, forse per farmi benvolere: “Anche io sono ebrea”. La risposta fu secca e tale da raggelarmi: “Le nostre donne stanno a casa”. Per molti anni non ci tornai più, ignara di quanto nella mia vita più adulta quel luogo sarebbe divenuto importante per me. In realtà, non è vero che le donne ebree in quei mesi non scesero in strada a rintuzzare gli attacchi dei fascisti. Mi hanno raccontato che molte lo fecero, sostenendo che se avevano potuto essere deportate potevano anche partecipare agli scontri in piazza. E una volta alcune donne, tutte insieme, rovesciarono addirittura una macchina piena di fascisti. Quando nel 2000 andai ad abitare nella Casa, ero ormai iscritta alla Comunità romana. Mi mancava tuttavia la continuità con il passato della “piazza”, con quei decenni in cui l’edificio faceva ancora parte di un tessuto urbano molto legato all’antico ghetto. Talvolta mi domandavo cosa fosse successo su quelle scale il 16 ottobre del 1943, ma non mi ci fermavo troppo a riflettere. I fantasmi erano lontani, almeno finché non avessi dato loro un nome. Mi interessava di più, allora, riflettere sulla storia della Casa, che era stata anche parte di un convento, sulla sua collocazione rispetto al ghetto, di cui non aveva mai fatto parte. In quegli anni, il Cinquecento attirava tutta la mia attenzione di storica e vivevo la Casa come un osservatorio privilegiato per cogliere la vita degli ebrei XI

romani del passato, dei secoli del ghetto. Quelle mura sembravano chiedermi, in quanto storica, di raccontare la storia di quanti vi avevano vissuto. Ma quali dei suoi tanti abitanti nel succedersi delle generazioni? Un giorno, un’altra coincidenza: nel capitolo sulla Shoah di un manuale di storia per le superiori di cui ero co-autrice scoprii inaspettatamente una fotografia del cortile della Casa, scattata chissà in che anno ma certo dopo il 1943: degradato, scuro e tetro il cortile appariva come nelle descrizioni degli anni successivi alla guerra quando i ragazzini, mi è stato raccontato, avevano perfino paura ad entrarci. La didascalia, suggerendo che la foto risalisse alla razzia del 16 ottobre, diceva: “Un’immagine spettrale del ghetto di Roma deserto”. I fantasmi si ostinavano ad interpellarmi, questa volta direttamente da un passato recente, dall’oscuro e sanguinoso passato dell’occupazione. Fu allora, credo, che cominciai a rimuginare sulla storia della Casa durante i mesi dell’occupazione nazista e su chi ne fossero allora gli abitanti, nessuno dei quali vi abitava ormai più. Paradossalmente, il momento di scriverne è arrivato per me solo dopo che mi sono trasferita altrove. Coincidenza casuale anche questa? Non lo so. Ho come la sensazione che da allora la Casa abbia cominciato a chiamarmi. Riemergevano, quasi avessero trovato un luogo dove ancorarsi, le sensazioni provate nelle letture fatte da bambina delle memorie della Shoah, offuscate negli anni dalle riletture successive. La storia della Casa cominciò ad assillarmi ma non trovavo il modo di iniziare a scriverne, non ero capace di mettermici. Poi incontrai un testimone, che all’epoca era un bambino ma aveva conosciuto tutti nella Casa e che per primo mi raccontò. Dopo di lui altri testimoni comparvero, altri racconti emersero ad illuminare un poco quei mesi e la vita nella Casa XII

sotto l’occupazione. E allora decisi che avrei ricostruito quella storia, che non avrei più salito quelle scale senza sapere i nomi di quanti in quei giorni vi avevano abitato, senza conoscerne almeno un poco la storia. È proprio l’immagine delle scale che mi assilla, quella degli ebrei che le scesero quel 16 ottobre per andare verso la morte: tanti, troppi. Quando ho iniziato a pensarci, la Casa mi è apparsa simile ad un cimitero. È vero che tutte le case sono in realtà dei cimiteri, nel succedersi delle morti e delle generazioni. Ma è anche vero che non in tutte le case tanti dei suoi abitanti sono stati portati via improvvisamente, all’alba di un giorno d’ottobre. Per questo, quando ho saputo che coloro che avevano abitato nel mio appartamento si erano salvati tutti, ne ho provato un grande sollievo, quasi si fosse trattato della mia famiglia. Di questo libro, il primo protagonista è la Casa, con le sue colonne, le sue mura spesse, le sue deviazioni inaspettate. Quanti sono riusciti a scappare attraverso i suoi anfratti e a trovare in quel labirinto una strada per la fuga? E quanti invece sono stati spinti fuori verso la deportazione? Ridare l’anima alle persone che la abitavano in quei giorni terribili dell’occupazione, quando gli ebrei erano braccati nella città, cacciati da cacciatori disumani: questo il mio proposito. Per farlo, ho dovuto allargare la mia attenzione almeno un poco alle case accanto, alla “piazza”, cioè la via del Portico d’Ottavia e le strade vicine, “piazza Giudia” appunto. Il numero 9 di via del Portico d’Ottavia, in particolare, accanto al numero 13, ha con esso una storia fittamente intrecciata: l’edificio del numero 9, infatti, è stato costruito nel Cinquecento, poco dopo la ristrutturazione nella forma attuale del numero 13, e le due case erano note nel loro complesso come “case dei Fabii”. Attraverso i tetti e i solai i collegamenti fra le due case erano stretti, e possiamo immaginarci che dalle finestre ci si XIII

sia molto parlato e che di quei solai e quei tetti molti abbiano approfittato per fuggire. E poi ho dovuto guardare anche alle persone che avevano con gli abitanti della Casa legami stretti, di parentela o di vicinato, molti dei quali abitavano al numero 9. E ancora a quanti andarono ad abitarvi dopo la guerra, riempiendo i vuoti creati dalla deportazione, sostituendo i parenti morti in quei mesi. Piano piano, senza che la Casa perdesse la sua centralità, mi sono trovata in mezzo ad una rete di luoghi, di negozi, di persone. Via Arenula, via di Sant’Angelo in Pescheria, via di Santa Maria del Pianto, via del Tempio. Oltre ad essere lo spazio dei perseguitati, era anche quello dove agivano i persecutori: italiani in maggior parte, e se tedeschi solo in funzione di complici, interessati come gli italiani al saccheggio. E fra loro le spie che li guidavano, come Celeste Di Porto e Remo Canigiani, membri della banda che più imperversò in quei mesi nel vecchio ghetto, la banda Cialli-Mezzaroma. Quando le spie additavano gli ebrei alla banda, un sinistro carrozzone si avvicinava per far salire gli arrestati, liberarne alcuni, mandarne altri a morte, secondo la convenienza o il capriccio. Anche questi fatti che si svolgevano sotto le finestre della Casa sono parte della sua storia. Per ricostruirla ho interrogato i dati, i documenti degli archivi che ne portano traccia, ma anche il ricordo di chi ha conosciuto gli abitanti della Casa, ha vissuto accanto a loro, ne ha portato memoria, che fossero amici, vicini di casa, famigliari. Di alcuni ho saputo di più, di altri meno, di altri ancora nulla, tranne che i nomi e le date di nascita e di deportazione. Ma la Casa si è riempita di abitanti, di nomi, di vite vissute. È un tentativo di riparazione, forse. Un riconoscimento verso quelle persone che il 16 ottobre hanno sceso dietro la spinta dei fucili tedeschi quei gradini che tante volte, sessant’anXIV

ni dopo, ho salito inconsapevole, attenta solo alla mia realtà quotidiana. Restituire anima e volto a quelle persone, a cui la vita di ogni giorno è stata strappata brutalmente, in un attimo. Per farlo, è stato necessario ricostruirne i nomi, gli intrecci famigliari, le età. Per questo il libro è fitto di nomi, che rendono talvolta difficile orientarsi. Ma ho preferito per quanto mi è stato possibile non dimenticare nessuno: di tutti i nomi che emergevano nella ricerca ho inseguito le tracce con un rigore filologico forse eccessivo e in qualche momento ossessivo. Recentemente, una pietra d’inciampo, un sampietrino d’ottone di quelli che segnalano sulla soglia di una casa la deportazione di uno o più dei suoi abitanti, è stata collocata di fronte al portone. Ricorda solo uno di quei deportati, una donna incinta di nove mesi portata via il 16 ottobre 1943. Per mettervi una pietra per ognuno dei suoi abitanti mandati a morire non basterebbe lo spazio di un lenzuolo. Che questo libro sia per voi come quel lenzuolo.

Portico d’Ottavia 13

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Il quartiere del ghetto oggi. In grigio scuro, la Casa. Sa onte Via di M

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Teatro di Marcello

Piazza Monte Savello

1.

La razzia

A destra della via del Portico d’Ottavia, lato est, vedo un milite delle SS tedesche. Sta piantato sulle gambe leggermente divaricate; solo un piccolo moto a dondolo da destra a sinistra, e da sinistra a destra, un moto pigro, tranquillo, la mano alla cinghia del fucile mitragliatore messo a tracolla. Due passi ancora. Altro milite SS immobile, armato (Morpurgo 1946, p. 107).

Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e copriva di un velo il buio della notte. Prima dell’alba i soldati tedeschi avevano sparato diffusamente intorno alle vie strette del vecchio ghetto: sparavano in aria, nel deserto del coprifuoco, senza scopo apparente, e questo rendeva ancor più inquietante il fragore dei loro spari. Qualcuno si era alzato ancor prima dell’alba, nella Casa e nelle case vicine. Era annunciato un rifornimento di sigarette, quella mattina, ed era meglio mettersi in coda presto dal tabaccaio dell’Isola Tiberina, là accanto. Erano tanti a fumare, allora, e le sigarette erano un bene raro e rassicurante. Nella Casa, i due ampi porticati erano vuoti, non risuonavano ancora dei giochi dei bambini. Era festa, era sabato ma era anche l’ultimo giorno di Sukkot. Gli abitanti, stremati per essere rimasti a lungo svegli a causa degli spari, si concedevano un poco di sonno in più. Nella Casa e nelle case vicine, 3

molti avrebbero lavorato come se non fosse giorno di festa, cercando di raccogliere qualche soldo per mangiare in quei tempi grami di guerra e di persecuzione. Più tardi alcuni sarebbero andati in sinagoga, non al Tempio grande, che era stato chiuso per precauzione dalla Comunità, ma al Tempio spagnolo, sotto al Tempio grande, dove le funzioni continuavano a tenersi regolarmente. C’erano state grandi discussioni in Comunità, su questa decisione di tenere aperto per le funzioni almeno quel Tempio, e il rabbino Zolli, che voleva chiudere tutto, anche gli uffici della Comunità, si era nascosto da amici fidati, dopo aver esortato i fedeli a seguire il suo esempio. Non erano tempi, quelli, che gli ebrei si radunassero tutti insieme, neanche per pregare il Signore. Ma il presidente della Comunità aveva deciso altrimenti, accusando il rabbino di essere un vile e un allarmista. Eppure, dopo che il rabbino si era allontanato da casa, i tedeschi vi avevano fatto irruzione, sfondando la porta e crivellandola di colpi, senza trovare né lui né i suoi. Era stata quella la prima casa di ebrei in cui i nazisti erano andati, già ben prima della razzia, vicinissimo alla sinagoga, al numero 19 di via di San Bartolomeo dei Vaccinari. La razzia cominciò poco prima delle cinque e trenta. Il quartiere del vecchio ghetto era circondato, c’erano pattuglie tedesche di guardia a tutte le vie di accesso, in via del Tempio, in via del Progresso, in via del Portico d’Ottavia, in piazza Costaguti, in via di Sant’Angelo in Pescheria, in piazza Mattei, di fronte al teatro di Marcello. Anche se forse, a giudicare da quanti sono riusciti a fuggire da via di Sant’Angelo in Pescheria, da quella parte la rete non dovette essere troppo stretta, probabilmente per mancanza di uomini. Nella Casa, i nazisti non ebbero neanche il bisogno di sfondare il portoncino di legno, che era tutto sfasciato e restava 4

sempre aperto. Entrarono nel cortile a passi pesanti e cominciarono a bussare alle porte col calcio del fucile, là al piano terra, dove si aprivano gli appartamenti e i magazzini. Poi, dal momento che nessuno andava loro ad aprire, sfondarono una porta a spallate, sempre gridando ordini nel vuoto. A quel punto, tutti gli abitanti della Casa erano svegli e tendevano un orecchio atterrito a quanto stava succedendo al piano terra. Una donna che abitava al secondo piano, subito sopra la prima porta sfondata, Cesira Limentani, non perse altro tempo, prese la figlia di cinque anni, avvolse in una copertina il bambino più piccolo, che aveva solo sei mesi, e insieme ad alcuni dei suoi vicini saltò fuori dalla finestra, verso il retro. Il salto era basso, e riuscirono a fuggire, sottraendosi ai posti di blocco dei tedeschi. Più tardi, trovarono rifugio in un istituto religioso vicino al Gazometro. La donna non credeva davvero che avrebbero preso anche loro, le donne con le creature, ma non si era fermata troppo a pensare e, quando aveva sentito il fracasso della porta sfondata e gli ordini rauchi dei tedeschi, era scappata via subito, d’istinto, con i bambini. E questo salvò loro la vita. Scrupolosamente, gradino dopo gradino, i nazisti salirono le larghe scale di marmo consunte della Casa, memoria di antichi splendori, fermandosi ad ogni porta senza tralasciarne nessuna. Questo dette ad alcuni degli abitanti il tempo di fuggire. La Casa era piena di anfratti e corridoi, che consentivano di scappare dal retro senza essere visti. Alcuni, pochi però, si erano già allontanati nei giorni precedenti. In tutto, quel giorno furono catturati nella Casa trentacinque ebrei. Molti altri abitanti della Casa, quattordici in tutto, furono presi nel corso dei mesi successivi e ben sei di loro furono assassinati alle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944. Per una sola casa, sia pur grande come quella, fra novanta e cento abitanti, non era certo poco. 5

Intanto, mentre i nazisti salivano le scale delle case lì intorno e bussavano perentori alle porte, tutti si erano svegliati. “All’improvviso la Piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni”, scrive Settimia Spizzichino, l’unica donna superstite della deportazione del 16 ottobre, allora una ragazza di ventidue anni che abitava con la famiglia subito lì dietro, a via della Reginella. Voci e grida risuonavano alte dalle finestre degli edifici, gli uni avvisavano i parenti o gli amici nella casa accanto di scappare. “Prendono gli ebrei, prendono tutti”, si gridava da ogni parte. Le donne si affacciavano alle finestre degli ultimi piani, mentre già i nazisti entravano nelle case sottostanti. Chi ci riusciva, prendeva le scale facendo finta di niente, come fece la famiglia Fatucci che abitava all’ultimo piano della Casa: dopo aver fatto fuggire i figli maschi dai tetti, i genitori di mezza età e le due figlie adolescenti scesero le scale senza voltarsi indietro. Si era ormai capito che i tedeschi non si limitavano ad arrestare gli uomini in età da lavoro, ma prendevano tutti, proprio tutti, dai vecchi ai neonati. Che cosa ne avrebbero fatto poi, nessuno lo sapeva. Come non sapevano che i tedeschi stavano facendo lo stesso in tutta Roma, che in quello stesso momento ogni edificio della città in cui abitavano ebrei risuonava delle stesse grida e degli stessi passi. I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo. Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città, fra italiani e stranieri oltre tredicimila. In realtà ne presero molti di meno, poco più di mille una volta rilasciati i “misti”, un sostanziale fallimento nell’ottica nazista, che il rapporto ufficiale di Kappler attribuisce sia al numero in6

sufficiente degli uomini impegnati nell’azione sia “all’atteggiamento di resistenza passiva, e in alcuni casi individuali di aiuto attivo, della popolazione”. Talvolta i tedeschi chiesero al portiere o ad altri inquilini dove potevano trovare quei signori là dell’elenco, alla cui porta avevano invano suonato. E ci fu chi, come il colonnello Guido Terracina, incontrò i nazisti mentre scendeva le scale per scappare e chiese loro in tedesco cosa stesse succedendo, lesse il suo nome sul loro elenco e rispose, con un gran sangue freddo, che quel signore non si vedeva dall’estate passata, che si diceva che fosse sfollato altrove. E continuò a scendere le scale, dopo aver salutato cortesemente i tedeschi (Morpurgo 1946, pp. 108-109). Ma per farlo bisognava sapere il tedesco e abitare in una casa, come quella dove abitava Terracina, in via Sannio, dove non vivessero solo ebrei. Non in Portico d’Ottavia, dunque, o, come dicevano gli ebrei, in “piazza”. Gli uomini impegnati nell’operazione erano in tutto 365, cinque compagnie dell’esercito e della polizia di sicurezza guidate da un reparto specializzato nella caccia all’ebreo formato da 14 ufficiali e sottufficiali e 30 soldati, comandati dal capitano Theodor Dannecker, uno stretto collaboratore di Eichmann, che avrebbe successivamente cooperato con lui nella deportazione degli ebrei ungheresi. Dannecker era arrivato a Roma il 6 ottobre, stabilendosi in via Tasso, la sede delle carceri della Gestapo, e aveva dedicato i giorni successivi alla preparazione della razzia, coadiuvato da un gruppo di poliziotti italiani messi a sua disposizione dalla questura e guidati dal commissario aggiunto Gennaro Cappa, allora capo del Servizio Razza della Questura di Roma e successivamente stretto collaboratore del questore Caruso. Avevano il compito di preparare l’indirizzario degli ebrei dividendolo per zone. Per farlo, usarono presumibil7

mente l’elenco depositato presso la questura (ma ce ne erano molte altre copie a Roma, dalle istituzioni centrali fin nei commissariati di polizia), frutto del censimento degli ebrei fatto nel 1938 e del suo principale aggiornamento nel 1942, e lo incrociarono con altri dati, tra cui probabilmente l’elenco dei contribuenti sequestrato alla Comunità ebraica il giorno dopo la consegna dell’oro, il 29 settembre. Gli elenchi usati dai nazisti furono quindi il risultato del lavoro d’ufficio dei poliziotti italiani, sotto la direzione dei tedeschi. Non fidando però nella discrezione dei poliziotti italiani, Dannecker li consegnò per la notte in caserma per tutta la durata delle operazioni. L’azione doveva cogliere gli ebrei di sorpresa e il segreto era assolutamente necessario. Due o tre giorni prima del 16 ottobre arrivò anche il reparto speciale di Dannecker, che si acquartierò al Collegio Militare, sulla Lungara, dove poi sarebbero stati radunati gli ebrei razziati. Stranamente, non abbiamo nessuna fotografia della razzia del 16 ottobre. Nessun tedesco, a quanto si sa, ha fotografato le file degli ebrei ammassati di fronte alle rovine del Portico in attesa dei camion, nessuno ha immortalato le azioni romane del reparto speciale di Dannecker. Eppure, sappiamo che era usanza dei nazisti prendere immagini delle loro azioni. Sono rimaste innumerevoli foto delle azioni naziste, perfino delle esecuzioni di donne e bambini nei villaggi russi e polacchi. Ci sono foto, scattate da un fotografo ufficiale delle SS, della distruzione del ghetto di Varsavia. A Roma non furono fatte foto. I nazisti potrebbero aver preferito non documentare questa azione, farla passare sotto silenzio. È forse questo un altro indizio delle esitazioni tedesche di fronte alla deportazione degli ebrei romani proprio “sotto le finestre del papa”? O si tratta di un caso, e le foto c’erano e sono state successivamente smarrite? Emergeranno forse 8

un giorno da qualche archivio ancora inesplorato, a renderci visibile quello che ora possiamo solo rivivere attraverso le testimonianze e i documenti scritti? Vedremo, allora, il portone del numero 13 con la fila di donne, vecchi e bambini che scendevano quelle scale spinti dai fucili dei nazisti? I tedeschi eseguivano il loro compito senza violenze superflue ma in fretta. Solo il calcio del fucile a pigiare sui carri i recalcitranti, a spingere chi, vecchio o confuso, tardava a muoversi. Entrando, avevano consegnato ad ogni famiglia un biglietto dattiloscritto in due lingue, tedesco e italiano. Diceva che tutti, proprio tutti, dovevano raggruppare poche cose essenziali, dei viveri per otto giorni e lasciare la propria abitazione entro venti minuti, seguendo i militari tedeschi. La fretta era tale che pochi ebbero il tempo di pensare, di capire cosa stava succedendo. Bisognava ricordarsi di prendere tutte le cose assolutamente necessarie ad uno spostamento, le medicine per i vecchi e i malati, quanto serviva ai bambini piccoli. La fretta stessa che veniva imposta alle vittime rendeva loro quasi impossibile sfuggire alla presa, una volta che erano nelle mani dei tedeschi. Ci fu chi riuscì a farlo, certo, nella confusione, ma molti che pure avrebbero potuto fuggire preferirono restare vicino ai loro cari, alle madri, ai bambini. Non dobbiamo dimenticare che erano intere famiglie che venivano così rastrellate. E poi, furono radunati tutti insieme ad aspettare i camion che li avrebbero portati lontano da lì, non si sapeva dove. Per gli abitanti della Casa, furono pochi metri, poi furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi del Portico d’Ottavia, là dove nel Medioevo c’era stato il mercato del pesce. E qui, mentre aspettavano, senza più il calcio dei fucili a far loro fretta, cominciarono a rendersi conto di cosa si trattava. Qualcuno si ricordò degli elenchi comunitari che 9

erano stati sequestrati tre settimane prima dai nazisti, altri pensarono alle voci che giravano e a cui non avevano voluto dare peso. E lì, mentre aspettavano i camion e poi vi salivano, qualcuno riuscì ad allontanarsi approfittando di un attimo di distrazione dei soldati o forse di uno spiraglio di pietà. Ci fu anche chi riuscì a gettare il proprio bimbo nelle braccia di un passante generoso, come fece una delle donne arrestate al numero 9 di via del Portico d’Ottavia. Ma il sentimento più forte, oltre alla paura, era l’incredulità, che spingeva le famiglie a ritrovarsi, i figli a seguire la madre, i genitori a raccogliersi intorno i bambini. Che se ne facevano i nazisti di tutti quei bambini e quei vecchi?, si pensava. E nessuno poteva immaginare che la destinazione finale sarebbe stata non un campo di lavoro, ma la camera a gas. Coloro che si salvarono in maggior numero furono quelli che i tedeschi cercarono più tardi, quando già la notizia si era sparsa per le case degli ebrei, portata da chi era riuscito a scappare o, dove c’era, dal telefono. Altri trovarono rifugio, mentre la razzia era in corso, in casa di non ebrei, di “ariani”. Bastò aprire la porta di casa e infilarsi in una porta a fianco che si apriva ad accoglierli, dal momento che in molti casi, anche se non in tutti, i tedeschi seguirono scrupolosamente i loro elenchi e avevano l’ordine di non frugare le case dei non ebrei. E anche quando intravedevano attraverso le porte socchiuse le loro vittime riunite nelle case degli “ariani” – come successe in alcuni casi – come capire se si trattava di ebrei in fuga o di parenti sfollati? Di quella solidarietà degli “ariani” verso gli ebrei, degli aiuti che questi avevano ricevuto, se ne lamentarono aspramente i nazisti, nel loro rapporto sulla razzia. Degli italiani, perfino di quelli in camicia nera, non c’era da fidarsi. Avevano fatto bene la sera prima a consegnare in caserma i reparti della polizia italiana che li avevano aiutati 10

nella preparazione della razzia, perché non cominciassero a far chiacchiere in giro o non avvisassero addirittura gli ebrei di ciò che si stava preparando. Ma nella Casa tutti gli abitanti erano ebrei, di tutti loro i tedeschi avevano i nomi. Non c’era nessun altro a portata di mano a cui chiedere rifugio, nessun appartamento che non fosse destinato ad essere rovistato da capo a fondo perché abitato dagli ebrei. E fu questa, se non la prima, comunque una delle prime case da cui cominciò nel quartiere del vecchio ghetto la razzia del 16 ottobre 1943: via del Portico d’Ottavia 13.

2.

La Casa

Era una casa ben visibile, grande e piena di persone i cui nomi apparivano l’uno dopo l’altro ordinatamente negli elenchi dei nazisti, divisi per numero civico, per piano e per interno: uomini, vecchi, donne e bambini. Per ricostruire con precisione la storia della Casa mi sono avvalsa del lavoro di ricerca fatto alcuni anni fa da due giovani architetti che ne hanno attentamente ripercorso le trasformazioni nei secoli. Perché la Casa è davvero molto antica. Il palazzetto al numero 13 di via del Portico d’Ottavia, insieme con quello contiguo che si apre al numero 9, era comunemente noto come “casa dei Fabii” e faceva parte dell’isolato di Sant’Ambrogio della Massima, fra via del Portico d’Ottavia, via di Sant’Angelo in Pescheria, piazza Lovatelli, via dei Funari e via di Sant’Ambrogio, un vasto complesso edilizio nato nella prima età medioevale sui resti di età augustea del Portico d’Ottavia e del Portico di Filippo, e poi stratificatosi nel tempo intorno al convento di Sant’Ambrogio, uno dei più antichi di Roma, e alle due chiese di Santo Stefano e di Santa Maria, riunite alla fine del Quattrocento nella chiesa di Sant’Ambrogio della Massima. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’isolato non fece mai parte del ghetto, il cui muro di cinta correva longitudinalmente proprio di 13

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L’isolato di Sant’Ambrogio della Massima.

Portic o

d’Otta via

fronte ad esso nell’attuale via del Portico d’Ottavia, allora via della Pescaria. La Casa era proprio al limite esterno del ghetto e ne restò al di fuori anche durante l’ampliamento attuato da Leone XII nel 1824, che estese il ghetto alla sinistra di questo isolato, fra via della Reginella, piazza Mattei e via di Sant’Ambrogio, senza tuttavia inglobarvelo. Guardandolo sulla mappa, si ha l’impressione di un complesso compatto e stratificato, e non ci si stupisce che, con il suo convento e la sua chiesa, sia rimasto sempre fuori dal ghetto, in una posizione liminare. Nel Medioevo, era quella la zona del commercio del pesce. La costruzione delle prime case su via della Pescaria risale probabilmente già al XII secolo: una serie di piccole case a schiera sul fronte della via, in quella che diventerà presto una zona molto abitata e piena di botteghe. Come il complesso dell’isolato di cui fa parte, anche la casa dei Fabii, così come la vediamo oggi, ha una storia complessa, di stratificazioni e sovrapposizioni. I Fabii erano una famiglia dell’aristocrazia romana che, lungi dal risalire, come avrebbe voluto far credere, all’omonima gens romana, appare per la prima volta documentata solo nel 1348, in una lapide con lo stemma di famiglia con due leoni rampanti ritrovata all’interno del monastero di Sant’Ambrogio. Ed è proprio a partire dal Trecento che la documentazione diviene più ricca. Vi si attesta nel 1390 la vendita ai Fabii di case e macelli situati sul Mons Fabiorum. Nel 1502 tal Bernardino de Fabijs possedeva una casa, descritta come modesta, su via della Pescaria. E fu proprio Bernardino ad iniziare la trasformazione del fabbricato unendo insieme i piccoli edifici preesistenti e trasformandoli in un palazzo signorile in stile rinascimentale. Con l’ampio cortile interno e il loggiato sorretto da armoniose colonne in marmo, ave15

PIANTA PIANO TERRA

Cortile

A Cortile B

Cortile C

Cortile di ingresso

Via del Portico d’Ottavia - 13

LA COSIDETTA Pianta del piano terra della Casa. “CASA DEI FABII”

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va a modello il Palazzo della Cancelleria. Le colonne erano probabilmente di riporto, prese dal Portico d’Ottavia. Nella trasformazione restarono intatte le botteghe al pianterreno, tipiche delle costruzioni di questo periodo, con il negozio in basso e l’abitazione al piano superiore, una tipologia che è rimasta immutata nell’edificio fino ad oggi. Contemporanea o di poco successiva fu la costruzione della seconda casa, l’attuale numero 9, legata alla prima da un unico loggiato al piano superiore, che inizialmente doveva essere aperto e solo in seguito fu murato per renderlo abitabile. Di un periodo successivo è il ballatoio, costruito forse tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. In questi anni, infatti, la famiglia dei Fabii era in forte decadenza: parte dell’edificio con la “casa grande dove habitano detti Signori” venne affittato nel 1603, parte divenne di proprietà del convento delle Monache di Sant’Ambrogio. In seguito a quest’acquisizione vennero murate le finestre della medievale torre dei Fabii, incorporata all’edificio in epoca rinascimentale, di cui ora non resta una struttura riconoscibile agli occhi dei profani. All’inizio del Settecento, il palazzo cominciò ad essere affittato e la proprietà di parte dell’edificio passò all’arciconfraternita del Santissimo Crocifisso in San Marcello. Possediamo l’inventario della visita apostolica del 1726 che descrive in dettaglio la Casa, che appare ormai molto simile a quella attuale: a destra e a sinistra del cortile, gli ambienti appartenevano all’arciconfraternita del Santissimo Crocifisso, il resto era del monastero di Sant’Ambrogio. Un cortiletto sulla sinistra con una stalla e un pozzo portava ad alcune stanze, destinate ad abitazioni, che facevano parte dell’ammezzato. Al primo piano si trovavano due appartamenti, uno che guardava su via della Pescaria, l’altro sul cortile. Al secondo piano 17

quattro appartamenti, uno di tre stanze, uno costituito di un solo stanzone con loggia scoperta, uno dove era la torre, e un altro di fronte a questo. Nella prima metà dell’Ottocento, la Casa passò di proprietà di Santa Croce in Publicolis e di privati. Successivamente, dopo la caduta del potere temporale dei papi e l’emancipazione, furono degli ebrei a divenirne proprietari. Quando il vecchio ghetto fu demolito, alla fine dell’Ottocento, l’isolato restò intatto, con le sue case cariche di storia. Poi furono innalzati gli edifici umbertini, proprio dall’altra parte della strada, al di là di quello che era stato il confine del ghetto. L’ultima modifica apportata all’edificio è del 1891: il vano d’ingresso fu parzialmente riempito e vi fu inserito l’attuale portone, più stretto rispetto alla larghezza originaria del vano. La Casa ha quindi una storia complessa. La nascita attraverso la riaggregazione di edifici precedenti, le continue riedificazioni, i passaggi di proprietà, la destinazione ora ad abitazione di privati ora a parti accessorie del convento, tutto questo ne ha fatto un edificio asimmetrico, munito di anfratti, nicchie, deviazioni che la rendono insolita e misteriosa. I due ballatoi la fanno assomigliare ad una casa a ringhiera, in passato ancor più di oggi grazie ai gabinetti situati sul ballatoio e sul cortile, ora scomparsi. La dissonanza fra il nobile loggiato rinascimentale e i due ballatoi rende ancora più singolare l’insieme senza nulla togliere al suo fascino. Al giorno d’oggi, il cortile interno, restaurato alla fine degli anni Novanta del Novecento, mantiene la struttura originaria, con la sua loggia sorretta dalle antiche colonne, armoniosa nei ritmi e nelle proporzioni. La larga scala di marmo, ormai molto danneggiata dal tempo, conduce sulla destra del cortile fino all’ultimo piano, in realtà soltanto il terzo se si considera come primo quello che è di fatto un ammezzato, 18

anche se gli altissimi soffitti del secondo piano fanno sembrare la salita più lunga e impervia. Ora è uno splendido palazzo, e chi sale quelle ripide scale per la prima volta dimentica la fatica, nello stupore di trovarsi in quel meraviglioso e inaspettato panorama, tra le logge di marmo e il cielo. Ma nel 1943 la Casa era assai degradata, e sempre più lo diventò nel dopoguerra, il che spiega il nome “Portonaccio” datole dagli abitanti della zona, dal portone in rovina che dava accesso all’edificio. Era un fabbricato povero, buio, sovraffollato, dove vivevano spesso stipate nello stesso appartamento famiglie modestissime di venditori ambulanti, stracciaroli, piccoli negozianti. Nel 1943, il palazzo era abitato soltanto da ebrei, tranne che per un falegname, sor Camillo, che vi aveva bottega al pianterreno. Perfino la portiera Rosa e suo marito Umberto erano ebrei. Il fabbricato era in condizioni terribili di degrado, nelle case più in alto pioveva dentro, spesso la muffa copriva le pareti. C’erano tanti bambini che giocavano al pallone nel cortile rinascimentale dalla pavimentazione sconnessa, come hanno continuato a fare nei decenni successivi, prima della ristrutturazione. Era una vita in comune, facilitata dall’affacciarsi degli appartamenti sul cortile interno, dalle logge coperte che invitavano a stringere i legami fra le varie famiglie. Le case erano insufficienti e sovraffollate, ma quegli spazi esterni favorivano lo stare insieme e le porte degli appartamenti restavano sempre aperte. Nessuno possedeva la radio, del resto vietata agli ebrei con le leggi del 1938, ma si sentivano le donne cantare le canzoni romane dalle finestre. Le donne lavoravano insieme sotto le logge e nel cortile, dove sistemavano le loro macchine da cucire. Si stendevano i panni nel cortile e vi si metteva a seccare, appesa ad un filo, la carne per fare le coppiette. La sera, si tiravano fuori le sedie e ci si metteva 19

in cortile o sotto le logge a parlare. Le bambine si sedevano a chiacchierare sui gradini, fra un’incombenza e l’altra, e si arricciavano i capelli. I bambini andavano a prendere l’acqua fresca alla fontanella in piazza. C’era una scuola elementare pubblica riservata ai soli bambini ebrei proprio lì dietro, in via di Sant’Ambrogio, creata dopo le leggi del 1938, dove un rabbino insegnava religione ebraica. In alternativa, i bambini andavano alla scuola ebraica, oltre Ponte Garibaldi. Essendo una scuola solo per ebrei, quella di Sant’Ambrogio apriva al mattino, a differenza delle altre, dove gli ebrei erano relegati al turno pomeridiano. I bambini più grandicelli andavano nel pomeriggio a dare una mano al banco o in negozio. Anche quando gli abitanti non erano imparentati, si conoscevano tutti, per lo più attraverso i loro soprannomi. Nella memoria di chi racconta, i cognomi e perfino i nomi sono più difficili da ricostruire, mentre i soprannomi sono famigliari e immediati. Si parlava in un italiano mescolato a parole o frasi in giudaico-romanesco. In tutte le testimonianze di quanti vi abitavano in quegli anni, ricorre l’idea che “in quella casa si stava bene”, che “erano tutti una grande famiglia”. Negli anni del dopoguerra la Casa non sarebbe cambiata poi molto. Nella maggior parte degli appartamenti rimasti senza abitanti sarebbero venuti ad abitare dei parenti degli scomparsi. I bambini avrebbero a lungo continuato a giocare in cortile, solo che adesso giocavano anche alla guerra, a “tedeschi e americani”. La vita avrebbe a lungo continuato a scorrere in comune, fra l’interno angusto degli appartamenti e lo spazio collettivo delle logge e del cortile. Ci sarebbero stati ancora, nel cortile, i magazzini di tessuti usati, solo che adesso si lavorava anche la seta dei paracadute, residui della guerra. I bambini avrebbero a turno preso la merenda da 20

qualcuno degli adulti, solo che adesso il pane era bianco e cosparso di zucchero. Questi i ricordi dei bambini di allora. Ma abbiamo anche delle immagini. Un documentario del 1947 ci mostra un quartiere ancora poverissimo, privo di automobili, in cui tutti siedono sulle sedie per strada, in cui non ci sono altre botteghe che magazzini o negozi di rigattieri. L’unico locale è il bar Totò, che fino al 1938 era al numero 11 di via del Portico d’Ottavia, nella Casa, e che poi fu chiuso in seguito alle leggi razziste e riaperto dopo la liberazione di Roma al numero 2, dove è ancora oggi. Nel 1947, nel cortile della Casa e sotto le logge si raccolgono fitte le donne che “capano” la verdura e quelle affaccendate alle macchine da cucire. I bambini si rincorrono nelle strade. I volti degli adulti portano evidenti i segni della guerra e dei lutti. In un altro straordinario documentario di Sergio Zavoli, girato nel 1963, a vent’anni dalla razzia, Piazza Giudia, appare la Casa ancora assai simile a quella che era nel 1947. I bambini giocano ancora nella strada davanti al portone, le donne siedono sul marciapiede sulle sedie a chiacchierare, il cortile è scuro, pieno di panni stesi e di sgangherate carrozzine. Non ci sono più le cucitrici alle loro macchine che riempivano le logge e il cortile. Ma ancora, niente turisti né ristoranti né negozi di souvenir. Più tardi, all’inizio degli anni Settanta, man mano che le famiglie di ebrei cominciarono ad essere in grado di trasferirsi in case più moderne e più comode, nella Casa entrarono molti inquilini non ebrei. Dapprima giovani hippies, aiutati dai prezzi bassi degli affitti, poi, man mano che il quartiere diventava caro agli stranieri e alla borghesia intellettuale, inquilini più agiati. Erano naturalmente cominciate le ristrutturazioni, prima parziali, poi di tutto il palazzo alla fine degli 21

anni Novanta. Pochi i bambini, scarso il rumore, soprattutto negli appartamenti verso l’interno, che non si affacciano sulla via del Portico d’Ottavia. Una trasformazione radicale. Nel 1943, quasi tutti restarono nella Casa anche dopo l’8 settembre, nonostante l’occupazione nazista e i timori crescenti. Scappare era difficile, bisognava procurarsi documenti falsi, carte annonarie contraffatte, oppure avere un rifugio dove riparare fuori Roma e la complicità di non ebrei. Quelli che decisero di nascondersi lo fecero alla fine di settembre, in seguito alla richiesta nazista di cinquanta chili d’oro per evitare la deportazione di duecento capifamiglia. L’oro fu, com’è noto, raccolto, ma la deportazione era stata comunque evocata, anche se molti furono invece rassicurati e si convinsero che il riscatto dell’oro sarebbe stato sufficiente per evitare altri guai. “I tedeschi sono di parola, dicevano, vedrete che non succederà nulla”. Ma anche chi non era troppo sicuro di cosa sarebbe successo si trovava comunque, nel vecchio ghetto, su un territorio famigliare: era vero che là tutti li conoscevano, ma il quartiere era anche una rete protettiva e affettiva, in cui tutti sapevano come muoversi e in cui tanti, anche dopo il 16 ottobre, tornarono ad abitare nonostante i rischi. Le testimonianze che abbiamo sugli ebrei arrestati a Roma dopo il 16 ottobre sono rivelatrici del fatto che non tutti trovarono rifugio nei conventi o nelle case degli “ariani”, che tanti continuarono a vivere nel quartiere, nei magazzini, nelle cantine, fin nelle stesse case in cui erano sfuggiti alla razzia del 16 ottobre, e che proprio là furono arrestati nei mesi seguenti. I casi sono innumerevoli, e i nomi delle strade del vecchio ghetto e di quelle adiacenti ricorrono continuamente nelle deposizioni processuali come nella memoria dei sopravvissuti. E anche alcuni degli abitanti della Casa ritornarono nella 22

loro abitazione, magari solo per passarvi i giorni della festa o per prendervi delle cose, convinti che con un po’ di fortuna sarebbero riusciti a non farsi arrestare dai tedeschi e dai fascisti, persuasi che dopo il 16 ottobre il peggio fosse ormai passato. Il caos regnava sovrano in città in quei nove mesi dell’occupazione. Nel vuoto immenso di organizzazione civile che si era determinato, restava in piedi, anzi cresceva e si rafforzava, il ruolo della Chiesa, l’unico potere “forte” in grado di contrastare in qualche modo gli occupanti. “Migliaia – scriveva Paolo Monelli – addiacciavano in piazza San Pietro, fra le colonne berniniane. Il pontefice parve il più sicuro presidio, come ai tempi antichissimi quando i barbari minacciavano... Fra i tiranni tedeschi e le pavide autorità italiane, i romani s’erano scelti il papa come pastore e come governatore...” (Monelli, p. 295). Oltre alla polizia repubblicana nascevano continuamente bande di irregolari, delatori che si facevano pagare la taglia per ogni ebreo denunciato ed erano soprattutto interessati ad arraffare il più possibile, rilasciando quanti potevano pagare e saccheggiando case, merci, preziosi. Questi irregolari, anche se si fregiavano del titolo di SS italiane, erano nulla più che bande di criminali comuni in divisa, libere di rubare e uccidere con l’appoggio dell’esercito nazista di occupazione. “Vestirono con l’uniforme della milizia – è sempre Paolo Monelli che scrive –, con pugnale e moschetto, o peggio con la divisa delle SS, teppisti e usciti dal carcere e ignoranti e prepotenti ragazzetti tolti dai riformatori e dalla strada” (Monelli, p. 283). Dei circa mille ebrei arrestati dopo il 16 ottobre a Roma, almeno la metà lo fu per mano dei fascisti, non dei tedeschi, e una grossa parte furono vittime di queste bande di irrego23

lari. Con loro, tutto poteva accadere. L’avidità di guadagno, il capriccio, la crudeltà erano la norma nella spietata caccia all’uomo condotta in primo luogo contro gli ebrei ma anche contro i partigiani e la gente comune: “renitenti alla leva e alla chiamata alle armi e al lavoro che si tenevano nascosti, ufficiali e soldati che non avevano voluto partire, funzionari e impiegati... che s’erano ribellati ai tedeschi; cospiratori, gruppi politici, partiti, giornalisti che stampavano foglietti clandestini, sabotatori, distributori di armi clandestine, ebrei sfuggiti alle retate... un esercito d’uomini che avevano nome falso, tessere false, che dormivano ogni notte in un posto diverso, s’incontravano in sacrestie o in cantine o in grotte... insidiati da spie, da indiscreti, da delatori” (Monelli, p. 288). Vitale era il ruolo delle organizzazioni clandestine di salvataggio, da quelle della Chiesa con i suoi conventi e le sue residenze extraterritoriali, alla Delasem, l’organizzazione ebraica di soccorso che continuò ad operare nella città occupata. E poi c’era la Resistenza organizzata, e fra loro non pochi ebrei. Anche alcuni degli abitanti della Casa erano partigiani. E non meno importanti, c’erano i cittadini comuni che aprivano le proprie case agli ebrei e con loro dividevano le proprie magre tessere annonarie. Mezza città nascondeva l’altra mezza, è stato detto. E sullo sfondo, l’attesa degli angloamericani, fermi a poche decine di chilometri dalla città eppure lontani anni luce, che però con la loro sola presenza rendevano tutto quanto mai provvisorio, alimentavano speranze dissolte e sempre rinnovate nel corso delle settimane. Non era come al Nord, dove ad un certo momento fu chiaro che ci sarebbe stato un altro inverno di occupazione, che i tempi erano lunghi, troppo lunghi per affidarsi al caso, che era necessario trovare rifugi sicuri, ove possibile. Al Nord, gli ebrei che si nascondevano, per lo più muniti di documenti falsi, passava24

no da una casa all’altra, da una pensione ad un appartamento abbandonato, cercando di evitare i luoghi dove potevano essere riconosciuti. A Roma, invece, si viveva in un clima di provvisorietà che facilitava le imprudenze, in attesa degli Alleati che il 4 giugno sarebbero infine realmente arrivati a liberare la città, troppo tardi per tanti, ebrei e partigiani soprattutto ma anche cittadini qualunque. La Casa, nel cuore del quartiere ebraico, viveva di questo clima, di questa attesa. La leggenda ancora viva nella memoria collettiva ci narra di porticine misteriose che consentivano la fuga sul retro e di quel fantasma di donna velata che si intravedeva quando calava la sera dalle finestre del cortile e che salvava gli abitanti dalla deportazione. Eppure, nonostante queste vie di salvezza, molti furono arrestati il 16 ottobre, altri, ben quattordici, successivamente, nella Casa stessa o per strada, a pochi metri di distanza. Quando vi erano ritornati, se mai se ne erano andati? E dove avevano trovato rifugio quelli che erano riusciti ad allontanarsi dal quartiere? Sono fili esili, percorsi che la grande storia ha poco battuto, sia pure in un evento tanto grande e tanto studiato. Per saperlo, possiamo ricorrere alla memoria e interrogare i testimoni rimasti, che allora erano giovanissimi, oppure in mancanza di essi i loro figli, sperando che i racconti che hanno ascoltato siano accurati e che li ricordino senza troppe confusioni o orpelli. Ancora, possiamo trovare delle risposte nelle pieghe degli atti dei processi del dopoguerra contro spie e collaborazionisti. Le testimonianze sugli arresti, infatti, sono spesso dettagliate e ci dicono sempre se essi avvennero ad opera dei fascisti oppure dei tedeschi e se anche le donne e i bambini furono portati via. Esse riferiscono di frequente anche dove avvenne l’arresto, in quale strada, in quale casa, a quale ora del giorno o della sera i fascisti arriva25

rono a portar via le loro vittime, consentendoci di ricostruire per sommi capi una mappa degli arresti. La prima cosa che salta agli occhi, ripercorrendo le storie degli abitanti della Casa che furono arrestati e deportati, è che la stragrande maggioranza di quelli che vi furono presi il 16 ottobre erano donne, vecchi e bambini. E che successivamente, in particolare nei mesi che vanno dal febbraio all’aprile del 1944, dopo che fu nominato questore di Roma Pietro Caruso e gli arresti di ebrei da parte dei fascisti si moltiplicarono, ad essere arrestati furono soprattutto gli uomini, presi nella Casa stessa o poco distante, nelle vie e nelle case intorno o in via Arenula. In quei mesi tra il febbraio e la Liberazione ben sei degli abitanti della Casa finirono massacrati il 24 marzo alle Fosse Ardeatine, dopo un periodo di detenzione a via Tasso o a Regina Coeli. Gli altri otto arrestati furono spediti a Fossoli e poi ad Auschwitz. Di là solo uno degli abitanti della Casa, Vito Vivanti, fece ritorno.

3.

Il 16 ottobre nella Casa

Dalla via del Portico di Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all’angolo della via Sant’Ambrogio col Portico. Com’è vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti coi calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni (Debenedetti 2001, pp. 27-28).

Ma vediamo che cosa è successo nella Casa all’alba di quel 16 ottobre, entriamo nel portone e risaliamo le scale proprio come devono aver fatto i nazisti di Dannecker, cominciando dal pianterreno, da quelle porte che si aprono sul cortile. Ce lo immaginiamo, il vasto cortile con le sue colonne di marmo, pieno di nazisti armati, che iniziano a bussare impazienti alle porte, usando il calcio del fucile quando non c’è risposta. Qui, alla seconda porta sulla sinistra, aveva il suo deposito di stoffe Settimio Calò, venditore ambulante, un uomo così gentile che lo avevano soprannominato, con il gusto degli ebrei di “piazza” per i soprannomi, il “cavaliere”. Non abitava là, ma proprio di fronte, al numero 49 di via del Portico d’Ottavia, anche se aveva il suo domicilio ufficiale al numero 27

14, la porta successiva al 13, nello stesso edificio. Come tanti altri uomini quella mattina era andato a mettersi in coda all’Isola Tiberina per fare rifornimento di sigarette. Al ritorno non ha trovato più sua moglie, Clelia Frascati, e i suoi dieci figli, dai ventidue anni ai sei mesi, oltre ad un nipotino dodicenne che si era fermato a dormire da loro. Tutti deportati, tutti morti all’arrivo ad Auschwitz. Ora sulla sua casa del numero 49 è stata apposta una lapide che lo ricorda. Entrando sulla destra, c’era la casa della portiera, la signora Rosa. Con il marito Umberto, Rosa era scappata da Roma subito dopo l’episodio dell’oro, rifugiandosi a Fossa, presso L’Aquila. Invece il nuovo portiere, Camillo, non era ebreo. Probabilmente non era ancora lì il 16 ottobre, era passato troppo poco tempo perché Rosa fosse già sostituita. Ma sappiamo che lui e sua moglie Ada erano delle brave persone, pronte ad aiutare gli abitanti ebrei della Casa. Sappiamo che molti sono stati i portieri che quel giorno e anche successivamente hanno avvisato gli inquilini ebrei di scappare e li hanno aiutati a nascondersi. Molti altri, invece, già usati dal regime negli anni precedenti come informatori, hanno collaborato con i tedeschi, hanno rifiutato di dare rifugio ai fuggiaschi, hanno minacciato di denunciare chi si era nascosto nelle case dei non ebrei. Abbiamo un fiume di testimonianze sia in un senso che nell’altro. Più avanti, la porta dopo la casa della portiera, nell’appartamento sulla destra prima del porticato abitava la vedova di Mosè Sonnino, Sara Moscati. Sara, con tutta la famiglia Sonnino, si era nascosta a Capranica già prima del 16 ottobre. Ma proprio in quei giorni sua figlia Costanza, che era al nono mese di gravidanza, era tornata a Roma per partorire, lasciando a Capranica con il resto della famiglia il marito Vittorio Moscati e il figlioletto Giovanni di due anni. Non era tornata nella casa dove abitava con i suoceri, in via dei Genovesi 25, ma in quella 28

della madre al Portico d’Ottavia, dove aveva vissuto da ragazza e dove le tenne compagnia la sorella Speranza, con i suoi due figli, Giuditta di quattordici anni e Leone di dodici. Speranza, sposata con Pacifico Sciunnach, non abitava lì ma in via di Santa Maria del Pianto 10, però quella notte si era fermata a Portico d’Ottavia con la sorella. All’alba del 16 ottobre furono prese tutte e due con i due bambini e all’arrivo ad Auschwitz tutti furono inviati subito alle camere a gas. È una storia molto simile a quella di Marcella Perugia, una giovane di ventitré anni, sposata con Cesare Di Veroli, arrestata il 16 ottobre a via di Santa Maria del Pianto e deportata insieme alla sorella Clelia e i due bambini Pacifico di sei anni e Giuditta di sette. Anche loro si erano rifugiati fuori Roma, a Velletri, e anche Marcella era tornata a Roma per partorire con l’aiuto della sorella. Marcella Perugia avrebbe dato alla luce un bambino al Collegio Militare, prima di essere deportata. Il bambino è rimasto senza nome. È sopravvissuta invece una figlia di Marcella, di nome Rebecca, che all’epoca aveva due anni e che non era tornata a Roma con la madre, ma era rimasta a Velletri. Di fianco all’abitazione di Sara Moscati, sotto il porticato, abitava la famiglia Terracina. Era una famiglia numerosa, che viveva tutta in una stanza, composta dal padre Giacomo, dalla moglie Elisabetta Fornari e da ben otto figli: Letizia, Raffaele, Angelo, Enrica e Rosa che erano gemelle, Flora, Alberto e la più piccola Celeste. La madre morì nel 1928 e Alberto e Celeste, rispettivamente di sette e quattro anni, furono mandati all’Orfanotrofio Israelitico. Nel 1943, Flora era sposata con Angelo Moresco e abitava in via del Conservatorio, mentre già prima del 16 ottobre Giacomo si era rifugiato a Norcia con i figli più piccoli. Prima dei Terracina, in quell’appartamento che guardava verso l’interno aveva abitato la famiglia di Donato Di Veroli, 29

con la moglie Letizia Di Tivoli e gli otto figli (Rosa, Mosè, David, Leone, Giuditta, Celeste, Fiorina e Giacomo), poi trasferitasi a vicolo Costaguti 22. Donato con le figlie Celeste e Giuditta e il padre ottantenne Mosè furono presi il 16 ottobre a vicolo Costaguti e furono uccisi già all’arrivo ad Auschwitz. David fu arrestato dai fascisti il 13 dicembre del 1943, mentre era in treno per Firenze e deportato. Anche suo fratello Leone fu deportato. Furono ambedue tra quelli che fecero ritorno. David Di Veroli era un bambino quando, nel loro appartamento al pianterreno in via del Portico d’Ottavia 13, si sentì un rumore spaventoso e una colonna che si trovava all’interno, una colonna antica uguale a quella che ancora si trova nel cortile, sprofondò nel sottosuolo senza essere mai più ritrovata. Era finita nel Tevere, si diceva, alludendo alla rete di cunicoli che passavano sotto la Casa e di cui molti sbucavano nel fiume. Restò nella Casa la leggenda di quella colonna misteriosamente scomparsa. Sempre al pianterreno, subito a sinistra del cancello, abitava Angelo Di Segni, sfasciacarrozze, figlio di Giovanni Di Segni ed Emma Sabatello che abitavano al numero 9. Angelo si era trasferito là al momento di sposarsi, come aveva fatto anche suo fratello Rubino, che abitava al piano superiore. Era nato nel 1906 e viveva con la moglie Ines Pavoncello e le due figlie Emma e Rina. Sua moglie, che lavorava con lui, si era molto spaventata quando i nazisti avevano fatto la richiesta dell’oro e aveva convinto il marito ad andarsene e a nascondersi fuori Roma. Angelo aveva chiuso il suo magazzino a via dei Cerchi, aveva chiesto a degli amici cattolici di Trastevere di vendere le macchine che erano nel magazzino e di affidarne il ricavato a sua madre Emma, e aveva affittato una casa a Fossa, in Abruzzo, dove si erano subito trasferiti. Lì si erano già nascosti la portiera e suo marito e sempre a Fossa Angelo fu raggiunto, ma solo per 30

pochi giorni, da suo fratello Rubino e sua cognata Cesira con i bambini. Il 16 ottobre i Di Segni non erano quindi a Roma e per molti giorni non seppero nulla di quello che era successo, nemmeno che la madre di Angelo e quasi tutti i suoi parenti erano stati presi nella razzia. Fu il marito della portiera, Umberto, che era sceso per poche ore a Roma, a portare la notizia. A Fossa si sapeva che erano ebrei, anche se loro non l’avevano detto e fingevano di essere semplicemente degli sfollati, in fuga da Roma dopo il bombardamento di San Lorenzo. Quando però i tedeschi decisero di porre un loro Comando a Fossa, furono convinti dagli altri abitanti ad allontanarsi e raggiunsero a piedi Casentino, un paesino sperduto a venti chilometri di distanza e a seicento metri d’altezza. Qui restarono fino alla fine della guerra, vivendo in casa di una famiglia che li aiutò in tutti i modi: la madre, Felicetta, era una vedova bianca, aveva cioè il marito in America, che poi raggiunse con il resto della famiglia nel dopoguerra. Felicetta aveva due figli e la più piccola, Anita, divenne amica intima di Emma, la più grande delle due bambine Di Segni, tanto che sono ancora oggi in contatto. I ricordi che Emma ha di questi mesi sono bellissimi. Felicetta era rispettosa delle abitudini alimentari della famiglia Di Segni, anche se essi non dissero mai di essere ebrei, e quando comprese che non mangiavano la carne di maiale cominciò a cucinare senza mettercela in modo che potessero mangiare anche loro. Nella deviazione che si apre al pianterreno, sulla sinistra, in cima ad una scaletta di pietra ad angolo, abitava una famiglia che fu completamente distrutta nella razzia del 16 ottobre, quella di Marco Di Veroli: una famiglia numerosa con ben nove bambini fra i due e i diciassette anni. Tutti furono arrestati la mattina di quel giorno, tutti perirono ad Auschwitz. Il padre aveva quarant’anni e faceva il facchino, la madre, Fortunata 31

Di Porto, ne aveva quarantatré e faceva la cucitrice. Insieme a loro, stando al censimento del 1938, abitavano anche un fratello di Marco, Leonardo, che faceva il commerciante, con sua moglie Ester Calò: in tutto, erano tredici persone. Leonardo ed Ester non avevano figli, e nessuno dei due fu arrestato. Forse fra il 1938 e il 1943 avevano cambiato casa o forse si erano già nascosti. Della famiglia di Marco, invece, Fortunata fu uccisa insieme a sette dei suoi figli, fra i tredici e i due anni, già all’arrivo ad Auschwitz, quindi senza essere immatricolata come quanti erano inviati al lavoro. Marco divenne la matricola numero 158545 e morì in luogo ignoto dopo il 22 gennaio 1945, probabilmente in una delle marce della morte in cui i prigionieri venivano condotti da un campo all’altro. Anche delle due figlie più grandi, Enrica e Rina, di diciassette e quindici anni circa, non sappiamo nulla, né se sono state immatricolate né il luogo e la data della morte. Anche della loro vita nella Casa non sappiamo nulla, se non il nome e in quale appartamento abitavano. Al pianterreno, oltre al magazzino di Settimio Calò, avevano il magazzino anche Rubino Di Segni, che abitava al secondo piano, e Giovanni Sabatello. Questi era un uomo di cinquantacinque anni, non sposato, censito come “industriale”, che abitava tra il primo e il secondo piano, dove una scaletta conduce ad una porta isolata sulla sinistra. Ammalatosi gravemente, ridotto all’invalidità, si era trasferito al numero 9, da suo fratello Abramo, di quattro anni più giovane, proprietario insieme con Giacomo Limentani dell’edificio del numero 13. Da lì fu deportato quella mattina del 16 ottobre. Abramo fu preso con tutta la sua famiglia, la moglie Celeste Tagliacozzo e i sei figli: Graziella di 27 anni, Emma di 26, Italia di 25, Enrica di 23, Letizia di 20, Leone di 16. Le donne furono uccise tutte all’arrivo. Quanto ai due fratelli 32

Sabatello l’immatricolazione è dubbia. L’ultimo dei figli di Abramo, Leone, sopravvisse alla detenzione ad Auschwitz e poi a Buchenwald ed è morto nel 2012. I due Sabatello avevano un altro fratello, Rubino, venditore di metalli e stracci, che abitava con la famiglia al numero 9 e che si era nascosto a Ciampino nell’illusione che solo gli uomini fossero a rischio di essere arrestati. Sua moglie Enrica Tagliacozzo, sorella della moglie di Abramo, Celeste, fu anche lei deportata con i figli Celeste di tre anni e Liana di pochi mesi. Nella casa del numero 9, all’ultimo piano, abitava anche una sorella di poco più anziana dei tre Sabatello, Emma, sposata con Giovanni Di Segni, di professione carrettiere. Emma era una donna robusta, tanto che veniva chiamata “la carabiniera”. Con tutti i suoi si era rifugiata a Monteverde, ma era tornata a casa il 15 ottobre per “mettere a posto” e all’alba del 16 ottobre stava stendendo i panni in terrazza. Fu anche lei arrestata con tutta la famiglia, il figlio Lello di 31 anni, celibe, e le figlie Graziella di 28 anni e Italia di 21. Con loro fu preso anche il marito di Graziella, Pacifico Mieli, commerciante. Giovanni Di Segni non era in casa, ma in fila per le sigarette e si salvò. Quando tornò, trovò i suoi già sui camion. Possediamo una testimonianza sul loro arresto, resa da una vicina, Gabriella Ajò. I nazisti non avevano, pare, nell’elenco il nome di Giovanni Di Segni, ma quello di un Cesare Di Segni, che abitava al secondo piano, e che fu preso anche lui: “Ho visto una persona anziana, Emma, che cercava di spiegare ad un tedesco, al quale si era abbracciata, supplicandolo: ‘Guarda che ti sbagli, questo è Giovanni, e tu invece hai Cesare nella lista’, ma quello non volle sentire o capire. Allora chiamò il genero che stava nascosto dietro a un armadio: ‘Pacifico vieni, vieni Pacifico, fagli vedere che hanno sbagliato, che non è lo stesso nome’. Pacifico uscì dal nascondiglio e fu arrestato 33

con gli altri. Ma mentre i nazisti portavano Pacifico, la moglie Graziella e il figlio verso l’attuale piazza 16 ottobre, la madre riuscì a dare il bambino a una signora, cattolica, e così lui si è salvato, ed è stato in seguito cresciuto da una zia” (Roma, 16 ottobre 1943, p. 98). Le tre donne, Emma, Graziella e Italia, furono uccise all’arrivo. Il bambino salvatosi così miracolosamente, invece, è vivo, è stato tirato su da sua zia Enrica Di Segni, si chiama Mario Mieli. Il suo soprannome è Mario Papà. Si è sposato quando non aveva ancora diciotto anni con Italia Sonnino, la figlia di Grazia Funaro che abitava anche lei nella Casa. Come abbiamo visto, altri due figli di Emma, già sposati e trasferitisi ad abitare al numero 13, Angelo e Rubino, si salvarono. I membri della famiglia Sabatello che furono deportati il 16 ottobre dal numero 9 di via del Portico d’Ottavia, comprendendo anche generi e nuore, furono in tutto sedici. Gli ebrei deportati quello stesso giorno dal numero 9, la seconda delle due case dei Fabii, furono trentasei. Ma torniamo alla Casa. Salendo le scale che portano al secondo piano, nell’appartamento che si apre nello stretto corridoio che conduce ad una deviazione, abitava la famiglia Funaro. Era composta dal marito Giacomo, commerciante, da sua moglie Eugenia Soliani e dai tre figli, Grazia, Ida e Lamberto Abramo. Grazia, diciannovenne, era dal luglio di quell’anno sposata con Samuele Sonnino, detto Lello, anche lui commerciante. È probabile che la giovane coppia vivesse con i genitori di lei. Nessuno della famiglia Funaro fu arrestato il 16 ottobre, tranne un fratello di Giacomo, Cesare, preso in piazza Costaguti 29. Si erano allontanati da casa in precedenza? O invece erano riusciti a nascondersi o a scappare durante la razzia, favoriti dal fatto che i nazisti erano occupati a bussare alle porte sul cortile e non avevano forse visto su34

bito il corridoio che portava alla deviazione, da cui era facile scendere verso via di Sant’Angelo in Pescheria? Proseguendo nel piccolo corridoio la Casa si apre improvvisamente in una specie di ampia terrazza che dà su via di Sant’Angelo in Pescheria, da dove una ripida scala all’aperto porta ad un altro appartamento. Qui abitava Alberto Di Veroli, detto Bove, un uomo di quarantasei anni, con sua moglie Emma Sed e il figlio Angelo di otto anni. Avranno altri due figli nel dopoguerra ed emigreranno tutti negli anni Sessanta, prima in Canada e poi a Miami. Probabile che non fossero in casa, che avessero già trovato rifugio altrove. All’interno 6, al secondo piano, nell’appartamento che si apre in fondo al ballatoio e che si affaccia su via del Portico d’Ottavia, viveva una delle famiglie che hanno pagato il maggior tributo di sangue, quella di Angelo Vivanti, detto Tafano, un uomo di circa sessant’anni, di mestiere facchino, sposato dal 1904 con Fortunata Spizzichino: otto vittime, tutte donne e bambini, solo il 16 ottobre. Dei loro cinque figli, alla fine della guerra solo Sara sarà scampata all’arresto e solo Vito riuscirà a tornare dalla deportazione. Come in tanti altri casi, il 16 ottobre gli uomini fuggirono attraverso i tetti, mentre tutte le donne della famiglia, tranne Sara e sua figlia Lisa, furono prese insieme ai bambini: Fortunata, che all’epoca aveva sessantuno anni, fu arrestata nell’appartamento insieme alla figlia Rachele di quarantatré anni, alla moglie del figlio Vito, Emma Zarfati, casalinga, e alla sua bambina Fortunata, detta Ada, che non aveva ancora tre anni. Emma e Vito si erano sposati nel novembre del 1940, solo due mesi prima della nascita di Fortunata, e all’epoca dell’arresto Emma era di nuovo incinta. Scendendo le scale per fuggire, Costanza Funaro, la moglie di Attilio Di Veroli, si offrì di pren35

dere la bambina: “Dammela, le disse, tu sei incinta e non ce la farai mai”. Ma Emma aveva scosso la testa incredula. Un’altra figlia, Celeste Vivanti, che viveva però in via Amerigo Vespucci a Testaccio con il marito Cesare Di Consiglio, fu anch’essa arrestata nella Casa il 16 ottobre con i tre bambini, Ada di 5 anni, Marco di 4 e Mirella di 11 mesi. Si erano tutti fermati a dormire lì dai nonni dopo la cena di Sukkot, impossibile tornare a casa durante il coprifuoco. Scamparono soltanto Sara con sua figlia di dodici anni, Lisa, che furono aiutate a fuggire dal retro da Cesira Limentani, che abitava sullo stesso piano. Esse si nascosero in una macchina dove dormirono la prima notte, poi nel magazzino di una zia a via di Monserrato. Cesira era la moglie di un figlio di Giovanni Di Segni ed Emma Sabatello, Rubino. Chiamato Ruenne, e anche Ruzzunito perché aveva fatto la campagna d’Africa ed era di carnagione scura, Rubino aveva trentaquattro anni e di professione era autista. Nel censimento del 1938 risultava già abitare là con la moglie, che allora aveva ventiquattro anni. Aveva lasciato l’appartamento dei suoi al numero 9 quando si era sposato, nel 1938, trasferendosi lì accanto, al numero 13. Cesira e Rubino avevano nel 1943 due figli, Emma, nata nel 1938, e Gianni, di pochi mesi (più tardi avranno un’altra figlia, Silvana). Ruenne e Cesira avevano seguito i cognati Angelo e Ines a Fossa con i bambini, ma presto ne avevano avuto abbastanza di stare in campagna con il resto della famiglia ed erano tornati a Roma prima del 16 ottobre. Appena sentirono arrivare i tedeschi, Rubino scappò subito per i tetti, come tutti gli altri uomini in età da lavoro. Anche Cesira scappò con i bambini dal retro della Casa, su via di Sant’Angelo in Pescheria, insieme ad una sua vicina di cui era molto amica che abitava proprio sopra di lei, Mimma, con il suo bambino Mario. In fretta fecero entrare Sara Vivanti con la piccola Lisa, che chiedevano aiuto, 36

poi le tre donne spostarono una pesante lastra di marmo dalla cucina e bloccarono l’entrata, così d’avere il tempo di scappare dal retro prima che i tedeschi la sfondassero. Di qui, Cesira, Mimma e i bambini, anche grazie all’aiuto di chi dalle finestre le avvertiva dei blocchi dei tedeschi, riuscirono a raggiungere la parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro, dove si ritrovarono con i Di Veroli e i Fatucci. Al secondo piano, in fondo al ballatoio, abitava Samuele Moscato (detto Gasparo Favella) con la sua famiglia, la moglie Letizia Sed e quattro figli fra i quindici e i sette anni: Giuseppe, Ester, Rosa e Angelo. Erano venuti ad abitare là dopo il 1939. Nessuno di loro fu preso il 16 ottobre, probabilmente erano già fuggiti da casa. Al secondo piano, all’interno 8 abitava un’altra famiglia Di Segni, che fu pesantemente colpita dalla razzia. Erano padre e madre sui sessant’anni e cinque figli: il padre si chiamava Umberto, la madre Letizia Di Castro. La mattina del 16 ottobre i tre figli maschi riuscirono a fuggire con gli altri uomini, oppure non erano in casa, come non lo era il padre, forse uscito a comprare le sigarette. La madre fu invece arrestata insieme con la figlia Ester, di ventotto anni, nubile e ancora in famiglia. Con loro fu presa anche la nuora Ester Tagliacozzo, moglie del figlio Giacomo, che abitava con loro, con la figlia Italia Tagliacozzo, di quasi dodici anni, figlia del suo primo marito Giovanni Tagliacozzo, e i due bambini avuti da Giacomo, Umberto di quattro anni e Franco di poco più di un anno. Ester Tagliacozzo era una ragazza bruna dall’ovale perfetto e dai luminosi occhi neri. Nel censimento del 1938 risultava come “studentessa”, ed era vedova del primo marito, il padre di Italia. Quella notte, si era fermata a dormire da loro una pronipotina di Letizia, la nipotina di sua sorella Perla, Emma Terracina di dieci anni. Fu presa anche lei insieme agli altri. In tutto, da quell’appartamen37

to furono deportati tre donne e tre bambini, nessuno dei quali sopravvisse all’arrivo nel campo. Se si salgono fino all’ultimo piano le scale, che adesso sono state rifatte ma che allora dovevano essere terribilmente consunte dal tempo, ci si trova davanti ad una loggia chiusa e ad un ballatoio privo di copertura, esposto alla pioggia e al sole, a differenza di quello sottostante, coperto. D’inverno con la pioggia si forma il muschio sul pavimento e si scivola facilmente. Lì, al fondo del ballatoio, abitavano Amedeo Astrologo con sua moglie Virginia Sonnino, suo fratello David e il figlio di quest’ultimo, Riccardo, che faceva il negoziante e non era sposato. Nell’appartamento abitavano anche, nel 1938, i genitori di Virginia, Samuele Sonnino e Stella Piattelli, che però nel 1943 dovevano essere già morti. Gli uomini non erano in casa, c’era solo Virginia, che fu presa. Era una casalinga di quarantacinque anni, una donna che, dalla foto che abbiamo di lei, dimostrava più della sua età, i capelli neri raccolti stretti che cominciavano ad imbiancarsi alle tempie. Stava bevendo il caffè fuori dalla porta quando i Fatucci, che abitavano alla porta accanto, le dissero di far presto, di vestirsi e di andare con loro. Rispose che non c’era ragione di scappare, che i tedeschi prendevano solo gli uomini. Fu uccisa subito, all’arrivo ad Auschwitz. Sulla destra, vicino alla porta degli Astrologo, si apriva un altro appartamento, quello dove tanti anni dopo avrei abitato io. Vi stava una famiglia che si salvò per intero, quella dei Fatucci. Il padre si chiamava Alberto ed era soprannominato “l’aquilano” perché nato all’Aquila, aveva cinquantasette anni, di professione era ambulante ed era sposato con Rosa Anticoli. Avevano sei figli, Angelo, Giuseppe, Giacomo, Lazzaro, Ernesta e Costanza. Nell’aprile del 1940, solo due mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia, il figlio Lazzaro, detto “cannavota” perché era alto e magro, era stato vittima 38

di un’aggressione squadrista scatenata in Portico d’Ottavia dalla sezione fascista di Campitelli, da cui la zona del ghetto dipendeva. Con lui, erano stati colpiti molti altri ebrei, fra questi uno che allora abitava al numero 9 ma che nel dopoguerra si stabilirà nella Casa, Rubino Sabatello. Un episodio che ci riporta alle violenze diffuse nella zona soprattutto in prossimità della guerra e di cui conosciamo i particolari solo grazie al fatto che dette esito, nel dopoguerra, ad un processo. Alberto Fatucci era molto religioso e quel venerdì sera, come faceva di solito, disse arvit, la preghiera della sera, e fece il qiddush del sabato all’esterno, sulla loggia. Molti degli abitanti del palazzo salirono a partecipare alla preghiera, poi ognuno andò a cena a casa sua. Anche i Fatucci sentirono di notte gli spari. All’alba Rosa vide dalla finestra che si affacciava su Portico d’Ottavia i nazisti che scortavano le prime file di prigionieri, venendo dal vicolo di Sant’Ambrogio. Immediatamente, i quattro ragazzi furono fatti fuggire attraverso un appartamento lì accanto che era vuoto e in rovina. Da lì, passando per i tetti e poi attraverso la bottega del falegname, non ebreo ma pronto ad aiutare i suoi coinquilini, insieme con altri giovani della Casa, poterono raggiungere l’attiguo convento di Sant’Ambrogio dove trovarono temporaneamente rifugio. Quanto al resto della famiglia, si vestirono e decisero di tentare la fuga facendo finta di niente, camminando tranquillamente in mezzo ai nazisti come se fossero dei passanti qualunque, senza valige né fagotti, portandosi dietro solo le carte annonarie. Costanza, la più piccola, che allora aveva dodici anni, ricorda ancora le sue amiche che venivano raggruppate in fila dai nazisti. Avrebbe voluto voltarsi a guardarle, ma il padre le ripeteva di non voltarsi, come nella storia biblica della moglie di Lot. I quattro si diressero verso Ponte Garibaldi, 39

pensando di rifugiarsi dai nonni che abitavano a piazza di San Cosimato, in Trastevere. Ma a Ponte Garibaldi incontrarono altri ebrei in fuga che dissero loro che i nazisti stavano rastrellando gli ebrei anche a Trastevere. Salirono allora sulla circolare rossa, e girarono a lungo la città, dopo avere invano tentato di rifugiarsi in casa di conoscenti non ebrei. Alla fine della mattinata, non sapendo cos’altro fare, tornarono verso casa, ma quando furono nelle vicinanze incontrarono un loro vicino, Attilio Di Veroli, e lo seguirono a piedi fino alla parrocchia di San Benedetto al Gazometro, dove furono tutti accolti e dove poi li raggiunsero anche gli altri figli. Sotto la loggia si aprivano due porte: la prima apparteneva all’appartamento disabitato da cui fuggirono i ragazzi Fatucci, nella seconda viveva Beniamino Di Capua con sua moglie Emma Terracina, detta Mimma, e il figlioletto Mario di due anni. Beniamino fuggì con gli altri uomini per i tetti, mentre Mimma e il bambino fuggirono con Cesira Limentani e i suoi bambini, che abitavano subito sotto di loro, e con loro si salvarono. Anche Attilio Di Veroli abitava all’ultimo piano, la sua porta si apriva in fondo ad un lungo corridoio sulla destra, che ora è chiuso da una porta. La sua era una famiglia numerosa, con la moglie Costanza Funaro, che aveva sposato nel 1933, e cinque figli, quattro femmine (Silvia, Rosina, Ida e Debora detta Piccola) e un maschio, Michele. Attilio era il minore di quattro fratelli, di famiglia povera ma dotati di uno spiccato senso dell’iniziativa imprenditoriale. Commerciavano in tutta Europa vendendo di tutto, in particolare cartoline e ricordi. Enrico e Umberto furono i più fortunati: Enrico mise su un negozio in via in Publicolis, Umberto un negozio di abiti da lavoro in via del Portico d’Ottavia. Era conosciuto da tutti come “Mossiù Macaroni” e molte delle donne della Ca40

sa cucivano per lui. Attilio, che aveva perduto un occhio da piccolo, non aveva partecipato alla prima guerra mondiale, come invece avevano fatto i suoi fratelli, ed era rimasto in modeste condizioni economiche. Faceva il venditore ambulante, aveva un carretto che teneva per lo più in via Arenula, dove vendeva pettini di ogni genere. Sua moglie era casalinga ma a volte lo aiutava nel banco e così suo figlio Michele, studente. Dell’intera famiglia Di Veroli ha narrato la storia Alexander Stille in un libro dedicato alla vita di cinque famiglie ebraiche italiane sotto il fascismo; in particolare, della vita della famiglia di Attilio Di Veroli durante l’occupazione è conservata una testimonianza molto ricca, resa nel 1998 da Rosina Di Veroli, la sua seconda figlia, l’unica intervista rilasciata alla Shoah Foundation da qualcuno che ha abitato nella Casa e ha vissuto lì in quei tragici giorni. Quella di Attilio Di Veroli era una famiglia molto legata alle tradizioni religiose: lui andava tutte le mattine al tempio spagnolo e sua moglie ogni venerdì sera al tempio grande. Celebravano intensamente le feste e in particolare lo shabbat. Non sembra che si occupassero di politica, a differenza del fratello Enrico, antifascista, e di Michele, figlio di Enrico, decorato come il cugino Giacomo con la medaglia di bronzo al valor militare per la sua partecipazione alla Resistenza. In famiglia, racconta Rosina, le leggi discriminatorie del 1938 erano vissute con rassegnazione. Ma il ritiro delle licenze agli ambulanti aveva creato molto disagio: perduto il lavoro Attilio girava per le case e le chiese a riparare e vendere oggetti, Silvia lavorava a casa e cuciva le mutande lunghe per i soldati, mentre Rosina, commessa nei magazzini Coen al Tritone, da dove era stata licenziata nel 1938 perché ebrea, lavorò poi in un banco di merceria a piazza dell’Unità, in Prati, e ancora dopo nel negozio di un cugino, Renato Di Veroli. Subito dopo l’8 settembre, Umberto, il più ricco dei fratel41

li Di Veroli e anche quello che era riuscito ad avere maggiori informazioni su quello che succedeva in Europa ascoltando di nascosto Radio Londra, si nascose a Ciampino con la moglie presso degli amici cattolici. Aveva fornito di soldi in abbondanza i suoi undici figli perché si trovassero un rifugio sicuro e tutti si salvarono tranne una, Ester, di trent’anni, arrestata il 16 ottobre con due bambini piccoli, Giuditta di sei anni e Cesare di dieci mesi, e il marito Enrico Pavoncello al numero 9 di via del Portico d’Ottavia, dove abitava. Il fratello Giacomo con i suoi si era già rifugiato a Trastevere presso la sorella della moglie, che aveva sposato un cattolico. Anche a casa del maggiore dei fratelli, Enrico, che abitava in via di Santa Maria del Pianto, si era parlato di nascondersi. Il figlio Michele faceva continue pressioni perché i genitori si rifugiassero in Svizzera, ma la madre si era opposta. “Come facciamo, aveva detto, e poi abbiamo qui i nostri morti”. E così, la mattina del 16 ottobre erano tutti in casa. Una bambina che abitava al piano di sopra e che era uscita per fare la fila per le sigarette li avvisò all’alba dell’arrivo dei tedeschi, e tutta la famiglia riuscì a mettersi in salvo, trovando un rifugio provvisorio nel negozio che avevano a via in Publicolis. Appena poté, Enrico avvisò per telefono la figlia maggiore, Silvia, che abitava con il marito Romolo Calò e i tre bambini in via del Tempio 4, ma nessuno rispose. Erano già stati arrestati tutti. Quanto ad Attilio, racconta Rosina, in casa si era pensato di scappare “ma non c’erano i soldi per farlo”. E così, anche Attilio e i suoi erano rimasti ad abitare là, in mezzo al ghetto. “Noi c’eravamo illusi fino al 16 ottobre”, racconta ancora Rosina. La mattina di quel sabato, tutta la famiglia era a casa. La madre, che era sempre in preda all’ansia e si affacciava continuamente alla finestra della sua stanza che guardava su via del Portico d’Ottavia, vide i camion tedeschi e la fila dei 42

primi deportati. Contemporaneamente, una donna un po’ strana che gridava sempre e veniva chiamata “Elena la cornacchia” cominciò a gridare: “Scappate iudii che ci prendono i tedeschi”. I Di Veroli, vestitisi alla meglio, riuscirono a fuggire dal retro della Casa, passando da una finestra bassa al pianterreno che si affacciava su via di Sant’Angelo in Pescheria. A piedi, evitando i blocchi, anche con l’aiuto della gente intorno, arrivarono anche loro ore dopo, intorno alle 11.30 del mattino, nella parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro e bussarono alla porta. Rosina ricorda la risposta del parroco, don Giovanni Gregorini, quando li vide: “Entra Attilio, ché abbiamo avuto adesso l’ordine di farvi entrare”. Ci sono due storie che non sono riuscita a ricostruire, di cui non so nulla tranne i nomi dei deportati e il fatto che risultano con sicurezza nella documentazione come abitanti della Casa al 16 ottobre 1943. La mancanza di qualsiasi memoria di loro da parte di chi ha abitato quotidianamente nella Casa ci può far credere che, pur mantenendo il loro domicilio là, in realtà avessero cambiato abitazione già da molto prima di quella data. D’altronde, si trattava di tre persone all’epoca considerate “anziane”, non sposate, senza bambini, e possiamo anche pensare che facessero vita ritirata e che per questo nessuno li ricordi. La prima di loro era Margherita Del Monte, figlia di Graziano e di Sara Spizzichino, di 54 anni, nubile. Non sembra verosimile che vivesse davvero da sola, forse aveva subaffittato una parte della casa. Sappiamo che aveva un fratello e una sorella, Amedeo e Anna, più vecchi di lei. Amedeo fu arrestato anch’egli il 16 ottobre, insieme alla moglie Elvira Piazza: abitavano in via Amerigo Vespucci ma precedentemente avevano abitato al numero 13 di via del Portico d’Ottavia. Anche la sorella Anna fu arrestata nella razzia. Era sposata con Giacomo Piperno, anche lui arrestato e deportato, e abi43

tavano in piazza Ippolito Nievo 5. Tre fratelli di mezza età prelevati da case diverse, ritrovatisi nelle stanze del Collegio Militare e poi, forse, nel vagone per Auschwitz. Nessuno di loro è nemmeno arrivato ad essere immatricolato. Gli altri sono due fratelli sui cinquant’anni, Fulvio e Lina Misano. Lui era impiegato, lei casalinga. Anche di loro so solo che, secondo i dati della Comunità, il 16 ottobre furono ambedue catturati nella Casa e deportati con gli altri. Anche loro furono assassinati subito dopo essere arrivati ad Auschwitz. Quando la razzia fu compiuta, la Casa rimase vuota e silenziosa. Alcuni erano riusciti a scappare, altri si erano già nascosti altrove prima di quel giorno, altri furono presi e portati al Collegio Militare. Erano in tutto diciotto nuclei famigliari, per un totale di un centinaio circa di persone. Ne furono arrestate trentaquattro comprendendo quelle che non vi abitavano ma che vi si erano fermate a dormire la sera prima, come Celeste Vivanti e i suoi, come Emma Terracina, o come Costanza e Speranza Sonnino. Due uomini, uno dei quali anziano, tredici donne di cui due incinte e ben diciannove bambini scesero le scale e uscirono su via del Portico d’Ottavia per essere caricati sui camion. Altri trentasei scesero dal numero 9, la casa attigua. Probabilmente la Casa rimase vuota già molto presto nella mattina. “Tutto tace, lugubramente”, scrive Francesco Odoardi, testimone con suo fratello della razzia nel ghetto. “Le case sono mute, chiuse, buie: tutte. Siamo soli. I nostri passi risuonano troppo in quella tristezza, ci turbano” (in Morpurgo 1946, p. 108). Quanto durò quel silenzio, quel vuoto? Per quanto tempo le case del ghetto, e con esse la Casa, restarono prive dei loro abitanti? Quanto tempo passò prima che i sopravvissuti non si decidessero a tornare nelle pareti domestiche, a trovarvi rifugio? Quanti, dopo essere fuggiti fuori Roma, non 44

tornarono invece già dopo poche settimane nelle loro case convinti che il pericolo fosse passato o per lo meno fosse molto diminuito? “Avevo dei parenti rifugiati fuori Roma”, dice ad esempio Giuditta Di Veroli, arrestata il 24 dicembre, deportata e ritornata da Auschwitz, “e scrissi loro di tornare quando sembrò che i rastrellamenti fossero cessati”. E quanti degli abitanti della Casa vi fecero ritorno perché privi di altri rifugi o anche soltanto perché convinti di potersi salvare più facilmente in un ambiente noto e famigliare?

4.

Nella Casa vuota

Ho saputo da persone presenti al fatto che fu Roselli insieme ad altri a prendere mio marito con altre due persone. Essi furono portati a Piazza Farnese e quindi a Regina Coeli. Nel camion in cui furono caricati c’era anche Celeste Di Porto. Mi rivolsi a lei per avere notizie e mi disse che mio marito non era stato fucilato ed ella lo aveva anche fornito di coperte e forchette. Invece seppi poi che fu subito fucilato alle Fosse Ardeatine (Testimonianza di Eugenia Di Veroli, ARS, CAS, f. 97.2, p. 109).

Come è noto, non ci sono più stati a Roma rastrellamenti di ebrei come quello del 16 ottobre. Il numero di arresti successivi è limitato: tre nel mese di ottobre, una trentina al mese tra novembre e gennaio. Ma dopo la carta di Verona, che equiparava gli ebrei a nemici, e dopo la disposizione del ministro dell’Interno di Salò Guido Buffarini Guidi del 30 novembre, che stabiliva la cattura e l’internamento di tutti gli ebrei presenti in Italia, bambini compresi, stranieri o “italiani” che fossero, inizia in tutta l’Italia occupata la caccia all’ebreo, portata avanti soprattutto dai fascisti di Salò, dal momento che i nazisti, impegnati sul fronte militare contro gli angloamericani, non avevano forze sufficienti per organizzare efficacemente l’arresto degli ebrei. La stessa razzia del 16 ottobre era stata attuata con forze insufficienti, dopo 47

che Kesselring, impegnato al fronte, aveva rifiutato di stornare truppe dai combattimenti per destinarle alle operazioni antiebraiche e dopo che lo stesso Kappler l’aveva rinviata di qualche giorno per potersi impegnare nel disarmo e nella deportazione dei carabinieri, avvenuta il 7 ottobre. Alla fine di gennaio 1944, Pietro Caruso assumeva a Roma le funzioni di questore e dava inizio con i suoi poliziotti a quella durissima caccia agli ebrei presenti in città che contrassegnerà i mesi successivi. Fu questa sua attività antiebraica, oltre al ruolo da lui svolto nella selezione e consegna degli ostaggi per le Fosse Ardeatine, che lo porterà ad essere condannato a morte e fucilato dopo la Liberazione. Tra le misure volte a controllare la popolazione, i partigiani e gli ebrei c’era la proibizione del cambiamento di domicilio e l’obbligo per i portieri di affiggere sul portone l’elenco degli abitanti dello stabile. Contemporaneamente, l’aumento degli sfollati in seguito allo sbarco alleato ad Anzio portava il numero delle persone presenti nella città a circa due milioni. Fra loro, molti erano gli ebrei che tornarono a Roma, in parte costretti dal progressivo spostamento del fronte militare, in parte nella speranza di un’imminente liberazione della città. Per ospitare gli sfollati si requisivano le case vuote, molte delle quali lasciate dagli ebrei in fuga, e tutti i beni degli ebrei erano sottoposti a rigorosi sequestri. In molti casi, negli appartamenti occupati dagli sfollati continuarono ad abitare saltuariamente anche i precedenti inquilini ebrei; e fu così anche nella Casa. In febbraio iniziarono da parte delle bande fasciste i saccheggi, che accompagnarono sistematicamente gli arresti. Febbraio, marzo e aprile furono mesi di intensa persecuzione per gli ebrei romani: 141 ne furono arrestati in febbraio, e ancor più nei mesi successivi. Non ci saranno però più veri e propri rastrellamenti come quello del 16 ottobre, anche 48

perché una parte degli ebrei romani viveva ormai in clandestinità. Qualcosa che assomigliò molto ad un rastrellamento è quello che venne compiuto nella zona del ghetto tra il 23 e il 24 marzo, subito prima delle Fosse Ardeatine. I fascisti furono sguinzagliati nel quartiere, con le loro spie, e arrestarono molti ebrei, per strada o anche nelle loro case. Questi furono portati a Regina Coeli da dove la mattina del 24 marzo partirono direttamente i camion per le Ardeatine. Di solito gli ebrei della zona del ghetto venivano condotti alla caserma della Pai (la Polizia dell’Africa Italiana, una delle polizie del fascismo repubblicano a Roma), in piazza Farnese, e di là a via Tasso o a Regina Coeli, da dove partivano i convogli per Fossoli, tappa verso Auschwitz. Abbiamo detto che molti arresti avvennero nelle case degli ebrei, dove erano tornati o da dove in alcuni casi non si erano mai allontanati dopo la retata del 16 ottobre. Le testimonianze sono innumerevoli. A via di Santa Maria del Pianto, ad esempio, Agesilao Di Veroli si nascose con i figli maschi nel febbraio 1944 perché convinto che arrestassero solo gli uomini, mentre la moglie Erina venne catturata. Ma ritornò già la sera stessa a vivere in casa con la figlia di quattro anni, anch’ella scampata perché rifugiatasi nella casa di un vicino. Vi resterà fino alla Liberazione, continuando ad andare al lavoro e lasciando la figlia durante il giorno in custodia alla madre, che abitava al portone di fronte. Quanto alla Casa, solo un arresto venne compiuto al suo interno in questi mesi, quello di quattro uomini della famiglia Vivanti, tutti successivamente assassinati alle Ardeatine; gli altri abitanti arrestati sono stati presi tutti fuori dalla Casa, anche se perlopiù nelle immediate adiacenze, nelle strade del vecchio ghetto o in via Arenula. Avevamo lasciato la Casa vuota dei suoi abitanti dopo il 16 ottobre, ma avevamo anche detto che altre quattordici perso49

ne che vi abitavano sarebbero state arrestate nei nove terribili mesi dell’occupazione, prima della liberazione di Roma il 4 giugno 1944. Vediamo chi erano, riscendendo le scale che avevamo salito con le SS, dall’ultimo piano verso il cortile. E vediamo anche quanti continueranno a vivere là dopo la guerra, quanti andranno ad abitare dove avevano abitato i parenti deportati. Della famiglia di Amedeo Astrologo, commerciante di tessuti che abitava all’ultimo piano, i nazisti il 16 ottobre avevano catturato solo la moglie, Virginia Sonnino, casalinga, mentre Amedeo insieme con suo fratello David, la seconda moglie di questi, Rosa Sciunnach, e il figlio di David, Riccardo, si erano salvati perché non erano in casa. Si rifugiarono successivamente a Castel Madama, dove trasportarono tutte le loro merci per un valore di oltre 400.000 lire. Ma nel marzo 1944 i tedeschi insieme al podestà fascista di Castel Madama, Filippo Moreschini, gliele sequestrarono. Né David né Amedeo furono arrestati, ma dovettero lasciare la casa dove abitavano e rifugiarsi con i loro famigliari in una baracca fuori dal paese. Il 10 aprile Riccardo Astrologo, il figlio di David e della sua prima moglie, Serafina Sonnino, un giovane di ventotto anni, fu arrestato a sua volta mentre era a Roma e rinchiuso a Regina Coeli da dove poi fu inviato a Fossoli. Deportato ad Auschwitz il 26 giugno 1944, vi morì in data incerta. Amedeo Astrologo tornò ad abitare nella Casa nel dopoguerra, o perlomeno risultava ancora come residente là nel 1947 e nel 1948. Non abitava più invece nella Casa suo fratello David, che nel dopoguerra, all’epoca del processo per il furto dei tessuti intentato all’ex podestà Moreschini da parte degli Astrologo, risultava abitare in via di Sant’Angelo in Pescheria. Nell’appartamento in fondo al ballatoio abiterà poi nel dopoguerra Rubino Sabatello, detto zio Rucco, il fratello di Gio50

vanni, Abramo ed Emma Sabatello. Nel 1943 Rubino abitava al numero 9 ed era scampato, perché nascosto a Ciampino, alla razzia del 16 ottobre, nella quale aveva perduto però, oltre alla famiglia d’origine, anche la moglie e i due bambini. Risposatosi con una donna non ebrea, Lola Fulgenzi, avrà altri due figli, Alberto e Lea, e terrà un deposito di stracci al pianterreno. Abbiamo lasciato la famiglia di Attilio Di Veroli in salvo nella parrocchia di San Benedetto dopo essere sfuggita fortunosamente alla razzia. Le donne erano ospitate dalle suore Pie Filippine, che tenevano una scuola, gli uomini nel convento maschile. Nei racconti di Rosina erano luoghi di quiete e di sicurezza: c’erano parecchi ebrei, i rifugiati si davano molto da fare, lei stessa si occupava dei bambini della scuola. La vita era serena, “eravamo trattati veramente bene”, dice. Il parroco, don Giovanni Gregorini, era una personalità eccezionale, dotato di grande umanità. Nel dopoguerra si offrirà di accompagnare Rosina a riconoscere il corpo del padre e del fratello alle Fosse Ardeatine. Le suore cercarono di convincere Rosina ad andare alla messa, perché fosse preparata nel caso i tedeschi avessero invaso l’istituto o forse anche perché speravano in una conversione. Ma durante il rito, ricorda Rosina, lei diceva fra sé lo Shema, e rifiutava recisamente di inchinarsi come invece facevano le ragazze cristiane (Stille, p. 233). Restarono là dei mesi, presto raggiunti da altri famigliari. Rosina non restava però chiusa nel convento, usciva a comprare il pane nel quartiere, usando la sua tessera annonaria che non era falsa ma era così consunta che il nome Di Veroli poteva essere letto come Di Verdi. Ad un certo punto cominciò ad andare fuori a lavorare, per non pesare troppo sulle suore che li avevano accolti gratis. Ma il 3 marzo la Chiesa di San Benedetto fu quasi completamente distrutta in un bombardamento e tutti dovettero lasciare 51

il convento e la sua sicurezza. La famiglia di Attilio, che non aveva soldi, non riuscì a trovare posto in un altro convento, perché richiedevano un compenso che non erano in grado di pagare, e trovò rifugio in una camiceria, ma solo per la notte. Di giorno giravano di qua e di là, cercando di far passare il tempo. Prima del coprifuoco si davano appuntamento al Teatro di Marcello. Il 18 marzo, quindici giorni dopo l’inizio di questo peregrinare, Attilio e Michele furono arrestati proprio là davanti, sul Lungotevere. Alcuni giorni prima dell’arresto, i due avevano incontrato un conoscente, tal Luigi Roselli, che li aveva ammoniti a non girare là intorno, che potevano esserci spie. La spia, in realtà, era proprio lui, e i famigliari ebbero l’immediata convinzione che fosse stato lui a denunciarli. Il giorno dopo l’arresto, il 19 marzo, Rosina e Silvia andarono a via Tasso a chiedere notizie dei loro congiunti ma il soldato di guardia le cacciò via. Seppero infine che i due si trovavano nel terzo braccio di Regina Coeli, quello direttamente sotto la giurisdizione dei tedeschi, dove fra l’altro Attilio trovò suo fratello Enrico. Rosina cercò di andare a visitarli, ma non li trovò più perché nel frattempo erano stati uccisi alle Fosse Ardeatine. Michele, che aveva quattordici anni anche se ne dimostrava di più, è il più giovane dei martiri. Enrico, invece, era stato inviato in deportazione subito prima dell’attentato di via Rasella. Dopo questi arresti, le donne della famiglia trovarono infine rifugio gratuito in un convento a via del Mare, il Monastero delle Oblate di Santa Francesca Romana. Si trovavano bene anche lì, lavoravano per ricambiare l’ospitalità e vivevano separate dalle monache, in un grande stanzone dove stavano le ebree. A Pesah riuscirono addirittura a fare le azzime sul grande terrazzo che sovrastava il convento. Talvolta Rosina tornava brevemente a casa sua, occupata dagli sfollati, giusto il tempo di prendere delle cose che le 52

servivano, lenzuola e altro. “Roma era tristissima – racconta – uomini in giro se ne vedevano pochi, e tutti guardavano di qua e di là impauriti”. Un giorno, Rosina incontrò vicino a piazza Mattei una sua ex compagna di scuola, la spia Celeste Di Porto. Rosina era con sua sorella Silvia, paralizzata dalla paura. Lei invece, che di Celeste era stata amica, le chiese notizie di suo padre e di suo fratello. Usò un tono tranquillo, anche se non era affatto sicura di cosa sarebbe successo. Celeste le rispose che stavano bene, che erano insieme a suo cugino (anche lui, infatti, assassinato alle Ardeatine). Poi, al momento di salutarsi, le consigliò di non farsi vedere da quelle parti per un po’. Rosina si ricorderà di questo avviso, e nel dopoguerra testimonierà a favore di Celeste, che le aveva salvato la vita. Appena dopo la liberazione di Roma, le Di Veroli tornarono a casa, dove trovarono un gran disordine ma non troppi danni. E sarà Rosina, la più coraggiosa e attiva della famiglia, a riconoscere Attilio e Michele alle Fosse Ardeatine, accompagnata da altri parenti e da don Gregorini. Speravano ancora che non fossero tra i morti, anche se avevano presagito da subito il loro destino. “Guarda bene, le aveva raccomandato la madre, che siano proprio loro, che siamo sicuri”. Rosina riprenderà, non appena questi riaprirà il suo negozio, a lavorare da suo cugino Renato Di Veroli, che aveva a sua volta perduto tutta la famiglia e che si era salvato rifugiandosi in un palazzo extraterritoriale del Vaticano a San Calisto sotto il nome finto di Brizzolari. Qualche anno dopo, lo sposerà. Anche i Fatucci, dopo essere sfuggiti alla razzia del 16 ottobre, avevano trovato rifugio nella parrocchia di San Benedetto. Costanza Fatucci, la più piccola, ha dei ricordi bellissimi, della vita nel convento delle suore Pie Filippine. Si davano da fare e aiutavano le suore. Furono poi raggiunte da Cesira Limentani con la figlia Emma, mentre il figlio più piccolo, colpito da una 53

grave infezione alla gamba, era ricoverato al Bambin Gesù. Nel ricordo di Costanza, le suore erano molto riguardose verso di loro e nel preparare la zuppa aggiungevano il lardo solo alla fine, dopo averla distribuita alle ospiti ebree. Suo padre era rifugiato nel vicino convento maschile di San Benedetto, e passava il tempo a discutere di religione con don Gregorini, di cui anche Costanza ha un ricordo straordinario. Il terribile bombardamento del 3 marzo, con la parrocchia completamente distrutta e gli aerei che scendevano in picchiata a mitragliare le persone, fece perdere il loro rifugio anche ai Fatucci. Le donne però trovarono subito un altro riparo nel convento di via del Mare, il Monastero delle Oblate di Santa Francesca Romana dove poi le raggiunsero anche le Di Veroli. Più fortunati di questi, i Fatucci non persero nessuno in quei mesi. Rientrarono subito nella loro casa, che era stata occupata da una famiglia numerosa di sfollati di Acilia che però non aveva fatto danni. Nel censimento del 1948 abitavano ancora tutti nella Casa, tranne uno dei figli, Lazzaro, che si era trasferito dopo essersi sposato. Delle donne della famiglia Vivanti, che abitava all’interno 6, restavano libere Sara e sua figlia Lisa, che erano sfuggite alla cattura il 16 ottobre. Esse saranno presenti senza essere arrestate alla cattura dei famigliari: una prima volta nel febbraio a via del Portico d’Ottavia, una seconda volta in aprile a via degli Specchi, a fianco di piazza Cairoli. Dato il ruolo di protagonista svolto da Sara nei processi del dopoguerra contro quanti avevano denunciato i suoi famigliari, ne seguiremo la storia con attenzione. Nessuno degli uomini della famiglia che si erano inizialmente salvati sfuggirà al destino che li attendeva: saranno a loro volta tutti deportati o assassinati alle Fosse Ardeatine. Il padre di Sara Angelo Vivanti, suo marito Vito Moscati, suo 54

fratello Giacomo Vivanti, e suo cognato Cesare Di Consiglio, che era il marito della sorella Celeste, furono arrestati il 25 febbraio 1944 nella Casa stessa, dove avevano ripreso ad abitare. Sara era presente e con lei la piccola Lisa, che ricorda di essersi nascosta sotto il letto della madre quando erano arrivati i fascisti. Non è noto il motivo per cui Cesare Di Consiglio, che abitava a Testaccio, sia stato preso nella Casa, forse si era trasferito a vivere dal suocero dopo che la razzia del 16 ottobre gli aveva portato via la moglie e i tre bambini. Dopo aver passato un periodo di tempo a Regina Coeli, tutti e quattro gli uomini saranno assassinati alle Fosse Ardeatine. Il fascista che li aveva arrestati, Renato Ceccherelli, tornò la mattina dopo l’arresto nella casa accompagnato da due o tre tedeschi. In quel momento con Sara e Lisa si trovava in casa anche la madre di Vito Moscati, Elisabetta Fornari, una donna di oltre sessant’anni. I fascisti si impadronirono di una radio, di una cassa di lampadine, e soprattutto delle chiavi del negozio in via di Santa Maria del Pianto 58 per saccheggiarlo. Saccheggiare le case e i negozi dopo gli arresti era una prassi comune. Normalmente erano i nazisti a farlo. Quando invece erano i fascisti, essi si facevano di solito accompagnare da alcuni soldati tedeschi che partecipavano al saccheggio. La Fornari non fu arrestata, tanto che nel dopoguerra poté testimoniare contro Ceccherelli al processo contro di lui e contro Celeste Di Porto. Un mese dopo, il 20 marzo, un altro figlio di Elisabetta Fornari, Pace, sarà anch’egli arrestato. Ritrovò il fratello Vito sul camion che li portava alle Ardeatine. Sia Vito che Pace Moscati erano, sembra, membri del Cln. Il 16 aprile, ci furono nuovi arresti nella famiglia già pesantemente colpita. Il fratello e il figlio di Sara, Vito Vivanti e Alberto Moscati, furono infatti a loro volta arrestati verso le 15 a via degli Specchi 5, nell’abitazione del suocero di Vito, 55

Vitale Zarfati, di mestiere sfasciacarrozze. Sia loro che Vitale e suo figlio Settimio, furono presi e deportati ad Auschwitz. Vitale era il padre di Emma, deportata il 16 ottobre dalla Casa con i suoi bambini. Sara depose al processo di essere stata presente all’arresto con le figlie di Vitale Zarfati, Velia, Pacifica, Franca e Norma e di aver cercato invano di impietosire la banda fascista che eseguiva gli arresti. Le donne presenti non furono prese. Pochi giorni dopo questo arresto, Sara lasciò Roma con Lisa, per ritornarvi immediatamente dopo la Liberazione, riprendendo subito possesso della sua casa. Suo fratello Vito fu fra quelli che sopravvissero alla deportazione, l’unico di tutti gli abitanti della Casa, e tornò ad abitare con lei all’interno 6, dove aveva vissuto con la sua numerosa famiglia. Si risposò con Ester Anticoli, anche lei vedova. Il suo primo marito infatti era stato preso a Testaccio mentre andava a comprare le sigarette, nel tempo in cui lei si nascondeva in un convento. Ebbero tre figli, Angelo, Ada e Alberto. Lisa, la figlia di Sara scampata agli arresti, visse là con suo marito Angelo Calò, anch’egli un reduce dai campi, la madre e i quattro figli, Alberto, Daniela, Sara e Marina. Man mano che la famiglia cresceva, gli spazi si facevano stretti, cosicché Vito si trasferì a Testaccio, mentre Lisa e i suoi continuarono ancora a lungo a vivere nella Casa. Sara morì nel 1974, Vito nel 1979. Vito non parlava molto della deportazione, lo faceva soprattutto con il gruppo degli amici come lui sopravvissuti, che si vedevano spesso e avevano formato il “club degli scocciati”. Con il figlio Angelo cominciò a parlarne in occasione del suo Bar Mizva, per cui scelse, significativamente, il 5 maggio, il giorno della sua liberazione dal campo di Mauthausen. La famiglia Moscato superò indenne il periodo dell’occupazione. Nel 1958 la figlia Rosa si sposò con Sergio Di Veroli 56

e rimase ad abitare nell’appartamento in fondo al ballatoio. Quanto a Rosa, era detta “Rosa del Portonaccio”. Dei cinque figli di Umberto Di Segni, che abitava all’interno 8, al secondo piano subito prima del ballatoio, e che aveva perduto la moglie e una figlia il 16 ottobre, tre scamparono all’arresto, Angelo, Giacomo ed Enrica. Renato fu invece arrestato il 1° aprile 1944 e deportato ad Auschwitz, dove morì a 22 anni il 14 febbraio 1945, dopo l’apertura del campo. Giacomo, che aveva perduto la moglie e i figli il 16 ottobre, non fu invece arrestato. Nel 1944 aveva 35 anni e cominciò appena possibile a cercare notizie dei suoi cari. Nell’aprile 1948 fece richiesta di ricercare i bambini all’Organizzazione Internazionale per i Rifugiati, aderente alla Croce Rossa, presentando una foto del 1942, con Italia e Franco ancora piccolissimo: i due bambini erano al mare, una bambina magrolina con la testa seminascosta che teneva in braccio un neonato. Insieme a Giacomo, la richiesta era firmata anche da una Ester Terracina, abitante anche lei in via del Portico d’Ottavia 13. Non si sa chi fosse e nessuno la ricorda, forse era una parente della bambina da parte di padre. Il dossier fu chiuso nell’agosto 1950 dalla Child Search Branch dell’International Tracing Service (Its) con la formula che sanzionava definitivamente la morte, “further action impossible”. All’epoca Giacomo era già morto da due anni, il 30 maggio 1948, forse lacerato dall’inutile ricerca dei suoi cari. Era ancora vivo invece suo padre Umberto che nel 1948 abitava ancora nella Casa, insieme all’altra figlia Enrica, detta Richetta, e suo marito Cesare Pavoncello. Prima della fine della guerra avevano abitato a piazza Costaguti 36, ma si trasferirono poi nella Casa con i due figli Lina e Leo. Vennero anche ad abitare nella Casa, tra il secondo e il terzo piano (là dove si apre una 57

porta isolata in cima ad alcuni gradini e dove aveva abitato Giovanni Sabatello), il fratello di Cesare, Salvatore Pavoncello, detto Bobbone, e la moglie Enrica Di Consiglio, una coppia senza figli scampata alla deportazione. Ma anche Bobbone aveva avuto in quei mesi una storia movimentata: era infatti stato arrestato la sera del 1° aprile a casa di Angelo Di Porto, in via di Sant’Angelo in Pescheria, mentre era là a giocare a carte con Angelo Sed, Angelo Terracina, Pacifico Di Segni (detto Moretto) ed Elio Caviglia. Secondo le deposizioni rese al processo, ad arrestarli furono Vezzani, Antonelli e altri membri della banda Cialli-Mezzaroma. Roselli li aspettava in strada con un mitra spianato. Li portarono tutti alla Pai di piazza Farnese, e li fecero entrare in una sala riunioni, da dove quattro di loro riuscirono a scappare calandosi da una finestra. Se la cavarono con qualche osso rotto. Solo Angelo Sed ed Elio Caviglia, che rinunciarono a buttarsi dalla finestra, furono deportati e morirono ad Auschwitz. La famiglia di Rubino Di Segni tornò dopo la guerra ad abitare nel suo appartamento al secondo piano. Si erano tutti salvati, una prima volta il 16 ottobre e poi peregrinando, come i Di Veroli e i Fatucci, da un convento all’altro, prima la parrocchia di San Benedetto poi il convento di Santa Francesca Romana. Quest’ultimo era solo femminile, quindi in quel periodo Ruenne trovò da nascondersi altrove, forse a Fossa dal fratello Angelo. Solo il piccolo Gianni, che era stato colpito da una grave infezione alla gamba per un’iniezione suppurata, grazie all’aiuto di un amico non ebreo del padre, Mario Cocchi, trovò asilo fino alla Liberazione all’ospedale Bambin Gesù sotto il falso nome di Giovanni Ferri. Quando i suoi tornarono a riprenderlo, lo riconobbero solo perché era l’unico bambino circonciso. Anche la moglie di Rubino, Cesira, e la piccola Emma si trovarono bene nel convento di Santa Francesca Romana. Gianni ricorda ancora le suore che passavano in via del Porti58

co d’Ottavia davanti al negozio di suo padre, nel dopoguerra, per chiedere notizie di sua sorella. Cesira morì presto, stroncata dalla malattia nel 1947. Suo padre Giovanni, antiquario e argentiere, e suo fratello Settimio erano stati presi e assassinati alle Fosse Ardeatine, e come loro altri zii e cugini, e questo era stato per lei un colpo da cui non si era più ripresa. Un’altra famiglia della Casa che si è salvata per intero è quella di David Di Capua. Abitavano al numero 13 solo alcuni dei figli, gli altri con i genitori abitavano a vicolo del Piede 31, in Trastevere. Dei sei figli di David Di Capua, venditore ambulante, e di Elena Calò, cucitrice, solo tre, Enrica, Rina e Marco, rispettivamente di 14, 19 e 22 anni, risultano residenti a Portico d’Ottavia già nel censimento del 1938, gli altri, Rosina, Settimio e Nino, abitano con i genitori a vicolo del Piede, una situazione abbastanza inusuale, che non sappiamo quanto fosse effettiva. Sappiamo però che negli elenchi del 1947 e del 1948 risulteranno nella Casa, e vi abiteranno effettivamente, solo Rina e Rosina. Quest’ultima, detta “l’olandese”, era sposata con un non ebreo, Sesto De Angelis, un partigiano comunista privo di un occhio, che all’epoca aveva ventinove anni. Abitavano al pianterreno, vicino al magazzino di Rubino Di Segni, la prima porta sulla deviazione, con i loro figli, due femmine, Lucia ed Enrica, e due maschi, David ed Eugenio. Anche la famiglia Funaro, tutta scampata al 16 ottobre, pagò successivamente un pesante tributo di sangue. Infatti, il 14 aprile del 1944, l’ultimo giorno di Pesah, furono arrestati a Roma il padre Giacomo e il figlio diciassettenne Lamberto Abramo. Furono ambedue spediti prima a Fossoli, poi ad Auschwitz con il trasporto del 26 giugno 1944. Giacomo morì a Natzweiler, nell’Alsazia francese, il 15 febbraio 1945, a quarantacinque anni, mentre il figlio morì ad Auschwitz il 31 gennaio dello stesso anno, anche lui subito dopo la liberazione del campo. 59

Anche il marito della figlia Grazia, Samuele (Lello) Sonnino, di ventiquattro anni, fu arrestato il 31 marzo 1944 e deportato ad Auschwitz da Fossoli il 16 maggio successivo, con lo stesso convoglio dove si trovavano suo padre Angelo e suo fratello Isacco; un altro fratello, Marco, fu preso a Roma il 16 aprile 1944 e deportato da Fossoli il 26 giugno, insieme ai due Funaro. Lello e suo fratello Isacco morirono ad Auschwitz nell’ottobre del 1944, Marco era già morto pochi giorni prima, mentre il padre Angelo morì il 29 dicembre 1944 a Natzweiler. Anche i due fratelli della madre di Grazia, Umberto e Arturo, erano stati arrestati il 14 febbraio e deportati. La madre, Eugenia Soliani, nel 1948 aveva un banco a San Carlo ai Catinari e abitava nella Casa con l’altra figlia Ida, che morì giovane, e con Grazia. In questo caso a sopravvivere furono soltanto le donne. È possibile che dopo il 16 ottobre si fossero rifugiate in un convento o fuori Roma. A sinistra del cancello, al pianterreno, tornarono ad abitare Angelo Di Segni con la moglie Ines e le due figlie Emma e Rina. Scappando a nascondersi in Abruzzo, a Fossa, avevano lasciato la casa a dei conoscenti e la riebbero subito, ritrovandola per di più in perfetto ordine. Il rientro non fu però gioioso, molti erano i vuoti, molti quelli che erano morti in campo di concentramento o alle Ardeatine, molti quelli che vivevano nell’attesa di avere notizie dei loro cari deportati. “Eravamo molto tristi”, mi dice Emma, che aveva allora tredici anni. I bambini della Casa tornarono a scuola, facevano la strada tutti insieme fino a Trastevere, alla scuola ebraica, ma anche nella classe mancavano tanti bambini. Emma lasciò la sua casa al momento di sposarsi, nel 1952, e così la sorella Rina, più giovane di lei, mentre i genitori continuarono a viverci fino alla morte. Ora c’è una galleria d’arte. La famiglia Terracina che abitava nell’appartamento al pianterreno sotto il portico non aveva subito perdite il 16 ottobre, 60

solo uno dei figli di Giacomo, Raffaele, di trentacinque anni, fu arrestato dai fascisti della banda Cialli-Mezzaroma il 18 febbraio e deportato ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. Il padre Giacomo con i figli più piccoli si era rifugiato a Norcia prima del 16 ottobre. Raffaele fu preso mentre era con la figlia Elisabetta: i fascisti volevano portare via anche la bambina, che però fu liberata grazie alle suppliche disperate della madre. Una delle figlie di Giacomo, Flora, abitava a via del Conservatorio 5 con il marito e tre figli piccoli, la più grande, Elisabetta, di quattro anni. Il 16 ottobre erano in casa ma i tedeschi non li avevano cercati. Successivamente però rischiò di essere catturata anche lei dai fascisti: “Scesi con la seggiola a rammendare insieme con altre donne – racconta Flora –, s’avvicinò un signore, io ero timida e non alzai gli occhi, stette circa due minuti a guardare che cucivo, e se ne andò. A questo punto tutte le altre donne che erano sedute là con me mi dissero: ‘Sora Flora, ha visto chi è quello, è Remo!’”. Era Remo Canigiani, una delle spie più temute. Dopo questo episodio, anche Flora e i suoi raggiunsero il resto della famiglia a Norcia. Era ormai primavera avanzata. Non poterono restare in paese, dove c’erano i tedeschi sulla via della ritirata, ma peregrinarono da una frazione all’altra, sempre fingendo di essere degli sfollati. Una sera il marito di Flora fu chiamato da un vicino e tornò molto tardi, a notte inoltrata, con grande spavento della famiglia. Erano andati a seppellire, a rischio di farsi ammazzare anche loro, un ragazzo ucciso dai nazisti e lasciato insepolto. Ben presto arrivarono gli americani e i Terracina poterono rientrare a Roma. Alberto invece già da prima del 16 ottobre era entrato a far parte delle formazioni partigiane comuniste nei Castelli. La sua banda era sotto il comando di un ebreo, il genovese Pino Levi Cavaglione, e ne faceva parte anche l’ebreo romano Marco 61

Moscati, poi ucciso alle Ardeatine. Alberto fu un partigiano combattente e compì molte imprese importanti, sia ai Castelli che a Roma. Era un tiratore eccezionale, ricorda nelle sue testimonianze, e non sbagliava mai la mira. Un giorno trovarono un soldato repubblichino giovanissimo che si buttò in ginocchio piangendo e chiedendo pietà. “Ci fece pena – racconta – e lo lasciammo libero”. L’alternativa era fucilarlo, dice, “dal momento che non prendevamo prigionieri”. Non gli facevano invece pena i tedeschi, soprattutto dopo aver saputo della deportazione del fratello Raffaele, e ne uccise molti. Nel dopoguerra fu testimone a carico nel processo contro Celeste Di Porto. Non abbandonò del tutto la politica, anche se rifiutò di candidarsi al Parlamento, e militò nel partito repubblicano, con La Malfa. Giacomo e Alberto vivevano ancora nella Casa nel 194748 insieme ad una delle due gemelle, Enrica, sposata con Mario Misano, e suo figlio Massimo. Giacomo, soprannominato Cardone, era una figura quasi mitica nella Comunità. Era il presidente dell’associazione dei ricordari, i venditori ambulanti di oggetti religiosi. Morì nel 1971. Quando suo padre non fu più in grado di lavorare, a subentrargli nella licenza non fu il genero, come si usava, ma la figlia Enrica, che divenne così la prima “ricordara”. I colleghi la chiamavano “la signora”. Dopo che i Terracina lo lasciarono, l’appartamento fu affittato ad un materassaio, Alberto Sereni, che cardava la lana nel cortile. Sua moglie era stata deportata. Vittorio Moscati tornò dopo la Liberazione da Capranica, dove si era rifugiato con la famiglia Sonnino, e andò ad abitare nell’appartamento della suocera, al pianterreno, dove era stata arrestata sua moglie Costanza. Vi visse con una sorella della moglie, Rosa, che lo aiutò a tirar su il figlio Giovanni. Vittorio era un bell’uomo, sempre elegante, tanto che lo chiamavano “il conte”. Non si risposò mai. 62

La moglie di suo fratello Donato, Giulia Sciunnach, aveva dato alla luce una bambina nelle cantine della Casa il 24 febbraio del 1944. Suo marito non c’era quando fu colta prematuramente dalle doglie nel sapere che i suoi genitori, Rosa e Settimio, erano stati presi due giorni prima dai fascisti. Nel parto fu aiutata dalle donne della Casa e in particolare da una di queste, Annita, una cattolica che era fra i molti sfollati che vi abitavano. Ci fu un po’ di trambusto e i nazisti entrarono nel cortile a domandare cosa stava succedendo. Annita rispose che era sua sorella che stava partorendo. La bambina nacque piccola, pesava meno di due chili, ma vitale, anche se nel nascere aveva battuto la testa contro i gradini. Fu chiamata Adelaide e come secondo nome Annita, dal nome della sua salvatrice. Pochi giorni dopo, saputo che i suoi genitori erano detenuti a Regina Coeli, Giulia vi portò la piccola a conoscere la nonna Rosa. Ambedue, Rosa e Settimio Sciunnach, furono deportati e morirono ad Auschwitz. A Costanza Sonnino, la moglie di Vittorio incinta di nove mesi e deportata il 16 ottobre a trentaquattro anni, che non viveva più là ma che là era cresciuta, è stata dedicata nel gennaio 2013 una pietra d’inciampo, l’unica collocata finora davanti alla Casa. Conserviamo altri nomi di persone che probabilmente non abitavano più nella Casa nel 1943, ma che vi risultavano ancora nel censimento del 1938. La famiglia Di Castro, composta soltanto dal padre Crescenzio Di Castro e dal figlio Adolfo, che nel 1938 risultava nella Casa, abitava nel 1943 in via di Sant’Anna 13 al primo piano. Adolfo fu arrestato il 2 maggio 1944 a diciassette anni e arrivò ad Auschwitz con il trasporto del 26 giugno 1944. Suo padre era morto precedentemente. Si salvarono invece Giacomo ed Emma Piattelli, anch’essi nel 1938 residenti nella Casa, due gemelli sui quarant’anni, ma anche loro probabilmente non abitavano più lì. 63

Abitava nella Casa nel 1938, ma non più nel 1943, anche David Di Consiglio, con sua moglie Grazia Sciunnach e la diciottenne Colomba. Grazia e Colomba non sono fra i deportati, mentre sia David che due suoi fratelli, Cesare e Pacifico, furono arrestati fra il febbraio e il marzo 1944 e morirono in deportazione. Nel censimento del 1938 appaiono residenti nella Casa due bambini, Umberto e Rosa Fornari, uno di undici e l’altra di otto anni. I loro genitori, Angelo Fornari e Rachele Guetta, dovevano essere morti o in gravissime difficoltà, dal momento che il piccolo Umberto fu affidato all’Orfanotrofio Israelitico. Fu deportato il 16 ottobre, ma non di là, perché sappiamo che i bambini dell’orfanotrofio furono tutti messi in salvo e portati in un convento. Probabile che si trovasse per la festa nella famiglia di qualche parente e con loro sia stato deportato. Del resto aveva ormai sedici anni, ed è anche possibile che non fosse più all’orfanotrofio. Della bambina, forse perché è sopravvissuta, non abbiamo notizia. Abitava nella Casa nel 1938 anche la famiglia di Riccardo Gentili: una moglie, Clorinda Mazziotti, e almeno tre figli, Americo e Maria, nati a Providence negli Usa, e Teresa, nata a Roma nel 1921. Nel 1943 abitavano a via Arenula 20, da dove la madre e le due figlie furono deportate il 16 ottobre. Anche fra chi aveva lasciato la Casa c’è stato quindi un numero assai elevato di deportati. Vi abitò per qualche tempo, fra un peregrinare e l’altro, pur essendo la sua residenza in Trastevere, a vicolo del Piede, anche il piccolo Giacomo Di Segni, detto Mugnetta, il cui padre Emanuele fu arrestato il 15 aprile 1944 e morì a Buchenwald. Il bambino, che aveva allora sei anni, era stato arrestato con lui, ma il padre era riuscito a farlo scappare durante il viaggio in treno.

5.

I luoghi della cattura

Ero nascosto, ma siccome ero un ragazzo che a casa non ci sapeva stare, avevo i documenti falsi e giravo con un amico. Andavamo al cinema, e a Ponte Garibaldi c’han fermato (Marco Spizzichino, arrestato il 12 aprile 1944, deportato ad Auschwitz, liberato a Dachau, in Pezzetti 2009, p. 75).

Se quanti furono razziati il 16 ottobre furono tutti prelevati dalle SS nelle loro case, strappati al sonno all’alba non in base a qualche delazione ma grazie ad elenchi accuratamente stilati, basati principalmente sul censimento degli ebrei effettuato nel 1938, molto diverse sono le vicende successive al 16 ottobre, con gli arresti alla spicciolata, attuati in molta parte dai fascisti, di persone che cercavano di sfuggire alla cattura nascondendosi, che venivano tradite, vendute, braccate. In questo quadro, conoscere i luoghi degli arresti avvenuti dopo il 16 ottobre, sapere se gli ebrei della Casa si erano nascosti, dove erano al momento dell’arresto, se nelle vicinanze di casa o addirittura dentro la Casa, diventa un tassello importante della ricostruzione della loro vita. Molti furono arrestati per la strada, nel quartiere o nelle sue immediate adiacenze. Fra i luoghi dove ci sono stati numerosi arresti spicca via Arenula, dove fu fermato Lazzaro Anticoli, il famoso pugile detto Bucefalo, e dove molti ebrei passavano 65

il tempo, durante il giorno, in un bar munito di biliardo. In questo bar fu arrestato Mario Limentani, mentre suo fratello e suo padre, che erano con lui, si salvarono grazie ai documenti falsi posseduti dal fratello. Limentani riuscì a fuggire durante l’arresto, ma pochi giorni dopo, nei paraggi della stazione Termini, fu nuovamente fermato e, non potendo mostrare i documenti, arrestato e deportato. A via Arenula c’era un cinema, il cinema Arenula, in cui molti bambini passavano ore e ore, con la complicità della maschera che ben sapeva che si trattava di bambini ebrei ma che li ha sempre lasciati sedere là, relativamente al sicuro rispetto alle strade intorno. Certo alcuni finirono per allontanarsi dal quartiere, a cercare rifugio dove non erano conosciuti. Così la famiglia di Benedetto Limentani, che abitava in via Catalana 5, proprio di fronte al Tempio, decise di lasciare la propria abitazione perché troppo esposta e si rifugiò a via Arenula 53, a due isolati di distanza. Qui superarono indenni il 16 ottobre, senza nemmeno accorgersi della razzia, dal momento che abitavano all’ultimo piano e i nazisti, che erano arrivati là già alle 5 del mattino, non erano saliti fino al loro appartamento grazie al portiere che li aveva sviati. La loro fu forse l’unica famiglia della zona che si accorse della razzia quando tutto era finito, dalle voci sui ballatoi e nei cortili dopo che i nazisti se ne erano andati. Ma da allora cominciarono a peregrinare, San Giovanni, Campo de’ Fiori, piazza Bologna dove un idraulico cattolico li accolse per alcuni mesi, e infine il convento di Santa Chiara dove attesero il 4 giugno. Un racconto che Benedetto Limentani, il proprietario di uno dei pochi negozi tradizionali di abbigliamento rimasti nel vecchio ghetto, mi fa seduto su una sedia fuori dal negozio, in mezzo ai fast food casher e ai negozi di souvenir che hanno tanto trasformato il volto della “piazza”. 66

Ma torniamo al 1943. In tutti i casi che riguardano direttamente o indirettamente la Casa, ad arrestare gli ebrei nel quartiere furono i fascisti, non i nazisti. Se gli arresti ad opera dei fascisti avvennero nelle case, però, diventa importante sapere come i fascisti riuscivano a trovarli. In linea di massima, tutti o quasi gli arresti in cui mi sono imbattuta nel periodo successivo al 16 ottobre, e in particolare a partire dal febbraio 1944, dopo la riorganizzazione attuata dal nuovo questore Caruso, avvennero in seguito a qualche spiata, dopo l’incontro con delatori come Celeste Di Porto o Enrica Di Porto, che indicavano gli ebrei ai fascisti e ai tedeschi, o anche perché molti degli uomini delle bande fasciste conoscevano personalmente gli ebrei che arrestavano, vivendo nel quartiere o nelle vicinanze. Eppure gli arresti del 16 ottobre erano stati compiuti sulla base di elenchi precisi e assai aggiornati degli ebrei residenti in ciascun appartamento. Che fine avevano fatto quegli elenchi? È plausibile che essi non fossero stati passati alle bande fasciste incaricate di dare la caccia agli ebrei, che pur dipendevano direttamente dalle SS, e che i fascisti dovessero affidarsi, nella loro ricerca, a delazioni improvvisate? Delatori e agenti fascisti sembrano in realtà muoversi come se non conoscessero gli indirizzi, o perlomeno non tutti gli indirizzi, degli ebrei a cui davano la caccia. Il problema degli elenchi e della loro utilizzazione dopo il 16 ottobre è sollevato già al processo contro la banda CialliMezzaroma. Nella sua deposizione il consigliere della Comunità romana Angiolino Della Seta ricorda che la razzia del 16 ottobre fu attuata dai nazisti che si servirono “parzialmente” degli elenchi del censimento. Ma successivamente “per sfuggire alla cattura gli ebrei di Roma si allontanarono quasi tutti dalle loro abitazioni e si rifugiarono nei luoghi più impensati. Quando in seguito vennero eseguiti nuovi rastrellamenti, fu 67

necessario che alcuni degli informatori fornissero notizie sul nuovo recapito degli ebrei”. Di qui, l’utilizzo di informatori ebrei, che per quanto risulta dal processo non furono solo le due Di Porto. Lo stesso teste Angiolino Della Seta cita come delatore il proprio zio Guglielmo Sonnino e ricorda come tutti gli ebrei ad un certo punto avessero cominciato a diffidare anche dei parenti e degli amici: “Si era giunti a un parossismo tale che dubitavano anche dei propri fratelli”. Dalla documentazione che riguarda la zona del ghetto, tuttavia, non si ha quest’impressione. Tutti si parlavano, soprattutto le donne che a volte parlavano troppo anche di fronte a Celeste o ad Enrichetta Di Porto. Ma il punto importante è un altro: se la necessità di rivolgersi a informatori riguardava solo gli ebrei che si erano nascosti, perché allora anche quelli che continuavano a vivere nelle proprie case, e che erano numerosi, furono arrestati in base a delazioni e senza che i fascisti si servissero degli elenchi, quando sarebbe bastato cercarli là dove erano già riusciti il 16 ottobre a sfuggire alla razzia nazista? Abbiamo addirittura testimonianze di persone che la sera stessa della razzia sono tornate a dormire nella casa da dove erano scappate poche ore prima. Gli elenchi non furono usati nemmeno nel rastrellamento, se così possiamo chiamarlo, del 23-24 marzo. Com’è noto, fu difficile per i nazisti e i fascisti riuscire a mettere insieme in poche ore un numero tanto alto di uomini da uccidere alle Fosse Ardeatine, 335. Furono presi gli uomini che erano stati arrestati durante il rastrellamento nel quartiere in seguito all’attentato di via Rasella, quelli che erano già a via Tasso, quelli che erano già detenuti a Regina Coeli, e fra loro gli ebrei arrestati destinati alla deportazione. Per completare il numero, tra il pomeriggio del 23 marzo e la mattina del 24 furono effettuati altri arresti. 68

Nel quartiere del ghetto si ebbero numerosi arresti di ebrei, non però ad opera dei tedeschi ma delle bande fasciste, tra cui fu particolarmente solerte quella di Cialli-Mezzaroma, con l’attiva partecipazione di Celeste Di Porto. Tra il tardo pomeriggio del 23 marzo e la mattina del 24 numerosi ebrei furono infatti arrestati nella zona del ghetto e portati a Regina Coeli, da dove furono mandati direttamente alle Fosse Ardeatine. In una deposizione al processo contro la banda, fatta il 27 ottobre 1947, Virginia Di Porto, madre sessantenne di Pacifico Di Segni, assassinato alle Fosse Ardeatine, raccontava dell’arresto del figlio a cui era stata presente: il 23 marzo 1944 alle 19.30, Roselli con un altro fascista in borghese aveva fatto irruzione con le armi in pugno nella casa della cristiana Anna Fioravanti in via Caetani 2, dove abitava anche sua figlia Enrica Di Segni, lasciando altri due fascisti di guardia al portone. La Fioravanti aveva in braccio il suo bambino che aveva avuto da un ebreo, aggiunse la figlia Enrica Di Segni nella sua deposizione. “Ella supplicò il Roselli che le rispose: ‘Chi ti ha detto di stare con un ebreo?’”. Entrarono, cercarono gli ebrei nascosti, trovarono e arrestarono Pacifico Di Segni e suo cugino Alberto Funaro e li portarono alla Pai di piazza Farnese. Figlio di Lazzaro e di Allegra Di Veroli, Alberto Funaro aveva allora 24 anni e abitava con i suoi genitori, i fratelli Giacomo e Prospero e la sorella Renata in vicolo dei Catinari. Ma nel 1938 abitavano tutti in via del Portico d’Ottavia 13. Sia Pacifico Di Segni sia Alberto Funaro furono assassinati il giorno dopo alle Ardeatine. Chi era il padre di quel bambino tenuto in braccio da Anna Fioravanti, Pacifico Di Segni o Alberto Funaro, o nessuno dei due? Intorno alle otto di sera i fascisti circondarono la casa di via della Reginella 2, in cui abitava anche la famiglia di Celeste Di Porto. Tutti gli ebrei presenti nella casa, compresi i fa69

migliari di Celeste, riuscirono a fuggire da una finestra. Solo Celeste rimase tranquilla a dormire, dopo aver mostrato agli altri una tessera del fascio repubblicano. Arrestata al mattino, fu immediatamente liberata ad opera di Vincenzo Antonelli, il suo amante. Una stanza della sua casa era stata intanto adibita a prigione provvisoria e vi vennero rinchiusi, per poi essere portati a Regina Coeli, gli ebrei man mano arrestati fra la notte e la mattina seguente: il marito di una degli abitanti della casa, Gabriele Sonnino, che tornava a casa la mattina ignaro della situazione, e Armando Di Segni, fratello di Silvia Di Segni, arrestata da Roselli il 20 febbraio in via della Reginella, e poi deportata, il cui marito Ugo Di Nola fu a sua volta arrestato il giorno successivo e poi fucilato alle Ardeatine. La mattina successiva, intorno alle dieci, furono arrestati in via Arenula, dopo che Celeste Di Porto li aveva indicati agli altri della banda, Lazzaro e Romolo Anticoli e Rubino Di Veroli. Gli ultimi due riuscirono a scappare e solo Lazzaro Anticoli, il pugile, restò come abbiamo già detto nelle mani dei fascisti. Fu assassinato anche lui alle Ardeatine e lasciò sulla parete della cella di Regina Coeli, in cui passò solo poche ore, una scritta in cui denunciava Celeste Di Porto come colei che lo aveva indicato ai fascisti: “Sono Lazzaro Anticoli detto bucefalo, boxeur, e sono stato arrestato da un’infame donna detta Stella Di Porto”. Il 24 marzo alle sei del mattino la madre di Pacifico Di Segni, arrestato la sera prima, era già a piazza Farnese a portare a suo figlio e a suo nipote Alberto Funaro caffè, pane e sigarette. La lasciarono abbracciare i due e stare con loro una mezz’ora. “Uscita dalla caserma restai nella Piazza ed ogni tanto vedevo mio figlio che si affacciava ad una finestra”. Verso le 10.30 giunse un camion tedesco con a bordo un fascista e la Di Porto. Nel camion c’erano altre persone, forse, 70

dice la donna, ebrei catturati. Pacifico e Alberto furono fatti salire sul camion insieme ad altri tre ebrei appena arrestati: si trattava di Giacomo Di Porto e Marco Sonnino, rispettivamente cognato e nipote di Virginia, e Benedetto Sermoneta, arrestato poco prima a piazza Campo de’ Fiori. Dissero che li avrebbero portati a Regina Coeli. Il giorno dopo Celeste Di Porto incontrò Virginia e le raccontò che gli arrestati erano in carcere, dove avevano dato loro coperte, gavetta e cucchiaio. La ragazza era tutta felice e mostrò alla donna un largo bracciale d’oro dicendo che glielo avevano regalato i fascisti. Virginia allora gliene promise uno più grande e pesante se l’avesse aiutata a far liberare suo figlio. Ma Celeste disse che non si poteva più, che era stato mandato fuori Roma a lavorare. Invece, il 25 marzo, il ragazzo era già stato ammazzato alle Ardeatine. Lo stesso episodio dell’arresto è descritto con minori particolari da Renata Funaro, sorella di Alberto, anche lei a piazza Farnese la mattina del 24 insieme ad Anna Fioravanti, l’“ariana” che ospitava Enrica Di Segni. Depone anche Prospero Funaro, suo fratello, riferendo quanto raccontato dalla sorella Renata. Ma racconta anche che dieci giorni dopo, il 4 aprile, l’Antonelli fece irruzione a casa sua, in vicolo dei Catinari, con cinque militi in borghese e uno in divisa e le pistole in pugno per arrestarlo. Alle suppliche del giovane, a cui si erano unite la madre e la sorella, l’Antonelli lo aveva infine lasciato libero, senza chiedere soldi in cambio. Un caso in cui al carnefice era piaciuto sentirsi una divinità benefica, o la speranza in un compenso maggiore in un momento successivo? Ad ogni buon conto, Prospero si nascose subito dopo questo episodio e rimase nascosto fino alla liberazione di Roma. Conosciamo bene, perché oggetto di numerose deposizioni giudiziarie nei processi del dopoguerra contro i colla71

borazionisti, le vicende dell’arresto, dopo il 16 ottobre, dei membri di una delle famiglie della Casa, i Vivanti. In questo caso agirono successivamente due diverse bande, quella di Renato Ceccherelli e quella Cialli-Mezzaroma, con cui collaborava Celeste Di Porto. Ambedue bande di fascisti che agivano in proprio e che rispondevano direttamente alle SS tedesche. Tutti venivano identificati e si identificavano come SS italiane. Questa dell’esistenza di SS italiane è una questione controversa. Kappler, al suo processo, ha negato che esistessero SS italiane. Nei verbali dei processi del dopoguerra, la dizione SS italiane è comunemente adoperata, tanto dagli imputati che dai testimoni e dai giudici. In realtà, la denominazione SS, appositamente usata per incutere terrore, non voleva dire che chi la usava fosse parte delle SS tedesche, ma significava più semplicemente, come spiega al processo un funzionario italiano di polizia, “Servizi Speciali”. Un gioco di equivoci, dipendenze, conflitti di competenze, che sarebbe stato farsesco se non avesse implicato arresti e deportazione. Della famiglia di Angelo Vivanti sappiamo che tutte le donne e i bambini, tranne Sara e la piccola Lisa, erano stati arrestati il 16 ottobre, mentre gli uomini erano scappati. In un primo momento, dopo la fuga, Sara e Lisa si erano nascoste, ma poi tornarono a vivere nella Casa. Erano là il 25 febbraio del 1944, perché all’una e trenta di notte vi fece irruzione la banda di Renato Ceccherelli, arrestando tutti gli uomini presenti: il capofamiglia Angelo Vivanti, suo figlio Giacomo, Vito Moscati, marito di Sara, e Cesare Di Consiglio, marito della figlia Celeste. Vito Vivanti non era lì. Sara Vivanti invece era presente e non fu arrestata, e così la piccola Lisa, nascosta sotto un letto. Suo padre si buttò ai piedi dei fascisti piangendo e chiedendo di lasciar libero il figlio, mentre il marito di Sara cercava di salvare tutti e quattro dando del denaro 72

al Ceccherelli, così come gli aveva consigliato di fare un altro dei fascisti presenti; Ceccherelli promise solo che anziché portarli in via Tasso li avrebbe portati in questura, cosa che ovviamente non fece. Tutti e quattro, dopo esser stati detenuti a Regina Coeli, furono assassinati alle Fosse Ardeatine. Ceccherelli tornò la mattina dopo, accompagnato da due o tre tedeschi, per saccheggiare la casa, e vi trovò anche la suocera di Sara, Elisabetta Fornari, di 67 anni, che non abitava lì ma in vicolo del Bollo, e che era stata avvisata dalla nuora dell’arresto del figlio. Le due donne non furono arrestate, mentre la casa fu saccheggiata. L’irruzione mattutina sarà raccontata dalla Fornari in una deposizione durante il processo contro Ceccherelli e Celeste Di Porto. Gli uomini della famiglia ancora a piede libero erano Vito e il figlio di Sara, Alberto, un ragazzo di 17 anni. Ma i due non sfuggirono alla deportazione, anche se Vito poté tornare. È lui a raccontare il suo arresto in una deposizione del 14 luglio 1945. Ne furono gli autori i membri della banda Cialli-Mezzaroma. Erano le tre del pomeriggio del 16 aprile 1944, nel periodo più intenso della persecuzione. Si trovavano in via degli Specchi 5, l’abitazione del suocero (e cugino) di Vito, Vitale Zarfati, appena al di là di largo Arenula, dove anche Sara si era rifugiata con il figlio Alberto dopo l’arresto dei suoi famigliari: “Si presentarono in casa due persone in borghese, uno dei quali portava un impermeabile e che io conoscevo da tempo, tale Gallegiani Remo [in realtà Canigiani, questo infatti appare essere il suo nome esatto dagli atti processuali] ed un altro individuo senza impermeabile, i quali mi intimarono di esibire i miei documenti di riconoscimento personali. Il Gallegiani aveva puntato contro di me la sua pistola dalla tasca dell’impermeabile. Avendo rilevato dal documento che io ero di razza ebraica, mi dichiararono 73

in arresto e mi obbligarono a seguirli. La stessa cosa fecero con gli altri miei parenti presenti: Zarfati Vitale e Settimio, ambedue morti in un campo di concentramento in Polonia (Birchenau) e Moscati Alberto di cui non si hanno notizie”. E ancora: “Presero me, mio suocero Zarfati Vitale, Zarfati Settimio e un ragazzetto [...] di nome Moscati Alberto che era mio nipote ed era figlio di un caduto delle Fosse Ardeatine. Tutti scongiurammo di non portare via Moscati Alberto, la madre [Sara Vivanti] piangeva e il Canigiani minacciò di portare via anche la donna. Allora io dissi alla donna di tacere e minacciai di darle uno schiaffo se non smetteva. Il Canigiani sentì questa mia minaccia e allora mi disse di tacere che altrimenti mi avrebbe fatto saltare le cervella con la sua pistola”. In questo caso, la descrizione è così completa da consentirci di ricostruire tutte le circostanze dell’arresto: il Canigiani conosceva le sue vittime personalmente, come risulta dalla testimonianza di Vito Vivanti; i “poliziotti” andavano a colpo sicuro, nella casa di un ebreo, alla vigilia del sabato. Infatti in casa erano radunati tutti i sopravvissuti agli arresti precedenti, quelli che avevano già decimato la famiglia Zarfati e i Vivanti. Tuttavia, né lo Zarfati né gli altri possedevano documenti falsi, ed esibirono i loro, da cui risultava che si trattava di ebrei, un ulteriore indizio del fatto che non si erano nascosti o almeno non usufruivano di un aiuto organizzato. Pochi degli ebrei scampati alla razzia del 16 ottobre infatti riuscirono a venire in possesso di false carte d’identità. Nessuno degli abitanti della Casa sembra che abbia potuto ottenerne una. Così non l’aveva la famiglia di Attilio Di Veroli, anche se la possedeva il fratello di Attilio, Enrico, che non riuscì comunque a sfuggire all’arresto, l’ultimo giorno di Pesah, il 15 aprile, ad opera di Cialli-Mezzaroma e Antonelli. I documenti erano in genere stampati in tipografie legate alla 74

Chiesa, al Cln o alla Delasem, l’organizzazione ebraica di soccorso passata nella clandestinità dopo l’8 settembre. Anche all’Anagrafe esisteva un’organizzazione clandestina di impiegati antifascisti che rilasciavano documenti falsi. Ancora più difficile era la fabbricazione di false carte annonarie, perché bisognava far corrispondere i nomi delle carte di identità a quelli delle carte annonarie. Nonostante la famiglia di Enrico Di Veroli avesse documenti falsi, sono state rinvenute tra le carte di famiglia due tessere di abbonamento alla linea dell’autobus Roma-Fiuggi del periodo dell’occupazione intestate a due figli di Enrico Di Veroli, Olga e Giacomo, con il loro vero nome. Inoltre la famiglia, che però era nascosta altrove, non aveva tolto né la mezuzah né il nome Di Veroli dalla porta di casa. Si ha la sensazione che il passaggio alla clandestinità e l’adozione di un nome falso, e per di più “ariano”, fosse molto difficile da accettare. Ad ogni modo, le donne della famiglia Vivanti e Zarfati presenti nell’appartamento in via degli Specchi, cioè Sara e le figlie di Vitale Zarfati, non furono arrestate. Come depone Sara Vivanti: “Io ero presente, assieme alle figlie, Velia e Pacifica, di mio cugino Vitale, mi raccomandai nella speranza che desistessero dall’arresto. Cercai di impietosirlo dicendogli che forse mio padre, mio marito, mio fratello e mio cognato erano stati trucidati dai tedeschi per il fatto di via Rasella. Ma furono vane le mie preghiere. Egli, Remo, mi assicurò che nessun ebreo era stato fucilato, perché alla fucilazione era stato presente lui e non aveva visto nessun ebreo”. Soltanto il 27 aprile, dieci giorni dopo l’arresto degli ultimi famigliari, Sara decise di fuggire da Roma con la figlia Lisa. Prima del 16 aprile, nella famiglia Zarfati c’era già stato un arresto, quello avvenuto il 21 febbraio, quando la moglie di Vitale Zarfati, Elisabetta Moresco, detta Betta, con tre delle 75

sue otto figlie, Rina, Milena (15 anni) e Silvana (17 anni), era stata arrestata dallo stesso Canigiani a piazza Cairoli alle 14.30, mentre stava passeggiando con Annita Funaro, anch’essa arrestata. Sul “torpedone” dove furono fatte salire trovarono un altro arrestato, Graziano Sed, di 14 anni, che sarà poi deportato ad Auschwitz e che morirà di sfinimento dopo l’apertura del campo il 29 marzo 1945, come successe a molti dei detenuti liberati. Anche il padre di Graziano, Giuseppe, e suo fratello Pacifico, di sedici anni, furono poi arrestati il 1° aprile e morirono ad Auschwitz. Silvana, che con Milena sopravvisse ad Auschwitz e testimoniò al processo contro Canigiani, dice nella sua deposizione al processo che sua sorella Rina, messa in allarme dalle grida della madre, scese in strada dalla casa di via degli Specchi, dove evidentemente continuavano ad abitare, e fu così arrestata. Silvana raccontò anche di aver visto nel campo il fratello Settimio che le aveva raccontato del suo arresto in via degli Specchi. Anche Annita Funaro, di 44 anni, abitante in via dei Falegnami, tornò dal campo, dopo aver visto il figlio Angelo Di Porto a Fossoli. Angelo invece non fece ritorno e morì a Mauthausen il 25 aprile 1945. Annita Funaro depose raccontando il suo arresto il 21 marzo 1946. Non firmò perché era analfabeta. In un’intervista successiva, Silvana racconta: “Un compagno di mio padre, si chiamava Enzo [Vincenzo Antonelli] fece la spia che noi eravamo ebrei e ci presero. Mio padre mi disse: ‘Scappa, Silvana!’ Corevo, corevo, però le grida di mia madre... tornai indietro e lì fui presa. Le sue grida furono un tormento. Erano italiani, fascisti... Perché il tedesco cosa sa lui che io sono ebreo? Eravamo Rina, Milena ed io; poi un ragazzino, Moretto, [Graziano Sed], quattordic’anni, che mia madre se l’era affiliato e stette con noi fino a Birkenau. Io, mia sorella Milena e questo bambino tentavamo tanto di 76

scappare, avevamo anche l’abilità di farlo, ma più che altro mia sorella Rina e mia madre c’avevano tanto ossessionato... li hanno uccisi dopo, tanto valeva che noi scappavamo” (Pezzetti, p. 75). Nel caso della famiglia Zarfati le testimonianze ci descrivono anche come l’intera famiglia era riuscita a salvarsi il 16 ottobre: si erano tutti nascosti in uno scantinato, solo il padre, che era rimasto per ultimo dopo che gli altri famigliari si erano messi in salvo, era stato preso dai nazisti ma era riuscito subito a scappare e a raggiungere il resto della famiglia. Quanto alla donna arrestata con Elisabetta Moresco e le sue figlie, Annita Funaro, poté tornare dalla deportazione, dove invece era morto suo figlio Angelo, e racconta che pochi giorni dopo il suo arresto Canigiani, con un altro fascista detto Mimì (Di Meo, l’amante della spia Enrica Di Porto), era andato a casa sua e aveva chiesto 20.000 lire al figlio Angelo per non arrestare tutti i presenti. Angelo gli aveva dato 3000 lire e lui aveva desistito. Ma poi anche Angelo era stato arrestato il 14 aprile e deportato ad Auschwitz, e di lì a Mauthausen. A Fossoli, in attesa della deportazione, aveva potuto raccontare questa vicenda alla madre, ma non era ritornato. Il 16 aprile, un’ora dopo gli arresti a via degli Specchi, Remo Canigiani pensò bene di approfittare dellla vigilia dello Shabhat, arrestando a casa sua a Trastevere, in via Manara 27, un altro ebreo, tal Leone Di Consiglio. All’arresto erano presenti la moglie, Rosa Menasci, la suocera Ester Di Segni e i quattro bambini. Nessuno di loro fu arrestato. Anche alla famiglia Di Consiglio il Canigiani era ben noto: “Costui era da me conosciuto... – dice Rosa Menasci – anche prima dell’invasione tedesca, era un fascista che faceva l’infermiere all’Ospedale Littorio. Dopo l’invasione tedesca si diede alla caccia degli ebrei, abbandonando il suo impiego. Era allora 77

conosciutissimo nel nostro rione e Termini perché si sapeva che aveva già fatto prendere molti ebrei”. Ecco come la donna racconta l’arresto del marito: “Il 16 aprile 1944 il Canigiani Remo si presentò a casa nostra alle ore 16 con la rivoltella in pugno e seguito da altri quattro fascisti in borghese di cui non sono in grado di dare elementi per l’identificazione. Uno dei fascisti si era fatto accompagnare anche dal figlio di dodici anni! Il Canigiani girò la casa e avendo visto mio marito nel letto disse che doveva andare con lui perché era ebreo. I miei figliuoli ed io incominciammo a piangere, il Canigiani disse che fra mezz’ora lo avrebbe rimandato a casa; invece dopo tre giorni ritornò egli con altri fascisti e girò rovistando tutta casa; ma noi siamo poveri e credo che il Canigiani non portò via nulla, perché nulla trovò”. Di Consiglio fu portato a piazza Farnese, poi a via Tasso, e infine a Regina Coeli, da dove fu inviato alla deportazione. Ma durante il viaggio in autobus, nei pressi di Civita Castellana, il 22 maggio, egli tentò la fuga insieme a suo cugino Pacifico Di Consiglio, e fu abbattuto da una guardia, tal Giovanni Giannone, che portò poi personalmente la notizia della sua morte alla madre di Rosa Menasci, Ester Di Segni. Suo cugino Pacifico, detto Moretto, che divenne poi una figura carismatica della “piazza”, riuscì invece a fuggire, salvandosi così dalla deportazione come già si era salvato in un’occasione precedente fuggendo dalla caserma della Pai di piazza Farnese. Era un uomo di grande coraggio e di grandi capacità.

6.

“Credevamo che prendessero solo gli uomini”

Vi sembra di far bene a rimanere voi donne e a mettere in salvo gli uomini? (Celeste Di Porto a Emma Pavoncello, 1° aprile 1944. Testimonianza di Emma Pavoncello in ASR, CAS, f. 97.2, p. 100)

Anche il 16 ottobre, inizialmente, furono solo gli uomini a mettersi in salvo, scappando dai tetti o nelle cantine. Così nella Casa dove tutti gli uomini giovani fuggirono dai tetti. La famiglia Fatucci fece scappare i quattro figli maschi prima di tentare la sorte e di sgattaiolare via senza farsi notare scendendo le scale. Mario Limentani, che abitava a via della Reginella 10, racconta come, all’inizio della razzia, fossero scappati soltanto gli uomini della famiglia. Poi, sentendo le voci che gridavano che i tedeschi prendevano tutti, essi erano tornati indietro e avevano aiutato le donne e i bambini a passare attraverso un cunicolo per arrivare alle cantine. Solo una cognata incinta che non era riuscita a passarvi fu presa. A via di Santa Maria del Pianto i nazisti arrestarono nel febbraio 1944 Erina Fornaro, mentre il marito Agesilao Di Veroli si nascondeva e la bambina Estella, di quattro anni, era affidata ad una vicina cattolica. I casi sono innumerevoli. L’idea che i tedeschi volessero catturare soltanto gli uomini fu ben dura a morire e continuò a guidare i comportamenti degli ebrei romani anche dopo la razzia del 16 ottobre, facendo sì 79

che i primi a mettersi in salvo, negli arresti successivi, fossero spesso gli uomini. Quando il 21 febbraio 1944 le quattro donne della famiglia Zarfati furono arrestate a piazza Cairoli, di fronte alle urla della moglie sotto casa, il padre scappò, come racconta la figlia Milena, dicendole: “Vai a vedere che cosa fanno a mamma”. Milena, tredicenne, raggiunse la madre e fu presa anche lei. È vero tuttavia che negli arresti posteriori molto spesso le donne e i bambini riuscirono a scampare, anche se presenti all’arresto degli uomini. Molti dei processi ci raccontano di padri e figli adolescenti arrestati e di madri, mogli, figlie lasciate libere. Così il 19 febbraio i fascisti della banda di CialliMezzaroma circondarono l’albergo Prati, in via Crescenzio, chiesero di consultare i registri e salirono nella stanza dove era rifugiata la famiglia Di Nepi, genitori e due figlie. Il padre, Amedeo, fu subito arrestato e non farà ritorno da Auschwitz. La madre svenne e una delle due figlie si offrì di essere arrestata al suo posto. Dopo un’intera notte in cui non si capiva se le tre donne sarebbero state arrestate o meno, esse vennero lasciate libere. Ugualmente, dopo l’arresto nella Casa degli uomini della famiglia Vivanti e del genero Vito Moscati, all’una di notte, non solo Sara Vivanti rimase libera e restò nella Casa anche dopo la fine del coprifuoco, ma avvisò la suocera, che non ebbe timore di andare là la mattina seguente, nella stessa abitazione dove era appena avvenuto l’arresto di suo figlio. Emma Pavoncello, rifugiata in convento, ritornò il 2 aprile temporaneamente a casa sua, forse a prendere qualcosa che le serviva, e fu arrestata da Vincenzo Antonelli e da Serrao Vezzani, mentre Celeste Di Porto assisteva all’arresto fumando. La Pavoncello, che conosceva Vezzani, riuscì ad ottenere di essere liberata, a patto che lasciasse la sua casa, che fu poi 80

saccheggiata. “E vollero anche un bacio per ciascuno”, dice. In quell’occasione la Di Porto le disse questa frase a dir poco sconcertante: “Vi sembra di far bene a rimanere voi donne e a mettere in salvo gli uomini?”. L’idea che le donne non sarebbero state arrestate era radicata, ma evidentemente era solo un’illusione. La famiglia Di Consiglio, per non fare che un esempio, il 21 marzo 1944 fu arrestata tutta, vecchi, donne e bambini compresi, a via Madonna dei Monti 82 dai nazisti, con l’aiuto di militi fascisti. A denunciarli era stato un collaboratore dei tedeschi, Leonardo Leonardi. Si può dire, in linea di massima, che i nazisti arrestavano tutti mentre i fascisti non avevano regole sicure e che gli arresti effettuati dalle bande autonome, a volte accompagnate da soldati tedeschi, erano determinati o dal caso o più spesso dal lucro. Decisiva era la possibilità di ricavare qualcosa dalle donne lasciate libere, che ci fosse cioè una promessa di riscatto. In altri casi, soprattutto quando le donne avevano a che fare non con le bande criminali ma con poliziotti regolari, questi cercavano di non effettuare arresti tra donne e bambini. Significativi sono gli episodi in cui le donne, ma non solo loro, si recavano nei commissariati a chiedere notizie o a Regina Coeli a portare cibo e biancheria ai congiunti arrestati. Rosina e Silvia Di Veroli andarono addirittura a via Tasso, senza essere arrestate, a chiedere notizie del padre e del fratello catturati il 19 marzo. Il 7 gennaio 1944 un ebreo, Angelo Piperno, denunciava al commissariato di Ponte Regola di essere stato derubato due giorni prima di 10.000 lire da due individui, uno “in divisa di tenente di Artiglieria e un altro in borghese”, “qualificatisi per appartenenti ai reparti SS”. E nel suo Diario manoscritto, la segretaria della Comunità Rosina Sorani racconta che il 2 febbraio 1944 molti ebrei si 81

recarono al commissariato Campitelli per avere notizie circa le voci di una nuova razzia, e furono scacciati frettolosamente dal funzionario di polizia a cui si erano rivolti, che avrebbe dovuto invece arrestarli subito. E commenta che furono tanto incoscienti da non allontanarsi dalla zona del ghetto. È difficile dire se questo, come è stato sostenuto, fosse indice di una perdurante fiducia nella polizia o di un’incapacità di interiorizzare il fatto di essere a rischio di arresto da parte della polizia di Salò per il solo fatto di essere ebrei. Forse di entrambe le cose. Nel processo del dopoguerra contro la banda Cialli-Mezzaroma, il commissario Cantasano, che sotto l’occupazione aveva prestato servizio ai commissariati Trevi e Campitelli, depone che non gli risultava che i suoi funzionari si fossero “trovati nella necessità” di arrestare degli ebrei. “La Questura Centrale in quel tempo aveva formato delle squadre speciali per razziatori di ebrei alle strette dipendenze di Caruso, non avendo più fiducia su di noi”, afferma. A parte l’ovvia caratterizzazione difensiva della testimonianza, anche prendendo per buono quanto il commissario afferma – e sappiamo che quanto diceva sulle squadre speciali di Caruso era vero –, questo non vuol dire tuttavia che la polizia repubblicana chiudesse sistematicamente gli occhi di fronte agli ebrei e che essi fossero arrestati solo dagli sgherri di Caruso o dalle bande dipendenti da Kappler. Anche qui dipendeva dalle situazioni, dalle persone, forse anche dal momento e non ultimo dal caso. A volte li arrestava, a volte no, a volte li aiutava o aiutava la Resistenza, come nel caso del commissario C. di San Lorenzo della cui opera di supporto ad ebrei e partigiani ci parla don Libero Raganella. Lo stesso si può dire per la Pai, nella cui sede di piazza Farnese abbiamo visto passare tanti ebrei. Molte volte mogli 82

e madri degli arrestati si recarono là senza essere arrestate per vederli, per implorare pietà. Ma quando il 31 marzo 1944 Emma e Rosa Di Segni, dopo l’arresto del fratello Lello, corsero piangendo a piazza Farnese per tentare di salvarlo, furono additate da Celeste Di Porto ai fascisti, tanto che Rosa venne catturata e poi deportata ad Auschwitz da dove però tornerà. Vistasi presa come ebrea, e non riuscendo a farsi liberare, Rosa disse al tedesco “che anche la Celeste Di Porto era ebrea”, ma ciò non ebbe alcun effetto. Nel processo, gli imputati diranno che se Rosa Di Segni era stata arrestata la colpa era solo sua, dal momento che si era messa a piangere e a strillare, attirando su di sé l’attenzione!

7.

La “Pantera Nera” e altri delatori

Nel tempo in cui il nostro territorio era occupato dal nemico, e particolarmente negli ultimi mesi che precedettero la liberazione a Roma, come in altre parti del territorio, gli appartenenti alla razza ebraica ed anche coloro che prendevano parte alla lotta clandestina contro i nazifascisti, venivano sistematicamente catturati. Diretta dalle SS tedesche, coadiuvate all’infausto governo di Salò, la persecuzione degli ebrei ebbe per collaboratori alcuni indegni cittadini che facevano capo alle cosiddette SS italiane dipendenti dal comando militare tedesco (ASR, CAS, f. 97.1, Sentenza contro Cialli-Mezzaroma Giovanni ed altri, p. 3).

Il verbale dell’istruttoria in cui sono riportate molte testimonianze di ebrei romani è particolarmente ricco di particolari e significativo: è infatti quello del processo contro Celeste Di Porto, detta Stella e soprannominata, dopo la Liberazione, Pantera Nera, la giovane ebrea che denunciò molti correligionari ai fascisti e ai tedeschi e le cui vicende si intrecciano con la storia degli abitanti della Casa. Nel caso della famiglia Vivanti, Sara porterà avanti con determinazione le denunce tanto contro la banda di Ceccherelli, che aveva arrestato i suoi, contro cui sporgerà una prima denuncia già il 5 maggio 1945, quanto contro la banda di cui faceva parte insieme con 85

Celeste Di Porto anche Remo Canigiani, l’autore dell’arresto di suo figlio a via degli Specchi. Celeste Di Porto, all’epoca diciannovenne, viveva subito dietro via del Portico d’Ottavia, in via della Reginella 2. Considerata bellissima, anche se le fotografie risalenti al processo nel 1947 la mostrano sfatta e sfiorita dopo soli quattro anni, Celeste era divenuta l’amante di uno dei membri della banda Cialli-Mezzaroma, Vincenzo Antonelli. “Non è brutta, ‘Pantera Nera’, pur senza essere una Venere”, scrive “Il Tempo” di Roma all’apertura del processo. “È una donna che lascia ancora intravvedere quello che fu il fascino di una volta e che il carcere va spegnendo a poco a poco. Dell’antica ‘Stella’ – così la chiamavano prima che seminasse il terrore tra i suoi correligionari – una cosa sola rimane: gli occhi, neri, vivi, brucianti nei quali sembra nascondersi un odio ferino per coloro che oggi l’hanno ridotta all’impotenza”. Al processo, dove nega non solo la sua attività spionistica ma anche di essere stata l’amante dell’Antonelli, la ragazza afferma senza tentennare di aver stretto legami con Antonelli e con i suoi e di averli frequentati assiduamente solo dopo il 24 marzo. Era accusata di “aver collaborato con il tedesco invasore favorendone i disegni politici, fornendo indicazioni e materialmente partecipando a scopo di lucro all’arresto degli ebrei Di Porto Angelo, Pavoncello Salvatore, Di Consiglio Pacifico, Terracina Angelo, Sed Angelo, Caviglia Elio, Anticoli Romolo, Anticoli Lazzaro, Di Veroli Rubino, Pavoncello Angelo, Zarfati Alberto, Moscati Marco, Moscati Emanuele, Moscati David, Sed Pacifico, Mieli Isdraele, Mieli Renato, Mieli Marco, Di Segni Rosa, Di Segni Armando ed altri, alcuni dei quali furono poi trucidati alle Fosse Ardeatine o deportati in Germania...” Nella sua versione la banda di Cialli-Mezzaroma avrebbe arrestato anche lei, a casa dei suoi, la sera del 23 marzo e 86

Antonelli per salvarla le avrebbe dato una tessera del fascio repubblicano. In realtà Celeste andava denunciando i suoi correligionari già da alcune settimane. Nelle deposizioni dei testimoni torna frequentemente l’immagine di lei che in marzo, secondo alcuni brandendo una pistola, sorveglia il saccheggio da parte di tedeschi e fascisti dei negozi degli ebrei in via della Reginella e quella di lei che, il 24 marzo mattina, accompagna in un camion tedesco gli ebrei arrestati a Regina Coeli, subito prima che siano mandati alla morte alle Fosse Ardeatine. Due immagini assai forti, che spiegano l’odio provato verso di lei dagli ebrei di “piazza”, dalle vedove e dalle madri di coloro che aveva fatto arrestare. Celeste è quasi linciata dalla folla durante il suo processo, e i testimoni che depongono contro di lei sovente non riescono a controllarsi, danno in escandescenze e vengono richiamati all’ordine o espulsi dal tribunale. La stampa nazionale segue il processo di “Pantera Nera” con interesse e passione. Gli ingredienti c’erano tutti per quello che, se non fosse stato terribilmente tragico, assomigliava ad un feuilleton: una ragazza povera e bella, con molte ambizioni, ad un certo punto costretta a lasciare la scuola e ad andare a servizio; il mondo ristretto del vecchio ghetto, dove tutti si conoscevano e dove Celeste era molto “chiacchierata”; un padre tradizionale e molto severo che sembra si sia spontaneamente consegnato ai tedeschi per riparare al male fatto dalla figlia; un primo fidanzato, di cui era molto innamorata e che fu costretto dalla sua famiglia benestante a lasciarla, perché troppo povera; una chiara e aperta insofferenza di Celeste verso i suoi e il suo secondo fidanzato, anch’egli ebreo, che deporrà contro di lei al processo; la storia d’amore con l’Antonelli, trascorsa fra le denunce e i pranzi al ristorante, tra i sequestri di vestiti e gioielli nelle case degli arrestati e i viaggi in camion ad accompagnare i detenuti. E poi, 87

dopo la Liberazione, la fuga in un bordello di Napoli dove fu riconosciuta e arrestata, la conversione in carcere al cattolicesimo, il processo, la condanna a dodici anni in parte condonata, il matrimonio, la morte avvenuta probabilmente nel 1981. Un quadro complesso, come possiamo vedere da questi ricordi di Piero Terracina, allora quindicenne, che pochi mesi dopo sarebbe stato deportato ad Auschwitz: “Io la conobbi allora; venne a casa da noi con il fidanzato Lamberto Benigno che era il figlio di una cugina di papà: Eleonora Terracina che noi ragazzi chiamavamo ‘zia Eleonora’. Allora si usava che i fidanzati facessero il giro di tutti i parenti per presentare il futuro sposo o sposa. Era una ragazza bellissima che aveva un fascino particolare; aveva uno sguardo luminoso e un sorriso bellissimo oltre ad avere una figura perfetta. Io ricordo anche di averla vista il 26 luglio del 1943, il giorno successivo alla caduta del governo Mussolini. In bicicletta, come facevo allora, uscii di casa e andai in centro. Arrivato in via di Torre Argentina davanti al teatro arrivò proveniente da Corso Vittorio un camion gremito di gente che gioiva gridando per la fine del fascismo. Sul cassone di quel camion c’era lei, era davanti, attaccata alla cabina di guida e gridando a squarciagola agitava un bandierone tricolore”. Lamberto Benigno depose nel processo contro Celeste e gli altri delatori affermando di essere stato fidanzato con lei fino alla metà di marzo e di averla lasciata dopo aver trovato nella sua borsetta la tessera di iscrizione al fascio repubblicano, cioè la tessera che avrebbe poi fatto sì che la Di Porto fosse subito rilasciata la mattina del 24 marzo. Riferì anche di aver continuato ad avere rapporti con il padre di Celeste e che questi la mattina del 24 marzo sarebbe andato a casa sua ad avvisarlo di non uscire di casa. Il Benigno riferì anche che il padre di Celeste sapeva farsi rispettare e che i rapporti fra padre e figlia non erano buoni. Dice ancora Piero Terracina: 88

“Lamberto mi disse che era venuto a conoscenza di quanto faceva la sua fidanzata e che dovette nascondersi evitando quei luoghi dove Celeste avrebbe potuto trovarlo. Mi disse pure che aveva saputo che lo cercava ma non poteva dire se lo cercava perché voleva vedere il fidanzato o per consegnarlo ai fascisti. Lui era convinto che lo cercasse per denunciarlo”. Molti degli ebrei del quartiere, alcuni anche della Casa, testimoniano in tribunale contro Celeste. Virginia Di Porto denuncia con molti particolari la responsabilità di Celeste nell’arresto del figlio, assassinato alle Ardeatine: abitavano nella stessa via della Reginella ed erano in buoni rapporti tanto che la chiamava zia: “Durante il periodo della dominazione nazifascista ella era sempre in compagnia di fascisti, come io stessa vidi con i miei propri occhi un’infinità di volte”. E fa il nome di Roselli, un altro membro della banda, e del nipote di questi, Sergio Rotondi. Fra quanti abitavano nella Casa, il 27 ottobre 1944 Rosina Di Veroli depone a discarico di Celeste, che era stata sua compagna di scuola e anche di banco: nel marzo del 1944, infatti, Celeste l’aveva incontrata nella zona del ghetto, e dopo avere scambiato qualche parola con lei, le aveva suggerito di non farsi vedere in giro nei giorni successivi, consiglio che l’altra si affrettò a seguire. Rosina testimoniò che non le risultava direttamente che Celeste fosse una spia, ma aggiunse anche che tutti la vedevano in giro con i fascisti e la consideravano una collaborazionista. In molti casi i delatori hanno anche salvato alcuni degli ebrei che avrebbero potuto denunciare e fare arrestare. In genere, questi casi sono stati utilizzati dai difensori durante i processi per cercare di dimostrare l’innocenza dei loro assistiti. In realtà si veniva lasciati liberi generalmente in seguito alla promessa di un riscatto, ma non bisogna trascurare nemmeno l’ipotesi che personaggi come questi, in tale contesto, si sentissero potentis89

simi e in questo delirio di onnipotenza distribuissero ad alcuni la salvezza come mandavano altri alla morte. La stessa Celeste, incontrando vicino al convento dove erano rifugiate le due Limentani, nella cui casa era stata qualche anno prima come domestica, non le denunciò. Ma non è detto che essere stati compagni di scuola e amici da piccoli servisse a salvare la vita. In un caso un ebreo, Umberto Spizzichino, venne denunciato proprio da un suo amico e compagno di scuola, un fanatico fascista, Luciano Luberti, a cui si era rivolto per ottenere aiuto per fuggire in Svizzera e che gli fece trovare le SS all’appuntamento. Spizzichino morirà ad Auschwitz. Luberti, detto anche il boia di Albenga, dopo mille vicissitudini e dopo aver commesso omicidi di ogni genere, morirà libero nel suo letto nel 2002. Contro Celeste è durissima la deposizione di Sara Vivanti, che racconta di averla vista sia denunciare gli ebrei quando li incontrava, indicandoli ai fascisti con cui si accompagnava, sia partecipare in marzo, prima delle Fosse Ardeatine, al saccheggio dei negozi ebraici di via della Reginella “con una pistola in mano”, sia sul camion che portava gli ebrei rastrellati a Regina Coeli la mattina del 24 marzo, prima del loro trasporto alle Fosse Ardeatine. Secondo Sara Vivanti, Celeste Di Porto era probabilmente coinvolta nell’arresto dei suoi famigliari ad opera di Ceccherelli e Raucci, che si facevano, secondo la stessa Vivanti, vedere in giro in sua compagnia e andavano spesso a mangiare con lei alla trattoria “Il Fantino” in piazza Sant’Angelo in Pescheria. A suscitare i sospetti di Sara è il fatto che il Ceccherelli interpellò suo padre con il suo soprannome, “Tafano”, cosa che avrebbe potuto fare solo chi fosse “molto interno o dentro il nostro ambiente”. Ma nella sua deposizione Sara ammise di non essere scesa al portone, la notte in cui i suoi furono arrestati, data l’ora notturna, e di non poter così dire se la Di Porto stesse effettivamente aspettando gli altri in strada. 90

Contro Celeste testimoniò pure Alberto Terracina, anche lui abitante nella Casa. Era un partigiano e racconta di aver visto, senza precisare in che data, verso mezzogiorno in via Arenula, davanti al caffè Diana, un gruppo di donne che circondavano la Di Porto chiedendole che facesse liberare i loro congiunti ebrei. Lei aveva promesso di farlo perché conosceva delle “personalità a Palazzo Braschi”, la sede del fascio repubblicano. È questo un altro episodio singolare, che ci rivela come l’attività della Di Porto fosse universalmente nota e come alla ragazza nelle sue vanterie, che potremmo definire infantili se non fossero costate tanto sangue, piacesse dispensare promesse e speranze, oltre che arresti e morte. Settimio Mieli, il cui fratello Israele e i nipoti Mario e Renato furono arrestati in via Arenula e fucilati alle Ardeatine, racconta in tribunale di essere scampato all’arresto, a cui gli dissero aveva partecipato anche Celeste Di Porto, e di essersi poi nascosto nelle cantine della casa dove abitava. Ma “dopo pochi giorni stanco di stare nello scantinato uscii nella strada ed avendo visto un fuggi fuggi domandai cosa succedeva, mi dissero che Pantera Nera insieme ad altri stava operando rastrellamenti”. Erano i terribili giorni fra le Ardeatine e la liberazione di Roma, in cui il carrozzone destinato a raccogliere gli ebrei girava sinistro per le vie del ghetto. Che Celeste sia stata particolarmente attiva nelle ore immediatamente precedenti la strage delle Ardeatine, facendo in modo di moltiplicare gli arresti di ebrei, è quanto risulta da numerose testimonianze. Il fatto che molti di coloro che sono stati arrestati fra il 23 e il 24 siano stati presi in casa, altri mentre passeggiavano per via Arenula o comunque nelle vicinanze è un ulteriore indizio, se ancora ce ne fosse bisogno, del fatto che la rappresaglia non fu preceduta da nessun avviso e che forse anche la notizia dell’attentato di via Rasella non 91

fu subito diffusa in tutta la città, perché altrimenti avrebbe certo messo in allarme gli ebrei nella loro semiclandestinità. Fino all’eccidio, Roma, o almeno una grossa parte della città, viveva una giornata qualunque. La famiglia Di Porto, quella a cui appartiene Celeste, dormiva tranquilla a casa in via della Reginella quando arrivarono i fascisti. Celeste afferma di essere stata arrestata anche lei, ma poche ore dopo era già alla Pai di piazza Farnese ad accompagnare gli arrestati a Regina Coeli, da dove partirono i camion per le Fosse Ardeatine. Gli ebrei nascosti in ghetto, come Alberto Funaro e Pacifico Di Segni, restarono dove erano senza cercare nascondigli più distanti. Lazzaro Anticoli passeggiava con gli amici per via Arenula alle dieci del mattino del 24 marzo. All’incirca alla stessa ora veniva catturato Benedetto Sermoneta mentre stava bevendo un caffè a Campo de’ Fiori. Il 31 marzo, Celeste era di nuovo a piazza Farnese, dove fece arrestare anche Rosa Di Segni. Là, come aveva affermato un brigadiere, “quando veniva, ella era la padrona”. La mattina dopo, dal momento che intanto anche suo padre era stato arrestato, era di nuovo là, questa volta in veste di parente delle vittime. Ma la sera dello stesso 1° aprile la Pantera Nera era ancora una volta con i componenti della banda ad arrestare altri ebrei in casa di Angelo Di Porto e a saccheggiarne l’appartamento. Contro Celeste Di Porto c’è anche una testimonianza che riemerge drammaticamente al processo, quella del suo stesso padre, morto ad Auschwitz. A riportarla è Alberto Sed, un giovanissimo deportato, e risale al periodo trascorso a Fossoli contemporaneamente a Sabatino Di Porto, dove l’uomo era “allontanato da tutti per i precedenti della figlia”. Il Di Porto piangeva tutti i giorni, afferma il testimone, e un giorno si sfogò con lui, raccontandogli la sua tragica storia: “Spesso, aveva detto, venivano da me molte persone, padri, madri, parenti stretti 92

di ebrei arrestati e mi pregavano di ottenere che essi fossero liberati a mezzo di mia figlia”. Dato che il poveraccio cadeva dalle nuvole, essi lo informarono di ciò che Celeste faceva. Il padre allora aveva affrontato la figlia che gli aveva risposto: “Se faccio la spia a te cosa te ne importa, io faccio quello che voglio”. Il padre l’aveva allora picchiata di santa ragione e Celeste gli aveva gridato: “Questa volta mi hai messo le mani addosso, se lo farai un’altra volta farò arrestare anche te”. Dopo queste parole, il 1° aprile, il Di Porto si sarebbe consegnato ai nazifascisti. Era quindi vero che l’uomo era andato a consegnarsi per espiare la colpa della figlia? O ci troviamo di fronte all’origine di questa leggenda, una rivisitazione che il giovane Sed fa delle parole del padre di Celeste? Infatti la questione dell’autodenuncia del Di Porto è controversa, e mentre in una delle versioni che emergono al processo sarebbe andato lui stesso a via Tasso a consegnarsi, nell’altra, secondo le deposizioni delle figlie, sarebbe stato arrestato mentre era al cinema. Dopo un mese a Fossoli, sia Sed che il Di Porto furono mandati ad Auschwitz e, come testimonia Sed, Di Porto fu subito selezionato per le camere a gas. Quanto ad Alberto Sed, che sopravvisse ad Auschwitz, era forse anche lui una vittima delle delazioni di Celeste, o almeno tale si riteneva, e questo rende surreali i dialoghi con il padre di lei. Alberto Sed infatti, che all’epoca aveva quindici anni, era nascosto con tutta la sua famiglia nella cantina del negozio di suo nonno, vicino a Porta Pia. La mattina del 21 marzo sua madre, Enrica Calò, aveva incontrato Celeste (evidentemente era uscita dalla cantina, forse per procurarsi del cibo, ed era andata in “piazza”) e parlando le aveva rivelato il loro nascondiglio. Alle otto di sera erano stati tutti arrestati dal commissario Cantini: quindi non da una delle bande ma dalla polizia repubblicana. Fra loro c’erano i vecchi nonni, 93

poi rilasciati in ottemperanza alle disposizioni di Salò sugli ebrei ultrasettantenni, suo cugino Angelo Calò e le tre sorelle di Alberto, Fatina, Angelica ed Emma. Sopravvissero solo Angelo, Alberto e Fatina. Emma di sei anni fu uccisa all’arrivo con la madre, Angelica di quattordici anni fu sbranata ad Auschwitz dai cani dei nazisti. Nel dopoguerra il commissario Cantini fu processato per quell’arresto, ma riuscì a dimostrare di aver agito sotto costrizione e di essere stato, per il resto, attivo nell’aiutare ebrei e partigiani. Un altro enigma di questa storia è che, mentre nella sua deposizione al processo Alberto Sed accusa apertamente Celeste Di Porto e riferisce che sua madre l’aveva incontrata, nella sua testimonianza di cinquant’anni dopo alla Shoah Foundation afferma di non sapere chi li aveva traditi e sostiene che nessuno di loro, nemmeno sua madre, era mai uscito dal nascondiglio. A quale di queste due versioni dobbiamo dar credito? In ogni caso, il tribunale non giudicò allora abbastanza documentato il ruolo di delazione di Celeste Di Porto nei confronti della famiglia Sed e la prosciolse da questo specifico capo d’imputazione. Come abbiamo visto, il processo contro Celeste Di Porto e i suoi complici, la banda Cialli-Mezzaroma, suscitò forti emozioni, grande attenzione da parte dei giornali e vivaci intemperanze da parte del pubblico, che tentò più volte di aggredire l’imputata. Celeste tenne sempre un atteggiamento arrogante, del tutto coerente con le sue vicende precedenti, deridendo i testimoni, ma negò ostinatamente le sue colpe e accusò di falso tutti coloro che testimoniavano contro di lei. Altrettanto fece uno dei capi della banda, il suo amante Vincenzo Antonelli. Questo clima di forte tensione accompagnò tutto lo svolgersi dei processi e fu ripreso con evidenza dalla stampa. Durante l’intervallo di un’udienza, Michele Di Ve94

roli, che era stato un partigiano, si scagliò contro Antonelli, accusato di aver denunciato suo padre, e gli dette un pugno in piena faccia. Era il figlio di quell’Enrico che era stato deportato senza far ritorno e il cugino di quell’Attilio che abitava nella Casa e che era morto alle Ardeatine. Su un altro delatore e membro delle SS italiane particolarmente coinvolto nelle vicende di almeno una delle famiglie della Casa, quella dei Vivanti, e in genere sugli arresti della zona del ghetto vorremmo però soffermarci: Remo Canigiani. Se il primo arresto, nella famiglia Vivanti, era stato compiuto dalla banda di Renato Ceccherelli, nel secondo, quello del fratello e del figlio di Sara Vivanti, un ruolo importante era stato infatti svolto da un altro dei membri della banda Cialli, Remo Canigiani. All’epoca questi aveva 23 anni, essendo nato nel 1920, e abitava a via di San Paolo alla Regola 34. Una donna da lui arrestata, Annita Funaro, lo descrive come “basso, grasso”, con gli occhiali e vestito di un impermeabile chiaro. Al processo, alcuni testimoni ebrei depongono in suo favore sostenendo di essere stati salvati da suo padre Demostene. Ritorna anche in questo caso l’ambiguità tra salvezza e denuncia. Un particolare riferito in una deposizione di Sara Vivanti del 28 ottobre 1944, che non trova però altri riscontri altrove, è che Canigiani fosse di madre ebrea. La madre non aveva tuttavia un nome ebraico, si chiamava Guglielma Frenziotti o più probabilmente Fremiatti. Canigiani aveva un’amante più vecchia di lui nella provincia di Rieti da cui si rifugiò dopo la Liberazione. E fu a Rieti, infatti, che fu infine arrestato. Gli venne imputato, oltre al saccheggio, il fatto di avere arrestato tredici ebrei: sei membri della famiglia Zarfati, Alberto Moscati, Vito Vivanti, Giuseppe Sed, Graziano Sed, Silvia Di Segni, Annita Funaro e Leone Di Consiglio. La famiglia Zarfati lo conosceva bene: Milena, allora tredicenne, 95

dice che vendeva le caldarroste in piazza Cairoli; in realtà non era lui a venderle ma era amico della venditrice, che era poi l’amante da cui si rifugiò a Rieti, Severina Feri. Milena deve averlo visto spesso con lei ed essersi confusa. Ricoverato al Santa Maria della Pietà, sembra dopo un tentato suicidio, Canigiani non fu processato insieme con gli altri della banda, ma la sua posizione fu stralciata a causa delle sue condizioni mentali. Gli avvocati della difesa elencarono una lunga serie di precedenti famigliari di disturbi mentali, malattie veneree, epilessia. I certificati medici prodotti attestarono gravi patologie mentali. Fu condannato a dieci anni di prigione, di cui otto condonati, e giudicato seminfermo di mente. Così l’arresto di tanti ebrei fu considerato il risultato di una debolezza mentale. Anche Roselli, secondo il suo avvocato, risultava “affetto da imperfezioni psichiche che ne limitano le capacità di intendere e di volere”, ma la richiesta di perizia psichiatrica e di stralcio del processo venne invece respinta dalla corte. Fra le spie processate dopo la Liberazione ci fu anche Enrica Di Porto, detta Richetta l’incipriata. Meno bella di Celeste, descritta da alcuni testimoni con il viso coperto di brufoli, il che forse spiega lo spesso strato di cipria che usava, e forse desiderosa di imitare Celeste, che pure non le era parente, anche lei abitante in via della Reginella e come lei immischiata nella banda Cialli-Mezzaroma in quanto amante di un altro membro della banda, Domenico (Mimì) Di Meo, ma in una posizione più marginale rispetto a quella preminente di Celeste, Richetta sembra davvero una brutta copia della Pantera Nera. Era accusata di aver denunciato e fatto deportare Leone Pavoncello, Vitale Di Porto, Renato Piperno e altri. Sesto De Angelis, un non ebreo che nel dopoguerra abitava al pianterreno nella Casa insieme alla moglie ebrea Rosina 96

Di Capua, e che era un partigiano appartenente alla formazione di ultrasinistra Bandiera Rossa, molto forte nelle borgate romane, racconta di aver interrogato Enrica Di Porto, che era “accusata di aver partecipato a rastrellamenti di ebrei” e di non aver trovato elementi a suo carico. Gli risultava che durante l’occupazione Enrica esercitasse il commercio di frutta e verdura, e ricordava di avergliene fornita lui stesso, in particolare ciliege. Le accuse contro di lei sembrano provenire dai partigiani di Giustizia e Libertà, oltre che da molti ebrei, mentre i partigiani comunisti sembrano sostenerne l’innocenza. Anche Enrica nega tutti gli addebiti: afferma di conoscere il Di Meo solo per aver fornito alla sua famiglia bollini per il pane e sostiene di non aver mai denunciato nessun ebreo. Ma numerose testimonianze la inchiodano al suo ruolo di spia.

8.

Sentenze

Procedimento penale contro Bianchi Ambrogio, Pollastrini Guglielmo, Mazzaferro Francesco, Tarquini Raffaele, Ippolito Andrea, imputati per avere in Roma, il 10 maggio 1940, in concerto fra di loro e con altri individui non identificati, organizzata una squadra fascista che compiva atti di violenza contro ebrei, circondando le adiacenze del Ghetto e fermando e percuotendo numerosi ebrei, tra cui Limentani Settimio, Sciunnach Settimio, Pavoncello Marco, Fatucci Lazzaro, Sabatello Rubino, Anticoli Pacifico (ASR, Sezione istruttoria, fascicolo 486, 1, p. 1).

I processi del dopoguerra per collaborazionismo e sequestro di beni ebraici ci consentono anche uno sguardo sulla condizione degli ebrei del vecchio ghetto negli anni precedenti, quando l’Italia di Mussolini stava per entrare in guerra e il Duce stava per aprire per gli ebrei stranieri e per quelli considerati oppositori del regime i suoi campi di internamento. Sei o sette giovani della “piazza” furono mandati al confino perché, durante uno spettacolo, avevano reagito a uno sketch fortemente antisemita: lo scontro era finito a botte e i ragazzi erano stati denunciati. Le violenze, sia pur di lieve entità, non erano inusuali. In un processo tenutosi nel settembre 1944 per una spedizione punitiva fascista avvenuta nel maggio 1940, “ai tempi della campagna contro coloro che 99

leggevano l’‘Osservatore Romano’”, come scrive anni dopo la difesa degli imputati, troviamo fra gli accusati il nome di Guglielmo Pollastrini, che diventerà nel 1943 uno dei capi della banda di Palazzo Braschi, la cosiddetta banda Bardi-Pollastrini. A Palazzo Braschi c’era la ricostituita Federazione romana del partito fascista repubblicano, coinvolta in numerosi episodi di violenza e in moltissimi furti durante l’occupazione e sciolta, per ordine di Kesselring, il 26 novembre 1943 perché “d’impaccio invece che d’aiuto alle autorità italiane e tedesche”. La polizia italiana arrestò insieme a molti altri anche i due capi della banda, Bardi e Pollastrini. La spedizione del 1940 fu decisa in seguito ad un banale litigio fra un fascista e un residente della zona, dal soprannome di Pizzutello, “ariano ma sposato ad un’ebrea” e abitante in via della Reginella. La squadraccia era composta da una ventina di giovani fascisti provenienti da diversi quartieri della capitale, ed era guidata da tal Ambrogio Bianchi, all’epoca comandante della sezione giovanile fascista di Campitelli. Il 10 maggio, verso le undici e mezza di sera, i fascisti si sguinzagliarono in via del Portico d’Ottavia fermando e colpendo a sangue con bastoni e coi calci delle pistole tutti gli ebrei che passavano. Rubino Sabatello, uno dei feriti, fu anche derubato della somma che era in suo possesso, 800 lire. Le conseguenze più gravi le riportò Lazzaro Fatucci, che abitava con i suoi all’ultimo piano della Casa, che perse in seguito alle bastonate del Pollastrini sette denti riportando difficoltà permanenti di masticazione, come confermato da un referto richiesto dal tribunale nel 1944. Naturalmente, nessuno degli aggrediti sporse a quel tempo denuncia. Dopo la liberazione di Roma, nel luglio 1944, in seguito alla denuncia di un abitante di via del Tempio 4 che aveva all’epoca assistito dalla finestra all’aggressione, Pacifico Zarfati, 100

Bianchi fu però arrestato dagli Alleati e poi consegnato alla polizia italiana. Successivamente erano stati arrestati anche altri partecipanti alla spedizione punitiva. Nell’agosto Bianchi fu ricoverato al Santa Maria della Pietà con la diagnosi di “stato depressivo”. Il processo infatti si svolse soprattutto a colpi di perizie mediche, tra quelle delle vittime dell’aggressione del 1940, in particolare quella del Fatucci che era stato colpito più gravemente, e quelle che facevano del Bianchi un malato mentale incapace di intendere e volere sia allora che prima, all’epoca dei fatti. Ambrogio Bianchi veniva infatti dichiarato dai medici nel 1947, in perizie elaborate e fitte di citazioni della letteratura scientifica, “depresso, spesso ansioso, preoccupato per le sorti della famiglia, temendo che qualcuno di essa sia morto o sia stato ucciso”. Soffriva di insonnia, aveva delle visioni, udiva delle voci, non rispondeva e si chiudeva nel mutismo. Vedeva delle farfallette bianche che annunciavano la sua morte. La diagnosi era di schizofrenia. Alle origini del suo stato, secondo la perizia psichiatrica ci sarebbe stata tanto la malaria di cui aveva sofferto in passato, ma dopo l’aggressione del 1940, tanto l’accusa nonché la detenzione “sproporzionata” rispetto ai fatti addebitatigli. “Lo si può accusare di aver dato qualche schiaffo a dei giovani che lui conosceva come i più turbolenti”, scriveva la difesa, che sosteneva la tesi che Bianchi non solo non aveva mai perseguitato gli ebrei ma addirittura li aveva successivamente protetti. L’assoluzione definitiva è del 1951, ed è motivata con il fatto che, trattandosi di fatti commessi “per rappresaglia” contro gli ebrei, dovevano “ritenersi compresi nel novero di quelli per i quali fu concessa amnistia”. L’amnistia emanata dal ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti nel giugno 1946, infatti, concerneva tutti colo101

ro che avessero collaborato coi nazisti, escludendone tuttavia coloro che lo avessero fatto a scopo di lucro e non per motivi politici o ideologici. Ne erano anche esclusi gli omicidi, gli autori di stragi, di sevizie particolarmente efferate e di saccheggi. Né i membri della banda Cialli-Mezzaroma né quelli della banda Ceccherelli, processati dalle Corti d’Assise Speciali, furono condannati per concorso in omicidio, bensì per collaborazionismo, saccheggio e sequestro di persona, il reato sotto cui fu fatto rientrare l’arresto degli ebrei. Tali sentenze fanno oggi una certa impressione, e non solo per la loro mitezza. Anche il linguaggio è sconcertante. Dietro le formule, obbligate e stereotipate, del “tedesco invasore”, dei “patrioti” e dei “martiri delle Ardeatine” si possono leggere in filigrana le continuità con il passato e le ambigue percezioni della persecuzione, mentre nelle attenuanti concesse agli imputati, in particolare alle due Di Porto e a quanti, come Canigiani o lo stesso Bianchi, invocavano l’infermità mentale, emergono interessanti spaccati della percezione del rapporto tra povertà e responsabilità, oltre evidentemente di quello tra malattia mentale e responsabilità giuridica. Inoltre l’uso abituale del termine “razza ebraica” segnala che l’idea di razza era ancora considerata accettabile e normale. Ma analizziamone alcune, quelle che più da vicino interessano il mondo che gravita intorno alla Casa, la “piazza”, insomma. I membri della banda Ceccherelli, considerati colpevoli dell’arresto di ventidue ebrei, furono condannati nel 1947 per collaborazionismo, sequestro di persona, saccheggio: a trent’anni Ceccherelli e Raucci (gli autori materiali dell’arresto dei famigliari di Sara Vivanti nella Casa); a quindici anni Consoli; a dodici Policari, probabilmente colui che denunciò i Vivanti. A tutti fu applicato subito il condono di un terzo della pena. Sotto le stesse imputazioni furono condannati i 102

membri della banda Cialli-Mezzaroma, anch’essi processati nel 1947: diciotto anni ad Antonelli, sedici a Roselli, dodici anni a Cialli-Mezzaroma e alla Di Porto, dieci di cui otto condonati a Canigiani, giudicato seminfermo di mente. Gli altri imputati furono assolti perché il reato fu considerato amnistiato dal momento che non venne provato il motivo di lucro. Tutti questi processi, infatti, sono viziati dalla necessità di sottrarre in qualche modo gli imputati alla legge sull’amnistia, il che spiega l’enfasi sul motivo di lucro, la sottolineatura dei furti e non degli assassinii, del saccheggio e non della deportazione. Per condannarli, bisognava quindi dimostrare che gli imputati erano stati motivati non dall’odio verso gli ebrei bensì dalla prospettiva del guadagno che avrebbero potuto ottenere denunciandoli: la taglia, 5000 lire per un uomo, 2000 per una donna, 1000 per un bambino, ma anche la percentuale sul sequestro dei loro beni, normalmente il venti per cento, e il ricavato del puro e semplice saccheggio. Ecco il vizio di fondo che condiziona i documenti processuali, da cui non riusciamo mai a sapere quanto gli imputati si identificassero con i motivi ideologici della caccia agli ebrei e quanto invece non fossero, come appaiono dagli atti, semplici ladri e ricattatori. In quest’ottica, paradossalmente, si sarebbe rivelato più facile condannare le due Di Porto, che in quanto ebree non potevano aver agito per motivi ideologici ma solo per condurre una vita comoda e arricchirsi, se non fossero stati introdotti nel loro caso altri criteri giustificativi, quali la “necessità” in cui le due spie si sarebbero trovate di sfuggire alla cattura denunciando i correligionari: “La viltà, la doppiezza ed il servilismo ingenerati dal desiderio di allontanare da sé quei pericoli che minacciavano in quel tempo il cittadino, possono avere agito, particolarmente presso i deboli per natura, in modo da soffocare ogni sentimento 103

di umanità di fronte al proprio tornaconto personale. E così deve ammettersi che nella mente di coloro che erano soggetti ai rastrellamenti per motivi di razza o di lavoro obbligatorio, veniva prospettata, se non la necessità almeno la opportunità di offrire al nemico la propria collaborazione, al fine di ottenerne salvacondotto”, scrive testualmente la sentenza. In sostanza, salvarsi la pelle a spese degli altri è considerata sì un’espressione di viltà, di doppiezza, di servilismo, ma anche, in soggetti “deboli per natura”, un’attenuante giuridica. Tale attenuante fu utilizzata nella sentenza contro Celeste Di Porto, condannata a dodici anni di cui cinque condonati. La Corte affermava che, nonostante i suoi reati dovessero essere considerati “di maggior turpitudine perché commessi in danno di correligionari, deve considerarsi come l’età giovanile possa averla anche maggiormente soggetta alle lusinghe di coloro che ricorrevano alla sua collaborazione. Particolarmente in una giovinetta le privazioni e le preoccupazioni del tempo erano tali da menomare la resistenza dei centri inibitori e contribuivano a rappresentare le delazioni come unico mezzo di salvezza di fronte al pericolo di subire la stessa sorte dei catturandi”. D’altronde, continua la sentenza, le stesse motivazioni hanno spinto altri ebrei alle delazioni e quindi il crimine della Di Porto non appare come “eccezionale”. Non solo, continua la sentenza, “le delazioni della Di Porto possono avere accelerato ma non determinato gran parte della cattura degli ebrei in quanto gli sgherri che ebbero a eseguirle avrebbero avuto tutta la possibilità di identificare le vittime anche senza ricorrere alla giudicabile”. Quanto ad Enrica Di Porto, che molti testimoni avevano indicato come coinvolta nella cattura degli ebrei, la sentenza afferma, nello stabilirne la scarcerazione perché il suo reato era estinto dall’amnistia, che “al tempo dei fatti conduceva 104

una povera vita dedicata al traffico illecito dei bollini delle carte annonarie e alla rivendita ambulante, il che esclude la esistenza di illeciti guadagni. Se ne conclude che ove fossero provate le delazioni alla Di Porto attribuite, dovrebbe ricercarsene il movente nel servilismo, nella viltà comune ad alcuni degli ebrei perseguitati che, ossessionati dal pericolo, giunsero a macchiarsi di tradimento per trovare una via di salvezza. Tale movente, non meno ignobile di quello del lucro, non è causa ostativa per la concessione dell’amnistia”. Insomma, in quell’orribile linguaggio legale, si dice che Enrichetta Di Porto aveva tradito per viltà, non per guadagno, e poteva quindi usufruire appieno dell’amnistia. Una motivazione sorprendente, che nei termini in cui è formulata (il riferimento alla “viltà comune ad alcuni degli ebrei perseguitati”) non è esente dal sospetto di un residuo di antisemitismo. Permeato di molti stereotipi velatamente antisemiti è anche il processo contro il podestà di Castel Madama Filippo Moreschini, intentato in seguito all’accusa rivoltagli dagli Astrologo, altri abitanti della Casa, di essersi appropriato indebitamente delle loro merci. La gran mole di testimonianze a favore del Moreschini, portate dalla difesa e scelte fra le persone più in vista del paese, fanno apparire gli ebrei rifugiati come dediti alla borsa nera e privi di riconoscenza verso chi invece, come il Moreschini appunto, li avrebbe aiutati e protetti dai nazisti. Il movente del lucro, che sottraeva l’accusato all’ombrello protettivo dell’amnistia, andava però rigorosamente provato. Le Corti ritennero sufficientemente accertata dalle deposizioni dei testimoni l’esistenza di una taglia sulla cattura degli ebrei, su cui non c’è documentazione scritta esplicita, e ricondussero alla volontà di guadagnare tale taglia i sequestri di persona operati dagli imputati. Documentati furono anche 105

i saccheggi delle case e dei negozi degli ebrei e il pagamento di forti somme a quei fascisti che avessero acconsentito a lasciare in libertà gli ebrei arrestati o almeno le loro donne e i bambini. Non si tratta, a volte, di furti importanti, come nel caso di Renato Ceccherelli che la mattina dopo aver arrestato nel loro appartamento, nella Casa, quattro ebrei che poi moriranno tutti alle Fosse Ardeatine, torna sì a prendere le chiavi del negozio che possedevano ma non trascura di appropriarsi, ad ogni buon conto, di una cassa di lampadine. In altri casi, si trattava di migliaia o addirittura decine di migliaia di lire chieste come riscatto. Come risulta dalle testimonianze, nella contrattazione per la salvezza di un ebreo catturato i fascisti chiedevano comunque una somma superiore alle 5000 lire, la taglia che avrebbero preso se lo stesso ebreo fosse stato consegnato a via Tasso. I verbali sono pieni di testimonianze su richieste di riscatto da parte delle bande fasciste, su famigliari lasciati liberi perché potessero mettere insieme i soldi per far rilasciare l’arrestato o l’arrestata di turno. In alcuni casi la trattativa non andava in porto e ne seguivano altri arresti. Così, dopo l’arresto di Silvia Di Segni, il marito Ugo Di Nola fu a sua volta arrestato mentre portava ai fascisti la taglia richiesta per ottenerne il rilascio. Morirà alle Ardeatine, mentre sua moglie Silvia sarà fra i sopravvissuti. Il ritorno o meno degli arrestati dalla deportazione non era tuttavia un fatto che influisse minimamente sulla sentenza. Una volta consegnati ai nazisti seguivano il loro destino, chi li aveva arrestati, si sentenziava, non aveva colpa alcuna. Né poteva prevedere quale sarebbe stato questo destino. Anche qui la sentenza è chiara: “Nella applicazione delle pene la gravità del reato non può essere desunta dal danno che le parti offese dai sequestri di persona ebbero in seguito a subire in conseguenza dei crimini perpetrati nei campi di concen106

tramento della Germania perché di tali crimini i giudicabili non furono né avrebbero potuto essere chiamati a rispondere. Neppure può affermarsi che nella mente dei giudicabili fossero concepibili lo strazio e le torture ai quali gli ebrei deportati vennero sottoposti. Com’è notorio, la raccapricciante cronaca di tali orrori, fu appresa soltanto dopo la liberazione, quando gli Alleati accorsero nei luoghi ove erano raccolti i poveri superstiti”. Attraverso questi e analoghi giudizi, in sé profondamente iniqui, tuttavia, si guardava anche ad un futuro di riconciliazione e si pensava che solo senza vendette questo futuro sarebbe stato possibile. Noi sappiamo ora che la riconciliazione esige la giustizia, che il render giustizia e il riconoscere i torti ne è la condizione necessaria. Allora si guardò soprattutto avanti, o almeno si tentò di farlo. A Roma, tranne il tragico episodio del linciaggio del direttore di Regina Coeli, Caretta, e la fucilazione a Forte Bravetta, in seguito a regolari sentenze, di cinque collaborazionisti, tra cui Caruso e Koch, a parte le intemperanze tutte verbali dei testimoni ebrei del processo contro Celeste Di Porto e i suoi complici, non ci fu vendetta, ma non ci fu, io credo, nemmeno giustizia e quindi nemmeno riconciliazione, almeno non per gli ebrei che dell’occupazione e delle sue conseguenze erano stati le maggiori vittime. Ma torniamo al processo. Figlia di una società in cui gli oggetti sono facilmente sostituibili e hanno vita breve, ho finora visto nel saccheggio soprattutto un espediente che ha consentito alcune condanne pur in regime di amnistia. Così, Celeste Di Porto è descritta minuziosamente, nelle testimonianze, mentre riempie intere valigie dei vestiti dei suoi cugini che aveva appena fatto arrestare, e si mostra in giro con addosso abiti e gioielli delle sue vittime. Nel racconto dei testimoni, la sua indifferenza per i lutti che si lascia dietro 107

fa il paio con la sua avidità di possedere vestiti e gioielli. Ma in quei giorni anche la sorte della biancheria e dei mobili di casa era importante. E non solo ai fini del processo e delle condanne, ma anche per i sopravvissuti che cercavano di rientrare in possesso di quanto avevano lasciato e di quanto era stato loro sottratto, sia che si trattasse di beni rilevanti, case, negozi, macchine, sia che si trattasse di beni di minor conto. Ritrovare intatte le cose come i mobili e la biancheria che si erano abbandonate al momento di nascondersi era importante per i sopravvissuti, e non solo dal punto di vista materiale, ma altresì perché consentiva di riprendere il filo interrotto dell’esistenza, nonostante i vuoti enormi della deportazione. Riprendere possesso di una casa distrutta, totalmente svuotata degli oggetti famigliari, era cosa ben diversa dal ritornare in una abitazione uguale o quasi a quella che si era lasciata precipitosamente nella fuga. I testimoni si soffermano volentieri sullo stato della casa in cui fecero ritorno, se in ordine e più o meno quale era stata lasciata oppure saccheggiata e distrutta. Così, nella Casa, Costanza Fatucci ed Emma Di Segni sottolineano il sollievo recato alla loro famiglia dal fatto di aver trovato l’appartamento in ordine. Diverso il caso di Sara Vivanti che, nel fuggire fuori Roma dopo l’arresto del figlio e degli ultimi famigliari rimasti liberi, il 27 aprile, aveva lasciato l’appartamento a dei subinquilini che si erano impegnati a custodirle la casa e la mobilia. Nel farlo, aveva anche redatto un inventario dei mobili, il che dimostra che almeno in quell’occasione Sara tornò nella Casa, nonostante la paura di essere a sua volta arrestata. Al suo rientro i primi di giugno, subito dopo la Liberazione, trovò l’abitazione saccheggiata, in particolare dei mobili della camera da letto della madre e si recò subito a denunciare il furto. Secondo la sua denuncia, i mobili erano stati presi da 108

Renato Ceccherelli, che li avrebbe ceduti a degli sfollati di Ostia insediatisi in un appartamento all’ultimo piano dove non era più rimasto alcun mobile, forse l’appartamento disabitato da dove gli uomini della Casa erano passati per fuggire il 16 ottobre. Dopo proteste e denunce, Sara riuscì in effetti a tornare in possesso dei mobili di sua madre. Altri oggetti, in particolare biancheria, sembrano essere stati rubati invece dai suoi subinquilini e da un tal Vittorio Celoni, che Sara accusò anche di aver denunciato la sua famiglia a Ceccherelli. Celoni protestò la sua innocenza, sostenendo di essere stato un partigiano, e non fu incriminato. Sembra in realtà che l’autore della denuncia fosse un altro collaborazionista già accusato per altre delazioni, che sarà poi, come si è già detto, condannato a dodici anni di reclusione, Nino Policari, anche lui un membro della banda di Ceccherelli. Le denunce di furto, che possono in effetti apparirci secondarie di fronte agli infiniti lutti subiti, assumono anche il senso di una riappropriazione del proprio statuto di liberi cittadini. Coloro che erano stati privati di tutti i loro diritti, che non si erano nemmeno potuti permettere di denunciare, nel 1940, le bastonature subite, i cui cari erano scomparsi nel nulla, potevano ora richiedere indietro almeno le loro lenzuola e i loro mobili, e ottenere ascolto e forse anche giustizia.

9.

Dalla microstoria alla storia

La storia della casa di via del Portico d’Ottavia 13 sotto l’occupazione può esser meglio definita come una microstoria. Ho infatti cercato di illuminare, lasciando solo quelle zone d’ombra che non sono riuscita a penetrare, una realtà limitata fatta di persone e di cose, di quotidianità e di angosce, di fughe e di imprudenze, di paure e di coraggio. Dentro queste piccole storie, che si sono però svolte in un microcosmo complesso, è ancora più difficile che per la grande storia riconoscere e tracciare i confini dei moventi e delle emozioni. È, ad esempio, coraggio o incoscienza quello che induce Giulia Sciunnach, dopo aver dato alla luce clandestinamente una bimba nelle cantine della Casa, a portarla neonata a Regina Coeli a conoscere la nonna imprigionata là come ebrea in attesa della deportazione? E mi sovviene allora di essere stata portata dai miei genitori, ad appena un mese di età, nella Torino del gennaio 1945, a conoscere la mia bisnonna Emilia, che non era in prigione ma a letto moribonda, e che già i nazisti avevano cercato per deportarla. Era, credo, da parte di chi si arrischiava a portare un neonato in una prigione o in una casa che poteva essere sorvegliata dai nazisti, anche un modo di resistere al terrore privilegiando la vita quotidiana e i suoi affetti. Quanto a me, so che da adulta il 111

fatto di aver potuto incontrare la mia bisnonna mi ha riempita di orgoglio. La storia di Celeste Di Porto poi, così come quella dei banditi che cacciavano con lei gli ebrei, è ancor più complessa, e identificarne fino in fondo moventi e ragioni, anche attraverso le tante parole da lei pronunciate di fronte ai giudici o riferite dai suoi accusatori, sembra un compito arduo: dove finisce la frustrazione e comincia il potere, dove la brama di guadagno confina con la disumanità? Come tutte le microstorie, però, questa guarda anche oltre e ci dice, attraverso tale lente di ingrandimento, molte cose che riguardano vicende più ampie, che appartengono alla grande storia. Vediamone alcune, e soprattutto vediamo le domande che questa storia ci pone, comprese quelle a cui a volte non è in grado di rispondere. Nella Casa e nel quartiere intorno solo alcune delle famiglie si erano già messe in salvo prima del 16 ottobre, trovandosi un rifugio prima della razzia. Altre ci avevano anche pensato, come quella di Attilio Di Veroli, che non aveva però i soldi per farlo, o come quella di suo fratello Enrico, in cui il figlio Michele insisteva per nascondersi ma la madre non voleva lasciare “i suoi morti”. Che cosa rappresentano i morti in questo contesto? La vita dietro le spalle, la tradizione, forse l’essere ebrei? Anche quando si nasconde e lascia il suo appartamento, non dimentichiamolo, la famiglia di Enrico Di Veroli lascia sulla porta di casa il nome e la mezuzah. In tutte le testimonianze delle famiglie più povere, sia che abitino nella Casa sia che vivano lì intorno, emerge il fatto che quasi tutti restarono nelle loro case fino a dopo il 16 ottobre, anche se in molti la richiesta dell’oro creò ansia e paura. A nascondersi sono soprattutto quelli di estrazione borghese, più consapevoli, quelli che ascoltano segretamente Radio Londra, quelli che hanno legami con i movimenti clandestini, quelli 112

legati alla Delasem o anche solo quelli più ricchi e in grado di pagarsi un rifugio, come Umberto Di Veroli, che pure perde nella razzia una figlia e i nipotini. Tuttavia, a giudicare dagli abitanti della Casa, a impedire la fuga sono certo i motivi strettamente economici ma allo stesso tempo anche comportamenti e abitudini: per molti, la paura di lasciare le mura famigliari, perfino forse di rifugiarsi in un convento dove pensavano che sarebbero stati esposti a pressioni verso il battesimo. Tutto questo contava nel prendere decisioni che avevano implicazioni di vita o di morte. Nella Casa, in fondo, a nascondersi da prima della razzia sono soltanto quattro famiglie, stranamente quelle che abitavano al pianterreno: i Sonnino, quella della portiera Rosa, i Terracina e quella di Angelo Di Segni. Ma non tutta la rete della famiglia Di Segni è coinvolta, perché Angelo lascia la casa per Fossa con la sua famiglia ristretta e solo perché sua moglie ha molta paura e lo spinge a lasciare Roma. Tutta la sua grande famiglia d’origine resta a casa sua, al numero 9 di via del Portico d’Ottavia, e la maggior parte di essa viene distrutta nella Shoah. Anche la famiglia di suo fratello Rubino, nella Casa, non approfitta della via di fuga. E quando quasi tutta la famiglia si era trovata un rifugio, come nel caso dei Sonnino a Capranica, Costanza torna a Roma per partorire. Anche a Roma avrebbe partorito in casa, come d’uso. Perché allora non restare a Capranica? Forse perché c’era bisogno della rete famigliare, della sorella Speranza designata ad assisterla nel parto e che finì invece per condividerne la sorte? Se gli abitanti della Casa non erano scappati, si erano comunque preparati delle vie di fuga. Ma queste vie di fuga, come abbiamo visto, riguardavano solo i maschi, i giovani in età di lavoro, i soli che si pensava sarebbero stati presi. Il 16 ottobre tutti loro sono riusciti a fuggire, dai tetti o dal 113

laboratorio del falegname “ariano”. Anche qui, però, ci sono alcune eccezioni. La famiglia Fatucci si mette in salvo per intero: dopo aver fatto scappare i ragazzi, i genitori scendono le scale con le due figlie e riescono per miracolo a fuggire. Sara Vivanti prende la figlia Lisa e scappa dal retro insieme a Cesira Limentani, Mimma Terracina e tutti i bambini. Lo stesso fa la famiglia di Attilio Di Veroli. Avevano sentito gridare fuori che i tedeschi prendevano proprio tutti, avevano visto dalla finestra le file di donne, vecchi e bambini portati via oppure si erano solo spaventati vedendo apparire i nazisti e avevano agito d’impulso? Comunque sia, è stata per loro la salvezza. Dalle altre storie che siamo riusciti a ricostruire di persone che avevano rapporti con i nostri protagonisti, come gli Zarfati di via degli Specchi, appare chiaro che non soltanto, come nella Casa, gli uomini giovani si sono quasi tutti messi in salvo, ma che nella confusione anche molti uomini di mezza età, donne e bambini sono riusciti a dileguarsi. Ciò che è avvenuto nella Casa, quindi, è successo anche lì intorno, nel quartiere, anche se la Casa essendo abitata soltanto da ebrei era più esposta e più vulnerabile. Se le vicende della Casa, comunque, non ci dicono nulla che già non sapessimo, almeno a grandi linee, sulla razzia del 16 ottobre, molto ci raccontano sui nove mesi dell’occupazione di Roma e sulla vita degli ebrei del quartiere in quelle circostanze. Innanzitutto, che gli abitanti della Casa, come quelli dell’intero quartiere, tendevano a non allontanarsi troppo di là e anche quando erano nascosti altrove avevano la tendenza a gravitare lì intorno. Della Casa, quattro sono le famiglie che trovano (e cercano) rifugio in convento, molti sono nascosti in qualche scantinato, nei magazzini, in negozi che li ospitano solo per la notte. E molti restano, o tornano temporaneamente, per dormire una notte nel loro letto, celebrare una festa, fare un Seder, 114

cuocere le azzime, prendere delle lenzuola. Qui e altrove, ma soprattutto intorno al vecchio ghetto. Esito della povertà, che rende importantissimi anche oggetti modesti, come lenzuola o pentole? O invece della consuetudine, del bisogno di ritrovarsi anche solo per un giorno o due in casa propria, almeno in occasione delle feste? L’importanza delle feste ci porta alla questione dell’osservanza durante la clandestinità. E non solo dell’osservanza delle regole alimentari, che pure emerge come un problema nelle testimonianze, ma della preghiera pubblica, della circoncisione, dei matrimoni. È attestato da più parti che ci furono circoncisioni clandestine. Ma già per coloro che si erano rifugiati fuori Roma la questione diventava complicata. Nella famiglia Di Consiglio, rifugiata a Fossa, nacque una femmina, Roberta, con loro grande sollievo perché non avrebbero saputo come fare per circoncidere un maschietto. Sappiamo che la piccola sinagoga sull’Isola Tiberina, annessa all’ospizio israelitico dei vecchi, funzionò per tutti i nove mesi dell’occupazione e che ad officiarvi fu il rabbino David Panzieri. Si racconta che tre tedeschi fecero un giorno irruzione in casa di Panzieri trovandovi il rabbino in preghiera, con il taled e i tefillin. Egli avrebbe fatto loro con la mano il cenno di aspettare, senza voltarsi. Quando infine si voltò, i tedeschi se ne erano andati. Leggenda, naturalmente, ma non ha dell’incredibile anche il fatto che la sinagoga abbia potuto continuare a funzionare in quei mesi? Abbiamo visto che le famiglie della Casa che si rifugiarono in convento furono quattro. Esse andarono tutte nello stesso nascondiglio, la parrocchia di San Benedetto e l’attiguo convento delle Maestre Pie Filippini. E anche dopo il bombardamento di San Benedetto, tutte le donne e le ragazze trovarono rifugio a Tor de’ Specchi nel convento di clausura 115

femminile di Santa Francesca Romana. Come ci erano arrivate? L’approdo alla parrocchia di San Benedetto non era stato in realtà casuale: a portarcele era stato Attilio Di Veroli, che dopo la perdita della licenza di ambulante girava a comprare e vendere per le parrocchie e le chiese e conosceva il parroco don Gregorini, tanto è vero che questi gli aprì la porta chiamandolo per nome, come racconta la figlia Rosina: “Entra Attilio”, gli disse. È possibile che Attilio Di Veroli si fosse accordato precedentemente con don Gregorini di nascondersi nella parrocchia, che il suo arrivo fosse atteso. Ma nell’accoglierlo don Gregorini aggiunse anche: “Abbiamo avuto adesso l’ordine di farvi entrare”, frase molto significativa perché indica un coordinamento da parte ecclesiastica dei primi soccorsi già subito dopo la razzia. I salvati hanno dei bei ricordi della loro permanenza sia nel primo che nel secondo dei due conventi. Tanto Costanza Fatucci che Rosina Di Veroli nella sua intervista alla Shoah Foundation parlano con entusiasmo di don Gregorini e della sua umanità. Era giovane, all’epoca, don Gregorini, era parroco di San Benedetto solo da un anno e vi sarebbe rimasto fino al 1984. Costanza Fatucci racconta che il parroco amava intrattenersi a conversare con suo padre di ebraismo e cristianesimo, Rosina invece sottolinea la sua umanità nell’accompagnarla a riconoscere alle Ardeatine i corpi del padre e del fratello. Don Gregorini sembra invero essere stato una figura eccezionale, ma anche le suore di Santa Francesca Romana, che aggiungono il lardo nella minestra a parte per evitare che i loro ospiti ebrei lo mangino e che lasciano loro fare le azzime a Pesah sono figure altrettanto umane. Che da parte ebraica ci fossero timori di essere spinti al battesimo, lo sappiamo da tanti racconti e memorie, ma si tratta più di paure ataviche 116

che di realtà. In questa situazione, almeno, era così. Certo, Rosina teme all’inizio, quando le suore Pie Filippine le chiedono di andare a messa, che vogliano spingerla verso la conversione, e recita fra sé lo Shema durante tutta la messa, quasi per compensare la sua partecipazione al rito cattolico. Ma dobbiamo anche pensare che, se i cattolici che abitavano nel quartiere erano per loro famigliari, non lo erano i religiosi e tanto meno le suore di clausura. C’era in realtà una reciproca non conoscenza, colmata poco a poco dalla calda accoglienza delle suore e forse anche dalla buona volontà delle ragazze che, accolte senza dover pagare, si danno da fare per aiutare le suore, si occupano dei bambini della scuola, si prestano di buon animo ad alleggerire il peso che grava sul convento. Le donne ebree rifugiate a Santa Francesca Romana mantengono i rapporti con le suore anche nel dopoguerra, le vanno a trovare, serbano vivo il loro ricordo. Una domanda emerge dal racconto di tutte le vicissitudini di quei mesi nella Casa e nel quartiere intorno. Se la presenza degli ebrei in un quartiere in cui tutti li conoscevano e nelle stesse case dove abitavano prima era abituale e prevedibile, perché non ci sono state altre razzie? I mille arresti successivi, fra il novembre 1943 e il giugno 1944, sono avvenuti solo in minima parte ad opera dei tedeschi, e anche questi per la maggior parte su segnalazione di spie italiane, e per il resto ad opera dei fascisti, bande irregolari o poliziotti che fossero. Perché, dal momento che era ancora possibile trovare ebrei nelle loro case, in particolare nella zona del ghetto, almeno i fascisti che erano alle dirette dipendenze di Kappler non hanno fatto uso delle famose liste che esistevano a Roma in numerose copie e di cui Dannecker si era avvalso il 16 ottobre? Fra le possibili ipotesi, c’è quella di una sorta di patto con il Vaticano, risultato dei colloqui fra il segretario di Stato 117

Maglione e l’ambasciatore Weizsäcker, come suggerito dalla frase assai oscura scritta alla fine di ottobre nel rapporto dello stesso Weizsäcker a Berlino: “Qui a Roma indubbiamente non saranno più effettuate azioni contro gli ebrei”. Se un patto davvero ci fu, implicito o esplicito che fosse, i nazisti non vi tennero fede che in parte. Molti ebrei furono ancora catturati direttamente da loro, anche se non in vasti rastrellamenti. E non per mancanza di uomini. Infatti, per quanto scarsi fossero gli uomini di cui disponevano, i rastrellamenti operati direttamente dai nazisti a Roma furono numerosi: al Nomentano, al Mazzini, a Pietralata, a Centocelle, nella zona del centro, al Quadraro, nel quartiere Appio, ad Ostia, nella zona dell’Aurelia, per non citare che i più ampi. Ma non furono rivolti a catturare gli ebrei. Diversamente da quanto avvenne il 16 ottobre, in genere i nazisti circondavano un quartiere, rastrellavano quelli che si trovavano nelle strade, chiedevano loro i documenti, ne mandavano una parte al lavoro coatto in Germania. Gli arresti degli ebrei, anche quelli catturati in strada dopo il 16 ottobre, avvenivano in seguito a una segnalazione, anche se poteva naturalmente capitare che degli ebrei fossero presi in un rastrellamento e individuati solo dopo come ebrei. Come abbiamo visto, tutti gli ebrei arrestati nel quartiere dopo il 16 ottobre e collegati in qualche modo alla Casa, furono vittime dei fascisti e non dei nazisti, e nella maggioranza della banda Cialli-Mezzaroma, che era interessata quasi esclusivamente all’arresto degli ebrei e al saccheggio dei loro beni. A questa banda erano collegate le spie, i delatori, coloro che denunciavano gli ebrei, che si facevano pagare un riscatto per rilasciarli, che ne saccheggiavano i negozi. Il confine tra “spia” e “membro della banda” è in realtà labile. Celeste Di Porto indicava gli ebrei al resto della banda, e in questo senso era una spia, ma in realtà, come altri episodi dimostrano, 118

era un membro a tutti gli effetti della banda, si recava con loro a saccheggiare le case e i negozi degli ebrei, accompagnava gli arrestati a Regina Coeli. È impressionante il livello di conoscenze personali che questa rete di delazioni e arresti sottintendeva. Canigiani, ad esempio, nel vecchio ghetto era conosciuto da tutti e conosceva tutti, era l’amante della donna che vendeva le caldarroste in piazza Cairoli, e secondo Sara Vivanti era addirittura figlio di un’ebrea. Incontriamo continuamente, nei verbali processuali, testimoni ebrei che conoscevano quelli che li arrestavano o che tentavano di arrestarli: anche Antonelli, Roselli e Vezzani conoscevano da prima di arrestarle molte delle loro vittime. Questa rete di conoscenze e vicinato di cui partecipavano ebrei e non ebrei fu il presupposto di moltissimi degli arresti dei mesi successivi all’ottobre 1943. Una rete che poteva essere però anche di soccorso, di protezione, di amicizia. A volte ebrei e sfollati vivevano insieme nella Casa, come altrove lì intorno. È una sfollata, quindi non solo una cristiana ma anche una di quelli che erano stati messi ad occupare le case degli ebrei, colei che aiuta a partorire Giulia Sciunnach nelle cantine. Il proprietario del bar proprio lì sotto, al numero 11, un cristiano sposato con un’ebrea, Umberto Palmieri, nascondeva ebrei e così Enrico De Angelis, il macellaio che il giorno della razzia diede rifugio a tanti ebrei dietro la saracinesca chiusa del suo negozio, insignito poi del titolo di Giusto delle Nazioni. È un cristiano anche quel falegname, Camillo, che ha bottega al pianterreno della Casa e che fa passare dei giovani della Casa nel convento di Sant’Ambrogio. Perché il quartiere era in quegli anni un mondo in cui i rapporti tra gli ebrei e i non ebrei che abitavano nella zona erano stretti e costanti. Intendiamoci, non che l’appartenenza o meno all’ebraismo fosse un fatto ininfluente: nelle 119

deposizioni processuali degli ebrei, il non ebreo è sempre definito come “cristiano” o come “ariano”, come quell’Anna Fioravanti che aveva avuto un figlio da un ebreo e che era insieme con le donne ebree a piazza Farnese a cercare di far liberare gli arrestati. Ma nel linguaggio interno si dice “chiuso” o “chiusa”, cioè non circonciso. Senza ostilità, però. I comportamenti non erano diversi, i non ebrei che vivevano là non erano estranei, ma simili. I bambini non ebrei giocavano con i bambini ebrei, capivano il giudaico-romanesco. Certo, pochi erano i matrimoni misti, nelle mie ricerche ne ho incontrati solo due o tre, e il fatto che la Casa fosse abitata solo da ebrei è ricordato come l’elemento che contribuiva a farne “una sola famiglia”. Ma nell’immaginario collettivo, i due mondi non erano disgiunti. Socialmente il quartiere era omogeneo: il gran numero di ebrei e quello forse inferiore di non ebrei che lo abitavano erano tutti in maggioranza povera gente, svolgevano gli stessi mestieri, vivevano in case somiglianti, avevano comportamenti assai simili. Un altro elemento importante che emerge da queste storie è il perdurare dei legami di solidarietà. Una solidarietà che non si attiva solo tra ebrei, ma riguarda anche il mondo dei cristiani intorno. La posta in gioco era diversa: gli ebrei rischiano di perdere la vita solo perché ebrei, i cristiani rischiano i loro beni, la loro casa e in casi estremi il lavoro coatto. E se il licenziamento di Rosina Di Veroli da parte dei Coen di via del Tritone, un’ebrea licenziata in seguito alle leggi razziali da altri ebrei forse solo per opportunità, rientra in quella zona grigia che a partire da Primo Levi è divenuta uno dei criteri interpretativi più importanti della Shoah, nulla di tutto questo è presente nei comportamenti degli abitanti della Casa. Quello che emerge è invece la loro terribile solitudine, il loro abbandono, la loro più che naturale incomprensione di 120

quanto stava accadendo. Ma dentro questa tragedia, i valori di umanità e di solidarietà restano, secondo quanto emerge dai racconti e dalle testimonianze, intatti. Un altro aspetto particolarmente significativo è il disordine, la mancanza di regole negli arresti effettuati dopo il 16 ottobre. In alcuni casi vengono prese donne e bambini, come nell’arresto effettuato da Remo Canigiani di Betta Zarfati e delle sue figlie, in altri lo stesso Canigiani lascia libere le mogli e le figlie per arrestare solo gli uomini. A volte si lascia in libertà addirittura un uomo, come è il caso di Angelo Di Segni, nascosto con i suoi al pianterreno della sua casa in via in Piscinula. Quando vengono i fascisti a prenderlo, i cinque bambini gli si aggrappano ai pantaloni e l’uomo viene lasciato libero. Ma poco dopo, altri fascisti lo catturano di nuovo. Non tornerà da Auschwitz. Abbiamo tentato di spiegare queste casualità, queste contraddizioni con l’avidità, la richiesta di riscatto, la promessa di future somme di denaro, ma in certi casi si ha la sensazione che ci sia stato qualcosa di più profondo, di più irrazionale. Che quel mondo di piccoli ladri e assassini che formavano le bande speciali non avesse introiettato completamente le ordinanze di Verona che consideravano passibile di arresto ogni ebreo, di qualunque sesso ed età. Ordinanze politiche che si sovrapponevano, probabilmente senza aderirvi completamente, alla loro mentalità di delinquenti comuni. Tocchiamo qui il problema dell’antisemitismo, e lo tocchiamo senza la possibilità di avere un riscontro nella documentazione giudiziaria, dato che l’antisemitismo, in quanto coperto dall’amnistia, non poteva essere soggetto a pena alcuna nelle aule dei tribunali. Quanti di costoro agivano per antisemitismo? Dagli studi più recenti si ha l’impressione che la propaganda antisemita del regime, durante quei cinque an121

ni, sia stata più pervasiva ed efficace di quanto non si sia creduto finora. Inversamente, anche le reazioni di chi tentava di salvare gli ebrei non erano solo reazioni emotive di solidarietà di fronte alla morte di bambini, vecchi, donne, ma anche, talvolta, rifiuto ideologico dell’antisemitismo fascista e nazista. Negli atti del processo contro la banda Cialli-Mezzaroma troviamo la vicenda di un giovane ebreo che la banda tenta di arrestare in un negozio presso Porta Cavalleggeri. Una folla di donne si raduna a chiedere cosa stia succedendo, e alla risposta che stanno arrestando il ragazzo perché è ebreo le donne si gettano sul fascista e lo riempiono di botte, consentendo al ragazzo di scappare. Contrariamente alle non poche donne che vengono lasciate libere dalle bande fasciste, all’arresto effettuato dal commissario Cantini a Porta Pia dell’intera famiglia Sed, invece, non si sottrae nemmeno una bambina di sei anni, nonostante le suppliche della portiera che cerca di prenderla con sé per salvarla. Il commissario fu poi assolto perché riuscì a provare di aver sempre aiutato ebrei e partigiani e di aver agito così in quel caso perché affiancato da un collega che lo sorvegliava. Ma questo è veramente un elemento a discarico, oppure il prezzo pagato dalla famiglia Sed fu davvero troppo alto? La questione dell’arresto delle donne resta oscura, come indecifrabile resta non solo il fatto che tanti ebrei abbiano continuato a vivere nel quartiere, ma che in tante occasioni siano andati senza essere arrestati alla Pai di piazza Farnese a parlare con i figli e i mariti, a via Tasso a chiedere notizie dei famigliari, a Regina Coeli a portar loro il pranzo e le sigarette. Come spiegarlo? Solo quando a bussare alle porte dove si nascondevano gli ebrei era un reparto delle SS tedesche, allora non c’erano dubbi, nessuno era lasciato libero, neanche i vecchi, e tutti dovevano seguirli come era successo il 16 ottobre. 122

Forse, solo tenendo conto dell’assoluto vuoto di organizzazione sociale che esisteva a Roma in quei mesi, nel bel mezzo di una guerra in cui i nazisti stavano visibilmente perdendo, possiamo arrivare se non a decifrare almeno a comprendere vagamente tutte queste contraddizioni. Contraddizioni che contraddistinguono in primo luogo le istituzioni di Salò, con i funzionari dei commissariati che a volte arrestano gli ebrei e si accaniscono contro di loro, a volte li rimandano indietro e li salvano, quando non cercano perfino di spiegare loro la necessità di nascondersi. Ma in questo caos, ci sono i nazisti impegnati più nella lotta contro i partigiani e nella guerra contro gli Alleati che in quella contro gli ebrei, almeno dopo il 16 ottobre. E poi i funzionari repubblicani, e ancora le bande fasciste, le spie, la gente comune. Per molti, mettere da parte un gruzzolo, grande o piccolo, era l’obiettivo principale, e non solo per i fascisti ma anche per i tedeschi. Se non per gli ufficiali, almeno per i soldati che accompagnavano i fascisti a razziare le case degli arrestati e in quel momento tutto dedicato “al proprio particulare” non si curavano di arrestare le donne lasciate libere, ma solo di depredarne i beni. Come nella Casa quando Ceccherelli, accompagnato da tre o quattro soldati tedeschi, tornò la mattina dopo alcuni arresti a fare man bassa dei beni degli arrestati senza però portare via le donne rimaste in casa. Ma le ambiguità riguardano, come abbiamo visto, anche le spie e gli uomini delle bande di irregolari agli ordini delle SS. Tanti, tantissimi arrestati, ma a volte un guizzo di liberalità, un giovane lasciato libero anche senza riscatto, una donna in lacrime liberata. Volevano crearsi dei meriti per il futuro con quegli episodi, non a caso documentati accuratamente nei processi dai loro avvocati, oppure solo esercitare il terribile potere di salvare oltre che di condannare, di scegliere chi era 123

destinato alla morte e chi alla salvezza? L’arbitrio era re nella Roma di quei mesi. Ma per non lasciarci con questo quadro angoscioso possiamo forse ancora una volta affidarci alle parole piene di speranza di Paolo Monelli: “Oneste famiglie borghesi, umili case operaie, ospitavano, sfamavano chi era costretto ogni notte a cambiar domicilio, tenevano in serbo carte pericolose; impiegati, funzionari, fornivano informazioni, tessere, bolli, documenti falsi; fornai facevano il pane per gruppi di patrioti, trattorie sfamavano celatamente gente braccata, chirurghi aprivan la pancia a malati immaginari, monacelle di clausura accoglievano ebrei e renitenti alla leva, sacerdoti trasmettevano messaggi segreti in confessionale. Tempo fraterno che ci rifece buoni e cordiali, nelle inattese convivenze, nelle lunghissime veglie, nella calda solidarietà con gente di ogni fede, con prigionieri di guerra, con patrioti scesi dai monti, con persone di cui c’era ignoto anche il nome...” (Monelli, p. 289).

Nota bibliografica

Questa nota bibliografica non vuole essere esaustiva, ma solo indicare, dal momento che il libro è privo di note a piè di pagina, le fonti da me utilizzate per ogni soggetto e gli studi su cui mi sono maggiormente appoggiata.

Fonti d’archivio Archivio di Stato di Roma (ASR), sede succursale di via di Galla Placidia: Carte della Corte d’Assise Speciale (CAS), fascicoli 97.1-2, 128 e 136; Sezione istruttoria, fascicolo 263; Sezione istruttoria, fascicolo 486.1. Archivio Storico della Comunità Ebraica Romana (ASCER): Schedario del Novecento; Fogli di Famiglia; Ruoli dei contribuenti; Database dei deportati del 16 ottobre 1943; Denunce di razza.

Bibliografia Sulla storia degli ebrei in Italia durante il fascismo: Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2005. La prima storia degli ebrei italiani sotto il fasci125

smo, commissionata allo storico dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e pubblicata per la prima volta nel 1961. Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista: vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000. Un testo divenuto ormai un classico sulla storia degli ebrei italiani sotto il fascismo. Sulla Shoah in Italia il testo di riferimento obbligato è quello di Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano 1991. Una ricerca di grande respiro, coordinata dalla Fondazione Centro di Cultura Ebraica Contemporanea, con le schede di tutti i deportati di cui si sono trovate tracce e ampi studi critici. Sul 16 ottobre: Il primo e indispensabile testo di riferimento per la razzia del 16 ottobre è Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Einaudi, Torino 2001. Il testo, un vero e proprio capolavoro, è stato scritto nel 1944 quando ancora non si sapeva con certezza il destino dei deportati, ed è stato pubblicato per la prima volta nel dicembre 1944 nella rivista romana “Mercurio”. Fra i diari e le opere di memorialistica scritti intorno all’occupazione e alla razzia del 16 ottobre ho utilizzato in particolare: Paolo Monelli, Roma 1943, Migliaresi, Roma 1945. Opera di un grande giornalista, è il primo racconto di ciò che avvenne a Roma fra il 25 luglio 1943 e il 4 giugno 1944. Carlo Trabucco, La prigionia di Roma, Seli, Roma 1945. Un diario dell’occupazione scritto da un importante giornalista cattolico. Luciano Morpurgo, Caccia all’uomo. Vita sofferenze e beffe. Pagine di diario 1938-1944, Casa Editrice Dalmatia, Roma 1946. È l’unica edizione esistente di questo libro. Ebreo originario di Spalato, Morpurgo (1886-1971) fu un importante fotografo, scrittore ed editore della casa editrice Dalmatia. Padre Libero Raganella, Senza sapere da che parte stanno. Ricordi dell’infanzia e “diario” di Roma in guerra (1943-44), a cura di Lidia Piccioni, Bulzoni, Roma 2000. Il diario di padre Raganella, 126

che fu per molti decenni sacerdote nel quartiere San Lorenzo e che aiutò ebrei e partigiani, fu scritto fra il 1943 e il 1944, all’epoca dei fatti narrati. Mario Tagliacozzo, Metà della vita. Ricordi della campagna razziale. 1937-1944, Baldini & Castoldi, Milano 1998. Si tratta di un diario rimasto inedito per cinquant’anni. Piero Modigliani, I nazisti a Roma. Dal diario di un ebreo, Città Nuova, Roma 1984. Settimia Spizzichino (con Isa Di Nepi Olper), Gli anni rubati. Le memorie di Settimia Spizzichino reduce dai lager di Auschwitz e Bergen Belsen, Comune di Cava dei Tirreni 1996. Le memorie dell’unica donna arrestata a Roma il 16 ottobre tornata da Auschwitz. Adriano Ossicini, Un’isola sul Tevere. Il fascismo al di là del ponte, Editori Riuniti, Roma 1999. Il diario tra il 1937 e il 1947 di Adriano Ossicini, medico presso l’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina, partigiano, politico comunista, cattolico impegnato. Il ribelle del ghetto. La vita e le battaglie di Pacifico Di Consiglio, Moretto, a cura di Alberto Di Consiglio e Maurizio Molinari, Masterbags, Roma 2009. Giulia Spizzichino (con Roberto Riccardi), La farfalla impazzita. Dalle Fosse Ardeatine al processo Priebke, La Giuntina, Firenze 2013. Giulia Spizzichino racconta la storia dell’arresto di tanti suoi famigliari, della loro uccisione alle Fosse Ardeatine e del processo Priebke, in cui ha avuto un ruolo importante. La bibliografia critica è evidentemente molto ampia. Mi limito a segnalare i testi che ho usato maggiormente: Michael Tagliacozzo, La comunità di Roma sotto l’incubo della svastica: la grande razzia del 16 ottobre 1943, in Gli Ebrei in Italia durante il fascismo, a cura di Guido Valabrega, Quaderni del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, n. 3, Cdec, Milano 1963. Il lavoro dello storico israeliano, ebreo romano rifugiato in Laterano dopo la razzia del 16 ottobre, è uno 127

dei primi testi che documentino gli eventi che hanno portato alla deportazione degli ebrei romani. Robert Katz, Sabato Nero, Rizzoli, Milano 1973. Storico e giornalista americano, Robert Katz ricostruisce qui la razzia del 16 ottobre a Roma. Alexander Stille, Uno su mille. Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo, Mondadori, Milano 1991. È la storia di cinque famiglie di ebrei italiani, per Roma c’è quella dei Di Veroli. Andrea Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Roma-Bari 2008. Un approfondito studio storico sul periodo dell’occupazione a Roma. Roma, 16 ottobre 1943: anatomia di una deportazione, a cura di Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Guerini e Associati, Milano 2006. Un libro importante che raccoglie interviste e saggi critici che espongono i risultati delle ricerche più recenti su questo tema. 16.10.1943. Li hanno portati via, a cura di Umberto Gentiloni Silveri e Stefano Palermo, Fandango, Roma 2012. Documenti, schede biografiche e immagini di alcuni dei bambini ebrei romani deportati il 16 ottobre, tratte dagli archivi tedeschi di Bad Arolsen. Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, Einaudi, Torino 2009. Le interviste ai sopravvissuti raccolte dal Cdec fra il 1995 e il 2007, commentate e riorganizzate tematicamente. Franca Tagliacozzo, Gli ebrei romani raccontano la “propria” Shoah. Testimonianze e memorie raccolte e organizzate a cura di Raffaella Di Castro, La Giuntina, Firenze 2010. Testimonianze raccolte fra il 1999 e il 2001 dalla Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizio Sociale di Roma e riorganizzate tematicamente, con la soppressione dei nomi degli intervistati. Sulla figura del rabbino capo di Roma Zolli: Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata, a cura di Alberto Latorre, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004. È la prima 128

edizione italiana dell’autobiografia del rabbino Zolli, battezzato nel 1945, scritta in italiano e pubblicata in inglese nel 1954. Gabriele Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni, Guerini, Milano 2006. Sulle Fosse Ardeatine: Robert Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Il Saggiatore, Milano 1967. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 2005. Uno studio sulle Fosse Ardeatine e sul loro impatto sulla memoria della città, pubblicato per la prima volta nel 1991 e riedito nel 2005 in una nuova edizione con un Cd di testimonianze. Martino Contu, Mariano Cingolani, Cecilia Tasca, I martiri ardeatini. Carte inedite 1944-1945. In onore di Attilio Ascarelli a 50 anni dalla scomparsa, AM&D, Cagliari 2012. Le schede biografiche dei martiri delle Ardeatine, accompagnate da un’accuratissima bibliografia e da saggi di riflessione storiografica. Sulla Repubblica Sociale a Roma: Amedeo Osti Guerrazzi, “La Repubblica necessaria”. Il fascismo repubblicano a Roma 1943-44, Franco Angeli, Milano 2004. Uno studio rigoroso sul ruolo del fascismo di Salò a Roma nel periodo dell’occupazione, fondato soprattutto sull’analisi della stampa. Anthony Majanlahti, Amedeo Osti Guerrazzi, Roma occupata. 1943-1944. Itinerari, storie, immagini, Il Saggiatore, Milano 2010. Un’utile guida attraverso i luoghi dell’occupazione nazista a Roma. Sull’accoglienza della Chiesa: Sull’ospitalità data agli ebrei nei conventi e nelle istituzioni ecclesiastiche, i contributi fondamentali sono quelli di Grazia Loparco: Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944). Dall’arrivo alla partenza, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, 58 (2004), 1, 129

pp. 107-210; La protezione degli ebrei nelle case religiose italiane (1943-45). Mappa, reti di salvataggio, nomi, in Per carità e per giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, a cura della Fondazione Emanuela Zancan, Padova 2011, pp. 274-295, che è il contributo più recente e aggiornato con molti nomi degli ebrei assistiti negli istituti religiosi femminili; si veda anche Alessia Falifigli, Salvati dai conventi. L’aiuto della Chiesa agli ebrei di Roma durante l’occupazione nazista, presentazione di Andrea Riccardi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, uno studio sull’ospitalità ecclesiastica a Roma corredato da interviste di parte ecclesiastica. Sui delatori a Roma: La bibliografia su questo tema non è molto ampia. Il lavoro principale è quello di Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, Roma 2005, molto documentato e fondato principalmente sulle sentenze dei processi del dopoguerra. Su Celeste Di Porto non esiste nessuna monografia, ma solo un romanzo: Giuseppe Pederiali, Stella di Piazza Giudia, Giunti, Firenze 1995, in cui le fonti sono ampiamente rimaneggiate in chiave narrativa. Sulle spie e i delatori nel Nord Italia si vedano anche: Mimmo Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Feltrinelli, Milano 2001; Luciano Allegra, Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943-45), Silvio Zamorani editore, Torino 2010. Per ricostruire la storia della Casa ho ampiamente utilizzato l’ottimo lavoro inedito dell’arch. Lucia Nucci e dell’arch. Nicola Saraceno, La casa dei Fabji in via del Portico d’Ottavia, realizzato nell’anno accademico 1992-93 per il corso di Restauro architettonico del prof. arch. Giovanni Carbonara. Il documentario Rai per le scuole a cui mi riferisco nella Premessa è Chi sono gli ebrei. Gli ebrei nella storia, regia di Tiziana Aristarco, 1994. Il manuale di storia per le superiori a cui faccio riferimento nella Premessa è Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, I nuovi fili della memoria, vol. III, Laterza, Roma-Bari 2003. L’immagine è a p. 335. 130

I filmati a cui faccio riferimento sono: Israele a Roma, soggetto di Luigi Barzini jr, regia di Romolo Marcellini, 1948, e Piazza Giudia, di Sergio Zavoli, 1963. Testimonianze: Delle interviste dell’Usc Shoah Foundation (The Institute for Visual History and Education) ho utilizzato quelle fatte a Rosina Di Veroli, a Pacifico Di Consiglio, a Leone Sabatello, ad Alberto Sed, a Mario Limentani, a Piero Terracina. Dal sito della Comunità Ebraica di Roma Memorie ebraiche (www.memoriebraiche.it) ho utilizzato le interviste ad Alberto Terracina, a Giacomo Di Segni, a Dino Pavoncello. Le altre testimonianze usate sono state invece rese direttamente a me. I primi racconti sul 16 ottobre e sulla vita nella Casa dopo la guerra mi sono stati fatti da Gianni Di Segni, che all’epoca della razzia aveva sei mesi ma che ha ascoltato molti racconti e ha vissuto molti anni nella Casa. Oltre ad essere generoso del suo tempo, Gianni Di Segni è stato molto disponibile e mi ha messo in contatto con altri testimoni. Ho avuto colloqui illuminanti con Piero De Dominicis, Emma Di Segni, Giacomo Di Segni, Grazia Di Veroli, Lilli Di Veroli, Costanza Fatucci, Benedetto Limentani, Rina Menasci, Massimo Misano, Adele Moscati, Lisa Moscati, Attilio Pavoncello, Umberto Pavoncello, Giuliana Sonnino, Speranza Sonnino, Flora Terracina, Giacomo Terracina, Angelo Vivanti.

Ringraziamenti

La stesura di questo libro ha coinvolto molte persone e molti sono quindi i miei debiti di riconoscenza. In primo luogo, naturalmente, verso tutti coloro che ho interrogato. Anche se non ho utilizzato direttamente tutte le testimonianze, esse mi sono state comunque molto utili a comprendere meglio cosa è successo nella Casa e nel quartiere nei mesi dell’occupazione e ad avere un quadro più vivo anche del periodo del primo dopoguerra. Molti amici hanno letto in tutto o in parte questo libro. Il primo ringraziamento va ad Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni per la loro attenta lettura e i preziosi suggerimenti. Sono inoltre molto grata a Lucetta Scaraffia, che ha seguito con intelligenza e partecipazione la stesura del libro. Ringrazio ancora Manuela Consonni, Giovanna Grenga, Marina Beer, Isabella Iannuzzi, Vittorio Pavoncello, Gabriella Yael Franzone e Guido Vitale: la loro lettura, le loro critiche e le loro riflessioni mi sono state di grande aiuto. Un ringraziamento particolare va ad Alessandra Pollio, per la sua intelligente collaborazione nel reperimento e nella riorganizzazione dei materiali d’archivio. Ringrazio inoltre gli architetti Lucia Nucci e Nicola Saraceno per avermi gentilmente messo a disposizione la loro tesi inedita sulla casa dei Fabii. La mappa riprodotta a p. 16 è tratta dalla loro tesi. Il mio lavoro è stato grandemente facilitato dalla sollecitudine di Anna Palagi, che ha messo a mia disposizione le interviste agli ebrei romani del Fondo Svizzero, dell’architetto Luca Fiorentino, alla cui cortesia devo la mappa riprodotta a p. 14 e molte informazioni sulla ristrutturazione della Casa. Ringra133

zio ancora per i loro suggerimenti e la loro collaborazione Miriam Haiun e Alberto Di Consiglio del Centro di Cultura Ebraica e Silvia Haia Antonucci e Piera Ferrara dell’Ascer. Ogni responsabilità di quanto scritto in queste pagine resta naturalmente mia.

Le famiglie degli abitanti della Casa al 16 ottobre 1943

Non sono riportati i nomi dei figli nati dopo la guerra, mentre sono riportati i nomi dei figli già allontanatisi di casa nel 1943. In corsivo, i sopravvissuti ai campi. ∞ Vincolo di matrimonio. * Arrestato/a il 16 ottobre, deportato/a, non fa ritorno. ** Arrestato/a in seguito al 16 ottobre, deportato/a, non fa ritorno. *** Vittima delle Fosse Ardeatine. Astrologo Amedeo (1900) ∞ Sonnino Virginia (1898)* Astrologo David (1890) ∞ ved. di Sonnino Serafina (?) – Riccardo (1916)** Del Monte Margherita (1889)* Di Capua Beniamino (1910) ∞ Terracina Settimia Emma (1918) – Mario (1941) Di Capua David (1895) ∞ Calò Elena (1895) – Rosina (1920) – Marco (1921) – Rina (1924) – Settimio (1927) – Enrica (1929) – Nino (1935) 135

Di Segni Angelo (1906) ∞ Pavoncello Ines (1910) – Emma (1934) – Rina (1937) Di Segni Rubino (1909) ∞ Limentani Cesira (1914) – Emma (1938) – Gianni (1943) Di Segni Umberto Abramo (1884) ∞ Di Castro Letizia (1884)* – Angelo (1906) – Giacomo (1909) ∞ Tagliacozzo Ester (1910)* – Tagliacozzo Italia (1932)* – Umberto (1939)* – Franco (1942)* – Enrica (1911) ∞ Pavoncello Cesare (1900) – Ester (1915)* – Renato (1922)**

Di Veroli Alberto (1897) ∞ Sed Emma (1911) – Angelo (1935) Di Veroli Attilio (1889)*** ∞ Funaro Costanza (1890) – Silvia (1921) – Rosina (1923) – Ida (1926) – Michele (1929)*** – Debora (1932) Di Veroli Marco (1903)* ∞ Di Porto Fortunata (1900)* – Enrica (1926)* – Rina (1928)* – Settimio (1930)* – Prospero (1931)* – Italia (1933)* – Liliana (1935)* – Leonardo (1938)* 136

– Lidia (1939)* – Gualtiero (1941)* Fatucci Alberto (1886) ∞ Anticoli Rosa (1890) – Angelo (1913) – Giuseppe (1916) – Giacomo (1918) – Lazzaro (1920) – Ernesta (1926) – Costanza (1931) Funaro Giacomo (1899)** ∞ Soliani Eugenia (1901) – Grazia (1924) ∞ Sonnino Samuele (1919)** – Ida (1926) – Lamberto Abramo (1927)** Misano Fulvio (1891)* Misano Lina (1893)* Moscati Sara (1876) ∞ ved. di Sonnino Mosè (?) – Sonnino Speranza (1904)* ∞ Sciunnach Pacifico (?) – Giuditta (1929)* – Leone (1931)* – Sonnino Costanza (1909)* ∞ Moscati Vittorio (1912) – Giovanni (1942) – Sonnino Rosa (1912) Moscato Samuele (1910) ∞ Sed Letizia (1908) – Giuseppe (1928) – Ester (1931) – Rosa (1934) – Angelo (1936) Sabatello Giovanni (1888)* 137

Terracina Giacomo (1881) ∞ ved. di Fornari Elisabetta (?) – Letizia (1905) – Raffaele (1908)** – Angelo (1909) – Enrica (1917) – Rosa (1917) – Flora (1919) – Alberto (1921) – Celeste (1924) Vivanti Angelo (1884)*** ∞ Spizzichino Fortunata (1882)* – Sara (1903) ∞ Moscati Vito (1900)*** – Alberto (1926)** – Lisa (1932) – Celeste (1906)* ∞ Di Consiglio Cesare (1912)*** – Ada (1937)* – Marco (1939)* – Mirella (1942)* – Rachele (1909)* – Giacomo (1911)*** – Vito (1917) ∞ Zarfati Emma (1921)* – Fortunata (1941)*

Indice dei nomi

Calò, Settimio, 27, 32. Camillo, falegname, 19, 119. Camillo, portiere, 28. Canigiani, Demostene, 95. Canigiani, Remo, XIV, 61, 73-78, 86, 95-96, 102-103, 119, 121. Cantasano, Nicola, 82. Cantini, commissario di P.S., 93-94. Cappa, Gennaro, 7. Caretta, Donato 107. Caruso, Pietro, 7, 26, 48, 67, 82, 107. Caviglia, Elio, 58, 86. Ceccherelli, Renato, 55, 72-73, 85, 90, 95, 102, 106, 109, 123. Celoni, Vittorio, 109. Cialli-Mezzaroma, Giovanni, 69, 74, 80, 86, 103. Cocchi, Mario, 58. Coen, famiglia, 120. Consoli, Italo, 102. Corona, Anita, 31. Corona, Felicetta, 31.

Ada, moglie del portiere Camillo, 28. Ajò, Gabriella, 33. Annita, sfollata, 63. Anticoli, Ester, 56. Anticoli, Lazzaro, detto Bucefalo, 65, 70, 86, 92. Anticoli, Pacifico, 99. Anticoli, Romolo, 70, 86. Anticoli, Rosa, 38-39. Antonelli, Vincenzo, 58, 70-71, 74, 76, 80, 86-87, 94-95, 103, 119. Astrologo, famiglia, 105. Astrologo, Amedeo, 38, 50. Astrologo, David, 38, 50. Astrologo, Riccardo, 38, 50. Bardi, Gino, 100. Benigno, Lamberto, 88-89. Bernardino de Fabijs, 15. Bianchi, Ambrogio, 99-102. Buffarini Guidi, Guido, 47. Calò, Alberto, 56. Calò, Angelo, 56, 94. Calò, Daniela, 56. Calò, Elena, 59. Calò, Enrica, 93. Calò, Ester, 32. Calò, Marina, 56. Calò, Romolo, 42. Calò, Sara, 56.

Dannecker, Theodor, 7-8, 27, 117. De Angelis, David, 59. De Angelis, Enrica, 59. De Angelis, Enrico, 119. De Angelis, Eugenio, 59. De Angelis, Lucia, 59. De Angelis, Sesto, 59, 96. Debenedetti, Giacomo, 27.

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Della Seta, Angiolino, 67. Del Monte, Amedeo, 43. Del Monte, Anna, 43. Del Monte, Graziano, 43. Del Monte, Margherita, 43. Di Capua, Beniamino, 40. Di Capua, David, 59. Di Capua, Enrica, 59. Di Capua, Marco, 59. Di Capua, Mario, 36, 40. Di Capua, Nino, 59. Di Capua, Rina, 59. Di Capua, Rosina, 59, 96-97. Di Capua, Settimio, 59. Di Castro, famiglia, 63. Di Castro, Adolfo, 63. Di Castro, Crescenzio, 63. Di Castro, Letizia, 37. Di Castro, Perla, 37. Di Consiglio, famiglia, 77, 81, 115. Di Consiglio, Ada, 36. Di Consiglio, Cesare, 36, 55, 72. Di Consiglio, Cesare, di Nissim, 64. Di Consiglio, Colomba, 64. Di Consiglio, David, 64. Di Consiglio, Enrica, 58. Di Consiglio, Leone, 77-78, 95. Di Consiglio, Marco, 36. Di Consiglio, Mirella, 36. Di Consiglio, Pacifico, 78, 86. Di Consiglio, Pacifico, di Nissim, 64. Di Consiglio, Roberta, 115. Di Meo, Domenico (Mimì), 77, 9697. Di Nepi, famiglia, 80. Di Nepi, Amedeo, 80, 87. Di Nola, Ugo, 70, 106. Di Porto, famiglia, 92. Di Porto, Angelo, 58, 76-77, 86, 92. Di Porto, Celeste, XIV, 47, 53, 55, 62, 67-73, 79-81, 83, 85-94, 96, 102-105, 107, 112, 118. Di Porto, Enrica, 67-68, 77, 96-97, 102-105. Di Porto, Fortunata, 31-32.

Di Porto, Giacomo, 71. Di Porto, Sabatino, 92-93. Di Porto, Virginia, 69, 89. Di Porto, Vitale, 96. Di Segni, Angelo, 121. Di Segni, Angelo, di Giovanni, 3031, 34, 36, 58, 60, 113. Di Segni, Angelo, di Umberto, 57. Di Segni, Armando, 70, 86. Di Segni, Cesare, 33. Di Segni, Emanuele, 64. Di Segni, Emma, 83. Di Segni, Emma, di Angelo, 30-31, 60, 108. Di Segni, Emma, di Rubino, 36, 53, 58. Di Segni, Enrica, 34. Di Segni, Enrica, di Salomone, 69, 71. Di Segni, Enrica, di Umberto, 57. Di Segni, Ester, 77-78. Di Segni, Ester, di Umberto, 37. Di Segni, Franco, 37, 57. Di Segni, Giacomo, detto Mugnetta, 64. Di Segni, Giacomo, di Umberto, 37, 57. Di Segni, Gianni, 36, 58. Di Segni, Giovanni, 30, 33, 36. Di Segni, Graziella, 33-34. Di Segni, Italia, 33-34. Di Segni, Lello, 83. Di Segni, Lello, di Giovanni, 33. Di Segni, Pacifico, 69-71, 92. Di Segni, Pacifico, detto Moretto, 58. Di Segni, Renato, 57. Di Segni, Rina, 30, 60. Di Segni, Rosa, 83, 86, 92. Di Segni, Rubino, detto Ruenne e Ruzzunito, 30-32, 34, 36, 58-59, 113. Di Segni, Silvana, 36. Di Segni, Silvia, 70, 95, 106. Di Segni, Umberto, 37, 57.

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Di Segni, Umberto, di Giacomo, 37. Di Tivoli, Letizia, 30. Di Veroli, Agesilao, 49, 79. Di Veroli, Alberto, detto Bove, 35. Di Veroli, Allegra, 69. Di Veroli, Angelo, 35. Di Veroli, Attilio, 35, 40-43, 51-53, 74, 95, 112, 114, 116. Di Veroli, Celeste, 30. Di Veroli, Cesare, 29. Di Veroli, David, 30. Di Veroli, Debora, detta Piccola, 40. Di Veroli, Donato, 29-30. Di Veroli, Enrica, 32. Di Veroli, Enrico, 40-42, 52, 74-75, 95, 112. Di Veroli, Estella, 79. Di Veroli, Ester, 42. Di Veroli, Eugenia, 47. Di Veroli, Fiorina, 30. Di Veroli, Giacomo, 42. Di Veroli, Giacomo, di Donato, 30. Di Veroli, Giacomo, di Enrico, 41, 75. Di Veroli, Giuditta, di Cesare, 29. Di Veroli, Giuditta, di Donato, 30. Di Veroli, Giuditta, di Giacomo, 45. Di Veroli, Ida, 40. Di Veroli, Leonardo, 32. Di Veroli, Leone, 30. Di Veroli, Marco, 31-32. Di Veroli, Michele, di Attilio, 40-41, 52-53, 94-95. Di Veroli, Michele, di Enrico, 4142, 112. Di Veroli, Mosè, 30. Di Veroli, Mosè, di Donato, 30. Di Veroli, Olga, 75. Di Veroli, Pacifico, 29. Di Veroli, Rebecca, 29. Di Veroli, Renato, 41, 53. Di Veroli, Rina, 32. Di Veroli, Rosa, 30.

Di Veroli, Rosina, 40-43, 51-54, 81, 89, 116-117, 120. Di Veroli, Rubino, 70, 86. Di Veroli, Sergio, 56. Di Veroli, Silvia, di Attilio, 40-41, 52-53, 81. Di Veroli, Silvia, di Enrico, 42. Di Veroli, Umberto, 40-42, 113. Eichmann, Adolf, 7. Elena, detta la cornacchia, 43. Fabii, famiglia, 15, 17. Fatucci, famiglia, 6, 38-39, 53-54, 58, 79, 114. Fatucci, Alberto, 38-39. Fatucci, Angelo, 38. Fatucci, Costanza, 38-39, 53-54, 108, 116. Fatucci, Ernesta, 38, 40. Fatucci, Giacomo, 38, 40. Fatucci, Giuseppe, 38. Fatucci, Lazzaro, 38, 54, 99-101. Feri, Severina, 96. Fioravanti, Anna, 69, 71, 120. Fornari, Angelo, 64. Fornari, Elisabetta, madre di Vito e Pace Moscati, 55, 73. Fornari, Elisabetta, moglie di Giacomo Terracina, 29. Fornari, Rosa, 64. Fornari, Umberto, 64. Fornaro, Erina, 49, 79. Frascati, Clelia, 28. Frenziotti (o Fremiatti), Guglielma, 95. Fulgenzi, Lola, 51. Funaro, famiglia, 34, 59. Funaro, Alberto, 69-71, 92. Funaro, Annita, 76-77, 95. Funaro, Cesare, 34. Funaro, Costanza, 35, 40. Funaro, Giacomo, 34, 59. Funaro, Giacomo, di Lazzaro, 69. Funaro, Grazia, 34, 60. Funaro, Ida, 34, 60.

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Mieli, Pacifico, 33-34. Mieli, Renato, 86, 91. Mieli, Settimio, 91. Misano, Fulvio, 44. Misano, Lina, 44. Misano, Mario, 62. Misano, Massimo, 62. Monelli, Paolo, 23-24, 124. Moreschini, Filippo, 50, 105. Moresco, Angelo, 29. Moresco, Elisabetta, detta Betta, 75, 77. Morpurgo, Luciano, 3, 7, 44. Moscati, Adelaide, 63. Moscati, Alberto, 55, 73-74. Moscati, David, 86. Moscati, Donato, 63. Moscati, Emanuele, 86. Moscati, Giovanni, 28, 62. Moscati, Lisa, 35-36, 54-56, 72, 75, 114. Moscati, Marco, 61-62, 86. Moscati, Pace, 55. Moscati, Sara, 28-29. Moscati, Vito, 54-55, 72, 80. Moscati, Vittorio, 28, 62-63. Moscato, famiglia, 56. Moscato, Angelo, 37. Moscato, Ester, 37. Moscato, Giuseppe, 37. Moscato, Rosa, 37, 56-57. Moscato, Samuele, detto Gasparo Favella, 37. Mussolini, Benito, 88, 99.

Funaro, Lamberto Abramo, 34, 59. Funaro, Lazzaro, 69. Funaro, Prospero, 69, 71. Funaro, Renata, 69, 71. Gentili, Americo, 64. Gentili, Maria, 64. Gentili, Riccardo, 64. Gentili, Teresa, 64. Giannone, Giovanni, 78. Gregorini, Giovanni, 43, 51, 53-54, 116. Guetta, Rachele, 64. Ippolito, Andrea, 99. Kappler, Herbert, 6, 48, 72, 82, 117. Kesselring, Albert, 48, 100. Koch, Pietro, 107. La Malfa, Ugo, 62. Lattes, Emilia, 111. Leonardi, Leonardo, 81. Leone XII (Annibale Sermattei della Genga), 15. Levi, Primo, 120. Levi Cavaglione, Pino, 61. Limentani, Benedetto, 66. Limentani, Cesira, 5, 31, 36-37, 40, 53, 58-59, 114. Limentani, Giacomo, 32. Limentani, Giovanni, 59. Limentani, Marina, 90. Limentani, Mario, 66, 79. Limentani, Mirella, 90. Limentani, Settimio, 59, 99. Luberti, Luciano, 90.

Odoardi, Francesco, 44. Palmieri, Umberto, 119. Panzieri, David, 115. Pavoncello, Angelo, 86. Pavoncello, Cesare, genero di Umberto Di Segni, 57-58. Pavoncello, Cesare, genero di Umberto Di Veroli, 42. Pavoncello, Emma, 79-80. Pavoncello, Enrico, 42.

Maglione, Luigi, 117. Mazzaferro, Francesco, 99. Mazziotti, Clorinda, 64. Menasci, Rosa, 77-78. Mieli, Israele, 86, 91. Mieli, Marco, 86. Mieli, Mario, 91. Mieli, Mario, di Pacifico, 34.

142

Sciunnach, Grazia, 64. Sciunnach, Leone, 29. Sciunnach, Pacifico, 29. Sciunnach, Rosa, 50. Sciunnach, Settimio, 63, 99. Sed, famiglia, 94, 122. Sed, Alberto, 92-94. Sed, Angelica, 94. Sed, Angelo, 58, 86. Sed, Emma, 35. Sed, Emma, sorella di Alberto Sed, 94. Sed, Fatina, 94. Sed, Giuseppe, 76, 95. Sed, Graziano, 76, 95. Sed, Letizia, 37. Sed, Pacifico, 76, 86. Sereni, Alberto, 62. Sermoneta, Benedetto, 71, 92. Soliani, Arturo, 60. Soliani, Eugenia, 34, 60. Soliani, Umberto, 60. Sonnino, famiglia, 28, 62, 113. Sonnino, Angelo, 60. Sonnino, Costanza, 28, 44, 62-63, 113. Sonnino, Gabriele, 70. Sonnino, Guglielmo, 68. Sonnino, Isacco, 60. Sonnino, Italia, 34. Sonnino, Marco, 71. Sonnino, Marco, di Angelo, 60. Sonnino, Mosè, 28. Sonnino, Rosa, 62. Sonnino, Samuele, 38. Sonnino, Samuele, detto Lello, 34, 60. Sonnino, Serafina, 50. Sonnino, Speranza, 29, 44, 113. Sonnino, Virginia, 38, 50, 71. Sorani, Rosina, 81. Spagnoletto, Rosa, 63. Spizzichino, Fortunata, 35. Spizzichino, Marco, 65. Spizzichino, Sara, 43. Spizzichino, Settimia, 6.

Pavoncello, Giuditta, 42. Pavoncello, Ines, 30, 36, 60. Pavoncello, Leo, 57. Pavoncello, Leone, 96. Pavoncello, Lina, 57. Pavoncello, Marco, 99. Pavoncello, Salvatore, detto Bobbone, 58, 86. Perugia, Clelia, 29. Perugia, Marcella, 29. Pezzetti, Marcello, 65, 77. Piattelli, Emma, 63. Piattelli, Giacomo, 63. Piattelli, Stella, 38. Piazza, Elvira, 43. Piperno, Angelo, 81. Piperno, Giacomo, 43. Piperno, Renato, 96. Policari, Nino, 102, 109. Pollastrini, Guglielmo, 99-100. Raganella, Libero, 82. Raucci, Raffaele, 90, 102. Rosa, portiera, 19, 28, 113. Roselli, Luigi, 47, 52, 58, 69-70, 89, 96, 103, 119. Rotondi, Sergio, 89. Ruenne, vedi Di Segni, Rubino. Sabatello, famiglia, 34. Sabatello, Abramo, 32-33, 51. Sabatello, Alberto, 51. Sabatello, Celeste, 33. Sabatello, Emma, 30, 33-34, 36, 51. Sabatello, Enrica, 32. Sabatello, Giovanni, 32-33, 51, 58. Sabatello, Graziella, 32. Sabatello, Italia, 32. Sabatello, Lea, 51. Sabatello, Leone, 32-33. Sabatello, Letizia, 32. Sabatello, Liana, 33. Sabatello, Rubino, detto zio Rucco, 33, 39, 50-51, 99-100. Sciunnach, Giuditta, 29. Sciunnach, Giulia, 63, 111, 119.

143

Spizzichino, Umberto, 90. Stille, Alexander, 41, 51. Tagliacozzo, Celeste, 32-33. Tagliacozzo, Enrica, 33. Tagliacozzo, Ester, 37. Tagliacozzo, Giovanni, 37. Tagliacozzo, Italia, 37, 57. Tarquini, Raffaele, 99. Terracina, famiglia, 29, 60-62, 113. Terracina, Alberto, 29, 61-62, 91. Terracina, Angelo, 29, 58, 86. Terracina, Celeste, 29. Terracina, Eleonora, 88. Terracina, Elisabetta, 61. Terracina, Emma, 37, 44. Terracina, Emma, detta Mimma, 36-37, 40, 114. Terracina, Enrica, 29, 62. Terracina, Ester, 57. Terracina, Flora, 29, 61. Terracina, Giacomo, 29, 61-62. Terracina, Guido, 7. Terracina, Letizia, 29. Terracina, Piero, 88. Terracina, Raffaele, 29, 61-62. Terracina, Rosa, 29. Togliatti, Palmiro, 101. Umberto, marito di Rosa la portiera, 19, 28, 31. Vezzani, Serrao, 58, 80, 119.

Vivanti, famiglia, 49, 54, 72, 74-75, 80, 85, 95, 102. Vivanti, Ada, 56. Vivanti, Alberto, 56. Vivanti, Angelo, detto Tafano, 35, 54, 72. Vivanti, Angelo, di Vito, 56. Vivanti, Celeste, 36, 44, 55, 72. Vivanti, Fortunata, detta Ada, 35. Vivanti, Giacomo, 55, 72. Vivanti, Rachele, 35. Vivanti, Sara, 35-36, 54-56, 72-75, 80, 85, 90, 95, 102, 108-109, 114, 119. Vivanti, Vito, 26, 35, 55-56, 72-74, 95. Weizsäcker, Ernst von, 118. Zarfati, famiglia, 74-75, 77, 80, 95, 114. Zarfati, Alberto, 86. Zarfati, Betta, 121. Zarfati, Emma, 35-36, 56. Zarfati, Franca, 56. Zarfati, Milena, 76, 80, 95-96. Zarfati, Norma, 56. Zarfati, Pacifica, 56, 75. Zarfati, Pacifico, 100. Zarfati, Rina, 76. Zarfati, Settimio, 56, 74, 76. Zarfati, Silvana, 76. Zarfati, Velia, 56, 75. Zarfati, Vitale, 56, 73-75. Zavoli, Sergio, 21. Zolli, Eugenio, 4.